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Antipsicotici per il trattamento della depressione: uno studio ne sottolinea la gravità degli effetti

I ricercatori hanno riscontrato un aumento relativo del 45% del rischio di mortalità per le persone con depressione in terapia con farmaci antipsicotici (Gerhard et al., 2020).

 

I ricercatori di Rutgers, assieme alla Columbia University, hanno riscontrato un aumento del rischio di mortalità negli adulti con diagnosi di depressione in terapia con farmaci antipsicotici, rispetto a un gruppo di controllo in terapia con antidepressivi. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista PLOS ONE (Gerhard et al., 2020).

Sebbene gli antidepressivi siano il trattamento farmacologico di prima scelta per la depressione severa, molte persone non rispondono al primo ciclo di trattamento. Le successive opzioni di trattamento, includono il passaggio a un altro antidepressivo, seguito da varie strategie di aumento del dosaggio con un secondo antidepressivo e l’uso di nuovi antipsicotici, come aripiprazolo, quetiapina e olanzapina (Gerhard et al., 2020).

Lo studio in questione ha dimostrato che gli antipsicotici hanno effetti avversi ben noti e spesso gravi, tra cui un aumento del rischio di mortalità di oltre il 50% negli anziani con demenza. In precedenza non era noto se questo rischio di mortalità si applicasse agli adulti non anziani che utilizzavano antipsicotici più recenti come trattamento per la depressione severa. Secondo i ricercatori, gli studi clinici che hanno portato all’approvazione di nuovi antipsicotici per la depressione, erano troppo piccoli e troppo brevi per essere esaustivi da questo punto di vista (Gerhard et al., 2020).

I ricercatori hanno esaminato i dati di 39.582 individui con età compresa tra 25 e 64 anni dal 2001 al 2010, collegati al National Death Index. Dopo un periodo di trattamento con un singolo antidepressivo, i pazienti dello studio hanno introdotto un antipsicotico o un secondo antidepressivo. I ricercatori hanno riscontrato un aumento relativo del 45% del rischio di mortalità per coloro che hanno iniziato un antipsicotico (Gerhard et al., 2020).

La comunità scientifica sottolinea l’importanza di replicare la suddetta ricerca, idealmente, con uno studio controllato randomizzato. Tuttavia, nel frattempo, è bene prendere in considerazione che, la prescrizione di antipsicotici agli adulti con depressione, potrebbe essere molto dannosa in quanto, probabilmente, aumenta in maniera considerevole il rischio di mortalità. Di particolare rilevanza è un’altra scoperta fatta sempre dagli stessi autori di questo studio. È noto che la maggior parte degli antidepressivi impiega dalle quattro alle sei settimane per essere pienamente efficace. Tuttavia, contrariamente alle linee guida di trattamento, molti pazienti negli Stati Uniti iniziano il trattamento antipsicotico per la depressione senza aver completato un adeguato ciclo con un singolo antidepressivo  (Gerhard et al., 2017). Questi risultati sottolineano l’importanza di considerare i nuovi antipsicotici solo dopo che è stata stabilita la mancata risposta a opzioni di trattamento meno rischiose e basate sull’evidenza (Gerhard et al., 2017).

Accompagnamento alla gravidanza e sostegno alla genitorialità – VIDEO del primo incontro

Scuola Cognitiva di Firenze, in associazione con Studi Cognitivi, ha presentato un percorso divulgativo online in due appuntamenti rivolto a futuri genitori e genitori per aiutarli ad approfondire la conoscenza del proprio mondo emotivo e cognitivo e di quello dei propri figli. Pubblichiamo il video del primo incontro.

 

La gravidanza e il divenire genitori portano con sé una serie di cambiamenti nella vita individuale e di coppia: la costruzione dei ruoli e dell’identità di madre e di padre, la ridefinizione del rapporto di coppia, le emozioni e i vissuti psicologici associati al divenire genitori, l’instaurarsi di una prima relazione con il bambino.

I due incontri, organizzati da Scuola Cognitiva di Firenze, sono stati pensati con l’intento di offrire un percorso di informazione e di crescita personale per genitori e futuri genitori, percorso che potesse accompagnarli e sostenerli nell’attesa e nella conoscenza del proprio bambino con maggior consapevolezza, serenità e naturalezza.

Per i nostri lettori pubblichiamo il video del primo appuntamento, condotto dalle dott.sse Elisa Moretti e Stefania Righini. Nell’incontro è trattato il delicato tema delle emozioni in gravidanza e della costruzione della relazione con il neonato. Nei prossimi giorni pubblicheremo il video del secondo incontro.

 

ACCOMPAGNAMENTO ALLA GRAVIDANZA E SOSTEGNO ALLA GENITORIALITÀ

Guarda il video integrale del primo incontro:

 

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La dipendenza e lo stile comportamentale – Fatica a credito: storie parziali di dipendenza patologica

Una persona, anche quando non usa sostanze, continua ad essere condizionata da determinati processi cognitivi, continua ad attribuire determinati significati alle esperienze e continua a provare determinate emozioni in risposta ai contesti in cui interagisce.

FATICA A CREDITO: STORIE PARZIALI DI DIPENDENZA PATOLOGICA – (Nr. 4) La dipendenza e lo stile comportamentale

 

– Alice, ma tu ogni tanto impari qualcosa dalle tue esperienze passate o cosa?
– Cosa.

(Carroll,1865)

 Molti comportamenti, atteggiamenti e schemi di pensiero del soggetto tossicodipendente sono osservabili anche quando il paziente attraversa un periodo di astinenza dall’uso. Si possono rilevare le modificazioni neurobiologiche causate dall’uso di sostanze stupefacenti e i disturbi psicopatologici o di personalità sottostanti, ma è altrettanto importante osservare come l’uso e l’abuso di droghe imponga all’individuo di vivere e di relazionarsi in un ambiente ed in un contesto tossico in cui vengono favoriti, suggeriti e privilegiati determinati comportamenti.

Vivere nella tossicodipendenza impone delle regole molto rigide, anche per proteggersi.

Dire che la tossicodipendenza è un problema di forma e non solo di sostanza, significa che è possibile rintracciare nel paziente astinente dall’uso, atteggiamenti e comportamenti che solitamente emette quando utilizza sostanze.

Queste modalità comportamentali, derivanti dai contesti di vita e relazionali del paziente, spesso sono le uniche che egli ha appreso o le uniche che conosce, e possono esprimersi automaticamente (o inconsapevolmente).

Potremmo dire che, nonostante l’interruzione dell’uso di sostanze, permane nel paziente uno stile di comportamento, una rigida modalità di attribuire significato alle esperienze.

Puoi togliere il ragazzo dal ghetto ma non puoi togliere il ghetto dal ragazzo (Z. Ibrahimovic).

Smettere di usare sostanze, decidere di modificare il proprio rapporto con il mondo ed essere motivati e disponibili ad impegnarsi per questi obiettivi, è necessario ma non sufficiente al fine di ricostruirsi una vita.

Il paziente anche quando non usa sostanze, continua ad essere condizionato da determinati processi cognitivi, continua ad attribuire determinati significati alle esperienze e continua a provare determinate emozioni in risposta ai contesti in cui interagisce.

E’ facile rilevare come permanga una traduzione distorta di temi importanti nelle relazioni umane, come la fiducia, l’onestà, la tolleranza della frustrazione o la capacità di condividere e raccontare se stessi. Il paziente resta attaccato a codici e convinzioni che riducono o alterano la sua possibilità di emanciparsi dal contesto da cui proviene, rendendo difficoltosa la sua decisione di trasferirsi in un contesto differente.

Si osserva un vero e proprio deficit di conoscenza rispetto a contesti diversi da quelli correlati all’uso di sostanze, il paziente appare a corto di alternative quando deve relazionarsi in un contesto altro, quando deve decifrare i processi di una relazione interpersonale, è spaesato come di fronte ad un compito in classe che non sapeva di avere.

Un cambiamento ha bisogno di un’alternativa, si smette di fare una cosa perché se ne può fare un’altra, senza un’alternativa praticabile, o almeno immaginabile, si resta congelati nella posizione in cui si è, ripetendo le stesse azioni aspettandosi un risultato diverso.

Inoltre, non si può evitare di considerare che questi pazienti hanno una scarsa o inesistente capacità di sognare, prefigurarsi o decidere obiettivi futuri che non dipendano dal loro umore del momento.

Queste persone, essendo sopravvissute ed essendo state spesso modellate da contesti ambientali in cui venivano trascurate, criticate, punite e disprezzate, non sono state incoraggiate a sognare o a tradurre le loro idee e qualità personali in percorsi di vita che rispondessero al meglio alle loro caratteristiche.

In un ambiente invalidante, infatti, comunicare un (grande) sogno può avere come risultato critiche ed umiliazioni.

Nel tempo queste interazioni dolorose possono creare un’associazione tra il fatto stesso di immaginare il futuro e il senso di umiliazione e delusione che ne deriva.

In un contesto tossico ci sono poche verbalizzazioni e regole rigide che hanno strutturato comportamenti e risposte automatiche, paradossalmente il paziente è lì che ha colmato il suo bisogno di regolarsi, in quei luoghi conosce anticipatamente i segnali con cui orientarsi.

Quando si trasferisce in un altro contesto, per lui non così etichettato e standardizzato, si trova a fare i conti con tutta una serie di sfumature inconsuete, si trova di fronte a relazioni umane in cui deve imparare a capire gli altri mentre si relaziona con loro, si aggira in una complessità su cui deve riflettere e sulla quale ha meno conoscenze e certezze.

In queste situazioni incerte, in cui il paziente riceve segnali ai quali non sa come rispondere o che si prestano a più interpretazioni valide, la paura prenderà il sopravvento e favorirà le solite alternative: fuggire e/o aggredire.

Quando l’istinto di fuggire è impedito, la costrizione a restare in una situazione angosciante prelude a due possibili risposte dell’individuo: una risposta aggressiva o un evitamento passivo che genera una reazione endocrina di stress.

Tutto ciò che si oppone ad una azione gratificante che soddisfa un bisogno innato o acquisito, come può essere il contatto con la madre per un bambino, una conferma da parte del padre per un adolescente, il cibo quando si ha fame, la droga quando si sta male, genera una reazione endocrino-simpatica.

Quando la reazione endocrino-simpatica è prolungata pregiudica il funzionamento degli organi periferici e produce affezioni psicosomatiche.

L’ambiente tossico in cui il paziente è vissuto ha favorito una serie di apprendimenti, questi apprendimenti sono diventati delle abitudini e ‘a lungo andare un’abitudine diventa una necessità‘ (Sant’Agostino, 400 d.c.).

Abbiamo già detto di come un soggetto tossicodipendente impari a fidarsi di persone non affidabili (ad esempio lo spacciatore) e di come questo confonda il significato che attribuisce al concetto di fiducia, ma ci sono anche altre situazioni che vengono tradotte ed interpretate in modo disfunzionale o paradossale.

Lo stesso concetto di libertà viene ridefinito, perdendo le sue caratteristiche imprescindibili di responsabilità, di rispetto e di condivisione con l’altro.

Non si traduce in libertà di poter scegliere come comportarsi o non comportarsi, ma diventa la libertà di non occuparsi delle conseguenze del proprio comportamento.

Anche per questo, in nome della libertà, il paziente arriva ad isolarsi, ad escludersi, incapace di conciliare la sua libertà con quella degli altri, riducendosi a relazioni silenti solo con chi condivide la sua stessa patologia.

Il concetto di libertà può essere critico anche per chi interviene terapeuticamente con questi pazienti, le conseguenze delle loro azioni, i rischi che corrono per la loro vita e i gravi danni che spesso hanno prodotto, portano il terapeuta a sentire l’urgenza di bloccare la persona, di ristabilire un ordine attraverso il controllo.

Questi pazienti però percepiscono il controllo come coercizione e questo favorisce in loro un’ulteriore disregolazione emotiva con conseguenti comportamenti impulsivi e/o aggressivi.

Per quanto riguarda il riconoscimento o la gestione delle sensazioni e delle emozioni, il paziente è fuorviato da una delle funzioni svolte dalle sostanze stupefacenti, cioè quella di essere un’utile strategia di evitamento emotivo.

L’uso di droghe, infatti, stabilizza e spesso risolve un’attivazione emotiva, rende piatta una risposta corporea che per sua natura è ondulatoria e instabile.

Un’emozione può diventare disfunzionale quando non è coerente con la situazione o con il significato che diamo alla situazione, se sono triste ad un funerale vuol dire che funziono bene, che ho una reazione di tutto il corpo coerente con l’esperienza che sto vivendo.

L’uso di sostanze, fungendo da strategia di evitamento delle emozioni, anestetizza l’esperienza emotiva lasciando uno stato corporeo neutro in risposta ad una situazione che ne richiederebbe un’attivazione. Questo vale sia in situazioni avverse quando si provano emozioni spiacevoli sia in situazioni favorevoli quando si provano emozioni piacevoli.

In entrambi i casi la sostanza stupefacente spegne l’emozione coerente con la situazione e crea uno stato neutro che viene appreso come migliore da parte del paziente.

Migliore non significa gratificante o piacevole, ma in grado di eliminare un’attivazione emotiva, di creare una sorta di estraneità dal contesto, di sospensione della realtà. Il paziente può vedere chiaramente che l’uso di sostanze rappresenta l’arsenale con cui procurarsi un certo sollievo, anche se temporaneo, dalla sofferenza emotiva, e rendersi conto che questa dipendenza gli sta rovinando la vita.

Il punto è che se non avesse questa strategia di regolazione emotiva, non saprebbe cosa fare.

La persona ha difficoltà nel raccontarsi, nel descrivere e dare significato alle proprie emozioni e sensazioni, possiede uno scarso vocabolario con cui riferirsi a ciò che sente o a ciò che gli accade, il suo stesso ambiente ha espresso ed esprime poche parole.

In pratica, per lui, è più facile a farsi che a dirsi.

Il tossicodipendente, in alcuni casi, riesce a tollerare la relazione con l’altro solamente se quest’ultimo è disposto a sopportare anche tutti i suoi comportamenti disfunzionali, come se questi fossero una parte imprescindibile della sua identità, come se questi comportamenti non fossero ciò che fa ma ciò che è.

Raramente il paziente riesce a passare dal sono fatto così al mi sono fatto così.

La tossicodipendenza è un elemento costante e totalizzante nella vita del soggetto, ogni cosa viene organizzata in base ai sintomi (somatici, emotivi e cognitivi) che il paziente avverte, ogni cosa è relegata in secondo piano o rimandata rispetto alla sostanza, ogni piacere è confrontato con il piacere della sostanza, ogni soluzione è paragonata con quella proposta dalla sostanza.

La memoria di sé nel tempo è correlata ai periodi di uso di sostanze o ai periodi astinenziali, il parametro con cui vengono richiamati i ricordi o le esperienze passate è —Se facevo uso di sostanze o meno in quel periodo.

Anche l’appartenenza alla categoria dei tossicodipendenti diventa un elemento determinante per definirsi simile o diverso dagli altri.

Quest’ultimo aspetto trova la sua estremizzazione quando il paziente ritiene capace di proporgli una cura solo chi ha avuto le sue stesse esperienze, è convinto che l’avere avuto la stessa patologia garantisca la competenza nel curarla.

La tossicodipendenza diventa parte integrante dell’identità del soggetto, cioè elemento costante della sua vita attraverso il quale mantiene la percezione e la memoria di sé nel tempo (identità diacronica) e attraverso il quale percepisce sé stesso nel confronto di somiglianza o di differenza con gli altri oggetti o individui (identità sincronica).

La tossicodipendenza diventa un elemento di identificazione per il soggetto, una categoria alla quale appartiene, un’etichetta con cui si differenzia dagli altri, una serie di codici con i quali ha imparato a raccontare la sua storia e a dare significato alla realtà o a difendersi da essa. Il modo di vivere che è stato utile in strada diventa inutile e controproducente a casa, ma il paziente lo riproduce, automaticamente, come se fosse incapace di riconoscere gli stimoli alternativi che riceve in un contesto diverso.

— Se continui a giocare a calcio in un campo di basket, probabilmente verrai espulso.

Se avrai un po’ di fortuna verrai espulso con educazione.

Se ti arrabbierai perché ti hanno espulso invece di capire che dovevi provare a giocare a calcio, penseranno che sei matto.

Ciò che è importante non è solo che il paziente abbia appreso un serie di comportamenti in determinati contesti, quanto che continui ad esprimerli anche in altri contesti, insomma se cambia sport dovrebbe imparare ed esprimere nuove modalità comportamentali.

E’ quando lo fa che tende a non riconoscersi, come se certi comportamenti non gli appartenessero, come se fossero estranei alla sua identità, prova quelle sensazioni che proviamo tutti quando ci comportiamo in un modo che non condividiamo.

Se proviamo a dire ai nostri pazienti che con una bacchetta magica abbiamo al possibilità di rendere la loro dipendenza patologica una cosa che non hanno mai avuto o che non avranno mai più, molti di loro non proveranno un senso di sollievo e tanto meno di gioia, ma ci riferiranno di sentirsi persi, spaesati, non identificati, tenderanno a chiedersi —Cosa sono adesso?—, per loro è come se svanisse un modo di essere, non una cosa che fanno. Forse è proprio da questa impossibilità di appigliarsi ai soliti meccanismi a cui facevano riferimento o dall’impegno a non cercare nelle sostanze il modo per orientarsi nella propria esistenza, che dipende quel senso di smarrimento che è uno dei primi segnali di miglioramento del paziente.

Anche per questo motivo il terapeuta diventa un’intromissione tra il disagio che il paziente avverte e la soluzione che ha a disposizione.

L’alcolista sa che il suo malessere (problema) terminerà una volta che inizierà a bere (soluzione), quindi il terapeuta (oppure il genitore, la moglie, il marito, l’amico, il figlio, il lavoro…. ) rappresenta un’intromissione tra il problema e la soluzione del paziente.

Ecco perché vi sono occasioni in cui il paziente, governato dall’urgenza di stare meglio come chiunque avverta un disagio, contrasta il terapeuta (la terapia), contrasta chi gli impedisce di applicare la sua strategia risolutiva per il suo malessere, contrasta chi si frappone tra lui e la soluzione veloce, certa ed efficace.

