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L’utilizzo della Stimolazione Magnetica Transcranica ripetitiva (rTMS) nel trattamento delle tossicodipendenze

Il fenomeno delle tossicodipendenze è sempe più diffuso e comporta grandi costi economici e sociali. Negli ultimi anni si è cercato di sviluppare trattamenti sempre più efficaci tra cui la Stimolazione Magnetica Transcranica Ripetitiva (rTMS), già conosciuta per il trattamento di altri disturbi.

Miriam Curti – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Come riporta la Relazione Annuale al Parlamento sul Fenomeno delle Tossicodipendenze in Italia 2019 (dati 2018), l’utilizzo di droghe nella nostra nazione miete quasi una vittima al giorno: 334 nel 2018, ben 38 in più dell’anno precedente. Da un punto di vista economico, la cura e il trattamento delle tossicodipendenze è quantificabile in poco meno di 2 miliardi di euro, non tenendo conto di tutti quei trattamenti che vengono effettuati per le patologie conseguenti e correlate all’utilizzo e abuso di sostanze stupefacenti (Dipartimento Politiche Antidroga, 2019).

In questo articolo, verranno presi in analisi gli effetti legati all’utilizzo della cocaina. Essa, infatti, rientra tra le sostanze che più comportano un impatto negativo sulle funzioni cognitive e che, dopo la cannabis, rappresenta la sostanza maggiormente consumata dai poliutilizzatori e tra le più pericolose da un punto di vista sociale.

L’uso di droga interferisce con il modo in cui i neuroni inviano, ricevono e processano i segnali tramite i neurotrasmettitori. Alcuni tipi di droga, come ad esempio anfetamina e cocaina, possono portare i neuroni a rilasciare una quantità abnorme di neurotrasmettitori naturali oppure impedirne il normale riutilizzo da parte del cervello. Questo meccanismo porta, dunque, a una amplificazione o interruzione della normale comunicazione tra i neuroni.

L’abuso di droghe va ad alterare importanti aree cerebrali che sono necessarie alle funzioni vitali andando, poi, a innescare l’utilizzo compulsivo di tali sostanze e portando a una vera e propria forma di dipendenza.

Le aree cerebrali in cui, tramite studi neuroimaging, è stato possibile evidenziare un’alterazione funzionale, conseguente all’utilizzo di droghe, sono molteplici. Tra queste:

  • i gangli della base: implicati nella motivazione, rappresentano un’area chiave di ciò che viene comunemente definito “sistema ricompensa”. In seguito all’abuso di sostanze, è possibile osservare una iperattivazione di questo circuito che produce euforia. Tuttavia, in seguito a esposizioni ripetute, il circuito arriva ad adattarsi alla presenza della droga e ciò ne riduce la sua sensibilità. Questo meccanismo impedisce all’individuo di sperimentare sensazioni piacevoli che non siano connesse all’utilizzo della sostanza.
  • l’amigdala: che gioca un ruolo cruciale nello sperimentare ansia, irritabilità e disagio nella fase di astinenza. Lo sperimentare queste sensazioni, quindi, motiva la persona a ricercare nuovamente la sostanza al fine di ottenere una qualche forma di sollievo temporaneo.
  • la corteccia prefrontale: implicata in numerosi processi cognitivi superiori, quali, problem solving, decision-making e controllo degli impulsi. L’utilizzo di cocaina porta a una riduzione delle capacità mentali innescando ciò che dalle neuroscienze viene definito un vero e proprio brain disease. Diversi studi sugli umani suggeriscono che i deficit in tale area cerebrale potrebbero essere cruciali nell’innescare l’utilizzo compulsivo delle droghe.

Alla luce di quanto detto, sia in merito ai danni cerebrali innescati dall’abuso delle sostanze, sia alla casistica sempre più in aumento, è comprensibile l’enorme sforzo fatto nel corso degli anni per rintracciare il trattamento efficace volto al contrasto della tossicodipendenza.

Nel corso degli anni, infatti, sono stati presi in considerazione principalmente tre approcci per intervenire sul disturbo:

  1. Farmacologia: con l’intento principale di produrre una buona gestione del craving, aiutando i pazienti a tollerare e gestire la fase di astinenza e contrastando quanto più possibile eventuali ricadute.
  2. Psicoterapia: Nel trattamento della dipendenza da cocaina vi sono prove di efficacia per numerosi tipi d’ intervento psicoterapico, dalla terapia cognitivo-comportamentale, a quella psicodinamica, fino ad arrivare alle terapie di gruppo (Raggi, 2016)
  3. Sistemi di rieducazione.

Purtroppo, nel trattamento delle tossicodipendenze, per quanto ognuno di questi interventi abbia portato alla luce prove di efficacia, bisogna sempre tener conto dell’alto livello di attrattività che la cocaina ha sugli individui e che spesso porta a ricadute anche in seguito ai trattamenti sopra citati.

La scoperta di un nuovo trattamento, “il fascio di luce che sconfiggerà le tossicodipendenze”

Arriviamo all’anno 2013, anno in cui il Dottor Antonello Bonci insieme al suo staff conduce un esperimento sui ratti dipendenti da cocaina. Alla base di tale studio vi è l’Optogenetica, ossia un tipo di trattamento in cui vengono combinate tecniche ottiche e genetiche per poter tracciare circuiti neurali nel cervello. Nell’esperimento, venivano immesse nel cervello dei ratti delle cellule particolarmente sensibili alla luce (le canaldropsine) che, in un secondo momento venivano attivate tramite l’utilizzo di uno stimolo luminoso. Attraverso questa tecnica si scoprì che, nei ratti con dipendenza da cocaina, la porzione della corteccia pre-limbica presentava una ridotta eccitabilità e che la stimolazione in vivo (mediante optogenetica) di tale area produceva una maggiore attività di tale area, traducendosi in una riduzione dei comportamenti compulsivi di ricerca della droga.

Si trattava di un esperimento del tutto innovativo che apriva le porte a nuove linee di trattamento della tossicodipendenza. A partire da tale studio, infatti, si accese l’interesse verso questa nuova metodica per comprendere come tali risultati potessero essere replicati anche sull’uomo.

In Italia, il Dottor Luigi Gallimberti (Medico specializzato in Psichiatria e Tossicologia) fu tra i primi a portare avanti degli studi sull’uomo per comprendere come poter ottenere i medesimi risultati che i colleghi avevano osservato sugli animali.

Ci si affidò all’utilizzo della rTMS (Stimolazione Magnetica Transcranica Ripetitiva), già conosciuta per il trattamento di altri disturbi, tra cui la depressione. Si tratta di una tecnica non invasiva di stimolazione elettromagnetica, a corrente indotta, del cervello e del sistema nervoso in generale. Essa consente di studiare il funzionamento dei circuiti e delle connessioni neuronali all’interno del cervello, provocando una micro lesione transitoria che inibisce il funzionamento dell’area oggetto d’indagine (Fiore, 2017).

Questa tecnica di stimolazione cerebrale consente di eccitare o inibire porzioni focalizzate della corteccia cerebrale attraverso la creazione di un campo magnetico. Nell’area interessata dall’arrivo del campo magnetico i neuroni vengono, quindi, attivati in un modo artificiale dalla corrente elettrica generata dal campo (Immagine 1). La TMS provoca un’interferenza temporanea e locale con l’attività cerebrale normale e, quindi, con i processi di elaborazione che sono svolti dall’area cerebrale interessata dalla stimolazione. Mediante l’utilizzo di una bobina sarebbe possibile, dunque, andare a modificare il funzionamento neurale implicato nel desiderio della sostanza e nei comportamenti di ricerca compulsiva della sostanza stessa. Un punto a favore di tale metodica è la sua non invasività e la sua capacità di modificare l’attività elettrica cerebrale in maniera del tutto indolore.

Immagine 1 – Il funzionamento della TMS

Il protocollo clinico e le prove di efficacia

L’utilizzo della rTMS come trattamento per la tossicodipendenza prevede un protocollo clinico specifico in cui un set di impulsi ripetuti viene applicato con lo scopo di alterare l’eccitabilità delle zone stimolate e delle aree del cervello anatomicamente e funzionalmente connesse. I meccanismi alla base degli effetti elicitati dall’utilizzo della TMS sono quelli di adattamento e di neuroplasticità.

Per quanto riguarda le prove di efficacia, già dal primo studio pilota i risultati ottenuti hanno fatto ben sperare sull’applicabilità e la significatività del trattamento. Nel 2015. Infatti, il Dottor Galimberti in collaborazione con il Dottor Bonci e tutto il loro staff hanno condotto uno studio per verificare se la stimolazione della corteccia prefrontale dorsolaterale (DLPFC) potesse impedire (o quantomeno, contenere) l’uso di cocaina nell’uomo.

Nella prima fase dello studio, durata circa 29 giorni, 32 pazienti dipendenti da cocaina sono stati assegnati in maniera casuale al gruppo sperimentale (sessioni di 12 minuti di rTMS) sulla DLPFC sinistra o al gruppo di controllo (in cui non vi era utilizo di rTMS, bensì di farmaci). A questa fase è seguito poi un follow-up di 63 giorni (Fase 2), durante il quale tutti i partecipanti sono stati sottoposti al trattamento rTMS.

I risultati hanno mostrato un numero significativamente più alto di test antidroga delle urine negativi alla cocaina nel gruppo sperimentale rispetto al gruppo di controllo (p = 0,004). Inoltre, anche il desiderio di cocaina era significativamente inferiore nel gruppo rTMS rispetto ai controlli (p = 0,038). I pazienti che hanno completato la fase 1 nel gruppo di controllo e che, successivamente hanno ricevuto un trattamento rTMS durante la fase 2,  hanno mostrato un miglioramento significativo con esiti favorevoli che sono comparabili a quelli del gruppo rTMS. Inoltre, non sono stati riscontrati eventi avversi significativi conseguenti all’utilizzo della TMS.

La scelta della DLPFC come area da stimolare risiede nel fatto che, come detto anche precedentemente, essa sembra essere il sito principale di dei processi decisionali, controllo cognitivo delle emozioni e comportamenti associati al rischio. Tramite studi di neuroimaging è stata dimostrata un’alterazione delle funzioni della DLPFC nei soggetti con diagnosi conclamata di tossicodipendenza. Dunque, andando a potenziare la sua attività elettrica, si dovrebbe riuscire anche a ristabilire il funzionamento del “sistema di ricompensa” e il rilascio di dopamina (meccanismi compromessi nei soggetti che abusano di sostanze). Da qui, si comprende bene l’utilizzo della TMS come volta al raggiungimento di diversi obiettivi:

  • il potenziamento dei meccanismi di autocontrollo e inibizione dell’impulsività;
  • l’inibizione dell’attività dei sistemi cerebrali che mediano il desiderio della sostanza;
  • il ripristino dei normali livelli di funzionamento del sistema della ricompensa e della dopamina.

Proprio in merito all’ultimo punto, in alcuni studi è stata utilizzata, congiuntamente alla rTMS, la tomografia ad emissione di Positroni (PET) che permette di quantificare il rilascio di dopamina. Ciò che è emerso dai risultati ottenuti è che il trattamento di Stimolazione promuove il rilascio di dopamina nel nucleo caudato. Infatti, nei soggetti dipendenti, la bassa produzione di dopamina in questa area cerebrale sembra essere la principale causa di anedonia (scarsa capacità di provare piacere). Inoltre, la modulazione della neurotrasmissione della dopamina nella corteccia cingolata anteriore e orbitofrontale permette di rafforzare la capacità di inibizione del desiderio e, di conseguenza, la presenza di comportamenti compulsivi di ricerca.

Alla luce di tali risultati, sembrerebbe logico ipotizzare un’efficacia totale ed indiscussa di tale trattamento e, probabilmente, proprio per tale ragione questi esperimenti hanno catturato l’attenzione di diverse testate giornalistiche che hanno parlato di tali scoperte in termini “sensazionali”.

Tuttavia, adottando un vero atteggiamento scientifico, sarebbe corretto adottare un’ottica critica. I risultati ottenuti sicuramente fanno ben sperare, ma con un’attenta ricerca è possibile osservare il basso numero di studi clinici condotti sull’utilizzo della TMS nelle tossicodipendenze. Inoltre, benchè gli studi condotti abbiano previsto una randomizzazione del campione nell’assegnazione al gruppo sperimentale o di controllo, è necessario tenere sempre in considerazione l’effetto dell’aspettativa dei soggetti. In questo caso parliamo di persone che, manifestando forti problemi comportamentali con importanti conseguenze sull’aspetto sociale, si sottopongono volontariamente al trattamento e che, proprio per questo, potrebbero avere forti aspettative in merito alla buona riuscita del trattamento stesso. Ricordiamo, infatti, che in questo caso il gruppo di controllo viene comunque sottoposto ad una sessione di rTMS, seppur senza il rilascio vero e proprio di elettricità. A tal proposito, infatti, come era facilmente intuibile, alcuni studi clinici hanno messo in luce come il trattamento con rTMS possa risultare efficace anche quando somministrato come placebo.

In altri studi ancora, invece, è stato mostrato come una parte del campione non fosse riuscita ad ottenere risultati a lungo termine con l’utilizzo esclusivo della stimolazione, bensì è risultato necessario integrare a tale metodica un percorso di psicoterapia e sistemi di rieducazione.

Nonostante ciò, in Italia, ad oggi sono presenti diversi centri privati che accolgono ogni giorno numerosi pazienti tossicodipendenti e li seguono in tutto il loro percorso di cura e riabilitazione.

In generale, le neuroscienze in questo campo avrebbero bisogno di prove di efficacia ancor più forti e numerose. Dunque, parlando di tossicodipendenza è fondamentale far riferimento all’aspetto biologico, ma non dimentichiamo mai che l’uomo non è solo ciò.

Ed ecco perché, l’utilizzo della metodica rTMS, per quanto possa rappresentare un trattamento efficace e funzionale, esso non può essere preso in considerazione senza una presa in carico del paziente “in toto” attraverso percorsi psicoterapici che tengano conto dei bisogni, delle aspettative e della storia di vita di ciascun individuo.

 


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Maltrattamento in età infantile: come cambia il riconoscimento delle emozioni?

L’essere stati vittime di un trauma o di maltrattamenti in età infantile può determinare una tendenza a interpretare negativamente le espressioni facciali neutre. Questo fenomeno non caratterizza solo l’età infantile ma si protrae sino all’età adulta

 

La capacità di riconoscere e differenziare le espressioni facciali neutre da quelle emotive si sviluppa durante l’infanzia (Durand, Gallay, Seigneuric, Robichon & Baudouin, 2007).

Dunque non sorprende come, talvolta, l’essere stati vittima di maltrattamenti in età infantile ostruisca lo sviluppo di tale capacità, determinando una tendenza ad interpretare negativamente le espressioni facciali neutre. Questo fenomeno, inoltre, non caratterizza solo l’età infantile (Pollak, Cicchetti, Hornung & Reed, 2000) ma si protrae sino all’età adulta (Wagner & Linehan, 1999).

Ciò detto, risulta necessario approfondire quanto riscontrato anche in alcune popolazioni cliniche. Difatti, in presenza di traumi o maltrattamenti subiti in età infantile, gli individui affetti da disturbo borderline di personalità, mostrano una tendenza ad interpretare le espressioni facciali neutre come espressioni di rabbia (Mitchell, Dickens & Picchioni, 2014) o di tristezza (Meehan et al., 2017), mentre coloro i quali presentano un disturbo dissociativo dell’identità, quando vivono uno stato emotivo connesso al trauma, tendono ad interpretare le espressioni neutrali come maggiormente minacciose (Schlumpf et al., 2013) .

In contesti di vita quotidiana, è stato osservato come anche gli individui affetti da un disturbo da stress post-traumatico (PTSD; American Psychiatric Association, 2013), non riescano a differenziare le espressioni di rabbia da quelle neutre ma, nonostante ciò, in letteratura esiste un solo studio che si sia proposto di analizzare parzialmente tale fenomeno, senza riscontrare differenze significative rispetto a controlli sani (Nazarov et al., 2014).

È a partire da queste considerazioni, e dai suddetti limiti, che un gruppo di ricercatori (Pfaltz et al., 2019) ha sviluppato l’ipotesi che individui affetti da un disturbo da stress post traumatico presentino un deficit nel riconoscimento delle espressioni neutre, tendendo a classificarle come espressioni negative. Inoltre, gli autori si sono proposti di verificare se tale fenomeno fosse più strettamente connesso al maltrattamento subito durante l’infanzia che alla diagnosi di PTSD. Supponendo che i bias osservati nel disturbo borderline di personalità o nel disturbo dissociativo dell’identità potessero essere collegati all’esperienza di maltrattamento nell’infanzia, gli autori hanno ipotizzato che gli individui con esperienze infantili più traumatiche avrebbero interpretato più frequentemente le espressioni facciali come negative rispetto ai controlli.

Dato che precedenti studi hanno dimostrato come il numero di eventi traumatici subiti, l’alessitimia e la dissociazione possono influenzare il riconoscimento delle emozioni in individui affetti da PTSD (Passardi, Peyk, Rufer, Wingenbach & Pfaltz, 2019), gli autori hanno deciso di includere nell’analisi anche le suddette variabili.
Allo studio hanno preso parte individui affetti da PTSD (n =39), un gruppo di controllo composto da individui sani ma vittime di traumi (n=44) e un gruppo di controllo, costituito da individui sani esenti esperienze traumatiche rilevanti (n= 35).

Ai partecipanti sono stati presentati 300 filmati, di cui 270 raffiguranti espressioni facciali emotive (positive e negative) e 30 espressioni neutre. È stato dunque chiesto loro di classificare nel più breve tempo possibile le emozioni mostrate, in modo che essi potessero rispondere in maniera spontanea, così come avviene durante la vita quotidiana.

I risultati non hanno mostrato differenze significative tra i risultati ottenuti dai soggetti affetti da PTSD e i soggetti di controllo, nel riconoscimento delle espressioni neutre. Di contro, gli individui che hanno subito esperienze di abuso sessuale infantile più invasive hanno ottenuto risultati peggiori nel riconoscimento delle espressioni facciali neutre rispetto agli individui che hanno subito esperienze di abuso sessuale meno invasive. Inoltre, coloro i quali sono stati vittime di abusi sessuali infantili e di abbandono fisico, tendono ad interpretare le espressioni facciali neutre come maggiormente colleriche. Più incisiva sarà stata l’esperienza di abuso sessuale, più i soggetti tenderanno ad interpretare le espressioni facciali neutre come disprezzo, rispetto a coloro i quali abbiano subito esperienze meno incisive, o esperienze di abbandono fisico o di abuso emotivo.

Sulla base dei risultati emersi, si è dunque concluso che, il maltrattamento sui minori, in particolare l’abuso sessuale infantile, possa influire più significativamente sulla difficoltà relativa al riconoscimento delle espressioni neutre e alla conseguente interpretazione negativa delle suddette, rispetto alla presenza di disturbi mentali come il disturbo da stress post-traumatico o al disturbo borderline di personalità, o ancora rispetto a variabili come l’alessitimia e la dissociazione.

A tal proposito, è stato ipotizzato che ciò sia in parte dovuto al fatto che tali eventi siano spesso accompagnati o seguiti da una neutralità espressiva da parte dei carnefici. Le vittime possono quindi aver imparato a non fidarsi dell’apparente calma delle espressioni neutre, a causa delle aspettative che esse siano seguite da esperienze avverse (Schlumpf et al., 2013).

Gli autori hanno dunque concluso che l’abuso sessuale infantile possa esercitare un danno non solo sullo sviluppo cognitivo ed emotivo dei soggetti, ma anche sulle abilità sociali, ulteriormente inficiate dall’incapacità di identificare correttamente le espressioni facciali.

Naturalmente, qualora le ricerche successive dovessero confermare quanto appena esposto anche in condizioni di vita reale, ciò comporterebbe rilevanti conseguenze in ambito clinico. Nello specifico, in prima battuta sarebbe necessario riconoscere gli individui portatori di tali difficoltà, in quanto potrebbero mostrare risposte comportamentali disadattive ad espressioni neutre mostrate dal proprio interlocutore, generando problematiche di tipo relazionale (Cloitre, Scarvalone & Difede, 1997), anche all’interno del setting psicoterapico.

Di conseguenza, al fine di migliorare la relazione terapeutica, bisognerebbe sensibilizzare maggiormente i clinici circa il suddetto fenomeno, in modo che essi possano prestare una maggiore attenzione alla propria comunicazione non-verbale e, al contempo, circoscrivere in una cornice di significato più puntuale le risposte dei propri pazienti.

 

La Psicologia Digitale – Lo psicologo del futuro

La Psicologia Digitale esamina i modi in cui le tecnologie possono essere progettate per realizzare strumenti diagnostici e terapeutici a disposizione degli psicologi.

LO PSICOLOGO DEL FUTURO – (Nr. 5) La Psicologia Digitale

 

 Le nuove tecnologie e l’avvento del digitale stanno drasticamente modificando i nostri comportamenti, le modalità di apprendimento, i fenomeni psicologici, la ricerca scientifica e le tecniche diagnostiche e riabilitative utilizzate in psicologia.

In questo scenario gli sviluppi tecnologici mostrano un duplice aspetto: da una parte essi sono strumenti diagnostici e terapeutici promettenti, dall’altra generano inevitabilmente importanti cambiamenti non solo sociali ma anche psicologici e mentali che occorre indagare e approfondire.

Le competenze e le tecniche psicologiche hanno la necessità di confrontarsi con il mondo digitale e svilupparsi in parallelo e in accordo a questi cambiamenti. Ciò vale tanto per il mondo accademico, quanto per i singoli professionisti.

