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Digital Phenotyping: sfide etiche e promesse di un nuovo strumento per il clinico – Psicologia Digitale

La digital phenotyping, la fenotipizzazione digitale, consiste nella raccolta e utilizzo di informazioni digitali che lasciamo online allo scopo di tracciare profili psicofisiologici. 

PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr. 13) Digital Phenotyping: sfide etiche e promesse di un nuovo strumento per il clinico

Cos’è il Digital Phenotyping

 La raccolta di dati online – grazie a dispositivi come smartphone, wearable devices o assistenti vocali – al fine di identificare i comportamenti legati alla salute è una pratica definita con il termine fenotipizzazione digitale (Onnela & Rauch, 2016; Mohr et al., 2020).

Nata più di 15 anni fa nell’ambito dell’informatica, viene indicata in vari modi come ‘context sensing’, ‘reality mining’, ‘mobile sensing’, ‘behavioral sensing’ e ‘personal sensing’; ma è solo con le prime pubblicazioni in ambito medico, a partire dal 2015, che si è cominciato a parlare di ‘fenotipizzazione digitale’, digital phenotyping, anche se per alcuni è preferibile il termine ‘personal sensing’ poiché fa un chiaro riferimento alla natura personale dei comportamenti e degli stati che vengono rilevati (Mohr et al., 2017; Mohr et al., 2020). I dati raccolti possono essere attivi o passivi a seconda che l’utente li inserisca attivamente o siano solo rilevati dal dispositivo.

La tutela dei dati personali

Non dovremmo più stupirci di quanti e quali dati vengono raccolti ma concentrarci su come utilizzarli e come approcciarci al loro utilizzo in maniera ottimale (Stanghellini e Leoni, 2020). Tracciare e conservare dati personali solleva sfide e rischi di carattere etico: come preservare la privacy in modo efficace? Per esempio, anche se i pazienti acconsentono a far monitorare il loro smartphone, c’è piena trasparenza e una profonda comprensione di quali dati saranno raccolti e come questi dati saranno utilizzati?

Alcuni di questi interrogativi possono avere soluzioni tecniche come mantenere i dati in locale e non in cloud, oppure come il servizio Takeout di Google che consente di conoscere e scaricare i dati personali condivisi, garantendo quindi la trasparenza per l’utente (Insel, 2018). Ci sono poi piattaforme nate in ambito scientifico (ad esempio, Beiwe, Purple Robot e Monsenso) che rispettando la privacy consentono la raccolta di dati in maniera efficace ai fini di studio e integrazione con gli interventi clinici (Huckvale et al., 2019).

E gli interventi terapeutici?

Stanghellini e Leoni (2020) sostengono che ci sia il rischio di de-materializzazione, di mettere da parte la relazione che è parte integrante del processo terapeutico. Se la fenotipizzazione digitale è un’opportunità per ampliare le conoscenze sui disturbi, il loro decorso e il loro esito, e un mezzo per monitorare i pazienti, trattandoli in modo tempestivo e continuo nel tempo, è pur vero che operare a distanza implica alcuni accorgimenti.

Uno dei timori infatti è che ci si concentrerà su comportamenti ed indici numerici piuttosto che sulla loro eziologia biologica o psicologica, tralasciando la comprensione del paziente. Focalizzati sul potere predittivo di queste tecnologie, i clinici rischiano di tralasciare lo studio e l’analisi qualitativa delle cause. Anche per i pazienti possono esserci dei rischi, come focalizzarsi eccessivamente sul monitoraggio alimentando paure eccessive e interpretazioni erronee di sintomi (ipocondria cibernetica).

Insel (2018) invece parla di problemi specifici ai quali il digital phenotyping può rispondere. Per esempio, le informazioni riportate direttamente dal paziente possono essere non accurate e obiettive; grazie a questo approccio invece abbiamo una misurazione oggettiva ed ecologica, nel contesto dell’esperienza vissuta. Inoltre, si può intercettare il bisogno di chi non cerca esplicitamente un supporto, come per coloro che arrivano all’attenzione del clinico a disturbo già conclamato; o ancora, aiutare a prevenire ricadute, andando a fornire segnali anticipatori. Attraverso raccolta e analisi di dati si può arrivare a promuovere comportamenti virtuosi, identificare condizioni non diagnosticate o la necessità di modifiche al trattamento, progettare interventi su misura, coinvolgere il paziente e monitorare il trattamento.

La promessa della fenotipizzazione digitale

Il rilevamento sistematico delle nostre impronte digitali ha un enorme potenziale. La fenotipizzazione digitale può dare un contributo valido in prevenzione, screening e diagnosi precoce, monitoraggio e trattamento: migliorare la comprensione dei disturbi e delle loro manifestazioni; fornire trattamenti mirati; raccogliere osservazioni obiettive; facilitare l’identificazione precoce di un problema; integrare i dati raccolti nei trattamenti (Huckvale et al., 2019).

Bisogna partire da un approccio multidisciplinare in cui medicina, psicologia e informatica collaborino nello sviluppare strumenti per la raccolta dati che tutelino la privacy e siano funzionali ed efficaci alla ricerca e pratica clinica; ancora, rendere la fenotipizzazione digitale oggetto di studi su vasta scala al fine di individuare standard e protocolli generalizzabili e poter combinarla con gli interventi digitali.

Come per tutti gli strumenti, rimane alla sensibilità clinica del terapeuta farne buon uso in maniera responsabile e nel modo più efficace possibile.

 


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Monogamia e tradimenti: diversità di genere, due premesse – Una serie di Roberto Lorenzini

Oggi pubblichiamo il terzo lavoro della serie di Roberto Lorenzini, dedicata al tema della monogamia e delle sue implicazioni psicologiche, affettive, relazionali e, perché no, sessuali. Lorenzini propone una tesi forte: la monogamia non funziona. E prosegue il suo racconto esplorando le diversità di genere rispetto alla monogamia.

MONOGAMIA E TRADIMENTI(Nr. 3 ) Diversità di genere, due premesse

 

a. Premessa nel mondo animale

In natura ciò che decreta il successo evolutivo di una specie è la massima prolificità che sembra declinarsi in due spinte apparentemente contrapposte: avere più partner possibili e restare con lo stesso partner per tutto il tempo necessario perché la prole possa cavarsela da sola. Tempo che nella specie umana originariamente e biologicamente era di alcuni anni e nella società attuale è divenuto di alcuni decenni.

Naturalmente uno dei due obiettivi è più compatibile con la monogamia, restare con lo stesso partner per tutto il tempo necessario perché la prole possa cavarsela da sola, mentre l’altro meno, avere più partner possibili. Rispetto a questi due obiettivi i generi maschile e femminile possono porsi in maniera differente. Per capire questa differenza, è importante prima introdurre qualche dato sul mondo animale.

Sappiamo che la monogamia è massima fra gli uccelli, si stima il 90% delle specie, la cui prole necessita di entrambi i genitori per sopravvivere, mentre è rara fra i mammiferi con diversificazione tra i gruppi. In alcune specie di uccelli i due partner possono tradirsi a vicenda aumentando la propria fitness riproduttiva, senza però minare la stabilità della coppia, che coverà anche le uova derivate dall’inseminazione di altri maschi (copulazione extraconiugale). Specie di animali più noti per essere di tipo monogamo sono: pinguino imperatore (mentre uno ricerca cibo l’altro bada ai piccoli), alcuni lupi (ma il branco ha una dinamica molto complessa, con individui alfa a maggiore libertà e con accoppiamenti con individui sottomessi oltre che col partner alfa) l’orso, lo sciacallo, il panda, la rondine, il tasso, il gerbillo, il falco, l’aquila, la sula, il cavalluccio marino, il cigno, il corvo, la volpe, alcuni tipi di pappagallo tra cui i cosiddetti, appunto “inseparabili”.

b. Premessa nella vicenda riproduttiva

Torniamo ora alla diversità di genere. Certamente nella nostra attuale cultura, ma non ancora in tutto il mondo, le differenze sessuali vanno via via attenuandosi e i ruoli tradizionali perdono d’importanza: uomini e donne possono fare le stesse cose, hanno gli stessi diritti, almeno sulla carta, e sono liberi di scegliere come vivere la propria esistenza. Ma siamo proprio sicuri che il loro sentire rispetto al legame affettivo, alla sessualità e al tradimento sia esattamente lo stesso?

Paragonata ad un’ora di tempo la storia evoluzionistica della specie umana dalla sua comparsa sulla terra ad oggi, il periodo storico di cui si hanno testimonianze rappresenta non più degli ultimi due minuti mentre altri 58 minuti sono la preistoria: il tempo in cui vivevamo come cacciatori e raccoglitori. È proprio in quel periodo lunghissimo che si sono selezionati quei meccanismi comportamentali ed emotivi che ancora ci portiamo appresso e che se sono stati efficienti e utilissimi a garantirci la sopravvivenza per milioni di anni, oggi spesso costituiscono uno scomodo fardello in un mondo decisamente diverso da quello in cui si sono plasmati (Harari 2018 A, 2018 B.)

La nascita della vita coincide con la nascita della prima molecola in grado di replicarsi: chi si replica di più sfruttando le opportunità dell’ambiente in cui si trova lo colonizza e prolifera: in ciò consiste il cosiddetto successo evolutivo. I geni hanno il solo scopo di produrre quante più possibili repliche di se stessi: più un gene è in grado di replicarsi, più di generazione in generazione, si afferma e si diffonde riducendo la presenza dei geni concorrenti, almeno fino a quando un cambiamento dell’ambiente renda più avvantaggiato un altro gene. I geni che hanno successo sono quelli che producono organismi che li contengono che siano in grado di sopravvivere a lungo in un certo ambiente e sappiano produrre più figli possibili (S. Pinker 1997,2006). Naturalmente gli organismi non sono affatto consapevoli di questa intenzionalità dei geni: non mangiamo per sopravvivere, ma perché il cibo è buono ed anzi spesso mangiamo così tanto e male che limitiamo la nostra sopravvivenza, ma l’importanza che per tutti i viventi ha l’alimentazione ha selezionato individui che avessero una forte appetizione per il cibo (Dawkins 1976).

I mammiferi, e tra essi gli esseri umani, in genere non fanno l’amore per fare figli ed anzi spesso si danno da fare perché tale esito non si verifichi, ma perché ciò è molto piacevole. L’inganno dei geni sta proprio qui: connotare di piacere e interesse attività utili ai fini della loro replicazione. Gli organismi che più provavano piacere a fare sesso, sono stati più motivati a farlo, lo hanno effettivamente fatto di più e i loro geni si sono diffusi a scapito di quelli che avevano scarso interesse per tale attività. Che un certo comportamento o modo di sentire si sia selezionato e dunque diffuso tra tutti gli individui di una specie vuol dire semplicemente che la sua presenza comporta un vantaggio riproduttivo almeno nell’ambiente in cui tale selezione è avvenuta; non vuol dire invece che lo scopo riproduttivo o altri scopi specifici e parziali orientati in tal senso (corteggiare un partner, sopraffare i rivali, proteggere dal tradimento, accudire la prole) siano rappresentati nella mente del soggetto. Spesso e volentieri l’individuo non ha nessuna intenzione di perseguire tali obiettivi o addirittura vuole esattamente l’opposto e ovviamente può farlo, ma la sua struttura è stata selezionata per perseguire, di default, lo scopo replicativo.

Naturalmente ciò che si verifica in natura, ciò che è naturale e spontaneo non è per questo buono e da perseguire. Altrimenti si giustificherebbero comportamenti aggressivi, di discriminazione tra i sessi o di sopraffazione dei deboli che sono inaccettabili per la nostra sensibilità. In realtà la caratteristica peculiare dell’uomo non è di assecondare la sua natura, ma di svincolarsi dai suoi legacci; la natura più caratterizzante dell’essere umano è proprio di non essere naturale, di poter decidere i propri comportamenti e addirittura di modificare consapevolmente l’ambiente alla cui pressione selettiva sottoporsi. La selezione culturale che emerge dalla selezione naturale finisce per sopravanzare e condizionare la prima. Per compiere questa operazione squisitamente umana non è necessario negare la nostra origine animale, far finta che non ci sia, ma anzi è proficuo riconoscerla per poterne tenere conto e gestirla culturalmente. Come già accennato precedentemente che ci piaccia o no per quanto riguarda la sessualità gli uomini e le donne sono diversi nei comportamenti e nel sentire perché nella loro storia evoluzionistica, e non state a guardare gli ultimi tre secondi che rappresentano il nostro secolo, ciò che era vantaggioso e adattivo per un sesso non lo era altrettanto per l’altro. Il risultato è che si sono selezionati stili di comportamento e attitudini diverse che tuttora sono iscritte dentro di noi e influenzano le nostre emozioni e talvolta anche il nostro comportamento mettendo in seria difficoltà o addirittura sconfiggendo la nostra razionalità, le scelte consapevoli e il patrimonio di valori in cui crediamo.

 

Il vissuto psicologico del bambino chirurgico: persone coinvolte e fattori protettivi

La degenza in ospedale implica cure e terapie, significa relazioni con persone sconosciute e alle quali bisogna affidarsi, ma, soprattutto, comporta la separazione dal nucleo familiare e l’ingresso in un ambiente diverso. Quando si tratta di bambini, tutto ciò influenza lo sviluppo emotivo, cognitivo, affettivo e relazionale, portando, inoltre, a modificazioni dell’immagine di sé e del proprio corpo.

Giulia Bresciani – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi e Ricerca Mestre

 

Ci sono eventi della vita che segnano profondamente lo sviluppo del bambino e che necessitano di attenzione e cura da parte delle persone coinvolte, tra questi troviamo l’iter chirurgico.

A partire dagli anni ’30 Anna Freud iniziò ad occuparsi del concetto di malattia cronica e di come questo può interferire con lo sviluppo del bambino.

L’ingresso in ospedale e il periodo di ricovero diventano per il bambino delle situazioni nuove, alle quali deve adattarsi, sia da un punto di vista fisico che psicologico. Come riportato da Falck nel 1987 “l’ospedale è come un paese straniero alle cui abitudini, lingua e orari devono imparare ad adattarsi”, infatti, la degenza implica cure e terapie, significa relazioni con persone sconosciute ed alle quali bisogna affidarsi, ma, soprattutto, comporta la separazione dal nucleo familiare e l’ingresso in un ambiente diverso. Tutto ciò influenza lo sviluppo emotivo, cognitivo, affettivo e relazionale, portando, inoltre, a modificazioni dell’immagine di sé e del proprio corpo. Se immaginiamo quindi, lo sviluppo di un bambino come una linea retta dobbiamo pensare all’ospedalizzazione ed all’intervento chirurgico come ad un’interruzione di questa.

È necessario quindi, affrontare e gestire nel modo più adeguato possibile questo momento, rendendo la malattia un’occasione di crescita e maturazione.

Il momento del ricovero è un’esperienza nuova che il bambino deve assimilare velocemente e che inevitabilmente separa il prima dal dopo.

Sono diverse le dimensioni nelle quali si può sviluppare una condizione di rischio:

  • La dimensione affettiva: si riferisce alla regolazione emotiva, alla percezione che il bambino ha della malattia e conseguentemente di sé. È necessario il supporto allo sviluppo dell’intelligenza emotiva e soprattutto alla creazione di uno spazio, esterno ed interno, che permetta al bambino di esprimersi.
  • La dimensione relazionale: si riferisce all’alterazione della relazione con l’altro e con la propria identità sociale. Bisogna tenere presente che il momento del ricovero e dell’intervento chirurgico comporta la deprivazione familiare, dagli amici, dal contesto scolastico.
  • La dimensione del corpo: il ricovero e soprattutto l’intervento chirurgico comporta un’alterazione dell’immagine di sé e della percezione del proprio corpo, portando a sentimenti di autosvalutazione e inadeguatezza.
  • La dimensione cognitiva: si riferisce ad alterazioni sul piano dell’apprendimento e delle strategie di coping. Il ricovero modifica sia le condizioni esterne che interne al bambino, incidendo sul tono dell’umore e sulla motivazione.

Diversi studi hanno dimostrato che la mancanza di controllo sull’ambiente ospedaliero e sulle procedure mediche imminenti è una delle principali fonti di stress, che può causare una notevole ansia ai bambini ricoverati in ospedale.

A tal proposito, una recente revisione della letteratura, condotta da Gabriel e colleghi (2018), ha preso in esame 11 studi che hanno analizzato il vissuto psicologico ed i bisogni dei bambini e dei loro genitori all’interno di un contesto chirurgico. Complessivamente, sono stati considerati diversi trattamenti chirurgici: chirurgia cardiaca, chirurgia dell’orecchio, del naso e della gola, chirurgia ortopedica, circoncisione, chirurgia dentale e chirurgia ambulatoriale elettiva. Dal punto di vista psicologico, i diversi studi hanno individuato la presenza di ansia, depressione, paura, stress, sofferenza post-operatoria, trauma psicologico ed il decremento generale del benessere non sono nel bambino stesso, ma anche nei suoi genitori. Nel caso specifico delle figure di riferimento, questi vissuti emotivi sembrano riflettere la mancanza di informazioni, consigli e strategie di coping per affrontare al meglio l’intervento chirurgico del figlio. Gli autori sottolineano però la forte interconnessione che esiste tra l’esperienza del bambino e quella dei suoi genitori, portando l’attenzione alla necessità di uno stretto monitoraggio psicologico del genitore al fine di intervenire indirettamente anche su quello del bambino: i genitori fanno da modello ai propri figli, anche rispetto alle abilità di regolazione emotiva.

Un altro aspetto importante è lo sviluppo di ricordi negativamente distorti, compresi i ricordi del dolore. In uno studio di Fischer e colleghi (2019) gli autori hanno indagato, in un campione di bambini che hanno subìto un intervento chirurgico di tonsillectomia, quanto l’esperienza di ansia dei genitori e dei figli influisce sullo sviluppo di ricordi dolorosi. A tal proposito, ricerche precedenti (Noel et al., 2015) hanno dimostrato che gli adolescenti i cui genitori tendevano a ruminare maggiormente sul dolore del loro figlio prima dell’intervento chirurgico e quindi ad amplificare il valore della minaccia, successivamente, sviluppavano ricordi del dolore più negativamente distorti. Inoltre, queste memorie del dolore influenzate negativamente ponevano i bambini/ragazzi ad un più alto rischio di esiti di dolore post-operatorio. I risultati dello studio di Fischer e colleghi (2019) hanno rivelato che l’ansia dei genitori, ma non quella dei figli, prima dell’intervento chirurgico, contribuisce allo sviluppo di pregiudizi negativi legati alla paura del dolore nei ricordi dei bambini dopo un mese dall’intervento. In particolare, livelli più elevati di ansia genitoriale hanno influenzato i bambini nel ricordare livelli più elevati di paura legata al dolore rispetto a quanto inizialmente veniva riportato da loro stessi, tramite la somministrazione di alcuni questionari pre-intervento chirurgico. Gli autori inoltre riportano che i genitori più ansiosi usano un linguaggio che si concentra sui dettagli dolorosi e angoscianti dell’esperienza del bambino e ciò può incidere nella costruzione di ricordi negativamente distorti. Lo sviluppo della paura e dell’angoscia legate al dolore nei giovani è una delle principali preoccupazioni per la loro salute, poiché i bambini che hanno paura del dolore legato alle procedure (es. anestesia) possono crescere fino a diventare adulti che scelgono di evitare il dolore mettendo a rischio sia loro stessi che gli altri. Questi risultati sottolineano la necessità di lavorare ed indirizzare l’ansia dei genitori e di migliorare la gestione del dolore post-operatorio per modificare i ricordi dei bambini piccoli rispetto alla paura legata al dolore e per migliorare potenzialmente le traiettorie del dolore dei bambini.

Ciò che emerge dai lavori citati è che durante l’ospedalizzazione si manifestano stati d’ansia, non solo nei bambini, ma anche nei loro genitori, e che questi possono influire sia sulla percezione della malattia stessa che delle sensazioni di dolore post-operatorie. L’ansia e le conseguenti modalità di comunicazione possono inoltre contribuire alla creazione di ricordi distorti negativamente che non solo incidono sul bambino nel momento del ricovero e dell’intervento chirurgico, ma che possono avere anche un’influenza a lungo termine, determinando come deciderà di prendersi cura di sé stesso. Rispetto al trattamento dei disturbi d’ansia, sia negli adulti che negli adolescenti, le linee guida di trattamento raccomandano la terapia cognitivo comportamentale (CBT) e l’utilizzo degli inibitori selettivi della ri-captazione della serotonina (SSRI) come trattamenti di prima linea. Diversi studi nel corso dell’ultimo decennio indica che la CBT fornisce un trattamento efficace per l’ansia infantile (Sigurvinsdottir et al., 2020). È possibile quindi intervenire sull’intero nucleo familiare, sia nella fase preoperatoria, durante il ricovero e nel post-operatorio al fine di aiutare nell’elaborazione e nella modifica di pensieri ed emozioni che incidono sullo sviluppo emotivo e cognitivo del bambino.

