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I fondamenti emotivi della personalità (2020) di Jaak Panksepp e Kenneth L. Davis – Recensione del libro

Panksepp e il suo allievo Davis ci raccontano come, partendo dalla teoria evoluzionistica di Darwin, si sia sviluppato un modello della personalità dell’uomo che si basa su sistemi emotivi ereditati nel corso dell’evoluzione.

 

Vi farebbe piacere sapere che voi e il vostro pesce rosso in fondo avete un carattere simile? Quello che, se ci pensate, è più pauroso degli altri e vi ricorda un po’ voi quando dovete prendere l’aereo? Alcuni potranno trovarlo strano, ma per i neuroscienziati e per i genetisti questa non è una sorpresa. In questo libro postumo, Panksepp e il suo allievo Davis ci raccontano come, partendo dalla teoria evoluzionistica di Darwin, si sia sviluppato un modello della personalità dell’uomo che si basa su sistemi emotivi ereditati nel corso dell’evoluzione.

Dopo una rassegna dei principali modelli e teorie della personalità che si sono susseguite dagli albori della Psicologia, gli autori ci descrivono a fondo il loro modello basato sulla teoria evoluzionistica. La teoria secondo la quale l’uomo ha ereditato dagli animali le strutture alla base delle nostre emozioni primarie. Secondo gli autori, solo studiandone a fondo le origini, come un archeologo della mente, possiamo arrivare a comprendere a pieno il funzionamento della mente umana. Questo non è altro che – in breve- il percorso che ha effettuato Jaak Panskepp nella sua vita di rigorosa ricerca scientifica (Biven, Panksepp, 2014).

Dai rettili ai mammiferi, gli studi ci mostrano come negli animali si possano ritrovare le tracce di quasi tutti i nostri sistemi emotivi primari sottocorticali. Panksepp ne descrive sette: ricerca, rabbia-collera, paura, desiderio sessuale, cura, panico-tristezza e gioco. Alcune di queste emozioni hanno radici evolutivamente più antiche (ricerca, rabbia collera e  paura), evidenti in tutti vertebrati. Tre invece (cura, panico-tristezza, il gioco) sembrano molto più sviluppate nel cervello dei mammiferi.

Nei pesci, per esempio, i dati ci mostrano come i temperamenti possano essere spiegati dalla presenza dei sistemi emotivi evolutivamente più antichi della ricerca, della rabbia-collera e della paura. I ratti esibiscono personalità molto più complesse e a noi simili, come l’espressione di diversi livelli di comportamento materno di cura, che a sua volta interagisce sulla tolleranza allo stress della prole. I ratti possiedono anche un complesso sistema paura, facilmente attivabile, che esercita una grande influenza sugli altri sistemi emotivi come quello della ricerca, del gioco e dello stress da separazione. E la lista è molto lunga. Le analogie con il funzionamento della personalità umana sono, per gli autori e per la comunità scientifica, inconfutabili.

Secondo il modello proposto, tali sistemi ancestrali, identificati con le strutture del cervello sottocorticale, interagendo con l’ambiente, influenzano le strutture superiori, evolutivamente più recenti. L’influenza avviene sui processi di apprendimento, sulla maturazione e sulle specializzazioni delle strutture superiori. Suggestiva è l’ipotesi e la scoperta di certi neuroni, che avendo la capacità di sviluppare lunghi assoni che risalgono fino alle strutture superiori, possano essere la base neurofisiologica dell’influenza delle strutture profonde su quelle cognitive neocorticali. Il modello del funzionamento della mente proposto in questo libro si basa su una “gerarchia nidificata della mente” (Nested BrainMind Hierarchy, NBH) a tre livelli (o processi): l’emozione primaria che influenza dal basso l’apprendimento, identificato nel processo secondario, il quale a sua volta influenza i processi di linguaggio e pensiero del processo terziario corticale. Ogni livello è poi a sua volta influenzabile anche in direzione opposta, dal pensiero all’emozione, attraverso la regolazione cognitiva e le risposte condizionate, che sono quindi controlli di tipo top-down.

Panksepp e Davis sostengono, in linea con molti approcci più o meno recenti della psicoterapia, che una piena comprensione della personalità umana non è possibile se prima non si siano comprese le funzioni affettive-emotive del nostro terreno sottocorticale, le più antiche nell’evoluzione cerebrale dell’essere umano. Gli autori sostengono a più riprese l’importanza dello studio “dal basso verso l’alto o bottom-up” delle strutture neuronali alla base della personalità poiché i dati provenienti dalla ricerca sulle caratteristiche cognitivo-simboliche “top-down” trascurano ampiamente gli intricati meccanismi che costituiscono la nostra natura guidata da sistemi o processi primari prevalentemente affettivi. Secondo Panksepp e Davis, il modo in cui valutiamo l’ambiente e i nostri pattern comportamentali emotivi è sostanzialmente prevedibile perché rimane legato ai ricordi affettivi ancestrali. Secondo Panksepp, grazie soprattutto alle nuove metodiche neurofisiologiche, supportate dalla ricerca clinica, riusciremo a far luce finalmente sui meccanismi che sono alla base del comportamento umano, e quindi a far luce sulla psicopatologia.

 

La teoria dell’attaccamento e la teoria della differenziazione del Sé: quale influenza nelle relazioni amorose?

Lo stile di attaccamento e la differenziazione del sé, i bisogni di intimità e quelli di autonomia sono tutti fattori centrali nel processo di sviluppo individuale. Come influenzano le relazioni amorose?

 

La teoria dell’attaccamento (Ainsworth, 1989; Bowlby, 1969) e la teoria del sistema famiglia di Bowen (Bowen, 1978; Kerr, & Bowen, 1988) affermano che l’internalizzazione delle relazioni con i genitori crea le basi per lo svilupparsi della regolazione emotiva e relazionale da adulti (Skowron& Dendy, 2004) e al di là delle differenze che contraddistinguono lo stile di attaccamento acquisito e la differenziazione del Sé entrambi sono considerati come fattori psicologici stabili e multi-generazionali della vita relazionale del soggetto (Hardy& Fisher, 2018).

Nello specifico, la teoria dell’attaccamento sostiene che lo stile di attaccamento da adulti è in gran parte determinato dalle esperienze vissute dall’individuo all’interno del rapporto con i genitori, per cui determinate dinamiche vengono assorbite dal soggetto e ripetute più volte nei contesti relazionali, a tal punto da rappresentare un “prototipo” per le future relazioni (Tatkin& Solomon, 2011). Allo stesso tempo alcuni autori hanno avanzato l’idea che l’attaccamento al partner romantico non dipenda solo dalle esperienze vissute durante l’infanzia, ma anche da quelle di differenziazione del Sé vissute durante la fase del giovane adulto, ovvero il momento dell’uscita dalla famiglia d’origine, in cui il compito evolutivo centrale è il bilanciamento tra i bisogni di autonomia e quelli di dipendenza (Carli et al., 2010). Considerando che sia la teoria dell’attaccamento che quella della differenziazione del sé reputano i bisogni di intimità e quelli di autonomia come centrali nel processo di sviluppo individuale (Skowron& Dendy, 2004), il presente studio (Lampis& Cataudella, 2019) ha l’obiettivo di riflettere su se e in che misura l’attaccamento al partner dipende dal legame di attaccamento ai genitori o dai processi di differenziazione del Sé.

350 soggetti sono stati selezionati e sottoposti al questionario The Differentiation of Self Inventory-Revised (DSI-R; Skowron & Friedlander, 1998; Skowron& Schmitt, 2003) per valutare gli aspetti della differenziazione del Sé, ovvero la reattività emozionale (ER), l’I-position (IP), il cutoff emozionale (EC) e la fusione con gli altri (FO), la The Experience in Close Relationships-Revised Scale (ECR-R; Brennan et al., 1998; Picardi et al., 2002) per valutare l’ansia e l’evitamento all’interno delle relazioni romantiche ed al The Parental Bonding Instrument (PBI; Parker et al., 1979) per misurare la percezione della qualità della relazione con i genitori.

I risultati mostrano che è possibile identificare un’integrazione tra la teoria dell’attaccamento e la teoria della differenziazione del Sé, in quanto entrambi sembrano influenzare la qualità delle relazioni amorose. Nello specifico, si è trovato che la variabile più importante nel predire l’ansia nella coppia è la reattività emotiva, ovvero la tendenza a reagire in modo esagerato alle emozioni negative, in linea con la teoria di Bowen e le precedenti ricerche (Peleg& Yitzhak, 2011). Inoltre, i dati rilevano che i ricordi di una mancanza di disponibilità e di cure da parte del padre aumentano i livelli di ansia nella relazione con il partner. Allo stesso modo, si è visto che il cutoff emozionale, ovvero la paura di intimità e il distacco emotivo, è associato in modo significativo allo stile di evitamento nella relazione di coppia e che bassi livelli di I-position, cioè la difficoltà nel risolvere problemi relazionali attraverso la negoziazione di compromessi, sembrano predire più alti livelli di evitamento nelle relazioni romantiche.

In conclusione, questi dati confermano il ruolo importante svolto dalla differenziazione del Sé nel determinare lo stile di attaccamento romantico ed informano su quanto sia importante indagare sia la qualità della relazione con le figure genitoriali sia le esperienze di differenziazione del Sé vissute in età adulta, per comprendere il tipo di attaccamento all’interno delle relazioni amorose, evidenziando, inoltre, una forte relazione tra l’evitamento e il cutoff emozionale e tra l’ansia, la reattività emotiva e i bassi livelli di cure offerte dal padre durante l’infanzia.

 

La dermatite atopica: la comunicazione somatopsichica

Nei pazienti con dermatite atopica sono frequenti quadri psicologici di depressione e ansia. Un trattamento psicologico, associato alle cure mediche, sembrerebbe essere di aiuto nella riduzione del livello dell’ansia e nel miglioramento delle condizioni della pelle.

 

Alexander Lowen diceva che non esistono parole più chiare
del linguaggio del corpo, una volta che si è imparato a leggerlo.

Si parla di stime importanti in relazione alla dermatite atopica. Calzavara Pinton et al. (2018) rilevano un’incidenza variabile dal 2,6% al 8,1% della popolazione adulta italiana. Viene definita come una malattia infiammatoria e cronica della pelle, la cui sintomatologia è prevalentemente rappresentata da una secchezza della pelle e un intenso prurito, rossore esteso e diffuso e a volte vescicole su diverse aree del corpo. L’età di insorgenza è quella pediatrica, anche prima dei ventiquattro mesi e può protrarsi, anche se in numeri molto inferiori, in età adulta. Il corpo di questi pazienti è segnato da desquamazione rossastra, soprattutto nelle regioni flessorie degli arti ma può colpire anche altre parti del corpo.

A questo quadro già di per sé molto complesso possono aggiungersi intolleranze e allergie alimentari, asma, rinite e congiuntivite. Inoltre il continuo prurito espone la pelle a infezioni batteriche secondarie come quelle da stafilococco e streptococco. Come si evince dalle altre indicazioni, l’epidermide non è la sola ad essere coinvolta in questi complessi processi emozionali. Possiamo trovare il sistema ormonale che rappresenta l’anello di congiunzione tra le esperienze psicologiche e la risposta somatica; il sistema immunitario che ha la capacità di ridurre anche di molto la resistenza a fattori infettivi magari, in altri momenti della vita del paziente, aveva la capacità di proteggerlo da eventi stressanti attivando adeguate risposte a protezione.

Come si può immaginare la complessità richiede una lettura dei sintomi altrettanto complessa, laddove l’attenzione ai soli sintomi psichici o solo fisici, del corpo, non aiuta il paziente a trovare soluzioni per vivere meglio.

È importante ricorrere alle cure di esperti dermatologi ma è anche importante non sottovalutare la componente psicologica, il regime alimentare e quant’altro. La dermatite atopica, oltre alle problematiche legate ai sintomi sopra descritti, inficia la vita di relazione e i rapporti sociali: si indebolisce l’autostima, la fiducia in sé stessi, entra in crisi l’immagine corporea. Le conseguenze più comuni che possiamo ritrovare nel panorama dei sintomi a carico dell’apparato psichico sono l’ansia, lo stress, la depressione e la rabbia.

Quali sono le cause della dermatite atopica? Gli studi hanno ormai dimostrato che le cause possono essere tante e hanno un’origine eterogenea. La visione olistica dell’essere umano ci consente, di affrontare il problema da vari punti di vista. La componente genetica sembra essere la causa principale, ma l’ambiente, gli allergeni e le fragilità psicologiche, possono essere considerati come fattori scatenati nell’ostacolare la riduzione dell’eczema, come pure nel mantenimento negli anni della problematica.

Il termine ‘atopica’, associato allo specifico quadro clinico, definisce un’impossibilità di trovare una collocazione cutanea definita: infatti il termine da cui deriva è greco ‘a-topos’, che si traduce appunto come privo di luogo.

Già nel 1800 si affermava la forte e marcata componente emotiva. Grazie alla psicosomatica, che nel tempo, ha raccolto in sé concetti, ipotesi e teorie, la mente e il corpo sono passati da una separazione a un’integrazione fino ad arrivare, oggi, ad un modello olistico che consente di guardare l’uomo come un organismo biopsicosociale formato da un’inscindibile unione tra psiche e soma.

Un’ottica interessante la fornisce la psiconeuroendocrinoimmunologia. I pazienti sono considerati come un network momentaneamente in disequilibrio, in cui si osservano disturbi a livello organico e sintomi associati a livello psicologico ad un disagio. L’attenzione è posta non solo alla manifestazione fisiologica della malattia, ma anche all’aspetto emotivo, poiché soma e psiche esprimono la stessa realtà ma su piani diversi.

Abbiamo già ripetuto che la pelle nella dermatite atopica è l’organo visibilmente più colpito. Bottaccioli la definisce come ‘un estesissimo organo psiconeuroimmunitario, in cui il sistema nervoso, quello endocrino e quello immunitario dialogano e cooperano attivamente’ (Bottaccioli F., pag.325). Sempre lo stesso autore ci parla di una sorprendente scoperta a sostegno del contributo della nostra psiche al dialogo e alla condivisione con il corpo, in perfetta sintonia. Nella pelle, dice, ‘ritroviamo il CRH (ormone che rilascia la corticotropina) e l’ACTH (ormone adrenocorticotropico), e cioè le stesse sostanze liberate dal cervello e dall’ipofisi nel corso delle reazioni di stress’ (Bottaccioli F., pag. 326).

Da un punto di vista psicologico e del suo significato, la pelle rappresenta il nostro confine. Sicuramente lo strumento privilegiato per la relazione con il mondo esterno, ma anche lo specchio del nostro mondo interiore: rappresenta la forte connessione tra ciò che accade fuori di noi e le nostre reazioni a ciò che viviamo. Basti pensare a come arrossiamo davanti ad un complimento, o sbianchiamo se incontriamo o viviamo qualcosa che ci spaventa.

Sembra opportuno, in questo specifico quadro, chiedersi se i soggetti in questione hanno la capacità di elaborare psicologicamente le emozioni. In soggetti affetti da dermatite atopica tale capacità sembra essere notevolmente compromessa e le emozioni rimangono nelle sedi corporee da cui sono originate. Molti autori definiscono il paziente psicosomatico come con lui che ha una difficoltà ad identificare e poi esprimere le proprie emozioni, scaricate sul corpo: il sintomo ha la funzione di proteggere da profonde angosce che sembrerebbero legate alla sensazione di perdere l’identità e i propri confini corporei.

Questa incapacità è stata definita da due psichiatri dell’Università di Harvard, J. Nemiah e P. Sifneos, alessitimia, che significa, appunto, incapacità di leggere le emozioni. Questo stato costringerebbe i pazienti a creare un linguaggio alternativo per esprimersi ma altamente abnorme e patogeno.

Altre teorie, legate al simbolismo degli organi colpiti, sostengono che la dermatite, insieme ad altre patologie come la psoriasi, l’acne, l’orticaria, la neuro dermatosi, e molto altro, che coinvolgono l’apparato immunitario, nervoso ed epidermico, è una malattia compresa nella categoria definita come appartenente agli ‘organi discriminanti’. Questi organi sarebbero interessati nel riconoscimento di ciò che è buono e ciò che non lo è, e un disturbo a loro carico potrebbe farci ipotizzare problematiche d’identità e di difficoltà ad esaminare in modo critico ciò che proviene dal mondo esterno e che richiederebbe una valutazione su cosa tenere e cosa lasciare andare. Il conflitto interiore sarebbe come un’intossicazione emotiva che si manifesta a livello del corpo, non riuscendo a trovare altro canale di comunicazione.

Infatti dal punto di vista psicoterapeutico la ricerca di strategie volte a sviluppare la capacità di simbolizzazione ed elaborazione psichica di situazioni ed eventi emotivo relazionali, insieme a strategie di coping, sono alla base della cura. Normalmente le persone riescono a trasformare emozioni e sensazioni ‘grezze’ in qualcosa di elaborato, gestibile ed esprimibile attraverso il linguaggio. Può accadere però che alcune emozioni e situazioni di difficoltà non riescano ad essere mentalizzate e poi espresse, perché troppo dolorose, perché arrecano sofferenza. Diventano allora intense ed ingestibili e facilmente arrivano al soma, anche come forma di liberazione, di scarico per attenuarne la potenza.

In questi pazienti è molto frequente ritrovare quadri psicologici che comprendono soprattutto depressione e ansia. Alcune ricerche hanno dimostrato nel tempo come un trattamento psicologico, associato alle cure mediche, possa essere di aiuto nella riduzione del livello dell’ansia e nel miglioramento delle condizioni della pelle. I pazienti e le loro famiglie sono accompagnati in un processo di comprensione della malattia, delle conseguenze e del suo trattamento. L’aumento della conoscenza e della consapevolezza permette un miglioramento della qualità della vita anche attraverso strategie di coping.

Non sembra si possa identificare un profilo di personalità specifico del paziente affetto da dermatite atopica, ma sembra esserci una difficoltà nell’identificazione ed espressione delle emozioni, soprattutto rabbia e aggressività represse e rivolte verso sé stessi.

Stewart A.C., Thomas S.E. del Dipartimento di Dermatologia del Barbsley Dietrich General Hospital nel Regno Unito, in un articolo (2001) hanno segnalato dei miglioramenti importanti e statisticamente rilevanti, in una ricerca condotta su di un campione di diciotto pazienti adulti affetti da dermatite atopica. Parliamo di studi clinici controllati non randomizzati e di tecniche come il rilassamento,la suggestione diretta di una pelle confortevole e fresca, un rinforzo dell’ego e suggestioni ipnotiche rivolte ad evitare il grattamento. I risultati hanno evidenziato una riduzione del prurito e dell’azione del grattamento, un miglioramento nei disturbi del sonno e degli stati di tensione e stress.

Ancora più importanti sono i risultati di una ricerca effettuata da Linnet J. e Jemec G. B. (2011), su trentadue pazienti adulti con dermatite atopica lieve e severa, che hanno riportato un miglioramento del livello d’ansia e delle condizioni della pelle, dopo una psicoterapia. La metà dei partecipanti per sei mesi ha ricevuto un intervento psicoterapico, l’altra metà no. Sono stati somministrati test prima e dopo l’intervento e al follow up dopo dodici mesi. I risultati dei test hanno indicato che i pazienti con livello marcato di ansia hanno mostrato un miglioramento maggiore dopo la psicoterapia sia per quanto riguardava l’ansia sia per la condizione complessiva della pelle, rispetto al gruppo di controllo.

Gli autori pongono l’accento anche sulla possibilità, per questi pazienti con un elevato e significativo indice di ansia rilevato dai test, nel gruppo non trattato psicoterapeuticamente, di abbandonare il programma di trattamento probabilmente perché più vulnerabili e meno capaci di affrontare i disagi psicologici connessi.

Per concludere, sembra che il paziente affetto da dermatite atopica richieda una visione a tutto tondo e che gli interventi posti in essere comprendano le varie sfaccettature del quadro clinico. Una corretta valutazione medica deve essere accompagnata da una altrettanto corretta valutazione psicologica, che dovrebbe evidenziare il migliore intervento possibile per rendere la vita di questi pazienti più accettabile e vivibile.

 

Benefici dell’attività fisica sull’invecchiamento cognitivo. Come l’attività fisica incide sulle caratteristiche cognitive e psicologiche degli anziani

E’ stato segnalato l’effetto positivo sull’invecchiamento di un regolare allenamento fisico che sembrerebbe migliorare l’umore, alleviare l’ansia e la depressione, e migliorare le funzioni cognitive globali come memoria, attenzione, inibizione e velocità di elaborazione.

