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Porn Addiction

La porn addiction è la dipendenza da materiale pornografico. In una società sempre più tecnologica ed esposta agli stimoli attraverso uno schermo, la dipendenza dal porno sembra essere la dipendenza sessuale più diffusa tra i giovani. 

 

Molti studiosi concordano sul fatto che diversi fattori contribuiscono allo svilupparsi della porn addiction, quali ad esempio l’anonimato, la facile accessibilità ai contenuti pornografici nella rete e il fatto che tale materiale sia alla portata di tutti. Tali fattori sono anche stati nominati e confermati dagli stessi pazienti in riabilitazione come caratteristiche che nutrono la loro dipendenza e che facilitano le ricadute.

Porn addiction: ma come funziona la dipendenza dal porno?

Come ogni dipendenza, tutto inizia da un parziale e saltuario uso di materiale pornografico. Va detto che solo una minoranza delle persone che ne fa uso trasformerà tale esperienza in un abuso. Per queste persone il desiderio verso contenuti a sfondo sessuale diventa nel tempo incontrollabile, fino ad essere una vera e propria ossessione. Questa urgenza finalizzata alla soddisfazione sessuale può spingere le persone a mettere in secondo piano la loro vita quotidiana e i loro impegni o responsabilità di tutti i giorni.

A questo primo step della porn addiction ne segue poi spesso un altro, facilmente riscontrabile anche nelle persone che abusano di farmaci o di sostanze stupefacenti: la tolleranza. La tolleranza è la reazione che la sostanza o lo stimolo, a lungo andare, provoca nel corpo del soggetto. L’assunzione continua di qualsiasi sostanza, come di un farmaco, porta il corpo ad abituarsi ad essa. Così la stessa quantità di sostanza non produce più gli effetti desiderati, che invece possono essere raggiunti solamente con un aumento della dose. Nella dipendenza dal porno il soggetto che va a ricercare il piacere nel materiale pornografico, a lungo andare, può avere bisogno di rinnovare questo materiale per continuare a rendere l’esperienza piacevole. Tale tendenza spesso spinge questi soggetti verso una pornografia sempre più deviante, che può sfociare tanto nel fetish, quanto nella pornografia aggressiva o perfino nella child pornography. I pazienti affetti da dipendenza dal porno dichiarano infatti di non essere più soddisfatti dal proprio partner, proprio perché i loro appetiti sono rivolti verso una sessualità meno canonica e convenzionale, più particolare e specifica. Il porno può arrivare quindi ad intromettersi nei delicati equilibri della coppia, fino a degradare la sua intimità.

Ma occorre tenere in considerazione una cosa: nella maggior parte dei casi le conseguenze della porn addiction non sono pericolose a livello sociale, quanto piuttosto relazionale. Il soggetto dipendente dal porno non aggredisce ma al contrario si ritira. Perde il lavoro, la famiglia, gli amici, il partner. Consapevole della sua impossibilità nel controllarsi, il soggetto sente di avere un problema e ne prova vergogna e senso di colpa. La sua autostima si abbassa e questo crea un isolamento progressivo in cui l’unica fonte di gratificazione diventa la fonte stessa della sua inquietudine.

Parlando di riabilitazione e cura non bisogna pensare la porn addiction alla stessa maniera della dipendenza da uso di sostanze stupefacenti o alcool. Come spiega Mark Griffiths, della Nottingham Trent University, nella maggior parte dei casi la riabilitazione rivolta agli alcolisti prevede o almeno punta verso l’astinenza dalla sostanza per tutta la vita. Comprendiamo benissimo come non solo sia impossibile, ma anche disfunzionale allontanare un soggetto dipendente dal porno dalla rete. La riabilitazione quindi si avvicina molto ad una rieducazione sessuale, come un ritorno verso una normale e sana relazione con la sfera sessuale, nella stessa misura in cui si punta a ristabilire un sano rapporto con il cibo nei disordini alimentari.

 

Pregiudizi, misinformazione e xenofobia ai tempi del COVID-19

Le riviste accademiche, oltre a promuovere conoscenze, giocano un ruolo cruciale nel controllo della situazione Covid-19: le informazioni possono influenzare il nostro cervello come può farlo un virus.

 

Il COVID-19 è una malattia causata dal 2019-nCov, ufficialmente chiamato SARS-CoV-2, che può presentarsi secondo diversi gradi di gravità (Yang et al., 2020). Si tratta del terzo grave focolaio coronavirus in meno di 20 anni dopo la SARS nel 2002-2003 e la MERS nel 2012, anche se la prima forma di coronavirus fu identificata intorno al 1960 (Yang et al., 2020).

Le riviste e gli studiosi, causa emergenza COVID-19, si sono focalizzati sulle possibili implicazioni della salute globale e nettamente meno sulla possibile diffusione di xenofobia e pregiudizi: Zeng e colleghi (2020) hanno effettuato una ricerca su PubMed e hanno trovato che oltre 2000 manoscritti menzionano Wuhan come luogo di origine della pandemia (Holshue et al., 2020) e dove è stata segnalata per la prima volta nel dicembre 2019. Tuttavia, non è certo che l’origine fosse in questa città nella provincia di Hubei. Dato che nel corso della storia le malattie virali sono state associate ai luoghi in cui si sono verificati i primi focolai, nel 2015 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha introdotto delle linee guida per disputare questa convinzione, col fine di ridurre pregiudizi e forme discriminatorie nei confronti di tali regioni o dei cittadini che vi abitano (Fukuda et al., 2015; Zeng et al., 2020).

Le riviste accademiche, oltre a promuovere conoscenze, giocano un ruolo cruciale nel controllo della situazione COVID-19: le informazioni possono influenzare il nostro cervello come può farlo un virus. Specialmente l’informazione inaffidabile e il pregiudizio collettivo hanno esacerbato la paura: alcune riviste accademiche e mediche hanno ignorato il fatto che alcuni contenuti pubblicati avrebbero potuto dare origine alla formazione dei pregiudizi e a comportamenti xenofobi e discriminatori (Jakovljevic et al., 2020; Zeng et al., 2020).

Dall’inizio della pandemia, l’aumento dei pregiudizi, del razzismo e della xenofobia nei confronti di persone provenienti dalla Cina è stato registrato in molti paesi: uno studio di Jakovljevic e colleghi (2020) ha messo in luce come nel Regno Unito si stiano verificando livelli crescenti di episodi di razzismo nei confronti di persone orientali, come riportato da denunce per aggressioni. Di pari passo alla rapida diffusione del COVID-19, dal 19 marzo al 13 maggio 2020 sono stati documentati più di 1700 episodi di discriminazione verso gli asiatici nel Regno Unito, come riportato dalla campagna STOP AAPI Hate (Le et al., 2020).

