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Accompagnamento alla gravidanza e sostegno alla genitorialità – VIDEO del secondo incontro

Scuola Cognitiva di Firenze, in associazione con Studi Cognitivi, ha presentato un percorso divulgativo online in due appuntamenti rivolto a futuri genitori e genitori per aiutarli ad approfondire la conoscenza del proprio mondo emotivo e cognitivo e di quello dei propri figli. Pubblichiamo il video del secondo incontro.

 

La gravidanza e il divenire genitori portano con sé una serie di cambiamenti nella vita individuale e di coppia: la costruzione dei ruoli e dell’identità di madre e di padre, la ridefinizione del rapporto di coppia, le emozioni e i vissuti psicologici associati al divenire genitori, l’instaurarsi di una prima relazione con il bambino.

I due incontri, organizzati da Scuola Cognitiva di Firenze, sono stati pensati con l’intento di offrire un percorso di informazione e di crescita personale per genitori e futuri genitori, percorso che potesse accompagnarli e sostenerli nell’attesa e nella conoscenza del proprio bambino con maggior consapevolezza, serenità e naturalezza.

Per i nostri lettori pubblichiamo il video del secondo appuntamento, condotto dalle dott.sse Elisa Moretti e Stefania Righini. Tema dell’incontro è lo stile di attaccamento genitoriale e la sua influenza nella relazione con i propri figli.

 

 

ACCOMPAGNAMENTO ALLA GRAVIDANZA E SOSTEGNO ALLA GENITORIALITÀ

Guarda il video integrale del secondo incontro:

 

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Monogamia e tradimenti: paradigmi mutevoli nel tempo – Una serie di Roberto Lorenzini

Oggi pubblichiamo il sesto lavoro della serie di Roberto Lorenzini, dedicata al tema della monogamia e delle sue implicazioni psicologiche, affettive, relazionali e, perché no, sessuali. Lorenzini propone una tesi forte: la monogamia non funziona. E prosegue il suo racconto esplorando le vicissitudini dei paradigmi dell’accoppiamento umano.

MONOGAMIA E TRADIMENTI – (Nr. 6) Paradigmi mutevoli nel tempo

 

 Fino alla metà del ‘900 il tema dell’amore e della sessualità ha avuto come paradigma di riferimento la coppia eterosessuale stabile. Tutto il resto dell’esperienza sessuale ed amorosa, che pure è sempre esistito, quanto e più di oggi, veniva descritto come uno scostamento da questa tendenza mediana considerata il golden standard quantunque probabilmente non sia mai stata effettivamente la moda in senso statistico. A questi scostamenti si associavano forti emozioni negative come la colpa e la vergogna che tendevano ad estinguerli ed altre positive come il brivido del proibito e l’orgoglio adrenergico della trasgressione che li rinforzavano. Con la rivoluzione informatica e l’avvento del web la circolazione delle informazioni e la contaminazione dei modelli culturali si è fatta rapidissima e contemporaneamente si sono moltiplicate le occasioni di comunicazione e di incontro. Tutto ciò ha modificato radicalmente i modelli di legame affettivo sessuale per comprendere i quali si deve rinunciare a ridurli a variazioni o perversioni dell’antico golden standard. Proviamo a descrivere possibili scenari della sessualità e affettività attuale e del futuro, senza pretesa di essere esaustivi essendo infinite le possibilità della creatività umana e sospendendo il giudizio che poi ciascuno per sé dovrà esercitare per scegliere cosa più si addice al proprio modo di stare al mondo rifuggendo sia dal bias del primato della tradizione che dal suo opposto che attribuisce positività a tutto ciò che è nuovo.

Gli amanti sono sempre esistiti (Carotenuto, 2017; Cortese, 2014) e sono abbondantemente rappresentati nella letteratura di tutto il mondo. Il legame tra amanti è del tutto simile a quello matrimoniale, non si limita all’attività sessuale e può durare per tutta l’esistenza. Ricca è l’aneddotica circa l’incontro di numerose vedove che si ignoravano intorno alla salma o alle disposizioni testamentarie di ‘Lui’ (meno frequente l’incontro di due vedovi per la premorienza degli uomini). A volte si strutturano vere e proprie famiglie parallele con figli e nipoti che sono a conoscenza gli uni degli altri e possono anche avere buoni rapporti fin quando gli interessi ereditari non li separano. Per rimanere in Italia sono molto noti alcuni casi nel mondo dello spettacolo del ‘900. E’ più facile che ciò si realizzi intorno ad una persona molto ricca e/o molto potente.

Altrettanto antica è la cosiddetta ‘scappatella’, o, nella sua forma contratta, ‘una botta e via’ in cui è invece proprio l’aspetto sessuale ad essere decisivo. E’ meglio tollerata nell’uomo che nelle donne.

Più recente è il concetto di ‘trombamicizia’ che, come indica il nome, unisce all’asse portante dell’amicizia la possibilità di rapporti sessuali sporadici e senza obbligo di esclusività. I due sono e restano amici e si sostengono nelle rispettive ricerche di partner ma talvolta si consolano reciprocamente come proponeva Lucio Battisti in ‘Una donna per amico’.

Se questi sono i format tradizionali, per avere un idea di ciò che succede oggi è sufficiente tener conto di tre fattori acceleratori: la presenza del web che amplia i confini e velocizza i contatti recuperando al mercato globale, grazie all’anonimato, tutti i timidi; la moltiplicazione delle possibilità data dalla legittimazione dell’omosessualità e della bisessualità; l’arretramento relativistico di ogni morale fino all’ultimo (comunque insidiato dalle associazioni per i diritti dei pedofili) baluardo della consensualità tra adulti, in nome della propria autorealizzazione e del piacere.

Tutto ciò capita che ci piaccia o no. Non è né un bene né un male, ma possiamo vederlo come una occasione per essere ancora più umani esercitando il libero arbitrio al di là di chiese di ogni tipo e morali preconfezionate. La libertà impone un delta aggiuntivo di coscienza (Bateson 1969).

 

La gravidanza nelle pazienti psichiatriche

Data la difficoltà degli studi nello stabilire se la gravidanza possa o meno giovare alle donne che hanno sofferto o soffrono di disturbi psichici, le attuali linee guida propendono per una programmazione ad hoc della gestazione. 

Francesca Falco – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Introduzione

L’inizio della gestazione si caratterizza, oltre che per un importante cambiamento nello stile di vita e nella forma del corpo, per un enorme cambiamento dell’assetto ormonale, il quale influisce sull’umore della donna, che gradualmente dovrà imparare a gestire la nuova produzione di ormoni. Se per una donna che non ha mai avuto esordi psicopatologici questo rappresenta un momento di difficoltà, che richiede pazienza e utilizzo di risorse per adattarsi ai molteplici cambiamenti della gestazione, per le donne che hanno avuto precedenti difficoltà psichiatriche, questo può rappresentare un’enorme sfida. Questi cambiamenti, infatti, da una parte possono causare una parziale o totale inefficacia della terapia farmacologica, che va rivista e modificata, dall’altra possono incidere sull’umore e sul comportamento della gestante, causando a volte notevoli difficoltà.

Gli studi sulla gravidanza attualmente non hanno ancora permesso di comprendere se questa fase della vita possa rappresentare un fattore protettivo verso esordi o recidive psicopatologici, o se, al contrario, possa rappresentare un fattore di rischio: mentre alcuni riportano un’attenuazione delle difficoltà legate a precedenti psicopatologie, altri evidenziano la loro esacerbazione, nuovi esordi o recidive di precedenti disturbi. L’azione protettiva o esacerbante della gravidanza sembra essere legata ad una molteplicità di elementi: storia di vita, tratti di personalità, status sociale ed economico, numero di gravidanze precedenti, possono intervenire nella prognosi psichica della gestante, sia in termini positivi, sia negativi.

Data la difficoltà degli studi in tal proposito nello stabilire se la gravidanza possa o meno giovare alle donne che hanno sofferto o soffrono di disturbi psichici, le attuali linee guida propendono per una programmazione ad hoc della gestazione. Tale spazio di manovra presenta una serie di vantaggi importanti nella tutela della salute fisica e psicologica di mamma e bambino: in accordo con il clinico, infatti, le pazienti possono rimodulare in anticipo la terapia farmacologica o sospenderla, se il quadro clinico della paziente lo permette, in favore della sola psicoterapia, riducendo il più possibile gli effetti dannosi che gli psicofarmaci potrebbero avere sul feto, senza incidere negativamente sull’equilibrio psichico della gestante (Cartabellotta et al., 2015).

Non è ancora chiaro quindi se la gravidanza sia effettivamente un pericolo per le donne che hanno precedentemente sofferto di disturbi psichiatrici o se, al contrario, sia un fattore protettivo, ma si è reso necessario individuare le strategie necessarie a permettere loro di vivere la maternità e, prima di essa, la gravidanza, con il maggior grado di sicurezza possibile, al fine di garantire loro il diritto alla maternità, senza rischiare che sia il bambino a pagarne il prezzo.

Effetti della gestazione sulla paziente psichiatrica: rischi peri- e post-natali

Come indicato dalle linee guida, essere affette da psicopatologia implica che la gravidanza debba essere attentamente programmata per ridurre al minimo il rischio di recidiva, peggioramento sintomatologico o, in caso di terapia farmacologica, effetti dannosi su feto e madre.

Ma cosa accade ad una gestante che, prima della gravidanza, aveva disturbi psichici?

I principali disturbi psichici analizzati dalla letteratura nel periodo gravidico sono i disturbi d’ansia, i disturbi dell’umore, il disturbo bipolare, i disturbi alimentari e la schizofrenia.

I disturbi d’ansia sono i più diffusi tra le gestanti, ma anche i meno individuati dai clinici: spesso è difficile diagnosticare un peggioramento della sintomatologia o un nuovo esordio in gravidanza, poiché la tendenza dei clinici che circondano la gestante è quella di attribuire la preoccupazione ad una normale condizione di cambiamento della donna. La fisiologica preoccupazione, però, è ben distante dalla preoccupazione patologica, che invece può essere fonte di forte stress per la donna in attesa. Prendendo in analisi il Disturbo di Panico, molti studi sembrano dimostrare che la gestazione abbia effetti molto diversi a seconda di come si presentava la sintomatologia prima della gravidanza: secondo Cohen e colleghi (1996) i sintomi tendono a migliorare quando la precedente sintomatologia era lieve, mentre tendono a peggiorare se prima della gravidanza la donna presentava sintomi più severi. Questo aspetto potrebbe essere influenzato anche dalla produzione ormonale tipica della gravidanza che, con l’aumento di estradiolo e progesterone, produce un effetto ansiolitico; tali livelli ormonali subiscono un crollo circa 4 o 5 giorni dopo il parto, aumentando la possibilità di un peggioramento repentino nel post partum (Cohen et al., 1994; Klein et al., 1994; Reddy et al., 2005). Come per il Disturbo di Panico, anche per il Disturbo d’Ansia Generalizzato, la produzione di estradiolo e progesterone sembra proteggere le donne da una possibile esacerbazione della sintomatologia, sebbene possano persistere pensieri di tipo ansioso, con la sola eccezione di sintomi come ipoventilazione e tachicardia, che possono peggiorare in gravidanza, soprattutto in risposta ai cambiamenti corporei (Cowley, 1989). Il Disturbo Ossessivo-Compulsivo, invece, sembra essere messo a dura prova dalla gestazione: secondo Neziroglu e colleghi, la sintomatologia sicuramente peggiora, andando a interferire, in base al tipo di comportamento messo in atto in risposta all’ossessione, con il decorso della gravidanza (Neziroglu et al., 1992).

Anche per i disturbi dell’umore, il corretto inquadramento diagnostico è più complesso durante la gestazione: alcuni segni tipici della depressione, come astenia, cambiamenti di peso o difficoltà legate al ciclo del sonno, possono essere erroneamente confusi con segni tipici della gravidanza. In realtà, il tasso di depressione in gravidanza mostra una prevalenza del 7% al primo trimestre, 12,8% al secondo e 12% al terzo (Bennet et al., 2004); tra i fattori di rischio, uno dei più importanti consiste proprio nell’avere una precedente storia di episodi depressivi e/o di depressione post natale (Ryan, Milis, Misri, 2005). Un aspetto interessante riguarda il fatto che la depressione prenatale e quella postnatale sembrano mostrare configurazioni tipiche, che permettono di porre l’accento su differenti aspetti sintomatologici in base alla fase in cui si trova la donna: Kammerer e colleghi (2006) hanno individuato sintomi tipici della depressione melanconica nel periodo della gravidanza, con insonnia, iporessia e scarsa reattività del tono dell’umore, associata ad aumento dei livelli di cortisolo, mentre la depressione postnatale sembra più simile alla depressione atipica, con ipersonnia, labilità emotiva e iperfagia, associata ad una riduzione dei livelli di cortisolo (Kammerer, Taylor, Glover, 2006).

Episodi depressivi, inoltre, sembrano manifestarsi durante la gravidanza similmente a quanto avviene normalmente (APA, 2013), con la peculiarità di riportare contenuti ed eventuali deliri alla dimensione materna, al futuro accudimento del bambino, all’insicurezza circa il diventare madre (Giardinelli et al., 2008). Da non sottovalutare, inoltre, il rischio che caratterizza le gestanti che hanno scelto di interrompere il trattamento farmacologico per programmare il concepimento: secondo uno studio di Cohen e collaboratori (Cohen et al., 2006), infatti, nel 68% dei casi, queste donne vanno incontro a ricadute durante la gravidanza, soprattutto nel primo trimestre.

Per quanto riguarda il disturbo bipolare, la letteratura sembra avere pareri contrastanti circa il suo miglioramento o, al contrario, peggioramento, durante la gestazione (Freeman, Gelenberg, 2005). Ciò che invece appare evidente è la necessità di non interrompere la terapia autonomamente: secondo lo studio di Viguera e colleghi (Viguera et al., 2007), le donne che sospendono bruscamente la terapia a base di stabilizzatori dell’umore, presentano il doppio delle possibilità di ricadute rispetto alle donne che proseguono la terapia. D’altro canto, considerando le possibili interferenze sullo sviluppo del feto, l’ideale sarebbe poter optare per una sospensione graduale della terapia nel primo trimestre di gravidanza, soluzione adottabile per quelle donne che hanno avuto lunghi periodi di remissione della sintomatologia prima del concepimento.

Nelle donne affette da schizofrenia, spesso la gravidanza non è programmata, ma è piuttosto frutto di comportamenti sregolati, basse condizioni socioeconomiche, tendenza all’impulsività o promiscuità. In queste donne, il rischio maggiore è imputabile all’imprevedibilità dell’impatto che la gestazione può avere sulle loro condizioni psichiche (Howard, 2005): comportamenti disregolati, abuso di alcol e fumo, carenza di cure prenatali, scarsità di igiene personale sono solo alcune delle manifestazioni che potrebbero emergere durante la gestazione. Il periodo puerperale, inoltre, rappresenta un ulteriore momento delicato, che può vedere l’esacerbarsi dei deliri e dei comportamenti disorganizzati (Chandra et al., 2006). Tuttavia, la letteratura evidenzia come la maternità possa provocare un miglioramento sulla salute psichica della donna, che vede modificare il proprio status all’interno della famiglia, ridurre lo stigma sociale e generalmente ottenere un allargamento della propria rete di supporto, aspetti che migliorano lo stato della paziente (Craig & Abel, 2001). Tutto questo impone un’attenzione particolare verso le donne schizofreniche, sia nel periodo prenatale, sia in quello puerperale, con interventi diretti e specifici che tutelino la salute di madre e figlio.

In donne con storia di disturbi alimentari, la gravidanza rappresenta un momento di notevole difficoltà, in cui ci si confronta con quegli aspetti che hanno rappresentato il nucleo di un periodo difficile: l’aumento di peso, il cambiamento della forma del proprio corpo, il nuovo ruolo sociale e il cambiamento della relazione con le proprie figure genitoriali. Tutto questo può riaccendere il disturbo, portando a nuove condotte restrittive e di eliminazione (Mitchell, Bulik, 2006) che possono provocare l’aborto, o determinare basso peso alla nascita, prematurità e necessità di ricorrere al parto cesareo (Crow et al., 2004). Un’attenzione particolare è necessaria nelle donne che hanno ottenuto un miglioramento o una remissione della sintomatologia nel periodo gestazionale: per queste donne, il periodo del puerperio, potrebbe rappresentare un momento di recidiva importante, per la fretta di recuperare il corpo e il peso desiderati (Lacey, Smith, 1987).

La gravidanza rappresenta di per sé un importante fattore di stress, che come tale può rappresentare un importante fattore eziologico nello sviluppo di disturbi psichici in donne che presentano aspetti di vulnerabilità. L’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA), tipicamente iperattivata in condizioni di stress, può avere importanti effetti sullo sviluppo del feto e può indurre un parto prematuro (Glover, O’Connor, 2002; Kurki et al., 2000); condizioni di depressione o ansia, tipicamente le più frequentemente riscontrate durante la gestazione, possono attivare l’asse HPA, producendo le conseguenze tipiche dello stress prolungato (Brockington, Macdonald, Wainscott, 2006).

