expand_lessAPRI WIDGET

L’ ACT e la terza ondata della terapia cognitivo comportamentale

Ideata da Steven Hayes, l’ACT (Acceptance and Commitment Therapy, terapia basata sull’accettazione e sull’impegno) è considerata il ramo di terza generazione della classica Cognitive Behavior Therapy (CBT).

 

In un interessante libro di Harris, è riportata una bella sintesi che rende l’idea di come opera questa metodologia; A sta per accettare i propri stati d’animo ed emozioni, C significa connettersi con i propri valori, infine T è da leggersi come tradurre i propri valori in azioni. Al di là di queste considerazioni teoriche, mi piacerebbe soffermarmi su quanto la ricerca della felicità, paradossalmente, porti a concentrarsi troppo sulla ricerca di soluzioni del problema, che altro non fanno se non alimentarlo, invece di seminare e costruire una vita piena e significativa, termini usati dai terapeuti ACT.

Spiegato meglio con una metafora, provate a pensare al vostro problema più assillante come se fosse rappresentato da erbacce alte in un giardino di casa che volete ovviamente estirpare per renderlo ordinato; ora, mentre strappate erbaccia dopo erbaccia, inevitabilmente ne cresceranno contemporaneamente altre di nuove, e vi affannerete a strappare anche quelle, di fatto non risolvendo nulla ma creando un circolo vizioso e, aggiungerei noioso e improduttivo. Se invece di strappare le erbacce provate a spostare l’attenzione su come abbellire il giardino seminando rose, forse vi godreste di più la vita. Ancora, pensate a chi siete veramente e non identificate voi stessi con i vostri problemi, voi non siete la somma dei sintomi del DSM, siete persone con pregi e difetti. Avete delle passioni che magari non conoscete perché non siete connessi con il vostro vero sé.

La vita è un viaggio, da immaginare come una camminata, se ad ogni passo pensiamo a risolvere problemi, come dove spostare il peso sulle gambe e sui piedi per mantenere l’equilibrio, il viaggio sarà poco piacevole e non alzeremo lo sguardo verso l’orizzonte, non avremo scopi.

Per godersi la vita e raggiungere la realizzazione non dobbiamo tenere sotto controllo tutto, ma agire più istintivamente, consentendoci di sbagliare qualche volta, in fondo nessuno è perfetto. Certe tecniche delle due precedenti generazioni cognitivo comportamentali sono certamente ancora molto utili per alcuni pazienti, e alcune di queste tecniche e strategie sono presenti anche nell’ACT, ma trovo questo tipo di approccio una grandiosa sintesi tra cognitivismo, comportamentismo e psicodinamica (o più precisamente psicologia del profondo in senso lato). Gli approcci e i tentativi falliti precedentemente vengono smontati nella terapia e si trovano nuove vie per raggiungere ciò che si vuole.

Sigmund Freud University di Milano – Inaugurato il nuovo anno accademico

E’ stato inaugurato il giorno 08 Ottobre 2020 il nuovo anno accademico della Sigmund Freud University. Per l’occasione sono intervenuti il Prof. Alfred Pritz, Rettore della Sigmund Freud University, la Prof.ssa Sandra Sassaroli, Direttore del Dipartimento di Psicologia della Sigmund Freud University di Milano e la Prof.ssa Regina Gregori, docente della Sigmund Freud University di Milano.

 

Come ogni anno, SFU Milano ha dato il suo benvenuto a matricole e studenti con una cerimonia di inaugurazione del nuovo anno accademico. Data la situazione epidemiologica l’evento si è svolto in Ateneo, con l’accesso consentito solo agli studenti del primo anno dei Corsi di Laurea triennale e magistrale, e in contemporanea, per tutti gli altri, tramite piattaforma Zoom.

Per l’occasione sono intervenuti il Prof. Alfred Pritz, Rettore della Sigmund Freud University, la Prof.ssa Sandra Sassaroli, Direttore del Dipartimento di Psicologia della Sigmund Freud University di Milano e la Prof.ssa Regina Gregori, docente della Sigmund Freud University di Milano.

Il Rettore, Prof. Alfred Pritz, ha aperto l’evento con un cordiale saluto agli studenti, sottolineando quanto la loro scelta di iniziare un percorso di studi che si apre al futuro sarà in grado di proiettarli verso una professione che non si rivelerà “mai noiosa”.

Ha successivamente preso la parola (min 4:14 del video) la Prof.ssa Sandra Sassaroli, Direttrice del Dipartimento di Psicologia della Sigmund Freud University di Milano che, a partire da uno sguardo ai veloci cambiamenti verificatisi negli ultimi mesi a seguito dell’emergenza coronavirus, ha aperto a una riflessione più ampia sulle implicazioni delle nuove tecnologie nel mondo della Psicologia e di come la professione dello psicologo e dello psicoterapeuta abbia la necessità di adattarsi ai nuovi e futuri scenari. Non a caso, la Prof.ssa Sassaroli ha poi illustrato come, proprio in virtù di tale necessità, la Sigmund Freud University di Milano terrà nei giorni 19 e 21 febbraio 2021, la prima Conferenza Europea di Psicologia Digitale.

La parola è infine passata alla Dott.ssa Regina Gregori (min 22:27 del video), docente presso la Sigmund Freud University di Milano che ha tenuto una lezione sulla Psicologia Digitale, che ha permesso ai partecipanti di comprendere quanto le nuove tecnologie stiano ampiamente modificando i nostri comportamenti, le modalità di apprendimento, i fenomeni psicologici, la ricerca scientifica e anche le tecniche diagnostiche e riabilitative. La docente ha concluso l’intervento parlando di e-therapy, realtà virtuale e intelligenza artificiale e ricordando ai partecipanti di non perdere l’appuntamento con la Conferenza di Psicologia Digitale, Digital Perspectives in Psychology, di febbraio.

L’inaugurazione è stata dunque un’occasione per riflettere sul futuro, non soltanto degli studenti ma anche dell’intera professione.

 

Cerimonia di inaugurazione dell’A.A. 2020-2021 della Sigmund Freud University di Milano
GUARDA IL VIDEO DELL’EVENTO:

 

 

Le iscrizioni alla prima Conferenza europea di Psicologia Digitale sono aperte:

ISCRIVITI ORA 9733

Vuoi presentare un tuo lavoro? La call for abstract per presentazioni e poster è aperta:

INVIA IL TUO ABSTRACT 9733


EUROPEAN CONFERENCE OF DIGITAL PSYCHOLOGY
Scoprine di più:

Neurobiologia del tempo (2020) di Arnaldo Benini – Recensione del libro

Il libro Neurobiologia del tempo si propone di spiegare la controversa realtà del tempo.

 

Mentre la fisica nega l’esistenza del tempo, le neuroscienze ne descrivono la natura e i meccanismi; tale contraddizione fra le due discipline sull’esistenza di una categoria essenziale della vita resta ancora poco comprensibile.

Incertezze e perplessità sul tempo, e sul tempo come quarta dimensione dello spazio, accompagnarono Einstein per tutta la vita.

Con la teoria della relatività generale, Einstein introdusse la forza di gravità, che agirebbe come onda gravitazionale increspando lo spaziotempo. La conferma recente delle onde gravitazionali non modifica però la neurobiologia del tempo.

Il tempo non dipende solo dal movimento, come nella relatività ristretta, ma anche dalle masse e dalla gravità che esse esercitano nello spazio. La gravità esercitata da grandi masse rallenta il tempo.

L’idea newtoniana del tempo eterno e assoluto è invece per Leibniz inaccettabile poiché il tempo eterno e assoluto avrebbe gli stessi attributi di Dio. Mentre la fisica continua a ripetere che il tempo non esiste, le neuroscienze cognitive hanno cominciato a capire e a spiegare la realtà e la natura del tempo.

La neurobiologia del tempo, come viene spiegato nel libro, è certamente uno dei meccanismi fondamentali della coscienza. Il senso del tempo è reale ed è una dimensione essenziale della vita. Come il linguaggio e il senso dello spazio. Si tratta di eventi biologici prodotti da meccanismi nervosi emersi tramite la selezione naturale. Le neuroscienze cognitive, da almeno trent’anni si occupano di comprendere i processi che danno vita ai contenuti della coscienza, quali il dolore fisico, lo spazio, il senso del bene e del male, la volontà, la musica, il silenzio e il movimento, ma alcuni dilemmi fondamentali restano ancora da chiarire.

In passato la ricerca sperimentale del senso del tempo si fermò e riprese solo con Benjamin Libet (1916-2007), negli anni sessanta del Novecento. Il lungo intervallo fu dovuto al fatto che non si poteva studiare il senso del tempo in cervelli asportati durante le autopsie, perché era indispensabile la collaborazione cosciente della persona esaminata e non c’era la possibilità d’individuare e circoscrivere le aree del cervello attive.

Nel 1936 il biologo Hudson Hoagland, sorpreso che la moglie, quando aveva la febbre per l’influenza, percepisse la sua assenza per le solite commissioni come molto più lunga degli effettivi 20 minuti, studiò per primo le modificazioni elettroencefalografiche in pazienti con febbre alta.

La neurobiologia comparata dimostra e conferma che non esistono esseri dotati di sistema nervoso centrale che non abbiano il senso del tempo.

Secondo le neuroscienze il tempo è infatti un prodotto del cervello.

La temporalità è parte costituente della nostra natura, ed è essenziale a essa.

Si tratta di un aspetto paradossale: da un lato la fisica teorica la nega come fosse un’illusione, dall’altro le neuroscienze e la biologia comparata trovano dati sui meccanismi nervosi del senso del tempo nell’uomo e in esseri viventi, anche con un sistema nervoso piccolissimo, a conferma della realtà di un evento biologico le cui origini risalgono a sistemi nervosi minuscoli e a età assai remote. “Verità e certezza”, come scrive il fisico Roman Sexl, “sono ardenti desideri dell’umanità che non possono che rimanere insoddisfatti”.

Questa nuova edizione è aggiornata con gli studi più recenti sul senso del tempo, sia negli uomini, sia negli animali, e fornisce numerosi dati scientifici interessanti.

La terapia cognitivo comportamentale per l’insonnia (CBTi): l’efficacia del trattamento e gli effetti su depressione, ansia e stress

L’insonnia causa stanchezza diurna, ansia, stress e depressione, inoltre incide negativamente anche sulla salute fisica, essendo un fenomeno molto diffuso, i ricercatori stanno cercando nuove forme di terapia atte a curare in maniera efficace questo disturbo (Sweetman et al., 2020).

 

 

Con l’arrivo del COVID-19, i disturbi del sonno sono aumentati notevolmente, l’insonnia è infatti un fenomeno sempre più comune, l’aumento di questo disturbo è dato anche dall’aumento di altre condizioni psicopatologiche, infatti, condizioni come l’ansia o la depressione correlano positivamente con i disturbi del sonno, solitamente è possibile riscontrare la difficoltà ad addormentarsi nei disturbi d’ansia, mentre continui risvegli notturni e risvegli precoci al mattino sono tipicamente rilevabili nei disturbi dell’umore come la depressione (Pappa et al.,2020) .

Uno studio condotto in Australia ed effettuato su oltre 450 pazienti, ha verificato l’efficacia di alcune forme di psicoterapia per il trattamento dell’insonnia.

I ricercatori della Flinders University hanno scoperto non solo che un programma di terapia cognitivo comportamentale mirato per l’insonnia aiuta ad alleviare questo disturbo, ma ha anche un effetto positivo sui sintomi di depressione, ansia e stress (Sweetman et al., 2020).

Lo studio in questione ha verificato l’efficacia della terapia cognitivo comportamentale (CBT) su pazienti insonni che soffrivano di depressione, ansia, stress.

Il campione era composto da 455 soggetti, la ricerca di carattere longitudinale è durata tre mesi, tempo compreso dal pre-trattamento al follow-up (Sweetman et al., 2020).

I risultati mostrano che, in egual misura, soggetti con e senza insonnia mostrano miglioramenti sui tre versanti psicologici prima citati, cioè: depressione, ansia e stress, inoltre, come conseguenza data dal miglioramento della salute psicologica dell’individuo, si verifica anche un significativo aumento della qualità e della durata del sonno (Sweetman et al., 2020).

Nello specifico, si rileva un miglioramento delle tre condizioni psicopatologiche, da moderato ad ampio.

Il professor Leon Lack di Flinders, che gestisce il servizio di terapia dell’insonnia presso l’Adelaide Institute for Sleep Health a Bedford Park, afferma che la CBT per l’insonnia (“CBTi”) è raccomandata come il trattamento più efficace e di prima linea per questo tipo di disturbo.

I ricercatori sottolineano l’importanza dell’utilizzo della psicoterapia per il trattamento dell’insonnia, così da evitare l’uso di farmaci ipnotici e i relativi effetti collaterali; proprio per questo motivo, in Australia, gli psicologici si stanno mobilitando per insegnare ai medici di base le tecniche della CBTi per far sì che si promuova il trattamento dell’insonnia tramite la psicoterapia, e soprattutto per migliorare il sonno di quei soggetti che non stanno affrontando un percorso psicoterapeutico (Sweetman et al., 2020).

 

Firmato il protocollo per l’assistenza psicologica nelle scuole tra Ministero dell’Istruzione e il Consiglio Nazionale Ordine Psicologi

Pochi giorni fa è stato firmato dal presidente del CNOP David Lazzari il “Protocollo di intesa tra il Ministero dell’Istruzione ed il CNOP per il supporto psicologico nella Scuola”, protocollo già approvato all’unanimità dal Consiglio Nazionale in data 25 settembre.

 

La dura realtà nella quale siamo precipitati in seguito all’emergenza Coronavirus, ci ha posto dinnanzi a una serie di difficoltà, di paure e cambiamenti. Tra i settori più stravolti dall’epidemia troviamo senza dubbio la scuola: dalla decisione di sospendere le attività scolastiche e iniziare con la didattica a distanza, fino alle disposizioni dell’inizio del nuovo anno scolastico, bambini, insegnanti, personale scolastico e genitori hanno dovuto fare i conti sì con limiti organizzativi e pratici ma anche con preoccupazioni, ansie e altri disagi di natura psicologica.

Il valore che la salute, fisica e psicologica, ha assunto in un periodo così delicato ha permesso di sancire ufficialmente un prezioso incontro tra Scuola e Psicologia di cui da anni si sentiva la necessità ma che ha spesso incontrato diversi ostacoli: negli ultimi giorni si è assistito a un passo decisivo nel riconoscimento di questo incontro grazie alla firma del “Protocollo di intesa tra il Ministero dell’Istruzione ed il CNOP per il supporto psicologico nella Scuola”

Protocollo di intesa tra il Ministero dell’Istruzione ed il CNOP per il supporto psicologico nella Scuola: il punto di partenza e il punto d’arrivo

L’impegno del CNOP nel far sì che l’assistenza psicologica rientrasse tra le attività finanziate per la Scuola con il DL 19 maggio 2020, n. 34 (“Rilancio”) convertito nella legge 17 luglio 2020, n. 77 (art.231), ha avuto delle iniziali difficoltà a concretizzarsi in in quanto i fondi previsti in un primo momento non erano specifici per la Psicologia e l’accesso alle attività finanziate era solo consentito e non obbligato alle scuole.