L’importanza di creare uno spazio di gioco e la presenza di personale qualificato e volontario

Negli anni ‘50 Renata Gaddini fu la prima a segnalare i rischi del distacco del bambino dal suo ambiente familiare e ad evidenziare la necessità di salvaguardare il bambino da separazioni in caso di malattia e necessità di ricovero. È proprio per questo motivo che in Italia si inizia a porre maggiore attenzione ai bambini ospedalizzati offrendo diversi servizi come l’assistenza scolastica, il soggiorno dei genitori ed uno spazio dedicato al gioco.

Come già anticipato, il ricovero in ospedale può essere un’esperienza minacciosa e stressante per i bambini, a causa della scarsa familiarità con l’ambiente e le procedure mediche e dell’inconsapevolezza delle ragioni del ricovero. Tutto ciò, può provocare nei bambini rabbia, incertezza, ansia e sentimenti di impotenza (Li et al., 2016).

L’ansia è la più comunemente riportata tra queste risposte negative e alti livelli di ansia possono essere dannosi per la salute dei bambini, sia da un punto di vista psicologico che fisiologico. L’eccessiva ansia ostacola inoltre i bambini nell’affrontare le cure mediche, aumenta il loro comportamento poco collaborativo e le emozioni negative nei confronti dei professionisti che in quel momento si prendono cura del bambino.

Un altro aspetto importante è che il livello di attività fisica dei bambini ospedalizzati è intrinsecamente limitato e quindi i loro mezzi per dare un senso al mondo che li circonda sono determinati. (Rokach, 2016). I bambini ricoverati tendono a svolgere meno attività ludiche e quando giocano, il loro gioco è caratterizzato da temi ripetitivi e solitari.

Il coinvolgimento in attività ludiche durante il ricovero in ospedale può migliorare le capacità di gestione dei bambini e alleviare il loro stress, portando ad un migliore adattamento psicosociale sia alla loro malattia che al ricovero ospedaliero. (Li et al., 2016)

Attraverso il gioco, i bambini hanno l’opportunità di sviluppare la padronanza di sé e dell’ambiente e di migliorare la loro comprensione del mondo.

Nel lavoro di Li e colleghi (2016), gli autori hanno dimostrato che la play-intervention ha dato ai bambini l’opportunità di praticare le routine mediche o infermieristiche attraverso il gioco e ha permesso loro di interagire attivamente con l’ambiente in modo non minaccioso.

A tal proposito è necessaria la presenza, non solo di personale qualificato e dedicato come gli psicologi all’interno dei reparti ospedalieri, ma risulta fondamentale la presenza dei volontari che dedicano il loro tempo e la loro persona alle attività con i bambini.

I volontari nei reparti aiutano a portare all’interno ciò che continua ad esserci all’esterno, aiutando il bambino attraverso il gioco a normalizzare e rielaborare la situazione in cui sta vivendo. Inoltre, supportano i genitori permettendogli di avere uno spazio proprio, in un momento in cui sono focalizzati unicamente sul loro bambino.

Come già anticipato, il benessere del bambino non dipende unicamente da lui stesso, ma i genitori giocano un ruolo fondamentale: tanto più i genitori vivono un vissuto di stress, tanto maggiore sarà tale vissuto anche nei bambini. Inoltre, un ulteriore fattore di stress da considerare potrebbe essere collegato alla necessità di andare in un’altra città per le cure del proprio figlio. In Italia fortunatamente, sono diverse le realtà Associative che si prendono cura dell’intero nucleo familiare, offrendo ospitalità alle famiglie. Per quanto riguarda nello specifico i bambini chirurgici di cui abbiamo trattato finora porto l’esempio di A.B.C. Associazione per i Bambini Chirurgici del Burlo Onlus che opera all’interno dell’IRCCS Burlo Garofolo, affinché questi bambini e le loro famiglie possano trovare il sostegno e l’aiuto necessari per affrontare più serenamente l’ospedalizzazione e il percorso di cura. Questa Associazione di volontariato, così come altre, offre diversi servizi alle famiglie, legati a tutte le necessità evidenziate fino ad ora, tra cui: l’ospitalità gratuita in appartamenti dedicati e pensati ad hoc per le famiglie; la presenza dei volontari in reparto, al fine di allietare il tempo del bambini e come già detto, di aiutarli a creare un loro spazio; un servizio di sostegno emotivo in reparto al fine di affiancare le famiglie ed accogliere le loro preoccupazioni, supportandole passo dopo passo; il supporto psicologico dalla diagnosi prenatale, progetto realizzato in collaborazione con l’IRCCS Materno Infantile Burlo Garofolo. Tale progetto consiste nella presenza di uno psicoterapeuta qualificato, che affianchi la famiglia fin dalla prima ecografia in cui viene diagnosticata una malformazione restando vicino ai genitori durante tutto il percorso di cura.

Sono molteplici le realtà italiane come A.B.C. Burlo Onlus, che sostengono e supportano le famiglie in un momento così delicato come il ricovero chirurgico.

Conclusione

In conclusione, così come riportato da Gabriel e colleghi (2018) l’esperienza chirurgica può incidere sul bambino sia da un punto di vista psicologico che comportamentale (es. disturbi del comportamento, disturbo d’ansia da separazione..) e questi a loro volta possono incidere su diversi outcome di tipo medico (es. aumento della percezione del dolore, bassi livelli di benessere generale).  È quindi importante considerare tutti questi aspetti ed intervenire precocemente ed in maniera preventiva sullo sviluppo di tali difficoltà.

Inoltre, ciò che emerge dalla letteratura è che gli ospedali pediatrici devono andare oltre l’aspetto medico della cura delle malattie, ma devono migliorare le implicazioni del disagio ospedaliero sui bambini, fornendo comunicazione, sostegno ed empatia.

Si è visto inoltre come il gioco sia di fondamentale importanza per la vita dei bambini e come sottolineano Li ed i suoi colleghi (2016), non dimentichiamo che i bambini hanno bisogno di giocare anche quando sono malati.

È fondamentale quindi la co-presenza di personale professionale dedicato, come gli psicologi, che possa supportare l’intero nucleo familiare durante il periodo del ricovero e dell’intervento chirurgico: intervenendo sugli aspetti emotivi del bambino e dei suoi genitori, aiutando nello sviluppo dell’intelligenza emotiva e supportando nell’elaborazione del momento; così come la presenza di personale non qualificato, come i volontari, che si dedica al bambino permettendo la creazione di un suo spazio di gioco, dove il bambino può esprimersi e liberare la mente da pensieri e preoccupazioni, anche solo per un breve periodo di tempo.

Per concludere, quindi, come riportato da Rokach (2016), i bambini ricoverati in ospedale sono comunemente confusi, spaventati e hanno bisogno di sostegno, rassicurazione, spiegazione di ciò a cui saranno esposti, ma, soprattutto, hanno bisogno di essere riconosciuti come persone che desiderano essere trattate non solo come “corpi”, ma come esseri umani con emozioni, dolore, malattia e preoccupazioni.

Ed è proprio ricollegandomi a quanto appena riportato che desidero concludere con questa poesia:

 

Io devo essere chiamato per nome:
Chiara, Mohammed, Antoine o Simone. E poi… chiamatemi con un sorriso,
dite il mio nome guardandomi in viso! ……………
Mi chiamo Asad, e un “leone” mi sento.
Mi chiamo Brigit, “la forte”, stai attento!
Mi chiamo Carmela, che vuol dire “giardino”.
Mi chiamo Luciana, “nata al mattino”.
Mi chiamo Wefo, “cavallo”, ti piace?
Io Kemirembe, “che porta la pace”.
E se mi chiamassi VATTELAPESCACOME….
Io devo essere chiamato per nome!  (Sarfatti, Fatus)

 

Credenze metacognitive nel Binge Eating Disorder – PARTECIPA ALLA RICERCA

Gentile partecipante,

stiamo conducendo una ricerca sulle metacognizioni relative al cibo, ovvero sui pensieri sui nostri pensieri relativi al cibo. La partecipazione è volontaria e non ti costerà nulla se non un po’ di tempo.

 

Binge Eating Disorder e Metacognizione

Il Binge Eating Disorder è caratterizzato da ricorrenti episodi di abbuffata, che consistono nel mangiare in un dato periodo di tempo una quantità di cibo maggiore rispetto a quanto la maggior parte degli individui mangerebbe nello stesso tempo e in circostanze simili; l’abbuffata è caratterizzata dalla sensazione di perdere il controllo durante l’episodio e spesso è associata a disgusto verso se stessi, depressione o senso di colpa dopo l’episodio (APA, 2013).

In letteratura sono stati proposti numerosi modelli psicologici per i disturbi alimentari e in particolare per il Binge Eating Disorder, molti dei quali focalizzati sul ruolo del limite di quantità alimentare, sulla scarsa autostima, sulla scarsa tolleranza alla sofferenza, su una sopravvalutazione del proprio peso corporeo e della propria forma, e sulle specifiche metacognizioni che invalidano la persona. È perciò particolarmente importante valutare e riconoscere le convinzioni metacognitive che stanno alla base dello sviluppo e del mantenimento del Binge Eating Disorder, affinché il trattamento psicologico possa essere utile ed efficace nel tempo (Covolan, 2020).

In particolare Cooper, Wells e Todd (2008) hanno identificato tre tipi di convinzioni metacognitive che sarebbero tipiche del Binge Eating Disorder: credenze positive, credenze negative e credenze permissive sul cibo (Covolan, 2020).

L’intervento rivolto a questi pazienti non può essere semplicemente nutrizionale o chirurgico, ma è necessario un intervento integrato che preveda anche un percorso psicoterapeutico, volto a intervenire sulle aree più problematiche utilizzando le strategie cognitive e/o le tecniche comportamentali più opportune nei diversi momenti della terapia (Tosi, 2017). Per poter condurre un intervento efficace è però necessario ampliare le conoscenze ad oggi disponibili sul disturbo attraverso ricerche sperimentali come quella oggetto dello studio in corso.

Perché dovresti partecipare?

Mentre i comportamenti sul cibo sono un argomento ampiamente studiato, questo studio esamina il valore che attribuiamo alla metacognizione sul cibo. Sviluppando una migliore comprensione dei pensieri sui nostri pensieri relativi al cibo, possiamo sviluppare interventi adeguati per le persone la cui metacognizione ha un impatto significativamente negativo sulla loro vita.

La partecipazione alla ricerca comporterà la compilazione di alcuni questionari che non ti dovrebbe richiedere più di 15 minuti. Non saranno richieste informazioni identificabili e tutti i dati rimarranno anonimi e riservati. Se in qualsiasi momento desideri ritirarti dalla partecipazione, puoi semplicemente chiudere il browser prima di completare i questionari e i dati non verranno raccolti.

Ti saremmo molto grati se potessi aiutarci con il nostro progetto. In caso di domande, non esitare a contattarci.

Ti saremmo grati se inoltrassi questo link a colleghi, amici e/o familiari per raggiungere quante più persone possibili.

Ti ringraziamo anticipatamente per il tuo tempo.

 

PER ACCEDERE AI QUESTIONARI >> CLICCA QUI

Sistema immunitario, cervello e comportamento

Una nuova ricerca condotta presso la Washington University School of Medicine di St. Louis ha indagato la relazione tra mente e corpo, nello specifico tra sistema immunitario e cervello.

 

L’esperimento è stato condotto sui topi, i ricercatori hanno scoperto che le cellule immunitarie che circondano il cervello producono una molecola che viene poi assorbita dai neuroni e che sembrerebbe essere necessaria per la messa in atto del normale comportamento (Alves de Lima et al., 2020).

I risultati, pubblicati il ​​14 settembre su Nature Immunology, indicano che gli elementi del sistema immunitario influenzano sia la mente che il corpo e che la molecola immunitaria IL-17 potrebbe essere un collegamento chiave tra i due (Alves de Lima et al., 2020).

Il cervello e il corpo non sono così separati come si pensa; la molecola immunitaria – IL-17 – è prodotta da cellule immunitarie che risiedono in aree intorno al cervello e potrebbe influenzare la funzione cerebrale attraverso le interazioni con i neuroni. I ricercatori stanno esaminando se troppo o troppo poco di IL-17 potrebbe essere collegato all’ansia nelle persone (Alves de Lima et al., 2020).

IL-17 è una citochina, una molecola di segnalazione che orchestra la risposta immunitaria all’infezione attivando e dirigendo le cellule immunitarie. IL-17 è stato anche collegato all’autismo negli studi sugli animali e alla depressione nelle persone (Alves de Lima et al., 2020).

Il modo in cui una molecola immunitaria come l’IL-17 possa influenzare i disturbi cerebrali, tuttavia, è un mistero, poiché nel cervello le poche cellule immunitarie che vi risiedono non producono IL-17. Ma Kipnis, insieme al primo autore e ricercatore post-dottorato Kalil Alves de Lima, PhD, si è reso conto che i tessuti che circondano il cervello pullulano di cellule immunitarie, tra cui una piccola popolazione nota come cellule T gamma delta che producono IL-17. Hanno quindi deciso di determinare se le cellule T gamma-delta vicino al cervello hanno un impatto sul comportamento.

Usando i topi, hanno scoperto che le meningi sono ricche di cellule T gamma-delta e che tali cellule, in condizioni normali, producono continuamente IL-17, riempiendo i tessuti che circondano il cervello con IL-17 (Alves de Lima et al., 2020).

Per determinare se le cellule T gamma-delta o l’IL-17 influenzassero o meno il comportamento, i topi sono stati sottoposti a test di memoria, comportamento sociale e ansia. I risultati mostrano che i topi privi di cellule T gamma-delta o IL-17 erano indistinguibili da quelli con un sistema immunitario normale su tutte le misure tranne l’ansia. In natura, i campi aperti lasciano i topi esposti a predatori come gufi e falchi, quindi hanno sviluppato la paura degli spazi aperti. I ricercatori hanno condotto due test separati che prevedevano di dare ai topi la possibilità di entrare nelle aree esposte. Mentre quelli con quantità normali di cellule T gamma-delta e livelli di IL-17 si sono mantenuti per lo più sui bordi più protettiti e in aree chiuse, i topi senza cellule T gamma-delta o IL-17 si sono avventurati nelle aree all’aperto, un intervallo di vigilanza che i ricercatori hanno interpretato come diminuzione dell’ansia (Alves de Lima et al., 2020).

Inoltre, gli scienziati hanno scoperto che i neuroni nel cervello hanno recettori sulla loro superficie che rispondono all’IL-17. Quando gli scienziati hanno rimosso quei recettori in modo che i neuroni non potessero rilevare la presenza di questa molecola, i topi hanno mostrato meno vigilanza. I risultati suggeriscono che i cambiamenti comportamentali non sono un sottoprodotto ma una parte integrante della comunicazione neuroimmune (Alves de Lima et al., 2020).

Sebbene i ricercatori non abbiano esposto i topi a batteri o virus per studiare direttamente gli effetti dell’infezione, hanno iniettato negli animali il lipopolisaccaride, un prodotto batterico che suscita una forte risposta immunitaria. Le cellule T gamma-delta nei tessuti intorno al cervello dei topi hanno prodotto più IL-17 in risposta all’iniezione. Quando gli animali sono stati trattati con antibiotici, tuttavia, la quantità di IL-17 è stata ridotta, suggerendo che le cellule T gamma-delta potrebbero rilevare la presenza di batteri normali come quelli che compongono il microbioma intestinale, nonché specie batteriche invasori, e rispondere in modo appropriato per regolare il comportamento (Alves de Lima et al., 2020).

I ricercatori ipotizzano che il legame tra il sistema immunitario e il cervello potrebbe essersi evoluto come parte di una strategia di sopravvivenza su più fronti. Una maggiore vigilanza potrebbe aiutare i roditori a sopravvivere a un’infezione scoraggiando comportamenti che aumentano il rischio di ulteriori infezioni.

Il sistema immunitario e il cervello si sono molto probabilmente co-evoluti, molecole speciali che ci proteggono sia a livello immunologico che a livello comportamentale rappresentano una strategia intelligente per proteggerci dalle infezioni. Questo è un buon esempio di come le citochine, che sostanzialmente si sono evolute per combattere i patogeni, agiscono anche sul cervello e modulano il comportamento.

I ricercatori stanno ora studiando come le cellule T gamma-delta nelle meningi rilevano i segnali batterici da altre parti del corpo, e come la segnalazione di IL-17 nei neuroni si traduce in cambiamenti comportamentali (Alves de Lima et al., 2020).

 

Lo psicologo “Google” e l’e-therapy – Lo psicologo del futuro

Nell’arco del 2019-2020 è stato condotto uno studio allo scopo di analizzare la frequenza delle ricerche sul web inerenti più di cento sintomi. Dai risultati è emerso che il secondo sintomo più cercato al mondo è l’ansia, con una media di circa 894.000 ricerche al mese.

LO PSICOLOGO DEL FUTURO – (Nr. 1) Lo psicologo “Google” e l’e-therapy 

 

Nell’arco del 2019-2020 è stato condotto uno studio da Kaizen, agenzia di Digital PR londinese, e Lenstore, rivenditore online specializzato in lenti a contatto, allo scopo di analizzare la frequenza delle ricerche sul web inerenti più di cento sintomi. Inoltre, è stato indagato anche come questa ricerca sintomatologica su Google fa sentire le persone.

Da tale studio è emerso che il secondo sintomo più cercato al mondo è l’ANSIA, con una media di circa 894’000 ricerche al mese.

Il questionario è stato lanciato a maggio 2019 ed i dati sono stati raccolti fino ad aprile 2020. I risultati emersi sono relativi alla media calcolata sulle ricerche avvenute nei diversi mesi.

Inoltre, è emerso che circa:

  • Il 20% degli Italiani si preoccupa per la propria salute fisica e mentale tutti i giorni;
  • Il 27% degli Italiani ammette che avere cercato i sintomi di un malessere su Google nel passato li ha resi ancora più stressati;
  • Il 18% degli Italiani dice che questa tendenza a utilizzare Google ha avuto un effetto negativo sulla loro salute psicologica.

A proposito dell’ultimo dato in questione, lo psicologo Dennis Relojo-Howell, collaboratore di Kaizen e Lenstore, e founder del sito web Psychreg ha dichiarato:

Cercare sul web i sintomi di un malessere fisico o psicologico può essere fonte di tentazione. Nonostante internet sia un buon punto di partenza, non bisogna considerare Google un’alternativa valida al supporto di medici o psicologi. – E specifica meglio:- Se si pensa di essere affetti da una condizione di salute psicologica, non è consigliabile affidarsi solamente a ciò che si legge online. Infatti, diagnosticare una condizione di salute mentale è un processo complesso, e il web abbonda di disinformazione e fake news. Inoltre, una diagnosi sul web non sempre ha effetti positivi sulla salute psicologica. Questa può anche essere causa di ansia e preoccupazioni inutili, e può condizionarci nella scelta di cercare supporto professionale.

Aggiunge un commento relativo alle ricerche online durante l’attuale situazione pandemica:

In particolare di questi ultimi tempi, mentre COVID-19 continua ad influenzare la nostra vita quotidiana, è fondamentale assicurarsi di proteggere la propria salute ed il proprio benessere. Nonostante le misure adottate dai governi in tutto il mondo di isolamento e quarantena siano necessarie a limitare la diffusione del virus, spesso questo può essere causa di stress, specialmente se lontani o separati dai propri cari. Per questo motivo e al fine di limitare gli effetti del virus sulla propria salute psicologica è importante assicurarsi di tenere una comunicazione quotidiana con i propri cari, che sia via telefono, webcam o messaggio.

Da questi dati emerge sempre di più una ricerca digitalizzata di una soluzione ai propri disagi. L’ansia risulta indubbiamente essere una condizione che accompagna molte persone, le quali vorrebbero saperne di più della propria sintomatologia e di come porvi rimedio.

Concordando con il dottor Relojo-Howell sul fatto che la ricerca libera su Google possa peggiorare la situazione psicologica di varie persone anziché aiutarle, si sottolinea l’importanza di rivolgersi a professionisti della salute mentale. Eppure, il medium “internet” “a portata di click” non si può eliminare. Le persone oggi si servono sempre più di questi strumenti. Si ritiene dunque che lo psicologo debba sempre più offrire soluzioni professionali in formato digitale, e facilmente raggiungibile da tutti.

Subentra in questo scenario il vantaggio che l’e-therapy porta con sé, ovvero il riuscire andare incontro alle esigenze delle persone, senza disattendere alcuno standard di efficienza ed efficacia.