L’ambasciata cinese in Germania ha riportato un aumento dei casi di discriminazione contro i cittadini cinesi dall’inizio dell’epidemia, mentre a Wuhan molti cittadini riferiscono di aver subito discriminazioni e di essere stati stigmatizzati anche dopo il periodo di quarantena (Jakovljevic et al., 2020).

Il presidente degli Stati Uniti d’America, Donald Trump, ha definito la sindrome respiratoria acuta grave come “il virus cinese”, accusando il governo cinese di aver trattenuto informazioni salvavita a proposito del virus nei primi giorni di pandemia (Levine, 2020).

Zeng e colleghi (2020) hanno sottolineato come una risposta utile possa essere la solidarietà globale e non la discriminazione delle persone attraverso l’etichettatura errata delle questioni scientifiche o la loro politicizzazione (Devakumar et al., 2020). Di conseguenza editori, revisori e autori dovrebbero controllare attentamente la presenza di eventuali commenti inappropriati per mantenere il fine della ricerca scientifica come non nocivo, bensì obiettivo e rigoroso.

 

Il piacere del violare la legge delle Sette Parole: l’attrazione verso lo shock jocking

L’essere umano ha sviluppato sistemi giuridici ed etico-morali per regolare la vita in maniera oggettiva ed isolata dall’elemento animale originale. Tuttavia, l’uomo ha un rapporto paradossale e controverso con il concetto di limite e a questo si collega l’evoluzione del fenomeno dello shock jocking.

 

L’essere umano, per il funzionamento salubre della sua vita sociale ed organizzativa, ha bisogno di regole e di leggi. Tuttavia, essendo allo stesso tempo un animale sociale avente un rapporto paradossale con le limitazioni, necessita di un rilascio della tensione che ribalti le prospettive sulle situazioni che vive quotidianamente. Per questo motivo negli ultimi quarant’anni si è vista l’ascesa dello shock jocking, ovvero la conduzione di programmi radiofonici dove il contenuto sfida le regole culturali e morali.

L’essere umano, nella sua evoluzione di animale sociale autoconsapevole, nello sviluppo delle sue capacità organizzative e sociali, ha sviluppato l’atto di creare norme giuridiche, etiche e morali per regolare le sue iterazioni sociali e comunicative (Prescott, J. W., 1972). Essendo l’essere umano un animale che attua, inconsapevolmente o no, elementi di discriminazione a seconda del background culturale, etnico o di intimità relazionale, anche quando è chiaramente deviante (Warren, 2019), esso ha sviluppato sistemi giuridici (Hovenkamp, 1985) ed etici-morali (Weish, 1947) all’interno dei suoi sistemi culturali e religiosi per regolare la vita degli attori in maniera oggettiva ed isolata dall’elemento animale originale (Fuentes, 2004).

Tuttavia, come si è evidenziato nella sua crescita psicoattitudinale, l’essere umano ha un rapporto paradossale e controverso con il concetto di limite, sia verso quello della sua vita (Greenberg & Arndt, 2011) che quello imposto dal sistema giuridico (Wood, 2007). Questo è dovuto allo sviluppo della autoconsapevolezza dell’essere umano verso i propri limiti fisici e sociali, cosa che ha condotto allo sviluppo di meccanismi come il bias della superiorità ( Hornsey, 2003) e il “my-side” bias (Jarrett, 2018).

Una tipologia di intrattenimento che, basandosi proprio sul bisogno di ribellione alle regole su principi etico-morali presenti nelle costituzioni giuridiche, ha avuto un grande successo ed è diventato un fenomeno culturale è lo shock jock. Per shock jock è inteso quella tipologia di programma radiofonico il cui prodotto è considerato oltraggioso, con ampio utilizzo di turpiloquio e di momenti tendenti all’indecente (Sixsmith, 2019). Questa tipologia di programma radiofonico è stato popolarizzato in America grazie a figure come Howard Stern, Opie & Anthony, Bubba the Love Sponge e Don Imus. Nello Stivale questa tipologia ha influenzato programmi come “Lo Zoo” di 105 e “La Zanzara” di Radio 24.

Questa tipologia di programma radiofonico ha avuto un grandissimo successo commerciale e di popolarità grazie al prodotto veicolato, che spesso sfida le leggi sul costume sessuale, sulla parità dei sessi e sul buon costume in pubblico (Soley, 2007).

Il contenuto di questa tipologia di programma, condito da battute infantili e spesso reputabili come senza rispetto, rispecchia in pieno il rapporto paradossale che l’essere umano ha nei confronti delle costrizioni etiche e pubblicamente culturali in cui vive.

Di fatto, attraverso l’ascolto e la possibilità di partecipare attivamente alle controversie dello show, il soggetto sfoga le frustrazioni e le tensioni create dall’avere a che fare con situazioni legate a copioni e a protocolli impedenti di esprimere completamente la propria opinione, la propria esperienza e quindi i propri stereotipi e/o i lati più oscuri della personalità, elementi che solo attraverso una comunicazione, anche solo all’apparenza, comicamente senza limiti possano essere soddisfatti (Hayes, Gravesen, 2014).

Attualmente, con l’arrivo delle stazioni radio satellitari senza obblighi di censura e un progressivo allentamento delle restrizioni culturali dei costumi nel ventunesimo secolo, questo genere è caduto dal punto di vista della potenza effettiva del suo prodotto, ma è ancora celebre e studiato dal mondo culturale di massa e accademico, soprattutto per il suo legame con il double think e la violenza psicologica percepita (Janzen, Arrigo, 1997).

 

Perfezionismo: aspetti adattivi e disadattivi

Il costrutto di perfezionismo ha ricevuto un’attenzione particolare, fin dalla seconda metà del ‘900, ed è stato rilevato essere responsabile di vari quadri psicopatologici eterogenei.

 

Nello specifico, alcune ricerche hanno mostrato correlazioni positive tra un perfezionismo disadattivo e Disturbo Depressivo Maggiore (Frost & DiBartolo, 2002; Nakano, 2009), e Disturbi dell’Alimentazione (Bardone-Cone et al., 2007; Sassaroli & Ruggiero, 2005; Welch, Miller, Ghaderi, & Vaillancourt, 2009). Questo rinnovato interesse ha fatto sì che si intensificasse la ricerca sul perfezionismo, con il fine di comprendere gli aspetti interpersonali, tra cui il lato maladattivo o disadattivo del perfezionismo, definire il costrutto di perfezionismo e come misurarlo (Blatt, 1995).

