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Il dolore della perdita. La ruminazione mentale nel lutto

Il lutto in seguito alla perdita di una persona cara si configura come un processo fisiologico di adattamento che coinvolge aspetti emozionali, cognitivi e comportamentali e la cui fenomenologia segue una sequenza temporale tipica, sebbene suscettibile di un certo grado di variabilità individuale (es. diversa intensità, durata ed espressione dei sintomi).

Federica Ferrante e Giacomo Ercolani – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

 

Il lutto in seguito alla perdita di una persona cara si configura come un processo fisiologico di adattamento che coinvolge aspetti emozionali, cognitivi e comportamentali e la cui fenomenologia segue una sequenza temporale tipica, sebbene suscettibile di un certo grado di variabilità individuale (es. diversa intensità, durata ed espressione dei sintomi). Una quota ridotta ma non trascurabile di persone in lutto (10-20%) manifesta particolari difficoltà in questo processo di adattamento e riorganizzazione, rientrando in quel numero di casi che sperimentano un lutto prolungato o complicato: una recente meta-analisi ha rilevato come circa una persona in lutto su dieci sia a rischio di sviluppare una condizione di lutto prolungato o complicato (Lundorff et al., 2017).

Come evidenziato da Maciejewski e colleghi (2016), il lutto prolungato descritto da Prigerson ed il lutto persistente e complicato presente della quinta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM) sarebbero entità nosografiche praticamente sovrapponibili. Il disturbo da lutto prolungato è definito da una consistente difficoltà ad accettare la perdita e dalla presenza di distress e sintomi di natura traumatica che influenzano significativamente il funzionamento dell’individuo, compromettendone la qualità di vita e lo stato di salute: intense emozioni di rabbia e/o colpa legate alla morte, evitamento degli stimoli che ricordano il defunto e la realtà della perdita, incapacità di instaurare nuove relazioni e di andare avanti con la propria vita, ecc. (Horowitz et al., 1997; Prigerson et al., 2007; Chiambretto, 2008; Maercker et al., 2013; Jordan & Brett 2014; Nanni et al., 2015). Il persistente ricorso alla ruminazione mentale, che può accompagnarsi ai suddetti sintomi, si configura come un elemento aggravante il quadro clinico.

La ruminazione è uno stile di pensiero ricorrente, ripetitivo e negativo riferito a eventi negativi di vita e ai propri disagi emotivi (Michael et al., 2007). È una vera e propria ri-analisi di avvenimenti passati dei quali la persona cerca di identificare le cause e le conseguenze, attribuendole principalmente al proprio comportamento o modo di essere. Questo genera, inevitabilmente, dei vissuti di sofferenza che diventano essi stessi contenuti su cui ruminare, alimentando tale processo tanto minuzioso quanto astratto. Per dare l’idea, alcune domande a cui la persona tenta di rispondere durante un processo ruminativo sono: ‘Perché è successo a me?’, ‘Cosa ho fatto di male per meritarmi questo?’, ‘Perché mi sento così triste?’, ‘Perché continuo a fare gli stessi errori?’ (Caselli et al., 2011). La ruminazione è il sintomo principale della depressione maggiore (Clark, Beck & Brown, 1989) e ha una funzione di mantenimento dei vissuti di tristezza, rendendo la persona vulnerabile a future recidive (Smith & Alloy 2009). È, inoltre, riscontrabile in tutti gli stati depressivi presenti all’interno di altri quadri psicopatologici (ibidem), quali, solo per citarne alcuni, il disturbo d’ansia sociale, il disturbo da stress post-traumatico, le dipendenze da sostanze, alcuni disturbi di personalità.

Nonostante la letteratura sulla ruminazione sia abbastanza corposa, non c’è accordo unanime sulla funzione e sul funzionamento di tale processo. Tra le teorie maggiormente sostenute da dati empirici, la Response Styles Theory (Nolen-Hoeksema, 1991) si focalizza sul ruolo della ruminazione nei disturbi depressivi, considerandola una strategia cognitiva che alcune persone attivano in conseguenza a emozioni spiacevoli e umore depresso. Focalizzando l’attenzione sul proprio umore deflesso e sulla concezione negativa di sé, l’angoscia e la tristezza si amplificano, peggiorando l’umore, indebolendo la capacità di risolvere i problemi, abbassando la motivazione e riducendo il coinvolgimento sociale (Eisma & Stroebe, 2017). Tutto ciò rimanda alla definizione del concetto di brooding, cioè una passiva contemplazione di ciò che c’è di sbagliato nella propria vita, che si differenzia dal fattore reflection che, invece, si riferisce alla contemplazione di sé orientata alla risoluzione dei problemi personali. Il primo fattore, brooding, costituisce la componente non funzionale della ruminazione (Kuyken et al., 2006; Lo, Ho & Hollon, 2008).

La Rumination as Avoidance Hypothesis (Stroebe et al., 2007) considera la ruminazione come una forma di evitamento cognitivo tramite il quale vengono allontanati dallo spazio attentivo stimoli interni dolorosi. L’evitamento può interferire con l’accettazione dell’evento doloroso e/o del vissuto emotivo perché impedisce di entrarci davvero in contatto nella sua autenticità. Tale teoria è stata sostenuta da diversi studi di indagine successivi che hanno chiaramente supportato un legame tra ruminazione da un lato ed evitamento cognitivo (ad esempio, soppressione del pensiero) ed emotivo dall’altro (Dickson, Ciesla & Reily, 2012; Liverant et al., 2011; Giorgio et al., 2010; Moulds et al., 2007; Cribb, Moulds & Carter, 2006; Wenzlaff & Luxton, 2003).

Altre teorie hanno descritto la ruminazione come un processo psicopatologico transdiagnostico. La Control Theory (Carver & Scheier, 1998; Watkins, 2008), applicata a numerose aree della psicologia tra cui motivazione, psicopatologia e autoregolazione, sostiene che la ruminazione rappresenta una strategia che serve a controllare l’eventuale discrepanza tra i propri ideali/obiettivi personali e la realtà al fine di ridurre l’eventuale divario, fonte di sofferenza. Tuttavia, la ruminazione, proprio per la sua astrattezza, interferisce con la risoluzione dei problemi in quanto non consente di pianificare azioni concrete e impedisce di abbandonare lo scopo di riferimento, a volte difficilmente realizzabile o non funzionale per sé.

Non per ultima in termini di importanza, la Self-Regulatory Executive Function Theory (Wells & Matthews, 1994) considera la ruminazione, insieme a strategie di monitoraggio della minaccia e di soppressione e controllo del pensiero e a comportamenti maladattivi, una componente della Sindrome Cognitivo-Attentiva (CAS), caratterizzata da credenze metacognitive positive (ad esempio, ‘Pensare al mio dolore mi aiuta a uscirne’) e negative (ad esempio, ‘Se continuo così, rimarrò triste per sempre’) che alimentano la tristezza e i pensieri negativi. La ruminazione, dunque, è mantenuta da credenze circa la sua funzionalità, utilità e incontrollabilità.

Nell’esperienza del lutto, come anticipato in precedenza, è molto frequente sentirsi invasi da pensieri ricorrenti circa le dinamiche della morte, da veri e propri autorimproveri e da quelli che vengono definiti come pensieri controfattuali (immaginare scenari passati alternativi in cui le cose sono andate diversamente da come sono accadute nella realtà). In tal senso, la persona in lutto appare intensamente impegnata in questa attività cognitiva che si riflette in stati d’animo spiacevoli e spesso disturbanti. L’attività di ruminazione può essere vista come una forma di coping che la persona mette in atto per far fronte alla sofferenza che sperimenta (come modalità di fronteggiamento o di evitamento a seconda del modello teorico che si assume come riferimento), tuttavia il suo impiego ha come conseguenza l’amplificazione delle emozioni di tristezza e di disperazione. Infatti, secondo la sopracitata Response Styles Theory (RST) la ruminazione avrebbe degli effetti negativi sullo stato psicologico della persona perché aumenterebbe l’emergere di pensieri negativi, interferirebbe con modalità adattive di problem-solving e ridurrebbe la possibilità di ricevere un adeguato supporto sociale (Nolen-Hoeksema, 2001).

Una delle domande a cui alcuni ricercatori hanno provato a dare una risposta è se la ruminazione che osserviamo nel lutto (in inglese grief rumination) abbia delle caratteristiche specifiche. Ci sono cioè delle differenze apprezzabili tra il processo ruminativo del lutto con quello che avviene in altre condizioni come, ad esempio, nella depressione? Secondo Eisma e colleghi (2014) una differenza risiede nei contenuti del pensiero. Nel caso della depressione la persona si concentra sulle proprie emozioni e su come queste la facciano sentire distante da uno stato desiderato di felicità e ottimismo: la discrepanza in questo caso è tra una condizione ideale di benessere ed una condizione reale di abulia, anedonia e disforia che spesso comporta un atteggiamento persistente di autobiasimo. Nel lutto è evidente che la principale discrepanza sulla quale il pensiero si aggroviglia è tra una condizione desiderata in cui il proprio caro sia ancora in vita e la realtà della sua irreversibile assenza: ciò pertanto porta la persona in lutto a concentrarsi maggiormente sulle cause e sulle conseguenze della morte piuttosto che sulla propria sintomatologia.

Aspetti caratteristici della ruminazione nel lutto sembrerebbero essere dunque la presenza dei già citati pensieri controfattuali inerenti alla perdita del proprio caro, di pensieri ripetitivi circa l’ingiustizia di quanto accaduto e di pensieri sul significato della perdita, sulla propria reazione emotiva e sulla reazione delle altre persone (familiari, amici, colleghi, conoscenti). Il pensiero controfattuale si concentrerebbe dunque su quattro aspetti fondamentali (Neimeyer, Pitcho-Prelorentzos & Mahat-Shamir, 2019): il sé, ovvero su come la persona in lutto rivaluta se stessa e le sue azioni in relazione alla persona scomparsa e alla sua morte (es. ‘se solo avessi detto/fatto questo’); la persona deceduta, cioè su considerazioni rispetto alle sue azioni e al suo modo di essere (es. ‘se fosse stato diverso da come era’); le altre persone, ovvero pensieri sui comportamenti e gli atteggiamenti degli altri (es. ‘se solo gli altri non si comportassero così’); e infine le circostanze della morte, ovvero sugli aspetti specifici legati al decesso e su come è percepito il mondo in generale (es. ‘se solo non fosse uscito quella sera’). L’eccessiva focalizzazione su questi aspetti potrebbe impattare negativamente sulla costruzione di narrazioni integrate e di senso e significato dell’evento accaduto. La ricostruzione di narrazioni che integrino il passato, gli eventi accaduti contestualmente alla morte del proprio caro e la realtà quotidiana dell’assenza, comprese le implicazioni per il proprio futuro, è sicuramente un processo centrale del percorso di elaborazione del lutto. Tra i fattori di rischio per lo sviluppo di una condizione di lutto persistente e complicato vi è infatti l’incapacità di trovare senso e significato nella perdita del proprio caro, portando a condizioni di disorganizzazione narrativa (Neimeyer, 2019); laddove la morte non è improvvisa e inaspettata (come nei casi di malattie inguaribili, come patologie neurodegenerative o oncologiche), il cosiddetto lavoro di lutto anticipatorio (un assetto cognitivo, emotivo e comportamentale tipico del lutto che avviene però prima del decesso) potrebbe consentire di iniziare la costruzione di tali narrazioni ancor prima che avvenga la morte.

Diversi studi longitudinali hanno dimostrato come la ruminazione provochi un prolungamento del disagio emotivo (Nolen-Hoeksema & Morrow 1991; Nolen-Hoeksema et al. 1993, 1994; Wood et al 1990). Tale evidenza si riscontra anche in soggetti che hanno subìto un lutto: quanto più ruminano, tanto più aumenta la tendenza a presentare sintomi depressivi (Nolen-Hoeksema 2000, 2004; Nolen-Hoeksema & Davis 1999; Nolen-Hoeksema & Larson 1999; Bonanno et al. 1995; Lund et al. 1986; Vachon et al. 1980), ansia e collera (Nolen-Hoeksema & Larson 1999). In particolare, la ruminazione da lutto, cioè il pensiero ripetitivo sulle cause e le conseguenze delle emozioni legate alla perdita, è associata e prevede in modo prospettico un incremento dei livelli di depressione, stress post-traumatico, dolore complicato e angoscia generale nelle persone che hanno vissuto la morte di un membro della famiglia di primo grado (Boelen, van den Bout & van den Hout, 2003; Boelen & van den Hout, 2008; Bonanno et al., 2005; Eisma et al., 2013; van der Houwen et al., 2010). Inoltre, la ruminazione da lutto sarebbe un predittore più forte del dolore complicato e della gravità della depressione rispetto ad altre forme di ruminazione (Eisma et al., 2012, 2013). La ricerca sostiene quindi un ruolo della ruminazione da lutto nella persistenza dell’angoscia dopo la perdita e sottolinea l’importanza della differenziazione tra le varie forme di ruminazione all’interno di tale vissuto: ruminazione sull’ingiustizia, sul significato e le conseguenze della perdita, sulle reazioni degli altri alla perdita, sui possibili scenari alternativi (pensiero controfattuale) sui pensieri e sulle proprie reazioni (Eisma et al., 2014). I primi quattro tipi sarebbero correlati a elevati livelli di sintomi di dolore prolungato e/o depressione (Eisma et al., 2014 ).

Uno studio di Milman et al. (2019) dimostrerebbe come le persone che vivono un lutto e che maggiormente utilizzano la ruminazione, hanno maggiori difficoltà nel processo di attribuzione di significato alla loro perdita e questo li espone a più elevato rischio di sviluppare sintomi da lutto persistente complicato. Tale rischio, inoltre, esisterebbe anche indipendentemente dall’effetto che la ruminazione ha sulla costruzione dei significati, come già dimostrato da studi precedenti (Bonanno et al., 2005; Eisma et al., 2015; Michael & Snyder 2005; Nolen-Hoeksema et al., 1997). Uno studio di Lenferink et al. (2017) dimostrerebbe come le persone che subiscono una perdita e che ruminano, soprattutto sull’ingiustizia, risultano avere bassi livelli di autocompassione, la quale rappresenterebbe, invece, un fattore di protezione dal disagio emotivo all’interno di un vissuto di dolore e perdita. Essere autocompassionevoli, infatti, vuol dire accogliere e accettare il proprio dolore e la propria sofferenza e riconoscerla come esperienza umana comune, comprendendola e non giudicandola  (Neff, 2003).

La ruminazione, quando si configura come passiva e negativa contemplazione di ciò che di sbagliato c’è in se stessi, può rendere meno efficace la risoluzione dei problemi (Eisma & Stroebe, 2017). Anche se le persone pensano che ruminare li aiuti a risolvere i problemi,  non sanno che, al contrario, tale strategia porterebbe a prendere un minor numero di decisioni che, inoltre, risulterebbero essere scadenti con conseguenze, dunque,  sul disagio percepito (Lyubomirsky & Nolen-Hoeksema 1995). È stato anche evidenziato come la ruminazione interferisca sui comportamenti utili (per es., prendere un caffè con un amico, guardare un film preferito), non tanto nel riconoscerne l’utilità, ma nella volontà a intraprenderli (Lyubornirsky & Nolen-Hoeksema, 1993). Alcune persone in lutto possono non essere disposte a dedicarsi a tali attività perché se lo facessero dovrebbero abbandonare, anche solo temporaneamente, le ruminazioni e i vissuti di tristezza, colpa e cordoglio, unici strumenti che hanno per mantenere il contatto con il defunto: abbandonare certi pensieri pertanto potrebbe voler dire ‘perdere’ il proprio caro per una seconda volta.

La ruminazione può anche deteriorare le relazioni sociali di chi subisce una perdita. In uno studio di Nolen-Hoeksema e Davis (1999) è emerso che chi rumina cerca maggiormente il sostegno da parte degli altri, sebbene riporti un minore grado di soddisfazione percepita di tale supporto. Questo potrebbe essere dettato dal fatto che familiari e amici della persona che subisce un perdita e rumina, pur desiderando di sostenerla, hanno difficoltà nell’ascoltare i suoi estenuanti vortici di pensiero tendendo, probabilmente, ad allontanarsi, a sottovalutare il suo dolore o criticarne le reazioni. Se è vero che chi rumina non percepisce un soddisfacente supporto sociale, lo è altrettanto che uno scarso sostegno sociale porta le persone che subiscono una perdita a ruminare maggiormente (Nolen-Hoeksema et al., 1994). Quindi, la mancanza di supporto sociale può contribuire alla ruminazione allo stesso modo in cui la ruminazione può indebolire il sostegno sociale.

I principali lavori scientifici che hanno cercato di indagare l’impatto che la ruminazione mentale ha sul decorso del lutto si dividono in studi che vedono nella ruminazione una modalità disfunzionale di continuo confronto e scontro con la realtà della perdita, andando talvolta a identificare tout court la ruminazione con il lavoro stesso di elaborazione del lutto o grief work (queste ricerche fanno riferimento principalmente alla Response Styles Theory di Susan Nolen-Hoeksema) e studi che colgono in tale processo cognitivo un meccanismo di evitamento di stimoli dolorosi legati all’assenza del proprio caro (tali studi si rifanno alla Rumination as Avoidance Hypothesis) (Stroebe et al., 2007; Eisma & Stroebe, 2017). Il dibattito scientifico tra questi due approcci non è al momento del tutto risolto ma appare particolarmente rilevante in quanto, gettando luce sui meccanismi alla base della grief rumination, consente di spiegare quali interventi psicologici possono risultare maggiormente efficaci e per quali ragioni, soprattutto nei casi di lutto persistente e complicato. Infatti, se nel primo caso (RST) la concettualizzazione teorica della grief rumination condurrebbe, in terapia, all’applicazione di tecniche di distrazione finalizzate a spostare l’attenzione dal continuo confronto con la perdita a elementi neutri o addirittura positivi e piacevoli (es. attivazione comportamentale), nel secondo caso (RAH), il modello teorico giustifica l’impiego di tecniche volte al confronto e al fronteggiamento degli stimoli temuti (es. tecniche di esposizione); in definitiva, approcci clinici diametralmente opposti. Va tuttavia sottolineato come la grief rumination sia solo uno dei molti aspetti che assumono rilevanza nello spiegare lo sviluppo di una psicopatologia correlata al lutto e che sono numerose le variabili, sia sociodemografiche e relazionali sia collegate al tipo di morte, che giocano un ruolo nella manifestazione della sintomatologia, nel suo decorso e nella risposta al trattamento.

