expand_lessAPRI WIDGET

Sono come tu mi vuoi: il fenomeno del bodyshaming e la ricerca della perfezione

Vivere in una società come quella di oggi comporta essere continuamente esposti a immagini di corpi apparentemente perfetti, che non tollerano imperfezioni; non corrispondere a questi canoni di bellezza ideale significa diventare con più facilità vittime di bodyshaming, con possibili ripercussioni sulla salute fisica e psicologica.

 

Il bodyshaming può essere descritto come un atteggiamento o un comportamento sociale rispetto al peso corporeo, alla corporatura e all’aspetto esteriore di se stessi e degli altri (Gilbert, 2007). Rappresenta una forma di bullismo verbale che si concretizza nell’atto di deridere, umiliare, criticare e valutare le persone unicamente per come appaiono. La crescente popolarità dei social media e la divulgazione massiva di un modello di corpo ideale a cui ispirarsi rischiano di generare aspettative irrealistiche sui modi in cui si dovrebbe apparire. Particolarmente vulnerabili a questo tipo di immagini e messaggi sembrano essere gli adolescenti, non solo perché maggiormente esposti ai social media, ma soprattutto per il profondo periodo di trasformazione che si trovano a dover affrontare (Gam, Singh, Manar, Kar e Gupta, 2020). Il passaggio dall’infanzia all’età adulta è infatti segnato da drammatici cambiamenti nello sviluppo fisico, sessuale, cognitivo, psicologico e sociale. Questi anni delicati e tumultuosi possono avere conseguenze a lungo termine per l’individuo, soprattutto per quanto riguarda la salute mentale. La generazione di aspettative non salutari sulla forma del corpo per se stessi e per gli altri si pongono alla base delle critiche verso coloro che non si conformano ai canoni ideali dettati dalla società (Gam et al., 2020).

Il bodyshaming si può manifestare in diversi modi, ad esempio:

  • criticando il proprio aspetto e comparandolo con quello altrui (Guarda che braccia poco muscolose che ho rispetto alle tue!);
  • criticando apertamente l’aspetto di qualcun altro (Che fianchi larghi che hai!);
  • criticando l’aspetto di qualcuno che non si conosce (Hai visto quanto è in carne quella ragazza?).

In generale queste modalità sono accomunate dall’idea che le persone debbano essere giudicate prevalentemente per il loro aspetto fisico (Vargas, 2017). L’essere valutati sulla base di canoni estetici preimpostati rischia di generare un vortice di emozioni e stati d’animo come vergogna, ansia e rabbia legati alla paura di essere rifiutati e non accettati (Cash e Pruzinsky, 2002; Gam et al., 2020). Il fenomeno del bodyshaming ha in tal senso un forte impatto psicosociale e negli adolescenti può sfociare nel ritiro dall’ambiente sociale e nella riluttanza a comunicare e ad interagire con gli altri (Lestari, 2019). Oltre alle importanti ripercussioni sull’autostima, gli studi fino ad oggi condotti hanno riportato una serie di problematiche legate al bodyshaming che possono favorire l’insorgenza di veri e propri disturbi mentali (Cash e Pruzinsky, 2002; Lestari, 2019). Ricerche in letteratura hanno rivelato in tal senso correlazioni positive tra sentimenti di vergogna e una cattiva salute psicologica (Eisenberg, Neumark-Sztainer e Story, 2003; Grabe, Hyde e Lindberg, 2007; Noll e Fredrickson, 1998). La percezione di sentirsi desiderabili solo nella condizione in cui si rispettano gli standard estetici veicolati dalla società solleciterebbe una corsa inesorabile per il raggiungimento di una forma corporea considerata ideale. I teorici dell’emozione a tal proposito sostengono che la vergogna motiva gli individui a cambiare quegli aspetti del sé che non riescono a essere all’altezza degli ideali interiorizzati (Lewis, 1992; Noll e Fredrickson, 1998; Scheff, 1988). Il peso e la forma del corpo assumono un ruolo centrale nell’anoressia e nella bulimia nervosa, disturbi mentali in cui diete, digiuni e/o condotte compensatorie (come vomito, iperattività, uso di lassativi) vengono messi in atto per prevenire l’aumento di peso. Quando si è vittime di bodyshaming, aumenta il rischio di incorrere in uno di questi disturbi in cui i livelli di autostima sono indebitamente influenzati dalla ricerca della perfetta forma corporea (APA, 2013). Secondo una prospettiva emozionale, la messa in atto di comportamenti alimentari non salutari permetterebbe, nell’ottica del disturbo, di affievolire la vergogna del corpo derivante dall’insoddisfazione per le sue dimensioni. Tuttavia, in maniera paradossale, le pratiche messe in atto per contrastare l’aumento di peso possono aumentare la consapevolezza del fallimento nel raggiungimento della perfezione corporea amplificando l’esperienza di vergogna piuttosto che alleviarla; lo stesso effetto lo avranno anche i fallimenti nel dimagrimento o nel mantenimento di peso. Il rischio quindi è quello di favorire l’instaurarsi di un circolo vizioso in cui l’incapacità di soddisfare gli ideali del corpo così come gli sforzi nel perdere peso alimentano e aggravano il vissuto di vergogna (Moradi, Dirks e Matteson, 2005; Noll e Fredrickson, 1998). In tal senso il bodyshaming potrebbe avere un ruolo importante nell’innesco di questa spirale di vergogna in cui è facile rimanere intrappolati, con gravi ripercussioni per la salute mentale e fisica.

L’eccessiva attenzione posta sulla forma fisica e sull’apparenza estetica potrebbe portare a vedere se stessi come un oggetto da guardare e valutare (Grabe et al., 2007). Particolarmente sensibili alla cosiddetta ‘‘auto-oggettivazione’’ sono gli adolescenti, che in un corpo in costante cambiamento sentono di vivere sotto i riflettori di società che suggerisce ‘‘migliori modi di apparire’’. Numerose ricerche suggeriscono che durante la pubertà il corpo delle ragazze, più che dei ragazzi, si allontani dall’ideale di bellezza proposto dai canoni estetici. Questo contribuirebbe a vivere maggiore insoddisfazione corporea, una delle cause degli alti tassi di depressione riscontrati tra le ragazze durante l’adolescenza (Nolen-Hoeksema, 1994; Stice, Hayward, Cameron, Killen e Taylor, 2000). La vergogna nel mostrare un corpo non desiderabile sembrerebbe mediare la relazione tra la tendenza nelle adolescenti a vedere il proprio corpo come un oggetto alla mercé di critiche e osservazioni e lo sviluppo di disturbi depressivi (Grabe et al., 2007).

Alla luce di queste considerazioni appare necessario porre attenzione al fenomeno crescente del bodyshaming, tenendo a mente il potenziale effetto dei modi ideali di apparire sul benessere e sulla salute fisica e mentale degli individui, soprattutto degli adolescenti.

 

Gli studi del professore Lorenzo Desideri sui robot e l’interazione robot-bambino – Lo psicologo del futuro

In uno dei suoi più recenti lavori, Lorenzo Desideri, insieme ai colleghi, ha indagato l’interazione robot-bambino, soffermandosi sull’influenza di tale relazione sullo sguardo avversivo che solitamente le persone assumono impegnandosi nel trovar risposta a complessi dilemmi.

LO PSICOLOGO DEL FUTURO – (Nr. 2) Gli studi del professore Lorenzo Desideri sui robot e l’interazione robot-bambino

 

Il professor Lorenzo Desideri, lavora come ricercatore presso il Centro di Ricerca e Innovazione WeCareMore di AIAS e il Centro Regionale Ausili dell’Azienda USL di Bologna, oltre ad essere docente presso il dipartimento di Psicologia dell’Università di Bologna.

Sarà relatore di una lezione della Conference on Digital Psychology, che si terrà il 19-20 Febbraio 2021, a Milano, portando la sua esperienza di ricercatore e di clinico nel campo dell’interazione uomo-robot.

I suoi interessi di ricerca si collocano nell’ambito delle tecnologie cognitive applicate, con l’obiettivo di comprendere come le tecnologie emergenti quali il riconoscimento vocale automatico, le interfacce cervello-computer, la robotica sociale, i puntatori oculari e le soluzioni eHealth / mHealth possono migliorare la qualità di vita delle persone con disturbi del neurosviluppo o malattie neurodegenerative.

Attualmente, Lorenzo è Associate Editor della rivista Assistive Technology e coordinatore del gruppo di lavoro sulla valutazione degli outcome della Rete italiana dei Centri Ausili (GLIC). Recentemente è stato coordinatore del comitato scientifico della XV conferenza dell’Associazione per l’Avanzamento delle Tecnologie Assistive in Europa (AAATE).

In uno dei suoi più recenti lavori, pubblicato nel 2020 sull’International Journal of Social Robotics, dal titolo The Mind in the Machine: Mind Perception Modulates Gaze Aversion During Child–Robot Interaction, insieme ai colleghi, ha indagato l’interazione robot umanoide-bambino, soffermandosi sull’influenza di tale relazione sullo sguardo avversivo che solitamente le persone assumono impegnandosi nel trovar risposta a complessi dilemmi.

Le implicazioni pratiche di questo studio ricadono sulle riflessioni inerenti l’educazione mediata dai robot.

Gli autori hanno ipotizzato, basandosi sul modello della presa di posizione intenzionale, che i bambini in interazione con un robot umanoide in condizioni interroganti aggrottassero meno la fronte rispetto a quanto potessero farlo nelle interazioni interroganti con degli umani.

Nel primo esperimento 44 bambini sono stati divisi in due gruppi. I bambini del primo gruppo (N. 22) hanno interagito con un interrogatore robot, mentre i bambini del secondo gruppo (N. 22) hanno interagito con un interrogatore umano.

Mentre, nel secondo esperimento tutti i bambini (N. 50) hanno interagito con un robot, ma ai bambini del gruppo 1 (N. 25) è stato detto che il robot era controllato da un umano; intanto ai bambini del gruppo 2 (N. 25) è stato detto che il robot che avrebbe posto loro delle domande era stato progettato con un algoritmo.

I risultati del presente studio dimostrano che la percezione di una situazione intenzionale (visibile nella relazione uomo-uomo), aumenta il tasso di avversione allo sguardo. Viene dunque proposto dai ricercatori che il tasso di avversione allo sguardo possa esser considerato un target comportamentale, indice della percezione della mente altrui.

 

Se volete saperne di più dell’interazione uomo-robot e delle implicazioni per la Psicologia venite alla prima edizione della Conference on Digital Psychology: Digital Perspectives in Psychology.

 

Le iscrizioni alla prima Conferenza europea di Psicologia Digitale sono aperte:

ISCRIVITI ORA 9733


 

EUROPEAN CONFERENCE OF DIGITAL PSYCHOLOGY
Scoprine di più: 

ECDP 2021 Virtual Forum - Banner 1600x900

Perché nel periodo della pandemia da coronavirus sentiamo parlare più spesso di suicidio?

Nel periodo dell’emergenza sanitaria da Covid-19, la diffusione rapida e facile del virus ha fatto scaturire ed esacerbare le paure o i disturbi mentali già presenti nella popolazione, come era stato preannunciato da numerosi esponenti sanitari. Come mai?

 

La pandemia da COVID-19, espandendosi dalla Cina ad ogni parte del mondo, ha costretto miliardi di persone ad un lockdown forzato, al fine di ridurre il numero di contagi giornalieri. Le conseguenze delle restrizioni e della paura trasmessa soprattutto dalle informazioni ricevute mediaticamente, variano a seconda della popolazione e della tipologia di piano restrittivo adottato dallo Stato. Comunemente però, la diffusione rapida e facile del virus ha fatto scaturire ed esacerbare le paure o i disturbi mentali già presenti nella popolazione, come era stato preannunciato da numerosi esponenti sanitari. Come mai?

Si è notato come, a causa della chiusura di una moltitudine di aziende e ditte, molti imprenditori abbiano perso la loro fonte principale di reddito, trovandosi in una situazione molto difficile da sostenere sia dal punto di vista economico che psicologico. Lo stress, l’allontanamento dall’ambiente sociale e dalle relazioni più care, l’isolamento e la percezione della paura, la sofferenza e le morti viste sia da vicino che udite dai mass media, hanno contribuito ad aumentare il tasso dei tentativi di suicidi nel periodo pandemico. Infatti, coloro che sono in terapia a causa di disturbi dell’umore, disturbi d’ansia o altre categorie di patologie, sia per ragioni economiche, sia per motivazioni intrinseche correlate alla poca aderenza al trattamento o dell’allontanamento fisico dal terapeuta, hanno visto un peggioramento la loro condizione patologica. I disturbi dell’umore e i disturbi d’ansia sono delle condizioni patologiche che determinano in chi ne è affetto una sensazione di disagio, malessere, disadattamento e, in alcuni casi, una moltitudine di disfunzioni cognitive, che non garantiscono il corretto funzionamento della persona nell’ambito sociale.

Alcune ricerche svolte da Sher e colleghi (2020) sulla percezione di benessere economico e soddisfazione personale, hanno concesso di comprendere come ci possa essere anche in senso inverso una relazione, correlando uno status socio economico basso o in decaduta ad un aumento dei pensieri e tentativi suicidari. E’ possibile comprendere come il deficit ed il crollo economico derivato dalla pandemia di coronavirus sia in parte responsabile della decisione estrema di molte persone. Se considerato anche il peggioramento delle condizioni di malattia mentale, allora si possono intendere con più chiarezza i dati che le testate giornalistiche e le fondazioni di ricerca forniscono.

I tassi di suicidio, come si nota da molte ricerche svolte anche durante le crisi degli anni addietro, aumentano in corrispondenza del mancato rapporto sociale, in carenza di sostegno ed isolamento sociale. Le politiche di distanziamento e lockdown a cui siamo stati soggetti per evitare di essere contagiati e per aiutare il Sistema Sanitario Nazionale, hanno enfatizzato le condotte suicidarie in quanto si sono basate soprattutto sull’allontanamento dalle altre persone, per costringere la diffusione del coronavirus. Da inizio Marzo, ovvero dall’inizio delle politiche di isolamento domiciliare, i suicidi e tentativi di suicidio sono stati circa 200 (banca dati Fondazione BRF, Osservatorio suicidi Covid-19).

Le difficoltà economiche rendono difficile la ricerca di un trattamento da parte di chi è in uno stato di malessere e disagio, in quanto non si ha la disponibilità finanziaria per iniziare un trattamento terapeutico.

Pertanto, la moltitudine di fattori sopraelencati lascia intendere quanto sia importante prevenire una situazione sovrastante e sostenere le persone più vulnerabili psicologicamente – e non solo – in quanto in seguito alla morte di una persona, rimangono tutti coloro che la circondavano a scontarne il dolore, provocando quasi una reazione a catena incentrata sulla sofferenza.

 

Complessità e psicoterapia. L’eredità di Boscolo e Cecchin (2019) a cura di Pietro Barbetta e Umberta Telfener – Recensione del libro

Complessità e psicoterapia – L’eredità di Boscolo e Cecchin passa attraverso 50 anni di storia della psicologia e della psicoanalisi e assume un atteggiamento trasversale alle varie discipline che possono condurre alla relazione terapeutica di cura e di promozione del benessere.

 

Quale eredità ci hanno lasciato Luigi Boscolo e Gianfranco Cecchin? I fondatori del Centro Milanese di Terapia della Famiglia e di quello che poi diventerà il Milan Approach, ci invitano nella profondità della psiche umana ad accogliere ogni limite ed ogni sfida come un punto di partenza privilegiato dal quale osservare ed accedere alla complessità della pratica psicoterapeutica.

La decisione degli autori di guidarci come moderni Virgilio tra le sinuose curve della pratica del Milan Approach, prende forma in un testo che per la sua completezza può essere definito come l’ultima fatica letteraria di un approccio intero; un metodo che da cinquant’anni fa la differenza nel campo della cura e della promozione del benessere degli individui delle famiglie e dei gruppi e si distingue per la sua dinamicità e plasticità nell’affrontare la cura da un punto di vista nuovo ma al tempo stesso così naturale nella sua configurazione in equilibrio tra complessità e psicoterapia.

Nel testo Complessità e psicoterapia la parola complessità assume una valenza diversa dal significato comune del termine e diventa un riconoscimento di quanto ogni individuo ed ogni gruppo sia un universo a parte e di conseguenza non possa essere trattato con strumenti standardizzati. L’eredità di Boscolo e Cecchin passa attraverso 50 anni di storia della psicologia e della psicoanalisi e assume un atteggiamento trasversale alle varie discipline che possono condurre alla relazione terapeutica di cura e di promozione del benessere. Si abbatte il dogma per lasciare lo spazio all’individuo ed al suo contesto. Passando dalla psicoanalisi Freudiana fino ad arrivare alla cibernetica di Von Foerster, ci si accorge di come possa essere controproducente lavorare innalzando mura al di fuori di approcci dogmatici con la pretesa di poter affrontare ogni problema con lo stesso metodo.

Gli autori ci guidano attraverso teorie ed esempi clinici verso un passato che è futuro, lungo una serie di pratiche orientate al benessere e alla cura in contesti difficili, costruiti entro relazioni complesse.

Il motto del Milan Approach è “non innamorarsi troppo delle proprie ipotesi”. Tale affermazione presuppone l’accoglienza di un processo dinamico che non smette mai di innovarsi e di rinnovarsi senza la paura di un cambiamento di metodo (o di status). I valori portanti lasciati in eredità dai fondatori di tale approccio e riportati nel testo Complessità e psicoterapia, tramite una raccolta di saggi clinici e metodi teorici, possono essere brevemente descritti come fiducia e ricorsività.