Daniela Renzi – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, San Benedetto del Tronto

 

La vita media si allunga, ne sono un esempio Paesi come Italia, Giappone, Singapore, dove si registra una speranza di vita alla nascita di 80 anni. Questo fenomeno ha portato a suddividere comunemente l’invecchiamento in due tempi: un primo compreso tra i 65 e i 74 anni, anzianità o terza età, un secondo che comprende la popolazione oltre i 75 anni, vecchiaia o quarta età. Negli ultimi anni un’ulteriore fascia ha acquisito rilievo, data la sua notevole crescita soprattutto in Italia, Spagna e Giappone, quella dei centenari. (ISTAT, 2011).

Quando si parla di invecchiamento, dunque non ci si riferisce a una categoria omogenea. Generalizzando si potrebbero elencare i tre tempi succitati, ma in realtà si devono considerare tutte quelle differenze inter-individuali che formano profili singoli, in base a caratteristiche biologiche, sociali, psicologiche e cognitive.

Sebbene molti individui sperimentino una qualche forma di declino fisico e cognitivo mentre invecchiano, abbondano esempi di persone che sembrano essere immunizzate contro questo processo. Uno di questi è la scrittrice canadese di 82 anni, Alice Munro, che ha ricevuto il Premio Nobel per la letteratura nel 2013. Alcuni individui mostrano grandi capacità fisiche; ad esempio, Olga Kotelko, a 94 anni, stava ancora viaggiando per competere in atletica leggera nella sua fascia d’età (è morta a 95 anni). Un ultimo esempio, è un altro canadese, Ed Whitlock, che ha compiuto il suo primo record mondiale in una maratona del 2004 nella categoria over 70; ha poi stabilito un altro record, a 80 anni, con un tempo migliore rispetto a tanti concorrenti più giovani. Questi sono alcuni tra i tanti individui per i quali il tempo sembra essere l’ultima preoccupazione, e che ispirano la ricerca a comprendere come lo stile di vita possa agevolare l’adattamento della persona al processo d’invecchiamento e proteggere il cervello dal declino cognitivo legato all’età. (Bherer, 2015)

I benefici dell’esercizio fisico

L’attività motoria permette di mantenere una propria indipendenza, previene la fragilità dell’anziano e quindi la richiesta di ospedalizzazione, che incide a sua volta sulla longevità della persona. Negli ultimi anni si è evidenziato che l’inattività fisica è uno dei predittori più forti della disabilità: una persona anziana, in forma e attiva ha un rischio inferiore del 36% di sviluppare limitazioni funzionali e un rischio inferiore del 38% di frattura dell’anca (Fried L.P. et al., 2001).

In uno studio recente Stathi et al. (2018) hanno elaborato un programma di allenamento, dal nome REtirement in ACTion (REACT), con lo scopo di prevenire la disabilità legata alla mobilità, rivolto alle persone anziane in pensione. L’obiettivo principale dello studio con REACT è valutare l’efficacia di un intervento di attività fisica incentrato sulla comunità, per ridurre la progressione delle limitazioni funzionali legate alla mobilità nelle persone anziane che sono ad alto rischio di transizione dall’indipendenza alla disabilità legata alla mobilità.

Inoltre un sotto-studio, condotto dal Wellcome Center for Integrative Neuroimaging, dell’Università di Oxford, attraverso la risonanza magnetica (MRI), si propone di testare l’ipotesi che l’intervento REACT rallenti il tasso di atrofia cerebrale e il declino della funzione cognitiva. I risultati sono ancora da attendere ma la direzione è quella di identificare programmi di allenamento che sostengano questa fase di vita o che addirittura riescano a migliorarne la qualità sia da un punto di vista fisico e strutturale, sia da uno psicosociale e cognitivo.

Un’altra ricerca rileva come l’attività fisica incida sui livelli di stress, nello specifico, sui livelli di ossidanti che vanno a condizionare il processo di invecchiamento. Questo studio comparativo ha esaminato gli effetti del normale esercizio aerobico a bassa intensità sui marcatori di stress ossidativo negli anziani. Lo studio è stato condotto su 15 soggetti sedentari, contro 18 soggetti che eseguono esercizi di fitness, tutti con almeno 65 anni. I risultati suggeriscono che l’esercizio aerobico, a bassa intensità, può essere utile per prevenire il declino degli antiossidanti legati all’invecchiamento (Bouzid et al., 2014).

Benefici sul piano cognitivo e psicologico

Negli adulti più anziani sani, è stato segnalato l’effetto positivo di un regolare allenamento fisico per migliorare l’umore, alleviare l’ansia e la depressione, e migliorare le funzioni cognitive globali come memoria, attenzione, inibizione e velocità di elaborazione. Gli effetti dell’allenamento fisico sulle funzioni cognitive e motorie sono stati generalmente esaminati separatamente. Una scissione alquanto sorprendente, dato che queste funzioni condividono sistemi di rete cerebrale simili e quindi si prevede che saranno influenzati da processi neurodegenerativi paralleli nell’invecchiamento. Ad esempio, i cambiamenti legati all’età, a livello strutturale e funzionale, delle sottostrutture prefrontali e dei gangli basali, sono stati associati a una serie di deficit cognitivi, come il declino della memoria, della velocità di elaborazione delle informazioni e dell’inibizione (Aron et al., 2007).

Un crescente numero di prove suggerisce che l’allenamento fisico generale aumenta la materia grigia e il volume della materia bianca nelle reti cerebrali prefrontali, che sono compromesse dai processi di invecchiamento, con una maggiore estensione rispetto ad altre regioni del cervello (Pfefferbaum et al., 2005) .

La National Health and Nutrition Examination Survey (NHANES-III) ha rilevato che l’attività fisica, auto-riportata, correla positivamente con buone prestazioni cognitive, al contrario, bassi livelli di attività fisica cardiorespiratoria, sono stati associati a un più rapido declino cognitivo e una maggiore probabilità di sviluppare demenza (Carrington et al., 2014).

In un altro studio sull’esercizio aerobico è stato possibile evidenziare come questo tipo di allenamento, anche a breve termine, faciliti la neuroplasticità e riduca le conseguenze biologiche e cognitive dell’invecchiamento. Sono stati assegnati programmi di allenamento aerobico a un gruppo di 37 adulti, cognitivamente sani, tra i 57 e i 75 anni. Il programma era di 3 sessioni a settimana, un’ora a sessione, per 12 settimane. Una volta suddiviso il campione in attivi e sedentari, sono stati esaminati i livelli ematici del cervello e riscontrati miglioramenti a livello cerebrovascolare e cardiovascolare; a livello cognitivo i risultati positivi riguardano la memoria, le funzioni esecutive, le abilità visuo-spaziali e la velocità di elaborazione. Il dato più interessante riguarda l’attivazione dell’area cingolata, recentemente associata ai processi cognitivi superiori in età avanzata. I risultati dimostrano come gli adulti sedentari abbiano ricevuto un guadagno cerebrale, cognitivo e fisico, dopo solo 3 mesi di allenamento aerobico (Chapman et al., 2013).

Prese insieme, queste osservazioni suggeriscono che l’allenamento fisico potrebbe essere un mezzo efficace per prevenire l’atrofia cerebrale e mantenere (o addirittura migliorare) le capacità cognitive e motorie nell’invecchiamento.

Emergono domande come: ‘In che misura i miglioramenti nelle funzioni cognitive predicono i guadagni nelle funzioni motorie? E in che misura i diversi tipi di esercizio fisico influenzano in modo differenziale le funzioni cognitive e motorie?’.

In una rassegna sistematica, condotta nell’ultimo decennio, è stato esaminato l’effetto di diversi tipi di allenamento per le funzioni motorie e cognitive negli anziani. Il primo obiettivo consisteva nel verificare gli effetti benefici, specifici, degli interventi di esercizio fisico sul funzionamento cognitivo e motorio, in una popolazione sana di anziani. Il secondo obiettivo era studiare l’interazione tra guadagni cognitivi e motori, in relazione all’allenamento fisico usato. In linea con i suddetti scopi, la strategia di ricerca incluse combinazioni di interventi unendo, per esempio, programmi cardiovascolari (aerobica), con programmi di forza e/o di equilibrio e compiti motori e cognitivi, comunemente usati per la valutazione delle relazioni cervello-comportamento negli studi sull’invecchiamento. Lo studio si è concentrato principalmente sulle funzioni esecutive come elaborazione, attenzione, inibizione, che si sono mostrate cruciali per una buona prestazione nel funzionamento motorio grossolano e fine (locomozione, controllo del bilanciamento, tempo di reazione e coordinamento) (Seidler et al., 2010).

Attività specifiche

L’allenamento derivante dal Tai Chi. Un gruppo di ricerca di geriatri, neurologi, specialisti della riabilitazione, esperti di medicina sportiva e professionisti della medicina tradizionale cinese, ha elaborato una serie di esercizi denominati ‘Cognition Protecting Tai Chi’ (CPT). L’obiettivo era valutare gli effetti sulla funzione cognitiva, comportamentale, sullo stato d’animo e nelle attività quotidiane, in pazienti con una lieve demenza. Il gruppo di intervento praticava il CPT tre volte alla settimana, in sessioni da 20 minuti, sotto la guida dei terapisti. Il gruppo di controllo non praticava il CPT. Lo studio è stato condotto per 10 mesi. Il Tai Chi è un esercizio di mente-corpo aerobico con movimenti lievi e moderati, sicuri per gli anziani. Richiede concentrazione mentale e spostamento dell’equilibrio del corpo, con dolcezza e continua respirazione. È un allenamento consigliato per prevenire le cadute e inoltre, secondo uno studio condotto da Mortimer et al. (2012), questi esercizi abbinati a quelli del Baduanjin, incidono nella modulazione della struttura cerebrale e della funzione mnestica negli anziani. Dai risultati della risonanza magnetica (MRI) e delle prove di memoria, si evidenzia che le due attività potrebbero aumentare significativamente il volume della materia grigia nell’insula, nel lobo temporale mediale e nel putamen, dopo 12 settimane di esercizi. Da questa ricerca risulta che il Tai Chi e il Buduanjin aiutano a prevenire i deficit di memoria negli anziani, migliorano le funzioni cognitive e l’interazione sociale (Lyu et al., 2018).

Una ricerca si è concentrata sugli effetti dell’esercizio aerobico sulle funzioni esecutive, utilizzando il test di Stroop, negli anziani sani. Lo studio prevedeva 3 mesi di allenamento aerobico, 3 volte alla settimana, per 60 minuti a sessione. Il gruppo di intervento rispetto a quello di controllo, che non eseguiva il programma di allenamento, ha avuto migliori risultati nelle capacità fisiche e nella prestazione al test di Stroop, di inibizione/commutazione. Alla luce di questo studio è possibile affermare che gli interventi fisici, anche a breve termine, possono migliorare le funzioni esecutive degli anziani (Predovan et al. 2012).

Anche la danza è stata oggetto di studio, per valutare i cambiamenti che essa apporta su intelligenza, attenzione, tempo di reazione, abilità motorie, tattili e posturali, ma anche riguardo al benessere soggettivo e alla capacità cardiorespiratoria. I risultati sono stati positivi per le capacità posturali e tattili, ma anche per quelle cognitive e il benessere soggettivo (Kattenstroth et al., 2013).

Il nuoto, secondo una ricerca recente, risulta essere un’attività che, praticata regolarmente, correla con un migliore funzionamento cognitivo. I partecipanti allo studio dovevano eseguire una batteria di dieci attività: due sul tempo di reazione, che valutano la velocità di elaborazione delle informazioni, e 8 attività che valutano tre funzioni esecutive (inibizione comportamentale, aggiornamento della memoria di lavoro e flessibilità cognitiva). I risultati hanno mostrato che gli anziani che praticano nuoto in modo costante hanno migliori prestazioni sulle tre funzione esecutive, ma non sulla velocità di elaborazione delle informazioni (Abou-Dest et al., 2012).

Sulla scia di queste evidenze, insieme al gruppo di ricerca con cui ho lavorato sul mio progetto di tesi, abbiamo preso in esame due allenamenti differenti, la ginnastica dolce e l’escursionismo, con lo scopo di confrontare gli effetti sul piano cognitivo di un allenamento leggero rispetto ad uno più intenso.

È stato reclutato un campione totale di 116 partecipanti di cui 38 praticanti la ginnastica in palestra, 40 l’escursionismo in montagna e un terzo campione di 38 partecipanti sedentari, il gruppo di controllo.

La selezione dei partecipanti ha coinvolto uomini e donne tra i 65 e gli 89 anni, che praticavano attività fisica in modo regolare (2-3 volte alla settimana). Per reperire questi soggetti ci siamo avvalsi dell’aiuto dell’Università della Terza Età per i soggetti della ginnastica, e del CAI (Club Alpino Italiano) per coloro che fanno escursionismo.

Sono state valutate nello specifico la riserva cognitiva, l’attenzione, il funzionamento cognitivo globale e l’autoefficacia.

Dai risultati della ricerca è emerso che il gruppo sperimentale dell’escursionismo si è differenziato in modo significativo dai restanti due campioni, della ginnastica e dei sedentari, mentre i soggetti che praticano la ginnastica in palestra non hanno riportato significative differenze rispetto ai sedentari, piuttosto una somiglianza.

Ciò che rende gli escursionisti diversi dagli altri è una migliore Riserva Cognitiva che si riflette nei compiti di attenzione e nel funzionamento cognitivo globale. Dato il basso punteggio ottenuto nella sezione Lavoro del CRIq (Cognitive Reserve Index questionnaire), possiamo dire che gli escursionisti hanno avuto esperienze lavorative meno ‘protettive’ per la Riserva Cognitiva. Si potrebbe quindi ipotizzare che il tipo di lavoro non incida sulla qualità delle prestazioni cognitive, in quanto gli stessi hanno ottenuto migliori risultati nelle prestazioni attentive e nel funzionamento cognitivo globale, rispetto agli altri due gruppi.

Inoltre, gli escursionisti hanno ottenuto un punteggio migliore nella sezione del Tempo Libero, relativa alla Riserva Cognitiva, il ché mostra che queste persone hanno sempre svolto attività più salutari che, ipoteticamente, preservano dall’invecchiamento.

Quanto alla prestazione nel compito di attenzione (LCT), gli escursionisti sono stati più veloci e più accurati, poiché hanno ottenuto un numero inferiore di errori, ma, nonostante ciò, hanno realizzato un numero maggiore di omissioni. Si potrebbe dire che gli escursionisti sono più veloci, poiché caratterizzati da un maggiore spirito competitivo, che li porta a tralasciare maggiormente gli stimoli target necessari alla buona riuscita della prova.

In conclusione, è possibile affermare che l’attività di escursionismo indica profili migliori da un punto di vista cognitivo, anche se non è possibile definire la direzione di tale relazione in quanto non è possibile specificare se l’escursionismo migliori le abilità cognitive, oppure se, chi ha migliori prestazioni, tende a praticare questa attività. Certo è che i due aspetti vanno insieme. Nuovi studi serviranno a chiarire questa relazione.

Gli studi trattati evidenziano l’eterogeneità degli effetti di allenamenti specifici, ma ciò che risalta, è che ognuno di essi apporta guadagni notevoli, sia su un piano fisico sia su uno cognitivo e psicologico. Dunque la promozione di programmi per un invecchiamento attivo e di successo e una continua ricerca in questo campo è di fondamentale importanza per l’intera popolazione sia in un’ottica di prevenzione che nella gestione dei disagi legati a una fase di vita che vediamo espandersi nel tempo.

 

 

Judith Beck e la concettualizzazione cognitiva – Report dal Congresso EABCT 2020

Judith Beck è una presenza che in questi ultimi anni si è resa sicuramente partecipe nei principali congressi europei delle società CBT.

 

Lo scorso anno al WCBCT di Berlino ha condotto un Workshop precongressuale sulla CBT dei disturbi di personalità e un workshop intracongressuale in cui ha presentato il suo utilizzo della CBT come supporto ai programmi di perdita di peso, oltre ad aver tenuto un Invited Address sulla relazione terapeutica in CBT.

Quest’anno al EABCT di Atene ancora ha condotto un workshop precongressuale dal titolo “La CBT per la depressione resistente al trattamento” ed è stata invitata ad un Keynote sulla concettualizzazione cognitiva.

Anche l’attività editoriale recente del Beck Institute è particolarmente prolifica. Tra pochi giorni, il 30 settembre, verrà pubblicata, dopo nove anni dalla precedente edizione, la terza edizione del famoso libro di Judith Beck Cognitive Behavior Therapy – Basics and Beyond (tradotto in italiano come La Terapia Cognitivo Comportamentale).

Anche il padre Aaron T. Beck non sembra in alcun modo accusare i suoi 99 anni di età e si appresta a pubblicare come coautore a fine anno il suo ultimo lavoro: Recovery-Oriented Cognitive Therapy for Serious Mental Health-Conditions.

La Keynote di Judith Beck sulla concettualizzazione cognitiva ci offre un primo sguardo su queste novità. La Concettualizzazione nella CBT svolge di fatto il ruolo di fondamenta di un trattamento: prende in considerazione le esperienze di vita che ci portano a pensare e a comportarci in un determinato modo e combina queste informazioni in una storia coerente. Costruendo un linguaggio condiviso aiuta la costruzione della relazione terapeutica e viene utilizzata per identificare le cognizioni disadattive verso le quali indirizzare il trattamento. Il tutto si radica ovviamente nel contesto del modello cognitivo dove ad una determinata situazione seguono dei pensieri automatici che producono una reazione le cui componenti sono emotive, comportamentali e fisiologiche. Nulla di nuovo fin qui.

Chiunque sia abituato a lavorare seguendo l’approccio CBT proposto dal Beck Institute sa quindi che, partendo dagli specifici episodi riportati, gradualmente terapeuta e paziente svolgono un lavoro collaborativo volto ad identificare le credenze di base del paziente: visioni negative di sé, che a loro volta sorreggono alcune assunzioni, regole, attitudini disfunzionali e che producono strategie di coping inefficaci e problematiche. Il tutto prende la forma di un diagramma.

Judith Beck interventi al WCBCT all EABCT e novita del Beck Institute Imm 1

Il lavoro terapeutico che seguirà, attraverso la ristrutturazione cognitiva, guida il paziente ad accorgersi di guardare il mondo attraverso una sorta di ‘lenti distorte’ e lo guida passo a passo a trovarne di nuove.

‘Trovarne di nuove’: è proprio questo il punto su cui si sofferma la novità presentata da Judith Beck e ci aspettiamo sia esplorata nei nuovi capitoli di ‘Cognitive Therapy: Basics and Beyond’ ma soprattutto nel nuovo testo sulla Recovery-Oriented CBT. Tipicamente è atteso che il paziente, attraverso il lavoro di ristrutturazione cognitiva, sia autonomamente in grado di costruirsi delle visioni più realistiche e meno svalutanti di sé e quindi trasformi le proprie ‘regole d’ingaggio’ in preferenze flessibili. Facendo un esempio ci si aspetta che partendo da: ‘Io sono debole, gli altri mi attaccano’ si possa gradualmente arrivare ad esempio a: ‘Io sono una persona con dei punti di forza e delle fragilità; il mondo è pieno di persone che tutto sommato non sono costantemente impegnate ad attaccare me, ma sono più che altro affaccendate nei propri affari’.

Cosa succede però se il percorso verso questo risultato atteso è invece fortemente compromesso da un livello di sofferenza particolarmente grave o da una sofferenza particolarmente prolungata? Ecco che il paziente non riesce più a costruirsi una visione alternativa di sé: non ha idea della versione ‘adattiva di sé’ a cui puntare. E così fa capolino nelle slides presentate da Judith Beck una seconda concettualizzazione che invece di essere ‘Problem-Based’ come siamo abituati tutti noi a vedere, è costruita ‘Strength-Based’.

Judith Beck interventi al WCBCT all EABCT e novita del Beck Institute Imm 2

 

L’intervento terapeutico quindi palesa e concettualizza anche il punto di arrivo del lavoro terapeutico. Una novità interessante che sicuramente avrà delle sue procedure di intervento specifiche, conoscendo l’attenzione che a questo dedica il Beck Institute.

Purtroppo il Keynote di Judith Beck nei suoi 45 minuti non ha il tempo di affrontare nello specifico l’argomento. Aspettiamo quindi impazienti queste nuove uscite editoriali per approfondire l’argomento.

Un’ultima nota, già presentata lo scorso anno al WCBCT di Berlino riguarda un altro capitolo di novità che possiamo scorgere nell’indice dei nuovi manuali: un capitolo sulla relazione terapeutica e un capitolo sull’integrazione della Mindfulness negli interventi CBT. Non ci rimane che aspettare un paio di settimane.

