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Possiamo ereditare i traumi dei nostri antenati?
 L’epigenetica può darci una risposta

L’epigenetica ci consente di studiare ed analizzare i meccanismi molecolari attraverso i quali le situazioni ambientali possono influenzare l’espressione genica senza modificare le sequenze inscritte nel DNA.

Giulia Balerci e Serena Pierantoni – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Eventi positivi o negativi, traumi o semplicemente eventi stressanti possono influenzare il comportamento umano nel tempo. L’aspetto rivoluzionario che alcuni studi stanno dimostrando riguarda la possibilità di una ‘trasmissione transgenerazionale’ del trauma a livello epigenetico.

In letteratura compaiono sempre più ricerche che dimostrano come gli effetti di un ambiente negativo si possano riflettere sulle generazioni future. Carestie, guerre e catastrofi naturali verificatesi durante la vita dei nonni sembra possano influenzare l’aspettativa media di vita dei nipoti, suggerendo dunque che le conseguenze di una condizione ambientale possono essere ereditate (Pembrey et al., 2006).

Una delle domande che affascina da sempre l’uomo è ‘come diventiamo quello che siamo?‘.

Per rispondere a tale domanda la ricerca in psicologia si sta impegnando nel cercare di comprendere come la predisposizione genetica e le esperienze salienti della vita possano modellare il comportamento umano e lo sviluppo psicologico.

Gli effetti di un trauma potrebbero essere legati ad alterazioni dell’espressione dei geni, che si perpetuano anche in assenza dell’evento che le ha generate. Al contrario della sequenza di DNA, che è per lo più statica per tutta la durata della vita, i marcatori epigenetici possono subire cambiamenti importanti nel corso dello sviluppo pur non alterando il codice genetico del DNA. L’epigenetica, dunque ci consente di studiare ed analizzare i meccanismi molecolari attraverso i quali le situazioni ambientali possono influenzare l’espressione genica senza modificare le sequenze inscritte nel DNA.

I cambiamenti epigenetici consistono in numerosi processi biochimici, tra cui metilazione e idrossimetilazione del DNA, acetilazione degli istoni, fosforilazione e ubiquitinazione.

Questi processi si dimostrano influenzati dall’esposizione ambientale e modellano l’attività trascrizionale dei geni senza cambiare il codice genetico sottostante.

È stato dimostrato che il trauma psicologico induce cambiamenti epigenetici che possono avere effetti a breve e lungo termine sulla funzione neuronale, sulla plasticità cerebrale e sugli adattamenti comportamentali agli stress psicologici (Zannas et al., 2015). In particolare, lo studio di Hannon et al. (2016) sull’epigenoma delle regioni della corteccia prefrontale di individui con diagnosi di schizofrenia, disturbo bipolare e controlli, ha identificato modifiche epigenetiche coinvolte nello sviluppo e nel metabolismo neuronale.

Un concetto importante che emerge dagli studi epigenetici nel Disturbo da Stress Post-Traumatico (PTSD) è che i cambiamenti della metilazione del DNA indotti dal trauma possono essere allele specifici e possono interagire in modo complesso con il patrimonio genetico e l’esposizione al trauma. Queste interazioni possono influenzare l’espressione dei geni coinvolti nelle risposte allo stress, nella funzione dei neurotrasmettitori e nella regolazione immunitaria, contribuendo alla generazione di endofenotipi di vulnerabilità o resilienza (Zannas et al., 2015).

Il PTSD si può manifestare in persone che hanno subito o hanno assistito a un evento traumatico, catastrofico o violento, oppure che sono venute a conoscenza di un’esperienza traumatica accaduta ad un familiare o una persona cara. Se la sofferenza si prolunga per oltre un mese dall’esposizione al trauma e interferisce significativamente con la vita lavorativa, sociale o scolastica dell’individuo, attraverso la comparsa di sintomi quali ricordi involontari ed intrusivi dell’evento, evitamento, alterazione negativa dei pensieri e delle emozioni, iperattivazione dell’arousal e della reattività, reazioni dissociative, intensa e prolungata sofferenza psicologica va posta la diagnosi di PTSD (American Psychiatric Association, 2014).

Un fattore da considerare è anche il momento dell’esposizione traumatica e la sua relazione temporale con i cambiamenti epigenetici e lo sviluppo di PTSD. Il trauma nelle prime fasi della vita è associato a cambiamenti epigenetici duraturi. Da studi recenti è stato dimostrato che la metilazione del DNA e l’acetilazione dell’istone sono coinvolti in ogni fase della memoria della paura, dal consolidamento iniziale all’estinzione e al potenziamento a lungo termine, processi che hanno dimostrato di essere alterati nei pazienti con PTSD (Zannas et al., 2015).

Diverse ricerche, condotte soprattutto su campione animale, stanno dimostrando che i cambiamenti indotti dallo stress nella metilazione del DNA possono essere ereditati.

Nello studio di Dias e Ressler (2014) si mostra come i topi a cui è stato insegnato a temere l’odore delle ciliegie abbinandolo ad una scossa elettrica, hanno avuto cuccioli (prima e seconda generazione) che hanno mostrato a loro volta segni di ansia quando venivano esposti a quello stesso odore, anche se non avevano mai appreso l’associazione dolorosa. Osservando il codice genetico della prole, i ricercatori hanno scoperto che uno dei geni olfattivi aveva sviluppato ipermetilazione del DNA. Un altro studio ha dimostrato che la separazione materna cronica e imprevedibile induce comportamenti depressivi, non solo nella prima generazione di topi, ma anche nella loro prole (Franklin et al., 2010).

Un ulteriore esempio di epigenetica comportamentale negli animali si trova nella ricerca condotta da Tracy Bale (neurobiologa alla University of Maryland School of Medicine), nella quale topi maschi sono stati allevati in modo da sperimentare un’infanzia traumatica inclinando le loro gabbie o lasciando le luci accese di notte, scoprendo che, in risposta, i topi avevano sviluppato un cambiamento nel loro comportamento genico in relazione a come affrontare lo stress. E l’aspetto ancora più interessante riguarda il fatto che anche la progenie di questi topi maschi è risultata meno reattiva agli ormoni dello stress rispetto a un gruppo di controllo (Barish, 2018).

Sembra dunque possibile che, oltre ad ereditare dai nostri nonni e bisnonni gioielli ed averi, potremmo ricevere in eredità anche dei marcatori epigenetici, che andrebbero a formare una sorta di memoria biologica delle esperienze e di ciò che questi hanno appreso nel corso della vita. Pensiamo alle storie sulle prigionie di guerra, l’olocausto, le carestie che ci sono state raccontate dai nostri antenati e riflettiamo su quanto sia affascinante pensare che una traccia delle paure, delle sofferenze e dei traumi vissuti possano essere impressi nel nostro epigenoma.

Possiamo descrive questo processo usando le parole di Mark Klein:

I miei genitori sono sopravvissuti all’Olocausto e, con ogni probabilità, hanno avuto la loro epigenetica profondamente influenzata da quell’esperienza. In un senso molto reale, quindi, l’Olocausto è stato impresso in ciascuna delle mie cellule, alla nascita, e lo stesso vale per Hannah, mia figlia. Le nostre esperienze possono così rimbalzare attraverso le generazioni a un livello biologico profondo: un pensiero che fa riflettere per un genitore (Kellermann, 2013).

Integrando fattori ereditari e ambientali, l’epigenetica aggiunge una nuova e più completa dimensione psicobiologica alla spiegazione della trasmissione transgenerazionale del trauma.

Un processo in cui un trauma che è accaduto alla prima generazione viene trasmesso alla seconda e terza generazione. Questa ipotesi suggestiva è confermata da diversi studi condotti su figli di sopravvissuti all’Olocausto, veterani di guerra, genitori affetti da PTSD che mostrano una marcata e generale vulnerabilità allo stress in assenza di esperienze traumatiche. Sembra che questi individui, che ora sono adulti, abbiano in qualche modo assorbito il trauma represso e insufficientemente elaborato dei loro genitori. Studi condotti sui gemelli hanno evidenziato che il rischio di PTSD è associato a una vulnerabilità genetica sottostante e che oltre il 30% della varianza associata al PTSD è correlata a una componente ereditaria, in particolare può essere osservata nei marcatori epigenetici che influenzano i modelli di espressione genica nel sistema nervoso (Skelton, et al., 2012). Ancora altri studi dimostrano che bambini di famiglie in cui almeno un genitore ha subito torture presentano sintomi psicopatologici, come sintomi depressivi, sintomi di stress post-traumatico, somatizzazione e disturbi comportamentali più spesso rispetto ai bambini di famiglie in cui nessuno dei genitori ha subito torture o violenze (Daud et al., 2005). Dal lavoro di Braga et al. (2012) emergono altri dati interessanti: dall’analisi di numerosi casi clinici di pazienti sopravvissuti all’Olocausto si più identificare una sorta di ‘sindrome del sopravvissuto’ che viene perpetuata da una generazione alla successiva; sempre studi su casi clinici riportano una vasta gamma di sintomi affettivi ed emotivi trasmessi nel corso delle generazioni quali sfiducia nel mondo, compromissione della funzione genitoriale, dolore cronico, incapacità di comunicare i sentimenti, paura costante del pericolo, pressione per il rendimento scolastico, ansia da separazione e iperprotettività all’interno del sistema familiare.

Secondo Kellerman (2013) sono diversi i fattori da considerare quando si tratta della trasmissione del trauma: modelli relazionali disfunzionali, paure e ansie dei genitori che poi possono influenzare lo stile genitoriale, comportamenti problematici dei figli, modelli socioculturali appresi ed inoltre il disturbo del genitore potrebbe essere trasferito geneticamente al bambino, che sarebbe quindi predisposto a determinate risposte allo stress biologico. La trasmissione del trauma potrebbe dunque dipendere da uno, da tutti o da una combinazione di questi fattori.

Un approccio simile è quello di Jablonka e Lamb (2005) i quali nel loro libro Evolution in Four Dimensions suggeriscono che la trasmissione intergenerazionale possa avvenire su vari livelli:

  • livello stabilito della genetica;
  • livello epigenetico che coinvolge variazioni nell’espressione dei geni durante i processi di sviluppo
    che vengono successivamente trasmesse durante la riproduzione;
  • livello di trasmissione delle tradizioni comportamentali (es. preferenze alimentari);
  • livello socioculturale, comprendente le tradizioni tramandate con il linguaggio e la cultura.

Nello studio della trasmissione transgenerazionale del trauma bisogna prestare una particolare attenzione a non confondere la trasmissione transgenerazionale con un’influenza diretta genitore-figlio. Ad esempio, genitori iperprotettivi attraverso i loro comportamenti possono trasmettere le loro paure ai figli rendendoli ansiosi, o ancora genitori affetti da PTSD condizionano i propri figli attraverso una sorta di contagio emotivo. In questi casi i bambini possono essere considerati essi stessi sopravvissuti al trauma primario. Mentre il processo di trasmissione transgenerazionale del trauma è più difficile da delineare, in questo caso il bambino eredita il dolore e la sofferenza dei genitori traumatizzati pur non entrandovi direttamente in contatto. In pratica la progenie dei sopravvissuti al trauma sarebbe in qualche modo ‘programmata’ per esprimere una specifica risposta cognitiva ed emotiva in determinate situazioni difficili. Nei figli di genitori con PTSD si innescherebbe un sistema disfunzionale che, ad esempio, può generare un attacco di panico e attivare la reazione di ‘lotta e fuga’ come se l’individuo si trovasse in una situazione minacciosa anche quando questa in realtà non lo è. Questa sorta di cortocircuito cerebrale causerebbe una maggiore vulnerabilità allo stress in determinate condizioni (Kellerman 2013).

Uno studio condotto da ricercatori del National Bureau of Economic Research sulla Guerra di Secessione (1863-1864) ha scoperto che i figli dei soldati dell’esercito dell’Unione che avevano vissuto condizioni estenuanti come prigionieri di guerra avevano maggiori probabilità di morire giovani rispetto ai figli di soldati che non erano stati fatti prigionieri. Poiché gli autori dello studio hanno esaminato altri fattori che potrebbero avere ripercussioni sulla longevità dei figli, come ad esempio lo stato socioeconomico e la qualità dei matrimoni dei genitori, ritengono che questo effetto sulla mortalità dipenda dall’epigenetica (Khazan, 2016).

Ancora dal lavoro di Yehuda e Lehrner (2018) emerge che i veterani di guerra dello Yom Kippur avevano maggiori probabilità di sviluppare un Disturbo da Stress Post-Traumatico (PTSD) in risposta al combattimento se avessero avuto un genitore sopravvissuto all’Olocausto.

Sebbene sia la trasmissione intergenerazionale sia quella transgenerazionale degli effetti delle avversità ambientali siano state stabilite in modelli animali, studi sull’uomo non hanno ancora dimostrato che gli effetti del trauma sono ereditabili. Tuttavia la ricerca si sta impegnando per comprendere quali siano i meccanismi coinvolti e come l’esperienza del trauma, o meglio l’effetto di tali esperienze, possa essere trasmesso da una generazione all’altra.

L’idea di poter indagare come l’aver ereditato un trauma dai nostri antenati possa influenzare il nostro modo di essere e la nostra vulnerabilità agli eventi stressanti della vita non è solo molto interessante, ma ci potrebbe dare la possibilità di prevedere le risposte individuali agli eventi traumatici offrendo così l’opportunità di indirizzare strategie preventive e interventi precoci per gli individui più vulnerabili. Lo sviluppo di nuove terapie potrà basarsi sulla nostra capacità di svelare le complessità dell’epigenoma nelle condizioni normali e di malattia. Le terapie epigenetiche sono promettenti per una vasta gamma di applicazioni biologiche, dal trattamento del cancro al ricorso alle cellule staminali (Hamm e Costa, 2011).

È importante sottolineare che l’esposizione al trauma non porta sempre allo sviluppo del PTSD, e che quindi i cambiamenti epigenetici a seguito dell’esposizione al trauma non provocano necessariamente un disturbo psicologico, ma, anzi, in alcuni casi possono determinare l’apprendimento di nuovi comportamenti per evitare l’esposizione al trauma o altri meccanismi adattativi. Il principio della plasticità epigenetica implica che le modifiche all’epigenoma potrebbero resettarsi quando le avversità ambientali non sono più presenti o quando sviluppiamo un modo alternativo per affrontare le sfide ambientali. In questo caso si può parlare di un costrutto che in psicologia è chiamato resilienza. La definizione di resilienza maggiormente condivisa in psicologia è quella dell’American Psychological Association (2020), che la descrive come:

un processo di riadattamento di fronte ad avversità, traumi, tragedie, minacce, o anche significative fonti di stress – come problemi familiari e relazionali, seri problemi di salute, o pesanti situazioni finanziarie e lavorative.

Ricordiamoci che alla base della resilienza umana vi è proprio la capacità di rispondere in modo flessibile agli stimoli ambientali e che proprio come i vissuti traumatici possono essere trasmessi transgenerazionalmente, così può esserlo anche la capacità di fronteggiare e superare il trauma, con lo sviluppo di meccanismi di resilienza da parte delle generazioni successive.

Lo sviluppo di questa risorsa psicologica avviene attraverso un percorso personale, le generazioni che ci hanno preceduto possono fungere da modelli di apprendimento tramandando strategie più o meno funzionali e ciascuno di noi esplorando i propri vissuti e significati, allenando la propria capacità introspettiva, sarà in grado di trovare la modalità più adatta e funzionale per affrontare e superare le avversità della vita.

Le mascherine: un nemico da combattere o un valido alleato?

A partire dall’11 marzo numerosi studi hanno indagato quali siano state le ripercussioni a livello psicologico del Covid-19 e del conseguente lockdown, ma si sa ancora poco sui risvolti legati all’uso delle mascherine.

 

Era l’11 marzo 2020 quando il Direttore Generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato che il focolaio internazionale di infezione da Covid-19 era da considerarsi una pandemia, sottolineando, tuttavia, che essa poteva ancora essere controllata (World Health Organization, 2020). Da quel momento in poi, le nostre vite sono drasticamente cambiate a causa di una serie di restrizioni e limitazioni volte a salvaguardare il nostro e l’altrui stato di salute. Nonostante le suddette restrizioni varino da paese a paese, sono tre le raccomandazioni che accomunano ciascuno di noi: distanziamento sociale, detersione frequente delle proprie mani e utilizzo delle mascherine.

A partire dalla sopracitata data, numerosi studi hanno indagato quali siano state le ripercussioni a livello psicologico, determinate dal Covid-19 e dal lockdown, ma si sa ancora poco rispetto alle risonanze determinate dall’uso delle mascherine. Combattere contro un nemico invisibile potrebbe far abbassare la percezione del rischio ma, in questo caso, la controprova più tangibile dell’esistenza e persistenza di questa pandemia, risulta essere la mascherina.

A livello teorico, alcuni autori (Scheid, Lupien, Ford & West, 2020) hanno ipotizzato come tale restrizione potrebbe andare ad incidere su alcuni bisogni fondamentali quali, ad esempio, l’autonomia individuale. Di fatti, quando le persone percepiscono una minaccia alla propria libertà di scelta, ciò comporta delle reazioni negative (Brehm & Brehm, 1981) come il mancato rispetto (Hornick, Jacobson, Orwin, Piesse & Kalton, 2008) o la rabbia (Rains, 2013).

Allo stesso tempo, inibire un’espressione emotiva, determina un decremento dell’intensità percepita della medesima (Oberman et al., 2007). L’avere dunque una parte del volto coperto condiziona la nostra capacità di riconoscimento emotivo che, a sua volta, determina un’influenza sulle nostre relazioni interpersonali (Oberman et al., 2007).

Un gruppo di ricercatori si è proposto di valutare l’associazione tra l’aumento dell’uso delle mascherine in Polonia e le manifestazioni psicopatologiche. La raccolta dati è stata condotta tra il 16 marzo e il 26 aprile 2020. Successivamente, i partecipanti (n= 2040) sono stati divisi in due gruppi, differenziati in base alla data di somministrazione del questionario. Nello specifico, il primo gruppo è stato valutato quando l’uso della mascherina era ancora sporadico, mentre il secondo, a seguito dell’intensificazione del suo utilizzo. Ad entrambi, è stato somministrato il General Health Questionnaire-28 (GHQ-28), volto ad indagare la frequenza, nelle quattro settimane precedenti, di specifici sintomi: ansia, insonnia, sintomi somatici, deterioramento sociale e depressione.

Coloro i quali sono stati valutati a seguito dell’aumento delle restrizioni riguardanti l’uso della mascherina, hanno ottenuto punteggi inferiori nel GHQ-28, rispetto all’altro gruppo.

Sulla base dei risultati ottenuti, gli autori hanno dunque concluso che l’utilizzo delle mascherine determini un aumento della percezione di protezione di sé e di solidarietà sociale che contribuiscono ad un incremento della salute mentale.