La fiducia poiché la persona non è il suo sintomo e non è la sua malattia; in questo particolare orientamento teorico è necessario avere fiducia nella persona e nelle sue risorse, ma soprattutto avere rispetto e attenzione per il contesto in cui l’individuo opera ed è inserito. L’altro concetto chiave è la ricorsività poiché tutti i percorsi personali e di conseguenza il percorso psicoterapeutico prendono la forma di un sistema ricorsivo in cui il lavoro terapeutico si auto-organizza e si co-crea modificando a sua volta i processi e le definizioni in corso d’opera. Riconoscere la ricorsività diventa molto importante per comprendere il funzionamento dell’individuo nel contesto in cui vive e agisce e di conseguenza diventa un concetto fondamentale nella terapia del Milan Approach. Questo approccio trova le sue basi nell’ottica sistemica, ma la sua parola chiave, a distanza di cinquant’anni, rimane tuttora sperimentare.

La sperimentazione non permette solamente l’uscita dal dogma dei metodi teorici, ma si apprezza concretamente anche nel cambiamento del setting stesso. Il setting terapeutico infatti passa da chiuso ad aperto, si esce sfidando la sicurezza delle mura che solitamente chiudono la seduta terapeutica, ci si affida ad un team non ad un singolo terapeuta e si preferiscono le sedie alla comoda chaise-longue, poiché il lavoro di terapia è un lavoro condiviso tra i professionisti e gli utenti, non un’azione passiva ma bilateralmente attiva.

Complessità e psicoterapia è consigliato per chiunque voglia fare esperienza del metodo e conoscere non solo la storia, ma anche le modalità di un approccio che grazie al suo continuo rinnovarsi, in tanti anni non è invecchiato di un giorno solo. Con delicatezza ed un coinvolgimento, a metà tra il didattico e il racconto, gli autori tracciano attraverso questa raccolta di saggi, una storia di un metodo in evoluzione; Complessità e psicoterapia è un libro destinato a coinvolgere ed appassionare sia i professionisti del settore che i lettori comuni incuriositi dalla pratica sistemica e dall’approccio complesso alla realtà psichica dell’individuo e delle relazioni familiari. Il dogma viene abbattuto e viene data importanza al singolo ed al contesto specifico in questo affascinante resoconto di una attività che dura da molti anni; Tolstoj stesso ci ha insegnano in tempi non sospetti, nel suo splendido romanzo Anna Karenina, che tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è invece disgraziata a modo suo, ed è appunto su quel a modo suo che un metodo dinamico e complesso come quello del Milan Approach trova la sua ragion d’essere.

 

Un’analisi approfondita del fenomeno del catfishing

Il catfishing consiste nel fornire informazioni fittizie su di sé o nell’ingannare l’altro riguardo la propria identità con lo scopo di migliorare la propria immagine e intraprendere una relazione che rimanga online.

 

Attualmente sono molte le persone che utilizzano i social network e le app di incontri per fare nuove conoscenze, infatti si stima che il 30% dei giovani adulti di età compresa tra i 18 e i 24 anni e il 12% degli adulti di età compresa tra i 55 e i 64 anni, fanno uso di questi strumenti (Pew Research Institute, 2016), in quanto ritengono essere un modo più veloce e conveniente per trovare potenziali partners, sebbene riconoscano la presenza di maggiori rischi associati rispetto ad altre forme di appuntamento (ibidem).

Infatti, queste tecnologie permettono all’utente di modificare o aggiungere informazioni fittizie su di sé in modo da migliorare la propria immagine ed apparire maggiormente attraente (Ellison, Hancock, & Toma, 2011), oppure di ingannare l’altro riguardo la propria identità con lo scopo di intraprendere una relazione che rimanga online.

Questo fenomeno, chiamato catfishing, è diventato molto diffuso e oggetto di attenzione da parte della giustizia e della polizia, in quanto può rappresentare un’esperienza negativa e traumatica per coloro che sono vittime di questo comportamento e scoprono successivamente di essersi interfacciate con persone diverse da quelle che credevano (Koch, 2017).

Essendo un comportamento interessante anche dal punto di vista psicologico e volendo esaminare alcuni aspetti ad esso associati, il presente studio (Mosley et al., 2020) intende indagare la relazione tra il tipo di attaccamento (ansioso ed evitante) e lo status di “catfish” (autore e bersaglio), oltre alla relazione esistente con il genere.

Dopo aver risposto ad una serie di domande di tipo demografico, 1102 partecipanti sono stati sottoposti ad una serie di domande sul catfishing con lo scopo di avere informazioni su quale categoria (autore, bersaglio, o entrambi) meglio li descrive, oltre al rispondere all’Experiences in Close Relationships Short Form (ECR-S; Wei, Russell, Mallinckrodt, &Vogelm 2007) per valutare l’attaccamento evitante e quello ansioso.

I risultati mostrano che gli uomini sono più soliti svolgere il catfishing rispetto alle donne, in quanto essi non si sentono coinvolti emotivamente in queste relazioni, ma usano questi strumenti come mezzi per conoscere persone nuove, che possono essere facilmente messe da parte, nel momento in cui non rispondono più ai loro interessi (Kimbrough et al., 2013). Le donne, al contrario, vedono i social network come strumenti che consentono realmente di trovare un partner, per cui sono maggiormente predisposte a dare informazioni vere su di sé e ad impegnarsi in queste conoscenze.

Inoltre, si è visto esserci un’associazione positiva significativa tra l’attaccamento evitante e il catfishing, ed un’associazione significativa ancora più forte quando è presente un attaccamento di tipo ansioso. Sembrerebbe infatti che in entrambi i casi sia presente una tendenza a rispondere agli stress emotivi con il distacco emotivo (Mikulincer&Shaver, 2017), spiegando il comportamento del catfishing e la fine dei rapporti intrapresi, quando le circostanze diventano emotivamente troppo intense.

In conclusione, questi dati forniscono delle importanti indicazioni sulle implicazioni terapeutiche da seguire, in quanto essendo state individuate delle ferite nelle relazioni di attaccamento di questi individui, il clinico può lavorare sia con l’autore che con la vittima del catfishing, cercando di rispondere ai bisogni emotivi del cliente e formando delle esperienze di attaccamento correttive rispetto a quelle precedentemente avute (Greenman& Johnson, 2013), in modo che queste possano influenzare il modo di relazionarsi agli altri, permettendo di impegnarsi in relazioni a lungo termine.

 

Di troppo è sempre nemico, ma di base? La demonizzazione dello stress

Lo stress oltre misura è causa di conseguenze psicofisiche gravi, tuttavia si sta verificando una crociata contro uno dei sistemi fondamentali per la funzionalità dell’individuo: ne segue una indagine critica.

 

Come indicato nella letteratura medica (Yaribeygi, Panahi, Sahraei, Johnston, & Sahebkar, 2017) e psicologica (Schneiderman, Ironson & Siegel, 2005), lo stress in misura oltre il limite può portare a conseguenze gravi, sia dal punto di vista fisico che mentale, come l’aumento perenne del battito cardiaco, l’insonnia, problemi di digestione, pressione sanguigna alta, difficoltà di concentrazione, apatia, calo del desiderio e irritabilità (Bressert, 2020).

Per questo motivo, lo stress ha attratto l’attenzione della stampa accademica (Slavich, 2016) e non (Campbell, 2018), aiutando quindi la sensibilizzazione del pubblico circa questo tema delicato.

Di fatto, lo stress oltre il limite del salubre è stato definito come il ‘malanno del ventunesimo secolo’ (Newbegin, 2014), soprattutto a causa del suo ruolo nel mondo lavorativo moderno (Colligan & Higgins, 2006) e nella reazione globale alla recente pandemia di Sars-Cov-2 (Mereta, 2020).

Per questo motivo, la ricerca sullo stress ha assunto maggior importanza nella società scientifica moderna, associato ad un aumento di popolarità generale dei vari metodi di stress management, come l’autoconsapevolezza (Saunders, Tractenberg,  Chaterji, Amri, Harazduk, Gordon,  Lumpkin, & Haramati, 2007), la meditazione e le correnti di yoga ( Kiecolt-Glaser, Christian, Preston, Houts, , Malarkey,  Emery,  & Glaser,  2010) per finire con il rilassamento (Benson, 2005).

Da come descritto prima, la battaglia contro lo stress in eccesso è stata ampiamente avviata sia dal mondo accademico che della cultura in generale.

Tuttavia, si sta sviluppando una idea fallace che lo stress sia da evitare in toto (Bernstein, 2010). Questo pensiero viziato si è creato dalla percezione della presenza che lo stress ha in ampia misura nella vita quotidiana (Keller, Litzelman, Wisk, Maddox, Cheng, Creswell, & Witt, 2012), dando vita a leggende metropolitane, stereotipi e pregiudizi (Payne, 2013).

Queste percezioni sull’argomento sono devianti non solo sulla corretta lettura della conoscenza sull’argomento, ma anche sulla natura dello stress per sé.

Lo stress, ovvero quella reazione nata dalla circolazione del cortisolo nel corpo che scatena il sistema attacco – fuga (Klemm, 2018), è il sistema che permette all’essere umano di percepire una situazione di pericolo e decidere se rispondere o scappare per la propria sicurezza (Goldstein, 2010): senza di esso l’essere umano non sarebbe mai sopravvissuto agli ostacoli dell’ambiente in cui ha vissuto e vive (Lampley, 2020).

Per questo motivo il mondo scientifico ed accademico non solo sta condannando questa demonizzazione dello stress (Magliano, Grippo, 2016), ma sta indicando, per bilanciare, i lati positivi del meccanismo (Selna, 2018). Di fatto, nei limiti nel quale esso contribuisce al mantenimento dell’omeostasi nell’individuo, lo stress può portare benefici all’attenzione, alla risposta agli stimoli dell’ambiente e ai processi di coping, attuando il sistema definito eustress (Tocino-Smith, 2020).

Concludendo, tenendo sempre in mente l’insegnamento ‘in medias res stat virtus’, cerchiamo di confrontarci con questa epidemia di stress oltre controllo con tutta l’informazione verificabile e scientifica possibile, viste le sue conseguenze assolutamente verificabili dal punto di vista empirico (Perlma, 2018), ricordando tuttavia come questo, di base, sia stato e sia ancora un meccanismo vitale per l’Uomo e come contribuisca attivamente, nelle dosi necessarie, all’omeostasi (Fleming, 2019).

“Quindi, se ho ben compreso, mi sta dicendo che…”, quando ad interrompere la conversazione è il terapeuta

La regola d’oro della conversazione prevede “un parlante per volta”, ma come siamo abituati nelle conversazioni quotidiane spesso viene violata con interruzioni e sovrapposizioni di discorso e i suoi effetti possono essere diversi. Ma cosa succede se viene violata in terapia? E se è proprio il terapeuta a farlo?

 

I am afraid I am interrupting you.
It does not follow that interruptions are unwelcome.
(Jane Austen – Pride and Prejudice)

Che cos’è un’interruzione?

La definizione di interruzione all’interno di una conversazione, così evidente e semplice per il comune parlante, è in realtà estremamente complessa e controversa per gli studiosi, indipendentemente dall’area a cui essi appartengono: psicologi, sociologi, linguisti, e così via. Proprio per tale vastità di approcci, non sempre viene esplicitato chiaramente in letteratura cosa si intende per interruzione, mescolando fenomeni diversi e rendendo, di conseguenza, difficilmente confrontabili studi e conclusioni.

Hawkins (1991) afferma che, secondo alcune delle più semplici definizioni di interruzione, questa può essere rappresentata come un qualsiasi periodo di discorso simultaneo in cui una persona inizia a parlare dopo che un altro parlante ha già iniziato a farlo. Secondo Hawkins, quindi, rappresentano una categoria di un gruppo di fenomeni colloquiali chiamati “sovrapposizioni di discorso”, ovvero periodi di discorso simultaneo.

Le interruzioni sono, comunque, delle sovrapposizioni di discorso interessanti in quanto esse violano le regole del turn taking in due modi: innanzitutto, prevedono periodi di discorso simultaneo tra chi interrompe e chi è interrotto (violando la regola d’oro della conversazione ossia “un parlante per volta”); inoltre, violano il diritto del parlante di completare il turno, una volta iniziato.

West e Zimmerman (1983) definiscono l’interruzione come una profonda intrusione nella struttura interna dell’enunciato” e distinguono tra interruzioni “superficiali” e “profonde”.

In termini operativi, le interruzioni “superficiali” si riferiscono a simultaneità che si verificano tra la seconda o la penultima sillaba di un tipo di unità o tra la prima e la seconda o la penultima sillaba di un tipo di unità (ovvero, le costruzioni frasali e lessicali). Le interruzioni “profonde” si riferiscono ad

incursioni iniziate più di due sillabe lontane dal confine iniziale o finale di un tipo di unità. (West & Zimmerman,1983)

Le interruzioni profonde, quindi, sono atti intenzionali volti ad interrompere chi parla impedendogli di concludere il proprio punto di vista.

Le interruzioni, poi, non sono tutte uguali. Esistono, infatti, interruzioni negative ed interruzioni positive (Bogetic, 2011; Goldberg, 1990; Graziano & Gnisci, 2011; Murata, 1994) che, rispettivamente, mirano a intrudere nel discorso del parlante e a prendere il turno oppure a sostenere quanto il parlante sta dicendo e mostrare interesse e coinvolgimento (Gnisci, Pace & Graziano, 2013).

Studi sulle differenze di genere e sul ruolo della cultura

Se ardua è la definizione di cosa sia un’interruzione, altrettanto è difficile tentare di comprendere gli effetti e le conseguenze di tale fenomeno. Gli anni ‘70 hanno visto il fiorire di numerosi studi che si sono occupati non solo di descrivere e spiegare l’interruzione stessa, ma di legarla, oltretutto, a caratteristiche di personalità, di genere e culturali; dalla fine degli anni ’80, poi, è sorto anche un filone di studi sperimentali che si è occupato di indagare gli effetti delle interruzioni su chi le ascolta e, più recentemente, anche su chi le subisce realmente all’interno di una conversazione.

Il ruolo e l’influenza delle differenze di genere nell’uso di interruzioni nella conversazione sembra essere uno degli argomenti che ha interessato maggiormente i ricercatori, pur se i vari studi hanno dato risultati talvolta diversi.

Un punto di riferimento negli studi sugli effetti di genere sono gli studi di Robin Lakoff (1973), il quale suggeriva che esistesse un vero e proprio “linguaggio della donna” caratterizzato da una preponderanza di forme quali domande tag, richieste composte e pattern intonativi interrogativi, aggettivi emotivi, intonazione crescente, ecc., diverso da quello maschile più diretto, aggressivo, competitivo, autonomo, dominante, orientato al compito e orientato in maniera referenziale. West e Zimmerman (1983) e Zimmerman e West (1975) hanno cercato di indagare le caratteristiche delle interazioni sociali tra uomini e donne. Analizzando le conversazioni tra coppie di parlanti dello stesso sesso e di sesso opposto hanno verificato che le interruzioni avvengono significativamente più spesso tra parlanti di sesso opposto e che esiste una asimmetria a vantaggio dei parlanti di sesso maschile: la quasi totalità delle interruzioni e delle sovrapposizioni provengono dal partecipante maschio. Diversi studi confermano la tendenza dei maschi ad interrompere più frequentemente rispetto alle femmine e mostrano che le femmine sono interrotte dai maschi, più di quanto i maschi non siano interrotti da femmine (Eakins & Eakins, 1978; Octigan & Niederman, 1979; Roger & Schumacher, 1983).

La questione che i maschi interrompono più delle femmine all’interno delle conversazioni, tuttavia, resta ancora controversa, non trovando conferma in tutti gli studi di letteratura. Esiste una notevole quantità di prove paradossali in letteratura: diversi ricercatori non hanno trovato alcuna differenza di genere rispetto al numero di interruzioni (Dindia, 1987; Kennedy & Camden, 1983; Trimboli & Walker, 1984). Ciò che cambia da autore ad autore sono le interpretazioni delle ragioni di questo fenomeno, quando queste differenze esistono.

L’interruzione non è sempre considerata come un comportamento aggressivo e dirompente. Quindi non c’è solo il problema se i maschi interrompono più frequentemente delle femmine, ma anche quello di valutare la natura (cooperativa o non cooperativa) delle interruzioni osservate.

Anche il contesto culturale gioca un ruolo fondamentale sia nella percezione sia negli effetti e nelle conseguenze delle interruzioni. Le norme culturali stabiliscono quando un’interruzione è percepita come tale, quali caratteristiche la rendono un intoppo, un insulto o positiva. Di conseguenza, la cultura stabilisce delle regole in base alle quali ci creiamo delle aspettative su come debba andare una conversazione e fornisce anche degli standard per interpretare alcuni comportamenti comunicativi che possono confermare o violare le nostre aspettative.

Il confronto cross-culturale che sembra aver maggiormente interessato gli studiosi è quello tra culture collettiviste e culture individualiste nell’uso delle interruzioni (Hofstede, 1980; Markus & Kitayama, 1991; Triandis et al., 1988). Questa differenza culturale sembrerebbe rispecchiarsi nella comunicazione, allorquando i collettivisti invierebbero ai propri interlocutori segnali di “solidarietà” (Tannen, 1994), mentre gli individualisti manifesterebbero segnali linguistici che rimarcano i confini individuali (Li, 1999a, 1999b). Li (2001) ha condotto uno studio il cui obiettivo primario era verificare se, ed in che termini, la cultura giocasse un ruolo nell’uso delle interruzioni nella conversazione, analizzando due culture prevalentemente diverse, Cinese e Canadese rispettivamente. Il razionale alla base delle ipotesi è che la cultura cinese è stata individuata come prettamente collettivistica, mentre quella americana come individualistica (Hofstede, 1980; Li, 2001; Markus & Kitayama, 1991). I risultati della ricerca hanno mostrato che i partecipanti cinesi davano origine più frequentemente ad interruzioni cooperative, laddove, invece, i partecipanti canadesi producevano più interruzioni intrusive (Li, 2001). Ciò sembra riflettere norme culturali e valori delle relazioni interpersonali profondamente radicate: nel caso dei collettivisti, quando sono impegnati in una conversazione, essi tendono ad interrompere per mostrare solidarietà e lealtà. In un certo senso, quindi, le interruzioni sono orientate agli altri (es., aiutare un compagno), piuttosto che per scopi personali (cogliere l’occasione per parlare). Nel caso, invece, degli individualisti, essi saranno più propensi ad interruzioni intrusive, perché in tal modo si può esprimere la propria diversità e unicità, la propria assertività, qualità molto apprezzate nelle culture individualistiche.