Aspetti adattivi e disadattivi

Sebbene il comportamento perfezionista sia stato descritto come un fattore positivo nell’adattamento o nella realizzazione personale e professionale (Hamachek, 1978), spesso invece è visto come uno stile nevrotico pervasivo (e.g. Flett, Hewitt, & Dyck, 1989; Pacht, 1984; Weisinger & Lobsenz, 1981).

Difatti, il perfezionismo è spesso correlato a vari esiti negativi comprendenti sentimenti caratteristici di insuccesso, colpa, indecisione, procrastinazione, vergogna e scarsa autostima (Hamachek, 1978; Hollender, 1965; Pacht, 1984; Solomon & Rothblum, 1984; Sorotzkin, 1985).

Studi successivi hanno permesso di rilevare come un perfezionismo disadattivo possa portare a sviluppare forme psicopatologiche, come ad esempio: Disturbo Depressivo Maggiore (Accordino, Accordino, & Slaney, 2000; DiBartolo, Li, & Frost, 2008; McCreary, Joiner, Schmidt, & Ialongo, 2004), Alcolismo, Anoressia Nervosa e Disturbi di Personalità (e.g. Burns & Beck, 1978; Pacht, 1984).

Le difficoltà di adattamento rilevabili, si pensa che siano dovute dalla tendenza perfezionista ad impegnarsi nel seguente modo: definire standard non realistici e motivazione nel raggiungere questi; attenzione selettiva ed eccessiva; generalizzazione del fallimento; rigidità nelle autovalutazioni; tendenza a impegnarsi nel pensiero polarizzato di tipo tutto-o-nulla, per cui solo il successo totale o il fallimento totale esistono come risultati (Burns, 1980; Hamachek, 1978; Hollender, 1965; Pacht, 1984).

A loro volta, secondo Hewitt e Genest, (1990), queste caratteristiche sembrerebbero derivare, in parte, dalle operazioni cognitive inerenti allo schema personale ideale che possediamo.

Inoltre, non possiamo trascurare come il perfezionismo abbia aspetti interpersonali e come questi aspetti siano importanti nel contribuire alla difficoltà di adattamento.

Recenti studi hanno dato un’ulteriore definizione rispetto al perfezionismo adattivo e quello maladattivo (Cox, Enns, & Clara, 2002; Slade & Owens 1998).

Il perfezionismo maladattivo è caratterizzato da standard eccessivamente elevati, dalla presenza costante di dubbi sulle proprie azioni, preoccupazioni di sbagliare, intolleranza dell’incertezza, adozione di modelli socialmente desiderabili ma non auto-determinati, spesso irrealizzabili, senza alcuna possibilità di riuscire a compiacersi della propria performance (Cox, Enns, & Clara, 2002; Slade & Owens 1998). Quindi, si presenta come una forma disfunzionale e ‘patologica’ che reca svantaggi agli individui, costantemente insoddisfatti poiché convinti di non fare mai abbastanza, vivendo uno stato di ansia e di paura rispetto al giudizio degli altri e al fallimento.

Al contrario, il perfezionismo adattivo può essere definito come una forma funzionale e ‘sana’, caratterizzata da standard prestazionali elevati, alti livelli di organizzazione, impegno costante per raggiungere i propri obiettivi, mantenendo un certo grado di flessibilità cognitiva che permetta la rivalutazione dei loro standard in base ad esperienze, eventi di vita ed eventuali richieste situazionali. Questa sembra determinare una soddisfazione personale, poiché il soggetto detiene la capacità di definire le attribuzioni delle cause di successo e insuccesso in modo realistico, riuscendo a compiacersi del proprio agito, indipendentemente dall’esito stesso della propria prestazione.

Tuttavia, una visione completa di tale costrutto non può non tenere conto di come i fattori genetici, ambientali, culturali e individuali, interagiscono fra loro determinando lo sviluppo del perfezionismo stesso.

 

Lettera alla mia terapeuta

Le donne si trovano spesso a dover affrontare diverse sfide, come quella di conciliare maternità e lavoro. I vissuti e i pensieri di due pazienti ci guidano nello scoprire più da vicino queste difficoltà.

 

Sara ha un pacchetto per me. È il regalo per il mio compleanno, lo scarto incuriosita ed esce fuori un libro L’atlante delle donne. La più aggiornata e accurata analisi di come vivono le donne nel mondo. Le dico “lo sai vero che sicuramente mi farà arrabbiare?!” e lei sorride “si certo!”. Sara è separata, ha due bimbe, ha un ruolo importante in una grande azienda e viaggia spesso per questo, un fisico mozzafiato e un’intelligenza rara. E lavora di continuo per mantenere tutto in bilico. A mio avviso le sue giornate sono di 48 ore e, se non la conoscessi bene, penserei ad una dipendenza da anfetamine o simili. La ammiro perché sinceramente non so se potrei fare qualcosa di simile. Il libro che ha scelto quindi non è un caso. Abbiamo parlato spesso di lei, della situazione femminile in generale e della difficoltà di conciliare maternità e lavoro. O forse maternità e autonomia. Sfogliamo le pagine e capitiamo a pagina 135 esattamente, dov’è stilata una lista delle faccende domestiche per le quali le donne hanno la responsabilità principale (es. tenere i rapporti con la scuola/asilo sulle questioni quotidiane, gestire gli appuntamenti medici…). La lista è lunga. Poi voltiamo pagina e viene riportato il divario europeo sullo stipendio lordo orario medio delle donne in percentuale a quello degli uomini (in Italia del 94%, anno 2014/2015). Iniziamo a riflettere sulla difficoltà delle donne di portare avanti, nel migliore dei modi, maternità e carriera. Mi sale la rabbia. “Ecco vedi lo sapevo!”. Mi sfotte, “dai ora non pensarci”, mi abbraccia e ci salutiamo. Ovviamente non pensarci per me è impossibile. Tiro fuori dal comodino una lettera consegnatami qualche settimana fa e inizio a leggere.

Cara dottoressa,

nel 1975 non ero ancora nata. Nemmeno immaginata, forse sognata. “Lettera a un bambino mai nato”, di Oriana Fallaci, esce proprio in quel periodo ed io, di quel periodo, non so nulla.

Mentre leggo faccio fatica a pensare che sia un libro di 45 anni fa. È tutto così vivido e presente. Io che sono qui con il mio lavoro e non so cosa voglio fare. Non so se le parole che ho in testa sono mie o dell’amica, del vicino di casa, dello scrittore intervistato in tv o della docente di antropologia dell’università. Io non so che fare dottoressa, questa è la verità. Non so se lasciare quell’uomo che da me non vuole figli o se inseguirlo perché forse non ne voglio nemmeno io. O forse si. È vero non c’ero nel ’75 ma non sono nemmeno così giovane da non pormi questa domanda. Ho rimandato la risposta troppo a lungo.