Di fatti le mascherine risultano essere il mezzo più evidente attraverso il quale anche il singolo può sentire di esercitare un ruolo attivo nella lotta contro il virus. Di conseguenza, ciò determina un aumento della percezione del controllo che, a sua volta, affievolisce il senso di impotenza (Folkaman & Greer, 2000) e l’ansia ad essa associata, generando al contempo, un senso di coesione sociale (Cheng et al., 2020).

Se tali benefici sono stati riscontrati all’interno di un campione appartenente alla popolazione generale, che risvolto potrebbe avere l’utilizzo delle mascherine su pazienti psichiatrici, in particolar modo su coloro i quali soffrono di un disturbo di ansia sociale?

Sulla base di alcuni resoconti riportati da Vaile Wright, direttrice della Health Care Innovation della American Psychological Association, indossare la mascherina tende ad alleviare i sintomi connessi a tale patologia, in quanto, quando il volto è coperto da una maschera, le espressioni e gli atteggiamenti vengono obnubilati, abbassando la carica ansiogena correlata alle interazioni sociali (Volpe, 2020).

Dunque, la direttrice sostiene che, qualora tali resoconti venissero confermati da evidenze empiriche, si potrebbe ipotizzare di includere l’utilizzo della mascherina all’interno di un più ampio progetto terapeutico per questi pazienti (Volpe, 2020).

 

Cosa significa accettare il dolore?

E se avessimo semplicemente dato una nostra personale interpretazione del concetto di accettazione del dolore? E se si trattasse di un semplice madornale errore?

 

Quando soffriamo per qualcosa, schiavi dell’espressione ‘parlane, così ti liberi!!’, tendiamo a riversare in modo più o meno incondizionato la forma di infelicità che ci attanaglia in quel preciso istante sul malcapitato familiare che siede a fianco a noi a tavola, sull’amico che per sua sfortuna ha telefonato proprio in quel momento, sul fidanzato che per definizione è obbligato ad ascoltare o sul parrucchiere che invece fa finta di ascoltare… aspetta… o era il contrario?

È come se il nostro cervello interpretasse l’accettazione non nel suo sinonimo più logico di ‘comprensione’, ma nel senso più letterale del termine, cioè come derivato del verbo accettare, dividere, frammentare, per cui quando viviamo una situazione che dentro di noi genera sofferenza la nostra mente non trova di meglio che reputare vincente la scelta di spezzettare il fardello come si fa con una pagnotta, e donarne un pezzo a Michele, un pezzo a Maurizio, un pezzo a Marianna e così via.

Nella nostra infinità bontà, vogliamo saziare tutte le persone che ci circondano con i nostri problemi. Alla faccia della fame del mondo.

Negli Stati Uniti è stata stilata una classifica delle parole che le persone utilizzano di più durante le telefonate con la mamma, l’amico, il nemico, la moglie, l’amante, il collega, il cane, il gatto eccetera e… rullo di tamburi… la parola che ripetiamo più spesso è: ‘IO’.

D’altronde: esiste qualcosa di più importante dei nostri problemi in una società che esalta il concetto di condivisione, e che vacilla solo a sentir pronunciare la parola solitudine considerata oramai quasi come una forma di iettatura?

Lungi da me definire un errore relazionarsi con gli altri per avere un consiglio sui nostri insopportabili grattacapi.

E poco importa se i problemi sono reali o è semplicemente la nostra mente che rende vivo un pensiero che, per sua stessa definizione e natura, rimarrebbe appunto solo un pensiero.

Quindi non ti preoccupare.

Nessuno vuole privarti della gioia di donare metà della tua pagnotta a chi desideri.

Cerca, casomai, di trovare il coraggio di conservarne un pezzetto anche per te.

Nel nostro (infinito) egoismo, infatti, siamo perennemente convinti che ‘nessuno ci capisce’.

Ma non è che nessuno ci capisce perché neanche noi, in definitiva, non sappiamo bene cosa vogliamo?

Non appena ci capita un fuoco tra le mani, cerchiamo in tutti i modi di liberarcene per paura di rimanere scottati, e siamo convinti che sarà proprio la società liquida di cui parlava il sociologo Bauman ad aiutarci a spegnere definitivamente il nostro divampante incendio.

Ma bruciamoci! Che sarà mai?

Nella drammatica (e a volte comica) ossessiva ricerca di qualcuno disposto ad ascoltare le nostre miserie per regalargli così il nostro più profondo dolore con l’assurda convinzione che in questo modo porremo fine alle sofferenze, perdiamo di vista la cosa fondamentale.

Il nostro errore non consiste nel cercare un po’ di naturale e legittimo sostegno negli altri (alla fine, non è ciò di cui abbiamo bisogno tutti?) ma bensì nel fatto che consideriamo il vomitare i nostri problemi addosso agli altri, il solo tramite per sfuggire alla sofferenza!

Certo che provi una paura fottuta a rimanere nella stessa stanza con il tuo dolore.

Certo che inquieta cercare di risolvere da soli le schifezze della nostra vita.

Certo che è più facile evitare l’angoscia, il fastidio o la noia, piuttosto che affrontarli a viso aperto.

Non riusciamo a stare da soli con i nostri pensieri negativi, figuriamoci a rimanere a tu per tu con la sofferenza!

Dovremmo prendere esempio da Uma Thurman, che nonostante la sua forma acuta di claustrofobia, per esigenze di copione ha accettato di essere sepolta viva un metro sotto terra e in una bara nel film Kill Bill Vol. 2.

Dopo le riprese ha dichiarato: ‘Non c’era bisogno di recitare durante quella scena. Le mie urla erano vere’.

Ciò nonostante, ha affrontato il suo demone.

Non voglio dire che dobbiamo arrivare a farci seppellire sottoterra, ma sembra che facciamo di tutto per non sentirci responsabili per quelle situazioni per le quali nove volte su dieci siamo i soli ad essere responsabili.

Diciamoci la verità: non abbiamo la minima voglia di approfondire i nostri problemi.

E non vogliamo accettarli perché, semplicemente, a noi basta svuotarci.

Se ci pensi bene, anche durante i momenti di relax gestiamo quattro-cinque cose contemporaneamente (tra l’altro tutte male) perché abbiamo paura di affrontare le nostre scottanti questioni e siamo convinti che non pensandoci o affidandole agli altri prima o poi spariranno da sole, come per magia.

Svegliati Houdini, perché non è così.

Il fatto è che tendi a riempirti le giornate con cazzate perché consideri molto più liberatorio parlare con la tua amica Elisabetta di quanto sia cambiato il tuo fidanzato che prima aveva occhi solo per te e adesso si è comprato un paio di Rayban oscurati per nascondere il fatto che ha occhi solo per le altre, piuttosto che affrontare il perché abbia avuto tale metamorfosi e cercare di sforzarti di capire cosa puoi realmente fare per migliorare la tua relazione dato per assodato che, ahimè, non è un pacco e che non puoi restituirlo come con Amazon, ma al massimo puoi rimandarlo a sua madre (ma se è furba neanche lei si riprende quel vecchio rottame che, chissà come, è riuscita ad affibbiarti).

È proprio vero quel detto ‘quando l’amore c’è, parli con lui escludendo tutti gli altri, ma quando è in crisi parli con tutti gli altri escludendo lui’.

Massimo Troisi nel film Pensavo fosse amore invece era un calesse, agli amici che a turno si presentavano a casa sua per tentare a tutti i costi di consolarlo, e che si prodigavano per non lasciarlo solo visto la cocente delusione d’amore che aveva subito, ripeteva:

Andate via vi prego. Lasciatemi soffrire tranquillo. Chi vi chiede niente a voi? Vi ho chiesto qualcosa? No. Voglio solo soffrire bene. Mi distraete. Non mi riesco a concentrare. Con voi qua per casa non ci riesco. Soffro male, soffro poco, non mi diverto. Non c’è quella bella sofferenza!‘.

Mi distraete dal dolore, ripete nel film.

Esiste un esempio più chiaro di consapevolezza del dolore?

Non possiamo liberarci dal dolore senza averlo accettato.

E decidere di accettarlo significa essere disposti ad assaporarlo, significa viverlo.

Significa mettersi in discussione.

Significa prendere coscienza che siamo fallibili e che commettiamo errori.

Significa che se la tua ragazza ti lascia forse è riduttivo etichettarla solo come una povera immatura.

Significa capire che se hanno promosso il tuo collega, non è necessariamente detto che sia un raccomandato ma, forse, è solo più bravo di te.

Significa sentirsi a proprio agio con il fallimento.

Significa accettare di aver perso.

Significa accettare di soffrire da soli per un po’.

Significa bruciarsi.

Ma bruciamoci! Che sarà mai?

 

La diagnosi in mezzo a un guado: siamo pronti a farci traghettare da processi, dimensioni e tratti?

Uno dei temi centrali, direi fondativi, della psicoterapia è la diagnosi e il sistema nosografico sul quale questa si sostiene.

Il puzzle diagnostico

Sia chi osteggia e denigra ogni forma diagnostica sia chi difende a spada tratta il proprio modello deve prima o poi giungere ad una formulazione del caso. Cosa dice il cliente quando parla della sua sofferenza? Perché manifesta proprio quel tipo di sofferenza? Come si è originata? Cosa la mantiene ed impedisce che la persona stia meglio? Quali tentativi ha finora sperimentato per superarla?

Queste sono alcune tra le numerose domande che un terapeuta si pone nell’intraprendere assieme al proprio cliente un percorso di auspicabile cambiamento. Ma come una sorta di gioco di prestigio in cui il mago non sembra mai finire di estrarre fazzoletti colorati, la diagnosi porta con sé la nosografia, la teoria della cura, della tecnica, della relazione e chi più ne ha più ne metta. E come un telefono senza fili, ad ogni passaggio l’informazione rischia sempre di essere distorta e travisata, e siamo tutti convinti di aver perfettamente compreso ed espresso ancor più chiaramente!

Esempio eclatante di questa babele è la recente evoluzione della CBT (Cognitive Behavioral Therapy) o meglio di quella cornice che Steven Hayes contribuì a definire Third Wave (terza onda o ondata) e che oggi include forme assai diverse di psicoterapie evidence-based (Hayes & Hofmann, 2020). Sì, perché Aaron Beck, fondatore della CBT, creò le basi del suo successo anche grazie alla continua attenzione alle prove di efficacia. Con Beck la psicoterapia riconosce, senza se e senza ma, che non posso dire se quel che faccio è efficace se non posso dimostrare cosa ho fatto e perché l’ho fatto!

E fin qui niente da segnalare o eccepire. Ma come in ogni storia degna di interesse, giunge un però. O meglio giunge la Terza Onda a rovinare i piani e a mostrare un accavallarsi di comorbidità nelle diagnosi (quelli che si credeva fossero depressi, erano anche ansiosi e un po’ evitanti) e di evidenze in favore di interventi che hanno dei target che fino ad allora non consideravamo evidence-based (la mindfulness funziona dimenticandosi la ristrutturazione cognitiva e concentrandosi sull’attenzione).

Con cosa sostituiamo le categorie?

La Terza Onda ha risposto alle critiche più ricorrenti alla CBT focalizzandosi sempre più sui processi. E questo cambiamento si è legato ad interventi basati su mindfulness, accettazione ed in genere ad una ritrovata prospettiva mind-body. In forme diverse tutti hanno cercato di mantenere alcune componenti base del lavoro di Beck: i belief hanno incontrato gli schemi, i pensieri automatici i rimuginii, la ristrutturazione cognitiva l’imagery, e tanto altro ancora. Ognuno però ci ha messo del suo, o meglio ognuno ha preso quel che già esisteva rielaborandolo secondo la propria prospettiva.

Uno dei rompicapi su cui tutti però ci perdiamo è come mettere assieme una diagnosi che decantiamo non più categoriale con due dati: uno osservato, uno latente. Quello osservato è la mole innegabile di evidenze a favore della significatività statistica, predittività longitudinale e rilevanza clinica di tratti e processi. Quello latente è l’uso da parte di tutti gli alfieri della Terza Onda e non solo di dimensioni e fattori transdiagnostici pur dichiarandosi spesso fieri oppositori delle teorie dei tratti e dei processi.

Purtroppo, sui tratti incombe una sorta di pregiudizio morale simile a quello sulla genetica, come se il sapere che non supererò mai i 181 centimetri di altezza e non sarò mai una persona spontaneamente ordinata annulli il mio libero arbitrio! Ritengo che se riconosciamo l’utilità di un approccio evidence-based come la CBT non possiamo poi affermare che le soverchianti evidenze a favore di modelli quali Big Five (Widiger et al., 2013), HiTOP (Kotov et al., 2017), AMPD (Waugh et al., 2017) e RDOC (Cuthbert & Kozak, 2013) sviliscano la natura dell’uomo e non permettano di comprendere il funzionamento dei nostri clienti. La sensazione è che davvero siamo ad un guado. In cui coloro che hanno contribuito a dar valore alla Terza Onda mostrano chiaramente quale sia la direzione per uscir dal fiume. Nessuno ad oggi ha chiaro cosa vi sia là oltre e in molti vorremmo tener almeno un piede sulla sponda nota.

3 idee per far pace (si spera) con i tratti

Il lettore si starà chiedendo, con fastidio o curiosità, dove io voglia andar a parare e quali siano le risposte che offro. Ecco, mi spiace deludere, ma verrei meno alle premesse del mio discorso se sollevassi un velo per mostrare chissà quale mirabolante soluzione. I fenomeni complessi richiedono modelli complessi (Del Giudice, 2020). Quello che posso delineare è un tentativo parziale che sia coerente con quanto la letteratura sembra suggerire.

  • Processi e tratti. L’uso di una sola prospettiva o modello sarà necessariamente fallace, così come l’assenza di dettagliate rilevazioni tramite strumenti autosomministrati e interviste. L’avanguardia della ricerca in tale ambito sta portando avanti due filoni fondamentali (Samuel & Lynam, 2019): l’integrazione di misure su tratti di personalità e processi transdiagnostici al fine di individuare fattori comuni di psicopatologia; una visione sempre più tempo-dipendente delle rilevazioni che valorizzi il variare di queste piuttosto che la loro staticità. In pratica, significa che visto riconosciamo sempre più la rilevanza della gravità psicopatologica (si pensi alla mai dimenticata scala di funzionamento del DSM-IV-TR o al criterio a dell’AMPD) è importante indagare quali tratti o processi si associano (nonché spiegano e predicono) tale gravità. Al contempo abbandonando le categorie per la loro instabilità esplicativa, conviene monitorare più volte l’andamento dei famigerati processi e tratti. Sempre più studi ci dicono che perfino la personalità si modula e varia nel tempo e la forma di tale variazione sembra essere essa stessa un predittore psicopatologico. Personalmente integro sempre misure autosomministrate e interviste basate su DSM-5, Big Five e specifici processi e dimensioni. E per la sfortuna dei miei clienti ripeto più volte tali rilevazioni.
  • Dai tratti alle traiettorie. Big Five e DSM-5 ci offrono ad esempio spaccati diversi non solo del problema presentato, ma anche del funzionamento della persona. I dati ci dicono che il Big Five coglie una sorta di architettura base della personalità che tende ad essere abbastanza stabile del tempo e slegata da eventuali interventi psicoterapeutici. Se la mia configurazione si caratterizza per un elevato nevroticismo, fasi specifiche della mia vita (es. un nuovo lavoro particolarmente gratificante) o un intervento orientato al cambiamento (es. psicoterapia) possono mostrare una riduzione dei punteggi. Ciononostante, l’architettura mostrerà sempre una certa rilevanza del nevroticismo. E dunque avere come target terapeutico un punteggio al disotto della media normativa parrebbe poco sensato sia per il terapeuta che per il cliente. I tratti che emergono invece dall’AMPD o da misure transdiagnostiche specifiche ci aiutano ad individuare quella che in precision medicine si definisce una traiettoria (Zimmerman et al., 2019). Ovvero come l’architettura di personalità (es. nevroticismo) o specifici spectra (es. internalizzante) si evolvono nel tempo manifestando forme diverse di sofferenza e di tentativi di adattamento a questa. La stessa persona con elevato nevroticismo sembra caratterizzarsi da sempre per uno spettro internalizzante, ha sviluppato forme di autocritica e perfezionismo per auto-regolarsi di fronte ad un ambiente familiare invalidante e oggi si presenta al nostro studio riportando i criteri per soddisfare un disturbo ossessivo compulsivo di personalità (DOCP). Non avendo ad oggi un modello inattaccabile, vedere lo stesso problema da prospettive diverse, anche categoriali, riduce il rischio del famigerato bias di conferma, leggasi raccontarsela!
  • Il contratto terapeutico. Se abbiamo tutte queste informazioni, come decidiamo su cosa agire? È bene ricordarsi che la domanda sanitaria è dell’utente non del professionista! Ergo, non siamo noi a decidere se si lavora su una manifestazione sintomatologica (es. sintomi depressivi ricorrenti) in tempi relativamente brevi o su una traiettoria di personalità (es. DOCP) in tempi necessariamente medio-lunghi. Quel che sta a noi è esser chiari nell’offerta sanitaria ed avere auspicabilmente alle spalle una équipe o una rete di invii. Sempre per l’onnipresente bias di conferma rischiamo altrimenti di crederci tuttologi. Concordare 8 sedute per lavorare solo sui sintomi depressivi (come ci troviamo a fare nei sistemi sanitari pubblici) non è un’offesa agli dèi della psicoterapia, è la risultante di un sano bilanciamento tra vincoli e possibilità. Ovviamente con la premessa di co-costruire un contratto terapeutico chiaro in cui si spiega cosa si può fare e cosa no. Al contempo, usare la comprensione del funzionamento di personalità per un intervento breve non è farsi distrarre (Wright et al., 2019). È di nuovo aver chiaro i vincoli e dunque le possibilità del nostro agire. Si vedano gli innumerevoli studi sui non-rispondenti alle terapie standard per sintomi ansiosi, depressivi o post-traumatici. Similmente se concordiamo di lavorare sulla personalità non ci dobbiamo dimenticare dei sintomi, sapendo che efficacia e alleanza terapeutica saranno ben più solide se possiamo offrire una precoce riduzione di quegli stessi sintomi (Flückiger et al., 2020).

In conclusione, sì siamo in mezzo ad un guado. Sappiamo che la riva da cui giungiamo è ormai alle nostre spalle e che la direzione intrapresa ci porta innanzi. Tratti, processi e dimensioni sono forse appigli instabili, ma sembrano andare nella direzione auspicata.

“L’apparizione dell’idiota”, la psiche nel teatro

Nel teatro, come nel cinema, talvolta è interessante trovare in modo naturale, senza neanche cercare, temi rilevanti di psicologia. “L’apparizione dell’idiota” di fatto sembra proprio focalizzarsi su alcuni ambiti psicologici quali il cambio di prospettiva, l’incontro col vuoto, il controllo e tanto altro che appartiene alla quotidianità dell’essere umano.

