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Le relazioni indefinite su internet: il ghosting e il breadcrumbing

Il termine ghosting indica l’interrompere una relazione senza dare spiegazioni, mentre il breadcrumbing è una relazione che di fatto continua, ma senza decollare, che con il tempo viene derubricata ad una caterva di like, di sms, chiamate o visualizzazioni e nulla di più.

 

Conoscersi su internet, o semplicemente sentirsi tra ex o conoscenti senza riuscire a vedersi. C’è sintonia, si pensa di aver incontrato la persona giusta, sentirsi capiti, amati, accettati succede anche dietro uno schermo. Però il tempo passa e non c’è alcuna frequentazione dal vivo, magari ci si incrocia per la strada, si parla del più del meno, ma non ci si accorda per vedersi da soli e così ognuno va per la propria strada. Magari non ci si sente più per un po’, poi arriva qualche messaggio, telefonata, visualizzazione di storie e di like e si riaccende la speranza di continuare, o iniziare, finalmente una relazione.

A volte i social facilitano la conoscenza reciproca, la distanza creata dallo schermo aiuterebbe a svelarsi, ad aprirsi di più all’altro, attutendo la paura del giudizio, mentre in altre incrementerebbe la gelosia, comportamenti controllanti e interpretativi che alimentano lo stress (Wallace, 2016). Sentire un ex o qualcuno di conoscenza può essere un’occasione per riallacciare i rapporti o per iniziare a superare l’imbarazzo della scarsa conoscenza o dei rapporti incrinati dalle incomprensioni. Si studiano le reazioni dell’altro, si verificano le sensazioni nel rapporto con quella persona (mi piacerà ancora? Che effetto mi fa sentirlo/a?), e a volte quel farsi sentire serve per mantenere una porta aperta, per appianare le tensioni precedenti, ripristinare il quieto vivere, e così via.

Che l’interlocutore sia o no una persona conosciuta dal vivo, sentirsi sul web fa galoppare l’immaginazione, e spesso si tende a rappresentare l’altro per ciò che si vorrebbe che fosse, dimenticandosi di alcuni segnali importanti; così si lasciano sullo sfondo altri dettagli che, ad osservarli, cambiano completamente il quadro.

Il ghosting e il breadcrumbing: dinamiche e rischi psicologici

Solitamente questa modalità del ‘sentirsi e basta’ non procura una significativa quota di stress quando si limita ad una fase transitoria che culmina con gli appuntamenti e il classico corteggiamento dal vivo. Al contrario, quando la relazione resta sospesa in quel ‘sentirsi senza vedersi’ e si desidera qualcosa di più, si continua ad aspettare, si scambia un’impostazione del rapporto per un periodo transitorio, senza accorgersi del tempo investito a pensare, a giustificare, ad attendere (Norwood, 1985). Di conseguenza, è comune interpretare le giustificazioni dell’altro, quali ‘Sto vivendo un periodo difficile’, ‘Faccio fatica ad essere presente in questo momento’ come un pretesto per intensificare le attenzioni, anziché come un segno di rifiuto dell’altro. Su questa lunghezza d’onda, è facile interpretare la sua distanza, la sua incostanza, il suo silenzio, come ‘periodi no’, transitori ed effimeri, piuttosto che come prove di un malfunzionamento nella coppia, di un disinteresse dell’altro. Così, queste relazioni possono terminare bruscamente o gradualmente lasciando la scia dell’amaro in bocca, oppure possono andare avanti così per anni, precludendosi importanti opportunità sentimentali (LeFebvre et. Al, 2019).

Nel primo caso questo fenomeno prende il nome di ghosting, ovvero interrompere una relazione senza dare spiegazioni, subito o con il tempo, mentre nel secondo si tratta di breadcrumbing, una relazione che di fatto continua, ma senza decollare, che con il tempo viene derubricata ad una caterva di like, di sms, chiamate o visualizzazioni e nulla di più. Di recente è stato evidenziato che subire un breadcrumbing ostacola il distacco dal partner che non vuole andarsene, ma neanche restare: chi incontra qualcuno che sparisce e ritorna, sperimenterebbe in misura maggiore le sensazioni di solitudine e impotenza, constatando una scarsa soddisfazione per la sua vita in generale. Lo stress psicofisico non dipende dalla durata della relazione, ma dall’investimento di energie, tempo, emozioni e pensieri in quel legame. Ad ogni modo, per quanto sia lancinante essere abbandonati senza un ultimo confronto, essere punzecchiati con messaggi, visualizzazioni, like e così via, fa restare imbrigliati in un rapporto senza lasciarlo andare (Navarro et. Al, 2020). In pratica non si dimentica pienamente l’altro, perché ci si aggancia alla speranza che qualcosa potrà succedere. In diversi casi, le persone che hanno fatto ghosting hanno motivato questo silenzio come un modo per non ferire l’altro con le spiegazioni o addirittura come una strategia ‘normale’ per rompere un rapporto che non regala più soddisfazioni. In ogni caso queste motivazioni suggeriscono una difficoltà ad essere autentici, a manifestare le emozioni di rabbia e di vergogna, nonché la constatazione di non essere compresi dall’interlocutore. A volte, chi sparisce nel nulla non crede che una relazione necessiti di tempo, cura reciproca e impegno, bensì ritiene che o funzioni o non funzioni, sulla base di ‘un trovarsi’ più passivo che attivo, che non lascia spazio ad una conoscenza graduale e approfondita (Freedman et al, 2018).

Al contrario, una persona che fa breadcrumbing già da un po’ di tempo sta impostando un rapporto sulla base della non-definizione. Per chi visualizza o invia sms senza impegno, questo sentirsi può essere un modo per non restare soli con se stessi, con i propri problemi, per distrarsi da una relazione sentimentale poco appagante, per timore di non essere abbastanza visibili. Per chi lo subisce, invece, diventa un problema quando entra in questo vortice, quando ci si aspetta qualcosa di più di una presenza virtuale, intendo un’intimità e una cura che spesso l’altro non ha intenzione di dare.

Superare un ghosting e un breadcrumbing

Nessuna storia dolorosa si supera aspettando che il tempo passi. Non si supera un ghosting e un breadcrumbing quando si va avanti per la propria strada dimenticando di aver conosciuto una persona che ha procurato sofferenza o quando si minimizza il tutto perché è accaduto sui social o perché non si conosce abbastanza quella persona. A volte bloccare o cancellare un contatto non è sufficiente, perché il punto non è smettere di sentirlo, ma approfondire la storia, la comunicazione reciproca.

Si superano quando si affronta il dolore, quando si resta sulle emozioni suscitate nel rapporto con quella persona, quando si ripercorrono le tappe della conoscenza, quando sono cominciate le aspettative, gli investimenti di tempo e di energie e soprattutto quali emozioni, pensieri, immagini ha scatenato la fine di questo rapporto. Si superano pertanto, quando si comincia a dare importanza al rapporto per la sofferenza che ha procurato, per i segnali dell’altro che non sono stati accolti, nel tentativo di aspettare qualcosa che non è arrivato. Solo così si può imparare dall’esperienza e riconoscere i rapporti che fanno e non fanno al caso proprio, prevenendo altri dolori e delusioni.

L’età dello tsunami. Come sopravvivere a un figlio pre-adolescente (2017) di Alberto Pellai e Barbara Tamborini – Recensione del libro

L’età dello tsunami è un libro unico nel suo genere, completamente dedicato all’età di mezzo tra l’infanzia e l’adolescenza, l’incompresa e inesplorata pre-adolescenza. Una guida per tutti i genitori che vogliono affrontare al meglio questa ‘età dello tsunami’.

 

Gli autori, Alberto Pellai e Barbara Tamborini, esperti di psicologia dell’età evolutiva, sono una coppia nella vita reale e genitori di 4 figli. Entrambi hanno pubblicato insieme numerosi libri sulla pre-adolescenza e adolescenza rivolti ai ragazzi e ai genitori tra cui La bussola delle emozioni (2019), Tabù. Come parlare ai bambini dei temi più difficili attraverso l’educazione emotiva (2020). Grazie ai loro saggi stanno aiutando migliaia di genitori a comunicare con i propri figli.

Qualsiasi genitore che abbia un figlio in un’età compresa tra gli 11 e i 14 anni si sarà reso conto che spesso questi ragazzi vivono dei cambiamenti emotivi e fisici che sembrano sconvolgere anche gli equilibri familiari. I genitori si trovano travolti da uno tsunami emotivo, di fronte al quale, non possono né fuggire né trovare una cura. Quello che gli serve è una guida che contenga i segreti per andare avanti e superare questo periodo burrascoso.

Questo libro, raccontato con un linguaggio semplice, chiaro e diretto, ma che comunque non rinuncia al rigore scientifico, cerca di aiutare i genitori a superare le montagne russe della pre-adolescenza. La struttura del libro si articola in 3 parti. Una prima parte è dedicata alla descrizione della pre-adolescenza: alcune sezioni riguardano le sfide che deve affrontare il pre-adolescente e il genitore, mentre altre sezioni si concentrano su cosa significhi essere un pre-adolescente.

La seconda parte è dedicata alle neuroscienze e alle scoperte scientifiche che riguardano questo periodo complesso: per esempio i cambiamenti emotivi, lo sviluppo del cervello del pre-adolescente, le strategie di maschi e femmine. Infine, una terza parte è dedicata ai genitori e si intitola ‘Che genitori siete?’. Qui viene analizzato il rapporto dei genitori con i propri figli grazie anche ad alcuni test di autovalutazione. Il libro è arricchito dalla visione consigliata di alcuni film che sono per gli autori un’ottima risorsa per entrare in contatto totale con i propri figli. Inoltre, è inserito un decalogo delle cose da fare e da non fare in situazioni di vita quotidiana.

Le tematiche che sono affrontate nel libro riguardano: le nuove tecnologie, il sesso, le relazioni, la scuola e il corpo che subisce dei cambiamenti.

I genitori vengono invitati a mettersi in gioco in tutto e per tutto e senza timore di poter sbagliare. Gli errori sono sempre permessi, previsti e accolti. In questo senso è utile riconoscerli per poter riflettere a riguardo.

Il testo risulta essere una guida potentissima per i genitori, ma non solo. Docenti, operatori, parenti, educatori possono trovare i consigli giusti per affrontare questi momenti angoscianti, per comprendere gli errori e gli sbagli che più spesso si fanno in diversi contesti nelle relazioni con i ragazzi. Di importanza fondamentale per gli autori è che non si ricerchi la perfezione come genitore. In questo periodo delicato si può essere vicini ai propri figli anche sapendo di non essere perfetti, ma mettendosi in gioco e impegnandosi il più possibile in questa sfida chiamata pre-adolescenza.

La corsa sulle montagne russe, lo tsunami, potranno così essere affrontati insieme, utilizzando canali di comunicazione più efficaci.

 

ADHD e disturbi psichiatrici: quale associazione?

L’ADHD o disturbo da deficit di attenzione/iperattività è un disturbo i cui sintomi compaiono prima dei 12 anni, durano almeno sei mesi, e causano problemi in almeno due contesti di vita.

 

Sono generalmente presenti problematiche nel mantenere l’attenzione ed eccessiva attività e/o difficoltà nel controllare il proprio comportamento, interfererendo con il buon funzionamento dell’individuo e compromettendo la qualità della sua vita (American Psychiatric Association [APA], 2013). Infatti, possono presentarsi problemi scolastici, difficoltà relazionali e complicanze in ambito lavorativo (Massetti et al., 2008; Strine et al., 2006), oltre che comorbidità con altri disturbi.

Una datata meta-analisi ha messo a confronto la presenza di comorbidità con disturbi psichiatrici in bambini con e senza ADHD ed ha rilevato nei soggetti con ADHD una comorbidità del 10.7 % per i disturbi di condotta, del 5.5 % per i disturbi depressivi, del 3.0 % per i disturbi d’ansia (Angold, Costello, &Erkanli, 1999). Un recente studio (Larson et al., 2011) ha confermato i risultati precedentemente ottenuti, trovando che nei bambini tra i 6 i 17 anni con ADHD, il 33% ha una comorbidità con un altro disturbo psichiatrico, il 16% con due disturbi, e il 18% con tre o più disturbi psichiatrici.

A partire da queste premesse e volendo estendere i dati fino ad ora ottenuti, il presente studio (Cuffe et al., 2020) vuole indagare se i bambini con disturbo da deficit di attenzione/iperattività hanno più probabilità di avere una comorbidità con un altro disturbo psichiatrico in confronto a bambini senza ADHD, se coloro che presentano una comorbidità avranno maggiori problematiche rispetto a coloro che non presentano tale comorbidità o non hanno ADHD e, infine, se i bambini con ADHD e disturbo oppositivo provocatorio avranno maggiori problemi di condotta rispetto a coloro che hanno solo il disturbo di attenzione/iperattività.

Dopo aver individuato i bambini con ADHD nelle scuole del Sud Carolina e dell’Oklahoma, i loro genitori sono stati sottoposti al Diagnostic Interview Schedule for Children 4° versione (DISC; Shaffer, Fisher, Lucas, Dulcan, &Schwab-Stone, 2000), per valutare la presenza di disturbo di ansia generalizzata (GAD), di disturbo ossessivo compulsivo (OCD), di disturbo da stress post-traumatico (PTSD), di depressione maggiore o disturbo distimico, di mania/ipomania, di disturbo oppositivo provocatorio (ODD), di disturbo di condotta (CD), disturbo di ansia di separazione e fobia sociale in bambini con diagnosi di ADHD.

I risultati hanno rilevato che i disturbi psichiatrici sono prevalenti nei bambini con disturbo da deficit di attenzione/iperattività e che la probabilità della presenza di più di una comorbidità è molto alta, confermando le ipotesi iniziali. Tuttavia, si è trovato una differenza non significativa nelle performance scolastiche nei bambini diagnosticati con ADHD con o senza ODD e CD, disconfermando l’ipotesi secondo cui la presenza di un disturbo di condotta o di un disturbo oppositivo provocatorio possa compromettere il funzionamento dell’individuo in ambito accademico, relazione che è stata invece rilevata tra ADHD e disturbi d’ansia e/o dell’umore (Larson et al., 2011).