Da non sottovalutare è anche il concetto di Attaccamento Prenatale (APN), che si riferisce allo sviluppo di un legame basato sul concetto di accudimento della madre verso il bambino che nascerà: questo aspetto, che costituisce una primordiale forma di relazione tra madre e bambino, è considerata prognostica del rapporto che i due avranno dopo il parto. Oltre a costituire un importante indicatore per lo sviluppo della relazione nel post partum, fornisce anche indicazioni circa la capacità di prendersi cura del bambino e la sua sensibilità nell’interazione (Della Vedova, 2005). L’APN sembra evolversi e crescere con l’aumentare dell’età gestazionale: potendo vedere il proprio bambino crescere attraverso le ecografie prenatali e potendolo man mano sentire sempre più presente nel proprio ventre, le future mamme sembrano investire sempre di più emotivamente nel bambino (Barone, 2014; Della Vedova, 2008). Recenti studi hanno indagato la possibilità che tale costrutto possa essere influenzato da aspetti più prettamente clinici, come ansia o depressione. In particolare, si è visto che, mentre i sintomi depressivi possono interferire con l’intensità dell’APN (Barone, 2014), l’ansia, soprattutto in casi di sintomatologia severa, può determinare una tendenza alla distrazione della madre rispetto ai bisogni del proprio bambino (Hopkins, 2018). Un aspetto importante dell’Attaccamento Prenatale è la possibilità di utilizzarlo, tra gli altri, come parametro per individuare precocemente quelle situazioni in cui si ha un maggiore rischio di stress genitoriale (Mazzeschi, 2015) o di sviluppo di depressione post partum (Alhusen, 2013), potendo così intervenire precocemente sulla madre e sulla coppia.

È importante inoltre ricordare che il periodo della gestazione di per sé è caratterizzato da una serie di indicazioni cliniche che scandiscono il periodo della gestazione in maniera continua e regolare: vitamine, integratori, visite di monitoraggio, screening prenatali e analisi di vario tipo, diventano una routine nella donna in attesa. Questo aspetto, che di per sé può rappresentare un elemento di stress, potrebbe diventare ancora più gravoso in quelle donne che devono sottoporsi a psicoterapia o che, continuando ad assumere psicofarmaci, devono essere monitorate costantemente. Tutto questo potrebbe, oltre che causare stress, influire sulla compliance terapeutica, portando la donna a saltare le sedute o a dimenticare o rifiutare il farmaco. Una buona psicoeducazione e un costante supporto psicologico sono fondamentali nel monitorare la salute della donna e mantenere un buon grado di compliance nelle terapie.

Possibili conseguenze della terapia farmacologica

Non sempre è possibile, per la donna che pianifica una gravidanza, abbandonare del tutto la terapia farmacologica: come tutelare allo stesso tempo la salute psichica della paziente e quella del nascituro? Dato che la maggior parte degli psicofarmaci ha la capacità di interferire, anche gravemente, sullo sviluppo del feto, la terapia farmacologica dev’essere attentamente rimodulata. La scelta del clinico, quindi, potrà procedere su due strade: modificare il farmaco o modificare il dosaggio.

L’elemento fondamentale da tenere in considerazione è da una parte la salute psichica della donna, dall’altra la tossicità del farmaco per il feto: il cambiamento o la sospensione della terapia, infatti, devono tener conto sia delle conseguenze dirette sulla salute di madre e bambino, sia sulle conseguenze che potrebbe comportare un peggioramento della sintomatologia materna in termini di comportamento. Se il farmaco ha la capacità di attraversare la placenta e influire sullo sviluppo del feto, è importante considerare quanto può incidere sul benessere del piccolo e, in quest’ottica, è importante tenere conto dell’età gestazionale, che fornisce indicazioni circa lo stadio di sviluppo del piccolo e, di conseguenza, le possibili implicazioni dell’assunzione di un determinato farmaco durante quel periodo della gravidanza.

In considerazione di questi elementi, gli studi dimostrano che tra gli antidepressivi, psicofarmaci notevolmente diffusi, possono avere effetti importanti sul feto: secondo una recente review (Goracci et al., 2015), gli antidepressivi possono avere effetti teratogeni e impattare negativamente sulla crescita del feto, provocando nel 30% dei casi una sindrome astinenziale nel neonato, caratterizzata da pianto frequente, tremori, difficoltà nel ciclo del sonno, ipertonicità o mioclono, tachipnea, disturbi gastrointestinali; questa sintomatologia tende a risolversi autonomamente nel 70% dei casi in circa 3-5 giorni dalla nascita (Levinson-Castiel et al., 2006; Ferreira et al., 2007). L’effetto negativo degli antidepressivi sul feto è imputabile alla capacità del farmaco di attraversare la placenta, arrivando ad essere presente nel sangue del piccolo: la concentrazione del farmaco nel sangue fetale sembra essere proporzionale a quella della madre, ad eccezione di alcune molecole. Dato l’aumentato rischio di ricadute depressive per le donne che sospendono improvvisamente la terapia farmacologica, prossimo al 70%, con conseguente scarsa adesione ai controlli di routine e alterazione dello stile di vita (Bellantuono et al., 2006), risulta fondamentale utilizzare questi dati per modificare il trattamento in favore, laddove possibile, di una molecola meno dannosa per il feto. Secondo la review citata, gli antidepressivi con maggiori effetti dannosi sembrano essere i SSRI (Goracci et al., 2015).

Le benzodizepine, comunemente associate all’uso ansiolitico, sono tra i farmaci più sconsigliati durante la gestazione: la psicoterapia si è dimostrata parimenti efficace, al punto da poterne sostituire gli effetti, soprattutto in considerazione della probabilità di provocare parto prematuro, basso peso alla nascita e difficoltà respiratorie (Yonkers, Gilstad-Hayden, Forray, Lipkind, 2017).

Per gli antipsicotici gli effetti avversi sullo sviluppo del feto sono molteplici e differenziati a seconda della molecola: tutti i farmaci appartenenti a questa categoria attraversano la barriera placentare, andando a determinare una concentrazione del farmaco nel sangue fetale. Si è visto che tutti i farmaci antipsicotici possono avere effetti teratogenici nel primo trimestre e che i neurolettici possono avere effetti dannosi sul feto anche nel secondo e terzo trimestre (Grover, Avasthi, Sharma, 2006): data la mole di dati a disposizione, nel caso in cui si ritenga necessario mantenere la terapia farmacologica, la preferenza è quella dei neurolettici tipici, che a dosaggi minimi sembrano essere quelli con il minor rischio di danni sullo sviluppo del feto (Yaeger, Smith, Altshuler, 2006).

In considerazione di tutti questi elementi, appare evidente la difficoltà del clinico nella scelta del trattamento terapeutico in un momento tanto delicato, soprattutto se la gravidanza non è stata attentamente pianificata, preparando la paziente in anticipo al periodo della gestazione e ad un eventuale cambiamento della terapia.

In quest’ottica, fondamentale è la presenza della psicoterapia, che permette sia di monitorare la donna, per scongiurare eventuali ricadute, contenendo il cambiamento e lavorando sull’accettazione dei cambiamenti in corso, sia di intervenire come sostituto o coadiuvante del farmaco, riducendo il rischio che si manifesti nuovamente il disturbo o che intervenga un nuovo episodio psichiatrico. Altro aspetto fondamentale della psicoterapia è l’intervento sulla coppia, che permette di lavorare sia in termini di preparazione alla genitorialità, sia in termini di ‘lavoro di squadra’ nel supporto alla futura madre, andando a ridurre il rischio di compromissione della compliance e, di conseguenza, di ricaduta psichiatrica.

Conclusioni

Tenendo conto dei dati che la letteratura nazionale e internazionale ha fornito, sono state messe a punto delle specifiche linee guida per l’intervento con le donne affette da psicopatologia durante la gestazione, utili per guidare la pratica clinica dei professionisti sanitari che intervengono nella cura delle donne con patologie psichiatriche nel periodo della gestazione (NICE, 2014). Le linee guida insistono su pianificazione, modificazione della terapia farmacologica con, dove possibile, abbandono del farmaco in favore della psicoterapia, screening psicologico periodico e supporto psicologico costante durante e dopo la gravidanza.

Proprio il supporto psicologico sembra essere lo strumento di elezione per la prevenzione di ricadute e di nuove psicopatologie nella gravidanza e nel puerperio e rappresenta l’unica possibilità di intervento tempestivo in caso di manifestazione di sintomi ‘sentinella’.

Il supporto, che consiste nel creare un momento di riflessione e di dialogo per mamme e papà, rappresenta anche un momento di costante psicoeducazione e di costruzione dello spazio affettivo per il bambino. Attraverso questi interventi, si aumenta nei futuri genitori la conoscenza di quanto avverrà, preparandoli ad affrontare il cambiamento, ma allo stesso tempo si permetto loro di creare gradualmente un bagaglio di capacità genitoriali che rendono maggiore la percezione di autoefficacia. Un ulteriore aspetto del supporto consiste nel riconoscimento e validazione delle emozioni che caratterizzano questo periodo, dando spazio sia a quelle positive, sia a quelle negative, e lavorando allo sviluppo delle abilità necessarie ad affrontare la nuova sfida della genitorialità. Da non sottovalutare, inoltre, la capacità di individuare, durante il supporto, situazioni a rischio, permettendo quindi l’inserimento dell’intervento terapeuti, laddove risulti necessario.

Altro importante strumento nella prevenzione e nell’intervento tempestivo, è il supporto nel puerperio: spesso concepito come prosecuzione del supporto gestazionale, sempre più spesso tale servizio accompagna le neomamme anche nel primo periodo di vita del bambino. Si tratta sia di un valido aiuto nell’esprimere ed elaborare il proprio vissuto di madre, condividendo dubbi, paure e difficoltà del nuovo ruolo di genitore, sia di un momento di monitoraggio, che consente, ancora una volta, di individuare eventuali segnali allarmanti e di intervenire su di essi prima che vadano a costituire un disturbo vero e proprio.

Perché non rispettiamo le regole? Una ricerca dell’Università La Sapienza di Roma

Con la diffusione del Covid-19 ci è stato richiesto di seguire alcune regole che fossero d’aiuto al contenimento del contagio a tutela della nostra e dell’altrui salute. In nome di un più grande bene comune, è stato chiesto alle persone di sacrificare i propri diritti personali per contribuire alla sicurezza collettiva.

 

Eppure oggi sembra che uno dei maggiori alleati di questo virus, che gli consente di continuare a diffondersi con numeri ancora considerevoli, siamo proprio noi, o meglio il comportamento di chi tra noi decide di non seguire le regole.

Sembra impossibile aver già dimenticato i morti dei mesi scorsi, la disperazione dei parenti ai quali non è stato consentito neppure di salutarli, eppure oggi c’è chi ridimensiona o addirittura nega contro ogni logica, l’effettiva portata di questa pandemia.

Oggi uno studio dell’Università La Sapienza di Roma, condotto e coordinato dal Professor Guido Alessandri e pubblicato sulla rivista Frontiers of Psychology, ha indagato le caratteristiche psicologiche e i determinanti psico-sociali alla base del rispetto delle regole durante l’esplosione della pandemia del COVID-19.

A cosa servono le regole

Le regole servono a dare ordine all’ambiente che ci circonda. Rendono possibile la vita sociale, tutelano i più deboli, definiscono il rispetto anche sacrificando una parte della libertà individuale per un superiore interesse della collettività. Fare proprie le regole di un gruppo significa integrarsi, imparare a collaborare e sentirsi sicuri.

In realtà a tutti è capitato di trasgredire a qualche regola anche la si ritiene giusta. Vi siete mai trovati ad attraversare con il semaforo rosso? Eppure non esitereste ad affermare che sia un’azione sbagliata.

A questo punto si presenta un problema: in noi nasce un conflitto tra quello che riteniamo giusto e quello che effettivamente è il nostro comportamento. Come conciliare le due cose?

Per evitare sensi di colpa che ledono la nostra autostima e fanno insorgere ulteriori sensi di colpa tendiamo a giustificare i nostri comportamenti mettendo in atto un meccanismo di “disimpegno morale”, una strategia cognitiva che crea una frattura tra giudizio morale e condotta.

In particolare si vedono queste conseguenze:

  • una nuova descrizione del comportamento che, visto sotto una nuova luce, da scorretto diventa comprensibile se non addirittura appropriato;
  • una distorsione del rapporto causa – effetto;
  • una rivalutazione della vittima, che assume connotati fino a diventare responsabile della nostra condotta.

Gli studi sul disimpegno morale hanno inoltre dimostrato che essere in grado di riconoscere i propri obblighi morali e di distinguere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato non sempre comporta la volontà e la capacità di comportarsi di conseguenza.

Come si è svolta la ricerca

I dati per la ricerca sono stati raccolti nel periodo tra il 22 marzo e il 6 aprile, durante la prima fase della pandemia, su un campione di 1520 partecipanti sparsi sul territorio. Ad essi è stato sottoposto un questionario attraverso il quale dovevano dichiarare la frequenza con cui erano usciti di casa durante quel periodo e se si fossero o meno attenuti alle regole imposte dal governo.

Lo studio

Lo studio ha permesso di identificare nel disimpegno morale e nella fiducia sociale generalizzata il ruolo di predittori prossimali di comportamenti che rispettano le regole.

Le cause che hanno influenzato le scelte di comportamento sono state sostanzialmente tre:

  • il disimpegno morale ha mediato la relazione tra stabilità emotiva, narcisismo, psicopatia e allontanamento sociale, trovando giustificazioni laddove non si sono rispettate le regole;
  • il grado di fiducia nel governo ha influenzato il livello di allontanamento sociale, favorendo il non rispetto delle regole nel caso in cui la fiducia fosse carente;
  • la fiducia sociale generalizzata ha moderato l’effetto indiretto dei tratti della personalità sui comportamenti che rispettano le regole attraverso il disimpegno morale.

Quando le persone si impegnano in comportamenti che contravvengono ai loro standard personali, sperimentano generalmente un effetto negativo prodotto dallo stato di dissonanza cognitiva generato dal contrasto tra le loro azioni e i loro principi. Per contrastare questo stato emotivo negativo spiacevole e spesso insopportabile, le persone ricorrono come abbiamo visto ad una serie di strategie cognitive volte a svincolarsi dalle sanzioni morali di tale comportamento. È importante sottolineare che queste manovre non avvengono necessariamente dopo aver commesso la trasgressione, ma sono spesso anticipatrici e mirano a ridurre i sentimenti di presunta colpevolezza.

Il disimpegno morale può essere innescato in ambienti moralmente permissivi, in cui l’interesse personale dei singoli individui viene anteposto all’obbedienza ai valori della società. Più gli individui coinvolti nell’esperimento hanno percepito il restare a casa come mezzo per raggiungere un obiettivo comune perseguito collettivamente insieme a tutti gli altri concittadini, più avranno cercato di rispettarlo.

Allo stesso modo, più i cittadini avranno avuto fiducia nelle decisioni imposte dal loro governo, più si saranno impegnati nel rispettarle e più avranno considerato moralmente inaccettabile trasgredire.

I tratti di personalità

Il disimpegno morale e le fiducia sociali e politiche non sono quantità fisse possedute allo stesso modo da tutti gli individui appartenenti a un determinato contesto sociale. Studi precedenti hanno infatti dimostrato che la variazione nelle risposte degli individui al disimpegno morale può essere attribuita a differenze individuali di base nei modi di pensare, di sentire, di comportarsi, vale a dire i tratti della personalità.

Un ruolo fondamentale – spiega il Prof. Alessandrini – è giocato dalle disposizioni di base delle persone. I tratti della personalità possono determinare le scelte comportamentali influenzando la tendenza degli individui a disimpegnarsi moralmente ossia ignorare le regole senza mostrare disagio, vergogna o rimorso, arrivando a trovare una piena giustificazione delle loro azioni. Chi aveva più alto livello di disimpegno sociale ha riferito di aver violato più frequentemente le regole di isolamento o distanziamento.

A fronte delle disposizioni di base di ciascuno, il disimpegno morale, la fiducia negli altri e soprattutto nel governo sono dei potenti incentivi o disincentivi al rispetto delle regole. Rappresentano delle leve psicologiche fondamentali che nelle fasi avanzate della gestione della pandemia sempre più fanno affidamento sulle capacità di auto regolamentazione degli individui e sempre meno sulla stretta regolamentazione del loro comportamento.

In conclusione, è interessante notare che nello studio è stato scoperto che il livello di disimpegno morale mostrava una tendenza significativa ad aumentare con il passare dei giorni e ad essere negativamente associato all’aumento del numero di persone infette.

 

Effetto alone: esiste nello sport?

L’effetto alone, ben conosciuto in psicologia sociale, è stato a studiato poco nel contesto sportivo, anche se si può ipotizzare che possa essere utile per comprendere come gli appassionati di sport pensano e si comportano.

 

L’effetto alone è una distorsione cognitiva che consiste nell’applicare tratti ben conosciuti di una persona per trarre conclusioni su altre caratteristiche sconosciute. Ciò si verifica quando un’impressione globale o informazioni su un attributo saliente influenzano come gli altri attributi vengono giudicati (Hickman & Lawrence, 2010; Gräf & Unkelbach, 2016).

L’effetto alone funziona in due direzioni: da un lato, l’informazione positiva produce una valutazione positiva degli altri attributi, dall’altro lato, l’informazione negativa tende a portare a un giudizio globale piuttosto negativo (Gräf & Unkelbach, 2016).