Uno studio di eye-tracking pubblicato nel 2014 (Eisma et al., 2014) ha cercato di fare maggiore chiarezza sulla questione teorica. I partecipanti allo studio erano persone in lutto che erano state poi divise in due gruppi sulla base dei punteggi ottenuti alla Utrecht Grief Rumination Scale (UGRS). Da una parte c’erano coloro che presentavano elevati livelli di ruminazione da lutto (high ruminators) e dall’altra, coloro che non ne presentavano in modo significativo (low ruminators). I partecipanti, dopo aver compilato una serie di questionari volti anche a valutare la presenza di sintomatologia da lutto persistente e complicato, iniziavano il protocollo sperimentale. Il protocollo prevedeva la presentazione simultanea di due foto, entrambe combinate con due parole; queste ultime potevano essere neutre (es. dimensione, cerchio), negative (es. triste) oppure legate al lutto (es. perdita, morte). Le foto invece ritraevano uno sconosciuto o la persona che il partecipante aveva perso; i ricercatori infatti avevano precedentemente provveduto a recuperare le foto dei cari deceduti con il consenso dei partecipanti. A questo punto ciascuna persona si poteva trovare davanti, randomicamente a destra o a sinistra dello schermo, il paio di foto (straniero + deceduto) accoppiate alle parole (neutre, negative o legate al lutto). L’ipotesi messa sotto vaglio dallo studio era quella che vede la grief rumination come una forma di evitamento esperienziale (RAH). Lo studio ha evidenziato come, rispetto ai low ruminators, gli high ruminators tendevano a distogliere lo sguardo più velocemente dagli stimoli ritenuti più dolorosi (foto del deceduto in combinazione con parola legata al lutto) quando la presenza dell’immagine era più estesa nel tempo (1500 ms – 10000 ms). Inoltre, rispetto agli altri, gli high ruminators guardavano meno le foto dei deceduti in combinazione con le parole legate al lutto mentre tendevano a guardare di più le foto degli sconosciuti in combinazione con parole neutre o negative. Secondo gli autori questa era dunque la prova sperimentale che la grief rumination potesse essere considerata una forma di coping improntata all’evitamento; tuttavia lo studio non poteva certo spiegare (proprio perché non era tra i suoi obiettivi) quali sono i meccanismi che legano l’evitamento e la ruminazione mentale.

Sebbene i dati raccolti dagli approcci sperimentali siano stimolanti, gli studi che indagano l’efficacia degli interventi psicoterapici mostrano come di fatto non vi siano prove nettamente a favore di una ipotesi rispetto all’altra. Una dimostrazione di ciò viene da uno studio che ha intenzionalmente messo a confronto due interventi derivanti proprio da queste due formulazioni teoriche (Eisma et al., 2015). Allo studio hanno partecipato 47 persone con elevati livelli di ruminazione e con sintomatologia da lutto complicato randomizzate in tre gruppi sperimentali: uno avrebbe ricevuto un intervento online di 6 settimane incentrato sull’attivazione comportamentale, uno avrebbe ricevuto un intervento online di 6 settimane incentrato sull’esposizione mentre l’ultimo avrebbe rappresentato il braccio di controllo (wait list). La superiorità dell’attivazione comportamentale sull’esposizione, o viceversa, avrebbe aiutato a chiarire la funzione ed il ruolo della grief rumination. I risultati della ricerca hanno evidenziato come sia l’attivazione comportamentale che l’esposizione apportassero una riduzione significativa della grief rumination e dei sintomi da lutto complicato al post-test e a 3 mesi di follow-up. Ulteriori analisi hanno evidenziato come i risultati fossero più solidi per l’esposizione e come quest’ultima fosse più accettata dai partecipanti e, in generale, considerata più fattibile, portando di conseguenza ridotti tassi di drop-out. Ciò sembrerebbe confermare l’ipotesi che vede la ruminazione come una forma di evitamento (RAH), tuttavia le caratteristiche dello studio non consentono certamente di formulare conclusioni univoche. A conferma della non conclusività dei risultati ottenuti da Eisma e colleghi, va sottolineato come esistano ricerche che sottolineano sia l’efficacia dell’attivazione comportamentale (Papa et al., 2013) sia dell’esposizione (Bryant et al., 2014); quest’ultimo studio, in particolare, ha mostrato come la terapia cognitivo-comportamentale (CBT) che prevede al suo interno tecniche espositive portasse ad una maggiore riduzione della sintomatologia da lutto complicato rispetto alla sola CBT senza esposizione.

In questo momento è sicuramente crescente l’interesse sugli interventi psicoterapici che possano dirsi efficaci nel trattamento del disturbo da lutto persistente e complicato. Come evidenzia Rita Rosner (2015), l’agenda della futura ricerca su questo argomento prevede obiettivi molto diversi tra loro: raggiungere una maggiore chiarezza e definizione nosografica condivisa rispetto al disturbo, sviluppare e testare strumenti psicometrici ed interviste validi ed attendibili, stimare tassi di prevalenza e comorbilità rispetto ai nuovi criteri proposti, esplorare i diversi approcci di intervento e adattare i trattamenti ai bisogni di specifici sottogruppi (es. interventi per genitori che hanno perso i figli, lutti in seguito a suicidi, popolazione anziana), nonché evidenziare i possibili effetti iatrogeni dei trattamenti e le ragioni sottostanti. Ciò che attualmente sappiamo sugli interventi per il lutto complicato è che generalmente producono un effetto significativo sulla sintomatologia presentata dai pazienti e che comunque questo è inferiore a quello prodotto dai trattamenti per altri disturbi psichiatrici (Wittouck et al., 2011); secondo gli autori di questa meta-analisi, infatti, l’intervento adatto per questo quadro psicopatologico potrebbe ancora non essere stato sviluppato. Sono certamente molti gli studi scientifici che evidenziano l’efficacia di interventi cognitivo-comportamentali (CBT), nei quali la componente della ristrutturazione cognitiva e dell’esposizione sembrano giocare un ruolo fondamentale; tuttavia, sono pochi gli studi che mostrano un importante effect size (Rosner,  Pfoh & Kotoučová 2011). Tra gli studi che hanno indagato l’impatto di interventi CBT sul disturbo da lutto persistente e complicato che hanno riportato risultati incoraggianti ricordiamo quelli di Boelen et al. (2007), in cui la CBT veniva messa a confronto con il counseling di supporto e quello di Rosner et al. (2014) in cui prendeva forma una tipologia di intervento cognitivo-comportamentale (prolonged grief cognitive behavioral therapy) che in 20 sessioni lavorava sullo stabilizzare e motivare il paziente ad esplorare i suoi vissuti legati al lutto, sull’insegnare tecniche di rilassamento e allenare il paziente a confrontarsi con le proprie cognizioni e a favorire la ristrutturazione cognitiva ed infine sull’integrare una prospettiva orientata al futuro con il legame al passato e al caro scomparso. Una review cochrane di cui oggi possiamo leggere solo il protocollo cercherà di fare maggiore chiarezza sia sull’efficacia di interventi di matrice cognitivo comportamentale (terapia cognitiva, terapia cognitivo-comportamentale, terapia razionale emotiva comportamentale) sia sugli esiti degli interventi di tipo non CBT (psicodinamici, umanistico-esistenziali e sistemico relazionale) (Roulston et al., 2018) mentre altri studi randomizzati controllati (RCT) si pongono come obiettivo quello di sviluppare interventi sempre più ‘su misura’ rispetto alle specifiche esigenze delle persone che presentano questa sintomatologia caratteristica (es. prolonged grief-specific cognitive behavioral therapy) (Rosner et al., 2018).

E per quanto riguarda interventi mirati sulla grief rumination? Sappiamo che la terapia metacognitiva (MCT) di Adrian Wells è un tipo di intervento che ha tra i suoi target terapeutici proprio questo tipo di pensiero ripetitivo ed interviene su di esso allenando le capacità attentive del paziente (training attentivo), promuovendo abilità di mindfulness ed ‘attaccando’ quelle credenze che sostengono il processo ruminativo, come le metacredenze positive e negative. Un recente studio pilota (RCT) (Wenn et al., 2019) ha valutato l’efficacia della MCT di gruppo nel trattamento del lutto prolungato, valutato attraverso la Prolonged Grief Disorder Scale (PG-13); tra i vari esiti misurati c’era anche la ruminazione mentale da lutto, valutata sempre attraverso la UGRS. Le 22 persone che hanno partecipato al trial (21 femmine) sono state divise in due gruppi: il primo andava a costituire il gruppo di controllo (wait list) mentre il secondo veniva sottoposto a 6 sessioni di gruppo di Metacognitive Grief Therapy (MCGT); ogni sessione aveva la durata di due ore. Non solo i ricercatori si aspettavano una riduzione della grief rumination in seguito all’intervento nel gruppo sperimentale ma ipotizzavano anche che tale riduzione si sarebbe mantenuta nei follow-up a 3 e 6 mesi. Oltre a fornire una iniziale psicoeducazione sul lutto ed il lutto prolungato, il primo incontro prevedeva la formulazione di un modello metacognitivo del lutto e l’incremento di conspapevolezza circa le credenze metacognitive implicate nel lutto. Negli incontri successivi erano previsti interventi volti ad allenare l’attenzione dei partecipanti (training attentivo e situational attentional refocusing), a promuovere abilità di mindfulness (detached mindfulness) e a mettere in discussione le metacredenze che sostengono e mantengono il processo della ruminazione mentale. I livelli di grief rumination si sono ridotti in modo significativo al post-test e tali risultati si mantenevano anche dopo 3 e 6 mesi dalla fine del trattamento. In generale, alla fine del trattamento, nessuno dei partecipanti del gruppo sperimentale soddisfaceva più i criteri diagnostici per il disturbo da lutto persistente e complicato.

In conclusione, la ruminazione mentale nel lutto è un processo cognitivo normalmente presente tra le persone che affrontano una perdita e non necessariamente deve destare preoccupazioni da un punto di vista clinico e richiedere un intervento. Va ricordato come spesso sia inutile e talvolta iatrogeno intervenire con trattamenti psicologici o psicoterapici in pazienti che mostrano un adattamento fisiologico al lutto, per quanto questo possa rivelarsi particolarmente doloroso; la maggioranza delle persone, infatti, non va incontro ad alcuna complicazione nel processo del lutto, arrivando così ad una spontanea e totale remissione della sintomatologia emotiva, cognitiva e comportamentale (Bonanno e Lilienfeld, 2008). Come evidenziato da Perdighe e Mancini (2010), l’opportunità e l’appropriatezza dell’intervento va valutata sul singolo caso e i criteri che possono aiutare il clinico nell’orientare tale decisione sono: la durata e la persistenza della sofferenza, la mancata ripresa delle normali attività, l’isolamento, la comparsa di problemi secondari e la ricerca spontanea da parte della persona di aiuto professionale (l’autoselezione del paziente può sembrare un criterio scontato ma va sottolineato come in alcuni contesti gli interventi di grief counseling vengano proposti da parte di enti e servizi indipendentemente dalla valutazione dei suddetti criteri). Abbiamo visto come in tali quadri clinici la ruminazione mentale prolunghi il disagio psicologico aumentando i sintomi depressivi, quelli ansiosi e i sentimenti di collera (Nolen-Hoeksema e Larson 1999; Nolen-Hoeksema 2000, 2004; Nolen-Hoeksema e Davis 1999; Nolen-Hoeksema e Larson 1999; Bonanno et al. 1995; Lund et al. 1986; Vachon et al. 1980). La grief rumination, peraltro, sarebbe un predittore ancora più specifico di complicazione del lutto rispetto ad altre forme di ruminazione (Eisma et al., 2012, 2013). Diversi studi che hanno indagato questo costrutto hanno dunque impiegato uno strumento psicometrico specifico come la Utrecht Grief Rumination Scale sviluppata da Eisma e colleghi (2014a); al fine di poter utilizzare tale strumento anche all’interno del contesto italiano, sia in ambito di ricerca che clinico, è attualmente in corso uno studio di validazione da parte di un gruppo di ricerca di Studi Cognitivi (è possibile partecipare allo studio visitando il link riportato in fondo all’articolo). Sono ancora diversi gli argomenti che meritano approfondimento e maggiore comprensione circa il lutto e le forme di sofferenza prolungata e complicata che questo può assumere. I primi risultati di ricerche che applicano protocolli cognitivo-comportamentali di terza generazione (es. MCT) sono promettenti e mostrano come l’attenzione ai processi transdiagnostici, quale è la ruminazione mentale, possa essere parte integrante dei trattamenti psicoterapici nel disturbo da lutto persistente e complicato.

 

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Figli, fratelli… Gemelli?

Il rapporto tra i gemelli inizia nei nove mesi della gravidanza durante i quali essi condividono lo spazio materno e prosegue per tutta la vita. Il fatto di avere la stessa età sembra essere ciò che rende un gemello più simile a un amico che a un fratello.

 

La rivoluzione avviata da Freud con l’Interpretazione dei sogni ha indicato che, oltre a una mente razionale, tutti gli esseri umani possiedono una psiche inconscia. A tale conclusione egli vi giunge analizzando pazienti che soffrivano di disturbi isterici come ad esempio fobie e paralisi agli arti.

Freud ipotizzò che la loro sofferenza fosse causata da un conflitto, tra i loro desideri più profondi e le loro aspirazioni e volontà consapevoli, determinato dalla repressione sociale dei desideri sessuali. Se il padre della psicoanalisi fu colui che scoprì i capisaldi del funzionamento inconscio della psiche è pur vero che nel corso di un secolo è mutata la nostra visione della mente umana dove i desideri sessuali e i conflitti che ne possono derivare sono visti oggi come una parte integrante dello sviluppo emotivo dell’essere umano. Il neonato, infatti, appare più vulnerabile all’incontro con l’ambiente familiare e con la psiche della madre. Vale a dire che le pulsioni istintuali del neonato e il bisogno di una persona che si prenda cura di lui non possono essere separati.

Ma come cambia la relazione del neonato che crescendo si trova a dover fare esperienza di ‘essere fratello’ e non unico oggetto d’amore della madre?

Prophecy Coles nel suo saggio Le relazioni fraterne nella psicoanalisi sottolinea la rilevanza di quella che definisce la ‘posizione del fratello’, determinata dalla sua età rispetto agli altri fratelli all’interno della famiglia. Questo significa soffermarsi sulla differenza tra le emozioni che un fratello più piccolo prova per un fratello più grande e viceversa: il fratello più grande ha avuto l’esperienza di essere stato figlio unico, indisturbato nella vita familiare. L’arrivo di un fratello disturba questa quiete e genera conflitti e rivalità. Diverso è invece per il fratello più piccolo che non conoscerà mai un ‘mondo privo di fratelli o sorelle e non avrà mai l’esperienza di essere l’unico sassolino sulla spiaggia’ (Coles, 2004). Nonostante le rivalità e le gelosie che generano ostilità e conflitti tra fratelli, Coles mette in evidenza l’importanza del rapporto positivo, di amore e supporto tra fratelli, che coesiste nonostante i conflitti e le rivalità.

Altrettanto importante è la storia dei figli unici e di alcune madri che riferiscono ‘non saprei come gestire anche un secondo figlio’ alla cui base, in alcuni casi, ci sono delle dinamiche più profonde nascoste nella relazione che la madre stessa ha avuto con i suoi fratelli e/o sorelle. Il figlio unico si trova a dover dividere l’affetto dei genitori ma, allo stesso tempo, guadagnerà un compagno di giochi con il quale potrà dividere quel senso di solitudine che a volte può provare. Non essere più il detentore unico delle aspettative del genitore e delle proiezioni familiari può essere, per alcuni, di grande sollievo.

Se pensiamo, però, alla differenza di età tra fratelli, alla ‘posizione’, cosa succede tra due gemelli, ovvero cosa prova un gemello per un fratello che ha la sua identica età? Quali dinamiche avvengono? Si potrebbe dire che tutto ciò che per un bambino singolo è un rapporto a due (bambino-madre) per un gemello è fin dall’inizio un rapporto triangolare, a tre. La psicoterapeuta statunitense Vivienne Lewin, autrice del libro The twin enigma sottolinea i rischi di quella che definisce ‘l’idealizzazione del rapporto tra i gemelli’ ossia la tendenza dei gemelli e spesso dei genitori a favorire la similitudine, invece di incoraggiarne la differenziazione. I gemelli vivrebbero, come scrive la Lewin, ‘un’essenziale solitudine interiore’ nel senso che siamo portati ad idealizzare il tipo di relazione che hanno i gemelli essenzialmente perché sperimentiamo una sensazione di vuoto nel nostro mondo interiore. Tale sentimento di vuoto ci porterebbe quindi ad idealizzare un tipo di relazione, come quella tra due gemelli, che ci appare speciale perché si è stabilita con una persona che ci conosce ancor prima di nascere… Fin dal grembo materno.

Il rapporto tra i gemelli, possiamo quindi dire, che inizia nei nove mesi della gravidanza durante i quali essi condividono lo spazio materno e prosegue per tutta la vita. Il fatto di avere la stessa età sembra essere ciò che rende un gemello più simile a un amico che a un fratello. Anche la quantità di tempo che, durante i primi anni di vita passano tra loro, probabilmente più del tempo trascorso con la madre, può generare sentimenti intensi, sia nel bene che nel male. Questa relazione può essere paragonata ad un elastico che in genere è teso e tira in direzioni opposte: a volte è più teso, altre è più morbido; ma il legame tra i due c’è sempre e può favorire lo sviluppo di due personalità diverse che si affinano anche in base alle relazioni che loro stabiliscono con gli altri bambini. La Marsoni sottolinea, a tal proposito, che il rapporto unico e insostituibile con i genitori favorisce il processo di individuazione tra i gemelli, non castrando l’intensità del loro rapporto.

Altrettanto interessante è l’impatto dei gemelli sui genitori. La Marsoni nel suo libro riporta il “senso che niente sarà più come prima”, come esperienza comune condivisa da molte madri già a partire dalla gravidanza e che si evince, sia dai cambiamenti corporei con i quali la donna/madre deve inevitabilmente fare i conti ma anche e soprattutto dalla componente emotiva e dalle aspettative della madre rispetto alla gravidanza stessa, unitamente all’esperienza di avere dei bambini. Spesso tali aspettative non coincidono a pieno con quella che sarà poi la realtà. I cambiamenti emotivi e corporei della donna in gravidanza avranno un notevole impatto anche sul marito/padre e su eventuali altri figli. La gravidanza rappresenta, dunque, quel periodo durante il quale si può avere paura di tali cambiamenti, che possono solo essere immaginati ma dei quali non se ne ha ancora una conoscenza diretta.