Alla luce di questi risultati, è opportuno incrementare il numero degli interventi di assessment e psico-educativi, per migliorare i risultati scolastici di coloro che presentano ADHD in comorbidità con disturbi d’ansia e/o dell’umore, e interventi preventivi per i bambini con ADHD e disturbo di condotta o disturbo oppositivo provocatorio, per evitare atti di delinquenza o problemi comportamentali in ambito scolastico, che i dati hanno evidenziato essere frequenti (Thomas, 2010).

 

Monogamia e tradimenti: le dimensioni del fenomeno – Una serie di Roberto Lorenzini

Oggi pubblichiamo il secondo lavoro della serie di Roberto Lorenzini, dedicata al tema della monogamia e delle sue implicazioni psicologiche, affettive, relazionali e, perché no, sessuali. Lorenzini propone una tesi forte: la monogamia non funziona. E inizia ad argomentare analizzando le cifre della monogamia.

MONOGAMIA E TRADIMENTI – (Nr. 2) Le dimensioni del fenomeno

 Per la Corte di cassazione francese l’infedeltà non è più un atto contro la morale, in quanto scrive nel 2015: ‘con l’evolversi delle abitudini così come dei concetti morali, ad oggi non è più possibile considerare l’infedeltà coniugale come in contrasto con la comune rappresentazione della moralità nella società contemporanea‘. L’infedeltà non è quindi diversa da qualsiasi altra forma di libertà di espressione e presto non sarà più considerata una delle cause che giustificano un divorzio.

Contemporaneamente i dati diffusi da Gleeden.com, il più grande sito di incontri dedicato a donne sposate in cerca di incontri, ci dicono che in Italia nel corso dell’intera esistenza di coppia il 30% resta per sempre fedele, nel 40% dei casi uno dei due partner tradisce mentre nel restante 30% entrambi tradiscono e dunque nel 70%  dei casi le coppie vivono una situazione di tradimento singolo o doppio.

Secondo i dati raccolti su base europea dall’IFOP (istituto francese di opinione pubblica) il 45% degli italiani ha dichiarato di aver tradito il partner almeno una volta contro il 43% della Francia, il 39% della Spagna e il 36% della Gran Bretagna. Ancora più interessanti dei fatti per noi psicologi sono le opinioni che si hanno sui fatti e la ricerca ci dice che alla domanda ‘ti sei pentito/a di aver tradito il partner?’ solo un 27% di italiani ha risposto sì contro il 73% di no. E anche stavolta la percentuale è la più alta d’Europa (Francia e Germania 28%, Spagna 36% e Gran Bretagna 50%). Ma quale valore morale danno gli italiani all’infedeltà? Quello che appare particolarmente interessante non è solo l’intensa pratica dell’adulterio ma il fatto che sia in corso un mutamento della comune morale per cui si tende sempre più a ritenerlo accettabile. Secondo una ricerca condotta su scala mondiale dall’americana Pew Research il nostro paese appare molto più laico di quello che si pensa: se è vero che il 64% degli italiani pensa che l’infedeltà sia moralmente inaccettabile, la percentuale risulta comunque tra le più basse del mondo. Negli Stati Uniti, ad esempio, ben l’84% condanna pubblicamente il tradimento, così come il 76% dei Britannici e solo il 47% dei francesi e il 60% dei tedeschi.

Ancora dati IFOP ci dicono che per il 56% degli italiani si può essere innamorati del proprio partner e comunque tradirlo. Un approfondimento dello studio tutto dedicato all’Italia in quanto patria del cattolicesimo ha rivelato che per il 63% degli italiani è del tutto possibile amare due persone contemporaneamente, con un 21% degli intervistati che ha rivelato una stabile e duratura relazione con l’amante contro un 41% di avventure occasionali, il 43% degli infedeli si aspetta di essere perdonato dal partner qualora venga scoperto ed in effetti la scoperta del tradimento nel 70% dei casi non pone fine al matrimonio.

Rispetto ai tempi del tradimento il sondaggio IPSOS afferma che il 35% degli intervistati dichiara di aver ceduto al tradimento dopo il 5° anno di matrimonio, il 30% tra il 2° e il 5° anno. Per un 20% un anno di fedeltà è stato più che sufficiente, mentre un 15% ha resistito solo 3 mesi.

Ad essere intervistati sulle proprie relazioni extraconiugali sono stati 1565 italiani, uomini e donne, sposati e di età compresa tra i 24 e i 64 anni. Seguono i risultati dettagliati.

Nel primo anno di matrimonio: Il tasso di infedeltà è del 27% per gli uomini e del 21% delle donne. C’è però da considerare che tra coloro che tradiscono già al primo anno c’è un 35% che era stato infedele almeno una volta anche negli anni del fidanzamento.

Nel 2° e 3° anno di matrimonio il divario tra l’infedeltà maschile e quella femminile aumenta: il 36% degli uomini contro l’11% delle donne. Generalmente questo è il periodo in cui nasce il primo figlio, nuova situazione vissuta in maniera spesso diametralmente opposta dai due partner: le donne prese dal nuovo arrivato trascurano un po’ il marito che così è ‘costretto’ a rifugiarsi nelle braccia di qualcun’altra, o almeno questo è il luogo comune e la classica scusa utilizzata per giustificarsi!

Tra il 3° e il 9° anno di matrimonio il tasso di infedeltà cresce esponenzialmente e non si registrano più grandi differenze tra uomini e donne. Il 58% degli intervistati uomini ha confessato uno o più tradimenti, per le donne invece la percentuale è del 46%.

Dal 9° al 25° anno, l’infedeltà si fa ‘seriale’, il tradimento è ormai una routine per il 49% degli intervistati uomini e per il 36% delle donne.

Dopo il 25° anno di matrimonio il tasso di infedeltà è solo del 13%: ovviamente il fatto è probabilmente da imputare ad un fattore di età.

L’Italia presenta forti contraddizioni tra la pratica che la vede come il paese più infedele d’Europa, e la teoria mostrandosi ancora in bilico tra rivendicazioni laiche ed eredità ancora fortemente cattolica. Il 76% degli Italiani ha infatti dichiarato che rimanere fedeli per tutta la vita è possibile e la risposta è trasversale a qualsiasi fascia d’età, religione e orientamento politico.

È evidente la contraddizione tra ciò che si fa e ciò che si dice di credere. Meglio sarebbe dire ‘tra ciò che si dice di fare e ciò che si dice di credere’.

Quello che gli italiani non riescono ad accettare quando si parla di infedeltà è la manifestazione del suo lato puramente sessuale: tra gli atti che costituiscono fonte di tradimento infatti figurano baciare alla francese una persona diversa dal partner (77%), avere rapporti orali (89%), fino al rapporto sessuale vero e proprio, sia che si tratti di un episodio momentaneo (89%) che di una pratica regolare (92%).

Innamorarsi di un’altra persona ve bene quindi, basta che l’amore rimanga platonico e non si traduca in qualcosa di più fisico.

Un dato incontrovertibile sia per gli Stati Uniti che per l’Europa è che le donne hanno raggiunto e molto spesso superato gli uomini nella tendenza a tradire e che le differenze precedenti che volevano gli uomini tradire per motivi sessuali e per relazioni occasionali mentre le donne per motivi sentimentali e per relazioni più profonde e prolungate, non sono più attuali e le differenze nel tipo di tradimento non riguardano il genere ma la singola personalità. Tutte queste ricerche si basano su interviste degli interessati che possono comunque mentire. Dati più oggettivi ci giungono da quella che in ambito giuridico è diventata ormai ‘la prova regina’ ovvero il test del  DNA utilizzato per l’accertamento di paternità in continuo aumento in Italia dove dice l’avvocato Gian Ettore Gassani presidente dell’associazione dei matrimonialisti italiani:

Secondo le stime ricavabili dai dati statistici, il 15% dei secondi figli è di un padre diverso da quello ufficiale e la percentuale arriva al 25% nel caso dei terzi figli. In aumento vertiginoso le perizie che i tribunali dispongono per accertare la paternità. Inoltre, è aumentata di circa il 30% la vendita online di kit per l’accertamento ‘fai da te’ della paternità. Tali stime dimostrano che le infedeltà coniugali sono in netto aumento nel nostro Paese o almeno il livello del sospetto degli uomini di non essere padri dei propri figli oggi è particolarmente elevato e preoccupante.

In conclusione un figlio su 5 non è del padre legittimo. Credo sia ragionevole ipotizzare che tale percentuale sia molto superiore tra gli aborti in quanto tale esito, volontario o meno, è un rischio molto maggiore in una gravidanza adulterina. Se infine consideriamo che non tutti i rapporti sessuali comportano una gravidanza, soprattutto se non si tratta di rapporti sessuali consentiti, si può avere una stima di quanti coiti avvengano in sedi non istituzionali.

Sperando di aver motivato il lettore a proseguire la lettura delle prossime puntate, considerata la rilevanza del tema per molti di noi (anche se, come tradizione vuole, saremo gli ultimi a saperlo), nel prossimo articolo mi permetterò di prenderla larga per dare la falsa sensazione di un lavoro scientifico fondato su ampie ricerche bibliografiche, lunghe e profonde riflessioni e magari qualche ricerca seppure condotta da altri, coloro che hanno i fondi e le competenze per farle: darò uno sguardo a come stanno le cose nel mondo che potremmo definire ‘culture-free’ degli animali.

 

Ndr: il testo del presente articolo è tratto dal capitolo di un precedente contributo di Roberto Lorenzini, “Covid-19 e amanti”, pubblicato su State of Mind il 27 Maggio 2020.

 

Psicofisiologia delle emozioni: il riflesso di startle

Il riflesso di startle, rapido ed involontario, può essere modificato, nella sua ampiezza, dagli stati emozionali in cui si trova la persona.

Eleonora Poli – OPEN SCHOOL, Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Mestre-Venezia

 

In particolare, sarà amplificato nel caso in cui il soggetto si trovi in uno stato emozionale negativo, e ridotto nel caso in cui ci si trovi in uno stato emozionale positivo. La sua analisi può essere un valido aiuto nella valutazione dello stato affettivo e tono dell’umore della persona e del suo andamento nel tempo.

Il riflesso di startle è una risposta automatica, non influenzata dal controllo volontario, ad uno stimolo improvviso ed intenso (Grillon & Baas, 2003). Esso consiste in una rapida contrazione muscolare sequenziale, che si manifesta con una spinta in avanti della testa ed un’onda flessoria discendente dal tronco fino alle ginocchia. Nell’uomo la risposta di startle viene generalmente misurata registrando i blink oculari, ossia la componente più persistente e consistente del pattern di startle (Landis & Hunt, 1939). Il blink si manifesta con una rapida contrazione del muscolo orbicularis oculi, innervato dal nervo cranico facciale. La misurazione della contrazione dell’orbicularis oculi si ottiene prevalentemente tramite elettromiografia, con l’utilizzo di due microelettrodi posti al di sotto dell’occhio.

Il riflesso di blink può essere elicitato da stimoli brevi, intensi e a rapida insorgenza di natura visiva, tattile o uditiva. La maggior parte degli studi impiega stimoli acustici di brevissima durata (50 ms) ed elevata intensità (90-110 dB). Il riflesso di blink acustico ha una latenza di 20-50 ms, mentre la sua ampiezza mostra un’elevata variabilità individuale. L’utilità dell’impiegare il riflesso di startle negli studi psicologici è dovuta proprio al fatto che la sua ampiezza possa essere influenzata da manipolazioni sperimentali e dallo stato psicologico e motivazionale indotto nell’individuo. Studiare l’inibizione o il potenziamento del riflesso in specifici contesti o in relazione a specifici tratti di personalità può fornire utili informazioni riguardo allo stato psicologico ed affettivo dell’individuo (Filion, Dawson, & Schell, 1998), ed essere un valido strumento di supporto ai reports soggettivi, i quali spesso sono influenzati da credenze e valori personali, sociali e culturali.

Negli studi sul riflesso di startle, sono emersi due principali filoni di ricerca: lo studio della reattività di startle generale (in assenza di manipolazione sperimentale), e la reattività di startle affettiva, con lo scopo di investigare lo stato emozionale e motivazionale dell’individuo. Il riflesso di startle rispecchia infatti la direzione della valenza affettiva della persona, e questo è un enorme vantaggio nello studio delle emozioni. Altri correlati psicofisiologici delle emozioni, quali le misure cardiovascolari, elettrodermiche, e facciali, non indicano la valenza emozionale, ma solamente il livello di arousal della persona. Il riflesso di starle, invece, può essere un’ottima integrazione ai report soggettivi e verbali standard, i quali possono essere influenzati da distorsioni intenzionali dell’individuo (Grillon & Baas, 2003).

Stimoli paurosi e situazioni ansiogene porteranno ad un potenziamento dell’ampiezza del riflesso di startle. Per esempio, la reattività di startle mostra un graduale aumento nel corso di un condizionamento avversivo, riflettendo una risposta a stress cronico (Gewirts, McNish, & Davis, 1998). Ameli, Ip e Grillon (2001) hanno invece trovato un aumento del riflesso di startle quando gli individui erano posti in un ambiente nel quale avevano precedentemente ricevuto degli shock elettrici. Diversi studi hanno dimostrato come la reattività generale di startle sia associata a disturbi d’ansia. Ludewig e colleghi (2005), ad esempio, hanno trovato un’aumentata reattività in pazienti con disturbi di panico. Kumari, Kaviani, Raven, Gray e Checkley (2001) hanno trovato un potenziamento dell’ampiezza di startle in pazienti con disturbo ossessivo-compulsivo. Diversi Autori hanno riscontrato un’aumentata reattività di startle in veterani di guerra con un disturbo da stress post-traumatico (Morgan, Grillon, Southwick, Davis, & Charney, 1996; Orr, Lasko, Metzger, & Pitman, 1997; Grillon & Morgan, 1999). Studi psicofarmacologici mostrano come farmaci ansiolitici o ansiogeni possano alterare la reattività di startle (Davis, 1979; Andrews, Blumenthal, & Flate, 1998; Morgan et al., 1993).