L’effetto alone, ben conosciuto in psicologia sociale, è stato studiato poco nel contesto sportivo, anche se si può ipotizzare che possa essere utile per comprendere come gli appassionati di sport pensano e si comportano.

Uno studio recente (Nufer, 2019) ha indagato un aspetto che interessa sia la teoria che la pratica del marketing sportivo: c’è un effetto alone nello sport? Il successo sportivo o il fallimento di una squadra di calcio professionistica irradiano o addirittura eclissano altri aspetti legati o non legati allo sport e influenzano o distorcono il modo in cui il club è percepito dai suoi tifosi?

Per rispondere a queste domande sono stati intervistati 4.180 tifosi di sei squadre di calcio della prima lega di calcio tedesca – la Bundesliga – sulla percezione di successo della propria squadra del cuore e la soddisfazione in alcune aree della vita non collegate con lo sport: politica, studio/lavoro, relazione, amici, salute, società, e felicità individuale.

I risultati delle analisi confermano l’esistenza dell’effetto alone anche in ambito sportivo: è infatti presente una distorsione della percezione dei tifosi rispetto a una gamma molto diversificata di aspetti, innescata dal successo sportivo o dal fallimento della loro squadra preferita.

Se la squadra di un individuo gode infatti di successo sportivo, sia gli aspetti della vita legati allo sport che quelli non relativi allo sport sono percepiti dai tifosi come positivi. Quando le squadre ottengono dei buoni risultati sportivi, questo fa sì che i tifosi apprezzino la squadra di più in generale. D’altra parte, se la propria squadra non ha successo, ciò si traduce in una valutazione negativa che investe anche aspetti non legati alla prestazione sportiva.

I club sportivi dovrebbero essere consapevoli dell’esistenza dell’effetto alone sui loro tifosi. Infatti è nell’interesse dei club avere tifosi fedeli alla squadra, ma anche che questi abbiano un impressione complessivamente positiva della società sportiva.

Dallo studio è emerso che i tifosi hanno un’opinione uniforme e coerente sulla valutazione delle prestazioni sportive della propria squadra: in caso di fallimento sportivo della squadra, i tifosi potrebbero manifestare malcontento nei confronti della squadra. Una relazione aperta e onesta – anche nell’ammissione di colpa da parte delle società – tra il club e i gruppi di tifosi potrebbe impedire che tale situazione si verifichi. È consigliabile quindi che i club siano consapevoli del loro attuale vantaggio sportivo nella gestione delle loro comunicazioni con i loro tifosi.

 

Fame emotiva: mangiare per non “sentire”

Stress, tristezza, rabbia, noia, ansia sono solo alcune delle emozioni difficili da tollerare che tentiamo di soffocare con il cibo. Se mangiare sembra la soluzione più immediata e semplice per ‘‘non sentire’’, il rischio di rimanere intrappolati nel circolo vizioso della fame emotiva rappresenta un reale pericolo per la salute.

 

Con il termine ‘‘Fame emotiva’’ si fa riferimento all’incremento nell’introito di cibo in risposta allo stress o a stati emotivi negativi, come ansia e irritabilità (van Strien et al., 2007). La fame emotiva, nonostante preveda l’atto del mangiare, si differenzia dalla fame fisica, ossia la fame propriamente detta. La fame fisica è infatti l’invito del nostro corpo a soddisfare il bisogno fisiologico di nutrirci ed è accompagnato da alcuni segnali fisici di ‘‘richiamo’’ come il brontolio dello stomaco o i capogiri. La fame fisica è un bisogno di mangiare generalizzato che compare in maniera graduale e non richiede un soddisfacimento immediato. La fame emotiva è un impulso urgente a mangiare e richiede la consumazione cibi specifici, i cosiddetti ‘‘comfort food’’, quei cibi ipercalorici o zuccherini che ci permettono di scaricare in fretta la tensione, senza assaporare realmente il gusto del cibo e senza sperimentare quel senso di sazietà che accompagna il soddisfacimento della fame fisica. Senso di colpa e vergogna sono sentimenti che spesso seguono gli episodi di fame emotiva e che, come in un circolo vizioso, alimentano e mantengono lo stato di stress e di malessere a cui l’individuo risponde mangiando (Alberts, Thwissen e Raes, 2012; Elfhag e Rossner 2005; Wong e Qian, 2016).

La fame emotiva si presenta in assenza di una reale fame fisica e non è in linea con i nostri bisogni fisiologici: non nasce dal corpo, ma parte direttamente dalla nostra mente.

Ma come nasce la fame emotiva?

Sembrerebbe che non siano lo stress o l’emozione negativa in quanto tali a determinare un cambiamento nel comportamento alimentare di un individuo, ma piuttosto le modalità in cui queste situazioni vengono gestite (Wiser e Telch, 1999). Se la tendenza a mangiare troppo in risposta alle emozioni negative appaia paradossale da un punto di vista biologico, la mancanza di strategie di regolazione adattiva delle emozioni negative potrebbe invece essere alla base della fame emotiva per due principali ragioni.

Innanzitutto quando sperimentiamo stress o emozioni negative a livello fisiologico il nostro corpo tende a non richiedere cibo, anzi la maggiore attività del sistema nervoso autonomo che accompagna il vissuto emozionale, determina non solo il rilascio di ormoni come le catecolamine che inibiscono l’appetito, ma anche una serie di modificazioni a livello gastroenterologico simili a quelle coinvolte nella sazietà (Schachter, Goldman e Gordon, 1968; Blair, Wing e Wald, 1991).

In secondo luogo, partendo dal presupposto che le situazioni di stress e le emozioni ad esse legate hanno la funzione di preparare l’organismo ad affrontare in maniera adattiva le richieste dell’ambiente (Lazarus e Folkman, 1984), la fame emotiva e quindi l’istinto irrefrenabile di mangiare interferirebbe con la risposta ambientale che le emozioni sollecitano negli individui. Quindi da un punto di vista funzionale, la fame emotiva appare del tutto disadattiva.

Dunque la relazione tra il mangiare e l’emozione sembrerebbe influenzata da particolari caratteristiche di un individuo e in particolare dalla regolazione appresa degli affetti negativi (Greeno e Wing, 1994; Schachter et al., 1968). Sembrerebbe che i cosiddetti ‘‘mangiatori emotivi’’ in risposta agli affetti negativi mangino quantità ingenti di cibo perché hanno imparato che questo comportamento allevia i loro stati d’animo avversivi (Spoor, Bekker, Van Strien e van Heck, 2007).

Il coping è un processo attraverso il quale un individuo cerca di gestire le richieste che sono percepite come stressanti, così come le emozioni che vengono generate (Folkman e Lazarus, 1985). Endler e Parker (1990) hanno individuato tre tipologie di coping predominanti:

  • coping orientato al compito (task-oriented coping): consiste nell’affrontare il problema in maniera diretta, ricercando attivamente soluzioni per fronteggiarlo.
  • coping orientato alle emozioni (emotion-oriented coping): consiste in abilità specifiche di regolazione delle emozioni associate al problema, controllandole o abbandonandosi ad esse (attraverso ad esempio la rassegnazione o la tendenza a sfogarsi)
  • coping orientato all’evitamento (avoidance-oriented coping): consiste nel tentativo dell’individuo di ignorare la minaccia dell’evento stressante mediante la ricerca del supporto sociale (social diversion) o ingaggiandosi in attività che lo possano distrarre dalla situazione (distraction).

Sebbene Lazarus e Folkman (1984) abbiano sostenuto che non esistono stili di coping adattivi o disadattivi a priori, ricerche postume hanno mostrato che il coping orientato al compito e all’evitamento tramite ricerca del supporto sociale siano negativamente correlati o non correlati al disagio psicologico (Endler e Parker, 1990). D’altra parte l’uso di strategie di coping orientate alle emozioni e all’evitamento tramite la distrazione sembrano essere associate a maggiore disagio psicologico (McWilliams, Cox e Enns, 2003; Turner, Larimer, Sarason e Trupin, 2005); in particolare diversi studi hanno sottolineato correlazioni positive del loro utilizzo con diete, abbuffate e comportamenti alimentari disadattivi (Ball e Lee, 2002; Freeman e Gil, 2004; Spoor et al., 2007).

Alla luce di queste considerazioni, le modalità di gestione delle situazioni di disagio sembrano giocare un ruolo importante nella manifestazione della fame emotiva. L’utilizzo di strategie adattive nella gestione delle situazioni di malessere e di stress potrebbe dunque proteggere dal cosiddetto ‘‘mangiare emotivo’’ (Tan e Chow, 2014). Il riconoscimento e l’accettazione delle emozioni (anche e soprattutto negative), la ricerca e l’apprendimento di modalità alternative per affrontare lo stress, l’ansia, la noia o la solitudine, imparando anche a contrastare il desiderio irrefrenabile di mangiare, sono passaggi fondamentali da compiere per interrompere il circolo vizioso della fame emotiva.

 

Serious game. Intervista ad Axel Fox, la sviluppatrice di Freud’s Bones. Il gioco che aiuta ad empatizzare e comprendere l’altro, in un percorso di crescita personale – Lo psicologo del futuro

Con la creazione di Freud’s Bones, Axel ha voluto omaggiare il dottor Sigmund Freud, il padre della psicoanalisi, quel Freud che Axel non vorrebbe mai venisse dimenticato, frainteso o le cui opere d’intelletto venissero sottratte alla sua proprietà e date in pasto a nuovi ricercatori troppo giovani per ricordarsi di lui.

LO PSICOLOGO DEL FUTURO – (Nr. 4) Serious game. Intervista ad Axel Fox, la sviluppatrice di Freud’s bones.
Il gioco che aiuta ad empatizzare e comprendere l’altro, in un percorso di crescita personale

 

Axel Fox (aka Fortuna Imperatore) è una giovane under 30 italiana, laureata in Psicologia, con un master in Antropologia Esistenziale e Filosofia, e con due anni di notti insonni da game designer autodidatta. Axel ha deciso di buttarsi nel mondo dei videogames, sviluppando il suo primo gioco: Freud’s Bones. Il suo percorso di crescita, come quello di ogni grande creatore, è ancora in essere, destreggiandosi tra game design e story telling multimediale. Ed a proposito di grandi creatori, Axel ha voluto omaggiare il dottor Sigmund Freud, il padre della psicoanalisi, quel Freud che Axel non vorrebbe mai venisse dimenticato, frainteso o le cui opere d’intelletto venissero sottratte alla sua proprietà e date in pasto a nuovi ricercatori troppo giovani per ricordarsi di lui. Il famoso Freud che ha cambiato la percezione che oggi Axel ha del mondo e di sé, e che Axel stessa, vorrebbe far conoscere non solo agli psicologi, non solo ai gamer, ma ad un pubblico ben più ampio.

Un Freud nel quale la creatrice di Freud’s Bones si immedesima, un Freud burbero, il quale nelle sue lettere a sé, ad amici e familiari mostra un lato meno conosciuto, un lato meno ostinato ed aperto al nuovo. E Axel di quelle lettere ricorda quasi ogni riga, così come dei suoi saggi e di tutto ciò che Freud ha lasciato in eredità a tutti noi: la sua casa, in Rou de Berggasse 19, Vienna (Austria), in cui svetta il suo celebre divano, tra sigari, tappeti persiani e tanti altri oggetti oggigiorno divenuti icone della psicoanalisi.

L’idea di Axel è nata giocando, rintracciando in famosi videogiochi le riflessioni filosofiche e gli sguardi antropologici e pedagogici che hanno accompagnato i suoi studi. Avrebbe voluto sviluppare un videogioco dedicato a Socrate, per poi procedere con Platone, ma Freud ha avuto la meglio come apriporta di un progetto che probabilmente vedrà grandi personaggi catapultati in un mondo 2D.

Un’altra fonte di ispirazione è stata un’opera di Giacomo Leopardi Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare (1827), in cui Tasso, costretto in carcere per infermità mentale, può solo far ricorso ad una sorta di mind-wandering che lo vede oscillare tra ricordi e spinte desideranti. L’immaginazione di Tasso si manifesta in un dialogo con uno spirito, il Genio familiare. Ed è proprio Leopardi a trarre ispirazione da Socrate per visualizzare un dialogo interno, scandito da uno spirito. Lo stesso Socrate su cui Axel avrebbe voluto sviluppare il suo primo gioco, del quale ne troviamo la distinguibile traccia in un dialogo immersivo che accompagnerà il gioco (scarica gratuitamente la demo cliccando QUI) .

Scaricando la demo è già possibile avere un assaggio del gioco, disegnato in 2D, dotato dell’interfaccia Punta e Clicca, in cui il giocatore può influenzare la propria relazione con Freud in base alle scelte di dialogo. Così come può influenzare la relazione tra Freud ed i suoi pazienti. Il giocatore dovrà così tener presente non solo i turbamenti del padre della psicoanalisi, ma anche i disagi e le possibili reazioni dei personaggi. Alcuni dei quali sono tratti da possibili utenti del gioco. Infatti, Axel per ricevere fondi per il suo progetto ha lanciato una campagna su Kickstarter, in cui è stato possibile acquistare il pacchetto PATIENT, di cui ci parlerà meglio nell’intervista a seguire.

Axel riporta di aver sublimato la sua tendenza ad esser terapeuta in un videogioco, rendendo proprio la parte terapeutica la parte più complessa del gioco. Il gioco, infatti, oltre ad esser ricco di dialoghi interiori, in cui, come si diceva, l’interazione tra il giocatore e Freud stesso diventa pervasiva, presenta anche momenti in cui Freud deve relazionarsi a pazienti. In questo caso, il giocatore deve in poche mosse, riuscire a capire come muoversi, a livello espressivo (ebbene sì! Axel ha pensato anche al linguaggio non verbale di Freud), e cosa comunicare al paziente, in base a ciò che il paziente mostra e porta di sé e del proprio mondo interiore.

Compila la cartella clinica dei pazienti inserendo le informazioni che sei riuscito a estorcere dopo la seduta terapeutica e inizia a dar forma alle interpretazioni più bizzarre e audaci! Consulta i testi originali del dottor Freud e trova lo stile di analisi che fa per te. Ascolta i pazienti che affollano il tuo studio e studia la strategia per raggiungere il nucleo del loro dolore esistenziale e guarirli dai loro sintomi. Ogni paziente è un pianeta, un essere umano divorato da un conflitto interiore che, giorno dopo giorno, gli sottrae vita. Ascolta, redarguisci, consola e sospetta: scopri la tecnica che ti si addice di più e rivela i segreti più nascosti, i sogni inconfessabili, i desideri brucianti. Costruisci le ipotesi e verifica le tue teorie. Ricorda: attraverso le ferite passa la luce.

Freud’s Bones è un videogioco che aiuta ad empatizzare e comprendere l’altro.

Ma per capirne di più di questo gioco, non ci rimane che lasciare la parola ad Axel, la game designer con cui ho avuto il piacere di scambiare qualche battuta per questa rubrica “Lo psicologo del futuro

GR (Greta Riboli – Intervistatrice): Come ha coniugato psicologia e gaming?

AF (Axel Fox): Ho cercato per anni un gioco che potesse simulare la vita di uno psicoanalista e che potesse illuminare la routine, le difficoltà del mestiere, le crisi di un analista. I giochi psicologici ci sono, ma puntano sempre l’attenzione sulla malattia e, nonostante molti titoli meravigliosi, trovo che si parli troppo del lato oscuro, senza generare in un giocatore il desiderio e la curiosità di interfacciarsi con le nevrosi e senza dare un senso di empowerment. Ho visto uno dei tanti documentari su Freud e ho pensato istintivamente che, se nessuno ci aveva pensato, toccava a me svilupparlo.

GR: Come crede che la psicologia possa intrecciarsi al mondo del gaming a suo parere?

AF: La psicologia è un terreno fertile e si intreccia con il gaming in miriadi di modi. Il gioco crea quello che viene definito “ il cerchio magico”, un’area all’interno della quale vigono regole che nel mondo reale non hanno senso: il giocatore è stimolato ad assecondarle senza metterle in discussione, con lo scopo di vincere. Il videogioco è un medium ludico in grado di generare apprendimento e soprattutto di creare una serie di dilemmi morali nel giocatore: c’è sempre filosofia e psicologia nei giochi, anche se non viene dichiarato esplicitamente. Spesso la psicologia diviene uno strumento per manipolare, per generare bisogno, per assuefare: io volevo invertire la rotta e creare un gioco esplicitamente positivo che potesse gettar luce sul lato umano di Freud in modo da far empatizzare il giocatore con i pazienti e con l’analista.

GR: Cosa porta di psicologico con sé questo progetto?

AF: Principalmente si focalizza sulle sedute terapeutiche, sull’analisi delle nevrosi e dei sogni. I casi clinici presenti sono tutti reali e storici, ho apportato lievi modifiche anagrafiche nei pazienti per poter creare un iter clinico giocabile. Un altro aspetto psicologico è quello della crisi: Freud, nonostante sia un neurologo vissuto nel 1900, vive una profonda crisi di identità e al contempo spirituale: niente di più attuale.