L’insieme di tutte queste dinamiche vuole far luce, a chi vive ancora nell’ombra, rispetto alle diverse dinamiche emotivo/affettive che una tale ed unica esperienza può far vivere.

Il Covid-19 e i cambiamenti nel consumo dell’alcol

Alcuni autori hanno ipotizzato che, con la diffusione del Covid-19 e la conseguente chiusura dei campus universitari, i sintomi depressivi e ansiosi sarebbero stati associati ad aumento del consumo di alcol da parte degli studenti.

 

A seguito della diffusione del virus SARS-CoV-2, in America numerosi Stati hanno imposto la chiusura di attività commerciali e, al contempo, di numerosi campus universitari. Ai giovani è stato dunque richiesto di restare a casa e di astenersi da ogni tipo di attività ludica.

È ormai noto come l’isolamento sociale determini un considerevole aumento dello stress (Holmes et al., 2014), così come è altrettanto noto che elevati livelli di stress possano determinare un aumento del consumo di alcol (Clay & Parker, 2020; Walsh et al., 2014).

Il disagio psicologico tende ad espletarsi attraverso manifestazioni ansiose e/o depressive e la letteratura dimostra come la relazione tra sintomi depressivi e consumo problematico di alcol sia spesso di natura bidirezionale: sintomi depressivi elevati, difatti, predicono una maggior probabilità di sviluppare un disturbo correlato all’alcol e, viceversa, l’assunzione patologica di alcol predice la manifestazione di sintomatologie depressive (Brière, Rohde, Seeley, Klein & Lewinsohn, 2014). Al contempo, le persone che mostrano problematiche legate al consumo di questa sostanza mostrano una probabilità elevata di sviluppare un Disturbo d’ansia generalizzata (Burns & Teesson, 2002).

Secondo la letteratura, ciò avviene perché gli individui che sperimentano un disagio a livello psicologico, al fine di attenuare e fronteggiare la propria sintomatologia, tendono ad assumere una quantità considerevole di sostanze alcoliche (Bolton, Cox, Clara & Sareen, 2006).

La variabile chiave che si è dimostrata efficace nel proteggere ed arginare questa tendenza è il supporto sociale (Chao, 2011; Aldridge-Gerry et al., 2011), elemento di cui all’oggi siamo stati in parte privati.

È sulla base di queste considerazioni, che alcuni autori hanno ipotizzato che, con la diffusione della pandemia e la conseguente chiusura dei campus universitari, i sintomi depressivi e ansiosi sarebbero stati associati ad aumento del consumo di alcol da parte degli studenti. I ricercatori, inoltre, hanno ipotizzato che bassi livelli di supporto sociale sarebbero stati associati ad un aumento dell’assunzione di alcol, mentre, un maggior supporto avrebbe moderato la relazione tra disagio psicologico e aumento del consumo, cosicché coloro i quali avessero avuto maggior sostegno, non avrebbero fronteggiato le difficoltà percepite abusando della sostanza. Gli autori hanno esaminato queste ipotesi in termini di frequenza del consumo.

Allo studio hanno preso parte 1958 studenti di una grande università pubblica nel nord-est dell’Ohio, che aveva approvato l’uso di alcol nei 30 giorni antecedenti allo studio. L’età media dei partecipanti era di 24 anni.

Rispetto agli strumenti utilizzati, al fine di documentare l’uso di alcol nelle settimane precedenti e in quelle successive alla chiusura del campus, ai partecipanti è stato chiesto di compilare la Timeline Follow-Back Interview (TLFB; Sobell, Brown, Leo & Sobell, 1996), mentre, per valutare la sintomatologia depressiva ed ansiosa manifestata nelle settimane precedenti allo studio, sono state utilizzate, rispettivamente, la Patient Health Questionnaire-9 (PHQ-9; Kroenke, Spitzer & Williams, 2001) e sei item estratti dal Generalized Anxiety Disorder-7 Item Scale (Gad-7; Spitzer, Kroenke, Williams & Lowe, 2006). Infine, con l’obiettivo di stimare il supporto sociale percepito dagli studenti, è stata impiegata la Multidimensional Scale of Perceived Social Support (MSPSS; Zimet, Dahlem, Zimet & Farley, 1988).

Coerentemente con quanto ipotizzato, a seguito della chiusura dell’università, si è assistito ad un aumento del consumo di alcol da parte degli studenti. Nello specifico, gli universitari che hanno manifestato livelli più elevati di depressione ed ansia, hanno al contempo riportato un aumento del consumo di alcol, rispetto agli studenti che avevano sperimentato un minor disagio psicologico.

Il sostegno sociale percepito era associato ad un consumo inferiore di sostanze alcoliche. Di contro, con il passare del tempo, il sostegno sociale non ha moderato gli effetti del disagio psicologico sull’aumento del consumo di alcol.

Si è evinto, inoltre, che tra gli universitari non solo si è assistito ad un aumento delle bevande alcoliche consumate, ma anche ad un incremento delle occasioni in cui consumarle.

Nonostante i limiti dello studio, i risultati appena esposti dovrebbero fungere da campanello d’allarme per le università, affinché si possa prevenire l’abuso di alcol tra i giovani. A tal proposito, i programmi di assistenza psicologica a distanza potrebbero rappresentare un valido supporto. Con l’avanzare della pandemia, sarebbe necessario che ulteriori studi monitorino il consumo di alcol o di sostanze da parte dei singoli, in quanto, come precedentemente esposto, esso rappresenta la scorciatoia d’elezione per fronteggiare la sofferenza e l’isolamento sociale.

Aggressività nell’anziano con demenza: modelli teorici e strategie gestionali

Demenza e Aggressività: il primo passo per poter comprendere le motivazioni alla base della condotta aggressiva della persona con demenza, e così prevenirla e ridurla, è effettuare un’analisi funzionale, quindi osservare la sequenza antecedente-comportamento-conseguenze in modo da individuare i fattori scatenanti e di mantenimento.

 

Considerata nella clinica come indicatore di disregolazione emotiva, l’aggressività assume diverse accezioni a seconda dello scopo per cui viene messa in atto.

Essa, infatti, può essere intesa come un istinto innato, presente sia nell’uomo che nell’animale, finalizzato a preservare la sopravvivenza e a proteggersi da qualsiasi minaccia (adattiva) o può avere lo scopo di infliggere intenzionalmente un danno o dolore a sé o ad altri (disadattiva).

Spesso una delle cause di istituzionalizzazione dell’anziano con Disturbo Neurocognitivo Maggiore è proprio la comparsa di manifestazioni aggressive, sia verbali che fisiche, che rendono difficile la gestione del malato in ambiente domestico, portando il caregiver a una situazione di esaurimento fisico ed emotivo (caregiver burden).

Aggressività nel Disturbo Neurocognitivo Maggiore (DNC)

È bene ricordare che con Disturbo Neurocognitivo Maggiore (DNC) si intende una disfunzione cronica, progressiva e irreversibile che determina un complesso declino cognitivo, accompagnato da disturbi del comportamento e del funzionamento.

È possibile valutare la gravità della patologia per mezzo di osservazioni cliniche, valutazioni neuropsicologiche e scale cliniche come il Clinical Dementia Rating Scale (CDR; Morris, 1993). Secondo questo strumento, il DNC di grado lieve si caratterizza per deficit in specifici domini cognitivi, con interferenza nelle IADL (attività strumentali di vita quotidiana; Laicardi et al., 1998). Nel DNC di grado moderato, invece, vi è un aggravamento del quadro cognitivo con deficit di tipo globale che coinvolge tutti i processi cognitivi volontari, mentre risultano mantenuti quelli automatici, ed è in questo stadio che generalmente insorgono disturbi del comportamento e i primi deficit nelle ADL (attività di vita quotidiana; Pezzuti et al., 2008). Infine, nel DNC di grado grave si assiste a un progressivo impoverimento dei processi automatici con totale dipendenza dal punto di vista funzionale e poche abilità residue.

Esistono diverse scale per monitorare e misurare il comportamento aggressivo nel paziente geriatrico, come il Neuropsychiatric Inventory (NPI; Cummings et al., 1994; Binetti et al., 1998) o il Rating Scale for Aggressive Behaviour in the Elderly (RAGE; Patel & Hope, 1992), entrambe rivolte al caregiver.

Modelli teorici di riferimento

Prendendo in esame l’approccio biologico, l’aggressività è per l’etologo Lorenz (1963) un modello di azione innato che condividiamo con le altre specie e che ha carattere di sopravvivenza.

Mantenendo il focus sul paziente geriatrico, è possibile interpretare le condotte aggressive, che avvengono prevalentemente durante le cure igieniche, alla luce di alcuni modelli teorici classici.

Un modello che ancora oggi rappresenta il punto di riferimento obbligato per chiunque si occupi di aggressività è la risposta di attacco-fuga (fight or flight) delineata dal fisiologo Cannon a inizio Novecento. Secondo l’autore, di fronte a uno stimolo minaccioso o sconosciuto si attiva in maniera automatica una reazione neuronale fisiologica accompagnata da una risposta comportamentale di attacco o fuga a seconda delle caratteristiche individuali e ambientali. Nel caso dell’anziano con demenza, dunque, le capacità di comprensione della realtà risultano compromesse e la maggior parte delle interazioni con egli, soprattutto di carattere assistenziale, si svolge nella zona intima, descritta da Edward Hall (1968) nei suoi studi sulla prossemica, che è correlata alla massima vulnerabilità della persona. È in queste circostanze che l’anziano attiva in modo istintivo la reazione di attacco-fuga, in quanto l’invasione del proprio spazio intimo è incompresa o vissuta come illegittima.

Infine, per Tom Kitwood (1997), padre del modello di cura centrato sulla persona, i disturbi del comportamento del paziente geriatrico sono la normale reazione ad un mondo ‘senza copione’ e la modalità con cui cerca di rispondere all’ambiente e di esprimere i propri bisogni, essendo la comunicazione verbale compromessa.

Strategie gestionali per ridurre le manifestazioni aggressive

Come accennato in precedenza, i caregivers, sia formali che non, riferiscono che gli episodi aggressivi si manifestano principalmente durante le cure igieniche.

Data per scontata una approfondita conoscenza della storia di vita della persona, il primo passo per poter comprendere le motivazioni alla base della condotta aggressiva, prevenirla e ridurla è effettuare un’analisi funzionale, quindi osservare la sequenza antecedente-comportamento-conseguenze in modo da individuare i fattori scatenanti e di mantenimento. I possibili fattori di stress sono molteplici: dolore, incontinenza, condizioni sanitarie (es. ipoglicemia), incapacità comunicative, contenzione fisica, effetti collaterali dei farmaci.

Secondo la letteratura, solo il 2% degli episodi violenti accade senza un antecedente (Katz, 2000), mentre più del 70% è dovuto al contatto col personale (Ryden et al., 1991).

Risulta perciò fondamentale rivolgere ai caregivers un intervento psicoeducativo che si concentri principalmente sugli aspetti di comunicazione verbale e non, su aspetti ambientali e sulla relazione.

Per quanto riguarda la comunicazione, è bene aver chiaro che più la malattia progredisce più la comprensione e produzione del linguaggio risultano deficitari. La parola diviene per l’anziano un ulteriore elemento di confusione per cui è consigliato ridurre il più possibile i dialoghi e prediligere la comunicazione non verbale, con particolare attenzione all’espressione facciale, che il caregiver deve essere in grado di regolare costantemente, evitando quelle di rabbia o paura.

La stretta relazione tra aggressività e comunicazione è sottolineata anche, per esempio, dall’utilizzo in ambito psichiatrico delle tecniche di de-escalation (Anderson & Clarke, 1996), un insieme di raccomandazioni per il personale sanitario su come modulare la comunicazione verbale (voce bassa, toni pacati, non sovrapporsi, non rimproverare ecc.) e non verbale (mantenere il contatto visivo, non tenere le mani in tasca, evitare il contatto fisico, attenzione alle espressioni facciali), che può essere utile anche in queste circostanze.

Altro aspetto a cui prestare attenzione è l’ambiente circostante: è stato riscontrato che ridurre gli elementi di confusione (rumori di sottofondo, televisione, specchi, conversazioni animate) diminuisce i disturbi del comportamento, così come l’utilizzo di luci soffuse, musiche rilassanti, aromi particolari (Burgio & Fisher, 2000).

Per quanto riguarda il momento del bagno, spesso vissuto dal malato come una violazione del proprio spazio personale, si consiglia di procedere gradualmente, lasciando che la persona senta il suono dell’acqua e procedendo dal basso verso l’alto, lavando poi i capelli a parte. Se possibile è preferibile che sia sempre lo stesso operatore a svolgere questa mansione cosicché possa in qualche modo divenire una figura familiare e fidata durante questa delicata attività. Infine, se l’anziano ha ancora una minima comprensione verbale, è consigliato presentarsi e chiedere sempre il permesso prima di compiere qualsiasi azione (Bonner, 2013).

Infine, per quanto riguarda l’aspetto relazionale, è essenziale avere presente la Psicologia Sociale Maligna delineata da Tom Kitwood (1997). Secondo l’autore spesso i caregivers, in maniera inconsapevole, utilizzano nei confronti dell’anziano delle modalità di interazione svalutanti che possono minare i bisogni psicologici della persona, aumentandone l’agitazione. Kitwood individua 17 approcci negativi: intimidazione, rifiuto, infantilizzazione, ritmi accelerati, etichettamento, discredito, accusa, slealtà, invalidazione, imposizione, disempowerment, oggettificazione, sconvolgimento, stigmatizzazione, ignorare, deridere, bandire.

Risulta dunque evidente come sia fondamentale intervenire sull’ambiente tramite, se necessario, una formazione del personale, affinché esso risponda ai bisogni dell’anziano e sia il più comprensibile possibile.

 

Scuola, tra vecchie e nuove sfide: il ruolo dello psicologo

Ndr: l’articolo è stato scritto prima degli ultimi DPCM

Lo Psicologo Scolastico sarebbe chiamato a occuparsi di consulenza psicologica individuale per gli insegnanti al fine di prevenire stress e burnout lavorativo, per gli alunni e per i genitori in modo da intercettare e prevenire disagi e promuovere competenze emotive e relazionali.

 

Senza Psicologia non c’è Resilienza (CNOP 2020).

Così recita un documento del Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi (CNOP) in cui sottolinea la necessità che, nell’utilizzare i fondi europei (Recovery Fund), venga potenziata la presenza degli Psicologi in settori importanti della nostra società come i contesti di cura e i servizi sanitari, i luoghi di lavoro e di studio (la scuola, l’università, la formazione, l’orientamento) e in campo sociale con obiettivi di equità territoriale, di genere e sociale.

Sono queste infatti le tappe da raggiungere rispetto al saper riconoscere e rispondere a un disagio sempre più diffuso e al poter prevenire malesseri più gravi e promuovere le risorse psicologiche di resilienza a livello individuale e collettivo. Infatti, molti contesti di vita quotidiana hanno mostrato delle carenze e delle difficoltà durante la pandemia (prima fra tutti la Scuola) che ancora adesso, in questa nuova fase di incertezza, fragilità  e disuguaglianze, si stanno aggravando.

Certamente c’è da dire che le carenze e le difficoltà della Scuola nel nostro Paese hanno una storia che parte da ben più lontano della pandemia 2020; una storia fatta di precariato e di smantellamento di un sistema che ad oggi appare stanco e sfibrato, impegnato più a dover rincorrere la burocrazia e i programmi ministeriali (sicuramente anch’essi importanti), invece di pensare primariamente al benessere educativo, psicologico e sociale di chi vive la Scuola. Si fanno i conti con strutture non adeguate, risorse spesso inesistenti, ma soprattutto con richieste e problemi lontani dalle competenze degli insegnanti che si trovano così a dover assumere tanti ‘ruoli’, nell’incertezza e nella mancanza di una guida e di un sostegno di fronte, per esempio, a quelle che vengono ormai etichettate come ‘classi difficili’ o di fronte alla gestione dei percorsi individualizzati. Un’istituzione che a volte sembra aver perso autorevolezza e rispetto e che spesso non considera come dietro agli alunni e agli insegnanti ci siano bambini e ragazzi, uomini e donne con un bagaglio, una storia, delle qualità, delle potenzialità e delle emozioni e che proprio da questo occorre partire per favorire l’apprendimento e la relazione.

Sempre più spesso, oltre a disorganizzazione, lentezza e frustrazione, tutto sembra restare nelle mani di quei volenterosi (studenti, insegnanti, personale e genitori) che si rimboccano le maniche ed emergono nonostante tutto, ci provano almeno, per poi fare scalpore in quanto eccezione ed esempio della ‘buona scuola’; come se non si dovesse già fornire una ‘buona scuola’ come regola invece che eccezione!

Da anni, consapevoli di queste criticità, si invoca un cambio di rotta, sia a livello istituzionale, per far sì che la Scuola riprenda il ruolo autorevole e il rispetto che merita, ma soprattutto a livello di adeguato sostegno e di promozione del benessere nel contesto scolastico. Ed è proprio rispetto a questo che oramai da tempo si sente il bisogno della figura dello Psicologo Scolastico, per portare la sua professionalità al servizio dei bisogni di un contesto essenziale per la tenuta del nostro tessuto sociale. Lo Psicologo nelle scuole sarebbe, infatti, chiamato ad occuparsi di consulenza psicologica individuale per gli insegnanti al fine di prevenire stress e burnout lavorativo, per gli alunni e per i genitori in modo da intercettare e prevenire disagi e promuovere competenze emotive e relazionali; si occuperebbe di attività per il gruppo classe, per il corpo docenti e per il gruppo dei genitori, di formazione in base alle esigenze della scuola, di orientamento scolastico e professionale, di promozione di un clima collaborativo all’interno della scuola e fra scuola e famiglia, di migliorare le dinamiche relazionali nelle classi e di favorire l’inclusione.

Effettivamente già in passato è stato proposto di firmare protocolli di intesa con le istituzioni al fine di cominciare un iter che potesse portare alla presa di consapevolezza dell’utilità e del bisogno della Psicologia nelle scuole; spesso sono stati presentati disegni di legge mai arrivati alla loro finalizzazione e approvazione in Parlamento. E mentre un primo importante passo è stato il riconoscimento e la presa in carico dei Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA) nel contesto scolastico attraverso la legge 170/2010 a cui ha fatto seguito la Direttiva Ministeriale del 2012 che ribadisce l’importanza dell’inclusione scolastica e la personalizzazione degli apprendimenti attraverso i Bisogni Educativi Speciali (BES), che insieme rappresentano uno dei più ampi ambiti per la Psicologia Scolastica, dall’altro sono rimaste confusione e criticità, soprattutto per la gestione dei BES, in quanto appare spesso su un piano non ben identificato a livello di normative (tanto che si è dovuti intervenire con una Circolare per fare chiarezza), di competenze, di formazione e di pratiche a discapito di un’accoglienza al percorso personale del bambino che spesso resta inadeguata o non sistematica e stigmatizzante invece che inclusiva (solite eccezioni a parte).