Nel primo studio che ha investigato la modulazione affettiva del riflesso di startle, condotto da Vrana, Spence e Lang (1998) venivano impiegati degli stimoli acustici durante la presentazione di immagini emozionali a contenuto positivo, negativo e neutrale. Le immagini positive e negative variavano nella loro valenza, ma erano parimenti attivanti (uguali livelli di arousal). Gli Autori hanno trovato un trend lineare nell’ampiezza del riflesso di startle: durante la visione di immagini piacevoli l’ampiezza del riflesso di startle era ridotta, mentre durante la visione di immagini a valenza negativa l’ampiezza del riflesso di startle era potenziata. Questa scoperta può essere interpretata sulla base della teoria motivazionale di Lang e collaboratori (1990), la quale afferma che i riflessi psicofisiologici siano determinati da due fattori: la classificazione del riflesso come appetitivo o avversivo, e l’effettivo stato affettivo in cui si trova l’individuo (a valenza positiva o negativa). I riflessi associati ad una contingenza appetitiva (come ad esempio la risposta di salivazione davanti al cibo) saranno potenziati se attivati quando l’individuo sta già sperimentando uno stato positivo. Al contrario le risposte difensive, come il riflesso di startle, saranno aumentate in presenza di uno stato emozionale negativo. Quindi, i riflessi coerenti con lo stato emozionale in corso saranno amplificati, mentre quelli discordanti con esso saranno inibiti o attenuati.

Diversi studi su popolazione normale hanno in seguito replicato questo fenomeno (ad es. Bradley, Cuthbert, & Lang, 1991; Cuthbert, Bradley, & Lang, 1990). La modulazione affettiva del riflesso di startle può fornire informazioni di grande utilità quando esse non siano disponibili da misure comportamentali o verbali e può essere uno strumento potente nell’assessment e nella comprensione dello stato affettivo della persona. Hamm, Cuthbert, Globisch e Vaitl (1997), per esempio, hanno riscontrato un maggiore potenziamento del riflesso di startle in individui fobici quando vedevano immagini del loro oggetto fobico rispetto a quando osservavano altri tipi di immagini avversive. Analizzare l’andamento nel tempo dell’ampiezza del riflesso di startle potrebbe essere un utile indicatore della riuscita di un trattamento psicoterapico in questi individui.

Un fenomeno psicofisiologico frequentemente osservato in persone con psicopatia è invece una mancanza di potenziamento del riflesso di startle in risposta a stimoli spiacevoli e avversivi. Patrick, Bradley e Lang (1993) hanno studiato la modulazione affettiva dello startle in uomini incarcerati con elevati tratti di psicopatia, rispetto a uomini non psicopatici. I risultati hanno mostrato come gli psicopatici non mostrassero il classico andamento lineare dell’ampiezza del riflesso di startle (ossia una sua inibizione durante la visione di immagini piacevoli ed un suo potenziamento durante la visione di immagini spiacevoli). Questi tratti psicopatici non influenzavano però la valutazione soggettiva self-report delle immagini emozionali: esse erano valutate nello stesso modo in cui le valutavano i partecipanti non psicopatici. Anomalie nell’elaborazione degli stimoli emozionali si manifestavano quindi a livello fisiologico indipendentemente dai self-reports. Analogamente Justus e Finn (2007) hanno riscontrato un’assenza del tipico potenziamento dello startle in uomini non incarcerati e con elevati tratti di psicopatia. Sutton, Vitale e Newman (2002) hanno riportato un’attenuazione del riflesso in donne psicopatiche incarcerate durante l’esposizione a stimoli spiacevoli, mentre Anderson, Stanford, Wan e Young (2011) hanno rilevato la medesima tendenza in donne non incarcerate. Anche in questo caso quindi l’impiego di una misura psicofisiologica quale il riflesso di startle potrebbe essere di fondamentale importanza nella rilevazione di alterazioni nell’elaborazione affettiva di persone con psicopatia, che manifesterebbero invece valutazioni nella norma con l’utilizzo di procedure di misurazione comportamentali e soggettive.

 

Manipolazione o realtà? Il fenomeno del deepfake

A livello individuale, il deepfake può avere la funzione di mero divertimento. In realtà, questi deepfake non solo potrebbero mettere a rischio la reputazione, ma anche il benessere emotivo, le prospettive di carriera e la sicurezza fisica.

 

In ogni falso si nasconde sempre qualcosa di autentico!‘. Questa frase, pronunciata nel film La migliore offerta di Giuseppe Tornatore, racchiude il senso che, nella cinematografia, si fornisce alla dualità falso/vero. Sempre nel contesto cinematografico, il lavoro di post-produzione sui film ha fatto sembrare i falsi molto realistici. Ad esempio, nel 2009, Il Curioso Caso di Benjamin Button ha vinto l’Academy Award per i migliori effetti visivi. Il film si basa su immagini generate al computer (CGI) per aiutare a raccontare la storia di un bambino nato con l’aspetto di un uomo anziano che, poi, trascorre 84 anni diventando più giovane. La creazione di tali falsi richiedeva competenza, una formazione approfondita, hardware costosi e software sofisticati. Nonostante il termine CGI suggerisce che ogni progetto è il risultato di un lavoro ad alta intensità, gli strumenti di oggi consentono a chiunque di creare falsi, che appaiono reali senza investimenti significativi in formazione, raccolta dati, hardware e software. Persone, anche non esperte, saranno presto in grado di manipolare i media esistenti o di generare nuovi contenuti con relativa facilità. Nel 2018, il popolare programma di face-swap ‘Fakeapp’ ha richiesto grandi quantità di dati di input per generare deepfake.

Il termine deepfake è stato creato da un utente anonimo della piattaforma Reddit, che ha generato un vero e proprio fenomeno. La parola deepfake, infatti, deriva dall’inglese ‘deep learning’, ovvero sistemi di apprendimento artificiale profondo, vale a dire una tipologia di algoritmi e ‘fake’, cioè ‘falso’. Nella pratica, il deepfake utilizza videoclip modificando i volti e le parole di celebrità inconsapevoli. Si tratta, quindi, di un fenomeno in cui sono gli algoritmi a ‘governare’, creando un sistema di datacrazia (De Kerckhove, 2001). Le prime vittime dei deepfake erano personaggi famosi, tra cui attori (ad esempio, Emma Watson, Scarlett Johansson), cantanti (ad esempio, Katy Perry) e politici (ad esempio, i presidenti degli Stati Uniti Obama e Trump), i cui volti sono stati trasposti, senza il loro permesso, su altri. Uno dei primi deepfake che ha mostrato il potere dell’intelligenza artificiale e dell’apprendimento profondo è stato ‘Sintetizzare Obama’ del 2017 (Suwajanakorn, Seitz, & Kemelmacher-Shlizerman, 2017), che ha caratterizzato un uso impressionante della tecnologia di sincronizzazione delle labbra basata su filmati audio esistenti. Oggi potremmo osservare il leader di un paese pronunciare in modo convincente un discorso del leader di un altro paese, o viceversa. L’esposizione maggiore dei personaggi famosi dipende dal fatto che risultano come persone più presenti sulla scena mediale. Tale trucco, profondamente falso, ha un successo allarmante per due ragioni principali: per il principio di credibilità e di accessibilità.

L’impatto dei deepfake è significativo perché, anche se negli ultimi anni in relazione alla nascita dei programmi di editing per le immagini, la fiducia sull’autenticità delle foto condivise sui social è venuta meno (Westling, 2019), si tende a riporre più fiducia nelle voci che si conoscono e nei video che si guardano (Brucato, 2015). Il sistema visivo del cervello, nonostante sia in gran parte robusto, può essere soggetto a percezioni errate, come nel caso delle illusioni ottiche (Kietzmann, Geuter, & König, 2011).

Prima di comprendere come funzionano i deepfake, bisogna chiarire che le tecniche e le tecnologie esistenti si evolvono continuamente. La maggior parte degli attuali deepfake nel dominio visivo seguono una procedura in cui il vero volto di una persona viene scambiato con un’immagine falsa che mostra qualcun altro. E’ necessario anche spiegare che i deepfake possono essere impiegati in qualsiasi contesto, nascendo nel settore cinematografico ed estendendosi nella produzione di notizie false, criminalità o nella satira. Così come ad essere esteso è anche il target delle vittime. In ogni caso, il funzionamento prevede tre fasi:

  • l’individuazione della regione del viso originale, estratto in fotogrammi;
  • questi fotogrammi, poi, sono utilizzati come input per una rete neurale profonda, che genera automaticamente un fotogramma corrispondente all’originale, però, con il volto sostituito da un’altra persona;
  • il volto sostituito e rilevato dalla rete neurale viene automaticamente inserito nell’immagine di riferimento originale per creare il deepfake (Kietzmann et al., 2020).

Ma quali sono le conseguenze del deepfake? A livello individuale, il deepfake, che non ha un intento malizioso, può avere la funzione di mero divertimento. In realtà, questi deepfake non solo potrebbero mettere a rischio la reputazione, ma anche il benessere emotivo, le prospettive di carriera e la sicurezza fisica. Con una tecnologia così ‘potente’ e il numero crescente di immagini e video all’interno dei social media, chiunque può diventare un bersaglio per molestie online, diffamazione, furto di identità e bullismo.

Per le organizzazioni, i deepfake hanno pro e contro. I vantaggi si possono trovare nel settore dell’intrattenimento e della moda, in cui le celebrità possono semplicemente rendere disponibili i loro modelli senza la necessità di viaggiare per un servizio video, per esempio. Per quanto riguarda l’effetto negativo dei deepfake sulle organizzazioni, i progressi tecnologici spesso rendono i modi ‘tradizionali’ di lavorare obsoleti. Per esempio, l’intera industria del doppiaggio, che ha tradotto i film in modo che le parole della lingua da doppiare corrispondessero al movimento originale delle labbra dell’attore, è in pericolo e a rischio di estinzione, ora che le lingue e il movimento delle labbra possono essere cambiate. Per quanto riguarda il lato oscuro dei deepfake, si prevede che anche le aziende ignare saranno vittime di inganno e diffamazione (Kietzmann et al., 2012).

Per i governi, il potenziale positivo dei deepfake risiede nella capacità di comunicare con le varie parti interessate in modo che sia accessibile. Ad esempio, un annuncio di servizio pubblico può essere trasmesso in diverse lingue. Allo stesso tempo, il lato oscuro dei deepfake è potente, con le possibilità offerte alla persona e ai media di creare e condividere atti di sabotaggio tempestivi (Riechmann, 2018). In sintesi, la propaganda e l’ingerenza elettorale dei deepfake, unite alla disinformazione, potrebbero minacciare, ad esempio, un governo efficiente.

Il risvolto psicologico del fenomeno dei deepfake è proprio il mancato riconoscimento tra ciò che è vero e ciò che è falso, mettendo in crisi la fiducia nell’Altro e aumentando la frammentarietà del Sé.

Mindsight. La nuova scienza della trasformazione personale (2010) di Daniel J. Siegel – Recensione del libro

Mindsight. La nuova scienza della trasformazione personale è un libro sulla mindsight, una lente per percepire e vedere la nostra mente e quella degli altri.

 

L’autore, Daniel J. Siegel, è uno psicologo clinico e psichiatra infantile. È professore clinico di psichiatria presso la School of Medicine dell’UCLA ed è direttore esecutivo del Mindsight Institute della University of California di Los Angeles, un centro educativo per la promozione di consapevolezza e empatia rivolto a individui, famiglie, istituzioni e comunità. Tra i libri che ha pubblicato in Italia troviamo La mente relazionale (2001), Mindfulness e cervello (2009), Diventare consapevoli. Una pratica di meditazione rivoluzionaria (2019) e Esserci (2020).

Il libro si concentra sulla Mindsight, un modello di crescita personale che l’autore ha messo a punto e perfezionato grazie alla fusione tra la mindfulness e l’intelligenza sociale ed emotiva.

La mindsight è definita come una lente utile per vedere la propria mente e quella degli altri.

Questo modello di crescita personale è stato ideato dall’autore integrando conoscenze provenienti da discipline diverse e dalle scoperte scientifiche sulla mente e sul cervello. In particolare, questa nasce grazie alla scoperta dell’esistenza di connessioni tra mente, cervello e relazioni.

La mindsight può essere adoperata da chiunque voglia e permette alla persona di diventare consapevole di cosa succede nella propria mente e in quella altrui. Gli elementi fondamentali che stanno alla base del raggiungimento di tale consapevolezza sono l’apertura, l’osservazione e l’obiettività. Il primo elemento, l’atteggiamento di apertura, è privo di aspettative e giudizi, che, se presenti, non permettono di percepire le informazioni per come sono davvero. L’osservazione, il secondo elemento, aiuta le persone a essere dei percettori attivi e ad avere una visione più d’insieme della mole di informazioni che recepiscono. Infine, l’obiettività permette di capire che le esperienze sono oggetti della mente e che non equivalgono ad una realtà assoluta. Questi tre elementi sono fondamentali affinché si sviluppi una migliore consapevolezza di sé.

Avere una migliore consapevolezza di sé e del mondo, secondo l’autore, ci aiuta a vivere la vita con maggiore benessere. Per vivere con gli altri in modo positivo occorre, infatti, essere in grado di monitorare le nostre emozioni, i nostri pensieri e i cambiamenti del nostro corpo.

Prestare attenzione a ciò che sentiamo, senza giudicarci quando proviamo delle sensazioni per esempio di dolore, ci aiuta ad uscire da schemi ripetitivi, a riconnetterci con la nostra mente e a vedere meglio quello che ci sta succedendo nel presente, senza proiettare tutto nel passato o nel futuro.

Concretamente a cosa può servire la mindsight?