Imparare un nuovo modo di fare avviene in modo esperienziale, a volte addirittura per tentativi ed errori: errori che si deve essere disposti a tollerare. Ora, per il paziente tossicodipendente, questo presenta almeno due elementi di criticità.

Il primo è la tendenza automatica ad agire secondo predisposizioni di base strutturate e rinforzate nel tempo e nei contesti in cui è vissuto. Il secondo è la paura di lasciare il certo per l’incerto, cioè il timore di non possedere un altro modo di fare o il timore che un altro modo di fare non funzioni per lui.

Il paziente, come ogni altro essere umano, non può ripartire da zero, non può dimenticare le sue abitudini, ciò che lo ha protetto, non è possibile dimenticare gli apprendimenti.

Un particolare comportamento o un modo di pensare (che è una cosa che si fa) si può estinguere ma non disimparare, tutti noi possiamo fare delle azioni che abbiamo appreso anche se non le agivamo da molto tempo.

Questo aspetto può risultare molto importante in un percorso di cambiamento, il terapeuta può mantenere un atteggiamento volto a favorire nel paziente l’apprendimento di cose nuove invece che l’estinzione di ciò che ha imparato.

In particolare, il terapeuta potrebbe intervenire rinforzando i comportamenti adattivi e funzionali del paziente anziché punire i comportamenti disfunzionali, anche perché questi ultimi sono stati puniti ripetutamente in passato senza che ne sia stata favorita l’estinzione.

Vale la pena ricordare che si parla di principio di estinzione quando un comportamento precedentemente rinforzato non è più seguito da un rinforzo positivo, quindi le probabilità che quel comportamento venga nuovamente emesso diminuiscono.

Inoltre sappiamo dalla psicologia sperimentale (Karsh, 1964) che quando un comportamento è seguito contemporaneamente sia da un rinforzo sia da una punizione ad agire su quel comportamento è solamente il rinforzo (Legge di Karsh).

Per questo tra il piacere della cioccolata ed il dispiacere dell’ingrassare vince il piacere, per questo se un alunno fa il pagliaccio in classe e riceve contemporaneamente le risate di approvazione dei compagni e una nota dalla professoressa, continua a fare il pagliaccio.

Nel corso della sua storia di apprendimento il paziente, come conseguenza punitiva per l’uso di sostanze, ha ricevuto la perdita dei rapporti familiari, del lavoro, l’esperienza detentiva, l’overdose, l’emarginazione…

Tutte conseguenze punitive che non hanno funzionato per estinguere il comportamento di abuso, se non temporaneamente, e che non sarebbero neanche praticabili in un contesto o in una relazione terapeutica qualora il paziente emettesse comportamenti disfunzionali.

Inoltre il terapeuta non può disporre di eventuali punizioni paragonabili, o dello stesso peso, di quelle che il paziente ha già ricevuto, ogni conseguenza punitiva che potrebbe proporre sarà sempre meno potente di quelle già sperimentate dal paziente e non riuscirebbe mai a pareggiare l’intensità del desiderio di assumere una sostanza.

Se una moglie dice al marito che punirà un eventuale tradimento smettendo di cucinargli le linguine al pesto, per il marito potrebbe non essere difficile accettare lo scambio.

A questo proposito, in un contesto terapeutico, si ritiene maggiormente utile adottare tecniche comportamentali che intervengano sul rinforzo più che sulla punizione, procedure come il modeling e lo shaping.

Il modeling deriva dalle osservazioni della psicologia sperimentale di Bandura sull’apprendimento tramite imitazione di comportamenti rinforzati dall’accettazione sociale da parte dell’ambiente (Bandura, 1962). L’imitazione è una modalità di apprendimento connessa da una parte al comportamento verbale e dall’altra al comportamento sociale.

Il paziente viene invitato a riprodurre determinati comportamenti del terapeuta in situazioni appropriate. Il terapeuta articola il comportamento mancante nel repertorio del paziente in modo didascalico e in varie emissioni di differente e crescente difficoltà.

Dopodiché chiede al paziente di imitarlo, correggendo eventuali errori e rinforzando con l’approvazione ogni emissione corretta, sottolineandone le caratteristiche salienti.

Il nuovo comportamento sarà poi mantenuto e generalizzato per effetto dell’accettazione che troverà nell’ambiente naturale.

Lo shaping è una pratica applicabile solo quando a dover essere incrementato è un comportamento già presente nel repertorio comportamentale del paziente, anche se viene emesso con una frequenza troppo bassa rispetto agli standard adattivi.

Lo shaping consiste nell’applicazione del rinforzo positivo non al comportamento – bersaglio, ma ai singoli comportamenti di una gerarchia costruita mettendo al vertice il comportamento desiderato e all’estremo opposto i comportamenti, pur quantitativamente diversi, che si avvicinano passo dopo passo verso la meta.

Il terapeuta stabilisce un comportamento non ancora esistente e, per costruirlo, definisce il maggior numero possibile di comportamenti intermedi funzionali alla sua emissione.

Il terapeuta rinforza positivamente gli step più bassi della gerarchia, passando allo step successivo solo quando il comportamento precedente è stabile.

Alla fine, quindi, ad essere rinforzato sarà solo il comportamento – bersaglio.

Imparare cose nuove significa anche avere la possibilità di sbagliarle durante il processo di apprendimento, impone al terapeuta di considerare che il paziente possa esprimere una maggiore criticità proprio mentre tenta di migliorarsi, che possa esprimere i propri sintomi, come le ricadute, i comportamenti disfunzionali, le emozioni disregolate, proprio in questo momento della relazione terapeutica.

E’ per questo che il terapeuta deve mantenere un atteggiamento strategico rispetto a ciò che accade, riflettendo su quella persona in quel contesto e in quel momento.

E’ importante ciò che il paziente tossicodipendente ha imparato a pensare, al linguaggio con cui pensa i suoi pensieri, al modo con cui traduce le parole e le usa per comprendere ed essere compreso dagli altri.

Tutti gli essere umani, compresi i tossicodipendenti anche se in modo deteriorato, possiedono l’abilità di immaginare cose, pianificare, risolvere problemi nella loro mente, è per questo che i pensieri ed il pensare hanno un’importante incidenza sui problemi psicologici.

Nel paziente tossicodipendente si possono rilevare schemi di pensiero caratteristici, tipiche modalità con cui richiama alla memoria i ricordi, specifici indizi con cui interpreta le relazioni interpersonali e modalità con cui avverte le proprie emozioni.

Il paziente spesso utilizza strategie disfunzionali per gestire le emozioni, ha la tendenza a sovraregolarle, a perdere il controllo su di esse e disregolarsi.

I pazienti tossicodipendenti, che nella maggior parte dei casi (potremmo anche dire la totalità) evidenziano un disturbo di personalità, tendono a irritarsi o vergognarsi quando si scoprono turbati, percepiscono le critiche come umiliazioni.

Hanno sentimenti negativi verso le proprie emozioni, perciò incontrano maggiore difficoltà quando devono usare le proprie risorse cognitive per riflettere sulle stesse e impegnarsi a modularle.

Usando come metafora una partita a carte, per riflettere su quali possibilità ha un giocatore (cioè come pensa, in base a cosa riflette) dobbiamo vedere con quali carte deve giocare la sua mano.

Nel caso del paziente tossicodipendente, le carte che possiede possono essere: le convinzioni che ha sul mondo e sulla relazione con gli altri, le strategie che ha per tollerare la sofferenza, una serie di giudizi e pregiudizi che ha appreso dalle esperienze, una scarsa conoscenza dei segnali con cui il corpo suggerisce le emozioni, il paradosso con cui dichiara il suo desiderio di libertà, la contraddizione con cui ama la vita, la difficoltà a capire quali sono i nemici da combattere, la tendenza a chiedere un aiuto per poi sabotarlo, l’istinto a ricercare la felicità nello stesso posto in cui l’ha persa, l’apparente arroganza del sapere come curarsi da solo, la superstizione con cui segue le prescrizioni farmacologiche, la tendenza a scusarsi solo per non parlare del dolore che ha provocato, la superficialità con cui si giustifica per proteggersi dalla vergogna, il narcisismo con cui ascolta le informazioni che riceve, l’illusione che il vuoto è meglio di niente.

Andare a vedere le carte in mano al paziente, ci può consentire di riflettere dal suo punto di osservazione, proponendo interventi che partano dalle sue condizioni e convinzioni di partenza.

Avvicinarsi per andare a vedere le carte può non essere particolarmente semplice ed è necessario capire se e come ci viene richiesto.

La richiesta d’aiuto spesso non avviene verbalmente, nel senso di: —Salve, ho iniziato a drogarmi e vorrei smettere— ma può essere espressa solamente dagli esiti della condotta tossicomanica, ad esempio il paziente è stato cacciato di casa, è stato lasciato dalla moglie, ha perso il lavoro, ha un problema legale, ha un’overdose…

Frequentemente il primo contatto con il paziente avviene per un altro problema.

Ammesso che questo primo contatto si stabilisca, affinché si possano osservare le carte del paziente, è necessario sedersi accanto a lui e anche qui si potrebbe incontrare una certa riluttanza.

Nel caso in cui si superi questo ulteriore ostacolo, il giocatore deve fidarsi di chi osserva le sue carte.

Emerge di nuovo il tema della fiducia nella relazione interpersonale, concetto contraddittorio nella mente del paziente, molte volte disatteso nelle sue esperienze e molte volte tradito da lui stesso.

Il paziente tossicodipendente, spesso, si è impegnato a costruire rapporti di fiducia con l’intenzione di poterli tradire, ha superato il timore di fidarsi per poi essere tradito, non ha accettato la condizione per cui perdere la fiducia è un processo rapido, mentre acquistarla o riacquistarla è un processo molto più arduo, non considera la differenza tra tradire ripetutamente e tradire una volta sola.

Inoltre, anche chi soffre di una dipendenza patologica è, come tutti gli altri esseri umani, vittima dell’euristica secondo cui il comportamento degli altri si deduce dal proprio, quindi tenderà a pensare che gli altri si comporteranno con lui come lui si comporterebbe con gli altri.

Fare in modo che il giocatore sia disponibile a condividere le sue carte, dipende prevalentemente dalle abilità del terapeuta, dalle capacità di quest’ultimo di addentrarsi nelle diffidenze, nelle paure, nelle fughe, nei depistaggi più o meno consapevoli e nelle impulsività del paziente, per delineare un sentiero condiviso.

Questo non è sempre possibile, vi sono condizioni che potremmo definire imperturbabili.

C’è una storia dietro ogni persona. C’è una ragione per cui loro sono quel che sono. Loro non sono così solo perché lo vogliono. Qualcosa nel passato li ha resi tali e alcune volte è impossibile cambiarli (S. Freud).

All’interno della relazione terapeutica è possibile rispondere al paziente in modi diversi da come è abituato, da come si aspetta o suppone che gli si risponda.

Molti problemi psicologici sono mantenuti dal modo in cui gli altri rispondono o interagiscono con la persona che ne soffre, ad esempio la condizione depressiva è mantenuta quando gli altri fanno le cose al posto del depresso, favorendo in lui uno stato di inattività.

Rispondere o interagire con il paziente in modo diverso da come gli accade di solito, significa comportarsi con lui schivando le sue predisposizioni di base, non fare ciò che lui si aspetta che noi facciamo, non dare attenzione a ciò che di solito la riceve.

Quando il paziente agisce prevede di ricevere una certa risposta dall’altro, e ha già ragionato su come rispondere successivamente ad essa, evitare quell’aspettativa significa interrompere degli automatismi e costringerlo a pensare.

In pratica, se siamo riusciti a sederci accanto a lui, possiamo mischiargli le carte che ha per fare in modo che le osservi da un punto di osservazione alternativo, e quando accade restargli accanto senza suggerimenti. Possiamo stare lì mentre perde l’equilibrio senza diventare un appoggio, possiamo osservare con lui le emozioni che prova senza interromperle, possiamo modificare il contesto, in questo caso la relazione, affinché lui trovi nuove strategie di adattamento.

A stare davanti o dietro sono buoni tutti, il difficile è stare appaiati (F. De Andrè).

Affiancare il paziente non in un processo volto a trovare sé stesso, perché si cercherebbe nei soliti posti, ma in un processo di costruzione di sé stesso, in cui sperimentare nuove modalità di risposta agli eventi, nuove modalità di pensare e di osservare i propri sentimenti e quelli degli altri.

Affiancarlo vuol dire anche non fare al posto suo, significa deviare i concetti precostituiti per stimolare il paziente a pensare, significa osservare con caute rassicurazioni le occasioni in cui il paziente perde e ripristina il suo equilibrio.

Quando si salgono le scale c’è un momento in cui si sta su un piede solo, è lì che ci si solleva.

Quando un paziente arriva in una Comunità Terapeutica, oltre ai suoi problemi, si porta dietro anche le sue convinzioni.

Le sue convinzioni su cosa sia una Comunità, dedotte da altri percorsi terapeutici o da altri contesti simili, le sue convinzioni su come la pensano gli operatori rispetto ai tossicodipendenti, sul fatto che qualcuno vorrà addomesticarlo o che è contro di lui.

E’ da queste convinzioni, da questi preconcetti, che inizierà a relazionarsi all’interno della Struttura Terapeutica, probabilmente sospettoso e diffidente.

Quando si inizia un percorso terapeutico in Comunità anche la paura (o lo stato ansioso) ha delle implicazioni importanti, soprattutto perché molti pazienti si vergognano di avere paura e la connotano come un cosa da persone deboli.

A questo proposito, dal punto di vista terapeutico sarà importante agire prima sulla vergogna e successivamente sulla paura, creando un contesto sufficientemente sicuro in cui permettere al paziente di sperimentare l’emozione che evita o che si obbliga ad evitare.

La vergogna è un’emozione sociale che si prova quando si teme un fallimento personale rispetto a degli standard che ci si è posti, è un’emozione secondaria che deve essere appresa e si sviluppa con la crescita dell’individuo e con l’interazione sociale.

La vergogna è un’emozione dell’autoconsapevolezza che si produce in seguito all’autovalutazione di un fallimento personale rispetto ad uno standard desiderato in accordo a regole, scopi o modelli di comportamenti condivisi.

E’, quindi, un’emozione legata alla competenza sociale, cioè alla valutazione e alla comprensione di standard culturali a cui la persona cerca di aderire.

La vergogna scaturisce quando l’individuo devia rispetto alla norma sociale, percependo il senso di fallimento tipico di questa emozione.

Poiché la vergogna nasce dalla valutazione della propria inadeguatezza, l’individuo mette in discussione non il cosa fa ma il cosa è, rendendo impossibile l’opportunità di porre rimedio al proprio errore.

Questa è una importante differenza che c’è tra il senso di colpa e la vergogna.

Il senso di colpa, infatti, mette in discussione il cosa ho fatto, concedendo alla persona la possibilità di riparare all’errore.

Inoltre, mentre la vergogna è accompagnata dalla percezione di un fallimento totale o parziale della propria dignità e dalla sensazione di pericolo per un abbandono affettivo, il senso di colpa segue la trasgressione e attiva l’angoscia della punizione.

La vergogna è il frutto di uno stato interno del sé e non il prodotto di un conflitto esterno, essa va a minare l’integrità del sé e delle proprie capacità.

Anche per questo riconoscersi tossicodipendente genera prevalentemente vergogna per ciò che si è piuttosto che senso di colpa per ciò che si è fatto.

Spesso il paziente non avverte di aver creato dei danni a qualcuno con il suo comportamento ma solo a se stesso, come se la sua condotta tossicomanica non avesse ripercussioni, anche solo affettive, per le persone che gli stanno vicino.

Recenti studi (Damasio et al, 2007) hanno anche evidenziato come a livello cognitivo la vergogna (ma anche il senso di colpa) siano elaborate dalla corteccia prefrontale ventromediale, suggerendo che un danneggiamento di questa area cerebrale interferisca con l’elaborazione affettiva soprattutto nei dilemmi morali che implicano una violazione personale di quella che è considerata, in base agli standard del contesto culturale di appartenenza, una violazione della norma morale.

Osserviamo in pazienti molto diversi tra loro per le loro storie di apprendimento, atteggiamenti e schemi di pensiero automatici in particolari contesti e situazioni, rileviamo un concatenamento di emozioni e di pensieri che si traducono in azioni come se ci fosse un copione prestabilito.

Tale aspetto va a confermare quanto la tossicodipendenza sia una patologia con specifiche caratteristiche di funzionamento sia dal punto di vista neurobiologico sia dal punto di vista prettamente psicologico e comportamentale.

Le predisposizioni di base del paziente sono automatiche, non pensate e nemmeno dubitate, è come se ogni tipo di valutazione cognitiva, che dovrebbe far seguito alla registrazione emotiva di un evento esterno, non avesse tempo di attivarsi, sopraffatta dall’azione. La sequenza utile per esprimere sé stessi nel mondo è: emozioni/sensazioni – riflessione – azione, in altre parole: corpo – mente – comportamento.

Affinché questa sequenza si realizzi è necessario che gli stati affettivi si esprimano in modo regolato, e questo avviene quando ci si sente sicuri cioè, come direbbe Winnicott, quando la madre è sufficientemente buona.

In uno stato affettivo regolato un individuo ha una capacità riflessiva maggiore e più accessibile, le sue percezioni non sono filtrate rigidamente, non ha rappresentazioni preconfezionate di sé e degli altri.

Gli automatismi vengono sostituiti dalla flessibilità della risposta e la reattività è sostituita dalla spontaneità.

Compito del terapeuta è quindi quello di favorire la costruzione di un contesto affettivamente sicuro in cui il paziente, dopo l’attivazione emotiva, non abbia a disposizione i suoi automatismi, ma sia costretto a pensare, o almeno a cercare modalità comportamentali diverse o nuove.

Proporre risposte alternative da quelle che ha avuto nel corso delle sue esperienze di vita e diverse da quelle che pensa o suppone di ricevere, da quelle che si sono concatenate nel corso delle sua storia, rappresenta una strategia utile per creare un tempo di latenza tra l’emozione e il comportamento.