GR: Ho letto, che con questo gioco si è posta anche l’obiettivo di spronare il gamer ad esser paziente e prestare attenzione durante le sessioni terapeutiche, portandolo a comprendere il dolore dei pazienti e comunicare al meglio con essi. Inoltre, per la natura educativa stessa del gioco, questo permette ai partecipanti di esser catapultati a Vienna, nel 1925, e conoscere Sigmund Freud. Definirebbe, dunque, Freud’s Bones un serious game?

AF: Assolutamente. Ho lavorato molto per tentare di smussare gli aspetti troppo drammatici o eccessivamente intellettuali per renderlo accessibile a più persone possibile ma di fondo è un serious game.

GR: Axel, nella sua raccolta fondi su kickstarter, la quale si è conclusa ad inizio agosto 2020 con un risultato grandioso, ha sviluppato un modo per coinvolgere ancora di più i partecipanti, ofrendo diverse possibilità di pacchetto funding (per approfondire clicca QUi). A questo proposito, ci parli dei diversi pacchetti della campagna kickstarter? In particolare, mi riferisco al pacchetto VOYEUR, DANDY e PATIENT. Come ha intenzione di realizzare i pazienti ed il loro dialogo con il padre della psicoanalisi?  

AF: Scegliendo il pacchetto VOYEUR il giocatore può diventare un personaggio non giocabile (NPC) e apparire nel gioco nelle vesti di un borghese al Bistrot, in un quadro, in un caso clinico. Il pacchetto DANDY prevede la ricezione della scatola freudiana, all’interno della quale è contenuto un sigaro, un paio di occhiali da lettura, un taccuino per annotare i sogni, un magazine dedicato e una spilla. Il pacchetto PAZIENTE invece dà accesso a tutto ciò che è contenuto nelle precedenti ricompense più la possibilità di diventare un paziente: il giocatore può scegliere di prestare il volto al paziente di un famoso caso clinico oppure scegliere insieme a me di creare un caso clinico che sia un mix tra realtà e la sua storia personale.

GR: Soffermiamoci ora sull’ultimo obiettivo di lavoro, la sfida di Jung, il cui lancio è previsto per il 2021. Di cosa si tratta?

AF: Jung era amico, allievo ed infine il nemico giurato di Freud. All’interno del gioco avrà un capitolo dedicato e si potrà generare un confronto costruttivo tra le teorie freudiane e le sue, generando una serie di riflessioni sull’importanza della Teoria della complessità. Fondamentale è il concetto di “rammendo”, le falle presenti in entrambe le teorie possono essere colmate solo generando alleanza e non diatribe sterili. Freud era un uomo, pertanto era limitato, ossessivo e animato da un grande senso di onnipotenza dovuto alla grande resistenza del mondo accademico rispetto alla portata scandalosa e rivoluzionaria delle sue teorie. Jung si erge sulle spalle di Freud e vorrei che il veleno della rottura tra i due fosse percepito e al contempo assorbito: tutti viviamo di convinzioni granitiche ed è fondamentale imparare a scalfirci per superarci.

GR: Sogni per il futuro?

AF: L’indipendenza. Sogno di poter vivere per creare giochi sulle menti del passato per ispirare le generazioni più giovani e per creare in loro il desiderio di nutrirsi di filosofia e psicologia, di poesia e letteratura. Il prossimo titolo penso lo dedicherei a Bukowski!

Augurandoci di poter vedere Axel scavare nella mente di Bukowski, iniziamo il countdown per Freud’s Bones. Al seguente link è possibile acquistare la copia digitale scontata >> clicca qui.

Se al momento non possiamo vedere al di là dell’elemento mentale, non è una buona ragione per negare la sua esistenza. (Die Traumdeutung, 1990, Sigmund Freud)

 

Se vuoi saperne di più di serious games e di come poterli usare nella tua pratica clinica, partecipa alla European Conference on Digital Psychology – Digital Perspectives in Psychology. Un’area della conferenza sarà interamente dedicata alla tematica VIDEOGAMES E SERIOUS GAMES.

 

Le iscrizioni alla prima Conferenza europea di Psicologia Digitale sono aperte:

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La vergogna cronica: quale lavoro terapeutico?

La vergogna non può e non deve essere additata ed eliminata dal terapeuta ma piuttosto deve essere accettata come parte dell’esperienza umana sia dei pazienti che del terapeuta. Tuttavia la vergogna cronica può diventare un grande ostacolo nella relazione terapeutica ed impedire una buona alleanza.

 

Il concetto di vergogna cronica è stato già approfondito in un precedente contributo pubblicato su State of Mind, infatti la funzione di questo articolo sarà quella di mostrare e descrivere possibili approcci terapeutici dove è centrale la relazione, vista la natura sociale di questo vissuto emotivo. Nel fare questo si prenderà in considerazione l’esperienza trentennale di Kathy Steele nella clinica e nello specifico con pazienti che hanno vissuto traumi.

Seguendo una prospettiva relazionale, Nathanson (1987) propone una sorta di bussola della vergogna che mostra come la persona che prova vergogna desidera apparire buona agli occhi dell’altro e per fare questo può utilizzare due diverse strategie: isolamento dall’altro o attacco al sé. Quando invece l’individuo non riesce ad entrare in contatto con il profondo sentimento di vergogna potrebbe negarla o proiettarla e ciò potrebbe portare a livello comportamentale ad attaccare l’altro o ad evitare la propria esperienza interiore. Queste ricadute comportamentali in chi sperimenta vergogna cronica hanno alla base secondo Nathanson dei conflitti intrapsichici tra le parti dissociate, tra cui quella fobica nei confronti dell’attaccamento e quella spaventata di perdere l’attaccamento. Sarà importante che il terapeuta risponda ai comportamenti d’attaccamento del cliente mantenendo però una relazione di reciproca collaborazione basata sulla condivisione da parte del paziente dei segnali affettivi e la recezione empatica da parte del terapeuta dei contenuti emotivi. Il terapeuta può incoraggiare il paziente a prendersi cura del bambino ferito ma nel fare questo deve porre attenzione all’attivazione eccessiva del sistema di attaccamento in quanto potrebbe avviare risposte d’attacco o evitamento. Il terapeuta e il paziente si chiedono insieme come la parte adulta potrebbe sostenere ed aiutare la parte del bambino a crescere e si incoraggia la relazione tra le parti rimandando al cliente che esse sono comunque parte di un insieme.

L’obiettivo terapeutico non è quindi quello di eliminare la vergogna quanto piuttosto comprendere, accettare ed attenuare gli effetti della vergogna cronica. Inoltre la vergogna ha alla base funzioni e cause squisitamente soggettive; per ogni paziente la vergogna sperimentata avrà un significato personale e proprio comprendere questo aiuterà il clinico ad affrontare tale specifico aspetto nel corso del trattamento. Le tematiche da affrontare nel corso della terapia sono:

  • Il sentimento di sentirsi giudicato e criticato dagli altri
  • La paura di sentire la vergogna, provare fobia verso questa specifica esperienza interiore
  • Critica interiore cronica legata alle parti dissociate
  • Convinzione di base o schemi che inducono vergogna
  • La vergogna come inibitore di altre emozioni come gioia e rabbia
  • Flashback di esperienze associate alla vergogna
  • Vergogna come regolatore dei confini relazionali
  • Le difese utilizzate contro la vergogna
  • Iper/ipo arousal legati alla vergogna
  • Gli aspetti sociali e culturali della vergogna
  • La resilienza della vergogna

È necessario che il terapeuta utilizzi un approccio graduale per trattare la vergogna cronica, per esempio evitare precocemente uno sguardo diretto persistente; potrebbe essere molto utile per il clinico esplorare il conflitto che vive il paziente tra la necessità di nascondersi ed isolarsi e quella di condividere e di entrare in relazione con gli altri essendo accettati. Il terapeuta non si focalizzerà sulla vergogna inizialmente ma su gli effetti sia emotivi che comportamentali ad essa associati per poi esplorare in che modo gestisce il proprio senso di vergogna.

Il terapeuta deve esser in grado di entrare delicatamente nel vissuto emotivo carico di vergogna per accogliere e accettare questa emozione con compassione, avviando un processo che si auspica possa poi mettere in atto il paziente stesso in autonomia. È importante valutare se il paziente si trova dentro la finestra di tolleranza quando sperimenta o rievoca nel setting clinico la vergogna per fare in modo di garantire una buona elaborazione sia cognitiva che emotiva.

Per evitare che il paziente esca dalla finestra di tolleranza è utile che il terapeuta parli lentamente, presti attenzione ai dettagli e al linguaggio non verbale oltre a quello verbale, dia al paziente molto tempo e non faccia troppe domande. È importante che il paziente senti la vergogna ma allo stesso tempo è necessario che il terapeuta lo aiuti a sentirsi radicato e rievocare le risorse del quale è in possesso. In questo caso è utile sentire solo pochi secondi la vergogna per riuscire a dare un nome alle sensazioni e alle reazioni ad essa annessi e notarle nel corpo. Gli approcci dall’alto verso il basso promuovono la psicoeducazione e il dialogo socratico; il terapeuta nel primo caso informa il paziente sulle funzioni, sulle difese connesse alla vergogna, di quanto siano connesse a questo sentimento la vulnerabilità e la sensazione d’impotenza vissute nell’infanzia e si forniscono delle informazioni circa le difese messe in atto dagli animali in questo caso; inoltre può essere utile secondo questo approccio sottolineare l’universalità del senso di vergogna.

Seguendo un approccio socratico invece il terapeuta cercherá di fare domande che mettano in discussione le credenze e le convinzioni di base del paziente o che spingano a una riflessione più consapevole, come per esempio: chi ha deciso che lei non meriti nulla di buono? Quando lo ha deciso? Non merita nulla in assoluto o solamente alcune cose?

Un altro approccio utile per lavorare con la vergogna cronica è quello immaginativo, seppure questi richiedano una buona alleanza terapeutica, la consolidazione e il potenziamento di alcune competenze come: il pensiero astratto, la capacità di distinguere la realtà interna e quella esterna, la capacità di autoregolazione emotiva e la capacità di attenzione duale nel presente. Un esercizio immaginativo è quello della figura ideale, dove il paziente è invitato ad immaginare qualsiasi cosa o persona, non è importante se non sia reale o se non sia un essere umano, infatti possono essere animali, spiriti guida, figure religiose o personaggi di libri o film. Si chiederà al paziente di elencare quattro caratteristiche della figura, quindi degli aggettivi che la descrivono al meglio, per poi continuare a potenziare l’immagine attraverso altre domande da parte del terapeuta e renderla sempre meglio definita e nitida nella mente del paziente. Si invita poi il paziente a dare un nome a ciò che sente e nel rievocare alla mente tale immagine la dovrebbe sentire come se fosse al suo fianco, il terapeuta potrà poi chiedere al paziente cosa potrebbe dirgli la figura ideale. La rievocazione della figura ideale viene incoraggiata dal terapeuta durante tutto il corso della settimana. Un altro esercizio che si può svolgere è quello di trasformare la vergogna dandogli una forma, un colore, una struttura, una specifica temperatura, un movimento e connetterlo a una sensazione che evoca.

Questi appena menzionati sono gli approcci dall’alto verso il basso, descriveremo ora brevemente invece gli approccio dal basso verso l’alto. Essendo la vergogna cronica un’emozione spesso connessa a stati dissociativi o a eventi traumatici infantili è utile integrare agli approcci cognitivi anche quelli che lavorano a livello somatico o quelli dove è centrale la relazione terapeutica. Si farà dunque attenzione a dove il paziente sente una specifica emozione a livello corporeo e si esploreranno le tendenze al movimento, come per esempio il rannicchiarsi. Il terapeuta può chiedere ai pazienti per approfondire al meglio i movimenti del corpo di ripeterli a rallentatore notando ciò che accade nei micromovimenti e cosa si sperimenta a livello emotivo (Ogden & Fisher, 2015).

Tra gli approcci dal basso verso l’alto c’è quello della Felt Sense o della sensazione sentita. Il terapeuta chiede al paziente di concentrarsi sulle sensazioni di orgoglio e competenza sperimentate nel passato. Il clinico deve cercare di stimolare il senso di competenza relazionale nel setting terapeutico per poi estenderlo in altri contesti. Un altro strumento utile può essere la terapia EMDR che attraverso la stimolazione bilaterale può lavorare sulle cognizioni negative e costruire risorse per far fronte ai sentimenti di vergogna cronica (Mosquera & Gonzalez, 2012; Knipe, 214).

Risulta fondamentale per un lavoro terapeutico efficace e su misura di ogni paziente integrare i diversi approcci valutando i bisogni, i punti ciechi e i punti d’appoggio della persona che abbiamo di fronte.

Il paziente scoprirà quanto sia importante condividere ed accettare le proprie vulnerabilità anziché rifiutarle e quanto sia bello poter apprezzare e mettere in campo i propri punti di forza e risorse.

Il gioco delle parti – Guida illustrata al tuo mondo interiore (2015) di Tom Holmes e Lauri Holmes – Recensione del libro

Nel testo Il gioco delle parti i due autori illustrano come alcuni aspetti della nostra mente tendano a prevalere sugli altri, spesso peraltro interferendo con una corretta risoluzione delle situazioni a cui andiamo incontro.

 

Aiutati da disegni evocativi, stimolanti e divertenti, il loro obiettivo è aiutare il lettore ad imparare a gestire tutte le sue maschere. Il nostro comportamento abituale, infatti, può a volte crearci dei problemi e può essere utile quindi allontanarsi da tali modelli disfunzionali, alla ricerca del nostro Sé più autentico, che ci permetta anche di migliorare il nostro rapporto con gli altri. Quando un aspetto del nostro comportamento è particolarmente evidente (es. siamo ipercritici, iperattivi, super-organizzati, irritabili,…), ciò può indicare che una delle parti interiori sia preminente nel controllare la nostra vita e che non stia lasciando giusto spazio alle altre. Il libro è rivolto principalmente ai pazienti e ai profani della psicologia, per aiutarli a comprendere come interagire con le varie parti di sé; può però essere utile agli psicologi e psicoterapeuti non formati in maniera specifica sul modello Internal Family Systems (IFS), ossia un approccio sistemico applicato alla terapia individuale, proposto da Schwartz, che concettualizza le persone come risultato dell’intreccio delle diverse parti interconnesse, che a volte possono entrare in conflitto tra loro.

Il libro si apre con un’introduzione ai concetti base del modello, con vignette ed esempi concreti: possediamo una consapevolezza quotidiana, attivata in un momento specifico, e delle consapevolezze “di scorta”: cioè fanno parte di noi, ma che possono rimanere silenti qualora inappropriate o non utili rispetto alla situazione nella quale ci si trova. Queste consapevolezze non si distinguono però solo sulla base dell’ambito di competenza, bensì contengono elementi trasversali (esempio parte clinica, parte analitica, parte interessata), perciò può divenire a volte complesso capire quando è utile attivare ciascuna componente; peraltro, queste varie “parti” interpretano le percezioni in modo specifico: una frase detta sul lavoro ha un peso diverso di una frase detta da un amico. Ogni parte è inoltre caratterizzata da quattro dimensioni: sensoriale, emotiva, verbale e immaginativa.

È il Sé che ci permette di accedere alle parti appropriate nei momenti appropriati; quando siamo nel Sé siamo calmi e compassionevoli e siamo in grado di osservare ogni parte, per conoscerla e accettarla. Ciascuna parte è nata per rispondere a delle esigenze fisiche, psicologiche o sociali, per permettere di sopravvivere, di avere interazioni sociali, di gestirci nella vita quotidiana. Alcune componenti però risultano in conflitto tra di loro o devono competere per potersi “attivare” e venire selezionate in una data circostanza. Quando avviene un conflitto, esso si può risolvere con la negoziazione; controproducente sarebbe, invece, ignorare una delle nostre parti, sperando così di accantonarla.

Nel libro viene anche presentato un tipo particolare di parti: gli esiliati, ossia le componenti che non hanno mai accesso al soggiorno, rinchiuse ed escluse perché socialmente inaccettabili o perché causano dolore, ad esempio rievocando ricordi traumatici; per fare ciò, spesso ci si avvale di altre parti, i “vigili del fuoco”, ossia quei comportamenti autodistruttivi che bloccano temporaneamente il dolore che gli esiliati attiverebbero.

Il libro è utile in quanto si ripromette di spiegare ed illustrare il mondo interno di ciascuno di noi in maniera semplice e chiara, evitando parole difficili e usando invece termini e disegni evocativi; soprattutto per chi non è formato, infatti, può essere utile raffigurare se stessi come in un salotto che ospiti personaggi differenti, per poter comprendere come funzioniamo e come esistano diverse parti di noi che ci permettono di affrontare la quotidianità.

 

Passato e perfezionismo: relazione tra disturbo ossessivo compulsivo e ruminazione

Diversi studi hanno indagato la relazione tra ruminazione e sintomi del disturbo ossessivo compulsivo.

 

I criteri diagnostici che definiscono il disturbo ossessivo compulsivo (DOC) sono la presenza di ossessioni, compulsioni o entrambe (APA, 2013): le ossessioni sono definite da pensieri, immagini o impulsi persistenti, vissuti come intrusivi e indesiderati; il soggetto tenta di sopprimere o ignorare tali pensieri, immagini o impulsi. Tali pensieri ossessivi motivano le compulsioni, comportamenti ripetitivi o azioni mentali che il soggetto si sente obbligato a mettere in atto per annullare ritualmente i danni legati alle ossessioni (APA, 2000; Dar & Iqbal, 2015).