Per questo ed altri motivi, non si può prescindere dalla questione culturale in quanto, come afferma Hall (1959),

la cultura è comunicazione e la comunicazione è cultura. (p. 169)

Le persone comunicano a seconda di quanto dettato dalle loro culture (Crago & Eriks-Brophy, 1992; Gumperz, 1982; Hymes, 1974) e anche il fenomeno delle interruzioni non si sottrae a questa logica, pertanto può essere studiato solo attraverso il filtro della cultura in cui si verifica e grazie alla quale, di conseguenza, assume un significato specifico.

E nel contesto terapeutico?

La psicoterapia è una forma di “interazione strategica” (Goffman, 1969). Le strategie terapeutiche sono guidate dalla specificità dei partecipanti e vengono messe in atto attraverso una serie di azioni da parte del terapeuta. Tuttavia, la psicoterapia è più di un insieme di pratiche o procedure che vengono eseguite dai terapeuti; è un processo di interazione. Per essere più precisi, la psicoterapia è una “conversazione terapeutica” (Labov & Fanshel, 1977; Szasz, 1974). Sebbene l’interazione psicoterapeutica utilizzi processi conversazionali, l’attività psicoterapeutica non è riducibile all’organizzazione conversazionale.

Nel contesto di una conversazione terapeutica, il terapeuta è visto e vede se stesso come un esperto di conversazione (Anderson & Goolishian, 1988). Così mentre nello schema delle conversazioni giornaliere, la selezione dell’argomento e del parlante è relativamente non vincolata e potenzialmente distribuita in modo uniforme, nel contesto terapeutico la situazione potrebbe presentarsi in modo diverso: il controllo dei processi conversazionali e dei cambi di argomento è a favore del terapeuta.

In generale, il paziente fornisce le informazioni sulla natura del suo problema, mentre è il terapeuta a porre la maggior parte delle domande, a selezionare la maggior parte degli argomenti ed è quindi in gran parte al controllo del piano della conversazione (Stratford, 1998).

Come riporta Stratford (1998), in un tale contesto, si può vedere che le interruzioni da parte dei terapeuti mantengono la stessa funzione delle conversazioni ordinarie, cioè come un tentativo di assumere il controllo della conversazione o di cambiare parlante o argomento.

Diverse scuole di formazione suggeriscono ai terapeuti di considerare l’uso dell’interruzione come parte della loro pratica terapeutica; per esempio, O’Hanlon e Wilk (1987) identificano proprio “l’interruzione terapeutica”, mentre Hoffman (1993) e Anderson (1992) consigliano entrambi di evitarla. In questo senso, le interruzioni da parte dei terapeuti possono avere sia funzioni potenzialmente facilitative che di controllo, a seconda della prospettiva da cui viene esaminata la conversazione.

L’utilizzo delle interruzioni da parte del terapeuta può essere vissuta dai pazienti da un lato come un uso appropriato della loro esperienza, al fine di direzionare la conversazione verso uno specifico contenuto o argomento, dall’altro potrebbe indurre nei pazienti la sensazione di sentirsi arrabbiati, squalificati, non ascoltati o di poter contribuire in maniera limitata alla conversazione terapeutica (Stratford, 1998).

Il terapeuta spesso utilizza nella conversazione sovrapposizioni di discorso che non vengono vissute come interruzioni, come ad esempio l’ascolto attivo o la riformulazione, che può portare a parlare contemporaneamente senza però essere percepiti come interruttivi (Murray, 1985; West & Zimmerman, 1983), così come può non essere ritenuta un’interruzione la sovrapposizione che avviene per completare il punto di vista di chi parla, oppure l’uso di back-channels (ad es., “mmhm”, “sì, sì”, “esatto”, cenni del capo) che non risulta interruttivo, dal momento che non è finalizzato ad ottenere il turno di parola, ma segnala attenzione ed interesse, e non intende disturbare il flusso di discorso dell’altro (Brunner, 1979; Duncan & Fiske, 1977).

La psicoterapia è da considerarsi, in definitiva, una trasformazione della conversazione ordinaria in una fine e complessa impresa che richiede che i terapeuti utilizzino abilmente l’organizzazione della conversazione.

Per tale motivo, è essenziale che il terapeuta sia abile conoscitore delle regole esplicite e implicite, e relative violazioni, che governano tale strumento, e riesca pertanto ad intercettare e analizzare in seduta i possibili effetti, che diventano materiale clinico con cui lavorare con il paziente.

Utilizzare consapevolmente e intenzionalmente l’interruzione non è necessariamente da considerarsi con accezione negativa, poiché interrompere può essere percepito addirittura con finalità supportiva (ad esempio, il terapeuta interrompe per riformulare sostenendo e incoraggiando quello che il paziente sta comunicando “Quindi, se ho ben compreso, mi sta dicendo che…”), l’importante è di inserirsi con sguardo lucido nel complesso gioco dei parlanti in cui si è in prima persona coinvolti.

 

Ho sposato una rockstar: eccessi, luci e ombre di dieci mogli rock (2020) di Francesca Cavalli – Recensione del libro

Punto saliente del libro Ho sposato una rockstar è che non sembra poter esistere una rockstar senza che lo sia anche la sua dolce metà.

 

Adoro la radio, l’ho sempre ascoltata tantissimo fin da bambino e da un po’ di tempo seguo con estrema assiduità Radiofreccia, emittente radiofonica che mi accompagna la mattina a colazione, nelle cuffie del mio iphone durante il tragitto a lavoro, nelle lunghe code in macchina e nell’attesa ai semafori rossi, così in un giorno di ozio decido, mentre faccio zapping con il mio cellulare, di legger qualcosa per cercar di conoscere meglio le voci narranti ovvero Eddie Bernie, La Fra e Doctor Mann.

La Fra ha qualcosa di particolare, mi colpisce la sua voce chiara decisa ma melodiosa, cosicché ne leggo la biografia, scopro che siamo coetanei, ma soprattutto che ha scritto un libro sulle mogli delle rockstar: di lì a correre in libreria ad acquistarlo il passo è  breve.

La copertina è indubbiamente azzeccata: domina una chitarra elettrica bianca vestita da sposa sotto i riflettori di un palcoscenico, nel back la foto di Francesca Cavalli, in arte ‘La Fra’, abito scuro da dark lady e sguardo deciso. Un primo sfoglio del libro, circa 120 pagine, perfetto per i miei gusti da lettore, suddiviso in dieci capitoletti, ognuno che narra la storia di una famosa sposa rock.

Sfoglio e risfoglio il libro così decido come leggerlo, son dieci capitoli che corrispondono a dieci incontri con altrettante signore del rock, motivo per cui decido di gustarmi i diversi capitoli in luoghi e tempi diversi, uno a casa, uno in spiaggia, uno nella pausa pranzo nella mia stanza, uno sulla terrazza di casa ecc.. così, mi illudo che sarebbe un po’ come incontrare tutte queste signore separatamente così da poter dedicare loro tutto il tempo necessario, sì insomma come dieci appuntamenti con dieci ladies che hanno davvero tanto da raccontarmi.

Il libro si legge veramente bene, è scorrevole e facile nella comprensione, scritto con un regime linguistico moderno e dunque adatto a qualsiasi tipo di pubblico. Le storie narrate, son quelle classiche del rock, raccontano di vite ed amori forti, anzi fortissimi, hanno un filo conduttore che si ripete nelle storie dei personaggi caratterizzate da violenze e abusi nell’infanzia che poi si ripercuotono nella vita adulta dei protagonisti in cui fanno da sfondo sesso, droga, alcool, matrimoni devastati e nuovi amori, storie di modelle e playmate che ad un certo punto della vita si convertono in accanite filantrope, il tutto in una grande cornice che ha come parola chiave l’eccesso.

Punto saliente del libro è che non sembra poter esistere una rockstar senza che lo sia anche la sua dolce metà in quella che forse qualche psichiatra potrebbe definire una ‘folie à deux’.

Ma quello che rende veramente unico il libro è la voce narrante.

‘La Fra’ articola i vari capitoletti attraverso una narrazione che ricorda molto quella delle musicassette anni ’80 in cui i comandi erano semplicemente play, stop, repeat. Eh sì, nei vari racconti cambia il nome dei protagonisti, ma le dinamiche, nel bene e nel male, restano sempre molto simili, e si ripetono così che sembra semplicemente di ascoltare il solito nastro. Lo stile della conduttrice radiofonica, in questo caso scrittrice, è davvero molto azzeccato, originale, ma soprattutto personale: la si sente in ogni frase del suo libro, è semplicemente lei al lavoro, che ci narra la storia del rock.

Il libro è articolato come se da un lato ascoltassimo della originalissima classica musica rock attraverso le storie delle protagoniste, dall’altro la ‘La Fra’ che, attraverso la sua narrazione, fa da batterista, ovvero dà il ritmo, ed infine il lettore, a cui spetta il giudizio finale mediato dalla propria esperienza e sensibilità.

A mio giudizio è un libro sicuramente da leggere, da gustare, ma soprattutto da assaporare che risulta unico nel suo genere non tanto per i contenuti quanto per la struttura su più piani che lo rende di un’originalità e piacevolezza indiscussa.

Disturbo da escoriazione e dismorfismo corporeo: quali differenze cliniche e cognitive?

Nonostante i pazienti con disturbo da escoriazione non soddisfino a pieno i criteri per disturbo da dismorfismo corporeo, la loro comorbilità è molto frequente, al punto da necessitare approfondimenti per fare chiarezza circa le somiglianze e le differenze di questi due disturbi.

 

Il DSM-5 definisce clinicamente il disturbo da escoriazione (Skin picking disorder, SPD) come il compulsivo e ripetitivo stuzzicamento della pelle, per mezzo delle unghie o di utensili (Grant, Odlaug, & Kim, 2007), fino a causare danni ai tessuti cutanei (American Psychiatric Association, 2013). Molti di questi pazienti riferiscono che il comportamento è iniziato in concomitanza all’insorgenza di una condizione dermatologica come l’acne (Willhelm et al., 1999). Solitamente, bersagli dello stuzzicamento comunemente segnalati sono il viso, le mani, le braccia e le gambe. Queste persone trascorrono una quantità significativa di tempo, con una media di 2.8 ore al giorno, a toccare insistentemente la pelle o a resistere all’impulso di farlo (Flessner & Woods, 2006). Sebbene il disturbo da escoriazione sia una malattia mentale riconosciuta, l’atto di stuzzicare la propria pelle può essere anche un sintomo di altri disturbi psichiatrici, come ad esempio il disturbo da dismorfismo corporeo (Body dysmorphic disorder, BDD), caratterizzato da ossessioni e preoccupazioni per i difetti percepiti nell’aspetto fisico (American Psychiatric Association, 2013). Nonostante i pazienti con disturbo da escoriazione non soddisfino a pieno i criteri per il disturbo da dismorfismo corporeo (questi ultimi, a differenza dei primi, stuzzicano la propria pelle per migliorare il loro aspetto estetico) molto frequente è la loro comorbilità, al punto che le numerose ricerche neurocognitive, tutt’ora non hanno fatto chiarezza circa le somiglianze e le differenze di questi due disturbi.

Il presente studio si è proposto di esaminare le differenze cliniche e cognitive tra un gruppo di pazienti con disturbo da escoriazione e un altro con disturbo da escoriazione e disturbo da dismorfismo corporeo in comorbilità: nello specifico è stato ipotizzato che la co-occorenza di disturbo da escoriazione e disturbo da dismorfismo corporeo si sarebbe tradotta, da un punto di vista clinico, in una più grave irritazione cutanea, in una maggiore disfunzione psicosociale e una peggiore qualità della vita, mentre, da un punto di vista cognitivo, in una maggiore impulsività motoria e intatto set-shifting, ovvero quelle abilità che permettono ad un individuo di anticipare, progettare, stabilire e perseguire degli obiettivi. Il campione dello studio consisteva in 39 soggetti con disturbo da escoriazione, 16 con disturbo da escoriazione in comorbilità con disturbo da dismorfismo corporeo e 40 partecipanti di controllo, ossia sani e senza una storia di disturbi mentali.

Per quanto concerne le misure cliniche, in primo luogo, è stata valutata la gravità del comportamento di stuzzicamento di tutti i soggetti con diagnosi di disturbo da escoriazione, tramite la Yale Brown Obsessive Compulsive Scale Modified for Neurotic Excoriation (NE-YBOCS) (Arnold et al., 1999; Grant et al., 2007) e la Clinical Global Impressions – Severity (CGI-S) Scale (Guy, 1976), in secondo luogo, è stata valutata la gravità dei relativi sintomi della salute mentale: funzionamento psicosociale, sintomi d’ansia e sintomi depressivi sono stati valutati tramite la patient-administered Sheehan Disability Scale (SDS) (Sheehan, 1983), la clinician-administered Hamilton Anxiety Rating Scale (HARS) (Hamilton, 1959) e la Hamilton Depression Rating Scale (HDRS) (Hamilton, 1960), infine, la Quality of Life Inventory (QoLI) (Frisch, Cornell, Villanueva,& Retzlaff, 1992) è stata utilizzata per valutare la qualità della vita.

Dal punto di vista cognitivo, i partecipanti con disturbo da escoriazione e i controlli sani hanno compilato diversi test, la Cambridge Neuropsychological Test Automated Battery (CANTAB) (Cambridge Cognition Limited, 2006) che esplora il grado di impulsività dei partecipanti (relativa all’inibizione della risposta) e della flessibilità cognitiva, e hanno svolto lo Stop-Signal Task (SST) che misura la capacità di sopprimere le risposte impulsive motorie (Aron, Robbins, & Poldrack, 2004;). Quest’ultimo compito prevedeva che ciascun partecipante osservasse una serie di frecce che apparivano una sola volta sullo schermo di un computer, e effettuasse una serie di risposte motorie velocizzate cliccando il pulsante corrispondente alla direzione indicata dalle frecce (destra o sinistra). In un sottoinsieme di prove, si verificava un segnale acustico (il segnale di stop) allo scopo di inibire la sua risposta motoria alla prova: la misura che ne deriva è una stima sensibile del tempo impiegato dal cervello del soggetto per arrestare una risposta motoria ed è chiamato ‘Stop-signal reaction time’ (SSRT). Infine, è stata valutato il set-shifting tramite l’Intra-dimensional/extra-dimensional set shift task (IDED), compito che deriva dal Wiscon Card Sort Test (Lezak, Howieson, & Loring, 2004), il quale include aspetti di apprendimento delle regole e di flessibilità comportamentale: esso corrisponde ad una serie di prove ed errori e feedback, attraverso cui i partecipanti cercano di imparare una regola su quale di due stimoli sia corretto. Dopo ogni scelta, viene dato un feedback (corretto o errato) e, una volta ottenuto il criterio di apprendimento (6 risposte consecutive corrette), il computer cambia la regola e il soggetto deve adattare il suo comportamento.

Dai risultati è emerso che gli individui con disturbo da escoriazione in comorbilità con disturbo da dismorfismo corporeo hanno un comportamento di stuzzicamento più grave di quelli con la sola diagnosi di disturbo da escoriazione, così come una maggiore disfunzione psicosociale complessiva. Entrambi i gruppi di pazienti riflettono una qualità della vita molto scarsa: ciò è coerente con ricerche precedenti sul disturbo da escoriazione (Odlaug et al., 2010), secondo cui, data la bassa qualità di vita complessiva dei pazienti che ne soffrono, la presenza di disturbo da dismorfismo corporeo ha uno scarso effetto additivo. Contrariamente alle ipotesi degli autori non sono state trovate differenze significative tra i due gruppi nelle abilità motorie inibitorie, mentre per quanto riguarda la flessibilità cognitiva è emerso che gli individui con disturbo da escoriazione in comorbilità con disturbo da dismorfismo corporeo hanno una maggiore compromissione del ED-shifting, il quale riflette la compromissione nello spostare l’attenzione da una dimensione percettiva di uno stimolo complesso ad un’altra, rispetto a coloro che hanno una sola diagnosi di disturbo da escoriazione: ciò può rappresentare un segno distintivo del comportamento compulsivo associato all’inflessibilità cognitiva.

 

Il Disturbo Borderline di Personalità. Un disturbo complesso e multiforme – VIDEO, Pratichiamo la teoria

I pazienti con disturbo borderline di personalità sono probabilmente alcuni di coloro che generano maggiore tensione all’interno della pratica clinica. Per i nostri lettori, un video per approfondire l’argomento.

 

Scuola Cognitiva di Firenze, in associazione con Studi Cognitivi, offre ogni anno un ciclo di incontri formativi dal titolo “Pratichiamo la teoria” rivolti a studenti e professionisti nei settori della salute mentale (psicologia, psichiatria, medicina).

Pubblichiamo oggi, per i lettori di State of Mind, il video dell’incontro “Il disturbo Borderline di Personalità. Un disturbo complesso e multiforme”, condotto dalla Dott.ssa Franci Caterina.

I pazienti con disturbo borderline di personalità sono probabilmente alcuni di coloro che generano maggiore tensione all’interno della pratica clinica. Un approfondimento sulla diagnosi e sul funzionamento di questa problematica attraverso l’analisi di alcuni esempi clinici.