Questa pratica è utilizzata moltissimo per eliminare lo stress e può essere insegnata all’interno di un percorso terapeutico. Questa migliora la relazione paziente-terapeuta e permette di modificare i pattern mentali di attivazione del nostro cervello che non sono funzionali al nostro benessere.

Allo stesso modo è utilissima per aiutare nel trattamento degli stati d’ansia, disturbi del sonno e problemi di alimentazione. Questa pratica permette di divenire completamente consapevoli delle sensazioni che accompagnano gli stati d’ansia, come i segnali corporei, e aiuta a riconnettersi con la propria mente e a riprendere lucidità.

Il terapeuta può proporla al fine di condurre il paziente all’esplorazione della mente e all’integrazione di stati emotivi con quelli fisici.

Senza la ‘lente per vedere la mente’ le persone rischiano di vivere la vita in modo automatico e per questo, quando qualcosa va storto, sembrano in balìa della loro mente, dei loro meccanismi. Sembrano diventare oggetti della mente e non più soggetti con una mente. Incontrare il mondo interiore ci permette di riprendere in mano la nostra vita.

Il testo risulta una lettura gradevole, soprattutto perché i concetti scientifici sono spiegati con chiarezza e semplicità. Consigliato per chi vuole raggiungere una consapevolezza maggiore sul proprio funzionamento mentale, in particolare per operatori, educatori, psicologi e insegnati che ogni giorno lavorano a contatto con la ‘mente dell’altro’ e che hanno bisogno di sviluppare uno sguardo più profondo nella relazione con gli altri.

 

Musicoterapia per gravidanze a rischio – Effetti su stress e ansia

La musica è nota per aumentare il benessere, ridurre lo stress e distrarre i pazienti da sintomi sgradevoli esercitando effetti fisiologici diretti sul sistema nervoso autonomo. Quali effetti ha sulle donne in gravidanza?

 

La ricerca negli ultimi trent’anni ha stabilito che le donne che soffrono di stress e ansia durante la gravidanza sono a rischio di parto prematuro e aborto spontaneo (Lobel et al., 2008; Douglas, 2010). I bambini nati prematuramente con peso molto basso alla nascita possono essere più a rischio di soffrire di problemi di salute a lungo termine come disturbi dello sviluppo neurologico (Soleimani et al., 2014) e depressione (Räikkönen et al., 2008).

La musica è nota per aumentare il benessere, ridurre lo stress e distrarre i pazienti da sintomi sgradevoli esercitando effetti fisiologici diretti sul sistema nervoso autonomo (Kemper & Danhauer, 2005).

La musicoterapia è stata già utilizzata nella cura delle donne incinte, ma solo pochi studi hanno indagato se la musicoterapia allevi lo stress e l’ansia legati alla gravidanza (Kaufmann, 2014).

La musicoterapia può contenere musica dal vivo o registrata e alcuni studi hanno confrontato gli effetti di queste variazioni su pazienti ricoverati (Arnon et al., 2006). Secondo questi studi, l’effetto terapeutico della musica dal vivo sarebbe più efficace e benefico per il paziente. Tuttavia, gli effetti della musica dal vivo sull’Heart Rate Variability (HRV) – la variazione dell’intervallo del tempo inter-battito che può essere usato come misurazione del sistema nervoso autonomo (Thayer et al., 2012) – lo stress e l’ansia tra le donne incinte ricoverate non sono stati ancora studiati.

Uno studio recente (Teckenberg-Jansson et al., 2019) ha indagato gli effetti della musicoterapia dal vivo sull’HRV, lo stress e l’ansia tra le donne ricoverate con gravidanze ad alto rischio. Un totale di 102 donne ospedalizzate in un reparto prenatale a causa di complicazioni legate alla gravidanza hanno partecipato allo studio controllato randomizzato.

Le partecipanti sono state assegnate in modo casuale a un gruppo di musicoterapia (N = 52) o a un gruppo di controllo (N = 50). Le donne del gruppo di musicoterapia hanno ricevuto musicoterapia dal vivo per tre giorni consecutivi, in sessioni di mezz’ora. Le partecipanti appartenenti al gruppo di controllo sono state istruite a riposare per periodi di tempo altrettanto lunghi.

I livelli di stress e ansia sperimentati sono stati misurati con l’indice HRV, la Perceived Stress Scale (PSS; Cohen et al., 1983) e la State Scale of the State-Trait Anxiety Inventory (S-STAI; Spielberger, 1985). Le partecipanti hanno compilato i questionari prima e dopo l’intervento.

Dai risultati si è riscontrato che la misura SD2 dell’HRV è aumentata significativamente di più nel gruppo di musicoterapia che nel gruppo di controllo durante le sessioni di terapia (indicando un livello minore di stress). Inoltre, la misura HRV a bassa frequenza (LF) è diminuita durante il periodo di terapia di tre giorni. Lo stress auto-dichiarato nella PSS non ha subito modificazioni significative dopo l’intervento. Per le donne con alta ansia iniziale auto-dichiarata in entrambi i gruppi, la loro ansia è stata significativamente ridotta durante il periodo di tre giorni.

Per concludere si può affermare che, al di là dei parziali benefici clinici mostrati in questo studio iniziale, la musicoterapia ricettiva non richiede attività fisica o molta energia mentale da parte del paziente, quindi si presume non sia difficile da implementare anche nelle situazioni difficili che le donne incinte potrebbero affrontare. La musicoterapia potrebbe inoltre essere utilizzata anche al di fuori dell’ambiente ospedaliero, ambulatorialmente o a casa.

 

L’uso di internet nel paziente oncologico: fattori di rischio e di protezione

Il numero di pazienti oncologici che utilizzano internet per ricerche correlate alla salute è passato dall’8-15% negli anni 90’ al 70-97% negli anni 2000. Quale impatto emotivo e comportamentale ha questa nuova tendenza?

 

La costante diffusione e aggiornamento della tecnologia, nonché la facilità nel reperire e accedere alla stessa, ha aumentato in modo considerevole il numero di persone che utilizzano internet come fonte di informazioni di varia natura, specialmente informazioni correlate alla salute. Secondo l’euro-barometro solo nell’ultimo anno il 59% degli europei ha utilizzato internet per cercare informazioni di carattere medico (De Frutos et al. 2020) e la vasta diffusione delle stesse ha rivoluzionato il modo in cui la persona persegue comportamenti legati alla salute.

Una recente meta-analisi (De Frutos et al. 2020) ha preso in considerazione l’impatto psicologico che può avere l’utilizzo di internet nel paziente oncologico e ha definito con maggiore chiarezza, includendo l’analisi di 77 ricerche indipendenti, le modalità di accesso e di ricerca da parte di questo target.

Nel presente studio, le ricerche su internet sono state divise in due grandi categorie:

  1. Ricerca spontanea: ovvero la libera ricerca da parte dell’utente, in assenza di specifiche indicazioni date da un professionista, o in assenza di specifici portali indicati per la raccolta di informazioni di carattere medico.
  2. Ricerca guidata: ovvero la ricerca indicata da un professionista della salute, ad esempio per ricercare particolari informazioni di carattere medico a scopo educativo e terapeutico, per il supporto sociale o psicologico in specifici siti.

Considerando che il numero di pazienti oncologici che utilizzano internet per ricerche correlate alla salute è passato da 8-15% negli anni 90’ al 70-97% negli anni 2000 (Biley et al., 2001), in generale, molti professionisti stimano negativamente l’impatto emotivo e comportamentale dell’utilizzo di internet da parte del paziente. Newnham e collaboratori (2005) evidenziano che il 75-91% degli stessi giudica negativamente l’utilizzo di internet come fonte di informazioni mediche.

Nonostante tale dato, numerosi studi all’interno della meta-analisi in esame hanno sottolineato che la ricerca da parte del paziente oncologico aumenti la conoscenza della propria malattia e l’auto-efficacia percepita; tuttavia l’inaffidabilità della informazione o del sito in cui viene reperita, così come l’ incompletezza della stessa, aumenterebbe la probabilità di impatto negativo sul paziente.

Il 15-30% dei paziente oncologici, in special modo quelli anziani, hanno riportato, a seguito della ricerca di informazioni mediche su internet, di sentirsi maggiormente confusi, ansiosi o depressi; mentre il 48-72% dei paziente si descriveva come meno confuso e più ottimista circa una decisione medica presa, a seguito dell’informazione ricercata.

La ricerca spontanea su internet sembra favorire anche supporto tra pari (come ad esempio siti legati alla malattia oncologica o pagine dedicate sui social network), tuttavia come sottolineano gli autori, la partecipazione online e l’ottimismo favorito dalla stessa sembrano risentire dello stato emotivo, della gravità della situazione e della percezione delle conseguenze negative della malattia.

Per il clinico è importante valutare l’abilità di accesso del paziente, l’utilizzo che ne fa e la comprensione delle informazioni, laddove una comprensione limitata e incompleta contribuisce a creare confusione e ansia.

Un rischio che può essere dato dalla ricerca su internet riguarda la possibilità che la credibilità di una informazione reperita online sostituisca o sia al pari della stessa data dal professionista di riferimento. Un dato interessante è che circa il 50% dei pazienti oncologici non condivide le informazioni ricercate su internet con il proprio medico (Van de Poll‐Franse & Van Eenbergen, 2008). Secondo gli autori sono molteplici le cause, come ad esempio la natura dell’informazione ed il peso dato a questa, l’evitare di creare imbarazzo e di dare l’impressione di essere preoccupati; Lopez-Gomez e collaboratori (2012) hanno evidenziato che una delle motivazioni più frequenti (31%) alla base della mancanza di condivisione di informazioni è la scarsità di tempo durante la visita.

Per quanto concerne la navigazione guidata, l’indicazione data dal professionista nella ricerca di informazioni in specifici portali o siti supera le problematiche associate all’utilizzo spontaneo di internet, come la mancanza di informazioni personalizzate, difficoltà di comprensione o reperibilità.

All’interno della presente meta-analisi, anche il supporto sociale online sembra avere effetti positivi, rispetto alla sola ricerca di informazioni, dove la comunicazione sincrona (ad esempio chat o videochat) con una persona esterna che condivide la stessa malattia incrementa la possibilità di sentirsi ascoltati e supportati.

In conclusione, dagli studi esaminati emergono effetti positivi dall’utilizzo di internet, anche se gli stessi possono essere mediati da numerose variabili, come accuratezza dell’informazione e del sito, possibilità di reperire informazioni, capacità di comprendere l’informazione e soprattutto possibilità di condividere le stesse. Gli autori sostengono infatti che la mancanza di comunicazione tra medico e paziente sia il principale ostacolo all’utilizzo di internet. Un problema che può emergere è dato dal ricercare più informazioni autonomamente su internet rispetto al proprio medico curante o equipararne l’affidabilità e credibilità (Finfgeld, 2000).

Un limite allo studio in esame è dato, come sottolineano gli autori, dalla eterogeneità delle ricerche esaminate, dove molte di esse presentavano una bassa numerosità campionaria, oltre alla difficoltà nel comparare diverse metodologie di indagine del costrutto. Rimane quindi evidente la doverosità da parte del clinico di calzare tali conclusioni sulla singola persona che si ha di fronte, sui fattori individuali, sulla tipologia di informazioni richieste e sull’utilizzo che il paziente ne fa.

L’informazione di carattere medico sulla patologia e sul relativo percorso di cura deve essere accompagnata all’informazione di carattere psicologico, comportando la malattia un periodo di crisi e difficoltà nel paziente oncologico, lasciando aperta la possibilità di essere seguiti in tale percorso da professionisti della salute mentale, sia tale supporto online o in presenza.

 

Disturbo Bipolare e morbo di Parkinson: due patologie in relazione

Diverse ricerche hanno suggerito l’esistenza di un’associazione tra Disturbo Bipolare e malattia di Parkinson. Una metanalisi del 2019 ha analizzato gli studi maggiormente attendibili sull’argomento confermando la veridicità di questa ipotesi.

 

Chi è affetto da Disturbo Bipolare ha un maggior rischio di sviluppare il morbo di Parkinson rispetto alle persone che non soffrono di questo disturbo dell’umore. Gli studi scientifici ipotizzano che l’associazione tra le due patologie potrebbe essere legata ad alterazioni genetiche, processi infiammatori o problemi di trasmissione neuronale, ma occorre attendere una conferma da ulteriori ricerche.

Il Disturbo Bipolare

Il Disturbo Bipolare o maniaco-depressivo è contraddistinto da importanti alterazioni del tono dell’umore che si caratterizzano per l’alternarsi di stati maniacali, cioè episodi di euforia ed eccitazione, con altri di grave depressione. I sintomi correlati all’alterazione dell’umore causano disagio clinicamente significativo o compromissione del funzionamento personale e sociale.

Questo disturbo è una condizione psichiatrica piuttosto diffusa ed è una delle principali cause di disabilità nel mondo nella fascia di età compresa tra 15 e 44 anni. Il Disturbo Bipolare, inoltre, è associato ad un aumento del rischio di suicidio. Secondo le statistiche del National Institute of Mental Health (NIMH ) interessa circa l’1% della popolazione al di sopra dei 18 anni, con una distribuzione uguale tra i due sessi.

L’abuso di alcol o droghe è frequentemente in comorbilità con il disturbo maniaco-depressivo e aggrava significativamente i suoi esiti (Regier DA, Farmer ME, Rae DS, et al.1990). Quello bipolare è un disturbo ad eziologia multifattoriale a cui concorrono fattori genetici, biologici e psicologici. (Giselli Scaini, Samira S., Valvassori Alexandre P. Diaz et al.2020)

Si distinguono varie forme cliniche a seconda dell’alternanza degli stati maniacali e depressivi e della loro durata.

Il morbo di Parkinson

La malattia di Parkinson è una malattia neurodegenerativa che fa parte del gruppo di patologie definite Disturbi del Movimento, tra queste è la più frequente ed ha una evoluzione lenta e progressiva.