Considerando le diverse dimensioni di tale disturbo, Shaw e colleghi (2017) osservarono come i sintomi depressivi fossero correlati ai sintomi del disturbo ossessivo compulsivo tramite stili cognitivi depressivi, come lo smorzamento (ad es. regolazione delle emozioni positive) e la ruminazione.

Partendo dalla teoria cognitiva del disturbo ossessivo compulsivo, dove l’interpretazione catastrofica della realtà contribuisce al mantenimento del disturbo, uno studio ha indagato la relazione tra le cognizioni del DOC e i sintomi in 382 pazienti che avevano partecipato allo studio longitudinale Netherlands Obsessive Compulsive Disorder Association (NOCDA) (Tibi et al., 2018). I risultati non solo hanno mostrato relazioni significative tra ansia, gravità depressiva e cognizioni, bensì hanno evidenziato anche associazioni tra cognizione e due sottotipi di sintomi presenti nel DOC, impulsi e ruminazione.

Il rimuginio e la ruminazione sono processi cognitivi caratterizzati dal pensare in modo ripetitivo e improduttivo a preoccupazioni personali, dove i soggetti sperimentano con difficoltà l’interruzione di queste catene di pensieri (de Jong-Meyer et al., 2009; Dar & Iqbal, 2015). Anche se esiste una sovrapposizione tra questi due processi, essi hanno delle caratteristiche distintive (Nolen-Hoeksema et al., 2008): la ruminazione è focalizzata verso il passato, su questioni di autostima e perdita e viene ritenuta utile in quanto permette di ‘ottenere una migliore visione degli eventi’. Il rimuginio, invece, è un processo cognitivo orientato al futuro, avente come scopo il ‘prevenire le minacce anticipandole’ (Dar & Iqbal, 2015).

Szkodny e colleghi (2017) hanno presentato due studi che illustrano lo sviluppo e la convalida del questionario sulle cognizioni perseverative (PCQ). Il PCQ è composto da 45 item utili a valutare sei dimensioni caratteristiche di rimuginio, ruminazione e pensiero ossessivo, quest’ultimo precedentemente osservato per discriminare questi stili di pensiero: mancanza di controllabilità, preparazione per il futuro, aspettarsi il peggio, ricerca di cause-significati, vivere nel passato e pensiero discordante con il Sé ideale.

Wahl e colleghi (2011) hanno indagato la relazione tra stile ruminativo e sintomi del disturbo ossessivo compulsivo in due campioni non clinici: nel primo campione, 261 studenti hanno completato la Ruminative Response Scale, il Padua Inventory e la Beck Depression Inventory. La tendenza a ruminare era correlata positivamente con la severità della sintomatologia del DOC. I risultati sono stati replicati nel secondo campione composto da 211 studenti: i dati ottenuti indicano che uno stile di risposta ruminante e la ruminazione ossessiva condividono caratteristiche processuali comuni.

Dato che la rabbia è stata osservata nel disturbo ossessivo compulsivo, Jessup e colleghi (2018) hanno indagato se diversi tipi di ruminazione rabbiosa fossero vissuti in modo più intenso nei pazienti affetti da disturbo ossessivo compulsivo (DOC; campione composto da 30 soggetti) rispetto al gruppo di controllo con disturbo d’ansia generalizzata (GAD; campione composto da 29 soggetti) e rispetto al campione non clinico (NCC; campione composto da 30 soggetti). Dopo aver effettuato delle misure sui sintomi del disturbo ossessivo compulsivo, sulla ruminazione rabbiosa e sull’ansia di tratto, i pazienti con DOC e GAD differivano significativamente dal gruppo non clinico ma non tra loro, in quanto entrambi i gruppi erano composti da soggetti con ripensamenti e ricordi rabbiosi, ricerca delle cause della rabbia e pensieri di vendetta (Jessup et al., 2018). Non sono state riscontrate significative differenze con le misurazioni dell’ansia di tratto, mentre un approccio dimensionale ha rilevato come i sintomi del DOC fossero correlati con la ruminazione rabbiosa in generale (Jessup et al., 2018).

Sono stati effettuati anche degli studi legati al sonno, nello specifico Cavallotti e colleghi (2016) hanno ipotizzato che la soppressione dei pensieri indesiderati potesse influenzare il contenuto dei sogni in individui sani. In questo studio hanno valutato la persistenza di temi ossessivi compulsivi attraverso la valutazione della cognizione dei soggetti durante il sonno e al risveglio. I contenuti narrativi dei sogni, riportati al risveglio, sono stati analizzati al fine di riconoscere temi ossessivi compulsivi con Mean Dream Obsession/Compulsion (MDO, MDC) e Mean TAT Obsession/Compulsion (MTO, MTC). In termini di MDO, MDC, MTO, MTC non sono state riscontrate significative differenze, mentre la densità dei temi ossessivi e compulsivi era più elevata nei contenuti narrativi dei sogni. Dato che i risultati rafforzano l’ipotesi di discontinuità, gli autori ipotizzano che gli aspetti ruminanti della cognizione siano in qualche modo interrotti durante l’attività del sogno (Cavallotti et al., 2016).

 

Il concetto di vergogna cronica

La vergogna è quell’emozione connessa alla volontà di occultare e proprio per questo è spesso evitata nel trattamento terapeutico dal paziente, ma anche dal terapeuta che finisce per collidere con la dinamica emotiva di chi ha di fronte.

 

La vergogna, come ogni emozione, non ha un accezione negativa o positiva, ma possiede una sua specifica funzione per l’essere umano. Questo vissuto affettivo ha spesso un significato complesso e polisemico e consente all’individuo di conservare l’integrità del proprio sé e stabilire dei confini con gli altri. Questa emozione dunque aiuta l’individuo nella gestione delle relazioni interpersonali e ha una spiccata funzione in termini intersoggettivi e relazionali; la vergogna ci aiuta a garantire un livello ottimale di vicinanza e distanza. Questo affetto non solo si sperimenta in relazione con l’altro “reale”, ma anche con la rappresentazione interiorizzata che si ha dell’altro e dunque di uno sguardo che scruta critico e svalutante. La vergogna ha l’importante funzione stabilire dei limiti e definire le distanze e le differenze tra gli esseri umani (Pandolfi, 2002). Allo stesso tempo ogni vissuto emotivo cronicizzandosi inizia ad invadere tutte le esperienze di vita indistintamente dai diversi contesti relazionali, dunque perde la sua caratteristica funzionale divenendo fonte di disagio, malessere e, in casi estremi, un sintomo vero e proprio.

La vergogna viene vista in termini di:

  • Emozione (“provo vergogna”)
  • Pensieri/convinzioni (“sono una persona indegna”)
  • Comportamenti (“evito o attacco me stesso o gli altri”)

Le esperienze connesse alla vergogna cronica sono solitamente inaccessibili in quanto connesse a stati dissociativi e proprio per questo chi sperimenta questa emozione non riesce a riconnettersi ad eventi vissuti nel presente o nel passato. Infatti solitamente gli eventi connessi alla vergogna cronica sono di matrice traumatica e possono essere vissuti con un iperattivazione a livello fisiologico ed emotivo, pensieri intrusivi e quindi seguiti da strategie d’evitamento (Deyoung,2015; Hill, 2015).

Le persone con un vissuto traumatico che vivono un costante senso di vergogna possono sperimentarla in diversi ambiti della propria vita come: nel mostrarsi bisognosi di aiuto, nel non sentirsi perfetti, nel sentirsi totalmente incompetenti, nel vivere situazioni incontrollabili. Si evince quindi che la vergogna cronica perde lo scopo sociale adattivo che caratterizza invece la vergogna come emozione di base. Inoltre, vi è una forte relazione tra la vergogna cronica e il trauma infantile precoce e i sintomi dissociativi che consentono alla persona di proteggersi, seppure in modo disfunzionale, da memorie dolorose e intollerabili (Karan et al., 2014). Alcuni studi infatti mettono in luce come la vergogna cronica mantenga i processi dissociativi. A livello terapeuti il nostro obiettivo come clinici non sarà quello di eliminare la vergogna, visto l’importanza in termini adattivi sopra spiegata, ma piuttosto accettarla, attenuarla e iniziare a cogliere la sua funzione di segnale per tutelarsi ed esporsi in modo compassionevole nei confronti di noi stessi e degli altri. Ovviamente va considerata la funzione squisitamente soggettiva che la vergogna incarna nel vissuto del singolo individuo nel corso dell’intervento terapeutico. La vergogna cronica diventa un modo per inibire e bloccare la percezione e l’espressione di altri vissuti emotivi come rabbia e gioia ma anche la curiosità che permette l’essere umano di aprirsi al mondo e alla vita sia interiore che esteriore.

Steele individua degli “antidoti” per la vergogna cronica:

  • Senso di competenza e adeguatezza
  • Accettazione della vulnerabilità e dell’imperfezione
  • Sentire di avere il controllo (locus of control interno)
  • Compassione verso se stessi e gli altri
  • Capacità di mentalizzare
  • Costruzione di un senso di fiducia nei confronti di se stessi e gli altri
  • Saper costruire relazioni di vicinanza sia fisica che emotiva

Nell’articolo successivo (che verrà pubblicato nei prossimi giorni – ndr) tratterò di alcuni interventi possibili con la vergogna cronica e come si può agire nel concreto da un punto di vista clinico rifacendosi agli studi svolti dai coniugi Steele, pionieri degli studi sulla dissociazione e dunque sulla vergogna cronica; ci sarà anche un accenno sul possibile intervento con l’EMDR.

 

Ormoni steroidei, psicopatologia e medicina di genere

L’esistenza di una diversa incidenza di vari quadri psicopatologici nei due sessi ha suggerito l’ipotesi che gli ormoni steroidei potessero essere uno dei fattori eziologici di ansia, depressione, demenza ed autismo. Questa ipotesi trova conferma nei risultati di varie ricerche scientifiche.

 

Esistono diverse evidenze che documentano l’influenza che gli ormoni steroidei, in particolare estrogeni e progestinici, hanno nel determinare modificazioni strutturali e funzionali a livello celebrale. Gli ormoni sessuali subiscono, nella donna, fluttuazioni legate al ciclo vitale e questo sembra essere un fattore determinante per comprendere la maggiore vulnerabilità del sesso femminile alla psicopatologia relativa ai disturbi della sfera emozionale, affettiva e cognitiva (Pluchino et al., 1998).

Gli ormoni steroidei sono, a livello celebrale, dei modulatori della sintesi di specifici fattori trofici, come ad esempio il Brain Derived Neurotrophic Factor (BDNF). Il BDNF è necessario per la sopravvivenza di specifiche popolazioni neuronali quali quelle monoaminergiche, GABAergiche e colinergiche. Queste evidenze neurobiologiche hanno fatto formulare l’ipotesi che, nel sesso femminile, durante la pubertà la produzione degli steroidi faciliti e garantisca il trofismo e la sopravvivenza neuronale. Si ipotizza che nella donna gli estrogeni, prodotti prima della menopausa, abbiano un importante effetto protettivo sul cervello (Singh e Su 2013, Wei e Berman 2019, Bethea et al. 2002).

La variabilità dei livelli o le disfunzioni nella secrezione degli ormoni sessuali sembrano essere un fattore determinante per la comparsa di modificazioni strutturali e funzionali nel cervello femminile durante il ciclo mestruale, la gravidanza, il post-partum e la menopausa. La riduzione dei livelli plasmatici e cerebrali di questi ormoni,  può generare una riduzione della plasticità funzionale delle diverse popolazioni neuronali implicate nella regolazione della sfera emozionale, affettiva e dei processi cognitivi (Del Rio JP.,Alliende M., Molina N., et al. 2018)

La fluttuazione ormonale nella donna è riconosciuta come uno dei fattori eziologici del disturbo disforico pre-mestruale, della depressione post-partum ed è, secondo vari autori, la causa della maggiore incidenza della malattia di Alzheimer nel sesso femminile (Pacitti et al. 2006, Altmann et al. 2014).

Molti studi epidemiologici, condotti in Europa, riportano un tasso di incidenza per il morbo di Alzheimer maggiore nelle donne rispetto agli uomini. Uno studio coordinato da Lisa Mosconi della Weill Cornell Medicine di New York, di recente pubblicato online sulla rivista Neurology, oltre a ribadire che l’Alzheimer è più frequente nelle donne, sostiene che tale incidenza non è imputabile semplicemente al fatto che le donne tendono a vivere più a lungo. I cambiamenti ormonali che arrivano con la menopausa possono in parte spiegare la maggior predisposizione delle donne all’Alzheimer.

Alcune ricerche riguardo al rischio di demenza nel sesso femminile suggeriscono come la proteina apoE possa essere considerata un intermediario critico degli effetti benefici degli estrogeni sulla protezione e riparazione dei neuroni. Si è ipotizzato che l’apolipoproteina E, codificata dal gene apoE possa interferire negativamente con l’azione neuroprotettiva degli estrogeni. Gli studi sperimentali, condotti sui topi con il gene apoE soppresso rispetto ai controlli, indicano che gli estrogeni possono modulare la proteina APOE e il suo recettore. In conclusione, le evidenze sperimentali confermano l’ipotesi che la proteina apoE influenza negativamente gli effetti benefici che gli estrogeni hanno a livello celebrale e questa evidenza supporta quanto evidenziato dagli studi epidemiologici condotti sulle donne (Altmann et al. 2014, Jorm et al. 2007).

L’autismo colpisce più i maschi che le femmine, ciò ha suggerito che i livelli degli ormoni steroidei influiscano sullo sviluppo celebrale del feto. Secondo uno studio pubblicato su Molecular Psychiatry e condotto dai ricercatori dell’Università di Cambridge, un’elevata concentrazione di ormoni steroidei nel liquido amniotico potrebbe essere responsabile dello sviluppo di disturbi dello spettro autistico. Tuttavia, secondo Simon Baron-Cohen, primo firmatario dell’articolo, i risultati raggiunti non escludono altre concause e richiedono la verifica del fatto che gli aumenti dei livelli di ormoni osservati siano specifici per l’autismo e non condivisi da altre condizioni dello sviluppo neurologico fetale (Baron-Cohen et al. 2015).

E’ piuttosto recente la scoperta che la sintesi di steroidi avviene anche nel cervello e non solo nelle gonadi. Da circa 20 anni la ricerca si è concentrata sugli effetti che alcuni neurosteroidi, tra cui l’allopregnanolone (THP), possono avere nella regolazione della depressione e dell’ansia.

Nel 2000 grazie al lavoro di ricerca di Graziano Pinna, docente dell’Università dell’Illinois, di due scienziati italiani, Costa e Guidotti e di un gruppo di studiosi giapponesi è stato dimostrato che la quantità di allopregnanolone prodotta a livello celebrale è importante per il corretto funzionamento del recettore GABA-A.

Il THP è sintetizzato in risposta allo stress ed è in grado di ridurre l’ansia rinforzando l’azione inibitoria del GABA mediata dai recettori GABA-A a livello dell’ippocampo (Murray et al. 2007). Diversi studi hanno evidenziato bassi livelli di questo neurosteroide in soggetti affetti da ansia e depressione, ma anche in donne anoressiche ed obese.

Nel marzo 2019 la Food and Drug Administration, l’agenzia che si occupa di verificare la sicurezza dei farmaci negli Stati Uniti, ha approvato un nuovo farmaco, il cui principio attivo è un neurosteroide, il brexanolone, usato per trattare la depressione postpartum.

Nella fase successiva al parto si ha, infatti, una diminuzione degli ormoni steroidei, in particolare del progesterone, ma soprattutto dell’allopregnanolone. Il brexanolone permette di ripristinare la funzione che viene a mancare per la diminuzione drastica dei livelli endogeni degli steroidi.

 

COVID-19: l’impatto emotivo di una pandemia mondiale

I professionisti dei Servizi Clinici Universitari della Sigmund Freud University hanno strutturato un progetto di ricerca atto a monitorare i cambiamenti emotivi di tutti gli individui che sono stati toccati dall’emergenza COVID-19.

 

Il periodo nel quale ci siamo trovati, nostro malgrado, a vivere durante questo 2020 ha lasciato delle tracce in ognuno di noi. La pandemia di COVID-19, ha rivoluzionato la nostra quotidianità in ogni suo aspetto: il lavoro, la vita in famiglia, il tempo libero, la vita sociale e le abitudini sportive. Non sorprende, quindi, che a livello psicologico sia stato, e sia tutt’ora, un momento storico che facilmente potrebbe avere ripercussioni, anche gravi, sulla nostra salute mentale.

Uno studio condotto in Cina ha sottolineato come dei 7236 partecipanti, il 35,1% mostrava sintomi legati al Disturbo d’Ansia Generalizzato, il 20,1% mostrava sintomi depressivi e il 18,2% aveva problemi legati alla qualità del sonno (Huang & Zhao, 2020). Questo è solo uno dei tanti esempi presenti in letteratura di come il COVID-19 abbia influito negativamente sulla salute psicologica degli individui, costretti a vivere in un continuo stato di allerta, di paura e di preoccupazione.