Eppure ad oggi, è solo di fronte (o meglio grazie) ad una pandemia che si prende più consapevolezza di quanto sia necessario fare qualcosa di più. Perché ai mali storici della Scuola, oggi si affianca la difficoltà, lo stress e la frustrazione della ripresa post-Covid-19. Alunni, insegnanti e tutti quanti coinvolti sono tornati a Scuola dopo mesi di didattica a distanza (DAD) e lo hanno fatto avendo preso tutta una serie di precauzioni (come richiesto dalle disposizioni anti-covid); lo fanno con incertezza e confusione a volte, in quanto le norme non sempre sono chiare, ma anche con paura e ansia per i contagi, per le nuove disposizioni, per i cambiamenti nelle classi, per le eventuali nuove chiusure, per i bambini che entrano la prima volta a scuola, per quelli che aspettano l’insegnante di sostegno, per quelli che a loro volta vivono disagi emotivi ecc. Purtroppo questa pandemia ha aggravato diversi disagi o ne ha portati di nuovi; alunni, insegnanti e genitori hanno spesso gestito i mesi di DAD con difficoltà e frustrazione. Ai bambini e ai ragazzi è mancata la socialità e la relazione che la scuola permette e che è fondamentale per la loro crescita, perché è proprio stando insieme ai propri coetanei che si impara a collaborare e stare in gruppo, a fidarsi gli uni degli altri, ad essere empatici, a sviluppare la propria personalità e le proprie competenze. Per molti purtroppo non è stato possibile accedere neanche alla DAD per la mancanza di risorse tecnologiche o per condizioni di disabilità varie, è mancato spesso un sostegno che potesse aiutare a contenere questi malesseri e promuovere le capacità di resilienza necessarie per gestire al meglio le nuove sfide che tutti siamo stati chiamati a vivere. Sicuramente i mesi di chiusura non sono stati uguali per tutti, ma tutti, bambini, ragazzi, insegnanti e genitori se lo ricorderanno ed è per questo necessario ritornare ad una quotidianità il più serena e sicura possibile e fornire il sostegno necessario affinchè tutti possano attingere alle proprie risorse di resilienza. Bambini e ragazzi hanno solitamente capacità di ripresa maggiori dell’adulto e ad oggi, fortunatamente, la Scuola è comunque ricominciata con una certa ‘normalità’, seppur con nuovi adeguamenti, presupposto fondamentale per riprendere un percorso interrotto bruscamente e recuperare eventuali svantaggi vissuti nei mesi passati.

E’ dunque da tutte queste constatazioni che sembra si sia deciso di continuare a portare avanti un iter (come già detto intrapreso ma mai finalizzato) che speriamo possa portare ad un inserimento sistematico e soprattutto strutturale dello Psicologo nelle Scuole come sostegno alla vita scolastica tutta.

Infatti, sempre il CNOP (2020) afferma che:

I provvedimenti generati dai fondi europei sono stati finalizzati alla ripresa e alla resilienza, concetto che indica la capacità psicologica delle persone e delle organizzazioni di fronteggiare le situazioni in modo costruttivo.

Così, noi Psicologi, apprendiamo con speranza (e intrepida attesa!) che il Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi ha approvato e firmato il ‘Protocollo d’intesa con il Ministero dell’Istruzione per il supporto psicologico nelle istituzioni scolastiche’.

Questo rappresenta un punto di equilibrio raggiunto tra le richieste del CNOP (ovvero garantire un’adeguata presenza di Psicologi in tutte le scuole) e la disponibilità del Ministero.

In sintesi il Protocollo, definito ‘il primo nel suo genere’ e che avvia una presenza della professione su tutto il territorio nazionale, prevede:

  • l’emanazione di bandi a livello di singola Scuola;
  • lo stanziamento di apposite risorse vincolate;
  • la definizione dell’importo finanziato dal Ministero alle istituzioni scolastiche in modo che non ci siano bandi al ribasso;
  • la messa a disposizione del CNOP di ‘linee guida’ per le attività degli Psicologi;
  • l’organizzazione da parte del Ministero di un’attività di informazione/formazione agli Psicologi reclutati sulle linee guida del CNOP;
  • l’attivazione di una collaborazione a livello regionale tra gli Uffici Scolastici e i Consigli dell’Ordine per favorire l’attuazione del protocollo.

Così come riferito dal CNOP, si tratta di una tappa fondamentale per la Psicologia nella Scuola. Ci auguriamo quindi che l’iter vada avanti e arrivi finalmente alla sua attuazione e che in tempi brevi si abbia davvero la volontà di mettere in pratica ciò che da anni si chiede e si percepisce come utile e necessario: istituire la figura dello Psicologo Scolastico al fine di mettere al centro della Scuola il benessere emotivo, psicologico e relazionale di chi la vive.

Il fantasma dell’attaccamento nell’adulto: base sicura o schiavitù indelebile

I ‘Modelli operativi interni’ rappresentano la capacità di interiorizzare e ripetere modelli di relazione e discendono dalle esperienze ripetute nel tempo che diventano per il bambino – e in seguito per l’adulto – un modo per prevedere la realtà e l’altrui comportamento e costruirsi un’idea sul mondo.

 

L’attaccamento: dalle origini prima di Bowlby

John Bowlby, psicologo e psicoanalista inglese (Londra, 26 febbraio 1907 – Isola di Skye, 2 settembre 1990) elaborò la Teoria dell’attaccamento con la quale focalizzò la sua attenzione sul legame instaurato tra madre e bambino sin dagli albori della venuta al mondo di quest’ultimo e ipotizzando l’influenza prodotta da tale rapporto sulla futura vita adulta del cucciolo di umano.

In seguito alla fine dei suoi studi in medicina presso l’università di Cambridge, Bowlby prese parte alla Società Psicoanalitica britannica facente parte dell’International Psychoanalytical Association. In questo periodo la società psicoanalitica inglese si trovava ad affrontare le questioni relative al vissuto del bambino dal punto di vista di due orientamenti che si ponevano agli antipodi, la ‘Teoria pulsionale’ di Anna Freud e la ‘Teoria delle relazioni oggettuali’ di Melanie Klein (Tani, 2007). Nello specifico, per Anna Freud, il legame madre-bambino trovava la sua possibilità d’essere nella libido, ‘scaricata’ grazie al seno materno, che diventava così il mezzo con il quale il bambino poteva attenuare una tensione relativa al bisogno di nutrimento, che sarebbe altrimenti potuta divenire vera e propria angoscia (Tani, 2007). Era dunque in questo contesto e grazie a questo scambio che la madre poteva rappresentare per il figlio un oggetto d’amore che con la sua presenza lo potesse sottrarre al pericolo legato a un mancato soddisfacimento di bisogni primari, quale, in questo caso, quello del nutrimento.

Contrapposta a questa posizione si poneva quella di Melanie Klein, la quale, invece, ipotizzò la presenza di una relazione oggettuale primitiva nella quale non solo il seno come oggetto libidico primo assumeva importanza, ma pure un certo istinto di morte. La Klein, infatti, sosteneva che la relazione madre – bambino fosse caratterizzata da una certa invidia primitiva e da fantasie sadiche (Tani, 2007).

Da Bowlby in poi

Da questo duplice scenario teorico Bowlby si distanziò, sottolineando per la prima volta l’importanza non più rappresentata da un aspetto meramente sessuale, quanto piuttosto dalla sicurezza, considerando dunque l’attaccamento in quanto processo connesso non all’oralità ma alla qualità dei bisogni di accudimento e ad una adeguata risposta materna. Bowlby, infatti, riteneva che, sin dalla nascita, il bambino è una persona in relazione ad altri individui, non solo un organismo che vive in uno stato solipsistico e alienato dal contesto e che, tutt’al più, sfrutterebbe unicamente per scaricare la propria tensione interna o per soddisfare la sua necessità di nutrimento (Tani, 2007). L’attenzione per la relazione e per il legame stabilito precocemente tra il bambino e le figure di accudimento, fu altresì incentivata dalle esperienze lavorative di Bowlby in due clinche di Londra, grazie alle quali poté osservare direttamente i bambini e il loro sviluppo relazionale, attitudine, questa dell’osservazione diretta, di cui la psicoanalisi era invece manchevole (Tani, 2007).

Grazie a queste esperienze Bowlby appurò le conseguenze patologiche che i bambini istituzionalizzati o ospedalizzati e separati dalle famiglie d’origine manifestavano in modo significativo (Tani, 2007). Gli effetti drammatici della deprivazione da cure materne furono spiegati da Bowlby facendo, in primo luogo, riferimento all’etologia e ai lavori di Lorenz (1963), il quale osservò attraverso il fenomeno dell’imprinting, una risposta di seguitazione innata nei piccoli delle oche che seguono un oggetto in movimento, solitamente la madre, e che, se allontanati dall’oggetto, manifestano riposte d’angoscia, indipendentemente dalla possibilità di ricevere cibo (Tani, 2007). Altresì, Bowlby si rifece agli esperimenti condotti da Harlow sui macachi, i quali, separati dalle madri naturali e cresciuti da madri ‘surrogate’, alcune costruite con semplice filo in metallo ma provviste di biberon contenente del latte ed altre invece sprovviste di latte ma rivestite in tessuto, tendevano a preferire le madri ‘morbide’, mostrando dunque quanto l’esigenza di ricevere calore fosse maggiore della necessità di ricevere nutrimento (Tani, 2007). Gli esperimenti di Harlow mostrarono non soltanto questo bisogno dei cuccioli ma anche le conseguenze negative e i disturbi psicologici prodotti dalla mancanza di accudimento e contatto materno che, al contrario, non venivano manifestati in caso di risposte materne adeguate che assicurassero ai piccoli la possibilità di sperimentare un senso di sicurezza, curiosità, autonomia e successiva indipendenza e di fare dunque esperienza di una ‘base sicura’.

La teoria dell’attaccamento: nascita e sviluppi

Alla luce delle osservazioni rilevate dagli studi condotti sui cuccioli di animali, oltre che dalla sua esperienza clinica, Bowlby elaborò la Teoria dell’Attaccamento, inteso come un sistema comportamentale di controllo, un’organizzazione interna all’individuo, il cui obiettivo è quello di stabilire o mantenere legami con la cosiddetta figura di attaccamento – che fornisce accudimento e calore – consentendo alla persona di fare esperienza di una condizione relativamente stabile fra se stesso e l’ambiente, nella quale ci si possa sentire al sicuro (Tani, 2007). Bowlby ha dunque teorizzato l’attaccamento come:

  • un’attitudine biologica del bambino verso la figura di accudimento primaria: Bowlby definisce ‘figura materna’ la persona primariamente responsabile della cura del bambino;
  • una motivazione intrinseca volta alla ricerca di contatto e legami che assicurino una certa sicurezza;
  • un sistema di controllo orientato alla creazione di un equilibrio fra il mantenimento di una certa vicinanza e la possibilità di esplorazione dell’ambiente circostante;
  • un comportamento volto alla sopravvivenza.

Nello studio di Bowlby, inoltre, due riflessioni appaiono centrali, in primo luogo il tipo di attaccamento che il bambino svilupperà dipenderà dalla qualità delle cure materne ricevute, in secondo luogo, le caratteristiche dei primi legami di attaccamento influenzeranno significativamente la personalità e la visione del bambino di se stesso e dell’altro da sé (Tani, 2007).

Tipi di attaccamento nella Strange Situation

La teoria di Bowlby fu successivamente validata empiricamente da Mary Ainsworth, sua stretta collaboratrice, la quale sviluppò la cosiddetta Strange Situation, una procedura semi-sperimentale condotta in laboratorio per la raccolta di dati che consente di osservare e valutare il comportamento di attaccamento, quello esplorativo e quello affiliativo, per le madri e i figli. Grazie allo studio condotto da Ainsworth, ad oggi possiamo osservare tre tipologie di attaccamento:

  • Attaccamento sicuro: in questo pattern comportamentale il bambino è sicuro, manifesta al distacco dalla madre un disagio che riesce ad essere facilmente ridotto al rientro di quest’ultima. I bambini con attaccamento sicuro fanno esperienza di un comportamento materno sensibile e responsivo e di adeguate risposte alle proprie esigenze;
  • Attaccamento insicuro-evitante: di questa categoria fanno parte i bambini che evitano una vicinanza significativa con la madre e non mostrano segni di disagio al distacco, evitando il contatto quando quest’ultima fa ritorno da loro. Si tratta di un meccanismo di difesa col quale il bambino eviterebbe la delusione conseguente alla convinzione che la sua richiesta di bisogno non sarà soddisfatta e che dovrà cavarsela da solo. Il bambino, in questo caso, fa esperienza di una madre che lo respinge, non lo accoglie e non lo conforta, facendo sì che il piccolo si sentirà non amato, insicuro di esplorare l’ambiente e certo di essere sempre rifiutato;
  • Attaccamento insicuro-ambivalente: in questa modalità rientrano bambini che mostrano disagio e irrequietezza durante la registrazione oppure anche solo all’arrivo in una situazione nuova e sconosciuta. Questo accade perché il bambino fa esperienza di un genitore che risponde in modo ambivalente alle sue richieste, mostrando una disponibilità altalenante. Questo stile comportamentale comporterà nel bambino sentimenti di angoscia al distacco dalla figura d’attaccamento, paura per possibili abbandoni, la convinzione di non essere amabile e un’esplorazione del mondo ansiosa e densa di timore.

Successivamente, gli studiosi Main, Salomon e Weston definirono un quarto stile di attaccamento per quei bambini che risultavano non possedere le caratteristiche di nessuno degli altri pattern. Stiamo parlando dell’Attaccamento disorganizzato, uno stile in cui il bambino mostra segni di agitazione e pianto significativo al distacco dalla madre, oppure evitamento durante il ricongiungimento. Ricerche e studi hanno appurato che tale stile si riscontra spesso in campioni ad alto rischio (psicopatologia presente nei genitori, basso livello socio-culturale, maltrattamenti e abusi fisici) (Main e Hesse, 1990).

I modelli operativi interni

Indagini sulla Strange Situation hanno mostrato la forte predittività di questa procedura e numerose ricerche hanno verificato il legame fra il tipo di comportamento materno e il successivo sviluppo del bambino. Infatti, i comportamenti responsivi, attenti e sensibili delle madri, rappresentano una base sicura per il proprio piccolo che affronterà con maggiore facilità e in modo adattivo e funzionale l’esplorazione dell’ambiente o eventuali distacchi e separazioni. Al contrario, l’inadeguatezza delle risposte materne comporteranno nel bambino scarsa fiducia in sé e nell’altro da sé e inadeguate capacità sociali.

In questo contesto si inserisce il costrutto dei Modelli operativi interni introdotto da Bowlby nel 1969 che si riferisce a rappresentazioni mentali che si costruiscono nella relazione e nell’interazione con l’altro da sé. Nello specifico, i ‘Modelli operativi interni’ rappresentano la capacità di interiorizzare e ripetere modelli di relazione e discendono dalle esperienze ripetute nel tempo che diventano per il bambino – e in seguito per l’adulto – un modo per prevedere la realtà e l’altrui comportamento e costruirsi un’idea sul mondo.

Conclusioni

Esaminare la Teoria dell’attaccamento e gli aspetti ad essa connessi ci porta a considerare anzitutto il concetto di ‘cure materne’ come non unicamente riferibile al soddisfacimento dei bisogni fisiologici primari, ma pure e in particolar modo all’adeguatezza della risposta fornita ai bisogni emotivi e affettivi del bambino. È stato ampiamente dimostrato l’effetto deleterio della deprivazione da cure materne nella personalità del futuro adulto. Allo sviluppo di un Io forte o debole contribuiscono significativamente, infatti, il tipo di relazione instaurata sin dai primi momenti di vita tra il bambino e la figura di attaccamento di riferimento. Un caregiver responsivo, sensibile e attento consentirà al bambino di sperimentare emozioni positive e di fiducia in se stesso e nell’Altro, aiutandolo ad affrontare in modo adattivo ogni situazione nuova che incontrerà sul suo percorso e a diventare un adulto sicuro. L’attaccamento, se adeguato, può dunque rappresentare una base sicura per tutta la vita di un individuo sin dalla sua nascita o, al contrario, rappresentare un destino spiacevole. Prendiamoci cura dei piccoli.

Quando volano i cormorani (2020) di Alfredo Canevaro – Recensione del libro

E’ davvero un’ottima notizia la attesa riedizione di Quando volano i cormorani. Infatti, il volume era ormai introvabile da diversi anni nonostante il suo successo e la sua notorietà tra i colleghi, per sfortunate vicende editoriali (che nulla hanno a che fare con le responsabilità dell’autore).

 

A conferma della sua importanza, va ricordato come il libro sia stato scelto come libro di testo da diverse scuole di formazione in psicoterapia, non solo dell’ambito sistemico-relazionale e non solo in Italia. Grazie all’editore napoletano Guerriero viene data ora la possibilità di studiarlo a nuovi lettori, in una versione aggiornata e ampliata.

Chi non conoscesse il lavoro di Alfredo Canevaro e desidera familiarizzare con il suo pensiero può trovare in questo sito una bella intervista nello spazio dedicato ai grandi clinici della psicoterapia, rilasciata alla redazione di State of Mind nel Dicembre del 2013.

Quando volano i cormorani, probabilmente il libro più importante di A. Canevaro, ha quasi la struttura di un seminario didattico, con una prima parte teorica e successivi ampi inserti clinici, che ben chiariscono il suo modus operandi in seduta.

Il titolo dell’opera serve ad introdurre una splendida metafora, proveniente dall’osservazione del mondo animale, che suggerisce la visione ottimistica dell’uomo e della vita di A. Canevaro. Riportando le considerazioni di due scienziati europei, ci narra come i cormorani di norma sperimentino una fase regressiva, con una riduzione delle competenze motorie, che precede il momento in cui essi imparano a volare e si allontanano definitivamente dal nido diventando adulti. E’ una metafora poetica ed efficace, di grande aiuto anche per i genitori ansiosi e spaventati di fronte alla crisi adolescenziale dei loro figli, a cui risulta difficile credere che ciò di cui hanno più bisogno gli adolescenti non sia il controllo, ma la fiducia nelle loro capacità, per quanto possa risultare tortuoso e anomalo il percorso di crescita intrapreso.