Il paziente parte dal presupposto di ricevere una determinata risposta se porrà una domanda in un determinato modo, permettere che questo non accada, può stimolarlo a pensare, a cercare alternative, ad aprire un primo spiraglio di autoriflessività.

Finché il militare non uccide, è come un bambino. Lo diverti facile. Non essendo abituato a pensare, quando uno gli parla è costretto, per cercare di capire, a decidersi a sforzi opprimenti. Il capitano Frèmizon non mi uccideva, nemmeno se ne stava a bere, non faceva niente con le mani, né con i piedi, cercava solamente di pensare. Era assolutamente troppo per lui, lo tenevo per la testa (Celine, 1932).

Non si suggeriscono modalità alternative, non è neanche importante che il paziente trovi la modalità più funzionale di esprimersi, è sufficiente che possa sperimentarsi in assenza di un copione da recitare.

E’ probabile che a questo punto il paziente non sappia cosa fare e che il suo sistema emotivo si attivi, ci sarà un momento di crisi dopodiché sarà costretto a pensare.

 

Il modello cognitivo-comportamentale dell’ansia per la salute

Sebbene esistano numerose malattie gravi in grado arrecare danni importanti alla salute, la caratteristica della persona con ansia per la salute è quella di non trovare mai una vera soluzione alle proprie preoccupazioni.

 

Viviamo in un mondo in gran parte dominato dalla dicotomia, i cui opposti sembrano spesso essere le uniche interpretazioni accettabili. Bello/brutto, giusto/sbagliato, sono solo alcuni degli esempi di questo modo di pensare che la terapia cognitivo-comportamentale standard ha denominato bias cognitivi, ovvero errori di pensiero e di ragionamento che possono considerevolmente compromettere la qualità della vita, se rigidi e poco inclini alla messa in discussione.

L’ansia per la salute, comunemente conosciuta come ipocondria, rappresenta un disturbo molto diffuso tra la popolazione e che trova nella dicotomia sano/malato uno dei fattori precipitanti e di mantenimento della sintomatologia che tipicamente si manifesta. Infatti, una delle idee che sovente riferiscono i pazienti è che essere sani significhi ‘assenza di malattia’: secondo questo ragionamento polarizzato, per definirsi sana la persona deve scongiurare ogni segnale di una possibile malattia, percepita come evento catastrofico che difficilmente sarà in grado di fronteggiare. In sostanza, ulteriori fattori contribuiscono all’instaurarsi e al perpetuarsi del disturbo: l’illusione di poter avere controllo su tutti i possibili eventi futuri e l’intolleranza dell’incertezza, ovvero l’incapacità di assumersi rischi, anche minimi, legati alla propria salute.

Per mantenere questa illusione di controllo e acquietare la percezione di incertezza, il soggetto ipocondriaco attua uno spostamento selettivo dell’attenzione, focalizzandosi sulle sensazioni provenienti dal proprio corpo e accorgendosi pertanto di ogni minima modificazione dello stato dell’organismo. Così facendo egli avrà l’idea (illusoria!) di poter individuare tempestivamente una malattia e scongiurarne dunque l’epilogo infausto, già costruito nella sua mente sotto forma di immagini terrifiche: la stanza e il letto di ospedale, le cure dolorose, il corpo malato in balia di atroci sofferenze, lo sconforto delle persone care e così via.

Una precisazione: il soggetto con ansia per le malattie può tipicamente adottare due strategie alla lunga disfunzionali: 1) visite mediche frequenti (medico di base o altri specialisti) con richiesta di rassicurazione (sia del medico che dei familiari o degli amici) nel tentativo di controllare ogni possibilità di malattia; 2) evitamento, ovvero sottrarsi a qualsiasi stimolo riguardante le malattie poiché il solo pensare alla possibile malattia crea un forte stato di ansia che il soggetto tenta di gestire attraverso appunto l’evitamento di visite mediche, informazioni circa la salute, discorsi su morte o malati ecc.. Ovviamente né la prima né la seconda strategia risultano funzionali, anzi divengono entrambe fattori di mantenimento e di cronicizzazione della problematica.

Sebbene esistano numerose malattie gravi in grado arrecare danni importanti per la salute (la pandemia in corso ne è una prova, purtroppo, tangibile), la caratteristica della persona con ansia per le malattie è quella di non trovare mai una vera soluzione alle proprie preoccupazioni in quanto immersa in una serie di circoli viziosi che si autoalimentano e rafforzano. Leveni e colleghi (2017) affermano che l’ipocondria non è un problema di salute, bensì un problema di preoccupazione: l’attenzione selettiva ai pensieri negativi circa la possibilità di ammalarsi (e di poter fare qualcosa per impedirlo) blocca il soggetto nel suo stesso rimuginio, incrementando di conseguenza l’ansia, che a sua volta aumenterà la focalizzazione attentiva sui pensieri legati alla malattia e sui cambiamenti fisiologici del corpo, ipotesi sostenuta per giunta dal modello metacognitivo di Adrian Wells (2012). Sono proprio i cambiamenti fisiologici che avvengono di norma all’interno del nostro organismo, e che dai soggetti non ipocondriaci vengono interpretati come tipiche fluttuazioni (basti pensare al normale aumento del battito cardiaco dopo uno sforzo fisico che una volta a riposo viene ripristinato secondo la sua normale attività), ad essere considerati possibili segnali di una malattia e come tali hanno necessità di essere controllati per evitare ogni possibile esito dannoso. L’ansia aumenta e con essa si attiva la cascata di reazioni chimiche tipica dell’allerta (es: l’organismo rilascia adrenalina, il cuore pompa più sangue verso le parti distali del corpo ecc.) e il soggetto si sente in questo modo soverchiato dalla propria risposta ansiosa: la persona, in sostanza, si ritrova ‘ingannata’ dai suoi stessi pensieri e interpretazioni catastrofiche.

Secondo Salkovskis (1989) l’ansia per la salute è il risultato di un’interpretazione distorta dei segnali provenienti dal corpo: le fluttuazioni fisiche comuni vengono trattate come solide prove di una malattia più o meno grave e l’impatto emotivo conseguente varia a seconda del senso di minaccia percepito, che è dovuto principalmente all’interazione di quattro fattori: 1) percezione della probabilità che si manifesti la malattia temuta; 2) percezione della gravità e dei costi della malattia (sofferenza fisica, responsabilità per il dolore provocato alle persone care); 3) percezione della capacità di far fronte alla malattia; 4) percezione di quanto si possa influire sul decorso della malattia (mezzi di cura efficaci, nonostante capiti che la stessa terapia medica possa essere percepita come disastrosa in termini di sofferenza). L’equazione dell’ansia, utilizzata nella terapia cognitivo-comportamentale per spiegare l’intensità dei sintomi ansiosi, può essere quindi adattata per l’ipocondria, al fine di favorire una più chiara comprensione, da parte di chi ne soffre, dei meccanismi cognitivi alla base del disturbo (Fig. 1):

Ansia di malattia il modello cognitivo comportamentale del disturbo Imm 1

Fig.1: Equazione dell’ansia

Nello specifico, maggiore è la percezione della probabilità che si verifichi la malattia che si teme, la gravità e i costi associati, e minore la percezione della propria capacità di affrontare l’evento e i mezzi a disposizione per influire sul suo decorso, maggiori saranno i sintomi ansiosi esperiti dal soggetto, che a loro volta innescheranno circoli viziosi dai quale difficilmente egli riuscirà a sottrarsi, almeno fin quando l’intensità dell’ansia sarà oltre i limiti. Importante quindi, prima di qualsiasi intervento cognitivo e comportamentale, è ristabilire livelli di ansia tollerabili e gestibili affinché la persona si prepari a sfidare le sue credenze circa le malattie in modo più funzionale e con meno ostacoli.

Un altro punto da sottolineare per la comprensione dell’ipocondria è quello relativo ai concetti di probabilità e possibilità: per una persona con ansia per la salute ciò che è possibile è anche probabile, ovvero l’evento in quanto possibile è probabile che accada, sovrapponendo quindi i due concetti. Ciò che mal funziona in questo caso è un buon calcolo delle probabilità: ad esempio, la probabilità che un dolore ad un muscolo sia dato da uno strappo è più alta della probabilità che lo stesso dolore sia il sintomo di una grave malattia dell’apparato muscolo-scheletrico, ciononostante le due ipotesi vengono considerate ugualmente probabili, aumentando il rischio di una interpretazione erronea dei sintomi somatici che porta inevitabilmente a mettere in atto comportamenti di controllo e attenzione focalizzata sul corpo.

La terapia cognitivo-comportamentale si avvale di numerose tecniche che aiutano il paziente a mettere in discussione le proprie credenze negative di malattia, invitandolo a sfidarle sia da un punto di vista delle distorsioni cognitive che in termini di esperimenti comportamentali; questo permette di spezzare i circoli viziosi più robusti e far comprendere al paziente che la sua sofferenza non è data da una problematica medica, bensì psicologica, un problema cioè di ansia e di preoccupazione al quale può far fronte con impegno e strumenti validi. La persona con ansia per la salute tende infatti a sovrastimare la possibilità che un sintomo sia il segno di una malattia (sovrastimando inoltre la gravità) e al contempo a sottostimare la propria capacità di far fronte all’evento: la terapia cognitivo-comportamentale offre un modo efficace per ridimensionare le interpretazioni catastrofiche e restituire senso di efficacia personale nel superamento del proprio disturbo, spesso eccessivamente invalidante in diverse aree della vita (sociale, familiare, relazionale, lavorativa).

 

La difficoltà a superare un amore finito nel film e nel libro ‘Il Grande Gatsby’

Il libro di Francis Scott Fitzgerald, Il Grande Gatsby, come gli omonimi film tratti dal suo capolavoro, illustrano l’ossessione del protagonista Jay Gatsby per Daisy Buchanan, una donna con cui ha intrattenuto una relazione significativa terminata bruscamente cinque anni prima.

 

Dopo aver condiviso un progetto di vita insieme, la coppia si separa con estremo dolore. Non passa molto tempo e Daisy si sposa con un altro uomo, burbero e fedifrago, ma ricco di famiglia, tutto il contrario di Jay che, affabile e generoso, è cresciuto in un contesto impervio. Daisy va avanti, Jay rimane a fissare la luce verde, così passano cinque anni e il ricordo di quella storia perduta prevarica tutta la sua esistenza.

Similmente a Gatsby, molte persone proseguono la loro vita dopo la fine di una storia dolorosa, magari si fidanzano o restano single. Lavorano, studiano, coltivano altri interessi, cambiano città, insomma, vanno avanti per la propria strada. Quello che cambia da persona a persona è l’uso del tempo.

‘Usare il tempo’ vs ‘Lasciarsi andare’

Usare il tempo è quello che conferisce un cambio di direzione, una svolta tale da recuperare le energie. Usare il tempo significa porsi le domande giuste, introdurre un certo tipo di lavoro nel proprio spazio mentale per strumentalizzare quella sofferenza a proprio vantaggio, per uscire da una situazione stagnante nella quale i ricordi, il passato, i sogni infranti non regalano una vera gratificazione, ma solo un dolore persistente e controproducente.

Lasciarsi andare, al contrario, vuol dire ripensare ad una storia finita, immaginare che la persona sia ancora presente, osservare il cellulare in attesa di una chiamata, sbirciare sul profilo per avere un’ennesima conferma sulla sua vita, nonché perdersi in congetture e chiodi fissi.

Tutto questo porta a sprofondare nel passato, nella frustrazione, anziché evolvere e rinascere, valorizzare se stessi e consolidare legami appaganti.

Perdersi nei ricordi e nelle speranze apporta altro dolore

Ho incontrato vari individui che si ostinavano a sottovalutare l’importanza del tempo come uno strumento di crescita per recuperare le energie perdute, la tranquillità e iniziare ad occuparsi davvero di sé, anziché affossarsi nella frustrazione. Molte di queste persone commettevano un altro errore: confondere l’ex, con cui non avevano più contatti o che sentivano di tanto in tanto, con la sua immagine scaturita dai ricordi rievocati, con i pensieri e i film mentali.

Così facendo amplificavano una relazione immaginifica, senza fare una distinzione emotiva tra ciò che è falso e ciò che è vero. Ad esempio, si può essere consapevoli della differenza tra immaginare, uno spazio in cui si sogna, si rivive e si continua quel rapporto con la mente, e vivere la realtà attuale, in cui si ravvisa l’assenza dell’altro, si viene a conoscenza della sua nuova vita tramite amici o sui social.

Sognare ad occhi aperti in queste situazioni protegge dal dolore della perdita (Schimmenti et al. 2019). A lungo andare, però, rischia di diventare lo strumento prediletto per regolare la rabbia, la solitudine, la delusione, anziché liberarsi del periodo stressante e cominciare un periodo di risalita e crescita nella quale è davvero possibile incontrare un partner adatto alle proprie esigenze, con cui costruire un legame unico e autentico.

Quando una relazione finisce, non si può più godere della quotidianità di una volta, anche quando si continua ad avere a che fare con l’ex. Qualcosa si è rotto e ci si ritrova di fronte ad un confronto tra passato e presente, tra i tempi lieti e felici, e quelli attuali, in cui regna l’assenza.

Crogiolarsi nella fantasia, ma anche attendere un ritorno, sono strategie per rassicurarsi che nulla è cambiato, che si può avere ancora speranza sul futuro, anche se, sotto sotto, si sa già che non è così.

Fossilizzarsi sul passato, quindi, amplifica l’importanza del legame, del partner, della relazione trascorsa, fino a rifugiarsi in una dimensione illusoria, nella quale la vita è immaginata come preziosa e gratificante. Questa vita, però, non solo non è reale, ma è il frutto di emozioni e pensieri che non sono stati esplorati; di conseguenza arriva il fatidico momento in cui ci si ritrova a tu per tu con i fatti: per quanto si possa ‘razionalmente’ appoggiare i piedi per terra, tenendo distinti i sogni dalla realtà, lasciarsi andare alla fantasia senza freni porta ad aspettarsi qualcosa dall’ex che, magari, è già andato avanti come ha fatto Daisy.

Quando ci si accorge che l’ex non può darci niente, allora la frustrazione aumenta a dismisura. Qui, si fa sentire quell’amara verità a cui abbiamo chiuso gli occhi: non è possibile ricostruire il passato, non si può tornare indietro e rivivere di nuovo quei tempi preziosi.

Più si osserva la fine di una relazione, la perdita dei sogni e dei progetti con paura, con rabbia, più si tende a procrastinare il percorso di rinascita nel quale si recupera la sensazione di vitalità persa negli sforzi di ricomporre un passato.

Se le immagini, e i ricordi, sono di per sé filtrati dal nostro modo di esperire e spiegarci la realtà, rivivere il passato, immaginando al contempo la prosecuzione della storia, distorce sempre di più i veri fatti, fino a vedere il rapporto come immacolato, perfetto, insostituibile degno di essere rimpianto.

Così, però, non si vedono le incrinature, ci si ostina ad osservare solo gli aspetti positivi senza avere una visione globale della relazione che conserva intemperie, dettagli tralasciati, degni di essere esplorati.

Le abitudini da rivisitare per recuperare le energie

Fortunatamente esistono poche persone disposte a comprare la casa nelle zone limitrofe all’ex, come ha fatto Jay, dopo il matrimonio tra Daisy e Tom, nonché la nascita della loro figlia. Non è infrequente, però, continuare a pensare alla relazione passata, o alla storia finita sul nascere, malgrado l’ex abbia già costruito un rapporto con un’altra persona.

Sono ancora tanti quelli che continuano a frequentare bar, locali, compagnie di amici, illudendosi di ‘stare bene’, di esserci ormai passati sopra, senza aver superato niente. A dimostrarlo è il crollo emotivo quando si rivede l’ex, o si apprende della sua nuova relazione, quando si incontra un saluto indifferente, o ancora quando non chiama più.

Mentre Jay organizzava le sontuose feste, colme di abbondanza e di fuochi d’artificio per richiamare l’attenzione di Daisy, si serviva di amici e sconosciuti, la gente comune si limita a ripetere le stesse abitudini per sperare in un incontro casuale e non parlo solo di locali nei quali si sa già di incontrare l’ex, ma anche di luoghi virtuali come i social. In ragione di ciò, sarà davvero così innocuo accettare cene condivise o sbirciare sui profili per avere l’ennesima certezza? Non è come osservare una porta chiusa allo sfinimento, ripetendosi che forse si sta aprendo uno spiraglio?

Ho visto diverse persone perdersi proprio qui: volevano continuare la propria routine ad ogni costo, trovavano pretesti futili per recuperare un rapporto perduto, come se non fosse cambiato nulla. Chi aveva un ex come collega, cercava di avvicinarsi, fingendo di ‘dover’ mantenere il quieto vivere e la colleganza, chi si presentava alla cena collettiva senza batter ciglio per dimostrarsi di essere ‘superiore’, chi semplicemente ritornava ai soliti posti, fingendo di ‘dover continuare’ una vita sociale. Chi si ostinava a tenere i contatti sui social, nonostante pullulassero di foto ritraenti l’ex con la nuova fidanzata, oscillando dalla disperazione al disprezzo. ‘Tanto non fa sul serio con lei/lui’ è una rassicurazione senza sbocchi, perché di fatto nessuno conosce a fondo il rapporto degli altri, ma ripetersi frasi simili ha lo scopo di mitigare la paura di perdere per sempre la relazione.

Jay si ostinava a negare il coinvolgimento di Daisy per Tom, così come molte donne, o uomini, non riflettono nemmeno di fronte ad una nuova relazione, raccontandosi che prima o poi questa nuova relazione diventerà solo una sbandata, una mera parentesi. Così lo spazio mentale non viene usato per sentirsi davvero gratificati, ma per inserire il dito nella piaga e soffrire ancora.