E’ una sindrome extrapiramidale caratterizzata da rigidità muscolare che si manifesta con resistenza ai movimenti passivi, tremore che insorge a riposo, che può aumentare in caso di ansia, e bradicinesia che provoca difficoltà a iniziare e a terminare i movimenti. Questi sintomi generano disturbi dell’equilibrio, andatura impacciata e postura curva. Altri sintomi, non motori, possono essere la depressione, i disturbi del sonno, alcune disfunzioni del sistema neurovegetativo ed il dolore diffuso o localizzato (Chaudhuri K R, Schapira A HV 2009).

Nel morbo di Parkinson si ha una degenerazione neuronale della sostanza nigra ( Hirsch EC, 1992). Da un punto di vista biochimico è stata accertata, a livello del sistema nervoso, una riduzione della quantità di dopamina, una minore concentrazione di neuromelanina, una riduzione dell’attività della catena respiratoria mitocondriale e una minore attività dell’alfa-chetoglutarato deidrogenasi (Berendse HW, Booij J, Francot CM et al 2001).

L’eziologia della malattia di Parkinson non è del tutto nota, ma è accettata l’ipotesi di un’origine multifattoriale, in cui interagiscono componenti ambientali e genetiche. Alcuni fattori ambientali e occupazionali possono aumentare il rischio di insorgenza della malattia. Tra questi sono compresi l’esposizione a tossine come i pesticidi, i metalli, altri xenobiotici e i prodotti chimici industriali, lo stile di vita (dieta e fumo), il luogo di residenza (ambiente rurale) e l’attività professionale (lavoro agricolo). Dal punto di vista genetico una storia familiare positiva può aumentare il rischio di insorgenza della malattia. Forme ereditarie della malattia sono causate da mutazioni identificate per i seguenti geni: alfa-sinucleina, parkina, dardarina, DJ-1 (Bardien S, Lesage S, Brice A, Carr J, 2011; Shin Hisahara e Shun Shimohama  2011).

Alcuni studi suggeriscono come potenziali concause, per lo sviluppo del morbo, alcune patologie infettive come ad esempio specifiche forme di encefalite. In altri studi la malattia di Parkinson è stata associata a lesioni cerebrali, in particolare a traumi emorrargici.

Il Disturbo Bipolare ed il morbo di Parkinson

Una metanalisi del 2019, pubblicata sulla rivista JAMA, ha stabilito la reale esistenza di una relazione tra Disturbo Bipolare e morbo di Parkinson. Gli autori della review hanno valutato la possibile associazione del Disturbo Bipolare con una successiva diagnosi di morbo di Parkinson. I ricercatori hanno analizzato quattro studi di coorte e tre studi trasversali, per un totale di oltre 65.000 pazienti con Disturbo Bipolare. Hanno così accertato che una diagnosi di Disturbo Bipolare è associata ad un aumento di 3,35 volte delle probabilità di una successiva diagnosi di Parkinson.

I pazienti con il follow-up più breve, meno di 9 anni, hanno mostrato un aumento significativamente maggiore delle probabilità di diagnosi della malattia di Parkinson (5,20 volte) rispetto al sottogruppo con un follow-up più lungo, di più di 9 anni (1,75 volte) (Faustini RP, Duarte Gs, Ferreira JJ, et al. 2019).

Sempre nel 2019 è stato pubblicato sulla rivista Neurology uno studio condotto a Taiwan. I ricercatori hanno preso in considerazione i dati di una banca nazionale riguardanti la salute delle persone con diagnosi di Disturbo Bipolare e morbo di Parkinson nel periodo compreso tra il 2001 ed il 2009. Sono stati analizzati 56440 casi e sono stati confrontati con un gruppo di controllo di 225360 persone, a cui non era mai stato diagnosticato il Disturbo Bipolare o il morbo di Parkinson, ma che erano omogenei con il campione per sesso, età ed altri fattori. La ricerca ha rivelato che i soggetti con Disturbo Bipolare hanno sviluppato la malattia di Parkinson con maggiore incidenza (0,7%) e in età più giovane, circa 9 anni di differenza, rispetto al gruppo di controllo. Infine lo studio ha mostrato come i pazienti che hanno subito frequenti ricoveri ospedalieri per il Disturbo Bipolare sono maggiormente esposti al rischio di sviluppare il morbo di Parkinson rispetto a coloro che sono stati ricoverati meno di una volta l’anno (Mao-Hsuan Huang, Chih-Ming Cheng, Kai-Lin Huang et al, 2019)

L’accertamento di un legame tra Disturbo Bipolare e Parkinson ha importanti riflessi sulla pratica clinica, è uno stimolo per la ricerca a chiarire quale sia il legame biologico esistente tra queste due patologie. Impone, infine,  la considerazione della possibile influenza dei farmaci antipsicotici, utilizzati nel trattamento del Disturbo Bipolare, sulla comparsa del morbo di Parkinson.

Relazioni pericolose (2017) di Claudia Moscovici – Recensione del libro

Relazioni pericolose si propone di far conoscere le caratteristiche della psicopatia, come primo passo per difendersene.

 

L’autrice, dopo aver presentato alcuni casi di femminicidio e aver raccontato i modelli di dittature ad opera di psicopatici, nell’introduzione definisce la psicopatia come ‘la malattia della mancanza d’amore e la radice psicologica del male’, una malattia ‘patologica’, diversa dai difetti umani e peraltro incurabile. Il libro si compone di tre parti, ciascuna con un focus specifico.

La prima parte si concentra sulla presentazione dello psicopatico, partendo da due casi di cronaca di uomini che avevano ucciso le proprie mogli, per raccontare come la psicopatia sia poco conosciuta e approfondita persino dai media stessi, che non hanno saputo cogliere, durante i processi, la totale mancanza di rimorso e la finzione messa in atto nel simulare dispiacere per la condanna o per gli atti commessi; solo Koehli riesce ad accorgersi di quanto questa patologia sia profonda e esorta i colleghi giornalisti a non fermarsi all’apparente dispiacere mostrato da questi uomini. Per la descrizione della psicopatia, Moscovici parte dalla descrizione di Hervey Cleckley nella sua opera The Mask of Sanity, che dimostra come lo psicopatico sappia confondersi perfettamente nella società, anzi dimostrandosi spesso affascinante ed essendo molto intelligente, caratteristica imprescindibile per poter raggirare tutti con i suoi inganni e le sue manipolazioni; dal punto di vista clinico, questi soggetti sono ‘sani’, in quanto non presentano allucinazioni o comportamenti irrazionali, né manifestazioni psiconevrotiche: semplicemente, pensano di essere migliori degli altri, perciò i loro comportamenti profondamente negativi vengono giustificati dall’idea che, per loro, le regole morali ed etiche della società non valgano. Alla luce di questa convinzione, la loro strategia preferita per sentirsi superiori è la mendacia: mentono sempre, riguardo qualsiasi ambito della loro vita e, quando vengono scoperti, mentono ulteriormente per coprire i propri errori. Si lasciano andare a raggiri, calunnie, giochi retorici e mentali vari, tra i quali uno particolarmente preoccupante è il gaslightining, che fa dubitare la vittima delle sue stesse percezioni.

Tali menzogne servono a coprire cose ben più serie: i ripetuti comportamenti antisociali, possibili data la totale mancanza di rimorso e di vergogna che caratterizza lo psicopatico. A proposito di ciò, Moscovici racconta come un’altra caratteristica centrale sia la povertà emotiva: gli psicopatici non provano emozioni, bensì solo proto-emozioni, versioni immature e poco elaborate delle normali emozioni, spesso non contingenti alla situazione; peraltro, l’unica emozione che può realmente turbarli è la noia. Spesso la psicopatia è associata anche alla dipendenza dal sesso, che viene proposto e sperimentato in qualsiasi luogo e contesto, senza alcun ritegno; ci si spinge sempre di più verso la trasgressione, perché la noia presto coinvolge anche questo aspetto della vita di coppia. La stessa noia che preclude il raggiungimento di qualsiasi obiettivo dello psicopatico, che non è in grado di impegnarsi a sufficienza in nulla; ogni impegno iniziale è tutto parte della ‘maschera di sanità’ raccontata da Cleckley, peraltro destinata a cadere.

La seconda parte si concentra quindi sul processo di seduzione psicopatica, partendo dal caso di Drew Peterson, che è riuscito a sposarsi quattro volte e ad avere una quinta compagna, nonostante una di esse sia stata uccisa ed un’altra misteriosamente scomparsa, ad indicare come inizialmente lo psicopatico possa sembrare il fidanzato ed il marito perfetto. Carver presenta poi 20 preoccupanti campanelli d’allarme, ai quali ogni donna dovrebbe prestare attenzione: violenza fisica, coinvolgimento rapido, carattere irruente, indebolimento dell’autostima, isolamento, bastone e carota (cioè alterna cattiverie e smancerie), è sempre colpa tua (perché per lo psicopatico le regole civili non valgono), paura della rottura (cioè compiacere sempre il compagno psicopatico per evitare che la relazione finisca), limitazione degli interessi, controllo paranoico, imbarazzo in pubblico, non essere mai abbastanza (per compiacerlo), presunzione, non piace a famiglia e amici della vittima, brutte storie passate, la prova della cameriera (cioè come l’uomo tratta le altre donne, ad esempio le cameriere dei bar o ristoranti, così prima o poi tratterà la vittima), doppia reputazione, camminare sui gusci d’uovo, indifferenza verso i bisogni della vittima, dipingere la vittima come pazza. Almeno 3 di questi segnali dovrebbero far preoccupare chiunque. Ma lo psicopatico riesce a conquistare le sue prede perché inizialmente, come anticipato, è il compagno ideale; possiamo infatti distinguere tre fasi del processo di seduzione psicopatica: idealizzazione, svalutazione e scarto. Se inizialmente la donna è perfetta, una dea – e lui la sua metà perfetta, presto inizierà la svalutazione delle sue debolezze, per minare la sua autostima e renderla dipendente, in modo che non possa andarsene; finché interviene lo scarto: lo psicopatico si stufa, trova una sfida più eccitante, si annoia e quindi scarta la preda, assicurandosi però di mantenere sempre un filo legato a lei, uno spiraglio di possibilità per ritornare nella sua vita in qualsiasi momento lui voglia: si diverte a fare da giocoliere con quante più donne possibili, in quanto ciò lo fa sentire, ancora una volta, superiore rispetto agli altri. Nella seconda parte viene poi descritto il rapporto di Pablo Picasso, perfetto psicopatico, con una delle sue compagne, Francoise Gilot, raccontato nella biografia della donna stessa, che dopo anni di maltrattamenti e limitazioni è riuscita a lasciare questo amante psicopatico; e viene riportata la trama di Adolphe di Benjamin Constant, romanzo forse autobiografico e anch’esso racconta di un rapporto psicopatico, benché visto dalla parte del predatore. Le due opere presentano svariati punti in comune ed è possibile ritrovarvi ogni punto descritto nel libro finora, in maniera chiara e lampante: lo psicopatico prima idealizza, poi svaluta e tenta di limitare in ogni modo la libertà della preda, per poterla isolare e manipolare al meglio, salvo non tollerare alcuna limitazione per lui stesso (e, anzi, lamentandosi perché il fatto stesso di controllare la sua vittima lo priva della libertà). Infine, la seconda parte del libro si concentra sulle donne che amano gli psicopatici, sfatando il mito per cui siano donne deboli e vulnerabili e descrivendole invece come donne forti, affabili, spesso di successo – e quindi sfide più eccitanti per gli psicopatici – rese però totalmente dipendenti, specialmente dal punto di vista affettivo, ed isolate da famiglia e amici; inoltre, sono spesso donne tenaci, convinte quindi di poter cambiare il predatore: per tutti questi motivi è molto faticoso chiudere una relazione con uno psicopatico.

La terza parte del libro racconta come sia possibile salvarsi dalla seduzione psicopatica: poiché la psicopatia è considerata dalla psicologia una malattia incurabile, ogni tentativo di ‘cambiare’ un marito o compagno psicopatico, per quanto volenteroso, è destinato a fallire: ecco perché è necessaria l’elaborazione di un vero e proprio lutto, del compagno e della relazione idealizzate, per poter scappare definitivamente da una relazione malata. È necessario chiudere completamente tutti i contatti perché lo psicopatico è famoso per tentare di rientrare nella vita delle sue ex, quando più lo diverte, per evitare le cosiddette ‘relazioni boomerang’. Alcune donne scelgono di avvertire ‘le altre’, ma spesso non vengono ascoltate, magari perché tali ‘altre’ stanno ancora vivendo la loro perfetta luna di miele; perciò, sebbene spinta sicuramente da una buona intenzione, bisogna valutare bene di avvertire solo le donne che sarebbero in grado di aprire gli occhi e comprendere con chi hanno a che fare, onde evitare di ricevere ulteriori critiche rispetto a quelle già ricevute dallo psicopatico.

Bisogna inoltre far fronte anche alle pressioni esterne, ad esempio di famiglia e amici che non si rendono conto della vera natura dello psicopatico, che non riescono ad andare oltre la maschera di sanità già citata; oppure bisogna lottare contro credenze religiose o morali che non vedono di buon occhio il divorzio. Ma qualsiasi religione o credo non può professare di restare con un aguzzino: è necessario prendere sul serio il matrimonio, ma non a scapito della propria sicurezza (anche considerati i possibili tragici epiloghi di una relazione con uno psicopatico). In conclusione, si ricorda a tutte le donne in situazioni come queste quanto sia importante riprendere in mano la propria vita, partendo dalla costruzione (o dal recupero) di una sana autostima e dall’appoggio sulla rete sociale, superando timori di ricevere critiche e sfatando tutte le false accuse rivolte dal predatore.