La mindfulness ci dice che bisogna guardare al presente e vedere ciò che desideriamo in questo momento, qui ed ora. Bella come cosa, stupenda. Ma il presente cambia di continuo. E il presente di oggi non sarà quello vissuto domani. Oggi faccio la spesa e ho voglia di una bella carbonara e prendo il tutto. Il giorno dopo mi sveglio e desidero insalata e pomodori. Ma niente non li ho presi il giorno prima. Nemmeno una spesa riesco a fare, nemmeno so cosa vorrei mangiare il giorno prima per quello dopo. Mia nonna a colazione davanti caffè, latte e biscotti mi chiedeva che volevo per cena. Io avevo solo la nausea nel pensare a carne, peperoni e pasta al sugo. E mi sembrava un dilemma insormontabile. “Fai tu” rispondevo. Ma ora a chi posso dirlo “decidi tu”? Al mio compagno? Ma so che poi lo odierei per questo. E se rimarrò con lui non voglio odiarlo, ma non voglio odiare nemmeno me stessa, con cui sicuramente rimarrò.

Non ho mai abortito ma ho fatto il test di gravidanza due volte. La prima sapevo che non sarebbe stata una gravidanza desiderata, ero giovane e lui in quel momento aveva deciso per entrambi. Ma test negativo. La seconda è stata più difficile perché una parte di me lo desiderava e stavo lì con la felicità che ci fosse qualcuno dentro di me e la paura per lo stesso motivo. Anche lì, test negativo. Non ci stavamo provando, non era il momento nemmeno quello, ma credo di aver pianto. Sentivo una perdita. Quando c’è solo l’ipotesi di qualcosa già la vivi emotivamente, come lei dottoressa mi ha spiegato. Come gli esercizi in immaginazione che facciamo. E solo ora li capisco veramente.

Forse ci penso e ripenso perché sono una perfezionista. Lo abbiamo visto nella nostra terapia. Forse vorrei essere una mamma perfetta, ma so che non lo sarò mai. E temo che poi questo bambino o questa bambina debbano sedersi dove sto io, in uno studio simile al suo, a raccontare tutto ciò che ho fallito. Lo so, lo so, si arrabbierà per questo. Ma chi non si sente sbagliato venendo in terapia? Non prediamoci in giro. Il bello, però, è che gli unici momenti in cui non mi sono sentita sbagliata sono stati quelli in studio con lei. Ma questo è un altro discorso. 

Il mio lavoro, per cui ho faticato così a lungo, si bloccherà per un figlio o una figlia. Dopo 45 anni avrò gli stessi problemi della donna della Fallaci. Se non farò quel viaggio il mio capo si sbarazzerà di me. E non posso permettermelo. La mia ginecologa e la mia endocrinologa tempo fa mi dissero che un figlio o una figlia sono della madre, che una donna quando decide di volerli deve immaginarsi da sola perché è lei che se ne dovrà occupare. Purtroppo è veramente così. E questo mi ha lasciato tristezza perché credo ancora nella figura del padre e la desidero, dall’altra invece la forza di capire che è tutto nelle mie mani se lo voglio veramente.

Grazie anche a lei dottoressa, in tutta onestà, credo che potrei essere una buona (non perfetta) madre già solo per il fatto che mi sto preoccupando così tanto per una figlia o un figlio che non sono mai stati concepiti. E credo di poter essere una buona madre perché so che mi peserà non avere più la mia libertà e questo lo so perché vorrei esserci per loro. Ma anche se è passato quasi mezzo secolo, Oriana mi starà guardando, ci starà guardando con tristezza e rabbia, perché per una donna è ancora complicato scegliere tra se stessa e suo figlio o sua figlia. Purtroppo la società ci chiede ancora di farlo e ci rimprovera se scegliamo noi stesse. Fallaci non ha sbrogliato la matassa, chi sono io per pensare di riuscirci?

Voglio accantonare ora questo dilemma perché ho la speranza di svegliarmi un giorno e di avere chiara davanti ai miei occhi la risposta. Una magia? Sì, lo è.

Magari tra altri 50 anni una donna come me non dovrà più rispondere a questo dilemma. Una magia? Sì, lo è.

Ho scritto per fermare i pensieri, o come lei preferisce, per bloccare il rimuginio.

Ci vediamo lunedì alla solita ora.

Piango mentre leggo le parole di Caterina. Anzi no, non sono sue, ma di mia sorella. O forse della ragazza che beveva il caffè stamattina al bar. O forse della maestra d’asilo. O della presentatrice in tv. O forse di Sara. O forse sono mie. O forse sono la voce di qualsiasi donna.

 

MBCT come trattamento del Disturbo da ansia da malattia ai tempi del Covid-19

Sembra che l’MBCT sia utile nel trattamento dell’ipocondria perché produce un nuovo e più accogliente rapporto con l’esperienza, osservata in modo più obiettivo e può intervenire su molti dei meccanismi ritenuti responsabili del mantenimento dell’ansia da malattia.

 

In questo periodo storico il mondo intero è afflitto dalla pandemia causata dalla diffusione del virus Covid-19. Mai come ora il virus che attacca il corpo umano, talvolta in maniera asintomatica e altre volte con sintomi e patologie letali, potrebbe accrescere la prevalenza di quello che nella quinta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali è chiamato Disturbo d’ansia da malattia, o più comunemente ipocondria (DSM-5 – American Psychiatric Association, 2014). Il disturbo d’ansia da malattia è un problema comune che colpisce la maggior parte delle persone a un certo punto della loro vita e che diventa clinicamente significativo per il 5% della popolazione generale (Gureje et al. 1997). Sebbene le preoccupazioni riguardo il contrarre malattie siano familiari a molti, la diagnosi di questa tipologia di disturbo è caratterizzata dall’escalation che va dall’avere preoccupazioni transitorie riguardo lo sviluppo di una malattia ad avere preoccupazioni croniche e invalidanti sull’avere una grave patologia. Una delle psicoterapie più efficaci per questo disturbo è quella cognitivo-comportamentale (Cognitive-Behavioural Therapy, CBT) (Sorensen et al.2011). Tuttavia, alcuni studi sulla CBT per il disturbo d’ansia da malattia hanno riportato che solo il 30% dei partecipanti ha accettato di svolgere le sessioni psicoterapeutiche (Barsky & Ahern 2004), con tassi di abbandono fino al 25-30% (Greeven et al., 2007): questo tipo di intervento potrebbe non essere sempre accettato da pazienti ipocondriaci.