Tanti hanno interpretato la disponibilità al dialogo dell’ex, per non parlare di visualizzazioni delle storie, messaggi, chiamate, appuntamenti inconcludenti o serate di sesso e risate, come prove schiaccianti di interesse, come si intravede nel rapporto tra Jay e Daisy. Sebbene ci sia una relazione tra i due, Gatsby è troppo concentrato a recuperare il tempo perduto per accorgersi che la giovane non ha alcuna intenzione di abbandonare il marito e di stare con lui, ma lo usa per distrarsi, divertirsi: vivendo nel passato, nei ricordi, il protagonista non ha costruito quegli scudi emotivi tali da permettergli di stare in guardia o addirittura di lasciar perdere, così si ritrova impreparato e fragile. Jay vede tutt’altro: una Daisy che lo aspetta, che non ha desiderato nessun altro, e non una Daisy pronta a lasciarlo, quando la situazione si farà dura.

Perché è importante ripercorrere la relazione per superare il dolore?

Le relazioni sentimentali si costruiscono in varie fasi. Nessuno si lega davvero ad un partner perché è ‘bello, intelligente, simpatico’ o perché condivide alcuni valori o progetti di vita. Ci si lega ad una specifica persona, e non ad un’altra, per quello che ci conferma passo per passo.

La coppia, quindi, si forma attraverso tre passaggi cruciali: la formazione, il mantenimento e la rottura (Guidano, 2016).

La prima fase coincide con la conoscenza del partner. Non si tratta necessariamente del primo incontro, ma dell’esigenza di approfondire la conoscenza che porta a selezionare una persona, scartandone altre. Questo non vuol dire aver trovato una persona adatta alle vere necessità, bensì significa essere attratti da qualcuno per come si sta ponendo nei nostri riguardi, per quello che non riusciamo ad afferrare a tal punto da credere che con quella persona potrebbe funzionare. Ad esempio, Jay è attratto da Daisy perché sente che la posta in gioco per conquistarla è altissima, rasenta l’impossibilità.

Poi arriva la fase di ‘mantenimento’, ovvero quando la coppia si stabilizza, l’idealizzazione inizia a svanire, i litigi, le incomprensioni palesano i difetti del partner, ma si resta, si insiste. Per risolvere davvero il problema, è importante esaminare la dinamica dei conflitti nei quali si acutizzano i pensieri e le percezioni negative di sé e dell’altro. Ad esempio, Gatsby insiste nel convincere Daisy a restare nella sua dimora, senza osservare attentamente la sua riluttanza a comunicare a Tom la relazione clandestina. In questi momenti, Jay ha la prova che Daisy non resterà accanto a lui, ma non se ne va. Perché? Perché, senza che lui se ne accorga, è proprio questo a permettergli di continuare, anziché lasciarla: il fatto che questo rifiuto sia l’ennesima conferma della sua impossibilità di essere amato alla luce del sole, di essere scelto da una donna prestigiosa, ricca di famiglia e quindi ambita da un certo ceto sociale abbiente.

Infine, c’è la fase della rottura, un periodo estremamente delicato che il protagonista non attraversa del tutto, per via del tragico finale. In molti casi la rottura non parte quando si comunica la fine di una relazione, bensì quando avviene un distacco più netto, ovvero quando lui, o lei, lascia la casa, quando ricomincia una nuova vita di coppia con un’altra persona, quando tronca definitivamente tutti i contatti (Guidano, 1988; 2016).

Cosa succede quando la storia resta altalenante? Quando ci si vede ancora? Il problema della rottura della relazione non sta solo in un’azione pratica, come cancellare i contatti, rifiutare le cene collettive o prendere un po’ di sana distanza dal bisogno impellente di conversare o chiedere l’ennesima spiegazione. Sta soprattutto nel modo in cui si osservano tutte queste azioni, nel modo in cui si analizzano gli aspetti di fondo. Sta nel passare da una modalità passiva nella quale si ritiene di aver perso una vita felice, di non essere in grado di andare avanti con le proprie gambe, a sentire quelle sensazioni di pesantezza, di frustrazione come il risultato di una percezione di sé abbattuta e fragile, sola e annullata che influenza le azioni. La rottura non è un passaggio immediato, ma iniziare ad osservare questi aspetti, anziché piangersi addosso di continuo, significa cambiare direzione, girare il volante per incamminarsi in un percorso di crescita e di liberazione. Per cambiare la propria vita.

Elaborare la sofferenza permette di tornare a vivere un’esistenza reale

Se Gatsby avesse intrapreso un vero percorso personale, avrebbe capito che stava rincorrendo un’immagine di Daisy ben distante dalla realtà, perché quell’immagine lo faceva sentire un uomo potente, completo, vivo. Quello che Gatsby non afferra è che si vede con occhi negativi, si considera una persona senza valore per via della sua povertà, e visto che non ne è consapevole, investe tutte le sue risorse per diventare un’altra persona, con ogni mezzo possibile e illegale in suo possesso. Questo rifiuto verso sé lo porta a desiderare una donna che lo respinge, anziché scappare con lui, sfuggente e frivola.

La sceglie, e ci sta, perché sa già come andrà a finire, sa già che finirà per prediligere un uomo completamente diverso, aggressivo, rozzo che non la conforta, ma la lascia sola a ripetersi che preferirebbe che la figlia fosse una ‘stupida oca giuliva’. E infatti Jay non è pronto ad amare, ad investire in una relazione sentimentale nella quale viene corrisposto, proprio perché non crede di meritarsi le attenzioni e l’affetto in una vita di coppia.

Questo nodo emotivo, scaturito dalla sua solitudine, dalla povertà affettiva nella quale è cresciuto lo porta a preferire Daisy alle donne che sceglierebbero lui tra milioni di uomini, senza sfarzi, fronzoli e inganni.

Se Jay avesse preso contatto con quella parte, abbandonata, sola, affranta, vergognosa delle sue umili origini, senza combatterla, avrebbe dato una svolta alla sua vita. Si sarebbe liberato di quelle spiacevoli sensazioni che ha coperto con la sua facciata fintamente gentile e affabile. Avrebbe osservato Daisy con occhi diversi, ovvero una donna che si lascia conquistare in fretta da Tom con noncuranza e leggerezza, e non una persona unica e insostituibile. Avrebbe previsto che una relazione con lei non lo avrebbe reso felice, ma solo inadeguato e solo. Avrebbe visto il modo in cui si vedeva, ovvero come il povero sfortunato che ‘deve riscattarsi’ con una donna di un certo calibro, ma sostanzialmente vuota. Così avrebbe capito di non aver bisogno di Daisy per essere felice, per sentirsi realizzato.

Prendendo contatto con i suoi bisogni, con le sue parti di sé avrebbe recuperato l’energia perduta dietro ad un fantasma, pertanto si sarebbe staccato prima del previsto, senza investire tempo, denaro e amore inutilmente.

Similmente al protagonista, una persona che non dimentica una storia importante, nonostante il tempo e gli sforzi, sta usando quella perdita per rafforzare un’immagine negativa di sé. Più si ricorda, si pensa all’altro, più ci si vede come gli sfortunati, i perdenti che non ritorneranno più felici, gli sconfitti. Tutto questo fortifica la sofferenza, la trattiene anziché lasciarla andare, e a lungo andare impoverisce perché è come vivere con una persona demotivante e frustrante, che abbatte, piuttosto che incoraggiare.

Superare il dolore, quindi vuol dire imparare ad affrontare quella relazione, dall’inizio alla fine, portandola in un percorso. Più si sperimentano le emozioni, i pensieri, nelle varie tappe del rapporto, più viene spontaneo staccarsi da quel rapporto, dal passato, perché cambia il modo di percepirsi e di vedere l’altro. Si passa, pertanto, da una rappresentazione negativa che conduce dritti al dolore, ad una rappresentazione costruttiva, gratificante, tale da incentivare una scoperta di nuovi lati di sé e delle persone giuste, delle caratteristiche che devono avere per costruire una relazione appagante.

 

IL GRANDE GATSBY (2013) – Guarda il trailer del film:

Uso dei social media e sofferenza emotiva

Il termine social media si riferisce a tutte quelle piattaforme online che permettono agli individui di interagire, scambiarsi contenuti e comunicare con gli altri (Carr & Hayes, 2015).

 

Si stima che circa il 92% degli adolescenti ne faccia uso e che nello specifico il range di età tra i 13 e i 17 anni sia quello che comprende i più assidui utenti (Lenhart et al., 2015) ed infatti sono soprattutto i teenagers a trascorrere un tempo considerevole sui social network, venendo assorbiti per ore dai social, pubblicando foto, commentando i post, e guardando i contenuti messi online dagli amici (Sampasa-Kanyinga & Lewis, 2015).

L’utilizzo marcato di queste piattaforme in un periodo così delicato per la formazione dell’identità individuale va tuttavia ad incidere su vari aspetti della loro personalità, influenzando il comportamento oltre che la loro autostima (McCrae, 2018), in quanto i social media diventano un mezzo per sentirsi in contatto con gli altri, ma anche per essere apprezzati e validati dai pari, e quando non si riceve il feedback sperato, possono emergere una serie di problemi di salute mentale, come l’aumento della depressione e dell’ansia (Kim, 2017). Vari studi hanno infatti approfondito i problemi psicologici conseguenti all’utilizzo dei social network e, tra i tanti, una revisione sistematica di 11 studi ha rilevato nei bambini e negli adolescenti una relazione positiva significativa tra l’uso dei social media e i sintomi depressivi (McCrae, Gettings, & Purssell, 2017), mentre una meta-analisi di 23 studi ha mostrato un’associazione tra l’uso problematico di Facebook e lo stress psicologico in adolescenti e giovani adulti (Marino, Gini, Vieno, & Spada, 2018).

A partire da queste premesse, il presente studio (Keles, McCrae & Graelish, 2020) intende indagare l’influenza dei social media sulla depressione, l’ansia e lo stress psicologico negli adolescenti attraverso una revisione sistematica degli studi disponibili sull’argomento. Nello specifico, sono state selezionate le ricerche di PsycINFO, Medline, Embase, CINAHL e SSCI sugli esiti dell’uso dei social media sul benessere psicofisico degli adolescenti di età compresa tra i 13 e i 18 anni e, dopo aver individuato 4 domini (tempo speso, attività, investimento e dipendenza), sono state valutate le relazioni presenti con la depressione, l’ansia e lo stress psicologico.

I dati mostrano la presenza di una relazione positiva significativa tra il tempo speso sui social e l’aumento di problemi psicologici (Sampasa-Kanyinga & Lewis, 2015), rilevando soprattutto un aumento di sintomi depressivi; Hanprathet et al. (2015) hanno infatti trovato un incremento sostanziale dei sintomi depressivi in soggetti dipendenti da Facebook. Inoltre, Li e colleghi (2017) hanno visto come l’insonnia e la ruminazione possano essere considerati dei mediatori tra l’uso dei social media e la depressione, mentre un’alta autostima può limitare l’impatto della dipendenza dai social e delle conseguenti disfunzioni psicologiche associate. Ancora, si è visto che sia un uso attivo che un uso passivo di Facebook è associato ad un aumento della depressione (Frison & Eggermont, 2016), e che maggiore è l’investimento sui social media e maggiore è la probabilità di riscontrare depressione negli adolescenti (Dumitrache et al., 2012).

In conclusione, possiamo dire che gli studi mostrano un’associazione positiva significativa tra l’uso dei social media e l’aumento di problemi psicologici nei teenagers, per cui una serie di interventi sono necessari per rendere questi individui consapevoli dei rischi dell’esposizione prolungata ai social media, in modo da ridurre gli effetti negativi sulla salute dell’individuo.

Il Cervello e le sue Meraviglie: tra teatro e neuroscienze – Un progetto di Abraxa Teatro

Il progetto in programma dal 16 ottobre all’11 novembre 2020, riunisce in 10 incontri, un team internazionale di personalità scientifiche di livello europeo e di studiosi delle arti performative e artisti, che illustrerà il mondo affascinante e misterioso del cervello umano, e divulgherà le recenti scoperte delle neuroscienze in modi accessibili a tutti.

 

Dal 16 ottobre all’11 novembre 2020 è attivo il progetto “Il Cervello e le sue meraviglie”, promosso e realizzato dalla compagnia Abraxa Teatro, sensibile alle tematiche culturali contemporanee e alle potenzialità delle arti performative, con la direzione artistica di Emilio Genazzini e la direzione scientifica di Clelia Falletti, docente dell’Università Sapienza di Roma, che ha coordinato lo sviluppo di tutti gli incontri. Il progetto è vincitore dell’Avviso Pubblico “Eureka!Roma” e fa parte di Romarama, il palinsesto culturale promosso da Roma Capitale, ed è realizzato in collaborazione con SIAE.

Il progetto in programma dal 16 ottobre all’11 novembre 2020, riunisce in 10 incontri, per la prima volta in Italia, un team internazionale di personalità scientifiche di livello europeo e di studiosi delle arti performative e artisti, che illustrerà il mondo affascinante e misterioso del cervello umano, e divulgherà le recenti scoperte delle neuroscienze in modi accessibili a tutti. Numerosi artisti e scienziati si incontrano per mostrare e dimostrare gli effetti della fruizione della musica o dello spettacolo sul cervello, anche in condizione di malattie neurodegenerative. E contribuire a far conoscere come l’incontro tra teatro e scienza possa, a partire dai neuroni specchio, spiegare le basi neurofisiologiche dell’empatia, dal teatro alla quotidianità dei rapporti umani.

L’iniziativa abiterà luoghi insoliti come piazze, mercati, siti archeologici, parchi naturali e centri anziani, o ancora biblioteche, aule magne scolastiche e universitarie. Tutte gli incontri sono ad ingresso libero con prenotazione obbligatoria o consigliata, e sono svolti in sicurezza nel rispetto delle norme anti-Covid.

La condivisione del progetto tra docenti e operatori culturali, tra teatro e neuroscienze, consente l’elaborazione di un percorso innovativo che attraverso un nuovo linguaggio sarà capace di attrarre e di raccontare le neuroscienze con efficace affabilità. La coordinatrice scientifica dell’iniziativa è la docente de La Sapienza Clelia Falletti le cui competenze nell’ambito delle neuroscienze cognitive in rapporto agli studi e alle pratiche performative sono testimoniate dall’aver avviato nel 2007 un Master Europeo di teatro, neuroscienze cognitive, psicologia cognitiva, filosofia, scienze dello sport, con 5 università europee; dall’aver diretto nel 2011 il programma di ricerca d’Ateneo «Psicofisiologia dell’attore e dello spettatore nella loro relazione. Indagine interdisciplinare» e dall’aver promosso dal 2010 al 2013, alla Sapienza, cinque Convegni internazionali «Dialoghi tra Teatro e Neuroscienze».

Prenotazioni e ingressi

Ingresso libero. La prenotazione è consigliata o obbligatoria

Per info:

Canali social:

 

Programma

  • Venerdì 16 ottobre, ore 15:30 – Decisioni non decise, o l’asino di Buridano

con John Schranz (presenza on line), Roberto Cruciani, Valerio Sbravatti.

Coordina la prof. Clelia Falletti

Università Sapienza di Roma

Ex Vetrerie Sciarra – Aula A (in via dei Volsci, 122 San Lorenzo)

Prenotazione obbligatoria: [email protected] – entro venerdì 16 ottobre alle 10.30

Dibattito sul processo di decision taking, e sul cervello, questo sconosciuto, che prende decisioni per noi senza che noi abbiamo deciso. Decisioni non decise è il titolo dell’incontro tra un regista e docente di teatro che da Malta ha dato un forte impulso al reciproco apprezzamento di uno scambio tra Neuroscienze e Teatro, un musicista, e uno studioso che usa gli strumenti delle neuroscienze per guardare al cinema.

  • Lunedì 19 ottobre, ore 15:30 – Neuroscienze cognitive e arti rappresentative

con Nicola Modugno, Paola Quarenghi, Chiara Maione.

Coordina la prof. Clelia Falletti

Centro Fermi – Via del Viminale, 1

Prenotazione obbligatoria entro venerdì 16 ottobre, con nome cognome e data di nascita per preparare il pass, su [email protected]

Il neurologo fondatore di Parkinzone ONLUS per l’assistenza ai malati di Parkinson, una studiosa di teatro e implicata nella sperimentazione del teatro per il miglioramento delle condizioni dei parkinsoniani, una concertista, regista e cantante lirica, parlano di plasticità neuronale e commentano alcune strategie assistenziali che usano le arti.

  • Martedì 20 ottobre martedì, ore 11:00 – 1° Azioni ed Emozioni

con la partecipazione delle compagnie Circomare, La Bottega dei Comici, TradirEfare e Ygramul Teatro.

Coordina il regista Emilio Genazzini

Sul marciapiede di Piazzale Ponte Milvio

Prenotazione consigliata: [email protected]

Intervento di Teatro Urbano in cui si presenteranno sequenze di azioni fisiche e vocali, preparate per essere oggetto di investigazione durante gli altri incontri del progetto

  • Mercoledì 21 ottobre, ore 10:00 – Il cervello ritmico e il cervello musicale

con Roberto Cruciani, Chiara Maione, Valerio Sbravatti, Sista Bramini.

Coordina la prof. Clelia Falletti

Liceo Scientifico Blaise Pascal

Riservato agli studenti e comitato scientifico

Un musicologo, musicista e compositore, una studiosa di teatro cantante lirica e regista, uno studioso del cinema e musicista interessato alle neuroscienze, un’artista di teatro con esperienze che incontrano le neuroscienze cognitive, mettono le basi per cominciare a parlare della musica, potente strumento di comunicazione e quindi evolutivo per la specie umana, che precedette il linguaggio, per affrontare il discorso sulle caratteristiche funzionali del cervello ritmico e musicale, e gli effetti terapeutici della pratica musicale nella riabilitazione motoria e per il trattamento delle malattie neurodegenerative.

  • Martedì 27 ottobre, ore 11:00 – 2° Azioni ed Emozioni

con la partecipazione delle compagnie Circomare, La Bottega dei Comici, TradirEfare e Ygramul Teatro.

Coordina il regista Emilio Genazzini

Mercato di Ponte Milvio in via Riano

Prenotazione consigliata [email protected]

Secondo intervento di Teatro Urbano con le stesse modalità e presenze già descritte nel primo incontro.