Il libro descrive proprio il modello clinico del percorso terapeutico utilizzato con giovani adulti. La specificità del modello è la convocazione dei familiari significativi, dopo le prime sedute individuali, nella parte centrale del processo terapeutico. In genere è coinvolta la famiglia d’origine, ma talvolta anche i partner. Tale allargamento ha l’obiettivo di creare un’esperienza emozionale che, sebbene breve, possa essere per la sua potenza risolutiva nei confronti di blocchi, in buona parte inconsapevoli, che solo l’intensità/drammaticità dell’incontro con i familiari può consentire di affrontare.

Mi piace ricordare che, per Canevaro, scopo dell’incontro terapeutico è: ‘dare senso alla sofferenza’. Anche qui, compare la sua visione umanistica e complessa: la sofferenza è, per buona parte, ineliminabile dall’esperienza umana. Una vita in cui non si soffre non sarebbe né auspicabile né migliore. La sua assenza ci condannerebbe a un isolamento in un mondo privo di affetti. Il dolore, certo non da solo, è ciò che ci rende umani. E dare un senso a ciò che viviamo, a quello che proviamo, alle nostre scelte e ai nostri dilemmi, senza eliminare le emozioni che ci accompagnano, è un’operazione importante. Infatti, proprio nell’aumento di consapevolezza c’è per noi la più importante opportunità per vivere pienamente.

La conferma di tale atteggiamento è da ritrovare nella ‘centralità del paziente come protagonista del cambiamento‘, di cui Canevaro è uno strenuo sostenitore. Il terapeuta non è il deus ex machina, non è il protagonista che guarisce con il suo sapere, ma è l’artigiano che usa in modo minuzioso i propri strumenti, al servizio della crescita dell’altro. Certo, per ottenere tale risultato, egli dovrà essere talvolta direttivo affinché vi sia un utilizzo opportuno degli strumenti relazionali che egli sceglie di far adottare a individui e famiglie, ma la filosofia di fondo è chiarissima: come terapeuta non dico mai cosa è giusto per te, ma ti aiuto a riappropriarti della tua vita, aiutandoti a cogliere e svelare fili e intrecci a volte tanto intricati o dolorosi da risultare invisibili.

Canevaro parla anche della terapia come possibilità di riconciliazione tra i familiari ed egli è tra quelli che crede nell’importanza del perdono, anche nelle situazioni traumatiche. Ma la sua non è affatto una visione ‘buonista’, non propone affatto un ‘volemose bene’ a tutti i costi, né le terapie sono efficaci se finiscono a ‘tarallucci e vino’. Egli sa bene che, affinché ci possa essere perdono, deve prima di tutto essere riconosciuto un danno senza nessuna sottovalutazione delle sue conseguenze. Tuttavia, la sua saggezza lo porta a credere convintamene che non c’è libertà nella rivendicazione cronica e nella rabbia esasperata. Il perdono è un atto che libera innanzitutto colui che perdona, che in tal modo può assumersi maggiormente la responsabilità della propria vita. ‘A cosa serve essere arrabbiati tutta la vita? Che grosso spreco è?‘ sembra chiedersi e chiederci. Salvo che, certo, tale scelta non sia al servizio della paura di scegliere, di osare, di vivere…

Infine, come non menzionare la descrizione dell’esercizio dello zaino, che ha affascinato ed emozionato tanti colleghi che l’hanno osservato nei suoi seminari. E’, probabilmente, l’esercizio che più facilmente fa ricordare A. Canevaro al grosso pubblico degli psicoterapeuti. La sua potenza, la sua efficacia ed anche la sua apparente semplicità sono alla base di tale successo. Esso chiarisce bene come la terapia debba essere innanzitutto un’esperienza emozionale, oltre che cognitiva. Ricompare la visione umanistica di Alfredo. L’incontro tra esseri umani, e quindi anche quello che avviene nello spazio della psicoterapia, non può essere asettico. Non può ridursi a una spiegazione concettuale o a una lezione astratta. Solo la potenza del rituale garantisce il coinvolgimento e l’intensità emozionale in grado di mettere in atto un cambiamento e consentire un’esperienza che, sia pur breve e guidata, sarà conservata per molti anni nella memoria dei suoi attori.

In questa nuova edizione, Canevaro ha dato maggiore spazio anche a un altro rituale molto potente, che utilizza con le coppie in via di separazione, spesso preda di conflittualità molto elevate. Si tratta di un esercizio in cui, in presenza dei figli, fa mettere di fronte gli ex partner cui viene richiesto di ringraziarsi reciprocamente per ciò che si sono dati nel corso della relazione. E’ stupefacente quanto possa essere difficile per alcune persone, prese da un intrigo di rabbia, rancori, incomprensioni, menzogne riconoscere che l’ex partner, che ora è considerato il responsabile principale delle proprie sventure, possa averci anche regalato qualcosa di buono che valga la pena di ricordare. L’esercizio è molto utile anche per i figli di tali coppie, che in tal modo hanno l’opportunità di osservare i propri genitori impegnati in qualcosa di assai diverso dalle solite accuse. Ancora una volta, non si tratta di una visione ‘buonista’ della vita, ma della profonda consapevolezza che occorre sciogliere i nodi irrisolti e non elaborati per affrontare il futuro con i vincoli della propria storia, ma senza l’obbligo di percorrere strade predeterminate o da altri o da parti ignote di noi.

 

LSD e psicosi: i circuiti neurali coinvolti

Il dietilamide dell’acido lisergico (LSD) è una sostanza psichedelica potente che produce esperienze profonde e che ha attirato l’attenzione dei ricercatori che tutt’oggi cercano di esaminare il suo effetto sull’attività cerebrale attraverso studi di neuroimaging (Carhart-Harris et al., 2016).

 

Questo allucinogeno serotoninergico fu sintetizzato per la prima volta nel 1938, nonostante ciò i suoi effetti furono scoperti cinque anni dopo nel 1943 (Hofmann, 1980). Dato che questo psichedelico ha un’alta affinità con diversi recettori neurotrasmettitoriali, esso può alterare la coscienza (Carhart-Harris et al., 2016). Dopo la scoperta dei suoi effetti, negli anni ’50 e ’60 questa sostanza ha avuto un’attenzione maggiore nel campo della psicologia e della psichiatria: le prime ricerche neurofisiologiche sono state effettuate utilizzando l’elettroencefalografia (EEG) che ha segnalato un aumento della frequenza dei ritmi alpha e una riduzione della potenza oscillatoria (Fink, 1969). Attraverso altri studi fu scoperta un’attivazione nelle regioni temporali mediali durante le psicosi, la stessa attivazione che si verifica sotto LSD e in caso di altri effetti psichedelici (Monroe, 1961; Schwarz, 1956). Altre ricerche sottolineano come una stimolazione elettrica dei circuiti del lobo temporale produca allucinazioni come quelle prodotte dagli psichedelici, ad esempio la visione onirica e una percezione visiva distorta (Mégevand, 2014; Vignal, 2007). Tale sostanza fu resa illegale negli anni ‘60 a causa dell’aumento del suo uso ricreativo e della sua grande influenza (Carhart-Harris et al., 2015; 2016).

Lo scopo di questo studio è quello di esaminare gli effetti di tale sostanza attraverso tre tecniche di neuroimaging complementari: magnetoencefalografia (MEG), etichettatura degli spin arteriosi (ASL) e misurazione della modificazione dello stato di ossigenazione dell’emoglobina nei globuli rossi (Blood Oxygen Level Dependent – BOLD). Queste tre tecniche sono state applicate ad un gruppo di venti volontari sani per osservare i cambiamenti dell’attività cerebrale (Carhart-Harris et al., 2016). I volontari hanno partecipato a due giorni di scansione con la somministrazione di LSD e placebo, nello specifico sono stati somministrati attraverso iniezioni endovenose 75 g in 10 ml di soluzione salina e LSD e 10 ml di soluzione salina e basta (placebo) in 100 minuti. L’ipotesi formulata prevede che il circuito ippocampale, il circuito para ippocampale e le principali reti in stato di riposo – come la default mode network (DMN) – fossero implicate nel meccanismo d’azione della sostanza psichedelica (Carhart-Harris et al., 2016). Le sessioni hanno incluso scansioni di magnetoencefalografia (MEG) e risonanza magnetica funzionale (fMRI) della durata di 75 minuti: le misure sono state fatte durante uno stato di riposo mentre i soggetti avevano gli occhi chiusi e il picco massimo dell’effetto dell’LSD è stato raggiunto dopo 120-150 minuti dalle iniezioni. Le misurazioni BOLD sono state effettuate 135 minuti dopo la somministrazione, le restanti misurazioni magnetoencefalografiche dopo 225 minuti (Carhart-Harris et al., 2016).

I risultati evidenziano un aumento dell’attività della corteccia visiva primaria (V1), un aumento delle differenze del flusso sanguigno cerebrale della corteccia visiva (CBF) e una diminuzione della connettività tra la corteccia retrospleniale (RSC) e il paraippocampo, circuito collegato alla “dissoluzione dell’ego” già precedentemente trattato con ricerche sulla psilocibina (Carhart-Harris, 2016).

Un risultato significativo evidenzia come l’espansione dell’attività della corteccia visiva primaria (V1) è fortemente correlato alle allucinazioni visive che suggeriscono come l’attività cerebrale intrinseca eserciti una grande influenza nell’elaborazione visiva in uno stato psichedelico rispetto a delle condizioni normali (Carhart-Harris et al., 2016): questo risultato può spiegare come normalmente le funzioni psicologiche, come la cognizione o le emozioni, possano “colorare” l’esperienza visiva in uno stato psichedelico (Carhart-Harris et al., 2019).

 

Angoscia di morte e Death Education

La Death Education costituisce un percorso rivolto a tutte le età, dalla prima infanzia alla senilità, volto a dare informazioni realistiche sulla morte, liberandola dalle forme spettacolari con cui viene rappresentata dai media, trattando temi che valorizzano la vita.

 

La morte è diventata un tabù. […] La morte e il morire sono stati medicalizzati e professionalizzati. Appena qualcuno dà segni di morte imminente viene spedito in ospedale, il che significa che i riti di morte domestici non possono più essere eseguiti e che la gente non può più acquisire conoscenza diretta sulla morte e il morire […]. La morte è stata negata, si è diffuso il timore di dire alle persone che sarebbero morte. I medici, i parenti, gli amici e persino il morente non vogliono parlarne, la paura della morte è diventata endemica (Brown, 2009).

Se in passato la morte era tradizionalmente gestita in ambiente domestico e il supporto della comunità era parte integrante del processo di elaborazione, ora vi è una evidente incapacità a trattare tale argomento e la tendenza a occultare la morte per poter vivere serenamente (Testoni, 2015).

Da una parte si assiste ad una spettacolarizzazione mediatica della morte rendendola più rappresentabile e riconoscibile, dall’altra vi è una privatizzazione di essa: il fine-vita viene delegato alla medicina e gestito in contesti di cura appositi, allontanandolo dal luogo dei vivi (Brown, 2009).

Tale occultamento ha portato a conseguenze sociali e psicologiche quali la solitudine del morente e un terrore unanime verso l’ignoto.

Terror Management Theory

Questo grande rimosso collettivo può essere letto come un anxiety buffer per contrastare l’angoscia esistenziale.

Secondo la Terror Management Theory (Greenberg, Pyszczynski & Solomon, 1986), infatti, l’essere umano, predisposto biologicamente alla sopravvivenza, si differenzia dalle altre specie per la consapevolezza della propria finitudine, causa di uno stato di ansia opprimente.

Per lenire questa angoscia di morte la maggior parte degli individui si serve di difese distali, quali i miti, la religione e la filosofia, e prossimali, quali la costruzione di una identità sociale che dia senso e valore a noi stessi e all’esistenza in generale (Testoni, 2015).

In realtà, è emerso che meno chiaramente è compresa l’idea di morte maggiori sono la paura e lo stato d’ansia ad essa associati (Cotton & Range, 1990; Ollendick, 1983; Slaughter & Griffiths, 2007).

Risulta, dunque, necessario affrontare l’argomento fin dalla tenera età, normalizzarlo, tenendo presente sia dello stadio evolutivo di chi cerca risposte sia della elaborazione avvenuta da parte di chi si prende la responsabilità di rispondere a tali interrogativi.

Secondo il padre della tanatologia Feifel (1959), infatti, è possibile vivere un’esistenza consapevole e genuina solo incorporando in essa il concetto di morte, dunque un percorso educativo che si prefigga tale obiettivo è quantomeno auspicabile.

In Gran Bretagna e negli Stati Uniti, già a partire dagli anni Settanta, è prevista all’interno dei normali percorsi curricolari la Death Education, attività educativa finalizzata a rendere gli individui più consapevoli e competenti nella gestione della propria e altrui morte. La Death Education si configura, inoltre, come un intervento che coinvolge i tre livelli di prevenzione.

Death Education e prevenzione primaria

Nel caso in cui non sia presente un lutto in corso, un intervento di prevenzione primaria tramite Death Education costituisce un percorso rivolto a tutte le età, dalla prima infanzia alla senilità, volto a dare informazioni realistiche sulla morte, liberandola dalle forme spettacolari con cui viene rappresentata dai media, trattando temi che valorizzano la vita.

È, dunque, l’antico memento mori, si focalizza sulla comprensione della morte, sugli atteggiamenti e i modi di affrontare il tema della finitudine.

In età evolutiva sicuramente è fondamentale coinvolgere il contesto scolastico, luogo di formazione attiva volta a gestire difficoltà emozionali relative alla perdita.

Interessante è l’intervento proposto in una scuola dell’infanzia italiana che ha visto protagonisti bambini di 5 anni: grazie al coinvolgimento dei genitori, si è discusso coi più piccoli su cosa significhi morire, raccontando la vita di persone care defunte per mezzo di fotografie che li ritraevano ottenendo effetti positivi, senza alcun sentimento di terrore (Testoni, Abrami, Matanza & Marchetti, 2003; Testoni, Ancona & Ronconi, 2015).

Death Education e prevenzione secondaria

Un percorso di Death Education, nel caso di morte annunciata o prossima, può essere rivolto a caregiver formali e informali.

Nel primo caso si tratta di professionisti sanitari quali operatori, infermieri, psicologi e medici che si trovano in contatto costante con chi è destinato a morire e con i loro cari. Un intervento di educazione alla morte permette, in questo caso, di apprendere communication skills e abilità di gestione delle conseguenze psicologiche legate al fine-vita.

Per quanto riguarda i caregiver informali, ovvero i familiari, è fondamentale un percorso di empowerment affinché imparino a condurre le cure domiciliari e la relazione col caro, evitino il caregiver burden e affrontino adeguatamente il lutto anticipatorio.

Death Education e prevenzione terziaria

Nel caso di un lutto conclamato, un intervento di Death Education ha lo scopo di favorire la resilienza e il sostegno sociale, differenziandosi a seconda del momento e del tipo di perdita.

In età evolutiva è consigliato un sostegno individualizzato da parte di un adulto fidato capace di supportare con competenza il sofferente, comunicando in maniera accorta e onesta la morte e le sue modalità, normalizzando la vita quotidiana, permettendo il riconoscimento delle emozioni e la loro gestione. In parallelo, è opportuno proporre sedute di grief-counselling ai genitori in modo tale che acquisiscano le competenze necessarie per tornare a relazionarsi efficacemente con il figlio.

Infine, può risultare utile coinvolgere anche la rete di socializzazione secondaria, per esempio tramite un intervento psicoeducativo rivolto al gruppo-classe per incrementare le strategie di coping o nel contesto lavorativo tramite empowerment delle abilità di ascolto empatico da parte dei colleghi nei confronti del dolente, contrastando la tipica ‘congiura del silenzio’.

Gli effetti dei social media: come influiscono sulla suicidalità e come sul benessere?

Nell’epoca odierna la maggior parte del tempo, ogni giorno, è trascorso sui social media.

 

Per i giovani adulti e gli adolescenti sono uno strumento importante di comunicazione con i coetanei, con cui mostrare le parti migliori della propria giornata ed evadere dalla realtà. Quali conseguenze ha l’utilizzo dei social media? Quali sono i rischi e quali i benefici?

I social possono avere aspetti benefici e drammatici a seconda del punto di vista che si prende in esame. Consideriamo due nuove uscite su Netflix: The Social Dilemma, che rivela dati drammatici relativi alle condotte suicidarie dei preadolescenti e Social Distance che mette in evidenza gli aspetti positivi dei social durante il lockdown globale causato dal Covid-19.

La suicidalità e il tempo di utilizzo dei dispositivi tecnologici: The Social Dilemma

In The Social Dilemma, documentario sull’utilizzo delle nuove tecnologie, massimi esperti nonché creatori di questi strumenti, illustrano i meccanismi che causano la dipendenza da social network. tali meccanismi sono incentrati sulla produzione di dopamina, il neurotrasmettitore che ci fa provare piacere e che si genera a partire da tools quali l’infinity scroll, i like, i salvataggi delle foto, le interazioni e i dati statistici. Più proviamo piacere, maggiore sarà il desiderio successivo. I circuiti dopaminergici del reward (della ricompensa) e la dipendenza si basano proprio su questo: l’aumento della concentrazione di dopamina deve essere sempre maggiore per regalare più piacere.

L’effetto di questi dati è stato evidenziato in particolar modo analizzando le condotte suicidarie in adolescenti e preadolescenti, nel documentario è stato preso in esame il genere femminile (Hedegaard, H., Curtin, C. S., Warner, M., 2020).

Tra le preadolescenti (11-14 anni) è stato rilevato un aumento del tasso di suicidi del 151% e nelle adolescenti (15-19 anni) del 70%. Questi dati sono stati raccolti con riferimento al momento in cui i social media hanno iniziato ad essere utilizzati maggiormente, nel 2009.

Come possiamo spiegare questi risultati?

Sono numerosi gli studi che prendono in esame il tempo di utilizzo dei social e l’ideazione suicidaria negli adolescenti, proprio a causa dell’aumento irrefrenabile di episodi disastrosi. La concezione principale che possa spiegare questa relazione si basa su alcuni assunti:

  • L’eccessivo attaccamento ed elevati tempi di utilizzo dei social media compromettono il legame con la realtà dell’individuo, comportando un distaccamento dagli adempimenti della vita quotidiana e dalle relazioni.
  • L’immedesimazione nel proprio profilo social può condurre a una negazione del ruolo sociale assunto nella vita reale.
  • Spesso si perde il contatto con il sociale e con questo la possibilità di supporto, che è definito essenziale per un buono stato di salute mentale.