Nella postfazione, Titti Damato riporta infine i casi di cronaca italiana di donne uccise da compagni-fidanzati-ex fidanzati- mariti (ed i numeri sono inquietanti), per poi riportare la legislazione relativa a questi crimini e allo stalking, insieme ad alcune indicazioni verso i centri antiviolenza. Da psicologa, poi, racconta e approfondisce il tema della psicopatologia psicopatica, appoggiandosi alle classificazioni del DSM-5 e di Robert Hare (autore della Psychopathy Check-List, che riporta i sintomi principali degli psicopatici). Damato svolge poi alcune considerazioni in merito alla situazione pandemica dei primi mesi del 2020: è tristemente noto che molte donne siano rimaste bloccate in casa coi propri aguzzini, ma da questo periodo di reclusione è possibile imparare qualcosa; se queste donne, infatti, spesso temono la solitudine e la singletudine (di solito perché il proprio valore dipende dalla valutazione altrui e temono di non poter resistere), questo periodo di blocco può essere stato un importante momento di riflessione e valutazione, di confronto con se stessi e, magari, decisivo nel prendere la decisione di troncare una relazione con una persona che, di fatto, non vuole il nostro bene, ma considera solamente i propri interessi.

Relazioni pericolose è quindi un libro estremamente interessante, che permette di far conoscere il fenomeno della psicopatia anche a chi non è formato sull’argomento: infatti, per qualunque donna (e anche uomo – perché chiunque può cadere nelle trame di uno psicopatico ed esistono, sebbene in percentuale minore, anche donne psicopatiche) la conoscenza è la migliore arma per difendersi. Saper cogliere i campanelli d’allarme ed evitare di minimizzarli, ma invece approfondirli e considerarli attentamente, è ciò che può impedire di cadere nella rete di uno psicopatico, evitando di idealizzare a sua volta lui e la loro relazione. Il libro poi è scritto in uno stile semplice e scorrevole, rendendosi perciò comprensibile a chiunque, indipendentemente dalla propria istruzione, ed è molto d’impatto, in quanto si rivolge direttamente alla donna potenzialmente vittima dello psicopatico, dandole direttamente del tu. Claudia Moscovici non smette mai di ripetere quanto siano pericolosi questi uomini, quanto siano senza scrupoli, diretti solo ai propri interessi e che intendono far male agli altri per puro divertimento, diversamente ad esempio dai narcisisti, che necessitano degli altri per confermare la propria autostima. Non c’è speranza per questi individui, non miglioreranno e non impareranno mai a prendere in considerazione l’altro o ad essere sinceri. Perciò, l’autrice si rivolge alle donne ed il messaggio è forte e chiaro: non cercate di essere tenaci, fuggite e chiudete la relazione, perché non avete alcun potere di cambiare un individuo affetto da tale patologia e non potrete far altro che uscire distrutte da una relazione del genere.

 

Perché ci piace stare molto tempo al sole nonostante i rischi noti? Alcuni geni coinvolti nelle dipendenze potrebbero spiegare il comportamento di “ricerca del sole”

Uno studio guidato dal King’s College di Londra su 260.000 persone, ha scoperto che alcuni geni coinvolti nelle dipendenze guidano il comportamento di “ricerca del sole”; sembrerebbe, infatti, che la voglia di stare sotto il sole venga spiegata da una predisposizione genetica (Sanna et al., 2020).

 

I ricercatori hanno studiato informazioni dettagliate sulla salute di 2.500 gemelli di TwinsUK, compreso il loro comportamento di “ricerca del sole” e il loro codice genetico (Sanna et al., 2020).

I gemelli identici in una coppia avevano maggiori probabilità di avere un comportamento simile in termini di “ricerca del sole” rispetto ai gemelli non identici, indicando che la genetica gioca un ruolo chiave in questo tipo di comportamento (Sanna et al., 2020).

Il team ha quindi identificato cinque geni chiave coinvolti nel comportamento di ricerca del sole da un’ulteriore analisi di 260.000 partecipanti di altre coorti. Alcuni di questi geni sono stati collegati a tratti comportamentali associati all’assunzione di sostanze e alla dipendenza, inclusi il fumo, la cannabis, il consumo di alcol e il numero di partner sessuali (Sanna et al., 2020).

L’autore senior, il dottor Mario Falchi del King’s College di Londra, ha dichiarato che i loro risultati suggeriscono che combattere l’eccessiva esposizione al sole o l’uso di prodotti abbronzanti, che hanno conseguente negative sulla salute della pelle, potrebbe essere più impegnativo del previsto, poiché il comportamento è influenzato da fattori genetici. I ricercatori, inoltre dichiarano che è importante che il pubblico sia a conoscenza di questa predisposizione, in quanto potrebbe rendere le persone più consapevoli del proprio comportamento e proteggerli così dai potenziali danni causati da un’eccessiva esposizione al solare (Sanna et al., 2020).

È chiaro in letteratura che l’eccessiva esposizione ai raggi solari è un fattore di rischio per quel che riguarda lo sviluppo di melanomi (cancri della pelle) (Gandini et al., 2005), questa ricerca dimostra che combattere questa tendenza a voler stare sotto il sole potrebbe essere più difficile del previsto, dato che, non si tratta puramente di comportamenti socialmente appresi o guidati da scopi personali quali “diventare più abbronzato per essere più attraente”; inoltre, il fatto che i geni coinvolti nella “ricerca del sole” sono gli stessi che spiegano determinate dipendenze patologiche è indizio che modificare il comportamento potrebbe esssere molto complicato (Sanna et al., 2020).

I ricercatori in questione asseriscono che verranno condotte ulteriori ricerche sull’argomento e, in un futuro, quando saranno più chiari i meccanismi che guidano la ricerca di sole, suggeriscono che si potrebbe addirittura parlare di dipendenza patologica; a quel punto, come naturale conseguenza, ci potrebbe essere lo sviluppo di nuove terapie atte a diminuire questo tipo di comportamento (Sanna et al., 2020).

 

Ridere in terapia: le funzioni della risata in psicoterapia

La risata rappresenta un arcaico segnale comunicativo di grande rilevanza per le interazioni sociali ed è spesso associata a diversi costrutti come il temperamento, lo stato emotivo e l’empatia. Come si colloca la risata nel contesto della psicoterapia?

 

Negli ultimi decenni l’umorismo è stato oggetto di una sempre maggiore attenzione da parte della comunità scientifica, specialmente nel campo della psicologia (Martin & Ford, 2018). Soggettivo, ma culturalmente onnipresente, l’umorismo nella comunicazione umana è stato ampiamente studiato da diversi approcci, principalmente analisi del discorso e psicologia e uno degli ambiti in cui esso può essere presente è quello della psicoterapia (Sultanoff, 2013). Tuttavia, un aspetto che viene spesso confuso e assimilato totalmente con l’umorismo è quello della risata: per diverso tempo lo studio empirico ha fatto coincidere i due termini, vedendo la seconda come strettamente connessa con il primo. Va però sottolineato come solo il 10-15% delle risate durante le interazioni sociali siano legate all’umorismo (Provine, 2004). La risata rappresenta un arcaico segnale comunicativo di grande rilevanza per le interazioni sociali spesso associata a diversi costrutti come il temperamento, lo stato emotivo e l’empatia (Ruch et al., 2019). Ci sono numerose evidenze che mostrano come la posizione della risata in una conversazione non sia casuale (Glenn & Holt, 2017) ed è quindi importante identificare le funzioni e l’azione di sequenze a cui è associata.

Funzioni della risata nella conversazione

La risata è spesso il risultato di una attività cooperativa di conversazione fra due o più interlocutori, non necessariamente legata all’umorismo. Fra le diverse funzioni della risata troviamo: (1) servire da “invito” a ridere, producendo risate condivise (Jefferson, 1979); (2) mostrare una comprensione di ciò che l’interlocutore sta dicendo (Schegloff, 2007); (3) enfatizzare la volontà di collaborare alla chiusura o definire una particolare traiettoria della conversazione (Holt, 2010). Inoltre, può anche verificarsi indipendentemente dall’umorismo in diversi contesti, come segno di imbarazzo o nervosismo in situazioni in cui le persone parlano dei loro problemi (Jefferson, 1979) o in conversazioni conflittuali in quanto viene utilizzata come strategia di mitigazione (Norrick & Spitz, 2008). Oltre alle diverse funzioni che la risata può servire, essa è strettamente legata all’asimmetria dei ruoli in contesti istituzionali: ad esempio è stato rilevato come i medici tendano a non ricambiare le risate dei pazienti, dato il loro ruolo e il compito che devono svolgere (Hakaana, 2010).

Ridere in psicoterapia

L’interesse per lo studio del ridere in psicoterapia è aumentato nel corso degli ultimi dieci anni, sebbene già di interesse di Sigmund Freud. Secondo il padre della psicoanalisi la risata rappresenta una scarica di energia psichica derivante da una tensione inibita che viene liberata attraverso il ridere (Freud, 1905). Inoltre, secondo la teoria psicoanalitica l’umorismo rappresenta un meccanismo di difesa maturo che aiuta una persona a prendere le distanze da eventi e ricordi dolorosi.

A tal proposito, uno studio statunitense (Marci et al., 2004) ha esaminato le interazioni fra terapeuti e pazienti in dieci sessioni di psicoterapia psicodinamica, attraverso l’analisi della conversazione delle videoregistrazioni delle sedute, mostrando come gli psicoterapeuti hanno mostrato un numero notevolmente minore di risate rispetto ai loro pazienti. La maggior parte delle risate sono state prodotte dagli stessi pazienti dopo aver pronunciato contenuti sensibili e non in risposta a commenti o frasi del terapeuta. I pazienti hanno riso più del doppio rispetto ai terapeuti, spesso ricorrendo alle cosiddette “risate nervose”, per mitigare l’ansia inerente il tema trattato. Da questo studio emerge come il significato delle risate di un paziente possa essere estremante diverso da quello di uno psicoterapeuta in quanto spesso funziona come meccanismo di difesa per proteggere l’individuo da una situazione imbarazzante o che provoca ansia. In un altro studio, Gibson e Tantam (2017) hanno suggerito l’ipotesi che la risata di invito da parte dei pazienti possa rappresentare una richiesta masochistica in quanto si ricercherebbe inconsciamente l’umiliazione del terapeuta.

Un recente studio italiano ha indagato il ruolo della risata in ambito cognitivo-comportamentale (Dionigi & Canestrari, 2018). In linea con altri studi sulla stessa materia, la ricerca italiana ha rivelato che ridere in psicoterapia assolve una grande varietà di funzioni, non solo legate al divertimento. Parte delle risate dei pazienti ha avuto la funzione di mitigare il disaccordo con quanto detto dal terapeuta e solo in un numero minore di casi la risata ha avuto la funzione di mostrare un accordo con il terapeuta. Questi risultati sono in linea con precedenti studi che, sempre utilizzando un approccio di ricerca basato sull’analisi conversazionale, hanno mostrato come vi siano sono costanti corrispondenze e disallineamenti nelle interazioni tra terapeuta e paziente durante una sessione di psicoterapia (Peräkylä, 2008).

Sempre nello studio di Dionigi e Canestrari (2018) si è evidenziato come le risate vengano spesso utilizzate dai pazienti quando parlano di problematiche delicate, strettamente legate al motivo per cui hanno chiesto una consultazione terapeutica. Una possibile spiegazione di questo fenomeno è che quando si parla di questioni sensibili, i pazienti menzionano aspetti di sé stessi che li ritraggono in una luce sfavorevole. Questo potrebbe rappresentare una possibile “frattura” del loro io ideale e il ridere sottolineerebbe un momento di imbarazzo. Inoltre, ridere quando si parla di un problema delicato può essere visto come un segnale meta-comunicativo relativo alla consapevolezza del paziente della propria situazione. Anche la posizione della risata non è casuale: la risata nervosa spesso appare alla fine del turno di conversazione, consentendo al paziente di “scaricare” la propria ansia per la situazione che sta vivendo.

Dal punto di vista applicativo, per un terapeuta è importante essere consapevole che le risate di un paziente possono accompagnare l’introduzione di un tema delicato, in modo da guidare il focus del colloquio. Dopo una risata nervosa del paziente, infatti, si possono utilizzare generalmente due strategie: chiedere maggiori informazioni in merito a quanto detto o rimanere silenti, in attesa che il paziente stesso continui a parlare del tema delicato. Cambiare argomento rappresenta invece una interruzione del flusso comunicativo (Dionigi & Canestrari, 2018).

Infine, uno studio recentissimo ha evidenziato anche aspetti disfunzionali del reciprocare la risata dei pazienti da parte dei terapeuti. Ridere insieme ai pazienti che usano l’umorismo in modo difensivo potrebbe rafforzare l’evitamento emotivo, in quanto non in grado di riconoscere il dolore sottostante la risata. A questo proposito è importante che i terapeuti valutino il tenore della risata dei pazienti, in modo da decidere se ridere con i pazienti, creando un senso di condivisione empatica oppure non reciprocare la risata e indagare in maniera più approfondita il tema presentato (Hussong  & Micucci, 2020).

La comprensione della malattia nei bambini

I bambini vivono la malattia come una sorta di “pausa dolorosa” nella loro normale vita fatta di giochi, interazioni sociali, impegni. Per i bambini vivere un periodo di malattia vuol dire interrompere la loro continua ricerca di serenità, svago, momenti di crescita.

 

La malattia assume un significato diverso a seconda dell’età del bambino. Possiamo indicare due modelli che tentano di spiegare la comprensione della malattia nel bambino, in particolar modo per quanto concerne nell’evoluzione della sua comprensione (Capurso,2019; Eiser,1985).

  1. Il modello stadiale
  2. Il modello “dinamico”

Alla prima categoria appartiene il modello che si rifà alla teoria degli stati evolutivi di Piaget (Piaget, 1953). In base a tale modello, la comprensione della malattia nel bambino avviene seguendo alcune tappe di sviluppo, uguali per ogni soggetto.

Nella sua teoria stadiale, Piaget identifica i seguenti stadi di sviluppo:

  • 0-2 anni: stadio sensomotorio
  • 2-6 anni: stadio preoperatorio
  • 6-12 anni: operatorio concreto
  • 12 anni in poi: operatorio formale

Secondo la teoria piagetiana, il bambino riesce a comprendere i concetti legati alla malattia attraversando, in modo ordinato, gli stadi prefissati e il passaggio allo stadio successivo presuppone il consolidamento dello stadio precedente. In base a tale ottica, un bambino che si trova nello stadio preoperatorio non potrà avere gli strumenti cognitivi per la comprensione tipica di un bambino di 8 anni.