L’obiettivo del CNOP è stato poi raggiunto grazie all’Accordo Governo-Sindacati per la Scuola del 6 agosto 2020 (art.6 “sostegno psicologico”) (Decreto Ministeriale 6 agosto 2020), in cui si è riusciti a prevedere specificamente l’assistenza psicologica nella scuola. E’ all’interno di questo accordo che è stato previsto un Protocollo d’intesa tra CNOP e Ministero per attivare il sostegno psicologico. Il Protocollo che ne è derivato, frenato inizialmente dalle difficoltà tecniche e materiali dell’avvio della scuola a settembre, è il punto di equilibrio raggiunto tra le richieste del CNOP (garantire una puntuale ed adeguata presenza di Psicologi in tutte le scuole) e le disponibilità del Ministero.

Il protocollo è stato così approvato all’unanimità dal Consiglio Nazionale in data 25 settembre e firmato dal presidente del CNOP David Lazzari in data 09 Ottobre che ora va alla firma della Ministra Azzolina. Il Protocollo prevede anche un “accordo integrativo” (per superare le criticità ed i dubbi interpretativi che si erano generati con una circolare ministeriale del 30 settembre scorso) che è stato firmato dal Presidente Lazzari e dal Capo Dipartimento per le Risorse Umane e Finanziarie del Ministero Giovanna Boda.

Protocollo di intesa tra il Ministero dell’Istruzione ed il CNOP per il supporto psicologico nella Scuola: le premesse e gli obiettivi

Obiettivi e finalità del Protocollo sono: il fornire supporto psicologico, su tutto il territorio nazionale, a personale scolastico, studenti e famiglie per rispondere ai traumi e ai disagi derivati dall’emergenza COVID-19 e l’avvio di un sistema di assistenza e supporto psicologico, a livello nazionale, per dare assistenza e prevenire l’insorgere di forme di disagio e/o malessere psico-fisico tra gli studenti delle istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado.

Il Protocollo coniuga dunque la necessità di tutelare, tramite interventi di supporto e prevenzione, la salute dei cittadini, nella fattispecie del personale scolastico, degli studenti e dei genitori e di rispondere alle esigenze, evidenziate da parte del Ministero dell’Istruzione, di realizzare:

  • attività di supporto psicologico rivolte al personale scolastico, a studenti e a famiglie per rispondere ai disagi derivanti dall’emergenza COVID-19 e per prevenire l’insorgere di forme di malessere psico-fisico;
  • servizi di assistenza psicologica per il personale scolastico nei casi di stress lavorativo, difficoltà relazionali e traumi psicologici e per prevenire l’insorgere di forme di disagio;
  • servizi di assistenza psicologica rivolti a studenti e famiglie per fornire supporto nei casi di disagio sociale, difficoltà relazionali e altri traumi psicologici;
  • azioni volte alla formazione dei docenti, dei genitori e degli studenti, sulle tematiche riguardanti i corretti stili di vita, sulla prevenzione di comportamenti a rischio per la salute, nonché sull’educazione all’affettività.

Cosa prevede il Protocollo

Come si legge dal comunicato del 28 Settembre 2020 apparso sul sito del CNOP, il Protocollo – il primo nel suo genere e che avvia una presenza della professione su tutto il territorio nazionale – in sintesi prevede:

  • l’emanazione di bandi a livello di singola direzione scolastica a cura delle Scuole stesse (tutte le 8000 direzioni);
  • lo “stanziamento di apposite risorse all’uopo finalizzate” (risorse vincolate);
  • che “l’importo finanziato dal Ministero alle istituzioni scolastiche sarà determinato assumendo quale valore della prestazione professionale euro 40 lordi/ora” (non ci sono bandi al ribasso);
  • che il CNOP metta a disposizione delle “linee guida” per le attività degli Psicologi che includano possibili strumenti per la valutazione dei bisogni ed effettui la rielaborazione dei dati a livello nazionale;
  • che il Ministero organizzi una attività di informazione/formazione agli Psicologi reclutati sulle Linee Guida del CNOP;
  • Che si attivi una collaborazione a livello regionale tra Uffici Scolastici e Consigli dell’Ordine per assicurare la migliore attuazione del protocollo.

La selezione degli psicologi

Si legge sul Protocollo, che le attività di selezione degli psicologi si baseranno sui seguenti criteri di selezione e condizioni di partecipazione:

  • 3 anni di anzianità di iscrizione all’albo degli psicologi o 1 anno di lavoro in ambito scolastico, documentato e retribuito, oppure, formazione specifica acquisita presso 4 istituzioni formative pubbliche o private accreditate di durata non inferiore ad un anno o 500 ore;
  • incompatibilità, per tutta la durata dell’incarico, da parte degli psicologi selezionati di stabilire rapporti professionali di natura diversa rispetto a quelli oggetto del presente Protocollo con il personale scolastico e con gli studenti, e loro familiari, delle istituzioni scolastiche nelle quali prestano il supporto psicologico;
  • ulteriori specifiche caratteristiche individuate dall’istituzione scolastica.

Sul Protocollo si è così espresso il firmatario Dott. David Lazzari, Presidente del CNOP:

Con oggi si apre una pagina nuova per la Scuola italiana: studenti, docenti, dirigenti e genitori, il sistema scuola nel suo complesso, potrà finalmente giovarsi in modo omogeneo e sistematico delle competenze psicologiche. Erano anni che si sentiva questo bisogno ed ora l’urgenza della pandemia e dei grandi problemi che crea ha reso urgente dare questa risposta. La dimensione psicologica è fondamentale per mille aspetti che riguardano il mondo della scuola e la soluzione raggiunta è equilibrata e segna un punto di partenza dal quale si può solo migliorare. Ringrazio la Ministra Azzolina per aver dato ascolto a questo bisogno della scuola ed il Capo Dipartimento Boda per la grande competenza con cui ha seguito l’accordo raggiunto.

La Ministra dell’Istruzione, Lucia Azzolin, in una sua lettera scritta in Occasione del Convegno Nazionale “Il Diritto alla Salute Psicologica” commenta così questa nuova collaborazione:

Era un intervento necessario (…) La salute psicologica è parte del diritto alla salute, credo quindi che la collaborazione che abbiamo attivato sia davvero importante e ha trovato un riscontro favorevole anche nella comunità scolastica

Il CNOP, nel valutare che si tratta di una tappa fondamentale per la Psicologia nella Scuola e per favorire l’applicazione e la implementazione di quanto previsto, seguirà con ogni azione possibile l’attività a livello nazionale, considerando questo un punto non di arrivo ma di partenza, dal quale poter solo andare avanti.

 

Perché molte persone sono disinibite e aggressive quando si esprimono sui social?

Perché molte persone sono disinibite e aggressive quando si esprimono sui social? A cosa è dovuta questa mancanza di moderazione? Perché altre sono diffidenti?

 

Sempre più spesso capita di vedere nei social diversi post e commenti molto aggressivi, pieni di parole offensive e carichi di odio e frustrazione.

Molte persone che esternano tali commenti online, nella vita reale e nella comunicazione “non virtuale”, risultano contrariamente come delle persone completamente diverse o comunque con un approccio molto più introverso nel face to face.

Superficialmente tendiamo a credere che la comunicazione digitale abbia la stesse caratteristiche di quella reale, ma purtroppo non è così: per la maggior parte nel cyberspazio le persone si esprimono più apertamente, con più disinvoltura, manifestando le proprie emozioni senza controllo.

Esistono dei veri e propri fenomeni comportamentali quando ci approcciamo online: uno di questi effetti è stato studiato dal Prof.John R.Suler della Rider University, l’Online disibinition effect. Secondo Suler la spiegazione al comportamento disinibito di molte persone quando si esprimono online è dovuto ai seguenti elementi:

  • Anonimato dissociativo: la possibilità di separare (più facilmente online) la propria identità dall’esternazione dei propri contenuti. Qualunque cosa venga detta o fatta non può essere automaticamente ricollegata alla vita reale.
  • Invisibilità: è il passo ulteriore all’anonimato. L’invisibilità immette la convinzione nell’utente di non essere visto, di potersi muovere sul web senza lasciare tracce, di essere fisicamente invisibile. Questo attiva l’effetto disinibizione. L’impossibilità di rilevare alcun linguaggio del corpo od espressione facciale nell’altro amplia questa convinzione. Così come l’assenza di aspetti emotivi e personali.
  • Asincronicità: la comunicazione sui social e nel web è asincrona ovvero non avviene in tempo reale, ma si avvale di lunghe pause, silenzi e risposte ritardate. Non dover affrontare la comunicazione immediatamente può favorire l’effetto disinibitorio.
  • Introiezione solipsistica: spesso capita che la persona che legge il contenuto online di un altro utente sente come una fusione mentale con questa persona, la lettura di questi contenuti può essere vissuta come propria o come voce nella propria testa, come se quella persona ci avesse letto dentro. Non sentendo come suona la voce dell’altro utente si può cadere in questa falsa convizione, addirittura possiamo assegnare un volto immaginario all’autore dei contenuti che andiamo a leggere.
  • Immaginazione dissociativa: spesso le persone tendono a credere che il personaggio creato con il profilo social sia un personaggio fittizio ed irreale, privo di responsabilità ed immaginario, separato dal mondo reale. Una volta scollegate le persone credono di cambiare personaggio per il mondo reale.
  • Mancanza di autorità e sensazione di uguaglianza: la possibilità di esprimersi sui social e sul web è estremamente democratica, infatti non importa chi ci sia dall’altra parte dello schermo e quale potere ed autorità possa avere nel mondo ordinario, sui social tutti si sentono di potere dire la loro a chiunque. Nel mondo reale, specie davanti ad una persona autorevole, le persone sono riluttanti a dire ciò che pensano davvero, ma con l’effetto disinibitorio online tendono a dire tutto quello che pensano.

Inoltre l’effetto disinibizione online, che risulta un fenomeno oggettivo per tutti, è anche un fattore che va a condizionare la reazione delle varie personalità che si apprestano ad interagire come utenti sul web. Ad esempio renderà personalità con stili istrionici più aperte ed emotive, mentre le compulsive del mondo ordinario molto più contenute. Quindi il grado di disinibizione di questo effetto viene condizionato dallo stile comportamentale di base dell’utente.

Molte persone possono sentirsi più libere grazie a questo effetto disinibitorio online, oltre che sfogarsi più liberamente o condividere le proprie emozioni possono avere la possibilità di presentarsi come vorrebbero agli altri.

Il rischio del confine del sé

La disinibizione online è un fatto oggettivo, ma dobbiamo prendere atto di come ci siano anche persone che si sentano osservate, sorvegliate e diffidenti nei confronti dei social e dell’attività online in generale. Gli ambienti online, come le chat di messaggistica dei social o altri sistemi, possono generare in alcune persone insicurezza, frustrazione ed ansia, paranoia o paura. Questo porta ad agire con esitazione e cautela. Alcune persone vacillano tra uno stato disinibito nella realtà ed uno inibito sui social, oppure viceversa. Questa polarità è definita da Suler come esperienza di “auto-confine”. L’auto-confine può essere definito come il senso di ciò che sono io e ciò che non sono io. È l’esperienza di un perimetro flessibile che segna la distinzione tra la personalità –  pensieri, sentimenti e ricordi – e ciò che esiste al di fuori di quel perimetro, all’interno delle altre persone che utilizzano l’online.

Una varietà di fattori contribuisce all’auto-confine, tra cui la consapevolezza di avere un corpo fisico distinto, la percezione attraverso i cinque sensi di un mondo esterno, il sentimento di una distinzione psicologica tra ciò che conosco rispetto a ciò che gli altri sanno di me e la sensazione del sé fisico/psicologico che si muove in modo coeso lungo un continuum lineare di passato, presente e futuro. La vita online tende a sconvolgere questi fattori che supportano l’auto-confine. Il corpo fisico e i suoi cinque sensi non svolgono più un ruolo cruciale come nelle relazioni face to face. Ciò che gli altri sanno o non sanno dell’utente non è sempre chiaro. La sensazione di un passato, un presente e un futuro lineari diventa meno tangibile mentre ci muoviamo avanti e indietro attraverso la comunicazione sincrona e asincrona. Di conseguenza, questo stato di coscienza alterato nel cyberspazio tende a spostare o destabilizzare il confine con se stesso. La distinzione tra io interiore e l’altro esteriore non è così chiara e questo può innescare tutta una serie di bias cognitivi.

 

Potenziare le funzioni esecutive attraverso il gioco

Il gioco rappresenta uno spazio evolutivo centrale nello sviluppo e nel consolidamento di molteplici abilità e può favorire il potenziamento delle funzioni esecutive.

 

Il gioco è una fonte di sviluppo potenziale; nel gioco il bambino è sempre al di sopra del suo abituale comportamento quotidiano; nel gioco egli è in qualche modo di una testa più alto di se stesso (L. S. Vygotskij).

Psicologi, pedagogisti ed educatori concordano nell’attribuire un ruolo fondamentale al gioco nella crescita cognitiva, relazionale, affettiva e linguistica del bambino. Molte ricerche sottolineano che il gioco è in grado di attivare l’apprendimento, stimola la formazione della personalità, e quando è condiviso risulta un terreno fertile per l’acquisizione di regole sociali, del rispetto del turn-taking e dello scambio sociale.

Il bambino impara facendo, ‘in occasione di esperienze effettuate con materiale adeguato e quando, invece di riflettere a vuoto, agisce prima e non parla che delle proprie azioni’ (Piaget, 1927), sperimentando su materiali reali e su oggetti fisici (Piaget, 1956).

Il gioco rappresenta uno spazio evolutivo centrale nello sviluppo e nel consolidamento di molteplici abilità, spesso sottovalutato dagli adulti di riferimento (caregivers, insegnanti, educatori) che non sempre ne conoscono le potenzialità.

Interessante e clinicamente significativo è l’utilizzo del gioco con finalità terapeutico/riabilitativa come strumento per il potenziamento delle funzioni esecutive.

Le funzioni esecutive sono quell’insieme di abilità che consentono all’individuo di adattarsi alle richieste ambientali nuove e/o insolite, in assenza di schemi di risposta automatici, ma che richiedono l’elaborazione di nuovi piani d’azione.