Considerati questi punti, può essere immediato dedurre che l’eccessivo tempo dedicato alla vita social può causare numerosi problemi nella vita reale, che portano ad isolamento sociale, mancanza di feedback positivi dall’ambiente, assenza di supporto.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL VIDEO

THE SOCIAL DILEMMA – Guarda il trailer del docufilm Netflix:

L’effetto imitativo sui social: il caso di Robin Williams

Le possibili imitazioni di una condotta pubblica da parte di persone con vissuti complicati o in periodi di crisi della loro vita, sono state largamente studiate. In particolare, si è evidenziato molte volte come la notizia del suicidio di un personaggio pubblico abbia condotto alcune persone ad imitare un comportamento suicidario, pertanto molti Stati hanno definito delle linee guida sulla comunicazione dei media per limitare questi spiacevoli episodi.

Alcune analisi attuali, si sono occupate di analizzare la relazione tra Google Trends e Twitter. L’ipotesi è che Twitter possa rappresentare e riflettere i dati relativi la salute mentale e quindi le possibili conseguenze psicologiche di un’ampia gamma di notizie. Gli episodi di crisi di coloro che entrano a contatto con le informazioni su Twitter presentano un aumento del 5-15%. Questi dati hanno sottolineato quanto sia importante l’effetto imitativo soprattutto nel mondo social, i mezzi più accessibili per reperire notizie.

Sebbene queste analisi possano fungere solo da indicatore, in quanto non possono fornire informazioni complete sulla predizione dei comportamenti futuri delle persone, i dati relativi all’aumento degli episodi di crisi sono stati supportati da un analisi svolta in seguito alla morte di Robin Williams, attore e comico molto amato, per stimare l’aumento dei tassi di suicidio negli americani. Considerando i database degli anni precedenti all’evento, sono state effettuate delle previsioni dei casi di suicidio che si sarebbero verificati nel corso dei 6 mesi successivi alla morte dell’attore, avvenuta nell’agosto 2014. Le previsioni riferivano un numero pari a 16.849 casi di suicidio nel lasso temporale agosto-dicembre ma, successivamente alla morte dell’attore caro a tutti, si è verificato un aumento del 10% rispetto alla previsione, con la presenza di 18.690 casi di suicidio (Fink, D.S., Santaella-Tenorio, J., Keyes, K. M., 2018).

Questi dati, rilevano i ricercatori, non servono a definire l’impatto di una notizia sui tentativi di suicidio ma possono essere estremamente utili se correlati con le statistiche registrate nelle aziende sanitarie territoriali e per prevenire recidive. Infatti, in alcune zone del Regno Unito, i dati raccolti dalle aziende sanitarie nelle cartelle cliniche relativamente ai pregressi tentativi di suicidio di un paziente tengono conto delle notizie che possono fungere da trigger per l’ideazione suicidaria fornendo così dati importanti per delle previsioni.

Social Distance: la nuova docu-serie di Netflix sulla tecnologia durante la quarantena

Social Distance è una docu-serie che riguarda gli aspetti positivi che i social hanno regalato alle persone durante il lockdown. Infatti, tantissimi sono stati isolati e disconnessi dalla realtà sociale a causa del confinamento, altri sono stati separati dalle persone che amano di più a causa del coronavirus. La tecnologia si è rivelata fondamentale, sia per lo smart working, che per le lezioni online di scuole e università, sia per non perdere il contatto con i propri affetti.

Nelle brevi puntate di questa serie vengono analizzate le vite di alcune persone e il modo in cui hanno sfruttato i social, sottolineando la sensazione che avrebbero percepito nel caso la tecnologia non fosse esistita: perdita, solitudine, assenza, preoccupazione, malessere.

Possiamo dedurre che non sempre l’uso dei social deve essere associato a conseguenze negative, è importante non demonizzare l’uso dei social e continuare ad informarsi per utilizzarli con criterio: ogni strumento, se adoperato in modo profittevole, può regalare buoni risultati.

 

SOCIAL DISTANCE – Guarda il trailer della docuserie Netflix:

 

 

I pazienti psichiatrici forensi: fenomenologia sintomatologica e percorsi terapeutici farmacologici

I pazienti psichiatrici forensi, ovvero coloro ai quali è stata diagnosticata una psicopatologia e hanno commesso un crimine violento, presentano delle differenze rispetto ai pazienti psichiatrici non forensi.

 

 Infatti, i primi manifestano spiccata la tendenza alle condotte violente ed impulsive e hanno una molteplicità di disturbi psichiatrici in comorbidità, quali disturbi di personalità, disturbo da uso di sostanze, disturbi neuropsicologici, cosa che non si osserva nei secondi. La terapia con antipsicotici atipici o di nuova generazione (clozapina, quetiapina, olanzapina) sembra migliorare la sintomatologia psicopatologica e le condotte aggressive e violente dei pazienti psichiatrici forensi.

Keywords: pazienti psichiatrici forensi, psicopatologia, trattamenti farmacologici.

Nella maggior parte dei paesi del mondo chi soffre di una patologia mentale riconosciuta e si rende responsabile di un crimine riceve un trattamento specifico, che sovente non prevede la reclusione. In pratica, l’essere affetto da una patologia mentale rende l’individuo incapace di intendere e di volere e, quindi, non pienamente responsabile delle sue azioni (Svennerlind e al., 2010; Edworthy e al., 2016).

Il percorso successivo all’azione delittuosa, riservato a questi soggetti, ha il paradigma fondante nel trattamento terapeutico psichiatrico. Molti di questi pazienti si sono resi protagonisti di azioni efferate, frutto di comportamenti violenti, e la tendenza alla violenza compare anche nelle condotte che essi hanno nei luoghi di cura in cui sono trasferiti dopo aver commesso il crimine (Fazel e al., 2016).

Se si comparano i pazienti oggetto di trattamento psichiatrico – forense con i pazienti psichiatrici non forensi si notano delle differenze.

In primo luogo, i primi rivestono un duplice ruolo, ovvero sono contemporaneamente pazienti e imputati, essendosi resi responsabili di lesioni gravi e/o mortali nei confronti dell’alterità, derivanti da condotte violente. I secondi, invece, accedono più raramente a comportamenti violenti (Gunn e Taylor, 2014).

I pazienti forensi hanno frequentemente una storia di vita costellata da condotte violente e comportamenti dirompenti, cosa che manca nel ciclo di vita del paziente psichiatrico non forense (Flynn e al., 2011).

La finalità del percorso di cura, a cui attendono i sanitari proposti, è differente quando si comparano i pazienti psichiatrici forensi con quelli non forensi. Infatti, per i primi l’obiettivo prioritario è rappresentato dal contenimento dei comportamenti violenti, mentre per i secondi lo scopo che si vuol raggiungere è quello del benessere (Buchanan e Grounds, 2018). In aggiunta, i primi sono costretti dalla decisione di un tribunale a sottoporsi ad una cura psichiatrica, i secondi, invece, scelgono autonomamente di curarsi e questo determina una differenza nella compliance terapeutica.

Altra differenza che si osserva è rappresentata dalla durata del percorso di cura. In pratica, per i pazienti psichiatrici forensi il percorso terapeutico si situa in un arco temporale di più anni, mentre per i pazienti psichiatrici non forensi la cura può durare, laddove la patologia lo permette, solo qualche mese.

Un’ulteriore diversità si nota nell’ambito della comorbidità. Di fatto, i pazienti psichiatrici forensi, oltre che il disturbo psicotico, presentano anche in comorbidità, nella grande maggioranza dei casi, disturbi di personalità, disturbi da uso di sostanze e disturbi neuropsicologici, cosa che non accade frequentemente per i pazienti psichiatrici non forensi (Palijan e al., 2009; Goethals e al., 2008).

In più, il percorso terapeutico attuato nei confronti dei due tipi di pazienti appare differente. Per i pazienti psichiatrici forensi sono prevalentemente proposti trattamenti farmacologici, mentre per quelli non forensi alla terapia farmacologica spesso si abbinano trattamenti psicoterapeutici (Degl’Innocenti e al., 2014).

Come si è detto, i pazienti psichiatrici hanno come trattamento di elezione la cura farmacologica e, essendo stata loro diagnosticata una sindrome psicotica, sono curati con farmaci antipsicotici, utilizzando sia gli antipsicotici tradizionali o tipici che quelli atipici o di nuova generazione. Inoltre, di frequente, agli antipsicotici sono abbinati farmaci appartenenti ad altre categorie, come gli ansiolitici e gli stabilizzanti del tono dell’umore (Howner e al., 2020).

Differenti ricerche hanno comparato gli effetti degli antipsicotici nel trattamento dei pazienti psichiatrici forensi. Dagli studi effettuati sembra che gli antipsicotici atipici abbiano più possibilità di controllare la sintomatologia presentata. La ricerca di Stoner e al. (2002) ha confrontato gli effetti dell’aloperidolo, antipsicotico tipico, con quelli della clozapina, antipsicotico di nuova generazione, in due gruppi differenti di pazienti psichiatrici forensi. Il trattamento con aloperidolo ha migliorato nel 58% dei pazienti i sintomi presentati, mentre la clozapina ha ridotto la sintomatologia nel 86% dei pazienti trattati. Relativamente agli antipsicotici di nuova generazione, la ricerca di Gobbi e al. (2014) ha evidenziato gli effetti benefici della quetiapina e dell’olanzapina nel controllare i sintomi psicotici e i comportamenti aggressivi e impulsivi dei pazienti psichiatrici forensi. In aggiunta, la ricerca di Patchan e al. (2018) ha sottolineato l’effetto positivo della clozapina nel ridurre i comportamenti violenti e aggressivi dei pazienti psichiatrici forensi.

In conclusione, i pazienti psichiatrici forensi, ovvero coloro ai quali è stata diagnosticata una psicopatologia e hanno commesso un crimine violento, presentano delle differenze rispetto ai pazienti psichiatrici non forensi. Infatti, i primi manifestano spiccata la tendenza alle condotte violente ed impulsive e hanno una molteplicità di disturbi psichiatrici in comorbidità, quali disturbi di personalità, disturbo da uso di sostanze, disturbi neuropsicologici, cosa che non si osserva nei secondi. La terapia con antipsicotici atipici o di nuova generazione (clozapina, quetiapina, olanzapina) sembra migliorare la sintomatologia psicopatologica e le condotte aggressive e violente dei pazienti psichiatrici forensi.

 

Vulnerabilità – Moms, una rubrica su maternità e genitorialità

Il presente articolo affronta la tematica della vulnerabilità umana, che appartiene tanto agli uomini quanto alle donne, e talvolta è più difficile da riconoscere ed accettare nel ruolo genitoriale.

Moms – (Nr.3) Vulnerabilità

 

C’è un lato di te che molte persone non vedono.
Il mio lato b?
Il tuo lato dolce. Quando sei vulnerabile ti ho visto fare grandi cose e non parlo di debolezza, parlo di quando abbassi un po’ la guardia.

Quello riportato è uno scambio tra Kate Foster e il marito Nathan durante il terzo episodio della prima stagione di Workin’ Moms.

Durante tutta la puntata viene affrontato il tema della vulnerabilità che a volte sembra essere confusa con termini quali “femminilità”e “leggerezza”, ma grazie all’affermazione di Nathan si rivela per quello che è.

Ognuna delle protagoniste si costringe a costruirsi una maschera per paura di essere vista con tutte le sue vulnerabilità, dove, come dice Nathan, vulnerabilità non è debolezza, ma essere umani ed accettarlo.

Molte donne credono che il concetto di maternità comprenda il non permettersi di essere vulnerabili e ancor di più non poterlo mostrare ai propri figli. Questa credenza viene esplicitata dal personaggio di Frankie, quando rivela che sua figlia ha bisogno che lei sia forte. La figlia ha 9 mesi e non può averle espresso questo bisogno, pertanto sembra più una convinzione di Frankie rispetto al suo ruolo materno. Tale pensiero sembrerebbe presupporre che la forza sia intesa come opposta alla debolezza, laddove debolezza rivela un’accezione negativa.

Finché alla vulnerabilità umana verrà data l’accezione negativa di “debolezza”, uomini e donne tenderanno a colpevolizzarsi quando non riescono a rispecchiare il concetto di “forza” che hanno in mente, o a deresponsabilizzarsi rispetto alle proprie potenzialità.

Solo l’accettazione della propria vulnerabilità, può portare ognuno a sperimentare al massimo se stesso e le proprie doti, dovendo confrontarsi solo con qualcosa che sta al proprio interno e che appartiene a sé.

Sin da bambini si tende ad attribuire i termini “forte” e “debole” alle figure genitoriali. La cultura talvolta tende a sostantivare questi due aggettivi, incrementando la credenza che i genitori debbano essere come dei supereroi di cui i figli non devono conoscere le vulnerabilità.

Alcune madri, come le protagoniste del telefilm Kate ed Ann, tendono a mettere una maschera per evitare di svelare le proprie vulnerabilità, altre si colpevolizzano non riuscendoci, come Frankie, ed altre ancora non hanno paura di mostrare la propria umanità, accettandola. Come mostra il confronto tra Kate e il marito, è proprio nell’accettazione di sé che si può iniziare un confronto più autentico con l’altro, poiché questo passa per un piano emotivo. Così è anche con i figli, che imparano dai comportamenti più che dalle parole.

Ogni bambino ha il diritto e il bisogno di incontrare l’autenticità dei propri genitori per poter permettere a se stesso di non sentirsi sbagliato nel momento in cui fa emergere il proprio vero Sé.

Quando la madre avrà il coraggio di togliersi la maschera donerà a se stessa e al proprio figlio il dono di poter essere liberamente unici ed irripetibili.

 

Acquisto compulsivo in tempi di covid-19

Un recente studio ha esaminato l’impatto della presenza di una rete sociale, della fiducia nella politica e della paura del Covid-19 sul lavoro da casa e sull’acquisto compulsivo tra i principali gruppi sociodemografici nel Regno Unito.

 

Il coronavirus (COVID-19) è una malattia infettiva causata dal virus SARS-COV-2. Sin dalle sue prime osservazioni cliniche in Cina nel dicembre 2019, esso è stato designato come pandemia globale: l’Italia, il Regno Unito e tanti altri Paesi hanno adottato misure drastiche, come il blocco a livello nazionale e una politica di allontanamento sociale, che include l’autoisolamento e il lavoro da casa, ove possibile. La popolazione è ovviamente diversificata e le persone provenienti da gruppi di età e background socio-economici diversi e con diversi livelli di salute mentale hanno reagito in modo diverso alla pandemia (Jaspal et al., 2020). In questo senso, le variabili psicologiche, come ad esempio la fiducia nella politica e nell’autorità, la paura del COVID-19, la rete sociale e il supporto percepito da parte di essa, sono stati fondamentali. Inoltre, le risposte psicologiche e comportamentali alla pandemia, come l’acquisto compulsivo, che è stato osservato sin dall’inizio, hanno avuto implicazioni significative sia per la gestione della malattia che per il benessere della popolazione (Kellett & Bolton, 2009).

Un recente studio, condotto da Jaspal e colleghi (2020), ha esaminato le differenze tra i principali gruppi sociodemografici e l’impatto della forza della rete sociale, della fiducia politica e della paura del COVID-19 sul lavoro da casa (comportamento chiave di allontanamento sociale) e sull’acquisto compulsivo, in un campione di 411 adulti residenti nel Regno Unito.

In questo contesto, fidarsi meno delle istituzioni politiche, e della loro capacità di guidarci nell’affrontare la crisi sanitaria, può generare ansia e panico in relazione al pericolo (Hier, 2003). La fiducia nella politica è un costrutto psicologico che determina il modo in cui gli individui pensano alle linee guida emanate relative alla pandemia. La paura è una reazione emotiva e fisiologica comune di fronte a grandi sfide sociali, ma può essere psicologicamente angosciante (Shultz et al., 2016) e acuta tra le persone con problemi di salute mentale cronica, o con tendenze a diffidare dagli altri, governo incluso (Lindström & Mohseni, 2009). Essa può spingere le persone ad adottare comportamenti preventivi utili all’eventuale gestione delle infezioni (Witte & Allen, 2000), ma, in livelli molto elevati, può portare a inerzia e a comportamenti di rischio, fra cui l’acquisto compulsivo (Witte & Allen, 2000). Questa emozione negativa può influenzare la risposta pubblica all’emergenza sanitaria.

Per quanto concerne la politica di distanziamento sociale, essa è fondamentale per ridurre la propagazione del virus, di conseguenza le persone sono state incaricate di adottare la modalità smart-working. E’ chiaro che ciò assume un significato completamente diverso dal costrutto psicologico di isolamento sociale, per cui le persone riducono i contatti interpersonali di qualsiasi tipologia, con gravi ripercussioni sul proprio funzionamento (Courtin & Knapp, 2017). Tuttavia, vi sono gruppi più vulnerabili meno in grado di lavorare da casa, come ad esempio gli anziani. L’allontanamento sociale può esacerbare l’isolamento sociale e, a sua volta, alimentare sentimenti di solitudine (Gierveld, 1998), oltre che comportamenti dannosi, quali l’acquisto compulsivo. Al contrario, una solida rete sociale, anche se virtuale, può fornire la motivazione e il sostegno necessari per avere esiti più favorevoli al benessere psicologico.

Infine, per acquisto compulsivo s’intende una propensione cognitiva e comportamentale disadattiva ed estrema verso un’attività di acquisto incontrollato, che spesso si verifica in risposta a sfide sociali minacciose (Kellett & Bolton, 2009). E’ chiaro che le crisi sanitarie, le epidemie e le pandemie possono costituire un fattore scatenante, fenomeno confermato dallo studio di Hall (2020) sulla popolazione del Regno Unito in relazione al COVID-19. Esso può essere particolarmente acuto nei soggetti con problemi di salute mentale preesistenti che lo utilizzano come strategia di coping (Gallagher et al., 2017), con conseguenze importanti sia nella sfera psicologica, tra cui senso di colpa, rimorso e ansia, che economica e finanziaria (Kellett & Bolton, 2009). Questi individui sono anche più propensi ad agire nella segretezza, alimentando i sentimenti di isolamento (Weinstein et al., 2016). L’acquisto compulsivo non sembra essere molto diffuso nella popolazione generale (Black, 2007), ma sembra aumentare in situazioni di incertezza. In risposta a COVID-19, le persone hanno preso di mira in particolare le confezioni di salviette antibatteriche e di rotoli di carta igienica e le bottiglie di disinfettanti per le mani (Hall, 2020). Esso è importante nel contesto di COVID-19 perché può aumentare non solo la paura e l’ansia, ma anche il rischio di ulteriori infezioni, visti i frequenti viaggi nei supermercati e, quindi, il contatto con altre persone in spazi relativamente piccoli.