Come facilmente intuibile, la rigidità stadiale non può che essere limitativa, non soltanto per la spiegazione sullo sviluppo psico-fisico e sociale del bambino, ma pone anche forte limitazioni circa gli obiettivi da porsi per incrementare tale sviluppo.

Il modello definito “più dinamico” invece, pur riconoscendo nella teoria piagetiana un fondamento della psicologia dello sviluppo, ha posto le basi per l’avvio di critiche e revisioni costanti ( Carugati & Selleri, 2005).

L’approccio costruttivista rappresenta il superamento delle teorie piagetiane, un approccio flessibile, duttile il quale pone l’attenzione non soltanto allo sviluppo fisico del bambino, ma pone l’accento sul ruolo del contesto sociale, culturale, esperienziale come elementi costruttivi dello sviluppo del soggetto.

In base a tale approccio, se un bambino viene accompagnato, nel suo processo di comprensione, da un adulto competente, lui stesso diventerà un bambino competente. Lo scaffolding (David Wood, Bruner & Ross, 1976) rappresenta, in senso figurato, le funzioni che un caregiver deve avere nelle sue funzioni di tutor dello sviluppo. Il significato a ciò che succede intorno al bambino deve essere co-costruito in modo che, la maturazione avvenga in modo naturale ed eliminando ogni pericolo di distorsione della comprensione.

Michael Siegal (Siegal, 1988) in uno studio condotto nel 1988 ha sperimentato diverse situazioni per verificare la capacità dei bambini di comprendere il concetto di contagio come cause di alcune malattie. Attraverso la proiezione di filmati, racconto di storie, anche i bambini più piccoli possedevano conoscenze circa la possibilità di contagio e dunque di insorgenza della malattia dovuta ad esso. In virtù di tale conoscenza, lo stesso autore concluse che anche in età precoce (scuola dell’infanzia), i bambini erano in grado di mettere in atto azioni di auto-tutela nei confronti del contagio.

Se si creano le condizioni sociali, relazionali, cognitive, di supporto adeguate, anche i bambini saranno in grado di esprimere conoscenze ed attuare comportamenti adeguati per evitare malattie da contagio.

 

L’arte di volerti bene (2020) di Alberto Simone – Recensione del libro

L’arte di volerti bene tratta un tema che alterna spazi e tempi assoluti, si svolge tra dolore e ironia, precarietà e perfetta lucidità nella fedele, costante ed inalterabile fiducia nell’uomo.

 

L’arte di volerti bene di Alberto Simone (Tea Edizioni, 2020) è un invito purificatore all’arte della cura, una saggia priorità esistenziale, in cui la necessità e l’urgenza del monito individuale a coltivare il bene, a riconoscere il valore potenziale della nostra anima e l’accettazione delle nostre finitezze umane, meritano la possibilità intensa dell’arricchimento emotivo.

L’autore offre il sostegno efficace dell’autostima, analizzando ogni valutazione positiva delle proprie capacità, dedicando l’attenzione alla preziosa abitudine alla disponibilità umana, a custodire il corpo e la mente, in un equilibrio meraviglioso sulla soglia dell’espressione.

Il libro è un dono propizio strategicamente sostenuto nel linguaggio brillante e costruttivo e nel degno senso di amore e di comprensione, facoltà comunicative utili affinché possano crescere e progredire i nostri aspetti migliori. Attraverso il coraggio percettivo di cambiare le cose, l’autore consegna un favorevole apprendimento, una beata opportunità per imparare a vivere di nuovo, anche attraverso gli errori, ed estrarre l’insegnamento nascosto dietro alle colpe.

La serena lezione di Alberto Simone è una compiuta scommessa alla benevolenza, sui luoghi, sulle relazioni, sulle attività e sui pensieri che nutrono la gioia di vivere, la pace e la piacevolezza. Un’energia necessaria per affrontare lo stress della vita quotidiana e un incoraggiamento incondizionato ad apprezzare la possibilità infinita della spontanea dedizione di ogni disposizione d’animo.

I testi descrivono l’abilità essenziale della salute emozionale, costituiscono la base per valorizzare il nostro cammino e costruire una vita appagante, prendendoci premura del nostro benessere. Un’occasione adatta per riconoscere il giusto valore del tempo, per privilegiare la sintonia, l’intesa e la complicità con il mondo, identificando pensieri e gesti in un atteggiamento cosciente. Ogni motivazione dell’anima è un ascolto intimo, un miracolo emotivo che sprigiona forza poetica dalla sua materia, raccontando attraverso una lettura privata e strettamente privilegiata la raffinata sensibilità, amplificando con le facoltà sensoriali tutta la sincerità sentimentale dell’autore.

Alberto Simone si rivolge sempre al lettore con le sue infinite evocazioni, antiche corrispondenze di buon senso tra sensazioni sorprendenti e meraviglie ancestrali che si assestano nel riflesso della consapevolezza e hanno sempre vita e luce propria. La realtà abbraccia l’esigenza eloquente del valore morale come un contenuto di profonda ed autentica originalità.

Il tema trattato alterna spazi e tempi assoluti, si svolge tra dolore e ironia, precarietà e perfetta lucidità nella fedele, costante ed inalterabile fiducia nell’uomo. Le vicissitudini umane, che toccano ognuno di noi, rintracciano e ritracciano la memoria dell’autore, capace di restituire in dono i sapori, gli odori, i colori della vita.

Giochi di specchi, sovrimpressioni, rifrazioni generano disorientamenti inattesi negli ostacoli, ma graditi e felici compiacimenti nelle “resistenze interiori”. Le parole non sono mai in fuga, hanno la complicità dell’ascolto, elemento fondamentale nella comprensione umanissima e carnale. L’ebbrezza di ogni nuova gratificazione convince e persuade il passaggio di ogni piccola rinascita emotiva, meditata per evolvere il desiderio di essere felici.

La buona notizia è che puoi sottrarti in ogni momento a un’esistenza guidata dal passato o dagli automatismi mentali in cui ti sei ritrovato incastrato. Concediti la possibilità di praticare l’ascolto consapevole: vedrai la mente svuotarsi un po’ alla volta di tanti pensieri inutili e tornerai a essere presente con la rinnovata spontaneità di un bambino. (Simone 2020)

Accettare significa smettere di creare separazione tra te e il mondo, e soprattutto cercare di aggiustarlo perché corrisponda alle tue aspettative anche quando non ce n’è alcun bisogno. (Simone 2020)

L’arte di volersi bene può nascere da una decisione istantanea, da un’illuminazione o da un lampo improvviso di consapevolezza. Oppure da un percorso che ha già le sue aree di sosta e di progressiva riparazione…. (Simone 2020)

 

Fino a che punto le persone sono disposte a sostenere le proprie menzogne?

Uno studio di pochi anni fa ha esaminato se, e in che misura, una persona che ha detto una bugia ha continuato a impegnarsi per mentire e se le sue azioni future sarebbero state influenzate da tale impegno anche a costo di rinunciare a qualche profitto.

 

Ci sono molte ragioni per cui le persone mentono: per ottenere benefici materiali, per impressionare, per salvarsi dall’imbarazzo o dal disagio, per evitare la punizione, per proteggere una relazione, o anche per beneficiare gli altri (attraverso le bugie bianche) (Vrij, 2000). Anche se spesso benefiche, le menzogne comportano dei costi, in quanto violano la coerenza reale o percepita, che è uno dei fondamenti delle relazioni interpersonali (Cialdini et al., 1995). Esse degradano la qualità delle informazioni trasmesse, diminuendo così la capacità di giungere a una decisione informata e di alta qualità (Lewicki, 1983), compromettono la comunicazione interpersonale (Grice, 1989), comportano costi psicologici interni al bugiardo (Mazar et al., 2008), infine, essere scoperti a mentire suscita emozioni negative che colpiscono entrambe le parti (Lewicki, 1983; Sagarin et al., 1998) e può portare ad azioni (come la punizione) contro il bugiardo (ad esempio, Lewicki, 1983; Mazar et al., 2008). Le persone, infatti, sono più propense alla menzogna quando il timore di essere smascherati è scarso (Mazar et al., 2008). Spesso, poiché il comportamento che segue la bugia può determinare la probabilità di essere scoperti, le persone scelgono di agire in modo da ridurre al minimo tale rischio: sorge spontanea la domanda “Fino a che punto queste persone si spingerebbero?”.

Uno studio di pochi anni fa ha esaminato se, e in che misura, una persona che ha mentito ha continuato a impegnarsi per mentire e se le sue azioni future sarebbero state influenzate da tale impegno anche a costo di rinunciare a qualche profitto. Nello specifico, gli autori (Mazar et al., 2015) hanno condotto tre esperimenti, utilizzando un paradigma sperimentale basato su due compiti: un compito di segnalazione e un compito di previsione. Questo paradigma consisteva in un’urna contenente 100 biglie di due colori diversi e, per ognuno dei 40 tentativi, ciascun partecipante doveva estrarre una biglia e riportarne il colore. Uno dei due colori era quello connotato come vincente, così la sua segnalazione veniva premiata. In questo compito i partecipanti hanno avuto un incentivo finanziario che potesse spingerli a gonfiare il numero di biglie del colore vincente, senza correre il rischio di essere sorpresi a mentire, in quanto l’urna era visibile soltanto al partecipante. Accanto all’urna, sempre nascosto agli occhi dello sperimentatore, vi era un computer portatile su cui vi erano due tasti corrispondenti ai colori delle biglie presenti nell’urna, così che il partecipante potesse riportare i colori premendo il tasto del computer corrispondente. Il computer, inoltre, mostrava al partecipante il numero del colore meno comune. Nel secondo compito, è stato chiesto di prevedere il numero di biglie del colore vincente che sarebbero apparse. La ricompensa per la performance in questo compito si basava sull’accuratezza della previsione, tuttavia questa volta, l’urna sarebbe stata visibile sia al partecipante che allo sperimentatore. Ovviamente, il numero che con ogni probabilità avrebbe dovuto essere più preciso era quello effettivamente osservato durante l’attività di segnalazione, piuttosto che il numero riportato – quest’ultimo poteva infatti essere gonfiato per ottenere una ricompensa maggiore. Tuttavia, fare una previsione molto diversa dal valore precedentemente riportato, avrebbe costituito un’ammissione indiretta di una precedente menzogna.

L’esperimento 1 prevedeva due fasi, ognuna delle quali consisteva in un compito di segnalazione e un compito di previsione, ma con il secondo compito della seconda fase non incentivato. Lo scopo di questo esperimento era di dimostrare che le persone (N=33) sono disposte a rinunciare ad un possibile profitto per mantenere la falsa rappresentazione che hanno esibito.

L’esperimento 2 è stato monofase ed ha utilizzato un compito di segnalazione preliminare non incentivato, seguito da un compito di segnalazione incentivato e da quello di previsione. I partecipanti erano 39. Lo scopo era quello di evitare una possibile spiegazione alternativa basata sull’ancoraggio del comportamento di previsione.

Nell’Esperimento 3 è stata introdotta una procedura che garantiva l’anonimato delle segnalazioni per vedere se, quando la propria previsione non poteva essere associata alle precedenti segnalazioni, i partecipanti si sarebbero comunque impegnati a mentire. La tesi principale degli autori è che il comportamento che segue una bugia è influenzato dalla menzogna in quanto il bugiardo cerca di assicurarsi che l’atto di mentire non sia scoperto, pur avendo un costo. I partecipanti (N= 43) non solo potevano esagerare la quantità riportata di biglie vincenti, ma anche nessuno poteva dire quante biglie premianti avevano segnalato. Era quindi impossibile scoprire se la loro previsione differisse dalla loro segnalazione, cosa che li avrebbe categorizzati come bugiardi. In tali condizioni le persone non sarebbero state vincolate alle loro menzogne.

Alla fine di tutti i compiti di previsione, venivano divise per colore le biglie estratte e contate dallo sperimentatore, così da offrire il compenso al partecipante sulla base dell’accuratezza della sua risposta.

In conclusione, l’obiettivo di questa ricerca è stato quello di studiare gli aspetti del comportamento che seguono una bugia. In particolare, è stato esplorato fino a che punto le persone sarebbero state pronte a rinunciare a un beneficio per non rischiare di smascherare, con un’azione futura, una loro precedente menzogna. Dai risultati dell’esperimento 1, è emerso che le persone sono disposte a rischiare il profitto futuro e addirittura a rinunciarci del tutto, per non essere colte a mentire. Nella prima fase, durante il compito di segnalazione i partecipanti avevano riportato di aver estratto un numero di biglie più elevato del colore premiante rispetto a quello realmente osservato (rispettivamente 19.55 e 14), mentre nella successiva previsione avevano indicato come numero il 17.55, indicando che i partecipanti, pur prevedendo una quantità inferiore rispetto a quella precedentemente segnalata, erano ancora implicati nelle loro menzogne. Al contrario, nella seconda fase, la previsione a seguito del compito di segnalazione non incentivata non è risultata significativamente superiore al numero realmente osservato (rispettivamente 14.64 e 14). I risultati dell’esperimento 2 hanno confermato i risultati precedenti, è emerso che la media riportata del primo task non incentivato era più vicina al valore atteso (n=14), la media riportata del secondo task di segnalazione non incentivato era significativamente più elevata, mentre la media del compito di previsione era un valore intermedio ai due precedenti. Infine, con l’esperimento 3, è stato dimostrando che, se non ci sono persone ad osservare, i soggetti non si impegnano a mantenere la bugia: la strategia di creare un contesto di menzogna non vincolante ha fatto sì che i partecipanti si sentissero liberi di agire in linea con ciò che era più proficuo, in quando il rischio di essere scoperti a mentire era quasi del tutto nullo.