Le app ed i servizi di e-therapy al giorno d’oggi sono un valido supporto per chi soffre, e permettono di mettere in contatto le persone con professionisti formati per trattare i sintomi portati, tenendo coloro che usufruiscono di questi servizi lontani dal rischio di autodiagnosticarsi ed automedicarsi.

Alla First European Digital Conference on Psychology, Digital Perspectives on Psychology diversi ricercatori e clinici illustreranno le evidenze scientifiche a favore delle e-therapy, oltre a portare in scena le migliori app di e-therapy in commercio al giorno d’oggi.

 

Le iscrizioni alla prima Conferenza europea di Psicologia Digitale sono aperte:

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Poliamore e stili di attaccamento

La teoria dell’attaccamento è un caposaldo della psicologia ma pochi studi si sono preposti di indagare il ruolo degli stili di attaccamento nell’ambito delle relazioni poliamorose.

 

Nelle società occidentali la monogamia è l’accordo di relazione romantica più comune tra le persone, ma le cosiddette relazioni etiche o consensuali non-monogame sono sempre più diffuse. È stato stimato che negli Stati Uniti circa il 4-5 % degli individui sono attualmente coinvolti in una relazione consensuale non-monogama (Rubin, Moors, Matsick, Ziegler & Conley, 2014) e circa una persona su cinque ha fatto esperienza di questa forma di relazione in un periodo della propria vita (Haupert, Gesselman, Moors, Fisher & Garcia, 2017).

Il termine relazioni consensuali non-monogame racchiude una costellazione di configurazioni relazionali che prevedono la possibilità di instaurare rapporti affettivi e/o sessuali con più partner nello stesso momento (Rubin et al., 2014); ciò avviene con l’accordo e il consenso da parte di tutte le persone coinvolte. Le forme più comuni di questo tipo di relazioni sono: lo scambismo, accordo in cui entrambi i partner si impegnano in attività sessuali extra-diadiche (solitamente in un ambiente sociale in cui entrambe le parti sono presenti; Jenks, 1998); la relazione aperta, nella quale i partner intraprendono relazioni esclusivamente sessuali indipendenti al di fuori della diade primaria (Hyde & DeLamater, 2000); e il poliamore, in cui i partner possono impegnarsi, in modo consensuale e informato, in relazioni intime, sentimentali e/o sessuali con più persone al di fuori della coppia (Barker, 2005).

Il poliamore si configura come un orientamento relazionale (Anapol, 2010) in quanto indica una specifica modalità di costruire una relazione. Comprende al suo interno molte dimensioni che mutano al variare delle relazioni tra i differenti individui, ma alcune caratteristiche, intese come valori, sono trasversali ad ogni rapporto poliamoroso: ad esempio il consenso, la negoziazione, la comunicazione trasparente, la non esclusività e la gestione della gelosia (Klesse, 2014; Veaux e Rickert, 2016). Wosick-Correa (2010) ha suggerito che le modalità di impegno relazionale tra gli individui poliamorosi non vadano ricercate nell’esclusività sessuale e affettiva, ma in quella che lei identifica con il nome di ‘agentic fidelity’. Questo termine si riferisce ad una forma di autoconsapevolezza che comporta la capacità di saper riconoscere e comunicare al partner i propri bisogni, desideri e limiti, e implica una scelta personale condivisa per quanto riguarda l’impegno all’interno della relazione. Nelle relazioni poliamorose l’accento è posto, quindi, sugli accordi relazionali ai quali i partner partecipano in modo attivo e consapevole, tenendo sempre presente la possibilità di rivalutare e rinegoziare i confini a seconda dei bisogni e desideri percepiti, i quali possono mutare nel corso della relazione stessa (Easton & Hardy, 2009).

Le configurazioni relazionali che si articolano nel poliamore possono assumere svariate forme e tipologie a seconda delle esigenze di chi vi partecipa (Klesse, 2014). In base agli accordi e alle strutture possiamo distinguere tre macro-insiemi relazionali (Deriu, Antonelli, & Dettore, 2016): il più comune è il ‘poliamore aperto’, nel quale i partner coinvolti restano aperti alla possibilità di sviluppare ulteriori amori e relazioni; la ‘polifedeltà’, in cui tre o più persone si impegnano in una relazione chiusa tra loro, che non include persone esterne; e i ‘poliamorosi single’, ossia persone che possono intrattenere più relazioni amorose senza la necessità di instaurare un rapporto a lungo termine. Un altro elemento fondamentale all’interno delle reti relazionali poliamorose è la gerarchia. Spesso, nella pratica, il poliamore nasce da una relazione monogama che viene aperta; i membri della precedente coppia, quindi, vanno a definirsi come partner primari, mentre chi viene incluso all’interno della rete diventerà partner secondario, terziario e così via, spesso con implicazioni di stampo gerarchico. La consapevolezza di queste gerarchie e la trasparenza nel comunicare i ruoli ai nuovi potenziali partner permette di far intraprendere la relazione in un modo consensualmente conforme (Veaux & Rickert, 2016).

Risulta interessante analizzare l’intrecciarsi di queste relazioni dal punto di vista della teoria dell’attaccamento (Bowlby, 1969, 1973, 1980). Essa concettualizza che l’intero sistema di comportamenti nella prima infanzia sottende la funzione di ottimizzare la prossimità con il caregiver (Del Corno et al., 2007). Il sistema di attaccamento dirige le emozioni, la cognizione e il comportamento nelle relazioni intime mentre regola la ricerca e il raggiungimento di supporto durante i periodi di difficoltà (Mikulincer & Shaver, 2007). La ricerca afferma che gli stili di attaccamento possono cambiare nel tempo (Stefini et al., 2013) ed è importante osservare che non tutte le relazioni possono essere considerate legami di attaccamento. Nei termini di Bowlby, questi ultimi possono dirsi tali soltanto quando assumono per l’individuo il significato di ‘base sicura’, in questo senso, il soggetto adulto può avere legami di attaccamento con il proprio partner, oppure con alcuni amici, colleghi e così via (Del Corno et al., 2007). La connessione tra le esperienze di attaccamento precoce e gli stili di attaccamento adulto è ben documentata (Fraley & Roisman, 2015). Questo quadro teorico, per quanto riguarda la relazione tra partner, sembra essere specifico, però, per le relazioni esclusive. Tuttavia, l’amore e l’esclusività sessuale non hanno sempre un legame univoco.

La letteratura riguardante gli stili di attaccamento adulto all’interno delle relazioni poliamorose è poco estesa e ha sicuramente bisogno di approfondimento. Lo studio di Moors, Ryan, e Chopik (2019) si è interrogato su tre domande fondamentali per capire questo nesso:

  • Le persone nelle relazioni poliamorose sviluppano stili di attaccamento simili con ciascuno dei loro partner?
  • Lo stile di attaccamento con un determinato partner influenza la qualità di quella relazione?
  • Lo stile di attaccamento con un determinato partner influenza la qualità di un’altra relazione romantica concomitante?

Vi sono prove che gli stili di attaccamento di un individuo sono coerenti tra i vari partner che può avere durante la vita (ad esempio, un ex-partner e un partner attuale; Brumbaugh & Fraley, 2007). D’altra parte, esiste una linea di pensiero che presuppone che gli stili di attaccamento mutino a seconda dei partner di una persona (La Guardia, Ryan, Couchman & Deci, 2000).

Per di più, i ricercatori hanno proposto tre modelli diversi che tentano di spiegare le interazioni tra le relazioni poliamorose: modello additivo, di contrasto e di compensazione (Mitchell, Bartholomew & Cobb, 2014). Questo approccio suggerisce che una relazione di alta qualità con un partner potrebbe aumentare la qualità di altre relazioni contemporanee (modello additivo) anche nel caso in cui una delle altre relazioni vacillasse (in questo caso si parlerebbe di modello di compensazione). Al contrario, una relazione di bassa qualità con un partner potrebbe sminuire la qualità dell’altra relazione concomitante (modello di contrasto). Nel testare questa ipotesi, Mitchell et al. (2014) non hanno riscontrato evidenze a favore di questi modelli nella popolazione poliamorosa. I poliamorosi hanno riferito di essere soddisfatti nei loro esiti relazionali e nella qualità della relazione in entrambe le relazioni simultanee. Inoltre, i dati mostrano che essi sviluppano stili di attaccamento con ciascun partner in base alle specifiche di quella relazione.

Lo studio di Moors, Ryan e Chopik (2019) ha utilizzato un campione di 357 persone che hanno avuto relazioni poliamorose con almeno due partner romantici contemporaneamente. L’età dei partecipanti variava dai 18 ai 77 anni e, in media, i partecipanti erano nella relazione primaria da circa 9 anni e in quella secondaria da circa 3 anni. Da questo studio, in risposta alla prima domanda di ricerca, è emerso che le persone impegnate in relazioni poliamorose tendevano ad avere stili di attaccamento simili (sia per evitamento che per ansia) nei confronti di ciascuno dei loro partner. Il legame di attaccamento nei confronti del partner che definivano primario è risultato più sicuro di quello stabilito con il partner secondario, nonostante entrambi risultassero sicuri. Questo è dovuto al fatto che la relazione con il partner primario solitamente durava da più tempo rispetto a quella con il partner secondario, questo è in linea con l’evidenza che i legami di attaccamento, in una relazione romantica, tendono a diventare più sicuri nel tempo (Davila, Karney, & Bradbury, 1999). In risposta alla seconda ipotesi, è emerso che specifici stili di attaccamento nelle relazioni predicevano specifici esiti relazionali, in particolare alti livelli di ansia e di evitamento erano generalmente associati a bassa soddisfazione relazionale, soddisfazione sessuale, impegno e soddisfazione degli accordi relazionali. Questi risultati replicano ed estendono l’ampio corpo di ricerche sulle relazioni monogame (Edelstein & Shaver, 2004) all’ambito delle relazioni poliamorose. Infine, in risposta alla domanda principale dello studio, è emerso che l’ansia e l’evitamento presenti nel legame di attaccamento con un partner non erano collegati agli esiti relazionali e al funzionamento di una relazione concomitante. Questi risultati suggeriscono che le persone impegnate in relazioni poliamorose considerano le loro relazioni come distinte e indipendenti l’una dall’altra. Inoltre, i dati di questo studio sono coerenti con le recenti ricerche che non hanno trovato supporto per i modelli di funzionamento relazionale additivo, di contrasto e compensatori nel poliamore (Mitchell et al., 2014). Si auspicano ulteriori studi nell’ambito delle relazioni poliamorose (così come in altre relazioni consensuali non-monogame) con lo scopo di chiarire e approfondire il ruolo degli stili di attaccamento.

 

La doppia porta del sogno occultata da Freud e Jung

È a dir poco incredibile e stupefacente che i due più grandi interpreti della psicologia del profondo abbiamo taciuto sul cardine più rilevante dell’antica onirologia. Cerchiamo di capirne le ragioni.

Due sono le porte

Della vastità e profondità della materia siderale dei sogni, apparsa fin dall’inizio alquanto misteriosa, oscura, quanto spesso sorprendentemente significante, molto si è sicuramente illuminato nel tempo, ma molto si trova ancora avvolto nel più fitto mistero, come quello che qui intendo affrontare, che è rimasto stranamente eluso dall’indagine onirologica della psicoanalisi.

Se lo fosse stato, si sarebbe scoperta per tempo, proprio attraverso i sogni, alcuni in particolare, la magnifica tela della complessità del vivente, la matrice intersoggettiva in cui tutti siamo tramati, palpitanti attraversamenti e incroci. Molto prima che si fosse imposta all’attenzione. Ma soprattutto molto tempo prima che si fosse oggettivata nella rete telematica di internet a livello di pura virtualità.

Mi riferisco alla ben nota teoria della duplicità del sogno vigente in tutta l’antichità classica e che Omero, nel diciannovesimo libro dell’Odissea, ha così brillantemente sintetizzato facendola esporre a Penelope, essendo lei la “veggente” del sogno (delle oche e dell’aquila) raccontato a Ulisse, che nei panni di uno straniero suo ospite non le si era ancora rivelato al suo ritorno a Itaca. Già, Penelope e la tela.

Per loro natura i sogni sono inesplicabili e portano messaggi difficili da interpretare, né ogni cosa si compie per i mortali. Due sono le porte dei sogni immateriali, una di corno e l’altra d’avorio; e quelli che escono attraverso l’avorio illudono, perché portano messaggi che non si realizzano, mentre quelli che procedono per la porta di polito corno compiono cose vere, ogni volta che un mortale li vede. (Omero)

Se “un mortale li vede”, infatti, i greci i sogni li vedevano, non li facevano. Se poi premonivano o meno e se la premonizione era fondata o falsa, solo il tempo poteva confermarlo. La qualifica di “illusori”, ingannevoli o addirittura falsi, era pertanto messa in rapporto a quella di “veri”, quando si constatava che tali sogni non si realizzavano, per cui venivano attribuiti alla sola psiche e non passanti attraverso di essa: prodotti evanescenti e caduchi delle sole passioni umane, chimere, fantasmi, effimere esteriorizzazioni fenomeniche. Ma gli antichi interpreti non potevano discriminarli in anticipo.

Omero aveva già toccato il motivo della doppia porta nel tredicesimo libro, quando racconta del misterioso antro sito nell’isola di Itaca in cui si aprivano due porte, quella rivolta a nord era “la porta degli uomini”, da cui discendono i mortali, mentre quella rivolta a sud era “la porta degli dei”, appannaggio degli immortali. Allusione alle porte solstiziali associate alle costellazioni del Cancro e del Capricorno, tradizionalmente cariche di significati iniziatici.

Virgilio riprende nel VI libro dell’Eneide il tema omerico, riferito anche da Platone, con la precisazione che le due porte si trovano nell’Ade, dove Enea con la Sibilla Cumana si reca per incontrare il padre Anchise per pietà filiale e per conoscere il futuro della sua missione civilizzatrice, insieme alla curiosissima notazione che lo stesso viene fatto tornare nel mondo dei vivi passando dalla porta d’avorio, quella dei sogni illusori. Cosa che ha fatto scervellare gli esegeti nel tentativo di capirne il significato, che va dal pensiero più banale che Virgilio possa avere tranquillamente sbagliato porta, un “errore di battitura” insomma, a quello più forbito che abbia voluto sottilmente alludere all’idea che forse anche tutto il mondo dell’aldilà sia fasullo. Tutt’altro, l’allusione, abbastanza esplicita mi pare, è che tutto il mondo di qua lo sia, illusorio, effimero, in quanto realtà profana dell’esistenza. Solo accostandosi al sacro, attraverso l’intermediazione simbolica che si compie nell’unità di mente e cuore, si può percepire qualcosa di vero.

La mission psicoanalitica

E arriviamo al punto. È veramente curioso e stupefacente che i due principali artefici della psicologia del profondo, che con la loro sterminata produzione saggistica hanno dimostrato di possedere un background culturale veramente fuori dal comune, con un interesse spiccato e appassionato per il mito e l’antico, abbiano sorvolato su questo passo omerico che testimonia uno dei cardini più rilevanti dell’antica onirologia. Che conoscevano oltretutto molto bene. Chiaro segno di imbarazzo? Certamente. Ma a un secolo di distanza possiamo inferire il motivo profondo di questa apparente omissione.

Occorreva compiere un tradimento, ma contemporaneamente un “incesto”, che solo a pensarci fa venire i brividi, perché avrebbe potuto avere ricadute incalcolabili per tutto il genere umano. Si trattava di tradire proprio quel grande amore, dire addio alla vecchia e cara tradizione e narrazione spirituale e mitopoietica dell’uomo e del mondo, voltare pagina. Ma nello stesso tempo compiere con lei un incesto simbolico, foriero di un passaggio evolutivo a dir poco epocale. Perché proprio da queste portentose radici hanno tratto il novus che premeva per essere liberato. E osare: riscrivere i processi della mente nella sua totalità, che poteva voler dire cambiarla per sempre.

Così, quasi avessero finemente accordato le loro menti sul passo da compiere, hanno operato la stessa scelta di campo, uniti, pur divisi, in una comune mission per fondare la nuova scienza delle visioni dell’uomo, che sono sempre impronte memorabili di civiltà: se l’antica onirologia intendeva occuparsi solo dei sogni esterni alla psiche (porta di corno), considerati veraci, la nuova onirologia avrebbe dovuto occuparsi solo dei sogni interni alla psiche (porta d’avorio), considerati tradizionalmente illusori, anche perché è da questa e solo da questa che provengono tutti i sogni, veraci compresi. Era tempo. Ma con un diverso spin tra di loro, polarmente opposto: non c’è divino che non possa essere ricondotto all’umano, in Freud; non c’è umano che non possa essere ricondotto al divino, in Jung.

Salvo ricreare la dualità delle due porte all’interno dell’opzione psichica. Infatti, non che i due insigni maestri non si fossero mai occupati dei sogni che sarebbero stati considerati uscenti dalla porta di corno, tra cui possiamo annoverare un’ampia gamma di eventi come i sogni telepatici, premonitori, iniziatici, precognitivi, diagnostici, prognostici, creativi, incubatori, di guarigione, ecc. Tutt’altro. Jung in particolare li studiò lungamente identificandoli come “grandi sogni”, sogni prospettici o archetipici, poiché dovuti all’irruzione di un’immagine dell’inconscio collettivo a forte tonalità emotiva. A fronte dei sogni più comuni, quotidiani, sempre più frequenti in analisi, su cui l’opera terapeutica cerca di attuare il passaggio dal piano letteral-allegorico a quello simbolico, unificante e potenzialmente trasformativo. Ma anche Freud ha accennato a una funzione prospettica del sogno, oltre ad avere distinto i sogni dal basso, provocati dalla forza di un desiderio inconscio rimosso, dai sogni dall’alto, che sono connessi a idee o a intenzioni dello stato di veglia. Corrispondenti a un’importante divisione già fatta dallo stesso in precedenza tra i sogni derivati dall’Es e i sogni derivati dall’Io.

Ma tutta questa grandiosa e variegata fenomenologia onirica doveva comunque essere di esclusiva produzione interna, nessun sogno poteva considerarsi totalmente esterno ed estraneo alla psiche. Nessun sogno mendace. Numerosi furono i vantaggi fino a tutto il moderno, che in altra sede ho chiamato neomitico, ma gli svantaggi hanno cominciato a farsi sentire con la postmodernità, cioè col postmitico.

Per cui, per affrontare il sottile ma potente e pervasivo vacuum del nostro tempo, bisognerà recuperare l’immagine dell’antico e quanto mai avveniristico portale onirico, rivalutando e risignificando la grande intuizione immaginale che l’ha creata riguardo il significato simbolico di quel particolare vuoto, o mancanza, da cui provengono tutti i sogni, ombre che sono di due tipi come due sono le porte, in modo che non si con-fondano tra loro a tutto vantaggio dell’Uno, l’identico, lo stesso, l’Io, in cui l’Altro sta collassando.

 

Robot e ansia sociale – un nuovo aiuto per la clinica?

La letteratura suggerisce come le persone con ansia sociale tendano a preferire la comunicazione con gli altri mediata dal computer e l’interazione con artefatti come i robot rispetto alla comunicazione faccia a faccia con gli altri. Un robot potrebbe essere un utile strumento per questi pazienti?

 

Le persone che convivono con l’ansia sociale si sentono nervose in situazioni sociali, come quando parlano con altre persone, quando incontrano qualcuno per la prima volta, o devono parlare in pubblico (DSM-5, 2013). Questo avviene anche prima che qualsiasi comunicazione effettivamente avvenga; questo tipo di ansia è indicato come “ansia anticipatoria”.

Quando un individuo ha un problema, uno dei modi per affrontarlo è quello di consultare un esperto; in tale situazione, le persone che soffrono di ansia sociale sono tenuti a parlare di se stessi. Tuttavia, questa situazione presuppone di interagire con uno sconosciuto e aprirsi, aspetto che per gli individui con un alto livello di ansia sociale fa aumentare l’ansia e, di conseguenza, mostrano una tendenza verso l’evitamento (Nomura et al., 2019).

La letteratura suggerisce che le persone con ansia sociale tendono a preferire la comunicazione con gli altri mediata dal computer e l’interazione con artefatti come i robot rispetto alla comunicazione faccia a faccia con gli altri (Kang &Gratch, 2010).

Uno studio recente (Nomura et al., 2019) ha voluto indagare se un robot potrebbe essere una soluzione utile per le persone con ansia sociale anche a livello di counseling: incontrare un robot per una consulenza psicologica, provocherà un livello di ansia simile a quello che si prova verso gli umani?

Per lo studio sono stati reclutati 19 studenti universitari giapponesi (maschi: 11, femmine: 8), ai quali è stato chiesto di interagire con un un counselor robot antropomorfizzato e con un counselor umano per 5 minuti ciascuno.