Rientrano tra le funzioni esecutive:

  • la pianificazione, ossia la capacità di prevedere le conseguenze delle proprie azioni e di progettare la sequenza di componenti finalizzati al raggiungimento di un obiettivo;
  • l’inibizione, ovvero la capacità di controllare gli stimoli interferenti rispetto al compito che si sta svolgendo, senza la quale saremmo continuamente in balia dei nostri impulsi e in preda alle continue sollecitazioni ambientali, che sottende la capacità di decidere in maniera autonoma senza farsi influenzare dal contesto;
  • la Working Memory, ossia la capacità di tenere in mente le informazioni per il tempo necessario per poterle processare ed elaborare, abilità necessaria per il multitasking, ovvero saper svolgere più compiti contemporaneamente;
  • la flessibilità cognitiva, ovvero la capacità di cambiare strategia di pensiero o d’azione per far fronte alle situazioni, che si traduce nella capacità di modificare il proprio comportamento quando è inefficace al raggiungimento di un obiettivo (in opposizione a rigidità e perseverazione);
  • il giudizio, ossia la capacità di stimare e valutare una situazione in base alle proprie conoscenze, che sta alla base dell’abilità di fare corrette stime cognitive;
  • l’attenzione, ovvero la capacità di direzionare le proprie risorse verso uno stimolo (attenzione selettiva), di portare a termine un compito (attenzione sostenuta), e di svolgere due compiti contemporaneamente (attenzione divisa).

Particolare menzione meritano i giochi da tavolo, che rappresentano uno strumento educativo importantissimo per lo sviluppo di aspetti relazionali e sociali e per le funzioni esecutive (soprattutto una certa linea di giochi studiati e creati in maniera da stimolare le funzioni esecutive fin dalla prima infanzia), che se sapientemente utilizzati possono diventare materiale per il clinico da utilizzare nella riabilitazione, nell’ADHD, nei disturbi specifici dell’apprendimento (DSA), nelle condizioni di funzionamento intellettivo limite (FIL), in presenza di disregolazione emotiva e discontrollo degli impulsi e in tutte quelle situazioni che delineano un’insufficiente maturazione di una o più funzioni esecutive.

Quali giochi?

Dai grandi classici come Forza 4, che allena l’attenzione sostenuta e divisa, la pianificazione e l’inibizione, al Memory che stimola l’attenzione e le abilità di memoria e di ricerca visiva, alla Dama (e nella sua variante dama cinese) che allena la pianificazione, la flessibilità cognitiva e l’organizzazione visuo-spaziale, allo Shangai che serve a stimolare l’attenzione focalizzata, l’inibizione della risposta e a potenziare lo sviluppo delle abilità fino-motorie, alle Carte Uno che allenano l’attenzione, la working memory, la pianificazione. Interessanti anche le linee di giochi edite da case editrici quali Erickson, Creativamente, Asmodee e la Fabbrica dei Segni, che mettono a disposizione moltissimi e variegati materiali specifici per fasce d’età, in grado di allenare la memoria di lavoro, l’autocontrollo, la velocità di elaborazione, la ricerca visiva, le capacità di calcolo, la denominazione, il ragionamento induttivo, l’inibizione, la memoria, la pianificazione, la flessibilità cognitiva, il problem solving, le capacità morfosintattiche, lessicali, di costruzione di frasi e di narrazione.

Il potenziamento in gruppo

Laddove possibile, l’utilizzo di questi materiali in contesto gruppale ha un’enorme potenzialità: il gruppo rappresenta il contesto più ecologico simile agli ambienti di vita che vivono i bambini (in famiglia, a scuola, col gruppo dei pari); in gruppo è possibile lavorare su una serie di aspetti comportamentali (ad es. il rispetto del turno), ed emotivo-relazionali (ad es. lavoro sull’espressione della rabbia agonistica, o sulla cooperazione per il raggiungimento di un obiettivo comune); il confronto con il gruppo può diventare terreno fertile per far emergere differenze individuali ma anche emozioni condivise ed esperienze comuni che fanno sentire i bambini accolti, compresi e meno soli, e può diventare un’opportunità di arricchimento per il singolo bambino (sappiamo quanto i bambini apprendano per imitazione di un modello).

Nel riprendere ed ampliare il concetto di zona di sviluppo prossimale di Vygotskij, Vianello (2012) afferma che un pari competente può essere un modello molto più efficace dell’adulto nel favorire lo sviluppo potenziale, perché più simile per caratteristiche al bambino.

Un altro vantaggio del lavoro in gruppo è la possibilità di shiftare dal potenziamento cognitivo al potenziamento delle social skills, dal momento che nel contesto gruppale emergono una serie di situazioni sociali complesse che favoriscono anche lo sviluppo di capacità di mentalizzazione e di empatia.

Il potenziamento individuale

Ritornando al concetto di zona di sviluppo prossimale (Vygotskij, 1980), ossia il livello di sviluppo potenziale che un bambino può raggiungere con l’aiuto di un adulto, è chiaro che il ruolo del clinico diventa di primaria importanza ed è investito di una grossa responsabilità nel fornire al bambino l’impalcatura o scaffolding (Wood, Bruner & Ross, 1976) per accrescere le proprie competenze.

Nel potenziamento individuale, quindi, la scelta del tipo di materiale da utilizzare deve essere ben ponderata dall’operatore sulla base delle singole caratteristiche del bambino che ha di fronte, prestando attenzione sia ai suoi punti di forza che a quelli di debolezza.

Del resto non rimane che calarsi nelle regole del gioco (che un buon clinico può sapientemente rimodulare in base all’esperienza, avendo in mente su quali funzioni voler intervenire) senza dimenticare che la prima regola è non barare in modo da cercare di avvantaggiare il bambino, ma metterci serio impegno e dare vita a sfide avvincenti e divertenti, che non necessariamente hanno un vincitore già designato: un buon percorso di potenziamento attraverso il gioco spesso si conclude con delle vittorie conquistate e meritate dei nostri piccoli pazienti.

 

La Riabilitazione Neuropsicologica. Premesse teoriche e applicazioni cliniche – Recensione del libro

Il libro La Riabilitazione Neuropsicologica è alla quarta edizione; dal 1986, anno della prima edizione, si sono sviluppate nuove metodiche di indagine e valutazione e tecnologie di supporto.

 

In questi anni i risultati della ricerca hanno modificato in modo sostanziale l’approccio tradizionale della neuropsicologia che si era andata costruendo alla fine dell’800 e nel corso del ‘900, prevalentemente sull’osservazione di pazienti con lesioni.

Oggi, le basi neurologiche del recupero si basano sulla neurogenesi e le possibili applicazioni terapeutiche delle cellule staminali, l’applicazione delle metodiche di nueroimmagine, tecniche di analisi dei dati per le molteplici applicazioni rese possibili dalla risonanza magnetica, su interventi di neuromodulazione basati sulla stimolazione magnetica ed elettrica e sull’apporto delle nuove tecnologie (interfaccia cervello-computer, realtà virtuale e teleriabilitazione).

Ad aprire questo mondo di possibilità è stato inizialmente William James, che per primo ha parlato di plasticità cerebrale.

I vari capitoli del libro presentano per ogni singolo argomento, dall’afasia ai disturbi dell’attenzione e della memoria, dall’aprassia ai disturbi visuo-spaziali, dai disturbi dei traumatizzati cranio-encefalici e di altri gravi cerebrolesi, alla riabilitazione nella malattia di Alzheimer e alla riabilitazione delle capacità esecutive, fino alla riabilitazione neuropsicologica dei disturbi globali della coscienza, le caratteristiche funzionali compromesse, gli strumenti di valutazione per un corretto assessment e i principali modelli di riabilitazione, seguendo anche un percorso storico, che rende conto dei cambiamenti che si sono adottati, via via che le evidenze di ricerca e le conoscenze si accumulavano.

Naturalmente per alcuni disturbi sono evidenziate anche le difficoltà che si hanno per un recupero funzionale delle aree di vita compromesse, che prevedano il miglioramento della qualità di vita del paziente.

Oltre 400 pagine di preziose conoscenze, non solo per chi opera nel campo della riabilitazione neuropsicologica, ma anche per quanti in altri ambiti si confrontano comunque con disfunzioni che riguardano ad esempio processi come attenzione, memoria o la metacognizione e le funzioni esecutive.

L’approccio per i vari disturbi è spesso duplice, restitutivo, tende a recuperare i deficit, compensativo, si avvale della plasticità delle reti neuronali che si sostituiscono alle aree del cervello compromesse.

Inoltre, gli autori sottolineano che molto raramente si producono isolate sindromi di tipo ‘focale’’, mentre quasi sempre si manifestano quadri sindromici di tipo ‘diffuso’ che coinvolgono contemporaneamente più funzioni neuropsicologiche e comportamentali, emotive e fisiche, conseguenti al contemporaneo coinvolgimento della maggior parte delle aree cerebrali. Vi è quindi la necessità, da parte dei clinici e dei vari professionisti della riabilitazione, di intervenire in maniera articolata nel contesto di equipe multiprofessionali.

Gli ultimi tre capitoli del libro sono particolarmente interessanti perché si occupano di aspetti di primo piano se si vuole adottare un approccio olistico e integrato. Il diciannovesimo capitolo tratta degli aspetti relativi al contributo della terapia occupazionale, che ha assunto negli ultimi tempi un ruolo di primo piano per la riabilitazione neuropsicologica, il ventesimo illustra quei fattori che rendono necessaria un’adeguata modalità di formazione e accompagnamento del caregiver, risorsa fondamentale nel percorso riabilitativo del paziente, esercitando un importante ruolo nel favorire l’outcome in termini di autonomia e benessere. Infine, l’ultimo capitolo fotografa le tecnologie che andranno a impattare maggiormente il mondo sanitario entro il 2040. Sono discusse tre soluzioni tecnologiche promettenti in campo neuroriabilitativo: (1) le interfacce cervello-computer (Brain-Computer Interface, BCI) che sono in grado di andare a cambiare l’interazione tra il sistema nervoso centrale e il suo ambiente esterno o interno; (2) la realtà virtuale (RV), strumento innovativo in grado di creare ambienti tridimensionali simil-reali, che possano elicitare percezioni e reazioni realistiche da parte del paziente/utente; (3) la teleriabilitazione (TR), una branca della telemedicina che, integrando in apposite piattaforme digitali differenti strumenti e prodotti (tablet, smartphone, app ecc.), permette di fornire ‘care’ riabilitativo a distanza.

Una lettura impegnativa che apre orizzonti ampi a operatori di diverse professionalità nell’ambito della neuropsicologia e della riabilitazione.

La pornografia fa male? Solo se pensi che il suo utilizzo sia moralmente sbagliato!

Uno studio pubblicato sul Journal of Sex and Marital Therapy suggerisce che l’uso della pornografia da parte di individui impegnati in relazioni monogame non è necessariamente associato a conseguenze psicologiche negative.

 

Sembrerebbe, infatti, che le conseguenze negative date dall’uso della pornografia, dipendono dalle convinzioni morali del consumatore (Guidry et al., 2020).

Con la pornografia sempre più accessibile, è aumentato anche l’interesse scientifico per le conseguenze del suo utilizzo. Ricerche precedenti hanno scoperto effetti sia positivi che negativi associati all’utilizzo di questo materiale. Gli autori dello studio volevano esplorare se questa variazione nei risultati potesse avere a che fare con le percezioni del singolo consumatore sull’uso della pornografia e, in particolare, con le loro convinzioni morali (Guidry et al., 2020).

La disapprovazione morale e la pornografia sono aree di ricerca relativamente nuove e si hanno pochi dati per quel che riguarda il consumo della pornografia, i fattori associati al disagio psicologico e la disapprovazione morale. Una mancanza di congruenza tra le proprie convinzioni, religione e comportamento, come può essere sperimentata nell’atto di consumare materiale pornografico, spesso si traduce in disagio psicologico (Guidry et al., 2020).

Per studiare l’influenza che hanno le proprie credenze e i propri valori sulle conseguenze date dall’uso della pornografia, è stata condotta una ricerca tramite un sondaggio online, il campione era composto da uomini e donne di età compresa tra 18 e 73 anni. I criteri di inclusione comprendevano: l’essere attualmente in una relazione monogama e aver avuto accesso alla pornografia negli ultimi sei mesi, dati questi criteri di selezione, sono risultati idonei 287 soggetti, i quali hanno compilato questionari relativi alla misurazione dell’ansia, depressione soddisfazione nella relazione e attaccamento al partner romantico. Il sondaggio ha anche chiesto agli intervistati quante volte hanno avuto accesso alla pornografia online nell’ultimo mese e ha misurato la loro disapprovazione morale nei confronti della pornografia utilizzando domande tipo: “La visualizzazione di materiale pornografico online viola i miei valori personali” (Guidry et al., 2020).

I risultati hanno mostrato che l’uso della pornografia è correlato sia all’ansia che alla depressione, tuttavia questa relazione è mediata dalla disapprovazione morale, quindi, gli effetti negativi dati dall’utilizzo della pornografia, si manifestano in coloro che sono dell’idea che l’uso di questo materiale sia sbagliato moralmente. La frequenza dell’uso della pornografia non si associa a una minore soddisfazione nella relazione (Guidry et al., 2020).

Tuttavia, si è riscontrato che l’uso della pornografia è indirettamente associato negativamente alla soddisfazione della relazione – attraverso la depressione – e questo collegamento indiretto era moderato dalla disapprovazione morale. In altre parole, i risultati suggeriscono che alti livelli d’uso della pornografia insieme ad alti livelli di disapprovazione morale della pornografia predicono positivamente un aumento dei livelli di depressione, che predice una successivamente diminuzione della soddisfazione nella relazione (Guidry et al., 2020).

I ricercatori del suddetto studio, riconoscono i limiti del modello testato, dato che, presume che inferiscono relazioni di tipo causale, tuttavia trattandosi di uno studio trasversale e correlazionale, non è possibile arrivare a questo tipo di conclusione, sarebbe necessario infatti uno studio longitudinale, cosi da comprendere la direzione esatta delle variabili e soprattutto le relazioni causali tra esse (Guidry et al., 2020).

 

La pratica della Mindfulness… come può aiutarci a gestire meglio le nostre emozioni? – VIDEO

La pratica della Mindfulness… come può aiutarci a gestire meglio le nostre emozioni? Il video dall’incontro informativo sui Disturbi di Personalità organizzato da CIP Modena.

 

Pubblichiamo per i nostri lettori il video di uno degli incontri organizzati dal CIP Modena, incontri che analizzano aspetti, dimensioni e caratteristiche dei disturbi di personalità.

La nostra mente vagabonda spesso tra pensieri sul passato o sul futuro e spesso tale aspetto alimenta sofferenza. La pratica di Mindfulness si basa su un orientamento al presente in un ottica di attenzione consapevole e accettazione, aiutando la persona a prestare attenzione alle esperienze presenti con attitudine non giudicante.