 

E’ proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un’altra prospettiva.

Questa citazione di Robin Williams ne L’attimo fuggente sembra racchiudere il significato dello spettacolo teatrale, tratto dall’omonimo e-book di Marcello Linfatti, L’apparizione dell’idiota.

La rappresentazione, che ha avuto luogo al Teatro delle Muse di Roma nelle serate del 17 e del 18 Settembre 2020, prende in considerazione più temi riguardanti l’intrapsichico e le relazioni interpersonali.

I vari personaggi della vicenda sembrano essere le voci interne di ciascun essere umano in lotta tra loro. Dentro ognuno di noi, infatti, coesiste la propria voce e quelle degli altri che abbiamo incamerato a modo nostro. Spesso è difficile far valere il proprio punto di vista dentro di sé, quando in gioco ci sono emozioni come la paura.

In realtà ognuno di noi ha le basi per sapere cosa è meglio e cosa no per se stesso e questo è uno dei messaggi che vengono esplicitati durante lo spettacolo, attraverso il monologo di Giangiangi. Attraverso un fiume di parole questo personaggio si libera, vomitando il suo disprezzo per le limitazioni che gli uomini si sono posti da soli per vivere.

Lo spettacolo, ambientato in un futuro distopico, mostra un nonno che racconta ad una nipote in che modo l’essere umano si sia rovinato da solo. Il primo passaggio che ha permesso questo è la difficoltà umana di restare col vuoto, che ha spinto gli uomini stessi a creare un sistema basato sul fare, da qui il termine “i facitori”,e che non permette di “stare” con le proprie emozioni. L’angoscia scatenata dal vuoto è tanto difficile da sperimentare che si preferisce avere la parvenza di mantenere il più possibile di quello che ci è dato sotto controllo.

Infatti descrive un falso vivere, che può essere tradotto in un sopravvivere, divenuto tale per la mancanza di coraggio di incontrare le proprie emozioni e prendersi la responsabilità di quello che si vuole per se stessi.

I momenti in cui appare “l’idiota”, da cui il titolo del libro e dello spettacolo, sono illuminanti e la sua voce sembra essere quella dentro di noi, mai sopita, ma nascosta bene talvolta, che combatte con la visione altrui di come si dovrebbe agire, pensare o essere.

Gli “idioti” sono coloro che non hanno smesso di guardare gli avvenimenti sotto un’altra prospettiva, di interrogarsi riguardo a quello che accade, di incuriosirsi rispetto a se stessi e al proprio modo di pensare, come lo stimolante Gregory Bateson. Aderire alle voci degli altri che abbiamo incamerato dentro di noi è forse più semplice e in alcuni casi ci permette di sopravvivere, ma non di vivere.

Questo spettacolo, similmente al libro Se incontri il Buddha per la strada uccidilo di Sheldon B. Kopp, sembra avere la funzione di entrare in contatto con le parti più autentiche di noi. Grazie al pensiero e agli studi di persone come Kopp e Bateson ci si può interrogare su quanto talvolta sia meno semplice, ma più proficuo, uscire dal tracciato per cercare la strada migliore per sé.

 

Bisogni primari: anoressia nervosa, disfunzioni sessuali e attaccamento

Sembra che il recupero della normale funzione sessuale sia un importante predittore nei pazienti con anoressia nervosa, in quanto indice di un “contatto sano” con il proprio corpo

 

L’anoressia nervosa è un disturbo alimentare riportato nel DSM-5 all’interno dei disturbi della nutrizione e dell’alimentazione. I criteri definiscono tale disturbo come consistente in una restrizione dell’introito energetico rispetto al fabbisogno in relazione all’età, alla traiettoria evolutiva, al sesso e alla salute fisica (APA, 2013) con una severa perdita di peso, paura di ingrassare con conseguente comportamento che interferisce con l’aumento di peso e con un grado di severità legato al BMI (indice di massa corporea).

A differenza delle precedenti edizioni del DSM, nella quinta edizione i disturbi della sfera sessuale sono divisi in tre categorie distinte: disfunzioni sessuali, parafilie e disforie di genere (APA, 2013).

Secondo Maslow (1954) sessualità e fame sono due bisogni naturali e fisiologici legati a esigenze primarie, nello specifico sono necessari per la sopravvivenza dell’individuo.

Molti studi si sono focalizzati su una possibile correlazione tra diminuzione del desiderio sessuale e disturbi alimentari (Castellini et al., 2019) non come conseguenza del sottopeso, bensì come un problema specifico profondamente legato alla percezione disturbata della propria immagine corporea, il disagio percepito e la restrizione dietetica (Castellini et al., 2012; 2017). Studi di follow-up hanno evidenziato come il recupero della normale funzione sessuale sia un importante predittore nei pazienti con anoressia nervosa, in quanto indice di un “contatto sano” con il proprio corpo (Castellini et al., 2019).

Brassard e colleghi (2007) hanno osservato come uno stile di attaccamento evitante è correlato maggiormente alla riduzione di desiderio sessuale rispetto ad uno stile di attaccamento ansioso. Butzer e colleghi (2008) hanno evidenziato come entrambi gli stili di attaccamento determinano nei soggetti una riduzione della soddisfazione sessuale.

Di recente Cassioli e colleghi (2019) hanno condotto uno studio osservazionale presso la clinica di disturbi alimentari nell’università di Firenze, per comprendere (1) la relazione tra disfunzioni sessuali e alterazioni legate all’immagine corporea, (2) la relazione tra disfunzioni sessuali e attaccamento insicuro, (3) il ruolo del corpo come mediatore tra disturbi alimentari e riduzione del desiderio sessuale, infine (4) il ruolo dello stile di attaccamento come mediatore tra disturbi alimentari, alterazione della percezione dell’immagine corporea e riduzione del desiderio sessuale. I ricercatori hanno somministrato i questionari (come la Symptom Checklist-90, Eating Disorder Examination Questionnaire, Identity and Eating Disorders, Attachment Style Questionnaire e la versione breve del Childhood Trauma Questionnaire) ad un gruppo sperimentale composto da 111 donne adulte con anoressia nervosa e ad un gruppo di controllo composto da 120 soggetti in salute.

I risultati hanno evidenziato come le pazienti del gruppo sperimentale hanno risultati più bassi rispetto al gruppo di controllo in tutte le aree indagate (Cassioli et al., 2019). Un desiderio sessuale basso era associato alla psicopatologia specifica dei disturbi alimentari, al tipo di attaccamento e alla percezione della propria immagine. La restrizione dietetica è associata a una riduzione del desiderio sessuale attraverso una chiusura e un disagio provati a causa di un disturbo della percezione del proprio corpo.

Questo studio (Cassioli et al., 2019) suggerisce come un disturbo legato percezione corporea, mantenuto da un comportamento alimentare disfunzionale, giochi un ruolo chiave nello sviluppo di disfunzioni sessuali in pazienti con disturbi alimentari, solitamente con una conseguente compromissione dell’intimità del soggetto.

 

Una lettura transculturale delle emozioni nella perdita perinatale: l’influenza del contesto socio-culturale sull’esperienza psicologica materna

La perdita perinatale si configura come un evento drammatico, traumatico e paradossale. Il contesto socio-culturale di riferimento gioca un ruolo fondamentale nel processo di attribuzione di significato alla perdita influenzando la risposta materna sia a livello di vissuto psicologico soggettivo sia a livello sociale e relazionale.

 

La perdita perinatale rappresenta un evento traumatico e paradossale, la cui attribuzione di significato e conseguenti risposte, sia a livello individuale che sociale, variano considerevolmente a seconda del contesto socio-culturale di riferimento (Chichester, 2005).

La cultura di appartenenza ricopre un ruolo importante nel processo di attribuzione di significato alle esperienze di perdita e, di conseguenza, può condizionare sia la possibilità di elaborare il lutto attraverso pratiche e rituali specifici e socialmente condivisi, sia la qualità del vissuto psicologico ed emotivo di coloro che ne sono coinvolti (D’Elia, 2007).

A prescindere dalle specificità che caratterizzano le singole culture, è possibile distinguere tra società individualiste e collettiviste (o tradizionaliste) a seconda che in esse si dia priorità all’individuo e alla sua realizzazione oppure al gruppo di appartenenza, ai legami e alle risorse condivise (Hofstede, 1980).

Da questi due diversi orientamenti deriva non solo una diversa organizzazione a livello sociale e relazionale, ma anche una differente concezione di sé, dei propri obiettivi e del proprio comportamento in relazione alle norme sociali o alle proprie attitudini (Oyserman, Coon, & Kemmelmeier, 2002). Nel caso di contesti individualisti, ad esempio le società di stampo europeo o americano, si parla di Sé Indipendente dal contesto sociale, incentrato sui propri obiettivi e guidato dai propri valori e dalle proprie aspirazioni. In contesti più tradizionali, si pensi alle culture africane, si parla invece di Sé Interdipendente, in quanto l’appartenenza al gruppo, lo status sociale e le relazioni interpersonali costituiscono una parte fondamentale della propria identità e determinano l’agire della singola persona (Markus & Kitayama, 1991).

La concezione di Sé influenza inoltre altre aree del funzionamento psicologico della persona: i processi di attribuzione causale, la rappresentazione della propria autostima e, di conseguenza, la qualità delle emozioni esperite sono fortemente influenzate da fattori ambientali esterni o disposizionali interni a seconda della natura più Interdipendente o Indipendente del Sé dell’individuo.

Rispetto alla sfera emotiva, alcuni autori hanno messo in luce una sottile ma fondamentale distinzione tra l’emozione della vergona e il senso di colpa (Smith, Webster, Parrott, & Eyre, 2002). Infatti, se la prima emerge come conseguenza di una valutazione negativa da parte degli altri in riferimento non a un’azione in particolare ma alla persona nel suo complesso, il senso di colpa emerge invece a seguito di un giudizio negativo da parte di sé conseguente al fallimento nel raggiungimento degli obiettivi personali.

Anche nel caso specifico della perdita perinatale è possibile osservare una differente reazione a livello di vissuto soggettivo ma anche relazionale materno a seconda del contesto culturale di appartenenza (Gandino, Provera, 2019).

In contesti occidentali infatti sentimenti quali senso di colpa, fallimento e autoaccusa sono i vissuti più frequentemente associati a questo drammatico evento ed emergono a seguito dell’impossibilità di realizzare un compito sia evolutivo che esistenziale (Burden et al., 2016). Il primo fa riferimento alla genitorialità: la madre inizia a sviluppare un legame di attaccamento e responsabilità genitoriale prenatale nei confronti del bambino già in gravidanza e non è raro che si assuma la responsabilità della perdita, ricercando le cause del decesso, già di per sé ambigue e difficilmente definibili, in fattori disposizionali interni. Il secondo compito riguarda invece la conferma della propria identità di donna adulta, messo in discussione dalla incapacità del proprio corpo, percepito come insufficiente e inadeguato, a generare una nuova vita.

In contesti tradizionali, invece, dal momento che la maternità costituisce il fattore che maggiormente, se non esclusivamente, dà valore alla donna, in quanto le permette di assolvere il compito sociale e religioso di garantire continuità alla discendenza, la morte perinatale priva la donna non solo del proprio valore ma anche del proprio significato in quanto le nega un ruolo all’interno della società (Beyeza-Kashesya et al., 2010). La vergogna, in questo caso, è determinata dalla compromissione del proprio valore e della propria immagine agli occhi degli altri, cui spesso si associano episodi di stigma e di emarginazione sociale, con conseguenze negative anche sul piano fisico e psicologico.

In conclusione, sebbene non si possa escludere la presenza di emozioni di colpa e vergogna rispettivamente all’interno di contesti tradizionali e individuali, tuttavia si può notare una maggiore preponderanza dell’una o dell’altra emozione in relazione alla concezione di Sé e, in senso più ampio, alla cultura di appartenenza. La lettura della perdita perinatale in prospettiva transculturale, in un’epoca caratterizzata da importanti e sempre più complessi flussi migratori, può costituire un importante strumento per cogliere la complessità del vissuto psicologico soggettivo e dunque, in ultima analisi, per fornire un aiuto clinico efficace e personalizzato.

 

F.B.: la 8° storiella di Fantapsicologia

Il presidente della SOPSI, che fungeva da chairman, presentò i due relatori sottolineando la sinergia con cui le due correnti di pensiero che rappresentavano avevano negli anni concorso all’edificazione della Psichiatria pubblica e privata che faceva eccellere l’Italia nel campo dell’assistenza psichiatrica mondiale come l’OMS non smetteva di sottolineare.

 

Se la natura mi avesse dotato, oltre che di parecchie altre cosine che qui tralascio, dell’immaginazione di un narratore e non soltanto dell’aspirazione frustrante a diventarlo, non sarebbe stata necessaria la rilettura (si dice sempre che si è riletto un certo grande classico per non ammettere di non averlo mai letto prima) de La leggenda del grande inquisitore per dare origine al sogno ad occhi parzialmente aperti, o daydreaming (così hanno di recente nominato il fantasticare alcuni ricercatori israeliani e presto, scommetteteci, avremo i corrispondenti farmaci: stimolanti per i creativi di ogni ordine e grado e inibitori per tutti noi altri che non ci si metta strani grilli per la testa) che ho fatto al crepuscolo di una giornata di benvenuta pioggia da conclusione di estate, dedicata a riordinare sul computer gli scritti antichi e da cestinare concernenti il buon vecchio dipartimento di salute mentale.

In poche parole un pezzo della mia vita professionale e affettiva da riesaminare, riassaporare per un attimo superandone l’ormai stagnante odore di vecchio e stantio per poi spostarli nel dimenticatoio per una breve pausa di decompressione, prova di distacco, in attesa che si attenui la bastarda onnipresente nostalgia dei vecchi, per poi obliarli definitivamente con lo ‘svuota cestino’ che poi, dannato, è lui stesso ad istillarci nuovi dubbi dandoci la possibilità di ripensarci quando chiede se siamo proprio sicuri di eliminare definitivamente quei pezzi di vita che dopo sarà come non ci fossero mai stati. Chi non conoscesse La leggenda del grande inquisitore che è contenuta nel romanzo I fratelli Karamavoz di Fëdor Dostoevskij, ma che si può leggere anche separatamente essendo stata editata come libretto a se stante, sappia che l’idea centrale di questa storiella, l’unica originale peraltro, non è farina del mio sacco che, a dir la verità mi sembra da un bel po’ assolutamente vuoto e non solo di farina. Non la riassumo per non spoilerare chi non la conoscesse, diciamo solo che è da non perdere e certamente merita di leggerla anche senza inoltrarsi negli alambiccati casini della famiglia Karamavoz (tre fratelli e un padre che Dio ce ne scampi ad averli anche solo come vicini di casa in vacanza per due mesi) che pure si dice rappresenti un capolavoro assoluto della narrativa ottocentesca. Del resto lo stesso effetto di rifugio in un analfabetismo di ritorno me lo provoca quell’altro indiscusso capolavoro da tutti riconosciuto tale, in specie dai dotti psicoanalisti, che è La ricerca del tempo perduto di Proust. I capolavori non fanno per me, che sono evidentemente per le seconde scelte, gli avanzi di magazzino, le cose semplici, pane e salame invece della cucina gourmet. Al massimo il miglior rapporto qualità/prezzo e certamente non ‘il top di gamma’..

Il protagonista lo chiameremo FB (libro di facce) anche se non si trattava di face-book in quanto assumeva tutte le sembianze possibili in un libro di volti spauriti caratteristici dei nostri desolati (nel senso letterale di privi di sole perché spesso nascosti nelle viscere sottoterra degli ospedali con la scusa che i nostri hanno la tendenza a volare come angeli dalle finestre) ambienti in qualsiasi ruolo li si frequenti a lungo.

Quel giorno FB aveva l’aspetto smarrito di due genitori separati da quando il loro piccolo Marco aveva 6 anni che, dopo oltre quattro lustri di guerra aperta brandendo tranci dello stesso Marco, si ritrovavano seduti accanto in un corridoio adibito a sala d’attesa ad aspettare che l’assistente sociale di turno li ricevesse per raccogliere le notizie per una eventuale presa in carico già definita improbabile dall’amico psichiatra che li aveva indirizzati ai suoi colleghi del CSM di zona perché Marco non aveva nessuna intenzione di andare a farsi vedere e voleva semplicemente i soldi per partire per l’Olanda, convinto che il suo malessere fosse dovuto allo schifo che provava per la società italiana e per Mariella che ne condensava tutte le ipocrisie con il suo perbenismo cattolico che non le aveva impedito di scoparsi il suo (di Marco) migliore amico. La signora Ines strangolava l’incredulità di trovarsi lì con una sciarpa da ex rivoluzionaria sessuale sessantottina inutilmente pentita, l’avvocato Marcoccia nel completo grigio da lavoro dove sarebbe corso appena sistemato il figlio nella sua rigidità ricordava una salma in attesa di saldatura (come avevano potuto stare insieme quei due anche solo per fare quattro salti nel letto pareva ora un mistero). In effetti l’assistente sociale, professionale nella sua imperturbabilità, confermò loro che non c’erano gli estremi per un TSO e che bisognava convincere il ragazzo ad uscire dalla sua stanza dove era chiuso da 47 giorni e presentarsi personalmente alla loro struttura che era quella competente per territorio. Era inutile, spiegò loro con le parole la noia di chi ha dovuto ripetere mille volte le stesse cose a mille facce perplesse, che si recasse al CSM della ASL limitrofa dove Marco sapeva che dei suoi amici si erano trovati bene, perché in tempo di carenza di risorse la distinzione territoriale era applicata rigorosamente. Nella sanità sotto pressione c’era più che mai bisogno di regole e ordine. Appena l’assistente sociale, improvvidamente e non richiesta, fece intendere che la loro separazione quando Marco stava per affacciarsi alla scolarizzazione, era stata certamente un evento patogeno, avevano ripreso a litigare come 15 anni prima sulle rispettive responsabilità nella vicenda del duplice reciproco tradimento e persino sul rispettivo carico genetico familiare perché nella scheda, che era stata meticolosamente compilata, una domanda riguardava la presenza di precedenti psichiatrici nelle famiglie d’origine. Questo fatto che non si sapesse la causa delle malattie mentali permetteva di scagliarsi l’un l’altro colpe che camuffavano risentimenti e ferite ancora aperte. I toni della lite misero in imbarazzo la compassata salma che prese sottobraccio la antica rivoluzionaria e la condusse fuori, una volta in auto chiuse immediatamente i finestrini e soffocò le lagnanze incessanti con un’autoradio Voxson estraibile coevo del loro, oggi pareva incredibile, innamoramento.