 

A cerchi concentrici. La complessità della perdita perinatale e le sue perturbazioni (2018) di Gandino, Vanni e Bernaudo – Recensione del libro

A cerchi concentrici di Gandino, Vanni e Bernaudo è un testo innovativo, non solo perché approccia un fenomeno poco trattato e discusso come quello del lutto perinatale, ma ancor più perché estende il focus di indagine alla coppia, alla famiglia allargata e al contesto socioculturale in cui prende forma la perdita.

Una perdita non riconosciuta

Di perdita perinatale, poco si parla, non solo in ambito accademico, ma anche nei contesti di vita quotidiani. Il nostro background culturale gioca un ruolo non trascurabile in questo discorso, tanto che le Autrici sollevano un problema che caratterizza il nostro contesto sociale e che non agevola la normale elaborazione del lutto, ovvero la delegittimazione della sofferenza di coloro che ne fanno esperienza. Se non riconosciuti nel loro dolore, i genitori possono trovarsi in un terreno abitato dal lutto e possono dover confinare la propria sofferenza in uno spazio nascosto, spesso senza poter attingere dalle proprie risorse sociali. Alla luce della più recente letteratura scientifica internazionale, nel libro viene fornita una chiave di lettura al lutto perinatale di tipo sistemico-relazionale e vengono spiegate e descritte le possibili conseguenze psicologiche che la perdita di un figlio in gravidanza può avere non solo sulla madre e sul padre, ma anche sul legame di coppia, sui nonni, sui possibili fratellini e, infine, sugli operatori sanitari. Così, come un sasso lanciato nell’acqua, la perdita perinatale produce delle perturbazioni che vanno propagandosi ‘a cerchi concentrici’, a partire dal corpo materno fino ad arrivare agli operatori sanitari e al contesto sociale di origine della famiglia.

La gravidanza e la perdita come eventi familiari

Da sempre, la letteratura psicologica sul tema della genitorialità si è concentrata prevalentemente sui vissuti materni e sulle conseguenze psicofisiche a cui la donna va incontro, secondo un’ottica di tipo psicoanalitico. Spesso è la madre a doversi confrontare con la solitudine di questa perdita, che la vede protagonista biologica della gravidanza. Tuttavia, le Autrici considerano un terzo sguardo all’evento nascita che disamina non solo i vissuti genitoriali, ma anche i cambiamenti che possono occorrere nella coppia e nel sistema familiare. 
La nascita di un figlio è un evento che si propaga da una generazione all’altra e può assumere significati differenti a seconda del contesto familiare in cui la nascita ha luogo. Attraverso inaspettati giochi intergenerazionali, le famiglie riassestano gli spazi, modificano le distanze e ridisegnano i confini relazionali. A partire dalla notizia del concepimento e con tempi e gradi di intensità differenti, ciascun membro del sistema familiare crea una nuova rappresentazione di sé e del proprio ruolo all’interno del nuovo sistema. Tuttavia, in una fase del ciclo di vita così delicata, può accadere l’impensabile: la perdita perinatale distrugge gli equilibri che sotterraneamente si stavano costruendo e crea un’onda perturbante che muove la famiglia verso una rinnovata distribuzione di ruoli nel sistema. 
Sul piano della relazione di coppia, Gandino, Vanni e Bernaudo propongono un’analisi dei cambiamenti che occorrono tra i partner quando si verifica una perdita perinatale: essi si trovano a dover integrare le precedenti emozioni di gioia, che derivano dall’attesa del piccolo, a vissuti di sofferenza, che emergono come conseguenti al lutto. Le autrici evidenziano come inevitabilmente la coppia vada incontro ad alcuni cambiamenti che possono riguardare la comunicazione, la dinamica relazionale e, infine, l’intimità e la sessualità di coppia.

‘Come in una danza’, la diade negozia le difficoltà e le diversità, talvolta con modalità armoniose e talvolta con modalità maldestre, calpestandosi i piedi. Si tratta di una danza in continuo cambiamento che richiede da una parte un continuo ri-adattamento e, dall’altra, un supporto solidale da parte del contesto circostante.

Gli operatori sanitari: un dolore silenzioso tra difficoltà lavorative e sofferenza personale

Quando l’impensabile arriva in sala parto può accadere che lasci tracce di sé anche negli operatori sanitari, così, le Autrici si avvicinano al tema del dolore delle ostetriche, dei medici e degli operatori. In un luogo destinato al ‘dare alla vita’, la perdita si configura come un evento assurdo, paradossale e imprevisto, in grado di scatenare emozioni inattese e di difficile gestione. Le Autrici sottolineano l’importanza e la difficoltà della posizione che gli operatori sanitari si trovano a dover ricoprire, a metà strada tra il lutto genitoriale e i propri vissuti conseguenti alla perdita.

Conclusione

A cerchi concentrici è una monografia analitica ed esaustiva, che passa in rassegna la più recente letteratura internazionale associata al tema della perdita in gravidanza. Quello che la rende raffinata e unica nel suo genere è il taglio clinico con cui vengono lette e interpretate le ricerche empiriche, rese così fruibili a un pubblico di professionisti operanti nell’ambito del perinatale. Si tratta di un testo utile non solo ai ricercatori, ma ancor più ai clinici che si trovano ad approcciarsi a questo piccolo spicchio di mondo ancora poco discusso e disaminato.

La paura dell’intimità nelle relazioni amorose e i fattori ad essa associati

Il rivelare aspetti di Sé al partner e il considerare la relazione come qualcosa di importante ed indispensabile possono portare l’individuo a sviluppare una maggior vulnerabilità, ossia ad essere sempre più assorbito dalla relazione e soffrire maggiormente per la sua eventuale interruzione.

 

L’intimità all’interno delle relazioni è considerata come un bisogno basilare dell’individuo, in quanto contribuisce al raggiungimento del benessere psicofisico della persona, e coinvolge non solo la vicinanza fisica, ma anche quella psicologica ed emotiva (Niu et al., 2017). Tuttavia, è frequente il rinunciare a questo aspetto del rapporto, per via della paura, preoccupazione e difficoltà che tale coinvolgimento comportano (Sutcliffe et a.l, 2012). Infatti, Hatfiield (1984) sostiene che il rivelare aspetti di Sé al partner e il considerare la relazione come qualcosa di importante ed indispensabile possono portare l’individuo a sviluppare una maggior vulnerabilità, che si traduce nell’essere sempre più assorbito dalla relazione e soffrire maggiormente della sua eventuale interruzione.

Sono presenti alcuni fattori che contribuiscono ad aumentare la paura dell’intimità (FOI) del soggetto, tra cui la bassa autostima, un elevato livello di ansia sociale, l’eventuale presenza di depressione, un attaccamento di tipo insicuro e l’esistenza di schemi cognitivi maladattivi. A partire da ciò il presente studio (Obeid et al., 2019) intende indagare all’interno di un campione di individui di origine libanese, la relazione tra il FOI e queste variabili.

A 707 partecipanti è stato chiesto di fornire informazioni sociodemografiche, prima di essere sottoposti alla compilazione del Fear of Intimacy Scale (Descutner& Thelen, 1991) per valutare la paura dell’intimità, al Rosenberg Self-Esteem Scale (Rosenberg, 1965) per valutare il livello di autostima, all’Hamilton Depression Rating Scale (Hamilton, 1960) per valutare la presenza di depressione, all’Hamilton Anxiety Scale (Hamilton, 1959) per valutare i livelli di ansia, al The Relationship Questionnaire (Bartolomew& Horowitz, 1991) per valutare lo stile di attaccamento, al Liebowitz Social Anxiety Scale per valutare l’ansia sociale (Liebowitz, 1987), al Young schema Questionnaire-S3 (Young, 2005) per valutare gli schemi personali, al Composite Abuse Scale (Ford-Gilboe et al., 2016) per valutare la presenza di violenza ad opera del partner ed al General Trust Scale (Yamagishi et al., 2002) per valutare le credenze dell’individuo in merito all’onestà e affidabilità degli altri.

I risultati mostrano che alti livelli di paura di intimità sono associati ad alti livelli di fobia sociale, schemi maladattivi di difettosità, sfiducia, vulnerabilità, deprivazione emotiva, fallimento e stile di attaccamento rifiutante, mentre più bassi livelli di paura di intimità sono associati a livelli più alti di autostima. Questi risultati confermerebbero le ipotesi iniziali e i dati dei precedenti studi (Witt et al., 2011), secondo cui bassi bisogni di intimità sono associati a fobia sociale, bassa autostima, stile di attaccamento insicuro e schemi personali maladattivi, mentre alti bisogni di intimità sono associati ad alta autostima, in quanto questa consente all’individuo di assumersi maggiori rischi, essere maggiormente predisposto a mettersi in gioco e ad intraprendere relazioni intime con il partner (Bale& Archer, 2013).

In conclusione, possiamo dire che il riuscire a raggiungere l’intimità con il partner è un traguardo all’interno della relazione, ma in senso lato anche dell’individuo, che può vivere la relazione pienamente, senza essere frenato da paure e preoccupazioni che derivano da precedenti esperienze e credenze negative riguardo sé stesso. Riuscire a lavorare su questi aspetti, cambiando gli schemi personali in altri più positivi per il soggetto, aumentando la considerazione di sé e le aspettative sulle proprie relazioni con gli altri, può essere fondamentale per avere delle relazioni intime soddisfacenti e durature.

 

Psicologia applicata al soccorso: il trauma

Non tutti gli eventi negativi sono traumatici e non tutti gli eventi traumatici generano sintomi post-traumatici e sofferenza psicologica intensa. Tuttavia, quando alcuni eventi espongono l’individuo a una grande minaccia si possono innescare delle risposte fisiologiche di difesa che restano attive più del necessario e lasciano l’individuo “bloccato” nel tempo del trauma e “costretto” a riviverne le sensazioni, le emozioni e i pensieri, fino a perdere talora il contatto con il presente.

Alessandra Curtacci – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Introduzione

Con il termine trauma, che deriva dal greco e vuol dire “ferita”, si descrive un elemento in grado di determinare una rottura della normalità che caratterizza la quotidianità di ogni individuo, un qualcosa che ha un impatto negativo sulla persona che lo vive. Esistono diverse tipologie di esperienze potenzialmente traumatiche a cui un individuo può andare incontro nel corso della vita. Da un lato ci sono quelle esperienze che creano un disagio a livello soggettivo, che implicano eventi di vita meno catastrofici, che prevedono comunque una percezione intensa di pericolo, ma limitata. A questi traumi di minore entità si contrappongono quelli determinati da condizioni e situazioni che minacciano l’integrità fisica propria o delle persone care che potrebbero anche causare la morte. Non tutte le persone che vivono un’esperienza traumatica, siano esse vittime, testimoni o soccorritori, reagiscono allo stesso modo. Condizioni come quelle emergenziali, che per definizione determinano un forte carico di stress, possono provocare stati di estrema sofferenza, ma le risposte individuali possono essere molte e diversificate. Possono variare dal completo recupero e ritorno ad una vita normale in un breve periodo di tempo, fino alle reazioni più gravi, ossia quelle che impediscono di continuare a vivere la propria vita come prima dell’evento traumatico.

Trauma: definizione e sviluppo

Per trauma in psicopatologia si intende un’esperienza minacciosa estrema, insostenibile, inevitabile, di fronte alla quale un individuo è impotente (Hermann, 1992).

Si può definire il trauma come un

evento che implica l’esperienza personale diretta di un evento che causa o può comportare morte o lesioni gravi, o altre minacce all’integrità fisica; o la presenza ad un evento che comporta morte, lesioni o altre minacce all’integrità fisica di un’altra persona; o il venire a conoscenza della morte violenta o inaspettata, di grave danno o minaccia di morte o lesioni sopportate da un membro della famiglia o da altra persona con cui è in stretta relazione (DSM-5).

In sintesi ciò che si esperisce in una situazione in grado di provocare un trauma è un vissuto di morte, immediata e totalizzante.

Secondo il DSM

le alterazioni conseguenti a traumi emotivi, a causa della variabilità delle manifestazioni, sono state raggruppate in una categoria a parte, quella dei disturbi correlati ad eventi traumatici e stressanti, che comprende quei disturbi in cui l’esposizione ad un evento traumatico o stressante è elencata come criterio diagnostico. La sofferenza psicologica che segue l’esposizione ad un evento traumatico o stressante è molto variabile. E’ chiaro tuttavia che molti individui che sono stati esposti mostrano un fenotipo in cui, piuttosto che sintomi basati sull’ansia o sulla paura, le caratteristiche cliniche più evidenti sono: sintomi anedonici e disforici, sintomi di rabbia e aggressività esternalizzate o sintomi dissociativi.

Nell’evoluzione del trauma si può riconoscere il susseguirsi di differenti fasi.

Prima fase acuta: nella quale viene messa in discussione la validità della struttura psicologica del soggetto coinvolto insieme al senso di identità personale; viene compromessa la capacità di fronteggiare l’evento.

Seconda fase di reazione: durante la quale, a seconda del tipo di trauma e delle capacità personali di risposta all’evento, si prospettano due fasi:

  • il ritorno verso la normalità,
  • l’adattamento dell’individuo alla situazione (una “ristrutturazione di tipo difensivo” della personalità) che potrebbe però costituire le basi per un eventuale psicopatologia.

Terza fase cronica: nella quale avviene la possibile manifestazione dei segni evidenti del trauma psicologico.

Tipologie di trauma

Il trauma psicologico consiste in un evento che per le sue peculiari caratteristiche risulta non assimilabile ed integrabile nel “sistema psichico” della persona. Rimane quindi in sospeso costituendo un elemento di disturbo all’equilibrio mentale del soggetto che vive un evento negativo. Si possono considerare diverse tipologie di trauma psicologico:

  • Diretto: per il quale le persone esposte direttamente a forti stimolazioni negative hanno maggiori probabilità di sviluppare una sintomatologia traumatica;
  • Vicario: trauma che potrebbero sviluppare quelle persone entrate in contatto con coloro (es: vittime) che hanno subito forti stress, quindi in maniera indiretta.

I soccorritori che accorrono nei differenti contesti emergenziali sono potenzialmente esposti allo sviluppo di entrambe le tipologie di trauma sopradescritte dipendentemente dal ruolo che hanno nell’intervento ed allo scenario al quale vengono esposti. In base alle caratteristiche dell’evento e all’analisi delle conseguenze sull’individuo è possibile poi proporre un ulteriore differenziazione dei tipi di traumi.

Trauma del tipo I:

  • caratteristica: evento unico ed inaspettato, di discreta durata (es: incidente stradale, stupro);
  • conseguenze: frequente rievocazione dell’evento traumatico, veloce remissione della sintomatologia e buona prognosi di terapia.

Trauma del tipo II:

  • caratteristica: serie di eventi connessi tra loro, o un evento traumatico prolungato (es: ripetuti maltrattamenti, guerra);
  • conseguenze: la rievocazione dell’evento è meno frequente e tendenza alla dissociazione, schemi interni altamente disfunzionali. Si tratta di PTSD e prognosi di terapia sfavorevole.

Trauma e Psicopatologia

Subito dopo aver vissuto un evento traumatico il nostro organismo e il nostro cervello vanno incontro ad una serie di reazioni di stress fisiologiche, che nella maggior parte dei casi tendono a risolversi naturalmente senza un intervento specialistico. Questo avviene perché il meccanismo di elaborazione delle informazioni presente nel cervello è in grado di integrare le informazioni relative ad un evento all’interno del sistema di memoria, elaborandolo e ricollocandolo in modo adattivo. Ma quando questo non avviene lo stimolo che caratterizza l’evento stressante continua a costituire una forte stimolazione sensoriale che appare particolarmente importante a livello mnestico, quindi del sistema di memoria: per esempio gli odori che caratterizzano un certo scenario rimangono molto impressi nella memoria ed hanno quindi un grande potere di rievocare i ricordi legati all’evento stressante. Risultando al di fuori, o per meglio dire dissociata, dal resto dell’esperienza psichica propria della persona, l’esperienza traumatica potrebbe essere causa di una specifica sintomatologia. Nei primi momenti che seguono l’esposizione all’evento critico si può assistere a reazioni anche intense di pianto, rabbia, paura, oppure comportamenti che variano dalla completa agitazione psicomotoria alla reazione difensiva opposta di freezing. Quest’ultima è una particolare risposta alla paura, che si manifesta attraverso bradicardia (riduzione della frequenza cardiaca inferiore al valore di 60 battiti per minuto) e immobilizzazione, appare infatti come un totale o parziale “congelamento” della persona in situazioni di emergenza e può avere una durata compresa tra pochi secondi e 30 minuti. Tale reazione ha una funziona adattiva, ad esempio negli animali si manifesta in risposta alla presenza di predatori. Se questa condizione fisica colpisce un individuo provoca l’incapacità di reagire, di pensare, di valutare il problema e predisporre le risorse utili per affrontarli, rimanendo incapace di muoversi, di agire e di intervenire. Sul piano psicologico, quindi, il freezing è una reazione di dissociazione emotiva, cognitiva e sensoriale, che isola la persona da quello che le sta accadendo in quel momento: “congelarsi” è un modo per proteggersi da una situazione che non può essere modificata e attendere il momento in cui sarà di nuovo possibile agire.

Le reazioni più comuni causate da uno shock emotivo sono:

  • Senso di impotenza e mancanza di controllo;
  • Dolore, per le perdite subite;
  • Colpa, ad esempio per essere sopravvissuto;
  • Tristezza;
  • Irritabilità;
  • Ansia, legata alla mancanza di controllo ed al timore per il futuro;
  • Rabbia;
  • Esaurimento emotivo e disorientamento;
  • Rivivere gli avvenimenti;
  • Incubi notturni, pensieri intrusivi e flashback relativi all’evento vissuto;
  • Vergogna, per il bisogno di aiuto dimostrato;
  • Difficoltà a concentrarsi;
  • Alienazione, per il radicale cambiamento della propria realtà;
  • Desiderio, di tornare alla normalità che caratterizzava la propria esistenza.

In generale, come già detto, con il trascorrere del tempo la sintomatologia tende a scomparire, ma in altri casi in cui il processo di adattamento viene rallentato, o reso impossibile, determina l’instaurarsi di disagi di diversa natura, che spaziano ad esempio da una mancanza di motivazione, all’insorgenza di attacchi di panico. I disturbi correlati ad eventi negativi comprendono quei disturbi in cui l’esposizione ad un evento particolarmente stressante costituisce un criterio di diagnosi. I disturbi più conosciuti sono: il disturbo acuto da stress e il disturbo post-traumatico da stress.

Disturbo acuto da stress

Nel DSM-5  è collocato nel capitolo dei disturbi correlati a eventi traumatici e stressanti e la diagnosi si basa sui criteri che includono sintomi fisici, stato d’animo negativo e dissociativo. Per soddisfare i criteri per la diagnosi, i pazienti devono essere stati esposti direttamente o indirettamente a un evento traumatico.

Criteri diagnostici:

Criterio A – Esposizione a morte reale o minaccia di morte, grave lesione oppure violenza sessuale in uno (o più) dei seguenti modi:

  1. Fare esperienza diretta dell’evento/i traumatico/i
  2. Assistere direttamente a un evento/i traumatico/i accaduto ad altri
  3. Venire a conoscenza di un evento/i traumatico/i accaduto a un membro della famiglia oppure a un amico stretto. In caso di morte reale o minaccia di morte di un membro della famiglia o di un amico, l’vento/i deve essere stato violento o accidentale
  4. Fare esperienza di una ripetuta o estrema esposizione a dettagli crudi dell’evento/i traumatico/i (per es., i primi soccorritori che raccolgono resti umani).

Nota: Il Criterio A4 non si applica all’esposizione attraverso media elettronici, televisione, film, o immagini, a meno che l’esposizione non sia legata al lavoro svolto.