La Psicologia Digitale, anche chiamata Cyberpsicologia, è la disciplina che si prefigge di indagare e sistematizzare questo cambiamento. Essa studia infatti in che modo e in che misura gli sviluppi tecnologici comportano variazioni non solo sociali ma anche psicologiche e mentali. Esamina inoltre i modi in cui le tecnologie possono essere progettate per realizzare strumenti diagnostici e terapeutici a disposizione degli psicologi.

Perché è necessario che gli psicologi di oggi, non solo gli psicologi del futuro, conoscano le nuove tecnologie e i loro effetti?

In primo luogo, per poter intercettare le nuove forme di disagio psicologico, in maniera rapida e precisa. In seconda battuta, per trattare il disagio in maniera maggiormente efficace: l’utilizzo delle nuove tecnologie spesso aumenta la compliance e l’engagement del paziente. Infine, ad oggi, rivolgersi alla psicologia digitale, permette di potersi distinguere in un mercato competitivo.

Alcuni esempi di tecnologie a disposizione dell’attività professionale di psicologo sono:

Nella FIRST EUROPEAN CONFERENCE ON DIGITAL PSYCHOLOGY. DIGITAL PERSPECTIVES IN PSYCHOLOGY, organizzata dalla Sigmund Freud University, che si terrà il 19-20 febbraio 2021 verranno trattate le aree tematiche sopra citate in lectio magistralis tenute da esperti del settore.

Non mancare! Per registrarti clicca qui.

Per ottenere maggiori informazioni scrivete a [email protected]

 

Le iscrizioni alla prima Conferenza europea di Psicologia Digitale sono aperte:

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EUROPEAN CONFERENCE OF DIGITAL PSYCHOLOGY
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Chi non conosce il proprio limite tema il destino e l’assenza del bonus mensile: il bisogno del concetto di Razionalità Limitata

Nel mondo lavorativo odierno, il ricorso al multitasking è considerato un elemento imprescindibile per una buona produzione professionale. Sebbene possa portare a benefici iniziali di breve durata, molto spesso ciò conduce a conseguenze psicofische pesanti, anche gravi. Ne segue una analisi critica, recuperando il concetto della “Razionalità Limitata” di Herbert Simon.

 

Nel mondo aziendale moderno, il ricorso al multitasking è considerato un elemento necessario e fondamentale per la produzione. Di fatto, le innovazioni multimediali hanno diminuito i tempi e i costi di non pochi processi produttivi, dunque si presenta il bisogno di svolgere più mansioni in tempo reale, mettendo alla prova i limiti umani e delle Organizzazioni di assorbire le informazioni necessarie ed il loro effettivo utilizzo (D.H. Henard , M.A. McFadyen, 2006).

Come indicano Rom Schrift e Shalena Srna, rispettivamente professore di marketing e dottoranda alla Università di Wharton, assieme al professore di Yale Gal Zauberman. L’uso del multitasking per tempi brevi può avere dei benefici, ottenuti soprattutto con l’autoinganno (2018): secondo gli accademici, illudendosi nel periodo necessario di essere bravi nella gestione di più compiti può condurre a risultati lavorativi positivi, maggiore autostima e meno rischi psicologici d’impatto.

Tuttavia, nel mondo lavorativo odierno, influenzato soprattutto dalla Industria 4.0 (Morrar, R., Arman, H., & Mousa, S. 2017) e dall’utilizzo dei Big Data (McAfee, A., Brynjolfsson, E., Davenport, T. H., Patil, D. J., & Barton, D., 2012), la necessità di ricorrere al multitasking supera assai la capacità che l’essere umano ha di concentrarsi e di gestire l’energia mentale richiesta. Ciò può portare a conseguenze psicofisiche gravi, come  l’eccesso di stress che conduce a sviluppare malattie croniche ed autoimmuni (Natali, 2020). Mats Alvesson e Andrè Spicer, due noti accademici rispettivamente dell’Università di Lund e della Cass Business School, indicano come soluzione al problema il recupero del concetto di “razionalità limitata”, contestualizzata da Herbert Simon.

Come è riportato nel testo divulgativo dei due professori, “Il Paradosso della Stupidità” (2017), il Premio Nobel per L’Economia nel 1978 e Premio Turing nel 1975, basandosi sulla sua esperienza lavorativa post-universitaria presso l’ufficio di bilancio del municipio della sua città natale, Milwuakee, notò come l’educazione scolastica ed accademica indottrinasse ad avere sempre un filtro di analisi razionale in qualsiasi momento, cosa che crea sempre paradossi nei luoghi di lavoro, dove spesso i veri motori del gioco economico sono il cinismo, la routine e la gestione delle emozioni.

Memore di questi vissuti empirici, Simon ha identificato la teoria della razionalità limitata, secondo la quale la base del decision making sarebbe il tenere a mente le limitate energie cognitivo-mentali dell’essere umano. Di fatto l’Uomo, avendo limitate abilità cognitive, non essendo portato spesso a progettare piani a lungo termine ed essendo disponibile ad abbandonare i propri interessi a beneficio di altri attori (Sträter, K.F.,  2019) , spesso sopravvaluta il carico mentale richiesto dal lavoro, perdendo così il più delle volte la sua capacità di usare il raziocinio.

Alvesson e Spicer riprendono la teoria dell’economo ed esperto di organizzazioni americano perché pensano che possa essere un monito per quanto riguarda l’abuso del multitasking: di fatto, come scritto in precedenza, l’essere umano ha capacità razionali e cognitive limitate, non adatte per niente all’uso sfrenato degli strumenti dell’informational technology e della sempiterna ricerca dell’ottimale da parte delle Aziende. Infatti, per Simon, la soluzione salubre sia per le Organizzazioni che per gli attori, è la ricerca della quantità soddisfacente (1987). Per ricordare, come dice Gabriele Romagnoli (2017), che

i limiti in generale sono un vantaggio, non una diminuzione delle possibilità.

 

La morte fa paura. Consapevolezza e accettazione (2020) di Patrizia Ruggerini – Recensione del libro

‘Si muore sempre peggio’. E’ da questa amara considerazione che nasce lo spunto per la realizzazione del libro La morte fa paura. Consapevolezza e accettazione di Patrizia Ruggerini.

 

Le parole sono pronunciate dalla direttrice dell’hospice in cui l’autrice inizia il volontariato, nel suo percorso di formazione per diventare counselor, e rappresentano per lei un’eco della sua esperienza personale, esperienza che la porta ad interessarsi a questo tema, personalmente e professionalmente, e da cui prende l’avvio una profonda riflessione sul fine vita. Abbiamo dimenticato come si fa a ‘morire bene’: lo vediamo nella solitudine delle corsie degli ospedali, nella difficoltà di fronte a qualcuno che condivide con noi l’esperienza di un lutto o di una malattia, nella nostra tentazione di sviare il discorso, minimizzare, andare oltre troppo in fretta, incapaci di stare nella sofferenza, di stare di fronte alla morte. L’autrice ci porta a soffermarci su quello che vorremmo evitare ma che non possiamo eludere, mettendo in luce il disagio e il fallimento della nostra società nell’accompagnamento al fine vita.

L’idea della morte suscita in tutti noi sentimenti e atteggiamenti di paura, negazione, evitamento. Per paura di morire arriviamo a farci fare di tutto ed è incredibilmente difficile, anche di fronte ad una grave malattia, prendere davvero in considerazione che il suo decorso possa essere infausto. Rimaniamo attaccati alla vita talvolta ad ogni costo, incapaci di accettare la nostra mortalità e quella dei nostri cari.

Se guardiamo al nostro passato possiamo vedere che non è sempre stato così: prima dell’industrializzazione la morte era un evento più naturale, le famiglie erano più numerose, i vecchi stavano in casa e morivano in casa, accompagnati dalla presenza dei loro cari e da rituali di accompagnamento al fine vita che davano un senso al momento di passaggio e servivano ai morenti per accommiatarsi e ai familiari per salutarli e accettare la separazione con maggiore consapevolezza. Era un momento importante, in cui nessuno stava solo e in cui tutti partecipavano al ciclo della vita, bambini compresi. La morte, semplicemente, era parte della vita. Oggi le cose sono molto cambiate: da un lato i progressi della medicina ci hanno allontanati dalla consapevolezza della nostra mortalità; dall’altro non solo i nuclei famigliari sono molto più ridotti e faticano per questo a farsi carico della sofferenza e dell’accudimento dei loro vecchi e dei loro malati, ma manca la familiarità con la morte, mancano rituali di passaggio capaci di accompagnare e sostenere tutta la famiglia in questo momento delicato e si fa molta più fatica ad accettare la morte come evento naturale.

L’atteggiamento più frequente nei familiari, infatti, come nota l’autrice nella sua esperienza in hospice, è la negazione, l’’omertà: non vogliono che il malato sia informato del suo reale stato di salute. Nel tentativo di proteggerlo, lo relegano in una triste solitudine. Gli impediscono di avere così accesso alla risorsa più importante, la relazione, la possibilità di esprimere la sua sofferenza e di beneficiare del conforto empatico di chi gli vuole bene. Invece di stringersi intorno al malato e aiutarlo ad andarsene nel modo più sereno e armonico possibile, i familiari sono troppo spaventati e privi degli strumenti adeguati per reggere la fatica di confrontarsi con la morte, e questo crea una grande sofferenza nel malato e in tutta la famiglia.

Guardare un morente è come guardare in uno specchio: ci riflette la nostra fragilità, la nostra precarietà in questo mondo, ci anticipa il nostro ineluttabile destino. Senza gli strumenti giusti non siamo capaci di tanto coraggio.

Questa difficoltà non riguarda solo i familiari, ma anche i medici che sono spesso collusivi con questa tendenza a nascondere, a negare, a minimizzare. Il sistema sanitario, con le sue tempistiche ristrette e la continua carenza di risorse, certamente non aiuta a costruire una relazione medico-paziente umana e profonda, ma ciò cha manca è anche un’adeguata formazione del personale sanitario, ad ogni livello, nella comunicazione chiara ed empatica. L’esperienza più comune che vivono i malati è quella di non avere spazio per esternare i propri dubbi e le proprie paure, che vengono messe a tacere da frettolose rassicurazioni talvolta infondate che creano pericolose illusioni e lasciano il malato sempre più solo.

Nonostante la legge preveda il ‘consenso informato’, basato sui diritti della persona sanciti dalla Costituzione, troppo spesso la comunicazione è frammentaria, superficiale e al malato non è davvero garantita la possibilità di scegliere in piena consapevolezza e libertà.

Occorre un cambio di prospettiva: guardare al malato, non alla malattia. Non ‘curare’, ma guardare alla persona per ‘prendersene cura’ nella sua interezza.

Per fare questo dobbiamo imparare (o re-imparare) a stare in relazione, a porci accanto al malato in un atteggiamento empatico, dando spazio alle sue emozioni e accogliendole, per quanto difficili. E’ necessario lasciare andare la nostra tensione per fare spazio alle emozioni del malato senza sovraccaricarlo con le nostre.

In un’epoca di ‘analfabetismo emozionale’, le riflessioni di Patrizia Ruggerini accompagnano in una direzione opposta, verso l’importanza di una rieducazione al sentire: l’unico modo per ‘morire bene’ è arrivare consapevoli a questo passaggio riconoscendo le emozioni di paura, dolore e sofferenza, affrontandole, ascoltandole e imparando a regolarle, senza negarle né farsi dominare da esse. Dobbiamo accrescere la nostra competenza emotiva durante tutta la nostra vita, imparare a usare bene le nostre emozioni: le emozioni non sono un nemico da sconfiggere o da cui fuggire, ma uno strumento per muoversi nel mondo, per capire dove stiamo andando rispetto ai nostri bisogni fondamentali. Senza questo strumento siamo ciechi e incapaci di ridare dignità e valore alla malattia e alla morte. E dunque alla vita.

Forse proprio questo difficile momento storico ci costringe a fermarci e prendere di nuovo consapevolezza della nostra finitezza, del nostro essere mortali per rimetterci in contatto con ciò che davvero rende la vita degna di essere vissuta: le nostre emozioni e il nostro essere in relazione con gli altri. Lo abbiamo visto drammaticamente in questi mesi e purtroppo lo vediamo ancora: la cosa più difficile della pandemia non è la morte, ma la solitudine, la separazione dagli affetti, l’impossibilità di dirsi addio e tenersi la mano nel momento del passaggio. Allora forse possiamo imparare qualcosa da questa terribile esperienza, ritrovare il contatto con noi stessi e le nostre emozioni per stare in relazione autentica ed empatica con chi è nel momento più difficile, proprio quando ha maggiore bisogno di sostegno e vicinanza.

Due “falsi Sé”: confronto tra disturbo narcisistico e disturbo borderline di personalità

Le diagnosi di disturbo borderline di personalità e di disturbo narcisistico di personalità sono state aggiunte nella terza edizione del DSM e i due disturbi sono stati considerati per alcuni aspetti parenti stretti e allo stesso tempo lontani.

 

Secondo il DSM-5 (APA, 2013), il disturbo borderline (BPD) è un disturbo di personalità che presenta un pattern di relazioni interpersonali intense e instabili, instabilità affettiva dovuta a una marcata reattività dell’umore, impulsività marcata, un’alterazione dell’identità legata all’immagine di sé o alla percezione di sé, rabbia intensa o inappropriata e sforzi per evitare un abbandono reale o immaginario.

Il disturbo narcisistico (NPD) di personalità (APA, 2013) evidenzia un quadro pervasivo di grandiosità, mancanza di empatia e necessità di ammirazione: spesso i soggetti sono assorbiti da fantasie di successo, bellezza, fascino, potere e amore ideale, credono di essere unici e speciali, sono presenti sentimenti di invidia e comportamenti presuntuosi o arroganti.

Entrambe le diagnosi sono state aggiunte nella terza edizione del DSM (Widiger, 1993), per alcuni aspetti considerate parenti stretti e allo stesso tempo lontani. Rinsley (1984, p.2) osservò, da un punto di vista psicodinamico, come i disturbi di personalità possano rappresentare

esempi di due varietà fondamentali di patologia dell’autostima, ovvero quelle diagnosticabili come borderline e quelle diagnosticabili come narcisistiche.

Negli anni ’70 era presente un grande interesse per le diagnosi di questi due disturbi (Ronningstam & Gunderson, 1991): Adler (1981) sostiene che questi facciano parte dello stesso continuum, con la differenza che i pazienti narcisisti mostrano una maggiore capacità coesiva, una stabilità e una sopportazione più alta nel gestire la solitudine rispetto ai pazienti borderline. L’autore di questo articolo, Gunderson (1984) riporta una differenza tra il senso di idealizzazione perenne presente nel disturbo narcisistico di personalità e l’oscillazione tra idealizzazione e svalutazione osservabile nel disturbo borderline. Masterson (1988) ritiene che questi disturbi riflettano due falsi sé opposti, come il falso sé “gonfiato” nei pazienti narcisisti e il falso sé “sgonfio” nei pazienti borderline.

Fossati e colleghi (2016) hanno valutato le associazioni tra il DSM-5, il modello alternativo dei disturbi di personalità considerando il disturbo narcisistico (NPD) e il disturbo borderline di personalità (BPD) attraverso la somministrazione del Personality Inventory for DSM-5 (PID-5) e la SCID-II su un campione di 238 pazienti (NPD = 49; BPD = 32; altri PD = 91; nessun PD = 63) ricoverati e ambulatoriali dell’ospedale San Raffaele di Milano. I risultati mostrano come la labilità emotiva, la depressione, l’insicurezza dovuta a separazione, l’impulsività, l’ostilità e l’assunzione di rischi fossero associate a diagnosi di disturbo borderline di personalità. In particolar modo, i tratti che discriminano i pazienti con disturbo borderline sono l’insicurezza dovuta alla separazione, la distraibilità, l’impulsività e la disregolazione percettiva.

Negli ultimi anni si ha ancora poca conoscenza sui tratti narcisistici nel disturbo borderline di personalità (Euler et al., 2018): uno studio ha cercato di indagare le associazioni tra narcisismo e narcisismo nelle due varianti vulnerabile e grandioso in relazione al genere e alle caratteristiche del disturbo borderline di personalità. Il Pathological Narcissism Inventory e altre misure psicometriche sono state somministrate a 65 pazienti borderline. I risultati mostrano come i pazienti maschi con disturbo borderline di personalità presentano punteggi narcisistici più elevati rispetto alle femmine (p<0,01), il narcisismo grandioso ha mostrato un’associazione più forte col disturbo narcisistico di personalità, mentre il narcisismo vulnerabile è associato solo col disturbo borderline di personalità (tale tipologia di narcisismo era predetta dalla sensibilità al rigetto e dalla depressione).

 

L’arduo lavoro del cuoco: tra stress e rischi psicologici

Il lavoro del cuoco è uno dei lavori più stressanti proprio perché se manca coordinazione e spirito di squadra all’interno di una brigata, il rischio è sì di sbagliare il piatto, ma soprattutto si vive male l’intero ambiente lavorativo. Per un cuoco, ciò è tutto, visto che la maggior parte del loro tempo lo passano in cucina.

 

Mi sono sempre chiesta come facessero cuochi e chef a gestire gli alti livelli di stress. È soprattutto nei fine settimana che il cuoco deve dare il meglio di sé: il numero di comande che aumentano spropositatamente, dare la giusta attenzione ad ogni singolo dettaglio, ma allo stesso tempo essere veloci perché alla gente non piace aspettare quando ha fame. È successo ad ognuno di noi di ritrovarsi in un ristorante e lamentarsi del piatto che fatica ad arrivare, sbuffando e guardandoci attorno con fare accusatorio. Ma cosa c’è dietro alla preparazione di un piatto? Ebbene, ho avuto modo di osservare un po’ di cuochi “all’opera”, guardandoli da “dietro le quinte” e sono rimasta sbalordita dal lavoro di squadra che è presente in ogni “brigata”. È stato Escoffier, cuoco francese di fine 800, a coniare il termine di brigata, ideando una gerarchia piramidale in cui ruoli e mansioni sono ben suddivisi, proprio come una brigata militare (A. Meldolesi, 2019).

Il lavoro del cuoco è uno dei lavori più stressanti proprio perché se manca coordinazione e spirito di squadra all’interno di una brigata, il rischio è sì di sbagliare il piatto, ma soprattutto si vive male l’intero ambiente lavorativo. Per un cuoco, ciò è tutto, visto che la maggior parte del loro tempo lo passano in cucina. Lavorano, infatti, fino a 12/15 ore al giorno, è un lavoro full-time, nel vero senso della parola.

Inoltre, mi sono chiesta come facessero ad accettare tutto ciò anche perché un lavoro che impegna così tanto preclude la possibilità di avere relazioni di qualche genere con l’ambiente esterno. La risposta più comune che mi è stata data, è la passione per la cucina, è questo che spinge i più a intraprendere questo tipo di carriera. Molti di loro, però, non vorrebbero invecchiare in una cucina e si ritrovano tirati da due lembi: da una parte, la passione di creare nuovi piatti in connubio con nuovi gusti, dall’altra la consapevolezza che non si può lavorare per sempre in cucina, rimanendo così intrappolati in questa ambivalenza. Tematica preponderante è il senso di fallimento: molti cuochi non abbandonano il lavoro, anche se usurante, proprio perché associano l’abbandono del mestiere con il fallimento personale. Il fallimento e la crisi vengono definiti come

un pilastro di una certa visione del mondo, una visione che (porta) in sé il senso della morte e della resurrezione. (G.M. Ruggiero, 2016)

Connessa alla tematica del fallimento vi è l’autostima, preferita al concetto di crisi che rigenera, che ormai ci rende incapaci di fallire. Tutti gli studi sull’argomento autostima sottolineano l’intollerabilità dell’idea del fallimento e dunque di un’autostima che spesso ci

rende incapaci di fallire e quindi di morire e ripartire. (Idem)

Queste parole suggeriscono la necessità di un cambiamento della visione del fallimento che può essere interpretato come una ripartenza, un nuovo inizio.

In uno studio condotto su 710 chef italiani, è emerso che il 47% del campione ha un problema di salute moderato-grave. Tra i problemi più comuni vi sono: disturbi gastrointestinali, della pressione sanguigna e muscolo-scheletrici (A. Cerasa, C. Fabbricatore, G. Ferraro et al., 2020). Da tale studio emerge che lo stress accumulato sul lavoro può fungere da “base” per lo sviluppo di disturbi mentali come la depressione. Si evince che la durata del lavoro e della giornata lavorativa possono essere fattori predittivi di stress, che aumentano la probabilità di malattia (Idem).

Dalla mia esperienza diretta con tale categoria lavorativa specifica, ho constato che oltre a disturbi somatici, uno dei rischi maggiori è di ricorrere all’uso di sostanze stimolanti (come, ad esempio, abuso di alcol e droghe). Molti cuochi ricorrono a tali “palliativi” per fronteggiare un ambiente lavorativo che richiede una prestazione elevata costante.

Un ulteriore rischio tra chef famosi e di successo, e non solo, è il suicidio. Tale dato suggerisce che l’associazione tra successo personale e benessere, in questo specifico ambito non coincide, in quanto avanzando di grado, aumentano le responsabilità, le ore di lavoro e lo stress.

È opportuno, dunque, attuare un piano nazionale di supporto psicologico rivolto a tale categoria di lavoratori. Ad oggi, l’Ordine Psicologi del Lazio, ha attivato il progetto La psicologia al servizio della ristorazione per consentire strumenti alternativi nella gestione dello stress. Un grande traguardo per tutto il settore e la speranza è che ciò si propaghi in tutti gli Ordini regionali degli psicologi.