Si tratta di una pratica di derivazione orientale, ora ampiamente diffusa anche in occidente e utilizzata per lo sviluppo e l’incremento del benessere individuale. La sua applicazione risulta un importante strumento per incrementare le abilità di regolazione emotiva e diverse evidenze scientifiche hanno portato all’utilizzo della pratica per il trattamento di svariati disturbi come ansia e depressione.

La Mindfulness inoltre costituisce uno dei quattro moduli della DBT, articolata in regolazione emotiva, tolleranza alla sofferenza, efficacia interpersonale e Mindfulness.

Per i nostri lettori, il video dell’incontro tenuto dalla Dott.ssa Luana Lazzerini.

 

LA PRATICA DELLA MINDFULNESS – Guarda il video integrale del webinar:

 

SCOPRI I PROSSIMI EVENTI IN PROGRAMMA >> CLICCA QUI

 

CIP Modena >> SCOPRI DI PIU’

La dipendenza patologica e lo scambio comunicativo – Fatica a credito: storie parziali di dipendenza patologica

Durante un dialogo facciamo ipotesi e deduzioni rispetto a ciò che diciamo o censuriamo, in uno schema che si può definire comportamento governato da supposizioni. Questo accade anche nell’ambito della dipendenza patologica.

FATICA A CREDITO: STORIE PARZIALI DI DIPENDENZA PATOLOGICA – (Nr. 3) La dipendenza patologica e lo scambio comunicativo

 

Normal is an illusion. What is normal for the spider is chaos for the fly (C. Addams,1938).

 In alcune circostanze quando parliamo con un’altra persona può capitare di avvertire la sensazione di doverci difendere da un momento all’atro dalle parole che verranno pronunciate. Questa sensazione viscerale, avvertita prima di parlare, ci induce, nel migliore dei casi, a prestare attenzione alle parole che utilizzeremo.

Quando una persona X parla con una persona Y, la comunicazione tra loro percorre due binari contemporaneamente.

Il primo binario corrisponde a ciò che accade durante lo scambio comunicativo alle frasi che vengono dette e ascoltate.

Il secondo binario corrisponde alle ipotesi che X e Y fanno circa l’impatto che le loro frasi avranno sull’altro prima che esse vengano espresse, a cosa pensa l’altro mentre uno parla o a come intenderà le parole dette; X e Y faranno ipotesi su come verrà inteso un determinato argomento prima di esporlo.

Possiamo facilmente notarlo ogni volta che iniziamo un discorso con la parola ‘Siccome….’

E’ da queste ipotesi che, durante il loro dialogo, faranno deduzioni rispetto a ciò che diranno o censureranno e a come lo diranno, in uno schema che potremmo definire comportamento governato da supposizioni.

Non saranno le parole a determinare il dialogo ma le ipotesi sul non detto, l’inteso, il pensato dall’altro, in una sorta di lettura della mente del tutto arbitraria.

E’ il solito problema di sempre, se non parliamo siamo infelici, e se parliamo non ci comprendiamo. (Saramago, 2000)

Ciò che potrebbe pensare Y di ciò che X dice, condiziona il modo di parlare di X suggerendogli le parole da dire, ma soprattutto creando delle supposizioni arbitrarie che invece X tratterà come vere.

Un aspetto interessante è che nel caso in cui l’esperienza diretta disconfermi certe supposizioni, non emergerà la tendenza a metterle in discussione o a modificarle, ma si continuerà a considerarle vere assumendo che sia l’altro a mentire, far finta di non capire o a perseguire seconde intenzioni.

Si potrebbe pensare di essersi spiegati male o che il nostro interlocutore non sia in grado di capire le nostre argomentazioni.

A quel punto, distaccandosi ancora di più da ciò che viene detto e ascoltato direttamente, si avvertiranno sensazioni ed emozioni coerenti con una situazione in cui l’altro sta mentendo o sta manipolando la conversazione, ad esempio rabbia o ansia, e si presterà attenzione ancora di più a ciò che conferma le supposizioni, raccogliendo informazioni in modo emotivo e approssimativo.

Si prenda come esempio una situazione in cui X intende corteggiare Y.

Prima di avvicinarsi ad Y, X ipotizzerà quali argomenti, comportamenti o strategie saranno più utili al suo scopo, inizierà a fare deduzioni dai vari segnali esterni disponibili.

Il modo di vestire di Y, se è da sola o in compagnia, i pettegolezzi o le opinioni che ha ascoltato su Y, eventuali informazioni che ha potuto rintracciare sui social network

Potrebbe fare riferimento ad eventuali modelli di corteggiamento che ritiene vincenti, più di moda o che hanno avuto successo in situazioni simili.

In base a queste supposizioni X inizierà a costruire la sua strategia di approccio verso Y, cercando di comportarsi nel modo più conforme ad esse, senza verificare se le ha indovinate realmente e se è realmente capace di comportarsi in quel modo.

Inoltre, se X si accorgesse che la sua tattica non stesse andando a buon fine, non metterà in discussione le sue supposizioni, ma riterrà Y una tipa difficile da capire, considerandola responsabile dell’eventuale insuccesso.

Nel caso in cui le supposizioni di X lo portassero a pensare di dover agire secondo comportamenti che non si sente in grado di fare, potrebbe sentirsi inadeguato e provare emozioni come ansia o tristezza, oppure potrebbe desistere dall’approccio provando emozioni come tristezza o vergogna.

X proverebbe emozioni come se una cosa fosse successa ma in realtà non è successa, le sue emozioni sono conseguenza solo delle sue ipotesi (non le piacerò) che hanno generato emozioni (tristezza) e che hanno favorito il suo comportamento (desistere dall’approccio).

Il comportamento di X viene quindi governato da supposizioni arbitrarie che vengono ritenute vere senza essere verificate o messe in discussione dall’esperienza diretta.

Se qualcuno nasconde una cosa dietro un cespuglio, e poi la va a cercare proprio là e la trova pure, non c’è da vantarsi molto di questa ricerca e del ritrovamento: eppure così stanno le cose con la ricerca e il ritrovamento della ‘verità’ dentro la circoscrizione della ragione (F. Nietzsche, 1873).

Il comportamento governato da supposizioni è osservabile in tutti gli scambi comunicativi, tutti noi partiamo sempre da presupposti ipotetici prima e durante una conversazione, è inevitabile, automatico e anche utile.

Quello che è possibile fare è porre a verifica le proprie supposizioni per non tramutarle in ostici pregiudizi, è possibile dubitare delle istintive deduzioni prestando attenzione alle cose che accadono mentre accadono, alla relazione mentre ci si relaziona.

Nell’ambito della dipendenza patologica è frequente riscontrare il comportamento governato da supposizioni sia quando si parla con un tossicodipendente sia quando due tossicodipendenti parlano tra loro, ma è anche rilevabile tra i diversi professionisti che si occupano delle dipendenze patologiche. A volte quando si parla con un collega di una Comunità Terapeutica si può essere condizionati da ciò che si pensa delle Comunità Terapeutiche, oppure quando si parla con un collega del Sert si può essere condizionati da ciò che si pensa dei Sert.

Quando il tossicodipendente parla e tende a mentire (cosa molto probabile), non ascolto con attenzione ciò che dice perché sono troppo impegnato a cercare le sue bugie, ho paura di non riuscire a smascherarlo e inizio a perdere contatto con lui, inizio a pensare di avere di fronte un bugiardo che nega l’evidenza e che io devo diventare una sorta di macchina della verità, inizio a pensare che c’è una realtà che mi tiene nascosta ma io non la conosco e anche se lui me la dicesse non me ne accorgerei, questo mi mette ancora più ansia e mi fa arrabbiare perché inizio a brancolare nel buio, perché mi accarezza l’idea di aver sbagliato mestiere o almeno patologia a cui dedicarmi.

Ad un certo punto mi arriva l’illuminazione di chiedergli di fare le analisi tossicologiche, ma poi penso che potrebbero essere negative o che potrebbe alterarle in qualche modo e io sarei con le spalle al muro e lui con la verità liquida e giallognola tra le mani, allora penso che è colpa sua, che non vuole cambiare, che non c’è niente da fare con chi si comporta così, e a questo punto provo un misto di rassegnazione e di sollievo per le mie scelte lavorative.

In realtà, invece di cercare una verità nascosta da qualche parte senza neanche sapere quale è, potrei utilizzare il tempo della conversazione con il paziente in modo più efficace, cercando di non restare con un pugno di mosche in mano, molta frustrazione e senza uno straccio di alleanza terapeutica.

Invece di cercare bugie, potrei indagare a cosa gli serve mentire, in quale contesto e in quale momento della terapia sta alterando o censurando la verità.

Potrei indagare che cosa suppone che accadrà se dicesse che è ricaduto o che avverte un forte craving, il desiderio improvviso ed incontrollabile di assumere la sostanza, potrei essere io a verbalizzare le ipotesi arbitrarie che sta producendo nella sua mente, non per cercare la verità ma per metterle in discussione.

Ad esempio: il paziente è in Comunità, è andato a casa per un paio di giorni, non ha usato sostanze ma ha dovuto confrontarsi con un forte desiderio di assumere sostanze.

Al ritorno in Struttura, alla domanda —Come è andata?— potrebbe rispondere che —E’ andata bene—, senza riferire all’operatore l’esperienza di craving che ha vissuto.

Che funzione svolge questa omissione, a cosa gli serve?

Il dilemma del paziente potrebbe essere: —Se dico che ho avuto un forte craving, la prossima volta mi diranno di andare a casa meno giorni oppure di non andarci… Alla fine il desiderio me lo sono gestito, è meglio che non dica niente altrimenti mi faranno un sacco di domande… Questi penseranno che devo stare in Comunità ancora un sacco di tempo…

Molto probabilmente il paziente ometterà l’esperienza di craving non per non affrontarla, ma per evitare ciò che suppone potrebbe accadere se la riferisse, l’ipotetico dialogo con l’operatore lo ha già costruito nella sua mente considerando vere delle conseguenze del tutto arbitrarie.

Potremmo superare questo dilemma avvertendo a priori il paziente e dicendogli che, qualora al ritorno dai due giorni a casa ci comunicasse il suo desiderio di assumere sostanze, non accadranno le cose che teme ma si cercherà di affrontare insieme la situazione individuando strategie per gestire il craving in futuro.

Purtroppo, però, lui potrebbe ugualmente supporre che questa nostra rassicurazione sia solo un modo per farci dire la verità oppure per tendergli una trappola.

Spesso i pazienti che trattiamo incontrano evidenti difficoltà quando devono fidarsi di qualcuno, quasi le stesse che incontriamo noi quando dobbiamo fidarci di loro.

Nel corso della loro storia personale hanno strutturato un concetto di fiducia particolarmente ambiguo e disfunzionale che hanno appreso in tutte le relazioni precedenti, non solo in ambito familiare, e che tendono a riproporre automaticamente anche nelle relazioni successive.

Le loro relazioni sono state finalizzate all’utilitarismo, all’ottenimento di qualcosa piuttosto che alla costruzione di qualcosa o alla collaborazione; la loro capacità prospettica nel valutare le conseguenze a lungo termine delle azioni o nel considerare la fattibilità di un progetto sono alterate dalle esperienze di vita e dall’utilizzo delle sostanze.

Troppe volte si sono trovati in situazioni in cui dovevano cercare una scappatoia immediata piuttosto che una via di uscita definitiva. I contesti nei quali questi pazienti si sono relazionati hanno richiesto determinati atteggiamenti, i loro comportamenti e i loro schemi mentali si sono mantenuti e rinforzati all’interno di ambienti in cui ne veniva favorito l’apprendimento, perché si dimostravano utili e funzionali.

Hanno spesso dovuto riporre la loro fiducia su persone non affidabili, ad esempio, pur considerando non affidabile lo spacciatore da cui acquistavano la sostanza, si sono dovuti fidare di lui.

Raramente sono stati all’interno di relazioni senza restare in allerta, mantenendo un certo grado di allarme e dubitando delle intenzioni altrui, in alcuni casi il sospetto è stata l’unica strategia di difesa e di rassicurazione.

Le loro relazioni, quindi, si sono connotate emotivamente in modo ansiogeno, basandosi su convinzioni di sospettosità, di incoerenza tra ciò che si afferma e ciò che si agisce, sono state relazioni in cui c’è stata poca verbalizzazione e le intenzioni dell’altro andavano dedotte da segnali comportamentali arbitrari piuttosto che da reali spiegazioni.

I pazienti si portano dietro questa connotazione emotiva delle relazioni anche nelle nuove relazioni che instaurano, comprese quelle terapeutiche; diventa il loro marcatore somatico, lo strumento automatico che facilita il compito di selezionare opzioni vantaggiose dal punto di vista biologico ed evolutivo.

Capita spesso che possano cercare conferme di ciò che viene detto più dalle espressioni del viso che dalle parole pronunciate.

Ad esempio mentre il paziente risponde —No— alla domanda —Hai fatto uso di sostanze?— cerca nel viso dell’interlocutore dei segnali per capire se viene creduto.

Ci inventiamo perfino l’espressione sulla faccia dell’altra persona con cui conversiamo per farla coincidere con il brillante pensiero che pensiamo di aver espresso (Nietzsche, 1882).

La capacità di dare del tempo ad una relazione, al fine di permettere a sentimenti come la fiducia di instaurarsi, appare precaria e facilmente condizionabile da pregiudizi o predisposizioni mentali precostituite.

Inoltre è bene ricordare che i pazienti con una dipendenza patologica spesso traducono vantaggioso con immediato, che il loro cervello emotivo ha preso il sopravvento e richiede soluzioni urgenti anche se a breve termine e che il loro cervello cognitivo si inceppa nei processi di pianificazione e progettazione.

Sarebbe auspicabile che questo non avvenga anche nel nostro cervello.

L’immagine di sé e il modo in cui ci si racconta agli altri, cioè la narrazione soggettiva, hanno una influenza rilevante sulla vita delle persone, perché condizionano la maniera con cui gli altri si pongono in relazione con noi e perché le nostre narrazioni contribuiscono a determinare i giudizi di valore che diamo al nostro comportamento, la nostra disponibilità a impegnarci per cambiarlo o mantenerlo.

Ciò ha un rilievo ancora maggiore per condizioni esistenziali problematiche come quelle delle dipendenze patologiche.

In un esperimento condotto da Davies e Baker nel 1987 si evince un’interessante prospettiva sulla concezione di sé che ha il soggetto con una dipendenza patologica (Davis & Baker, 1987). Lo stesso esperimento, inoltre, apre alcune questioni che riguardano la disponibilità dell’esperienza soggettiva ad auto-interpretazioni variabili e fortemente condizionate dal contesto e dall’interlocutore.