Prima dell’interazione è stata presa una misurazione dell’ansia baseline, per la quale si è diviso il campione in due gruppi: “alta ansia sociale” – “bassa ansia sociale”; dell’ansia anticipatoria, dopo essere stati istruiti di dover interagire col /robot/umano; infine, si è misurato il livello di ansia successivo all’interazione.

Per la misurazione dell’ansia si è ricorsi ai seguenti questionari: la Social Avoidance and Distress Scale (SADS; Watson & Friend, 1969) per la misurazione dell’ansia sociale; il State–Trait Anxiety Inventory State version (STAI-S; Spielberger et al., 1983) per valutare l’ansia di stato (Spielberger et al. 1983); il Profile of Mood States (POMS; McNair et al., 1971) per misurare la tensione dei partecipanti durante l’interazione.

I risultati hanno indicato che chi faceva parte del gruppo ad alta ansia sociale tendeva a sentire meno ansia anticipatoria e tensione quando sapeva che avrebbe interagito con i robot rispetto agli esseri umani. Inoltre, l’interazione con il robot ha suscitato meno tensione rispetto all’interazione con la persona indipendentemente dal livello di ansia sociale.

Sebbene la sostituzione dei robot rispetto a un’interazione umana non sia realistica all’attuale livello tecnologico, per alcuni pazienti con grave ansia sociale i robot potrebbero essere – a livello comunicativo – migliori partner rispetto agli esseri umani nella fase iniziale di un programma terapeutico.

 


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Stigma e malattia mentale: medici e psicologi ne sono immuni?

Una prospettiva biogenetica come spiegazione del disturbo mentale aumenterebbe la distanza sociale percepita e i livelli di stigma anche nei professionisti.

 

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità sono circa 450 milioni le persone nel mondo a soffrire di disturbi mentali o del comportamento. Il più rappresentativo dei disturbi psichiatrici è la schizofrenia: nel mondo 24 milioni di persone soffrono di questo disturbo, 245.000 dei quali in Italia. Lo stigma riferito alla malattia mentale esiste in tutto il mondo ed è stato documentato da numerose ricerche (Link & Phelan, 2011; Corrigan, 2005) che hanno mostrato come tra la popolazione generale esistano convinzioni stereotipate riguardo la pericolosità (Crisp, Gerder, Rix Meltzer & Rowland, 2000), l’imprevedibilità, l’incompetenza e la responsabilità (Link, Phelan, Bresnhan, Stueve & Pescosolido, 1999). Infatti, le persone affette da schizofrenia sono spesso descritte come imprevedibili, incompetenti e pericolose, oltre che responsabili del proprio disturbo e con una scarsa possibilità di prognosi positiva (Angermeyer & Matschinger, 2004).

Tuttavia, atteggiamenti di questo tipo non sono stati riscontrati solo nella popolazione generale, ma sono presenti anche tra i professionisti della salute. I medici, ad esempio, non sono immuni allo stigma nei confronti delle persone con schizofrenia (Ay, Save & Fidanoglu, 2006; Economou et al., 2012; Feldmann, 2005; Filipcic et al., 2003; Garyfallos et al., 1998; Javed et al., 2006) e ciò è stato portato alla luce da una notevole quantità di studi effettuati in quest’ultimo ventennio che hanno evidenziato l’esistenza di forti pregiudizi con conseguenti atteggiamenti negativi dei medici nei confronti dei pazienti con disturbi psichiatrici.

Studi di questo tipo sono stati effettuati anche sugli studenti di medicina; i risultati di alcune tra queste ricerche (Magliano et al., 2012; Ay, 2006) mostrano come il percorso di studi tenda ad enfatizzare la percezione di pericolosità ed inguaribilità dalla schizofrenia con conseguente rafforzamento di atteggiamenti discriminatori anche da parte dei ‘medici di domani’. Inoltre è stato riportato che l’utilizzo di una prospettiva biogenetica come spiegazione del disturbo mentale aumenterebbe sia la distanza sociale percepita che i livelli di stigma (Dietrich et al., 2004, Read et al., 2006, Walker & Read, 2002, Read & Harrè, 2001). Diversi studi hanno evidenziato che attribuire le cause della schizofrenia a fattori genetici è associato ad una visione pessimistica circa le possibilità di guarigione (Rusch, 2011); al contrario, quando viene data una rilevanza maggiore a fattori causali di tipo psicosociale si tende ad essere più ottimisti sull’esito di questa patologia e, inoltre, le persone con schizofrenia vengono meno considerate come pericolose ed imprevedibili, riducendo in tal modo la distanza sociale nei loro confronti.

Nonostante gli psicologi abbiano un importante ruolo nella cura e nel sostegno professionale verso i pazienti psichiatrici, troppe poche ricerche esistono in letteratura che indagano la percezione di questa categoria di professionisti verso la malattia mentale. L’atteggiamento degli psicologi o degli studenti di psicologia non è stato adeguatamente valutato nella stessa misura in cui invece ci si è concentrati sugli atteggiamenti dei medici o di altri operatori sociali e sanitari.

Alcuni studi suggeriscono che gli psicologi clinici reggono meglio il confronto con gli altri professionisti della salute; essi tendono, infatti, ad avere atteggiamenti più positivi nei confronti di persone con disturbi psichiatrici (Roskin, Carsen, Rabiner, & Marell, 1988) e ad essere più ottimisti riguardo gli esiti del trattamento (Jorm et al., 1999).

I risultati di uno studio di Magliano e colleghi (2016) condotto su 566 studenti di psicologia risultano coerenti con il corpo di ricerche che documentano come l’assunzione di una prospettiva biomedica dei disturbi mentali possa avere effetti negativi sugli atteggiamenti ad essi associati (Angermeyer et al., 2011; Deacon, 2013; Pescosolido et al., 2010; Speerforck et al., 2014). Gli studenti di psicologia coinvolti in questo studio che riportano l’ereditarietà tra le cause del disturbo mentale risultano più pessimisti riguardo alle possibilità di guarigione e sono più scettici riguardo l’utilità dei trattamenti psicosociali nella schizofrenia.

Questi risultati supportano gli studi precedenti che indicano come l’adozione di un modello biogenetico della schizofrenia possa aumentare i pregiudizi sull’incurabilità di tale disturbo (Angermeyer et al., 2011; Read et al., 2013; Kvaale et al., 2013) e possa portare alla gestione clinica di questo disturbo solo attraverso l’utilizzo di trattamenti farmacologici a lungo termine (Hutton et al., 2013).

Tali studi aprono riflessioni sulla necessità di interrogarsi su quanto il percorso accademico sia in grado di plasmare gli atteggiamenti dei professionisti sanitari che offrono servizi di cura, spesso sulla base di soli inquadramenti teorici e decontestualizzati, figli di una vecchia psichiatria pre-Basaglia, e sul bisogno di rendere i percorsi professionalizzanti meno teorici e più pratici, con l’opportunità di interfacciarsi e di calarsi nella pratica clinica già durante gli anni di formazione, auspicando incontri e dialogo con le persone che soffrono di disturbi mentali, favorendo in tal modo l’abbattimento del muro dei pregiudizi che ruotano intorno alla malattia mentale.

Effetti positivi del lockdown su alcuni pazienti. Considerazioni tra psicoanalisi e psicologia evoluzionistica

Osservando gli effetti del lockdown sui nostri pazienti, ci siamo accorti che molti di loro dicevano di essere stati meglio nel periodo del lockdown rispetto a come si sentivano nel periodo precedente. abbiamo cercato di capirne le ragioni sia nell’ottica psicoanalitica che nell’ottica della psicologia evoluzionistica

 

Abstract

L’esperienza del lockdown è stata un esperimento unico su cui è interessante riflettere. Accanto a tanti effetti psicologici negativi, su cui molto è stato scritto, noi abbiamo notato che alcuni pazienti psichiatrici sono stati meglio durante il periodo del lockdown e abbiamo cercato di capirne le ragioni sia nell’ottica psicoanalitica che nell’ottica della psicologia evoluzionistica, riferendoci in particolare alla teoria del sistemi motivazionali elaborata da Liotti et al. (2017).

Da questo punto di vista gli effetti positivi del lockdown sono stati riportati al gioco dei sistemi motivazionali, diversamente attivati durante il lockdown rispetto a quanto avveniva per questi pazienti nella vita di prima. In particolare riteniamo che i pazienti abbiano tratto sollievo dalla disattivazione del sistema agonistico, rigidamente attivato in precedenza nella posizione di sottomissione o nell’angosciosa alternanza di dominanza e sottomissione (tipica del disturbo bipolare), con le sue specifiche emozioni negative. Questa disattivazione è stata ricondotta sia al fatto che il confronto con gli altri aveva perso di importanza che all’attivazione dei sistemi collaborativo e affiliativo, particolarmente attivati dalla situazione di condivisione che ci siamo trovati a vivere, con le loro emozioni positive specifiche. Il sistema dell’attaccamento, fortemente attivato dalla minaccia alla propria vita, ha ottenuto risposte positive di ‘accudimento sociale’ da parte dei governi attraverso le misure restrittive, che forse anche per questo motivo sono state accettate più facilmente. Ciò ha permesso di sperimentare un senso di protezione in una società in cui le persone si sentono generalmente sole ed esposte. In molti casi inoltre un sollievo contro la disorganizzazione è stato ottenuto anche attraverso la messa in atto di ‘strategie controllanti accudenti’ nei confronti qualche persona cara da proteggere.

Dopo aver discusso sulla stabilità dei mutamenti positivi, si conclude notando che comunque il lockdown in molti dei nostri casi ha dato impulso al lavoro clinico.

Parole chiave: COVID-19, effetti positivi del lockdown sui pazienti, psicologia del sé, teoria dei sistemi motivazionali, sistema di rango, sistema collaborativo.

 

Si è parlato molto dell’impatto della situazione che stiamo vivendo rispetto al COVID-19 sulla psicopatologia (Bello & Caroppo, 2020; Hao et al., 2020; Hasan K. et al., 2020; Huang & Zhao, 2020; Odriozola-Gonzales et al., 2020; Qiu et al., 2020), soprattutto per quanto riguarda l’aumento di sindromi di tipo ansioso e depressivo e i disturbi da stress post-traumatico (Attili, 2020, Lei et al., 2020, Ozamiz-Etxebarria et al., 2020; Paci, 2020; Guerra, 2020). Qui vorremmo mettere a fuoco un aspetto meno trattato su cui ci è parso valesse la pena di riflettere. Osservando gli effetti del lockdown sui nostri pazienti, ci siamo accorti che molti di loro dicevano di essere stati meglio nel periodo del lockdown rispetto a come si sentivano nel periodo precedente e poi, quando il lockdown si è allentato e infine interrotto, hanno mostrato una certa ansia e difficoltà a riprendere la vita di prima.

La fenomenologia è molto varia. Parliamo di pazienti con psicosi che durante il lockdown hanno mostrato un’attenuazione dei sintomi psicotici, di adolescenti che avevano difficoltà a frequentare le lezioni per problemi di ansia da prestazione o di socializzazione con i coetanei, ma sono riusciti a seguire le lezioni on line, di persone con disturbi di personalità o patologie varie che hanno mostrato di stare decisamente meglio durante il periodo di chiusura. Per non parlare di tutti i casi in cui il lockdown ha rappresentato un’occasione di riflettere sulla propria vita introducendo cambiamenti positivi o ha consentito di rivitalizzare rapporti familiari prima dati per scontati o anche semplicemente di lavorare più rilassati e più concentrati in smart working.

Un articolo americano (Godpnik, 2020) riporta il fatto che bambini con ADHD sono riusciti più facilmente  a seguire le lezioni on line rispetto alle lezioni in classe. Un lavoro italiano (Bello, 2020) cita il fatto che nel periodo dei due mesi di blocco c’è stata in Emilia Romagna non solo una diminuzione dei ricoveri ospedalieri, ma si è verificata anche una riduzione dei TSO (trattamenti sanitari obbligatori). E’ interessante notare che un articolo comparso sull’Espresso durante il lockdown (Jesurum, 2020) riporta una risposta positiva anche nei pazienti ricoverati nella Rems di Volterra (‘Come se limitazioni del lockdown li avessero finalmente resi uguali agli altri fuori dalla Rems’ (Jesurum, 2020, p. 64)). Viene anche in mente il fatto che Durkheim (1897) sostiene che nei momenti storici in cui si verificano guerre e rivoluzioni diminuiscono i tassi di suicidio, cosa che l’autore riconduce al fatto che in queste situazioni si crea un maggior senso di comunità e la vita aumenta di significato.

Un discorso a parte meriterebbe il tema dei ricaschi positivi della terapia da remoto, in particolare attraverso Skype, cui possiamo solo accennare. A fronte di tanti aspetti negativi che i pazienti hanno lamentato e noi stessi abbiamo sperimentato, in certi casi abbiano notato che la terapia veniva facilitata e non solo per ragioni logistiche (come il fatto che i pazienti erano molto più puntuali e non saltavano le sedute). Qualcuno ha affermato di essersi sentito più libero nel parlare a distanza, osservazione confermata da altri lavori (Bello et al., 2020), altri si sono sentiti più concentrati, in altri casi la possibilità di focalizzare il volto dei pazienti in primo piano ha consentito al terapeuta di cogliere meglio certe emozioni, mentre la possibilità di vedere l’ambiente in cui i pazienti vivevano ha fornito informazioni importanti sull’atmosfera della casa, per esempio sulla disorganizzazione che regnava in famiglia, sull’intrusività dei familiari e il livello di privacy. Nell’articolo sopracitato (Godpnik, 2020), recentemente apparso sul New Yorker, che riporta le opinioni di svariati psicoanalisti e psicoterapeuti della città di New York, qualcuno ha messo in evidenza il fatto che su Skype l’interazione dei volti in primo piano appare più intensa e drammatica, mentre il feedback del proprio volto fornisce al terapeuta un prezioso rispecchiamento per gestire l’interazione.

A questo punto ci è parso che la situazione meritasse una riflessione più approfondita.

Vignette cliniche

Come altri (Fagiolini, 2020, Zito, 2020) anche noi abbiamo innanzitutto notato un attutirsi dei sintomi nei pazienti più gravi.

Un giovane di trent’anni con gravi sintomi depressivi e crisi ricorrenti in cui soffriva di deliri paranoidi e allucinazioni, ossessionato dal senso di inadeguatezza perché non riusciva ‘a combinare niente’ in una famiglia di persone di successo, in occasione del lockdown ha cominciato a seguire una serie di corsi on line che quando frequentava nella realtà ad un certo punto interrompeva sempre, riuscendo per la prima volta a condurli a termine. Quindi ha iniziato ad accettare di fare dei piccoli lavori che prima, quando gli venivano offerti, rifiutava perché non soddisfacevano le sue aspirazioni grandiose. Questo giovane, che chiedeva continuamente denaro per pagarsi costosi divertimenti e comprarsi nuovi gadget sostanzialmente superflui, manifestando scoppi di aggressività se gli venivano negati, ha accettato senza protestare di non comprarsi più niente per tutto il tempo della quarantena e invece di litigare ininterrottamente con l’anziana madre che poneva un freno alle sue spese, ha cominciato a prendersi cura di lei, facendo la spesa e cucinando. Durante tutto il periodo del lockdown, senza che la terapia farmacologica venisse corretta, questo giovane non ha avuto crisi contrariamente a quanto avveniva in precedenza. In questo caso, al termine del lockdown le manifestazioni psicopatologiche sono riprese in modo attenuato, centrandosi sul timore dei contagi.

L’abbandono delle spese compulsive si è verificato anche in un adolescente che presentava gravi rituali ossessivi e stereotipie, che gli impedivano di arrivare puntualmente a scuola, e che esasperava i genitori, chiedendo continuamente regali, situazioni che provocavano continue scenate familiari con grida, percosse, a volte perfino ferimenti, che spaventavano i vicini tanto da indurli a chiamare la polizia. Trattandosi di una famiglia molto disorganizzata, la terapeuta temeva che la convivenza forzata facesse degenerare la situazione, invece le cose sono andate meglio. Il ragazzo ha diminuito i rituali perché non aveva più l’ansia di andare a scuola ed è riuscito a seguire le lezioni online, perché, se ritardava un po’, la madre oscurava il video finchè il figlio non sopraggiungeva, poi gli riassumeva quello che aveva perso. Per tutto il tempo del lockdown il ragazzo non ha chiesto nessun regalo. Istintivamente la madre ha trovato un sistema geniale per contrastare la disorganizzazione familiare e contenere le ossessioni del figlio: fare poche cose e sempre le stesse in una successione costante. La giornata era scandita in fasi sempre uguali, tra lezioni on line,  ginnastica in terrazza, spesa, bucato, stenditura dei panni in terrazza, cucina, pranzo e così via, tutti avevano un compito e dovevano rispettarlo. La madre, che si è prodigata tantissimo, alla fine ha detto: ‘Mio figlio è ossessivo e questa organizzazione ferrea lo ha aiutato. Il lockdown per noi è stato un bene perché ci ha contenuti. Bisognava convivere per forza e ce l’abbiamo fatta. Siamo stati di più una famiglia’. Al termine della quarantena il ragazzo, che aveva interrotto le stereotipie, ha potuto diminuire la terapia farmacologica.

Una paziente di venticinque anni che soffre di un disturbo bipolare di tipo 1, durante la quarantena ha chiesto di aumentare le sedute (su Skype) da una a tre, cosa che in precedenza aveva sempre rifiutato perché freneticamente impegnata a perseguire un successo irrealistico in un’attività letteraria, dopo di che è riuscita a riflettere sulla sua malattia come mai aveva fatto in precedenza: se prima le interpretazioni sulla grandiosità delle sue aspettative avevano più che altro l’effetto di irritarla o di deprimerla, nella calma concessa dalla quarantena la ragazza ha ripreso lei stessa il discorso, iniziando un’elaborazione delle fantasie grandiose e delle dissociazioni che dominavano le sue fantasie e i suoi comportamenti. Questo ha aperto un discorso tuttora in corso sul proprio falso sé (Winnicott, 1960) e sull’autenticità, sulle aspettative dei genitori nei suoi confronti e su quello che veramente lei voleva, conducendo alla decisione di cambiare la facoltà universitaria. Mentre prima la terapia era focalizzata sul presente, nella calma indotta dal lokdown la ragazza ha sentito l’esigenza di tornare sul suo passato, cercando per la prima volta di ricostruire la storia della sua malattia, portando diari, fotografie e una serie di sogni in cui cercava di riordinare la casa, chiedeva ai professori di integrare le diverse materie scolastiche (gli aspetti dissociati di sé), e infine ritrovava con gioia una amica perduta, che portava molte cicatrici, ma era affascinante (sé stessa prima della malattia). Essendo costretta a vivere a stretto contatto con i familiari, mentre prima stava fuori casa tutto il giorno, ha preso coscienza delle dinamiche competitive e della reciproca svalorizzazione che dominavano i rapporti nella sua famiglia, dopo di che ha cercato di  migliorare le sue relazioni con i familiari con cui prima era sempre in conflitto: con una serie di lettere e colloqui separati ha spiegato ad ognuno di loro il proprio punto di vista, cercando, contrariamente alla regola dominante in famiglia, di vedere in ognuno degli altri qualche aspetto positivo, preoccupandosi del benessere di ognuno di loro, superando così molte incomprensioni. Infine, potendo seguire i propri tempi, ha iniziato a scrivere un’opera autenticamente creativa, ispirata proprio all’esperienza del lockdown, che ha voluto condividere con la terapeuta e che ha intitolato ‘Succede molto, anche se non succede niente’. In questo caso il trend positivo è continuato dopo la fine della quarantena con effetti imprevedibili.

Pazienti con disturbi di personalità, nevrotici o comunque che presentavano una debolezza del sé, che sopportavano a fatica il lavoro, perché non riuscivano a fornire le prestazioni richieste senza ansia eccessiva, sono riusciti più facilmente a lavorare da casa. Una manager trentacinquenne che soffriva di insonnia e ansia in rapporto alle richieste di un capo esigente e lunatico, ma che non riusciva a risolvere la situazione, avendo una struttura di personalità per cui doveva sempre soddisfare le richieste che le venivano fatte, anche le più assurde, allontanandosi dalla situazione concreta per passare allo smart working, è riuscita a creare un distacco, ha superato l’ossessivizzazione sulla sua rabbia e impotenza a risolvere la situazione, ha migliorato il sonno, dopo di che si è messa a pensare di trovare un altro lavoro, cosa che prima era così angosciata e depressa che non riusciva neppure a immaginare di fare. In questo caso l’impasse che si era creata nella situazione di lavoro si era riprodotta in terapia nel senso che anche la terapeuta si sentiva impotente di fronte all’angoscia della paziente. Anche qui la brusca interruzione introdotta dal lockdown ha consentito di intraprendere il discorso sull’autenticità e sul vero sé, che sottostavano alle angosce della paziente. Alla fine del lockdown la paziente si è messa a cercare un casa da acquistare ampliando gli orizzonti della sua vita, ma soprattutto si è accorta che il capo era più sopportabile perché lei riusciva a dire qualche volta di no. Questa paziente aveva detto subito che la pandemia era per lei ‘la manna dal cielo’, tanto che si era creata una rottura (Wolf, 1984), poi riparata, dell’alleanza terapeutica perché la terapeuta non era riuscita subito a empatizzare con qualcuno che fosse così contento nella tragedia collettiva che si stava vivendo.