 

Case Formulation as Therapeutic Process in CBT – Presentazione del libro a cura di G. M. Ruggiero, G. Caselli e S. Sassaroli

È stato pubblicato per Springer il libro Case Formulation as Therapeutic Process in CBT a cura di Giovanni Maria Ruggiero, Gabriele Caselli e Sandra Sassaroli. Il libro tratta l’importanza della formulazione del caso nella realizzazione di efficaci terapie cognitivo comportamentali (CBT)

 

Il libro Case Formulation as Therapeutic Process in CBT tratta l’importanza della formulazione del caso nella realizzazione di efficaci terapie cognitivo comportamentali (CBT), centrandola come il principale strumento operativo degli approcci CBT con cui il terapeuta gestisce l’intero processo psicoterapeutico. I capitoli discutono interventi e componenti CBT specifici del trattamento, fattori aspecifici tra cui alleanza e relazione terapeutica e background teorico e storico delle pratiche CBT. Inoltre, il libro propone che nella CBT la formulazione del caso sia una procedura che viene continuamente condivisa e rivalutata tra paziente e terapeuta durante il corso del trattamento.

Il libro comprende due tipi di contributi: capitoli composti dai tre curatori nei quali è descritta e discusso l’uso della formulazione del caso nei principali orientamenti cognitivi e anche in alcuni orientamenti psicodinamici; capitoli composti da esperti nell’orientamento specifico trattato che commentano i contributi composti dai tre curatori. Ad esempio il capitolo dedicato alla CBT classica è commentato da Arthur Freeman e Steven Hollon.


Case Formulation as Therapeutic Process in CBT edited by G. M. Ruggiero, G. Caselli and S. Sassaroli

The book Case Formulation as Therapeutic Process in CBT edited by Giovanni Maria Ruggiero, Gabriele Caselli and Sandra Sassaroli has been published for Springer.

This book deals with the importance of case formulation in the implementation of effective cognitive behavioral therapies (CBT), defining it as the main operational tool of the CBT approaches with which the therapist manages the entire psychotherapeutic process. Chapters discuss specific CBT interventions and components of treatment, nonspecific factors including therapeutic alliance and relationship, and theoretical and historical background of CBT practices. Furthermore, the book proposes that case formulation in CBT is a procedure that is continually shared and re-evaluated between patient and therapist during the course of treatment.

The book includes two types of contributions: chapters composed by the three editors in which the use of the case formulation is described and discussed in the main cognitive orientations and also in some psychodynamic orientations; chapters composed by experts in the specific orientation who comment on the contributions composed by the three editors. For example, the chapter dedicated to classical CBT is commented by Arthur Freeman and Steven Hollon.


CONTENUTI / BOOK CONTENTS

I capitoli e gli autori sono: (The chapters and authors are:)

  • Chapter 1. The shared case formulation as the main therapeutic process in cognitive behavioral therapies
    Giovanni M. Ruggiero, Gabriele Caselli and Sandra Sassaroli
  • Chapter 2. Case formulation in standard cognitive therapy
    Giovanni M. Ruggiero, Gabriele Caselli and Sandra Sassaroli
  • Chapter 3. The Conceptualization Process in cognitive behavioral therapy. Commentary on chapter 2.
    Arthur Freeman
  • Chapter 4. Case formulation in standard cognitive therapy: A commentary on chapter 2
    Steven D. Hollon
  • Chapter 5. Commentary to chapter 2: The use of goals in cognitive behavioral therapy case formulation.
    Angelo Maria Saliani, Claudia Perdighe, Barbara Barcaccia, and Francesco Mancini
  • Chapter 6. Case formulation in the behavioral tradition: Meyer, Turkat, Lane, Bruch, and Sturmey
    Giovanni M. Ruggiero, Gabriele Caselli and Sandra Sassaroli
  • Chapter 7. Some thoughts on chapter 6 Case formulation in the behavioral tradition: Meyer, Turkat, Lane, Bruch, and Sturmey by Giovanni Maria Ruggiero, Gabriele Caselli and Sandra Sassaroli.
    Peter Sturmey
  • Chapter 8. How B-C Connection and Negotiation of F allow the Design and Implementation of a Cooperative and Effective Disputing in Rational Emotive Behavior Therapy
    Giovanni M. Ruggiero, Diego Sarracino, Gabriele Caselli and Sandra Sassaroli
  • Chapter 9. Commentary to chapter VIII. REBT’s B-C connection and negotiation of F
    Raymond DiGiuseppe and Kristene Doyle
  • Chapter 10. Commentary to chapter 8. Commentary on chapter VIII: REBT provides a firm basis for case formulation by employing an ongoing, implicit and hypothetico-deductive form of data collection in critical collaboration, negotiation and an equal relationship with the client
    Wouter Backx
  • Chapter 11. Case formulation in process-based therapies
    Giovanni Maria Ruggiero, Gabriele Caselli, Andrea Bassanini, and Sandra Sassaroli
  • Chapter 12. Commentary on Chapter 11: Process Based CBT as an approach to case conceptualization
    Avigal Snir and Stefan Hofmann
  • Chapter 13. Clinical Behavior Analysis, ACT and case formulation. A commentary on chapter 11.
    Paolo Moderato and Kelly Wilson
  • Chapter 14. Schema Therapy, Contextual Schema Therapy and case formulation: Commentary on Chapter 11.
    Eckhard Roediger, Nicola Marsigli, and Gabriele Melli
  • Chapter 15. Strengths and limitations of case formulation in constructivist cognitive behavioral therapies
    Giovanni M. Ruggiero, Antonio Scarinci, Gabriele Caselli, and Sandra Sassaroli
  • Chapter 16. A constructivist pioneer of formulation. A commentary on chapter 15.
    David A. Winter and Guillem Feixas
  • Chapter 17. Commentary on the presentation of the Metacognitive Interpersonal Therapy Model in Chapter 15.
    Antonio Semerari and Antonino Carcione
  • Chapter 18. The role of trauma in psychotherapeutic complications and the worth of Giovanni Liotti’s cognitive-evolutionist perspective (CEP): Commentary on chapter 15.
    Benedetto Farina
  • Chapter 19. The case formulation in the Post-Rationalist Constructivist model. Commentary on chapter 15.
    Maurizio Dodet
  • Chapter 20. Case formulation and the therapeutic relationship from an evolutionary theory of motivation. Commentary to chapter 15.
    Fabio Monticelli
  • Chapter 21. Emotion, Motivation, Therapeutic Relationship and Cognition in Giovanni Liotti’s Model: Commentary on Chapter 15.
    Saverio Ruberti and Raffaella Visini
  • Chapter 22. Case formulation as an outcome and not an opening move in relational and psychodynamic models
    Giovanni Maria Ruggiero, Gabriele Caselli and Sandra Sassaroli
  • Chapter 23. Commentary to chapter 22: Plan formulation vs case formulation: the perspective of Control-Mastery Theory
    Francesco Gazzillo and George Silberschatz
  • Chapter 24. Some historical and theoretical remarks about psychodynamic assessment. Commentary on chapter 22.
    Marco Innamorati and Mariano Ruperthuz Honorato
  • Chapter 25. Case formulation in psychoanalysis and in cognitive-behavioral therapies: Commentary on chapter 22.
    Paolo Migone
  • Chapter 26. The empirical state of case formulation: Integrating and validating cognitive, evolutionary and procedural elements in the CBT case formulation in the LIBET procedure
    Giovanni M. Ruggiero, Gabriele Caselli and Sandra Sassaroli
  • Chapter 27. Commentary on Chapter 26: A Constructivist Perspective on LIBET
    David A. Winter
  • Chapter 28. New dimensions in case planning: integration of E-mental health applications
    Christiane Eichenberg
  • Chapter 29. Now’s the time: CBT shares case formulation more (but not too) easily.
    Giovanni M. Ruggiero, Gabriele Caselli and Sandra Sassaroli

Piccole abitudini per grandi cambiamenti

Tutti abbiamo provato, almeno una volta nella vita, ad implementare delle nuove abitudini senza raggiungere il successo che ci aspettavamo; magari si tratta proprio di uno di quei fatidici buoni propositi che ci ripromettiamo di attuare ogni anno. Cosa ce lo impedisce?

 

Spesso riteniamo necessario che per dei grandi successi servano delle grandi azioni, ma la verità è che migliorare anche solo l’1% in modo costante, su lungo periodo, è ciò che fa davvero la differenza.

Mettere da parte 5 euro ogni giorno, non ci renderà milionari all’istante, ma in un mese ci permetterà di risparmiare in media ben 150 euro, in un anno 1825 euro e addirittura in cinque anni ben 9125 euro permettendoci magari di intraprendere il viaggio dei nostri sogni che da sempre rimandiamo.

Con questo esempio ciò che voglio trasmettere è l’idea che davvero con piccoli, a volte insignificanti, cambiamenti nella nostra giornata possiamo realmente fare la differenza nella nostra vita. Il modo più semplice per introdurre nella nostra quotidianità tali cambiamenti è implementare delle abitudini.

Cosa sono le abitudini?

Le abitudini sono le azioni che compiamo ogni giorno e che siamo propensi a ripetere. Spesso molte persone erroneamente tendono a pensare che sia la nostra personalità a determinare le nostre abitudini. Quante volte abbiamo sentito un amico o un parente giustificare una cattiva abitudine affermando ‘beh, sono fatto così, non ci posso fare niente’ e a questa frase potrebbero susseguirsi infinite possibilità tra cui ‘non mi è mai piaciuto lo sport, sono più un tipo da divano e serie tv’ oppure ‘fumo da vent’anni, non potrei più farne a meno’ o ancora, una delle mie preferite, ‘le verdure non le mangio fin da quando sono bambino, figurati se comincio adesso!’.

Mi dispiace deludervi, ma studiando psicologia ed essendo appassionata da tempo all’argomento, vi posso assicurare che non vi è nessuna validità scientifica su presunti tratti della personalità innati. Siamo ciò che decidiamo di essere, lo dicono anche gli scienziati.

La buona notizia però è proprio questa: nel momento in cui prendiamo consapevolezza di attuare delle azioni che non ci rendono fieri di noi stessi, abbiamo il potere di cambiarle.

Perché spesso è così difficile abbandonare un’abitudine o implementarne delle nuove?

Diciamolo chiaramente, tutti ci abbiamo provato, almeno una volta nella vita, ad implementare delle nuove abitudini senza raggiungere il successo che ci aspettavamo. Magari si tratta proprio di uno di quei fatidici buoni propositi che ci ripromettiamo di attuare ogni anno o magari, più semplicemente, si tratta di una piccola azione che continuiamo a ripetere e che non ci fa sentire del tutto a posto con noi stessi.

Qualunque sia l’entità del cambiamento, qualunque sia l’importanza che attribuiamo ad esso, non fa differenza perché spesso l’insuccesso deriva dal medesimo errore.

Ci concentriamo troppo sull’obiettivo, su ciò che vogliamo raggiungere, sul nostro momento di gloria e molto poco sugli schemi che abbiamo intenzione di attuare per raggiungerli.

Cosa sono gli schemi e perché sono più importanti degli obiettivi?

Secondo Hazel Markus, sociopsicologa americana professoressa presso la Stanford University, il concetto di sé è costituito da un insieme di schemi di sé corrispondenti alle dimensioni rispetto alle quali conosciamo noi stessi. In altre parole, oltre ad essere dei “magazzini” al cui interno vengono accumulate le conoscenze circa sé stessi, gli schemi svolgono un’importante funzione nel processo di codifica ed elaborazione delle informazioni inerenti alla propria persona, selezionando e interpretando gli eventi in modo attivo sulla base di quanto già sappiamo su noi stessi.

Secondo l’approccio psicoterapeutico innovativo, definito “Schema – Focused Cognitive Therapy”, proposto dallo psicologo americano laureato presso la Yale University, Jeffrey E. Young (1990-1999) al fine di raggiungere a pieno il proprio benessere psicologico, occorre identificare e modificare gli “Schemi Maladattivi Precoci”, cioè schemi altamente disfunzionali che sorgono durante l’infanzia o l’adolescenza e che poi vengono elaborati nel corso della vita. Tali schemi maladattivi possono comprendere ricordi, emozioni e cognizioni e sono relativi a sé e alle proprie relazioni con gli altri. Inoltre, essi nascono dalla necessità umana di costruire una rappresentazione del mondo che sia stabile e coerente, dunque rappresentano qualcosa che noi conosciamo bene e da cui non ci vogliamo distaccare, ecco perché si viene attratti dalle situazioni che rafforzano tali schemi, rendendo difficoltoso non solo il cambiamento ma anche il riconoscimento della loro inefficienza.

Per questo osservarli e modificarli è fondamentale per arrivare concretamente ai risultati che vogliamo ottenere. Gli obiettivi difatti ci permettono di definire una direzione ma gli schemi definisco i meccanismi che ci permettono di fare effettivamente dei progressi.

I problemi arrivano quando si passa troppo tempo a pensare a quali sono i propri obiettivi e meno tempo a definire quali sono i propri schemi.

Molto spesso le persone di successo e quelle che non lo sono (o quantomeno non lo sono ancora) hanno gli stessi obiettivi. Quindi non sono gli obiettivi a fare la differenza, ma ciò che è importante osservare e studiare sono i diversi passi che queste due persone mettono in atto per raggiungere i loro traguardi.

Ad esempio, se la vostra casa è spesso disordinata, magari sul momento troverete l’energia per ripulirla ed in quel momento effettivamente vi sembrerà di aver raggiunto il vostro obiettivo. Il problema, però, è che se si continuerà ad avere l’abitudine di essere disornati e lasciare le vostre cose in giro per la casa, alla fine il problema si ripresenterà.

Noi siamo convinti di dover cambiare i nostri risultati, ma ciò che è rilevante è che dobbiamo cambiare gli schemi che utilizziamo per raggiungerli.

Atomic Habits

Mi ha particolarmente incuriosito il modo in cui James Clear, giornalista ed esperto di crescita personale americano, nonché autore del best seller Atomic Habits (2018) da cui ho preso l’ispirazione per introdurvi questo argomento (la cui versione italiana del libro prende il nome per l’appunto di ‘Piccole abitudini per grandi cambiamenti’), ha definito il concetto di cambiamento.

Egli definisce il cambiamento come strutturato in diversi strati concentrici.

Nel primo strato, quello più esterno, vi sono le cose che ricerchiamo, nonché buona parte degli obiettivi che ci prefissiamo: mangiare sano, andare in palestra, riuscire ad ottenere una promozione e così via.

Il secondo strato, quello intermedio, è legato ai processi, dunque riguarda gli schemi che mettiamo in atto e le nostre abitudini.

Infine, il terzo strato, quello più interno, riguarda la nostra identità: ciò in cui crediamo, i nostri valori, la nostra visione del mondo, di noi stessi e degli altri.

Tutti e tre livelli sono importanti, ma dobbiamo imparare a definire la giusta direzione. Dobbiamo iniziare il nostro cambiamento concentrandoci sulla persona che vogliamo diventare (il terzo livello), abbandonando l’idea che i nostri traguardi risiedano unicamente nei risultati (primo livello).

Se non attuiamo questo cambio di direzione, permetteremo, ancora una volta, alla nostra ‘vecchia identità’ di sabotare il cambiamento che vorremmo attuare, lasciandoci definire da aggettivi che non vorremo più ci definissero.

Ad esempio, se continuerai a vederti come un dormiglione e non come una persona che si alza presto, continuerai a ritardare la sveglia e sarà più probabile che tu non riesca ad introdurre tale cambiamento nella tua vita, anche se ciò non ti rende felice perché magari ti costringe ad arrivare sempre in ritardo a lavoro, ad iniziare la giornata di fretta o a perdere molto tempo che potresti dedicare per lavorare ad un tuo progetto.

È molto difficile cambiare le nostre abitudini senza cambiare anche le credenze che hanno supportato quelle azioni fino ad ora.

Fai in modo che le tue abitudini siano parte della tua identità

Una delle migliori motivazioni interne è rendere un’abitudine parte della nostra identità perché è molto diverso ripetere a noi stessi ‘io sono una persona che vorrebbe essere più studiosa’ che dirsi ‘io sono una persona studiosa’.

Ad esempio, se sei fiero dei tuoi addominali e ti piace che gli altri ti considerino quello sportivo del gruppo, non salterai gli allenamenti per non perdere quel lato di te.

L’obiettivo non è leggere più libri, è diventare un lettore.

L’obiettivo non è andare in palestra più spesso, è diventare una persona in salute.

L’obiettivo non è imparare a suonare uno strumento, è diventare un musicista.

Questo perché quello che facciamo è un riflesso di quello che crediamo di essere, il che purtroppo vale anche per le cose negative. Una volta che si è adottata un’identità è difficile abbandonarla.

Questo dipende anche dall’innata tendenza umana di ricercare coerenza in noi stessi e in ciò che ci circonda. In altre parole, non amiamo affatto contraddirci e quest’ostacolo si può evitare semplicemente integrando nella nostra identità quel determinato cambiamento che vogliamo attuare in modo che il nostro cervello non abbia più l’impressione di contraddirsi.

Come cambiare la propria identità?

L’identità non nasce dal nulla, in realtà essa nasce proprio dalle nostre abitudini. Ogni cosa in cui crediamo è appresa e confermata dalle nostre esperienze, più si ripete un comportamento più si rinforza l’identità associata a quel comportamento. Qualsiasi sia la tua identità in questo momento, ci credi perché ne hai la prova. Se, ad esempio, studi un’ora tutti i giorni hai la prova di essere una persona studiosa. Se vai in palestra anche quando nevica hai la prova che sei una persona dedita all’esercizio fisico e a mantenersi in salute.

Più prove hai per una certa credenza e più fortemente ci crederai e di conseguenza più l’immagine che hai di te stesso potrà cominciare a cambiare.

In conclusione, secondo la prospettiva sopra presentata, il modo più pratico per cambiare chi sei, è cambiare che cosa fai.

Dunque dobbiamo capire che persona vogliamo essere e poi dimostrarlo a noi stessi tramite delle piccole vittorie, delle prove che accumuliamo nel tempo per confermare la nostra nuova identità ed è proprio questo che fanno le abitudini! Ovvero ci danno una piccola prova, ogni giorno, nel tempo, della persona che siamo.

 

Lavoro con le (p)arti – Report dal laboratorio su trauma e dissociazione nell’infanzia e nell’adolescenza tenuto dalla Dott.ssa Annalisa Di Luca

Alla base dei sintomi dissociativi vi è un evento traumatico o un ricordo traumatico che provoca un dolore tale da generare una risposta di evitamento, sia dei ricordi che degli stimoli.

 

Il laboratorio dal titolo “‘Strumenti clinici per il lavoro con il trauma e nella dissociazione nell’infanzia e nell’adolescenza. L’uso del disegno e della matrioska per favorire l’integrazione delle parti”, svolto dalla dottoressa Di Luca, psicoterapeuta, psicotraumatologa e formatrice, il 12 Settembre ha aiutato ad ampliare lo sguardo sul concetto di dissociazione nella pratica clinica con bambini ed adolescenti utilizzando una prospettiva e uno sguardo sistemico.

La cosa che più colpisce è come vengano affrontati nel corso del laboratorio i casi clinici e le tematiche inerenti al trauma e alla dissociazione: la creatività, la fiducia nella cura e i piccoli pazienti sono gli assoluti protagonisti e tutti questi elementi contribuiscono a rendere argomenti ad alto impatto meno grigi e spaventosi. Il laboratorio inizia con un brano del film Storie pazzesche di Almodóvar che mette in luce quanto ciò che ogni giorno facciamo abbia una ricaduta in termini relazionali su tutti i sistemi, siano essi interni o esterni. Da subito è stato chiarito che nel corso del laboratorio la teoria sul disturbo post traumatico, la teoria sulla trasmissione trigenerazionale (che mette in luce l’aspetto relazionale) e la teoria dell’attaccamento si sarebbero intrecciate e ci avrebbero offerto una cornice teorica per pensare e progettare un possibile intervento. La dottoressa si è dedicata nella prima parte alla teoria sul trauma e sulla dissociazione nell’infanzia e nell’adolescenza. Abbiamo visto come il trauma generi una disgregazione e come l’obiettivo del trattamento diventi l’associazione per fare in modo che la persona integri gli elementi dissociati per riconoscere e distinguere gli eventi del presente e quelli del passato. Il criterio A del DSM-5 (APA, 2014) utilizzato per la valutazione del Disturbo da Stress Post-Traumatico (PTSD) orienta il clinico stabilendo che per la diagnosi debba esserci stata l’esposizione a un evento traumatico come morte o minaccia di morte, grave lesione oppure violenza sessuale.

L’esposizione può avvenire in diversi modi:

  • Fare esperienza diretta, cioè la vittima vive il trauma in prima persona;
  • Assistere a un evento traumatico accaduto ad altri;
  • Venire a conoscenza di un evento traumatico accaduto a una persona con cui si ha una relazione intima, ad esempio un componente della propria famiglia o un amico stretto, e in particolare ai caregiver primari nel caso dei bambini. La morte o la minaccia di morte deve essere stata violenta o accidentale;
  • Estrema e ripetuta esposizione a dettagli crudi dell’evento (ad esempio, nel caso dei primi soccorritori in seguito all’evento o di agenti di polizia durante le indagini), ma non tramite i media, ad eccezione dei casi in cui anche ciò sia legato alla professione svolta.

I sintomi dissociativi sono sintomi che in questo caso sorgono in risposta al PTSD:

  • Sintomi intrusivi: ricordi intrusivi, sogni spiacevoli, reazioni dissociative o flashback, disagio emotivo e risposta fisiologica a fattori scatenanti (interni e/o esterni) che richiamano qualche aspetto dell’evento traumatico;
  • Evitamento: ricordi, pensieri e sentimenti relativi all’evento traumatico o evitamento di fattori esterni (persone, luoghi, conversazioni o situazioni) che suscitano il pensiero o il ricordo dell’evento traumatico;
  • Persistenti modificazioni negative: incapacità di ricordare in modo parziale o totale l’evento traumatico, convinzioni negative su se stessi e su gli altri (per esempio ‘sono cattivo’, ‘non ci si può fidare di nessuno’), tendenza a colpevolizzarsi, persistente stato emotivo negativo (rabbia, paura, colpa, vergogna), sentimenti di distacco o di estraneità verso gli altri, incapacità di provare emozioni positive;
  • Ipervigilanza o aumento dell’arousal: aggressività, scoppi d’ira, alterazioni del sonno, problemi di concentrazione, comportamento spericolato o autodistruttivo.