Possiamo concludere che le persone si sentono vincolate dalle loro bugie e che, una volta che hanno detto una bugia, sono disposte a rischiare i profitti futuri per non essere scoperte. Sarebbe interessante in futuro condurre ulteriori ricerche volte ad esplorare le motivazioni alla base delle menzogne e a classificare le situazioni in cui esse vincolano il bugiardo.

 

Joker (2019) e le conseguenze dei vissuti traumatici nell’età adulta – Recensione del film

Un artista sull’orlo del fallimento, talentuoso, ma tremendamente insicuro, con trascorsi tutt’altro che lieti e un funzionamento mentale instabile, Arthur Fleck non è diventato Joker dall’oggi al domani, ma ha subìto una lenta e progressiva discesa dalla sua infanzia per esplodere nell’età adulta.

 

Sempre sorridente, la madre lo chiama ‘Happy’, di professione fa il clown, per Arthur ridere è qualcosa di estremamente importante perché è la strategia con cui nasconde il dolore, la rabbia, la delusione, la tristezza, tutte quelle risonanze emotive che rifiuta energicamente con l’ostinazione a sorridere e a comportarsi educatamente e gentilmente con chiunque.

Nel film il protagonista afferma di soffrire di una sindrome neurologica che lo porta a ridere incontrollatamente; in realtà sta interpretando un disturbo che, invece, sembra avere una forte connotazione psicologica. Arthur non prorompe in questa risata casualmente, ma in occasione di situazioni stressanti che innescano un disagio abilmente soppresso, una complicata trama emotiva che con il tempo ha imparato a silenziare con un ottimismo fittizio, con una felicità delirante e completamente distaccata dall’entità degli eventi. Da quella risata inconfondibile si intravede un’assenza di coerenza e di integrazione degli affetti scissi e alternati, che si notano a primo impatto dal cambiamento repentino dell’espressione facciale, una mutevolezza che lascia lo spettatore e i personaggi spaesati.

Arthur trascorre un’esistenza desolante, travolto da una trafila di disgrazie e ingiustizie, un lavoro denigrante e umiliante, una vita sociale priva di affetto e accoglienza. Arthur è potenzialmente un uomo eccezionale, bellissimo, simpatico e intelligente, ma il suo aspetto trascurato, l’aria dimessa e dinoccolata e l’impellente bisogno di ricevere attenzioni, fino a rendersi ridicolo, allontanano chiunque si presenti a pochi passi da lui.

Prova, così, con mezzi maldestri e inquietanti, a strumentalizzare la comicità per avvicinarsi agli altri, ma ottiene l’effetto contrario. Purtroppo, però, nessuno, a parte i bambini, apprezzerebbe uno sconosciuto trasandato e con i vestiti sgualciti che fa le boccacce sul pullman, e Arthur non sembra conoscere altre vie più congeniali e pertinenti per approcciare le persone, così il rifiuto e l’isolamento non facilitano la situazione, ma la aggravano progressivamente. Ed è così che ogni scortesia e indifferenza diventa un espediente aggiuntivo per fomentare la rabbia, il senso di ingiustizia, per vedere un mondo pieno di discriminazione e odio verso di sé, per rinchiudersi ancora in quella casa dove, con assoluta abnegazione, si prende cura della madre, nella convinzione che ogni sofferenza passerà sorridendo e ballando, che nessuna mancanza di rispetto getterà a terra il suo morale.

Eppure Arthur continua a soffrire, assume una trafila di psicofarmaci di cui non sente minimamente gli effetti, è stato spedito da una psicologa stanca e stufa di un sistema decadente che non elargisce il giusto aiuto a chi, come lui, non può permettersi le giuste cure. Il rifiuto e l’inganno rimbombano ed esplodono in concomitanza di due eventi critici a partire dai quali Arthur sprigiona Joker, un’identità completamente diversa da quella che aveva mostrato fino ad ora; diventa un criminale incallito, il leader degli emarginati, freddo e sprezzante, estremamente disinvolto, che danza per celebrare la distruzione e il trionfo sull’oppressione e sulla desolazione.

Da questo momento in poi Arthur esce di scena per lasciare spazio ad un altro sé, quello nutrito da tutto ciò che non ha potuto elaborare, dai vissuti scaturiti dall’inganno, dall’isolamento e dalle torture. Così nasce Joker.

Mente e corpo sono tra loro collegati? Un dialogo tra psicologia e osteopatia

L’Osteopatia è un sistema di diagnosi e trattamento che si dimostra efficace per la prevenzione, la valutazione e il trattamento di disturbi che interessano non solo l’apparato neuro-muscolo-scheletrico ma anche cranio-sacrale e viscerale (WHO, 2008).

 

Da tempo è stato accertato ed accettato che il funzionamento psichico e quello somatico sono strettamente collegati. Nonostante ciò, la medicina si è focalizzata sullo studio (dal punto di vista biologico) del corpo, invece, la filosofia e la psicologia si sono concentrate esclusivamente sullo studio dei processi mentali.

L’origine di tale dicotomia è riconducibile alla cultura occidentale.

Nel ‘600, grazie al contributo di Cartesio, lo scenario cambia; egli distingue la res extensa e la res cogitans. La prima rappresenta la materia, consistente in tutto ciò che è osservabile e misurabile; la seconda, invece, rappresenta il pensiero, il quale in quanto tale non può essere osservato. Nell’uomo, queste due sostanze trovano un importante punto di incontro: la ghiandola pineale.

Il contributo del filosofo francese ha spinto gli studiosi di varie discipline a soffermarsi sul legame tra mente e corpo, approfondendo, così, i processi biologici e psicologici spiegando come essi si influenzino vicendevolmente, determinando una condizione di benessere o malessere nella persona (Trombini & Baldoni, 2001).

Nel corso degli anni è nata la medicina psicosomatica, avente come oggetto di studio il rapporto tra psiche e soma e le espressioni di disagio somatico, scatenate da variabili psico-emozionali, quali ad esempio stress, ansia, rabbia, etc. (Schwartz, 1982).

L’individuo è immerso continuamente nell’ambiente che lo circonda e spesso può riportare dei sintomi somatici in risposta ad eventi stressanti (Trombini & Baldoni, 1999); le medesime considerazioni sono state fatte dall’osteopatia.

L’Osteopatia è stata definita come una medicina manuale complementare e integrativa (HNCCI, 2018). Nasce verso la metà del XIX secolo dal pioniere Andrew Taylor Still, medico e chirurgo statunitense, il quale coniò il termine ‘Osteopatia’ nel 1889 e ne fondò i principi nel 1874 (Trowbridge & Still, 1991).

L’Osteopatia è un sistema di diagnosi e trattamento che, pur basandosi sulle scienze fondamentali e le conoscenze mediche tradizionali (anatomia, fisiologia, biomeccanica, etc…), non prevede l’uso di farmaci né il ricorso alla chirurgia, ma attraverso manipolazioni e tecniche specifiche si dimostra efficace per la prevenzione, la valutazione ed il trattamento di disturbi che interessano non solo l’apparato neuro-muscolo-scheletrico ma anche cranio-sacrale e viscerale (WHO, 2008).

L’Osteopatia non si limita a sopprimere il sintomo, bensì ricerca la causa primaria delle manifestazioni cliniche. Still diceva:

L’ Osteopatia si basa sulla perfezione del lavoro della natura. Quando tutte le parti del corpo umano, sono in ordine, stiamo bene. Quando non lo sono la conseguenza è la malattia. Quando le parti vengono riaggiustate la malattia lascia il posto alla salute. Il lavoro dell’osteopata consiste nell’aggiustare il corpo portandolo dall’anormalità alla normalità; dopo di che la condizione anomala cede il posto alla condizione normale e la salute ne è il risultato.

La filosofia osteopatica si basa su tre principi fondamentali:

  • L’essere umano è un’unità fondamentale, la cui salute è correlata con il corpo, mente e spirito;
  • L’organismo ha la capacità di autoregolarsi e tende all’autoguarigione;
  • Esiste un legame inscindibile tra struttura e funzione.

Come George Engel ha sottolineato nel 1977, tutti i pazienti con una malattia hanno componenti fisiche, psicologiche e sociali che interagiscono in relazioni complesse influendo su comparsa, decorso ed esito della loro malattia (Engel, 1977); quest’autore è considerato il fondatore del modello biopsicosociale. Secondo questo modello la malattia è data da una serie di cause e concause (biologiche, psicologiche e sociali) che si influenzano tra loro (Engel, 1977).

L’esperienza della malattia ha un potente effetto sugli individui e, per alcuni pazienti, può diventare il fattore determinante nel risultato finale. Inoltre, fattori come il sostegno sociale, situazioni di vita stabili e fattori di personalità hanno dimostrato di avere un ruolo importante negli esiti sanitari (Kiecolt-Glaser, McGuire, & Robles, 2002).

Lo studio longitudinale di Alameda ha riscontrato che gli individui con livelli più alti di supporto sociale (cioè quelli sposati, facenti parte di gruppi religiosi o sociali, o che hanno amici stretti) avevano una mortalità inferiore del 50% nel corso di 9 anni (Berkman & Syme, 1979).

E’ stato dimostrato anche che i fattori legati alla personalità influenzano lo sviluppo di determinate malattie. Infatti, lo studio condotto dai medici e avvocati della University of North Carolina ha dimostrato che coloro che hanno riportato livelli più elevati di rabbia e ostilità durante i corsi universitari avevano più probabilità di sviluppare infarti al miocardio e avevano tassi di mortalità più elevati nel corso della vita (Barefoot, Dahlstrom, & Williams, 1983).

Il dottor Sarno ha studiato la teoria secondo cui la risposta a situazioni di stress ed emozioni, consce e non, era la vera causa dei sintomi osservati in molti dei suoi pazienti. Egli ha sviluppato un approccio psicoeducativo per tali pazienti e ha riscosso buoni risultati nella cura di pazienti con sintomi muscolo-scheletrici cronici. Inoltre, ha riscontrato che molti pazienti riportavano miglioramenti dei sintomi concomitanti in altri sistemi (ad esempio gastrointestinali, genito-urinari) e sintomi psichiatrici (ad esempio ansia, depressione, insonnia, stanchezza) insieme con i sintomi muscolo-scheletrici, quando alcuni dei problemi psicologici sottostanti venivano individuati ed affrontati. La componente chiave di questo approccio, tuttavia, non è nelle modalità di trattamento psicologico, ma nel riconoscimento che mentre i sintomi fisici sono reali, tali sintomi non sono dovuti ad un disturbo patologico del corpo, ma sono causati da processi mentali, e pertanto, possono essere curati con un approccio puramente psicologico (Sarno, 1998).

In ambito psicologico, una volta che è stata appurata l’origine psichica dei sintomi somatici, è importante che vengano individuate delle strategie efficaci per aiutare il paziente a gestire i fattori psicologici ed emozionali che andrebbero a generare i sintomi fisici che sono stati sopracitati (Trombini & Baldoni, 2001); in quanto, in accordo con la definizione dell’OMS (1998), la salute è ‘uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non la semplice assenza dello stato di malattia o infermità’.

Cosa tratta l’osteopatia

L’Osteopatia è particolarmente efficace nei disturbi funzionali e nei dolori, come ad esempio:

  • I dolori, i disturbi e le patologie vertebrali ed osteo-articolari
  • I disturbi neurologici: nevralgie, disfunzioni neurovegetative e sensoriali
  • I disturbi viscerali
  • Patologie muscolari, articolari, legamentose, discali, degenerative, e gli esiti dei traumi (esempio: colpo di frusta)
  • Le sequele post-partum
  • Le sequele post-operatorie
  • Il trattamento dei pazienti in età geriatrica
  • I disturbi motori e cerebrali infantili correlati con sofferenze durante il parto
  • I problemi occluso-posturali e ortodontici
  • Le disfunzioni cranio-mandibolari
  • I disturbi funzionali del sonno, della digestione, del ciclo mestruale.

L’Osteopatia è una medicina manuale e un sistema riconosciuto di prevenzione e cura che rispetta la relazione tra corpo, mente e spirito sia in salute che nella malattia, ponendo l’enfasi sull’integrità strutturale e funzionale del corpo come condizione necessaria affinché l’individuo possa autoregolarsi (Osteolab, 2020).

Gestione del paziente

Nel corso del trattamento del paziente è fondamentale che il professionista sia a conoscenza della probabilità che nella maggior parte delle persone si verifichino disturbi psicosomatici durante la loro vita. Un’anamnesi accurata ed un esame fisico dovrebbero includere l’indagine dei potenziali disturbi organici e funzionali, cioè esaminare non solo i segni di compressione della radice nervosa, tumore o infezioni, ma determinare anche i fattori psicologici e sociali che possono aver portato a questo insieme di sintomi.

La domanda che bisogna porsi è: ‘Che cosa stava accadendo nella vita del paziente nel momento in cui questi sintomi sono comparsi?’. Per i pazienti che si presentano con recenti mal di testa, sintomi intestinali o della vescica o condizioni dolorose che non hanno una condizione patologica chiara può essere necessaria una certa quantità di indagini sui fattori stressogeni e sulle emozioni sottostanti per scoprire sensi di colpa, rabbia, paura, risentimento. Una volta che una condizione psicosomatica viene diagnosticata, la gestione dovrebbe consistere in quanto segue:

  • Evitare eccessivo riposo e disabilità. Incoraggiare le attività di routine e l’esercizio fisico;
  • Rassicurare circa la mancanza di malattie gravi e informare il paziente in merito alle sue condizioni. Un termine utile è ‘sindrome mente-corpo’. Sottilineare che questa sindrome è reale e che i sintomi sono curabili.
  • Spiegare come questa sindrome mente-corpo provoca sintomi reali e come i meccanismi fisiologici nel cervello e nel corpo creano questo circolo vizioso.
  • Considerare un consulto del paziente con uno psicologo specializzato in questa condizione che possa aiutare il paziente a capire ed affrontare i propri fattori stressogeni dell’infanzia e dell’età adulta (Chila, 2015).

 

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