 

IL DISTURBO BORDERLINE – Guarda il video integrale del webinar:

 

SCOPRI I PROSSIMI EVENTI IN PROGRAMMA >> CLICCA QUI

 

SCUOLA COGNITIVA DI FIRENZE >> SCOPRI DI PIU’

La dipendenza patologica e il processo decisionale – Fatica a credito: storie parziali di dipendenza patologica

Ogni essere umano attribuisce un significato alle proprie esperienze anche mediante le informazioni somatiche che avverte in relazione al contesto, tutelando in prima istanza la propria sopravvivenza, e questo lo guida nel processo decisionale.

FATICA A CREDITO: STORIE PARZIALI DI DIPENDENZA PATOLOGICA – (Nr. 2) La dipendenza patologica e il processo decisionale

 

Tra le droghe esogene e quelle endogene (ossia le sostanze prodotte normalmente dal nostro corpo) c’è una precisa corrispondenza.

La marijuana si sostituisce all’anandamide, un neurotrasmettitore coinvolto nei meccanismi di regolazione dell’appetito, della memoria, della riproduzione e della proliferazione cellulare.

La cocaina si sostituisce alla dopamina, neurotrasmettitore implicato nei processi di genesi e gestione del movimento e dell’umore;

L’eroina si sostituisce alle endorfine, coinvolte nei processi di gestione del dolore (ne innalzano la soglia), del comportamento, dell’apprendimento, delle emozioni e del sonno;

L’alcool si sostituisce all’acido gamma aminobutirrico, il principale acido inibitorio del sistema nervoso centrale, che svolge un ruolo chiave nella trasmissione degli stimoli ai neuroni ed è direttamente responsabile della regolazione del tono muscolare;

L’ecstasy pompa la serotonina e blocca la dopamina; l’effetto combinato porta da una sensazione di forza ad un collasso cerebrale fatto di ansia, depressione e incapacità di elaborare informazioni sensoriali.

Come sappiamo, le sostanze psicotrope provocano un’alterazione nel funzionamento della corteccia orbitofrontale, deteriorando le capacità cognitive superiori come la progettazione, la pianificazione di strategie efficaci per la soluzione di problemi e la saggezza di apprendere dagli errori.

I circuiti neuronali dopaminergici meso-cortico-limbici svolgono un ruolo rilevante nei meccanismi della ricompensa ed in tutte le condizioni cliniche in cui la capacità di provare piacere risulta alterata, anche il coinvolgimento funzionale di altri importanti sistemi neurotrasmettitoriali è stato evidenziato sperimentalmente.

Il cervello cognitivo è la parte più giovane e più piccola dell’encefalo ed ha a che fare prevalentemente con il mondo esterno, si occupa di capire come funzionano le cose, come realizzare gli obiettivi, come gestire il tempo e la processualità delle azioni.

I lobi frontali ci permettono di usare il linguaggio ed il pensiero astratto, sono in grado di assorbire ed integrare le informazioni che ricevono dando loro un senso.

I lobi frontali ci permettono di riflettere, di immaginare e creare scenari futuri, di prevedere le conseguenze dell’esecuzione o dell’omissione di un’azione.

Sono essenziali anche per la nostra capacità di instaurare relazioni armoniose con gli altri, ci consentono di capire le ragioni di chi ci sta intorno e di adattarci a percezioni, aspettative e valori diversi dai nostri, sono la sede dell’empatia.

I lobi frontali, nella maggior parte dei casi, ci danno la possibilità di non fare cose che potrebbero metterci in imbarazzo o cose che potrebbero danneggiare gli altri, essi sono determinanti nel depotenziare gli impulsi traducendoli in comportamenti socialmente accettabili.

Il cervello emotivo, invece, (composto dal sistema limbico) è il cuore del sistema nervoso centrale, il suo compito principale è quello di occuparsi del nostro benessere, di rilasciare una certa quantità di ormoni quando rileva un’opportunità speciale.

Il cervello emotivo provoca delle sensazioni viscerali che interferiscono su qualsiasi attività stia svolgendo la mente e ha un’enorme influenza sulle decisioni che prendiamo nel corso della nostra vita.

Essendo sia dal punto di vista organizzativo che dal punto di vista biochimico più semplice del cervello cognitivo, valuta in modo molto più approssimativo le informazioni che riceve e giunge a conclusioni che possono essere anche in contrasto con la nostra parte razionale.

Potremmo dire che il suo scopo principale è quello di assicurare la sopravvivenza, quindi deve basarsi sulla rapidità decisionale e sull’accumulo di risorse immediate per far fronte a situazioni di pericolo reali o presunte.

Le informazioni sensoriali, le sensazioni, che riceviamo dal mondo esterno convergono nel talamo, un’area del sistema limbico, e vengono trasmesse sia verso l’amigdala, la parte più profonda del sistema limbico, sia verso i lobi frontali, dove raggiungono la consapevolezza.

Il neuroscienziato J. LeDoux definisce il percorso verso l’amigdala la via breve perché è estremamente veloce, e il percorso verso i lobi frontali la via lunga perché richiede diversi millisecondi in più per decodificare l’informazione (LeDoux, 1996).

L’amigdala ha la funzione di definire se un’informazione in entrata è pericolosa o meno, se è rilevante o no ai fini della sopravvivenza.

Svolge questo compito in collaborazione con l’ippocampo, il quale confronta la nuova informazione con le esperienze presenti in memoria per poterla connotare come sicura o come un allarme.

Se l’amigdala rileva un’informazione minacciosa, invia un messaggio istantaneo all’ipotalamo e al tronco dell’encefalo, dopodiché queste strutture secernono gli ormoni dello stress (cortisolo ed adrenalina) sollecitando una risposta del sistema nervoso autonomo e organizzando una risposta di tutto il corpo.

L’amigdala elabora le informazioni provenienti dal talamo più velocemente dei lobi frontali, quindi è questa struttura posta nella parte profonda del sistema limbico che decide se le informazioni in arrivo sono minacciose, lo fa prima ancora che i lobi frontali possano capire se esiste un pericolo reale.

Il nostro cervello, essendo molto più vecchio di noi che lo trasportiamo all’interno della scatola cranica, ha tutte le sue ragioni per funzionare così e per processare le informazioni in questo modo, la sopravvivenza della nostra specie (fino ad oggi…) non può che confermarlo.

In condizioni normali l’amigdala funziona abbastanza bene e riesce a captare in modo adeguato i segnali di pericolo, in condizioni alterate, però, aumenta la possibilità che possa interpretare in modo erroneo il significato di una situazione portando a conclusioni approssimative. Ad esempio, la capacità di costruire relazioni con gli altri dipende anche da quanto si è capaci di valutare con precisione se le loro intenzioni siano benevole o minacciose, un fraintendimento può condurre a incomprensioni anche dolorose nei rapporti familiari o lavorativi.

Per funzionare in modo efficace nell’interazione sociale è necessario possedere la capacità di valutare rapidamente come si sentono le persone, aggiustando continuamente il proprio comportamento.

Quando i sistemi di allarme governati dall’amigdala funzionano in modo difettoso, rispondere in modo aggressivo o sottomesso a espressioni facciali innocue o a commenti trascurabili diventa molto più probabile.

Se il compito dell’amigdala è quello di preparare semplicemente la risposta attacco/fuga e non quello di emettere giudizi, i lobi frontali hanno la funzione di procedere a valutazioni più accurate delle informazioni provenienti dal mondo esterno.

Le capacità esecutive della corteccia prefrontale consentono di osservare ciò che succede, di fare previsioni su ciò che potrebbe accadere e di stabilire come agire mediante scelte consapevoli.

Avere il tempo di rispondere permette al cervello esecutivo di inibire, organizzare e modulare le reazioni automatiche che sono state programmate dal cervello emotivo e questa capacità è indispensabile anche per preservare le relazioni con gli altri esseri umani.

Ad esempio, i lobi frontali ci dicono che la rabbia e le minacce altrui sono espressione del loro stato emotivo.

Nei casi in cui non si raggiunge un equilibrio tra l’amigdala e i lobi frontali, controllare le emozioni e gli impulsi diventa molto più difficile e ricorrere a risposte automatiche anche alla minima rilevazione di pericolo è molto più frequente.

Attraverso studi di neuroimaging si è rilevato che paura, tristezza e rabbia intense aumentano l’attivazione di aree sottocorticali e riducono l’attività in varie aree del lobo frontale.

Quando questo si verifica, le capacità inibitorie dei lobi frontali vengono meno e le persone perdono il controllo, danno risposte eccessive ai minimi segnali di potenziali minacce o hanno reazioni d’ira per la minima frustrazione.

Un contesto sociale ed un sistema relazionale in cui paura, tristezza e rabbia si impongono come elementi prevalenti, produrrà risposte sempre più governate dall’amigdala e sempre meno dai lobi frontali, in una sorta di circolo vizioso che si autoalimenta. E’ importante ricordare che le emozioni non sono contrapposte alla ragione, attraverso di esse assegniamo un valore all’esperienza e per questo sono alla base della ragione, è l’equilibrio tra cervello emotivo e cervello razionale che produce l’esperienza di sé.

Quando questi due sistemi sono in sintonia ci sentiamo noi stessi, ma quando ci troviamo in situazioni in cui è in gioco la nostra sopravvivenza, possono funzionare in modo disfunzionale o approssimativo.

Paura, tristezza e rabbia sono alcune delle emozioni che avvertiamo durante le relazioni con gli altri e che possono essere determinanti in molte delle decisioni che prendiamo.

Nel caso delle persone con una dipendenza patologica, la paura, la tristezza e la rabbia sono emozioni alquanto frequenti prima, durante e dopo un percorso terapeutico e sono facili da rintracciare in molti contesti e in molti momenti della storia individuale di queste persone.

La paura di non farcela, di non essere capaci di condurre una vita senza sostanze, la paura di provare emozioni a cui non si è più abituati o a cui si è anestetizzati, la paura di chiedere aiuto e la paura di non poter essere aiutati, la paura della normalità o di essere se stessi nelle relazioni sociali. La tristezza per aver perso credibilità, per l’incapacità di vedere un futuro possibile, per essere troppo in ritardo o per aver gettato occasioni e opportunità.

La rabbia per i limiti che un certo stile di vita ha prodotto, per il dover fare cose che non si vorrebbero fare.

Ma anche la tristezza e/o la rabbia per non poter più fare uso di sostanze, rinunciando ad un piacere e ad una soluzione che per diverso tempo si è dimostrata efficace, come se questi pazienti non appartenessero solo alle categorie diagnostiche del DSM ma anche del DSMM, cioè del Devo Smettere Mio Malgrado.

Come sappiamo, e come accennato in precedenza, le emozioni e i sentimenti hanno un ruolo dirimente nella maggiore parte delle scelte che facciamo e rappresentano un aspetto cruciale nel processo decisionale di un individuo.

Il processo decisionale, infatti, è particolarmente condizionato dalle risposte somatiche ed emotive avvertite a livello soggettivo e non necessariamente elaborate attraverso la consapevolezza. I cambiamenti fisiologici che si producono nell’organismo, in risposta all’esperienza emotiva, agiscono sui circuiti neurali influenzando le valutazioni e le decisioni.

Di fronte ad una scelta non attiviamo un processo di analisi per considerare minuziosamente i pro e i contro delle alternative ma, anche nel caso di problemi complessi o di situazioni con importanti risvolti personali o sociali, utilizziamo strategie decisionali che fanno riferimento agli esiti di esperienze passate e che possono avere analogie con l’esperienza presente.

Le vicissitudini che intercorrono nel corso della nostra vita lasciano tracce che prendono la forma di emozioni e sentimenti con connotazioni positive o negative, e svolgono un ruolo cruciale nel processo decisionale.

La mia decisione di fronte ad una situazione sarà condizionata dal tipo di emozione buona o cattiva che ho provato in situazioni che considero simili a quella in cui mi trovo.

Il neuroscienziato portoghese Antonio Damasio chiama queste tracce marcatori somatici (Damasio, 1995), cioè vissuti corporei o viscerali che diventano una sorta di etichetta delle esperienze vissute.

I marcatori somatici sono uno strumento automatico che facilita il compito di selezionare opzioni vantaggiose dal punto di vista biologico ed evolutivo.

Come sostiene Damasio, al contrario di quanto spiegava Cartesio, mente e corpo non sono entità separate, il cervello non può essere studiato senza tenere conto dell’organismo a cui appartiene e dei suoi rapporti con il contesto esterno.

Quando diciamo corpo intendiamo anche la testa, a meno che non si parli di Luigi XVI…

Integrando ciò che si è accennato dal punto di vista neurobiologico con l’estrema sintesi della descrizione del processo decisionale, possiamo dedurre che: se l’informazione proveniente dal mondo esterno è intercettata prima dal sistema limbico e poi dal sistema cognitivo (prima decido e poi capisco) e se le nostre decisioni prendono il via dal sistema emotivo prima che da quello razionale, allora come ci sentiamo, cioè quali suggerimenti ci propone il nostro corpo attraverso le sue manifestazioni somatiche in relazione al contesto in cui si trova, diventa un elemento di riflessione fondamentale per descrivere ed obiettivare comportamenti, atteggiamenti e relazioni tra individui.

Ogni essere umano attribuisce un significato alle proprie esperienze e lo fa anche mediante le informazioni somatiche che avverte in relazione al contesto, dalle emozioni che prova, tutelando in prima istanza la propria sopravvivenza e dando priorità alle segnalazioni, vere o presunte, di potenziali pericoli.

Le minacce alla sopravvivenza non provengono soltanto dalle circostanze concrete in cui emerge una questione di vita o di morte, ma possono riguardare anche eventi in cui viene messa in pericolo la sopravvivenza della propria identità, della propria reputazione o dei propri scopi esistenziali.

Quando questi aspetti vengono minacciati si attiverà il sistema di allerta del cervello che favorirà risposte emotive basate più sull’impulsività che sulla riflessione, privilegiando un ragionamento rapido attratto solamente da informazioni approssimative.

Per questo motivo può essere utile individuare quali sono le circostanze e i contesti a cui gli individui tendono a dare una connotazione minacciosa, un significato di pericolo.

Può essere utile capire e descrivere quali sono gli elementi che la società attuale traduce come minacciosi e quali sono le ragioni per cui anche situazioni generalmente innocue vengono descritte semanticamente in modo pericoloso.

Se, ad esempio, corrispondere ad un modello sociale prevalente diventa di vitale importanza, va da sé che non riuscire a farlo diventa una minaccia per la propria sopravvivenza e, di conseguenza, anche i tentativi di arrivare a quel modello non saranno governati da strategie razionali ma da risposte emotive approssimative o eccessive.

Se, ad esempio, esprimere le proprie opinioni diventa un esercizio per aver ragione dove la possibilità di un dibattito si traduce solamente in un conflitto da vincere, allora perdere potrebbe essere catastrofico, potrebbe danneggiare in modo irreparabile la propria reputazione.

Se, ad esempio, la spuntina blu di WhatsApp non è immediata, allora si tenderà a dare una connotazione di trascuratezza e non di distrazione al tempo di attesa per una risposta.

Ci troviamo a ridefinire il significato di termini e concetti.

Il concetto di umiltà che, da sentimento conseguente ad un comportamento improntato alla consapevolezza dei propri limiti e al distacco da ogni forma di orgoglio e sicurezza eccessivi di sé (Enciclopedia Treccani online), diventa soltanto un rischioso atteggiamento che prelude alla sottomissione.

Perfino l’idea di dover imparare produce la vergogna di non sapere già.

Anche l’aggressività, che è ormai una strategia per far vedere che ci si fa rispettare, diventa sinonimo di avere carattere e relega la calma e la cortesia a disdicevoli esibizioni di insicurezza.

— Ero in coda per entrare al museo, di fronte a me due genitori gentili e premurosi conversavano mentre il loro bambino fantasticava storie piratesche con il suo giocattolo tra le mani. Nell’incedere della storia che stava immaginando nella sua mente, probabilmente assalti a galeoni o ricerche di tesori nascosti nelle profondità dell’oceano, il suo giocattolo di Jack Sparrow cadde esattamente sopra il mio piede.

Mentre sorridevo per raccogliere il pirata di plastica notai la madre girarsi verso il figlio, guardare me, e richiamarlo con particolare energia ed autorità.

Pensai che se non ci fossi stato io, cioè qualcuno che facesse sentire la madre osservata, forse lei si sarebbe comportata diversamente con suo figlio, forse si sarebbe limitata a raccogliere il pupazzo e non avrebbe dissolto le sue fantasie o interrotto l’assalto ai galeoni. Forse la madre non si sarebbe sentita in dovere di dimostrare a me, l’osservatore, che era capace di far vedere a suo figlio chi è che comanda, che è assolutamente in grado di farsi rispettare, che suo figlio le ubbidisce.

Pensai che secondo lei, io, cioè un osservatore sconosciuto, dessi per scontato che è così che ci si fa rispettare.

Al termine della scena, mentre il bambino con poca fatica ritornava alle battaglie per i tesori nascosti, la madre si voltò e il suo viso sembrava quello di chi ha superato un esame.

Mi sembrò anche, però, che ci fosse come un’ombra di dubbio mentre ripassava nella sua mente le azioni che aveva commesso, come se si chiedesse perché si era sentita in dovere di comportarsi così.

(Non so se questo sia accaduto veramente oppure se sono io ad aver sperato che accadesse).

 

Apprendimento subliminale di codice grafico alfabetico in soggetti in età evolutiva con diagnosi di Disturbo dell’Apprendimento NAS

Apprendimento subliminale di codice grafico alfabetico: uno studio pilota sull’apprendimento subliminale in soggetti in età evolutiva con diagnosi di Disturbo dell’Apprendimento Non Altrimenti Specificato (NAS).
Si ipotizza che soggetti con Disturbo dell’Apprendimento NAS, sottoposti ad apprendimento subliminale, presentino un miglioramento nel priming rispetto al gruppo di controllo.