La dottoressa Di Luca ha introdotto il modello quadridimensionale dei sintomi proposti da Lanius che mostrano le quattro dimensioni (tempo, emozione, pensiero, corpo) della coscienza colpite dal trauma per poi passare alla descrizione del disturbo traumatico dello sviluppo (Developmental trauma disorder) che comprende una costellazione di sintomi clinici manifestati nell’infanzia e nell’adolescenza conseguenti all’esposizione a traumi cumulativi e complessi. In questo caso il minore è stato testimone di molteplici e prolungati (almeno un anno) eventi sfavorevoli con inizio nell’infanzia o prima adolescenza. Abbiamo visto come il trauma dell’età evolutiva nella pratica clinica si riconosca soprattutto negli adulti e quanto siano presenti storie di traumi complessi e ripetuti nell’esperienza degli psicoterapeuti. L’impatto traumatico di un evento dipende da diversi fattori come: la gravità del trauma, la frequenza del trauma, la relazione di intimità con il maltrattante (che non comprende solo la vicinanza ma anche la qualità del legame relazionale) e l’età in cui il trauma è esperito, quindi la precocità d’esposizione. A livello biologico il sistema nervoso autonomo è responsabile del sistema d’emergenza e d’allarme per fare in modo che tutti i sensi dell’individuo siano coinvolti nel cogliere i segnali di pericolo. Il neurofisiologo statunitense Stephen Porges (2014) parla di teoria polivagale centrata sulle risposte neurofisiologiche dinanzi a una minaccia. Gli assunti di base della teoria sono:

  • L’essere umano risponde a uno stimolo attivando una risposta neurofisiologica di diversa intensità che dipende da come si percepisce e valuta lo stimolo stesso, processo che avviene in modo pre-cognitivo e automatico;
  • Il processo di valutazione della pericolosità dello stimolo viene chiamato neurocezione, elaborazione influenzata da fattori soggettivi come la storia personale di attaccamento o fattori temperamentali;
  • La risposta neurofisiologica del corpo è direttamente proporzionale a quanto un certo stimolo ci attiva.

Dopo il processo neurocettivo vengono elaborate delle risposte differenti connesse a diverse vie neuronali che sono: il nervo vago ventrale, il sistema nervoso simpatico, nervo vago dorsale (la più antica).

Individui con uno sviluppo traumatico, poggiandoci anche alla teoria di Porges, sono maggiormente incentrati e focalizzano le loro energie per sopravvivere al trauma piuttosto che impiegarle nei sistemi di regolazione, cognitivi e socio emotivi. Cirillo paragona lo sviluppo traumatico a un rampicante che si sviluppa intorno alla pianta che lo ospita ed è compito del terapeuta riconoscerlo, trovare con il paziente una modalità di convivenza con il trauma e guardare insieme a una possibile crescita post-traumatica. Sono fondamentali ulteriori passi avanti a livello teorico e clinico ma anche, probabilmente soprattutto, una rivoluzione culturale affinché sia sempre più repentino il cogliere i sintomi e altri elementi che manifestano un trauma e i sintomi dissociativi; un’elaborazione precoce favorisce una migliore e meno complessa elaborazione e integrazione dell’informazione.

Individui con un attaccamento traumatico potrebbero avere una rappresentazione interna di sé come costantemente in pericolo in quanto le relazioni con i caregiver sono state caratterizzate dal pericolo e le uniche fonti d’aiuto erano percepite come spaventose e minacciose. Tenendo a mente questo, la relazione terapeutica deve diventare un luogo sicuro che offre controllo e regolazione. La dottoressa Di Luca, per concretizzare e rendere maggiormente chiaro e accessibile il posto sicuro che le vittime di traumi dovrebbero possedere, fisicamente e nella mente, per fronteggiare i ricordi e le emozioni spiacevoli e dolorose chiede: ‘cosa identifichi come luogo sicuro?’ e, lavorando principalmente con bambini ed adolescenti, può anche farlo disegnare. Il luogo sicuro dunque si concretizza in una stanza, in un posto specifico o in alcuni oggetti che facciano sentire il bambino o l’adolescente al sicuro e protetto.

Per quanto riguarda la dissociazione generata dal trauma, essa implica un fallimento dell’integrazione delle informazioni cognitive ed emotive ma allo stesso tempo possiede uno specifico valore adattivo volto alla sopravvivenza. La divisione della personalità si manifesta con dei sintomi dissociativi: negativi – perdite funzionali come amnesie e paralisi, positivi – intrusioni come voci e flashback o psico/somatoformi come voice hearing e tic. Sono tre i livelli della dissociazione strutturale della personalità, dove il primario è connesso con il PTSD semplice e i suoi sintomi, il secondario con il PTSD complesso (Desnos) e il terziario con il Disturbo dissociativo dell’identità (DID). La dissociazione sembra affondare le sue basi eziologiche nel trauma cronico e complesso infantile e nell’attaccamento traumatico. Proprio per questo alla base dei sintomi dissociativi vi è un evento o un ricordo traumatico che provoca un dolore tale da generare una risposta di evitamento, sia dei ricordi che degli stimoli. La dissociazione può avere anche la funzione di mantenere il segreto rispetto a qualcosa di profondamente vergognoso.

La seconda parte del laboratorio si è concentrata sull’espressione del trauma attraverso il disegno e le creazioni espressive e artistiche. La dottoressa ha sottolineato che questi strumenti sono in funzione del paziente in quanto ogni individuo ha bisogno di un intervento su misura poiché ognuno porta nella stanza di terapia un vissuto emotivo ed esperienziale unico e irripetibile. Il terapeuta, soprattutto quando si occupa di bambini, dovrà possedere un’adeguata competenza relazionale, una buona conoscenza degli strumenti, dovrà essere flessibile e creativo e aver acquisito una competenza metodologica. Non bisogna scordare che i bambini hanno una matrice molto creativa e che dunque alcune tecniche espressive artistiche, ma anche corporee, possono essere estremamente utili nell’intervento.

Nel chiedere di disegnare ad un bambino, la dottoressa ci consiglia di osservare con attenzione la qualità del tratto, la densità del segno, l’uso del colore, le forme ricorrenti, le diverse fasi del disegno (chi disegna per primo, chi per secondo, ecc…) e la ripetitività delle forme, quindi le possibili cristallizzazioni. È possibile utilizzare il disegno guidato con compiti ben definiti scelti dal terapeuta o il disegno spontaneo dove è il bambino in totale libertà a esprimersi. Il terapeuta può anche scegliere di utilizzare in una prima fase il disegno libero per poi passare a quello guidato o viceversa; nel passaggio dal disegno spontaneo a quello guidato c’è bisogno che il terapeuta sia maggiormente supportivo. La dottoressa Di Luca fa riferimento al libro di Elbrecht Healing trauma with guided drawing dove vengono descritte 3 fasi che si concentrano sul rinforzo continuo, sul come e sul che cosa. Nella fase del rinforzo e del supporto continuo il terapeuta dovrà sostenere il bambino per esempio producendo suoni supportivi o con frasi del tipo ‘sì, bene, vai avanti’ alle quali corrisponderanno delle specifiche risposte fisiologiche a livello dell’addome e dell’intero corpo nel paziente. Questa fase pone particolare attenzione alle emozioni. La fase del ‘come’ corrisponde alla consapevolezza sensoriale dove il terapeuta chiede: ‘cosa senti? In che parte del corpo lo senti?’ e le risposte fisiologiche annesse solitamente sono a livello dell’addome, della pancia e del cuore. Questa fase lavora principalmente sulle sensazioni corporee. La fase del ‘cosa’ promuove invece l’integrazione cognitiva e le domande da fare sono: ‘cosa stai facendo/disegnando? Hai un’immagine in testa? Cosa rappresenta per te?‘. Questa fase stimola la riflessione e la ricerca di un significato.

È necessario permettere di far parlare le parti durante l’atto di disegnare o successivamente, ma la finalità deve essere sempre l’integrazione e l’unità della persona. Infatti tutte le attività che rappresentano frammentazione e dissociazione possono essere ricondotte ad un’unità integrativa, come ci spiega la dottoressa Di Luca. Lavorando con pazienti che hanno vissuto dei traumi cumulativi la Di Luca ci invita ad osservare con attenzione il possibile ritiro e l’assenza dal campo della consapevolezza nel corso della seduta in quanto potrebbe essere un indice che ci avverte di aver toccato qualcosa di importante e forte a livello emotivo e non solo. Questi comportamenti, pur non avendo un ben definito valore diagnostico, potrebbero attestare una sensibilità all’uso della dissociazione. Bisognerà comprendere il conflitto e aiutare il bambino a fare lo stesso per poi capire come si manifesti; i bambini abusati sentono forte il bisogno di trovare qualcuno con cui poter condividere la singolarità del proprio mondo interno e finalmente trovare un luogo dove essere ascoltati. Nei casi portati dalla dottoressa Di Luca appare chiaro l’utilizzo della dissociazione da parte del bambino in quanto alcuni disegni svolti su uno stesso foglio, utilizzando la parte anteriore e quella posteriore, hanno tematiche, colori, tratto grafico e pressione sul foglio molto differenti. Passiamo da disegni molto colorati ed eseguiti con precisione a disegni che mostrano una regressione, un probabile tornare nel là ed allora, un salto nel vuoto nel vissuto traumatico. La dottoressa a questo punto, per integrare le parti dissociate e restituire al bambino l’idea e la percezione di un’unità integrata, fa disegnare i due disegni su due fogli di carta trasparente e li sovrappone rendendo i due disegni parte di un’unica opera, di un’unica mente e di un unico corpo. L’atteggiamento della dottoressa nel corso del disegno è supportivo ed empatico e non mancano le domande che fanno riferimento agli aspetti emotivi e corporei. Vedere disegni così diversi sovrapporsi rassicura ed emoziona non solo i piccoli pazienti ma anche coloro che si prendono cura di loro siano essi clinici o educatori. Le ipotesi di lavoro che formula la dottoressa Di Luca prima del disegno o dell’uso della matrioska e che precede il suo pensiero e lavoro terapeutico sull’integrazione, è che le parti potrebbero essersi fermate e cristallizzate all’età del trauma. Quindi si lavora sul passato traumatico, sottolineando il bisogno di ogni essere umano di essere amato, e si iniziano a costruire insieme nuove prospettive future attraverso gli aspetti di integrazione. Nel lavoro clinico si possono usare gli strumenti del disegno e della matrioska andando a lavorare anche sulle emozioni e i ricordi ad esse associati; si lavora sulla paura e sulla rabbia, sulla tristezza, sulla sorpresa e sull’attesa, sul disgusto e l’accettazione fino ad arrivare al forte senso di vergogna, emozione secondaria in quando compare con l’autocoscienza (per approfondimenti sulla vergogna connessa al trauma è possibile leggere l’articolo riguardo la vergogna cronica). Per far contattare le emozioni antiche connesse all’evento traumatico la terapeuta parte dal qui ed ora e dall’espressione artistica dei pazienti. Mentre si lavora il terapeuta diventa custode dell’integrazione delle parti anche se il bambino o adolescente può sentirsi ancora frammentato. Così come per il disegno, anche nell’uso della matrioska, il bambino disegna le diverse parti che alla fine però, inserendosi l’una dentro l’altra, diventano un tutt’uno integrato; le matrioske in legno vengono disegnate dai pazienti e così facendo si può lavorare sulla ricostruzione  anche dell’identità corporea. Interessante a questo proposito anche l’utilizzo che la dottoressa Di Luca (2014) fa del My body, il disegno della figura umana a dimensione naturale. Lavorando sulle parti attraverso queste tecniche espressive si favorisce il dialogo e la comprensione delle diverse parti interiorizzate dal paziente come per esempio quella dell’aggressore che coincide con la figura o il contesto abusante. Nell’utilizzo della matrioska la dottoressa parte da quella più piccola a quella più grande e, mentre il bambino le colora e vi disegna sopra, lei chiede per esempio: ‘come si chiama? Quanti anni ha? Come si sente?’. Il bambino o l’adolescente con queste tecniche può sperimentare e ricontattare il trauma ma in sicurezza, come guardare giù in un profondo burrone ma con una salda imbracatura che non gli permette di precipitare, la mano salda del terapeuta, fatta di parole, di silenzi e di sguardi, fa in modo che possa guardare l’abisso spaventoso con fiducia. La dottoressa Di Luca nella sua pratica clinica utilizza anche altri strumenti espressivi che danno nuova forma al dolore come il das e la plastilina e il suo intervento, seppure si occupi di ricostruire dalle macerie e di rimarginare ferite ancora sanguinanti, mantiene la forma di un gioco luminoso e pieno di vita. Per fare solo un esempio, per spiegare gli effetti del trauma sul cervello ai bambini e agli adolescenti ha pensato di utilizzare un modellino di plastica di un cervello molto colorato per restituire al paziente la percezione di normalizzazione di quello che sente e vive, dove i pensieri angoscianti trovano una loro collocazione e dove la spiegazione di ciò che gli è accaduto non è più ‘sono cattivo’ o ‘sono sbagliato’. La dottoressa Di Luca, avendo una formazione e una sensibilità alla prospettiva sistemico relazionale, sposa la logica dell’inclusione dei caregiver anche nella restituzione di quanto fatto con i diversi strumenti e così facendo restituisce al bambino la capacità di raccontarsi. Infatti il trauma frammenta la capacità relazionale dell’intero nucleo familiare traumatizzato e accompagnare anche i caregiver, quando è possibile, risulta essere importante in quanto il trauma del bambino fa risuonare anche il trauma dei genitori.

Per concludere, il laboratorio condotto dalla dottoressa Di Luca è risultato essere molto formativo in quanto ha fornito strumenti validi e creativi che si possono adattare ai bisogni e alla storia di ogni paziente, mettendo al centro il suo soggettivo vissuto emotivo e dandogli insieme una nuova forma, disegnare insieme un nuovo futuro su un grande foglio bianco, questa volta non sgualcito, ma chiamato fiducia.

Can Yaman, marketing, teoria del contatto para-sociale e differenze di genere

Dato che l’ambiente del marketing è altamente competitivo, i prodotti dei marchi vengono inseriti all’interno di serie tv, come quella in cui recita l’attore Can Yaman, in modo da promuoverli efficacemente.

 

C’è stato un tempo in cui digitando la parola “can” in rete ne seguivano risultati riguardanti il verbo modale inglese, la frase ad effetto di Obama “Yes, we can”, o la traduzione del sostantivo “can” che indica il barattolo in latta. Ora tra i primi risultati compaiono foto, video ed interviste all’attore turco Can Yaman, co-protagonista della fiction romantica Day Dreamer/ Le ali del sogno.

Il motivo del suo successo non è la bravura di attore, che gli ha permesso di vincere diversi premi e riconoscimenti, ma il seguito di fan che contribuiscono a renderlo famoso postando contenuti quali meme, video, post sui Social Network e sulle relative fan pages.

Infatti il progresso delle tecnologie di informazione ha determinato la creazione di una nuova comunicazione che avviene nel “non luogo” digitale, che non ha confini temporali né spaziali.

Il digitale non tiene in considerazione di chi condivide contenuti: chiunque può postare, usare la propria “non voce” per contribuire a promuovere prodotti, siano questi oggetti di consumo o serie tv, ma anche carriere.

Anzi, come sottolineato in uno studio (Gümüş, Zhaxyglova Mīrzabekova, 2017) dato che l’ambiente del marketing è altamente competitivo, i prodotti dei marchi vengono inseriti all’interno di serie tv, pertanto Can Yaman, così come gli altri attori di serie tv, promuovono i marchi. Gli utenti dei social network, attraverso il loro contributo, a loro volta rendono popolari gli attori delle serie tv che promuovono al loro interno alcuni marchi piuttosto che altri. Limite dello studio effettuato, non elicitato dagli autori, è il tipo di campionamento utilizzato: i 220 partecipanti all’intervista etero somministrata sono stati selezionati mediante un campionamento di convenienza, cioè con un metodo non probabilistico che non offre a tutti le stesse probabilità di essere selezionati. In pratica, alcune persone hanno maggiore probabilità di essere scelte rispetto ad altre. In questo caso specifico sono state selezionate 146 donne per rispondere all’intervista, influenzando i risultati evinti che riguardano l’acquisto di materiali, beni di provenienza turca, in linea con i loro gusti da consumatrici.

Can Yaman promuove non solo se stesso, ma anche il proprio gruppo etnico.

Seconda la “teoria del contatto” di Allport, che è stato il pionere degli studi sul pregiudizio, il contatto tra un gruppo di minoranza e un gruppo maggioritario può determinare un cambiamento in positivo degli atteggiamenti del gruppo maggioritario verso la minoranza. Esso può avvenire anche attraverso i mass-media mediante il contatto para-sociale individuato in uno studio sull’esposizione mediatica (Schiappa, Gregg, & Hewes, 2005) secondo cui i media sono utili per ridurre il pregiudizio sociale.

L’esposizione attraverso i social media, in questo caso guardando serie tv straniere, offre la possibilità di entrare in contatto in modo indiretto con i membri di un gruppo minoritario, in questo caso i turchi, diminuendo i pregiudizi negativi nei loro confronti.

Questo risulta rilevante all’epoca della globalizzazione e dell’immigrazione poiché a partire dal primo contatto, anche se para-sociale, può diminuire il pregiudizio verso lo “straniero” aumentando la predisposizione a conoscerlo e a cooperare con lui.

Non so se questo rientrava tra gli obiettivi di chi ha scelto di trasmettere la popolare serie tv turca, ma ipotizzo che la rappresentazione ironica e propositiva delle vicissitudini dei protagonisti possa determinare un atteggiamento più positivo verso i turchi.

Invece, il fatto che i contenuti riguardanti Can Yaman siano condivisi da donne è spiegato da una ricerca condotta in Spagna (Hidalgo Marí e Sánchez-Olmos, 2016) i cui risultati sono interessanti benché il limitato campione e la dispersione dei risultati ne impediscano l’estrapolazione all’intera popolazione.

Sono stati analizzati il numero di video inerenti alle serie tv, caricati su YouTube, da uomini o donne e il tipo di contenuto narrativo condiviso. Dopo aver applicato i filtri, i risultati sono ordinati in base al criterio di YouTube di rilevanza.

È emerso che gli uomini caricano più video delle donne, dei 127 video selezionati 71 sono stati caricati da uomini e 56 da donne (56% vs. 44%) e che hanno più visite e recensioni (41.559 vs. 30.147). Tuttavia, i video caricati dalle donne sono più creativi ed elaborati quasi a voler fornire “nuove micro-narrazioni alla finzione” (Hidalgo Marí & Sánchez-Olmos 2016 – pagina 157) e presentano il 22% in più di contenuti inediti rispetto agli uomini.

Il tipo di contenuti narrativi caricati sulla rete da ciascun sesso è diverso.

I video che presentano contenuti drammatici, umoristici o sessuali sono condivisi principalmente da uomini, mentre i contenuti romantici da donne. Questa ricerca suggerisce che l’attività degli utenti riguardo alle serie tv è significativa su YouTube e vi sono differenze quantitative e qualitative tra l’attività di uomini e donne.

Le motivazioni che portano gli spettatori a condividere contenuti inerenti a serie tv sono stati analizzati in uno studio recente (Unkel & Kümpel, 2020) sulla Comunicazione asincrona sulle serie TV sui social media: un’indagine multi-metodo sulle discussioni su Reddit, che, benchè riguardi una singola piattaforma, una singola comunità e una singola serie TV (Game of thrones), riducendo la generalizzabilità dei risultati, permette di ottenere informazioni su distinte attività di Social TV.

La comunicazione parallela o sincrona avrebbe lo scopo di aumentare la percezione di “compagnia” ed è meno attuata dai fruitori di servizi di video su abbonamento (come Netflix e Amazon Prime Video) in quanto gli episodi, vengono presentati insieme in un’unica stagione e non c’è una diretta.

Gli episodi di Day Dreamer/ Le ali del sogno sono trasmessi sui canali della tv nazionale e si prestano sia ad essere oggetto di comunicazione parallela sui social, che di comunicazione asincrona legata alla condivisione di pareri personali riguardanti la trama oppure di meme.

Come riportano Unkel & Kümpel non tutte le attività di Social TV sono uguali e gli utenti vi si dedicano per soddisfare bisogni e desideri specifici.

Aggiungo che implementare le ricerche al riguardo potrebbe essere utile non per orientare le scelte dei consumatori, ma per avvicinarli a ciò di cui hanno paura, l’altro, che è diverso dal sé.

 

Giovani adulti e credenze relative all’interruzione di una relazione sentimentale

Un recente studio ha voluto esplorare le credenze dei giovani adulti circa la loro capacità di porre fine alle relazioni sentimentali e di identificare quali caratteristiche di personalità e quali tipologie di esperienza romantica siano associate alle credenze di rottura.

 

Il coinvolgimento romantico durante la giovane età adulta (18-29 anni) comporta, tipicamente, la costruzione e la dissoluzione di molteplici tipologie di relazioni, ciascuna con un diverso grado di emotività, intimità sessuale e impegno (Boisvert & Poulin, 2016).

La giovane età adulta è una fase evolutiva caratterizzata da esplorazione (dell’amore, del lavoro, dell’identità) e le relazioni romantiche possono favorire o ostacolare tale processo. Durante questa fase, gli individui coordinano i propri obiettivi di sviluppo individuale (ad esempio, completare la propria formazione, iniziare una carriera, consolidare un senso di identità), con la ricerca di relazioni intime (Arnett, 2015). Questo crea una tensione di sviluppo unica, poiché cercano di bilanciare l’indipendenza con l’interdipendenza (Shulman & Connolly, 2013). Questo equilibrio è influenzato non solo dal cambiamento delle priorità per l’individuo, ma anche dal cambiamento dei contesti legati alla scuola e al lavoro.