In questo caso, come in altri casi di pazienti con una struttura di personalità di tipo compiacente, persone che non riuscivano a sottrarsi a richieste e impegni sgradevoli, in occasione del lockdown hanno trovato una giustificazione sociale per rifiutare le richieste che non riuscivano o non volevano soddisfare e si sono sentite meno oppresse.

In qualche caso il lockdown ha interrotto una vita insoddisfacente, creando un break, che ha consentito di dare una svolta positiva alla vita. Il caso più eclatante è quello di un uomo, ormai vicino alla cinquantina e prossimo alla fine della terapia, iniziata molti anni prima per una complessa sintomatologia ormai risolta, che è stato sorpreso dal lockdown in un’altra città, mentre si trovava a trascorrere il weekend con una ragazza. Quest’uomo, che aveva avuto molte donne, ma non aveva mai sperimentato un rapporto veramente intimo, si proponeva sempre di cambiar vita senza mai provarci sul serio. All’inizio del lockdown si è sentito perduto, perché viveva solo ed era abituato ad uscire con gli amici quasi tutte le sere per divertirsi. Poi, potendo lavorare in smart working ha deciso di trascorrere la quarantena a casa della ragazza con cui si trovava. Pian piano si è accorto che poteva sopportare un rapporto di convivenza, cosa che prima aveva sempre temuto di affrontare, e addirittura con suo grande stupore ha sentito che stava meglio rispetto a quando viveva da solo. Verso la fine del lockdown ha sentito che ‘Era venuto il momento di smettere di fare soltanto il fico’ e  con la sua compagna ha cominciato a fantasticare di fare un figlio. Appena interrotta la contraccezione, la gravidanza si è, secondo le sue parole, miracolosamente subito realizzata. Dopo una prima reazione di panico, elaborata attraverso la terapia da remoto, il paziente ha chiesto di tornare alla terapia in presenza, chiedendo di intensificare le sedute per affrontare questa nuova fase della sua vita, che prima auspicava, ma poi aveva sempre paura di iniziare. Al ritorno in terapia il paziente era un po’ ingrassato, ma contento. Ha detto: ‘Ora non mi importa se ingrasso un po’, perché non devo più sedurre, ora devo pensare alla famiglia. Senza il lockdown non lo avrei mai fatto’. Adesso sta ristrutturando la sua casa da scapolo per fare fronte alla nuova situazione. E potremmo continuare.

Meccanismi degli effetti positivi del lockdown

Sui meccanismi di questi effetti si possono fare varie riflessioni.

Il lockdown ha rappresentato innanzitutto un contenimento, che per molti è stato utile. Un paziente ha affermato che ‘Finalmente c’era una regola’ a cui attenersi, un altro ha parlato del lockdown come di una ‘megacuccia protettiva’ che gli ha consentito due mesi di tranquillità e una maggior concentrazione sul lavoro (in smart working). Non a caso i due pazienti citati che soffrivano di shopping compulsivo hanno sopportato di non comprarsi più niente per due mesi: lo Stato ha potuto imporre il contenimento che i genitori non riuscivano a fornire ed è interessante notare che questi pazienti non hanno compensato la privazione aumentando le spese on line, come se avessero avuto bisogno proprio di un contenimento esterno alla famiglia per interrompere la spinta interna a comprare o come se avessero meno bisogno di contrastare la depressione attraverso gli acquisti.

In qualche caso possiamo pensare che avere un nemico esterno possa comportare dei vantaggi dal punto di vista psicologico. Nel caso del giovane trentenne con i deliri paranoidi si può pensare che di fronte a un pericolo reale la paranoia venga mascherata e tenuta a freno dal fatto che c’è un nemico esterno, il virus, condiviso socialmente contro cui esternalizzare la persecuzione, potendo così difendersene e lottare concretamente contro qualcosa di reale e condiviso. Inoltre la paura del contagio normalizza un certo grado di sospetto e di ritiro nei confronti degli altri e giustifica il ritiro sociale. In questo modo aumenta l’aderenza alla realtà e la quota di psicoticità diminuisce. Ma anche in casi meno gravi avere un nemico esterno contro cui organizzare una difesa può aver aumentato la coesione del sé.

In molti casi il lockdown ha rappresentato un’occasione unica di fare un break nella propria vita, di riflettere su cosa è più importante, di riordinare le priorità e magari di dare una svolta alla propria vita. Questo è il caso del cinquantenne, che ha deciso di fermarsi e costruire una famiglia e in parte si è verificato anche per la ragazza col disturbo bipolare, ma è stato verbalizzato un po’ da tutti i pazienti che hanno percepito un aumento di benessere durante il lockdown. La psicologia del sé si richiamerebbe all’idea di un progetto nucleare del sé (Kohut, 1977) o della propria agentività (autodeterminazione) recuperati. Non a caso i temi dell’identità, dell’autenticità, del vero e del falso sé sono apparsi più frequentemente nelle sedute di questo periodo e anche nei sogni (sogni in cui si perdono i documenti e si cercano affannosamente, in cui si guardano le proprie fotografie, ma non ci si riconosce, si cerca qualcosa che manca oppure si riordina la casa scoprendo qualcosa di bello che non si era visto prima). I pazienti, pur sottoposti alle restrizioni imposte dal governo, hanno avvertito un senso di libertà rispetto agli obblighi da cui prima si sentivano oppressi e nel silenzio creato dal lockdown hanno cominciato a chiedersi cosa contava veramente per loro con una frequenza maggiore rispetto a quanto avveniva nella vita di prima, in cui non avevano mai tempo.

Nella maggioranza dei casi però non c’è stata una svolta della vita, ma la persona, pur sottoposta alle restrizioni della quarantena, ha percepito di stare meglio. Molti, che prima non riuscivano ad avere rapporti soddisfacenti o comunque si sentivano soli ed emarginati, durante il lockdown hanno potuto sentirsi meno diversi: non solo l’isolamento non era più stigmatizzato, ma hanno potuto sperimentare una sorta di condivisione, che ha diminuito la loro solitudine. Altri che prima soffrivano perché si sentivano incapaci di ottenere le prestazioni che secondo loro gli altri riuscivano ad ottenere o perché non riuscivano a realizzare le proprie aspirazioni, ora avevano una giustificazione sociale per quello che non riuscivano a fare. In effetti la sofferenza dovuta all’isolamento sociale, all’emarginazione e al confronto con gli altri diminuisce quando si pensa che nessuno ha niente.

Per capire di più queste reazioni ci è parso utile rifarci, oltre che alle teorie psicoanalitiche, a cui ci siamo riferiti fin qui, anche alla teoria dei sistemi motivazionali, recentemente elaborata in campo cognitivista (Liotti et al., 2017).

La teoria dei sistemi motivazionali e le strategie controllanti

Basandosi sulla teoria dell’evoluzione, sul modello proposto da Jackson (1884) e sulla visione dei tre cervelli di MacLean (1973), Liotti (Liotti & Farina, 2011, Liotti et al., 2017) ha ipotizzato l’esistenza di un sistema motivazionale tripartito, selezionato attraverso l’itinerario evoluzionistico, organizzato gerarchicamente, riconducibile rispettivamente ai tre cervelli che nel corso dell’evoluzione si sono sovrapposti: il cervello rettiliano, il cervello limbico e la neocorteccia.

Al primo livello dell’architettura motivazionale si pongono i sistemi che impegnano le reti neurali del tronco encefalico e regolano condotte che riguardano il mantenimento dell’omeostasi corporea, la ricerca di cibo, la difesa dalle minacce alla sopravvivenza, la delimitazione del territorio, l’esplorazione e la sessualità di tipo rettiliano (che non prevede la formazione di coppie). Il secondo livello coinvolge moduli cerebrali situati a livello limbico, che regolano le interazioni sociali finalizzate alla richiesta di protezione, all’offerta di cura, alla definizione del rango sociale, alla cooperazione per realizzare obiettivi condivisi, alla formazione e al mantenimento di coppie sessuali stabili, al gioco sociale e al perseguimento dell’appartenenza a gruppi. Questi sistemi, definiti sistemi motivazionali interpersonali, in quanto regolano i diversi aspetti delle relazioni umane, attivano comportamenti e emozioni specifici. Al terzo livello, che impegna reti neurali della neocorteccia, si collocano sistemi che regolano la tendenza a condividere l’esperienza con altri esseri umani (intersoggettività), la tendenza a mentalizzare e a costruire significati. I sistemi motivazionali sono sempre attivi, alternandosi durante le nostre interazioni sociali.

Ai fini del nostro discorso aggiungiamo che nel caso di un genitore violento, abusante o anche depresso o eccessivamente inerme, l’attivazione contemporanea del sistema di attaccamento, quando il bambino si trova in uno stato di vulnerabilità, e del sistema di difesa, se il genitore invece di proteggere incute paura o comunque non riesce ad essere protettivo, determina nel bambino una situazione di ‘paura senza soluzione’ che disorganizza il sistema di attaccamento (Main M. & Hesse E., 1990): il bambino si trova a fronteggiare vissuti angoscianti e ingestibili legati ad immagini dell’altro (e di sé) multiple e contradditorie – che rimandano ai prototipi del salvatore, del persecutore e della vittima (Ivaldi, 2004)-, le quali possono provocare stati di coscienza alterati e disorganizzare il comportamento. Partendo da questa visione Liotti (Monticelli et al., 2008) ha proposto un’interpretazione delle ‘strategie controllanti’, che i bambini con attaccamento disorganizzato sviluppano dai tre ai sei anni di età per controllare il rapporto altrimenti ingestibile con la figura di attaccamento (Lyons-Ruth, & Jacobwitz, 2008). Secondo Liotti questi bambini, nei momenti in cui sarebbe logico aspettarsi un’attivazione del sistema di attaccamento, per evitare le dolorose emozioni legate all’oscillazione delle immagini di sé e dell’altro, inibirebbero difensivamente il sistema di attaccamento e cercherebbero di gestire il rapporto con la figura di attaccamento attivando un sistema motivazionale (interpersonale) vicariante, dando luogo a una strategia controllante. In particolare la strategia controllante accudente, che caratterizza bambini che si preoccupano della figura di attaccamento, offrendole aiuto e conforto, è stata riportata all’attivazione vicariante del sistema di accudimento, mentre la strategia controllante punitiva, che comporta comportamenti ostili e umilianti nei confronti della figura di attaccamento, è stata riportata all’attivazione vicariante del sistema di rango. Liotti (2008) ha messo in evidenza la possibilità di un’ulteriore strategia controllante che utilizza il sistema di rango in posizione di sottomissione e che si vede ad esempio nelle personalità compiacenti.

Interpretazione degli effetti positivi del lockdown alla luce della teoria dei sistemi motivazionali

Se osserviamo gli effetti positivi del lockdown dal punto di vista della teoria dei sistemi motivazionali sopradescritta, possiamo avanzare alcune ipotesi:

1.La prima cosa che salta agli occhi è che durante il lockdown la sofferenza legata all’attivazione del sistema agonistico (di rango) in modalità sottomessa e perdente con le sue specifiche emozioni negative (sensi di inferiorità, indegnità, sconfitta, umiliazione, vergogna, rabbia, invidia, tristezza) diminuisce notevolmente, producendo sollievo, perché le differenze tra chi ha di più e chi ha di meno, chi ha più successo e chi non ce l’ha, chi vince e chi perde ecc. non contano più come prima. Diminuisce la competizione perché non c’è niente per cui competere. Un paziente ha detto ‘Nella fase 1 siamo diventati tutti uguali’. Un altro ha detto che perfino il suo modo di fare sport è cambiato col lockdown, da meramente agonistico a un modo di percepire e aumentare il proprio benessere. Un altro, che svolge un lavoro creativo all’interno di una grande azienda, ha affermato di esser passato dal lavoro come dovere imposto al lavoro come divertimento.

Questo effetto è stato particolarmente evidente nel caso delle patologie depressive, così legate al sistema agonistico (Onofri & Tombolini, 2003): nei casi da noi riportati lo si vede bene nei tre pazienti con psicosi (anche il disturbo bipolare è stato legato alla periodica oscillazione del sistema agonistico dalla subroutine della dominanza a quella della sottomissione). Ma anche in casi in casi meno gravi le persone che si sentivano costrette a subire le intemperanze di capi autoritari da cui non riuscivano a difendersi o le personalità compiacenti che non riuscivano mai a rifiutare quello che veniva loro richiesto, hanno trovato una giustificazione per evitare di fare le cose sgradevoli per cui si sono sentite più libere e meno arrabbiate.

2. La situazione che si è creata con la pandemia ha incrementato le emozioni positive e i comportamenti legati al sistema cooperativo. Anche grazie all’azione dei media il virus ha contagiato tutti emotivamente e la condivisione si è estesa al pianeta. Se prima i propri dolori erano vissuti in solitudine o comunque in modo individualistico, con questa pandemia la condivisione di emozioni dolorose come la paura del contagio e della morte, l’ansia per la vulnerabilità e la precarietà, condivisione che coinvolgeva nella vita reale gli stessi terapeuti, ha reso queste emozioni più gestibili e inoltre è stato possibile sperimentare i sentimenti positivi specifici del sistema cooperativo, come la gioia da condivisione, l’empatia, la fiducia. La condivisione è stata alla base dell’usanza degli aperitivi su Skype che non a caso si è immediatamente diffusa. Qualche paziente ha notato che la cooperazione è aumentata anche in famiglia. La cooperazione a sua volta sblocca l’agonismo, perché l’attivazione dei due sistemi motivazionali (cooperazione e rango) è in competizione (un paziente ha detto ‘Succede come nei funerali, nel comune dolore i rancori si placano’). L’attivazione del sistema  cooperativo è stata alla base del successo dei flash mob sui balconi sul tema del coronavirus con manifestazioni varie di solidarietà a favore dei medici o di altre categorie impegnate nella lotta contro la pandemia, che hanno caratterizzato in molte città il periodo del lockdown. L’appello alla collaborazione e all’empatia è anche la lezione che studiosi di varia provenienza hanno tratto dall’esperienza della pandemia (Carrara, 2020, Franceschini, 2020, Lombardi, 2020, Truong, 2020).

È interessante notare che durante il periodo del lockdown in Italia il gradimento e l’appoggio al governo che imponeva le restrizioni è salito, mentre aumentava il fastidio per le polemiche dell’opposizione al punto che queste hanno preferito moderare (almeno temporaneamente) i toni.

3. Anche il sistema affiliativo è apparso attivato, con i sentimenti positivi che comporta, in quanto le persone si sono sentite parte di un gruppo di ‘noi’, come ‘quelli che hanno paura’ o ‘che soffrono’ o ‘si difendono’ o ‘lottano’ o ‘sperano’ ecc. Non a caso Durkheim (1897) aveva riportato la diminuzione dei suicidi nei momenti di guerre e rivoluzioni al senso di comunità. Un paziente ha affermato che l’imbarazzo che prima provava a presentarsi come italiano è scemato di fronte all’esempio che l’Italia ha dato di disciplina e compattezza di fronte alla sfida del coronavirus rispetto ad altri paesi, per cui una volta tanto si è sentito orgoglioso di essere italiano.

4. In molti casi anche il sistema dell’accudimento è stato sollecitato perché c’era qualcuno di cui preoccuparsi e che doveva esser protetto (persone anziane, persone con patologie fisiche o psichiche), provando sentimenti come tenerezza protettiva, sollecitudine, amore di tipo genitoriale. Spesso la messa in atto di una strategia controllante accudente (Lyons-Ruth & Jacobvitz, 2008) ha consentito di tenere a bada la disorganizzazione. Questo è evidente nell’atteggiamento nei confronti della madre messo in atto dal paziente con psicosi, dalla ragazza col disturbo bipolare e soprattutto dalla madre del ragazzo ossessivo.

5. Il sistema di attaccamento a sua volta, fortemente attivato dalla paura del contagio e dal senso aumentato di vulnerabilità, per molti si è attivato anche per quanto riguarda le emozioni positive legate al raggiungimento della meta del sistema (senso di protezione, sicurezza, rilassamento, fiducia), in quanto il lockdown e l’atteggiamento direttivo imposto dal governo hanno dato a molti il senso di ricevere una protezione, che non avvertivano più in una società in cui tutti si sentono soli, esposti e impotenti. Il contenimento stesso è una forma di accudimento. Questo forse è un motivo per cui le misure restrittive sono state accettate più facilmente. Sappiamo che in altri paesi rispetto all’Italia, come ad esempio il Regno Unito, dove il lockdown è stato imposto con ritardo, il senso di insicurezza è stato avvertito molto di più che in Italia.

6. Il fatto di sbloccare il sistema agonistico rigidamente attivato in precedenza, ha dato modo a molti di sperimentare altri registri di emozioni, arricchendo la vita di emozioni positive prima precluse, legate ad altri sistemi motivazionali, incentivando modi diversi di entrare in relazione e dando luogo a una serie di cambiamenti. E’ il caso della paziente che non sopportava il capo e che è riuscita a sbloccare la polarizzazione sulla rabbia e il vittimismo, cercando un nuovo lavoro e poi una nuova casa riuscendo ad ampliare gli orizzonti delle sua vita, ma soprattutto incrementando il percorso psicologico di ricerca di sé.

Nella fase 2 questo equilibrio è cambiato e questo ci spiega il ritorno dell’ansia in molte persone. Un paziente, che svolge un’attività di libero professionista, ha detto: ‘Quando nessuno si aspetta niente stai bene, con la fase 2 ricominciano le aspettative tue e degli altri. Se il lavoro non c’è, ti senti incapace’.

Queste idee, derivate dalla teoria dei sistemi motivazionali non ci sembrano in contrasto con le spiegazioni offerte dalla psicoanalisi, ma ci sembrano offrirne un’utile integrazione.

Conclusioni

L’esperienza del lockdown è stata un grande test, sui cui risultati potremo riflettere a lungo. Accanto a tante ripercussioni negative del lockdown sui pazienti, su cui molto è stato detto, abbiamo notato che diversi pazienti sono stati meglio durante questo periodo.

Per capire questi effetti abbiamo cercato di vederli da più punti di vista. Alcuni effetti clinici positivi li abbiamo spiegati con le teorie della psicoanalisi e soprattutto della psicologia del sé, in particolare quelle relative al falso sé (Winnicott, 1960) e alla ricerca dell’autenticità, che qualcuno considera come il fine dell’analisi (Neri, 2006) e del proprio progetto interno (Kohut, 1977); il lockdown ha favorito l’emersione di questi temi in molti pazienti, nel momento in cui si interrompeva il rumore del mondo esterno con le sue pressanti richieste e si creava uno spazio per pensare. Mentre altri casi li abbiamo spiegati alla luce della teoria dei sistemi motivazionali elaborata da Liotti (2018), chiamando in causa la particolare attivazione di questi sistemi durante il periodo del lockdown rispetto a quanto avveniva normalmente nella vita di prima. In particolare il benessere che soprattutto alcuni pazienti gravi hanno mostrato di provare ci è parso legato alla disattivazione del sistema di rango, in precedenza per lo più attivato in modalità sottomessa, e alla maggior attivazione dei sistemi motivazionali collaborativo e affiliativo, in precedenza piuttosto bloccati, nonché alla possibilità di controllare la disorganizzazione mettendo in atto delle strategie controllanti accudenti nei confronti di qualche persona percepita come fragile o in difficoltà a cui i pazienti erano legati. L’effetto positivo sui pazienti depressi da noi rilevato non è necessariamente in contrasto con l’aumento di depressioni legato allo scoppio della pandemia stimato da Guerra (2020), assistant director general for strategic initiatives dell’OMS, dato che la sua previsione include i nuovi casi, legati non solo alla pandemia, ma anche alla grave crisi economica che ne è seguita.