Introduzione

L’apprendimento subliminale, noto anche come ‘priming subliminale’, fa parte di una delle tre tipologie di apprendimenti impliciti della cosiddetta Memoria non Dichiarativa o implicita: condizionamento classico, apprendimento procedurale e priming. Il priming, chiamato anche ‘innesco’ o ‘facilitazione’ – dal verbo inglese to prime, che significa ‘preparare, attivare’ – è una modalità di memoria implicita che determina il riconoscimento di uno stimolo per effetto dell’influenza inconsapevole di uno stimolo percepito precedentemente.

Quando il bambino fa il suo ingresso in prima elementare è sottoposto a metodi di insegnamento che mirano a fornirgli gli strumenti tecnici per realizzare la lettura e la scrittura, regole di trasposizione suono-segno, senza tenere conto delle sue conoscenze pregresse e delle singole strategie di apprendimento (Carnevale & Leggiero 2009; Stella, 2001; Tressoldi, Stella & Faggella, 2001). La questione diventa anche più complessa quando un bambino presenta un Disturbo Non Specifico dell’Apprendimento. Difatti in questi disturbi sono incluse disabilità estese a più settori, ad acquisire nuove conoscenze e competenze. Tra queste disabilità riscontriamo il Ritardo Mentale che risulta dall’insieme dei deficit dello sviluppo cognitivo e socio-relazionale; viene definito dalla compresenza di un quoziente intellettivo inferiore a 70 e dalla incapacità del soggetto ad adeguarsi agli standard propri della sua età e del suo ambiente (cura della propria persona, vita in famiglia, capacità sociali-interpersonali) (Angelelli et al., 2008). È spesso evidenziato che una delle cause di queste difficoltà di apprendimento nascono da una disfunzione a livello della memoria a breve termine o memoria di lavoro (Szűcs, 2016; Peijnenborgh et al., 2017; Chen et al., 2017) il che coinvolge le funzionalità dei processi di elaborazione dell’informazione. È emerso dalla letteratura, tuttavia, che la presentazione vocale o scritta in modalità subliminale di codici alfabetici implica l’estrazione automatica di rappresentazioni astratte della forma delle lettere (Kouider & Dupoux, 2005). Le attuali teorie della coscienza presuppongono una dissociazione qualitativa tra elaborazione conscia e inconscia nella percezione di codici alfabetici. Entrambe le modalità, sebbene con effetti di durata differenti, sono in grado di provocare una attività di elaborazione dell’informazione (Dupoux, de Gardelle & Kouider, 2008).

Pertanto, in questo studio preliminare pilota, si sono volute indagare le prestazioni cognitive in termini di apprendimento implicito subliminare (priming) in soggetti in età evolutiva con diagnosi di Disturbo dell’Apprendimento Non Altrimenti Specificato. Ci si aspetta che i soggetti sottoposti ad apprendimento subliminale presentino un miglioramento nel Priming rispetto ad un gruppo di controllo.

Metodo

Campione

Il campione è stato selezionato nel Centro di Fisiokinesiterapia e Riabilitazione L’Incontro di Teano (CE), convenzionato con l’ASL. Il campione è stato selezionato secondo i seguenti criteri: età compresa tra 8 e 10 anni, una diagnosi di Disturbo dell’Apprendimento non specifico, un QI al di sotto del valore 70, un rendimento scolastico deficitario e disagio scolastico inteso come malessere psicologico nei confronti della propria esperienza formativa (Pombeni, 2000). Lo status diagnostico per tutti i partecipanti si basa sui criteri del DSM 5 (APA, 2013) per i Disturbi Aspecifici dell’Apprendimento.

Il campione è stato composto da 16 partecipanti con una età media di 8.93 anni; con 13 maschi e 3 femmine, tutti appartenenti ad una fascia sociale media. Da questo campione sono stati selezionati due gruppi in modo randomizzato, gruppo A e gruppo B: gruppo A età media 9.28 anni, con la presenza di 6 maschi e 2 femmine; gruppo B età media 8.5 anni con la presenza di 7 maschi e 1 femmina.

Nella Condizione Sperimentale (gruppo A) i soggetti sono stati sottoposti ad una esposizione mascherata di una serie di lettere, scelte casualmente, mentre svolgevano una consegna che li impegnava nella visione e ascolto di video musicali, mentre nella Condizione di Controllo (gruppo B) i soggetti sono stati tenuti a svolgere la consegna durante la quale non era trasmessa in modo subliminare la serie di lettere.

Strumenti

Nel processo di selezione dei partecipanti sono state utilizzate le Matrici progressive di Raven (CPM). Le CPM misurano l’intelligenza non verbale e sono utilizzate per la fascia d’età che va dai 3 agli 11 anni. Sono costituite da 3 serie di 12 item ciascuna, composte in modo da misurare i processi di ragionamento percettivo caratteristici di questa fascia di età.

  • I livello: capire il concetto di uguaglianza o differenza (discriminazione di forme uguali o diverse)
  • II livello: saper cogliere l’orientamento delle configurazioni
  • III livello: saper cogliere analogie dei cambiamenti
  • IV livello: capacità di analizzare il tutto nelle singole parti costituenti
  • V livello: percezione figure astratte (sia come forme prese singolarmente sia come parti di un tutto)

Per valutare la condotta scolastica dei bambini è stato utilizzato il sistema multiassiale su base empirica – Achenbach Child Behavior Chechlist (CBCL) (Achenbach & Rescorla, 2001). L’approccio multiassiale ha permesso di costruire una gamma di strumenti valutativi sotto forma di Questionari di valutazione – report form – per raccogliere descrizioni sul bambino fornite da persone familiari che conoscono l’adattamento del soggetto nell’ambiente di vita condiviso (genitori, insegnanti) e da altri osservatori esperti (clinici, educatori, operatori dei servizi sociali). Da questi questionari si può ottenere il profilo di competenze (scale delle competenze) derivato da 20 item e suddiviso in 3 scale:

  • scala dell’attività: valuta la quantità e la qualità della partecipazione del bambino/ragazzo a sport, hobby, giochi e attività, la quantità e la qualità dei lavori e/o lavoretti svolti e delle amicizie (Achenbach & Rescorla, 2001).
  • scala della socialità: valuta la capacità del bambino/ragazzo di socializzare, giocare e lavorare in autonomia (Achenbach & Rescorla, 2001).
  • scala della scuola: valuta il funzionamento scolastico profilo psicologico e/o psicopatologico (scale sindromiche), composta da 118 item sui problemi del comportamento del bambino/ragazzo valutato secondo una scala di valutazione delle risposte a tre livelli (0= non vero; 1= qualche volta; 2= molto vero) (Achenbach & Rescorla, 2001).

Per la procedura sperimentale è stato utilizzato un software specifico per la proiezione subliminale dei caratteri alfabetici con capacità di proiezione a partire da 15 millisecondi (ms) a diminuire.

Procedura

In relazione alla procedura sperimentale è stato firmato il Consenso Informato, sia da parte dei genitori dei soggetti, che da parte del centro riabilitativo.

Inizialmente è stato individuato un campione di 20 bambini con disturbo non specifico dell’apprendimento. In seguito sono state svolte le seguenti valutazioni, riducendo il numero dei partecipanti a 16: da parte degli operatori sono state somministrate ai soggetti del campione le Matrici progressive di Raven (CPM) per verificare il QI; mentre ai genitori e agli insegnanti è stato somministrato l’Achenbach Child Behavior Chechlist (CBCL) in merito alla condotta scolastica dei propri figli/allievi.

La fase applicativa dell’intervento prevedeva, per entrambi i gruppi selezionati per l’esperimento, di ripetere l’alfabeto in modo orale e scritto. Successivamente venivano fatti accomodare davanti al monitor del computer con la consegna di guardare il video proprio del player audio digitale e di ascoltare i brani musicali tipici di cartoni animati, festival o show per bambini scelti per loro.

Il gruppo A durante la consegna è stato sottoposto all’esposizione di un codice di caratteri ad apprendimento subliminale ‘L Z D R’ ottenuto tramite sorteggio. Le lettere sono state estratte da una tipica ‘tombola di lettere’. Il software per la proiezione a monitor delle lettere è stato impostato con velocità e durata di comparsa dello stimolo, come suggerito dallo stesso software, sotto i 15 millisecondi randomizzando ogni 5 secondi con la comparsa dei 4 grafemi. Quindi ogni 4 secondi compariva a schermo per meno di 15 millisecondi una delle lettere scelte. Questo in un moto perpetuo per 15 minuti. Al termine dei 15 minuti di ascolto veniva chiesto: ‘Dimmi la prima lettera dell’alfabeto che ti viene in mente’ e dopo la prima con la medesima formula verbale si chiedeva la seconda, la terza e la quarta lettera. Il gruppo B ha seguito lo stesso iter, con la sola differenza di non essere esposto alla proiezione subliminale delle lettere sul monitor durante la consegna.

Risultati

Dalle CPM è emerso che sia il gruppo A che il gruppo B rientravano tra il  25° e il 10° percentile, confermando che il gruppo A e il gruppo B non erano significativamente differenti rispetto a questo costrutto. Dal CBCL è emerso che in entrambi i gruppi erano presenti principalmente problemi relativi a cattiva condotta e disimpegno scolastico. In merito all’esperimento è emerso che i bambini appartenenti al gruppo A (coloro che erano stati esposti alla presentazione subliminale della serie alfabetica) alla domanda: ‘Dimmi la prima lettera dell’alfabeto che ti viene in mente’ – e poi con la medesima formula verbale la seconda, la terza e la quarta lettera – avevano risposto enumerando lettere alfabetiche in modo randomizzato e ricordando tutti, almeno una o due delle lettere visionate (in modo subliminale) durante il video ‘L Z D R’ (le lettere L e Z sono state rievocate con maggiore frequenza rispetto alle lettere D e R e rispetto ad altre lettere dell’alfabeto). Le frequenze numeriche erano le seguenti: nella condizione sperimentale su 8 bambini 5 hanno rievocato la lettera Z; 4 hanno rievocato la lettera L; 1 ha rievocato entrambe le lettere L e Z. Nella condizione di controllo su 8 bambini 1 ha rievocato la lettera D; 1 ha rievocato la lettera R.

Mentre nel gruppo B (coloro che non erano stati esposti alla presentazione subliminale della serie alfabetica) alla prima domanda alcuni hanno risposto enumerando le lettere in ordine alfabetico o comunque senza includere se non ‘accidentalmente’ una delle lettere della serie ‘L Z D R’.

Riportiamo la tabella contente i risultati descrittivi riportanti le frequenze delle lettere rievocate dai soggetti sperimentali divisi nelle due condizioni (Tab. 1).

Apprendimento subliminale e disturbo dell apprendimento NAS uno studio Tab 1Tab. 1: Frequenze delle lettere rievocate dai soggetti sperimentali divisi nelle due condizioni

Nella tabella sono evidenziati in giallo i grafemi della stringa usata per l’apprendimento subliminale che i soggetti hanno rievocato sotto richiesta dello sperimentatore.

In seguito, al termine della sequenza delle 4 lettere dell’alfabeto veniva posta, ad ognuno dei bambini la domanda ‘Perché hai scelto queste lettere?’ Alcune risposte dei soggetti sono state: ‘Mi è venuta in mente’, ‘Non lo so’, ‘L’ho pensata’.

Conclusioni

In conclusione è emerso che nella condizione sperimentale mediamente è stata rievocata 1 lettera target su 4. Nella condizione di controllo, le risposte di due bambini sono state scartate in quanto la loro rievocazione non è stata casuale, ma seguiva l’ordine alfabetico, quindi solo due bambini su otto hanno rievocato 1 lettera su 4, il restante non ha indicato alcuna delle lettere target.

Tale differenza, seppur non statisticamente significativa, potrebbe essere dovuta ai processi di apprendimento subliminale che potrebbero aver facilitato nella condizione sperimentale la rievocazione dei segni grafici degli stimoli target (L Z D R).

In compiti di priming visivo per la denominazione di oggetti, immagini mostrate in modo subliminale hanno portato in alcuni studi anche solo il 13,5% di risposte congruenti con lo stimolo target, considerando che l’accuratezza della scelta era casuale, ma è stato dimostrato che la ricomparsa ciclica delle stesse immagini a distanza di 15 minuti e con prove intermedie, come è stato svolto anche nel presente studio, può portare ad un aumento della precisione della rievocazione dello stimolo target fino al 34,5%, considerando un priming completamente di tipo visivo, quindi non di tipo semantico. Si ritiene che l’effetto del priming visivo subliminale nei compiti di codici alfabetici sia dovuto, nella fattispecie, all’automatizzazione di processi coinvolti nell’identificazione di forme familiari, come può accadere nella percezione di lettere e parole.

Ricordiamo che l’adozione di segni grafici, come oggetto di apprendimento, si presta più facilmente all’acquisizione dell’informazione da parte dei partecipanti in età scolastica, in quanto per loro è materiale ‘familiare’ perché il codice grafico è oggetto di studio e d’apprendimento nelle prime fasi del percorso formativo scolastico.

In ogni caso possiamo considerare lo studio preliminare pilota come uno stimolo per mettere a punto ricerche empiriche sperimentali e applicative riguardo tale tema. In tal senso in futuro, studi sperimentali controllati potrebbero indagare, sul piano teorico e metodologico, questa procedura e meglio definire gli eventuali ambiti di applicazione ed effetti.

 

La vita a scuola (2020) a cura di Silvia Kanizsa e Francesca Linda Zaninelli – Recensione del libro

Si impara in un tempo e in luogo, e si impara con gli altri. L’apprendimento non è un processo mentale solitario, ma una pratica sociale: questo uno dei concetti centrali del libro La vita a scuola.

 

Scuola. In questi giorni quasi non si parla d’altro. Nel particolare momento storico che stiamo attraversando l’inizio del nuovo anno scolastico è sotto i riflettori per le sfide e le difficoltà che porta con sé il dover conciliare sicurezza e salute di tutti con l’imprescindibile necessità di garantire alle nuove generazioni il diritto fondamentale all’istruzione. E’ dunque un’occasione per ripensare alla scuola nel suo essere istituzione educativa e fondamentale contesto di crescita, strumento ed espressione di una democrazia che proprio attraverso di essa si attua formando i propri cittadini.

Il libro a cura di Kanizsa e Zaninelli rappresenta in questo quadro un interessante spunto di riflessione sui compiti sociali e culturali della scuola che, in continuità con la comunità in cui è inserita e di cui è espressione, ha un’enorme influenza su bambini e ragazzi, sulle loro relazioni e sul loro futuro. La scuola, infatti, è una parte importante nella vita di ognuno di noi, il primo incontro e confronto col mondo esterno alla rete famigliare, con la realtà culturale e sociale in cui siamo immersi. Proprio in questi mesi d’isolamento e chiusura delle scuole ci siamo resi conto dell’importanza che riveste per l’apprendimento e la crescita dei nostri bambini e ragazzi l’essere a scuola, in relazione viva con insegnanti e compagni, in un contesto di sviluppo sociale e culturale, ad ‘alta densità relazionale’.

Le autrici dei diversi capitoli che compongono il volume ben mettono in luce, da diverse angolature e sottolineando di volta in volta complessità e aspetti specifici, come la scuola infatti non sia solamente un luogo di apprendimento, ma anche di socializzazione, di riproduzione culturale e di esperienza democratica: ciò che si impara a scuola non sono solo contenuti, ma modalità di pensiero, valori culturali, ruoli sociali.

Per poter diventare cittadini liberi e consapevoli, i ragazzi hanno bisogno di un percorso formativo che dia loro gli strumenti per capire e valutare ciò che accade intorno a loro, che li aiuti a coltivare il giudizio critico e la capacità di scegliere. E questo deve essere garantito a tutti, indipendentemente dalla provenienza sociale, culturale, ed etnica. Proprio in vista di tale obiettivo nel nostro Paese la scuola è regolata da un quadro normativo complesso, ispirato ai valori di universalità e inclusione promossi dalla Costituzione italiana.

Uno dei capitoli di Zaninelli è proprio dedicato ad esplorare come sia cambiata la scuola nel corso del tempo e come le riforme ne abbiano progressivamente modificato l’organizzazione con l’intento di garantire una qualità educativa ed un’efficienza sempre maggiori. Certamente le questioni da affrontare sono molte e, se da un lato oggi la scuola gode di maggiore autonomia, flessibilità organizzativa, migliore utilizzo di risorse e strutture, maggiore continuità tra i vari segmenti educativi nel passaggio da un grado scolastico al successivo, maggiore libertà nella scelta di metodi e stili di insegnamento, attenzione al bisogno di continuità relazionale garantito dal gruppo classe, dall’altra vi è un intrecciato groviglio di criticità e nodi ancora da sciogliere. Ancora troppa è la diseguaglianza territoriale fra le scuole, anche in termini di qualità dell’offerta didattica, così come il modello formativo di base è ancora troppo ‘classico’, poco attento a valorizzare le differenze individuali e ad evitare una discriminazione sociale e culturale nel corso della carriera formativa.

In questo volume le autrici entrano per il lettore nella scuola, nella sua quotidianità, raccontandone i protagonisti, esaminando gli ingredienti necessari per far sì che essa realizzi davvero il suo mandato diventando una ‘scuola aperta, quale laboratorio permanente di ricerca, di sperimentazione e innovazione didattica, di partecipazione e di educazione alla cittadinanza attiva, per garantire il diritto allo studio, le pari opportunità di successo formativo e di istruzione permanente dei cittadini’ (art.1, Legge n. 107/2015, in Kanizsa e Zaninelli, 2020).

La scuola diventa contesto di apprendimento e crescita attraverso l’organizzazione dei suoi spazi fisici e architettonici, attraverso i suoi tempi scanditi di lezioni e calendario scolastico, attraverso il suo essere un’esperienza interattiva, sociale e relazionale.