Criterio B – Presenza di 9 (o più) dei seguenti sintomi di ciascuna delle cinque categorie relative a:

1. Sintomi di intrusione

  • Ricorrenti, involontari, e intrusivi ricordispiacevoli dell’evento
  • Sogni ricorrenti riguardo ad alcuni l’evento traumatico
  • Reazioni dissociative (es.flashback) in cui i pazienti si sentono come se l’evento traumatico si stesse ripresentando
  • Sofferenza psicologica o fisiologica intensa quando ricorda l’evento oppure marcate reazioni fisiologiche in risposta a fattori scatenanti interni o esterni che simboleggiano qualche aspetto dell’evento traumatico

2. Umore negativo

  • Persistente incapacità di provare emozioni positive (es. felicità, soddisfazione, sentimenti di amore)

3. Sintomi dissociativi

  • Un senso alterato della realtà del proprio ambiente o di se stessi (es. sentirsi in uno stato confusionale, rallentamento del tempo, percezioni alterate)
  • Impossibilità di ricordare una parte importante dell’evento traumatico dovuta ad un’amnesia dissociativa)

4. Sintomi di evitamento

  • Sforzi per evitare angoscianti ricordi, pensieri o sentimenti associati con l’evento
  • Sforzi per evitare sollecitazioni esterne (persone, luoghi, conversazioni, attività, oggetti, situazioni) associate all’evento

5. Sintomi di arousal

  • Difficoltà relative al sonno
  • Irritabilità o scoppi d’ira
  • Ipervigilanza
  • Difficoltà di concentrazione
  • Esagerata risposta di allarme.

Criterio C – La durata delle alterazioni (sintomi del criterio B) va da 3 giorni ad 1 mese dall’ultima esposizione al trauma.

Criterio D – L’alterazione provoca disagio clinicamente significativo o compromissione del funzionamento in ambito sociale, lavorativo o in altree aree importanti.

Criterio E – L’alterazione non è attribuibile agli effetti fisiologici di una sostanza o di un altro disturbo medico.

I soggetti con disturbo acuto da stress presentano di solito pensieri catastrofici circa il loro ruolo nell’evento traumatico (es: senso di colpa), inoltre può verificarsi un peggioramento dei sintomi durante il primo mese, come risultato di ulteriori eventi o fattori stressanti.

In presenza di sintomi clinici rilevanti dopo il termine del mese, si passa alla diagnosi di disturbo post traumatico da stress.

Disturbo da stress post traumatico

I sintomi del disturbo da stress post traumatico (PTSD) possono essere raggruppati in categorie nelle quali rientrano tutte quelle situazioni in cui al soggetto sembra di rivivere l’evento, come ad esempio incubi notturni o situazioni analoghe, quelle che possono contenere tutti quei comportamenti che denotano la volontà del soggetto di evitare aspetti della realtà che potrebbe far riaffiorare il ricordo dell’evento (es: luoghi, oggetti, ecc) ed infine quelle in cui si evidenziano i sintomi che determinano uno stato di maggiore attivazione fisiologica, con conseguenti difficoltà nella concentrazione, disturbi del sonno, stato di allarme continuo o eccessivo. Il PTSD si può manifestare a qualsiasi età, ed in genere i sintomi si palesano entro i primi 3 mesi dopo il trauma, sebbene possa esservi un ritardo prima che siano sodisfatti i criteri per una diagnosi. La ricorrenza dei sintomi può verificarsi in risposta a fattori che suscitano ricordi legati all’evento traumatico.

Criteri diagnostici (i seguenti criteri si riferiscono a adulti, adolescenti e bambini di età superiore ai 6 anni):

Criterio A – Esposizione a morte reale o minaccia di morte, grave lesione oppure violenza sessuale in uno (o più) dei seguenti modi:

  1. Fare esperienza diretta dell’evento/i traumatico/i
  2. Assistere direttamente a un evento/i traumatico/i accaduto ad altri
  3. Venire a conoscenza di un evento/i traumatico/i accaduto a un membro della famiglia oppurea un amico stretto. In caso di morte reale o minaccia di morte di un membro della famiglia o diun amico, l’vento/i deve essere stato violento o accidentale
  4. Fare esperienza di una ripetuta o estrema esposizione a dettagli crudi dell’evento/itraumatico/i (per es., i primi soccorritori che raccolgono resti umani).Nota: Il Criterio A4 non si applica all’esposizione attraverso media elettronici, televisione, film, oimmagini, a meno che l’esposizione non sia legata al lavoro svolto.

Criterio B – Presenza di uno (o più) dei seguenti sintomi intrusivi associati all’evento/i traumatico/i, che hanno inizio successivamente all’evento/i traumatico/i:

  1. Ricorrenti, involontari e intrusivi ricordi spiacevoli dell’evento/i traumatico/i.Nota: Nei bambini di età superiore ai 6 anni può verificarsi un gioco ripetitivo in cui vengono espressi temio aspetti riguardanti l’evento/i traumatico/i
  2. Ricorrenti sogni spiacevoli in cui il contenuto e/o le emozioni del sogno sono collegatiall’evento/i traumatico/i.Nota: Nei bambini, possono essere presenti sogni spaventosi senza un contenuto riconoscibile
  3. Reazioni dissociative (per es. flashback) in cui il soggetto sente o agisce come se l’evento/itraumatico/i si stesse ripresentando. (Tali reazioni possono verificarsi lungo un continuum, incui l’espressione estrema è la completa perdita di consapevolezza dell’ambiente circostante.)Nota: Nei bambini, la riattualizzazione specifica del trauma può verificarsi nel gioco
  4. Intesa o prolungata sofferenza psicologica all’esposizione a fattori scatenanti interni o esterniche simboleggiano o assomigliano a qualche aspetto dell’evento/i traumatico/i
  5. Marcate reazioni fisiologiche a fattori scatenanti interni o esterni che simboleggiano oassomigliano a qualche aspetto dell’evento/i traumatico/i.

Criterio C – Evitamento persistente degli stimoli associati all’evento/i traumatico/i, iniziato dopo l’evento/i traumatico/i, come evidenziato da uno o entrambi i seguenti criteri:

  1. Evitamento o tentativi di evitare ricordi spiacevoli, pensieri o sentimenti relativi ostrettamente associati all’evento/i traumatico/i
  2. Evitamento o tentativi di evitare fattori esterni (persone, luoghi, conversazioni, attività,oggetti, situazioni) che suscitano ricordi spiacevoli, pensieri o sentimenti relativi o strettamenteassociati all’evento/i traumatico/i.

Criterio D – Alterazioni negative di pensieri ed emozioni associati all’evento/i traumatico/i, iniziate o peggiorate dopo l’evento/i traumatico/i, come evidenziato da due (o più) dei seguenti criteri:

  1. Incapacità di ricordare qualche aspetto importante dell’evento/i traumatico/i (dovutatipicamente ad amnesia dissociativa e non ad altri fattori come trauma cranico, alcol, o droghe)
  2. Persistenti ed esagerate convinzioni o aspettative negative relative a se stessi, ad altri, o almondo (per es., “io sono cattivo”, “non ci si può fidare di nessuno”, “il mondo è assolutamentepericoloso”, “il mio intero sistema nervoso è definitivamente rovinato”)
  3. Persistenti, distorti pensieri relativi alla causa o alle conseguenze dell’evento/i traumatico/iche portano l’individuo a dare la colpa a se stesso oppure agli altri
  4. Persistente stato emotivo negativo (per es., paura, orrore, rabbia, colpa o vergogna)
  5. Marcata riduzione di interesse o partecipazione ad attività significative
  6. Sentimenti di distacco o di estraneità verso gli altri
  7. Persistente incapacità di provare emozioni positive (per es., incapacità di provare felicità,soddisfazione o sentimenti d’amore).

Criterio E – Marcate alterazioni dell’arousal e della reattività associati all’evento/i traumatico/i, iniziate o peggiorate dopo l’evento/i traumatico/i, come evidenziato da due (o più) dei seguenti criteri:

  1. Comportamento irritabile ed esplosioni di rabbia (con minima o nessuna provocazione)tipicamente espressi nella forma di aggressione verbale o fisica nei confronti di persone ooggetti
  2. Comportamento spericolato o autodistruttivo
  3. Ipervigilanza
  4. Esagerate risposte di allarme
  5. Problemi di concentrazione
  6. Difficoltà relative al sonno (per es., difficoltà nell’addormentarsi o nel rimanereaddormentati, oppure sonno non ristoratore).

Criterio F – La durata delle alterazioni (Criteri B, C, D, E) è superiore a 1 mese.

Criterio G – L’alterazione provoca disagio clinicamente significativo o compromissione del funzionamento in ambito sociale, lavorativo o in altre aree importanti.

Criterio H – L’alterazione non è attribuibile agli effetti fisiologici di una sostanza (per es., farmaci, alcol) o a un’altra condizione medica.

Specificare se con sintomi dissociativi: I sintomi dell’individuo soddisfano i criteri per un disturbo da stress post-traumatico e, inoltre, in risposta all’evento stressante, l’individuo fa esperienza di sintomi persistenti o ricorrenti di uno dei due seguenti criteri:

  • Depersonalizzazione: persistenti o ricorrenti esperienze di sentirsi distaccato dai e come se si fosse un osservatore esterno dei propri processi mentali o dal proprio corpo (per es., sensazione di essere in un sogno; sensazione di irrealtà di se stessi o del proprio corpo o del lento scorrere del tempo).
  • Derealizzazione: persistenti o ricorrenti esperienze di irrealtà dell’ambiente circostante (per es., il mondo intorno all’individuo viene da lui vissuto come irreale, onirico, distante o distorto).

Nota: Per utilizzare questo sottotipo, i sintomi dissociativi non devono essere attribuibili agli effetti fisiologici di una sostanza (per es., blackout, comportamento durante un’intossicazione da alcol) o a un’altra condizione medica (per es., crisi epilettiche parziali complesse).

Specificare se con espressione ritardata: se criteri diagnostici non sono soddisfatti appieno entro 6 mesi dall’evento (ancorché l’insorgenza e l’espressione di alcuni sintomi possano essere immediate).

Non tutti gli eventi negativi sono traumatici e non tutti gli eventi traumatici generano sintomi post-traumatici e sofferenza psicologica intensa. Tuttavia quando alcuni eventi espongono l’individuo alla minaccia di vita, si possono innescare delle risposte fisiologiche di difesa che restano attive più del necessario e lasciano l’individuo “bloccato” nel tempo del trauma e “costretto” a riviverne le sensazioni, le emozioni e i pensieri, fino a perdere talora il contatto con il presente. Qui può avvenire la “frattura” dell’identità, l’interruzione della narrazione di sè tra un passato presente e futuro.

Conclusione

Applicare la psicologia al soccorso vuol dire porre l’attenzione sui molteplici risvolti emotivi e psicologici che possono caratterizzare le reazioni di chi interviene in un contesto emergenziale. L’attività del soccorritore, nella quale è necessario coniugare all’estrema competenza professionale anche una buona competenza relazionale ed emozionale, potrebbe risultare molto stressante a causa delle numerose e imprevedibili situazioni di forte impatto psicologico ed emotivo cui è sottoposto. Nonostante tale premessa però questi professionisti hanno sempre dimostrato nelle più diverse occasioni di essere in grado di applicare strategie fondamentali per la buona riuscita del lavoro e per la salvaguardia del proprio benessere fisico e psicologico.

Appare evidente la volontà di miglioramento personale attraverso il ricorso all’esperienza dei colleghi più anziani, alle conoscenze acquisite nelle precedenti calamità, ecc. Ogni individuo ha degli elementi “predisponenti” che possono aumentare la sua vulnerabilità e quindi la possibilità di subire un trauma se costretto ad affrontare un evento fortemente stressante e potenzialmente pericoloso per la propria sopravvivenza, ma possiede anche dei fattori protettivi, la cui comprensione rientra nel concetto di resilienza. Quest’ultima viene definita come la resistenza e la capacità di adattamento ad eventi minacciosi, e può essere considerata come una capacità che si può coltivare nel tempo e modificare con le varie esperienze. Indica quindi l’insieme delle caratteristiche che aumentano le probabilità e le capacità di adattamento di un soggetto dopo un periodo di crisi. Un elemento fondamentale, la cui conoscenza e comprensione è importante per coloro che svolgono professioni di aiuto, o helpingprofession, come quella del Soccorritore.

La clinica e il web (2020) di Gianfranco Manfrida, Valentina Albertini e Erica Eisenberg – Recensione del libro

Avere un attaccamento acritico a consuetudini e idealizzazioni sul setting terapeutico e contrastare tout court la terapia online è un atteggiamento anacronistico. Il progresso tecnico e scientifico deve essere considerato un alleato del terapeuta e non un nemico.

 

Come psicoterapeuti, non possiamo ignorare gli strumenti che abbiamo a disposizione e come questi ultimi siano parte integrante della vita dei nostri pazienti così come della nostra. Gli sviluppi tecnologici si susseguono velocemente, portando con sé cambiamenti sociali e relazionali oltre che tecnologici. Arroccarsi su modi di operare consolidati ritenendoli esclusivi e unici rischia di far metter da parte cambiamenti di mezzi e di contenuti che semplicemente non si possono ignorare. Da questi spunti e dalla pratica clinica nascono le riflessioni di questo libro dedicato ai professionisti che si affacciano ora alla professione così come a quelli di consolidata esperienza: come si colloca la psicoterapia in relazione alla tecnologia? Quali sono le potenzialità e i rischi della terapia online? Quale impatto hanno questi cambiamenti sociologici sulla psicoterapia?

La terapia online: non ci sono scorciatoie

Il tema della psicoterapia online è mai come adesso oggetto di dibattito e riflessioni sia tra gli addetti ai lavori che tra i pazienti. Soprattutto a seguito dell’emergenza Covid-19, lo spostamento forzato al setting virtuale ha smosso parecchi interrogativi. Potenzialità e rischi sono molteplici, a partire da aspetti etici, legali e deontologici ad altre questioni come il livello di alfabetizzazione digitale, la tipologia di disturbo e di paziente, l’ambiente condiviso, il setting clinico meno definito, l’invasione dello spazio personale, i possibili intoppi tecnologici.

Sicuramente il contesto virtuale è ben diverso da quello vis à vis: se in quest’ultimo l’ambiente è pienamente condiviso, nella terapia online si può essere più facilmente distratti da stimoli esterni e non condivisi col nostro interlocutore, sia per terapeuta che paziente. Il setting è destrutturato, virtuale, e quello che non viene condiviso non è solo lo spazio fisico ma quello relazionale. Inoltre, il livello di alfabetizzazione digitale è da valutare quando si propone una terapia anche solo in parte online: non va dato per scontato che tutti i pazienti abbiano dimestichezza con la tecnologia e si sentano a proprio agio con essa. Va considerato anche il tipo di paziente: per gli autori, infatti, se non strettamente necessario, è sconsigliato fare terapia online ai pazienti cosiddetti ‘complessi’ in quanto privarli dello spazio fisico relazionale vuol dire impoverire alcuni aspetti contestuali della relazione terapeutica, fondamentale con questo tipo di pazienti.

Infine, è necessario avere una certa esperienza per condurre una terapia a distanza? Non ci sono dubbi secondo gli Autori: la pratica online è più difficile, soprattutto per i giovani psicoterapeuti, anche quelli nativi digitali. Facilità di accesso e limitazione dei costi non devono ingannare: il setting online richiede una certa esperienza per riuscire a padroneggiare molti elementi peculiari della relazione terapeutica che online possono apparire più sfumati e meno chiari a un terapeuta meno esperto.

L’alfabeto digitale, orientarsi tra le risorse comunicative nella terapia online

In seduta e fuori dalla seduta, gli psicoterapeuti si trovano a confrontarsi con i pazienti attraverso, con, grazie a strumenti digitali. Dal fissare un appuntamento, all’app per condividere gli esercizi fatti, alla videochiamata. Online/offline: le due modalità si rapportano tra loro condizionandosi reciprocamente. Forti del loro background, gli Autori, che afferiscono al Centro Studi Psicologia Relazionale Prato, ci parlano proprio di interazione sistemica tra due mondi che non sono separabili o divisibili.

Questo testo rappresenta un valido contributo sul coniugare efficacemente pratica clinica e tecnologie digitali. Il libro si apre con delle riflessioni di carattere sociologico per poi dedicare uno spazio ad ognuno dei mezzi comunicativi con capitoli specifici: messaggi ed e-mail, emoticon e videochiamate, foto e app sono presi in esame sia per l’utilizzo che ne fanno i pazienti sia per come possono avvalersene con adeguata consapevolezza i terapeuti. Come ogni libro che sia dedicato alla pratica clinica, è ricco di esempi e situazioni cliniche concrete, raccomandazioni teoriche, riflessioni su restituzione e supervisione. Si conclude quindi con delle riflessioni di carattere deontologico.

La sfida per gli psicoterapeuti è quella di utilizzare la tecnologia in modo appropriato e integrare le diverse forme di comunicazione (dal vivo, sms, app di messaggistica, e-mail), in modo che tutto questo insieme concorra all’instaurare una relazione terapeutica proficua per entrambe le parti.

 


EUROPEAN CONFERENCE OF DIGITAL PSYCHOLOGY

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Facci caso (2020) di Gennaro Romagnoli – Recensione del libro

Questo volume si potrebbe definire come una palestra per l’attenzione, un amplificatore di consapevolezza, un concentrato di pratici tips & tricks orientati alla crescita personale.

 

Nella recensione a seguire si è preferito non entrare dettagliatamente nei contenuti del libro – che sono tanti e interessanti – piuttosto si darà spazio ai concetti chiave dalla prospettiva di chi scrive. Tra l’altro, pare che sia proprio questo uno degli inviti principali di Gennaro Romagnoli: aprire all’attenzione consapevole, esperire punti di vista inediti che permettano di fare – a bordo della propria consapevolezza interiore – ogni giorno un altro viaggio: ogni volta l’ultimo, ogni volta il primo.

Una consapevolezza raggiungibile attraverso quello che il collega (psicologo e psicoterapeuta) definisce il muscolo dell’attenzione. L’attenzione diviene concepibile, dunque, come un fascio di luce che, se da un lato illumina gli oggetti, i pensieri e le sensazioni, dall’altro ne esclude quant’altre porzioni di mondo restanti.

Un po’ come accade quando si é seduti con tutto il proprio corpo, tutti i propri sensi, su una poltrona del cinema. I sensi sono potenzialmente calamitati, attratti, dallo schermo; in altre parole, da un flusso di informazioni che immediatamente si assemblano in storie, che subito si condensano in trame ordinate, capaci di colorare ed animare di significati il moto dei flussi interiori.

A ben vedere, quando siamo al cinema, ciò non è affatto un problema – anzi! – semmai é lo scopo principale che qualsivoglia regista si prefigge e si augura. Non a caso, un film trionfa nella misura in cui é, in primis, in grado di catturare il focus dell’attenzione, una risorsa quest’ultima – come l’oro nero – limitata e preziosa.

Le pubblicità, le notifiche, il pianto di un bambino spaventato, i semafori: dalla culla alla tomba siamo nel flusso stimolante dell’attenzione.

Saper persuadere, come ben espone Cialdini (2010), vorrebbe dire accaparrarsi l’attenzione di un osservatore, escludendola – e sottraendola – da altre fonti. Questo potrebbe ben essere sintetizzato dal celebre album The Dark Side of the Moon firmato Pink Floyd o, senza andare tanto lontano, dalla logica su cui sono basati i giochi di prestigio (Rampin, 2012).

In altri termini, tutto ciò che il nostro raggio di luce intercetta, tutto ciò che entra a fare parte di esso, allora – e solo allora – viene esplicitamente percepito come rappresentazione mentale: divenendo, in tal senso, una figura plasmabile, flessibile e non più un rigido e immanente sfondo.

Immagine 1 – Illusione ottica: il vaso di Rubin

Ma se quanto detto sino ad ora fosse applicato al proprio corpo, alle proprie relazioni, ai propri pensieri e più in generale alla vita? No, non sarebbe affatto strano: di solito, é quanto posto al di fuori di quel saliente raggio a divenire tacito, implicito, dissociato. Familiarmente estraneo.

Gli umani sono tendenzialmente abituati (per automatismi appresi) a guardare nello schermo e non alla sala intorno, in penombra. La percezione si àncora a una miriade di frame, di ambienti nel quale si diviene immersi al punto tale da essere pesci che non vedono l’acqua in cui nuotano (Wallace, 2009). Al punto tale da (con)fondere la mappa con il territorio, il mondo interno con quello esterno (Korzybski, 1958).

Corollario di quanto detto é che ognuno tornerebbe ad applicare sempre le stesse (tentate) soluzioni a problemi mai uguali, poiché il tempo lì fuori continua incessante a passare e, il naturale processo del cambiamento, ne resta l’irriducibile costante (Nardone & Watzlawick, 2005).

Perché? Perché ogni individuo a furia di guardare il mondo dal proprio oblò e si annoia un po’, perdendosi pezzi di mondo in cui trovare ricchezza e complessità vivifiche a scapito del proprio sé narrativo (Stern, 1985; Lingiardi, Lingiardi, Amadei et al, 2011).