  • Mercoledì 28 ottobre, ore 15:30 – La Nona di Beethoven. La Gioia tra psicologia e antropologia

con Vezio Ruggieri, Valerio Sbravatti, Rossella Ventura.

Coordina la prof. Clelia Falletti

Università di Tor Vergata

Lettere e Filosofia (AULA T1B) via Columbia, 1

Prenotazione obbligatoria: [email protected]

Uno psicofisiologo dedito allo studio delle emozioni e dell’immaginazione, una scienziata psicologa interessata all’epigenetica, insieme a un musicologo e una artista di teatro interessata alle neuroscienze, parlano della Nona Sinfonia di Beethoven, di psicologia ed esperienza estetica.

  • Giovedì 29 ottobre giovedì, ore 15:30 – Risonare con gli altri: le basi neurologiche dell’empatia nelle relazioni sociali

con Clelia Falletti, Gabriele Sofia, Chiara Maione.

Coordina la prof. Clelia Falletti

Biblioteca delle Galline Bianche – Viale delle Galline Bianche 105

Prenotazione obbligatoria: [email protected]

All’incontro partecipano due studiosi di teatro tra i primi fondatori dei dialoghi tra teatro e neuroscienze, e una musicista cantante lirica e regista, che a partire dai neuroni specchio spiegano le basi neurofisiologiche dell’empatia, per poi illustrare queste nozioni nella quotidianità dei rapporti umani.

  • Mercoledì 4 novembre, ore 15:30 – La mente meditativa

con Sista Bramini, Fabiola Camuti (presenza on line), Nicola Modugno.

Coordina la prof. Clelia Falletti

Museo Crocetti – via Cassia, 492

Prenotazione obbligatoria: [email protected]

All’incontro prendono parte un’artista di teatro con interessi ed esperienze che incontrano le neuroscienze cognitive, una studiosa di teatro interessata alle neuroscienze, uno scienziato neurologo impegnato nell’assistenza ai malati di Parkinson, in un dialogo che introduce l’argomento dei cambiamenti, anche duraturi, della struttura del cervello indotti dai compiti che è chiamato a sostenere.

  • Giovedì 5 novembre, ore 15:30 – Cervello adattativo e le sfide del mondo che cambia

con John Schranz (presenza on line), Roberto Cruciani, Giovanni Mirabella.

Coordina la prof. Clelia Falletti

Università di Tor Vergata

Lettere e Filosofia (AULA T12B) via Columbia, 1

Prenotazione obbligatoria: [email protected]

Un regista e docente di teatro, pittore e promotore di scambi tra Neuroscienze e Teatro, un musicista, una scienziata psicologa interessata all’epigenetica, uno studioso e musicista che guarda al cinema applicando le conoscenze delle neuroscienze parlano della plasticità del cervello che è alla base della sua capacità di modificare la propria struttura nel corso del tempo in risposta all’esperienza.

  • Mercoledì 11 novembre, ore 15:30 – Empatia degli spazi. Dentro la natura

con Elsa Leone, Sista Bramini, Camilla dell’Agnola.

Coordina la prof. Clelia Falletti

Parco di Veio – Appuntamento alla “Cascata della Mola” raggiungibile da via dell’Isola Farnese poi via Riserva Campetti.

Prenotazione consigliata: [email protected]

Una guida dei siti archeologici insieme a un’artista di teatro con interessi ed esperienze che incontrano le neuroscienze cognitive e una musicista diplomata in Viola e attrice, ci accompagnano a vivere un’esperienza emotiva e multisensoriale in un sito archeologico fatto rivivere dalla narrazione di un mito accompagnata da un canto.

 

Vasco Rossi, la timidezza e l’arte

‘La timidezza è una malattia gravissima, che mi toglie l’energia…Io la combatto con tutte le mie forze, ma spesso vince lei’.

 

‘Invidio poca gente, ma i non timidi sì…non hanno pippe, vivono bene, non hanno scudi…..Dicono che i timidi fanno simpatia! E allora? A me la timidezza non piace, va bene? Anche perché a volte sconfina nella presunzione…Il timido deve convincersi che non è al centro dell’universo. Mi ricordo che da ragazzo, avrò avuto 15 anni, non volevo entrare al cinema con la luce accesa.. perché mi imbarazzava che la gente mi guardasse, e un mio amico mi disse: Ma pensi che stiano lì a guardare TE? Ma cosa vuoi che gliene freghi di te, non sanno nemmeno chi sei… E poi fra dieci minuti ti hanno già dimenticato…..perché inizia il film…Datti una calmata’ (V. R.).

Ovviamente non stiamo delineando alcun quadro psicopatologico ma solo la semplice presenza, come riportato nelle parole del protagonista di questo articolo, di emozioni di timidezza, di un marcato giudizio critico verso di essa e comportamenti in cui si percepisce la fatica nell’esporsi a certi contesti sociali. Questo articolo non ha alcuna pretesa clinica ma ha come scopo quello di notare, attraverso una bella storia, su quanto l’esito della lotta contro parti di noi che non ci piacciono abbiano evidentemente avuto un ruolo nella genesi di una, facciamo due, tra le canzoni d’amore italiane più famose degli ultimi decenni. Intanto qualche informazione di contesto.

Siamo alla fine degli anni ’70, provincia modenese e Zocca nello specifico, un ragazzo nel pieno dell’adolescenza, tale Vasco Rossi, incontra spesso alla fermata della corriera, una certa Giovanna, figlia del titolare del bar sotto casa. La vede andare tutti i giorni a scuola, ma qui ritornano quegli aspetti collegati alla timidezza, la guarda solamente, senza esporsi, quella timidezza lo blocca. Tutti noi in una situazione del genere avremmo potuto pensare, qualora avessimo scelto con fatica di esporci, di scriverle un messaggio, mandare un amico per parlarle, come inventarsi altre soluzioni, anche creative, perché il desiderio di conoscerla accidenti se non sarebbe stato presente come pure quella lotta con quella timidezza. Beh la creatività di questo adolescente va un po’ oltre. Il suo modo per esporsi è quello di scriverle una canzone ‘in realtà quando ho scritto la canzone non la conoscevo, ho l’immagine di lei che scende dalla corriera quando tornava dalla scuola quindi mi sono costruito l’immagine Albachiara senza neanche capire come si chiamava’.

Ed, infatti, scrive dettagli che percepisce dalla finestra cogliendo quegli aspetti di timidezza per lui familiare:

Respiri piano per non far rumore
Ti addormenti di sera
Ti risvegli con il sole
Sei chiara come un’alba
Sei fresca come l’aria
Diventi rossa se qualcuno ti guarda
E sei fantastica quando sei assorta
Nei tuoi problemi
Nei tuoi pensieri
Ti vesti svogliatamente
Non metti mai niente
Che possa attirare attenzione
Un particolare
Solo per farti guardare
E con la faccia pulita
Cammini per strada mangiando una
Mela coi libri di scuola
Ti piace studiare
Non te ne devi vergognare..

Qualche anno dopo, nel 1983, Vasco trova il coraggio di confessare alla ragazza di averlo ispirato, ricordiamoci i costi di quella lotta con la timidezza. Lei in un primo momento non ci vuole credere, poi si offende, lasciandolo molto amareggiato. E qui ci possiamo mettere un po’ della nostra storia, di come avremmo potuto reagire di fronte al comportamento di lei, ritornano i bigliettini, gli amici o la creatività, beh su quell’ultimo punto quel ragazzo che ormai non è più adolescente se ne inventa un’altra, le dedica un’altra canzone per convincerla ‘Una canzone per te’, così:

Una canzone per te
E non ci credi, eh?
Sorridi e abbassi gli occhi un istante
E dici, ‘Non credo d’essere così importante’
Ma dici una bugia
Infatti scappi via..

Tornano in questa storia prepotenti le barriere, le lotte interne, che spesso ingaggiamo con alcuni pezzi che non ci piacciono. Ma torna anche ciò che c’è dietro quella barriera, qualcosa di significativo per noi, che ci può motivare ad aprirci a quel dolore. Poi c’è il genio, ma questa è un’altra storia; qui al massimo deviamo su bigliettini, oggi magari social, o l’aiuto dell’amico fidato che rimangono comunque valide strategie nel mollare il controllo e andare verso ciò che per noi è importante

Gli exergame e la stimolazione transcranica non invasiva. Effetto sinergico sul funzionamento cognitivo?

Una recente review ha evidenziato il crescente uso di exergame e i loro effetti benefici sul funzionamento cognitivo, sia nelle persone giovani ed anziane in salute, che in pazienti affetti da malattie neurologiche.

Beatrice Moret – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Mestre

 

Nel corso degli ultimi 20 anni, c’è stato un aumento considerevole dell’uso di videogiochi, utilizzo che ha interessato la ricerca scientifica non solo per comprendere perché e come le persone li usano, ma anche per approfondire il loro effetto sul funzionamento cerebrale.

Recentemente, specifici videogiochi definiti ‘serious games’, sviluppati per allenare le funzioni cognitive, hanno catturato l’interesse di molti ricercatori per i loro potenziali effetti benefici sulla cognizione e sul comportamento (Green & Seitz, 2015).

Recenti studi hanno mostrato come l’allenamento svolto con i serious games, che non richiedono necessariamente esercizio fisico, possa migliorare significativamente le capacità cognitive e percettive (Achtman et al., 2008; Maillot et al, 2012).

In generale i videogames hanno molti vantaggi: sono divertenti, stimolanti, economici, facilmente acquistabili e facili da usare. Oltre ad essere piacevoli, possono richiedere complesse attività cognitive e generalmente forniscono un feedback immediato sulla performance.

Grazie alla tecnologia in continua evoluzione è stata sviluppata una nuova tipologia di videogame, gli ‘exergame’, ovvero ‘exer=exercise’, cioè esercizio fisico, e ‘game=gioco’.

L’aspetto principale che caratterizza un exergame è la necessità di compiere l’attività utilizzando il proprio corpo o alcune parti di esso (gambe, braccia); quindi si contraddistingue dal classico videogame per la sua non-sedentarietà, vantaggio che potrebbe contribuire al miglioramento delle funzioni cognitive (Kramer & Erickson, 2007). Wii, Playstation, Xbox sono tutte console di gioco che offrono le più svariate possibilità di eseguire diversi tipi di exergame (Immagine 1).

Exergame e stimolazione transcranica effetti sul funzionamento cognitivo Immagine 1

Immagine 1: Console di gioco che permettono di eseguire diversi tipi di exergame (foto di Thor Nielsen)

Moltissimi sono gli exergame sviluppati con l’obiettivo di promuovere il benessere fisico con attività più ludiche come la danza e lo sport, per esempio il golf, il tennis, lo snowboard (attraverso la visualizzazione simulata sullo schermo) e attività con scopo educativo, con l’obiettivo di imparare, allenare e in alcuni casi anche riabilitare le funzioni cognitive.

Studi riportano numerosi vantaggi derivanti dall’uso degli exergame: sono stati ottenuti sia benefici associati all’attività fisica (Siegel et al., 2009) che all’allenamento in compiti cognitivi (Green & Bavelier, 2003) con il valore aggiunto rappresentato dalla loro combinazione (Eggenberger et al, 2015). Gli exergame sono un’ottima tecnica da utilizzare in diversi contesti clinici anche per l’alto livello di apprezzamento e compliance, ovvero di adesione all’attività proposta (Maillot et al., 2012).

Una recente review ha evidenziato il crescente uso di exergame e i loro effetti benefici sul funzionamento cognitivo, sia nelle persone giovani ed anziane in salute, che in pazienti affetti da malattie neurologiche come il deterioramento cognitivo lieve, l’Alzheimer, il Parkinson, e psichiatriche come la schizofrenia (per approfondimenti vedi la review Stanmore et al., 2017), e in ulteriori popolazioni cliniche come nel caso della riabilitazione delle persone con sclerosi multipla (De Giglio et al., 2015).

Considerato l’ampio spettro di scopi per cui gli exergame sono impiegati, risulta importante indagare l’effetto di generalizzazione dell’apprendimento ad altre abilità non allenate, fenomeno noto come ‘transfer effect’, con il fine di comprendere i potenziali benefici indotti dai training cognitivi utilizzando come strumento l’exergame.

Evidenze scientifiche mostrano come alcuni training con gli exergame abbiano migliorato il controllo esecutivo, la velocità di elaborazione (Basak et al., 2008; Maillot et al., 2012) e lo span di memoria (McDougall & House, 2012). Al contrario, in uno studio con persone anziane in salute, non è stato rilevato un trasferimento dell’allenamento ad altre funzioni non direttamente coinvolte (Ackermann et al., 2010).

Questo processo di generalizzazione dell’apprendimento è strettamente legato al meccanismo di plasticità cerebrale. Che cos’è la plasticità cerebrale?

La plasticità cerebrale è l’espressione della straordinaria capacità del cervello di riorganizzarsi modificando la propria struttura ed il proprio funzionamento in relazione agli stimoli che riceve, adattandosi alle mutevoli esigenze nel corso della vita (Citri & Malenka, 2008; Pascual-Leone et al, 2005).

Questi cambiamenti spontanei avvengono durante il normale sviluppo postnatale, in risposta a diverse condizioni ambientali, con l’apprendimento e per compensare eventuali danni cerebrali (Møller, 2006).

Risulta quindi importante indagare il potenziale effetto di un training sul miglioramento non solo nel compito allenato, ma anche in compiti simili non direttamente allenati e valutare se gli effetti dell’apprendimento permangono nel tempo (Schmidt & Bjork, 1992).

Pertanto, è necessario concordare una procedura sistematica per misurare gli effetti sulla plasticità cerebrale degli exergame e più in generale dei videogames.

Quindi, se l’allenamento è legato alla plasticità del nostro cervello, come facilitare la nostra plasticità cerebrale?

La plasticità cerebrale a livello neurale si esprime come le connessioni tra le popolazioni di neuroni ed è alla base dell’apprendimento. Un’innovativa tecnica molto studiata in ambito sia clinico che di ricerca è la stimolazione cerebrale non invasiva (Non Invasive Brain Stimultaion, NIBS). Questa tecnica è nota alla scienza da più di due secoli e ad oggi si distinguono due grandi classi: la stimolazione magnetica transcranica (TMS) e la stimolazione elettrica transcranica (tES).

Queste tecniche sono entrambe utilizzate nelle neuroscienze cognitive come metodo per studiare la plasticità intesa come la relazione tra i processi cognitivi e il funzionamento delle strutture neurali dell’area cerebrale correlata (Miniussi et al., 2013).

La TMS rappresenta il metodo più noto e utilizzato per influenzare la plasticità del cervello (Barker et al., 1985), ma in linea con lo scopo di questo articolo si vuole approfondire la tES perché è uno strumento più recente, meno conosciuto e maggiormente accessibile, sia come costi che come facilità di impiego.

La tES consiste nell’applicazione di una debole corrente elettrica attraverso lo scalpo. La corrente viene applicata, generalmente, tramite due o più elettrodi, e raggiunge la corteccia cerebrale dove può interagire con l’attività neuronale in corso (Immagine 2).

Exergame e stimolazione transcranica effetti sul funzionamento cognitivo Immagine 2

Immagine 2: Applicazione della stimolazione elettrica transcranica (tES) (artista: Francesco Musmarra)

Come si evince dall’immagine, la tES è uno strumento maneggevole, di conseguenza il suo utilizzo è particolarmente adatto in combinazione con altre attività.

Il meccanismo di azione della tES consiste nella modulazione dell’attività neurale e nella modificazione della forza di connessione tra i neuroni (Fertonani et al., 2011; Terney et al, 2008).

A differenza della TMS, i protocolli tES non inducono un potenziale d’azione, ma modificano la soglia di risposta agendo sottosoglia, cambiando l’eccitabilità neuronale (Radman et al., 2009) e causando alterazioni del potenziale della membrana a riposo, quindi modificando l’efficienza sinaptica neuronale (Liebetanz et al, 2002; Fertonani & Miniussi, 2016).

La tES include tre protocolli principali (Immagine 3):

Exergame e stimolazione transcranica effetti sul funzionamento cognitivo Immagine 3

Immagine 3: i tre principali protocolli della tES (immagine adattata da Santarnecchi et al., 2015)

Studi fisiologici hanno dimostrato come il meccanismo d’azione della tDCS sia mediato dalla polarizzazione della membrana (Nitsche & Paulus, 2000), con un aumento dell’attività neurale indotta da una facilitazione della stimolazione anodica (Boros et al., 2008) e una riduzione o inibizione dell’attività neurale dovuta alla stimolazione catodica (c-tDCS) (Ardolino, Bossi, Barbieri, & Priori, 2005). Si ritiene che la tACS e la tRNS alterino le oscillazioni intrinseche del cervello attraverso l’entrainment (Hermann et al., 2012) e la risonanza stocastica (McDonnell & Abbott, 2009) rispettivamente, con conseguente aumento o diminuzione dell’ampiezza, della coerenza o della fase dei ritmi cerebrali coinvolti (per approfondimenti vedi Thut et al., 2012).

Ad oggi, non sono stati riportati importanti effetti collaterali e, in ambito di ricerca, questo metodo si presta efficientemente ad esperimenti con condizioni di controllo poiché risulta difficile distinguere la stimolazione reale da quella sham, ovvero fittizia. Tuttavia, non è ancora del tutto chiaro l’effetto di ripetute sessioni di tES, che potrebbe indurre potenziali effetti basati sulla plasticità anche dopo settimane o mesi dal trattamento (plasticità a lungo termine).