Le relazioni romantiche sono vantaggiose per lo sviluppo quando promuovono la crescita individuale e aiutano ad affrontare le sfide dello sviluppo. Poiché i giovani adulti sperimentano le transizioni chiave dello sviluppo in molteplici ambiti della vita, la capacità di coordinare le aspirazioni individuali e i piani di vita con quelli dei partner romantici è necessaria per gli adulti emergenti per formare relazioni durature (Shulman & Connolly, 2013) e sviluppare l’intimità romantica (Shulman, Scharf, Livne, & Barr, 2013).

Senza una visione condivisa del futuro, o in presenza di barriere logistiche o temporali che impediscono di fare piani di vita comuni, gli adulti emergenti, Secondo Norona et al. (2017), porranno fine alla loro relazione: ad esempio potrebbero aver bisogno di chiudere una relazione per perseguire obiettivi professionali o di studio senza essere ostacolati da partner incompatibili. Tuttavia, il processo di rottura è complesso e comporta molteplici fasi e decisioni sia cognitive che interpersonali.

Un passo fondamentale nel processo di dissoluzione della relazione è riconoscere che una relazione deve finire (Battaglia et al., 1998; Baxter, 1984) ed è importante sapere quando rompere. I giovani adulti spesso terminano le relazioni romantiche a causa del bisogno insoddisfatto di interdipendenza o di indipendenza (Norona et al., 2017). Quindi, parte della fine delle relazioni è la consapevolezza dei propri bisogni e desideri e la capacità di valutare se sono soddisfatti nell’attuale rapporto di coppia.

Una volta presa la decisione, devono essere in grado di portare a termine la rottura in modo efficace e appropriato. L’incapacità di essere chiari e diretti quando si rompe può contribuire a confondere lo stato della relazione. È importante anche essere in grado di evitare di ritardare la rottura: se questo accade, possono entrare in uno schema di scivolamento della relazione che accumula vincoli, sostenendo così una relazione indesiderata, come ad esempio una casa condivisa, un animale domestico condiviso, e così via (Stanley, Rhoades, & Markman, 2006).

Infine, quando ci si trova nella condizione di subire la rottura, invece che di deciderla, si deve essere in grado di accettarla (Baxter, 1984). Come altri aspetti dello sviluppo romantico dei giovani adulti (ad esempio, l’atteggiamento verso il coinvolgimento romantico, la capacità di risolvere i conflitti e i modelli di interazione con i partner romantici), le capacità di rottura possono essere influenzate dalle caratteristiche individuali e dalle esperienze romantiche.

Un recente studio (Beckmeyer, J. & Jamison, T., 2019) ha voluto esplorare le credenze dei giovani adulti circa la loro capacità di porre fine alle relazioni romantiche e di identificare quali caratteristiche di personalità e quali tipologie di esperienza romantica siano associate alle credenze di rottura.

I partecipanti (n=948) erano tutti di età compresa tra i 18 e i 29 anni. Le capacità di rottura dei partecipanti sono state misurate attraverso quattro item sviluppati appositamente per la presente ricerca, a cui potevano rispondere con un punteggio da 1 a 4, rispettivamente da non vera a vera: “Riesco a riconoscere quando è il momento di chiudere una relazione romantica”, “Posso chiudere rispettosamente un rapporto che non voglio più avere”, “Sono in grado di accettare un partner che mi dice di voler rompere con me”, “A volte rimango in una relazione più a lungo di quanto dovrei, perché non so come porvi fine”. Per quanto concerne le esperienze romantiche pregresse, gli autori hanno misurato tre aspetti, attraverso i quali hanno potuto classificare i partecipanti come: single, aventi relazioni occasionali, in una relazione romantica esclusiva, fidanzamento e matrimonio: “Quante relazioni romantiche hai avuto fino ad ora?”, “Da quando hai compiuto 18 anni, quante volte sei stata single?” (opzioni di risposta: da 1= mai, sono sempre stato coinvolto con qualcuno a 5= non sono mai stato coinvolto con nessuno), “Come descriveresti il tuo attuale stato di relazione sentimentale?”. E’ stata inoltre misurata l’auto-efficacia percepita dei giovani adulti attraverso la Generalized Self-Efficacy Scale, composta da 10 item (es. “Posso sempre riuscire a risolvere problemi difficili se mi impegno a fondo”) a cui potevano rispondere con un numero da 1 = non vero a 4 = estremamente vero: punteggi più alti corrispondono ad una maggiore autoefficacia. I 4 items della Brief Sensation Seeking Scale ha indagato la tendenza dei partecipanti a ricercare nuove sensazioni (es.“Mi piacciono le esperienze nuove ed emozionanti, anche se devo infrangere le regole”; opzioni di risposta: da 1= fortemente in disaccordo a 4= fortemente d’accordo).

I risultati hanno rivelato che la maggior parte dei partecipanti ha percepito di avere le capacità necessarie per porre fine alle relazioni sentimentali. Poco più della metà ha riferito di essere in grado di interrompere la relazione romantica tempestivamente, senza ritardarla. L’autoefficacia percepita e la ricerca di sensazioni nuove sono state entrambe associate positivamente all’essere sicuri di quando rompere. Coloro che erano impegnati in relazioni occasionali erano meno sicuri rispetto ai partecipanti single di sapere quando lasciarsi. Infine, la ricerca di sensazioni e il numero di relazioni romantiche nel corso della vita sono stati associati ad una maggiore tendenza a ritardare la rottura, mentre l’autoefficacia percepita si associa a una minore probabilità di ritardarla.

 

Che cos’è la ruminazione rabbiosa? – VIDEO

L’incontro, organizzato dal Centro Disturbi della Personalità CIP Modena, ha analizzato il fenomeno della ruminazione rabbiosa e fornito indicazioni di trattamento efficace. Per i nostri lettori, pubblichiamo il video dell’evento.

 

 La ruminazione è definita come un processo cognitivo caratterizzato da uno stile di pensiero disfunzionale e maladattivo che si focalizza principalmente sugli stati emotivi negativi interni e sulle loro conseguenze negative (Martino, Caselli, Ruggiero & Sassaroli, 2013).

La ruminazione rabbiosa è uno stile di pensiero perseverante relativo alle cause e alle conseguenze di un episodio che ha suscitato rabbia nel soggetto. Essa può essere mantenuta da specifiche convinzioni dell’individuo sui propri pensieri e sulle proprie capacità di gestirli.

La ruminazione rabbiosa svolge un ruolo centrale nel mantenimento di emozioni negative, il concentrarsi sugli episodi che hanno indotto rabbia, non fa altro che mantenere e incrementare la rabbia stessa, gli effetti negativi e la sofferenza interferendo con il benessere psicologico dell’individuo.

Pubblichiamo oggi, per i lettori di State of Mind, il video dell’incontro “Che cos’è la ruminazione rabbiosa?”, condotto dalla Dott.ssa Alessia Offredi che ha analizzato il fenomeno della ruminazione rabbiosa, fornendo inoltre indicazioni di trattamento efficace.

 

CHE COS’E’ LA RUMINAZIONE RABBIOSA? – Guarda il video integrale del webinar:

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Storie in comunità – Fatica a credito: storie parziali di dipendenza patologica

Come mai una persona che ha fatto esperienza delle privazioni a cui porta la dipendenza patologica, che ha capito che per fare solo quella cosa deve rinunciare a tutte le altre e a tutti gli altri: come mai continua a drogarsi?

FATICA A CREDITO: STORIE PARZIALI DI DIPENDENZA PATOLOGICA – (Nr. 5) Storie in comunità

 

Ben oltre le idee di giusto e sbagliato c’è un campo.
Ti aspetterò là.
(Rumi, 1258)

 

Così come in un campo da tennis ogni giocatore ha infinite soluzioni in un campo definito, ognuno ha infiniti modi per contrarre una tossicodipendenza e infiniti modi per affrontarla o curarla.

In alcuni casi il primo contatto con una sostanza può essere del tutto accidentale se non frutto di sventura, in altri casi può essere una consapevole ricerca di esperienze, in altri ancora una semplice soluzione alla timidezza, può essere un incontro genetico o un tentativo paradossale di ribellione adolescenziale, può essere la migliore alternativa alla follia o l’unica sensazione di calore a disposizione dopo la propria nascita.

Se siamo tutti in cerchio e uno di noi propone di fumare una canna (a differenza dell’oppio, i cannabinoidi fanno desiderare di condividere l’esperienza con qualcuno) la persona prima di me potrebbe essere decisiva per la mia scelta di fumare oppure no e, allo stesso tempo, io potrei essere decisivo per colui che sta dopo di me. Nel caso in cui il mio vicino decida di non fumare, per me sarà molto più facile accodarmi a lui, è molto meno faticoso condividere una decisione che doverla prendere.

Come direbbe un professore di fisica: se c’è un vuoto, prima o poi arriva qualcosa che lo riempie.

La possibilità di ricostruire storie personali complesse o traumatiche nei pazienti tossicodipendenti è molto frequente, esperienze evolutive disorganizzate e caotiche non sono rare. Si riscontrano, però, anche contesti familiari da manuale in cui la droga ha finito per addentrarsi ugualmente, relazioni nelle quali ai figli è stato dato tutto tranne ciò che loro volevano veramente, oppure rapporti in cui i comportamenti reciproci si sono intesi ma non spiegati.

Vi possono essere contesti iperprotettivi che non hanno permesso ai fallimenti di favorire la costruzione di una identità capace di affrontarli, che hanno impedito l’acquisizione di quelle risorse che generano un senso di autoefficacia personale, che hanno fatto sentire la persona sola, quando doveva rialzarsi da sola.

Spesso raccontiamo ambienti che hanno privilegiato il far vedere piuttosto che il guardare, il confessare piuttosto che il condividere, la paura come dimostrazione di rispetto, la sottomissione come sinonimo di vicinanza e il silenzio come scappatoia all’incomprensione.

Se l’incontro con le sostanze stupefacenti può essere difficile da rilevare e, anche quando individuato, povero di informazioni salienti, il mantenimento della dipendenza patologica presenta delle caratteristiche che possono essere descritte con più precisione e utilità.

Come mai una persona che ha fatto esperienza delle privazioni a cui porta la dipendenza patologica, che ha ricevuto ripetutamente conseguenze punitive dall’uso di sostanze, che ha perso amici, famiglia, amore, lavoro, credibilità, dignità, che è stato in carcere, che ha dormito per strada, che non prova più neanche il piacere di una volta, che impiega ore a rintracciare una vena nel suo corpo, che ha capito che per fare solo quella cosa deve rinunciare a tutte le altre e a tutti gli altri: come mai continua a drogarsi?

Nessuno stupido si avvicinerebbe al fuoco dopo aver capito che scotta. Nessuno tranne chi ha un valido motivo per bruciarsi
(A. Einstein)

Innanzitutto capire non significa guarire, il fatto che un individuo capisca le fonti della sua sofferenza non lo porta a smettere di provarla, inoltre il motivo per cui un tossicodipendente si droga o un alcolista beve quando lo incontriamo, non è lo stesso per cui ha iniziato a drogarsi o a bere.

A differenza di quanto accade con altre patologie, il tossicodipendente non ci racconta un problema ma una soluzione.

Giovanni

Tutte le volte che Giovanni andava al bar, impiegava ore per pettinarsi e scegliere i vestiti, lo faceva perché sapeva di incontrare Iris, la sua coetanea di 18 anni alla quale tentava di presentarsi da tutta l’estate.

Ogni giorno, davanti allo specchio, preparava le parole e i gesti con cui avrebbe recitato la sua parte e, anche se incontrava delle difficoltà nel prevedere le risposte che Iris gli avrebbe dato, alla fine lo specchio acconsentiva sempre ad uscire con lui.

Giovanni aveva anche cercato di recitare il copione con sua madre, ma lei non era mai sufficientemente viva per essere in contatto con lui e le battute non sarebbero state realistiche.

Quando era un appassionato di puzzle passavo molto tempo in cucina mentre sua madre preparava la cena. Giovanni era molto bravo ed era arrivato a concludere quelli da 1000 pezzi.

La cosa migliore che poteva capitargli era che sua madre fosse proprio lì con lui mentre incastrava l’ultimo tassello dell’immagine, la gioia doveva arrivare dal suo stupore per la bravura di Giovanni e non dalla fine del puzzle.

Ma non riusciva a distrarla dai fornelli, lei girava il sugo e lo invitava a togliere tutto per apparecchiare. Quell’immagine di San Pietro ritornava in 1000 pezzi, come lui.

La madre di Giovanni non aveva più spazio per altre parole, non aveva più accesso al suo cervello e al suo cuore, era una routine umana di azioni consequenziali che dovevano portarla al termine di ogni giornata. Non evitava più le possibili deviazioni di programma, semplicemente non le percepiva, il suo comportamento era identico con qualsiasi circostanza perché le circostanze l’avevano distrutta.

Quella donna aveva smesso di ricevere un sentimento troppo presto nella sua vita, per un pò aveva cercato di rimediarne qualche briciola in modo caotico e poi aveva concluso che il niente è meglio del poco.

Suo padre riusciva a guardarla solo quando era girata di spalle, come se potesse tollerare la sua presenza solo se lei dava l’impressione di allontanarsi. La strategia di guardare quella donna solo di spalle non era però sufficiente a placarlo, infatti, per farsi del male, gli bastava chiudere i suoi di occhi.

Era in quel momento che sentiva una specie di incendio nelle tempie, un frullatore di lava che creava immagini devastanti, una specie di eruzione vulcanica che si riproduceva anche sulla sua cute.

Aveva bisogno di raffreddare tutto quel calore con tipi diversi di alcolici, pensava che se avesse usato sempre la stessa bevanda, il dolore avrebbe trovato un modo per non spegnersi, come una malattia che sconfigge una stessa medicina che si assume da troppo tempo.

Questo alimentava, fomentava sempre di più l’odio di Giovanni per l’alcol e per gli alcolisti.

Giovanni non aveva mai fatto le prove per corteggiare Iris davanti a suo padre, non gli aveva mai chiesto alcun suggerimento, di lui aveva paura, lo odiava e ne aveva paura.

Aveva paura quando suo padre tornava a casa strisciando i piedi sul pavimento di marmo, si svegliava quando sentiva le chiavi di casa cadere a terra e poi coordinava le palpebre con i suoi passi per farsi trovare con gli occhi chiusi.

Quando entrava in camera il respiro di Giovanni non coincideva con il tentativo di fingere un sonno profondo, ma il padre non se ne accorgeva, per questo poteva cavarsela con una pesante carezza alla testa ed un odore di vino di pessima qualità.

Giovanni odiava l’alcol e soprattutto gli alcolisti.

Una volta decise che avrebbe portato tutto il teatro fatto davanti allo specchio per chiedere ad Iris di uscire nel mondo reale e si recò dopo cena, a digiuno, al solito bar per aspettarla.

L’ansia che aveva in corpo rendeva il caldo ancora più insopportabile, il difetto di competenza in campo femminile era coerente con i suoi 18 anni, ma quei torrenti di sudore che gli scendevano dalle tempie lo rendevano così nervoso da obbligarlo a sforzi inauditi per non scappare.

Erano le 20.00 e Iris non si sarebbe fatta viva prima delle 22.00, Giovanni era già alla decima sigaretta del pacchetto nuovo che aveva rubato alla madre prima di uscire.

Anche la reazione che avrebbe avuto sua madre non trovando le sigarette lo preoccupava particolarmente, ma cercava di rimanere concentrato sul discorso che aveva preparato per Iris.

Quando si prova ansia per qualcosa la nostra attenzione selettiva tende a vedere quel qualcosa ovunque, per questo Giovanni si accorgeva che intorno a lui ogni ragazzo, anche quello più brutto, riusciva a parlare con un ragazza come se fosse la cosa più facile del mondo.

Sentiva tutte le persone presenti osservare solo lui, come un pubblico in attesa del primo Atto e si asciugava le mani strofinandole sui pantaloni. Si guardava intorno, lanciava occhiate al barista che da dietro il bancone sembrava deridere tutta la paura che stava perlustrando il cervello di Giovanni.

Quel bicchiere di vino bianco, che aveva ordinato quasi senza accorgersene, lo aveva bevuto troppo velocemente e così ne prese un altro.

Il suo stomaco non aveva cibo utile a metabolizzare comodamente i due bicchieri che aveva bevuto, e l’alcol non trovò ostacoli fino ad arrivare rapidamente al cervello e fungere da ottimo ansiolitico. Quando arrivò Iris ebbe comunque un sussulto, ma si sorprese mentre pronunciava con una specie di sorriso: —Piacere Giovanni— tendendole la mano.

La strategia dei due bicchieri di vino prima di riuscire finalmente a presentarsi ad Iris, non fu né pianificata né consapevole, non l’aveva neanche mai ipotizzata quando faceva le prove davanti allo specchio, fu solo una cosa che funzionò, per questo Giovanni la ripeteva ogni volta che usciva con Iris, si sentiva semplicemente meglio quando beveva.

Nei primi anni della loro relazione, Iris non si accorse che l’alcol era troppo presente nella vita di Giovanni e anche a lui quel bicchiere sembrava solo un luogo in cui far terminare la sua mano.

Quando lei lo lasciò, Giovanni non vide altre soluzioni possibili.

Domenico

Domenico faceva uso di sostanze da circa 20 anni, era stato pulito (è interessante che in gergo si usi il termine “pulito” per riferirsi al periodo in cui una persona non fa uso di sostanze, come se nella fase in cui le sostanze si usano si dovesse usare il termine “sporco”) quando decideva di assumere regolarmente la terapia metadonica e, per qualche anno, quando il carcere aveva reso più complicata la reperibilità dell’eroina. Il breve piacere che, ormai, la droga gli concedeva era anticipato da una lunga ricerca per una vena disponibile nello stradario del suo corpo e, negli ultimi mesi, era costretto a guardarsi allo specchio mentre gonfiava la giugulare.

Quando parlava dei suoi 18 anni e della sua iniziazione all’eroina, lo faceva come se non raccontasse se stesso ma un qualsiasi ragazzo degli anni ’90, forse timido e poco attraente, forse impacciato con gli altri, forse poco interessato a ciò che gli capitava intorno, forse poco capace di dare parole alle proprie emozioni, forse terrorizzato di esprimere i propri desideri ai genitori o forse privo di desideri.

Non c’erano state particolari esperienze traumatiche nella sua vita, nulla di ciò che è comune rilevare nella vita di altri uomini.

Aveva smesso di usare i traumi della vita come alibi per giustificare la sua tossicodipendenza, era capace di riconoscere come la maggior parte degli esseri viventi che soffrono non si drogano.

Aveva ascoltato da molte persone la teoria secondo cui la tossicodipendenza deriva da una qualche fragilità interiore, e non aveva mai trovato una coerenza tra le azioni che era stato capace di fare, i luoghi in cui era sopravvissuto e la fragilità. Domenico comprendeva come la forza di volontà può essere un elemento fondamentale ma può non essere sufficiente per raggiungere un obbiettivo, si rendeva conto che la volontà ha un andamento altalenante mentre il desiderio procede in modo costante e, quindi, è necessaria una disciplina precisa e una valida motivazione per affrontarlo.

Non riusciva a rassegnarsi al fatto che l’impegno non garantisce il successo, che spesso le persone fanno fatica a credito, senza sapere a priori se sarà ripagata.

Ognuno ha una parte di sé a cui piace una cosa che non può fare, ognuno ha desideri che deve ridurre a rimpianti e non a ricordi.

Questo non è facile, soprattutto quando i desideri si trasformano in necessità.

Negli ultimi mesi, prima di iniziare un percorso terapeutico in Comunità, aveva smesso di raccontarsi le ricadute nell’uso di eroina come una cosa che gli capitava, come se fosse possibile, per una persona che si droga da 20 anni, drogarsi per caso.

Sapeva che ogni accenno di astinenza che il suo corpo produceva, terminava già quando decideva di andare a comprare la droga e non quando se la iniettava, tutte quelle sensazioni somatiche cessavano dal momento in cui ce l’aveva in tasca e non in corpo, era come se sentisse la mancanza di qualcosa e non la necessità di aggiungere qualcosa.

Quando parlavamo ci addentravamo spesso in una contraddizione, da una parte era stanco di continuare a fare uso di eroina, era quasi arrabbiato con lei perché non riusciva più a dargli i piaceri di una volta, voleva lasciarla non come si fa con una moglie che ti tradisce ma con una moglie che non ami più anche se le vuoi molto bene, è stata molto buona con te e non vuoi farla soffrire.

Dall’altra parte, quando si immaginava senza eroina, cadeva nel panico, come quando vuoi lasciare una moglie che non ami più, a cui vuoi molto bene, che è stata molto buona con te, che non vuoi far soffrire e con cui stai da vent’anni.

Doveva anche fare i conti con il fatto che lasciarsi a vent’anni è una cosa, lasciarsi a 48 un’altra, nessuno si può costruire un passato migliore e anche se cerchi di venderlo ricamato di orpelli o di bugie, difficilmente qualcuno accetterà di comprarlo senza un’accurata verifica.

Quando Domenico si confrontava con altro paziente più giovane, si sentiva dire: — Con un lavoro, una brava ragazza e una casa sarebbe stato più facile smettere di drogarsi.

Domenico gli rispondeva: —Secondo te se una è una brava ragazza si mette con te?— e non si dilungava troppo in questi discorsi con lui, forse per non distruggergli anche queste illusioni.