Un altro approccio è la Mindfulness-Based Cognitive Therapy (MBCT) la quale adotta un modello per la cura dell’ansia da malattia simile alla CBT, ma vi differisce in quanto basata sulla consapevolezza, offrendo quindi la possibilità di cambiamento e cura in un modo piuttosto diverso, più accettabile per alcuni malati (Segal et al., 2002). Essendo la mindfulness e nello specifico la Mindfulness-Based Cognitive Therapy focalizzate sull’osservazione, l’accettazione e la consapevolezza del presente, queste differiscono con la CBT nella quale il focus è incentrato sul contenuto e il significato dei pensieri. Questo programma mindfulness-based è stato originariamente progettato per fornire una prevenzione delle ricadute della depressione ricorrente, incentrandosi sui processi cognitivi di ruminazione e reattività cognitiva (Teasdale et al. 1995). La Mindfulness-Based Cognitive Therapy combina componenti psico-educative alla mindfulness: vengono insegnate pratiche di meditazione affinché i partecipanti possano imparare a coltivare consapevolezza esperienziale diretta e accettazione senza giudizio di ciò che si manifesta in ogni momento, inclusi stati d’animo negativi e ansia. La depressione, così come l’ansia, e nello specifico disturbo da ansia da malattia, può innescare una serie di simulazioni mentali o narrazioni che vengono trattate da percorsi neurali primitivi nel cervello come minacce reali. La problematica sorge quando la modalità di elaborazione che viene utilizzata in queste simulazioni mentali è la “modalità del fare” o “doing mode”. Questa è una modalità mentale che cerca di risolvere il problema emotivo con ricordi sul passato e immagini del futuro al fine di trovare una soluzione al problema. Tuttavia, sebbene questa modalità sia una strategia utile per molte attività quotidiane, quando applicata a eventi mentali, serve solo ad aumentare i livelli di ruminazione ed il senso di impotenza e angoscia, oltre a ridurre la capacità attenzionale (Surawy et. Al, 2015). L’addestramento alla consapevolezza mira a insegnare l’accesso a una “modalità dell’essere” della mente o “being mode”, vale a dire ad osservare l’esperienza momento per momento con apertura e non giudizio. Ciò consente di vedere più chiaramente la tendenza della mente a creare narrazioni che vengono considerate come realtà e di osservare le reazioni a questa tendenza, ovvero il volere che gli stati positivi continuino, gli stati negativi finiscano e gli stati neutri siano più eccitanti (Surawy et al., 2015).

Ci sono diversi motivi per affermare che la Mindfulness-Based Cognitive Therapy sia utile nel trattamento dell’ansia da malattia. In primo luogo, questa terapia produce un nuovo e più accogliente rapporto con l’esperienza, osservata in modo più obiettivo; in secondo luogo, l’MBCT può intervenire su molti dei meccanismi ritenuti responsabili del mantenimento dell’ansia da malattia (Salkovskis & Warwick 2001): preoccupazione, ruminazione ed evitamento, ipervigilanza alle sensazioni corporee con interpretazione errata di tali sensazioni, e intolleranza all’incertezza (Surawy et al., 2015).

La Mindfulness-Based Cognitive Therapy ha effetto su questi meccanismi agendo in quattro modi:

  • vivendo nel momento presente: recuperando il coinvolgimento con i momenti ordinari della vita, piacevoli in sé e ottimi rimedi per pensieri negativi orientati al sé e al futuro tipici dell’ansia da malattia (Muse et al. 2010);
  • esplorando le sensazioni corporee: sviluppando una curiosità positiva verso le sensazioni corporee, osservando come queste sono percepite e come mente e corpo reagiscono ad esse;
  • rispondendo invece di reagire: osservando l’esperienza senza giudizio, rompendo il ciclo che potrebbe portare ad avere preoccupazione ansiosa, evitamento o ruminazione;
  • acquisendo competenze per prevenire le ricadute: notando i segnali di allarme e imparando abilità che possono essere utilizzate per impedire un’escalation in un episodio di ansia da malattia (Surawy et al., 2015).

Gli studi che valutano la Mindfulness-Based Cognitive Therapy per l’ansia da malattia riportano risultati incoraggianti. Uno studio ha riportato che questo intervento psicoterapeutico ha prodotto miglioramenti significativi nei pensieri correlati alla malattia e nei sintomi somatici, che sono stati mantenuti a tre mesi dalle sessioni (Lovas e Barsky 2010). Più recentemente, uno studio clinico randomizzato che confrontava l’MBCT con altre psicoterapie ha riportato che i pazienti Mindfulness-Based Cognitive Therapy avevano meno probabilità di soddisfare i criteri per la diagnosi sia immediatamente dopo l’intervento che a un anno di follow-up (McManus et al.2012).

Quindi, poiché lo sviluppo della consapevolezza aiuta a diminuire l’ansia nel disturbo d’ansia da malattia (McManus et al. 2012), la Mindfulness-Based Cognitive Therapy potrebbe essere considerata un’utile terapia per questo tipo di problematica. Sebbene il mondo sia coinvolto in una pandemia che potrebbe accrescere i livelli di disturbo d’ansia da malattia, il protocollo MBCT si pone come un approccio alla cura per questa tipologia di disturbo.

 

I compiti a casa, quanta fatica! Mio figlio è solo svogliato? – VIDEO

Come ci si comporta davanti alla comparsa di fragilità negli apprendimenti? Nel corso dell’incontro psicologhe e logopediste hanno illustrato l’iter valutativo e riabilitativo per la presa in carico del bambino con Disturbi Specifici dell’Apprendimento. Per i nostri lettori pubblichiamo il video dell’evento.

 

 I disturbi specifici dell’apprendimento (DSA) rappresentano delle condizioni nelle quali risultano specificamente compromesse la capacità di apprendimento della lettura (dislessia), della scrittura (disgrafia e disortografia) e delle abilità di calcolo (discalculia).

La principale caratteristica di questi disturbi è proprio la specificità, ovvero il disturbo interessa uno specifico e circoscritto dominio di abilità indispensabile per l’apprendimento (lettura, scrittura, calcolo) lasciando intatto il funzionamento intellettivo generale. È importante intervenire tempestivamente per limitare le conseguenze negative e permettere al bambino di vivere con serenità e successo il proprio percorso scolastico e la propria quotidianità.

Come ci si comporta davanti alla comparsa di fragilità negli apprendimenti? A chi bisogna rivolgersi? Quali valutazioni sono necessarie? In caso di diagnosi che tipo di percorso riabilitativo può essere utile al bambino?

Per approfondire l’argomento, pubblichiamo oggi, per i lettori di State of Mind, il video dell’incontro “I compiti a casa, quanta fatica! Mio figlio è solo svogliato?”, condotto dalle Dott.sse M. Gianotti, S. Nicoli, psicologhe e psicoterapeute, e dalle Dott.sse F. Burani e S. Corradini, logopediste.