Se pensiamo a quanta parte della loro vita i bambini e i ragazzi trascorrono a scuola, è evidente come non sia possibile ignorare l’impatto che spazi, luoghi fisici, materiali, oggetti, arredi, strumenti esercitano sul loro sviluppo. Lo spazio e il tempo della scuola sono questioni importanti: l’ambiente non è mai neutro, ma influenza il comportamento e il vissuto di ogni individuo, e questo vale ancora di più quando si tratta di bambini, per cui l’accoglienza e la stabilità del contesto di sviluppo sono assolutamente fondamentali. Nella relazione con lo spazio che lo circonda il bambino costruisce il suo senso di sé, del mondo e degli altri. Maria Montessori realizzò le sue Case dei Bambini proprio a partire dall’idea di mettere il bambino al centro di uno spazio fisico in cui si sentisse progressivamente sempre più capace di agire in modo autonomo, competente e libero. Le scuole oggi troppo spesso mancano di una vera attenzione ad un ‘abitare educativo’ che aiuti i bambini e i ragazzi a crescere e ad apprendere. Abbiamo bisogno di pensare e investire di più sul progettare spazi educativi idonei così come abbiamo bisogno di ripensare alla dimensione del tempo, troppo poco esplorata e problematizzata: i tempi dell’apprendimento non sono uguali per tutti e i bambini hanno bisogno del giusto tempo per crescere in armonia rispettando i propri ritmi di sviluppo.

Si impara in un tempo e in un luogo, e si impara con gli altri. L’apprendimento non è un processo mentale solitario, ma una pratica sociale, un cambiamento che avviene partecipando ad un’esperienza fatta di persone, relazioni, confronti. Un’esperienza emotiva, cognitiva, comportamentale e sociale che coinvolge tutti gli attori in scena e modifica ognuno di loro, se pure in modi diversi. Il gruppo di persone che abitano la scuola è dunque il contesto privilegiato di apprendimento e in questo gruppo asse portante sono certamente gli insegnati. Il compito dell’insegnante è un compito difficile, come ben evidenziano le autrici di questo volume, che non si esaurisce nella trasmissione di informazioni e che dunque non richiede solo una solida conoscenza dei contenuti, ma, realizzandosi nella dimensione interpersonale del rapporto con gli allievi, anche la capacità di entrare in relazione con loro e trasmettere le nuove conoscenze stimolando l’apprendimento.

Per quanto l’esperienza educativa sia un’esperienza reciproca in cui s’impara gli uni dagli altri, il rapporto insegnante/allievo è e sempre deve essere asimmetrico: il maestro ha il compito e la responsabilità di dare una direzione al lavoro, indipendentemente dal fatto che adotti uno stile più o meno tradizionale. L’insegnante è il perno del processo educativo e il suo stile influenza ciò che avviene in classe e il clima che se ne respira. Diverse ricerche, come illustrato da Kanizsa, hanno cercato di indagare gli esiti sull’apprendimento degli studenti dei diversi stili di insegnamento. Un insegnante più tradizionale e formale rende gli allievi più passivi, relegati ad un ruolo di solo ascolto. Un insegnante informale o meno tradizionale mette l’allievo al centro, spingendolo a cercare più attivamente, attraverso tentativi ed errori, collaborando coi compagni. Ogni metodo ha vantaggi e svantaggi, viene naturalmente modulato dalle caratteristiche personali dei singoli maestri (cosa che rende difficile individuare uno stile ‘puro’) e funziona in modo più o meno efficace anche a seconda della personalità degli allievi. I risultati sembrano simili dal punto di vista delle valutazioni sulle materie di studio, per quanto partano più a rilento nel gruppo gestito in modo informale. D’altra parte gli allievi di questo gruppo mostrano maggiori abilità sociali e migliori capacità di autogestione del percorso di apprendimento. Ogni maestro è chiamato a scegliere lo stile più adatto alla classe, tenendo presenti le proprie caratteristiche e quelle dei suoi allievi. Più l’insegnante percepisce se stesso come efficace, meglio gestisce il rapporto coi ragazzi e migliore è il clima dell’intera classe. Ma oltre a percepire se stesso come efficace, è necessario che consideri ogni allievo capace di imparare: ognuno di noi ha un’idea di cosa sia l’intelligenza, se sia modificabile o meno, e ogni insegnante ha nella sua testa l’immagine dello ‘studente ideale’, in termini di caratteristiche personali, età, genere, ecc.

Questi pre-concetti sono un dato di fatto ineliminabile, di cui però un buon insegnante deve essere consapevole, affinché non si trasformino per i suoi ragazzi in profezie che si autoavverano, incasellandoli in categorie immodificabili. Imparare è faticoso e, per quanto i bambini generalmente inizino il loro percorso formativo desiderosi di imparare cose nuove, spinti dalla loro naturale curiosità, hanno bisogno che la loro motivazione sia alimentata e incoraggiata dalla proposta di attività che stimolino il loro interesse e dal successo e dalla considerazione degli altri. L’idea tradizionale che premi e punizioni (in termini di voti e giudizi) siano uno sprone per l’apprendimento trova il suo limite nella consapevolezza ormai consolidata che quanto più le motivazioni sono esterne alla persona, tanto più sono labili e rischiano di rendere gli allievi meno interessati, demotivati fino alla rassegnazione e, in situazioni limite, rischiano di portare all’abbandono scolastico.

In questo senso l’uso della valutazione merita un’importante riflessione, attraverso cui ci accompagna Germana Mosconi. Fin dai primissimi anni di vita il bambino viene valutato attraverso giudizi più o meno espliciti su ogni sua attività e comportamento. Questi giudizi sono condizionati dalle ‘pedagogie implicite’, dall’idea che ciascun adulto di riferimento (educatore o familiare) ha di come imparano i bambini. Ognuno di questi giudizi concorre a formare nel bambino l’immagine di sé e delle proprie possibilità future, contribuendo al processo di selezione scolastica e influendo sul suo futuro. Per aiutare ogni bambino a crescere al meglio delle proprie possibilità, sfruttando le proprie risorse è necessario ripensare alla valutazione non come uno strumento di selezione ma come uno strumento formativo per capire come proceda il percorso didattico, per definire le esigenze da soddisfare, le carenze da colmare e regolare così le modalità di insegnamento in funzione delle esigenze di tutti gli allievi. Il criterio di merito basato sulla prestazione ha molti limiti: troppe variabili interne ed esterne agli allievi incidono sulla prestazione scolastica, sulla stessa capacità di impegnarsi per ottenere un risultato, come la disponibilità di un supporto al loro apprendimento, l’ambiente culturale che li circonda, le loro caratteristiche in termini di predisposizione per certe materie, la fiducia in se stessi, ecc. E questo certamente penalizza i bambini più ‘deboli’, che non trovano un adeguato sostegno alle loro difficoltà e, una volta intrapresa la ‘carriera fallimentare’, non riescono a migliorare la propria situazione e si trovano incanalati in un percorso che perpetua le disuguaglianze, invece di assottigliarle. Occorre una maggiore attenzione al singolo, ai vissuti di ogni bambino riguardo alle proprie capacità e risorse, un’ottica formativa che valorizzi le differenze individuali invece di scoraggiarle, incoraggiando la ricerca per tentativi. Oltre ad uno strumento per promuovere l’apprendimento, la valutazione deve avere per l’insegnante una funzione riflessiva: un’occasione per ripensare al proprio operato, a come modificare il proprio modello didattico per adattarlo alle esigenze dei ragazzi supportandoli nel loro processo di crescita e acquisizione di conoscenze.

Per questo fra gli strumenti professionali di un buon insegnante non possono mancare abilità comunicative e di ascolto empatico che gli permettano di interagire con la classe in modo caldo e accogliente e di instaurare con i ragazzi una buona relazione. L’insegnante deve aiutare i bambini e i ragazzi a crescere e per farlo devono poter stare con loro in un atteggiamento di accettazione positiva e incoraggiante. Solo così gli sarà possibile vedere e comprendere ogni bambino nel suo essere unico e irripetibile, scegliendo un percorso adatto a lui. Naturalmente ogni persona, e dunque ogni insegnante, ha la sua sensibilità e le sue caratteristiche individuali ma, per poter esercitare questo importante e difficile mestiere, le capacità relazionali possono e devono apprese al di là della singole inclinazioni.

Per fare ciò è importante imparare ad osservare e osservarsi in maniera sistematica, separando, per quanto possibile, le impressioni soggettive dai dati oggettivi.

In questa visione di apprendimento, e dunque di insegnamento, come azione sociale, un valore aggiunto importante è dato dal collegio dei docenti: il continuo confronto e condivisione con i colleghi è uno strumento di lavoro importantissimo che consente a tutti di crescere personalmente e professionalmente. Certamente, come riconosce Monica Amadini nel suo capitolo dedicato proprio a questo tema, la collaborazione richiede impegno e fatica, ma consente ad ognuno di riconoscere le proprie competenze prendendo maggiore consapevolezza del proprio ruolo, imparando a riconoscere i propri limiti e ad apprendere gli uni dagli altri. Oltre ad essere un importante ancoraggio istituzionale, in una condivisione di scelte e responsabilità, la collegialità è anche un prezioso sostegno personale e un fattore protettivo per la salute emotiva di tutti. Imparare a lavorare insieme non è facile, è un traguardo lungo e faticoso che richiede impegno costante e il farsi carico della fatica di discussioni e negoziazioni, ma è una fatica che viene premiata dalla nascita di un dialogo costruttivo, di soluzioni alternative e sguardi nuovi, dal progressivo miglioramento della qualità didattica e delle pratiche educative del gruppo, diventando per gli alunni testimonianza di una vera possibile collaborazione.

E’ forse questo il messaggio di fondo di questo bel libro: mettersi in gioco richiede fatica, risorse, impegno, ma fare buona scuola è proprio questo, mettersi in gioco a tutti i livelli, qualunque sia il proprio ruolo all’interno del sistema, allievi, insegnanti, dirigenti, legislatori, riconoscendosi reciprocamente competenze e capacità, stando insieme non in posizione frontale, ma fianco a fianco, ognuno consapevole dei propri compiti e disposto a riflettere su di sé per crescere e fare crescere. Senza però mai perdere di vista una piccola ma sostanziale differenza: rispetto al processo di apprendimento e alla relazione educativa le responsabilità non sono e non devono essere le stesse. Come evidenziano le autrici nel loro lavoro, mentre ‘il maestro (e con lui tutto il sistema scuola, aggiungo io) ha il dovere di lavorare in modo da aiutare i bambini a imparare e a crescere [..] i bambini hanno solo diritti e in particolare hanno il diritto di essere ascoltati e aiutati ad apprendere‘ (Kanisza e Zaninelli, 2020, p.100).

Limitare l’utilizzo dei social media – Gli effetti sul benessere psichico

Sembra che il tempo trascorso nelle attività davanti a uno schermo, come l’utilizzo di social media, sia significativamente correlato con la presenza di più sintomi depressivi e maggior rischio suicidario.

 

Dall’adozione diffusa dei social media sono scaturiti numerosi studi – per lo più correlazionali – sul rapporto tra l’uso dei social media e la salute mentale. L’utilizzo auto-dichiarato di Facebook e Instagram correla positivamente con i sintomi della depressione (Donnelly & Kuss, 2016). Un maggiore utilizzo di Facebook è associato a una minore autostima (Kalpidou et al., 2011) e a una maggiore solitudine (Song et al., 2014). L’utilizzo di Instagram è correlato con problemi di immagine legata al corpo (Tiggemann & Slater, 2013). In un ampio studio basato sulla popolazione, Twenge e colleghi (2017) hanno scoperto che il tempo trascorso in attività davanti a uno schermo era significativamente correlato con maggiori sintomi depressivi e maggior rischio suicidario.

Non essendoci tuttavia ancora stati studi sperimentali che potessero dare un riscontro di causalità alla questione, uno studio recente (Hunt et al., 2018) ha voluto esaminare se la limitazione dell’utilizzo giornaliero dei social media per un certo periodo producesse degli effetti sul benessere psichico.

Un totale di 143 soggetti (108 donne, 35 uomini) sono stati reclutati da un pool di studenti universitari dell’Università della Pennsylvania. Unico requisito era che i partecipanti utilizzassero Facebook, Instagram e Snapchat e possedessero uno smartphone.

Dopo una settimana di monitoraggio di base, i 143 partecipanti sono stati divisi in due gruppi: uno avrebbe limitato l’uso di Facebook, Instagram e Snapchat a 10 minuti, per piattaforma, al giorno, l’altro avrebbe continuato a utilizzare i social media come al solito per tre settimane.

Prima, durante, e dopo l’intervento i partecipanti sono stati invitati a compilare la seguente batteria di test: L’Interpersonal Support and Evaluation List (ISEL; Cohen & Hoberman, 1983) per la valutazione del supporto sociale; La Fear of Missing Out Scale (FoMOs; Przybylski et al., 2013) per misurare il disagio causato dal perdere esperienze sociali; la UCLA Loneliness Scale (revised UCLA Loneliness Scale; Russell et al., 1980) per valutare la percezione di isolamento sociale; lo Spielberger State-Trait Anxiety Inventory (STAI-S; Spielberger et al., 1970) per la misurazione dei sintomi ansiosi; il Beck Depression Inventory (BDI-II; Beck et al., 1996) per la valutazione dei sintomi depressivi; la  Rosenberg Self-Esteem Scale (RSES; Rosenberg, 1979) per la misurazione dell’autostima; la Ryff Psychological Well-Being Scale (PWB; Ryff, 1989) per valutare l’autonomia e l’accettazione del sé.

Dai risultati della ricerca si è evinto che il gruppo a uso limitato dei social ha mostrato una riduzione significativa nella percezione della solitudine e dei sintomi depressivi rispetto al gruppo di controllo. Entrambi i gruppi hanno mostrato segni di diminuzione dei sintomi legati all’ansia e alla paura di perdersi gli eventi sociali, suggerendo un effetto benefico legato all’aumento della consapevolezza e dell’autocontrollo anche nel gruppo di controllo.

Da ciò si può trarre che limitare l’uso dei social media a circa 30 minuti al giorno può portare a un effettivo miglioramento del benessere psichico.

 

Il sintomo: una causa o una conseguenza?

L’interpretazione del sintomo è importante affinché si possa individuare la disfunzione somatica, intesa come espressione dell’alterazione dello stato di salute causato da eventi stressanti (esterni o interni) all’organismo.

 

Corpo e psiche non vanno separati.

Eppure molti medici lo ignorano, proprio per questo motivo sfuggono loro così tante malattie: perché non vedono il tutto.

(Platone)

L’uomo viene percepito come un essere relazionale e corporeo; egli vive stati mentali diversi ma dipendenti dai suoi legami con le persone più significative. Lo strumento di comunicazione di cui l’uomo si serve è il suo corpo; esso viene inteso come uno strumento di comunicazione con l’ambiente esterno, mediante il linguaggio verbale (analogico) e non verbale (digitale).

Questi due linguaggi vengono mischiati sino a produrre una combinazione di parole e gesti.

Il nostro corpo agisce in risonanza con gli stati affettivi e dell’umore, cogliendo ed elaborando le esperienze che si generano nelle relazioni. Prendersi cura del proprio corpo, equivale a mantenere un buon rapporto con se stessi, con gli altri e con le cose. Saper percepire e riconoscere i segnali del proprio corpo come indicatori di espressione delle emozioni, ci aiuta a saperle esprimere e gestire in modo adeguato. Conoscere i limiti del nostro corpo, ci permette di esprimerci nel miglior modo possibile con l’ambiente esterno (permettendoci di agire anziché subire gli eventi esterni). Ciò significa considerare collegate emozioni, corpo e relazioni (Barbieri & Sacchi, 2018).

Le antiche medicine cinese e ayurvetica, affermano che ‘prima della materia c’è l’energia’; in altre parole, le due discipline affermano che l’energia nasce prima della materia.

Questo concetto è stato riconosciuto anche dal pensiero medico allopatico occidentale (Needham, 1956).

Siamo fatti di energia oltre che di materia e la combinazione di queste due istanze, produce le cosiddette corrispondenze riflessologiche energetiche, che possiamo riscontrare a livello della lingua, iride, piede, orecchio, mano etc.

Quando si manifesta un blocco emotivo o una percezione erronea della realtà esterna, si ha un blocco a livello delle corrispondenze riflessologiche energetiche.

Per la medicina indiana Ayurveda, la malattia ha un’origine dinamica e relazionale; i rimedi consistono in: yoga, meditazione trascendentale, corretta alimentazione, con lo scopo di migliorare ed equilibrare la condizione psicosomatica dell’individuo (Morandi & Nambi, 2013).

La medicina tradizionale cinese ritiene che la cura consista nel ripristinare l’equilibrio oscillatorio tra due forze vitali opposte ed inscindibili che sorreggono l’organismo (Yin-Yang).

Il disequilibrio si manifesta, inizialmente, in superficie (con la presenza di muco, catarro, febbre, manifestazioni cutanee) e, successivamente, in profondità, cronicizzandosi, se non viene adeguatamente trattato; l’abuso di farmaci può ostacolare il naturale processo di autoguarigione del corpo.

Esistono discipline come la PNEI e l’Epigenetica, che hanno ripreso ed analizzato scientificamente i contributi provenienti dalle discipline che sono stati esposti in precedenza.

In particolare, la prima si concentra sulla costante ricerca dell’equilibrio; invece, la seconda si concentra su come gli eventi ambientali possano contribuire ad alterare l’espressione genica, senza, tuttavia, modificare il DNA.

Prendere in considerazione il livello psichico, fisico, sociale e spirituale, è fondamentale per il benessere del soggetto.

Obiettivo principale della psicologia è quello di aiutare l’individuo a gestire i conflitti con il proprio sé ed elaborare gli eventi traumatici e, parallelamente, l’obiettivo primario dell’osteopatia si basa sul ripristino dell’equilibrio neurovegetativo.