Provare emozioni negative quali ansia, rabbia, tristezza e paura, pur essendo assolutamente normale, facilita la comparsa di sintomi legati allo stress. Un modo piuttosto efficace per liberarsi dalle emozioni negative, è riconoscerle (‘mi rendo conto che mi sento molto arrabbiato, che ho paura, che mi sento triste, sopraffatto, …’) per poi cercare di lasciarle andare, piuttosto che tentare a tutti i costi di risolverle e controllarle. Ricordiamoci che quello che spaventa noi, con molta probabilità, spaventa anche gli altri!

È proprio all’interno di un quadro mondiale così spaventoso che acquisiscono un’importanza particolare l’autoconsapevolezza e la capacità di regolare le proprie emozioni. Come accennato poco fa, il solo essere in grado di riconoscere uno stato emotivo negativo e la decisione di conviverci, piuttosto che cercare di combatterlo, può essere di grande aiuto.

Prendiamo, per esempio, un attacco particolarmente severo di ansia. Nel momento in cui ci rendiamo conto che la tachicardia, il respiro affannoso, le mani che tremano, lo stato di allerta e la sudorazione aumentata fanno tutti parte di una sintomatologia completamente innocua legata all’ansia, automaticamente questi stessi sintomi faranno meno paura, risulteranno meno minacciosi e tenderanno a diminuire in maniera repentina.

Insieme all’autoconsapevolezza, un’altra skill di estrema importanza è la capacità di regolare le proprie emozioni, ovvero, la regolazione emotiva. Essa consiste in una serie di tecniche che possiamo mettere in pratica per cercare di calmare l’emozione negativa che stiamo provando in un determinato momento. Poco fa si accennava alla capacità di sentire un’emozione e tenerla con sé senza cercare di combatterla: questa, ovvero l’accettazione, è una delle tecniche che aiuta chi prova un’emozione negativa ad accettare la propria condizione in maniera aperta e non giudicante.

Riassumendo, il COVID-19 ha sicuramente lasciato un profondo segno nella vita di tutti noi, ma ci sono tanti modi per combattere il disagio psicologico che non richiedono più di qualche minuto al giorno e che possono nettamente migliorare la qualità delle nostre vite: la salute della nostra mente parte, innanzitutto, da noi stessi.

È alla luce di queste affermazioni che i professionisti dei Servizi Clinici Universitari della Sigmund Freud University hanno strutturato un progetto di ricerca atto a monitorare i cambiamenti emotivi di tutti gli individui che sono stati toccati dall’emergenza COVID-19. Il periodo di sviluppo della pandemia, il successivo lock-down e il lento ritorno alla normalità, che tutt’ora è minacciato da un nuovo innalzamento dei casi, può aver lasciato il segno.

Il progetto lanciato dai Servizi Clinici della SFU non si pone come unico obiettivo quello di monitorare i cambiamenti emotivi, ma anche di sostenere i partecipanti con materiale pensato apposta per questo scopo.

Chiunque fosse interessato, può partecipare al programma di monitoraggio emotivo.

 

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Il piacere mancato (2020) di Nardone, Balbi e Boggiani – Recensione del libro

Gli autori, dopo un’interessante fotografia istantanea della vita di coppia in tempi moderni, descrivono le evoluzioni relazionali tra i sessi mostrando come siano cambiate, in continua evoluzione soprattutto per l’utilizzo delle moderne tecnologie: apps di incontri, chats, pornografia ecc. e di come questi cambiamenti influenzino maggiormente le nuove generazioni.

 

Se da un lato la tecnologia si struttura come mezzo per semplificare e velocizzare il contatto sociale rappresentando un vero e proprio acceleratore delle dinamiche relazionali, dall’altro sembra incrementare un vero e proprio senso di incapacità e fertilizzare dubbi e pensieri proprio perché manca l’esperienza diretta a cui le generazioni precedenti erano costrette.

Gli autori rilevano come si assista alla crescita di quella che descrivono come “sindrome del piacere mancato” ovvero una ricerca sempre più compulsiva del piacere che ben poche volte si realizza, a causa di una riduzione di intraprendenza, della delega al mezzo tecnologico e conseguente rifugio nell’autoerotismo.

Dopo aver descritto il fenomeno del cybersex con accenni all’evoluzione storica del rapporto  dell’uomo con l’erotismo, viene fornito un vero e proprio identikit dell’erosdipendente e un’analisi delle logiche paradossali che governano l’emozione fondamentale del piacere:

chi ne negherà il bisogno e la soddisfazione, ne incrementerà in questo modo la necessità; chi teme di esserne sopraffatto non riuscendo a gestirlo, eviterà precauzionalmente ciò che teme e nello sforzo attivo di controllare, sperimenterà un maggiore non controllo, chi nell’atto volontario di reprimerlo….lo desidererà al punto da non poterne fare a meno.

Nella parte centrale del testo gli autori trattano dei principali disturbi e disfunzioni sia maschili che femminili quali:

  • eiaculazione ritardata
  • eiaculazione precoce
  • disturbo del desiderio ipoattivo
  • disfunzione erettile
  • anorgasmia
  • dispareunia.

Gli autori non si limitano alla descrizione nosografica dei disturbi, ma offrono trascrizioni parziali di casi clinici reali. Presentano le principali manovre terapeutiche, il dialogo strategico clinico e le ristrutturazioni che hanno dimostrato maggior efficacia nella risoluzione delle difficoltà sempre calzando ad hoc la strategia alla specificità del caso.

Nell’ultimo capitolo sono esposti altri esempi reali di casi efficacemente risolti con la Terapia Breve Strategica a tema cybersex.

In conclusione, Il Piacere mancato è un libro interessante sia per gli addetti ai lavori, psicologi/psicoterapeuti, che per il lettore comune. Offre allo stesso tempo spunti al neofita, curioso di capire come funzionino certe dinamiche, e al terapeuta che lavora in ambito clinico attraverso la spiegazione di “manovre” specifiche per specifici disturbi. Conciso ed efficace, fedele alla prospettiva strategica per cui è possibile conoscere un problema attraverso la sua soluzione, riporta alcuni passi di trascrizioni di veri incontri terapeutici dimostrando come sia necessario calzare la relazione e la strategia (risultata efficace nel tempo) alle singolarità caratteristiche di ogni paziente.

 

Antipsicotici per il trattamento della depressione: uno studio ne sottolinea la gravità degli effetti

I ricercatori hanno riscontrato un aumento relativo del 45% del rischio di mortalità per le persone con depressione in terapia con farmaci antipsicotici (Gerhard et al., 2020).

 

I ricercatori di Rutgers, assieme alla Columbia University, hanno riscontrato un aumento del rischio di mortalità negli adulti con diagnosi di depressione in terapia con farmaci antipsicotici, rispetto a un gruppo di controllo in terapia con antidepressivi. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista PLOS ONE (Gerhard et al., 2020).

Sebbene gli antidepressivi siano il trattamento farmacologico di prima scelta per la depressione severa, molte persone non rispondono al primo ciclo di trattamento. Le successive opzioni di trattamento, includono il passaggio a un altro antidepressivo, seguito da varie strategie di aumento del dosaggio con un secondo antidepressivo e l’uso di nuovi antipsicotici, come aripiprazolo, quetiapina e olanzapina (Gerhard et al., 2020).

Lo studio in questione ha dimostrato che gli antipsicotici hanno effetti avversi ben noti e spesso gravi, tra cui un aumento del rischio di mortalità di oltre il 50% negli anziani con demenza. In precedenza non era noto se questo rischio di mortalità si applicasse agli adulti non anziani che utilizzavano antipsicotici più recenti come trattamento per la depressione severa. Secondo i ricercatori, gli studi clinici che hanno portato all’approvazione di nuovi antipsicotici per la depressione, erano troppo piccoli e troppo brevi per essere esaustivi da questo punto di vista (Gerhard et al., 2020).

I ricercatori hanno esaminato i dati di 39.582 individui con età compresa tra 25 e 64 anni dal 2001 al 2010, collegati al National Death Index. Dopo un periodo di trattamento con un singolo antidepressivo, i pazienti dello studio hanno introdotto un antipsicotico o un secondo antidepressivo. I ricercatori hanno riscontrato un aumento relativo del 45% del rischio di mortalità per coloro che hanno iniziato un antipsicotico (Gerhard et al., 2020).

La comunità scientifica sottolinea l’importanza di replicare la suddetta ricerca, idealmente, con uno studio controllato randomizzato. Tuttavia, nel frattempo, è bene prendere in considerazione che, la prescrizione di antipsicotici agli adulti con depressione, potrebbe essere molto dannosa in quanto, probabilmente, aumenta in maniera considerevole il rischio di mortalità. Di particolare rilevanza è un’altra scoperta fatta sempre dagli stessi autori di questo studio. È noto che la maggior parte degli antidepressivi impiega dalle quattro alle sei settimane per essere pienamente efficace. Tuttavia, contrariamente alle linee guida di trattamento, molti pazienti negli Stati Uniti iniziano il trattamento antipsicotico per la depressione senza aver completato un adeguato ciclo con un singolo antidepressivo  (Gerhard et al., 2017). Questi risultati sottolineano l’importanza di considerare i nuovi antipsicotici solo dopo che è stata stabilita la mancata risposta a opzioni di trattamento meno rischiose e basate sull’evidenza (Gerhard et al., 2017).

Accompagnamento alla gravidanza e sostegno alla genitorialità – VIDEO del primo incontro

Scuola Cognitiva di Firenze, in associazione con Studi Cognitivi, ha presentato un percorso divulgativo online in due appuntamenti rivolto a futuri genitori e genitori per aiutarli ad approfondire la conoscenza del proprio mondo emotivo e cognitivo e di quello dei propri figli. Pubblichiamo il video del primo incontro.

 

La gravidanza e il divenire genitori portano con sé una serie di cambiamenti nella vita individuale e di coppia: la costruzione dei ruoli e dell’identità di madre e di padre, la ridefinizione del rapporto di coppia, le emozioni e i vissuti psicologici associati al divenire genitori, l’instaurarsi di una prima relazione con il bambino.

I due incontri, organizzati da Scuola Cognitiva di Firenze, sono stati pensati con l’intento di offrire un percorso di informazione e di crescita personale per genitori e futuri genitori, percorso che potesse accompagnarli e sostenerli nell’attesa e nella conoscenza del proprio bambino con maggior consapevolezza, serenità e naturalezza.

Per i nostri lettori pubblichiamo il video del primo appuntamento, condotto dalle dott.sse Elisa Moretti e Stefania Righini. Nell’incontro è trattato il delicato tema delle emozioni in gravidanza e della costruzione della relazione con il neonato. Nei prossimi giorni pubblicheremo il video del secondo incontro.

 

ACCOMPAGNAMENTO ALLA GRAVIDANZA E SOSTEGNO ALLA GENITORIALITÀ

Guarda il video integrale del primo incontro:

 

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La dipendenza e lo stile comportamentale – Fatica a credito: storie parziali di dipendenza patologica

Una persona, anche quando non usa sostanze, continua ad essere condizionata da determinati processi cognitivi, continua ad attribuire determinati significati alle esperienze e continua a provare determinate emozioni in risposta ai contesti in cui interagisce.

FATICA A CREDITO: STORIE PARZIALI DI DIPENDENZA PATOLOGICA – (Nr. 4) La dipendenza e lo stile comportamentale

 

– Alice, ma tu ogni tanto impari qualcosa dalle tue esperienze passate o cosa?
– Cosa.

(Carroll,1865)

 Molti comportamenti, atteggiamenti e schemi di pensiero del soggetto tossicodipendente sono osservabili anche quando il paziente attraversa un periodo di astinenza dall’uso. Si possono rilevare le modificazioni neurobiologiche causate dall’uso di sostanze stupefacenti e i disturbi psicopatologici o di personalità sottostanti, ma è altrettanto importante osservare come l’uso e l’abuso di droghe imponga all’individuo di vivere e di relazionarsi in un ambiente ed in un contesto tossico in cui vengono favoriti, suggeriti e privilegiati determinati comportamenti.

Vivere nella tossicodipendenza impone delle regole molto rigide, anche per proteggersi.

Dire che la tossicodipendenza è un problema di forma e non solo di sostanza, significa che è possibile rintracciare nel paziente astinente dall’uso, atteggiamenti e comportamenti che solitamente emette quando utilizza sostanze.

Queste modalità comportamentali, derivanti dai contesti di vita e relazionali del paziente, spesso sono le uniche che egli ha appreso o le uniche che conosce, e possono esprimersi automaticamente (o inconsapevolmente).

Potremmo dire che, nonostante l’interruzione dell’uso di sostanze, permane nel paziente uno stile di comportamento, una rigida modalità di attribuire significato alle esperienze.

Puoi togliere il ragazzo dal ghetto ma non puoi togliere il ghetto dal ragazzo (Z. Ibrahimovic).

Smettere di usare sostanze, decidere di modificare il proprio rapporto con il mondo ed essere motivati e disponibili ad impegnarsi per questi obiettivi, è necessario ma non sufficiente al fine di ricostruirsi una vita.

Il paziente anche quando non usa sostanze, continua ad essere condizionato da determinati processi cognitivi, continua ad attribuire determinati significati alle esperienze e continua a provare determinate emozioni in risposta ai contesti in cui interagisce.

E’ facile rilevare come permanga una traduzione distorta di temi importanti nelle relazioni umane, come la fiducia, l’onestà, la tolleranza della frustrazione o la capacità di condividere e raccontare se stessi. Il paziente resta attaccato a codici e convinzioni che riducono o alterano la sua possibilità di emanciparsi dal contesto da cui proviene, rendendo difficoltosa la sua decisione di trasferirsi in un contesto differente.

Si osserva un vero e proprio deficit di conoscenza rispetto a contesti diversi da quelli correlati all’uso di sostanze, il paziente appare a corto di alternative quando deve relazionarsi in un contesto altro, quando deve decifrare i processi di una relazione interpersonale, è spaesato come di fronte ad un compito in classe che non sapeva di avere.

Un cambiamento ha bisogno di un’alternativa, si smette di fare una cosa perché se ne può fare un’altra, senza un’alternativa praticabile, o almeno immaginabile, si resta congelati nella posizione in cui si è, ripetendo le stesse azioni aspettandosi un risultato diverso.

Inoltre, non si può evitare di considerare che questi pazienti hanno una scarsa o inesistente capacità di sognare, prefigurarsi o decidere obiettivi futuri che non dipendano dal loro umore del momento.

Queste persone, essendo sopravvissute ed essendo state spesso modellate da contesti ambientali in cui venivano trascurate, criticate, punite e disprezzate, non sono state incoraggiate a sognare o a tradurre le loro idee e qualità personali in percorsi di vita che rispondessero al meglio alle loro caratteristiche.

In un ambiente invalidante, infatti, comunicare un (grande) sogno può avere come risultato critiche ed umiliazioni.

Nel tempo queste interazioni dolorose possono creare un’associazione tra il fatto stesso di immaginare il futuro e il senso di umiliazione e delusione che ne deriva.

In un contesto tossico ci sono poche verbalizzazioni e regole rigide che hanno strutturato comportamenti e risposte automatiche, paradossalmente il paziente è lì che ha colmato il suo bisogno di regolarsi, in quei luoghi conosce anticipatamente i segnali con cui orientarsi.

Quando si trasferisce in un altro contesto, per lui non così etichettato e standardizzato, si trova a fare i conti con tutta una serie di sfumature inconsuete, si trova di fronte a relazioni umane in cui deve imparare a capire gli altri mentre si relaziona con loro, si aggira in una complessità su cui deve riflettere e sulla quale ha meno conoscenze e certezze.

In queste situazioni incerte, in cui il paziente riceve segnali ai quali non sa come rispondere o che si prestano a più interpretazioni valide, la paura prenderà il sopravvento e favorirà le solite alternative: fuggire e/o aggredire.

Quando l’istinto di fuggire è impedito, la costrizione a restare in una situazione angosciante prelude a due possibili risposte dell’individuo: una risposta aggressiva o un evitamento passivo che genera una reazione endocrina di stress.

Tutto ciò che si oppone ad una azione gratificante che soddisfa un bisogno innato o acquisito, come può essere il contatto con la madre per un bambino, una conferma da parte del padre per un adolescente, il cibo quando si ha fame, la droga quando si sta male, genera una reazione endocrino-simpatica.

Quando la reazione endocrino-simpatica è prolungata pregiudica il funzionamento degli organi periferici e produce affezioni psicosomatiche.

L’ambiente tossico in cui il paziente è vissuto ha favorito una serie di apprendimenti, questi apprendimenti sono diventati delle abitudini e ‘a lungo andare un’abitudine diventa una necessità‘ (Sant’Agostino, 400 d.c.).

Abbiamo già detto di come un soggetto tossicodipendente impari a fidarsi di persone non affidabili (ad esempio lo spacciatore) e di come questo confonda il significato che attribuisce al concetto di fiducia, ma ci sono anche altre situazioni che vengono tradotte ed interpretate in modo disfunzionale o paradossale.

Lo stesso concetto di libertà viene ridefinito, perdendo le sue caratteristiche imprescindibili di responsabilità, di rispetto e di condivisione con l’altro.

Non si traduce in libertà di poter scegliere come comportarsi o non comportarsi, ma diventa la libertà di non occuparsi delle conseguenze del proprio comportamento.