La presente ricerca si è proposta di esplorare 4 ipotesi: (1) se esiste una relazione tra psicopatologie e fiducia nella politica, paura di COVID-19, e acquisti compulsivi; (2) se esiste una relazione tra sintomi COVID-19, isolamento sociale e acquisti compulsivi; e infine (3) se esiste una relazione tra l’età, il disturbo mentale diagnosticato, la sintomatologia COVID-19 e la forza della rete sociale, e smart-working e acquisto compulsivo, e se queste relazioni sono mediate dalla fiducia politica, dalla paura del COVID-19 e dalla durata dell’autoisolamento.

I partecipanti hanno risposto ad una serie di domande demografiche, tra cui se gli era stato diagnosticato o meno un disturbo mentale e, in caso di risposta affermativa, gli veniva chiesto di indicare il tipo di disturbo e erano in cura o meno. Successivamente, hanno completato il Trust in Politicians and the Trust in the Political System scales (Mutz & Reeves, 2005), composto da 12 item del tipo “I politici hanno generalmente buone intenzioni”. Inoltre, i soggetti hanno indicato se sono stati in isolamento a causa del Covid-19 e, se sì, per quanto tempo (da 1= meno di una settimana, a 6= più di 4 settimane); se hanno lavorato da casa e, se sì, per quanto tempo; hanno completato la Lubben Social Network Scale (Lubben et al., 2006), composta da 6 item che valutano l’isolamento sociale, del tipo “Quante volte vedi o senti amici/famiglia nel corso di un mese?” (con risposte su scala Likert da 0 a 5); se mostravano o meno la sintomatologia covid e se pensavano o meno di aver contratto la malattia. I soggetti hanno inoltre indicato la frequenza con cui pensano e parlano del COVID-19 in un giorno (da 1= per niente, a 4= più di 5 volte); hanno completato la Fear of COVID-19 Scale (Ahorsu et al., 2020), composta da 10 item del tipo “Ho molta paura del COVID-19”; infine, hanno completato la Compulsive Behaviour Scale (Edwards, 1993) adattata al contesto del COVID-19, composta da 22 items del tipo “Compro cose quando non ho bisogno di niente” (da 1= per niente, 5= totalmente applicabile).

Dai risultati dello studio è emerso che mediamente il campione si è isolato, lavorando da casa, per circa una settimana, di questi erano i gruppi più giovani e a reddito più alto ad avere maggiori probabilità di praticare smart-working rispetto ai lavoratori a basso reddito e a quelli più anziani. Il reddito è risultato correlato positivamente con la fiducia nelle istituzioni. Attraverso l’esplorazione della forza della rete sociale risulta che l’isolamento era moderato, inoltre, chi ha una rete più ampia tende ad avere più fiducia nella politica e a parlare e pensare più frequentemente del COVID-19. In generale, il campione ha riferito la paura di COVID-19 da moderata ad alta, moderata fiducia nella politica e livelli relativamente bassi di acquisto compulsivo: chi ha più paura tende ad agire più frequentemente comportamenti di acquisto compulsivo. Soltanto il 14% del campione ha riferito un disturbo mentale diagnosticato, i più comunemente riportati sono stati depressione e/o ansia, nello specifico è emerso che i soggetti con psicopatologia hanno meno fiducia nella politica, molta meno paura di COVID-19 e tendono in misura maggiore all’acquisto compulsivo rispetto a chi non ha un disturbo.

L’87% non ha riportato sintomatologia COVID-19, e il 95% di essi credeva di non averlo mai preso. Questi hanno riferito un comportamento di acquisto molto meno compulsivo, oltre che a un isolamento meno lungo rispetto alle persone con sintomatologia COVID-19. Pare che i soggetti più adulti abbiano più fiducia nella politica, tendano meno all’acquisto compulsivo e a lavorare da casa, e inoltre riferiscano sintomatologia COVID-19 più frequentemente rispetto alle fasce d’età più giovani. Infine, le persone più anziane hanno meno probabilità di impegnarsi in acquisti compulsivi.

 

Ah che stress! Cosa possiamo fare per gestire meglio le frustrazioni di ogni giorno? – VIDEO

CIP Modena ha presentato un ciclo di incontri online con lo scopo di approfondire i Disturbi di Personalità. Uno di questi, tenutosi il 22 settembre, ha affrontato il tema della gestione dello stress. Pubblichiamo per i nostri lettori il video dell’evento.

 

La tolleranza alla frustrazione è la capacità dell’individuo di far fronte a quell’insieme di profonda insoddisfazione, senso di impotenza e rabbia. Non sempre riusciamo a scaricare lo stress che accumuliamo e il nostro livello di tolleranza diminuisce. Cosa è utile fare e cosa non lo è?

Durante l’incontro organizzato da CIP Modena e condotto dalla Dott.ssa Antonella Gemelli, è stato analizzato il tema dell’intolleranza alla frustrazione e sono state descritte le principali strategie di fronteggiamento e gestione dello stress.

 

AH CHE STRESS! COSA POSSIAMO FARE
PER GESTIRE MEGLIO LE FRUSTRAZIONI DI OGNI GIORNO?

Guarda il video integrale del webinar:

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Il ruolo degli ormoni tiroidei nelle alterazioni del tono dell’umore

Depressione e tiroide: l’associazione tra alterazioni del tono dell’umore e disfunzioni tiroidee è nota fin dal 1825, quando il medico inglese Caleb Hillier Parry per primo descrisse la maggiore incidenza di “disturbi nervosi” nei soggetti con affezioni della tiroide. Gli attuali studi scientifici hanno portato a ritenere che esista un rapporto causa-effetto a doppio senso fra depressione e disfunzioni della tiroide.

 

La tiroide è una ghiandola endocrina situata nella parte anteriore del collo che governa, attraverso la produzione ormonale, importanti processi biologici come: il metabolismo, lo sviluppo scheletrico e sessuale, la termoregolazione corporea, il ritmo sonno-veglia e varie altre funzioni neurologiche e psichiche. Il funzionamento della tiroide è regolato dal sistema endocrino e da quello nervoso. L’ipolatamo secerne il TRH che stimola le cellule tireotrope dell’ipofisi a produrre TSH un ormone che, a sua volta, promuove la produzione di due ormoni tiroidei detti T3 e T4. Lo iodio insieme alla tirosina sono necessari per la sintesi di questi ormoni. La tirosina è anche il precursore delle catecolamine: dopamina, noradrenalina ed adrenalina, oltre a regolare varie funzioni fisiologiche, sono coinvolte nella risposta allo stress e nella regolazione del tono dell’umore. La secrezione degli ormoni tiroidei segue un ritmo circadiano; i livelli più alti di T3  e T4  si raggiungono durante la notte e nelle prime ore del mattino, mentre i livelli più bassi si rilevano tra le 12 e le 21 (Hershman JM. 2019)

Le disfunzioni tiroidee, che possono associarsi a processi infiammatori e/o proliferativi, sono l’ipotiroidismo e l’ipertiroidismo.

L’ ipertiroidismo viene definito come la condizione di iperfunzione della tiroide con ipersecrezione di ormoni tiroidei. Al contrario l’ipotiroidismo è una condizione di ipofunzione tiroidea. Può accadere che nell’ipotiroidismo i valori degli ormoni di T3 e T4 risultino nella norma. In questi casi, l’indice che può suggerire la presenza dell’ alterazione è un aumento del TSH, che viene prodotto in quantità maggiori proprio a causa della mancata inibizione esercitata da parte del T3 e del T4. Se il disturbo è segnalato solo da un TSH alto, con valori normali di T3 e T4, si parla di  ipotiroidismo subclinico (Castrucci, 2020).

Gli ormoni tiroidei hanno un ruolo essenziale nella regolazione delle funzioni neurologiche e psichiche (A. Fukao, J. Takamatsu, M. Ito, T. Arishima, H. Yokoyama, M. Tanaka, et al.  2017). Ansia, depressione e altri stati alterati dell’emotività possono presentarsi in caso di malfunzionamento della ghiandola (S. Fujinami 1991). Alcune ricerche sul legame tra depressione e tiroide hanno dimostrato che la depressione si associa all’ipotiroidismo ed all’iperdiroidismo con una frequenza rispettivamente del 56% e del 31% (C. Kirkegaard, J. Faber 1998, Morghese, 2018).

E’ noto che nei casi di ipertiroidismo possano comparire iperattività ed irritabilità. Al contrario le persone ipotiroidee hanno, in genere, un rallentamento delle funzioni psichiche. Secondo i dati disponibili in letteratura circa 1-4% dei pazienti con umore depresso hanno un chiaro ipotiroidismo e una percentuale variabile tra il 4% e il 40% può avere un ipotiroidismo sub clinico (M.P. Hage, S.T. Azar 2012). In quest’ultimo caso i sintomi  depressivi possono comparire  anche in assenza di segni a carico di altri organi ed apparati tipicamente colpiti  nella disfunzione tiroidea.

Nell’ipertiroidismo i sintomi psichici mimano quelli della sindrome ansiosa, ma possono includere anche stati di mania e di depressione. Nel morbo di Basedow-Graves, una patologia autoimmune che provoca ipertiroidismo, l’umore depresso è risultato in relazione con il peggioramento dell’ipertiroidismo provocato dalla malattia (Fukao A., Takamtsu J., Arishima T. et al. 2020). In pazienti con cicli rapidi del disturbo bipolare sono stati osservati valori bassi di ormoni tiroidei o valori di TSH elevati e sono state riscontrate altre evidenze di ipofunzione tiroidea (Perugi G. , Restuccia G. 2005). Questi dati hanno portato a ritenere che esista un rapporto causa-effetto a doppio senso fra depressione e funzione della tiroide.

Gli studi indicano che il legame tra disfunzioni tiroidee e disturbi affettivi può essere determinato da una disregolazione dei ritmi circadiani del TSH e dal coinvolgimento del TRH nella modulazione dell’umore.

Il TRH è presente al di fuori dell’asse ipotalamo-ipofisario ed è considerato un neurotrasmettitore ed un neuromodulatore (Grary et al. 2003, GG Yarbrough, J. Kamath,  A. Winokur, AJ. Prage Jr., 2007). La funzione extra-ipotalamica del TRH è stata dedotta da studi farmacologici sulla sua azione e su quella dei suoi analoghi. Tra i vari effetti questo ormone possiede anche quelli antidepressivi ed ansiolitici ( Sattin, 1999; Gutierrez-Mariscal et al., 2008)

Inoltre il coinvolgimento del TRH nella modulazione dell’umore è stato confermato da un esperimento condotto con i topi nei quali una mutazione rendeva il recettore per il TRH inattivo. In questa condizione i topi sviluppavano ansia e depressione ((Yuhua Sun, Bojana Zupan, Bruce M Raaka, Miklos Toth and Marvin C Gershengorn 2009).

Nei disturbi depressivi vi è un’alterazione dei ritmi circadiani, nei soggetti depressi è stato riscontato un basso livello di TSH notturno e nella depressione maggiore è stato evidenziato anche un basso tasso di TSH basale. Si è ipotizzato che queste alterazioni siano legate ad una stimolazione cronica dell’ipofisi da parte del TRH che rende la ghiandola meno responsiva (Lyall LM., Weis Ca., Graham N. et al 2018).

 

Identità sessuale liquida

Parlando di identità sessuale sono molti gli studi che sottolineano come tante persone che fanno incontri omosessuali, o semplicemente li desiderano, continuano a mantenere un’identità eterosessuale. Perché questa discrepanza tra il loro comportamento/desiderio sessuale e la loro identità?

 

Siamo sempre convinti che le persone che sono impegnate in una relazione sessuale con persone dello stesso sesso o che lo sono state in passato siano omosessuali o che si definiscano apertamente o meno entro tale categoria. La verità è molto meno “scontata” di quanto si vuole pensare. Tendiamo spesso a cadere in quest’errore perché sottovalutiamo la flessibilità dell’identità.

Parlando di identità sessuale sono molti gli studi che sottolineano come molte persone che fanno incontri omosessuali o semplicemente lo desiderano, continuano a mantenere un’identità eterosessuale (Seidman et al., 1999; Walker, 2014). Allo stesso modo persone che fino ad un determinato periodo della loro vita si sono definite come gay, lesbiche o bisessuali, possono finire per considerarsi eterosessuali (Diamond, 2003; Hamilton, 2007).

Così uno studio condotto da Hoburg, Konik, Williams, & Crawford (2004) in un college mostra come il 30% degli studenti e il 19% delle studentesse che si definivano eterosessuali dichiaravano di provare attrazione sessuale verso individui dello stesso sesso.

Allo stesso modo Savin-Williams & Ream (2007), in uno studio rappresentativo della popolazione americana dai 18 ai 26 anni, mostrarono come nonostante il 5% dei ragazzi e il 13% delle ragazze dichiarasse di provare attrazione sessuale verso persone dello stesso sesso, rispettivamente solo il 2% e il 4% si identificavano come gay, lesbiche o bisessuali (Savin-Williams & Ream, 2007).

L’esperimento che ora vedremo mostra come l’etichetta eterosessuale non sia così rigida ed esclusiva e che desiderio e comportamento sessuale non definiscono necessariamente l’identità sessuale della persona: in poche parole la persona non è il suo desiderio o il suo comportamento ma la definizione che dà di sé stessa.

L’identità infatti è un insieme di caratteristiche usate per auto-definirsi o per definire cosa si intende essere in una particolare situazione. Tale autodefinizione non è stabile, ma flessibile, e proprio per questo può cambiare nel corso della propria vita in base all’esperienza, alla crescita personale, alle relazioni che sviluppiamo e all’ambiente in cui viviamo (Rupp et al., 2013).

L’esperimento compiuto da Kuperberg e Walker (2018) ha coinvolto 24’000 studenti di 22 college diversi; di questo campione è stata presa in considerazione solo la percentuale di studenti che hanno dichiarato di aver avuto come ultimo rapporto un’esperienza con persone dello stesso sesso.

I reali protagonisti di questo studio sono perciò 718 studenti, di cui i ragazzi che hanno avuto una precedente relazione omosessuale sono 398, mentre 320 sono invece le ragazze che hanno dichiarato di aver avuto un rapporto con membri dello stesso sesso come ultima esperienza sessuale.

Di questi 718 studenti, il 12% dei ragazzi ed il 25% delle ragazze continuano ad autodefinirsi eterosessuali.

Ma perché questa discrepanza tra il loro comportamento sessuale e la loro identità?

Diverse teorie o variabili possono concorrere a rispondere a tale quesito: la variabile sociale gioca sicuramente un ruolo importante nella definizione di sé stessi. Un soggetto può infatti aver interiorizzato alcuni preconcetti circa il modo “giusto” di essere all’interno della società, in questo caso, rispetto alla sfera sessuale.

Conseguentemente a tale modo di pensare, l’esistenza del “giusto” presuppone l’esistenza del “non giusto”, e viceversa. Tutto ciò che non viene perciò incluso entro la categoria “giusto” è ciò che ne differisce per le sue caratteristiche intrinseche.

È a queste caratteristiche differenti e, soprattutto alla considerazione del soggetto circa queste differenti caratteristiche che esulano dal “giusto”, che ci si riferisce quando parliamo di omofobia interiorizzata o eterosessismo interiorizzato (internalized heterosexism).

Studiosi del campo come Kaufman & Johnson (2004) e Taylor (1999) hanno mostrato come alla base dell’incongruenza tra comportamenti sessuali e definizione sessuale di sé vi fossero dei sentimenti negativi e dei giudizi dispregiativi verso l’omosessualità.

Altri autori come Boykin (2005) e Ford, Whetten, Hall, Kaufman, e Thrasher (2007) hanno invece evidenziato il fatto che molte persone preferiscono nascondere o mantenere in maniera più discreta le loro relazioni o attività omosessuali.

Molto spesso la definizione di sé nell’ambito della sessualità avviene dopo una fase di squilibrio e sperimentazione: solo dopo aver ristabilito un senso di stabilità del proprio orientamento, una persona può definirsi a sé stesso e agli altri. Così, autori come Cass (1996), Horowitz & Newcomb (2002) e Kaufman & Johnson (2004) parlano del modello dello sviluppo in stadi dell’identità sessuale, mediante il quale il soggetto arriva a definire sé stesso attraverso un percorso graduale, in cui si passa da una confusa idea di sé nell’ambito sessuale, alla sperimentazione e, mediante questa, ad una definizione finale ma non per forza definitiva della propria identità sessuale.

Tornando alla domanda che ci siamo posti, per provare a rispondervi gli sperimentatori Kuperberg e Walker (2018) hanno cercato di identificare gli aspetti che differivano tra il gruppo di studenti che si sono autodefiniti eterosessuali ed il gruppo di studenti che si sono autodefiniti gay, lesbiche o bisessuali (o LGB), dopo aver avuto l’ultima esperienza sessuale con persone dello stesso genere.

Confrontando le risposte emerge che i soggetti del primo gruppo sono generalmente più conservatori, hanno alle spalle minori esperienze omosessuali rispetto a quelle eterosessuali, e descrivono l’esperienza omosessuale in maniera diversa e con sentimenti differenti: lo sperimentatore ha potuto dividere questo campione di soggetti “eterosessuali” in 6 sottogruppi, in base alle loro risposte.

Il 60% del totale rientra nei primi tre gruppi nominati rispettivamente “wanting more”, “drunk and curious” e “little enjoyment”. Il primo è anche il gruppo più numeroso ed include i soggetti che hanno trovato molto piacevole l’esperienza sessuale, è il secondo gruppo in ordine di percentuale ad aver dichiarato di voler avere una relazione con il partner sessuale e solo il 30% di questo gruppo dichiara di aver avuto altre esperienze omosessuali precedenti.

Il secondo gruppo, “drunk and curious”, è il gruppo con una più alta percentuale di soggetti che dichiarano di essere stati ubriachi durante il rapporto, oltre a non volere, nella maggior parte dei casi, continuare la relazione. Il terzo gruppo, chiamato “little enjoyment”, è composto dalle persone che non hanno trovato piacevole l’esperienza e che non vogliono proseguire la relazione.

Questi tre primi gruppi sono accomunati dal fatto di aver avuto le loro esperienze in contesti privati, per il fatto di non considerare l’omosessualità sbagliata e per il fatto che non sono particolarmente religiosi. Il ricercatore evidenzia come i soggetti di questi primi tre gruppi, date le loro risposte, possono essere considerati “sperimentatori” della loro sessualità, o meglio, soggetti al primo stadio del modello dello sviluppo dell’identità sessuale prima descritto. Si può pensare infatti che la loro sperimentazione in privato possa contribuire a cambiare nel tempo la loro definizione di sé come soggetti eterosessuali o, al contrario, com’è più probabile per i soggetti del terzo gruppo, contribuire a rinforzare la propria identità eterosessuale.