Alcuni studi hanno indagato l’influenza reciproca tra diversi training cognitivi basati sulla plasticità neurale e vari protocolli tES, dimostrando effetti maggiori quando utilizzati entrambi rispetto al solo allenamento cognitivo, evidenziando anche diverse interazioni tra l’allenamento e i protocolli di stimolazione (Brem et al., 2018; Cappelletti et al. 2013; Prichard et al., 2014; Snowball et al., 2013; Santarnecchi et al., 2015). Brem et al. (2018) hanno studiato la possibilità di un transfer effect, confrontando quattro protocolli di stimolazione tRNS, tDCS, tDCS multifocale e tACS multifocale (gli ultimi due sono montaggi particolari che permettono una focalizzazione maggiore dell’area stimolata) combinandoli con 9 sessioni di 30 minuti di videogame, allenando le funzioni esecutive tra cui memoria di lavoro, inibizione e flessibilità cognitiva. Tutti i protocolli, ad eccezione del tACS multifocale, hanno mostrato effetti di trasferimento all’intelligenza fluida (Brem et al., 2018). Allo stesso modo, è stata trovata una generalizzazione dell’apprendimento in funzioni non direttamente allenate in un compito di discriminazione numerica, con un risultato migliore nel gruppo addestrato con la stimolazione collocata sui lobi parietali, aree fondamentali per la quantificazione nell’elaborazione numerica (Cappelletti et al. 2013).

La progettazione di un approccio che preveda un trattamento multiplo potrebbe anche contribuire, indirettamente, a fornire nuove conoscenze sulle basi neurofisiologiche dei processi di apprendimento, aggiungendo ancora più valore all’implementazione che questa nuova tecnica di stimolazione può fornire nella comprensione del funzionamento della cognizione umana.

I recenti progressi nel campo del machine learning e del deep learning, grazie ai sempre più complessi modelli matematici in grado di simulare il funzionamento delle reti neurali, stanno aprendo nuove opportunità per adattare gli interventi con le NIBS sulla base di modelli strutturali di connettività e conduttività del cervello, contribuendo a spiegare gli effetti osservati e a migliorare la localizzazione di specifiche aree cerebrali per ottimizzare gli interventi e consentire di progettare protocolli di miglioramento cognitivo più efficienti e personalizzati.

Ad oggi non sono ancora presenti studi che combinino nello specifico gli exergame, che allenano le funzioni cognitive promuovendo l’attività fisica, con la tES, che promuove la plasticità cerebrale; è un campo innovativo che richiede approfondimenti, sia con il fine di ottenere un potenziamento cognitivo, sia per prevenire e riabilitare le funzioni deficitarie nelle diverse popolazioni cliniche.

Alla luce delle evidenze scientifiche che mostrano benefici della combinazione delle NIBS e di training cognitivi, sorge spontaneo chiedersi quali possano essere i benefici unendo gli exergame cognitivi alla stimolazione transcranica non invasiva. Possiamo ipotizzare un effetto sinergico?

Vedremo, fiduciosi nella ricerca scientifica che risponderà presto alla nostra domanda!

 

La mente delle piante

Grazie ai suoi studi, Mancuso ci svela aspetti non proprio evidenti in prima battuta sul comportamento delle piante.

 

Ho sempre pensato che ‘Homo sapiens’ fosse un termine descrittivo che mal si adatta all’attuale condizione dell’uomo sulla terra ovvero che fosse una visione decisamente antropocentrica e tendenzialmente presuntuosa: saremmo ‘sapienti’ sì ma rispetto a chi o a che cosa?

A dire il vero, un facile termine di paragone potrebbe essere quello con il regno a noi vicino, quello delle piante, anche se qualcosa in realtà crea dissonanza perché, a seconda della prospettiva, di sapiente avremmo ben poco. Le piante rappresentano circa l’85% di tutto ciò che vive sul nostro pianeta, contro lo 0.03% del regno animale in cui noi siamo compresi, infatti senza di loro, probabilmente, la vita stessa non sarebbe possibile in quanto rappresentano la base della nostra catena alimentare e della produzione di ossigeno, molecola per noi di vitale importanza. A condividere queste mie riflessioni tanti pensatori del passato, non ultimi Charles Darwin e Rudolf Steiner (Darwin, 1898; Steiner, 1910) che, anche se in epoche diverse, son arrivati a conclusioni simili circa il ruolo di primaria importanza delle piante per noi e più in generale per la vita stessa sulla terra.

Su questa scia di pensiero nel 2005 nasce presso l’Università di Firenze un ‘nuovo’ ramo della scienza ovvero la ‘neurobiologia vegetale’ ad opera del professor Stefano Mancuso, ordinario di arbicoltura generale e fondatore del LIB ‘Laboratorio Internazionale di Neurobiologia Vegetale’, dove porta avanti i suoi studi focalizzando l’attenzione sul comportamento delle piante ed, in particolare, sul sistema radicolare, una particolare struttura che coinvolge l’apice delle loro radici, zona trigger per l’inizio di tanti processi utili alla loro sopravvivenza.

Grazie ai suoi studi, Mancuso ci svela aspetti non proprio evidenti in prima battuta sul loro comportamento: la sensibilità sarebbe resa possibile grazie a recettori sparsi su tutto l’organismo, la memoria sarebbe ben più ‘a lungo termine’ della nostra, la loro percezione del tempo sarebbe molto più dilatata della nostra ed inoltre avrebbero la capacità di sottrarsi a stimoli dolorosi retraendosi e/o creando vere e proprie strategie difensive, se non addirittura offensive tramite la liberazione di sostanze. La presenza di tutti questi aspetti cognitivi porterebbe a presupporre dunque l’esistenza di un certo grado di coscienza ed anche di intelligenza, rifacendosi alla sua definizione come ‘capacità di risolvere i problemi’ e confermata dall’indiscusso successo evolutivo del regno vegetale (Mancuso & Viola, 2015).

Tra le tante ricerche Mancuso pone l’attenzione su numerosi neurotrasmettitori che sono presenti in maniera similare anche negli animali e sulla presenza di zone simili per struttura alle nostre sinapsi, in cui nel regno vegetale fa da protagonista un particolare neurotrasmettitore, l’auxina. In una prospettiva molto ampia tutto questo ci porta ad ipotizzare una qualche provenienza filogenetica comune tra il sistema neurologico animale e quello vegetale, una sorta di trait d’union.

D’altro canto i suoi studi portano alla luce anche le differenze presenti tra piante ed animali, come ad esempio l’assenza nelle piante di una struttura centrale per l’elaborazione delle informazioni (corrispondente al nostro cervello) oppure la maggior diffusione su tutto il corpo di recettori dediti alla cattura di informazioni provenienti dall’esterno e alla loro elaborazione, quindi della loro sensibilità (viceversa negli animali questi recettori son più localizzati e rappresentati principalmente dagli organi di senso).

In Plant revolution Mancuso ribalta la visione delle piante, da sempre viste come immobili e in balia del comportamento animale. Qui diventano esseri attivi, capaci di ammaliare e manipolare gli animali stessi attraverso sostanze che liberano, se non di creare vere e proprie dipendenze utili a modificare il comportamento degli stessi animali (Mancuso, 2017).

Aspetto di non poca rilevanza assume la loro struttura sociale decisamente distribuita ed in cui l’immobilità crea un profondo senso di rispetto senza per questo cedere alla passività in quanto le piante risultano essere organismi anche decisamente aggressivi e territoriali a seconda della necessità.

Dalla struttura sociale a quella politica il passo è breve, qui l’aspetto comunitario è predominante e la scelta è quella di non prediligere un’organizzazione fortemente gerarchica a favore della cooperazione verso quella che potremmo definire una democrazia verde: modello teorico da imitare per le future strutture sociali? (Mancuso, 2019).

Ma non tutto è roseo, la neurobiologia vegetale infatti non è stata esente da critiche da parte di botanici, scienziati e colleghi di vario grado, i più non concordi sul fatto che la definizione stessa di intelligenza potesse esser applicabile al mondo vegetale. Nonostante ciò, qualcosa di innovativo questa nuova branca del sapere ha portato: numerose sono state infatti le applicazioni pensate a partire dallo studio della loro mente, tra queste i plantoidi, robot progettati per crescere come vere e proprie piante e progettati per la conquista di spazi a noi ostili es. colonizzazione di pianeti lontani dalla Terra come Marte, oppure la ‘Jellyfish barge’ una serra agricola galleggiante dedita alla produzione di cibo senza il consumo di suolo, acqua dolce ed energia, progettata e realizzata presso Navicelli, in collaborazione con l’Università di Pisa. (Expo, 2015; Istituto Italiano di Tecnologia, 2012).

In conclusione un mondo, quello della neurobiologia vegetale, sicuramente molto affascinante e tutto da scoprire che potrebbe nel futuro aprirci prospettive completamente nuove non solo nel campo delle neuroscienze (ad esempio: lo sapevate che le piante si addormentano con i comuni farmaci anestetici usati nelle nostre sale operatorie?) ma anche in quello delle scienze della vita stessa.

Anoressia Nervosa e problematiche legate alla sfera sessuale

La ricerca suggerisce che una varietà di fattori biologici e psicosociali sono associati alla salute sessuale delle donne con diagnosi di anoressia nervosa (AN).

 

Il presente studio consiste in una revisione sistematica con l’obiettivo di sintetizzare l’attuale letteratura riguardante la sfera sessuale, con una particolare attenzione alle disfunzioni sessuali delle donne con anoressia nervosa.

L’anoressia nervosa (AN) è un disturbo alimentare caratterizzato da una persistente restrizione alimentare e/o da altri comportamenti finalizzati a una patologica perdita di peso (American Psychiatric Association [APA], 2013). L’Anoressia Nervosa è spesso accompagnata da un’intensa paura dell’aumento di peso, del cibo e dell’alimentazione (Murray, Loeb, & Le Grange, 2016), da disturbi dell’immagine corporea (Kostecka, Kordynska, Murawiec, & Kucharska, 2019) e vari cambiamenti endocrinologici per tutta la durata della vita (Støving, 2019).

Un aspetto importante, ma potenzialmente trascurato, del trattamento dell’AN potrebbe implicare un intervento sulle difficoltà legate alla sfera sessuale. La disfunzione sessuale femminile (FSD) è prevalente nella popolazione generale e colpisce circa il 20-40% delle donne (McCabe et al., 2016) e la ricerca suggerisce che le donne con AN potrebbero essere particolarmente a rischio (Pinheiro et al., 2010). Le presentazioni cliniche della disfunzione sessuale femminile sono eterogenee, ma di solito comprendono la mancanza di desiderio sessuale, basso livello di eccitazione, incapacità di raggiungere l’orgasmo, dolore durante l’attività sessuale o una combinazione di questi problemi (APA, 2013).

Molti dei fattori biopsicosociali legati all’insorgenza e al mantenimento della FSD (Basson & Gilks, 2018) si intersecano anche con le caratteristiche cliniche dell’Anoressia Nervosa. Ad esempio, potenziale conseguenza indesiderata del sottopeso sono l’ipogonadismo e la perdita di piacere sessuale (Tuiten et al., 1993), che posso risolversi in seguito al ripristino del peso (Morgan, Lacey, & Reid, 1999). Oltre alle interazioni tra la fisiologia dell’Anoressia Nervosa e della disfunzione sessuale femminile, possono essere coinvolti anche fattori psicosociali: infatti, l’insoddisfazione del corpo (Kostecka et al., 2019), l’ansia sociale (Kerr-Gaffney, Harrison, & Tchanturia, 2018), il ritiro sociale, l’isolamento (Krug et al. 2013;), e la vergogna (Troop & Redshaw, 2012), oltre agli alti livelli di depressione e di ansia (Mattar, Huas, Duclos, Apfel, & Godart, 2011), possono anche avere un impatto sul sano sviluppo sessuale, sul funzionamento e sulle relazioni degli individui con la AN.

Price e colleghi (2020) si sono occupati di cercare la letteratura pubblicata fino ad aprile 2020 in PubMed, EMBASE e PsychInfo. Tutte le tipologie di progetti di studio erano incluse, a condizione che si concentrassero sulle funzioni e disfunzioni sessuali nelle donne con Anoressia Nervosa: precisamente 28 sono stati gli studi esaminati nella presente ricerca. L’obiettivo degli autori era quello di rispondere alle seguenti domande: ‘Cosa ci dice la letteratura disponibile sul funzionamento, il comportamento e le relazioni sessuali nelle donne con AN?’, ‘Cosa ci dice la letteratura disponibile sulle disfunzioni sessuali nelle donne con AN?’, ‘Come interagisce l’AN con il tipico sviluppo psicosessuale femminile?’, ‘Ci sono prove a sostegno dei legami tra la fisiologia dell’AN e la disfunzione sessuale femminile?’, e, infine, ‘Quali sono i dati disponibili sulle terapie psicologiche per le disfunzioni adattate per incorporare la FSD e quali sono i risultati psicosessuali a lungo termine delle donne con AN?’.

Da uno studio di Tuiten e colleghi (1993) è emerso che il 75% delle donne con Anoressia Nervosa ha riferito di non avere un partner o di non essere sessualmente attivo durante il corso della malattia, e fino al 60% di esse non si sentiva sessualmente attratta da altre persone e aveva forti atteggiamenti negativi verso il bisogno di intimità dopo l’insorgenza dell’anoressia. Nello studio di Raboch (1986) il 60% delle donne con AN ha riferito ciò, Pinheiro e colleghi (2010) hanno riscontrato che il 70% delle donne con Anoressia Nervosa soffriva di perdita della libido e fino al 60% di esse riferiva alti livelli di ansia sessuale. Nel 2019, Cassioli e colleghi hanno scoperto che la restrizione di cibo era associata ad un basso desiderio sessuale nelle donne con Anoressia Nervosa, rapporto mediato da distorsioni legate all’attaccamento. Schmidt e colleghi (1995) hanno scoperto che le donne con Anoressia avevano significativamente meno partner sessuali rispetto ad un gruppo di controllo di donne senza AN, oltre ad avere atteggiamenti sessuali significativamente più negativi rispetto ai controlli. La vita sessuale è stata descritta come ‘insoddisfacente’ soltanto dal 24% delle donne con un IMC (indice di massa corporea) inferiore al 18.5% (Meguerditchian et al., 2009).

Dei 28 studi considerati, soltanto 10 avevano approfondito in modo specifico le disfunzioni sessuali: le donne con Anoressia Nervosa riportavano problematiche legate al sesso più frequentemente rispetto ai controlli sani (Cassioli et al., 2019). Tuttavia non sono stati trovati effetti specifici di IMC o di una storia di abusi sessuali infantili sui punteggi di FSD nelle donne con Anoressia (Cassioli et al., 2019). Diversi studi hanno valutato lo sviluppo sessuale delle donne con AN, comprese la masturbazione, l’attrazione sessuale, l’interesse per i coetanei e i rapporti sessuali. Per quanto riguarda la masturbazione, la prevalenza variava tra il 13 e il 50% delle donne con AN (Beumont et al., 1981; Rothschild et al., 1991). Rothschild e colleghi (1991) hanno inoltre individuato che le donne anoressiche riportavano anche livelli più bassi di soddisfazione sessuale. Schmidt e colleghi (1995) hanno invece rilevato che le donne anoressiche sperimentavano ritardi in diversi aspetti, come ad esempio stimolazione dei genitali, età del primo bacio, masturbazione e primo rapporto sessuale, rispetto ai controlli sani.

Diversi studi hanno cercato di esplorare le relazioni tra l’IMC e i rapporti sessuali nelle donne con anoressia. Utilizzando il FSFI (The Female Sexual Function Index), Gonidakis e colleghi (2015) hanno trovato correlazioni significative tra il punteggio totale del FSFI e IMC, con un IMC più basso legato ad un funzionamento sessuale più scarso in donne con Anoressia Nervosa. Nello stesso studio, un basso punteggio di IMC era correlato ad un minor numero di fantasie sessuali diurne e contatti sessuali nelle donne con AN (Gonidakis et al., 2015). Pinheiro e colleghi (2010) hanno trovato forti associazioni tra basso IMC e perdita di libido, alti livelli di ansia sessuale e rapporti sessuali più poveri. Per quanto riguarda libido e desiderio sessuale, l’80% delle donne con Anoressia Nervosa in uno studio ha riportato una netta diminuzione della libido dopo la perdita di peso (Beumont et al., 1981).

Alla luce della letteratura inclusa in questa revisione, un approccio biopsicosociale e l’intervento multidisciplinare potrebbero essere di maggior beneficio per le donne che hanno problemi sessuali, oltre che un disturbo di anoressia nervosa..

Disturbo da Alimentazione Incontrollata: vincere le abbuffate – Webinar tenuto da CIP Milano, VIDEO

Il Disturbo da Alimentazione Incontrollata è caratterizzato da ricorrenti episodi di abbuffata accompagnati dalla sensazione di perdere il controllo e, spesso, disgusto verso se stessi, depressione o senso di colpa.

 

I professionisti del CIP Milano hanno organizzato un ciclo di incontri rivolti alla popolazione e a chi è interessato al tema dell’alimentazione e della salute mentale.

L’incontro del 6 giugno si è focalizzato sul fornire informazioni precise per riconoscere i reali sintomi del Binge Eating Disorder o Disturbo da Alimentazione Incontrollata (DAI), indicazioni per intraprendere percorsi di cura adeguati e strategie efficaci per affrontare le problematiche quotidiane.

Le caratteristiche del Disturbo da Alimentazione Incontrollata comprendono ricorrenti abbuffate, assenza di comportamenti di compenso (vomito, esercizio fisico intenso, etc.) e marcato disagio per le abbuffate.

Per i nostri lettori pubblichiamo il video dell’evento, condotto dalla Dott.ssa Laura Ranzini.

 

BINGE EATING DISORDER – Guarda il video integrale del webinar:

 

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Monogamia e tradimenti: le regole – Una serie di Roberto Lorenzini

Oggi pubblichiamo il quinto lavoro della serie di Roberto Lorenzini, dedicata al tema della monogamia e delle sue implicazioni psicologiche, affettive, relazionali e, perché no, sessuali. Lorenzini propone una tesi forte: la monogamia non funziona. E prosegue il suo racconto esplorando le regole che ci siamo dati per gestire il nostro desiderio di avere figli.

MONOGAMIA E TRADIMENTI – (Nr. 5) Le regole

 

 Focalizziamoci ora sulle regole che si sono dati gli adulti per gestire l’investimento nella riproduzione e ai casini che di conseguenza combinano. Considereremo due aspetti: le regole che dipendono ovviamente dalla cultura di appartenenza e poi la storia naturale, il ‘decorso’ per così dire, delle vicende amorose.