Un giorno FB aveva avuto le guance scavate, i capelli neri lisci e sudici appiccicati agli zigomi e le occhiaie profonde del tossicodipendente con vent’anni di carriera alle spalle che era rimbalzato tra il CSM che lo rifiutava per via dell’abuso di sostanze ed il Sert che non voleva saperne a motivo delle voci insultanti che lo assillavano (lui stesso non sapeva se pensarsi vizioso o malato) ed era in attesa che la regione si convenzionasse con una sorta di comunità terapeutica che dei fratacchioni avevano aperto in un loro ex convento sui monti Cimini, svuotato dalla ormai cronica crisi vocazionale e che, accogliendo i disgraziati tout court, senza troppe etichette e specificazioni nosografiche, poteva essere considerata idonea per quelle che venivano chiamate ‘doppie diagnosi’, ma il processo di accreditamento aveva ottenuto da due anni la sospensiva dal TAR del Lazio per un ricorso presentato da altre comunità terapeutiche concorrenti. Nel frattempo spizzava il poker di spade di una overdose risolutiva dopo la quale il rimbalzo tra le strutture non avrebbe più visto lui come pallina ma le responsabilità a partire dall’ultimo ‘no’ cui sarebbe rimasto il cerino in mano.

Nonostante in quell’occasione fosse un palestrato trentacinquenne arrogante classico esemplare della periferia sud-est di Roma, la più grande paura FB l’aveva provata il giorno che era stato trascinato dalla guardia psichiatrica coadiuvata dalla polizia municipale e dai carabinieri con l’ordinanza del sindaco sulla base dei certificati di due psichiatri che non lo avevano mai visto e dopo una pesante sedazione in ambulanza (la famosa tripletta di manicomiale memoria) era stato lasciato su una barella del pronto soccorso del ‘Grassi’ di Ostia dove, per non legarlo come gli infermieri dicevano si sarebbe meritato per la sua irrequietezza molesta, veniva periodicamente rimboccato con ulteriori neurolettici q.b., come si diceva negli appunti culinari della nonna. Il primo a scambiarci poche frasi fu il rianimatore chiamato d’urgenza per un arresto cardiaco, ma fu soltanto per accertarsi che avesse ripreso conoscenza e la conversazione si limitò alle generalità ed alle domandine del mini mental test. Nei sette giorni successivi di degenza nel reparto di diagnosi e cura, al contrario, alle sue vicende personali si erano interessati numerosi psicologi tirocinanti che se non altro sorridevano in modo benevolo ancorché standardizzato (dovevano aver fatto un corso apposta) e di una era stato sul punto di innamorarsi: tradizionale bellezza agrodolce calabrese con la sua parlata aspirata sulle labbra alla fragola che pareva risucchiargli l’anima. I medici, anch’essi giovani per quanto può esserlo un medico specializzando nella maggior parte dei casi o appena specializzato e precario, erano molto presi con i problemi del rinnovo contrattuale trimestrale che manteneva la loro vita in stand-by anche fino alla soglia dei 50 anni. Aveva sentito dire dagli infermieri sempre avvelenati per il mancato riconoscimento economico delle loro mansioni che c’erano anche dei medici di ruolo e persino un primario ma evidentemente i suoi 15 giorni di ricovero erano stati troppo pochi per avere la fortuna di incontrarli, ammesso che di fortuna si trattasse. Alla dimissione gli fu però dato in nome della continuità terapeutica un depliant del suo CSM di appartenenza dove certamente lo avrebbero ascoltato con interesse e curiosità gli psicologi al tirocinio post laurea o per la specializzazione. Avrebbe potuto parlare a volontà. Bravi ragazzi molto motivati. Peccato quel sorrisetto dubitativo che accompagnò la consegna dell’opuscoletto illustrato con tutte le attività del CSM.

In un’altra occasione era stato invece un settantenne sovrappeso e spelacchiato in testa con movimenti lenti da bradipo per la prolungata frequentazione di neurolettici e antiparkinson, vecchio paziente psichiatrico che ora a fine corsa aveva trovato parcheggio in una comunità per lungodegenti, ben diversa dai vecchi e finalmente chiusi manicomi dove aveva vissuto per dieci anni dopo la chiusura dell’OPG di Montelupo fiorentino dove lo avevano spedito per aver impiccato il cane del diabolico vicino invece di ringraziarlo per non aver fatto fare la stessa fine direttamente al minaccioso proprietario che lo tormentava giorno, notte, alba e tramonto con le radiazioni elettroomosessuali nonostante le mutande di latta che si era fabbricato da solo con le scatole dei fagioli borlotti.

In fondo stava certamente meglio del fratello quarantenne, faccia da lupo, un tempo anarchico rivoluzionario e aspirante bombarolo se non fosse stato ubriaco dalla mattina alla sera, che invece tirava avanti con il sussidio del comune nella vecchia casa paterna e veniva ogni mese siringato dai solerti infermieri del CSM con una sostanza che lo rendeva mite come un agnellino pasquale ma lo faceva camminare come quelli di the walking dead e gli aveva tolto ogni virilità, anche solitaria.

A volte FB invidiava la volta che era stato un ragazzo di 16 anni scemotto, bruttarello, fragile e inconsistente, che non sapeva chi fosse e nell’attesa di capire se dovesse essere il servizio materno infantile o il CSM ad occuparsi del suo stranguglione adolescenziale era volato dal quinto piano lasciando solo un rabbioso biglietto contro il padre, cazzuta superstar irraggiungibile che, avvisato dal portiere, ne aveva raccolto il corpo nel cortile interno del condominio lasciando poi al dipendente la pulizia con la segatura di quelle orribili poltiglie organiche.

In fondo si era risparmiato un percorso già segnato in un mondo a parte per i disadattati come lui. Un mondo fatto di centri diurni invece che di bar e discoteche, di soggiorni invece che di vacanze con gli amici che di famiglia nemmeno a parlarne, di occupazioni protette finanziate con i sussidi e infiniti, inutili corsi di formazione per occupare il tempo. Per finire, nella migliore delle ipotesi, in una casa famiglia per un cohausing anch’esso protetto da solerti operatori di cooperativa.

Certo se i suoi fossero stati benestanti ma soprattutto non matti come si era convinto fossero, giungendo in cuor suo a perdonarli ma troppo tardi, lo avrebbero indirizzato verso il circuito privato dove le sale d’attesa hanno la musica di sottofondo, le segretarie sono belle, accoglienti e talvolta ammiccanti alle fantasie che evidentemente scorrono negli occhi bizzarri, stanchi, appannati e sconfitti dei postulanti ascolto, i medici sorridenti e ottimisti e gli psicologi associati pronti a testare ogni particolare sommovimento emotivo o comportamentale in vista di ricerche e pubblicazioni che li sottrarrebbero all’anonimato e alla dipendenza dalla paghetta familiare con cui, quasi tutti trentenni, si sostentano dal tempo del ‘fuorisede’.

A proposito di ciò FB doveva ammettere che quando si era trovato nei panni di quelli dall’altra parte della fittizia barricata che separa i matti dai sani rassicurando quest’ultimi su loro stessi, si era reso conto di quanto la sofferenza non fosse proprietà privata di nessuno e dilagasse dovunque per capillarità e vicinanza come le infiltrazioni d’acqua sui muri delle stanze prese a pensione per studiare nella grande città.

FB era stato Marco, uno psicologo trentatreenne bello e naturalmente elegante, reso simpatico dall’eco pugliese nella sua cadenza, eternamente tirocinante pre-laurea, post-laurea, per il grottesco esame di stato e poi per le scuole di specializzazione senza le quali anche i concorsi e qualsiasi lavoro sono preclusi, tranne la schiavitù gratuita ai pochi vecchi affermati. I suoi genitori avevano venduto 5 ettari della masseria salentina per mantenerlo agli studi a Roma ma non ce la facevano più a sostenerlo nell’infinita formazione. Aveva iniziato a lavorare in un club riservato di notte e, grazie ai suoi riccioli neri ed al fisico da bronzo di Riace tranne quel piccolo, appunto, particolare per cui i due statuari guerrieri provano imbarazzo da millenni, si era fatto una sua selezionata clientela privata (altrettanto praticavano e con più facilità molte sue giovani colleghe tra un esame di fisiologia e di psicologia sociale e di gruppo) tra le signore oltre gli ‘anta’ annoiate della borghesia medio alta e proprio grazie ad una di loro, moglie del direttore della prestigiosa scuola di specializzazione S.S.P.T. (scuola di specializzazione di psicoterapia totale), aveva infine ottenuto il diploma e un periodo di volontariato (che comunque fa curriculum e non si rifiuta mai) al reparto di psichiatria del Policlinico Umberto I°.

Ora che la dolce ma concreta Luisa, la sua ex conosciuta al liceo, stanca di aspettare, si era messa con un giovane agente di tecnocasa ed era rimasta subito incinta, non aveva più la fretta di un tempo e poteva aspettare che si aprissero le porte della cooperativa Il semino di senape a cui erano appaltati molti dei servizi esternalizzati dalle strutture riabilitative della regione Lazio. Allora avrebbe potuto lavorare per 7 € l’ora e farsi pure le vacanze estive con i soggiorni a Rimini insieme ai pazienti (allora gli sarebbe mancato solo ‘un amaro Lucano’ per non volere di più dalla vita) da cui non ricordava più bene cosa lo distinguesse.

C’erano stati tempi migliori quando FB era stato un affermato psichiatra e psicoterapeuta privato con uno studio intestato a suo nome che si era scavato una nicchia ecologica nella Roma dei commercianti arricchiti e della intellighenzia snob di sinistra. Si annoiava mortalmente ad ascoltare lagnanze e tiramenti di vecchi e giovani rampolli costantemente irati per il fatto che non sempre la realtà si piegasse ai loro voleri, ma era una noia ben retribuita. Non aveva mai guarito nessuno e li avrebbe mandati tutti in miniera a lavorare ma lo pagavano bene per ascoltarli e dargli ragione e lui aveva una famiglia da mantenere e così, disprezzandosi nel guardarsi con gli occhi di quando era giovane, stava al gioco e moriva lentamente giorno per giorno senza accorgersene.

Paradossalmente il periodo che FB ricordava con più piacevolezza era stato quando era stato un operatore senza volto (strano o forse comprensibilissimo per uno che si chiama FB), una formichina laboriosa e instancabile che con una presenza costante alimentata dall’affetto aveva tenuto per mano quotidianamente i fratelli che si erano trovati nei suoi stessi luoghi psichiatrici ma, per un semplice gioco del destino, dall’altra parte, ora in un centro diurno, ora in un CSM, ora in una comunità terapeutica. Gli sembrava di essere stato utile quando aveva dimenticato chi fosse e si era sentito solo uomo tra fratelli e sorelle dolenti di tribolazioni che erano anche le sue.

Oggi, nel presente di questo ottobre romano proverbiale per la sua dolcezza nel trattenere l’estate nella trasparenza dell’aria, FB era ad un appuntamento importante, il congresso annuale della SOPSI la società italiana di psicopatologia, tra tutte le società scientifiche la più ricca (tutti i partecipanti avevano quota di iscrizione e soggiorno a carico di questa o quell’industria alla faccia del conflitto di interessi ma perlomeno non era a Tenerife o a Cuba come capitava in passato in tempo di vacche grasse quando si ospitavano anche i congiunti o considerati tali, segretarie di studio, collaboratrici e addetti al benessere della persona che venivano eventualmente reperiti in loco) perché sponsorizzata da tutte le più importanti multinazionali farmaceutiche che definivano continuamente nuovi disturbi patologizzando altri territori della diversità, per ciascuno proponendo un farmaco perfetto fino alla scadenza del copyright per poi essere sostituito da un altro ancora più perfetto e dieci volte più costoso.

Il congresso tradizionalmente si teneva nelle prestigiose sale dell’Hotel Hilton di Roma sopra la valle dove giaceva la città giudiziaria della capitale (dove avrebbe giustamente dovuto sprofondare, pensava, l’anima forcaiola, giustizialista e intransigente di FB giovane non del tutto scomparsa) e alla stessa altezza dell’osservatorio e del vecchio bar dello Zodiaco che concedeva una vista mozzafiato su tutta Roma, godibile anche dalle terrazze del limitrofo Hilton, dove i professoroni, come si diceva al tempo in cui c’era più rispetto, andavano a fumare e continuare le accese discussioni cliniche e architettare gli accordi politici durante le pause.

Per l’occasione era vestito secondo il code ‘psichiatra che non ci tiene avendo altro a cui pensare e disdegnando l’apparenza’: jeans Lewis 501 per stare sul classico evergreen, camicia azzurra sotto un maglioncino girocollo blu scuro per richiamare l’efficienza di Marchionne, giacca di velluto marrone con le pezze di cuoio ai gomiti assolutamente controindicata per il colore (blu versus marrone, lo sanno tutti) per significare che mette su quel che capita uscendo di corsa per andare dai pazienti, mocassini da barca blu che non nascondevano la loro età e le peripezie attraversate. La faccia altrettanto ciancicata e smaliziata l’aveva presa in prestito da Paolo Conte in ‘Genova per noi’.

FB era lì per l’ultima sessione del congresso, prima dell’assemblea plenaria dei soci cui non avrebbe assistito spinto dalla vanità morettiana (nessuno è perfetto) del ‘ma mi si nota di più se…..o se……’ in cui era previsto il confronto tra lui vecchio psichiatra del tempo della riforma e il rampante Prof. Giambattista Lo Mascolo Di Gravignano, ordinario di Psichiatria della Sapienza, direttore generale del MIUR per le scuole di specializzazione e appena l’anno precedente eletto presidente assoluto della Società Italiana di Psichiatria (SIP). Il Lo Mascolo si era presentato al confronto che verteva su ‘il senso della guarigione e la conseguente implementazione dei nuovi servizi psichiatrici alla luce delle attese rivelazioni del prossimo DSM X’, quello che si riteneva ultimativo ed avrebbe chiuso definitivamente la storia delle nosografie psichiatriche, in un formato molto più accademico con un completo doppiopetto blu scuro, un papillon rosso ferrari, scarpe nere lucide sfavillanti allacciate da poliziotto newyorkese della omicidi. Il collo taurino ma flaccido strizzato dal colletto della camicia rivelava l’età vicina agli 80 che numerosi lifting cercavano malamente di celare con un volto da bambola Berlusconiana con cui aveva una certa esibita somiglianza.

Il presidente della SOPSI, Prof. Riccardo Della Lunga Bonaffini, che fungeva da chairman, presentò i due relatori sottolineando la sinergia, e toccandosi un naso che impertinente non smetteva di allungarsi per collodiana memoria, con cui le due correnti di pensiero che rappresentavano avevano negli anni concorso all’edificazione della Psichiatria pubblica e privata che faceva eccellere l’Italia nel campo dell’assistenza psichiatrica mondiale come l’OMS non smetteva di sottolineare. Nella sala da 800 posti gremita, forte era l’attesa per il confronto che, al di là della presentazione del Della Lunga Bonaffini, si sapeva riservare in genere momenti polemici e contrapposizioni nette. Le due tifoserie erano sostanzialmente divise nella sala. A sinistra sotto il palchetto di FB gli irregolari del suo esercito sbandato come i nostri fanti l’8 settembre del ’43 frugavano affannosamente nelle giberne per trovare una penna o un mozzicone di matita per prendere appunti su fogli bianchi che venivano divisi e scambiati perché ognuno ne avesse un pezzetto. Caleidoscopio di colori e indisciplinati brusii di chiacchiere appassionate e urgenti. A destra il plotone ordinato degli accademici che chiamava con disprezzo gli altri i territoriali o, peggio, ‘terricoli’, si era improvvisamente illuminato per l’accendersi simultaneo di tutti gli i-pad. I volti rischiarati dal basso apparivano un po’ oltretombali nella sala oscurata per far risaltare le slides di cui ancora i relatori avevano bisogno per dire sempre le stesse cose da quarant’anni, in ciò assomigliando ai preti che necessitano del messale ogni giorno per una intera vita. Il primo a prendere la parola fu ovviamente per ossequio al prestigio e all’età il Lo Mascolo che, dopo i ringraziamenti di rito e gli elogi al collega, sostenne fondamentalmente due concetti. Il primo era che la riforma psichiatrica, ormai a 40 anni dal suo inizio, poteva dirsi brillantemente conclusa e che da nord a sud ogni cittadino aveva il suo CSM di riferimento, che ovunque espletava una attività ambulatoriale e domiciliare. Ogni CSM a sua volta era in rete con uno o più centri diurni e strutture semiresidenziali in cui trascorrevano le giornate i pazienti che non potevano stare a casa, con strutture di ricovero per gli acuti, i cosiddetti SPDC e per i cronici tante diverse opportunità: comunità terapeutiche, RSA e case famiglia a protezione variabile. Insomma quello che c’era scritto in qualsiasi depliant di presentazione di un DSM e che FB aveva ricevuto durante la dimissione insieme al sorriso ironico dell’infermiere che gli aveva augurato buona fortuna. Per non parlare poi, aveva proseguito sempre più orgoglioso e sudato Lo Mascolo, delle attività che tutte queste strutture ‘mettevano in essere’ (gli scappò detto con gergo sbirresco indubbiamente indotto dalle scarpe): formazione professionale, attività ricreative di ogni genere, soggiorni di vacanze, lavoro protetto, abitare protetto ed in alcune situazioni d’avanguardia anche ‘amore protetto’, senza specificare ulteriormente. Da qui avrebbe preso spunto nella replica FB, suscitando ilarità tra i suoi e sguardi di riprovazione tra i regolari, per dire che quella che veniva proposta era una vita all’interno di un enorme preservativo.

La seconda tesi che Lo Mascolo aveva di seguito sostenuto riguardava quello che lui stesso chiamava la riscoperta del secondo mandato della psichiatria, oltre a quello della cura che consisteva nella pacificazione della società turbata dalle intemperanze e dallo scandalo potenzialmente contagioso per le menti dei giovani che i matti ormai liberi potevano costituire. La guarigione e il ritorno alla produttività non erano solo un diritto, come sbandierato all’inizio della riforma, ma, ora che era realizzata, anche un dovere dal quale con le buone o con le cattive non ci si poteva esimere e questo era un compito che spettava certo con dolce gentilezza, ma anche ferma decisione, agli operatori psichiatrici che per un certo tempo era sembrato alla popolazione addirittura che colludessero e assecondassero le bizzarie dei loro pazienti. Non era più tempo di ambiguità e da questa chiarezza, si trattava di stare senza tentennamenti dalla parte della ragione e del buon senso, la nuova psichiatria aveva riguadagnato il prestigio perduto, le iscrizioni alla specializzazione erano tornate a crescere come il ricorso al privato e gli onorari praticati e persino la sua nomina ministeriale poteva essere considerata un riconoscimento in tal senso che ci teneva a condividere con tutti i colleghi. Un ‘grazie, no’ riecheggiò da sinistra.