Nello studio di Davies, venti maschi adulti eroinomani, con un’età media di 20 anni (tutti tra i 17 e i 24 anni) furono chiamati a rispondere a due interviste strutturate a distanza di 10 giorni.

I questionari erano del formato tipico di quelli che vengono sottoposti negli studi sull’uso di sostanze, sugli atteggiamenti nei confronti del consumo, su eventuali azioni criminali collegate e sulle ragioni del consumo.

Il primo giro di interviste fu condotto da un eroinomane di 26 anni conosciuto in zona che si presentò come arruolato da una vicina Università per aiutare a condurre la ricerca, mentre il secondo fu realizzato da un quarantenne non dipendente da sostanze che si presentò come un ricercatore universitario.

Fu poi proposto ai soggetti di sottoporsi ad un ulteriore questionario, indicato come legato a uno studio del tutto diverso, senza alcuna connessione con il primo.

I risultati generali dell’esperimento dimostrarono che i soggetti, quando furono intervistati dal ricercatore, presentarono se stessi come più fortemente dipendenti di quanto non avessero fatto durante l’intervista col ragazzo eroinomane.

Con quest’ultimo, riportarono risposte affermando di essere maggiormente in controllo rispetto al loro comportamento di consumatori di sostanze e di avere maggiore margine di scelta nell’assunzione e astensione dal consumo.

In una successiva discussione di questo esperimento, Davies (Davies, 1997) scrive:

Le persone sono capaci di costruire le loro spiegazioni sulla base della conoscenza e dell’esperienza delle attribuzioni che gli altri probabilmente faranno su di loro; e quando questo succede, si può dire che l’attribuzione abbia una componente strategica.

In seguito, altri esperimenti di Davies e colleghi rafforzarono la dimostrazione che ciò che le persone dicono circa la loro dipendenza, varia a seconda della persona con cui stanno parlando e del contesto in cui si trovano, invece di produrre narrazioni costanti delle proprie condizioni somatiche, nervose, psicologiche e sociali.

Questi risultati non sono nuovi, né in filosofia della mente né in psicologia generale: l’affidabilità del racconto, delle narrazioni di sé, è infatti stata da tempo messa discussione anche al di fuori della clinica delle dipendenze.

Generalmente, le persone riferiscono di se stesse molte cose distanti dal loro effettivo modo di essere e di fare.

Ciò può accadere nel tentativo di presentarsi in maniere accettabili per se stessi o per gli altri, o per se stessi in relazione agli altri. Forse ancor più frequentemente questo succede senza intenzioni malevole e spesso senza scopi consapevolmente strumentali, cioè al fine di ottenere vantaggi particolari, credendo anche alla veridicità del proprio racconto e cadendo nell’autoinganno.

Un po’ come la menzogna di chi si pettina con il riporto.

Anche se Davies sottolinea la componente strategica, i soggetti non necessariamente mentono sul loro stato.

Ovviamente, non si può escludere che qualche soggetto menta in modo consapevole quando presenta se stesso in maniera diversa a seconda dell’interlocutore.

Questa capacità dell’esperienza umana di farsi catturare da reti concettuali diverse a seconda dei contesti sembra però anche offrire una opportunità terapeutica che passa anche attraverso una revisione del modo di rappresentare e di raccontare la propria condizione clinica.

Non sembra un caso, infatti, che i soggetti intervistati nell’esperimento si concepiscano e si raccontino come fortemente dipendenti proprio di fronte al ricercatore che suppongono esperto della loro condizione: questo li predispone, di fatto, ad affidarsi alla scienza, alla pratica clinica, a esperti accreditati, piuttosto che continuare a ingannare se stessi circa la loro capacità di controllare il consumo della sostanza.

Il passaggio nel riconoscimento di aver problemi col controllo dell’uso di una sostanza è evidentemente cruciale per avviarsi a una riabilitazione ed ad una autonomia.

Le narrazioni di sé non sono solo il semplice strumento con cui comunichiamo agli altri i nostri stati mentali, le nostre impressioni, il nostro rapporto e le nostre interpretazioni dei fenomeni che ci riguardano o ci interessano.

È infatti attraverso il racconto, e per mezzo del linguaggio con cui può prendere corpo il racconto, che noi costruiamo un senso e un’identità riconoscibili.

Sono le parole che rendono possibile concepire un’immagine di noi stessi, dar un senso alle nostre azioni, giudicare in modo consapevole il valore che queste hanno per noi e la nostra vita, elaborare ragionamenti e dar peso esplicito ai processi motivazionali che indirizzano le nostre decisioni.

Sono le parole che ci permettono di provare a scegliere azioni diverse da quelle verso cui ci spingono gli impulsi, gli appetiti, le abitudini, le cose da cui dipendiamo.

Un’idea potrebbe essere quella di favorire allo stesso tempo lo sviluppo della consapevolezza di aver problemi con il consumo di sostanze e il racconto di questa condizione, anche usando la narrazione che ne fa la scienza.

Si potrebbe cioè tentare di utilizzare il modo con cui la ricerca scientifica spiega i processi biologici e mentali di controllo del comportamento, le ragioni del discontrollo, che può derivare dall’esposizione a certi stimoli o dal reiterare di certe azioni, le dinamiche con cui certe pratiche terapeutiche e rieducative possono portare a ristabilire una funzionalità personale soddisfacente.

Tutto ciò peraltro è riferibile non solo al consumo di droghe ma a tutti gli ambiti problematici dei comportamenti.

La narrazione scientifica, inoltre, si sviluppa attraverso un sistema di concettualizzazione per determinismi, modelli esplicativi razionali di processi funzionali, quindi per mezzo di una forma di conoscenza causale.

Un grado più elevato di coerenza e comprensione causale del proprio comportamento aumenta il controllo delle proprie dinamiche impulsive, dei propri appetiti, della tendenza a cadere negli automatismi e in generale di tutte le proprie azioni, non solo del desiderio e del consumo delle sostanze.

 

 

Alzheimer e Demenze: oltre la stigmatizzazione

La stigmatizzazione delle persone con demenza ha importanti conseguenze su credenze, emozioni e comportamenti delle famiglie e dei loro cari, in particolare nei primi stadi della malattia.

 

Il termine ‘demente’ deriva dal latino e significa privo di mente, pazzo, folle, insensato, irragionevole. Il termine ha un valore semantico dal potere fortemente stigmatizzante: definire una persona priva di mente, folle, porta ad identificarla con l’etichetta che le abbiamo attribuito; si tratta di un processo di ‘distorsione’ cognitiva cui ne consegue che facilmente la persona malata venga trattata da parte di istituzioni, comunità, familiari come fosse la sua ‘etichetta’, come se dal momento della diagnosi la sua identità fosse appunto quella di ‘demente’.

Nel DSM 5 viene in parte superata la diagnosi di demenza, preferendo quella di Disturbo Neurocognitivo (DN), ma il termine non è comunque del tutto scomparso.

La malattia di Alzheimer, di cui maggiormente si parla, è solo una delle forme di disturbo neurocognitivo e ci si riferisce spesso ad essa in modo ipergeneralizzato.

Nel nostro paese le persone con diagnosi di DN sono stimate in circa 1 milione di cui 600.000 affette da malattia di Alzheimer. In Francia si stima che ogni anno vengano diagnosticati più di 100.000 nuovi casi. Una vera pandemia.

Ma per quanto i DN, e in particolare la forma Alzheimer, siano non solo così diffusi ma con previsioni di forte incremento nei prossimi anni, anche in relazione al progressivo invecchiamento della popolazione, sulla malattia non c’è ancora sufficiente informazione.

Il Rapporto Mondiale Alzheimer 2019 di Alzheimer’s Disease International (ADI) ha pubblicato i risultati di un sondaggio condotto in 155 Paesi in tutto il mondo su un campione di 70.000 persone comprendente malati, familiari, personale medico e non. I risultati dell’indagine hanno evidenziato una diffusa e preoccupante assenza di conoscenza riguardo i DN nonché convinzioni distorte anche tra il personale sanitario. Tra queste l’idea che non si possa fare nulla per prevenire la malattia, credere che non sia opportuno coinvolgere nella vita quotidiana le persone con DN e che possano solo essere messe ‘da parte’ (60% degli intervistati). Il dato trova conferma in quanto affermato da molti dei malati intervistati che riferiscono di sentirsi ignorati dal personale sanitario.

Come affermano Quattropani e Coppola (2013):

Se per il decadimento del corpo esistono filtri, sieri e ampolle medicamentose che rivitalizzano pelli avvizzite, per una mente che decade, che si deteriora non resta che l’isolamento, l’impotenza, spesso l’indifferenza.

Le credenze negative, stereotipate, amplificano gli aspetti di progressiva perdita non solo di memoria ma di tutte le abilità cognitive ed emozionali, dell’autosufficienza, dell’incapacità e della dipendenza ed influiscono considerevolmente su come le persone si relazionano al malato.

La malattia di Alzheimer è associata ad un insieme di rappresentazioni negative e riduttrici cui ne consegue che la persona che ne è affetta viene disumanizzata, desocializzata (Ngatcha-Ribert N. 2004).

Tutto ciò ricade sulla qualità della vita non solo del malato ma anche delle famiglie che trovano difficoltà nel sentirsi ascoltate, comprese e quindi nel chiedere aiuto, nell’aver fiducia di trovare una risposta ai propri bisogni.

La rappresentazione sociale delle demenze, per quanto finora abbiamo detto, porta a processi di stigmatizzazione.

La nostra mente è ‘progettata’ per garantire la sopravvivenza e a tale scopo necessita di un’alta capacità predittiva rispetto ciò che può accadere nell’ambiente. Tale capacità previsionale è possibile attraverso la costruzione di rappresentazioni, di mappe di sé stessi, degli altri e dell’ambiente. Questo implica processi di semplificazione della realtà attraverso classificazione, categorizzazione, discriminazione, esclusione. Questo processo normale può però portare anche a rigide stereotipizzazioni, pregiudizi, discriminazioni nei confronti  di individui aventi caratteristiche sociali indesiderabili. Di fatto quindi alla stigmatizzazione.

La stigmatizzazione è un processo per cui una persona viene valutata secondo delle caratteristiche ‘devianti’ in rapporto al contesto sociale e culturale di appartenenza, di conseguenza la sua identità sociale ne viene distorta e l’individuo viene sistematicamente escluso da diversi tipi di interazioni sociali. Le persone con demenza sono ancora troppo spesso oggetto di stigma e, insieme alle loro famiglie, interiorizzano le rappresentazioni negative che vengono loro attribuite (Raffard S.,Valery P., Gély-Nargeot MC. 2012). Questo ha importanti conseguenze su credenze, emozioni e comportamenti delle famiglie e dei loro cari in particolare nei primi stadi della malattia. Si può ad esempio provare vergogna per comportamenti bizzarri esibiti in pubblico dalla persona malata, ma vergogna anche per essere ammalati di una malattia che ci espone ad atteggiamenti negativi da parte degli altri che non ci riconoscono più soggetti ‘capaci’, ‘intelligenti’, ‘prestazionali’ ma solo ‘malati’ dimentichi di sè e del mondo esterno.

I pazienti affetti da Demenza di Alzheimer sono così voci mute, immagini di persone che gradualmente sbiadiscono, si perdono, non solo fattualmente nel vagabondaggio, ma psichicamente (…) Morire di questa malattia è un lento cancellarsi dal mondo (Quattropani, Coppola, 2013).

Le famiglie si chiudono nel loro dolore, sentono su di loro lo stigma, lo introiettano, hanno difficoltà a chiedere aiuto, sono drammaticamente sole nella gestione del malato, spesso ‘infantilizzato’, curato nei suoi bisogni fisici ma non compreso in quelli psicologici. Eppure, come alcuni studi dimostrano (Garolfi S., Lerda S. 2013), la persona malata di Alzheimer

preserva una soggettività che cerca di difendere strenuamente sin dalle prime fasi della patologia e tutto il sistema di cura a cui è affidata la presa in carico dell’anziano avrebbe il dovere clinico ed etico di sostenere questa capacità. (Quattropani, Coppola)

La persona con Alzheimer si trova sempre più, con il progredire della malattia e la conseguente perdita della memoria, a vivere in un mondo che perde significati, che non è più prevedibile, cerca così di dare un senso, una coerenza, una nuova narrazione di sé attraverso ricordi privi di connessione combinati in modi un po’ ‘surreali’, espressi con un linguaggio sempre più impoverito e connotato da una dimensione più affettivo-emotiva che cognitiva. Non è ‘perdita’ di senno, perdita di tutto quanto culturalmente associamo all’intelligenza, alla produttività, all’efficienza, alle capacità relazionali. E’ l’unico modo possibile per il malato di sostenere ciò che resta della propria identità, il ‘Chi sono’, ‘Qual è la mia storia’.

Gli studi che hanno esplorato in che misura il sé e l’identità persistono nelle persone con malattia di Alzheimer sono ancora pochi ma alcuni di questi suggeriscono prove della persistenza del sé nella malattia nei diversi stadi (Caddell L.S., Clare L., 2010).

Riconoscere l’identità della persona malata, vederla come persona unica e di valore, con le sue emozioni, i suoi bisogni, i suoi desideri, le sue preferenze significa allora superare le etichette sulla demenza, gli stereotipi, lo stigma e tutto quanto abbiamo visto ne consegue. Significa creare condizioni per una migliore qualità della sua vita, per una ‘convivenza sufficientemente felice’ (Vigorelli P., 2018).

Pertanto:

Un cambiamento della percezione e dell’idea della malattia di Alzheimer e delle altre malattie neurodegenerative celebrali deve essere una priorità al fine di favorire l’accompagnamento dell’invecchiamento problematico (Raffard S. et al., 2012).

 

I sogni lucidi e l’uso della sveglia

Studi passati hanno suggerito che la deliberata alterazione dei comportamenti legati al sonno, come ad esempio il breve riaddormentarsi dopo il risveglio, può essere usata per indurre sogni lucidi.

 

Lo studio attuale (Smith &Blagrove, 2015) amplia questo lavoro indagando l’associazione tra la frequenza dei sogni lucidi e l’uso della sveglia. Ottantaquattro partecipanti hanno completato un questionario retrospettivo online che ha misurato la frequenza dei sogni lucidi, la frequenza dell’uso della sveglia, la frequenza dell’uso del pulsante snooze al mattino e il numero medio di risvegli per notte.