Anche per questo, in nome della libertà, il paziente arriva ad isolarsi, ad escludersi, incapace di conciliare la sua libertà con quella degli altri, riducendosi a relazioni silenti solo con chi condivide la sua stessa patologia.

Il concetto di libertà può essere critico anche per chi interviene terapeuticamente con questi pazienti, le conseguenze delle loro azioni, i rischi che corrono per la loro vita e i gravi danni che spesso hanno prodotto, portano il terapeuta a sentire l’urgenza di bloccare la persona, di ristabilire un ordine attraverso il controllo.

Questi pazienti però percepiscono il controllo come coercizione e questo favorisce in loro un’ulteriore disregolazione emotiva con conseguenti comportamenti impulsivi e/o aggressivi.

Per quanto riguarda il riconoscimento o la gestione delle sensazioni e delle emozioni, il paziente è fuorviato da una delle funzioni svolte dalle sostanze stupefacenti, cioè quella di essere un’utile strategia di evitamento emotivo.

L’uso di droghe, infatti, stabilizza e spesso risolve un’attivazione emotiva, rende piatta una risposta corporea che per sua natura è ondulatoria e instabile.

Un’emozione può diventare disfunzionale quando non è coerente con la situazione o con il significato che diamo alla situazione, se sono triste ad un funerale vuol dire che funziono bene, che ho una reazione di tutto il corpo coerente con l’esperienza che sto vivendo.

L’uso di sostanze, fungendo da strategia di evitamento delle emozioni, anestetizza l’esperienza emotiva lasciando uno stato corporeo neutro in risposta ad una situazione che ne richiederebbe un’attivazione. Questo vale sia in situazioni avverse quando si provano emozioni spiacevoli sia in situazioni favorevoli quando si provano emozioni piacevoli.

In entrambi i casi la sostanza stupefacente spegne l’emozione coerente con la situazione e crea uno stato neutro che viene appreso come migliore da parte del paziente.

Migliore non significa gratificante o piacevole, ma in grado di eliminare un’attivazione emotiva, di creare una sorta di estraneità dal contesto, di sospensione della realtà. Il paziente può vedere chiaramente che l’uso di sostanze rappresenta l’arsenale con cui procurarsi un certo sollievo, anche se temporaneo, dalla sofferenza emotiva, e rendersi conto che questa dipendenza gli sta rovinando la vita.

Il punto è che se non avesse questa strategia di regolazione emotiva, non saprebbe cosa fare.

La persona ha difficoltà nel raccontarsi, nel descrivere e dare significato alle proprie emozioni e sensazioni, possiede uno scarso vocabolario con cui riferirsi a ciò che sente o a ciò che gli accade, il suo stesso ambiente ha espresso ed esprime poche parole.

In pratica, per lui, è più facile a farsi che a dirsi.

Il tossicodipendente, in alcuni casi, riesce a tollerare la relazione con l’altro solamente se quest’ultimo è disposto a sopportare anche tutti i suoi comportamenti disfunzionali, come se questi fossero una parte imprescindibile della sua identità, come se questi comportamenti non fossero ciò che fa ma ciò che è.

Raramente il paziente riesce a passare dal sono fatto così al mi sono fatto così.

La tossicodipendenza è un elemento costante e totalizzante nella vita del soggetto, ogni cosa viene organizzata in base ai sintomi (somatici, emotivi e cognitivi) che il paziente avverte, ogni cosa è relegata in secondo piano o rimandata rispetto alla sostanza, ogni piacere è confrontato con il piacere della sostanza, ogni soluzione è paragonata con quella proposta dalla sostanza.

La memoria di sé nel tempo è correlata ai periodi di uso di sostanze o ai periodi astinenziali, il parametro con cui vengono richiamati i ricordi o le esperienze passate è —Se facevo uso di sostanze o meno in quel periodo.

Anche l’appartenenza alla categoria dei tossicodipendenti diventa un elemento determinante per definirsi simile o diverso dagli altri.

Quest’ultimo aspetto trova la sua estremizzazione quando il paziente ritiene capace di proporgli una cura solo chi ha avuto le sue stesse esperienze, è convinto che l’avere avuto la stessa patologia garantisca la competenza nel curarla.

La tossicodipendenza diventa parte integrante dell’identità del soggetto, cioè elemento costante della sua vita attraverso il quale mantiene la percezione e la memoria di sé nel tempo (identità diacronica) e attraverso il quale percepisce sé stesso nel confronto di somiglianza o di differenza con gli altri oggetti o individui (identità sincronica).

La tossicodipendenza diventa un elemento di identificazione per il soggetto, una categoria alla quale appartiene, un’etichetta con cui si differenzia dagli altri, una serie di codici con i quali ha imparato a raccontare la sua storia e a dare significato alla realtà o a difendersi da essa. Il modo di vivere che è stato utile in strada diventa inutile e controproducente a casa, ma il paziente lo riproduce, automaticamente, come se fosse incapace di riconoscere gli stimoli alternativi che riceve in un contesto diverso.

— Se continui a giocare a calcio in un campo di basket, probabilmente verrai espulso.

Se avrai un po’ di fortuna verrai espulso con educazione.

Se ti arrabbierai perché ti hanno espulso invece di capire che dovevi provare a giocare a calcio, penseranno che sei matto.

Ciò che è importante non è solo che il paziente abbia appreso un serie di comportamenti in determinati contesti, quanto che continui ad esprimerli anche in altri contesti, insomma se cambia sport dovrebbe imparare ed esprimere nuove modalità comportamentali.

E’ quando lo fa che tende a non riconoscersi, come se certi comportamenti non gli appartenessero, come se fossero estranei alla sua identità, prova quelle sensazioni che proviamo tutti quando ci comportiamo in un modo che non condividiamo.

Se proviamo a dire ai nostri pazienti che con una bacchetta magica abbiamo al possibilità di rendere la loro dipendenza patologica una cosa che non hanno mai avuto o che non avranno mai più, molti di loro non proveranno un senso di sollievo e tanto meno di gioia, ma ci riferiranno di sentirsi persi, spaesati, non identificati, tenderanno a chiedersi —Cosa sono adesso?—, per loro è come se svanisse un modo di essere, non una cosa che fanno. Forse è proprio da questa impossibilità di appigliarsi ai soliti meccanismi a cui facevano riferimento o dall’impegno a non cercare nelle sostanze il modo per orientarsi nella propria esistenza, che dipende quel senso di smarrimento che è uno dei primi segnali di miglioramento del paziente.

Anche per questo motivo il terapeuta diventa un’intromissione tra il disagio che il paziente avverte e la soluzione che ha a disposizione.

L’alcolista sa che il suo malessere (problema) terminerà una volta che inizierà a bere (soluzione), quindi il terapeuta (oppure il genitore, la moglie, il marito, l’amico, il figlio, il lavoro…. ) rappresenta un’intromissione tra il problema e la soluzione del paziente.

Ecco perché vi sono occasioni in cui il paziente, governato dall’urgenza di stare meglio come chiunque avverta un disagio, contrasta il terapeuta (la terapia), contrasta chi gli impedisce di applicare la sua strategia risolutiva per il suo malessere, contrasta chi si frappone tra lui e la soluzione veloce, certa ed efficace.

Imparare un nuovo modo di fare avviene in modo esperienziale, a volte addirittura per tentativi ed errori: errori che si deve essere disposti a tollerare. Ora, per il paziente tossicodipendente, questo presenta almeno due elementi di criticità.

Il primo è la tendenza automatica ad agire secondo predisposizioni di base strutturate e rinforzate nel tempo e nei contesti in cui è vissuto. Il secondo è la paura di lasciare il certo per l’incerto, cioè il timore di non possedere un altro modo di fare o il timore che un altro modo di fare non funzioni per lui.

Il paziente, come ogni altro essere umano, non può ripartire da zero, non può dimenticare le sue abitudini, ciò che lo ha protetto, non è possibile dimenticare gli apprendimenti.

Un particolare comportamento o un modo di pensare (che è una cosa che si fa) si può estinguere ma non disimparare, tutti noi possiamo fare delle azioni che abbiamo appreso anche se non le agivamo da molto tempo.

Questo aspetto può risultare molto importante in un percorso di cambiamento, il terapeuta può mantenere un atteggiamento volto a favorire nel paziente l’apprendimento di cose nuove invece che l’estinzione di ciò che ha imparato.

In particolare, il terapeuta potrebbe intervenire rinforzando i comportamenti adattivi e funzionali del paziente anziché punire i comportamenti disfunzionali, anche perché questi ultimi sono stati puniti ripetutamente in passato senza che ne sia stata favorita l’estinzione.

Vale la pena ricordare che si parla di principio di estinzione quando un comportamento precedentemente rinforzato non è più seguito da un rinforzo positivo, quindi le probabilità che quel comportamento venga nuovamente emesso diminuiscono.

Inoltre sappiamo dalla psicologia sperimentale (Karsh, 1964) che quando un comportamento è seguito contemporaneamente sia da un rinforzo sia da una punizione ad agire su quel comportamento è solamente il rinforzo (Legge di Karsh).

Per questo tra il piacere della cioccolata ed il dispiacere dell’ingrassare vince il piacere, per questo se un alunno fa il pagliaccio in classe e riceve contemporaneamente le risate di approvazione dei compagni e una nota dalla professoressa, continua a fare il pagliaccio.

Nel corso della sua storia di apprendimento il paziente, come conseguenza punitiva per l’uso di sostanze, ha ricevuto la perdita dei rapporti familiari, del lavoro, l’esperienza detentiva, l’overdose, l’emarginazione…

Tutte conseguenze punitive che non hanno funzionato per estinguere il comportamento di abuso, se non temporaneamente, e che non sarebbero neanche praticabili in un contesto o in una relazione terapeutica qualora il paziente emettesse comportamenti disfunzionali.

Inoltre il terapeuta non può disporre di eventuali punizioni paragonabili, o dello stesso peso, di quelle che il paziente ha già ricevuto, ogni conseguenza punitiva che potrebbe proporre sarà sempre meno potente di quelle già sperimentate dal paziente e non riuscirebbe mai a pareggiare l’intensità del desiderio di assumere una sostanza.

Se una moglie dice al marito che punirà un eventuale tradimento smettendo di cucinargli le linguine al pesto, per il marito potrebbe non essere difficile accettare lo scambio.

A questo proposito, in un contesto terapeutico, si ritiene maggiormente utile adottare tecniche comportamentali che intervengano sul rinforzo più che sulla punizione, procedure come il modeling e lo shaping.

Il modeling deriva dalle osservazioni della psicologia sperimentale di Bandura sull’apprendimento tramite imitazione di comportamenti rinforzati dall’accettazione sociale da parte dell’ambiente (Bandura, 1962). L’imitazione è una modalità di apprendimento connessa da una parte al comportamento verbale e dall’altra al comportamento sociale.

Il paziente viene invitato a riprodurre determinati comportamenti del terapeuta in situazioni appropriate. Il terapeuta articola il comportamento mancante nel repertorio del paziente in modo didascalico e in varie emissioni di differente e crescente difficoltà.

Dopodiché chiede al paziente di imitarlo, correggendo eventuali errori e rinforzando con l’approvazione ogni emissione corretta, sottolineandone le caratteristiche salienti.

Il nuovo comportamento sarà poi mantenuto e generalizzato per effetto dell’accettazione che troverà nell’ambiente naturale.

Lo shaping è una pratica applicabile solo quando a dover essere incrementato è un comportamento già presente nel repertorio comportamentale del paziente, anche se viene emesso con una frequenza troppo bassa rispetto agli standard adattivi.

Lo shaping consiste nell’applicazione del rinforzo positivo non al comportamento – bersaglio, ma ai singoli comportamenti di una gerarchia costruita mettendo al vertice il comportamento desiderato e all’estremo opposto i comportamenti, pur quantitativamente diversi, che si avvicinano passo dopo passo verso la meta.

Il terapeuta stabilisce un comportamento non ancora esistente e, per costruirlo, definisce il maggior numero possibile di comportamenti intermedi funzionali alla sua emissione.

Il terapeuta rinforza positivamente gli step più bassi della gerarchia, passando allo step successivo solo quando il comportamento precedente è stabile.

Alla fine, quindi, ad essere rinforzato sarà solo il comportamento – bersaglio.

Imparare cose nuove significa anche avere la possibilità di sbagliarle durante il processo di apprendimento, impone al terapeuta di considerare che il paziente possa esprimere una maggiore criticità proprio mentre tenta di migliorarsi, che possa esprimere i propri sintomi, come le ricadute, i comportamenti disfunzionali, le emozioni disregolate, proprio in questo momento della relazione terapeutica.

E’ per questo che il terapeuta deve mantenere un atteggiamento strategico rispetto a ciò che accade, riflettendo su quella persona in quel contesto e in quel momento.

E’ importante ciò che il paziente tossicodipendente ha imparato a pensare, al linguaggio con cui pensa i suoi pensieri, al modo con cui traduce le parole e le usa per comprendere ed essere compreso dagli altri.

Tutti gli essere umani, compresi i tossicodipendenti anche se in modo deteriorato, possiedono l’abilità di immaginare cose, pianificare, risolvere problemi nella loro mente, è per questo che i pensieri ed il pensare hanno un’importante incidenza sui problemi psicologici.

Nel paziente tossicodipendente si possono rilevare schemi di pensiero caratteristici, tipiche modalità con cui richiama alla memoria i ricordi, specifici indizi con cui interpreta le relazioni interpersonali e modalità con cui avverte le proprie emozioni.

Il paziente spesso utilizza strategie disfunzionali per gestire le emozioni, ha la tendenza a sovraregolarle, a perdere il controllo su di esse e disregolarsi.

I pazienti tossicodipendenti, che nella maggior parte dei casi (potremmo anche dire la totalità) evidenziano un disturbo di personalità, tendono a irritarsi o vergognarsi quando si scoprono turbati, percepiscono le critiche come umiliazioni.

Hanno sentimenti negativi verso le proprie emozioni, perciò incontrano maggiore difficoltà quando devono usare le proprie risorse cognitive per riflettere sulle stesse e impegnarsi a modularle.

Usando come metafora una partita a carte, per riflettere su quali possibilità ha un giocatore (cioè come pensa, in base a cosa riflette) dobbiamo vedere con quali carte deve giocare la sua mano.

Nel caso del paziente tossicodipendente, le carte che possiede possono essere: le convinzioni che ha sul mondo e sulla relazione con gli altri, le strategie che ha per tollerare la sofferenza, una serie di giudizi e pregiudizi che ha appreso dalle esperienze, una scarsa conoscenza dei segnali con cui il corpo suggerisce le emozioni, il paradosso con cui dichiara il suo desiderio di libertà, la contraddizione con cui ama la vita, la difficoltà a capire quali sono i nemici da combattere, la tendenza a chiedere un aiuto per poi sabotarlo, l’istinto a ricercare la felicità nello stesso posto in cui l’ha persa, l’apparente arroganza del sapere come curarsi da solo, la superstizione con cui segue le prescrizioni farmacologiche, la tendenza a scusarsi solo per non parlare del dolore che ha provocato, la superficialità con cui si giustifica per proteggersi dalla vergogna, il narcisismo con cui ascolta le informazioni che riceve, l’illusione che il vuoto è meglio di niente.

Andare a vedere le carte in mano al paziente, ci può consentire di riflettere dal suo punto di osservazione, proponendo interventi che partano dalle sue condizioni e convinzioni di partenza.

Avvicinarsi per andare a vedere le carte può non essere particolarmente semplice ed è necessario capire se e come ci viene richiesto.

La richiesta d’aiuto spesso non avviene verbalmente, nel senso di: —Salve, ho iniziato a drogarmi e vorrei smettere— ma può essere espressa solamente dagli esiti della condotta tossicomanica, ad esempio il paziente è stato cacciato di casa, è stato lasciato dalla moglie, ha perso il lavoro, ha un problema legale, ha un’overdose…

Frequentemente il primo contatto con il paziente avviene per un altro problema.

Ammesso che questo primo contatto si stabilisca, affinché si possano osservare le carte del paziente, è necessario sedersi accanto a lui e anche qui si potrebbe incontrare una certa riluttanza.

Nel caso in cui si superi questo ulteriore ostacolo, il giocatore deve fidarsi di chi osserva le sue carte.

Emerge di nuovo il tema della fiducia nella relazione interpersonale, concetto contraddittorio nella mente del paziente, molte volte disatteso nelle sue esperienze e molte volte tradito da lui stesso.

Il paziente tossicodipendente, spesso, si è impegnato a costruire rapporti di fiducia con l’intenzione di poterli tradire, ha superato il timore di fidarsi per poi essere tradito, non ha accettato la condizione per cui perdere la fiducia è un processo rapido, mentre acquistarla o riacquistarla è un processo molto più arduo, non considera la differenza tra tradire ripetutamente e tradire una volta sola.

Inoltre, anche chi soffre di una dipendenza patologica è, come tutti gli altri esseri umani, vittima dell’euristica secondo cui il comportamento degli altri si deduce dal proprio, quindi tenderà a pensare che gli altri si comporteranno con lui come lui si comporterebbe con gli altri.

Fare in modo che il giocatore sia disponibile a condividere le sue carte, dipende prevalentemente dalle abilità del terapeuta, dalle capacità di quest’ultimo di addentrarsi nelle diffidenze, nelle paure, nelle fughe, nei depistaggi più o meno consapevoli e nelle impulsività del paziente, per delineare un sentiero condiviso.