È l’individuo che decide e diventa responsabile del proprio benessere e della propria malattia, così come affermò Ippocrate ‘Prima di cercare la guarigione di qualcuno, chiediti se è disposto a rinunciare alle cose che lo hanno fatto ammalare‘.

Il sintomo: un intreccio tra Osteopatia e Psicologia

Obiettivo del medico deve essere trovare la salute.

Tutti sono capaci di trovare la malattia.

(Andrew Taylor Still).

Dal punto di vista psicologico il sintomo potrebbe essere ricondotto ad una molteplicità di fattori:

  • Il modo in cui l’individuo si percepisce;
  • Le influenze provenienti dall’ambiente esterno;
  • Il modo che l’individuo ha di leggere le influenze esterne (Watzlawick, Beavin, & Jackson, 1971; Loriedo & Picardi, 2005; Fruggeri, 2014; Barbieri & Sacchi, 2018).
  • Il sintomo assume un linguaggio emotivo particolare che, se interpretato in modo adeguato, può guidare il professionista al trattamento del soggetto. Dagli studi scientifici è emerso che il sintomo possiede diverse caratteristiche:
  • Il sintomo ha componenti relazionali ed energetiche: ovvero i sintomi vanno percepiti come segni che emergono di cui possono essere analizzati i messaggi sottostanti, e come l’organismo o il sistema cerca di ripristinare la propria organizzazione ed equilibrio interno; vi è una marcata connessione tra i sintomi e i vissuti traumatici;
  • I sintomi sono depositari e latori di messaggi inerenti a problemi presenti delle relazioni interpersonali del soggetto: essi assolvono una duplice funzione, da un lato una funzione omeostatica (ovvero ha il compito di ripristinare l’equilibrio del soggetto) dall’altro una funzione evolutiva (un mezzo per assolvere ad una necessità di cambiamento). In entrambi i casi risulta problematico.
  • Ha un potere attivante: in quanto permette al soggetto di ricevere le dovute cure da parte delle persone che gli stanno accanto.
  • Il sintomo cambia in base agli eventi e al periodo che l’individuo sta vivendo;
  • La trattabilità: attraverso l’analisi e l’interpretazione del sintomo è possibile giungere ad una cura, una terapia ed infine una possibile guarigione. (Barbieri & Sacchi, 2018).

Anche nell’idea olistica (Barbieri & Sacchi, 2018) e osteopatica diventa importante l’interpretazione del sintomo, affinché si possa individuare la disfunzione somatica, intesa come espressione dell’alterazione dello stato di salute causato da eventi stressanti (esterni o interni) all’organismo, come traumi e\o patologie (ROI, 2020). Solitamente si manifestano principalmente sul sistema muscolo-scheletrico, con dolore o riduzione di mobilità. L’osteopata, mediante tecniche specifiche, stimola il ripristino della mobilità fisiologica a livello dei diversi sistemi (circolatorio, respiratorio, fasciale, nervoso, muscolo-scheletrico), che per mezzo di un’attività sinergica e coordinata, regolano il funzionamento fisiologico dell’organismo (ROI, 2020).

Il lavoro che lo psicoterapeuta e l’osteopata possono svolgere in sinergia è indirizzato a:

  • Sintomi di ansia e depressivi che si esprimono attraverso reazioni somatiche e viscerali, tra cui: disturbi del sonno, problematiche toracico-addominali (in particolare possono comprendere disfunzioni cardiache, respiratorie, digestive), disfunzioni a livello urogenitale (con i conseguenti disturbi sessuali, tra cui: dismenorrea, dolori durante il parto), squilibrio ematico e ormonale (ipertensione, alterazioni a livello della glicemia e colesterolemia).
  • Traumi psicofisici, lesioni e dolori articolari, dolori muscolo scheletrici (lombalgie, cefalee, cervicalgie, gonalgia), manifestazioni a livello cutaneo (tra cui: alopecia, psoriasi, dermatiti, eczemi).
  • Problematiche legate ad interventi chirurgici (Barbieri & Sacchi, 2018).

Malattia-salute: un ossimoro o un connubio (quasi) perfetto?

Non tutti i mali vengono per nuocere

(Detto popolare).

Come è stato precedentemente affermato, la malattia rispecchia i traumi emotivi e contiene, al suo interno, anche la guarigione (intesa come cammino di crescita interiore).

Secondo Barbieri e Sacchi (2018) è importante imparare a leggere la malattia ed intenderla come una reazione di sopravvivenza ad eventi che possono essere per il soggetto emotivamente ingestibili.

Pertanto, essa non deve essere intesa come un nemico da combattere, bensì, come un messaggio (sia psichico che somatico) di problemi che sono stati negati o ignorati dall’individuo stesso. I problemi insorgono a causa delle difese psicologiche adottate dal soggetto, si trovano in una dimensione inconscia; essi vengono causati da eventi personali che sono stati poco analizzati ed elaborati.

La condizione di malattia diviene alleata per far sì che avvenga la condizione di salute (la quale viene definita come uno stato di normale benessere in quanto è percepita come una condizione di adattamento in seguito ad accadimenti che sono rimasti come ‘congelati’ nel tempo. Queste ultime considerazioni riguardano sia l’ambito osteopatico sia quello psicologico.

‘Curare le cause’ significa scoprire il significato insito dei fattori che hanno prodotto la condizione di malessere. Usando le risorse e il coinvolgimento attivo del paziente è possibile capire ed interpretare l’origine dei suoi sintomi.

Nel caso di sintomi somatici, senza cause organiche, per individuare il legame tra organo ed emozione; la somatizzazione, infatti, viene intesa come messaggera e depositaria di eventi traumatici poco per nulla risolti, i quali devono essere riportati alla coscienza del soggetto.

Le energie curative si sbloccano se viene cambiato il valore ed il significato che è stato attribuito all’evento da parte della persona.

Da queste ultime affermazioni è possibile comprendere l’esistenza di un legame tra il pensiero e la malattia (Steiner, 2013; Barbieri & Sacchi, 2018), in quanto la condizione di malattia dipende dall’individuo (Barbieri & Sacchi, 2018). Il pensiero infatti influenza i processi e le frequenze fisiologiche del corpo (Fulford, 1996; Becker, 2001; Upledger, 2002; Barbieri & Sacchi, 2018).

In conclusione, il lavoro dei professionisti dovrebbe incentrarsi sullo sblocco delle rigidità difensive sia della psiche sia del corpo, che sono state per molto tempo ignorate o negate, ma che causano malessere psicosomatico.

 

Il sogno come luogo sicuro per l’integrazione del trauma nel PTSD?

Qual è la funzione dei sogni nel PTSD? I sogni, in special modo quelli REM, hanno un ruolo nella regolazione emotiva quindi ci si è chiesti se possano facilitare anche l’integrazione di vissuti emotivi minacciosi, come negli incubi dei soggetti che hanno vissuto un trauma.

Elisa Andreoli e Maria Pia Zonno – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, Modena

 

Nel corso della storia, gli esseri umani hanno interpretato i sogni in modo diverso. Per gli antichi egizi e per i greci, i sogni erano messaggi degli dei; è toccato poi ai filosofi farsi affascinare per migliaia di anni, fino a quando anche psicologi e psichiatri hanno iniziato ad occuparsene. Tra questi, il primo ad elaborare una complessa teoria fu Sigmund Freud, per il quale i sogni sarebbero l’espressione di desideri repressi, la via maestra per giungere all’inconscio. Recentemente, sonno e sogni costituiscono un terreno di studi soprattutto per neurologi e neurofisiologi, impegnati a scoprire quali siano le funzioni dell’attività onirica nel nostro cervello.

Oggi sappiamo che il sonno non è un fenomeno passivo, omogeneo e statico, ma, al contrario, è un processo dinamico, complesso e attivo, in cui il nostro cervello non smette mai di lavorare (Stickgold, Walker, 2009).

La comprensione del sonno è stata profondamente modificata dalle scoperte di Aserinsky e Kleitman (1953) e Kleitman e Dement (1963) che permisero di introdurre il concetto di architettura del sonno, distinto in due fasi: una fase non–REM o sonno lento (a sua volta suddivisa in quattro stadi) e una fase REM (rapid eye movement). Quest’ultima viene definita come sonno paradosso in quanto mentre il soggetto dorme profondamente, la sua attività cerebrale è simile a quella della veglia. Per questo si è ipotizzato, e poi confermato, che fosse questa la fase del sonno maggiormente associata all’attività onirica. A partire da questa scoperta molti lavori scientifici hanno cercato di dare una risposta al perché dormiamo e sogniamo.

Ormai è noto il ruolo che il sonno gioca nel consolidamento dell’apprendimento e della memoria. È soprattutto durante il sonno REM che si formano nuove sinapsi che consolidano ciò che si è appreso durante il giorno (Boyce et al., 2016). L’influenza positiva del sonno sulla memoria è collegata anche all’azione dei sogni.

Oggi sappiamo che sogniamo durante tutta la notte, ma esistono delle differenze tra i sogni della fase NREM e REM. I sogni del sonno lento servirebbero alla stabilizzazione della memoria, con contenuti prevalentemente riferiti alla vita quotidiana e con una minore risonanza emotiva (Stickgold et al., 1994), mentre i sogni della fase REM servirebbero alla riorganizzazione dei ricordi, confrontando e integrando le nuove esperienze con quelle già immagazzinate. Questi sogni sono molto più complessi, hanno contenuti emotivi più intensi; in essi crediamo di correre, di arrampicarci, possiamo vedere noi stessi fare qualcosa, come nel caso dei cosiddetti ‘sogni ad occhi aperti’ o sogni lucidi, in cui chi sogna è consapevole che sta sognando ed è in grado di agire volontariamente sul proprio sogno, modificandolo (Antrobus e Wamsley, 2009). Mentre quindi il corpo riposa, il cervello impara. Curiosamente, il contenuto dei sogni pare possa essere correlato con il consolidamento dell’apprendimento: tra i soggetti che imparano una seconda lingua, ad esempio, coloro i quali mostrano progressi sin dalle prime fasi, dichiarano di aver esercitato le loro abilità linguistiche durante i loro sogni (Stickgold e Walker, 2009). Non a caso una delle funzioni che avrebbe l’attività onirica è aiutare le persone a risolvere i problemi e a fare scoperte creative. Alcuni studi hanno infatti mostrato come studenti risvegliati dalla fase REM utilizzino strategie differenti, più creative per risolvere anagrammi rispetto a quelle utilizzate se risvegliati dalla fase NREM che assomigliano invece molto più a quelle solitamente usate da svegli (Stickgold e Walker, 2009).

Da un punto di vista evolutivo, invece, la funzione dei sogni potrebbe essere quella di far rivivere le esperienze della veglia in un’ottica di sopravvivenza della specie. Riproponendo, infatti, le esperienze vissute durante il giorno, il sogno permetterebbe sia di affinare le capacità di coping verso tali situazioni, sia di ridurre il tempo di latenza della risposta ai pericoli; una sorta di vero e proprio simulatore ‘offline’, che dà la possibilità di aumentare il successo riproduttivo della specie (Revounso, 2000).

Inoltre numerosi studi esaminati indicano che il sonno e la perdita di sonno possono rispettivamente influenzare positivamente e negativamente il recupero di ricordi, sia emotivi che neutri (Tempesta et al., 2018). Un’altra importante funzione del sonno è correlata alla regolazione delle emozioni: l’umore è più influenzato dalla perdita del sonno rispetto a prestazioni cognitive o motorie e la perdita del sonno è comunemente associata a cambiamenti dell’umore, ad un aumento dell’irritabilità soggettiva e volatilità affettiva. (Tempesta et al., 2015). Non solo, i potenziali effetti della perdita del sonno o della sua scarsa qualità sono stati notati anche su processi emotivi più complessi, come quelli coinvolti nell’empatia: diventiamo meno capaci di comprendere i sentimenti degli altri e di essere empatici con loro (Kilgore et al., 2008). Anche i sogni, in special modo quelli REM, hanno un ruolo nella regolazione emotiva: essi sembrano limare l’impatto emotivo di ricordi spiacevoli, facilitandone ulteriormente l’integrazione in memoria.

Se, dunque, i sogni ricoprono un ruolo nel processo di consolidamento delle memorie emotive, ci si è chiesti se possano facilitare anche l’integrazione di vissuti emotivi minacciosi, come negli incubi dei soggetti con disturbo da stress post-traumatico (post-traumatic stress disorder, PTSD) e se ci possa essere quindi una funzione dei sogni, in un certo senso, ‘terapeutica’ fornendo un luogo sicuro per l’integrazione del trauma.

Chi soffre di PTSD sperimenta vissuti emotivi di angoscia e paura che li perseguitano sia di giorno, attraverso flashback e memorie intrusive, che di notte, con gli incubi (Rothbaum e Mellman, 2001). Circa il 90% delle persone che sviluppano PTSD, riferisce una maggiore compromissione del sonno, frequenti risvegli e sogni inquietanti legati all’evento, che possono persistere persino per decenni dopo il trauma (Mellman et al., 2001). Infatti, la presenza di sintomi intrusivi e incubi rappresenta uno dei criteri per la diagnosi del disturbo da stress post traumatico del DSM-5 (APA, 2013).

Gli incubi e i disturbi del sonno sono fortemente correlati con la gravità dei sintomi del PTSD, contribuendo al suo sviluppo e mantenimento, oltre a favorire l’insorgenza di problemi psichiatrici quali ansia e depressione (Rothbaum e Mellman, 2001). L’insonnia è associata anche ad un aumento del rischio di sviluppare disturbi della salute fisica (ipertensione, malattie cardiovascolari), ad un aumento dell’uso di alcol e, infine, incide negativamente sulla qualità della vita e su alcune funzioni come attenzione, memoria e strategie di coping (Stickgold, Walker, 2009; Talbot et al., 2014; Miller et al., 2017).

Tra le terapie evidence based per il PTSD vi è il protocollo di esposizione prolungata di Foa (Foa et al., 1986), che consiste nel sostenere il paziente a confrontarsi con informazioni relative al trauma vissuto, riattivando in questo modo il ricordo traumatico. Tale riattivazione costituisce un’opportunità per il paziente di integrare informazioni correttive modificando così gli elementi patologici della memoria traumatica, in un contesto sicuro come il setting terapeutico. Questa terapia si fonda sulla teoria dell’elaborazione emotiva (Foa e Kozak, 1986) secondo la quale il PTSD emerge a causa dello sviluppo di una rete di paura nella memoria che suscita comportamenti di evasione e fuga (Foa et. al., 1989), in quanto le informazioni associate al trauma sono copiose e molto accessibili, dunque rischiano frequentemente di attivare la struttura della paura facendo rivivere l’esperienza traumatica. La terapia di successo per il PTSD comporta quindi la correzione di elementi patologici della struttura della paura e questo processo correttivo è l’essenza dell’elaborazione emotiva.

Sono state avanzate diverse teorie per spiegare quale sia allora la funzione dei sogni, degli incubi in particolare, nel PTSD e il loro ruolo nella patogenesi e nel mantenimento del disturbo. Freud presupponeva che gli incubi riflettessero i tentativi di dominare l’ansia e la colpa associate ad un’esperienza traumatica e di integrarle nella propria psiche durante il sonno. Studi recenti, combinando le osservazioni empiriche sul ruolo del sonno REM nell’apprendimento, nel consolidamento della memoria, nell’elaborazione emotiva e nell’adattamento allo stress, giungono ad una considerazione simile a quella freudiana, ovvero che la funzione dei sogni sia una funzione di adattamento emotivo agli eventi emotivamente salienti o traumatici (Stickgold, Walker, 2009).

Il primo a ipotizzare un ruolo terapeutico per il sonno, fu Hartmann (1995) che notò molte similarità tra il sonno (REM) e la psicoterapia. Entrambi, infatti, prevedono associazioni libere tra pensieri, memorie e immagini, la creazione di connessioni mentali e la prevenzione dell’acting out; tutto, all’interno di un ambiente sicuro: l’alleanza terapeutica per la psicoterapia, il proprio letto e l’atonia muscolare per il sonno REM. Per dimostrare la sua ipotesi, Hartmann analizzò gli incubi delle vittime di traumi come incendi, stupri, rapine, e notò che in essi si verificavano delle connessioni tra diverse memorie che avevano a che fare con l’emozione predominante vissuta dal sognatore: la paura (Hartmann, 1996). Nello specifico, gli incubi, inizialmente riproducono il trauma più o meno fedelmente a come è stato vissuto, per poi integrare altri ricordi simili presenti nella memoria del soggetto. Non appena avviene la connessione tra il trauma e il resto del materiale mnestico, l’emozione diviene meno potente e sopraffacente ed il trauma viene gradualmente integrato. Col tempo la memoria traumatica gioca un ruolo sempre meno importante all’interno dell’incubo, che pian piano si trasforma in un sogno relativamente tranquillo e con una carica emotiva meno forte.

Se ciò è quanto avviene in un incubo, Hartmann (1996) ipotizzò che tutti i sogni potessero avere una funzione terapeutica dal momento che permettono di integrare le memorie; qualcosa di simile a quello che succede durante un’esposizione in terapia (Rothbaum e Mellman, 2001).

È ormai noto in letteratura il ruolo del sonno REM nel consolidamento delle memorie affettive (Van Der Helm e Walker, 2009; 2012), le quali sono ricordate meglio rispetto a quelle neutre. Con la teoria ‘sleep to forget, sleep to remember’, Van Der Helm e Walker (2009) dimostrano in che modo il sonno REM contribuisce all’immagazzinamento dei ricordi emotivamente salienti. In questa fase del sonno, si ha l’attivazione di amigdala e ippocampo, responsabili del processamento e della ritenzione a lungo termine delle memorie a carattere emotivo e, contemporaneamente, si ha una soppressione dell’attività adrenergica, che implica una riduzione dell’attivazione fisiologica associata al ricordo emotivo (Van Der Helm e Walker, 2009). Secondo questa teoria, quindi, dormiamo per dimenticare (forget) l’emozione e dormiamo per ricordare (remember) l’esperienza. Sulla base di tali caratteristiche neurofisiologiche del sonno REM, che permettono sia il consolidamento del ricordo, sia la dissipazione della carica emotiva ad esso associata, si ipotizza che esso possa avere una funzione simile a quella di ‘terapia notturna’ (Van der Helm e Walker, 2012).