Questo ricorda il simpatico aneddoto di Watzlawick (1997), in cui un uomo che perde le chiavi nel buio si ostina a cercarle sotto un lampione, sol perché, lì, gli sarebbe stato possibile godere di una buona e comoda visibilità. Ma questa è un’altra storia. Ecco: qui potreste aver notato uno shift attentivo. Ecco che una nuova idea ha portato me, la mia mente, leggermente off topic, fuori strada, aprendo, lungo l’innesto narrativo principale, parentesi tonde, quadre, eccetera.

Come descrive in maniera chiara ed esaustiva l’autore del libro, tutto ciò, è più che lecito. L’attenzione ha, come dire, un suo circolo. Un movimento vivace e altalenante, fisiologicamente propenso a distrarsi.

In questi frangenti, nei quali si sbanda, potrebbe nascere un pensiero del tipo “non sono bravo a concentrarmi, scrivere, meditare, mantenere l’attenzione, giocare a scacchi, ascoltare, ecc!”. Ma è in questi pensieri veloci (Kahneman, 2012) che – come insegnano prima una lunga tradizione orientale e poi clinica – risiede il pericolo del giudizio, un giudizio a cui sarebbe molto funzionale rispondere – piuttosto che reagire – con l’arma della gentilezza. Una gentilezza metacognitiva, empatica, diretta a riportare i nostri limiti percettivi di nuovo in carreggiata. Una gentilezza responsabile, non giudicante, comprensiva; in grado di aprire all’accettazione, all’intelligenza emotiva, al fine di pensare le emozioni (Goleman, 2011).

Questa esperienza è utile tanto al clinico, quanto al paziente. Più in generale, sarebbe utile agli umani in quanto menti relazionali, organismi complessi che ricorsivamente si nutrono nelle e delle relazioni (Lingiardi, Amadei et al, 2011; Siegel, 2020); relazioni che, in primis, si intrattengono con le proprie voci interiori, con tutte quelle forme vitali che abitano il teatro del corpo (Stern, 2011; Verdesca, 2018).

E’ così che, lungo l’onda delle pagine, Romagnoli, a partire dal concetto di attenzione giunge a quello – solo apparentemente distante – di relazione, indirizzando il fascio di luce del lettore verso momenti di incontro autentici e unici che quotidianamente ci sfuggono, salvo particolari eccezioni – ove ci si riscopre con l’altro emotivamente ricchi, colmi di piccoli dettagli irripetibili.

Sommersi in questi concetti, espressi in maniera molto più fruibile di quanto in questa sede sia stato fatto, potreste trovare continui rimandi a una PNL saggiamente ricollocata su base costruttivista e cognitivista di terza ondata, alle terapie brevi, alla psicoanalisi intersoggettiva, alla psicologia positiva e sociale, senza trascurare vasti riferimenti neuroscientifici ed empirici – molto accurati – in grado di rendere questo libro saldamente evidence-based (Bandler & Grinder, 1983; Stern,1985; 2011; Seligman, 2004; Siegel, 2020; Kahneman, 2012).

Ma dove confluiscono tutte queste idee? In ultimo, non per importanza, nella mindfulness, tanto cara a Siegel (2020) e che Amadei (2013) considera, ad esempio, il fattore comune dell’efficacia psicoterapeutica (Kabat-Zinn & Hanh, 2009).

Alla fine di ogni capitolo, inoltre, sono riportati dei piccoli e semplici esercizi in grado di condurre il lettore dal piano teorico a quello di carattere più pratico. L’autore, a più riprese, tiene a ribadirlo: la meditazione, più che un concetto è soprattutto una esperienza, nella quale si utilizza primariamente l’attenzione come carburante.

L’attenzione rivolta alle fitte trame del sé funziona – nelle parole di Romagnoli – come uno “zoom psicologico”; è la linfa vitale, il calore e il senso con cui ognuno può innaffiare e favorire la crescita della pianta più verde che abbia: la propria persona, la propria vita.

E’ come se il flusso di contenuti mentali (e fisici, vedi le emozioni) fosse simile a una cascata, tu stai sotto questo flusso d’acqua, continuo e pesante. Quando te ne accorgi puoi fare un passo indietro e lasciarti la cascata davanti, la tua testa sarà nettamente più leggera senza tutta quell’acqua, però sei ancora abbastanza vicino da bagnarti e sentire gli spruzzi che ti arrivano negli occhi. Non sei del tutto staccato dall’esperienza, sei però sufficientemente lontano da non reagire in automatico a ogni spruzzo e abbastanza vicino da poter vivere ciò che sta accadendo qui e ora. (Romagnoli, 2020)

Nella vita di ogni giorno può capitare facilmente di fondersi totalmente coi propri rimorsi, i propri rimpianti, le proprie aspettative o paure, identificandosi con tutte queste cose.

Intanto, la vita continua a passare, a ri-presentarsi e a scorrere sotto ai nostri piedi, mentre noi, inconsapevoli, ne perdiamo la totalità del momento presente (Stern, 2005; Siegel, 2020).

Tutto ciò che possiamo passa puntualmente da questo preciso istante, l’istante in cui il respiro si contrae, si dilata, si espande. L’ora ed il luogo in cui il resto del mondo diventa l’interezza alla quale, segretamente, si è connessi. Insomma, ogni tanto – a questa silenziosa vastità – Facci caso. Conviene.

 

Training Metacognitivo per il DOC – Gli effetti delle singole sessioni

Il Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC) è un disturbo psichiatrico con una prevalenza nel corso di vita del 2-3% (Kessler et al., 2012), caratterizzato da ossessioni e compulsioni (Kim et al., 2016).

 

Il Training Metacognitivo per il Disturbo Ossessivo Compulsivo (MCT-OCD; Jelinek et al., 2018) è una trattamento di gruppo specifico per il DOC che ha come target i processi di controllo mentale che contribuiscono al mantenimento della sintomatologia ossessivo-compulsiva.

L’MCT-OCD è suddiviso in quattro moduli che approfondiscono diversi bias metacognitivi: Perfezionismo/ Intolleranza dell’incertezza; Fusione pensiero-azione/ Controllo dei pensieri; Sopravvalutazione della minaccia/ Esagerato senso di responsabilità; Bias d’attenzione/ Bias cognitivo.

Sinora la ricerca si è concentrata sugli effetti complessivi del trattamento valutando la gravità dei sintomi prima e dopo il trattamento, ma nessuno ha valutato gli effetti specifici delle singole sessioni.

In uno studio recente (Miegel et al., 2020) 44 pazienti diagnosticati con DOC hanno partecipato all’MCT-OCD una volta alla settimana per quattro settimane. Prima e dopo ogni sessione, i pazienti hanno risposto a un questionario costruito ad hoc sul monitoraggio del pensiero, sul controllo dei pensieri, sulle ossessioni, sulle compulsioni e sull’umore.

Dai risultati delle analisi si è evinto che il modulo Fusione pensiero-azione/ Controllo dei pensieri ha visto ridurre significativamente il controllo dei pensieri da parte dei pazienti. Il controllo dei pensieri si è ridotto anche dopo il modulo Bias d’attenzione/ Bias cognitivo.

Una settimana dopo il modulo Sopravvalutazione della minaccia/ Esagerato senso di responsabilità il livello legato alle compulsioni era sceso significativamente.

Un numero maggiore di compulsioni sono invece state segnalate una settimana dopo il modulo Fusione pensiero-azione/ Controllo dei pensieri.

Globalmente si sono riscontrati miglioramenti sul monitoraggio del pensiero, il controllo dei pensieri, delle ossessioni e delle compulsioni durante il periodo di trattamento.

Dati questi risultati alcuni moduli dell’MCT-OCD sembravano effettivamente migliorare specifici bias metacognitivi che a loro volta potrebbero essere utilizzati come meccanismi di cambiamento. Ciò è importante non solo per accrescere la conoscenza clinica dei pazienti con DOC, ma anche per poter agire sul miglioramento dei singoli moduli di strumenti terapeutici come l’MCT-OCD, aumentandone l’efficacia.

Monogamia e tradimenti: una serie di Roberto Lorenzini – Introduzione

Pubblichiamo con piacere una serie di articoli del collaboratore di lunga data di State of Mind Roberto Lorenzini, psichiatra e psicoterapeuta cognitivo. La serie è dedicata a un tema affascinante e stuzzicante: la monogamia e tutte le sue implicazioni psicologiche, affettive, relazionali e, perché no, sessuali. Non si tratta di una rivisitazione neutra. Lorenzini propone una tesi forte: la monogamia non funziona. Per incuriosire il lettore pubblichiamo anche l’indice e subito dopo, il primo articolo che espone la tesi centrale della serie. Seguiranno poi gli altri lavori che sviluppano e argomentano la tesi.

MONOGAMIA E TRADIMENTI(Nr. 1) Introduzione

 

Indice della serie di articoli Monogamia e tradimenti

 

Monogamia e tradimenti: introduzione

La monogamia non è naturale nella maggior parte delle specie viventi e tanto meno negli umani che tuttavia se la sono imposta culturalmente probabilmente come garanzia soprattutto per il maschio della appartenenza a lui della prole. È tuttavia evidente che tale scopo non è affatto raggiunto e, di contro, l’imposizione della monogamia come golden standard, comporta molti più problemi di quanti tenti di risolverne. In primo luogo, il traditore sperimenta sensi di colpa ed è costretto ad agire di nascosto interrompendo qualsiasi comunicazione profonda e significativa con il partner ufficiale. Tale interruzione della comunicazione allontana i due partner originari più dello stesso tradimento e li rende progressivamente estranei.
 Dall’altro canto il tradito sente di aver subito un danno ingiusto contra legem e per questo prova rabbia e desiderio di vendetta che uniti al problema di ristabilire un immagine sociale rispettabile lo porta a dover agire non tanto per riconquistare l’amore perduto ma per ristabilire l’ordine costituito anche a costo i danneggiare quanto di buono c’era nel rapporto, come ad esempio i figli.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO L’IMMAGINE:

MONOGAMIA E TRADIMENTO - VIGNETTA

 

Nella serie di articoli si esaminano da un punto di vista evoluzionistico i diversi ruoli e i conseguenti vissuti che maschi e femmine hanno nella vicenda riproduttiva, pur spinti dallo stesso scopo di massima replicazione dei propri geni.
 Dall’analisi di come sono attualmente nella realtà i rapporti tra i due sessi, perlomeno nella società occidentale, la serie di articoli giunge a concludere che il mantenere come golden standard la monogamia con lo stesso partner per tutta la vita sia un mito dannoso per il benessere individuale e per il successo evolutivo della specie.

Questa serie di articoli si pone l’obiettivo di riflettere sul tema delle relazioni affettive e sessuali che sono al centro delle sofferenze dei clienti della psicoterapia nella stragrande maggioranza dei casi assolutamente in primo piano e nei restanti altri come effetti secondari. Nella nostra attuale cultura occidentale il modello standard della coppia eterosessuale monogamica all life è esso stesso la causa di gran parte della sofferenza perché questa normalità per così dire “ideale” si discosta grandemente dalla normalità statistica. A tal proposito in alcuni degli articoli della serie saranno riportati alcuni dati epidemiologici recuperati su internet e dunque senza l’accuratezza scientifica che necessiterebbe una attenta campionatura, ma che comunque servono a dare un’idea.

 

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Monogamia & Ossitocina

 

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Alle origini della Famiglia: i Processi Evolutivi verso la Monogamia.

 

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Motor imagery nel calcio a 11

Lo studio di Seif-Barghi et al. (2012) ha dato il via ad una serie di ricerche, che prevedono l’inserimento all’interno del normale allenamento di calcio, di un training specifico di immaginazione motoria.

Introduzione

Il concetto di immaginazione è applicato in diversi settori (es. educativi, scolastici). Nell’ambito sportivo l’immaginazione è descritta come il ‘pilastro centrale della psicologia dello sport‘ applicata e definita come l’utilizzo di tutti i sensi per creare o ricreare un’esperienza sportiva nella mente con l’obiettivo di migliorare le prestazioni sportive durante l’allenamento e la competizione. Questo è un metodo utilizzato frequentemente per facilitare l’apprendimento in uno sport, durante lo svolgimento di un esercizio fisico, per supportare gli atleti quando richiamano e recuperano le informazioni memorizzate per costruire immagini significative tramite l’esercitazione. Gli studi hanno dimostrato che molti degli atleti di livello più alto utilizzano regolarmente le immagini per migliorare le prestazioni con vari gradi di successo. Sebbene alcuni studi abbiano indicato che gli atleti possono trarre beneficio dall’uso di immagini nello sport per migliorare le prestazioni, nel campo molto esigente degli sport ‘aperti’, ovvero quegli sport in cui sono presenti diversi stimoli (palla, avversario e compagni), con circostanze imprevedibili come nel calcio, le sfide che i giocatori affrontano possono essere diverse.

Recentemente alcuni studi trasversali hanno rivelato che i giocatori di calcio utilizzano diversi tipi di immagini cognitive e motivazionali a causa delle specifiche esigenze situazionali da cui scaturiscono stimolazioni differenti. Per saperne di più su come i giocatori di élite si esibiscono in situazioni di gioco reale, Jordet (2005) ha adattato ed esaminato un approccio ecologico attraverso l’addestramento dell’immaginazione motoria nei giocatori di calcio. L’autore ha cercato di descrivere le informazioni ambientali e specifici processi cognitivo-comportamentali che sono necessari per utilizzare le informazioni al fine di selezionare il target e completare l’azione. Le immagini costituite potrebbero facilitare il controllo e l’esecuzione potenziali dei partecipanti in tutti i tipi di azioni con la palla, specialmente nelle situazioni in cui vi è l’intenzione di effettuare un passaggio ad un compagno. Con riferimento ai modelli di immaginazione motoria, varie velocità di immaginazione potrebbero rispettivamente determinare esiti di movimento diversi. Pertanto si raccomanda di integrare le tecniche di immaginazione nei programmi di allenamento mentale in base al contesto e all’obiettivo specifico.

Per ovviare a tale problematica uno studio di Seif-Barghi et al. (2012) ha utilizzato le immagini in tempo reale per simulare azioni motorie mentali (il passaggio) nella stessa velocità e tempistica delle situazioni reali. Sebbene il passaggio sia una tecnica che richiede un’azione precisa sulla palla, in molte situazioni, è fondamentale che il giocatore possa orientarsi verso altri segnali ambientali e selezionare il compagno smarcato, nel modo giusto. Inoltre, è importante eseguire la tecnica perfettamente sotto la pressione della partita che richiede un’immagine più chiara dell’azione. Detto ciò, è consigliabile concentrarsi su un approccio ecologico, il che significa ‘il come’ le prestazioni delle varie abilità sono modulate in situazioni del mondo reale. Lo studio di Seif-Barghi et al. (2012) ha dato il via ad una serie di ricerche, che prevedono l’inserimento all’interno del normale allenamento di calcio, di un training specifico di immaginazione motoria. A tal fine lo scopo di questo articolo è di esplicitare le peculiarità dello studio di Seif-Barghi et al. (2012) per rendere fruibili le conclusioni nel campo operativo della psicologia dello sport.

Descrizione dello studio The Effect of an Ecological Imagery Program on Soccer Performance of Elite Players di Seif-Barghi et al. (2012)

Sessantanove calciatori che hanno preso parte ai campionati nazionali di calcio in quattro categorie di età tra cui U16, U19, U21 e over 21 sono stati assegnati in modo casuale ai gruppi di immaginazione e di controllo. In primo luogo è stato effettuato un colloquio per esaminare il personale uso di immagini in corso e precedente da parte dell’atleta. Le interviste sono state programmate sulla base del ‘questionario di valutazione delle immagini’ che viene spesso utilizzato in ambito di psicologia dello sport. Il copione dell’intervista includeva semplici domande suggerite da Chandler (2005) come ‘Quante volte hai praticato l’immaginazione nell’ultima settimana?’ e ‘Hai cambiato lo script di immagini o creato un nuovo copione per soddisfare le tue esigenze individuali? E, in caso affermativo, spiega cosa hai immaginato’.

I partecipanti al gruppo di immaginazione hanno completato un programma di immaginazione cognitiva affiancato ad un training di 8 settimane di visualizzazione di alcuni video su come realizzare un passaggio efficace includendo sia l’apprendimento cognitivo specifico (diverse tipologie di passaggio) che l’apprendimento delle immagini generali cognitive sulla performance di passaggio. Il training relativo alle immagini mentali si è protratto per un periodo di 8 settimane durante il quale i partecipanti sono stati coinvolti in una sessione di immaginazione settimanale guidata dall’istruttore. Il programma di training consisteva in una sessione introduttiva per la definizione e la spiegazione delle immagini sportive e della sua applicazione nel calcio. I giocatori hanno completato gli esercizi per sviluppare inizialmente immagini esterne e interne. Le immagini interne riguardano una prospettiva in prima persona in cui il focus dell’immaginazione è spostato sul proprio corpo. Le immagini esterne invece riguardando una prospettiva in terza persona in cui il focus dell’immaginazione è spostato sull’ambiente esterno (prospettiva ecologica). Il training ha anche sviluppato una congruenza temporale tra la velocità del gesto eseguito e la velocità del gesto immaginato.

Si consigliava di praticare l’immaginazione con gli occhi chiusi all’inizio, poi, dopo una fase di familiarizzazione, si poteva continuare – secondo la propria preferenza – con gli occhi aperti o chiusi. Nel dettaglio, gli step del training erano i seguenti:

  • Rilassare la mente e concentrarsi nel qui ed ora.
  • Immaginare una scena di gioco di calcio reale.
  • Mettere sé stessi nella scena immaginata
  • Collocare gli stimoli ambientali, come ad esempio le posizioni degli altri e i movimenti.
  • Iniziare la pratica mentale per eseguire in modalità immaginativa il meglio delle prestazioni possibili.

Ai giocatori è stato insegnato a posizionarsi e a orientarsi a livello immaginativo in situazioni di gioco reali in cui erano inclusi avversari, compagni di squadra, suoni e voci e a cercare il miglior compagno per eseguire il passaggio (prospettiva ecologica).

Un ulteriore training ha previsto l’utilizzo di immagini per sviluppare una tecnica perfetta di passaggio. In questa fase occorreva concentrarsi sui movimenti del piede, gli angoli di inclinazione dell’arto, la velocità, il punto in cui colpire la palla, la forza del calcio e infine il direzionare la palla verso il destinatario (immagini cognitive specifiche).

I risultati hanno mostrato che i giocatori nel gruppo di immaginazione potevano constatare un aumento della percentuale di passaggi eseguiti correttamente rispetto al gruppo di controllo. Questo miglioramento può essere stato attribuito a una serie di fattori:

  • In primo luogo, i giocatori sono stati esposti a una tecnica psicologica (cioè l’immaginazione motoria) e hanno appreso come utilizzare i suoi vari aspetti e combinazioni che potrebbero essere facilmente incorporati nei programmi di allenamento quotidiani.
  • In secondo luogo, l’utilizzo di diversi tipi di immagini ha permesso ai partecipanti di fare una scelta specifica in linea con le loro abilità e anche in base agli scenari che avevano sperimentato prima. Quindi hanno imparato a usare le immagini in modo pratico e creativo.

La scoperta più interessante riguarda l’utilizzo delle immagini in un’abilità aperta, in uno sport di squadra e in situazioni del mondo reale. Le strategie e le tecniche applicate in tutti gli scenari reali del calcio sono composte da abilità tecniche specifiche e da abilità motorie generali, pertanto, i giocatori utilizzano immagini cognitive specifiche in combinazione con immagini cognitive generali al fine di svolgere compiti complessi (come il passaggio). Il gruppo ‘misto’ in cui gli atleti hanno effettuato un training di entrambe le abilità di immaginazione ha raccolto risultati nettamente superiori agli altri due gruppi. Il dato più rilevante riguarda la precisione dei passaggi eseguiti nelle successive sedute di allenamento (+33%), e nella velocità di esecuzione del gesto (+25%). Questo risultato sembra essere coerente con i risultati di Jordet (2005) che hanno riportato che i giocatori di calcio possono trarre vantaggio dall’uso di immagini quando cercano di ottimizzare la ricerca di informazioni rilevanti nelle situazioni di gioco reale al fine di avviare i processi di decision making.

Indicazioni applicative utili

Quando si lavora sulle abilità mentali, è importante:

  • Mantenere le sessioni brevi e interessanti per i giocatori di calcio (circa 10-15 minuti in ogni sessione di allenamento).
  • Utilizzare le immagini secondo lo script quotidianamente sia prima sia dopo l’allenamento o le competizioni per affinare la tecnica su come eseguire ancora meglio.
  • Fornire un feedback al termine di ogni sessione di formazione supervisionata al fine di aiutare gli atleti ad aggiornare le loro abilità di immaginazione.