 

I COMPITI A CASA, QUANTA FATICA! – Guarda il video integrale del webinar:

 

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Tra depressione e masochismo: le possibili affinità e le differenze

Tracciare una linea di demarcazione tra depressione e disturbo masochistico significa cercare di differenziare due tipologie psicopatologiche che, nonostante le apparenti affinità, presentano numerosi punti di distanza.

 

In una prospettiva psicodinamica vediamo come entrambi questi disturbi ruotino attorno ad un nucleo centrale comune: una profonda sofferenza emotiva causata dalla perdita e dalla lontananza dell’oggetto amato, evento drammatico e doloroso dal quale scaturiscono sentimenti di colpevolezza, stigmatizzazione e disprezzo dapprima rivolti verso l’oggetto stesso, e in un secondo tempo spostati sul Sé, tramite un rivolgimento autoaggressivo pulsionale che assume il ruolo di meccanismo difensivo (Freud, 1917).

Malgrado questa radice patologica condivisa, tuttavia, i disturbi risultano divergenti sotto molteplici aspetti, contenutistici e altresì terapeutici.

In primo luogo la disperazione del depresso è caratterizzata da connotazioni di irreversibilità, di non mutabilità. Egli crede di aver perduto definitivamente l’oggetto d’amore, così come è convinto di non avere possibilità di stabilire un legame con lo stesso, se non quello di accoglierlo inconsciamente nella propria dimensione egoica. L’oggetto è definitivamente morto, e l’unico modo per riunirsi ad esso è morire anch’egli.

Al contrario il masochista percepisce la perdita in una connotazione meno definitiva, e nel tentativo di mantenere una sorta di vicinanza all’oggetto perpetra una serie di atteggiamenti basati sul dolore autoinflitto. Ma la sua sofferenza non è volta ad un’autocolpevolizzazione rimuginante e passiva come quella del depresso; è piuttosto una sofferenza viva, che si rinnova continuamente alla ricerca di fonti esterne in grado di provocarla. Il masochista, in altre parole, cerca in ogni modo di soffrire, e di questa sofferenza si compiace poiché la reputa l’unico modo per relazionarsi all’oggetto amato. Dunque egli non cerca la sofferenza solo per autopunirsi, ma anche per mantenere in vita un rapporto con l’oggetto d’amore.

Ulteriore differenza tra i due aspetti patologici è quella che spinge il depresso a rifuggire ogni sorta di interazione sociale, laddove il masochista tende a ricercare relazioni esterne in grado di riprodurre adesivamente l’unica relazione d’amore che ritiene possibile, ovvero quella foriera di dolore e sofferenza. Quanto espresso potrebbe risultare una parziale spiegazione della propensione masochistica a relazionarsi con soggetti sadici, narcisisti, antisociali, e della pervicacia con la quale i masochisti decidono di mantenere intatto questo legame patologico pur avendo la possibilità di modificarlo in senso adattivo o di liberarsene; questa tipologia di masochismo- noto come anaclitico- manifestando tratti patologici simili al disturbo dipendente della personalità– spinge il soggetto all’accettazione di un vissuto relazionale mortificante, nella convinzione che si tratti dell’unico modo per assicurarsi la vicinanza fisica ed affettiva dell’altro. Il dolore diviene pertanto l’unica fonte gratificante, in un meccanismo paradossale che rende la sofferenza anche l’unica meta pulsionale del masochista.

Si aggiunge che tramite l’esercizio della sofferenza il masochista riesce a mantenere, al contrario del depresso, una sorta di autostima e di autocompiacimento, aspetti valutativi a loro volta strettamente connessi alla sperimentazione del dolore e dell’autodeprivazione.

In poche parole, attraverso la sofferenza il masochista crede di adempiere il proprio dovere, quindi è come se soltanto soffrendo egli si sentisse in pace con il mondo. Individui di questo genere, nel proprio percorso evolutivo, sono stati probabilmente indotti a considerare la sofferenza in una prospettiva esaltante, e a credere che il dolore e il sacrificio costituiscano l’unico modo per sentirsi apprezzati e ricevere rinforzi da parte delle principali figure affettive (McWilliams, 1994).

In certe famiglie l’oblazione e l’automortificazione sono vissute come attività nobilitanti e degne di elogio, e prospettate come mezzo di realizzazione del Sé. Ne consegue la nascita di una concezione moralizzante della sofferenza, vista come un mezzo di purificazione, di espiazione catartica, ma anche come un modo di mantenere intatta una moralità costruita sui dettami di un Super-io particolarmente intransigente.

Questo masochismo, noto con il nome di morale o a direzione introiettiva (Reik, 1941) è molto comune nelle persone che intraprendono le c.d. professioni di aiuto, nelle quali si verifica una posposizione dei propri bisogni per occuparsi di quelli degli altri, che assumono la priorità. Si tratta di una sublimazione delle pulsioni affettive in attività altruistiche che, se per certi aspetti può rivelarsi adattiva e funzionale, nel caso del masochista assume connotazioni patologiche, inflessibili e rigide, tanto da divenire l’unico modo per avvicinarsi al Sé e al Sé con l’altro. Soffrire corrisponde ad un dovere inderogabile, ma è anche un modo per dimostrare il proprio valore, per dimostrare la propria superiorità morale garantita da un’oblatività indefessa che trova nella sofferenza la più nobile forma espressiva.

Nella dimensione valutativa del depresso il dolore costituisce la giusta conseguenza alla perdita dell’oggetto, mentre in quella del masochista la punizione è l’unico modo per non perdere definitivamente l’oggetto. Ciò testimonia come l’universo emozionale del masochista, per quanto disfunzionale e autoinfliggente, sia ancora presente. Nel dolore del masochista c’è una speranza d’amore: in quello del depresso ogni speranza è perduta.

Il masochista è un depresso che continua a sperare (McWilliams, 1994). E la sua speranza è volta a credere che il legame con l’oggetto d’amore sarà mantenuto a prezzo della mortificazione, del dolore sperimentato fino all’annientamento del Sé (Bieber, 1980).

Depressione e masochismo in psicoterapia: differenze di trattamento

La differenza tra le due psicopatologie si esplica anche nel setting terapeutico. È necessario non effettuare diagnosi confusive o affrettate: trattare un depresso come un masochista e viceversa potrebbe infatti portare ad un peggioramento di entrambi gli stati patologici e creare una frattura dell’alleanza in grado di invalidare l’intero percorso terapeutico. La personalità masochista ha bisogno di scoprire che l’autoaffermazione rappresenta una fonte di autocompiacimento, e che le relazioni oggettuali meritevoli di essere coltivate non sono quelle fondate sulla sofferenza, ma quelle dove il rapporto è costruito su basi simmetriche in cui nessuno prevale sull’altro.