Questo non è sempre possibile, vi sono condizioni che potremmo definire imperturbabili.

C’è una storia dietro ogni persona. C’è una ragione per cui loro sono quel che sono. Loro non sono così solo perché lo vogliono. Qualcosa nel passato li ha resi tali e alcune volte è impossibile cambiarli (S. Freud).

All’interno della relazione terapeutica è possibile rispondere al paziente in modi diversi da come è abituato, da come si aspetta o suppone che gli si risponda.

Molti problemi psicologici sono mantenuti dal modo in cui gli altri rispondono o interagiscono con la persona che ne soffre, ad esempio la condizione depressiva è mantenuta quando gli altri fanno le cose al posto del depresso, favorendo in lui uno stato di inattività.

Rispondere o interagire con il paziente in modo diverso da come gli accade di solito, significa comportarsi con lui schivando le sue predisposizioni di base, non fare ciò che lui si aspetta che noi facciamo, non dare attenzione a ciò che di solito la riceve.

Quando il paziente agisce prevede di ricevere una certa risposta dall’altro, e ha già ragionato su come rispondere successivamente ad essa, evitare quell’aspettativa significa interrompere degli automatismi e costringerlo a pensare.

In pratica, se siamo riusciti a sederci accanto a lui, possiamo mischiargli le carte che ha per fare in modo che le osservi da un punto di osservazione alternativo, e quando accade restargli accanto senza suggerimenti. Possiamo stare lì mentre perde l’equilibrio senza diventare un appoggio, possiamo osservare con lui le emozioni che prova senza interromperle, possiamo modificare il contesto, in questo caso la relazione, affinché lui trovi nuove strategie di adattamento.

A stare davanti o dietro sono buoni tutti, il difficile è stare appaiati (F. De Andrè).

Affiancare il paziente non in un processo volto a trovare sé stesso, perché si cercherebbe nei soliti posti, ma in un processo di costruzione di sé stesso, in cui sperimentare nuove modalità di risposta agli eventi, nuove modalità di pensare e di osservare i propri sentimenti e quelli degli altri.

Affiancarlo vuol dire anche non fare al posto suo, significa deviare i concetti precostituiti per stimolare il paziente a pensare, significa osservare con caute rassicurazioni le occasioni in cui il paziente perde e ripristina il suo equilibrio.

Quando si salgono le scale c’è un momento in cui si sta su un piede solo, è lì che ci si solleva.

Quando un paziente arriva in una Comunità Terapeutica, oltre ai suoi problemi, si porta dietro anche le sue convinzioni.

Le sue convinzioni su cosa sia una Comunità, dedotte da altri percorsi terapeutici o da altri contesti simili, le sue convinzioni su come la pensano gli operatori rispetto ai tossicodipendenti, sul fatto che qualcuno vorrà addomesticarlo o che è contro di lui.

E’ da queste convinzioni, da questi preconcetti, che inizierà a relazionarsi all’interno della Struttura Terapeutica, probabilmente sospettoso e diffidente.

Quando si inizia un percorso terapeutico in Comunità anche la paura (o lo stato ansioso) ha delle implicazioni importanti, soprattutto perché molti pazienti si vergognano di avere paura e la connotano come un cosa da persone deboli.

A questo proposito, dal punto di vista terapeutico sarà importante agire prima sulla vergogna e successivamente sulla paura, creando un contesto sufficientemente sicuro in cui permettere al paziente di sperimentare l’emozione che evita o che si obbliga ad evitare.

La vergogna è un’emozione sociale che si prova quando si teme un fallimento personale rispetto a degli standard che ci si è posti, è un’emozione secondaria che deve essere appresa e si sviluppa con la crescita dell’individuo e con l’interazione sociale.

La vergogna è un’emozione dell’autoconsapevolezza che si produce in seguito all’autovalutazione di un fallimento personale rispetto ad uno standard desiderato in accordo a regole, scopi o modelli di comportamenti condivisi.

E’, quindi, un’emozione legata alla competenza sociale, cioè alla valutazione e alla comprensione di standard culturali a cui la persona cerca di aderire.

La vergogna scaturisce quando l’individuo devia rispetto alla norma sociale, percependo il senso di fallimento tipico di questa emozione.

Poiché la vergogna nasce dalla valutazione della propria inadeguatezza, l’individuo mette in discussione non il cosa fa ma il cosa è, rendendo impossibile l’opportunità di porre rimedio al proprio errore.

Questa è una importante differenza che c’è tra il senso di colpa e la vergogna.

Il senso di colpa, infatti, mette in discussione il cosa ho fatto, concedendo alla persona la possibilità di riparare all’errore.

Inoltre, mentre la vergogna è accompagnata dalla percezione di un fallimento totale o parziale della propria dignità e dalla sensazione di pericolo per un abbandono affettivo, il senso di colpa segue la trasgressione e attiva l’angoscia della punizione.

La vergogna è il frutto di uno stato interno del sé e non il prodotto di un conflitto esterno, essa va a minare l’integrità del sé e delle proprie capacità.

Anche per questo riconoscersi tossicodipendente genera prevalentemente vergogna per ciò che si è piuttosto che senso di colpa per ciò che si è fatto.

Spesso il paziente non avverte di aver creato dei danni a qualcuno con il suo comportamento ma solo a se stesso, come se la sua condotta tossicomanica non avesse ripercussioni, anche solo affettive, per le persone che gli stanno vicino.

Recenti studi (Damasio et al, 2007) hanno anche evidenziato come a livello cognitivo la vergogna (ma anche il senso di colpa) siano elaborate dalla corteccia prefrontale ventromediale, suggerendo che un danneggiamento di questa area cerebrale interferisca con l’elaborazione affettiva soprattutto nei dilemmi morali che implicano una violazione personale di quella che è considerata, in base agli standard del contesto culturale di appartenenza, una violazione della norma morale.

Osserviamo in pazienti molto diversi tra loro per le loro storie di apprendimento, atteggiamenti e schemi di pensiero automatici in particolari contesti e situazioni, rileviamo un concatenamento di emozioni e di pensieri che si traducono in azioni come se ci fosse un copione prestabilito.

Tale aspetto va a confermare quanto la tossicodipendenza sia una patologia con specifiche caratteristiche di funzionamento sia dal punto di vista neurobiologico sia dal punto di vista prettamente psicologico e comportamentale.

Le predisposizioni di base del paziente sono automatiche, non pensate e nemmeno dubitate, è come se ogni tipo di valutazione cognitiva, che dovrebbe far seguito alla registrazione emotiva di un evento esterno, non avesse tempo di attivarsi, sopraffatta dall’azione. La sequenza utile per esprimere sé stessi nel mondo è: emozioni/sensazioni – riflessione – azione, in altre parole: corpo – mente – comportamento.

Affinché questa sequenza si realizzi è necessario che gli stati affettivi si esprimano in modo regolato, e questo avviene quando ci si sente sicuri cioè, come direbbe Winnicott, quando la madre è sufficientemente buona.

In uno stato affettivo regolato un individuo ha una capacità riflessiva maggiore e più accessibile, le sue percezioni non sono filtrate rigidamente, non ha rappresentazioni preconfezionate di sé e degli altri.

Gli automatismi vengono sostituiti dalla flessibilità della risposta e la reattività è sostituita dalla spontaneità.

Compito del terapeuta è quindi quello di favorire la costruzione di un contesto affettivamente sicuro in cui il paziente, dopo l’attivazione emotiva, non abbia a disposizione i suoi automatismi, ma sia costretto a pensare, o almeno a cercare modalità comportamentali diverse o nuove.

Proporre risposte alternative da quelle che ha avuto nel corso delle sue esperienze di vita e diverse da quelle che pensa o suppone di ricevere, da quelle che si sono concatenate nel corso delle sua storia, rappresenta una strategia utile per creare un tempo di latenza tra l’emozione e il comportamento.

Il paziente parte dal presupposto di ricevere una determinata risposta se porrà una domanda in un determinato modo, permettere che questo non accada, può stimolarlo a pensare, a cercare alternative, ad aprire un primo spiraglio di autoriflessività.

Finché il militare non uccide, è come un bambino. Lo diverti facile. Non essendo abituato a pensare, quando uno gli parla è costretto, per cercare di capire, a decidersi a sforzi opprimenti. Il capitano Frèmizon non mi uccideva, nemmeno se ne stava a bere, non faceva niente con le mani, né con i piedi, cercava solamente di pensare. Era assolutamente troppo per lui, lo tenevo per la testa (Celine, 1932).

Non si suggeriscono modalità alternative, non è neanche importante che il paziente trovi la modalità più funzionale di esprimersi, è sufficiente che possa sperimentarsi in assenza di un copione da recitare.

E’ probabile che a questo punto il paziente non sappia cosa fare e che il suo sistema emotivo si attivi, ci sarà un momento di crisi dopodiché sarà costretto a pensare.

 

Il modello cognitivo-comportamentale dell’ansia per la salute

Sebbene esistano numerose malattie gravi in grado arrecare danni importanti alla salute, la caratteristica della persona con ansia per la salute è quella di non trovare mai una vera soluzione alle proprie preoccupazioni.

 

Viviamo in un mondo in gran parte dominato dalla dicotomia, i cui opposti sembrano spesso essere le uniche interpretazioni accettabili. Bello/brutto, giusto/sbagliato, sono solo alcuni degli esempi di questo modo di pensare che la terapia cognitivo-comportamentale standard ha denominato bias cognitivi, ovvero errori di pensiero e di ragionamento che possono considerevolmente compromettere la qualità della vita, se rigidi e poco inclini alla messa in discussione.

L’ansia per la salute, comunemente conosciuta come ipocondria, rappresenta un disturbo molto diffuso tra la popolazione e che trova nella dicotomia sano/malato uno dei fattori precipitanti e di mantenimento della sintomatologia che tipicamente si manifesta. Infatti, una delle idee che sovente riferiscono i pazienti è che essere sani significhi ‘assenza di malattia’: secondo questo ragionamento polarizzato, per definirsi sana la persona deve scongiurare ogni segnale di una possibile malattia, percepita come evento catastrofico che difficilmente sarà in grado di fronteggiare. In sostanza, ulteriori fattori contribuiscono all’instaurarsi e al perpetuarsi del disturbo: l’illusione di poter avere controllo su tutti i possibili eventi futuri e l’intolleranza dell’incertezza, ovvero l’incapacità di assumersi rischi, anche minimi, legati alla propria salute.

Per mantenere questa illusione di controllo e acquietare la percezione di incertezza, il soggetto ipocondriaco attua uno spostamento selettivo dell’attenzione, focalizzandosi sulle sensazioni provenienti dal proprio corpo e accorgendosi pertanto di ogni minima modificazione dello stato dell’organismo. Così facendo egli avrà l’idea (illusoria!) di poter individuare tempestivamente una malattia e scongiurarne dunque l’epilogo infausto, già costruito nella sua mente sotto forma di immagini terrifiche: la stanza e il letto di ospedale, le cure dolorose, il corpo malato in balia di atroci sofferenze, lo sconforto delle persone care e così via.

Una precisazione: il soggetto con ansia per le malattie può tipicamente adottare due strategie alla lunga disfunzionali: 1) visite mediche frequenti (medico di base o altri specialisti) con richiesta di rassicurazione (sia del medico che dei familiari o degli amici) nel tentativo di controllare ogni possibilità di malattia; 2) evitamento, ovvero sottrarsi a qualsiasi stimolo riguardante le malattie poiché il solo pensare alla possibile malattia crea un forte stato di ansia che il soggetto tenta di gestire attraverso appunto l’evitamento di visite mediche, informazioni circa la salute, discorsi su morte o malati ecc.. Ovviamente né la prima né la seconda strategia risultano funzionali, anzi divengono entrambe fattori di mantenimento e di cronicizzazione della problematica.

Sebbene esistano numerose malattie gravi in grado arrecare danni importanti per la salute (la pandemia in corso ne è una prova, purtroppo, tangibile), la caratteristica della persona con ansia per le malattie è quella di non trovare mai una vera soluzione alle proprie preoccupazioni in quanto immersa in una serie di circoli viziosi che si autoalimentano e rafforzano. Leveni e colleghi (2017) affermano che l’ipocondria non è un problema di salute, bensì un problema di preoccupazione: l’attenzione selettiva ai pensieri negativi circa la possibilità di ammalarsi (e di poter fare qualcosa per impedirlo) blocca il soggetto nel suo stesso rimuginio, incrementando di conseguenza l’ansia, che a sua volta aumenterà la focalizzazione attentiva sui pensieri legati alla malattia e sui cambiamenti fisiologici del corpo, ipotesi sostenuta per giunta dal modello metacognitivo di Adrian Wells (2012). Sono proprio i cambiamenti fisiologici che avvengono di norma all’interno del nostro organismo, e che dai soggetti non ipocondriaci vengono interpretati come tipiche fluttuazioni (basti pensare al normale aumento del battito cardiaco dopo uno sforzo fisico che una volta a riposo viene ripristinato secondo la sua normale attività), ad essere considerati possibili segnali di una malattia e come tali hanno necessità di essere controllati per evitare ogni possibile esito dannoso. L’ansia aumenta e con essa si attiva la cascata di reazioni chimiche tipica dell’allerta (es: l’organismo rilascia adrenalina, il cuore pompa più sangue verso le parti distali del corpo ecc.) e il soggetto si sente in questo modo soverchiato dalla propria risposta ansiosa: la persona, in sostanza, si ritrova ‘ingannata’ dai suoi stessi pensieri e interpretazioni catastrofiche.

Secondo Salkovskis (1989) l’ansia per la salute è il risultato di un’interpretazione distorta dei segnali provenienti dal corpo: le fluttuazioni fisiche comuni vengono trattate come solide prove di una malattia più o meno grave e l’impatto emotivo conseguente varia a seconda del senso di minaccia percepito, che è dovuto principalmente all’interazione di quattro fattori: 1) percezione della probabilità che si manifesti la malattia temuta; 2) percezione della gravità e dei costi della malattia (sofferenza fisica, responsabilità per il dolore provocato alle persone care); 3) percezione della capacità di far fronte alla malattia; 4) percezione di quanto si possa influire sul decorso della malattia (mezzi di cura efficaci, nonostante capiti che la stessa terapia medica possa essere percepita come disastrosa in termini di sofferenza). L’equazione dell’ansia, utilizzata nella terapia cognitivo-comportamentale per spiegare l’intensità dei sintomi ansiosi, può essere quindi adattata per l’ipocondria, al fine di favorire una più chiara comprensione, da parte di chi ne soffre, dei meccanismi cognitivi alla base del disturbo (Fig. 1):

Ansia di malattia il modello cognitivo comportamentale del disturbo Imm 1

Fig.1: Equazione dell’ansia

Nello specifico, maggiore è la percezione della probabilità che si verifichi la malattia che si teme, la gravità e i costi associati, e minore la percezione della propria capacità di affrontare l’evento e i mezzi a disposizione per influire sul suo decorso, maggiori saranno i sintomi ansiosi esperiti dal soggetto, che a loro volta innescheranno circoli viziosi dai quale difficilmente egli riuscirà a sottrarsi, almeno fin quando l’intensità dell’ansia sarà oltre i limiti. Importante quindi, prima di qualsiasi intervento cognitivo e comportamentale, è ristabilire livelli di ansia tollerabili e gestibili affinché la persona si prepari a sfidare le sue credenze circa le malattie in modo più funzionale e con meno ostacoli.

Un altro punto da sottolineare per la comprensione dell’ipocondria è quello relativo ai concetti di probabilità e possibilità: per una persona con ansia per la salute ciò che è possibile è anche probabile, ovvero l’evento in quanto possibile è probabile che accada, sovrapponendo quindi i due concetti. Ciò che mal funziona in questo caso è un buon calcolo delle probabilità: ad esempio, la probabilità che un dolore ad un muscolo sia dato da uno strappo è più alta della probabilità che lo stesso dolore sia il sintomo di una grave malattia dell’apparato muscolo-scheletrico, ciononostante le due ipotesi vengono considerate ugualmente probabili, aumentando il rischio di una interpretazione erronea dei sintomi somatici che porta inevitabilmente a mettere in atto comportamenti di controllo e attenzione focalizzata sul corpo.

La terapia cognitivo-comportamentale si avvale di numerose tecniche che aiutano il paziente a mettere in discussione le proprie credenze negative di malattia, invitandolo a sfidarle sia da un punto di vista delle distorsioni cognitive che in termini di esperimenti comportamentali; questo permette di spezzare i circoli viziosi più robusti e far comprendere al paziente che la sua sofferenza non è data da una problematica medica, bensì psicologica, un problema cioè di ansia e di preoccupazione al quale può far fronte con impegno e strumenti validi. La persona con ansia per la salute tende infatti a sovrastimare la possibilità che un sintomo sia il segno di una malattia (sovrastimando inoltre la gravità) e al contempo a sottostimare la propria capacità di far fronte all’evento: la terapia cognitivo-comportamentale offre un modo efficace per ridimensionare le interpretazioni catastrofiche e restituire senso di efficacia personale nel superamento del proprio disturbo, spesso eccessivamente invalidante in diverse aree della vita (sociale, familiare, relazionale, lavorativa).

 

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