Conclusioni

In conclusione possiamo affermare che può essere naturale per i giocatori utilizzare immagini cognitive specifiche (tecniche di passaggio) in combinazione con immagini cognitive generali (prospettiva ecologica) al fine di svolgere compiti complessi similmente alla situazione reale di gioco. I giocatori di calcio possono trarre vantaggio dall’uso di immagini quando cercano di ottimizzare la ricerca e la percezione di informazioni rilevanti nelle situazioni reali di gioco al fine di avviare i processi di decision making. Infatti, al fine di ottenere soluzioni originali e di successo in situazioni di gioco, i giocatori devono basare le proprie decisioni su tutte le informazioni rilevanti relative al proprio ambiente (posizioni o comportamento previsto di compagni di squadra e avversari, giocatori emergenti inaspettatamente, ecc.) e  selezionare la soluzione più promettente considerando sia le caratteristiche contingenti dello stimolo che le informazioni rilevanti per il compito memorizzate nella memoria (ad es. inibendo approcci risolutivi inadeguati, valutando l’efficacia e l’adeguatezza della mossa immaginata o anticipata, ecc.).

Le soluzioni creative nelle situazioni sportive sembrano quindi essere caratterizzate da processi simili ad altre forme di problem solving creativo (Guilford, 1967), e sembrano affidarsi fortemente a processi attenzionali. Tali processi di problem solving si avvalgono di processi di astrazione di situazioni contingenti reali, tipiche dei meccanismi di immaginazione, in cui l’atleta, seguendo una prospettiva ecologica, immagina se stesso in una situazione di gioco reale mentre porta a termine un’azione tipica di quello sport (calciare la palla, smarcarsi, crossare). La ricerca di soluzioni creative per la risoluzione di situazioni di gioco complesse sottenderebbe quindi un’abilità di immaginazione motoria via via sempre più efficace. Tale risultato potrebbe avere implicazioni importanti nell’impostazione di training specifici in fase di allenamento in cui l’attività immaginativa possa agevolare l’incremento della capacità creativa nella ricerca di soluzioni in situazioni di gioco complesse.

Comprendere i bambini. Sviluppo ed educazione nei primi tre anni (2019) di Silvana Quattrocchi Montanaro – Recensione del libro

Il libro Comprendere i bambini di Silvana Quattrocchi Montanaro, medico e docente di neuropsichiatria infantile scomparsa alcuni anni fa, va a coniugare la psicologia dello sviluppo con i capisaldi del metodo educativo montessoriano di cui era una delle maggiori esponenti a livello nazionale.

 

Tra gli aspetti centrali dell’opera troviamo lo sviluppo dell’autonomia del bambino e il concetto di periodo sensibile di apprendimento: soltanto seguendo lo sviluppo naturale dei bambini, i loro periodi di maggiore assimilazione, è possibile educare il potenziale umano, che nei primi 3 anni di vita è enorme.

L’autrice tratta inizialmente la vita prenatale come periodo fondamentale dello sviluppo personale, mettendo in luce le conseguenze a breve e lungo termine di ciò che accade durante questa fase:

Il concepimento e la gravidanza sono il primo grande capitolo della nostra storia personale.

Le emozioni e le esperienze della vita prenatale e dei successivi tre anni influiscono sulla costruzione delle strutture cerebrali.

Ci parla della nascita e delle prime fasi di vita nei suoi aspetti psicologici più importanti, la separazione e l’attaccamento. Mette in luce i bisogni fondamentali del neonato e parla in modo esteso della funzione dell’allattamento materno, sia a livello nutrizionale che psicologico.

E’ una delle pioniere nel trattare il ruolo padre e la sua fondamentale importanza nelle varie fasi di vita: dal corso di accompagnamento alla nascita al travaglio, dai primi mesi di vita agli anni successivi. Risulta desueta, invece, la necessità da lei sostenuta di avere due genitori di sesso diverso: attualmente, infatti, disponiamo di decine di ricerche che dimostrano che i bambini con due genitori dello stesso sesso non incontrano maggiori difficoltà di un bambino che cresce con genitori di sesso differente, perché la struttura familiare e l’identità di genere non influenzano la qualità della genitorialità.

Ci parla poi del divezzamento e dell’alimentazione autonoma:

Mangiare è un’azione che deve dare piacere in ogni tempo della vita.

Mette in evidenza come siano importanti anche gli elementi simbolici dell’alimentazione, ad esempio il poter stare seduti al tavolo al pari degli altri. Lo sviluppo dell’alimentazione autonoma è un altro aspetto che riveste importanza rispetto alle soddisfazioni date dall’indipendenza e dai propri progressi.

Per quanto riguarda lo sviluppo del movimento ribadisce l’importanza per il bambino di poter sperimentare la libertà. Consiglia, seguendo sempre le orme montessoriane, di limitare molto i seggiolini, i dondolini e i box se non necessari.

Abbiamo bisogno di attaccamento e separazione al momento opportuno e questa alternanza deve iniziare alla nascita riconoscendo ai neonati la necessità dello spazio di movimento che diviene subito lo spazio dello sviluppo personale, fisico e psichico.

L’autrice ci spiega quanto sia rilevante far sperimentare ai bambini attività quali spolverare, apparecchiare e altri lavori domestici da quando iniziano a camminare:

I lavori di vita pratica rispondono esattamente a ciò che i bambini cercano a questa età: un’attività verso la quale dirigere la propria energia muscolare, ma che è capace, al tempo stesso, di produrre un risultato visibile e utile per se stessi e per le persone che vivono con loro. Questi compiti rappresentano l’occasione unica di perfezionare le capacità motorie mentre si ottiene la ricompensa e la soddisfazione di un risultato concreto.

Va anche a sfatare alcuni falsi miti, secondo i quali i bambini sarebbero incapaci di rispettare l’ambiente e controllare il movimento.

Per quanto riguarda il movimento ci parla anche dell’importanza della danza, di muovere il corpo a ritmo. Il ritmo è in relazione con la vita prenatale: pensiamo ad esempio al battito cardiaco e ai dondolamenti. Sviluppare il movimento non significa solo potenziare le connessioni tra neuroni e la muscolatura, ma implica anche uno sviluppo psicologico, perché i bambini recepiscono informazioni sulla loro persona e sull’ambiente in cui vivono. Bambini liberi di muoversi sviluppano una fiducia di base in sé stessi, sicurezza in sé, senso di indipendenza e autonomia. Se vengono costantemente ostacolati nella loro voglia di muoversi e di partecipare alle attività domestiche, possono imparare che per raggiungere i propri scopi devono combattere contro l’ambiente anziché collaborare, e può essere una causa dello sviluppo dell’aggressività.

L’autrice ci parla in modo esauriente anche della comunicazione e dell’apprendimento del linguaggio, come si sviluppa e cosa possiamo fare per sostenere questi progressi, anche per quanto riguarda l’apprendimento delle lingue straniere.

Vengono infine trattate le crisi evolutive, con cui si intendono momenti di passaggio e di sviluppo: la nascita, il divezzamento e l’oggettivazione, l’opposizione. Ci fa capire come non siano necessariamente momenti difficoltosi se come adulti impariamo a porci nell’ottica del bambino, a comprendere le sue motivazioni, e a far instaurare al bambino un rapporto di collaborazione col suo ambiente.

Lungo tutto il libro ci ricorda insomma quanto sia fondamentale il ruolo degli adulti come modelli e mediatori, quanto la presenza attenta e che nello stesso tempo lascia il bambino libero di sperimentare possa essere di esempio e supporto per la sua realizzazione.

 

Competenza sociale, problematiche comportamentali e bambini affetti da sindrome di Tourette

L’obiettivo del presente studio è quello di indagare se i bambini con sindrome di Tourette abbiano più probabilità di presentare una minore competenza e un minore impegno sociale.

 

Le relazioni sociali di successo contribuiscono alla salute fisica e mentale generale, mentre i deficit sociali e le scarse competenze sociali possono mettere i bambini a rischio di interazioni sociali problematiche e influire negativamente sulla salute generale. La competenza sociale, definita a grandi linee da Blumberg e colleghi (2008) come ‘le abilità e i comportamenti necessari per andare d’accordo con gli altri ed essere benvoluti’, si è dimostrata positivamente associata alla partecipazione ad attività sociali.

I bambini con disturbi mentali, come la sindrome di Tourette (TS), sono a rischio di avere relazioni sociali inadeguate. Oltre ad avere tic, gli individui con la sindrome di Tourette sono a maggior rischio per una serie di disturbi mentali, emotivi o comportamentali coesistenti, tra cui il disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD), il disturbo ossessivo-compulsivo, l’ansia, la depressione e il disturbo dello spettro autistico (Hirschtritt et al.,2015; Darrow et al., 2017), che potrebbero influenzare lo sviluppo e il mantenimento delle relazioni sociali, e contribuire a un livello di competenza sociale complessivamente inferiore rispetto ai bambini senza sindrome di Tourette (Eddy & Cavanna, 2013; Evans & Cavanna, 2016).

Pertanto, questo articolo esamina gli indicatori di competenza sociale e di partecipazione sociale tra i bambini con e senza sindrome di Tourette per aiutare e migliorare gli sforzi di identificazione precoce e di intervento.

L’obiettivo del presente studio è stato quello di indagare se questi bambini presentassero più probabilità di avere una minore competenza e un minore impegno sociale, oltre che un maggior numero di problemi comportamentali, minori abilità sociali e minori livelli di partecipazione alle attività sociali, rispetto ai bambini senza sindrome di Tourette, utilizzando un’ampia fonte di dati rappresentativa a livello nazionale. Infine, è stato esaminato il ruolo della gravità della sindrome di Tourette e dei disturbi mentali, emotivi o comportamentali coesistenti. Gli autori hanno utilizzato i dati del National Survey of Children’s Health del 2007 (Blumberg et al., 2012), l’unica indagine rappresentativa a livello nazionale che include indicatori relativi alla competenza sociale e alla sindrome di Tourette: è stata progettata per monitorare la salute di tutti i bambini non istituzionalizzati di età compresa tra 0 e 17 anni che vivono negli Stati Uniti. Essa comprende domande relative alla sindrome di Tourette, ad altri disturbi mentali, emotivi o comportamentali (es. ‘Un medico o un altro operatore sanitario le ha mai detto che [nome del bambino] ha avuto la sindrome di Tourette/ADHD/ASD/Disturbo d’ansia/altro’, ‘[nome del bambino] ne soffre attualmente?’, ‘Qual è la gravità attuale del disturbo?’), alla competenza sociale e alle attività sociali. Per esplorare i problemi comportamentali, ai genitori è stato chiesto quanto spesso il loro bambino (1) discute, (2) fa il prepotente o è crudele o cattivo con gli altri, (3) è disobbediente, e (4) è testardo, imbronciato o irritabile. Mentre, le domande per la scala delle abilità sociali erano se (1) il bambino mostra rispetto per gli insegnanti e i vicini, (2) va d’accordo con gli altri bambini, (3) cerca di capire i sentimenti degli altri e (4) cerca di risolvere i conflitti con i compagni di classe, la famiglia o gli amici (modalità di risposte: da 1 = mai a 5= sempre).

Dai risultati è emerso che i bambini con la sindrome di Tourette (il 69.5% di età compresa tra i 12 e i 17 anni) erano significativamente più propensi ad avere disturbi mentali, emotivi o comportamentali rispetto ai bambini senza questa sindrome (78.7% vs 16.4%): nello specifico più disturbi esternalizzanti, internalizzanti e dello spettro autistico. Tra i bambini che hanno ricevuto una diagnosi di sindrome di Tourette, il 62.4% aveva attualmente tale sindrome e di questi il 72.9% in forma lieve, e il 27.1% in forma moderata o grave. Inoltre, è emerso che i bambini con più problemi comportamentali hanno punteggi più bassi circa le abilità sociali. I bambini con la sindrome di Tourette, in media, avevano più probabilità di mostrare problemi comportamentali, come ad esempio ‘litiga troppo’, ‘fa il prepotente’, ‘è crudele con gli altri’, ‘è testardo’, ‘è disobbediente’, e meno abilità sociali positive, come ad esempio ‘mostra rispetto verso gli adulti’, ‘va d’accordo con gli altri bambini’, ‘cerca di capire i sentimenti degli altri’, ‘cerca di risolvere i conflitti’, rispetto ai coetanei privi della suddetta diagnosi. Nonostante le differenze nei punteggi delle competenze sociali, i bambini con la sindrome di Tourette erano simili a quelli senza sindrome di Tourette nella loro partecipazione ad attività sociali organizzate (come sport, club o altri eventi e attività). Il livello di gravità della sindrome è correlato agli indicatori di competenza sociale e partecipazione alle attività sociali: i bambini con sindrome di Tourette da moderata a grave avevano maggiore propensione al litigio e maggiori problemi comportamentali, più basse abilità sociali complessive, minori probabilità di partecipare ad attività, sia rispetto ai pazienti con una gravità lieve, che a coloro che non hanno la sindrome di Tourette.

In conclusione, grazie al presente studio è stato possibile affermare che la competenza sociale era mediamente più bassa tra i bambini il cui genitore ha riferito la presenza di una diagnosi di sindrome di Tourette, i quali a loro volta avevano più problematiche di tipo comportamentale rispetto a coloro che non avevano mai avuto una simile diagnosi.

 

Effetto Empatia. Le 7 chiavi delle neuroscienze per trasformare il nostro modo di amare, lavorare e comunicare (2020) di Helen Riess – Recensione del libro

L’empatia è necessaria e utile in ogni aspetto della vita umana. Helen Riess nel suo libro Effetto Empatia introduce le 7 chiavi dell’empatia.

 

Abstract

Cos’è che mi permette di entrare in relazione con qualcuno? Perché non sempre riusciamo ad esprimere le nostre emozioni e perché spesso interpretiamo in modo non corretto quelle degli altri? Tutti questi interrogativi possono riassumersi in un interrogativo solo: che cos’è l’empatia? Può essere insegnata? Queste domande trovano risposta nel libro Effetto Empatia. Le 7 chiavi delle neuroscienze per trasformare il nostro modo di amare, lavorare e comunicare, scritto dalla psichiatria Helen Riess che, dopo aver imparato le basi neuroscientifiche dell’empatia, sviluppò proprio un intervento di formazione sulla stessa testando poi i risultati attraverso uno studio randomizzato controllato.

L’empatia: la capacità umana che può essere insegnata

La dottoressa Riess, nel Dipartimento di Psichiatria del Massachusetts General Hospital (MGH) istituì l’Empathy and Relational Science Program in cui iniziò tutte quelle ricerche tese a mostrare come effettivamente l’empatia fosse una capacità che può essere insegnata, e che non fosse quindi solo una caratteristica innata dell’essere umano. Nelle ricerche condotte, sono stati reclutati medici specializzandi in sei discipline differenti per studiare se, dopo aver ricevuto una breve formazione all’empatia, le loro capacità di comprendere i segnali emotivi dei pazienti miglioravano e con esse la capacità di reagire in modo efficace. Nello specifico la formazione consisteva nell’imparare a interpretare in modo corretto le emozioni dei pazienti, attraverso lo studio del linguaggio del corpo e della postura. Non solo: è stato insegnato loro anche come gestire situazioni difficili e avere un controllo sulle proprie emozioni. Come avveniva la valutazione? Erano direttamente i pazienti a valutare le capacità empatiche dei medici, prima e dopo la formazione, senza che i pazienti stessi sapessero i dettagli dello studio. Il risultato: l’empatia poteva essere insegnata e appresa. I medici che parteciparono alla formazione, infatti, ricevevano un punteggio decisamente più alto sulla scala dell’empatia rispetto a chi non aveva preso parte alla formazione. Questo incremento di empatia porta con sé altri due risultati: i pazienti si fidano di più del proprio medico portando beneficio anche alla salute stessa, ma non solo. I medici che hanno un livello maggiore di empatia nelle interazioni con i propri pazienti risultano più soddisfatti del proprio lavoro e quindi meno esausti.
Helen Riess arrivò così a fondare la Empathethics Inc., un’azienda il cui focus è la formazione all’empatia attraverso le cosiddette 7 chiavi dell’empatia.

Prima di addentrarci nello specifico del libro Effetto Empatia, la Riess sottolinea che l’empatia ha componenti sia emotive che cognitive, motivo per il quale quando proviamo una reazione empatica, e quindi sentiamo quanto sente l’altro, riusciamo a reagire in modo appropriato e non come se poi quell’emozione specifica fosse davvero la nostra.

Che cos’è l’empatia? Quali sono le sue dimensioni?

Prima di addentrarsi nel vivo dell’empatia, Helen Riess fa un excursus su questo termine. Vediamo la comparsa del termine empatia agli inizi del ‘900 con il termine tedesco Einfühlung che equivale e dire ‘immedesimazione’. Questo termine veniva utilizzato dagli esteti tedeschi con l’intento di descrivere l’esperienza di osservare un’opera d’arte fino ad arrivare a sentirsi parte dell’esperienza emotiva evocata. Il primo significato dato quindi all’empatia è legato a una connessione con l’arte. Vediamo poi nel corso del tempo come questo termine viene confuso con altri. È un esempio la differenza tra la parola sympathy ed empathy: la prima è provare un senso di pena per qualcuno, quindi più simile alla compassione, la seconda invece implica il senso di condivisione dell’emozione.

A questo punto emblematico è il rimando allo psicologo Carl Rogers che sottolinea l’importanza del come se: io posso condividere l’emozione dell’altro, ma come se fosse la mia, altrimenti, se mi concentrassi solo sul mio disagio non potrei arrivare ad una risposta empatica e quindi a fornire il mio aiuto. Bisogna quindi comprendere la differenza tra empatia proiettiva e autentica proiezione empatica. Nella prima non si crea un’esperienza di connessione, ma viene utilizzata l’esperienza dell’altro per poter parlare delle proprie esperienze. L’empatia comprende invece la nostra capacità cognitiva dei sentimenti degli altri, distinguendo quindi i nostri sentimenti dai loro, come sottolineò nel 1955 il Reader’s Digest.

Arriviamo così al 1959, quando lo psicoanalista Heinz Kohut definisce l’empatia come un’introspezione vicariante, quindi come la capacità di considerare i sentimenti degli altri come se fossero i nostri, ma in un secondo momento analizzarli in modo oggettivo.

Dopo un breve excursus sul termine empatia si entra più nel vivo di cosa sia questa capacità umana. Molte ricerche hanno dimostrato che le stesse reti neurali che si attivano quando si vive un’esperienza, ad esempio di dolore in prima persona, sono le medesime che si attivano quando si osserva qualcuno viverla. Il nostro cervello è pronto e predisposto a provare dolore per gli altri fondamentalmente per due ragioni. Una si può definire per sopravvivenza: il cervello osserva cosa provoca dolore nell’altro e lo evita per se stesso. In secondo luogo, ma non meno importante, si prova dolore anche solo guardando qualcuno provarlo, in modo da aiutarlo. Ci sono dei neuroni specializzati in questo, nel capire cosa accade all’altro in quel substrato di mente che si può definire intelligenza della mente condivisa.

Molte ricerche ancora dimostrano come l’empatia sia cablata nel nostro cervello e abbia tre dimensioni: affettiva, cognitiva e la preoccupazione empatica.

Riassumendo: prima condividiamo il sentimento altrui, in un secondo momento – grazie all’aspetto cognitivo – comprendiamo cosa l’altro sta provando e per ultimo, l’unione di questi due aspetti porta alla ‘reazione empatica’: ci preoccupiamo concretamente di offrire il nostro aiuto all’altro. Non sempre però questa reazione porta ad un atto concreto, spesso sfocia ‘semplicemente’ in un senso di compassione.

Una vera svolta dell’empatia si ha nel 1996 quando un gruppo di ricercatori a Parma, guidati da Rizzolatti, fece una scoperta – per serendipity – eccezionale. Nello specifico ciò che scoprirono fu che l’area della corteccia premotoria, chiamata F5, dei macachi, si attivava sia quando erano loro stessi a compiere un’azione, sia quando la vedevano compiere. Senza volerlo scoprirono i neuroni specchio.

Dopo il 1996, furono molti gli studi sulla reazione emotiva di fronte le emozioni degli altri, come quelli della neuroscienziata Singer nel 2004, che in un suo articolo parla della reazione che abbiamo quando osserviamo il dolore altrui dimostrando come nel campo della scienza si cominci a spostare l’attenzione, dalle emozioni individuali, alle reazioni di chi vede l’emozione dell’altro.