Al termine del suo intervento sollecitò domande di chiarimento rimandando il dibattito alla conclusione. Dai lati opposti della sala sbocciarono, è corretto dire, prontamente da dietro i tendaggi di pesante velluto color pervinca due hostess che, sbandierando giulive microfoni portatili a cono, si premuravano di raggiungere le mani alzate per amplificare le voci corrispondenti. Le due ragazze, ed anche questo era un segno dei tempi, non avrebbero sfigurato per l’abbigliamento succinto e l’andatura ancheggiante nella serata celebrativa dei settant’anni di Play Boy. Persino i due relatori, più platealmente FB di Lo Mascolo, a dispetto del nome, ebbero un momento di acuto strabismo divergente e nistagmo per divaricare all’inverosimile il campo visivo, alternando il grandangolo allo zoom sui particolari, non rinunciando così né alla brunetta piccola e morbida né alla spilungona bionda dal fare algido e professionale. Gli interventi furono così banali che sollevarono il legittimo dubbio di avere come unico scopo il richiamare la vicinanza delle portatrici dei coni. Non erano vere domande ma sottolineature di concetti già espressi dal relatore al semplice scopo di rinforzarli e di mostrarsi a lui compiacenti discepoli. Una dirigente di II° livello della ASL di Rovigo, dopo i complimenti al relatore, chiese se non fosse ormai indispensabile dare la possibilità di TSO anche alle cliniche private accreditate per alleggerire la pressione sugli SPDC. Uno psichiatra cosentino depassè si interrogava se non fosse opportuno appaltare tutta l’attività psicoterapeutica agli specialisti privati considerate le carenze del pubblico. Il più politico degli interventi venne da uno psichiatra di Ancona, la cui calata marchigiana ne minava severamente l’autorevolezza che l’età avanzata avrebbe dovuto conferirgli, che si domandava come depotenziare le associazioni di utenti e familiari che con le loro assurde pretese di pronta e totale guarigione e sempre pronti a rivolgersi alla magistratura stavano portando la piaga della medicina difensiva anche nel campo della salute mentale. La richiesta era la depenalizzazione dei reati connessi all’attività clinica. Lo Mascolo, gongolante e col labbro superiore imperlato di sudore, si limitava ad ascoltare i vari interventi, guardare le due hostess e assentire pesantemente col capo, non si sa se alle due bellezze o ai contenuti espressi, allargando sempre di più un sorriso inespressivo e fatuo che tra poco avrebbe congiunto un orecchio con l’altro mostrando una chiostra di denti bianchissimi esaltati dall’abbronzatura del calabro sole di Tropea.

Quando le mani smisero di alzarsi il chairman Della Lunga Bonaffini si scosse dal torpore che, complice il buffet offerto al coffe break da Astrazeneca, lo aveva assalito trasportandolo in fantasie lontane dove solo le due hostess lo avevano seguito, e diede la parola a FB il quale, restando seduto e aggiustandosi il microfono, esordì dicendo che avrebbe ribattuto separatamente ai due fondamentali concetti portanti espressi dal Lo Mascolo nella sua brillante sintesi dello stato dell’arte.

Per quanto riguardava il completamento della riforma psichiatrica con l’attivazione di tutti i servizi previsti, che non stava qui a rielencare che meglio di come aveva fatto il collega non sarebbe stato possibile, era certamente vero, ma nel farlo si era perso lo spirito più profondo della riforma creando nuovamente sul territorio invece che negli ospedali psichiatrici ‘un mondo a parte’, una realtà parallela dove c’era tutto quello che costituisce una vita normale. Un tetto sulla testa, un lavoro, delle relazioni sociali e molto molto svago, ma tutto in formato ‘per i matti’, un mondo protetto, a scartamento ridotto. Il manicomio era stato sostituito dal ‘terricomio’ molto più accettabile, certo, ma dove l’essenza della separazione, il senso dell’istituzione totale nel significato di Irvin Goffman rimaneva intatto solo più strisciante e meno visibile.

A questo si collegava il secondo punto sul doppio mandato di cura e controllo della psichiatria. Secondo FB era ingannevole sostenere fossero compenetrabili, addirittura quasi identici. Guarire non significava normalizzare le devianze per restituire cittadini efficienti e laboriosi alla società del profitto e del consumo, ma  preservare tutte le diversità, non solo quelle di genere, etniche e di orientamento sessuale (cosa ormai accettata in teoria sebbene non nei fatti) ma anche quelle personologiche. Ognuno aveva diritto di esprimere se stesso attraverso l’esercizio dei diritti previsti dalla costituzione con l’unica limitazione del codice penale che aveva la presunzione di essere uguale per tutti.

FB affermò con decisione e piglio messianico che pian piano tutte le strutture psichiatriche si sarebbero eliminate e gli ex pazienti sarebbero confluiti nel circuito normale dell’esistenza dove, se avessero provocato scandalo, sarebbe stato un benefico disvelamento delle contraddizioni e ipocrisie della nostra società e queste si sarebbero dovute risolvere là dove si generavano non solo per il benessere dei matti ma di tutti. In questo paragonò i matti a dei segnalatori di ciò che non va, che per la loro esasperata sensibilità se ne accorgono per primi. Un pò come quei pesci che vengono messi negli acquedotti e la cui morte segnala il peggioramento della qualità dell’acqua. Reso tremante dalla foga profetica si alzò in piedi per dire che quando fosse scomparso l’ultimo psichiatra con il suo armamentario reificante in diagnosi la complessità e diversità del genere umano ad un tempo angelico e demoniaco, allora sarebbe scomparso anche l’ultimo matto. Non ne era del tutto convinto neppure lui, ma un po’, q.b. per dirlo in quel contesto, sì.

Il Prof. Giambattista Lo Mascolo Di Gravignano, che si era a stento trattenuto fino a quel momento limitandosi a scapeiare (muovere la testa in senso orizzontale a destra e a sinistra con scatti improvvisi) come un somaro infastidito dai tafani, sbottò attaccando il collega a testa bassa chiamandolo per la prima volta per nome ‘He no, Franco, non puoi farci questo, abbiamo costruito tutto questo nel tuo nome e non credere sia stato facile riconvertire la mentalità di molti colleghi. Dimettere i medici dall’ospedale non è stato meno faticoso che reinserire i pazienti. Certamente ti renderai conto cosa è stato smontare i solidi regni dei primariati ospedalieri, dei padiglioni ordinati, dei reparti divisi per patologie per creare, addirittura con meno fondi unità operative complesse e semplici, strutture e strutturine con incarichi a vassalli, valvassori e valvassini. Ed ora tu vorresti smontare questo enorme lavoro fatto in tuo nome? Non te lo permetteremo! Ci siamo sacrificati non sai quanto per tradurre i tuoi sogni in fatti concreti ed ora tu butti tutto per riproporre un nuovo incubo? Non sarà così, credimi. Anzi, ascolta, nel mentre che il consiglio direttivo valuterà le decisioni da prendere in merito alla tua permanenza nella società di psichiatria, avevo già pensato che avresti apprezzato un periodo di riposo e riflessione completamente a carico della associazione a ‘Villa dei Pini’ sulle colline intorno a Fiesole, che immagino accetterai con gratitudine e soprattutto volontariamente. In altro modo, ne converrai, sarebbe decisamente sgradevole’. Mentre pronunciava queste parole il megapresidente aveva ricontrollato la presenza nella tasca destra della sua giacca di un ordinanza del sindaco di Roma nella persona del funzionario delegato agli affari sanitari riguardante il trattamento sanitario obbligatorio del Sig Franco Basaglia nato a Venezia nel 1924.

Mentre FB usciva dalla sala a passo lesto, finalmente con la faccia seducente di giovane studente di medicina della buona borghesia veneziana, il Prof. Giambattista Lo Mascolo Di Gravignano, ordinario di Psichiatria della Sapienza, direttore generale del MIUR per le scuole di specializzazione e appena l’anno precedente eletto presidente assoluto della Società Italiana di Psichiatria (SIP), si lasciò andare stremato sulla poltrona presidenziale. Ma come fu accertato dalle perizie degli ingegneri dei VV.FF. non fu la sua culata per quanto possente a far precipitare con un boato e un fungo di polvere atomico l’hotel Hilton al centro della sottostante città giudiziaria. Le cause effettive sarebbero rimaste per sempre sconosciute, come per la maggior parte delle stragi italiane. Fu ipotizzato, come al solito, il coinvolgimento di pezzi deviati dei servizi e, questa volta, anche per la vicinanza del vaticano e il fatto che fosse proprio il giorno di San Francesco patrono d’Italia, l’intervento diretto di Dio, il che impedì qualsiasi ulteriore indagine. Fortuna volle che data l’ora e il clima meraviglioso la maggior parte dei turisti giapponesi e russi fosse in giro per Roma a caccia con le loro macchine fotografiche. Certo è che l’enorme moria di psichiatri e psicoterapeuti esperti (ne perirono 2500 ed altri mille smisero di esercitare per il timore di un ulteriore castigo divino) costrinse il ministero della salute a bandire gli stati generali per la salute mentale e rifondare il tutto partendo da zero e con i giovani. C’era da essere ottimisti, se non altro considerando il fatto che il ministro della sanità era un compagno quarantunenne che aveva lo stesso nome del più grande comico del ‘900: Bob Hope.

 

Il COVID-19 aumenterà l’incidenza del morbo di Parkinson?

Gli scienziati del Florey Institute Of Neuroscience and Mental Health stanno studiando il legame tra COVID-19 e aumento dell’incidenza del morbo di Parkinson

 

Ad oggi sappiamo che il COVID-19, oltre alle crisi respiratorie, ha anche conseguenze neurologiche, come si può evincere dalla presenza di sintomi quali: encefaliti e iposmia (perdita dell’olfatto); in particolare, quest’ultimo sintomo, si presenta in circa il 90% dei pazienti (Beauchamp et al., 2020).

A causa dei sintomi di stampo neurologico, i ricercatori si stanno chiedendo se ci potrebbero essere altre conseguenze prossime, riscontrabili a livello cerebrale.

Il modo in cui il virus arrivi al sistema nervoso centrale è tutt’oggi sconosciuto, tuttavia già il semplice fatto che sia in grado di arrivarci è sintomo di pericolo cerebrale (Beauchamp et al., 2020).

Il timore che attanaglia l’attuale mondo scientifico è che il virus in questione potrebbe dare origine a un processo neurodegenerativo (Beauchamp et al., 2020).

Gli scienziati del Florey Institute Of Neuroscience and Mental Healt stanno studiando il legame tra COVID-19 e aumento dell’incidenza del morbo di Parkinson (Beauchamp et al., 2020).

La presenza di un sintomo quale l’iposmia è indizio del fatto che ci sia la presenza di un’infiammazione acuta a livello del sistema olfattivo; l’infiammazione gioca un ruolo importante nella genesi delle malattie neurodegenerative, soprattutto nel morbo di Parkinson. Esso consiste nella perdita dei neuroni dopaminergici (cellule che producono dopamina) presenti a livello della substantia nigra e della regione mesoencefalica, ad oggi, la causa che porta alla morte di queste cellule è sconosciuta (Poewe et al., 2017). I sintomi caratteristici del Parkinson sono le difficoltà motorie, tuttavia, con il passare del tempo, e la conseguente neurodegenerazione, compaiono anche sintomi di stampo cognitivo-comportamentali; si tratta di un disturbo che si manifesta principalmente tra gli anziani dopo i 50 anni (Poewe et al., 2017).

Per la diagnosi l’osservazione delle alterazioni motorie è fondamentale, tuttavia, quando esse si manifestano significa che sono già state perse il 50-70% delle cellule dopaminergiche; arrivati a tal punto, diventa difficile trattare il morbo. Attualmente, la procedura clinica più efficace per gestire tale condizione è quella di adottare terapie neuroprotettive, tuttavia, per farlo c’è la necessità di una diagnosi precoce (Beauchamp et al., 2020).

I ricercatori del Florey Insitute, lanciano un monito alla comunità scientifica rimembrando le conseguenze neurologiche che seguirono la pandemia di influenza spagnola nel 1918; infatti, a causa di essa, il rischio di sviluppare il Parkinson negli anni seguenti aumentò di tre volte nella popolazione. Per questo motivo, gli scienziati stanno cercando di comprendere quali potrebbero essere le conseguenze neurologiche del COVID-19, cosi da poter adottare terapie neuroprotettive e diminuire l’incidenza delle malattie neurodegenerative conseguenti alla pandemia mondiale da SARS-CoV-2 (Beauchamp et al., 2020).

 

Divenire anche mamma – Moms, una nuova serie su maternità e genitorialità

Nel seguente articolo, il primo della serie, verrà affrontato il tema della nascita di una madre e della sua autoconsapevolezza, che spesso è minata dall’introiezione di regole e di aspettative altrui

Moms – (Nr.1) Divenire anche mamma

Introduzione

La serie tv canadese Workin’ Moms, presente nella piattaforma Netflix, nonostante il titolo all’apparenza selettivo, si focalizza sull’unicità e la diversità di ogni donna: mamma e non mamma, lavoratrice e non lavoratrice.

Il telefilm affronta il tema della maternità a 360 gradi, includendo anche coloro che non vogliono divenire madri. Viene anche “normalizzata” la figura del papà che sceglie di prendersi cura del figlio appieno, valorizzando l’equiparazione dei sessi e liberando la donna da convinzioni culturali che a lungo hanno assegnato ruoli impedenti la libera scelta.

La rubrica si focalizza sui temi riportati negli episodi della serie tv sopra citata, selezionandone gli argomenti. L’analisi di ogni tema avviene attraverso la lente dell’approccio psicologico sistemico – relazionale – simbolico – esperienziale.

La finalità principale della rubrica è quella di rendere consapevole ogni donna del proprio diritto ad essere madre a modo proprio o di non esserlo affatto, senza per questo sentirsi “sbagliata”, ma sempre più incentivata a trovare la propria strada dentro di sé.

Essendo il tema principale la maternità, il titolo scelto per la rubrica è Moms.

Diventare anche mamma

“E’ difficile pensare che sei la mamma di qualcuno.”
“Non ne hai idea.”

Nella prima puntata della prima stagione di Workin’ Moms questo è uno dei primi scambi tra Kate Foster, la protagonista, e il suo capo, poco dopo il suo ritorno al lavoro dal periodo di maternità.

Si dice che quando nasce un bambino, nasce anche una mamma e mai affermazione sembra più empatica. Alcune donne iniziano ad intessere la relazione più significativa della vita del proprio bambino sin dalla gestazione, altre dopo il parto, altre ancora dopo averne ottenuto l’adozione.

E proprio come quando un essere umano nel momento in cui nasce riesce naturalmente a trovare il seno materno per nutrirsi e dorme al bisogno, così una donna quando diviene anche madre è capace di esserlo in modo spontaneo. Una madre infatti riconosce dentro di sé i bisogni del proprio figlio, così come la donna che è in lei riconosce i propri bisogni.

Possono nascere delle difficoltà quando la donna che è appena divenuta mamma inizia a credere che l’esperienza altrui possa essere più rilevante del proprio “sesto senso” materno. In tal modo mette in discussione se stessa e le proprie capacità innate, proprio come un bambino quando inizia a sollevarsi da solo e per elementi come l’ansia genitoriale rischia di ritardare il proprio sviluppo.

L’accettazione di se stessa in quanto essere umano tra altri esseri umani, aiuta la madre che nasce a sentirsi capace di capire proprio figlio.

I bambini spesso non si agitano solo per i propri bisogni, ma anche perché sentono l’ansia materna di non riuscire ad ottemperare ad introiezioni di aspettative altrui o di regole scritte sui manuali.

Purtroppo non esiste alcun libro che possa spiegare come comportarsi con il proprio figlio, poiché ogni essere umano è differente e così lo è ogni situazione familiare in cui si viene a trovare. Eppure ancora oggi alcune donne credono che possa esserci qualcuno che ne sa più di loro rispetto all’essere umano di cui è lei ad occuparsi e che spesso è uscito proprio da lei.

Il rischio che ne consegue è una donna che va in tilt, compressa tra come si muoverebbe naturalmente e ciò che crede di dover seguire per essere una buona mamma.

Uno dei pochi autori che una madre dovrebbe leggere è Winnicott, il quale sosteneva che la madre migliore non fosse quella perfetta, ma quella sufficientemente buona.

La maternità è un cambiamento emotivo, ormonale e fisico, dove il corpo della donna è in continua rapida evoluzione. È importante, dunque, affinché la donna non resti schiacciata da un forte Super Io, che impari ad ascoltarsi, perché solo lei può sapere cosa è meglio per sé e per il suo bambino. Nessun libro può avere la presunzione di sapere come funzionano due esseri umani che l’autore non ha mai incontrato.

Ebbene, come dice Kate Foster nello scambio con il proprio capo, è un passaggio complesso quello da donna a donna e madre ed è difficile riconoscere questo ruolo come una parte di sé. È  fondamentale durante il transito non perdere se stesse e la consapevolezza che il proprio modo di ragionare e di agire sia il migliore per sé e per la creatura di cui si è responsabili.

 

European Conference on Digital Psychology – Virtual Forum

La prima Conferenza Europea sulla Psicologia Digitale, organizzata da SFU Milano il 19 e 20 febbraio 2021 diventa un evento online. A causa della situazione pandemica legata alla diffusione del COVID-19 la conferenza inizialmente pensata per svolgersi in presenza, si terrà interamente su una piattaforma virtuale, che permetterà di mantenere le caratteristiche imprescindibili delle conferenze in presenza e di sperimentarne di nuove: Live Session con domande e risposte, Networking Lounge per una sessione dei poster interattiva, one-to-one meeting, area espositori e gamification.

Le iscrizioni sono APERTE.

Per iscriverti, clicca qui.

  • Ultima data per la registrazione Early: 15 Dicembre 2020.
  • Ultima data per la registrazione Late: 15 Gennaio 2021.

Bulimia Nervosa: ciò che mi nutre, mi distrugge – VIDEO

La bulimia nervosa è uno dei più comuni disturbi alimentari e comporta una tendenza a esercitare, in maniera disregolata, un eccessivo controllo sul proprio peso. Conosciamo meglio le sue caratteristiche grazie all’incontro proposto da CIP Milano.

 

II CIP Milano ha proposto una serie di incontri informativi sull’alimentazione e i disturbi alimentari rivolti a chiunque desiderasse conoscere meglio questi temi.

L’evento del 9 maggio 2020 ha trattato approfonditamente la bulimia nervosa, focalizzandosi sulle caratteristiche del disturbo e la sua sintomatologia. Questo disturbo psichico solitamente compare durante la prima adolescenza ed è caratterizzato da eccessiva e costante preoccupazione per il peso e le forme, per cui la persona inizia a seguire una dieta ferrea, presentando però poi abbuffate e vomito autoindotto.

L’incontro è stato tenuto dalla dott.ssa Martina Tramontano, psicologa e psicoterapeuta, che ha fornito esempi pratici, indicazioni utili per intraprendere un percorso di cura efficace e strategie per affrontare le problematiche quotidiane legate alla bulimia. Pubblichiamo per i nostri lettori il video dell’evento.