In tutto ciò certamente ha contato l’atteggiamento dei terapeuti nei confronti del lockdown nel senso che gli autori di questo articolo hanno subito sentito che si trattava di un esperimento unico, che poteva avere effetti positivi sui pazienti, sia per la possibilità di condurli più facilmente ad approfondire il lavoro su sé stessi, a ripensare alla propria vita e a raggiungere una maggiore autenticità, sia per il fatto di disinnescare il sistema agonistico e dare spazio al sistema collaborativo, secondo quanto i terapeuti stessi stavano sperimentando nelle loro vite. Mai come in questo caso infatti si è creata una situazione di condivisione della vita tra pazienti e terapeuti. Va comunque detto che in un caso la risposta di una paziente è stata opposta, nel senso che l’atteggiamento comunque positivo della terapeuta di fronte alla situazione creata dalla pandemia, ha suscitato un senso di lontananza e una reazione rabbiosa.

Naturalmente ci siamo chiesti se il lockdown abbia fornito sollievo solo temporaneo, per esempio consentendo ai pazienti di evitare situazioni sociali stressanti (in questo caso colludendo con la patologia) o sbloccando solo per un tempo limitato alcune situazioni irrigidite oppure abbia comportato dei veri e propri miglioramenti clinici. E’ difficile dirlo. Intanto bisogna distinguere. Nei casi in cui la ricerca di sé ha portato a dei movimenti positivi nella realtà, la situazione cambia comunque, perché cambiano le relazioni e si innesca qualcosa di nuovo. Il caso più eclatante è quello del ‘Peter Pan’ cinquantenne che ha deciso di fermarsi e formare una famiglia, ma anche nel caso della manager con l’ansia da prestazione o della ragazza col disturbo bipolare i movimenti positivi hanno innescato delle reazioni a catena da cui non è facile tornare indietro.

Nei casi in cui il benessere del paziente è stato temporaneo, a parte il fatto che due mesi di sollievo psicologico per chi sta male non sono comunque da disprezzare, anche il semplice fatto di avere sperimentato un equilibrio psicologico differente a cui prima non si poteva accedere può avere un valore sia per i pazienti che per le loro famiglie e per i terapeuti: sappiamo che è possibile stare meglio e sentire diversamente, possiamo ricordarlo e richiamarci al benessere provato in quei momenti, ma soprattutto nella terapia possiamo comprendere i meccanismi di quello che è accaduto e lavorarci insieme al paziente. In ogni caso questa esperienza ha dato un impulso al lavoro terapeutico.

 

Parole per difenderci (2020) di Cinzia Mammoliti – Recensione del libro

Parole per difenderci permette di interrogarsi sulla propria realtà e sulle dinamiche relazionali che nascondono una comunicazione manipolatoria, lasciando cadere le maschere e donandoci la speranza di poterne uscire per vivere più leggeri.

 

Il libro Parole per difenderci supera di poco un centinaio di pagine, ma in modo conciso, con vocaboli e concetti fruibili a tutti e avanzando esempi pratici, ci descrive le dinamiche della comunicazione manipolatoria, i manipolatori e, soprattutto, ci fornisce anche le armi per smascherarli e difenderci da essi.

… Comunicazione inefficace…quella che, anziché creare, alimentare ed arricchire le relazioni, le contamina, sfinisce, distrugge, tutta concentrata com’è a destabilizzare e rendere insicuro l’interlocutore…. (C. Mammoliti)

Cinzia Mammoliti descrive con queste poche parole la comunicazione del manipolatore tipo. Poche righe nell’introduzione del libro che ancorano l’attenzione sottolineando che non è necessario parlare di serial killer quando tocchiamo l’argomento manipolazione, perché i manipolatori inaspettatamente sono anche persone accanto a noi e che non ritenevamo fossero tali. Un genitore, un figlio, un amico, chiunque.

Il libro è ben strutturato e ci guida nella lettura.

La prima parte cerca di farci comprendere una dinamica manipolatoria, attraverso esempi di vita quotidiana sarà sorprendente riconoscersi e riconoscere come famigliari alcune situazioni. Continua con il Profiling dei manipolatori con la lista delle trenta caratteristiche del manipolatore relazionale, segue poi il profilo tipico di chi rimane invece vittima di manipolazione, anche qui utilizzando un elenco.

Non sarà difficile chiudere il libro per un momento e riflettere su di noi, non sarà difficile leggendo trovarsi davanti la faccia del manipolatore “proprio lui, ora è chiaro”.

La vera bellezza di questo libro è proprio questa, il fatto che inevitabilmente veniamo catapultati nella realtà, nella nostra realtà, lasciando cadere la maschera e donandoci la speranza di poterne uscire, si perché ognuno di noi ha il proprio manipolatore.

La Mammoliti, infine, conclude con una serie di tecniche utili per uscire da queste dinamiche relazionali. Devo dire di aver già applicato la tecnica della nebbia, ha funzionato! Leggendo questo libro potremmo stanare parecchio malessere immotivato e vivere più leggeri.

 

Mind-wandering e musica eroica: quali pensieri emergono?

A chi non capita di vagare con la mente durante una qualsiasi attività, senza sapere perché ci si sia ritrovati a pensare a quelle cose?

 

Tutto ciò ha un nome: mind-wandering, un’attività caratterizzata da un passaggio di attenzione da un compito attuale a pensieri e sentimenti non correlati (Smallwood & Schooler, 2015).

Dato che molti individui trascorrono una notevole quantità del loro tempo a vagare con la mente e che il contenuto del pensiero durante il mind-wandering può portare a influenzare in modo positivo o negativo l’umore degli individui (Killingsworth & Gilbert, 2010; Fox et al., 2018), è rilevante cercare di capire quali potrebbero essere i fattori che influenzano il contenuto dei pensieri durante il mind-wandering. In letteratura è già noto che la musica “allegra” porti gli individui verso pensieri più positivi durante il mind-wandering rispetto alla musica “triste” (Taruffi et al., 2017).

In uno studio recente (Koelsch et al., 2019) si sono analizzati gli effetti della musica “eroica” (Heroic Music), in confronto con la musica “triste”, sul mind-wandering. In particolare, si è cercato di capire se questi tipi di musica abbiano degli effetti sul contenuto del pensiero durante il mind-wandering.

Per la ricerca sono stati reclutati 62 partecipanti, sottoposti a sei sessioni di ascolto di 2 minuti di brani di musica “eroica” o “triste” (simili tra loro per tempo, intensità e orchestrazione). Dopo ogni estratto, i partecipanti hanno risposto a un questionario di 11 item, progettato per valutare l’estensione del mind-wandering e caratterizzare il contenuto dei pensieri (per esempio, per quanto riguarda l’eccitazione, la costruttività, la motivazione).

Al l’inizio dell’esperimento, e dopo ogni sondaggio sui pensieri, il sentimento dei partecipanti è stato valutato utilizzando un questionario di 10 item, l’International Positive and Negative Affect Schedule – Short Form (I-PANAS-SF; Thompson, 2007).

Dai risultati si è riscontrato che il mind-wandering è emerso durante l’ascolto di entrambi i tipi di musica (eroica, triste), e che il tipo di musica ha influenzato fortemente i contenuti dei pensieri. La musica eroica ha evocato pensieri più positivi, emozionanti, costruttivi e motivanti, mentre la musica triste ha suscitato pensieri più calmi o demotivanti.

I risultati indicano quindi che la musica ha un forte impatto sulla valenza dei contenuti dei pensieri durante il mind-wandering, con la musica eroica che evoca pensieri più stimolanti e motivanti, e la musica triste pensieri più rilassanti o depressivi. Questi dati possono avere implicazioni importanti per l’uso della musica nella vita quotidiana e anche a livello terapeutico, per promuovere la salute e il benessere sia nelle popolazioni cliniche che negli individui sani.

 

La dipendenza patologica e la comunità in cambiamento – Fatica a credito: storie parziali di dipendenza patologica

Dire che il mondo sia cambiato o che il mondo delle dipendenze patologiche sia cambiato, sembra una frase fine a se stessa. Il cambiamento che abbiamo intorno, è avvenuto tanti anni fa, non solo per i tossicodipendenti ma per tutti noi.

FATICA A CREDITO: STORIE PARZIALI DI DIPENDENZA PATOLOGICA – (Nr. 1) La dipendenza patologica e la comunità in cambiamento

 

Quando mi viene chiesto da quanto sono io qui, io rispondo
‘Un secondo’ o ‘Un giorno’ o ‘Un secolo’.
Tutto dipende da che cosa io intendo per ‘qui’ e ‘io’ e ‘sono’.
(S. Beckett 1961)

 

Premessa

L’uomo seduto di fronte a me ha 56 anni e, negli ultimi quaranta tutta la sua vita è ruotata intorno all’uso di eroina ed alcol.

Assume 60 mg di Metadone, ha l’HIV e L’Epatite C.

E’ seduto di fronte a me per chiedermi di fare l’ennesimo percorso terapeutico riabilitativo in Comunità.

E’ stato in Comunità Terapeutiche Residenziali altre cinque volte e una volta in una Comunità per il Reinserimento Sociale e Lavorativo, tutti i suoi percorsi terapeutici sono falliti, li ha abbandonati e ha ricominciato a fare uso di eroina ed alcol dopo poco tempo. Ha due ex mogli e con ognuna di loro ha una figlia, non ha alcuna risorsa economica.

Con la prima ex moglie non ha più rapporti e la prima figlia lo conosce appena. Con la seconda ex moglie ha un rapporto molto conflittuale, anche lei è tossicodipendente e anche lei ha l’HIV, la figlia che hanno ha 12 anni, non ha l’HIV e lui ne ha perso la patria potestà. Quest’ultima figlia vive con la madre, in un ambiente caotico e privo di ogni supporto, non ha orari, non frequenta la scuola, esce continuamente di casa e a volte resta fuori tutta la notte senza dare notizie.

I servizi sociali del territorio in cui risiede si occupano del caso, nel tentativo di farla accogliere in una Comunità per Minorenni.

Lui non ha mai lavorato per un periodo più lungo di tre o quattro mesi, è stato in carcere per reati correlati alla tossicodipendenza, ha un diploma di terza media e non è mai stato completamente astinente dalle sostanze stupefacenti, suo padre era un alcolista e suo fratello è un eroinomane ricoverato in una Struttura per malati di HIV.

Quando si alza dalla sedia di fronte alla mia scrivania, lascia il posto ad un’altra persona.

Ha venticinque anni, fa uso di eroina, cocaina e Lormetazepam da quando ne ha 14, non si rende conto di avere problemi anche con l’alcol.

Assume 50 mg di Metadone e ha l’Epatite C.

Quando è nato sua madre era detenuta in carcere e ne è uscita quando lui aveva cinque anni, suo padre è ancora detenuto.

I genitori sono due spacciatori tossicodipendenti che hanno speso tutti i soldi che avevano.

Ha vissuto in Strutture per Minorenni e in Comunità Terapeutiche, è stato detenuto anche lui per reati di spaccio ed ora sta scontando una pena che terminerà tra due anni e mezzo. Quando non è stato recluso o in Comunità, ha avuto il tempo di fare due figli che ora hanno tre e cinque anni, mi riferisce che la madre dei suoi figli non ha problemi con le sostanze stupefacenti ma attualmente è fidanzata con un tossicodipendente.

Lui non ha mai avuto un lavoro costante e duraturo ed è andato a scuola fino alla terza media.

Mi sorride da sotto la corazza e lascia il posto ad un altro. Questo ha vent’anni, vive in strada, il Magistrato dell’Ufficio di Sorveglianza mi chiede di farlo entrare rapidamente in Comunità per fargli evitare la sua prima esperienza detentiva. Fa uso di eroina da poco tempo, parla pochissimo e sono io a dover terminare le sue frasi, ha picchiato la madre ed è per questo che lei lo ha denunciato. Non ricorda quale sia stato il suo ultimo anno scolastico, non ha dimestichezza con l’igiene personale e tanto meno con la relazione umana.

Non sa in cosa possa essergli utile né in cosa consista una Comunità Terapeutica.

Non è mai stato a mangiare in un ristorante, il padre gioca con i videopoker al bar e lui lo vede raramente da quando si è costruito un’altra famiglia. I suoi genitori hanno tradotto parlare con picchiare, ma anche a loro è stato insegnato così.

Sembra un ramo in inverno, trema ma spera che non si veda.

Molte altre persone si sono sedute sulla sedia di fronte alla mia scrivania raccontando storie come queste, alcune peggiori e solo poche migliori.

Molte di queste persone sembrano arrivare da sponde diverse ma quasi tutte concludono il colloquio con me con le stesse parole: — Basta con questa vita, voglio recuperare il rapporto con i miei familiari, voglio essere una persona indipendente, voglio smettere di drogarmi, voglio ricominciare da zero, questa volta sono motivato a curarmi…

Con estrema difficoltà ascolto i loro racconti, le loro anamnesi, perché quando senti certe storie lo sconforto tende a farti distogliere l’attenzione.

Con estrema difficoltà gestisco la paura delle complessità che ho davanti ed un bagliore di umiltà mi suggerisce di riflettere prima di rispondere, di fare un esame di realtà prima di proporre qualcosa di sensato che non abbia la superbia di una soluzione.

Le persone che ho avuto di fronte non sono solamente gli eventi che mi hanno descritto, le loro vite non sono solo una sequenza di risultati in cui ora si affliggono, l’esame da fare è molto più complesso.

Quali obiettivi sono realistici, quali risorse personali sono ancora residue in ognuno di loro, cosa posso considerare miglioramento della condizione di partenza, quali sono gli schemi mentali con cui pensano, con quale società credono di dover fare i conti e con quale società faranno realmente i conti.

Come costruire una relazione con loro al fine di pianificare strategie di intervento che si fondino sulla collaborazione?

Per prima cosa devo capire come funzionano, come pensano e da quali emozioni sono dominati, è necessario studiare la prigione nei minimi dettagli prima di progettare l’evasione.

Mi dico: calma perché è complesso.

Punti di osservazione

Il punto di vista non è l’opinione ma è la posizione dalla quale si prende visione.

Sarebbe più corretto parlare di punto di osservazione, cioè di una finestra all’interno del contesto dalla quale si osserva il contesto, sia esso composto di cose e/o di persone.

Per consentirmi di raccogliere informazioni in modo adeguato ed esaustivo, il punto di osservazione deve essere realistico e neutrale.

Dire che il mondo sia cambiato o che il mondo delle dipendenze patologiche sia cambiato, sempre che ce ne sia uno e non sia lo stesso nel quale viviamo tutti, sembra anacronistico, sembra una frase fine a se stessa, è come dire che il nuoto è uno sport completo.

Il cambiamento che abbiamo intorno, o quello che zoppicando definiamo tale, è avvenuto tanti anni fa, non solo per i tossicodipendenti ma per tutti noi. Oggi ci sono i risultati di questa mutazione, i primi prodotti di un percorso che ha visto la sua alba ormai da molte notti, chi abbiamo di fronte, tossicodipendente o meno, non è in una fase di cambiamento sociale e/o valoriale ma è già qualcosa di diverso rispetto prima.

Noi che gli siamo seduti davanti siamo contemporanei? Ci siamo organizzati per far fronte a questi risultati? Ci stiamo facendo attendere? Condividiamo una strategia di promozione della salute?

Sicuramente siamo in ritardo, sicuramente siamo in conflitto, sicuramente dobbiamo ancora allearci.

Dobbiamo interrogarci, dobbiamo imparare a stare insieme nel problema senza isolarci in spavalde soluzioni, o arroccarci in presuntuosi conflitti.

Troppo spesso siamo limitati dal tentativo paradossale di inquadrare in schemi obsoleti fenomeni contemporanei, come se lo si facesse solo per un istinto di sopravvivenza personale, una pigra modalità di volgersi al cambiamento, un restare attaccati alle proprie idee solo per paura di non essere capaci di averne altre.

Il tossicodipendente è impulsivo, non tollera le frustrazioni, considera le regole come imposizioni, non è capace di gestire le attese, non sa progettare, vive di istantanee, non sa rimandare le gratificazioni, pensa che non ci sia un domani, non percepisce il reale valore del tempo, ha sempre bisogno di più soldi, è riluttante all’impegno, ha paura, non crede più a niente e a nessuno, si fida solo di chi è capace di tacere, è fatalista, cerca complici e non alleati, sente una sofferenza che non sa spiegare, si omologa, non mantiene le promesse, si assolve colpevolizzando gli altri, tende a denigrare per evitare le responsabilità che gli competono.

Tutte queste caratteristiche sono riscontrabili anche nella nostra società? Tutte o alcune di queste caratteristiche appartengono al genere umano che oggi popola questo pianeta?

Alcune (non me la sono sentita di scrivere tutte…) di queste caratteristiche appartengono anche a noi? La risposta è sì, e questo rende il nostro intervento ancora più complesso.

Gli schemi mentali, gli atteggiamenti e i comportamenti del tossicodipendente appaiono sempre più coerenti con il mondo e con la società che prevalentemente lo esclude e trovano terreno fertile nelle relazioni umane e virtuali che intercorrono tra tutte le persone.

Non si tratta di dare le colpe alla società, che tra l’altro è un’entità condizionante ma astratta, ma di individuare dove e quando un fenomeno si manifesta, rilevando gli interrogativi e le contraddizioni che lo rappresentano. Dire che la tossicodipendenza sia un problema che si interseca con il tessuto sociale è cosa più ovvia del dire nelle banane c’è il potassio, ma ora che il tessuto sociale è mutato come funziona?

Dire che la tossicodipendenza sia una patologia della relazione è ancora più ovvio, ma cosa accade ora che le modalità relazionali sono completamente mutate?

Sapevamo che l’impegno non garantiva il successo e sapevamo anche accettarlo, eravamo in grado di considerare l’attesa come parte integrante per la realizzazione di un progetto e la noia come un intercalare tra un accadimento ed un altro.

Per consolare il nostro narcisismo portavamo i risultati del nostro lavoro e non i fallimenti del nostro collega.

Avevamo meno paura di collaborare perché dovevamo fare meno attenzione ai nostri limiti, non era così letale e vergognoso mostrarli.

Prima era così, o almeno lo era di più, adesso no e non possiamo lamentarci.

Adesso dobbiamo guardare da un altro punto di osservazione.

Avevamo il tempo di anteporre la ricerca di informazioni alle teorie personali e chi ci ascoltava aveva più di 20 secondi da perdere con noi tra una distrazione ed un’altra.

Avevamo modo di centellinare i nostri segreti e i nostri ricordi, di telefonare per chiedere “Come stai?” e non “Dove stai?”, anche se avevamo opinioni su tutto non era di vitale importanza condividerle con tutti, anche con gli sconosciuti.

La scritta ultimo accesso ore 24.00 non creava una psicosi paranoide e sta scrivendo… non produceva irrefrenabili sintomi di conversione.

La relazione aveva disponibilità e non urgenza, la sincerità non era solo la mera esibizione del proprio stato emotivo e la connessione aveva a che fare con qualcosa di tattile.

Il tempo di una discussione consentiva alla spiegazione di favorire la comprensione, non c’erano i profili spiati che inducono al pregiudizio.

Prima era così, o almeno lo era di più, adesso no e non possiamo annegare in nostalgie stantie.

Adesso dobbiamo guardare da un altro punto di osservazione.

Siamo pesci nella stessa acqua e non possiamo inventarci che per noi sia più potabile, non possiamo illuderci che per noi sia meno inquinata. Forse è per questo che i tossicodipendenti non possono più vantarsi di essere pesci fuor d’acqua.

Il punto di osservazione, la finestra all’interno del contesto dalla quale noi osserviamo il contesto in cui si esprime la dipendenza patologica, deve comprendere un attento e pragmatico esame di realtà.

Se è vero come è vero che la dipendenza patologica si interseca con il tessuto sociale in cui si manifesta e che dilania le modalità relazionali del paziente, allora i valori della società attuale e i codici relazionali contemporanei non possono essere trascurati in un percorso terapeutico o di emancipazione dall’uso di droga.

Possiamo, ad esempio, considerare come il sospetto sia diventato un cardine per conoscere la realtà, come il cambiare idea sia dettato da quanto può essere vantaggioso cambiarla e non da quanto può essere vantaggiosa l’idea, come la competenza non sia un requisito fondamentale per fare un mestiere e come ascoltarsi sia troppo simile ad ascoltare.

Possiamo capire ed intervenire concretamente su un fenomeno solo facendo riferimento al contesto in cui quel fenomeno si manifesta e si esprime.

Non si tratta di inventare percorsi terapeutici all’avanguardia, quanto di considerare il nuovo condizionamento mentale prevalente come indispensabile per individuare strategie applicabili nel contesto attuale e nelle singole mentalità contemporanee dei pazienti che in esso vivono.

Non si tratta semplicemente di proporre nelle Comunità Terapeutiche percorsi trattamentali di breve durata, come se volessimo dire che se il mondo corre veloce allora anche la cura deve sbrigarsi, quanto di utilizzare il tempo della cura in modo collaborativo sia tra i servizi preposti sia con il paziente, evitando di farlo sentire in un’altra epoca, o fuori posto come sempre.