In-group e l’out-group: cosa fa scattare l’empatia

Le tante scoperte in ambito scientifico sull’empatia mostrano che a livello neurobiologico siamo tutti connessi, ma ci sono degli aspetti che possono aumentare o diminuire il nostro grado di empatia.

Proviamo infatti maggiore empatia per le cause che ci sono più vicine, tendenza che viene chiamata dagli psicologi favoritismo dell’in-group, a discapito dell’out-group. Qui un punto fondamentale: alcuni studi hanno dimostrato che in molti individui anche il colore della pelle inficia sulla reazione empatica. Ad esempio hanno dimostrato che soggetti bianchi hanno un ritardo nel valutare espressioni di soggetti con la pelle nera. Ciò porta con sé una conseguenza che dovrebbe essere naturale: formare all’empatia è fondamentale per non continuare a rischiare che la nostra società compia errori legati all’incomprensione emotiva. Alla luce di tutte queste scoperte, una formazione all’empatia è necessaria perché ci sono molte professioni che possono portare alla compassion fatigue, come medici, insegnanti, infermieri. Un equilibrio tra l’empatia cognitiva e quella affettiva è pertanto necessario. Anche chi cerca di compiacere gli altri in ogni momento rischia questa specie di burnout. Spesso infatti chi cerca di fare felice qualcuno, crede di farlo perché mosso da empatia, ma magari il più delle volte lo fa per sentirti accettato. Come si capisce questo? Perché ci aspettiamo qualcosa in cambio e quando questo tarda ad arrivare ci adiriamo. Tra le storture dell’empatia, o per utilizzare le parole dell’autrice del libro, un’altra forma di impostura dell’empatia, è quella rappresentata dai cosiddetti ‘genitori elicottero’, quelli cioè che sono troppo protettivi nei confronti dei propri figli. In questo modo, i loro figli non avranno mai la possibilità di sviluppare le proprie capacità. Non solo: si aspetteranno che in ogni ambito, come quello lavorativo, ci sia questo trattamento di protezione.

È evidente dunque come una formazione all’empatia sia necessaria e utile in ogni aspetto della vita umana. È qui che Helen Riess introduce quindi le già citate 7 chiavi dell’empatia.

E.M.P.A.T.H.Y.® e le sue 7 chiavi

La comunicazione non verbale e l’empatia sono i due aspetti che ci potrebbero rendere migliori come esseri umani, eppure sono i due aspetti che vengono più lasciati da parte in ambito educativo. Fin da piccoli ci viene insegnato cosa dire e al massimo come dirlo, ma nessuno ci insegna come essere e come lasciare che gli altri siano. Imparare invece a migliorare la comunicazione non verbale migliorerebbe molti aspetti, primo tra tutti quello tra medico e paziente. Si instaura qui il discorso sul programma innovativo messo a punto dalla psichiatria Riess: E.M.P.A.T.H.Y.®

Inizialmente pensato in ambito sanitario, questo programma mira alla formazione empatica di medici e può essere esteso a tutte le categorie e professioni. L’obiettivo è solo uno: costruire relazioni più empatiche con il mondo. Per ogni lettera dell’acronimo ideato, c’è un significato della sua teoria.

Analizziamoli brevemente uno per uno.

La lettera ‘E’ sta per ‘entrare in contatto con l’espressione dell’altro’, il cervello infatti è molto sensibile agli sguardi. La ‘M’ sta per ‘muscolatura facciale’. Le espressioni facciali infatti mostrano molto di ciò che si sta provano interiormente, cogliere quindi il giusto significato delle espressioni altrui ci permette di entrare più facilmente in empatia. La ‘P’ per ‘postura’. Questa, come le espressioni, rivela come si sente davvero la persona che abbiamo di fronte. La ‘A’ per ‘affetto’, il termine scientifico per indicare l’emozione. Noi dobbiamo essere in grado di cogliere e di saper dare un nome all’emozione dell’altro, solo in questo modo siamo in grado di comunicare con qualcuno. La ‘T’ per ‘tono di voce’, che trasmette più del 38% del contenuto emotivo della comunicazione non verbale. La ‘H’ sta per ‘ho uno ascolto attivo’. L’ascolto empatico è proprio quello attivo e riflessivo che è molto difficile perché implica il dover mettere da parte le proprie emozioni a favore del sentire altrui. Dal punto di vista neurologico l’ascolto empatico implica che cerchiamo di ignorare i segnali di pericolo che ci manda l’amigdala mentre ascoltiamo il racconto dell’altro. Questo tipo di ascolto permette di entrare in sintonia con l’altro su due livelli: emotivo e cognitivo. In psicologia si utilizza l’esercizio del ‘parla-ascolta’ che consiste proprio nel parlare per dieci minuti, prima l’uno e poi l’altro, senza interruzione alcuna. Bisogna prestare attenzione al motivo per cui una persona è così turbata, in questo modo si riesce magari a trovare soluzioni a cui non si era arrivati prima. Infine, la lettera ‘Y’ sta per ‘you, la vostra risposta’ e con questo non si intende una risposta verbale. La risposta dell’empatia infatti, viene avvertita prima di tutto a livello fisiologico grazie ai circuiti cerebrali condivisi. Si inserisce in questo discorso uno studio del ricercatore Carl Marci che ha indagato se ci fosse una correlazione fisiologica tra i medici e i pazienti durante le visite e se questa correlazione fisiologica fosse correlata alle valutazioni sull’empatia dei medici fornite dai  pazienti. Il risultato di questa ricerca è che, se manca la risposta empatica, non c’è neanche la sincronizzazione fisiologica che altrimenti esisterebbe.

Le 7 chiavi dell’empatia ci aiutano dunque ad affinare e ad incrementare questa capacità umana, cercando così di evitare quella divisione vista prima tra l’in-group e l’out-group per non parlare anche della tendenza dell’essere umano a creare un out-group anche all’interno del proprio in-group distruggendo così interamente l’empatia.

Una formazione alla stessa, ci aiuterebbe nella direzione di ricostruzione piuttosto che distruzione.

L’empatia che nasce e cresce con noi

Il sesto capitolo, Crescere con empatia, è molto interessante perché affronta il tema dello sviluppo della capacità empatica. Dal momento in cui veniamo al mondo, attraverso lo sguardo dei nostri genitori, ci imbattiamo per la prima volta nell’esperienza empatica. Gli schemi empatici iniziano intorno all’età di due anni, ma già appena nato il bambino, con il rapporto dei genitori, è posto di fronte l’empatia, nonostante ancora la sua teoria della mente (quella per cui sono consapevole che ognuno ha i propri stati mentali) non sia ancora sviluppata. Ogni bambino impara poi a sviluppare l’empatia secondo i propri tempi, così come si impara qualsiasi altra capacità, ad esempio il camminare. Un momento cruciale per lo sviluppo cognitivo dell’empatia sembra rintracciarsi intorno agli 8 anni, quando il bambino sviluppa alcune abilità cognitive come l’assunzione di prospettiva grazie alla quale comprende la condizione di vita della persona che ha di fronte. È tra la preadolescenza e l’adolescenza che gli schemi empatici si consolidano iniziando così a delineare che tipo di persona compassionevole sarà il bambino. Arrivando  all’adolescenza, il ragazzo utilizzerà già le sette chiavi dell’empatia precedentemente descritte. In questo hanno un ruolo fondamentale tutte le influenze che il bambino sperimenta, ma soprattutto i genitori che sono lì con e per lui fin dal principio.

Emerge qui la differenza tra due concetti fondamentali per la cura del bambino: l’empatia prossimale e distale. La prima rappresenta una reazione immediata, la seconda ritardata. È fondamentale equilibrare entrambe, un’empatia prossimale è necessaria qualora il bambino piccolo si trovi di fronte un pericolo, ma ci sono dei casi in cui questa empatia è fuori luogo perché incide, o per meglio dire, interferisce, nella vita del piccolo, inficiando quindi il suo sviluppo. Ci sono dei casi infatti in cui è necessario applicare l’empatia distale, ovvero riuscire a fare un passo indietro; questo poi avrà una conseguenza positiva nel bambino, come l’avergli insegnato un’importante lezione di vita. L’esempio che fa l’autrice è calzante: se vostro figlio vi chiede una giustificazione per non aver svolto i compiti, vi sentirete spinti – dall’empatia prossimale – ad aiutare vostro figlio firmandogli la giustificazione. Ma questa è davvero la cosa giusta da fare? O sarebbe il caso – applicando l’empatia distale – di fare un passo indietro non cedendo a favore del suo futuro, perché affrontare le conseguenze della propria pigrizia lo aiuterà a non farlo di nuovo?

È importante comunque sottolineare che eventuali ‘intoppi’ in questo equilibrio empatico non pregiudicano irreparabilmente il futuro del bambino. In aggiunta, il modo in cui l’empatia viene percepita da ognuno di noi, fin dai primi anni di vita, tiene conto di varie combinazioni, quali l’ambiente o il momento: in sostanza il valore dell’empatia varia in ogni istante. La psichiatra rassicura quindi il lettore, sottolineando che non è mai troppo tardi per condurre il bambino ad una giusta e sana comprensione dell’altro. Questo sarà fondamentale in seguito per costruire delle relazioni sane e felici, a differenza di bambini meno empatici che tendono ad adottare di fronte agli altri e alle emozioni, un atteggiamento più aggressivo e insicuro.

Uno dei primissimi modi in cui un genitore insegna l’empatia è attraverso il rispecchiamento. Fu lo psicanalista Heinz Kohut – il fondatore della psicologia del sé – il primo a riconoscere l’importanza del rispecchiamento genitoriale per la crescita sana di un individuo. Il rispecchiamento consiste nel riflesso automatico delle sue espressioni facciali, schemi linguistici e atteggiamenti. Decenni prima che fossero scoperti i neuroni specchio, Kohut parla di transfert speculare, quel fenomeno per cui i bambini rafforzano il proprio senso del sé riflettendosi nei genitori. Utilizzando le parole dell’autrice: ‘significa che i bambini vedono riflessi negli occhi di chi li accudisce i propri punti di forza, la propria unicità e ciò che li rende speciali’. La mancanza di questo rispecchiamento genitoriale ha un impatto nocivo sullo sviluppo del sé. Il bambino che viene privato dell’attenzione, e quindi del rispecchiamento del genitore, tenderà a sviluppare un attaccamento insicuro che sfocerà in una personalità insicura che si rifletterà su tutti gli aspetti della sua vita. L’essere visti è fondamentale anche per sviluppare l’empatia in un bambino che è sempre alla ricerca dello sguardo dei genitori che, mancando, non permette loro di interiorizzare la validazione di sé, cercando continuamente conferme del fatto che in loro non ci sia nulla di sbagliato. Inoltre, è bene ricordare che i bambini imparano o meno l’empatia anche attraverso dei modelli comportamentali, ovvero tenderanno a idealizzare qualcuno ricercando schemi normativi nella propria vita.

È vero però anche il contrario: un eccesso di rispecchiamento può, allo stesso modo di quando se ne viene privati, portare a sviluppare un senso di sé in parte distorto e una scarsa empatia.

Un altro punto di questo capitolo che merita attenzione è che la grande diffusione degli schermi tecnologici, che in qualche modo sostituiscono gli sguardi, potrebbe ostacolare la creazione di legami forti, così come può impedire il rilascio di ossitocina, che avviene proprio in quelle occasioni in cui genitori e figli incrociano il loro sguardo. In questo modo, stando quindi di fronte a degli schermi piuttosto che di fronte ad uno sguardo, si impedisce anche all’empatia di accrescere, proprio perché si elimina ogni possibilità di vedere e sentire l’altro.

Altro concetto fondamentale che fa parte del crescere con empatia è quello del gemellaggio. Quando il bambino cresce tenderà infatti a creare dei legami fuori dall’ambito prettamente familiare e questo lo aiuterà nel rafforzamento del senso di sé. Il gemellaggio innesca un rapporto di fiducia tra due individui che stanno crescendo e questo lo aiuterà a mostrare all’altro le proprie fragilità sviluppando così l’empatia. Se questa esperienza viene sperimentata nei primi anni di vita, accresce la possibilità di influenzare positivamente le esperienze future di relazione. La privazione di questa può invece portare il bambino all’isolamento, generando comportamenti antisociali proprio per nascondere quella solitudine che a sua volta nasconde il senso di vergogna per la condizione in cui ci si trova. Per questo motivo i genitori devono incentivare l’incontro dei propri figli con gli altri bambini, dal momento che questo aiuta alla costruzione dell’empatia. Allo stesso tempo i genitori, durante i primi mesi del bambino, devono incentivare la cosiddetta frustrazione ottimale, fondamentale anch’essa nella formazione della capacità empatica. Intervenire subito e in modo eccessivo quando il proprio bambino piange, impedirà a questo di fare esperienza dell’attesa, attesa poi ripagata, che è necessaria per costruire un rapporto di fiducia teso quindi alla costruzione dell’empatia. Uno dei risvolti particolari dell’empatia risiede nel fatto che i circuiti cerebrali che condividiamo con i nostri figli sono così forti che ogni sua sofferenza genera in noi una sofferenza emotiva. In questo modo la nostra corteccia prefrontale si disattiva, di conseguenza il nostro raziocinio viene meno e siamo quindi spinti ad accontentare il nostro bambino pur di vederlo felice. Il passo che invece bisogna fare è indietro, per riconsiderare il tutto e capire se in quell’occasione faremo bene o male ad accontentarlo. Serve dunque cercare un giusto mezzo, tra l’esserci troppo e l’esserci troppo poco.

Dopo aver illustrato l’importanza dell’empatia nell’ambito della famiglia e quindi durante i primi anni di vita di un individuo, Helen Riess, si concentra sull’importanza dell’empatia anche in un altro ambito, quello dell’istruzione. L’empatia infatti fa una differenza rilevante nell’apprendimento. Il compito degli insegnanti in questo senso risiede nel saper assumere e comprendere il punto di vista dei propri studenti e avere quindi una teoria della mente molto solida. Come nell’ambito familiare, anche nell’istruzione è bene incentivare comportamenti equilibrati per quanto riguarda l’empatia. Nel dettaglio: bisogna favorire l’apprendimento ottimale attraverso un atteggiamento di rispetto a sfavore di una punizione (anche se meritata) tesa a mettere in imbarazzo l’alunno credendo che così capisca dove ha sbagliato. È interessante sottolineare a questo punto che il cervello dei ragazzi, durante tutta l’educazione scolastica, si modella e si plasma. Non aumenta di volume, ma rafforza le proprie connessioni tra le regioni che sono proprio alla base dell’apprendimento. Specialmente nell’età adolescenziale le aree del cervello legate alla socialità sono particolarmente attive, è per questo che l’adolescenza è un periodo molto delicato e cruciale per lo sviluppo della capacità empatica. Qui si inserisce quindi un altro discorso molto importante: sarebbe utile sfruttare approcci educativi che insistano proprio sulla natura sociale del cervello. È il caso del progetto PBL, Project Based Learning che ‘si basa sull’idea che le persone, specie i bambini, imparano ponendo domande, riflettendo sui concetti e interagendo con altri. Il concetto fondamentale […] è che si possono risolvere problemi del mondo reale sia attraverso esercizi di problem-solving sia con progetti di gruppo’. A scuola si possono dunque utilizzare le sette chiavi di E.M.P.A.T.H.Y.® per insegnare ai propri studenti ottenendo un maggiore risultato. E non solo: durante i primi di anni di vita di un individuo, come è stato già ampiamente mostrato in relazione al rapporto con i genitori, si gettano le basi per come sarà la personalità dello stesso. La scuola in questo senso, con i suoi insegnanti, ha la possibilità di gettare le basi per una buona e solida capacità empatica grazie alla quale questi ragazzi diventeranno adulti che sono in grado di comprendere le emozioni e prendere decisioni giuste e ponderate.

Oggi in molte scuole elementari si sta applicando un metodo educativo proprio di questa capacità. Sono infatti disponibili dei corsi di Open Circle in cui si insegna ai bambini sia ad esprimere le proprie emozioni, sia ad ascoltare quelle degli altri. Emblematico l’interrogativo che porta l’autrice di Effetto Empatia proprio a questo punto: ‘Come sarebbe il nostro mondo se tutti imparassero all’asilo ad ascoltare e a reagire ai sentimenti?’. È un interrogativo che dovremo porci tutti.

Dov’è l’empatia dietro uno schermo digitale?

Viviamo ormai in un mondo digitalizzato, dove non ci rispecchiamo più negli occhi degli altri, ma in uno schermo digitale che il più delle volte ci offre una realtà distorta. Quali sono le conseguenze di questo nel nostro cervello? E nella nostra capacità empatica? La conseguenza di ciò che accade a livello cerebrale a causa di tutta questa digitalizzazione – o per meglio dire, nell’uso che se ne fa – ha inevitabilmente delle conseguenze sulla nostra empatia. Il meccanismo ‘digitale’ per cui si salta da un sito all’altro, da una notizia all’altra, non portando approfondimento di nessun genere, fa sì che il nostro cervello abbia interazioni più veloci giungendo così a giudizi più affrettati. In questo modo è inevitabile che l’empatia venga scansata a favore di un’empatia superficiale, del tutto inesistente. Davanti ad uno schermo alcuni strumenti dell’empatia visti precedentemente, il contatto visivo tra tutti, viene meno e questo ci porta ad essere ‘comunicatori meno empatici’. In aggiunta, attraverso la comunicazione digitale, le conversazioni diventano più ambigue. L’emozione dell’altro viene dedotta, non attraverso lo scambio di informazioni quali lo sguardo o il tono di voce, ma prendendo in considerazione altri dettagli superficiali e fuorvianti, come il ritardo nella risposta o il tipo di emoticon utilizzata. Altra conseguenza dell’aumento del digitale nelle nostre vite, è l’aumento dell’insicurezza che nasce dal fatto che attraverso i social network vediamo la rappresentazione delle vite altrui come perfette, nelle quali sembra non esistere imprevisto. Il fatto però è proprio questo: sembra. Quanto di ciò che vediamo attraverso la finestra digitale è vero?

Tutto ciò, come si traduce a livello cerebrale? Con dei cambiamenti che non giocano a favore della specie umana. Ciò che sta cambiando in modo fondamentale sono i sistemi di ricompensa. Degli studi hanno rivelato infatti che il nostro cervello rilascia dopamina quando sente il suono di una notifica del proprio cellulare, e ne rilascia di più di quando legge poi l’effettivo messaggio. Si ipotizza anche una diminuzione della capacità di concentrazione a causa di un cervello che si adatta al ricevere informazioni brevi. Altri studi dimostrano come gli adolescenti fatichino a comprendere le espressioni degli altri e questo accade perché le interazioni faccia a faccia vengono sempre meno. Questo non accade sono negli adolescenti, in cui la capacità empatica si sta sviluppando, ma anche negli adulti dal momento che, così come l’empatia può essere imparata, è vero anche il contrario.

Passando infatti tutto il tempo di fronte ad uno schermo si perde la capacità empatica incentivata invece nell’incontro con l’altro.
Le emoji in qualche modo rivestono il compito che hanno il tono di voce e lo sguardo in una conversazione. L’utilizzo di queste in qualche modo ha reintrodotto la dimostrazione delle emozioni, ma non possono ovviamente sostituire l’empatia. Bisogna ricordare che l’empatia è un tratto tipicamente umano, e a questo proposito l’autrice sottolinea come sarebbe triste se un giorno tratti che sono così tipicamente umani, fossero affidati a delle fredde macchine. Un conto è farsi aiutare da esse, un conto è farsi sostituire.

L’empatia nell’arte: come cambiare cuore e mente

L’arte in ogni sua forma ha la possibilità di influenzare le nostre giornate. Qui la Riess fa una carrellata storica del concetto di empatia, nonché dell’empatia stessa. Come abbiamo già visto, il primo utilizzo del termine tedesco Einfühlung fu del filosofo dell’arte Vischer per descrivere la sensazione che suscita l’osservare un’opera. Il filosofo e psicologo tedesco Lipps estese questo termine alla comprensione interpersonale, Dilthey invece lo utilizzò per descrivere il processo per cui una persona arriva a conoscere, ma soprattutto a comprendere ciò che una persona sente e prova; questo è ciò che precedentemente è stato definito teoria della mente. Un ultimo interessante rimando è al filosofo inglese Titchener, che coniò il termine empathy traducendo il termine originario tedesco. Il motivo era che voleva esprimere in questo modo la capacità di comprendere gli stati emotivi degli altri come se fossero i propri. La differenza tra l’empatia nella vita quotidiana e quella dell’arte è che quest’ultima si identifica in un processo. Semplificando: non è detto che guardando l’arte in ogni sua forma è certo che proviamo quanto effettivamente intende trasmettere l’autore. È quella che Riegl chiama ‘la parte dell’osservatore’. L’arte in ogni sua forma è un esercizio di empatia perché rappresenta la percezione e la risposta tipica dell’empatia, oltre a rappresentare un atto di condivisione che può aiutare ad umanizzare qualsiasi settore.