L’obiettivo della terapia col masochista è quello di sciogliere il suo legame libidico con un oggetto interno ‘mortificante’ che deve essere amato tramite la punizione, e la sostituzione dello stesso con un oggetto più funzionale che esalti la reciprocità e il rispetto relazionale. Si deve riuscire ad eliminare, nel masochista, il valore affettivo conferito alla sofferenza: per questo si potranno utilizzare anche tecniche terapeutiche volte alla non collusività e alla criticità della sofferenza del paziente, spingendolo a posizioni più reattive e meno accondiscendenti (McWilliams, 1994). D’altro canto, manifestazioni troppo empatiche o premurose potrebbero rafforzare in lui la convinzione che la sofferenza sia l’unico modo per stabilire legami con gli altri, persino col terapeuta, o ancor peggio provocare agiti autodistruttivi in conseguenza di una comprensione che non crede di meritare.

La terapia dell’ascolto e della rieducazione si rivela in questi casi più fruttuosa di quella farmacologica: si osserva infatti come somministrando un antidepressivo ad un masochista, non si fa che aumentare in lui la convinzione che soltanto attraverso un’autorità, una fonte esterna o un potere magico potrà trovare sollievo al suo dolore (McWilliams, 1994).

Al contrario, ove un comportamento eccessivamente correttivo venga manifestato nei confronti del depresso, la condizione di quest’ultimo potrebbe risultare aggravata da tentativi di suicidio e di abbandono della terapia. Sentirsi criticato o stigmatizzato dal terapeuta lo condurrebbe soltanto alla sperimentazione di stati d’animo più cupi e disperati, capaci di fortificare la colpevolizzazione e la disistima fino all’esito estremo.

Il depresso ha bisogno di sapere che il terapeuta non lo giudicherà, che sarà presente nei momenti di bisogno, che si mostrerà empatico con le sue reazioni emotive e affettive, in un’accettazione condivisa del Sé. Il paziente deve sentirsi compreso e accolto pur nel vuoto della sua esistenza, e ha bisogno di avvertire che il terapeuta è capace di collocarsi nella sua stessa condizione emotiva, in una prospettiva sintonica e accogliente, utile a costruire relazioni oggettuali meno abbandoniche delle precedenti e a raggiungere una stabile percezione del Sé.

 

I Fear Appeals: quando la paura educa

Di fronte ad un fear appeal avvengono due diversi processi: uno di controllo del pericolo e l’altro di controllo della paura. Il pericolo è una caratteristica dell’oggetto in questione, mentre la paura è uno stato emotivo che dipende dall’intensità percepita del pericolo.

 

Con comunicazione persuasiva si intende un messaggio destinato a un pubblico di cui si intende cambiare un atteggiamento e i comportamenti ad esso associati. Essa viene impiegata principalmente nella pubblicità e nella promozione di comportamenti salutari.

Nelle campagne sulla salute si fa spesso largo uso dei fear appeals (‘appelli alla paura’), una tipologia di comunicazione che si serve della paura suscitata nel destinatario per promuovere un cambiamento positivo nello stile di vita (Rogers & Deckner, 1975).

Il fear appeal è, dunque, un messaggio relativo ad un rischio, composto da una componente di minaccia che suscita timore e da una raccomandazione sul comportamento. Si tratta di rappresentazioni visive o verbali che mostrano le conseguenze negative di un determinato comportamento a rischio, come le immagini forti presenti sui pacchetti di sigarette o la famosa scritta ‘il fumo uccide’, accompagnate da raccomandazioni come, in questo caso, quella di rivolgersi al numero verde indicato.

In letteratura diversi modelli intendono spiegare i meccanismi alla base dei fear appeals ma i risultati emersi sono contrastanti (Tannenbaum et al., 2015).

Drive Model

Tale approccio parte dalla constatazione che le persone, sperimentando emozioni spiacevoli dovute a comunicazioni minacciose per il Sé, sono portate a ricercare soluzioni che possano ridurre questo stato di tensione (Hovland et al., 1953). La paura, dunque, agisce da ‘drive’ ovvero guida gli individui verso comportamenti che possano ridurre tale stato emotivo.

Sono state ipotizzate diverse relazioni tra efficacia del messaggio e livello di paura suscitato, ad esempio di tipo curvilineare secondo cui all’aumentare della tensione aumenta anche il cambiamento desiderato, raggiungendo un punto ottimale oltre il quale si hanno effetti avversi.

Si tratta, comunque, di un modello semplicistico dal momento che non tiene conto dei possibili mediatori interferenti tra l’esposizione del messaggio e il suo impatto.

Modello delle Risposte Parallele

Leventhal negli anni ‘70 critica il Drive Model e, mettendo in secondo piano stati emotivi e motivazione e dando invece più rilievo agli aspetti cognitivi, propone il Modello delle Risposte Parallele.

Secondo l’autore la paura non causa l’effetto persuasivo ma è semplicemente associata ad esso in maniera parallela. Di fronte ad un fear appeal avvengono due diversi processi: uno di controllo del pericolo e l’altro di controllo della paura. Il pericolo è una caratteristica dell’oggetto in questione, mentre la paura è uno stato emotivo che dipende dall’intensità percepita del pericolo.

Tramite il processo di controllo del pericolo, il destinatario del messaggio analizza le diverse alternative comportamentali e i costi e benefici associati, sfruttando dunque abilità di problem-solving, mentre tramite il processo di controllo della paura si focalizza su informazioni di tipo emotivo e intende controllare le sensazioni tramite meccanismi di diniego, negazione o altro.

Leventhal, dunque, col suo modello separa le risposte emotive da quelle cognitive e prende in considerazione le differenze individuali.

Teoria della Motivazione alla Protezione

Ronald Rogers nel 1975 propone un modello che intende esplorare le reazioni cognitive degli individui ai messaggi sui comportamenti a rischio, portando avanti il filone di ricerca nato con Leventhal sui processi di controllo del pericolo.

L’autore parte dall’indagine delle componenti che generalmente ritroviamo nei messaggi persuasivi: 1) la probabilità che la minaccia avvenga; 2) la gravità del danno; 3) l’efficacia del comportamento raccomandato per contrastare la minaccia; 4) la stimolazione dell’auto-efficacia.

A ciascuna di queste componenti corrisponde un ‘mediatore cognitivo’, ovvero delle percezioni che, a seconda della loro intensità, possono motivare o meno la persona a mettere in atto le raccomandazioni proposte. I mediatori cognitivi sono: la percezione dell’intensità della minaccia e della propria vulnerabilità, la percezione dell’efficacia della raccomandazione e la percezione della propria auto-efficacia.