Il termine “sogno lucido” è stato coniato da Van Eeden (1913) per indicare un sogno in cui il dormiente sa di sognare. Si stima che circa il 50% della popolazione generale faccia almeno una volta nella vita un sogno lucido e circa il 20% delle persone fa sogni lucidi regolarmente (Schredl&Erlacher, 2011). Studi fatti hanno suggerito che tale tipologia di sogni si verifichi subito dopo il sogno REM, infatti, è stato verificato, per mezzo dell’uso del eye-movement signaling durante il sonno REM, che il sogno lucido si accompagna ad un movimento rapido degli occhi (LaBerge, Nagel, Dement, &Zarcone, 1981). Inoltre, nel sonno REM, la corteccia prefrontale dorsolaterale (DLPFC) si disattiva selettivamente (Schwartz&Maquet, 2002), e la sua riattivazione consente il pensiero diretto, la metacognizione e la consapevolezza durante il sogno (Hobson, Pace-Schott, & Stickgold, 2000). La ricerca di Brain imaging supporta tale speculazione, come dimostrato da Voss, Holzmann, Tuin e Hobson (2009), i quali sono stati in grado di convalidare per la prima volta che il sogno lucido è direttamente associato a modelli di attivazione corticale sulle regioni frontali durante il sonno REM. Pertanto, per passare dal sogno REM al sogno lucido, si verifica un aumento di attività in alcune aree cerebrali, tale per cui vi sono immagini visive più vivide, una maggiore attività cognitiva e una maggiore lunghezza delle parole dei sogni (Antrobus, Kondo, Reinsel, &Fein, 1995).

Anche se sono stati fatti tentativi per sviluppare tecniche per indurre e aumentare la frequenza del sogno lucido, Stumbrys, Erlacher, Schädlich e Schredl (2012) hanno trovato che la tecnica Wake-Back-To-Bed (WBTB) è una delle tante tecniche di induzione che è efficace per provocare sogni lucidi. In questa tecnica un individuo programma una sveglia per svegliarsi un’ora prima dell’ora naturale di risveglio e, al risveglio, si concentra sull’essere lucido quando si addormenta di nuovo (LaBerge, 1985). Il primo obiettivo dello studio attuale è quello di valutare la prevalenza dei sogni lucidi in funzione della frequenza di utilizzo delle sveglie. Il secondo obiettivo è quello di valutare la prevalenza dei sogni lucidi in funzione della frequenza di utilizzo del pulsante snooze. L’ipotesi è che un uso maggiore del pulsante snooze possa essere associato a sogni lucidi frequenti. Il terzo scopo dello studio è quello di condurre un’analisi dell’associazione tra il sogno lucido e l’uso del pulsante dello snooze che controlla altre variabili che potrebbero essere correlate alla frequenza del sogno lucido o all’uso del pulsante dello snooze, ovvero la frequenza di richiamo del sogno, il numero di risvegli per notte e la frequenza dell’uso della sveglia.

Innanzitutto ai partecipanti è stata fornita una definizione di sogno lucido:

esso si verifica quando un individuo si rende conto che sta sognando e, pur rimanendo addormentato, può controllare alcuni degli eventi o del contenuto del sogno.

Successivamente gli è stato chiesto se avevano vissuto o meno un sogno lucido (es. “Hai mai fatto un sogno lucido?”) e in caso di risposta affermativa, hanno indicato la frequenza (mai, meno di una volta all’anno, una volta all’anno, 1-2 notti all’anno, 1-3 notti al mese, 1-3 notti alla settimana, 1-3 notti al mese, 4-7 notti alla settimana). Le stesse opzioni di risposta, sono state utilizzate per valutare la frequenza di richiamo dei sogni. Ai sognatori lucidi è stato poi chiesto di scrivere un rapporto di un sogno lucido per assicurarsi di aver classificato correttamente il sogno e di averne compreso la definizione. Il numero di risvegli è stato valutato dalla domanda “Quante volte in una notte ti svegli, anche solo brevemente?”; inoltre, ai partecipanti è stato chiesto “Utilizzi una sveglia?”, e, in caso di risposta affermativa, è stato poi chiesto “Quante mattine a settimana utilizzi la sveglia?”, “Quante volte, in media, premi il tasto di snooze?” e il numero medio di volte che lo utilizza ogni mattina.

Dai risultati è emerso che la categorizzazione dei partecipanti in base all’utilizzo o meno di una sveglia non ha portato a differenze significative tra i gruppi di utilizzo della sveglia per la frequenza dei sogni lucidi. Inoltre, è emerso che esiste una relazione significativa e positiva tra la frequenza del sogno lucido, il gesto di premere il tasto di snooze della sveglia, nel caso di persone che utilizzino una sveglia, e la frequenza di richiamo dei sogni. Tuttavia, un limite del presente studio è costituito dal fatto che non è stato chiesto ai partecipanti quanto spesso o se i loro sogni lucidi si verificano durante i periodi di sonno dopo l’uso del pulsante snooze; pertanto, potrebbe essere che i sogni lucidi si verifichino in momenti diversi dai periodi di snooze, nel qual caso potrebbe essere necessario proporre e studiare qualche altra spiegazione per la relazione tra l’uso del pulsante snooze e il sogno lucido valutato retrospettivamente.

 

Un attimo prima di cadere. La rivoluzione della psicoterapia (2020) di Giancarlo Dimaggio – Recensione del libro

Giancarlo Dimaggio è un grande fautore dell’integrazione in psicoterapia e, per non smentirsi, ha deciso di scrivere un libro, Un attimo prima di cadere, in cui l’integrazione fonda, in buona sostanza, anche la tecnica della scrittura.

 

Un attimo prima di cadere presenta i caratteri del saggio e del romanzo; della chiacchierata tra amici davanti a un bicchiere di birra e del dramma esistenziale; dei racconti sportivi e delle vignette cliniche; del cazzeggio e della riflessione teorica; del vissuto e dell’immaginato; delle narrazioni (cliniche e romanzesche) di Irving Yalom e delle suggestioni di Milton Erikson. Parallelamente suscita sentimenti ed emozioni contrastanti: simpatia e irritazione; piacere e dolore; vertigine e scoramento; vicinanza e distacco. Insomma: questo libro è uno strano oggetto, ma non lascerà indifferente il lettore.

In qualche modo la tesi di fondo (o almeno quella che al vostro recensore è parsa tale) è già di per sé abbastanza paradossale, in un certo senso: si può parlare, come da sottotitolo, di una vera e propria rivoluzione della psicoterapia degli ultimi anni, anche se gli strumenti tecnici di questa rivoluzione erano stati scoperti di fatto da molto tempo: in parte, da orientamenti teorici che venivano guardati come non-scientifici o al limite della scientificità, in parte, perfino da personaggi apertamente osteggiati dal mainstream e che sono in corso di riscoperta. Da questo punto di vista, il caso più clamoroso è quello di Pierre Janet, che Freud e i suoi allievi provarono ad archiviare nella soffitta della storia, ma che illustri personaggi hanno provveduto a recuperare, da Henri Ellenberger fino al compianto Philip Bromberg, recentemente scomparso. Vale la pena riportare le scherzose parole di Dimaggio a questo riguardo, perché offrono anche un esempio dei momenti più casual del libro:

Ah regà, Giancarlo [Dimaggio, NdR] sta a dì’ pe’ davero. Pierre Janet spacca de brutto, ’na cifra proprio. Nun se lo so ’nculato de pezza perché Freud era più fijo de la mignotta, co tutto e’ rispetto p’a’ madre (p. 58).

Questo almeno è quello che direbbero le ‘Brigate Janetiane’, mentre gli ‘Ultras Curva Sigmund’ sarebbero certamente di altro avviso. Anche perché, come Dimaggio non manca di sottolineare, non è che la psicoanalisi debba essere a sua volta archiviata come teoria inutile. La psicoanalisi infatti (come del resto la terapia cognitiva classica) ha esplorato le ‘idee su come i nostri desideri legati agli scambi con gli altri vanno a finire’; ha peraltro anche lavorato (come cognitivismo e comportamentismo in modi ovviamente differenti) sui ‘pattern di comportamento automatico che la persona mette in atto a volte in modo cosciente […] a volte in modo inconsapevole’. Tuttavia, sugli ‘stati del corpo’ si sono soffermati piuttosto Gestalt e bioenergetica; già gli ipnotisti, invece, avrebbero lavorato sulle ‘immagini mentali’ definite informalmente come ‘veri e propri film in cui proietto nella mia mente la storia [che sto vivendo ora]’ (pp. 276-277). Tutte queste dimensioni dovrebbero entrare nel discorso psicoterapeutico, ma di fatto alcune sono state lavorate in passato solo nell’ambito di paradigmi terapeutici oggi minoritari se non completamente screditati.

Ciò che in generale nel corso del tempo è mancato alla maggior parte delle psicoterapie sarebbe la capacità di coniugare: a) la consapevolezza epistemologica (sapere perché bisogna usare certe tecniche), b) una teoria dello sviluppo euristicamente valida; c) una teoria delle motivazioni consistente e d) il coraggio della verifica empirica. Tutto questo sarebbe ottenibile grazie alle maggiori nozioni che abbiamo sul funzionamento del nostro cervello, e in particolare alle ricerche sui neuroni specchio (a); alla teoria dell’attaccamento di Bowlby e a quella dello sviluppo del Sé di Stern (b); al lavoro di Liotti sull’operativizzazione dei sistemi motivazionali teorizzati da Lichtenberg (c); naturalmente alla ricerca, e in particolare la ricerca-azione.

Dal punto di vista operativo, l’azione terapeutica si troverebbe riassunta in ‘6 Tessere’, il cui contenuto può essere così riassunto:

Tessera 1: ragioniamo, percepiamo il mondo e prendiamo decisioni sulla base delle emozioni che proviamo […] Tessera 2: il corpo, la postura, la percezione di forza, energia, debolezza, di caldo e freddo, di duro e morbido, influenzano il modo di pensare e le decisioni […] le decisioni che prendiamo nascono prima che la coscienza abbia voce in capitolo e dipendono, almeno in parte, dallo stato del corpo […] Nella Tessera 3 si legge: gli schemi interpersonali maladattivi formati nello sviluppo influenzano il comportamento e la visione del futuro. Il terapeuta deve cambiarne il testo. Tessera 4: gli altri sono entrati dentro di noi […] Lo psicoterapeuta deve aiutare i pazienti a smettere di pensare in termini di ‘mi fanno’ e iniziare a dire ‘io scelgo’. Tessera 5: mentre immaginiamo, il corpo si prepara ad agire […] Tessera 6: quando una scena si impianta nella nostra mente, che sia un ricordo una fantasia o un’anticipazione del futuro, cambia poco (pp. 265-271).

Si tratterebbe dunque di interrompere il circolo vizioso delle azioni basate su ricordi negativi, ‘stanare’ questi ricordi, e ‘plasmarli’ di nuovo, a formare degli schemi nuovi e più efficaci. Di fatto, la prospettiva che Dimaggio propone integra in particolare l’emdr, la terapia sensomotoria, la Mindfulness e la Schema Therapy. Con una formula si potrebbe dire basata sull’integrare forme terapeutiche di per sé proposte dagli ideatori come psicoterapie integrate (per un’analisi mi permetto di rimandare a Foschi e Innamorati, 2020).

Di fatto, però, Dimaggio non si ferma alla cosiddetta terza ondata cognitivista (alla quale i modelli ricordati sono riconducibili), ma apre alla psicoanalisi relazionale (molti dialoghi clinici riportati nel libro non sarebbero fuori posto in analisi nello stile di Mitchell) e allo psicodramma analitico (rivivere ‘nel presente’ situazioni traumatiche e trovare vissuti alternativi oltre alle relative interpretazioni). Non si può fare a meno di notare che anche queste due ultime prospettive, peraltro, si presentino a loro volta come integrative: Mitchell (1988) cercava di raccogliere sotto un’unica insegna i teorici riconducibili al ‘modello strutturale delle relazioni oggettuali’; Anzieu (1956) metteva insieme lo psicodramma di Moreno all’interpretazione psicoanalitica.

L’entusiasmo di Dimaggio, tuttavia, non inficia mai la sua onestà intellettuale e lui stesso è il primo a ricordare:

Per quanto riguarda l’efficacia di questi nuovi, chiamiamoli così, pacchetti di trattamento non c’è materiale per innescare i fuochi d’artificio. La terapia sensomotoria, di suo, non ha uno studio di efficacia che sia uno a sostegno – e in pratica nessun articolo scientifico pubblicato su riviste attendibili. Per definizione è quindi impossibile dire se sia più efficace delle terapie parascientifiche alle quali si è ispirata (p. 283).

Similmente, potremmo aggiungere, l’emdr è stata riconosciuta empiricamente una terapia che presenta la stessa efficacia della CBT; il che significa, di fatto, che a funzionare è la parte cognitivo-comportamentale e non quella para-ipnotica dei movimenti degli occhi.

Sarà questo nuovo impasto in grado di sommare l’efficacia delle tecniche proposte dai diversi modelli ai quali si ispira? Potrebbe darsi, ma torna anche in mente il monito di Adrian Wells:

L’impiego di trattamenti misti […] presenta dei problemi teorici e, nella sua forma più estrema, non è altro che un tentativo di ‘sparare nel mucchio (Wells, 1997, p. 301).

Il vetusto motto manzoniano del Cinque Maggio ci soccorre: saranno i posteri a lavorare a una sentenza certamente ardua da scrivere.

Lausanne Trilogue Play: co-genitoralità e applicazioni cliniche

l Centro per gli Studi sulla Famiglia (CEF) dell’Istituto di Psicoterapia dell’Università di Losanna ha messo a punto un modello di osservazione strutturata delle dinamiche tra madre, padre e bambino: il Lausanne Trilogue Play (LTP; Fivaz-Depeursinge & Corboz-Warnery, 2000).

 

Se storicamente la psicologia dello sviluppo si è focalizzata sulla diade madre-bambino, ora assume sempre più rilievo la diade padre-bambino e la consapevolezza che, in realtà, il piccolo si trova spesso all’interno di un contesto in cui sono presenti più caregiver.

A partire dagli anni Settanta, infatti, grazie al diffondersi dell’approccio ecologico dello sviluppo di Bronfenbrenner, gli psicologi si sono sempre più interessati al microsistema in cui il bambino definisce le sue connessioni relazionali.

Nel corso degli anni si sono sviluppate diverse procedure di osservazione per la valutazione delle relazioni familiari, che differiscono a seconda del costrutto indagato.

Co-parenting e stili co-genitoriali

Il costrutto del co-parenting (o co-genitorialità), inizialmente nato nel contesto degli studi riguardanti le coppie divorziate, negli ultimi decenni ha acquisito riconoscimento anche nei sistemi familiari integri (Margolin et al., 2001).

Esso può essere definito come quella componente che rileva la qualità della relazione tra i due genitori, la responsabilità condivisa e il grado di cooperazione o contrasto circa le pratiche di cura nei confronti del figlio (McHale, 2007).