E nella leadership che ruolo ha l’empatia?

È stata appena accennata l’importanza dell’empatia in ogni tipo di settore, non sono da meno la politica e la leadership. Quest’ultima ha inevitabilmente a che fare con le emozioni infatti: ‘i grandi leader sono estremamente sensibili alle emozioni altrui e sono molto bravi a regolare le proprie’. A questo si aggiunge il fatto che, neurobiologicamente parlando, tendiamo a prediligere un leader che esprima emozioni ed empatia. In questo contesto si inserisce lo psicologo Goleman con la sua idea di intelligenza sociale. Nel dettaglio, Goleman ha descritto come la leadership empatica riesca a modificare la chimica cerebrale non solo di chi segue un leader, ma anche del leader stesso. Cosa succede infatti nel nostro cervello? A livello chimico accade che i neurotrasmettitori come endorfine, dopamina, ossitocina e serotonina tendono a dare forza ai legami sociali. A livello neurale invece i circuiti condivisi riflettono i pensieri di un leader spingendo all’imitazione.

Interessante è accennare anche ad altri due neuroni che hanno un ruolo importante nella condivisione sociale nel caso della leadership. Le cellule fusiformi e i neuroni oscillatori. Spiegando brevemente: le prime – che si trovano nella corteccia cingolare anteriore e nell’insula – hanno la capacità di raggiungere gli altri neuroni grazie alle proprie ramificazioni e questo permette loro di potenziare le sensazioni del cervello. Attiva quello che Goleman chiama sistema di guida sociale, che aiuta a creare (o meno) un rapporto tra leader e seguaci. I secondi, quindi i neuroni oscillatori – che si trovano nel sistema nervoso centrale – sono ‘i coreografi del movimento fisico tra gli individui e nell’ambito di un gruppo’. Questi, nella leadership, stabiliscono una connessione con il gruppo. Basti rapportare tutto questo discorso nel luogo di lavoro: quanto lo stato d’animo del capo incide su tutti? Un leader che non riesce a trasmettere empatia, ma che trasmette solo ansia, può causare anche danni psicologici alle persone che ha intorno.

Ci sono invece leader che si approfittano di una falsa empatia, come? Approfittando dei bisogni dell’uomo, quelli in cima a quella che nel 1943 Abraham Maslow definì come la gerarchia dei bisogni. Le persone, secondo questa teoria, si concentrano prima sui bisogni ritenuti primari, come il cibo, il senso di appartenenza e solo in seguito perseguono bisogni più filosofici come ad esempio l’ideale di democrazia. Sfruttando quindi la paura della perdita dei beni per sopravvivere, un leader utilizza falsa empatia per raggiungere il consenso.

Quando l’empatia è difficile da trovare

Negli individui autistici, l’empatia presenta un deficit per cui è difficile per loro, se non impossibile, assumere la prospettiva dell’altro. La loro difficoltà sta nel decifrare l’espressione dell’altro, come ha studiato lo psicologo Simon Baron-Cohen. Le persone con disturbi dello spettro autistico, invece che giudicate, vanno comprese e aiutate. Loro sono quelle che secondo Baron-Cohen possiedo un grado zero positivo dell’empatia. Cosa vuol dire? Che la loro mancanza d’empatia non si scatena in azioni cattive o malvagie.

Cosa accade però quando siamo di fronte a un individuo che possiede un grado zero negativo dell’empatia? Parliamo di tutti coloro che compiono azioni malvagie, il più delle volte non provando nemmeno rimorso. Ricerche scientifiche hanno mostrato che anche in loro si presenta un danneggiamento nelle aree implicate nell’empatia. Non si ha ancora tutto il quadro neurobiologico completo, ma alcune ricerche, come quelle del neuroscienziato Jean Decety, hanno indicato come il cervello degli psicopatici differisca da quello degli altri. È come se non fossero in grado di percepire la paura delle loro vittime, mancano dei circuiti cerebrali condivisi.

Subentra qui un discorso che possiamo definire più filosofico. Provare empatia per queste persone, per tutte quelle quindi che identificano nell’out-group qualcuno da abbattere e per tutte quelle che compiono azioni deplorevoli, è difficile, se non impossibile. Cosa succede però se arriviamo a definire chi merita empatia e chi no? In questo caso l’empatia, invece di essere la regola, diventerebbe l’eccezione. Anche se difficile, il salto di qualità sarebbe quello di capire prima di giudicare, senza eccezione alcuna. Emblematico in questo senso quanto troviamo scritto: ‘comprendere […] non impedisce di attribuire responsabilità’, allo stesso tempo però comprendere cosa porta a compiere determinate azioni ci permette di trovare modi costruttivi per procedere in società.

Provare empatia per noi stessi: l’autoempatia

La comprensione che è giusto provare nei confronti degli altri e dei loro sentimenti, è la stessa che dovremo provare per noi. Quando invece ci troviamo di fronte noi stessi, quello che facciamo continuamente è autocriticarci, mentre invece dovremmo adottare autoempatia. Non dedichiamo mai del tempo a decifrare le nostre emozioni o a decifrare le nostre espressioni facciali, eppure farlo ci aiuterebbe a stare meglio. Uno studioso, psicologo del pianto, Adrianus Vingerhoets, ha rilevato che a seguito della visione di un film triste, le persone che avevano pianto, mostravano un umore migliore; questo potrebbe derivare dal fatto che il pianto ci aiuta a riprenderci da una forte emozione. Dare un nome a quello che stiamo temporaneamente provando, aiuta la nostra corteccia prefrontale a prendere le distanze da quanto stiamo vivendo, cercando quindi una reazione razionale. A questo proposito è importare ascoltare il nostro corpo. Lui ci invia tutti i segnali utili per capire cosa ci farebbe stare bene, dovremmo dare quindi modo a noi stessi di ascoltarlo.

La nostra probabile reticenza nell’autoempatia risiede nel fatto che temiamo essere giudicati come chi si sta autocommiserando. In realtà la differenza tra le due è sostanziale. Con l’autocommiserazione tendiamo a ‘permetterci’ di cedere di fronte ogni situazione, rifugiandoci anche in soluzioni dannose come l’uso di droghe o alcol. L’autoempatia, al contrario, è come una disciplina che richiede consapevolezza e studio. Di cosa? Di noi stessi, del nostro strato umano per cui meritiamo comprensione e lo studio di soluzioni efficaci e positive.

Questo esercizio e atteggiamento di autoempatia ha delle conseguenze anche sul rapporto con gli altri. È inevitabile infatti che, imparando ad esercitare empatia su noi stessi, saremo in grado di esercitarla anche con gli altri. Purtroppo però ha una competenza psicologica sottovalutata l’autoempatia. Viene confusa con la ‘voglia di non fare nulla’. In realtà invece molti studi hanno dimostrato che chi è autoempatico ha più vitalità rispetto a chi ha un atteggiamento critico nei confronti di se stesso.

Tirando le somme

Attraverso questo libro, di facile comprensione anche per chi non è del settore, Helen Riess mostra come, attraverso una formazione all’empatia, sia possibile davvero incrementare tale capacità. Una maggiore empatia può arricchire sia se stessi che l’intera società. Ogni settore e aspetto della vita umana può trarne un miglioramento. Nell’ambito familiare una maggiore empatia si traduce nella possibilità dei genitori di aiutare i figli nel realizzare le proprie potenzialità. I politici potrebbero rappresentare le esigenze di tutti, le aziende potrebbero, investendo davvero sui propri dipendenti, ricavare più successo perché chi forma l’azienda, si sentirebbe davvero realizzato e compreso.

Entrare in contatto con l’empatia ci permetterebbe di riconoscere l’umanità condivisa, ci aiuterebbe a non lasciarci condizionare dai pregiudizi legati alla razza, all’etnia, alla cultura o qualsiasi cosa ci faccia credere che siamo diversi come esseri umani. In questo è necessario che i leader mondiali comprendano che siamo tutti connessi.

In questo è necessario che ci sia più spazio per l’empatia.

 

Timeline under anesthesia – Il tempo sotto anestesia

Capita spesso che i pazienti nell’immediato risveglio da un intervento chirurgico chiedano per quanto tempo hanno dormito, altri quanto tempo è passato dall’inizio dell’intervento, altri ancora chiedono addirittura di esser addormentati convinti che debba ancora iniziare l’intervento chirurgico.

 

Tutto questo risulta estremamente normale, la stessa definizione di anestesia come stato di ipnosi associato ad analgesia, amnesia e miorisoluzione descrive bene questo stato della coscienza ben distinto dalla comune veglia, dal sonno e da altri stati alterati della coscienza ultimo dei quali il coma (Oxford English Dictionary, 2005).

Nel tempo, osservando i pazienti prima, durante e dopo il risveglio, mi son soffermato sulla percezione di una specifica dimensione, quella temporale, cosicché nelle lunghe giornate di assistenza ai vari interventi chirurgici mi ero riproposto un semplice esperimento che consisteva nel chiedere al paziente nell’immediato postoperatorio quanto tempo fosse trascorso durante l’intervento, dato da confrontare poi con il tempo ‘reale’, per intenderci quello misurato dagli orologi. Il rapporto tra le due misurazioni ‘tempo percepito’/’tempo reale’ avrebbe così dato luogo ad un nuovo parametro detto ‘indice temporale’ (IT).

Se l’indice temporale è uguale ad 1 significa che mediamente le due misurazioni sono state sovrapponibili, ma questo nella comune pratica clinica è un evento alquanto raro, anzi rarissimo.

Questa osservazione trova conferma nella letteratura scientifica che sottolinea come l’anestesia generale durante il giorno provoca uno spostamento persistente e marcato dell’orologio inducendo efficacemente il “jet lag” e causando una percezione del tempo ridotta (Cheeseman, Winnebeck, 2012).

Cosa avviene dunque durante l’anestesia farmacologica?

Durante l’anestesia farmacologica avviene semplicemente una dissociazione spazio-temporale tra quella che è la ‘dimensione reale’ in cui la registrazione del tempo avviene attraverso una misurazione lineare scandita dal ticchettio degli orologi e quella che è invece la dimensione del tempo percepita dal paziente stesso. Nel momento del risveglio il fenomeno dissociativo si risolve in quanto ‘dimensione reale’ e ‘dimensione percepita’ tornano a coincidere. In altre parole, raccontata alla Stephen Hawking, è come se il paziente durante lo stato anestesiologico andasse in giro in uno dei tanti universi paralleli, fosse un po’ un viaggiatore dello spazio-tempo che poi torna a casa (Cheeseman, Winnebeck, 2012; Carr, 2007).

Quali sono le spiegazioni che ci fornisce la moderna medicina?

Di teorie al momento davvero tante, ma nessuna pienamente esaustiva. Rifacendosi alla biologia, la medicina cerca spiegazioni principalmente farmacologiche, vedendo nell’azione a livello recettoriale dei principali famaci impiegati la spiegazione più plausibile. Durante l’anestesia si creerebbe una dissociazione tra la parte del cervello ‘più moderna’ (corteccia e zone sottocorticali) e quella filogeneticamente più antica (il tronco) con un ruolo di primaria importanza svolto dalla sostanza reticolare che ha una funzione fondamentale nei processi di sincronizzazione e desincronizzazione della coscienza (Mashour, 2019).

La spiegazione medico-biologica e la narrazione fenomenologico-fisica son dunque in contrasto?

Assolutamente no! A mio avviso due facce della stessa medaglia entrambe vere che descrivono aspetti diversi di una stessa realtà, un po’ come dire che in base al contesto descrittivo cambia il contenuto di un quadro che tuttavia, anche se con coloriture differenti, mantiene sempre i suoi tratti salienti, in questo caso fatti di dissociazione e poi di ‘restitutio ad integrum’, ovvero di ritorno alla ‘normalità’.

A questo punto, una riflessione va fatta sul temine stesso di anestesia, dai più tradotta come ‘stato di insensibilità’ o ‘mancanza della facoltà di sentire’, parola tradotta dal medico-poeta Oliver Wendell Holmes che dava spiegazione di questostato della coscienzatraducendone la parola dal greco (Holmes, 1908).

In realtà probabilmente sarebbe più corretto parlare di ‘diversa sensibilità’ o ‘altra sensibilità’ visto che il paziente che si trova in questo stato della coscienza con tutta probabilità non fa altro che vivere semplicemente in un’altra dimensione, distaccata da quella reale, mantenendo sempre la consapevolezzadi tornare alla normalità in seguito al risveglio.

Adesso inizio a capire le parole di mio padre, come me anestesista-rianimatore nonché mio mentore personale, quando mi insegnava dicendomi: ‘ricordati, che se ben fatta, l’anestesia è l’unico momento in cui il paziente sta veramente bene’ ed aveva ragione, rifacendosi all’ipotesi di Paul Donald MacLean, durante l’anestesia si avrebbe una dissociazione tra il cervello rettiliano (archicortex) e il cervello più evoluto (paleo e neocotex) cosicché l’animale-uomo tornerebbe agli stati più arcaici del suo essere sopprimendo completamente la componente cognitiva ed emotiva e mantenendo viva soltanto la parte più istintuale in un sonno simile al coma (Maclean, 1984).

 

Prigionieri, agenti di custodia e bullismo

Uno studio di pochi anni fa (Ireland et al.,2016) si è proposto di esplorare la natura degli atteggiamenti e delle componenti dell’ambiente sociale e fisico che sono associati ad atteggiamenti che favorirebbero il bullismo nelle carceri.

 

Infatti, ricerche passate hanno riportato stime di bullismo in tale contesto fino all’81% (Dyson, 2005). Considerando le dimensioni della popolazione carceraria nel Regno Unito, ciò produrrebbe una stima minima di circa 9.000 prigionieri vittime di bullismo in un dato mese, se interpellati direttamente sulle loro esperienze, e un massimo di 69.000 prigionieri che riferiscono almeno un comportamento che potrebbe essere considerato bullismo in un singolo mese (sulla base dei dati della popolazione carceraria del Regno Unito per il 15 maggio 2015).

Il MMBSS (Multifactor Model of Bullying in Secure Settings) è un modello multifattoriale sul bullismo che ha cercato di integrare la letteratura sul bullismo in carcere con la più ampia letteratura sull’aggressione e i fattori noti che la promuovono. Il risultato è stato un modello che ha tenuto conto delle caratteristiche individuali e di fattori relativi al più ampio ambiente sociale e fisico che promuovono il bullismo in carcere. Nello specifico, secondo questo modello, il bullismo in carcere può essere perpetrato a causa di (1) un ambiente caratterizzato dalla ristretta disponibilità di beni materiali, bassa densità spaziale, strutture gerarchiche poco definite, alta tensione sociale (ambiente sociale) e scarsa presenza di relazioni di attaccamento, in combinazione con caratteristiche ed esperienze individuali altamente disadattive, come ad esempio elevata impulsività e una prolungata esperienza di reclusione; in secondo luogo, può essere perpetrato a causa (2) del verificarsi del fenomeno di ‘desensibilizzazione dell’aggressore’: i fattori contestuali associati all’aggressione, ovvero il rischio percepito di aggressione nell’ambiente; la frequenza delle aggressioni nell’ambiente carcerario; le strategie limitate per affrontare l’aggressione, in combinazione con una maggiore minaccia percepita di aggressione, incoraggiano l’aggressore a biasimare le vittime e ad assumere atteggiamenti accusatori nei loro confronti, oltre che di minimizzazione delle conseguenze del bullismo per le vittime (Ireland et al. 2012).

In aggiunta a ciò, il modello evidenzia il contributo importante apportato dagli atteggiamenti, degli individui presenti nell’ambiente di interesse, alla perpetrazione del bullismo in carcere, in quanto costituiscono una rilevante componente dell’ambiente sociale di riferimento: atteggiamenti di giustificazione del bullismo, visione negativa nei confronti delle vittime, visioni negative nei confronti dei bulli, il rispetto degli aggressori e delle conseguenze delle loro azioni, forza e astuzia percepita dei bulli, la visione delle vittime come persone in cerca di attenzione e che meritano di essere sottoposte a bullismo (Ireland, 1999).

Il campione si compone di 423 prigionieri, maschi e adulti, e 195 agenti di custodia (76% uomini), provenienti da due istituti di media sicurezza (Prigioni A e B) e uno di alta sicurezza (Prigione C) del Canada. L’età media dei detenuti è di 34 anni, la durata media totale della pena è di 110 mesi, mentre la durata media della detenzione fino al momento dello studio è di 64 mesi. Il 50.6% dei prigionieri è in carcere per un reato violento, il 16.1% per un reato legato alla droga, il 4.9% per un reato acquisitivo, il 2.8% per un reato sessuale e il 5.7% per altro. L’età media degli agenti è di 37 anni, la durata media del servizio come agente penitenziario è di 107 mesi, di cui in media 97 mesi all’interno del carcere di interesse.

Per mezzo di una scala a 39 item, la Prison Bullying Scale (PBS) (Ireland et al., 2009), gli autori hanno esplorato gli atteggiamenti nei confronti del bullismo da prigioniero a prigioniero (es. ‘non dovrebbe prendersela con qualcuno più debole di lui-lei’ e ‘di solito sono le vittime a causare il bullismo’). Il punteggio è compreso tra 1 (fortemente in disaccordo) e 7 (fortemente d’accordo). La Prison Environmental Scale (PES) invece, composta da 40 item (Allison e Ireland, 2010), mira ad indagare la percezione della prigione attuale da parte del campione attraverso affermazioni che riflettono fattori ambientali fisici e sociali che si pensa promuovano il bullismo nelle carceri. I fattori fisici riguardano i beni materiali, i cambiamenti nella popolazione carceraria, la frequenza della supervisione del personale e la mancanza di stimoli; i fattori sociali riguardano la struttura organizzativa, gli atteggiamenti nei confronti del bullismo da parte del campione e le strutture di potere e di dominio. Ogni elemento è valutato su una scala da 1 (fortemente in disaccordo) a 5 (fortemente d’accordo).

In media i detenuti hanno rivelato atteggiamenti più positivi e solidali rispetto alle guardie per quanto riguarda il sostegno alle vittime, probabilmente a causa del maggior rischio percepito di essere vittimizzati, mentre gli agenti di custodia sono più propensi a considerare i bulli come abili e scaltri e ad adottare un maggiore distacco emotivo rispetto a tali eventi di bullismo. Inoltre, è emersa un’associazione positiva tra gli atteggiamenti generali a sostegno del bullismo e gli aspetti dell’ambiente carcerario che si ritiene aumentino il rischio di bullismo in carcere.

Tra i detenuti, ad esempio, gli atteggiamenti a favore del bullismo sono stati predetti dalla loro percezione che l’ambiente promuoveva la gerarchia e dava importanza ai beni materiali, con l’assenza di sanzioni necessarie per i comportamenti negativi e aggressivi nei confronti degli altri carcerati.

Le guardie carcerarie hanno riportato punteggi più alti nel PES rispetto ai detenuti, indicando una maggiore propensione a identificare aspetti dell’ambiente carcerario che incoraggiavano il bullismo. In aggiunta, è emerso che le guardie riferiscono una percezione più alta della gerarchia e della disponibilità di beni materiali rispetto ai detenuti, mentre questi ultimi riferiscono una percezione maggiore di assenza di attività rispetto agli agenti.

Quanto emerso corrisponde alle aspettative dei modelli interattivi (ad esempio MMBSS, Ireland, 2012; IMP, Ireland, 2002), ma pone l’accento sul ruolo dell’ambiente sociale; suggerisce che la focalizzazione sulle relazioni della comunità (cioè le gerarchie sociali e le relazioni tra pari) possa avere un certo valore per gli interventi sul bullismo in tutto il carcere. L’attuale studio sottolinea l’importanza di sviluppare un ambiente sociale sano, in quanto un ambiente sociale disfunzionale in cui gli individui non hanno buone relazioni, si sentono insicuri e caratterizzato da gerarchie dominanti nel gruppo dei carcerati è apparso particolarmente predittivo di atteggiamenti a sostegno del bullismo in carcere. Pertanto, si potrebbe sostenere che ci si dovrebbe impegnare molto di più nello sviluppo di comunità sane piuttosto che nell’approccio individuale alla lotta contro il bullismo, ad esempio attraverso programmi per gli autori di atti di bullismo e programmi di sostegno alle vittime.

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