 Il grado con cui l’informazione relativa all’esperienza emotiva viene immagazzinata nella memoria a lungo termine, è però direttamente proporzionale all’ammontare del sonno REM raggiunto durante la notte. Se il processo di separazione dell’emozione dalla memoria non viene raggiunto durante la prima notte di sonno successiva all’esperienza traumatica, avverranno ulteriori tentativi nelle notti successive. In questo modo, notte dopo notte, si verificano gli incubi (Van der Helm e Walker, 2012). La letteratura riporta infatti di un sonno REM più attivo in pazienti con PTSD rispetto a quelli senza PTSD, caratterizzato nello specifico da una maggiore frequenza dei movimenti oculari, frequenti riattivazioni motorie e risvegli (Rothbaum e Mellman, 2001). Non solo, ma lo stato di iperarousal notturno e la riduzione dell’attività parasimpatica della fase REM, sono stati correlati agli incubi (Miller et al., 2017), suggerendo che l’esposizione al trauma produce uno stato di maggiore eccitazione neurobiologica che causa l’interruzione del sonno, che, a sua volta, può impedire l’elaborazione adattiva delle memorie emotive a seguito di un evento traumatico.

Secondo questa prospettiva, gli incubi sarebbero quindi il risultato di una interruzione dei processi di regolazione emotiva, un’elaborazione non riuscita durante il sonno REM (Levin e Nielsen, 2007). Secondo Rothbaum e Mellman (2001), infatti, la minaccia dell’evento traumatico rivissuta nei sogni dei pazienti con PTSD, può sembrare talmente reale che il soggetto può svegliarsi sentendosi come appena sfuggito al pericolo, confermando la natura minacciosa del materiale traumatico. Ciò è indice del fallimento del processo di integrazione e promuove una sensibilizzazione, anziché una desensibilizzazione, alle memorie traumatiche. Negli incubi, infatti, l’esposizione sarebbe di durata insufficiente per la desensibilizzazione, ma sufficientemente minacciosa, tanto che la persona può sentirsi incapace di fronteggiarla. Inoltre, la paura degli incubi e la relativa paura di andare a dormire, vengono considerate dal soggetto come un ulteriore segnale di debolezza.

Nielsen e Levin (2007; 2009) supportano la tesi secondo la quale il sogno svolgerebbe una funzione di estinzione della paura, in modo che il cervello non ne venga sopraffatto. Un brutto sogno riesce quindi a gestire un’emozione, seppur intensa e negativa, ed è funzionale perché da esso non ci svegliamo. Gli incubi, invece, consentendoci una fuga precoce dal contenuto onirico, cioè un risveglio, rappresentano un fallimento del sistema di estinzione della paura. Il modello proposto dai ricercatori, supporta la tesi secondo la quale gli incubi e la sintomatologia del PTSD sono associati ad un’interruzione all’interno di una rete cerebrale di regioni limbiche, paralimbiche e prefrontali che costituiscono il centro di controllo per una serie di processi emotivi, tra cui la percezione e la rappresentazione di stimoli emotivi, l’espressione e la regolazione delle risposte emotive (Levin e Nielsen, 2007; 2009). Queste strutture, note con il nome AMPHAC, includono l’amigdala, l’estensione della corteccia prefrontale mediale, l’ippocampo e la corteccia cingolata anteriore. È stato osservato che l’attività di queste regioni risulta in qualche modo compromessa nei soggetti con PTSD e correlata ai disturbi del sonno (iperarousal, insonnia) ad un aumento della frequenza ed intensità degli incubi, e ad alcune caratteristiche specifiche, comunemente osservate, come la mancanza di controllo emotivo, le caratteristiche bizzarre del sogno e la riproduzione di memorie traumatiche (Levin e Nielsen 2007; 2009; Stickgold e Walker, 2009). Per questo i ricordi traumatici continuano a perseguitare chi non riesce ad elaborare ansie e paure durante il sonno. Tuttavia, esistono prove a sostegno della possibilità che i sogni possano svolgere funzioni adattive. Sogni che sono di natura più integrativa (cioè incorporano riferimenti relativi all’evento traumatico e non) e meno perturbatori, avrebbero una maggiore probabilità di favorire l’integrazione emotiva (Rothbaum e Mellman, 2001).

Riassumendo, i sogni hanno, in una certa misura, una funzione terapeutica in quanto favoriscono l’integrazione di nuove memorie con quelle esistenti, oltre a rendere le emozioni ad esse associate meno pervasive (Stickgold, Walker, 2009; Hartmann, 1995, 1996; Van Der Helm e Walker, 2009; 2012, Nielsen e Levin 2007; 2009; Rothbaum e Mellman, 2001), ma per poter svolgere questa funzione, devono verificarsi certe condizioni. La premessa più importante è che sia presente una buona quantità e qualità di sonno, in particolare della fase REM (Van der Helm e Walker, 2012); inoltre i sogni non devono essere eccessivamente perturbatori ed invalidanti dal punto di vista del contenuto emotivo, per poter permettere l’integrazione del ricordo e promuovere la desensibilizzazione al vissuto emotivo (Rothbaum e Mellman, 2001), e per poter evitare il risveglio e dunque l’interruzione di questo processo (Nielsen e Levin, 2007; 2009).

Alcuni studi (Forbes et al. 2003; Moore e Krakow 2007) hanno dimostrato l’esistenza di un approccio efficace nel diminuire per frequenza e intensità gli incubi e i disturbi del sonno in pazienti con PTSD, oltre ad attenuare la severità di altri sintomi intrusivi. Si tratta della terapia di ripetizione immaginativa (Imagery Rehearsal Therapy, IRT) ideata da Krakow (Krakow et al., 2001), nella quale si incoraggia il paziente a cambiare l’incubo, provando a immaginarselo in maniera differente (per esempio, modificando il finale) creando una nuova versione meno angosciante, e a ripeterlo mentalmente finché l’incubo non riduce la sua frequenza.

Inoltre la letteratura suggerisce che trattare i disturbi del sonno immediatamente dopo l’esposizione al trauma possa ridurre lo sviluppo o la severità del PTSD permettendo di consolidare e generalizzare l’estinzione delle memorie traumatiche (Socci et al. 2020). In particolare ripristinare il sonno REM, sulla base delle importanti funzioni che abbiamo visto appartenergli, può comportare un’appropriata estinzione delle paure nel PTSD, e può anche promuovere l’iniziale consolidamento delle memorie di paura, esercitando così un effetto opposto sulla reattività emotiva delle prime conseguenze del trauma. Ciò implica che l’individuazione di una precisa e strategica finestra temporale per il trattamento del sonno sia un punto di partenza importante per le future ricerche sui disturbi trauma-correlati.

La mente liberata (2020) l’ultimo libro scritto da Steven Hayes, fondatore dell’ACT – Recensione

La mente liberata, un testo adatto sia ad un pubblico non esperto, sia ai colleghi terapeuti, in quanto si propone di far comprendere le origini e l’evoluzione dell’ACT utilizzando termini e spiegazioni semplici e comprensibili e quindi ripetibili anche nel lavoro clinico con il paziente.

 

A dispetto del sottotitolo della versione italiana (Come trasformare il tuo pensiero e affrancarti dallo stress, ansia e dipendenze), questo testo offre un invito controtendenza, ovvero, la necessità di cambiare direzione e andare verso la sofferenza invece che evitarla e temerla, mediante la flessibilità psicologica. Essa consiste nel guardare in maniera non giudicante e compassionevole quelle parti di noi stessi e quegli aspetti della vita per i quali proviamo sofferenza, perché ciò che ha il potere di suscitare in noi tanto dolore è anche ciò che è maggiormente importante per noi.

Appunto al sottotitolo dell’edizione italiana

Chi ha letto la versione originale o comunque chi conosce anche solo un po’ l’ACT, avrà storto il naso o avrà sentito irrigidirsi qualche muscolo del corpo alla lettura del sottotitolo di questo libro: “Come trasformare il tuo pensiero e affrancarti da stress, ansia e dipendenze!” Questa frase non è presente nell’opera originale e non potrebbe essere altrimenti, dato che l’ACT non promette né permette di modificare i pensieri e soprattutto non ha nessuna intenzione di liberarci dalle sensazioni spiacevoli come l’ansia… tutt’altro! Come anticipato, il messaggio del libro e dell’ACT in generale è l’opposto: smettere di lottare con pensieri ed emozioni e utilizzare quel tempo ed energie liberate per andare verso ciò che riteniamo importante e che desideriamo.

Infatti, il sottotitolo originale è “How to Pivot Toward What Matters” e potrebbe essere tradotto in “Come reindirizzarsi verso ciò che conta” o “Come cambiare direzione verso ciò che conta”.

A tal riguardo, ritengo utile far notare che la parola “pivot” in questa edizione è sempre stata tradotta come “cardine”. In parte è sicuramente adatta a rappresentare i 6 processi fondamentali dell’ACT, ma in questo caso l’autore vuole trasmettere anche l’idea di movimento e di cambio di direzione e, quindi, il sostantivo potrebbe essere forse tradotto meglio come “perno” e il verbo “cambiare direzione verso”.

Autore

Sull’autore, Steven C. Hayes, non mi soffermerò più di tanto perché molti dei lettori lo conosceranno come l’originatore (parola sua, in caso contrario troveranno le informazioni nell’articolo a lui dedicato).

Attuale ma con radici lontane

Questo testo è molto recente, pubblicato in lingua originale nell’agosto del 2019 ma, allo stesso tempo, ha il pregio di basarsi su oltre 35 anni di ricerche scientifiche nell’ambito delle scienze del comportamento.

Per chi

Come anticipato, questo testo può essere definito altamente scientifico, considerando che ha un notevole sostegno bibliografico. Ma essendo un libro dedicato anche ai non addetti ai lavori, i riferimenti teorici sono riportati alla fine del testo e rendono quindi la lettura scorrevole e comprensibile per chiunque.

Adatto sia ad un pubblico non esperto, sia ai colleghi terapeuti, in quanto esso si propone di far comprendere le origini e l’evoluzione dell’ACT utilizzando termini e spiegazioni semplici e comprensibili e quindi ripetibili anche nel lavoro clinico con il paziente.

Contenuti

Nella parte 1 l’autore introduce l’approccio, spiegandoci da dove origina, da quali tradizioni teoriche deriva e come si differenzia dalle altre terapie, attraverso numerosi studi scientifici. Questa parte, ai non esperti potrebbe sembrare superflua o complessa, ma in realtà è molto utile per inquadrare il modello che viene proposto e capirne le intenzioni. Inoltre, il linguaggio utilizzato è comprensibile e non è difficile immedesimarsi in quello che viene descritto, grazie anche al fatto che Hayes si svela e ci racconta dei suoi momenti bui, del suo disturbo di panico e come sia nata da lì la sua ricerca che l’ha poi portato alla creazione del modello ACT.

Nella Parte 2, Hayes descrive i sei punti cardine dell’approccio in modo più approfondito, dedicando un capitolo a ciascuno, guidandoci attraverso questionari e esercizi pratici per ognuno:

  • Defusione – Mettere la mente al guinzaglio
  • Sé – Assumere la prospettiva dell’altro
  • Accettazione – Imparare dal dolore
  • Presenza – Vivere nel presente
  • Valori – Scegliere ciò che conta davvero
  • Azione – Impegnarsi nel cambiamento

Nella parte 3, vengono esplicitati e applicati i principi dell’ACT a una varietà di aspetti della vita tra cui comportamenti per un sano stile di vita, salute mentale, relazioni, vari tipi di prestazioni, per esempio quelle sportive, benessere spirituale e gestione delle malattie e disabilità.

Il messaggio

La vita non è un problema da risolvere, ma questo non vuol dire che dobbiamo trascinarci passivamente nella nostra quotidianità. Al contrario, questo testo è un invito all’azione, ma non un’azione tesa ad evitare la sofferenza, bensì volta a coltivare quello che conta per noi, a migliorare noi stessi e le nostre interazioni con gli altri e creare abitudini di vita sane e in linea con il tipo di persona che vorremmo essere.

La novità

In questo volume, Hayes introduce contenuti che possono risultare nuovi anche ai terapeuti già formati in ACT: il concetto di desiderio, bisogno e motivazione che sta alla base di ogni nostro comportamento inflessibile. Egli infatti spiega come ogni abilità promossa dall’ACT (i 6 processi fondamentali) serva a soddisfare i nostri desideri più sani e profondi, quelli che spesso, sfortunatamente, cerchiamo di appagare in maniera inflessibile e dannosa. Ogni modalità inflessibile con cui le nostre menti ci intrappolano in schemi dannosi di pensiero e di comportamento contiene al suo interno un desiderio sano, nascosto in profondità.

Stiamo facendo le cose sbagliate ma per le giuste ragioni, perché vogliamo che le nostre vite abbiano un valore.

I “pivot” dell’ACT ci permettono di reindirizzare quel desiderio nascosto verso un modo di essere più aperto e flessibile che può realmente soddisfare il desiderio stesso. Possiamo quindi sviluppare le nostre abilità di flessibilità così da poter vivere secondo i nostri valori e desideri.

La Mente Liberata vs La Trappola della Felicità

Spesso mi viene chiesto con quale testo iniziare a scoprire l’Acceptance and Commitment Therapy e sono tantissimi attualmente i libri ACT scritti anche per i non addetti ai lavori, però in Italia il più famoso è La Trappola della Felicità di Russ Harris. Questo lo consiglierei a chi non sappia ancora niente di ACT o a chi cerchi un libro prevalentemente pratico, esperienziale e potente nel fare provare l’approccio e iniziare ad allenare le abilità.

Suggerirei invece La Mente Liberata a chi avesse già qualche conoscenza dell’approccio e desiderasse comprendere le origini e il background scientifico, o anche a chi non pratica l’ACT, ma fosse curioso di saperne di più in modo scientifico, ma non troppo tecnico.

 

Disturbi specifici di apprendimento ed emozioni sperimentate

La comprensione delle problematiche legate ai disturbi specifici dell’apprendimento aumenta la possibilità di ciascun individuo di rendere il proprio apprendimento effettivo, tenendo sempre in considerazione le emozioni sperimentate.

 

I disturbi dell’apprendimento si riferiscono ad un insieme di disturbi neurologici che compromettono la capacità individuale di ricevere, immagazzinare, processare, recuperare o trasferire le informazioni e possono comportare problemi nell’ascoltare, nel parlare, nello scrivere, nel sillabare e organizzare le informazioni (Hammill, 1990). Tra i disturbi dell’apprendimento i più conosciuti e diffusi sono i disturbi specifici dell’apprendimento (LDs), quali la dislessia, la disgrafia e la discalculia (Cortiella & Horowitz, 2014).

Precedenti ricerche (Abrams, 1986; Bryan et al., 2004) hanno rilevato che i bambini con disturbi dell’apprendimento sperimentano problemi emotivi collegati alle loro difficoltà di apprendimento, vivono stati emotivi che penalizzano ulteriormente le loro capacità di apprendimento, soffrono maggiormente di solitudine e depressione rispetto ai loro coetanei senza LDs (Maag & Reid, 2006) e presentano deficit di attenzione, bassa self-confidence, iperattività, scarsa concentrazione, oltre che problemi relazionali con i pari (Hassan, 2015).

Tuttavia, recentemente, con la diffusione delle tecnologie di informazione e comunicazione (ICT) sono stati riportati dei significativi miglioramenti nella qualità di vita di questi individui, in quanto si è rilevato un aumento della motivazione e della produttività sia a casa che in classe (Adam & Tatnall, 2017) una riduzione delle emozioni negative associate alla loro particolare condizione ed un aumento dell’autostima (Adam & Tatnall, 2010).

A partire da queste premesse e alla luce della crescente sensibilità per tali tematiche, il presente studio (Ouherrou et al., 2019) si propone di approfondire i precedenti risultati indagando le emozioni sperimentate dai 42 partecipanti selezionati, confrontando le emozioni del gruppo sperimentale (con LDs) con quelle del gruppo di controllo (non LDs).

Entrambi i gruppi sono stati sottoposti allo svolgimento di un gioco educativo sviluppato da Benmarrakchi et al. (2017c), in cui sono presenti una serie di compiti specifici da svolgere, che sottendono specifiche abilità di apprendimento, ed attraverso l’utilizzo del riconoscimento dell’espressione facciale basato sulle reti neuronali convoluzionali (CNN; Hammoumi et al., 2018), è stato possibile rilevare i tipi di espressioni facciali (rabbia, disgusto, paura, felicità, tristezza, sorpresa e neutrale) usate da ciascun individuo durante lo svolgimento del compito e confrontare le emozioni dei due gruppi di bambini.

I risultati riportano che non sono presenti differenze significative tra le emozioni sperimentate dai bambini con LDs rispetto a quelli senza LDs, ma che ciascun bambino sperimenta emozioni diverse in base alla propria personalità e all’ambiente di apprendimento, indicando che l’ambiente fisico, oltre che il supporto emotivo e gli strumenti disponibili, sono importanti per facilitare l’apprendimento dei bambini, anche e soprattutto in quelle condizioni in cui ci sono dei disturbi dell’apprendimento.

In conclusione, l’attenzione per la valutazione e la comprensione di queste problematiche deve essere sempre crescente, in modo da dare la possibilità a ciascun individuo di rendere il proprio apprendimento effettivo, tenendo sempre in considerazione il riconoscimento dello stato emotivo per poter programmare i compiti di apprendimento in base ad esso.

 

cancel