Secondo degli studi, la co-genitoralità in epoche precoci di vita del bambino e il suo stile di coinvolgimento sono correlati con lo sviluppo sociale ed emotivo all’età di cinque anni (Favez, Lopes, Bernard et al., 2012).

Il co-parenting è influenzato dalle caratteristiche di personalità del genitore, dal temperamento del bambino, dalla qualità di relazione tra i genitori e da fattori extrafamiliari, spesso stressanti, di carattere economico e lavorativo (Delvecchio et al., 2013).

McHale individua come variabili del co-parenting il contatto affettivo, il coinvolgimento reciproco e il grado di cooperazione tra i genitori e il comportamento centrato sull’adulto o centrato sul figlio.

Dalla combinazione di questi fattori derivano quattro differenti stili di co-genitorialità: coesa, escludente, centrata sul figlio, competitiva. La co-genitorialità coesa si caratterizza per un alto grado di calore, coinvolgimento reciproco, cooperazione e moderata centratura sul figlio. Lo stile escludente vede un grande squilibrio nel livello di coinvolgimento dei due genitori, mancanza di calore, scarsa cooperazione e basso antagonismo. Nel caso di co-genitorialità centrata sul figlio, i genitori collaborano ma con scarso calore e coinvolgimento reciproco. Infine, la co-genitorialità competitiva si caratterizza per bassa cooperazione, calore e coinvolgimento reciproco che portano ciascun caregiver a cercare di guadagnarsi l’attenzione esclusiva del figlio.

Il Lausanne Trilogue Play

Il Centro per gli Studi sulla Famiglia (CEF) dell’Istituto di Psicoterapia dell’Università di Losanna ha messo a punto un modello di osservazione strutturata delle dinamiche tra madre, padre e bambino: il Lausanne Trilogue Play (LTP; Fivaz-Depeursinge & Corboz-Warnery, 2000).

Questo paradigma permette sia di comprendere l’impatto della co-genitorialità sul bambino tra i 0-3 anni sia di prestare attenzione al contributo del figlio alle dinamiche familiari.

Il Lausanne Trilogue Play è un intervento standardizzato in cui il bambino non è sottoposto a stress, come nella Strange Situation, ma deve interagire coi genitori in un compito piacevole, ponendo così la famiglia nella condizione migliore.

Vi sono diverse varianti del  Lausanne Trilogue Play a seconda della fase di sviluppo del bambino: quando ha pochi mesi di vita i genitori sono seduti su due sedie, orientate in modo da formare un triangolo, consentendo loro di guardare e dialogare col figlio posto su un seggiolino, mentre ad un’età maggiore la famiglia si siede intorno a un piccolo tavolo rotondo e vengono forniti dei giocattoli.

I tre diversi sottosistemi (madre-figlio, padre-figlio e madre-padre) vengono analizzati attraverso quattro diversi momenti. La prima parte dell’intervento prevede che un genitore giochi attivamente con il bambino mentre l’altro osserva, nel secondo momento i ruoli dei due genitori si invertono, nella terza parte i due genitori giocano entrambi col figlio e, infine, la coppia conversa lasciando il figlio in una posizione di terzo. In questo modo è possibile osservare, rispettivamente, le diadi, la triade e simultaneamente la coppia genitoriale e le capacità autoregolative del piccolo.

Un aspetto particolarmente analizzato è l’alleanza familiare, intesa come la capacità del nucleo familiare di coordinarsi per raggiungere un obiettivo. Tale aspetto è stato introdotto da Salvador Minuchin (1974) e si verifica quando i confini all’interno della famiglia sono chiari e flessibili. Nel corso della valutazione tramite Lausanne Trilogue Play, gli indicatori di alleanza familiare presi in considerazione sono la partecipazione dei membri, l’organizzazione dei ruoli di ciascun componente, il grado di attenzione rispetto al gioco e ai partecipanti e la condivisione delle emozioni.

Applicazione clinica del LTP

Vi sono modelli di consultazione clinica che usano il Lausanne Trilogue Play come modalità sistemica per valutare il nucleo familiare.

Il Developmental Systems Consultation (DSC), per esempio, prevede due sedute: nel primo incontro si utilizza il Lausanne Trilogue Play, videoregistrato su consenso, per poter analizzare la comunicazione familiare, il contributo del bambino e l’alleanza familiare mentre nella seconda seduta avviene una restituzione ai genitori tramite l’analisi dei video, evidenziando le risorse ma anche le aree problematiche.

A questo intervento può seguire un trial intervention, ovvero l’utilizzo di strategie non verbali da parte del consulente per sollecitare il cambiamento nel caso di difficoltà o conflitti tra i genitori.

Nel caso di famiglie ad alto rischio, in cui uno o entrambi i genitori hanno una malattia psichiatrica o fanno uso di sostanze, è utile condurre DSC ripetute nel tempo.

Il Lausanne Trilogue Play si dimostra, dunque, un valido strumento di osservazione diretta che permette di rilevare numerose informazioni sull’interazione triadica.

 

Il parent training nel trattamento dell’ADHD

Nelle famiglie di bambini con disturbo ADHD spesso la relazione genitore-figlio risulta difficoltosa e talvolta disfunzionale.

Stefania Valer – OPEN SCHOOL, Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Bolzano

 

Il Parent Training è un percorso psicologico in cui i genitori apprendono strategie educative efficaci per ridurre i comportamenti problematici dei bambini con ADHD e migliorare le modalità relazionali, diventando protagonisti attivi nel trattamento del disturbo.

Il Parent Training è un intervento psicologico che offre ai genitori degli strumenti da impiegare per un’efficace gestione dei comportamenti dei propri figli. Il termine Parent Training, infatti, significa letteralmente ‘Allenamento genitori’, un’espressione che fa intuire come tale programma si focalizzi sul potenziamento delle abilità genitoriali nel rapporto genitore-figlio. È uno spazio in cui i genitori possono esercitarsi nel comprendere i comportamenti del proprio figlio e nell’impiegare atteggiamenti costruttivi ed imparare a strutturare un ambiente che favorisca l’autoregolazione, l’autonomia e la riflessività del bambino.

In particolare, obiettivo primario è quello di fornire strategie comportamentali funzionali per aiutare i genitori a gestire il comportamento del proprio bambino, ma anche il proprio comportamento in quanto adulto educante, al fine di migliorare la qualità educativa ed affettiva nella relazione con i propri figli. I genitori acquisiscono infatti nuove abilità e stili educativi relazionali, che sono alla base di uno stile genitoriale orientato al problem solving.

Il percorso di Parent Training è stato introdotto alla fine degli anni Sessanta, a partire dal lavoro di Constance Hanf (1969), un clinico interessato alla modificazione di comportamenti aggressivi, oppositivi e devianti di bambini e ragazzi. Hanf basò il suo lavoro sull’importanza dell’intervento genitoriale, riconoscendo nella famiglia una risorsa fondamentale per riuscire a favorire comportamenti positivi nel bambino (Scheriani, 2007).

Tale intervento si è rivelato molto efficace nella gestione di bambini e ragazzi con disturbi comportamentali, in particolar modo il disturbo da Deficit dell’Attenzione/Iperattività, noto anche come ADHD. L’ADHD è un disturbo del neurosviluppo, caratterizzato da sintomi pervasivi di disattenzione, iperattività, impulsività, che compromettono significativamente la quotidianità del bambino ed incidono molto sull’aspetto relazionale con famiglia, insegnanti, coetanei. In questi casi, spesso il buonsenso e la forza di volontà non sono sufficienti: occorre infatti essere consapevoli e conoscere adeguatamente le problematiche del proprio figlio, per poter mettere in pratica strategie comportamentali efficaci al fine di raggiungere specifici obiettivi, ridurre i comportamenti negativi ed aumentare quelli positivi. Genitori più riflessivi, organizzati e coerenti nelle loro richieste ed azioni, permettono un maggiore sviluppo di autonomia dei propri figli nel trovare alternative di pensiero e di comportamento (Vio, Marzocchi, & Offredi, 1999). Questo non significa che le famiglie con bambini con ADHD debbano avere uno stile di vita estremamente rigido e colmo di regole da seguire, piuttosto che sia utile ed efficace creare un ambiente strutturato che dia uno spazio e un tempo al bambino per riflettere su ciò che sta facendo (Marzocchi, et al., 2019).

I primi interventi di Parent Training con genitori di bambini con ADHD risalgono all’inizio degli anni Ottanta, alla luce di ricerche e studi che evidenziarono la natura conflittuale delle relazioni e interazioni genitore-figlio nel caso di un bambino con ADHD: soprattutto in situazioni molto richiestive da parte dei genitori, si è visto come bambini con ADHD siano meno aderenti e collaborativi alle indicazioni e regole imposte dai genitori, oppure che lo siano per un tempo minore, e manifestino più atteggiamenti oppositivi e di non compliance rispetto ai loro coetanei (McMahon & Forehand, 2003).

Nonostante i numerosi studi a riguardo, i clinici a cui si deve maggiormente lo sviluppo e l’impiego di tale approccio nel contesto del disturbo ADHD sono Russel Barkley (1998) e Karen Wells e colleghi (1996; 2000). A partire dal modello di Hanf, Barkley definì un percorso d’intervento specificamente per genitori di bambini con ADHD, formato dagli 8 ai 10 incontri con un professionista specializzato; Wells e colleghi svilupparono invece un programma di Parent Training più esteso ed intenso di 27 incontri, con un intervento focalizzato non soltanto sui genitori, ma anche sull’ambiente scolastico.

In quest’ottica, l’idea di un approccio multimodale nel trattamento per l’ADHD acquisisce sempre più valore e ad oggi risulta essere l’intervento più efficace nella terapia di tale disturbo, che implica il coinvolgimento della famiglia, della scuola e del bambino stesso, in un percorso che vede la combinazione di terapie comportamentali, interventi clinico-psicologici e terapie farmacologiche, in base alla severità del disturbo (SINPIA, 2002; MTA, 2004).

Anche nel contesto italiano sono stati sviluppati programmi di Parent Training: tra quelli di maggior riscontro vi è l’intervento proposto da Vio, Marzocchi e Offredi (1999), che si articola in un primo momento informativo e di psicoeducazione rispetto al disturbo ADHD e in un secondo momento formativo in cui si individuano i comportamenti problematici e si ricercano strategie e soluzioni strategiche ed efficaci.

Più recente è il percorso CERG (Cognitive Emotional Relational Groups) a cura di Paiano, Re, Ferruzza e Cornoldi (2014), un programma di incontri con il focus principale sugli aspetti cognitivi emozionali e relazionali che emergono all’interno del gruppo (Paiano, Re, Ferruzza, & Cornoldi, 2014).

Come funziona il parent training?

Il programma di Parent Training prevede in genere lo svolgimento di 8-12 incontri a cadenza settimanale tra genitori di bambini e ragazzi con ADHD con un Trainer specificamente formato, nella maggior parte dei casi uno psicologo. L’intervallo tra una seduta e l’altra è appositamente pensato per dare spazio e tempo alle famiglie di mettere in atto le informazioni, i consigli e le strategie apprese nei diversi incontri e riflettere, nelle sedute successive, sulle difficoltà incontrate e i risultati ottenuti. Tutti gli incontri sono volti alla raccolta di informazioni rispetto alle situazioni in cui il proprio figlio utilizza comportamenti inadeguati e alla preparazione dei genitori al cambiamento (Scheriani, 2007). Per favorire un miglior monitoraggio da parte del Trainer e per dare un’opportunità ai partecipanti di mettere in pratica e sperimentare le strategie apprese fin da subito, il Trainer è solito assegnare i cosiddetti homework, i quali vengono discussi all’inizio di ogni incontro successivo per valutarne efficacia e problematiche.

In riferimento al programma originale di Parent Training di Barkley, sono riportate in seguito le fasi e gli obiettivi del percorso (Barkley, 2006).

Step 1: Informazione ed approfondimento del disturbo

Il Trainer descrive le caratteristiche specifiche del disturbo, illustrandone cause, decorso, eventuali comportamenti a rischio, trattamenti efficaci e non. Vengono affrontati nel dettaglio sia gli elementi più comuni e maggiormente conosciuti, come l’impulsività e la disattenzione, sia quelli di cui i genitori sono, di solito, meno consapevoli, come la frustrazione, la rabbia, la vergogna, il sentirsi ‘diverso’ o ‘sbagliato’. Questo momento iniziale permette, in primo luogo, di informare correttamente ed esaustivamente i genitori rispetto al disturbo e alla sua natura, e di incrementare la loro consapevolezza in merito ad esso; in secondo luogo, una maggiore cognizione permette loro di comprendere meglio lo stato d’animo, le emozioni e i comportamenti dei propri figli.

Step 2: Comprendere la relazione genitore-figlio

In questa seduta i genitori imparano a conoscere le cause dei comportamenti negativi e dirompenti dei propri figli e ad identificarle all’interno del proprio ambiente familiare, condividendo e discutendo con il gruppo gli episodi vissuti in precedenza. Il Trainer istruisce i partecipanti al modello antecedente-comportamento-conseguenza, al fine di riconoscere e di individuare gli eventi potenzialmente scatenanti un comportamento negativo e spiega i quattro fattori coinvolti nello sviluppo dei comportamenti-problema nei bambini: caratteristiche del bambino, caratteristiche dei genitori, eventi stressanti nell’ambiente familiare, stile genitoriale.

Step 3: Migliorare le interazioni positive

Compito del Trainer in questo incontro è quello di trasmettere ai genitori l’importanza di relazionarsi positivamente con i propri figli, soprattutto durante la manifestazione di un comportamento negativo. Vengono coinvolti ed invitati alla discussione di tale competenza, a fare pratica ed esercitarsi con il gruppo, a condividere le loro esperienze.

Step 4: Estendere le interazioni positive e incrementare la compliance dei bambini

In questa fase i genitori vengono sollecitati a notare ed evidenziare i comportamenti positivi dei loro figli quando si trovano in situazioni difficili, dando loro rinforzi positivi immediati e coerenti. Vengono poi illustrate strategie per dare dei comandi e regole nella maniera più efficace: fare richieste dirette, brevi, con obiettivi raggiungibili e a breve termine.

Step 5: Utilizzare un sistema a punti o a gettoni a casa

I genitori apprendono il sistema della Token economy, un sistema a premi che prevede di rinforzare i comportamenti adeguati del bambino, per favorirne una frequenza maggiore in futuro. Ai genitori verrà chiesto di stilare una lista di premi e rinforzi che possono motivare il bambino, e una seconda lista di quei comportamenti e regole che vorrebbero che il bambino rispettasse, a cui viene assegnato un punteggio o dei gettoni quando messi in atto. I punti o gettoni guadagnati daranno la possibilità al bambino di raggiungere il premio finale. Obiettivi e ricompense della Token economy possono essere condivisi e decisi con il proprio figlio, per farlo sentire maggiormente coinvolto e responsabile in questo intervento.