Sarebbe utile possedere un’impostazione condivisa, o almeno organizzata, per affrontare il problema sanitario e sociale delle dipendenze patologiche, integrandolo ma differenziandolo dagli aspetti legali che da esso scaturiscono.

Sarebbe utile, nell’ottica di un intervento terapeutico, evitare di assimilare il trattamento delle dipendenze patologiche con la lotta allo spaccio di droga, come se volessimo combattere l’obesità attaccando i supermercati. (La lotta allo spaccio di droga è importante e il fatto che sia difficile portarla avanti non giustifica la resa, però la cura delle dipendenze patologiche è un altro argomento).

Non possiamo limitarci a pensare che la repressione colmi il vuoto di un eroinomane, che gli arresti degli spacciatori arrestino l’uso di sostanze, che il controllo faccia luce sui nascondigli di giovani confusi (Il problema non è la droga in sé ma la droga in te).

Leggere la frase “X vende droga ad Y” genera nel lettore un’immediata reazione verso X, verso il suo comportamento criminale, produce una credenza (cioè una modalità di credere, non di ipotizzare, alla realtà) secondo la quale X è la causa della tossicodipendenza di Y.

In questo modo non si sta prendendo minimamente in considerazione Y (sarebbe differente leggere la frase “Y compra droga da X”), le motivazioni, le dinamiche sociali e relazionali, la sua storia, i significati esistenziali sottostanti, le responsabilità dei contesti che costruiamo e che emarginiamo. E’ molto più immediato (e ovviamente giusto) applicare risposte al comportamento illegale di X piuttosto che interrogarsi, impegnarsi, immergersi nella complessità della vita di Y. E’ più facile mostrare di saper eliminare X che guardare nell’abisso per recuperare Y.

Sembra di nuovo necessario ridefinire il tema delle dipendenze patologiche partendo dal significato esistenziale che la droga possiede, quanto la droga rappresenti un’accessibile soluzione alle angosce individuali.

Dobbiamo definire una mappa, anche se la mappa non è il territorio, che ci consenta di descrivere un fenomeno complesso come quello della dipendenza patologica, analizzando i comportamenti e gli scopi del tossicodipendente in un’ottica contemporanea, considerandoli all’interno dei valori e degli stimoli che il contesto sociale e relazionale impone a tutti noi.

E’ necessario riconoscere quanto gli atteggiamenti e i bisogni del tossicodipendente siano spesso conformi con gli atteggiamenti e i bisogni di oggi e di quanto il contesto sociale e relazionale li favorisca e spesso li autorizzi.

L’apprendimento di modalità comportamentali avviene in larga parte per imitazione e per modellamento (Bandura,1969) osservando i modelli o i riferimenti che si incontrano e con cui si entra in relazione, attualmente questi modelli vengono assorbiti da chi li osserva solo in base a quanto sono efficaci per il raggiungimento, per il soddisfacimento, di obiettivi specifici.

Questi obiettivi specifici sono definiti da un materialismo estremo, si tende a delegare la formazione della propria identità al possesso momentaneo di oggetti che non si scelgono.

Essi rappresentano tutto ciò che è giusto, tutto ciò che si deve avere ad ogni costo, sono tutto ciò che conta veramente nella vita, anche raggiungerli solo per un istante.

Piacere immediato, anche per pochi attimi, il massimo senza fatica, costi quel che costi, il Jackpot o niente.

E’ il passaggio dalla soddisfazione al soddisfacimento, dal desiderio al bisogno, dall’avere uno scopo al raggiungere un obiettivo: non è l’assenza di valori ma è il tentativo di tradurli in qualcosa di solamente pratico che alla fine li distrugge.

Per definizione l’idea di ciò che vogliamo essere e i valori individuali a cui cerchiamo di attenerci, non sono concretamente raggiungibili, sono qualcosa verso cui si tende, una direzione da custodire. Gli obiettivi che vogliamo ottenere, invece, rappresentano la concretezza, qualcosa che si può raggiungere e possedere.

Se quello che definiamo valore, cioè la misura delle doti morali o intellettuali che un individuo dimostra e che si impegna a mantenere, non viene più inserito nel processo attraverso il quale si tenta di raggiungere un obiettivo, allora il valore diventa l’obiettivo stesso, si trasforma nella quantità di moneta pagabile o ottenibile per qualcosa. In questo senso il valore diventa sinonimo di prezzo ed attenersi ad esso si misura in base al guadagno, per essere ampollosi potremmo dire che il valore si traduce in ciò che si ha e non in ciò che si è.

Essere coerenti con i propri valori giustifica l’impegno, o anche il sacrificio, che si produce per raggiungere uno scopo o un cambiamento personale, permette di alimentare la motivazione in assenza di gratificazioni immediate.

Inoltre, essere coerenti con i propri valori, permette di compensare l’eventuale insuccesso, gratifica la rinuncia, favorisce scelte a lungo termine perché aiuta a gestire le attese.

Questa non è una prospettiva molto diffusa nella nostra società, spesso è ritenuta un limite per il soddisfacimento dei bisogni perché non li rende immediati, a volte appare come una strategia risibile che provoca sconcerto per la mancata scelta di espedienti.

Il modo predominante di vedere il mondo si espone quindi ad una valutazione estremamente semplicistica, basata prevalentemente sul soddisfacimento immediato di voglie, secondo la quale il desiderio si sceglie in base a quanto è necessario impegnarsi per realizzarlo.

Un desiderio per il quale non si è disposti a lottare o per il quale non si è disposti a tollerare la minima frustrazione, un desiderio che può essere repentinamente sostituito da un altro perché meno impegnativo, si trasforma in appetizione, in mera preferenza, in scelta suggerita subdolamente dall’esterno e non in azione che muove dall’interno.

Il desiderio dei nostri tempi è una tensione spasmodica senza climax, l’obiettivo è mantenere la persona in un costante stato desiderante senza ricevere appagamento.

— Nel 1985 fu messa sul mercato la prima console Nintendo, era la prima volta che si poteva avere una specie di computer solo per giocare. Il mio desiderio di averla durò per circa 12 mesi quando, finalmente, la ricevetti per Natale. La tensione, il fremito che mi aveva fatto compagnia in tutta quell’attesa, raggiunse il suo apice mentre scartavo voracemente il pacco regalo e si trasformò in un piacere fisico che sentii in tutto i corpo mentre la strinsi tra le mie mani.

Non ci sarebbe stata una console migliore o più all’avanguardia per i prossimi anni, quello era il massimo che un ragazzino di 13 anni potesse avere, il massimo dell’offerta tecnologica, per questo ebbi tutto il tempo di godermela, di consumare completamente quel mio desiderio.

Il tempo per il godimento di un desiderio è importante perché ripaga dell’attesa, conclude la frenesia, la sovreccitazione e l’inquietudine che accompagnavano il precedente stato di mancanza.

Se dopo una settimana avessi visto la pubblicità della nuova Nintendo, sarei stato assalito dall’insoddisfazione per ciò che avevo già e avrei ricominciato, troppo presto, a desiderare una nuova console, sarei stato deluso sia da ciò che possedevo già sia da ciò che non possedevo ancora.

Senza quel tempo, o quando quel tempo è troppo breve, si rimarrebbe nello stato di frenesia, di sovreccitazione, di inquietudine.

Si faccia attenzione, nel desiderare qualcosa si avverte la mancanza di quella cosa, non di qualunque cosa, il desiderio si realizza mediante l’ottenimento dello specifico oggetto desiderato.

Non può essere sostituito in modo indiscriminato da un altro oggetto, seppur simile a quello desiderato, non è previsto che ci si possa accontentare.

Il bambino che desidera capricciosamente quel giocattolo non sarà disposto ad alcuna trattativa, preferirà non avere nulla piuttosto che non avere esattamente l’oggetto che desidera.

La nostra epoca ha perturbato, ridotto, il tempo del godimento, denigra il periodo refrattario relegandolo ad un’inutile momento di assenza di piacere.

La persona deve restare in una condizione desiderante perpetua, altrimenti la fase del godimento la distrarrebbe da un ulteriore consumo, la toglierebbe dal mercato per un po’, se ne starebbe, soddisfatta, ad aspettare che un altro desiderio la sorprenda.

Tutti, o la maggior parte di noi, preferiamo istintivamente tutto e subito a poco tra tanto, con il tempo e attraverso dei rinforzi sociali sviluppiamo la capacità di attendere, di progettare, di tollerare le delusioni intermedie. Tutti, o la maggior parte di noi, incontriamo delle naturali difficoltà nel posticipare le gratificazioni, con il tempo e attraverso dei rinforzi sociali apprendiamo l’utilità di rimandare un piacere immediato per uno più completo e stabile.

Tutti, o la maggior parte di noi, cerchiamo una soluzione immediata e possibilmente indolore alla sofferenza che proviamo, con il tempo e attraverso dei rinforzi sociali impariamo a trovare conforto in qualcuno e non solo in qualcosa.

Gradualmente riusciamo a comprendere e a modulare le nostre predisposizioni di base. Posticipare le gratificazioni, gestire le attese e accettare il dolore non sono comportamenti istintivi, ma apprendimenti con i quali ogni essere umano deve confrontarsi.

Sono inoltre alcune delle caratteristiche inserite all’interno della costellazione di sintomi che descrivono le persone con una dipendenza patologica e spesso sono le principali abilità di cui questi pazienti sono sprovvisti o deficitari.

L’esponenziale proposta di stimoli che incontriamo nel contesto impone una sempre maggiore rapidità nelle risposte, la regola sociale secondo cui, data l’incertezza sul futuro, è meglio saziarsi nell’immediato anche se in modo indiscriminato, uccide il desiderio e trova terreno fertile nella parte più ampia del nostro cervello, quella dell’area emotiva piuttosto che nell’area cognitiva.

Anche le parole con cui ci esprimiamo, con cui descriviamo o connotiamo gli eventi, devono sempre tendere ad avere il maggior impatto emotivo possibile al fine di schivare le funzioni cognitive, devono favorire una reazione e non una riflessione in chi le ascolta.

Tutto questo ha un impatto sugli schemi mentali e sui comportamenti di ogni individuo ma, nel tossicodipendente va a poggiarsi anche su un substrato neurobiologico deteriorato, amplificando le sue difficoltà ad apprendere strategie cognitive più funzionali o nuove abilità comportamentali.

 

La sensibilità materna nell’interazione madre-bambino

Durante lo sviluppo del bambino la sensibilità materna viene influenzata da una serie di fattori compresi alcuni fattori ambientali e demografici.

 

L’interazione diadica costituisce la base per lo sviluppo e la crescita psicologica del bambino, soprattutto nei primi anni di vita (Kivijarvi, Raiha, Virtanen, Lertola, & Piha, 2004); inoltre rappresenta il principale setting per l’acquisizione del linguaggio e lo sviluppo di altre abilità cognitive. L’aspetto più importante che connota tale relazione è il costrutto evolutivo della sensibilità materna, indicatore chiave della precoce interazione diadica, in grado di influenzare sia il comportamento che lo sviluppo del bambino.

Il costrutto della sensibilità materna è stato introdotto negli anni ’70 con la teoria dell’attaccamento e viene considerato una delle più importanti determinanti dell’attaccamento tra una madre e il suo bambino. Successivamente, Biringen et al. (2000) hanno ampliato questo concetto definendola come la risposta della madre al suo bambino, la capacità di essere calda e rilassata quando il bambino è angosciato, di negoziare i momenti conflittuali, di proporre giochi stimolanti e creativi e di sintonizzarsi emotivamente con il bambino. Le madri sensibili infatti sono in grado di rispondere rapidamente ai segnali del bambino, stabilendo una vera e propria contingenza tra questi segnali e le loro risposte. Inoltre, un genitore sensibile ha un tono dell’affetto positivo e genuino nell’espressione vocale e facciale, non si annoia a stare con il bambino ma prova piacere a condividere del tempo con lui, riconosce nel figlio una persona diversa da sé, ne riconosce i bisogni, ed è in grado di affrontare e gestire le situazioni conflittuali e di mostrare empatia.

Ma durante lo sviluppo del bambino la sensibilità materna viene influenzata da una serie di fattori, a tal proposito Bornstein et al. (2011) hanno riscontrato l’esistenza di una relazione tra gli stressor quotidiani, ovvero i fattori ambientali e demografici, e la sensibilità materna.

Amankwaa et al. (2007) avevano già riscontrato, da studi passati, la presenza di una relazione inversa statisticamente significativa tra la sensibilità materna e gli stressor quotidiani, dal momento che lo stress materno è negativamente correlato alla sensibilità materna, ed è in grado di modellare la sensibilità della madre nel tempo. Tra queste fonti di influenza vengono annoverate: l’età cronologica materna, il crescere dell’età materna infatti correla positivamente con i livelli di sensitività, mentre l’età giovane della madre incide negativamente (Bornstein, Hahn, Suwalsky, & Haynes, 2011); lo Status Socioeconomico Familiare (SES), a seconda del livello del SES infatti i genitori mostrano diversi livelli di stress ed avversità, mente i bambini appartenenti a famiglie con SES inferiore soffrono di maggiori o minori privazioni (McAdoo, 2002) e le loro abilità tendono ad essere più limitate rispetto a quelle di bambini con SES superiore; l’occupazione materna dal momento che la ricerca ha indicato una relazione negativa tra le ore dell’occupazione materna e la loro soddisfazione, competenza nella genitorialità, nonché uno sviluppo cognitivo più basso e maggiori problemi comportamentali per i bambini (Baum, 2003).

Il dilemma dello sconosciuto. Perché è così difficile capire chi non conosciamo (2020) di Malcolm Gladwell – Recensione del libro

Il dilemma dello sconosciuto è un libro rivoluzionario che affronta la difficoltà di capire e comunicare con chi non conosciamo.

 

Malcolm Gladwell è un sociologo e giornalista, inserito nel 2005 dal Time come uno dei 100 personaggi più influenti del mondo. Giornalista per il Washington Post ed il New Yorker, è anche autore di moltissimi best-seller ed è considerato l’inventore di un genere senza precedenti, anche grazie al suo personale stile di scrittura. Il suo ultimo libro Il dilemma dello sconosciuto, pubblicato in Italia nel 2020, ha già riscosso enorme successo in tutto il mondo.

Immaginiamo ipoteticamente di trovarci nel bel mezzo di una piazza affollata e di vedere improvvisamente apparire di fronte a noi qualcuno che non conosciamo, uno sconosciuto. Egli parla la nostra lingua, ma non sembra meritare fiducia. Ha un aspetto trasandato ed è piuttosto loquace. In che modo agireste? Interagireste con lui o vi affidereste al vostro primo giudizio evitandolo voltandogli le spalle?

‘Decifrare’ e comprendere una persona che non si conosce è più difficile di quanto si possa pensare. L’arte di comprendere qualcuno è già difficoltosa nelle relazioni con i propri cari, parenti, amici, e quindi ancora più complessa di fronte ad uno sconosciuto.

Essendo la nostra vita piena di sconosciuti (basta camminare per strada, salire su un autobus per incappare nell’incontro di nuove persone), è necessario analizzare le strategie che utilizziamo nel rapportarci con gli altri. Queste sono spesso influenzate da pregiudizi che non ci permettono di valutare adeguatamente chi abbiamo di fronte. Questa operazione di comprensione, oltretutto, è alla base di moltissime professioni. Pensiamo, per esempio, ad un poliziotto ad un posto di blocco che deve fermare un automobilista per strada o ad un medico di pronto soccorso che incontra un paziente per la prima volta.

Secondo Gladwell: ‘Abbiamo continuamente bisogno di comprendere gli sconosciuti, ma non siamo per niente bravi a farlo‘.

Al contrario di quanto pensiamo, siamo sostanzialmente degli incompetenti in questa operazione di comprensione. Le prove di questa nostra incapacità non sono solo evidenti nel quotidiano. Queste sono presenti in alcuni fatti storici.

Ed è proprio questo che Gladwell intende fare con Il dilemma dello sconosciuto, mettere in luce questa nostra incapacità di superare stereotipi e pregiudizi nella relazione di comprensione dell’altro attraverso vicende del passato.

Lo scopo di Gladwell è ribaltare il senso comune, stravolgere le credenze personali, raccontare in cosa consiste il fraintendimento e il fallimento della comunicazione. Egli è convinto dell’idea che ‘la comprensione non dipende solo dalla lingua, ma anche dalla cultura e dalla storia degli individui’.

L’inizio del libro si concentra su una vicenda avvenuta qualche anno fa in Texas, l’arresto da parte di un poliziotto ad un posto di blocco di una giovane donna, Sandra Bland, la quale si suicidò in cella qualche giorno dopo. Questo per Gladwell rappresenta uno dei più clamorosi avvenimenti legati all’incapacità di giudicare uno sconosciuto e ci fa comprendere come le difficoltà comunicative possano portare alle peggiori conseguenze possibili. La vicenda diede inizio al movimento Black Lives Matter, che oggi conosciamo fin troppo bene. A partire da questa vicenda Gladwell prende in esame altre situazioni storiche che rappresentano esempi di come il pregiudizio e gli errori comunicativi influenzino il rapporto con lo sconosciuto e l’idea che ci facciamo di questo: nel 1938, Chamberlain, il primo ministro inglese giudicò Hitler un uomo pacifico e affidabile al primo incontro, un errore storico che ebbe conseguenze note.

Come è possibile giudicare erroneamente qualcuno che non si conosce? Secondo l’autore:

La convinzione che noi sappiamo degli altri più di quanto loro sappiano di noi, e che riusciamo a capirli meglio di quanto non si capiscano loro stessi (ma al contrario loro non possono capire noi), ci induce a parlare quando faremmo meglio ad ascoltare.

Questa credenza è detta illusione di comprensione asimmetrica.

Inoltre, secondo l’autore, nel relazionarci con chi non conosciamo commettiamo tre errori: la presunzione di onestà (giudicare dall’aspetto una persona innocente), l’illusione di trasparenza (l’incapacità di considerare uno sconosciuto in qualità di persona) e infine la sottostima del contesto in cui si presenta uno sconosciuto. Questi errori portano ad una fallita comunicazione.

Grazie a questo libro è possibile comprendere alcune strategie per capire gli sbagli che commettiamo con chi non conosciamo. Il dilemma dello sconosciuto è un libro che ci svela come ci relazioniamo, che ci mette di fronte alle nostre credenze al fine di analizzarle e comprenderle. Lo scopo finale? Accettare i propri limiti, ammettere che comprendere gli altri non è facile, ammettere che occorre uno sforzo arduo.

Questo libro è basato su un dilemma. Dobbiamo parlare con gli sconosciuti, non abbiamo altra scelta, specialmente in un mondo privo di confini come quello attuale. Non viviamo più in villaggi. I poliziotti devono fermare persone che non conoscono. I funzionari dell’intelligence devono confrontarsi con l’inganno e l’incertezza. I giovani vanno alle feste proprio per incontrare persone sconosciute, fa parte del brivido romantico della scoperta. Eppure, di fronte a questo compito quanto mai necessario, ci scopriamo incapaci. Pensiamo di poter trasformare lo sconosciuto nel familiare e nel noto senza sacrifici e costi aggiuntivi, ma non è così. Che fare? […] accettare i nostri limiti nel decifrare gli sconosciuti.

 

Bugie, Verità e Tratti di personalità

Anche se trascurate nella letteratura psicologica, le capacità percepite di dire e rilevare le bugie, di dire la verità in modo convincente e di fidarsi degli altri giocano un ruolo importante in molti settori della vita sociale.

 

Le persone tendono a fidarsi degli altri per mantenere i legami sociali. Devono usare le loro capacità di dire la verità per convincere gli altri della loro veridicità (Ariely, 2012). La tendenza generale della popolazione è assumere che la maggior parte delle comunicazioni siano veritiere e che, se non lo sono, la loro mancanza di veridicità può essere svelata (Kwan et al., 2009).