 

BULIMIA NERVOSA – Guarda il video integrale del webinar:

 

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L’identikit del passivo-aggressivo

Vi è mai capitato di ascoltare frasi del tipo: “Non sono arrabbiato con te”, “Qualsiasi cosa ti occorra ti aiuto io”, “Stavo semplicemente scherzando”, “Io pensavo che tu fossi a conoscenza di…”, ma in realtà il comportamento adottato intendeva esprimere esattamente il contrario. Bene! Eravate in presenza di un tipico comportamento passivo-aggressivo.

 

Il comportamento passivo-aggressivo venne storicamente identificato dal colonnello William Menniger nel corso della Seconda guerra mondiale, egli identificò alcuni particolari comportamenti da parte dei suoi soldati differenti dai soliti “ribelli”, ma in egual modo aggressivi e disfunzionali, questi comportamenti si palesavano mediante misure passive come una spiccata caparbietà, temporeggiamento, il broncio e sabotaggio passivo rispetto ai loro doveri militari.

Ad oggi tale schema comportamentale non viene identificato come una vera e propria patologia, infatti il DSM 5 lo identifica come un aspetto collegato ad alcuni disturbi, sebbene esso possa essere collegato a notevoli problematiche a livello lavorativo e ad un pattern di relazioni disfunzionali.

Il comportamento passivo-aggressivo è definito come un

modo deliberato e mascherato di esprimere sentimenti di rabbia. (Long, Long & Whitson, 2008)

Esso deriva dall’incapacità dell’individuo di esprimere e canalizzare le emozioni verso un’espressione assertiva, quest’ultima viene sostituita da un’eccelsa mistificazione delle emozioni mediante l’immagine di una persona carismatica, ironica e da una forte personalità. Questo modus operandi conduce il passivo-aggressivo ad agire mediante una sorta di non azione, motivata da emozioni e motivazioni negative e una forte ostilità. La carta d’identità del passivo-aggressivo consta delle seguenti caratteristiche:

  • Sarcasmo e ironia pungente sono estremamente spiccati;
  • Il linguaggio è caratterizzato da “frecciatine”, ma sono largamente usati anche i messaggi confusi e contradditori al fine di evitare intimità emotiva, un esempio è il famoso “Come vuoi” durante quella che si appresta a diventare una discussione. Oppure usano il silenzio come arma di difesa per far comprendere il “torto” eseguito dall’altro nei confronti del nostro passivo-aggressivo;
  • Ostilità e procrastinazione: l’aurea della persona amorevole e disponibile crolla nel momento in cui si svela la loro ostilità alimentata da un forte orgoglio, una tendenza a criticare tutto ciò che lo circonda e un malumore costante ma celato, per non parlare della tendenza continua al rimando e al lasciare incompleto quanto iniziato;
  • Quando vogliono qualcosa dall’altro, non avranno problemi a mostrarsi affabili premurosi e pieni di attenzione;
  • Tendono a fingere di dimenticare o a “fare il finto tonto” per non assumersi la responsabilità del caso;
  • Mostrano una spiccata propensione al vittimismo e a dare la colpa alle persone intorno;
  • A livello lavorativo sebbene appaiano ben disposti e collaborativi, tendono a resistere alle richieste dell’autorità in maniera indiretta, per esempio sabotando il lavoro richiesto sperando in una ripercussione sull’autorità;
  • Sono tipicamente pessimiste e tendono a ipotizzare solo l’esito negativo di qualsiasi azione, sono le classiche persone che ad una chiamata invece di dire “come stai” ti chiedono “cosa è successo”. Questo li porta a non essere mai sereni e soddisfatti di ciò che stanno vivendo, ogni momento è offuscato dal timore che qualcosa andrà male;
  • Probabilmente disporranno di una scarsissima autostima mistificato da un’immagine sicura di sé e persone da un “carattere forte”;
  • La connotazione più spiccata del comportamento passivo-aggressivo si riscontra all’interno delle relazioni, caratterizzate da un sottofondo di dipendenza affettiva e controllo manipolatorio al fine di portare l’altro a fare quello che vuole lui. Alla base di ciò pullula una forte conflittualità tra la voglia di indipendenza, il bisogno di essere accuditi e la paura dell’autonomia, in quanto temono che una volta raggiunta l’indipendenza rimarranno in balia dei pericoli in grado di ostacolare il loro finto equilibrio. Dunque, questo andamento oscillatorio porta il passivo-aggressivo a manipolare le persone vicine con un fare quasi borderline al fine di non farle andare via e ottenere sicurezza e protezione.

Ognuno di noi può assumere atteggiamenti di tipo passivo-aggressivi, ma il problema sorge nel momento in cui queste modalità diventano le uniche modalità di interazione con l’altro.

Dunque, queste persone sono come in un limbo destinati a perseverare nel circolo vizioso che va dalla ricerca dell’altro al bisogno di manipolarlo privandolo di una propria autonomia relazionale, un buon percorso di psicoterapia può aiutare queste persone a comprendere le ragioni del perenne malessere e raggiungere una consapevolezza circa i propri stati interni.

 

Gli effetti delle pratiche di meditazione sul benessere corporeo

Come le pratiche di meditazione agiscono su meccanismi neurofisiologici, neuroendocrini e substrati neurochimici, gli stessi che sottostanno al miglioramento in patologie cardiovascolari, neurologiche ed autoimmuni?

 

L’interazione mente/corpo è il fulcro d’azione principale delle pratiche meditative, le quali sono risultate utili come interventi integrativi agli attuali strumenti medici e farmacologici, in quanto la loro azione verte, oltre che sui processi cognitivi ed affettivi, anche su componenti somatiche. Sono stati riportati effetti diretti a più livelli sul sistema immunitario ed infiammatorio, nonché nella produzione ormonale e nel microbiota. Inevitabile anche la modulazione di meccanismi neurofisiologici, neuroendocrini e substrati neurochimici, gli stessi che sottostanno al miglioramento in patologie cardiovascolari, neurologiche ed autoimmuni.

Molteplici studi dimostrano come le pratiche di meditazione siano in grado di contrastare lo stato di stress tramite la modulazione delle funzioni di autoregolazione. Per stress s’intende la percezione di uno squilibrio tra richieste e risorse, la rottura di un bilanciamento omeostatico dinamico tra l’interno e l’esterno, ovvero una risposta aspecifica dell’organismo ad ogni richiesta effettuata su di esso. Quando la percezione soggettiva di equilibrio tra richieste e risorse si incrina a favore delle prime, si assiste ad un carico allostatico eccessivo che se perdura nel tempo comporta un’alterazione dei processi biologici sottostanti (gli stessi processi che sono alla base del sistema immunitario e del sistema nervoso). Le pratiche di meditazione consentono quindi di modulare tale disequilibrio, comportando una riduzione dell’eccitazione simpatica (tipica delle condizioni di stress) e un miglioramento dell’azione del sistema parasimpatico. Così facendo il soggetto che medita riacquisisce un corretto equilibrio simpato-vagale. Questo dato è importante in quanto l’iperattività dell’asse Ipotalamo-Ipofisi-Surrene (HPA) è alla base dell’insorgenza di disturbi debilitanti come Ansia e Depressione.

In aggiunta, sono stati osservati effetti sul sistema immunitario con abbassamento dei biomarcatori responsabili di infiammazioni (Pace et al., 2009) ed una maggiore risposta anticorpale dopo la somministrazione di vaccini antinfluenzali (Davidson et al., 2003). Si riscontra inoltre un aumento della melatonina nel plasma sanguigno, che sembra contribuire all’insorgenza di una sensazione di calma, consentendo la regolazione del ciclo sonno-veglia, causando sonnolenza e l’abbassamento della temperatura corporea (Jindal et al., 2013).

In ambito clinico è stato dimostrato come l’impiego della meditazione possa rivelarsi uno strumento preventivo e integrativo alle attuali cure farmacologiche per una serie di condizioni patologiche come i disordini cardiovascolari, la sindrome metabolica, l’insulino-resistenza e alcune forme tumorali. Per esempio, nello studio di Speca e colleghi (2000) è stata riportata una riduzione di sintomi da stress in soggetti con diversi tipi di cancro. Dopo la pratica meditativa infatti, i pazienti nel gruppo di trattamento, hanno riportato una riduzione del 31% dei sintomi dello stress, oltre che un miglioramento dei sintomi cardiopolmonari e gastrointestinali.

In persone con Artrite Reumatoide è stato ottenuto un miglioramento del benessere generale e riduzione del disagio correlato alla patologia (Zautra et al., 2008). E ancora, importanti evidenze sono state rilevate in relazione a condizioni patologiche tipicamente legate allo stress, come Psoriasi, Diabete di tipo 2, Fibromialgia e Artrite Reumatoide (Kabat-Zinn et al., 1998; Rosenzweig et al., 2007; Grossman et al., 2007; Pradhan et al., 2007). Ma anche verso Sclerosi Multipla e HIV, anche se attualmente risulta ancora difficile stabilire se tali evidenze siano conseguenza diretta di un effettivo beneficio di tali pratiche oppure un effetto non specifico e/o bias relativi a carenze metodologiche (Chiesa, 2010).

In conclusione, l’impiego delle pratiche meditative sembra essere molto promettente per il trattamento del dolore cronico, il quale è stato stimato come causa di sofferenza tra il 5.5% e il 33% della popolazione adulta mondiale. In una recente systematic review di Majeed et al. (2018), nella quale sono stati analizzati studi clinici randomizzati e meta-analisi, si è osservata una significativa diminuzione dei sintomi correlati al dolore cronico in soggetti appartenenti a popolazioni cliniche sottoposte a protocolli meditativi. Nello specifico è stata riportata una riduzione di intensità degli affetti negativi associati al dolore, alla paura e all’iper-vigilanza ad esso correlate, e della disabilità funzionale in pazienti con dolore persistente, nonché un significativo aumento dell’accettazione psicologica della patologia. Tale approccio è risultato efficace nel trattamento della lombalgia cronica, emicrania, mal di testa e dolore muscolo-scheletrico. Un’integrazione con gli attuali interventi terapeutici potrebbe inoltre comportare la diminuzione dell’utilizzo di farmaci, aumentando così la mobilità e il benessere.

E’ arrivata la cicogna: vivranno felici e contenti?

La nascita di un figlio è un evento che porta grande felicità, ma non di rado il passaggio da coppia a famiglia presenta complessità individuali, relazionali e trigenerazionali che possono mettere in discussione la coppia: ma come un’eventuale crisi può dimostrarsi un’opportunità migliorativa per la coppia?

 

Un lieto evento che comporta anche alcune criticità

La nascita di un figlio è tradizionalmente e culturalmente intesa come un evento gioioso, forse il più lieto in assoluto, quello di cui implicitamente il matrimonio (o la convivenza, in una visione meno culturalmente storicizzata) diviene uno step intermedio nella fase del ciclo di vita di una persona e di una coppia. Ne è prova la presenza di domande e aspettative che la società pone e ripone in una coppia composta da partner arrivati a una certa età e/o dopo un periodo di ‘sufficiente’ collaudo. Ovviamente per stabilire quale sia la ‘certa età’ e una durata del legame ‘sufficiente’ ci si appella a parametri che variano in funzione dei singoli contesti culturali e familiari. Ad ogni modo, se inizialmente le domande che una coppia si sente prevalentemente rivolgere sono del tipo ‘Allora, non è ora di andare a convivere/di sposarsi?’, non sarà sufficiente pronunciare ‘il fatidico sì’ per essersi liberati dalle curiosità altrui. In poco tempo infatti prenderanno il sopravvento domande del  tipo ‘Non è l’ora di allargare la famiglia?’ o ‘Quando pensate di fare un figlio?’. Sembra una questione di costume sociale, ma in realtà il lutto da elaborare per una mancata genitorialità (processo di per sé non facile) è a volte ulteriormente complicato anche da un senso di inadeguatezza rispetto al mancato raggiungimento delle aspettative sociali.

Che cosa succede invece alle coppie che riescono a coronare il sogno di diventare genitori? L’arrivo della cicogna rappresenta la classica ciliegina sulla torta nel percorso intrapreso per diventare una famiglia unita? Ci auguriamo di sì, per chi stesse vivendo questo importante momento, ma è utile anche considerare alcune variabili che potrebbero rendere meno idilliaca questa fase del ciclo di vita.

La nascita di un figlio può costituire un fattore di rischio per l’equilibrio di coppia e anche individuale dei genitori, magari soprattutto se il neonato ha un temperamento che lo caratterizza per difficoltà nel sonno, pianti frequenti per coliche o altri problemi e fatica nel mangiare adeguatamente: sono variabili che più facilmente implicano una difficoltà di gestione, e che rendono il bambino, suo malgrado, un alimentatore di tensioni che mette a dura prova l’equilibrio psicofisico dei genitori. Cambi radicali di ritmi, di routine, di abitudini, alterazioni del ciclo sonno-veglia e aspetti legati a eventuali preoccupazioni o senso di inadeguatezza verso i bisogni del neonato sono considerabili come fisiologiche scosse di assestamento che non per forza arriveranno a rappresentare un terremoto interno alla coppia. Vediamo però quali possono essere le faglie da cui è possibile che si sviluppino importanti scosse telluriche nella vita della coppia dei neo-genitori.

Quali sono i fattori di rischio per la coppia presenti già alle radici del desiderio della genitorialità?

Chi si occupa di urbanistica sa bene che la prima regola è non costruire in zone sismiche. Quali condizioni alla base della nascente genitorialità possono essere considerate, appunto, ‘zone sismiche’?

Innanzitutto non è scontato che la nascita di un figlio sia stata l’esito di un progetto condiviso e pianificato: per esempio può capitare che sia presente il desiderio di un figlio, ma che il suo arrivo sia considerato decisamente prematuro, perché, per esempio, possono mancare le condizioni di stabilità abitativa, economica (studi non ancora compiuti, lavori precari…) o perché la coppia non si sente ancora abbastanza ‘stabile e rodata’. Quando invece la gravidanza avviene in una coppia che non aveva mai nemmeno affrontato l’argomento, la complessità aumenta, spesso perché uno dei due partner si rivela contrario o dubitante sull’opportunità di diventare genitore, fino a verbalizzare l’idea di considerare la possibilità di un’interruzione di gravidanza volontaria. A volte può anche succedere che la gravidanza si verifichi nei tempi previsti dalla coppia fortemente desiderosa di avere un figlio, ma una variabile esterna (grave malattia o morte di un familiare, perdita del lavoro, malattia o incidente di un membro della coppia) possa complicare gli equilibri della coppia, rendendo di conseguenza più faticosa anche la gestione del neonato e delle dinamiche relazionali.

Se le situazioni appena illustrate sembrano rappresentare un ovvio terreno sismico, meno evidenti sono altri elementi che è possibile ritrovare anche in coppie in cui vi è la dichiarata intenzione di avere un figlio. Non è scontato infatti che il desiderio di genitorialità sia allo stesso livello tra i due partner: ovviamente non esiste un termometro del desiderio, ma può capitare che uno dei due sia molto più motivato, mentre l’altro risulti semplicemente ‘possibilista’ o tenda a essere adesivo al progetto dell’altro pur non vivendolo con la stessa intensità.

Può capitare anche che, a ‘parità’ di motivazioni, queste ultime siano di natura molto differente: per esempio, un partner può sentire il bisogno di parificare il proprio ruolo nei confronti di altri fratelli (che magari hanno appena avuto figli), o sentire di dover risarcire un genitore (perchè rimasto vedovo, perchè non ha potuto fare il genitore ai tempi per problemi lavorativi o di altra natura….) o di risultare più in vista per i genitori in quanto primo tra i figli a generare un erede o un nipote che sia proprio maschio o femmina: si tratta di pressioni, più o meno esplicite e consapevoli, derivanti dalle famiglie di origine, il cui ruolo è molto importante negli aspetti connessi alla genitorialità, come vedremo nel corso dell’articolo.

Vi possono però essere pressioni interne alla coppia stessa. -Quindi…- magari vi starete domandando -…nemmeno una coppia in cui entrambi i partner che condividono il medesimo grado di motivazione nell’avere un figlio, e quest’ultimo arriva nei tempi pianificati, può dirsi sicura di non essere in zona sismica? –  Esattamente così. Infatti, per esempio, costituisce un rischio il desidero di avere un figlio se questi è pensato, più o meno inconsciamente o esplicitamente, come soluzione per risolvere una crisi di coppia già in atto in modo conclamato (magari dopo un tradimento o forti tensioni), puntando tutto sul convergere su un impegno e un progetto comune per rilanciare la coppia, o anche più semplicemente perché si attraversa un periodo di stagnazione, per cui un figlio è ciò che potrebbe rivitalizzare il rapporto o l’esistenza individuale dei partner.

Tutti questi aspetti, che sono solo alcuni dei potenzialmente infiniti scenari, rappresentano il contesto in cui un neonato inizia a co-costruire l’appartenenza alla propria famiglia, un percorso psicologico le cui premesse semantiche (Ugazio, 1998) ‘si costruiscono prima della nascita del bambino e prendono corpo nell’immagine virtuale che si crea intorno a un nascituro‘ (Gandoli & Martinelli, 2008, p.32). Tale presupposto spiega come mai un figlio non è mai neutro o immune a contesti di coppia in cui vi sia conflittualità: i segnali di malessere emotivo che già nella prima infanzia possono insorgere (comportamenti non gestibili dai genitori, difficoltà legate al sonno o all’alimentazione) sono infatti considerabili come una qualità emergente del sistema familiare a cui il bambino appartiene (Gandolfi & Martinelli, 2008; Gandolfi, 2015) e che spesso, nei casi appena descritti, si caratterizza per la presenza di conflitto nella coppia genitoriale (sia essa unita o separata). D’altronde, oramai numerosi studi rendono evidente la capacità dei bambini di percepire l’emotività dei propri adulti di riferimento (Andolfi, 1999; Aucoturier & Lapierre, 2001, Fivaz-Depeursinge, Corboz-Warnery, A., 2000; Fivaz-Depeursinge, Philipp, D.A.,  Mazzoni, S, 2015.) e di costruire il proprio positioning all’interno dell’impalcatura semantica familiare (Ugazio, 1998 e 2012; Gandolfi e Martinelli, 2008; Gandolfi, 2015).

Quali rischi sono insiti nelle transizioni della nascita, dalla pancia alla culla, da figli a genitori, da coppia a triade?

Tra aspettative e motivazioni più o meno condivise e tempistiche più o meno azzeccate, la nascita del bambino segna un passaggio nel ciclo di vita della persona, che in un’ottica individuale del ciclo di vita (Scabini 1995; Cigoli, 1997) aggiunge al ruolo prevalente di figlio quello di genitore, mentre a livello di coppia (Willi, 2004) il passaggio è da diade a triade (ovviamente nel caso si tratti di un primogenito). Si tratta di transizioni che comportano dei compiti evolutivi per i neogenitori, dal punto di vista psicologico individuale e relazionale, non solo con il partner, ma anche (e soprattutto?) con la propria famiglia di origine.