Step 6: Includere le ‘sanzioni’

Quando si verificano comportamenti non adeguati, la Token economy prevede l’utilizzo di sanzioni, che consistono nel sottrarre punti o gettoni precedentemente guadagnati. All’inizio del programma, il genitore condivide con il bambino i comportamenti che gli faranno perdere punti.

Step 7: Utilizzare il Time Out

Nel caso in cui si verifichino gravi comportamenti negativi, i genitori vengono istruiti alla tecnica del Time out, che prevede che il bambino si ritiri per qualche minuto (uno per ogni anno di età) in tranquillità in uno spazio che gli permetta di allontanarsi dal comportamento non funzionale emesso, così da elaborarlo e calmarsi. Prima di iniziare, i genitori discutono e concordano con il proprio figlio i motivi che fanno scattare il Time out e il numero di segnali di avvertimento che il genitore darà al bambino, prima di utilizzarlo. Al termine del Time out, il bambino torna alla propria attività.

Step 8: Regolare il comportamento nei luoghi pubblici

In questa fase i genitori imparano ad estendere il programma anche al di fuori dell’ambiente domestico, con alcuni accorgimenti da applicare in base al contesto esterno. Il Trainer identifica insieme ai genitori, i quali a loro volta condivideranno con il proprio figlio, i luoghi in cui il bambino tende a manifestare comportamenti non funzionali.

Step 9: I comportamenti problematici a scuola e la preparazione al termine del programma

I genitori imparano ad utilizzare il sistema a premi anche a scuola, con il supporto di un feedback costante da parte degli insegnanti del bambino rispetto a comportamenti funzionali e non, condivisi precedentemente con lui. Al fine di raggiungere tale obiettivo, è importante la collaborazione tra genitori ed insegnanti, che richiede una condivisione periodica rispetto ai comportamenti-problema evidenziati e di strategie per imparare a gestirli al meglio.

Step 10: Follow-up

Si tratta di una sessione di controllo a chiusura del percorso, in cui genitori e Trainer discutono i cambiamenti ottenuti, le eventuali resistenze ancora presenti e come gestirle.

Perché fare un percorso di Parent Training

Prendersi cura di bambini con ADHD può generare nei genitori forti situazioni di stress, che rischiano di ripercuotersi sulle relazioni all’interno della famiglia e, di conseguenza, sui sintomi del disturbo stesso. Le famiglie di bambini con ADHD sono spesso caratterizzate da meno ‘calore affettivo’ (Hurt, Hoza, & Pelham, 2007) e i genitori sperimentano sensazioni di una scarsa competenza genitoriale (Jhonston & Mash, 1989; Pisterman, et al., 1992) e di povertà di strategie educative efficaci, da cui possono nascere sentimenti come il senso di colpa, la frustrazione, la rabbia.

Un aspetto importante che emerge da molteplici studi in questo campo, è la correlazione positiva tra relazioni funzionali e coerenza educativa all’interno della famiglia e una sintomatologia del disturbo meno grave, maggiore accettazione sociale e maggiori abilità sociali (Hurt, Hoza, & Pelham, 2007). La famiglia è dunque una risorsa fondamentale a cui attingere per il trattamento del disturbo ADHD (Marzocchi, et al., 2019); sulla base di ciò, il Parent Training mira a modificare quelle relazioni che risultano disfunzionali, fornendo ai genitori strumenti utili che possano far emergere le potenzialità educative che ognuno di loro possiede, ma che talvolta faticano a mettere in atto.

Infine, tale percorso offre ai genitori un’opportunità di condivisione e confronto delle proprie esperienze ed emozioni: uno spazio in cui realizzano di non essere soli, in cui scoprono nuovi lati e modi di essere dei propri figli e ne riscoprono altri, a cui ora guardano con occhi nuovi.

 

 

Autismo legato a dislipidemia: una ricerca di recente pubblicazione ne identifica le basi molecolari

Gli autori della ricerca hanno identificato le basi molecolari comuni tra disfunzione del metabolismo dei lipidi ed autismo.

 

I disturbi dello spettro autistico presentano un’elevata eterogeneità, le loro cause sono ancora in gran parte sconosciute e per questo la diagnosi si fonda sull’accertamento dei sintomi. Ad agosto 2020 sono stati pubblicati su Nature Medicine i risultati di uno studio che ha identificato un sottotipo di autismo associato a dislipidemia e ne ha individuato le basi molecolari. Questa scoperta potrebbe aprire la strada a nuove acquisizioni scientifiche che permetterebbero di modificare l’approccio diagnostico all’autismo.

I disturbi dello spettro autistico, più comunemente detti autismo, sono disturbi del neuro-sviluppo caratterizzati sul piano sintomatologico da :

  • compromissioni qualitative del linguaggio,
  • incapacità o importanti difficoltà a sviluppare una reciprocità emotiva che si manifesta attraverso comportamenti e modalità comunicative, anche non verbali, non adeguate all’età, al contesto ed allo sviluppo mentale raggiunto,
  • interessi ristretti e comportamenti stereotipati e ripetitivi.

Nel 1943 fu Leo Kanner, medico austriaco naturalizzato statunitense, il primo ad utilizzare il termine autismo infantile e a descriverne i sintomi. Dagli anni ’40 ad oggi le conoscenze su questa sindrome si sono evolute e, vista la sua eterogeneità fino al 2013, anno di pubblicazione del DSM 5, si distinguevano vari sottotipi di autismo:

  • la sindrome di Asperger
  • il disturbo pervasivo dello sviluppo non altrimenti specificato
  • il disturbo disintegrativo o autismo regressivo
  • il disturbo autistico ad alto funzionamento

Con la pubblicazione del DSM 5 è scomparsa la distinzione dell’autismo in differenti sottotipi. Tuttavia i disturbi dello spettro autistico si caratterizzano dal punto di vista clinico per una cospicua diversificazione dei sintomi e della loro gravità (Castrucci, 2020).

Secondo i dati dell’Osservatorio Nazionale per il monitoraggio dei disturbi dello spettro autistico, in Italia 1 bambino su 77, di età compresa trai 7 e i 9 anni, presenta un disturbo autistico, con una prevalenza maggiore nei maschi, che sono colpiti 4,4 volte in più rispetto alle femmine. L’autismo si manifesta già nella prima infanzia, le cause del disturbo sono ancora in gran parte sconosciute anche se gli studi scientifici evidenziano un elevato tasso di ereditabilità ed un elevato tasso di concordanza nei gemelli monozigoti (Robinson et al. 2016; Castelbaum, L. On 2019).

Ad agosto 2020 è stato pubblicato su Nature Medicine uno studio condotto dai ricercatori della Harvard Medical School, del MIT e della Northwestern University che, grazie all’applicazione di tecniche di medicina di precisione, hanno identificato un nuovo sottotipo di autismo, detto autismo associato alla dislipidemia (Yuan Luo, Alal Eran, Nathan Palmer, Paul Avillach, Ami Levy- Moonshine, Peter Szolovits & Isaac S. Kohane 2020).

Questa forma di autismo è legata ad un gruppo di geni che regolano il metabolismo del colesterolo e lo sviluppo cerebrale. Gli autori della ricerca hanno identificato le basi molecolari comuni tra disfunzione del metabolismo dei lipidi e autismo. Per giungere a questo risultato si sono serviti di un approccio basato sull’intreccio dei livelli multipli di dati utilizzando un algoritmo di intelligenza artificiale.

Inizialmente per analizzare i profili di espressione genica cerebrale i ricercatori hanno utilizzato le informazioni provenienti da banche nazionali che raccolgono i dati sui i geni che funzionano in tandem durante lo sviluppo prenatale e post natale del cervello. Poiché l’autismo ha un’incidenza maggiore nei maschi che nelle femmine, gli autori hanno concentrato la loro attenzione sui geni che mostrano maggiore differenza tra maschi e femmine. Successivamente sono stati analizzati gli esoni di tali geni per individuare le mutazioni che sono più spesso presenti nei pazienti con autismo.

Per confermare il collegamento fra autismo e metabolismo dei lipidi, il gruppo di ricerca ha inoltre utilizzato due vaste repository record cliniche. E’ stato così accertato che il 6,5% dei pazienti che ha ricevuto una diagnosi di autismo presenta dislipidemia.

Le basi molecolari comuni tra dislipidemia ed autismo permettono di dare una spiegazione al perché nelle persone con sindrome di Rett, un disturbo dello sviluppo neurologico strettamente correlato all’autismo, si evidenzia una mutazione in un gene coinvolto nel metabolismo del colesterolo (Kyle SM, Vashi N, Justice MJ. 2018). Un’altra osservazione sorprendente, che oggi può finalmente trovare giustificazione è che, una percentuale tra il 50 e l’88% dei bambini con la sindrome di Smith-Lemli-Opitz, patologia causata da un difetto nella sintesi del colesterolo, presenta disturbi dello spettro autistico (Sikora DM, Pettit-Kekel K, Penfield J, Merkens LS, Steiner RD 2006).

Yan Luo, professore di medicina preventiva e autore dello studio sull’autismo associato a dislipidemia, spiega che “oggi, l’autismo viene diagnosticato solo sulla base dei sintomi, e la realtà è che quando un medico lo identifica, è spesso quando le finestre di sviluppo cerebrale precoci e critiche sono passate senza un intervento appropriato”. I risultati della ricerca condotta da lui e dai suoi colleghi potrebbero cambiare questo paradigma.

ACT per adolescenti. Trattare teenager e adolescenti in terapia individuale e di gruppo (2019) di Sheri L. Turrell e Mary Bell – Recensione del libro

ACT per adolescenti è un manuale sui protocolli dell’ACT per il lavoro con gli adolescenti, scritto da due grandi esperte nel settore di fama mondiale, Sheri L. Turrell e Mary Bell, la cui traduzione italiana è stata curata da Emanuele Rossi.

 

Un testo ricco di contenuti, strutturato in due parti, in cui la prima offre una panoramica sui fondamenti dell’ACT per poi passare alla seconda parte, dedicata alla descrizione molto accurata del modo in cui si articolano le sessioni del lavoro con gli adolescenti con le loro differenti problematiche e disagi come ansia, depressione, disturbi alimentari, autolesionismo, abuso di sostanze, difficoltà relazionali con il gruppo di pari, difficoltà scolastiche, sia in setting individuale che di gruppo. Il focus è posto più sulle varie fasi dell’intervento, tecniche, esercizi, attività esperienziali, uso delle metafore, atteggiamento del terapista che consentono poi di lavorare in modo flessibile ad adattabile alle esigenze del giovane (e/o della famiglia) che muove una richiesta di aiuto, il tutto facente riferimento ai sei processi dell’ACT quali accettazione, defusione, mindfulness, valori, azione impegnata, sé come contesto e come concretamente questi possono essere applicati.

Il punto di partenza, sottolineano le autrici, è la fase di assessment, anche per riuscire ad entrare in relazione con il giovane ed in questa fase, così come per l’intero processo terapeutico, diventa essenziale l’atteggiamento gentile e non giudicante del terapeuta. Per fare ciò, suggeriscono le autrici, non serve avere soltanto una mentalità ACT ma ‘ascoltare con orecchie ACT’, il che significa durante l’ascolto, applicare i sei principi citati prima e riuscirli ad inserire e rimandarli al paziente procedendo ad esempio dalla fusione con un pensiero o un’emozione (sono ansioso, sono un debole, deluderò i miei genitori) alla defusione (sento che sto avendo il pensiero di deludere i miei genitori…), all’allenamento mediante la mindfulness a prendere contatto con il momento presente, dall’evitamento di emozioni e pensieri scomodi e dolorosi all’accettazione, all’individuazione ed il riconoscimento di ciò che conta veramente per noi, il nostro sistema di valori, allo sviluppo di obiettivi ed azioni impegnate per il raggiungimento degli stessi.

Una volta ‘preparato il terreno’, si aiuterà il paziente a riconoscere le proprie strategie fallimentari che fino a questo momento ha messo in atto nel tentativo di evadere dal problema (disperazione creativa). Per fare questo uno strumento utile è rappresentato dagli STOP, un acronimo utilizzato per raggruppare le strategie alle quali più frequentemente si fa ricorso, ossia:

S: sabotarsi, auto lesionarsi, self-harm;
T: tranquillizzarsi, distrarsi;
O: optare per la fuga;
P: perdersi il presente.

Non mancano riferimenti a casi clinici reali e fittizi, per aiutare il lettore nella comprensione di quanto descritto. Inoltre il testo offre la possibilità di reperire schede e fogli di lavoro scaricabili gratuitamente mediante appositi indirizzi internet.

Identificare i valori

Aiutare il paziente ad identificare i propri valori diventa un altro aspetto importante all’interno del processo terapeutico, cosa che può essere difficile con gli adolescenti ma non impossibile. Anche in questo caso le autrici offrono una serie di suggerimenti circa possibili domande da porre durante il colloquio, il ricorso ad esercizi pratici ed esperenziali…

Una volta identificati e riconosciuti, essi stessi diventano i compiti da svolgere per le proprie sedute, ossia fare il più piccolo passo verso quella direzione.

Definire gli obiettivi

Nel definire gli obiettivi in sintonia con i propri valori, le autrici inseriscono un altro acronimo ossia il LLAMA, utilizzato per indicare il processo attraverso il quale muoversi al fine di ottenere ciò che conta veramente per noi, nello specifico:

L: l’etichettare pensieri, sentimenti, impulsi, storia;
L: lasciare andare la lotta, smettere di provare a controllare ciò che è dentro, mettere in ‘Pausa’;
A: autorizzare i pensieri ed i sentimenti, staccarsi dalla storia, autorizzarla e esserci dal momento che comunque non se ne andrà!
M: Mindfulness, ritornare al presente, senza giudizio, utilizzando i cinque sensi.
A: approcciare ciò che è importante, seguire i valori, o semplicemente ‘ACT’ (agire).

Anche in questo caso le autrici spiegano come con il paziente possa servire modificare l’ordine della sequenza descritta mediante l’acronimo, e dunque noi per primi avere una mente flessibile.

Il manuale continua a spiegare con accuratezza tutte e 10 le sessioni che si susseguono fino al termine del percorso ossia quando l’adolescente avrà sviluppato quella flessibilità psicologica che gli consenta di accogliere le esperienze della vita, emozioni e pensieri, seppur connotati negativamente unito al fatto di voler agire costruttivamente nella propria vita, ricordando ciò che conta veramente per lui/lei.

Un manuale valido ed utile, ricco di contenuti che vengono messi a disposizione del lettore addetto ai lavori che opera secondo i principi dell’ACT con adolescenti sia in setting di gruppo che individuale, da leggere, studiare e sul quale si prova piacere ritornare.

 

cancel