Non gli diceva che si era drogato anche quando viveva con una donna in una casa tutta sua e andava al lavoro tutte le mattine, che l’unica differenza era che aveva uno stipendio e quindi non doveva sbattersi più di tanto per rimediare i soldi per la sua dose.

Non è una questione di avere delle cose ma di capire cosa ti manca, non dipende dagli appigli che non trovi ma dal saper gestire la caduta, è come se ci fosse un’assenza dentro di te.

Gli argomenti che Domenico preferiva riguardavano gli aspetti paradossali della tossicodipendenza.

Si stupiva quando si accorgeva di tutte le volte che chiedeva un aiuto per smettere e contemporaneamente sabotava la cura, ascoltava i suggerimenti che riceveva per non seguirli e lamentarsi del fatto che non funzionavano, scagliandosi contro chi glieli aveva proposti.

Si ricordava di tutte le volte in cui, rivendicando il suo diritto di essere una persona indipendente, aveva chiesto ad altri di fare le cose al posto suo, si era reso ricattabile o si era venduto per pochi spiccioli.

Con una contrariata ironia ripeteva alcune frasi che aveva detto negli anni: — Dottore oggi vi ho fatto le urine pulite —, oppure se l’infermiere gli chiedeva: — Domenico come sono le urine oggi? — lui rispondeva: — Non lo so…— oppure: — Gialle….

E’ facile credere di aver fatto una cosa solo se qualcun altro se ne accorge, è possibile alleviare il proprio senso di colpa o la propria vergogna con maggiore semplicità se nessuno ci ha visto compiere l’infrazione, allo stesso modo Domenico riusciva a convincersi di essersi drogato solo se qualcuno lo beccava, come se il reato esistesse solo in flagranza.

Probabilmente questo dipende anche dall’aver relegato un impulso o una compulsione, come l’atto di drogarsi, prevalentemente dentro la sfera della volontarietà, dipende dalla difficoltà ad accettare che gli esseri umani possono sentirsi obbligati a fare cose che non vogliono fare, che a volte il conflitto è tra te e te e per amor proprio ti lamenti con gli altri.

Anche quando facciamo delle promesse a noi stessi o ad altri può capitarci di non essere capaci di mantenerle, non per questo mentivamo quando le abbiamo fatte. Una moglie che non ama più suo marito dopo anni di matrimonio, non necessariamente stava mentendo quando sull’altare prometteva il fatidico finché morte non ci separi, la vita è una precarietà con cui si convive.

Domenico non voleva essere un tossicodipendente, voleva drogarsi, voleva intenzionalmente e consapevolmente usare eroina, voleva un’azione senza conseguenze, una scelta senza rinuncia, voleva un amico per stare da solo.

La cosa più difficile da abbandonare per un uomo è quella che, alla fine, in realtà non vuole
(Camus, 1935)

Anche questo sembrava paradossale, lo rendeva una persona adulta che si atteggiava da adolescente o, viceversa, un adolescente che aveva le sembianze di un adulto.

Questa assenza di sincronia tra le sue intenzioni e le sue azioni era pienamente rilevabile dopo una conversazione di pochi minuti, a volte era anche destabilizzante per il suo interlocutore perché non si capiva con quale parte di Domenico si stesse parlando.

Io cercavo di unire i suoi frammenti e speravo che l’immagine che ne sarebbe scaturita avesse un senso, altrimenti per lui sarebbe stata altra fatica a credito.

Alessandro

L’argomento preferito di Alessandro era la spiegazione neurobiologica dell’effetto delle sostanze stupefacenti sul cervello.

Durante i gruppi terapeutici in Comunità gli piaceva guardare il disegno del cervello umano sulla lavagna e vedere le aree coinvolte e danneggiate dall’uso delle droghe.

Forse per lui era rassicurante apprendere che la sua impulsività, la sua difficoltà a prestare attenzione all’ambiente circostante, la labilità con cui restava ancorato ad un obiettivo, potevano avere una spiegazione alternativa alla colpa o alla mancanza di impegno, potevano essere descritte e affrontate anche in modo descrittivo e pragmatico.

Per me non era tanto importante che lui sapesse come funzionava il cervello di una persona che fa uso di droghe, quanto che si rendesse conto che io lo sapevo.

Ritengo utile descrivere come funziona una dipendenza patologica anche dal punto di vista neurobiologico perché, con queste informazioni, il paziente può oggettivarla e tentare di identificarla come qualcosa di esterno a se stesso, può affrontarla come qualcosa che ha e non come qualcosa che è, può prendere le distanze da una condizione invece che essere lui stesso la condizione, specialmente nel caso di una patologia così totalizzante come la dipendenza patologica.

Impegnarsi nel definire un obiettivo concreto e avere un piano per raggiungerlo è una strategia di cambiamento utile, mentre quando si combatte contro se stessi non si hanno alternative alla sconfitta, per definizione perde l’io o perde il me.

Una persona che è stata resa consapevole di se stessa attraverso le domande che le sono state fatte si trova in una posizione migliore per predire e controllare il suo stesso comportamento. (Skinner, 1953)

Alessandro era giovane, aveva 23 anni, ma ne aveva passati circa la metà in Strutture psichiatriche o per tossicodipendenti: prima perché la sua impulsività doveva in qualche modo essere attenuata, poi perché aveva scoperto che alcuni prodotti anfetaminici lo avevano tranquillizzato ma reso confuso e infine quando oppiacei e stimolanti lo avevano fatto smettere di calmarsi solo procurandosi dolore fisico.

Era talmente abituato ad essere in cura che preferiva relazionarsi esclusivamente da malato.

Il poliabuso di sostanze gli aveva permesso sia una continuità nell’uso di droghe sia una fuorviante immunità alle crisi astinenziali.

Il suo concetto di sé era così liquido da non consentirgli nemmeno di legarsi ad una sostanza, Alessandro non cercava un certo tipo di sensazione, cercava una sensazione, cercava un rumore che sospendesse il suono di pensieri caotici.

Provava la stessa angoscia di chi deve percorrere un corridoio buio sapendo che sul pavimento sono disposti casualmente dei pezzi di vetro.

Provava la stessa vergogna di chi viene spiato nei momenti più intimi e, per lui, ogni momento era un momento intimo, credeva che ogni sua emozione sarebbe stata divorata dagli altri, che ogni suo pensiero e ogni sua azione sarebbero stati interpretati come sintomi di una patologia o di un difetto psichiatrico.

Il suo funzionamento generale non era così diverso dai suoi coetanei, voleva delle cose ma non sapeva quali, voleva essere capito ma non si sapeva spiegare, voleva creare una realtà virtuale in cui il passato è solo quello che scrivi su uno schermo, voleva una relazione con gli altri ma distanti, senza quelle rischiose implicazioni dal vivo che ti fanno rischiare di soffrire. Per Alessandro non fu facile abituarsi all’idea che sono proprio quelle implicazioni che tanto temeva a rendere le relazioni con gli altri vere, non reali, ma vere.

Una relazione virtuale può essere reale, dal momento che esiste e si può oggettivare, ma è più facile non sentire una cosa reale che una cosa vera.

Posso non provare nulla per la realtà che accade in questo momento in Siria, ma dal momento in cui quel Siriano è vicino a me e diventa vero, le cose cambiano, inizio a provare emozioni contraddittorie, a fare pensieri che non mi aspettavo di fare, a sentirmi coinvolto.

Alessandro cercava in tutti i modi di non essere coinvolto, e a volte ci riusciva, il problema emergeva quando desiderava la vicinanza di qualcuno. Questo aspetto si presentava in modo evidente con i suoi genitori, loro lo amavano e avevano fatto tutto quello che potevano per aiutarlo a stare meglio, anche tutti gli errori necessari per capirsi di più, avevano anche smesso di essere in conflitto con lui smettendo di averne paura, però volevano starci insieme senza stare con lui.

Noi vogliamo che Alessandro stia bene, però dopo non si curerebbe più. Vogliamo smettere di controllarlo ma non riusciamo a fidarci di lui. Abbiamo paura di non controllarlo perché potremmo non accorgerci se sta male e quindi non intervenire in tempo. E’ quando sta bene che abbiamo più paura di illuderci.

I suoi genitori erano in balia di quel paradosso interiore che noi umani proviamo quando amiamo qualcuno e contemporaneamente odiamo tutto quello che fa.

Allo stesso tempo Alessandro esercitava un notevole controllo sui suoi genitori facendoli stare continuamente preoccupati per lui. In realtà, nonostante si lamentasse quando loro limitavano la sua libertà, era rassicurato dal fatto che loro fossero preoccupati per lui, perché temeva che in caso contrario lo avrebbero dimenticato.

Se io non creo problemi, o almeno non gli faccio pensare che potrei crearli, loro si dedicherebbero ad altro e non a me, non avrebbero motivo per occuparsi di me.

Il cervello deve selezionare l’informazione saliente e forse questo è riflesso nel fatto che ricevere attenzione genera sensazioni di autostima, Alessandro pensava di poter ricevere attenzione solo, o prevalentemente, creando potenziali pericoli, doveva tenere gli altri in allerta.

Quando andava a prendere un caffè al bar, si faceva sempre accompagnare dal suo sguardo torvo e dal suo Pittbul, era connesso telepaticamente con il suo cane e tramite lui controllava l’ambiente circostante, otteneva la rassicurazione di essere guardato dagli altri con timore, di essere evitato non perché sbagliato ma perché pericoloso. E’ come quando ci si veste in modo bizzarro per non passare inosservati e contemporaneamente non essere importunati, per essere giudicati subito e al primo sguardo, per evitare l’insopportabile stress di sentirsi sotto esame, per eliminare l’estenuante tentativo di farsi conoscere.

Ero tornato a Sara da tre giorni, ma avevo già postulato la Prima Legge dell’Eccentricità di Noonan: quando sei da solo, un comportamento strano non è più strano per niente. (King. 1998)

Alcuni esseri umani tendono a definirsi per antitesi, sentono di esistere quando sono in contrasto con qualcos’altro o con qualcun altro, per tenersi in piedi devono appoggiarsi alla stessa colonna che vorrebbero distruggere.

Fu molto difficile far cadere Alessandro, fargli abbandonare il dolore che lo proteggeva, fargli accettare di essere capace di tollerare le potenziali ferite della realtà e non soltanto quelle evidenti delle bruciature di sigaretta o dei suoi tagli sull’avambraccio.

Gradualmente sostituì l’idea di essere sbagliato con quella di essere assemblato male.

Mi sono accorto che se mi guardo tutto insieme non vado bene, mentre se mi prendo pezzetto per pezzetto ci sono delle cose che possono andare. Se mi guardo come un concatenamento di comportamenti diretti verso un desiderio, come dici tu, posso provare ad assemblarmi meglio, a fare in modo che mi portino da qualche parte.
Devo scegliere una direzione non una destinazione.

Marco

Marco aveva imparato molto presto che non basta amare per essere amati.

Aveva sperimentato sulla sua pelle che l’amore è indipendente da ciò che fai per qualcuno, che per quanto ti impegni per stare con una persona lei può non desiderare di stare con te, che anche l’amore biologico può essere incomprensibile, che se tua madre ti sgrida pensi di essere una persona cattiva e non di esserti comportato male.

Quando conoscevi Marco non potevi fare a meno di evitarlo, era così che ti controllava.

Quando ti permetteva di ascoltarlo eri invaso da un’angoscia opprimente, quella tipica angoscia che provi quando ti rendi conto della tua impotenza, quella tipica angoscia che provi quando qualcuno non ti minaccia dicendoti — O fai come dico io o ti ammazzo — ma quando qualcuno ti dice — O fai come dico io o mi ammazzo

Iniziava facendoti vedere le sue profonde cicatrici, quella sul viso che si era procurato a tre anni frantumando una vetrata, quella sulla spalla e sul torace che servivano a dimostrarti le impavide corse in moto, quelle evidenti lungo le vene di ogni parte del corpo in cui aveva infilato aghi da 5ml.

Se non riusciva ad impressionarti così, o se tu eri capace di tollerare questa esibizione, iniziava con i racconti.

Tutte le volte che era stato abile ad eludere i più severi controlli anti droga, tutte le volte che aveva scavalcato le più rigide restrizioni che gli venivano imposte, tutte le volte che aveva dimostrato un totale disinteresse per la possibilità di morire.

Si vantava tristemente di come nessuno fosse mai riuscito a farlo smettere di fare uso di sostanze, delle punizioni che aveva sopportato con onore e senza mai piegarsi, si gonfiava il petto quando ripeteva che nessun castigo gli aveva mai fatto cambiare idea.

Dopodiché sperava in un rassicurante: non possiamo fare niente per te.

Dal momento che io mi ero limitato ad osservare con lieve stupore come parlava e non cosa diceva, Marco iniziava a cercare le mie cattive intenzioni e dedicava il suo tempo a farmi provocatorie allusioni.

Chissà quanto ci guadagni con tutti questi tossici….Non penserai che io farò certe cose per te…..Guarda che là fuori io ci vivo senza problemi…..Tu che ne sai di come funziona… A te è andato tutto bene….Al massimo c’hai 5 anni più di me…Ti pare di essere capace di dare una mano a qualcuno….A me non mi cambi…

Se superavi anche questo test senza andartene, iniziavi a percepire quanto fosse complicato per Marco gestire la sola presenza di qualcuno accanto a lui, era più facile capire che quando diceva di essere costretto a chiedere un aiuto, in realtà era terrorizzato dall’eventualità di non saperlo ricevere.

Quando affermava — Lasciami perdere…— aveva una postura da spaccone che non coincideva con il tono della sua voce, non capivi se il senso di quelle parole era di lasciarlo in pace oppure di lasciare che perdesse.

Alcune persone considerano le relazioni umane come trattative, pensano che se qualcuno fa qualcosa per loro ci deve essere un prezzo da pagare, un debito da sostenere, utilizzano i sentimenti come moneta corrente, sono convinti che gli affetti debbano avere un riscontro oggettivo altrimenti sono stati sprecati, pensano che la gentilezza non possa essere di per sé gratificante per chi la esercita, ma sia un metodo per ricattare chi la riceve. Per alleviare il timore di Marco di contrarre un debito con me, precisai che il mio eventuale contributo terapeutico nei suoi confronti prevedeva uno stipendio e che non avevo alcuna intenzione, né voglia, di dedicarmi ai suoi problemi gratuitamente.

Quando Marco andava a scuola riusciva a tollerare di stare seduto per un massimo di 10 minuti, successivamente doveva, in modo incoercibile, esprimere la sua iperattività.

Senza riconoscere di provare un misto di entusiasmo e vergogna, saltava da un banco all’altro, derideva i compagni, appoggiava i gomiti sulla cattedra fissando negli occhi la professoressa e produceva suoni cacofonici con la voce.

Questo comportamento gli permetteva di interrompere gli estenuanti tentativi del suo insegnante di sostegno per farlo restare in classe, gli consentiva di uscire nei corridoi della scuola, di poter correre e continuare a fare casino in uno spazio più ampio.

Per Marco ogni luogo era troppo stretto, si sentiva come costretto all’interno della circonferenza del mondo.

Quando lo legavano alla sedia, i suoi piedi continuavano a battere sul pavimento non per paura, i suoi occhi battevano frequentemente le palpebre non per trattenere le lacrime, era solo che non riusciva a stare fermo.

Verso i 15 anni, non solo si accorse che quando non poteva dare libero sfogo ai suoi movimenti stava male, ma che quando lo faceva non stava bene come sperava.

E’ come quando tolgono le manette ad un detenuto, il piacere deriva dalla soppressione di una costrizione, è conseguente all’eliminazione di un fastidio e non all’aggiunta di una comodità, il sollievo produce piacere come il conforto allevia il dolore.

Gli esseri umani continuano a mettere in atto un comportamento non solo quando, come conseguenza ad esso, ottengono una gratificazione, ma anche quando ad un comportamento segue la cessazione di uno stimolo sgradevole. Nella psicologia operante, un comportamento può essere rinforzato da una conseguenza che consiste in qualcosa che viene rimosso: in questo caso il rinforzo consiste in qualcosa che viene rimosso. Quando un comportamento aumenta perché qualcosa viene rimosso parliamo di rinforzo negativo. Il rinforzo negativo aumenta la probabilità di un determinato comportamento.

Marco era appena maggiorenne quando iniziò ad usare eroina per via endovenosa, l’oppiaceo gli regalava una momentanea interruzione della rissa tra le sue sinapsi.

L’effetto dell’eroina però non aveva una durata soddisfacente, soprattutto perché la voracità di Marco ne favorì una rapida tolleranza, la cocaina invece risultò da subito il pezzo mancante e dedicarsi completamente a lei fu un passaggio automatico. Marco aveva utilizzato in modo continuativo eroina per via endovenosa, perciò quando passò alla cocaina replicò rapidamente, se non immediatamente, la stessa modalità iniettiva.

Poiché gli effetti della cocaina duravano molto meno rispetto a quelli dell’eroina, Marco doveva iniettarsi quasi incessantemente la sostanza stimolante, procurandosi anche bruciature ed ustioni sottocutanee, fori all’inguine ed ulteriori danni organici.

Quando Marco utilizzava eroina l’impulso ad assumere la sostanza aveva un andamento ondulatorio, attraversava momenti in cui il dilemma, pur nella sua costanza, era quasi gestibile, notava che già l’atto di decidere di andare ad acquistare la dose alleviava la sua tensione somatica, poteva anche rimandare l’assunzione dell’eroina dopo averla comprata, senza insopportabili sofferenze.

Questo non gli accadeva con la cocaina, l’impulso ad assumere la sostanza aveva le caratteristiche dell’urgenza, non sarebbe mai riuscito a rimandarne l’utilizzo una volta acquistata né a non iniettarsi tutta la quantità che possedeva.

Spesso Marco si accorgeva di aver deciso di comprare la cocaina solo dopo averla utilizzata. Come per altre persone che compiono uno switch dall’eroina alla cocaina, anche per Marco si evidenziò un peggioramento psicofisico e un diverso modo di affrontare l’astinenza.

L’eroina bussava incessantemente alla porta con le falangi delle dita e, a volte, Marco riusciva a non farci caso, ad esempio alzando il volume della TV, parlando voce alta o litigando con qualcuno.

La cocaina, invece, era come Jack Torrance:

Cappuccetto rosso? Cappuccetto rosso? Su, apri la porta. Su, apri! Non hai sentito il mio toc, toc, toc? Allora vuoi che soffi? Vuoi che faccio puff? Allora devo aprirla io la porta? Sono il lupo cattivo!. (King, 1977)

Gianluca

Gianluca era appena uscito da una Comunità Terapeutica di Palermo, a 960 Km di distanza dalla città in cui viveva.

Era alla sua decima ora di viaggio quando finalmente si trovò da solo nello scompartimento del treno e poté distendere le gambe sul sedile davanti al suo.

Il sollievo delle ginocchia fu breve perché fu costretto a ritirare rapidamente le gambe quando vide entrare un’altra persona appena salita sul treno.

La rapidità del suo gesto era determinata dal timore che fosse il controllore dato che lui era sprovvisto del biglietto. Stava già imprecando per il fatto di essere stato beccato a poche fermate dall’arrivo, quando alzò gli occhi e il sollievo lo pervase accorgendosi che era un altro semplice viaggiatore.

Rimise le gambe sul sedile e lo salutò.

Senta scusi io sono senza biglietto mi può dire dove posso cercare il controllore?

Gianluca rispose: —Lascia perdere il controllore per favore…

L’altro viaggiatore ascoltò la voce di sevizio comunicare che il treno avrebbe fatto una sosta di cinque minuti.

Forse faccio in tempo ad andare a fare il biglietto mi può dare un’occhiata alle valigie?

Certo, nessun problema, guarda però che secondo me non fai in tempo.

Il viaggiatore aveva terminato di ascoltare Gianluca fino a nessun problema e scese in fretta dal treno per adempiere al suo obbligo.

Pochi minuti e si sentì il fischietto del ferroviere che suggeriva a tutti di rientrare nel treno per evitare di rimanere a piedi.

Non vedendo tornare il viaggiatore, Gianluca osservò le valigie e pensò che quello non solo avrebbe perso il treno ma anche i bagagli, si compiacque con se stesso per averlo avvisato prima e senza attendere ulteriormente li prese e li gettò dal finestrino.

Tronfio si riaccomodò sul sedile, distese le gambe e si sentì come uno che aveva fatto una buona azione o almeno che era stato gentile, in fondo era merito suo se quello non aveva perso le sue cose, quasi riusciva a percepire il senso di riconoscenza che gli spettava.

Non fece in tempo a godersi questa sensazione da brava persona che il viaggiatore trafelato rientrò nello scompartimento, il biglietto convalidato in mano e il sorriso soddisfatto di chi rispetta le regole anche se nessuno le guarda.

Guardò Gianluca come per rivendicare il suo trionfo inaspettato poi sgranò gli occhi quando non vide le sue valigie.

Lo sguardo del viaggiatore scattava ripetutamente dalla faccia sbigottita di Gianluca al ripiano dal quale erano scomparsi i suoi bagagli, non parlava ma già così si capiva che cercava delle spiegazioni.

Il silenzio fu rotto da un — Pensavo che non saresti riuscito a risalire… e quindi io…..

Questa fu una delle prime storie che Gianluca raccontò.

Successivamente si dedicò a precisare i dettagli delle sue rapine e del modo elegante ed educato con cui le realizzava, dell’attenzione che prestava al suo abbigliamento prima di entrare negli appartamenti per non passare per un ladruncolo da quattro soldi.

Quella volta che era rimasto appeso ad una grondaia per alcune ore, quella in cui sbagliò appartamento ritrovandosi di fronte un arredamento più scarno di quello di casa sua, quella in cui la paura che aveva trasmesso alla signora lo fece desistere ed allontanarsi sconsolato.

Raccontando questi episodi otteneva sempre una certa ilarità in chi lo ascoltava, in questo modo si dava una professione, non quella del ladro ma quella del comico.