Un recente studio ha esaminato il contributo delle dimensioni della personalità alle capacità di comunicare e individuare le bugie, dire la verità e credere agli altri. Nello specifico, gli autori hanno utilizzato un modello che ha fornito una tassonomia comunemente accettata per la classificazione della personalità, ossia il “Big Five” (McCrae & Costa, 1997). Secondo questo modello, ci sono cinque dimensioni che catturano l’intera gamma dei tratti della personalità: nevroticismo, estroversione, apertura all’esperienza, gradevolezza e coscienziosità. Questi tratti possono essere buoni candidati per prevedere le abilità percepite relative alla menzogna e alla verità. L’estroversione comprende tratti come l’energia, le emozioni positive, l’assertività, la socievolezza, la loquacità e, infine, la tendenza a cercare stimoli e sensazioni nuove (McCrae & Costa, 1997); le persone estroverse sono infatti molto attratte dalla vita sociale e potrebbero avere più possibilità di mentire e di individuare menzogne negli altri. L’apertura all’esperienza implica la curiosità intellettuale, il pensiero indipendente, la creatività e la preferenza per la novità e la varietà; potrebbe essere definita come la misura in cui una persona è fantasiosa o indipendente e rappresenta una preferenza personale per una varietà di attività rispetto ad una rigorosa routine (Barrick & Mount, 1991). La coscienziosità combina caratteristiche come la tendenza a mostrare autodisciplina, ad agire con rispetto e a concentrarsi sul raggiungimento di risultati; le persone coscienziose tendono a pianificare piuttosto che ad essere spontanee e sono organizzate e affidabili, pertanto potrebbero essere poco propense all’imbroglio (Day, Hudson, Dobies, & Waris, 2011). Le persone con elevato grado di gradevolezza sono simpatiche, amichevoli e affidabili (McCrae & Costa, 1997); questa dimensione è associata alla tendenza ad essere genuini e non “falsi”, soprattutto nelle relazioni (Gillath et al., 2010). Il nevroticismo comprende tratti come bassa fiducia in se stessi, pessimismo, emozioni negative, ansia e irritabilità e da una minore capacità di gestire lo stress; inoltre, le persone nevrotiche tendono ad avere scarse capacità di controllo degli impulsi e una precaria stabilità emotiva (McCrae & Costa, 1997).

Un campione di 174 studenti universitari ha compilato un questionario composto da quattro domande che chiedevano loro di valutare le loro capacità di dire bugie, di dire la verità, di individuare le bugie e di credere ad esse, rispetto agli altri (es. “In confronto ad altre persone come valuteresti la tua capacità di dire bugie?”, Elaad, 2009, 2011). Inoltre, i partecipanti hanno completato il Big Five Personality Inventory (BFI, John, Donahue, &Kentle, 1991), comprendente 5 sottoscale, ciascuna composta da items relativi ad ognuna delle dimensioni. Ai partecipanti è stato chiesto di valutare la misura in cui le varie affermazioni li descrivono su una scala Likert a 5 punti, che va da 1 = fortemente in disaccordo a 5 = fortemente d’accordo.

I risultati hanno rivelato il contributo significativo di tutte le dimensioni dei Big Five alla percezione della capacità di mentire. Nello specifico, è emerso che l’estroversione predice la capacità di dire bugie e verità in maniera convincente, oltre che una maggiore capacità di individuare menzogne. L’apertura all’esperienza è predittore di una maggiore capacità di dire e rilevare bugie, infatti queste persone sono dotate di grande curiosità e creatività, al punto che tendono a dedicare tempo e fatica alla raccolta di informazioni relative agli altri. Le persone con un alto livello di gradevolezza hanno una forte propensione alla fiducia, tendono a dare per scontato che gli altri siano degni di fiducia e per questo sono inclini a credere agli altri (McCrae& Costa, 1997), infatti i risultati hanno rivelato una scarsa capacità di individuare menzogne. Coscienziosità e nevroticismo predicono basse capacità di dire le bugie: i più coscienziosi sono spinti dal desiderio di sostenere un’immagine di sé onesta, mentre le persone nevrotiche sono caratterizzati da una bassa fiducia in se stessi e una minore capacità di affrontare lo stress, pertanto possono sentirsi incapaci di dire menzogne convincenti.

 

Interazione sociale e sincronizzazione corticale: cervelli sulla stessa lunghezza d’onda

Con l’avvento di nuove tecniche, si è potuto indagare se durante un’interazione sociale, a seguito di una sincronizzazione a livello fisiologico e comportamentale, avvenisse lo stesso meccanismo anche a livello neurale, tanto da poter parlare di sincronizzazione corticale tra due cervelli.

Serena Pierantoni e Mariasilvia Rossetti – OPEN SCHOOL Studi CognitivI San Benedetto del Tronto

 

Più di 2300 anni fa, il filosofo greco Aristotele, nel primo libro della sua Politica definì l’uomo come un ‘animale politico’ (ζωον πολιτικόν) che tende per sua natura ad aggregarsi con altri individui e a costituirsi in società. Con il termine politico Aristotele sintetizzò una delle caratteristiche proprie dell’essere umano: il bisogno di confronto e di rapporto (Berti, 1997).

L’uomo possiede, infatti, la straordinaria capacità di coordinarsi con l’altro per raggiungere un obiettivo comune. Questa capacità, che potremmo definire ‘sincronizzazione sociale’, richiede abilità molto complesse come predire comportamenti, comprendere stati d’animo e pensieri altrui e tenere in considerazione tutti i punti di vista per pianificare e attuare l’azione (Sebanz et al., 2006).

Mentre alcuni aspetti dell’interazione sociale collaborativa si trovano anche nei primati (la comprensione delle intenzioni altrui, una rudimentale teoria della mente, la caccia cooperativa di gruppo), l’uomo è motivato nel suo comportamento sociale da meccanismi molto più sofisticati, quali: giudizio morale, fiducia, agentività, bisogno di condividere emozioni, esperienze e attività (Tomasello et al., 2005).

La complessità e la portata delle interazioni sociali che ci distinguono dalle altre specie animali spiegano il tipico sviluppo della neocorteccia nel cervello umano; si tratta dell’area cerebrale più recente ed estesa, a cui dobbiamo gran parte del nostro successo evolutivo (Dunbar, 2009).

Nonostante siamo esseri profondamente sociali, le neuroscienze hanno iniziato a studiare la neurobiologia dell’interazione umana solo negli ultimi vent’anni. Con l’avvento delle nuove tecnologie di neuroimaging, come la fMRI, si è infatti potuto indagare il ruolo di alcune regioni cerebrali nei compiti di cognizione sociale. Diverse meta-analisi riportano i risultati di tali ricerche (Babiloni & Astolfi, 2014).

In particolare, oltre 200 studi di fMRI ipotizzano che la giunzione temporo-parietale (TPJ) si attivi durante la stima di intenzioni, desideri, obiettivi altrui; è pertanto responsabile di inferenze mentali transitorie sugli altri. Quando si necessita invece, di informazioni più stabili e durature circa il comportamento proprio e altrui, da cui evincere qualità e tratti misurabili, sembrerebbe maggiormente coinvolta la corteccia prefrontale (PFC). L’unione delle due strutture TPJ e PFC costituirebbe il nostro sistema di mentalizzazione (VanOverwalle, 2009). Quest’ultimo appare complementare al sistema dei neuroni specchio, strutture situate principalmente nel solco intraparietale anteriore e nella corteccia premotoria. Si tratta di neuroni bimodali che si attivano allo stesso modo sia quando compiamo un’azione sia quando osserviamo un’altra persona compierla (Babiloni & Astolfi, 2014).

I neuroni specchio sottendono alle nostre capacità empatiche, ci permettono di metterci nei panni dell’altro, comprendere le sue intenzioni, dare un significato al suo comportamento, condividere emozioni e sensazioni (Keysers e Gazzola, 2009).

Queste ricerche hanno consentito di far luce sulle caratteristiche strutturali e funzionali dei processi alla base della cognizione sociale, tuttavia presentano due limiti importanti.

Innanzitutto, non hanno valutato direttamente l’interazione dinamica tra due (o più) cervelli. La maggior parte degli studi di neuroscienze, infatti, misura l’attività cerebrale in una sola persona alla volta mentre interagisce con un’altra persona o un computer.

Inoltre, l’interazione sociale nella vita reale avviene in modo molto naturale (come la comunicazione faccia a faccia), mentre questi studi si sono svolti in contesti sperimentali altamente artificiali. Le tecniche di neuroimaging richiedono l’immobilità del soggetto, quindi i partecipanti erano molto limitati nei movimenti o nella comunicazione diretta con l’altro.

Il primo studio che ha registrato l’attività di due cervelli contemporaneamente è stato realizzato dal gruppo di ricerca del fisico Montague nel 2002. In questa occasione, i ricercatori hanno posizionato due persone dentro due macchine di risonanza magnetica funzionale separate ma sincronizzate tra loro. Mentre i partecipanti erano impegnati in un gioco competitivo, gli scienziati hanno potuto osservare l’attività dei due cervelli in contemporanea. L’acquisizione simultanea dei dati cerebrali di due soggetti che interagiscono tra loro è stata denominata ‘iperscanning’ (Montague et al., 2002).

Attualmente, il termine iperscanning include non solo la fMRI, ma tutte le tecniche che consentono di registrare attività cerebrale simultaneamente da più persone quali l’elettroencefalografia (EEG), la magnetoencefalografia (MEG) e la spettroscopia funzionale nel vicino infrarosso (fNIRS) che permette di realizzare mappe della distribuzione dell’attività emodinamica nel cervello. Queste tecniche piuttosto recenti rendono l’iperscanning molto meno costoso e ingombrante e permettono di realizzare paradigmi sperimentali più ecologici. In particolare, la spettroscopia nel vicino infrarosso funzionale è molto flessibile e non invasiva e consente di studiare l’attività cerebrale in contesti di comunicazione faccia a faccia, manipolazione di oggetti, compiti di cooperazione anche motoria.

Con l’avvento di queste nuove tecniche, si è potuto indagare se durante un’interazione sociale, a seguito di una sincronizzazione a livello fisiologico e comportamentale, avvenisse lo stesso meccanismo anche a livello neurale, tanto da poter parlare di sincronizzazione corticale tra due cervelli.

‘Inter-network’ tra genitore e figlio

Quando l’adulto e il bambino si guardano l’un l’altro, stanno segnalando la loro disponibilità e intenzione di comunicare tra di loro – afferma Victoria Leong.

Osservando uno scambio interattivo tra un neonato e sua madre, ci si meraviglia di come riescano a comunicare senza parole, ma tramite sintonizzazione affettiva. Fin dall’inizio, la diade madre-bambino sincronizza i processi fisiologici, come il ritmo del battito cardiaco o il rilascio simultaneo di ossitocina, ma anche i comportamenti, soprattutto quelli non verbali, ad esempio lo sguardo o il rispecchiamento emotivo tra le espressioni facciali (Feldman, 2007).

Nella relazione di attaccamento, durante questi episodi di sincronizzazione, il bambino impara ad interagire con altri, a coordinarsi, a condividere stati affettivi e regolare le proprie emozioni e sensazioni. Ma a livello cerebrale che cosa accade?

La ricercatrice Victoria Leong ha scoperto che quando genitori e neonati si guardano negli occhi anche i loro cervelli si sincronizzano come se si fondessero in un unico grande sistema cerebrale. Lo studio è stato condotto con 36 bambini di otto mesi di età media e i rispettivi genitori. L’attività cerebrale di entrambi i soggetti è stata registrata tramite doppia elettroencefalografia. L’esperimento includeva due compiti, ciascuno diviso in diverse fasi. Nel primo compito il bambino era posto davanti ad un video che mostrava un adulto che cantava. Nella prima fase, l’adulto guardava direttamente il bambino, nella seconda distoglieva lo sguardo e nella terza voltava la testa ma con gli occhi continuava a guardare il bambino. La più grande sincronizzazione di onde cerebrali avveniva nella terza fase come se, nonostante il volto girato, lo sguardo dell’adulto fosse ancora più intenzionale e quindi comunicativo. Nel secondo compito, era direttamente l’adulto in presenza a cantare in due circostanze: guardando il bambino negli occhi oppure distogliendo lo sguardo. Anche in questo caso si conferma il risultato emerso nel primo compito e non solo: durante il contatto visivo diretto il bambino vocalizzava più spesso e stimolava una sincronizzazione più forte nell’adulto. Lo sguardo diretto rinforza quindi la connettività neurale adulto-neonato, la quale sembrerebbe essere fondamentale per lo scambio comunicativo e l’apprendimento nei primi mesi di vita (Leong et al., 2017).

Uno studio molto recente (Elise et al., 2019) ha indagato tramite spettroscopia funzionale nel vicino infrarosso (fNIRS) come i cervelli di bambino e adulto si sincronizzano durante il gioco, in una fascia di età più elevata compresa tra 9 e 15 mesi. I ricercatori interagivano per cinque minuti con i bambini, giocando, cantando filastrocche o leggendo, osservando in volto il bambino oppure distogliendo lo sguardo. Anche qui, durante le sessioni faccia a faccia, il cervello dei bambini era sincronizzato con quello degli adulti in diverse aree cerebrali, in particolare nella corteccia prefrontale. Questa area è coinvolta nell’apprendimento, nella pianificazione e nel funzionamento esecutivo. Questo risultato – che meriterebbe di essere oggetto di future ricerche – è sorprendente, in quanto si credeva che la corteccia prefrontale durante l’infanzia fosse sottosviluppata (Elise et al., 2019).

Studi successivi (Santamaria et al., 2020), mostrano che la sincronizzazione neurale nella diade madre-bambino varia a seconda dello stato emotivo della mamma. Quando la madre esprime emozioni positive, mamma e bimbo tendono a spendere più tempo insieme e ad interagire di più, i due cervelli inoltre appaiono molto sincronizzati. Questo meccanismo promuove una condivisione potenziata e un maggior flusso di informazioni dall’uno all’altra (Santamaria et al., 2020).

Stati emotivi negativi sembrerebbero invece indebolire la connessione inter-neurale, ad esempio un maggiore stato di stress genitoriale appare associato ad una minore sincronizzazione cerebrale nella corteccia prefrontale di sinistra, in aree cerebrali implicate nell’inferenza di stati mentali altrui (Azhari et al., 2019).

Le madri che sperimentano uno stato mentale persistentemente negativo a causa ad esempio di una depressione clinica, sviluppano molte meno sincronizzazioni con il proprio bambino. I bambini di madri depresse possono mostrare meno evidenza di apprendimento proprio a causa della maggiore debolezza della sincronizzazione corticale mamma-bambino (Santamaria et al., 2020).

In coppia sulla stessa lunghezza d’onda

Alla luce delle ricerche sull’attaccamento precoce e la sincronizzazione comportamentale, fisiologica e neurale tipica della diade madre-bambino, altri autori hanno cercato di indagare se meccanismi simili possano essere rilevati anche nelle interazioni tra pari e tra partner affettivi (Kinreich et al., 2017). Lo studio è stato condotto su 104 soggetti adulti di cui metà coppie erano impegnate tra loro in una relazione romantica da almeno un anno, gli altri non avevano alcun rapporto. I soggetti dovevano sedersi a coppie uno di fronte all’altro ed interagire per cinque minuti programmando insieme una giornata piacevole; l’attività cerebrale era registrata tramite doppia elettroencefalografia. I risultati mostrano una maggiore sincronizzazione relativa alle onde gamma nelle coppie di partner rispetto alle coppie di sconosciuti, ad indicare l’importanza dell’attaccamento affettivo anche in età adulta.

Questa sincronizzazione è localizzata in particolare nella giunzione temporo-parietale, nel solco parietale temporale superiore e nella porzione posteriore, aree coinvolte in processi di mentalizzazione quali la differenziazione tra sé e l’altro e lo sguardo sociale.

La sincronizzazione delle onde cerebrali tra i due cervelli sembra essere indipendente dal contenuto della conversazione e correlare maggiormente con i comportamenti non verbali. Risulta infatti particolarmente elevata nei momenti in cui le due persone si guardano negli occhi e, seppure in misura minore, durante dimostrazioni di affetto. I risultati mostrano come la sincronizzazione corticale tra partner adulti si ponga in continuità con i meccanismi tipici del legame di attaccamento madre-bambino, la funzione sarebbe quella di rafforzare il legame che spinge la mente a connettersi socialmente con l’altro (Kinreich et al., 2017).

Sincronizzati per la cooperazione e il lavoro di gruppo

Inevitabilmente, a questo punto ci si chiede che cosa possa accadere tra due persone -che non hanno relazioni strette- quando collaborano per raggiungere un obiettivo comune o addirittura a molti cervelli contemporaneamente quando si è impegnati in attività di gruppo.

I risultati di uno studio realizzato dal gruppo di ricerca del professor Fishburn (2018), indicano una sincronizzazione principalmente delle aree della corteccia prefrontale nei cervelli di chi sta lavorando insieme. L’esperimento ha coinvolto 60 soggetti, che si conoscevano tra loro ma non avevano legami sentimentali, suddivisi in venti gruppi da tre soggetti ciascuno. Il compito era completare un puzzle in due condizioni: nella prima due componenti collaboravano e il terzo osservava, nella seconda tutti e tre individualmente eseguivano il compito. I risultati hanno evidenziato una sincronizzazione dell’attività della corteccia prefrontale (registrata mediante fNIRS) dei due partecipanti nella prima condizione, sincronizzazione assente nell’osservatore e nella condizione di lavoro individuale. Perché si verifichi una sincronizzazione corticale è necessario quindi che più persone siano fisicamente coinvolte nella stessa attività (Fishburn et al., 2018).

Perché ci sia sincronizzazione neurale è quindi sufficiente essere impegnati insieme in un’attività comune o è necessario collaborare per lo stesso obbiettivo? Lo studio di Liu e collaboratori (2016) mette proprio a confronto le condizioni di cooperazione, competizione e azione individuale. I 22 soggetti, divisi in 11 coppie, si posizionavano ciascuno davanti ad un computer. Nello schermo compariva un cerchio grigio, quando si riempiva di verde (segnale ‘go’), il soggetto doveva premere un tasto il più velocemente possibile. Nella prima condizione la coppia doveva collaborare: minore era la differenza tra i tempi di risposta dei due partecipanti, più punti venivano assegnati loro. Nella seconda condizione il compito era identico ma questa volta erano in competizione l’uno contro l’altro: vinceva chi premeva il tasto per primo. Nelle ultime due fasi dell’esperimento uno svolgeva il compito, l’altro osservava e viceversa.

Un aumento della sincronizzazione cerebrale è stato riscontrato nell’area frontale, solo nella condizione di collaborazione, ulteriore dimostrazione del ruolo di tale meccanismo in processi come la teoria della mente e l’empatia (Liu et al., 2016). Nel momento in cui si collabora in un’attività congiunta per un obiettivo comune, si andrebbe a creare un grande network unico, per cui ogni cervello modifica l’altro: il risultato non può che essere maggiore della semplice somma dei due cervelli.

Tra i meccanismi cerebrali in grado di garantire la sincronizzazione inter-neurale è interessante considerare il circuito della ricompensa e in generale il comportamento prosociale. Uno studio, in particolare, mostra come scambiarsi regali tra due persone prima di impegnarsi in un’attività congiunta aumenti la connettività intercerebrale nella corteccia prefrontale dorsolaterale e migliora la successiva performance (Balconi & Fronda, 2020). Certamente dunque la sintonizzazione cerebrale costituisce un terreno fertile per sviluppare la collaborazione e la crescita degli individui.

Si hanno anche evidenze di sincronizzazione corticale in gruppo, durante lo svolgimento di attività di vario tipo. Diversi studi mostrano ad esempio come la musica sia non solo sincronizzazione di tempi e suoni, ma anche di circuiti neurali ed emozioni. Musicisti che suonano in concerto sembrerebbero sincronizzare le regioni frontali dei loro cervelli, aree note per il loro ruolo nella comprensione dei comportamenti, delle emozioni e delle intenzioni (Lindenberger et al., 2009; Babiloni et al., 2012).

Il gruppo di ricerca di Poeppel (Dikker et al., 2017), dell’Università di New York, ha effettuato uno studio su 12 studenti di un liceo di biologia, registrando simultaneamente la loro attività cerebrale mediante elettroencefalogramma. È emerso che più gli studenti erano impegnati in un’attività comune, più le loro onde cerebrali erano in sintonia. Le variabilità individuali di sincronizzazione cerebrale riflettevano addirittura quanto gli studenti si piacevano tra di loro e quanto apprezzavano lo stile di insegnamento adottato dal professore. Il meccanismo di sincronizzazione corticale sembrerebbe dunque sottendere alla sintonizzazione comportamentale durante le interazioni sociali. Avrebbe lo scopo di rendere più funzionale ed efficace l’azione congiunta, aumentando la probabilità di successo nel raggiungere l’obiettivo.

Approfondire i meccanismi neurobiologici alla base dell’interazione sociale in generale, e della sintonizzazione affettiva in particolare, potrebbe essere molto utile anche in campo psicoterapeutico, in cui la relazione empatica tra terapeuta e paziente acquisisce notevole importanza.

Studi di sincronizzazione corticale in ambito psicoterapeutico potrebbero aiutare a capire ad esempio quale paziente può lavorare meglio con quale terapeuta; o ancora, quali comportamenti non verbali è bene che il terapeuta adotti di fronte al paziente (ascolto profondo, scambio di sguardi, gestualità, mimica) in modo da sfruttare il processo di sincronizzazione corticale e massimizzare la collaborazione e la sintonizzazione con il paziente.

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