Il quarto gruppo è stato nominato “maybe for show”: la totalità del gruppo è composto da sole ragazze e rappresenta il gruppo meno religioso. Sono state definite in questo modo perché i loro comportamenti erano dettati dall’intenzione di attrarre i ragazzi. Queste ragazze dichiaravano infatti di aver manifestato i loro comportamenti sessuali con persone dello stesso sesso pubblicamente, di fronte ad altri ragazzi. Tale atteggiamento sembra seguire il senso comune, in cui si considera la bisessualità della donna nei suoi comportamenti espliciti piacevole ed eccitante agli occhi degli uomini. Tuttavia, un terzo di queste donne hanno dichiarato di essersi “divertite molto” e circa una su 10 ha ammesso di voler una futura relazione con lo stesso partner sessuale. In accordo con Ward (2015), quindi, alcune ragazze possono usare questi comportamenti provocatori come opportunità per sperimentare sentimenti di attrazione verso persone dello stesso sesso.

Gli ultimi due gruppi si differenziano dal resto del campione di riferimento per i loro maggiori legami con la religione e per il fatto di aver dichiarato che questa gioca un ruolo importante nell’orientare i loro comportamenti e la loro identità. Tanto nel gruppo “love it, but religion”, quanto nel “just not who I can be”, l’identità sessuale si scontra con l’identità religiosa.

Nel quinto gruppo, composto per il 92% da donne, è stata riscontrata la più alta percentuale di soggetti interessati ad una relazione con il partner sessuale, la più alta percentuale di persone che hanno dichiarato di essersi “divertite molto”, e la più alta percentuale di persone che hanno avuto il rapporto da sobrie. Queste infatti differiscono dal primo gruppo “wanting more” solo per l’impegno religioso e per essere più giovani.

L’ultimo gruppo, che rappresenta anche il gruppo meno numeroso, è quello denominato “just not who I can be”. Questo è composto per il 98% da uomini, con un alto grado di religiosità anche se il loro impegno religioso è meno frequente di quello dichiarato dal quinto gruppo. Per questi l’omosessualità è sempre condannabile perché considerata sbagliata. Inoltre, al contrario del quinto gruppo, questi non descrivono la loro esperienza omosessuale con la stessa intensità positiva, dichiarando di aver avuto “poco piacere” o di aver considerato l’esperienza piacevole solo “qualche volta”. Questi due gruppi, meglio degli altri, ci mostrano come la costruzione dell’identità implichi anche aspetti legati alla sfera sociale e, nel sesto gruppo, come l’interiorizzazione dei giudizi omofobici possa influenzare direttamente anche la definizione che un soggetto dà di sé.

L’identità sessuale, oltre ad essere perciò un percorso che fa il singolo, è anche una strada che si fa insieme alla comunità, in un determinato tempo ed in un determinato spazio. Ciò che è considerato giusto o che è stato ormai nel tempo interiorizzato nella società in cui si vive influenza fortemente la propria identità. A riprova di questo possiamo vedere come in nazioni dove l’omosessualità è divenuta socialmente più accettabile anche l’identità sessuale delle persone ha avuto un importante mutamento. Una ricerca compiuta dopo la legalizzazione dei matrimoni gay in diverse nazioni americane come in Vermont nel 2000 ed in Massachusetts nel 2004, mostrò come tra un campione di ragazzi tra i 13 ed i 20  anni scelti in maniera casuale, solo il 48% di loro si definiva come “completamente eterosessuale”, mentre la percentuale saliva al 65% tra i ragazzi più grandi, compresi tra i 21 ed i 34 anni (Laughlin, 2016).

Il fatto che i valori dominanti in una determinata società influenzino l’educazione, il modo in cui ci comportiamo e il modo in cui consideriamo i nostri o altrui comportamenti non ci stupisce. Perciò non dovremmo stupirci neanche quando in base alla società in cui viviamo definiamo noi stessi.

 

Il sogno tra significati e funzioni

Secondo la neurobiologia, i sogni sono un modo singolare che il nostro corpo utilizza per tenere ‘allenato’ il cervello.

 

Secondo le antiche tradizioni invece, i sogni sono messaggi mandati dagli dei. Per la psicologia e in particolare per la psicoanalisi, il valore dei sogni risiede soprattutto nella loro dimensione simbolica. I sogni sarebbero l’espressione di pensieri, sentimenti e ricordi che di giorno evitiamo, ma che nei sogni emergono sia pure camuffati, poiché da essi continuiamo a difenderci.

Freud (1899b) fu il primo a sostenere che i sogni rappresentassero la via principale per accedere ai contenuti inconsci. Nella sua teoria l’enfasi è stata posta in particolare sul concetto di desiderio, secondo Freud (1899b) infatti nel sogno i desideri rimossi e inaccettabili trovano una via per essere espressi nel Contenuto manifesto, che cela invece il Contenuto latente, cui non è consentito svelarsi nella sua ‘essenza’ dalla funzione di censura della coscienza. Il sogno può essere considerato quindi, già a partire da questi punti essenziali della teoria freudiana, come una forma di pensiero che si esprime principalmente per immagini, suoni, e sensazioni corporee e che ci permette di avere accesso a contenuti inconsci rimossi, sebbene in forma criptica. Freud (1899b) tuttavia concepiva le manifestazioni oniriche più come ‘processi distorsivi’ in cerca di interpretazione, che come processi di pensiero. L’impostazione di Jung, fondatore della psicologia analitica, è piuttosto diversa da quella di Freud. Per Jung i sogni sono l’espressione di un ‘inconscio collettivo’, ossia di quel patrimonio di simboli e d’immagini ‘archetipiche’ (cioè primordiali e appartenenti alla specie) che tutti gli uomini condividono. La loro forza risiede nel loro essere portatori di un sapere profondo, illuminante, capace di trasmettere saggezza ed energia. Secondo Jung il sogno non poteva essere solo un ‘appagamento camuffato di un desiderio nascosto’, ma era qualcosa di più complesso: i sogni erano indipendenti sia dalla nostra volontà sia dalla nostra coscienza. Secondo lo scienziato gli oggetti e le persone di un sogno non erano sempre investiti di un desiderio (sessuale o non) mancato. Inoltre, se da un lato Freud applicò alla realtà un punto di vista riduttivistico che lo portò a cercare di decifrare i segni presenti nei sogni, Jung, da un punto di vista teleologico e finalistico, si concentrò invece a rintracciare quale fosse la funzione dei sogni e quindi a decifrarne i simboli. Segni e simboli infatti rimandano a significati ben diversi: i primi vengono considerati significanti universali, i secondi rimandano a contenuti strettamente personali del sognatore, che ne riequilibrano la personalità. L’interesse di Jung per il mondo onirico non deriva però dai sogni in quanto tali, ma da quanto questi possono dire sul funzionamento della psiche in generale. Ritiene infatti, a differenza di Freud, che il sogno non nasconda nulla, che non inganni il sognatore, ma che semplicemente vada in qualche modo ‘tradotto’ attraverso i simboli propri di ogni persona e cultura. Naturalmente, la diversità teorica si riflette anche in una diversità pratica e quindi in diversi metodi di analisi pratica del contenuto onirico.

Oggi sappiamo che il sogno è anche la via regia per accedere alla memoria, dunque anche ai contenuti dell’inconscio, in quanto ci consente una ‘rappresentazione pittografica e simbolopoietica’ di tracce mnesiche anche implicite significative, a-verbali e a-simboliche (Mancia, 2004; p.69). Ciò è confermato anche in ambito neuroscientifico, dove diversi studi hanno dimostrato che durante il sonno REM (Rapid Eye Moviment) si ha l’attivazione di ampie aree associative tra cui quelle temporo-parietali, frontali e limbiche, che possono essere considerate responsabili delle funzioni mnestiche, semantiche, simboliche ed emozionali che connotano il pensiero onirico. Nel sonno REM si verificano inoltre condizioni di attivazione cerebrale che consentono il recupero di tracce mnestiche più definite e anche di narrazioni di una certa lunghezza (Mancia, 2004). C’è un chiaro legame tra il sogno e la memoria, in quanto nelle sue espressioni il sogno stesso non farebbe altro che allacciare, con la sua ‘logica’ peculiare, tracce mnesiche esplicite e implicite, cercando una certa continuità con l’esperienza presente del sognatore.

Ciò ci permette di comprendere come a partire da Freud (1899) la concezione del sogno abbia subito un’evoluzione in concomitanza all’evolvere delle teorie psicanalitiche, dal ‘pulsionale’ al ‘relazionale’, ma anche grazie alle nuove scoperte scientifiche. E’ ormai assodato infatti che il cervello durante il sonno non riposa, semplicemente cambia i suoi ritmi e alterna la funzionalità di determinate aree in modo tale da consentire l’omeostasi a livello biologico dell’individuo, che tenderà a regolarizzare le sue varie funzioni vegetative, restringendo progressivamente ed in parallelo il campo di coscienza. Dunque dobbiamo trattare l’attività del cervello durante il sonno consapevoli che lo stesso si organizza secondo ‘turni di lavoro’ differenti che cambiano, modificando la loro attività di conseguenza alla fase del sonno in cui ci troviamo (Mancia, 2004). Tra le varie fasi del sonno la fase REM è quella che da sempre ha suscitato maggiore interesse, e non solo in ambito scientifico, in quanto rappresenta la base neurofisiologica del sogno nella sua forma più vivida e passibile di ricordo, consentendo al soggetto di dare sfogo al proprio inconscio, rimosso e non, per mezzo di intense allucinazioni e visioni, che appunto vanno di pari passo ad alterazioni dal punto di vista neurofisiologico, come il battito cardiaco e il respiro che diventano aritmici, la termoregolazione che viene sospesa e in sintesi l’intero sistema vegetativo che va in subbuglio per alcuni minuti (durante la notte comunque le varie fasi del sonno si alternano, accompagnando il soggetto fino al risveglio). Il sonno REM, per mezzo del sogno ci consente di collegare il nostro mondo interno, costituito da tracce mnesische implicite ed esplicite del ‘là e allora’, al mondo esterno e presente del sognatore, costituendo un vero e proprio ‘ponte temporale’ alla ricerca della continuità dell’esperienza e del significato simbolico della stessa, anche se forclusa dalla vita psichica del soggetto.

In altre parole il sogno rappresenta quel link mancante tra le esperienze del nostro passato e l’esperienza presente, in modo particolare per ciò che ne concerne relazioni interiorizzate e vissuti emotivi annessi. L’obiettivo delle produzioni oniriche è dunque quello di ‘simbolizzare’, di cercare quei significati mancanti, che tuttavia non potendosi manifestare in quanto tali in forma diretta, si manifestano in forma di ‘significanti dai molteplici significati’, operando una trasformazione che ha molto in comune con l’espressione artistica (Mancia, 2004; p. 91). In questo senso il sogno va concepito, non più come un processo di distorsione dei contenuti mentali inconsci, ma come una forma di pensiero da non scindere da quello diurno, dunque da concepire in continuità con lo stesso, sebbene si sviluppi a differenza di quest’ultimo con una logica ben diversa, basata sulla metafora e su significati simbolici, un po’ come accade nel linguaggio poetico, che nasce dalla ‘necessità dell’uomo di drammatizzazione del mondo interno e di elaborazione tesa alla costruzione del pensiero’ (Mancia, 2004; p. 91). In definitiva le funzioni simbolopoietiche del sogno consentono anche ai contenuti registrati dalle strutture della memoria implicita, appartenenti all’inconscio non rimosso, di venire rappresentati per mezzo di immagini, suoni, sensazioni corporee, che attraverso il linguaggio onirico permettono la simbolizzazione e verbalizzazione della storia affettiva ed emozionale del soggetto.

Il sogno può quindi rendere pensabili anche esperienze prive di ricordi, divenendo il teatro in cui vengono messi in atto affetti ed emozioni appartenenti alla storia relazionale del soggetto che, contestualizzati nel qui ed ora della relazione terapeutica permettono di accedere al ‘mondo interno’ del paziente, in particolare anche a quelle esperienze primarie presimboliche e preverbali, anche traumatiche, che altrimenti resterebbero non passibili di ricostruzione.

Lutto e Disturbo da Sofferenza Prolungata durante la pandemia di Covid-19

La pandemia di Covid-19 ha mutato l’esperienza della morte di un caro: da un lato il divieto di visitare la persona ammalata nelle strutture ospedialiere, dall’altro l’interruzione senza precedenti dei rituali culturali e religiosi che spesso forniscono alle persone in lutto un contesto sociale di supporto.

 

Il lutto è l’esperienza di perdere una persona cara e il dolore è la risposta naturale a questa perdita. In genere, il dolore acuto è dirompente e difficilmente gestibile. Tuttavia, la maggior parte delle persone si adatta alla morte di un caro, insieme ai cambiamenti che ne derivano nelle circostanze della vita, accettando un mutato rapporto con il defunto e trovando modi per ricordarlo e onorarlo. Si ripristina il senso e lo scopo della propria vita e la possibilità di felicità. Ciononostante, il processo di adattamento richiede tempo, e il dolore è complesso, sfaccettato e variabile (Goveas & Shear, 2020).

Le restrizioni in atto a causa della pandemia di COVID-19 hanno mutato l’esperienza della morte di un caro, infatti nelle strutture ospedaliere spesso non è permesso visitare la persona ammalata. Comprendere la realtà di una perdita è difficile in qualsiasi circostanza, ma può esserlo ancora di più quando la morte è improvvisa e la persona amata si spegne in solitudine. Da aggiungere al fardello di non essere con il caro morente c’è l’interruzione senza precedenti dei rituali culturali e religiosi che spesso forniscono alle persone in lutto un contesto sociale di supporto. Durante la pandemia, solo un numero limitato di membri della famiglia può riunirsi per il funerale, inoltre non sono consentite pratiche come il lavaggio del corpo o il bacio del defunto (Goveas & Shear, 2020). La visione privata spesso non è possibile e, se consentita, viene offerta solo ai familiari più stretti. Le persone in lutto devono astenersi dall’abbracciarsi l’un l’altro poiché qualsiasi contatto fisico, prima, durante e dopo i servizi funebri è fortemente sconsigliato a causa del COVID-19. Le morti che si verificano nel periodo della pandemia possono perciò intensificare il senso di isolamento sociale e solitudine che spesso caratterizzano il lutto (Goveas & Shear, 2020).

Quando l’adattamento alla dipartita del proprio caro viene bloccato o interrotto, il risultato può essere il Disturbo da Sofferenza Prolungata (PGD, Prolonged Grief Disorder), recentemente incluso come nuova diagnosi nella undicesima edizione della Classificazione Internazionale delle Malattie, (ICD-11) (World Health Organization, 1993) e di cui è stato discusso l’inserimento nella quinta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, (DSM-5) (American Psychiatric Association [APA], 2020). Questa sindrome è caratterizzata da desiderio e nostalgia del defunto in maniera persistente e pervasiva, pensieri preoccupanti accompagnati da altri sintomi di sofferenza emotiva, che causano disagio significativo o compromissione del funzionamento della persona e che durano almeno 6 mesi, superando il lasso di tempo previsto dalle norme sociali, culturali o religiose (APA, 2013). Le circostanze, il contesto e le conseguenze dei decessi nel corso della pandemia comprendono fattori di rischio che potrebbero aumentare i tassi di PGD (Goveas & Shear, 2020). Oltre al desiderio e alla tristezza, la maggior parte delle persone prova ansia, rabbia o senso di colpa (APA, 2013), infatti chi è in lutto potrebbe avere una tendenza ad immaginare scenari alternativi in cui il caro non è morto e può sentirsi in colpa per essere sopravvissuto. Inoltre, molte persone in lutto cercano di evitare situazioni che potrebbero innescare un intenso dolore emotivo. Sebbene tali comportamenti, pensieri e sentimenti siano naturali, qualora dovessero prendere il sopravvento, potrebbero far deragliare il processo di guarigione ed elaborazione del lutto (Goveas & Shear, 2020). Altri esempi di fattori di rischio per lo sviluppo del PGD includono depressione, ansia, traumi precedenti, una storia di attaccamento insicuro, o una relazione particolarmente stretta con il caro scomparso; ulteriori fattori di rischio sono legati a circostanze, contesto o conseguenze della morte (APA, 2013).

In una corretta elaborazione del lutto, le persone solitamente superano traguardi adattandosi alla perdita e imparando a comprendere e ad accettare il dolore (Goveas & Shear, 2020). L’acronimo H.E.A.L.I.N.G. (ing. guarigione), ideato dal Center for Complicated Grief della Columbia University, racchiude le pietre miliari per affrontare il lutto in maniera naturale, contrastando l’insorgenza del PGD (The Center for Complicated Grief, 2020). Le persone in lutto che utilizzano H.E.A.L.I.N.G.:

  • H. rafforzano le relazioni in corso e ripristinano il loro ruolo in un mondo senza la persona amata (Honor, onora),
  • E. A. si aprono all’affrontare le emozioni accettando il dolore (Ease pain, allevia il dolore; Accept grief, accetta il dolore),
  • L. I. e imparano a convivere con il ricordo del defunto (Learn to live with reminders, Impara a vivere con i ricordi; Integrate memories, integra i ricordi).
  • N. Raccontando la storia della morte del caro, si rendono gradualmente conto di avere una connessione continua con il defunto, che è interiorizzata e permanente (Narrate, racconta),
  • G. e allo stesso tempo accolgono altre persone accanto a sé (Gather others, riunisci) (The Center for Complicated Grief, 2020).

Comprendendo come la pandemia potrebbe influenzare lutto e dolore correlato e apprendendo le pietre miliari della guarigione si potrebbe ridurre l’insorgenza del PGD (Goveas & Shear, 2020). Per affrontare la sintomatologia di questo disturbo è consigliabile rivolgersi a specialisti in modo da intraprendere un percorso psicoterapeutico individuale o di gruppo. In particolare, gli studi di Jordan e Litz pubblicati nel sito internet dell’APA, hanno dimostrato come la psicoterapia di orientamento cognitivo-comportamentale mirata al dolore possa essere un valido trattamento per il PGD (Jordan & Litz, 2014). Ciononostante, poiché esiste una pressante necessità di attuare misure per ridurre le conseguenze negative del lutto nell’era COVID-19, sarebbe auspicabile implementare ulteriormente la formazione dei professionisti al riconoscimento e al trattamento della PGD.

 

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