Anche quando si tentava di affrontare con lui eventi, ricordi o stati d’animo più dolorosi, Gianluca deviava sempre sugli stessi argomenti, continuava con gli stessi episodi le stesse storie.

Quando iniziava a parlare si impegnava per evitare i momenti di silenzio, i tempi morti di una conversazione, come quando si esce con una ragazza e si parla in continuazione per paura che alla prima pausa lei dirà che deve andare a casa.

Gianluca parlava, raccontava, scherzava, per farti restare lì con lui, perché se fosse rimasto in silenzio ti avrebbe dato l’occasione per distogliere l’attenzione, perché se ti avesse manifestato il suo dolore ti avrebbe annoiato e lo avresti evitato.

Perché si vergognava di dirti che a 8 anni restava sveglio quasi tutta la notte per verificare che suo padre tornasse a casa, che se squillava il telefono di solito era la polizia e non un amico che gli chiedeva di uscire, che sua madre cadeva troppo spesso dalle scale proprio quando in salotto trovava le bottiglie vuote. Si vergognava di dirti che quando andava a scuola doveva sottrarre la merenda a qualcuno non per golosità, che odiava tutto il mondo perché non gli aveva dato una lista di problemi normali ma solo una serie di giustificazioni per tutti i casini che si poteva permettere.

L’immaginazione è una qualità che è stata concessa all’uomo per compensarlo di ciò che egli non è, mentre il senso dell’umorismo gli è stato dato per consolarlo di quel che è. (Groucho Marx)

Quando Gianluca affermava con insolente certezza che, date le premesse della sua esistenza, non ci sarebbe potuto essere un epilogo migliore e che adesso, a 45 anni, c’erano poche cose da fare per avere una vita dignitosa, mi sembrava più tendenzioso che realista.

Sembrava che dicesse quelle cose per farsi contraddire, come quando dici a qualcuno che non ti vuole bene solo per farti dire che non è vero, che te ne vuole moltissimo.

Quando ti costringeva a prendere le decisioni al posto suo, sembrava intenzionato solo a costruirsi un nemico da attaccare, un colpevole delle scelte sbagliate su cui versare i propri rimpianti.

Era come uno che cerca nella faccia degli altri gli indizi per prendere una decisione giusta, la sua rabbia non deriva dal fatto che non li ottiene ma dal dubbio che li abbia interpretati male. Facciamo così quando l’obiettivo della nostra decisone non è possedere una delle alternative proposte dalla scelta ma avere qualcosa da condividere con qualcuno, quando la relazione deve avere un oggetto pratico come ponte altrimenti non c’è nulla che la unisce.

Gianluca il dolore lo aveva ricevuto gratis alla nascita, se ne era procurato altro da solo con le sue azioni e ne aveva procurato altrettanto agli altri, ora Gianluca sembrava un pendolo che oscillava tra rancore e senso di colpa.

Quando il dolore diventa un elemento costante della propria vita alcune persone smettono di sperare che svanisca, cercano solo di sospenderlo, di rubargli alcuni attimi di pausa.

Sono talmente immerse in quello stato di cose che non cercano di distrarre se stesse ma il dolore. Quando riescono a ritagliarsi uno spazio all’interno di un dolore costante esagerano, pensano di avere poco tempo per fare tutto quello che non hanno potuto fare e che tra un’attimo non avranno più tempo di fare.

Sentono lo scandire del tempo alimentare rabbia e urgenza, come quando hai fame e ti danno pochi secondi per mangiare, non ti gusti nulla, ingurgiti tutto, sei pieno, ma solo di rimpianti.

E quindi dovrei accettare il dolore?— chiedeva sarcastico e spaventato Gianluca alla fine di lunghe conversazioni.

No, per accettare una cosa devi avere anche la possibilità di non farlo. Si accetta un regalo perché puoi dire anche di no, per accettare devi avere la possibilità di rifiutare. Non si può accettare una cosa che non può non essere come è, non accettiamo che il cielo sereno è celeste, è così e basta.

Quando ci chiedono di accettare gli episodi drammatici della nostra vita, probabilmente, soffriamo più perché non siamo capaci di farlo che per gli episodi in sé, ci troviamo a fare i conti più con il nostro senso di incompetenza ad accettare che con l’evento doloroso.

Non posso accettare il dolore, posso accettare di portarlo con me, posso scegliere di essere più grande io invece che più piccolo lui.

Il dolore ti insegna molte cose, una delle più utili è che smetti di usarlo come giustificazione delle tue azioni.

Attraverso il dolore impari a non procurarne agli altri, a diventare una persona, a capire che non fare qualcosa a qualcuno è già sufficiente per essere altruisti.

Quello che il dolore non ti insegna, o almeno non riesce a farti capire, è che non ti proteggerà da altro dolore. Spesso pensiamo, o speriamo, che l’aver sofferto ci regali una certa immunità dalla sofferenza, crediamo che se un evento doloroso ha calpestato la nostra vita ci garantiamo una protezione da altri dolori.

Altre volte il dolore si esprime solo nelle sue conseguenze, cioè in un dialogo interno per disquisire se lo si merita o meno, diventa l’arma con cui combattere il proprio mondo, l’argomento con cui ci si presenta agli altri, il lamento che sopisce ogni ribellione. E’ in questo momento che il dolore diventa tutto ciò che hai da raccontare, lo spazio in cui arredare l’esistenza, il meridiano con cui scandire il tempo, diventa te.

Vi sono anche delle circostanze in cui il dolore è usato come esca, accade quando diamo per scontato che qualcuno ci soccorrerà o si sentirà obbligato a prestarci delle cure.

Oppure auspichiamo che la stessa persona o la stessa cosa che ci ha procurato un dolore, poi si senta colpevole e per redimersi si impegni anche ad alleviarcelo.

Quando soffriamo e nessuno se ne accorge ci rendiamo conto di un altro aspetto del dolore, cioè che può essere inutile, che non basta esibirlo per convincere gli altri a stare con noi.

Gianluca doveva scegliere se stare attaccato al suo dolore o se affrontare tutte le conseguenze che il dolore alimentava, tutte le protezioni che manteneva, tutte le giustificazioni che offriva.

Il dolore c’è, ma come ti comporti mentre ce l’hai può fare la differenza.

Ti pare facile…

No, non lo è. E non stiamo parlando di fare cose facili. Stiamo parlando di come si può stare con un dolore non di come evitarlo o eliminarlo. Stiamo parlando di come desiderare altro e non di come non desiderare il dolore.

Gianluca doveva scegliere se vivere la sua vita come una prova per una successiva reincarnazione, la prossima la vivrò meglio, oppure accorgersi che al resto della sua vita poteva ancora dare un senso.

Davide

Davide aveva 43 anni e tre nipoti da due dei suoi cinque figli.

Era il suo primo weekend a casa dopo 19 mesi di detenzione ed il caos prodotto dalle numerose persone che vivevano nella sua abitazione era decisamente più piacevole di quello che aveva respirato nella sua cella.

Erano tutti a tavola, i bambini correvano per i corridoi, i discorsi si sovrapponevano l’uno sull’altro e restavano tutti incompiuti, ma era piacevole sentire tutte quelle voci al di là delle parole che venivano pronunciate. Il desiderio di parlarsi era così dirompente da eludere completamente il bisogno di ascoltarsi, in fondo per le cose importanti a loro bastava guardarsi.

Dopo il secondo caffè, Davide si alzò da tavola.

La nipote di due anni stava bussando alla porta del bagno senza ricevere alcuna risposta, gradualmente il suono di quelle piccole dita si trasformò da un eco ad una specie di rumore e raggiunse le orecchie di Davide. Il suo cervello non riusciva a decifrare il significato di quel rintocco ondulatorio che proveniva da troppo lontano, poi i suoi occhi aprirono una piccola fessura per la vista e così Davide iniziò a raccogliere indizi. Lavandino, più linoleum, più cabina della doccia, più braccio penzolante, più siringa, uguale sono nel bagno di casa; porta che riceve colpetti dall’esterno, uguale qualcuno che bussa.

Cercò di alzare la sua voce di una tonalità per dire:
Arrivo.

Raccolse la siringa, si slacciò la cinta dall’avambraccio e la infilò nei passanti dei pantaloni, mise la testa per alcuni secondi sotto la doccia, diede un rapido sguardo alla specchio per controllare quanto doveva impegnarsi a mentire e, respirando lentamente, preparò un sorriso, girò la chiave e abbassò la maniglia.

Nonno ti aspettiamo di là. – Disse la bambina con un’innocenza che lui non riusciva a sentirsi addosso.

Davide si inginocchiò davanti alla nipote, un pò per abbracciarla e un pò per illudersi di farsi perdonare.

Andiamo amore.

All’interno del quartiere in cui vivevano, Davide e la sua numerosa famiglia erano quasi delle celebrità, il loro cognome era sufficiente a garantire che una minaccia non era solo un’intimidazione.

Non era Jenny Savastano, ma aveva un certo potere, quel tipo di potere direttamente proporzionale al timore che si riesce ad incutere negli altri.

Il contesto in cui si era srotolata l’esistenza di Davide era così spugnoso che non c’era altra possibilità se non quella di assorbirlo completamente, in ogni azione, in ogni pensiero e in ogni prospettiva.

Il processo decisionale con cui determinare i propri comportamenti o con cui stabilire le strategie per raggiungere un obiettivo era relegato a semplici ed ovvi automatismi, soprattutto di tipo pulsionale, che funzionavano perfettamente e che garantivano la soddisfazione delle proprie necessità.

L’apprendimento che consegue dalle esperienze che un individuo nato e cresciuto in un determinato contesto fa, ha un effetto molto diverso rispetto a quello che potrebbe avere in un individuo che entra in un determinato contesto in un certo periodo della propria vita.

Infatti, oltre ad essere maggiormente stabile e ramificato, non si presenta come un’alternativa possibile ad altri ipotetici stili di vita, non è una questione su cui poter riflettere o sulla quale si può procedere secondo una valutazione razionale, è un dato di fatto all’interno del quale si è immersi senza sentirsi bagnati.

E’ come la storia dei due pesciolini giovani che incontrano il pesce più anziano: quest’ultimo chiede loro — Salve ragazzi com’è l’acqua?— e i due pesciolini giovani rispondono — Che diavolo è l’acqua?— (D. F. Wallace, 2007)

Per tutti gli esseri umani, compreso Davide, l’esistenza è condizionata dal contesto in cui essa si esprime, in cui ci si relaziona, in cui si imparano le parole con cui ci si racconta a se stessi e agli altri.

Si è condizionati da ciò che è disponibile in un determinato contesto, da ciò che posso utilizzare per aggiungerci ciò che manca, o meglio, ciò che mi accorgo, che sento che mi manca, ciò che il contesto in cui vivo mi suggerisce e mi impone come desiderabile, come capace di definire la mia identità o come determinante per farmi appartenere alla categoria nella quale voglio che sia riconosciuta la mia identità.

E’ all’interno del contesto che si imparano le strategie per esprimere la propria autonomia, cioè le condizioni per stabilire la propria autodeterminazione, il proprio modo di avere potere sugli eventi e sulle circostanze al fine di riconoscersi coerenti con se stessi nel tempo e differenti o simili ad altri individui.

Tale autonomia ha a che fare con il potere decisionale che ho su di me, con la possibilità di agire in modo coerente con i miei valori e di agire nella direzione dei miei scopi, di trovare un modo per perseguire i miei scopi rimanendo in equilibrio con le mie convinzioni morali.

E’ anche per questo motivo, per questa difficile ricerca di una postazione comoda in cui far coincidere ciò che voglio, ciò che posso e ciò che devo, che la realizzazione di uno scopo o di un desiderio ha a che fare con il come lo raggiungo.

Il come lo raggiungo, cioè cosa sono disposto a fare o a non fare per arrivare ad uno scopo, dipende da quali valori sento di dover mantenere o sono disposto consapevolmente a tradire, da quale teoria di me stesso devo proteggere per poter continuare a conviverci e da come voglio dirigere la teoria che gli altri hanno di me.

Il fatto che lo scopo individuale a cui tendo sia una proposta o un suggerimento esterno, e magari sociale, del tipo avere una determinata cosa indica ciò che rappresento per gli altri, se ottengo uno specifico oggetto mi posso dire di essere in un certo modo, fare un certo comportamento mi permette di darmi un’appartenenza, mi rende dipendente dall’arbitrario senso che si danno alle cose, dalla moda, da luci sparse ed intermittenti più che da un faro stabile che illumina la decisione personale di percorrere un tragitto.

Il fine giustifica i mezzi solo quando il fine è davvero importante per te.

Una cosa è attraversare il deserto, un’altra è nascere nel deserto e Davide c’era nato.

Quando nasci in un certo ambiente la questione non è semplicemente quella di apprendere quali regole ti servono per sopravvivere, ti costruisci lì.

E’ come per Victor dell’Aveyron (Truffaut, 1970) che non ha imparato a vivere nella giungla, c’è nato e cresciuto senza alcun termine di paragone, sviluppando una condotta incompatibile con il vivere esterno.

Una delle differenze che c’è tra apprendere una regola e vivere secondo un codice è che la prima la puoi imparare e ti viene spiegata, il secondo lo devi capire da solo.

Lo devi capire da solo in base a ciò che accade dopo le tue azioni, a quali comportamenti degli altri seguono i tuoi comportamenti, a ciò che ti fanno gli altri per dirimere i tuoi dubbi su cosa devi fare tu.

Davide lo aveva capito da sempre, non come un’alternativa ma come l’unico mondo possibile, ed era anche molto convincente nel farlo capire agli altri.

Un codice non è solo un’abitudine, ma è uno stile onnicomprensivo con cui dare un senso alla realtà e a tutte le relazioni, prima ti permette di sopravvivere e poi è l’unico modo di vivere.

Un codice è l’elemento che discrimina le cose, è lo sguardo automatico con cui dare significato alle parole, il vocabolario con cui tradurre ogni conversazione sia con gli altri sia con se stessi.

Quando Davide si relazionava con gli altri non era mai concentrato sulla relazione stessa ma solo sul dover confermare quell’idea che l’altro doveva avere di lui.

Davide aveva il compito di alimentare una rappresentazione di se stesso che governasse anche i comportamenti, le intenzioni, i pensieri e le emozioni che gli altri potevano permettersi di avere nei suoi confronti. Come gli altri esseri umani, anche Davide aveva stabilizzato gli slanci pulsionali incanalati dall’apprendistato socioculturale a cui era stato sottoposto fin dalla nascita. Davide, come ognuno di noi, possedeva una soggettiva idea di se stesso, quell’idea che tentiamo di imporre a coloro che ci circondano e che si riduce, quasi sempre, a quella costruita in noi da coloro che ci circondano.

Dovevo fare così altrimenti non avrei avuto scampo, o schiacci o sei schiacciato. Il rispetto degli altri lo conquisti solo se vinci il conflitto con loro. E’ semplice: combatti e se vinci ti rispettano, se perdi no.

Il rispetto non era una cosa reciproca, ci doveva sempre essere uno che lo aveva e uno che non lo aveva, uno che conquista e uno che viene conquistato, il rispetto non era altro che un sinonimo di potere. Potere che non significa più solamente avere la possibilità di fare, ma che si traduce con l’avere il diritto di non permettere di fare agli altri, di decidere cosa gli altri possono o non possono fare.

Per fare così devi essere aggressivo, non è che ti ubbidiscono se glielo spieghi con gentilezza, penserebbero che sei debole. Lo so che è sbagliato, cioè adesso so che non è utile fare così se voglio vivere in un contesto diverso, ma lì funziona così

Ad alcune persone questo accade quando nascondono e giustificano i loro comportamenti con i ruoli che interpretano: non sono io a pensarla così è il mio ruolo che me lo impone.

Ci capita di accomodarci nella platea delle vittime delle circostanze, un po’ per trovare sollievo dalla vergogna di un’indifferenza consapevole, un pò per raccontarci che la vita non dipende da noi. Davide non aveva eliminato i suoi codici e tantomeno li poteva rinnegare, aveva gradualmente scelto di tenerli in disparte, non di nasconderli ma di lasciarli in pausa.

Da quando faccio così mi suda il cervello.

Si era allenato per molto tempo a riconoscere i suoi pensieri automatici e fare l’opposto di ciò che gli suggerivano, non li contestava ma li guardava al contrario.

Tutte le mattine Silvia, l’infermiera della Struttura dove era ricoverato anche Davide, procedeva nel rituale quasi eucaristico delle terapie farmacologiche.

L’aspetto eucaristico, almeno ai miei occhi, derivava dalla speranza o dal disprezzo con cui ogni paziente si rivolgeva al farmaco che riceveva dalle mani dell’infermiera, mi sembrava simile alla modalità con cui alcuni si avvicinano all’ostia ogni Domenica, mi salverai? Neanche questo riuscirà a salvarmi! male non mi farà…. e se poi esiste?

Davide assumeva la terapia metadonica con un atteggiamento di sfida e in modo distratto.

La sfida era conseguenza del suo essere un uomo che non deve chiedere mai, che non ha bisogno di qualcuno per risolvere i suoi problemi, figuriamoci di uno sciroppo.

La distrazione dipendeva dal fatto che alle spalle di Silvia era posizionato l’armadietto in cui ogni paziente della Struttura aveva la propria scatola degli oggetti personali, Davide guardava sempre con estrema attenzione tutte le scatole per accertarsi che la sua non fosse sotto a quella di nessun altro, non tollerava di leggere il suo nome sotto il nome di un altro paziente. Quando mi accorsi di questa premura con cui Davide osservava l’armadietto alle spalle dell’infermiera, gli chiesi come avrebbe potuto vivere al primo piano di un palazzo, con tutti i nomi degli altri condomini sopra al suo.

Rispose: — Io il nome sul campanello non ce l’ho messo mai.

 

Due tocchi sul gomito per due goal alla partita del Mercoledì: il Rito nel mondo dello Sport

La ritualità è una componente chiave per la cultura antropologica e per la funzione degli approcci irrazionali umani. Applicata in modo sano e contestualizzato nell’attività sportiva, essa può portare benefici omeostatici e una realizzazione degli obiettivi maggiormente facilitata.

 

Scienza, Religione e Magia sono i tre temi che hanno accompagnato la Cultura dell’Uomo sin dalle sue epoche ancestrali (Dolci, 2018). Come illustrato in capisaldi della Antropologia quale Il Ramo D’Oro di JG Frazer (1915), l’essere umano, avendo sviluppato la conoscenza della sua mortalità dell’essere soggetto passivo nei confronti degli eventi incerti della natura, ha maturato delle strategie psichiche per mantenere un equilibrio mentale stabile e avere una percezione di dominio della sua esistenza (Burke, B. L., Martens, A., Faucher, E. H.,2010).

Per questo motivo, e per altri legati alla unione prosociale con altri attori e per il corretto funzionamento culturale delle varie società, l’Uomo ha sviluppato la ritualità, indicata dalla Antropologia come la funzione che perpetua situazioni sociali implicite influenzanti i risultati delle cooperazioni fra individui partecipanti, coordinando le loro motivazioni, i loro valori ed i loro giudizi (Fischer, Ronald et al, 2013). Di fatto, i comportamenti ritualizzati sono alla base delle nostre vite, che siano indicati dalla società, religione o dalla propria educazione, per perpetuare la tradizione di appartenenza o quietare delle ansie nei confronti dell’incerto (Boyer, P., & Liénard, P., 2006).

Con l’avanzare della conoscenza scientifica e il progresso del mercato globalizzato, la ritualità è stata contestualizzata nel campo dell’irrazionalità umana, riguardante la storia antropologica dell’Umanità, la storia della Pedagogia umana e il campo della malattia mentale, soprattutto nello studio e nella terapia riguardante l’ossessione compulsiva (Franklin, Martin E., et al, 2000).

Se contestualizzata nell’essere una risorsa irrazionale che può essere utilizzata con limiti imposti e reali, la ritualità è un mezzo di autoinganno sano nei confronti dell’incerto e può condurre ad un rilascio omeostatico delle frustrazioni. Infatti, la sequenza episodica di gesti eseguiti rigidamente e ripetutamente (Witkowski, 2018) in maniera salubre e ponderata può portare a conseguenze positive, come la sensazione di esser più autodisciplinati e di aver maggior self-control (Tian, A. D. et al, 2018).

Questo fatto ha avuto grandi riscontri empirici soprattutto nello studio psicologico dello sport. Come indica Alex Fradera (2017),  la ritualità ha un grande rilievo nella attività sportiva agonistica o professionistica, poiché la sua applicazione può creare una sensazione di dominio sui risultati delle gare, riducendo notevolmente l’ansia e aumentando la possibilità di migliorare la propria performance (Brooks, Alison Wood et al., 2016).

Dunque, quando vedrete i componenti della vostra squadra di calcetto a cinque crogiolarsi in danze di superstizione sportiva, lasciateli fare: non stanno facendo altro che rilasciare naturalmente l’eccesso di ansia e di tensione psicologica (Brevers, Damien, et al., 2011).

 

I miei primi 40 giorni da mamma. Tutto quello che devi sapere sulle prime settimane dopo il parto (2020) di Zauderer – Recensione del libro

I miei primi 40 giorni da mamma si propone di informare e rassicurare, accompagnando la mamma, sia che si tratti del primo figlio che del rinnovarsi dell’esperienza del diventare madre, nel percorso di adattamento al suo nuovo ruolo.

 

Diventare madri rappresenta, al tempo stesso, una grande gioia e una grande sfida. In questo libro l’autrice, l’ostetrica e infermiera qualificata in ambito psichiatrico Cheryl Zauderer, mette a frutto tutta l’esperienza guadagnata sul campo, durante anni di lavoro in ambito perinatale, per stilare un manuale semplice e ricco di esempi pratici che possa essere d’aiuto alle neo mamme nelle settimane immediatamente successive al parto.