Nelle culture in cui a sancire la monogamia esiste l’istituto sociale del matrimonio si distingue ulteriormente in:

  • matrimonio, una volta sola nella vita;
  • matrimonio con un solo soggetto alla volta, a differenza di bigamia o poligamia;
  • monogamia seriale, nuovo matrimonio dopo la morte o il divorzio del partner.

Se lo scopo biologico evolutivo dell’esperienza amorosa è la riproduzione e l’allevamento dei figli è evidente che una monogamia per tutta la vita non ha alcun senso ed è addirittura dannosa. Al massimo è concepibile una monogamia fino allo svincolo dei figli e dunque la soluzione più sensata sembrerebbe una monogamia seriale che è, guarda caso, il modo in cui funziona l’innamoramento, come vedremo più avanti (Pezzini e Benassi, 2017).

Ma naturalmente questa è la natura e abbiamo già detto che ciò che è più caratteristico della specie umana è proprio il distanziarsi dagli automatismi naturali ed istintuali e costruire un mondo di significati, la cultura, che detta valori e regole che agiscono essi stessi come pressione selettiva. Quindi il dibattito su ciò che è naturale o meno è piuttosto privo di senso ed è spesso viziato dal bias secondo cui ‘ciò che è naturale è buono e da perseguire’ mentre, semmai, è vero esattamente il contrario ovvero che ciò che è naturale è la base sulla quale costruiamo la nostra umanità, la cui misura sta proprio nella libertà di svincolarci da tale destino trasformandolo in una storia. La monogamia, come per altri versi la castità, va intesa come una libera scelta all’interno del piano valoriale che orienta complessivamente l’esistenza di una persona ed è dunque strumentale a molteplici scopi che vanno ben al di là sia della massimizzazione della procreazione che prevederebbe una totale ‘deregulation’, il tradimento o meglio l’assoluta promiscuità o per lo meno una monogamia seriale nel corso dell’esistenza (Lorenzini e Scarinci,  2013).

 

La REBT nelle dipendenze

L’abuso di sostanze e le dipendenze sono un problema personale e sociale molto complesso, e lo stesso trattamento ci pone di fronte a molteplici criticità; l’utilizzo della REBT sembra essere efficace.

Marta Paris – OPEN SCHOOL, Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Mestre

Concetti base della Terapia Razionale Emotiva

La Terapia Razionale Emotiva Comportamentale (REBT) è uno dei punti fondamentali sui quali si basa la terapia cognitivo comportamentale (CBT). La terapia cognitiva venne ideata e creata da Aaron Beck nel 1976, e da questa si sviluppò conseguentemente la terapia cognitivo comportamentale. Alber Ellis introdusse per primo la terapia razionale emotiva nel 1957, con il nome di Rational Therapy (RT), successivamente, per dare importanza all’aspetto emotivo, venne chiamata Rational Emotive Therapy (RET). Negli anni ’90, infine, Ellis cambiò il suo nome in Rational Emotive Behavior Therapy (REBT), integrando quindi anche l’aspetto comportamentale, componente fondamentale dell’approccio CBT (David, 2017).

Forse più di ogni altra forma di psicoterapia, la REBT si basa su concetti filosofici specifici, che orientano attivamente gli interventi del terapeuta. Personalmente abbiamo percezioni, valutazioni, atteggiamenti a seguito di fatti che accadono: tutti questi elementi compongono le nostre filosofie di vita; la REBT racchiude al suo interno tutti questi concetti (Di Giuseppe, 2014).

I pensieri, le emozioni, il comportamento sono i tre aspetti principali che determinano il funzionamento psicologico dell’essere umano. Questi sono assunti collegati fra di loro perché al modificarsi di uno si modifica tutto il sistema. Se cambio il pensiero che attuo in un evento, avrò un’emozione diversa e quindi anche una variazione nel comportamento conseguente. Analogamente, quando cambio il mio comportamento, cambio anche il modo di pensare: per esempio quando faccio qualcosa che prima mi spaventava, smetto di pensare che questo sia pericoloso. Il cambiamento avviene attraverso delle tecniche che apprendo, e strategie che applico: in particolare le tecniche comportamentali mirano alla modifica delle condizioni ambientali per modificare il comportamento, le tecniche cognitive cercano di modificare il contenuto del pensiero. Sono poche le tecniche psicologiche che intervengono direttamente sulle emozioni, poiché sono elusive e difficili da identificare (Di Giuseppe, 2014).

Le pretese (demands) occupano una posizione centrale nella REBT: questa, infatti, postula che le persone sviluppano un disturbo quando formulano un desiderio o un bisogno sotto forma di pretesa assoluta, nei confronti del mondo. Ellis è stato fra i primi psicoterapeuti a sostenere e promuovere l’importanza di modificare attivamente le convinzioni dei pazienti, per indurre dei cambiamenti emotivi e/o comportamentali, attraverso la messa in discussione delle pretese e dei pensieri irrazionali (Di Giuseppe, 2014).

Gli esseri umani possiedono allo stesso tempo credenze o pensieri razionali, chiamati rational beliefs, ed irrazionali chiamati irrational beliefs; questi si alternano e oscillano a seconda dei casi. Allo stesso tempo, abbiamo di conseguenza, emozioni sane e adattive, motivanti, ed emozioni negative patologiche, disfunzionali e problematiche, segno di un disturbo psicopatologico. Se si fa esperienza di un evento attivante (A) e si dà spazio alla credenza irrazionale (B), questa provoca emozioni disfunzionali e patologiche, come ansia, estrema rabbia, depressione, senso di colpa (C). Sfidando la propria credenza irrazionale e sostituendola con un pensiero diverso, più funzionale e sano, le conseguenze a livello emozionale e comportamentale (C) saranno adattive, sopportabili e non così critiche come le precedenti (Di Giuseppe, 2014).

Ellis ipotizza delle pretese specifiche e comuni: quando pretendiamo che i nostri desideri e le nostre preferenze diventino realtà allora nascono i problemi. Le persone si formano degli schemi sulla realtà che li circonda e quando questo schema è diverso dalla realtà in cui viviamo si genera uno stato di attivazione emotiva. Le pretese vengono anche definite doverizzazioni: le cose devono essere fatte e devono accadere in un unico modo, ritenuto giusto da me, e tutto il resto è inaccettabile. Gli uomini si autoprescrivono delle regole dogmatiche e, quando non riescono a rispettarle, non comprendendo che essi stessi se le sono prescritte e attribuiscono la sofferenza che si genera, non a questa autoprescrizione, ma ad un loro personale difetto (Ruggiero, 2013).

Oltre alla doverizzazione, definita un po’ la credenza irrazionale principale, ne esistono altre, derivanti da essa. La terribilizzazione o catastrofizzazione è la convinzione, da parte del paziente, e l’etichettamento di qualcosa in termini negativi. Non sono quindi previsioni catastrofiche di qualcosa che può accadere, ma definizione di un evento come estremamente grave e terribile, e questo porta l’attenzione sul giudizio soggettivo. In questo caso potrebbe seguire l’idea di non riuscire a sopportare questa situazione: le cose non vanno come dovrebbero andare, e questo per me è insopportabile, non posso soffrire così tanto; questa è l’intolleranza alla frustrazione. In questo scenario ipotetico dove sono convinto che esistano delle regole ben precise che non vengono rispettate, si genera un ulteriore errore cognitivo: il giudizio negativo su me stesso, detto anche autosvalutazione, o sugli altri (Ruggiero, 2013).

Le credenze razionali ci aiutano a raggiungere i nostri scopi senza timori e giudizi di condanna, promuovono una vita soddisfacente, favoriscono i legami e i rapporti interpersonali. Tramite strategie e tecniche specifiche, la REBT sostituisce e mette in discussione i pensieri disfunzionali e le credenze irrazionali che abbiamo, e che sono un ostacolo per il raggiungimento dei nostri obbiettivi.

Il paziente tossicodipendente in ottica CBT

La dipendenza e l’abuso di sostanze sono fra i disturbi psicopatologici più diffusi negli Stati Uniti. Secondo il DSM-5 le diagnosi associate ai disturbi correlati a sostanza o disturbi da dipendenza sono i disturbi d’ansia, disturbi depressivi, disturbo bipolare, disturbi sessuali, disturbi psicotici (APA, 2014).

L’approccio della CBT considera la dipendenza come un comportamento disfunzionale appreso e mantenuto nel tempo: lo scopo della terapia è la correzione del comportamento di dipendenza e, quindi, l’acquisizione di nuovi comportamenti più funzionali nella vita della persona. Il modello cognitivo – comportamentale della dipendenza da sostanze si basa su alcuni assunti fondamentali: la dipendenza è un comportamento appreso. Nella teoria comportamentale, alla base dell’apprendimento vi sono due concetti chiave, entrambi riscontrabili nei comportamenti di abuso di sostanze. Il condizionamento classico, che descrive come uno stimolo originariamente neutro possa arrivare a produrre una risposta condizionata, attraverso la sua associazione con uno stimolo significativo, e il condizionamento operante, che descrive come le conseguenze di un particolare comportamento possano influenzare la frequenza dell’emissione di tale comportamento (Liese, 2018).

Il sistema di dipendenza, creatosi con l’uso ripetuto di sostanze, si mantiene anche a livello cognitivo con processi di pensiero specifici. Nel trattamento della tossicodipendenza risulta estremamente importante riconoscere quali sono le componenti cognitive dei comportamenti di dipendenza per arrivare ad un controllo attivo da parte del paziente. I pensieri relativi alla dipendenza da sostanze inducono aspettative di sollievo da stati emozionali disfunzionali e negativi, riconducibili allo schema ABC (Liese, 2018).

Uno dei modelli più utilizzati nel trattamento delle tossicodipendenze è di DiClemente e Prochaska (1982,1992): il modello degli stadi del cambiamento, che risulta essere molto efficace nel lavoro con pazienti che stanno cercando di cambiare i comportamenti associati alla dipendenza da sostanze. Propongono degli stadi di cambiamento: precontemplazione, contemplazione, azione, mantenimento e termine. I pazienti nella fase di precontemplazione non ipotizzano ancora un cambiamento, perché pensano di non avere un problema o non sono ancora motivati ad affrontarlo. Nello step successivo, si preparano al cambiamento, avendo già provato a cambiare qualcosa. Nell’azione stanno già lavorando al cambiamento: hanno attivato dei comportamenti definiti precedentemente, come il presentarsi ad un colloquio o iniziare una terapia, che li porteranno al raggiungimento del proprio obbiettivo. Dopo circa sei mesi di azione al cambiamento, questi pazienti vengono definiti nella fase del mantenimento, dove devono essere comunque vigili ed attenti alla ricaduta, ma senza dedicarci così tanta attenzione come negli stadi precedenti. Per quelli nella fase termine, il comportamento di dipendenza non è più un problema: riescono a stare in situazione di esposizione allo stimolo senza riattivare il comportamento alla base del condizionamento iniziale (Michler Bishop, 2000).

Anche applicati a questo modello del cambiamento, i pensieri e le credenze irrazionali fanno la loro parte: i pensieri irrazionali riguardo al comportamento e problema di dipendenza sono il punto cardine su cui è incentrato tutto il processo di terapia CBT con pazienti tossicodipendenti. Queste persone potrebbero pensare ‘io non ho problemi così gravi’, ‘un terapista mi direbbe semplicemente di smettere’, ‘non riesco a smettere’. La terapia cognitivo comportamentale è una terapia evidence based che ha dato ottimi risultati di efficacia nel trattamento delle dipendenze, e contiene strategie e modelli specifici sulla motivazione del paziente, sui comportamenti di addiction e sulle emozioni che specifici pensieri irrazionali scatenano (Michler Bishop, 2000).

Efficacia della REBT nelle tossicodipendenze

A causa della mancanza di trattamenti medici, psicologici e strutture specializzate, dagli anni 60 in poi divennero sempre più conosciute le comunità terapeutiche per il trattamento delle dipendenze e l’abuso di sostanze. Molte ricerche hanno dimostrato l’efficacia del trattamento in comunità terapeutica, in particolare con un percorso specifico e strutturato secondo l’approccio CBT.  Negli ultimi anni, le comunità terapeutiche hanno dato un importante contributo nel trattamento delle dipendenze, e possono ora giocare un ruolo fondamentale nello sviluppo di una psicoterapia efficace ed efficiente in tutti i contesti terapeutici, non soltanto in quelli residenziali. Un trattamento efficace aiuta il paziente ad interrompere l’uso di sostanze, e ad applicare nuovi comportamenti appresi che gli permettono una miglior gestione della vita. La rieducazione non è diretta soltanto al paziente, ma anche alle famiglie. Questo processo porta, inevitabilmente, ad una maggiore conoscenza ed informazione sull’ambito delle sostanze stupefacenti anche a livello sociale: social media, politica, scelte governative possono essere modificati soltanto con una maggiore educazione ed apertura a questo ambito, da sempre emarginato.

Un chiaro esempio di efficacia della REBT con i pazienti tossicodipendenti è quello del CAT/Barcelona, un centro di riabilitazione e recupero per tossicodipendenti, fondato da Manuel Mas-Bagà nel 1986. Il programma offerto da questo centro ha diverse opzioni, fra cui il day program, la comunità terapeutica residenziale e il programma di riammissione. La loro esperienza di lavoro è con tutti i tipi di sostanza, in particolare abuso di cocaina ed eroina. La comunità terapeutica e il programma di riammissione sono sempre attivi, con un trattamento che dura all’incirca 12 mesi, e la riammissione dura dai tre ai sei mesi. L’equipe di lavoro è composta da uno psichiatra, un tecnico specializzato in malattie trasmissibili ed AIDS, uno psicologo e professionisti della salute mentale. Il programma di recupero è basato sulla terapia cognitivo-comportamentale, in particolare gli interventi e le strategie applicate sono in stile REBT; tutto il personale è ben formato in REBT.

L’abuso di sostanze viene identificato come il comportamento risultante da pensieri e credenze irrazionali. Il pensiero irrazionale può anche essere spiegato come fattore esacerbante dall’abuso di sostanze, come l’eroina, la cocaina, la cannabis. Questo pensiero così rigido ed irrazionale mantiene il disturbo presente e, a sua volta, produce ulteriori disturbi correlati, come, in un classico esempio di circolo di feedback negativo, il tossicodipendente che prova ulteriori sostanze dopo il primo utilizzo. L’abuso cronico di droghe produce un mondo irreale nel quale il paziente è sempre meno capace di pensare in maniera razionale; la mancanza di razionalità contribuisce al mantenimento dell’abuso cronico e causa quindi successivi episodi di intossicazione. Questo circolo vizioso e continuo viene spiegato attraverso seminari e sedute di psicoeducazione in stile REBT, che aiutano il paziente a comprendere la natura della dipendenza e ad imparare a interrompere il loop negativo nel quale è. Il secondo passaggio riguarda la regolazione delle emozioni disfunzionali: fin dall’inizio del trattamento i pazienti del CAT/Barcelona imparano il modello ABCDE di Ellis, in diretta sostituzione all’uso di sostanze come strategia disfunzionale di regolazione delle emozioni. In particolare, nei primi tre mesi i pazienti imparano qual è la connessione fra pensiero ed emozione (BC): questo porta ad innumerevoli vantaggi. In primis, il paziente impara a percepire le emozioni ed i pensieri che le generano. Individua quindi i suoi pensieri irrazionali e sperimenta la regolazione delle emozioni e del proprio dolore attraverso il proprio sforzo e le proprie capacità, senza accedere alle droghe. Questo passaggio rafforza il trattamento, la motivazione del paziente, diminuisce la sua autosvalutazione e produce il mantenimento della terapia. In queste circostanze, i pazienti non hanno più bisogno di assumere la sostanza, perché attraverso il trattamento singolo e i peer groups, imparano a modificare il proprio pensiero irrazionale e a regolare le conseguenze emotive e comportamentali attraverso le tecniche di disputing. Vengono utilizzati diversi metodi REBT all’interno del centro e nei diversi programmi: informazione, individuazione e disputa delle credenze irrazionali; training di assertività; diario dei pensieri; uso dei principi della REBT con gli altri; revisione di sedute registrate; esercizi di shame-attack; esercizi di sperimentazione del rischio; uso di premi e punizioni; compiti per casa o fra una seduta e l’altra basati sul modello ABCDE di Ellis; lista dei pro e contro; social skills training; rivedere ed analizzare insieme i comportamenti di dipendenza, in particolare trigger, immaginazione, piano d’azione; definizione dei valori secondo la filosofia REBT; confronto razionale nelle sedute di gruppo.

Dai risultati emersi in questo studio, 180 pazienti hanno iniziato il percorso di trattamento: tre quarti di essi hanno completato l’intero percorso, risolvendo definitivamente il loro disturbo da abuso di sostanze; questo esito risulta essere più elevato di quello solitamente atteso dalle comunità terapeutiche (Mas-Bagà, 2000).

Commenti e Conclusioni

L’abuso di sostanze e le dipendenze sono un problema personale e sociale molto complesso, e lo stesso trattamento ci pone di fronte a molteplici criticità, dalla motivazione al cambiamento, alla rete sociale scarsa e poco presente su cui possono contare i pazienti, fino ai dati relativi all’efficacia dei trattamenti di questi disturbi. La terapia cognitivo comportamentale risulta essere la terapia evidence-based più indicata per il trattamento del disturbo da abuso di sostanze, in particolare in comorbidità con disturbi d’ansia o depressione (NICE, 2019).

Quanto evidenziato in questo articolo conferma ulteriormente l’efficacia della terapia CBT, in particolare l’approccio REBT, che risulta essere un eccellente approccio al problema che si presenta e ripropone spesso nelle dipendenze: la filosofia che sta alla base di esso e i suoi concetti fondanti come i pensieri, le emozioni, e la relazione fra essi, sono gli strumenti giusti che portano ad un effettivo e profondo cambiamento nel paziente tossicodipendente. I risultati descritti sono una dimostrazione empirica della sua validità.