Uno degli scenari più comuni, esito spesso di un investimento molto diverso rispetto alla genitorialità da parte dei due partner, è il crearsi di un legame di coppia verticale, cioè tra figlio e un genitore, che prevale su quello orizzontale (quello cioè tra la coppia dei genitori), con l’effetto di far sentire uno dei due genitori escluso. Nell’immaginario collettivo è più facile che sia la madre a sviluppare un rapporto maggiormente intenso col figlio, quasi esclusivo, facendo sì che l’uomo si senta trascurato ed escluso, ma vi sono casi in cui i ruoli sono invertiti, nonostante il maggior tempo che la madre vive accanto al figlio. Non di rado, nelle narrazioni di persone che avviano relazioni extraconiugali od occasionali, l’inizio della crisi di coppia o del bisogno di ‘evasione’ è fatto risalire proprio a un vissuto di esclusione da parte del partner in seguito alla nascita di un figlio.

Ho già accennato al ruolo delle famiglie di origine, che nel momento in cui nasce un bambino assumono una rilevanza importante da un punto di vista psicologico e relazionale. Ci sono scenari in cui il legame di entrambi i partner con le proprie famiglie di origine è sereno e vi sono le adeguate condizioni organizzative (vicinanza chilometrica, assenza di fattori quali malattie, impegni massivi su altri fronti…) per cui per la gestione del bambino si crea un legame di cooperazione caratterizzato dall’assenza di competizioni educative e/o da attribuzioni di colpe. Su che cosa sia una competizione educativa ci offre una risposta un aneddoto che chiunque abbia sperimentato una relazione nonni-genitori-figli (a prescindere da quale ruolo abbia interpretato) avrà quasi certamente vissuto: il bambino è con i nonni e quando arriva il genitore a prenderlo si vivacizza impiegando troppo tempo per prepararsi, per sistemare i giochi e dimostrandosi refrattario a ogni richiesta genitoriale. A questo punto scatta la frase da parte uno dei nonni: ‘guarda, è stato tranquillo fino a quando sei arrivato tu’ (a tale frase ricorrono talvolta anche i genitori l’uno nei confronti dell’altro, e suona come un campanello d’allarme per la quiete di coppia). Ovviamente tale frase, presa singolarmente e come episodio isolato, non è patogena, ma ci spiega come è possibile essere in presenza di una nonna che si pone come ‘super genitore’. Mi preme sottolineare che a incidere in questo scenario non è tanto quanto il bambino realmente agisca, ma i significati che gli vengono attribuiti. Non c’è bisogno di aspettare infatti capricci o comportamenti particolari: Miriam Gandolfi insegna come sia sufficiente amplificare i messaggi delle frasi che si ascoltano nelle nursery degli ospedali durante la visita dei parenti ai bambini in culla esposti al pubblico: per esempio, la frase ‘guarda come è tranquillo, hai visto che hai fatto bene a riposarti in gravidanza, come ti dicevo io’ pronunciata da una nonna alla neo-madre, è un’affermazione che non sottolinea tanto il grado di bonarietà del neonato, ma il ruolo di super consigliere e super genitore della nonna in questione (Gandolfi, 2008, p.32). A volte tale situazione può essere indice di una più ampia cornice connotata da giochi di potere tra genitori e nonni in cui, per esempio, tratti fisici o comportamenti del bambino possono essere assunti come marker della sua maggior appartenenza all’uno o all’atro ramo familiare: ‘è tutto suo nonno/ padre/zio…’, che può essere legato a motivi di orgoglio se riferiti a parenti del proprio ramo familiare, o di attribuzione di colpe e responsabilità se imputati agli esponenti dell’altra famiglia (Gandolfi, 1987).  Si possono avere situazioni in cui uno dei due genitori provenga da contesti un cui le barriere generazionali nei confronti della propria famiglia di origine sono confuse, con confini labili che possono generare meccanismi di richiamo molto potenti. Ne sono alcuni esempi, ricevere la visita dei nonni in determinati giorni e orari non condivisi dai genitori, o il pranzo domenicale come tappa obbligata, o anche le vacanze estive, vissute, in parte o in toto, insieme ai nonni. Relativamente alle vacanze estive, è curioso poi osservare come gli altri nonni reagiscono. Lo faranno pesare? E il genitore figlio dei nonni meno ‘presenti’, come si sentirà? È già stato affiliato dai suoceri per precedenti contrasti con la propria famiglia o vive un senso di colpa e di esclusione per il quale i propri genitori lo istigano?

In tutto questo, pensate a che riverberi possa avere la scelta di mandare un bambino al nido o scegliere se affidarlo ai nonni, e in tal caso, a una delle due coppie di nonni o a entrambe? In quantità di tempo uguali, oppure no? Ogni scelta rischia di essere percepita come una scelta di campo, come un affronto o un nuovo debito di riconoscenza.

Ho presentato alcuni degli scenari possibili che possono portare la coppia a un aumento delle tensioni interne e, a livello individuale, anche a una messa in discussione del legame con la propria famiglia di origine. Non solo, a prescindere dagli scenari presentati, diventare genitori implica un confrontarsi con il modello genitoriale di cui si è fatta esperienza come figli. A volte ci si trova a comportarsi proprio nei modi dei propri genitori da cui ci si era giurati di voler prendere le massime distanze. Non è infatti rara la frase: ‘ho sempre criticato i miei genitori per questo/quel comportamento, e ora sto facendo lo stesso’. Sono tante le attribuzioni di significato possibili per spiegare un tale meccanismo che a volte mette in crisi una persona.

È utile rivolgersi a uno psicologo?

Abbiamo visto come quindi un neonato e un bambino, loro malgrado, possano rapidamente passare dal rappresentare la ciliegina sulla torta di un perfetto quadro idilliaco familiare a essere un detonatore potente nella coppia genitoriale, sia per fattori strettamente riguardanti la dinamica relazionale tra i due partner, sia per questioni che affondano radici nei legami (irrisolti) con le famiglie di origine, con cui magari uno o entrambi i partner hanno il proprio vero matrimonio psicologico (Andolfi, 1999; Gandolfi, 2015).

Non è certo la nascita di un bambino che avvia e crea tali dinamiche, ‘semplicemente’ ne permette il manifestarsi in maniera più evidente, sia perché rappresenta un intenso investimento emotivo, sia perché si moltiplicano richieste di visite (ed eventuali rifiuti), di consigli, di scambi tra la coppia genitoriale e le famiglie di origine. Talvolta la situazione precipita fino ad aprire una crisi di coppia, che non è necessariamente l’anticamera della separazione, ma può essere, come l’etimologia della parola ‘crisi’ insegna, anche un’opportunità: la coppia, anche tramite l’aiuto di una consultazione psicologica, può cogliere l’occasione per ridefinire alcune dinamiche relazionali, sia interne che esterne.

A livello interno, i membri della coppia possono acquisire modalità di comunicazione più costruttiva e meno distruttiva durante le discussioni, e/o imparare a esplicitare i fattori di malcontento, favorendo un confronto aperto: si tratta di una condizione che è possibile sviluppare nel momento in cui entrambi i partner arrivino ad avere la percezione di una distribuzione equilibrata del potere, maturando l’idea che la verità è relativa. Ammettere che esistano ‘le mie ragioni e le tue ragioni’ e che ‘anche la tue ragioni hanno una certa credibilità’ sono due premesse molto importanti per far sì che i litigi possano essere costruttivi. Il mio pregiudizio è che in una coppia le discussioni siano inevitabili, sane ed evolutive: l’importante è che siano uno stimolo per confrontarsi e chiarirsi, non un modo attraverso cui i due partner si allontanino irrigidendosi sulle proprie posizioni, così come sostiene anche Beavers (1996), dopo un trentennale lavoro con coppie presso il Southwest Family Institute di Dallas, centro da lui fondato.

A livello di ridefinizione dei legami con l’esterno, una consultazione psicologica può aiutare la coppia a delimitare i propri confini con le famiglie di origine, o meglio, utilizzando una metafora di Miriam Gandolfi (2015), a regolare l’apertura e la chiusura dei ‘cancelli’ che delimitano il territorio della coppia (e della neo-famiglia). Non significa escludere ed escludersi dai propri legami familiari, ma vivere senza sensi di colpa per aver ridefinito regole, distanze ed equilibri: è possibile declinare un invito a pranzo senza provare rimorsi e non godendosi quanto si era scelto di preferire all’abituale domenica dai genitori? È possibile iscrivere il figlio al nido, per scelte educative della coppia, anche se i nonni tanto reclamavano la cura del nipotino?

Infine, vi è anche la possibilità che una crisi della coppia porti a una separazione, opzione che non in assoluto rappresenta un esito clinicamente negativo: se è vero, infatti, che si tratta di un lutto da elaborare perché rappresenta il fallimento di un progetto, è comunque un’opzione più evolutiva, sana e preferibile al mantenimento di un legame altamente disfunzionale e patogeno: anche quando fatto ‘per il bene dei bambini’, non è mai un’intenzione (ammesso che sia autentica) che si può concretizzare, date le premesse conflittuali e di disaccordo. Non solo, una separazione è spesso agita e realizzata in linea con le premesse relazionali rivelatisi disfunzionali: si tratta di una premessa pericolosa perché rischia di mantenere un legame disperante (Cigoli, Galimberti, Mombelli, 1988) tra i genitori, anche una volta separati e anche se nel tempo entrambi avranno una nuova famiglia. Un percorso di coppia può supportare i partner anche verso una separazione che aiuti a portare in salvo quanto di positivo maturato nel corso del legame e a mantenere dei rapporti costruttivi per i figli.

Adolescenti e solitudine

Nell’adolescenza, quando stabilire e mantenere relazioni sociali soddisfacenti è un compito fondamentale per lo sviluppo, la solitudine cronica è legata ad una serie di esiti negativi.

 

La solitudine, definita come la risposta emotiva negativa a una discrepanza tra la propria rete sociale desiderata e quella effettiva (Peplau e Perlman, 1982), è un’esperienza relativamente comune durante questa fase evolutiva. La sua prevalenza elevata è probabilmente dovuta a vari cambiamenti nelle aspettative sociali, nei ruoli e nelle relazioni (Qualter et al. 2015). Durante la tarda adolescenza, ad esempio, il passaggio alla vita lavorativa o all’università è una sfida in termini di mantenimento di una rete interpersonale sociale soddisfacente, di creazione di nuove relazioni e di rimodellamento di quelle esistenti (Cutrona 1982). La solitudine cronica durante questo periodo della vita rappresenta un serio motivo di preoccupazione, in quanto è associata a vari esiti negativi in termini di salute mentale. In particolare, le ricerche precedenti hanno trovato una forte associazione tra la solitudine cronica e i sintomi depressivi nell’infanzia e nell’adolescenza (Ladd e Ettekal 2013), tra la solitudine cronica e l’ansia (Vanhalst et al. 2013), l’ideazione suicidaria (Schinka et al. 2013) e l’aumento del rischio di problemi di salute fisica (Caspi et al. 2006). La solitudine temporanea ha un importante ruolo adattivo nel funzionamento sociale degli individui: può segnalare un deficit nelle interazioni sociali e quindi suscitare un tentativo riparatore di cercare o ristabilire un contatto sociale (Maner et al. 2007). Quando questa diventa cronica, l’individuo diventa ipervigile nei confronti della sfera sociale, al punto da vedere il mondo relazionale come un luogo più minaccioso (Cacioppo e Hawkley 2009): egli, a sua volta, tenderà ad isolarsi ulteriormente così da difendere se stesso dalle minacce, generando maggiore solitudine.

Il presente studio si è concentrato sull’indagine di (a) inclinazione e motivazione degli adolescenti ad accettare inviti di inclusione sociale e (b) le loro strategie di regolazione delle emozioni di fronte all’esclusione sociale.

Nello specifico, la qualità della motivazione è stata concettualizzata sulla base della teoria dell’autodeterminazione (Deci e Ryan, 2000) che postula l’esistenza di cinque tipologie di motivazione:

  • Amotivazione: soggetti che non danno valore all’attività sociale o si sentono impotenti e hanno bassi livelli di volontà. Essi tendono a non accettare un invito ad un evento sociale
  • Esterna: bassi livelli di volontà, che si accompagnano ad una regolazione emotiva esterna. Nello specifico, gli adolescenti possono accettare un invito all’inclusione sociale perché sentono che gli altri si aspettano che lo facciano o perché vogliono evitare le critiche.
  • Controllata: si accompagna ad una regolazione fondata sull’introiezione. Questi individui sentono una sorta di pressione interna e accettano un invito per evitare di sentirsi in colpa o per incrementare la propria autostima.
  • Autonoma o volitiva: si accompagnano a sentimenti di libertà psicologica e di volontà, con strategie di regolazione delle emozioni improntata sull’apprezzamento e l’attribuzione di valore alle attività interpersonali. Questi soggetti tendono ad accettare l’invito sociale perché capiscono che è importante partecipare all’evento, non soltanto per loro stessi, ma anche per le persone che li hanno invitati.
  • Intrinseca: le persone si impegnano in attività sociali per il piacere e la soddisfazione intrinseca all’attività stessa. Questi soggetti accettano di partecipare agli eventi perché credono che sarà divertente.

Per quanto riguarda le risposte emotive di fronte a situazione di esclusione sociale e le strategie utilizzate per far fronte a ciò, sono state indagate 5 strategie adattive e 4 disadattive, basate sul Cognitive Emotion Regulation Questionnaire (CERQ; Garnefski and Kraaij 2007).

Strategie adattive:

  • L’accettazione
  • L’attenzione per gli aspetti positivi
  • La rivalutazione positiva: reinterpretazione della situazione negativa attraverso la focalizzazione sui potenziali aspetti positivi.
  • La pianificazione: concentrazione su come si può migliorare la situazione.
  • La messa in prospettiva

Strategie disadattive:

  • L’attribuzione di colpa a se stesso
  • La ruminazione: la concentrazione ripetuta e passiva sugli aspetti negativi della situazione, sulle possibili cause e conseguenze.
  • La catastrofizzazione: la tendenza a esasperare gli aspetti negativi delle situazioni.
  • L’attribuzione di colpa all’altro.

In primo luogo, è stato condotto uno studio pilota di sviluppo delle misurazioni per realizzare, testare e perfezionare le vignette utilizzate nel presente studio, che ha portato a dieci vignette: cinque situazioni ipotetiche che descrivono l’inclusione sociale, del tipo ‘Una delle sue band preferite sta dando un concerto in città. Un amico la chiama per chiederle di andare al concerto con lui e qualche altro amico’, e cinque situazioni ipotetiche che descrivono l’esclusione sociale, come ad esempio ‘Riceve un messaggio da uno dei suoi amici che chiede perché non è alla festa. Non sa di quale festa si tratta e glielo chiede. Scopre che uno dei suoi amici ha dato una festa e lei non è stato invitato’. Dopo ogni vignetta di inclusione veniva chiesto ai partecipanti (N=395) di valutare la probabilità di accettare l’invito, a cui potevano rispondere con una scala Likert a 7 punti (da certamente no a certamente si). In un secondo momento veniva loro chiesto di immaginare di voler accettare l’invito, e di segnalare cinque possibili motivi derivati dalla teoria dell’autodeterminazione (Deci e Ryan, 2000). Dopo ogni vignetta di esclusione, invece, è stato chiesto di valutare cosa avrebbero pensato o fatto nella situazione, valutando così nove strategie di regolazione delle emozioni basate sul Cognitive Emotion Regulation Questionnaire (CERQ; Garnefski and Kraaij 2007). La solitudine, invece, è stata misurata per mezzo della peer-related loneliness subscale of the Loneliness and Aloneness Scale for Children and Adolescents (LACA; Marcoen et al. 1987): essa contiene 12 item, del tipo ‘Mi sento isolato da altre persone’ a cui il partecipante poteva rispondere tramite una scala Likert a 4 punti (da mai a spesso).

Vanhalst et al. (2018), hanno confrontato gli adolescenti che presentavano cinque diversi livelli di solitudine (cronica elevata, elevata in diminuzione, moderata in aumento, moderata stabile e bassa stabile) in termini di risposte alle ipotetiche vignette. I risultati hanno rivelato che il livello di solitudine correla negativamente alla probabilità di accettare inviti all’inclusione sociale. Inoltre, gli adolescenti con livelli di solitudine più elevati hanno riportato una motivazione intrinseca significativamente inferiore, mentre hanno riportato una più elevata motivazione esterna e un’amotivazione, così come erano meno capaci di focalizzarsi sugli aspetti positivi o di mettere le cose in prospettiva, e più propensi a incolpare se stessi, ad utilizzare la ruminazione e la catastrofizzazione per affrontare l’esclusione sociale.

La Deep Brain Stimulation nel Parkinson

La malattia di Parkinson colpisce negli USA l’1% circa della popolazione sopra i 50 anni e si manifesta con sintomatologia motoria a cui si associano deficit cognitivi di varia natura.

Marta Paris – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Mestre

 

Neuroanatomia e sintomatologia del morbo di Parkinson

I gangli della base (GB) sono dei nuclei profondi del telencefalo, coinvolti nel circuito motorio. In particolare, le cortecce cerebrali frontale, prefrontale e parietale inviano l’informazione motoria ai gangli della base e al talamo, che poi ritorna alla corteccia, nello specifico all’area motoria supplementare. Questo è il circuito motorio, deputato alla selezione e all’inizio dei movimenti volontari.

I gangli della base sono costituiti dal nucleo caudato, il putamen, il globus pallidus e il nucleo subtalamico. Inoltre, possiamo aggiungere la substantia nigra, una struttura del mesencefalo connessa reciprocamente con i gangli della base e con il proencefalo. Il nucleo caudato ed il putamen formano insieme lo striato, che è il bersaglio dell’input corticale ai gangli della base. Il globus pallidus è la fonte di output verso il talamo. Le altre strutture partecipano in vario modo ai circuiti che modulano la via diretta. L’ipotesi che il circuito motorio attraverso i gangli della base serva a facilitare l’inizio dei movimenti volontari è stata confermata da studi di numerose malattie dell’uomo. Secondo il modello, alla base dell’ipocinesia, una riduzione del movimento, c’è l’aumentata inibizione del talamo da parte dei gangli della base; la diminuzione dell’attività efferente dei gangli della base porta invece all’ipercinesia, un eccesso di movimento.

La malattia di Parkinson riproduce la prima condizione. Caratterizzata da ipocinesia, negli USA colpisce l’1% circa della popolazione sopra i 50 anni, i suoi sintomi comprendono lentezza dei movimenti (bradicinesia), difficoltà ad iniziare movimenti volontari (acinesia), aumento del tono muscolare (rigidità) e tremore delle mani e della mandibola più evidenti a riposo. Oltre alla sintomatologia motoria, si associano deficit cognitivi di attenzione, memoria di lavoro, difficoltà nella fluenza verbale, nel decision making e tendenza all’impulsività (Bear, Connors, & Paradiso, 2007).