I miei primi 40 giorni da mamma si propone l’obiettivo di informare e rassicurare accompagnando la mamma, sia che si tratti del primo figlio che del rinnovarsi dell’esperienza del diventare madre, nel percorso di adattamento al suo nuovo ruolo.

Vengono toccati temi relativi all’esperienza del parto, naturale o cesareo, all’allattamento, alla dieta e all’alimentazione da seguire, passando per la cura di sé e del proprio corpo, le fluttuazioni dell’umore, il rapporto con il partner (al quale è rivolto un capitolo specifico che contiene informazioni utili a comprendere, aiutare e sostenere la propria compagna) e la costruzione del legame con il bimbo.

Viene messo con molta enfasi l’accento sulla necessità, da parte della neo mamma, di prendersi cura di se stessa, evitando di trascurare il proprio benessere, e accogliendo con fiducia tutta la gamma di emozioni e di vissuti che diventare madre origina: non solo la gioia, ma anche la stanchezza, la paura di non essere all’altezza, la difficoltà di fare fronte ad un impegno così grande vanno riconosciute ed accettate; si tratta di sentimenti reali, che è naturale provare, e che, per questo, vanno legittimati e non rifiutati per paura che siano indice del “non essere una buona madre”.

In ultima analisi l’autrice si pone l’obiettivo, in virtù della sua esperienza, di rispondere ai dubbi più frequenti e di aiutare le donne che sono diventate madri da poco ad aumentare la propria fiducia in sé stesse, mettendo a disposizioni tante informazioni utili ad orientarsi meglio e ad aumentare il benessere proprio e del proprio bambino.

Ogni capitolo è arricchito con numerosi spunti di approfondimento (siti internet e ulteriori riferimenti) che permettono, se lo si desidera, di approfondire i temi trattati.

 

Psicopatia e aggressività: il ruolo della disregolazione emotiva

Esiste una forte associazione tra la psicopatia e le condotte aggressive, per questo si è sempre più interessati a chiarire i potenziali meccanismi che collegano psicopatia e aggressività. Quale ruolo ha in questo contesto la disregolazione emotiva?

 

La psicopatia è un disturbo di personalità caratterizzato da insensibilità, sfruttamento inter-personale, stile di vita impulsivo e irresponsabile, nonché da un pattern di tendenze antisociali precoci, croniche e versatili (Hare & Neumann, 2008).

Uno dei più importanti ambiti in cui l’importanza della psicopatia si manifesta è quello della giustizia forense e penale, in gran parte dovuta alla forte associazione che la psicopatia ha con le condotte aggressive e i comportamenti violenti (Neumann et al., 2007, 2015; Olver et al., 2018; Porter et al., 2018). Come conseguenza di ciò, i ricercatori – e la giustizia – sono sempre più interessati a chiarire i potenziali meccanismi che collegano psicopatia e aggressività (Harenski & Kiehl, 2010).

Recenti ricerche (Donahue et al., 2014; Garofalo & Neumann, 2018) hanno evidenziato associazioni precedentemente trascurate tra la psicopatia e la difficoltà nella regolazione delle emozioni, il processo responsabile del monitoraggio, della valutazione e della gestione dell’esperienza emotiva, nonché del comportamento-guida sotto l’intensa eccitazione emotiva. Tuttavia, non è ancora chiaro se la disfunzione emotiva possa essere utile per spiegare le associazioni già consolidate tra psicopatia e aggressività.

Uno studio recente (Garofalo et al., 2020) ha voluto esaminare se la disregolazione emotiva potesse essere un fattore mediatore nell’associazione tra psicopatia e aggressività, in due diversi campioni, uno comunitario (N = 521) e uno di trasgressori della legge (N = 268), incarcerati in sette prigioni di due regioni del nord Italia.

I partecipanti alla ricerca sono stati sottoposti alla seguente testistica: il Self-Report Psychopathy–Short Form (SRP-SF; Paulhus et al., 2016) per la valutazione dei tratti psicopatici; la Difficulties in Emotion Regulation Scale (DERS; Gratz & Roemer, 2004) per misurare la disregolazione emotiva; l’Aggression Questionnaire (AQ; Buss & Perry, 1992) per la valutazione dei tratti legati all’aggressività (cioè rabbia, ostilità, aggressività fisica e verbale); e il Reactive– Proactive Aggression Questionnaire (RPQ; Raine et al., 2006) per la misurazione dell’aggressività reattiva e proattiva.

Dai risultati della ricerca si è evinto che in entrambi i campioni la psicopatia aveva un significativo effetto indiretto su tutti gli indici di aggressività attraverso la disregolazione emotiva, con l’unica eccezione dell’aggressività verbale.

Questi risultati supportano il ruolo rilevante della (dis)regolazione delle emozioni per la costruzione del costrutto di psicopatia e le sue associazioni deleterie con altre tendenze comportamentali, ed evidenzia la potenziale rilevanza del concentrarsi sulla regolazione delle emozioni come possibile obiettivo per interventi volti a ridurre l’aggressività tra individui con tratti psicopatici.

 

Coppie in PMA: aspetti psico-sessuologici della Procreazione Medicalmente Assistita

Avere un figlio rappresenta uno degli eventi più importanti per l’individuo e la coppia, ma desiderare un figlio non sempre basta. Quando la gravidanza non arriva e l’infertilità è confermata da indagini, si può iniziare a considerare l’idea di rivolgersi a centri specializzati in riproduzione umana, che si occupano della cosiddetta Procreazione Medicalmente Assistita (PMA).

Francesca Falco – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi San Benedetto

Introduzione: cos’è la PMA

Avere un figlio rappresenta uno degli eventi più importanti nella coppia e nell’individuo: se nel primo caso consiste nel realizzare un progetto condiviso, risultato di un legame pro-fondo e duraturo, nel secondo implica una nuova acquisizione nella propria identità, che andrà a includere per la prima volta il ruolo genitoriale, oltre quello di marito o moglie. Allo stesso tempo, si realizza anche una modifica dell’immagine sociale, che prevede per ogni membro della famiglia allargata, una riorganizzazione verso i nuovi ruoli che l’arrivo di un bambino può determinare. In questo senso, quindi, il concepimento assume un significato anche all’interno della sfera sociale, oltre che individuale e di coppia, poiché la società stessa riversa sulla coppia aspettative di formazione della famiglia, diventando il passo fondamentale verso la creazione di una nuova generazione.

Desiderare un figlio, però, non sempre basta: sempre più spesso le coppie di oggi si trovano a contatto con il grande tema dell’infertilità, che oggi colpisce circa una coppia su 5 (Ministero della Salute, 2016). Essere una coppia infertile implica che uno o entrambi i partner hanno difficoltà a portare a termine il concepimento. L’OMS definisce l’infertilità come:

una patologia caratterizzata dalla incapacità di generare una gravidanza dopo 12 mesi di regolari rapporti sessuali non protetti o dovuta una incapacità riproduttiva del singolo o del/della partner. (OMS, 2016)

Si parla di infertilità come patologia, capace di generare disabilità (OMS, 2010). Ma l’infertilità rappresenta anche la causa di una serie di difficoltà psichiche e relazionali legate proprio al vedere il proprio progetto condiviso infrangersi, andando a deludere sia le aspettative del partner, sia quelle della famiglia allargata e del contesto sociale in cui si è inseriti (Shapiro, 1988).

Infertilità nell’uomo e nella donna

L’infertilità viene distinta in primaria, se la donna non ha mai avuto precedenti gravidanze, o secondaria in caso contrario. In entrambi i casi, la distinzione dal termine sterilità deriva dal fatto che, in quest’ultimo caso, esiste una causa documentabile che impedisce il concepimento, per cui quel soggetto non riuscirebbe a partecipare al concepimento nemmeno con l’ausilio delle tecniche di Procreazione Medicalmente Assistita (PMA). Al contrario, l’infertilità implica una difficoltà, documentabile o meno, ad ottenere il concepimento, che può essere aggirato attraverso l’intervento della medicina riproduttiva, facilitando l’incontro tra spermatozoi e oociti e, laddove possibile, risolvendo la causa dell’infertilità stessa.

Gli studi riportano che, nelle coppie infertili, la difficoltà di concepimento può essere attribuito o a uno dei due partner, o a entrambi; nella maggior parte dei casi, però, si è riscontrata un’ipofertilità di entrambi i partner, ossia una ridotta capacità di procreare attribuibile ad entrambi, invece di una vera e propria infertilità per cui, pur avendo dei sistemi riproduttivi funzionanti, combinati insieme sembrano avere difficoltà a permettere la fecondazione dell’oocita da parte dello spermatozoo (Visigalli, 2011).

Quando si analizzano le possibili cause di infertilità, sia l’uomo che la donna sono sottoposti ad una serie di analisi ed esami che cercano una spiegazione medica alle difficoltà di concepimento, procedendo con un iter composto di esami e visite specialistiche che escludono gradualmente le patologie causa di infertilità, fino a identificare quella responsabile del mancato concepimento.

Per gli uomini, che costituiscono il 20% dei casi di infertilità e il 30-40% in concausa con altri fattori, tali cause possono risiedere nella qualità del seme, intesa come alterazione della produzione di spermatozoi (sterilità secretoria), o nell’anatomia delle vie escretrici, non associate ad anomalie testicolari o ormonali (sterilità escretoria). Tra le cause mediche, quindi, possono esservi:

  • insufficienze gonadiche periferiche (alti livelli di FSH);
  • insufficienze gonadotrope (bassi livelli di FSH);
  • anomalie delle vie escretorie di natura congenita, acquisita o traumatica.

Per le donne, invece, le cause dell’infertilità possono essere individuate in:

  • fattore cervicale, riferito al muco cervicale;
  • fattore ovulatorio, riferito a tutte le alterazioni dell’ovulazione, di origine ipotalamica, ipofisaria e ovarica, sia a base organica, sia a base funzionale;
  • fattore uterino, riferito all’anatomia dell’utero o a processi infiammatori dello stesso;
  • fattore tubarico, riferito a alterazioni anatomiche e ostruzioni parziali o totali.

Nel 10-15% dei casi, inoltre, non è possibile individuare una causa specifica alla base delle difficoltà nel concepimento, motivo per cui si parla in questi casi di infertilità idiopatica o inspiegata. Per individuare le cause dell’infertilità, è necessario, oltre alla prima visita e alle consulenze specialistiche, sottoporre entrambi i partner ad una serie di accertamenti specifici. La donna dovrà quindi eseguire analisi ormonali ed ecografia transvaginale, seguite da altri esami, richiesti in base alla specificità del caso, quali isterosalpingografia, isteroscopia, tampone vaginale, analisi genetiche; l’uomo sarà sottoposto a spermiogramma e, se ritenuto necessario, spermiocoltura, analisi ormonali e indagini genetiche (Visigalli, 2011).

Desiderare un figlio: fino a che punto?

Quando la gravidanza non arriva e l’infertilità è confermata dalle indagini, si può iniziare a considerare l’idea di rivolgersi ai centri specializzati in riproduzione umana, che si occupano della cosiddetta Procreazione Medicalmente Assistita (PMA).

Le tecniche di PMA si distinguono in tecniche di I livello, quando sono semplici da attuare e poco invasive, e tecniche di II e III livello, quando sono più complesse e più invasive. Generalmente, tenendo conto del quadro diagnostico individuato con gli esami precedentemente illustrati, si opera gradualmente, partendo dalle tecniche meno invasive e procedendo con quelle più complesse, solo in caso di fallimento del tentativo precedente. Qualora non si riscontrino particolari problematiche alla base dell’infertilità, il primo passo consiste nella stimolazione ormonale finalizzata a rapporti sessuali programmati: questo primo tentativo, non invasivo e generalmente più facile da accettare per i partner, rappresenta un modo per aumentare le probabilità di incontro di spermatozoi e oociti, sfruttando l’ovulazione indotta chimicamente per programmare il rapporto sessuale. Sebbene non invasivo, può essere per la coppia e per gli individui che la compongono una fonte di forte stress.

La famosa inseminazione artificiale rappresenta una tecnica di I livello: consiste nell’introdurre, dopo averli preparati adeguatamente, gli spermatozoi del partner direttamente nella cavità uterina. Questo procedimento richiede l’induzione farmacologica dell’ovulazione, per facilitare la fecondazione degli ovociti direttamente all’interno del corpo della donna. Si tratta di una tecnica poco invasiva, svolta in ambulatorio e non dolorosa.

La riproduzione in vitro con trasferimento dell’embrione (FIVET) è una tecnica di II livello, che prevede che spermatozoi e oociti vengano messi in contatto in laboratorio, in modo tale da facilitare la formazione degli embrioni, che saranno poi trasferiti nell’utero della donna. Prevede una serie di azioni terapeutiche, che vanno dalla stimolazione dell’ovulazione, al prelievo degli oociti e degli spermatozoi, al trasferimento in utero dell’embrione: si tratta di una procedura più complessa della precedente, ma tutte le fasi sono svolte a livello ambulatoriale e non provocano dolore.

Più complessa è la microiniezione intracitoplasmatica dello spermatozoo (ICSI), che prevede le stesse tecniche utilizzate nella FIVET, con la differenza che gli spermatozoi sono iniettati direttamente all’interno dell’oocita. È utilizzata sia in caso di fallimento della FIVET, sia in caso di gravi patologie del liquido seminale, che potrebbe rendere impossibile la penetrazione dell’oocita da parte dello spermatozoo o che non contiene spermatozoi, per cui potrebbe richiedere il prelievo di questi direttamente dalle vie seminali (MESA) o dal tessuto testicolare (TESE).

Dal momento in cui la coppia, ricevuta la diagnosi di infertilità e conosciute le cause sottostanti, decide di intraprendere un percorso di PMA, si trova a confronto con la possibilità di valutare la tecnica più adatta alle proprie esigenze, tenendo conto non solo del quadro diagnostico, ma anche dell’impegno che ogni procedura richiede in termini fisici, economici, psicologici e di tempo: ogni procedura, infatti, prevede una serie di passaggi che possono rappresentare, soprattutto per la donna, un impedimento al raggiungimento di obiettivi lavorativi o al mantenimento della carriera (McLaney, Tennen, Affleck, & Fitzgerald, 1995). Inoltre la fase pre-trattamento può essere caratterizzata da disagio psicologico sia nella donna, sia nell’uomo: alcuni studi, infatti, hanno evidenziato livelli maggiori di ansia e depressione nelle donne che stavano per sottoporsi al primo trattamento di PMA (Wisch-mann et al., 2001), con livelli di ansia maggiori rispetto alle donne che si erano già sottoposte a tecniche di PMA in precedenza (Salvatore et al., 2001), le quali però sembrano manifestare maggiormente sintomi depressivi rispetto alle precedenti (Beaurepaire et al., 1994; Oddens et al.,1999). Anche gli uomini sembrano mostrare maggiori livelli di ansia all’inizio del percorso di PMA (Fassino et al., 2002), soprattutto se alla prima esperienza.

La PMA e i suoi effetti sulla coppia

Oltre agli effetti psicologici individuali, la PMA può avere un forte impatto anche sulla relazione di coppia: secondo Schmidt (2009), scoprire l’infertilità può avere effetti positivi o, al contrario negativi sulla relazione duale, a seconda delle caratteristiche che la coppia aveva prima di scoprire il problema. Alcuni studi sembrano confermare questo paradosso, dimostrandone le conseguenze positive (Schmidt et al., 2005; Daniluk, 2001) e negative (Salvatore et al., 2001). Uno degli elementi che sembra favorire una buona accettazione della diagnosi di infertilità, sembra essere l’elevata soddisfazione nella relazione di coppia, come dimostrato dallo studio di Darwiche e colleghi (2013), che vede nella dimensione della soddisfazione coniugale un elemento predittivo del superamento della diagnosi.

Un elemento fondamentale della coppia che spesso subisce gli effetti della diagnosi di infertilità e degli interventi di PMA è la sessualità: sebbene raramente siano la causa diretta delle difficoltà di concepimento, molti studi evidenziano come le difficoltà sessuali possano essere un esito del percorso di Procreazione Medicalmente Assistita (Coëffin-Driol & Gia-mi, 2004; Piva et al., 2014; Tao et al., 2011; Wischmann, 2010; Wischmann & Thorn, 2013). Gli studi a tal proposito riportano che l’infertilità provochi problemi sessuali nel 10-60% dei casi (Moller, 2001; Boivin et al., 2001), soprattutto in termini di perdita di desiderio sessuale e di riduzione della frequenza dei rapporti. Uno dei principali problemi in questo senso è la perdita di spontaneità e piacere tipici dell’atto sessuale: questo viene trasformato nel mezzo attraverso il quale raggiungere l’obiettivo di concepire, perdendo gli aspetti di intimità e gioco che caratterizzano i rapporti prima della diagnosi di infertilità (Ohl et al., 2009; Piva et al., 2014; Wischmann et al., 2014). Moller (2001) evidenzia come il 69% degli uomini riporti un calo del desiderio, a fronte del 26% delle donne, con una popolazione maschile caratterizzata per il 17% di casi di disfunzione erettile e il 13,5% di eiaculazione precoce, ed una femminile caratterizzata per il 50% da dispareunia e il 22% difficoltà nel raggiungere l’orgasmo (Moller, 2001). Un altro studio evidenzia invece il 66% di casi di eiaculazione precoce, il 15% di disfunzioni erettili, dolore coitale nel 58% dei casi nelle donne e calo del desiderio femminile nel 28% (Jain, 2000).

Tra le donne, è stata dimostrata una maggior frequenza di difficoltà sessuali sia alla ricezione della diagnosi, sia durante i trattamenti di PMA di I livello: i problemi riscontrati riguardavano l’orgasmo, l’eccitazione, la lubrificazione e la soddisfazione sessuale; allo stesso modo, anche gli uomini mostravano difficoltà sessuali, soprattutto in relazione a desiderio e soddisfazione sessuale (Marci et al., 2012). Alcuni studi hanno anche evidenziato una relazione tra funzionamento sessuale maschile e femminile (Nelson et al., 2008; Shindel et al., 2008; Yeoh, 2014).

Alcuni studi inoltre hanno evidenziato un nesso tra infertilità e disfunzioni sessuali, con un impatto maggiore sugli uomini (Smith et al., 2009). Questi ultimi, infatti, sembrano particolarmente sotto pressione quando sottoposti a PMA: soprattutto in alcune procedure, che prevedono il prelievo dello sperma, sembrano innescarsi vissuti ansiosi, causati dal timore circa il giudizio del medico e della partner, che possono costituire un forte fattore inibente per la sessualità (Testa & Graziottin, 2006).

Il ruolo dello psicologo nella PMA: prevenzione ed intervento

Dalle problematiche psicologiche e sessuologiche che possono emergere negli individui e nelle coppie che si sottopongono a PMA, appare evidente come l’inserimento di un supporto psicologico sia auspicabile fin dalle primissime fasi dell’iter diagnostico.

Il counseling psicologico rappresenta uno strumento di intervento importante nel supporto alle coppie che si trovano ad affrontare il tema dell’infertilità (Randaccio, 2001): l’obiettivo primario del supporto psicologico sarebbe quello di individuare quali sono i fattori psicologici coinvolti nel tema dell’infertilità ed indagare la possibilità che le cause dell’infertilità stessa siano di tipo psicologico (Cecotti, 2004). Questo permetterebbe l’intervento su eventuali problematiche individuali e di coppia, configurando uno screening psicologico importante per la riuscita della PMA.

Da non sottovalutare, inoltre, la possibilità di intervenire con la psicoterapia nella misura in cui il counseling dovesse evidenziare la presenza di aspetti psicologici che interferiscono con l’obiettivo della fecondazione: oltre al forte stress legato alle procedure, le ansie legate alle fasi della PMA, il vissuto personale e di coppia dell’infertilità e la sofferenza psichica che ne deriva, possono arrivare a creare un vero e proprio ostacolo alla riuscita della procedura di inseminazione. In questo senso, il counseling si propone come strumento di screening e supporto già dalle primissime fasi, ossia dalla restituzione della diagnosi di infertilità: i vissuti emotivi e i significati personali che si accompagnano al tema dell’incapacità di concepire in maniera naturale, possono infatti costituire un terreno fertile per lo sviluppo di sofferenza psicologica e difficoltà relazionali, che interferirebbero con il benessere della coppia che si approccia alla PMA, con il rischio di ridurne le probabilità di riuscita (Visigalli, 2011).

Non da ultimo, le coppie sottoposte a PMA, come evidenziato in precedenza, possono risentire notevolmente, specie in ambito sessuologico, della presenza costante del problema dell’infertilità: l’individuazione e l’intervento sessuologico mirato, costituisce un importante strumento di salvaguardia della relazione di coppia, che altrimenti potrebbe risentire enormemente dell’ingombrante ruolo della sessualità nell’infertilità della coppia. In quest’ottica, il counseling si inserisce inizialmente come uno spazio che stimola i partners a condividere emozioni e difficoltà nella sfera sessuale, informandoli preventivamente dei rischi ad essa associati quando si intraprende l’iter di PMA: un intervento di questo tipo, oltre a normalizzare eventuali difficoltà e a facilitare la comunicazione delle stesse nella coppia, permette di proporre un intervento sessuologico mirato, che abbia come obiettivo il recupero dell’intimità di coppia (Nappi et al., 2004).

Concludendo, il ruolo dello psicologo all’interno dell’equipe dei Centri di Procreazione Medicalmente Assistita, assume un ruolo fondamentale nel preservare il benessere psicologico, relazionale e sessuale dei partners e della coppia, aumentando la probabilità che l’intervento si concluda con la gravidanza tanto desiderata e riducendo le possibilità che emergano nuove problematiche in seguito ai tentativi di procreazione, configurandosi allo stesso tempo come strumento di screening e di intervento.

 

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