L’esempio dell’applicazione REBT in un contesto diverso dal classico setting psicoterapico, ma all’interno di una comunità terapeutica, può essere uno spunto per tutte le realtà che attualmente operano in questo settore. Inoltre, a seguito dei risultati ottenuti, emerge la necessità di maggiori investimenti nell’ambito delle neuroscienze cognitive, nella psicofarmacologia ed altre tecnologie a supporto della gestione e del trattamento di questa tipologia di disturbi, seguendo un approccio cognitivo comportamentale.

 

Oltre la parola: modalità non verbali di guarigione mente-corpo

Si è soliti pensare che la guarigione mente-corpo debba passare necessariamente attraverso lo scambio verbale tra due o più individui, di cui uno altamente formato in ambito psicologico o medico, dimenticando le varie forme terapeutiche oltre la parola, utilizzabili anche con coloro che presentano una compromissione più o meno grave, dello sviluppo linguistico. Nel presente articolo si cercherà di introdurre alcune delle varie forme terapeutiche non verbali, evidenziandone i benefici ed i contesti applicativi.

 

Nell’immaginario collettivo il processo terapeutico passa unicamente attraverso la parola, come avveniva nel famoso studio di Freud, in cui il paziente accomodato sul divano, raccontava i suoi sogni e i suoi vissuti, mentre l’analista, alle sue spalle, lo ascoltava in silenzio, commentando e ponendogli domande.

E sull’efficacia della psicoterapia, di ogni ambito, sulla salute psico-fisica non c’è ormai più dubbio: le ricerche più attuali riconoscono i suoi effetti persino sulle aree cerebrali, migliorando il metabolismo, in particolare, nelle aree limbiche, e favorendo così una maggiore elaborazione e consapevolezza emotiva. Un miglioramento, questo, che nemmeno i più moderni farmaci sono riusciti a raggiungere e che solo il contatto umano ed il riconoscimento possono permettere. Ci tengo a sottolineare il concetto di contatto umano e di riconoscimento, poiché sono presenti anche nelle forme di psicoterapia non verbale dove la parola viene meno, come nel caso di ragazzi con autismo severo pre-verbale, o in ogni forma di comunicazione, seppure verbale. Esempio comune ed emblematico potrebbe essere quello di un consulto medico specialista, in cui postura, tono della voce, stile comunicativo del medico contribuiscono ad una migliore compliance terapeutica e riducono il rischio di drop out al trattamento, come insegna la branca della psicologia clinica e della medicina, denominata psicosomatica, ideatada F. Alexander, psicoanalista statunitense di origine ungherese, nella prima metà del Novecento; egli propose, infatti, un nuovo modo di guardare alla malattia, non più come solamente fisica o mentale, ma in maniera ampia e complessa, riconoscendo il ruolo di entrambi i fattori in ogni forma di disagio o di disturbo.

In casi ben più complessi, la comunicazione non verbale e l’utilizzo del corpo possono divenire vere e proprie forme terapeutiche, come nella Danza-Movimento Terapia, nata negli anni settanta in America e diffusasi successivamente anche nel continente europeo. Viene praticata dopo aver seguito un dato iter formativo, delineato dalla European Conference for Professional developmentof Dance Movement Therapy, promuovendo attraverso danza e movimento, comunicazione, processi creativi, integrazione psicofisica e benessere totale. Ha un notevole impatto sulla qualità della vita e si incentra sui bisogni personali di ogni singolo individuo, lavorando individualmente o in équipe. Permette anche di favorire socializzazione e di sviluppare nuove forme interattive tra i membri del gruppo ed è facilmente attuabile sia in contesti privati che pubblici, come centri diurni e comunità terapeutiche. Si rifà, inoltre, a tradizioni primitive e tribali, in cui ogni movimento ha lo scopo di mettere in comunicazione la persona con il suo corpo, il suo spirito e gli altri membri del gruppo.

Un po’ prima rispetto alla danza-movimento terapia, nacque negli Usa, l’Art-therapy, in particolare, a fine Ottocento; fautore del nuovo approccio fu Margaret Naumburg, psicologa, psicoanalista, artista ed educatrice, seguace del grande Freud, che guardava alle produzioni artistiche dei suoi pazienti, come mezzo per accedere più facilmente ai loro contenuti inconsci e favorirne così la guarigione. Successivamente, tra gli anni ’40 e ’50 del Novecento, a seguito dell’interesse per i gravi disturbi mentali riportati dai reduci di guerra, si riscontrò un maggiore interesse per questo approccio, divenendo proprio una forma terapeutica a sé per i grandi benefici che apportava. Innanzitutto, l’Art-therapy favorisce rilassamento e riduzione dello stress, oltre che permette una maggiore consapevolezza di sé e delle proprie emozioni. Non bisogna, inoltre, dimenticare il grande ruolo comunicativo: i primi uomini si affidavano al graffito per comunicare con gli atri membri del gruppo o addirittura con i posteri; anche i bambini, spesso, comunicano più facilmente attraverso il disegno che con le parole, pertanto, il loro grande uso nei contesti giudiziari. Si deve, quindi, sottolineare il suo grande impiego in contesti riabilitativi, con persone portatori di disabilità di differente tipologia e severità, e di prevenzione, come strumento per l’educazione dei giovani e la rieducazione di gruppi devianti.

Interessantissima e molto utilizzata, anch’essa in contesti individuali e gruppali, sia pubblici che privati, è la musicoterapia, una modalità di approccio terapeutico che utilizza la musica ed il suono come canale comunicativo, sia per un intervento educativo, sia per uno riabilitativo o terapeutico. È importante riflettere su come la prima forma di comunicazione umana sia proprio musicale: il baby talk, ovvero la comunicazione sonora tra madre e bambino, infatti, è ricca di suoni, amplificazione dei toni e grande ritmo, e permette alla madre e al bambino di rafforzare la connessione tra gli emisferi destri che inizia dallo sguardo. Pertanto, la musica, proprio come l’arte, la danza ed il movimento, è un elemento naturale, che se usata in contesto terapeutico, ha notevoli effetti sulla plasticità cerebrale, deficit di apprendimento e difficoltà linguistiche. Può, quindi, divenire una esperienza di comunicazione, crescita, a anche di elaborazione traumatica, comprendendo sia la sfera emotiva che quella relazionale. Proprio nei disturbi dello spettro autistico, citati in precedenza, questa forma terapeutica può favorire rilassamento, migliorare l’apprendimento, ridurre lo stress ed essere un importante mezzo per entrare a contatto con il mondo altrui, senza sentirsi invasi o invadere.

Un’altra forma di terapia famosissima è rappresentata dall’analisi bioenergetica, fondata da A. Lowen, medico e psicoterapeuta statunitense, negli anni ’50 del Novecento, mettendo insieme il processo analitico ed il lavoro sul corpo attraverso una serie di esercizi corporei, da praticare in gruppo o da soli. Pone grande attenzione alla respirazione e al suono, inteso nella sua forma più primitiva e spontanea, spesso repressa dall’educazione e dalle regole sociali. Il corpo e la mente sono percepiti in modo olistico, ed è necessario, pertanto, favorire la loro connessione, rafforzando consapevolezza e conoscenza personale. La parola ha un ruolo importante, poiché permette al terapeuta di indirizzare i pazienti attraverso gli esercizi ed il movimento, ma il paziente ha a disposizione più canali per comunicare, qualora non potesse usare la parola: il corpo, la sua rigidità, la sua sensibilità, le sensazioni e le emozioni che prova, emergono chiaramente nella postura e nella flessibilità del movimento e sono un canale chiaro e coerente di comprensione per il terapeuta. Pertanto, è stata definita una forma psicoterapia corporea e trova grande applicazione soprattutto in problemi psicosomatici e somatopsichici per la grande attenzione che rivolge alla persona nella sua totalità e unicità.

La psicoterapia senso-motoria è una nuova forma di psicoterapia corporea, molto utilizzata nelle casistiche traumatiche. Questa forma di psicoterapia guarda al corpo come elemento portante della terapia, sia in fase valutativa che trattamentale, pone attenzione sulla consapevolezza corporea e cinetica che il soggetto possiede e che è lo specchio dei suoi vissuti, dei suoi stati emotivi e cognitivi. Inoltre, contribuisce a implementare, con tecniche e strategie specifiche, il monitoraggio delle sensazione fisiche, la postura, la capacità di movimento, attraverso un processo bottom-up, dal corpo alle emozioni, alla cognizione. Una delle principali strategie riguarda il confrontarsi con i ricordi e con il passato attraverso esercizi senso-motori, in uno stato di rilassamento psico-fisiologico, differente rispetto a quello che si riscontra in un evento traumatico o in una rievocazione traumatica, il quale permette poi, di passare ad un confronto emotivo e cognitivo.

Infine, ultimo approccio che vorrei delineare, riguarda la mindfulness, molto in voga negli ultimi anni, che mette insieme meditazione buddhista e psicologia. Il soggetto è invitato attraverso la meditazione e la respirazione consapevole a porre l’attenzione sul hic et hunc (qui ed ora). Grazie in primis a J. Kabat-Zinn, professore di medicina presso la University of Massachussetts, la mindfulness ha trovato grande applicazione in ambito medico, educativo, organizzativo e psicoterapeutico, in quanto applicabile anche nei contesti in cui la parola non è la principale forma di comunicazione o la prediletta. E’ in grado, infatti, di far acquisire maggiore consapevolezza di sé con modalità sensoriali e intuitive, che possono poi essere accompagnate da un commento verbale.

Pertanto, non posso che invitare tutti a guardare oltre le parole, quando queste siano o meno presenti, e di non credere che la psicoterapia non possa essere utile a chi non riesce a comunicare verbalmente, guardando al meraviglioso panorama di approcci terapeutici che esistono.

Riprendendo il saggista ed economista Peter Drucker, vorrei ricordare che

La cosa più importante nella comunicazione è ascoltare ciò che non viene detto.

 

Covid-19 e conseguenze in termini di salute mentale

Lo studio di Tang et al. (2020) ha indagato durante il periodo di lockdown per Covid-19 in Cina, l’incidenza dell’ansia e della depressione in individui non in quarantena, in quarantena in aree a rischio di contagio ed in quarantena in aree non a rischio di contagio.

 

Il Covid-19 è una malattia emersa per la prima volta a Wuhan nel gennaio del 2020 ed ha sollecitato da subito attenzione e interventi tempestivi per evitare la sua diffusione, in quanto la velocità con la quale il virus era in grado di passare da un individuo all’altro e le gravi complicazioni respiratorie associate, non permettevano di perdere tempo (Hellewell et al., 2020). Infatti, sono state messe in atto delle misure di contenimento e rallentamento del contagio, come l’educazione della popolazione a seguire delle corrette e severe regole igieniche e di distanziamento sociale, oltre al vero e proprio lockdown, che ha costretto a casa gli abitanti di Wuhan a partire dalla fine di gennaio (Hellewell et al., 2020), e successivamente anche il resto della popolazione mondiale.

In questo modo le persone sono state private di molti aspetti della propria vita, in quanto per intere settimane non hanno avuto la possibilità di continuare le proprie attività ed impegni quotidiani, ma soprattutto hanno dovuto rinunciare alla frequentazione della propria rete sociale, non potendo vedere neanche i propri cari e le persone più strette (Barbisch et al., 2015). Si è generata una situazione mai vista prima, in cui la libertà personale è stata ridotta drasticamente e molti sacrifici sono stati richiesti, in quanto non è stato possibile raggiungere i familiari malati in ospedale né celebrare riti funebri.

Ad aumentare la tensione in un momento già particolarmente critico, era la confusione riguardo le informazioni, l’incertezza sulle modalità e specificità del contagio, la mancanza di controllo sulla situazione e la non conoscenza di quello che sarebbe accaduto in futuro (Hellewell et al., 2020).

A questo proposito, molte sono state le ripercussioni dal punto di vista psicologico, soprattutto in termini di sintomi ansiosi e depressivi, per cui il presente studio (Tang et al., 2020) ha indagato durante il periodo di lockdown in Cina, l’incidenza dell’ansia e della depressione in individui non in quarantena, in quarantena in aree a rischio di contagio ed in quarantena in aree non a rischio di contagio.

Nelle prime due settimane di lockdown a Wuhan, a 1160 persone è stato chiesto di rispondere ad un questionario online per valutare gli effetti psicosociali della quarantena: nello specifico The Center for Epidemiological Studies Depression Scale (CES-D; Radloff, 1977) e iThe Goldberg Depression and Anxiety Scale (GAD; Goldberg et al., 1988) sono stati gli strumenti usati per misurare rispettivamente la depressione e l’ansia.

I risultati hanno mostrato che i rischi per la salute mentale sono maggiori in persone che hanno vissuto la quarantena rispetto a quelle che non l’hanno vissuta, e che tuttavia la prevalenza di depressione e ansia è due volte maggiore in soggetti che si sono trovati in aree non a rischio rispetto a quelli che si trovavano in zone a rischio, dimostrando che la paura di un potenziale contagio è stato un fattore di stress per l’individuo maggiore rispetto al contagio vero e proprio e che, a differenza di altri eventi catastrofici, l’imprevedibilità della contagiosità del virus ha portato le persone a sviluppare maggior diffidenza e distanza dagli altri, oltre che ansia e depressione per le conseguenze non ben definite che questo virus avrebbe comportato (Ni et al., 2020).

Le nostre emozioni ai tempi del coronavirus – Survey Online

Nelle ultime settimane la curva dei contagi da covid-19 continua a crescere. Lo scopo di questa indagine è valutare alcune variabili cognitive ed emotive, come l’ansia, la preoccupazione e l’intolleranza all’incertezza e come queste possono influenzare i comportamenti dei cittadini.


PER PARTECIPARE ALLA RICERCA:


Luca Bernardelli, CEO di BECOME, “Research and Psychology Hub”, la start-up della realtà aumentata e virtuale nel campo psicologico – Lo psicologo del futuro

In questo periodo storico le persone si ritrovano ad essere sole, più spesso in casa, a dover gestire le proprie sofferenze psicologiche. Da questo scenario sorge l’esigenza di un’opzione di semplice utilizzo, accessibile anche in termini economici, il cui scopo è quello di arginare il disagio psicologico insorgente, come la realtà virtuale.

LO PSICOLOGO DEL FUTURO – (Nr. 3) Luca Bernardelli, CEO di BECOME, “Research and Psychology Hub”, la start-up della realtà aumentata e virtuale nel campo psicologico

 

Luca Bernarelli è uno psicologo, specializzato nello studio delle psicotecnologie e delle tecnopatologie. Con vent’anni di esperienza per le imprese tecnologiche, dalla Silicon Valley californiana alla Silicon Wadi israeliana, è co-fondatore e responsabile delle vendite di BOWMAN – Data Matter, una società di software specializzata in Big Data e Machine Learning, nonché proprietario delle soluzioni EXPANDA – Enterprise Content Platform e ALGORILLA – Knowledge Discovery Platform.

Una delle ultime sfide del dottor Bernardelli è BECOME, una start-up specializzata in soluzioni tecnologiche positive progettate con la Realtà Virtuale e la Realtà Aumentata, e co-autore e formatore del metodo psicologico denominato Psicologia Aumentata.

Il dottor Bernardelli sarà relatore di una lezione della Conference on Digital Psychology, che si terrà il 19-20 Febbraio 2021, a Milano, portando la sua esperienza nel campo della realtà virtuale e aumentata al servizio della Psicologia. Inoltre, esporrà i prodotti di BECOME, le cui attuali APP, disponibili sull’Oculus Store, sono: Pratica clinica aumentata, Empowerment Organizzativo aumentato, Prestazione sportiva aumentata, e Tecniche di Rilassamento aumentato.

Nel corrente anno, la pandemia di COVID che ha colpito tutti noi, si ipotizza abbia comportato e stia tuttora comportando molteplici disagi psicologici: sbalzi d’umore e irritabilità. Il dottor Bernardelli, insieme al professor Riva ed altri colleghi, ha pubblicato di recente un protocollo per Realtà Virtuale sul Self-Help con lo scopo di far fronte alle conseguenze psicologiche del Coronavirus.

In questo periodo storico le persone si ritrovano ad essere sole, più spesso in casa, a dover gestire le proprie sofferenze psicologiche. Da questo scenario sorge l’esigenza di un’opzione di semplice utilizzo, accessibile anche in termini economici, il cui scopo è quello di arginare il disagio psicologico insorgente.

Nel presente studio viene testato un protocollo di auto-aiuto settimanale in Realtà Virtuale, auspicando ad una riduzione dei sintomi ansiosi, rafforzando i legami sociali e aumentando il benessere. Tale protocollo si basa sul video 360 gradi Secret Garden (per maggiori informazioni clicca QUI).

I video in Realtà Virtuale permettono a chi indossa il visore di ispezionare l’ambiente in ogni sua angolatura e di sperimentare un senso di immersione nell’ambiente visualizzato.

È possibile provarlo, basta avere uno smartphone, connettersi al relativo link e inserire il telefono in un visore. I ricercatori suggeriscono di usarlo per una settimana due o più volte al giorno (in base al livello di ansia percepito), di condividere l’esperienza con qualcuno e riflettere insieme sull’esperienza fatta (allo scopo di rafforzare i legami sociali, colmando i divari tra le persone). Ed infine, i ricercatori suggeriscono di provare a seguire, in seguito all’esperienza Secret Garden, le sette riflessioni guidate giornaliere, in cui si trovano un problema, un compito e un’attività sociale: combatti la ruminazione, risveglia la tua autostima, risveglia la tua memoria autobiografica, risveglia il tuo senso di comunità, risveglia i tuoi obiettivi e/o sogni, potenzia la tua empatia e organizza il tuo cambiamento.

Tutti i materiali sono sempre presenti alla pagina www.covidfeelgood.com.

 

Se volete saperne di più delle applicazioni della Realtà Virtuale e della Realtà Aumentata alla Psicologia registratevi alla prima edizione della Conference on Digital Psychology: Digital Perspectives in Psychology.

 

Le iscrizioni alla prima Conferenza europea di Psicologia Digitale sono aperte:

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EUROPEAN CONFERENCE OF DIGITAL PSYCHOLOGY
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