La base organica del morbo di Parkinson è una degenerazione degli input che dalla substantia nigra vanno allo striato. Questi input usano la dopamina (DA) quale trasmettitore, che generalmente facilita il circuito motorio diretto attivando le cellule del putamen. La diminuzione della dopamina chiude l’imbuto che fornisce l’attivazione dell’area motoria supplementare e del nucleo ventrolaterale tramite i gangli della base, creando così un’inibizione del segnale motorio.

La maggior parte delle terapie della malattia di Parkinson hanno lo scopo di aumentare i livelli di dopamina che viene rilasciata al nucleo caudato e al putamen. Una di queste è l’assunzione farmacologica di levodopa, un precursore della dopamina, che attraversa la barriera ematoencefalica e fa aumentare la sintesi di dopamina nelle cellule della substantia nigra, alleviando così alcuni sintomi. Tuttavia, il trattamento con L-dopa non modifica il decorso della malattia, né rallenta la neurodegenerazione della substantia nigra (Bear, Connors, & Paradiso, 2007).

Dal punto di vista sintomatologico, la sfera motoria non è l’unica implicata nella malattia di Parkinson. Possono emergere sintomi cognitivi, come descritto precedentemente, in particolare deficit frontali e prefrontali di tipo esecutivo, come limitata fluenza verbale su base fonetica, errori cognitivi come la perseverazione e l’impulsività, memoria di lavoro ed elaborazione delle informazioni deficitaria, scarsa capacità di giudizio connessa a difficoltà nel processo di presa di decisione (Gurd, Kischka, & Marshall, 2013).

I sintomi neurologici e neuropsicologici vengono spesso associati a disturbi dell’umore. Nello specifico, la depressione è comune in pazienti con morbo di Parkinson, e questo ha un notevole impatto nella qualità della vita del paziente. I dati pubblicati stimano una prevalenza di significativi sintomi depressivi circa nel 35% dei pazienti, con una sottostima dell’impatto sul benessere della popolazione coinvolta in questa malattia, non escludendone quindi il coinvolgimento dei familiari e caregivers. La depressione sembra essere un fattore di stress molto più forte del deficit motorio: questo ne presuppone la correlazione, dove la sintomatologia depressiva causa un peggioramento anche a livello motorio, con ulteriori limitazioni delle autonomie della persona. Dall’altro lato, la depressione è fra i più forti predittori di inizio della terapia dopaminergica (Accolla & Pollo, 2019).

Come nelle malattie croniche, si osserva una depressione reattiva alla comunicazione della diagnosi, correlata alla paura della malattia e della disabilità attuale o futura. Nonostante questo, i disturbi dell’umore tendono a presentarsi circa 4-6 mesi prima dei sintomi motori, e molto spesso predicono la diagnosi, indicando quindi che i fattori neurobiologici sono più determinanti rispetto ai fattori psicosociali alla base della depressione. A seguito di indagini neurobiologiche in pazienti Parkinson con depressione confrontati con pazienti Parkinson senza depressione, si conferma una ridotta attività e possibile densità di materia grigia nel lobo frontale e in altre strutture limbiche corticali e sottocorticali, identificando così una sede anatomica della depressione nel Parkinson (Accolla & Pollo, 2019).

Vantaggi e svantaggi della Deep Brain Stimulation

Un ulteriore trattamento possibile per la malattia di Parkinson è la Deep Brain Stimulation (DBS) e questa risulta essere un’alternativa al trattamento farmacologico molto importante. Essa consiste nell’impianto di elettrodi che stimolano circuiti cerebrali, compensando squilibri dovuti alla carenza di neuroni dopaminergici. È una procedura chirurgica ormai consolidata che dà risultati eccellenti e che è sicura, per quanto lo possa essere un intervento chirurgico, che è sempre gravato da un minimo di rischio, quale, per esempio, il rischio di infezioni. Sono stati individuati, nello specifico, due nuclei sede di stimolazione: il nucleo subtalamico (STN) e il globus pallidus interno (GPi).

Oltre al miglioramento della sintomatologia motoria sensibile all’azione farmacologica della L-dopa del 60-80%, è stato dimostrato che la stimolazione profonda del nucleo subtalamico (STN-DBS) ha degli effetti positivi rispetto alla somministrazione del farmaco, tra cui il comportamento impulsivo dei pazienti, ma facendo emergere altre complicazioni a livello comportamentale (Lulé, et al., 2011).

Lo studio di Lulé et al. (2011) ha lo scopo quindi di indagare l’impulsività in trattamenti terapeutici differenti. Vengono confrontati i risultati di 15 pazienti PD con DBS (PD-DBS) rispettivamente accesa e spenta, con 15 pazienti PD senza DBS sotto terapia farmacologica L-dopa (PD-DA), con stessa fascia di età e durata della patologia. Vengono sottoposti a valutazione neuropsicologica per misurare il comportamento impulsivo (gambling performance), depressione, umore attuale, e performance cognitiva. Dallo studio emergono risultati interessanti: i pazienti con terapia farmacologica elevata nell’Iowa Gambling Task (test che misura l’impulsività e la capacità di decision making), scelgono più spesso le carte dal mazzo svantaggioso rispetto al gruppo di soggetti con DBS-off, dimostrando così una maggiore presenza di comportamento impulsivo e rischioso associato al farmaco. La performance di questo gruppo è paragonabile a quella di pazienti con lesione ventromediale. Il confronto fra il gruppo con farmaco PD-DA ed il gruppo PD-DBS-on evidenzia una minore riduzione del comportamento impulsivo e rischioso, a supporto dell’idea che la DBS possa agire sui circuiti frontali coinvolti nella capacità cognitiva di decision making. Dall’analisi di questo studio emerge quindi l’evidenza che gli effetti della DBS sul comportamento rischioso e sull’impulsività possono venire confusi con gli effetti della terapia farmacologica dopaminergica, e che l’impulsività diminuisce con impianto DBS ma rimane comunque un sintomo importante da tenere in considerazione (Lulé, et al., 2011).

Ulteriori studi confermano che soggetti con STN-DBS hanno una maggiore velocità di reazione allo stimolo risposta e quindi maggiore impulsività in compiti che richiedono una rapida presa di decisione, rispetto a situazioni con più alternative e che richiedono quindi maggior ragionamento prima di rispondere. Risulta molto importante studiare più approfonditamente la connessione fra il controllo dell’impulso in compiti cognitivi sperimentali e il tipo di difficoltà nel controllo evidenziata in contesto clinico (Wylie, et al., 2010).

Come descritto precedentemente, il PD non presenta soltanto una sintomatologia neurologica e cognitiva ma anche psicologica e psichiatrica. La procedura di DBS ha un effetto generale positivo sull’umore, indipendentemente dal target di stimolazione scelto. Questo confermato da una recente meta-analisi, dove è stata trovata una piccola riduzione dei sintomi depressivi, dopo impianto di DBS rispettivamente a livello del STN e GPi (Combs, et al., 2015). Un’interpretazione plausibile di questi dati potrebbe essere che, in fase avanzata di malattia, il miglioramento significativo dei sintomi motori e degli effetti collaterali della L-dopa a seguito dell’impianto DBS abbiano un notevole effetto sullo stato depressivo, indipendentemente dal livello di depressione iniziale, prima dell’intervento. Non si può escludere un coinvolgimento ed influenza della DBS nel sistema limbico, mediata indirettamente dal rilascio di neurotrasmettitori quali serotonina e noradrenalina (Accolla & Pollo, 2019).

Anche se gli effetti sul tono dell’umore sono stati studiati in diverse ricerche, rimane comunque la presenza di dati contrastanti in letteratura, probabilmente a causa di campioni e procedure di assessment differenti. Recenti risultati dimostrano un elevato rischio di suicidio a seguito di intervento DBS, la maggior parte con precedente storia di depressione. Fra tutti, potrebbe esserci un bias di selezione dei soggetti idonei all’impianto, dove i soggetti che non accettano la malattia siano più propensi a volere sottoporsi all’intervento. Questa fascia di popolazione potrebbe essere meno pronta ad accettare le conseguenze negative ed i rischi della DBS, e rimanerne delusa. Spetta quindi all’equipe clinica spiegare nei minimi dettagli vantaggi e svantaggi di questa procedura, preparare il paziente a tutte le controindicazioni del caso, e valutare tramite un assessment dettagliato e preciso le caratteristiche del soggetto, per definirlo idoneo o meno al trattamento (Accolla & Pollo, 2019).

La STN-DBS permette, se non in toto, di ridurre a livello importante la terapia farmacologica dopaminergica. La neurodegenerazione nel PD include anche le cellule dopaminergiche mesolimbiche dell’area ventrale tegmentale, che proiettano verso lo striato ventrale e verso le regioni orbitofrontali, coinvolte in funzioni non motorie come la motivazione e la ricompensa. L’interruzione completa o parziale della L-dopa porta notevoli vantaggi e miglioramenti a livello motorio, ma può essere responsabile di una manifestazione progressiva e aumentata di apatia, anedonia, e peggioramento eventuale dei sintomi depressivi, a seguito della DBS. Questo aspetto cruciale deve essere tenuto in considerazione nelle fasi postoperatorie, dato che sono sintomi che possono apparire ed aumentare lentamente e progressivamente. Un corretto assessment e una buona gestione a livello psicologico e psicoterapeutico può essere sia una forma di prevenzione che di miglioramento dell’esito dell’operazione neurologica in sé. Sintomi psichiatrici come la mania e l’ipomania a seguito di impianto DBS sono ben documentati, e possono essere gestiti anche modificando i parametri di stimolazione degli elettrodi impiantati (Accolla & Pollo, 2019).

In letteratura emergono poi dati che documentano la presenza di ipersessualità ed aumento di arousal sessuale in pazienti con disordini del movimento. Il DSM-5 descrive diverse forme di disfunzioni sessuali, inclusi i disturbi collegati al desiderio sessuale, l’arousal e l’orgasmo. Le parafilie sono descritte all’interno di un gruppo di disturbi separato, che include esibizionismo, feticismo e pedofilia. L’ipersessualità viene proposta, nell’ultima edizione del manuale, come nuovo disturbo, descritto principalmente come un disturbo del desiderio sessuale non parafiliaco, con componente di impulsività (APA, 2014). Lo studio di Teive et al. (2015) ha lo scopo di presentare una serie di casi di aumento del desiderio sessuale e di ipersessualità in un gruppo di pazienti con disturbi del movimento, tra cui anche la malattia di Parkinson. Nello specifico, vengono identificati sei soggetti PD, con forme differenti di ipersessualità e parafilie. Queste disfunzioni risultano essere causate dall’uso di agonisti dopaminergici, abuso di L-dopa, e dopo operazione DBS. Dai dati raccolti in questo studio, emerge che pazienti con PD sperimentano ipersessualità a causa del deficit di controllo degli impulsi (ICD), una conseguenza negativa della terapia farmacologica con DA e L-dopa. Inoltre, una seconda causa di ipersessualità nel PD potrebbe essere la stimolazione eccessiva dei recettori dopaminergici. In due casi su sei esaminati, l’ipersessualità era connessa alla DBS nel nucleo subtalamico (STN). Anche in questo caso, la sintomatologia venne gestita con una riduzione dei farmaci dopaminergici e con regolazione dei parametri della DBS (Teive, Moro, Moscovich, & Munhoz, 2016).

Commenti e Conclusioni

Il morbo di Parkinson è una patologia neurodegenerativa e cronica, ed attualmente non è ancora stata trovata una cura specifica. La sua natura progressiva ha portato alla luce molti sintomi oltre a quello primario di tipo motorio, proprio perché trova correlazioni a livello neurobiologico con circuiti e nuclei cerebrali adibiti ad altre funzioni cognitive ed emotive. In questo articolo abbiamo descritto i due trattamenti attualmente più diffusi per il rallentamento della degenerazione caratteristica della patologia, quali il trattamento farmacologico dopaminergico e la deep brain stimulation (DBS). Nello specifico la DBS risulta essere un intervento neurochirurgico oggigiorno diffuso e sperimentato più volte, anche su nuclei cerebrali profondi differenti, che agisce specificatamente migliorando, se non eliminando del tutto, le controindicazioni e i disturbi motori indotti dall’uso prolungato di terapia dopaminergica con L-dopa. Nonostante i vantaggi nella regolazione motoria e una leggera riduzione dell’impulsività e della disregolazione del comportamento rischioso dei soggetti, la DBS nasconde in sé alcuni punti deboli, quali la sintomatologia depressiva, l’apatia, la diminuzione della motivazione, sintomi di ansia e rischio di comportamento sucidario, proprio perché agisce stimolando le stesse zone anatomiche e i circuiti neurobiologici alla base di queste patologie psichiatriche. Visti i dati contrastanti in letteratura, è fondamentale un’analisi dettagliata e precisa dello stato neurologico, neuropsicologico e psichiatrico, strutturata su misura di paziente, considerando la sua storia di vita, lo sviluppo della patologia, non tralasciando la famiglia e la rete sociale. Data la presenza di rischi e conseguenze a seguito di impianto DBS, risulta un passaggio necessario spiegare la tipologia di intervento al paziente ed ai suoi familiari, concordando insieme la scelta più adeguata alla situazione che sta affrontando. È molto importante considerare attentamente i pro e i contro della procedura per lasciare poi il paziente libero di decidere. La psicoterapia viene considerata una delle terapie non farmacologiche con effetti più promettenti che andrebbe integrata in ogni fase di decorso della patologia, per ottenere sia un effetto di prevenzione che di supporto e cura dei sintomi psicologici e comportamentali conseguenti.

 

Disturbo da stress post-traumatico legato alla pandemia da Covid-19: gli effetti della sovraesposizione mediatica e delle fake news

La pandemia da Covid -19 ha fatto crescere il disagio mentale in tutto il mondo. Dopo il lockdown è aumentato concretamente il rischio della comparsa nella popolazione di sintomi da stress post-traumatico. Tra i vari fattori che hanno generato ansia e preoccupazione nei cittadini ci sono anche la sovraesposizione mediatica e le notizie contraddittorie diffuse da vari mezzi d’informazione.

 

In un editoriale pubblicato l’11 maggio 2020 sulla rivista World Psichiatry, il direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità Tedros Adhanon Ghebreyesus ha sottolineato come la pandemia da coronavirus abbia fatto crescere in modo significativo, in tutto il mondo, il disagio mentale. Ha inoltre affermato che esiste il rischio che si verifichi un’ondata senza precedenti di disturbi da stress post-traumatico (PDST) (Di Cugno, 2020).

Secondo un’indagine condotta in Italia dall’istituto Mario Negri, lo stress, che la pandemia da Covid-19 ha generato nella popolazione, è principalmente legato alla preoccupazione per la propria salute, alla percezione di non poter proteggere se stessi e i propri cari, all’isolamento sociale, imposto dal confinamento, e ai timori legati all’immobilismo dell’economia. I risultati dell’indagine, pubblicati a giugno 2020, indicano che per un italiano su due il lockdown è stato un trauma.

Terminato il periodo di isolamento il rischio è che si assista ad un aumento d’incidenza nella popolazione di sintomi quali: ansia, disturbi del sonno, ricordi ricorrenti del trauma, somatizzazioni e depressione tipici del disturbo da stress post traumatico. Un disturbo che non si realizza, dal punto di vista clinico, contestualmente al trauma ma necessita di tempo per costruirsi. Si tratta di una patologia che si basa sulla memoria e perciò i suoi effetti possono manifestarsi successivamente al vissuto traumatico (Occhi S., Albiol LM, Cicognani E.,2007; Castrucci, 2020).

La comunicazione mediatica ed il disturbo da stress post-traumatico

Un ulteriore motivo di stress è rappresentato da una ripetuta esposizione mediatica alle notizie sull’epidemia virale.

Le informazioni veicolate dai media, sugli eventi legati alla pandemia, possono causare un aumento dell’ansia, generare maggiori risposte allo stress e comportare la messa in atto di richieste di aiuto e strategie per la protezione della propria salute incongrue (Grafin DR et al. 2020). Da uno studio pubblicato su Sciece Advances emerge che chi sviluppa sintomi da stress, per sovraesposizione mediatica, cerca di alleviare lo stress seguendo attentamente tutte le informazioni che riguardano l’evento traumatico stesso. S’innesca così un circolo vizioso che porta ad un peggioramento del disturbo (Thompson RR, Jonsen NM et al. 2019).

Il problema strategico della comunicazione, in particolare nelle situazioni emergenziali, non consiste tanto nel far giungere un messaggio quanto nel garantire che il messaggio sappia attivare le associazioni volute dall’emittente nel ricevente. S’intende con “rumore”, quando si parla di comunicazione, tutto quanto crea disturbo alla comunicazione stessa, questo può essere di natura ambientale o interno ai partecipanti alla comunicazione. Il rumore interno a chi riceve, analogamente a quello interno a chi comunica, dipende dalla situazione emotiva, dallo stress psico-fisico e dalla mappa mentale e culturale soggettiva. A questo si aggiunge l’intenzionalità della persona che comunica. Tutto ciò spiega perché arrivare ad una comunicazione trasparente è piuttosto complesso (Anolli 2020).

Durante la pandemia la comunicazione non è stata cristallina per la presenza di numerose fake news. Tanto che, per cercare di arginare questo fenomeno, i centri per il controllo e la prevenzione delle malattie (CDC), l’OMS ed altre organizzazioni sanitarie hanno pubblicato, su una serie di piattaforme, le linee guida sui corretti comportamenti da tenere, per proteggersi dall’infezione virale e i consigli su come fronteggiare lo stress (Ministero dell Salute, 2020).

Tuttavia non c’è ancora completa conoscenza di come queste piattaforme possano essere sfruttare al meglio per supportare in modo ottimale la risposta alle emergenze e la capacità della popolazione a far fronte in maniera positiva agli eventi traumatici (Merchant RM, Laurie N.2020).

Il timore che l’incidenza di disturbi ansioso-depressivi possa aumentare significativamente rispetto ai periodi pre-pandemici ha già trovato riscontro in vari lavori scientifici (Ettman CK., AbdallaAm., Cohen Gh et al. 2020).

Per contenere gli effetti dello stress è importante attuare interventi di prevenzione, in altri termini si tratta di mettere in campo risoluzioni, su soggetti che hanno subito un trauma, prima che si instauri il disturbo vero e proprio (Occhi S., Albiol LM., Cicognani E., 2007).

Vista l’influenza che l’amplificazione mediatica e le fake news hanno nell’esporre la popolazione al disturbo da stress post-traumatico, tutte le iniziative messe in atto per ridurre tali fenomeni e per fornire ai cittadini una corretta informazione possono essere considerate strategie preventive. Occorre poi dare assistenza a quanti hanno sviluppato un PDST, con interventi terapeutici che prevedono strategie psicoterapiche e psicofarmacologiche (Foa EB et al. 2009).

 

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