Il Modello della Motivazione alla Protezione, quindi, sostiene che la motivazione alla protezione è suscitata dai processi cognitivi che mediano il messaggio.

L’autore nel 1983 propone una nuova versione del modello, introducendo due processi di valutazione: la valutazione (disadattiva) della minaccia e la valutazione delle strategie di coping.

Secondo questa revisione, la percezione di vulnerabilità e gravità è influenzata dal premio o beneficio che il soggetto ottiene adottando il comportamento rischioso (ad esempio ‘fumare mi rilassa’); se tale beneficio si palesa allora il soggetto rifiuta le raccomandazioni proposte.

Per quanto riguarda invece le strategie di coping, se la percezione dell’efficacia della risposta e dell’auto-efficacia è maggiore rispetto ai costi di esecuzione del comportamento raccomandato, allora esso verrà messo in atto.

La Teoria della Motivazione alla Protezione ha permesso, quindi, di identificare le componenti dei fear appeals, sottolineando il ruolo dei processi cognitivi nel cambiamento di atteggiamenti, intenzioni e comportamenti.

Modello Esteso dei Processi Paralleli

Uno dei modelli più recenti sui fear appeals è il Modello Esteso dei Processi Paralleli (Witte, 1992). Date le componenti del messaggio persuasivo individuate da Rogers, Witte riconosce anche le valutazioni cognitive che ne seguono sull’efficacia percepita e sulla minaccia e i possibili esiti ad esse associati, ovvero assenza di reazione, controllo del pericolo, controllo della paura.

Data una minaccia per la salute, l’individuo prima ne valuta la rilevanza e poi la gravità: se viene percepita una bassa suscettibilità e una bassa gravità allora semplicemente non reagisce al messaggio, mentre se si sente vulnerabile si impaurisce e si mobilita per cambiare la situazione.

Al tempo stesso, se il soggetto percepisce un’alta auto-efficacia e un’alta efficacia della raccomandazione allora si attiva una risposta di controllo del pericolo (motivazione alla protezione). Nel caso, invece, di una bassa auto-efficacia percepita e di dubbi sul comportamento raccomandato verrà attivato il processo di controllo della paura (motivazione difensiva).

Come si può notare, questo modello non è altro che una integrazione sistematica dei precedenti modelli.

Alternative

Come detto in introduzione, i risultati emersi sull’efficacia dei fear appeals sono piuttosto controversi. Se alcuni studi hanno dimostrato una correlazione positiva tra la paura suscitata e l’efficacia del messaggio (Stainback & Rogers, 1983), altri hanno riscontrato un effetto boomerang, ovvero una reazione nella direzione opposta a quella desiderata all’aumentare della paura (Snyder & Blood, 1992).

Altri studi ancora hanno riscontrato come effetto a medio-lungo termine di questi messaggi una ‘epidemia dell’apprension’”, ovvero una reazione di paura e preoccupazione eccessivamente prolungata (Becker, 1993).

Altri effetti riscontrati sono reazioni di aggressività o rassegnazione da parte del soggetto poiché colpevolizzato per il proprio comportamento (Minkler, 1999) e la riproduzione sociale, ovvero il rinforzo invece che il cambiamento dei comportamenti a rischio (O’Keefe, 1971).

Secondo recenti studi, un modo per promuovere cambiamenti salutari e abbandonare comportamenti a rischio è l’utilizzo dell’autoaffermazione prima dell’esposizione del messaggio persuasivo (Harris & Napper, 2005), dove con autoaffermazione si intende una procedura tramite cui i soggetti vengono invitati a riflettere sui loro valori o attributi.

Un altro metodo presentato in letteratura è l’accompagnamento al fear appeal di un prompt di pianificazione dell’azione (Leventhal et al., 1965).

 

Regolazione emotiva e disturbi del comportamento alimentare

Una buona regolazione emotiva si associa a migliori esiti a livello di salute, benessere relazionale e lavorativo, la sua compromissione, invece, è stata tradizionalmente associata al rischio di soffrire di patologie mentali, tra cui i disturbi alimentari.

 

La regolazione emotiva si riferisce all’insieme di processi automatici o volontari che riguardano l’attivazione, il mantenimento, la modifica e più in generale la modulazione conscia o inconscia delle proprie esperienze emotive, al fine di rispondere alle richieste ambientali (Bargh & Williams, 2007; Gross & Thompson, 2007). 

Nel tempo sono state proposte diverse concettualizzazioni teoriche della regolazione emotiva: dal modello di Gross (1998) che descrive in modo processuale e dinamico le emozioni, al suo ampliamento in un modello più esteso che considera la regolazione come un processo valutativo suddiviso in tre fasi (Gross, 2015). Dall’identificazione della situazione si passa alla selezione della strategia di regolazione che viene in seguito implementata. Se nel tempo essa si dimostrerà efficace, verrà attivata in modo ricorrente.

Mentre una buona regolazione delle emozioni si associa a migliori esiti a livello di salute, benessere relazionale e lavorativo; la sua compromissione è stata tradizionalmente associata al rischio di soffrire di patologie mentali, tra cui i disturbi alimentari (ad es. Aldao et al., 2010).

Abbuffate o restrizioni sono strategie disadattive di evitamento o soppressione delle emozioni negative, che non vengono identificate ed affrontate in modo funzionale (Evers et al., 2010). L’alessitimia (ovvero l’incapacità di identificare le emozioni correttamente) è un fattore che coinvolge l’intero spettro dei disturbi alimentari (Westwood et al., 2017). Ad esempio, tra i pazienti con anoressia nervosa, l’incapacità di riconoscere e regolare gli affetti negativi si traduce in strategie disadattive come l’esercizio fisico eccessivo o restrizioni alimentari (Engel et al., 2013). Un aspetto inerente la regolazione emotiva, nel quale differiscono i sottotipi di disturbi alimentari, è la sfera del controllo degli impulsi (American Psychiatric Association, 2013). Mentre i pazienti bulimici hanno maggiori difficoltà nel regolare il comportamento, affrontando l’affetto negativo con abbuffate impulsive che aiutano nel breve termine, tra i pazienti con anoressia restrittiva non è presente questo aspetto (Smyth et al., 2007; Wild et al., 2007).

Lo scopo della meta-analisi di Prefit et al. (2019), era indagare l’associazione tra regolazione emotiva e patologia alimentare includendo 96 studi. I disturbi alimentari e le singole diagnosi specifiche sono state analizzate rispetto alle strategie adattive, che favoriscono la modulazione degli stati affettivi (consapevolezza, chiarezza emotiva, accettazione, problem-solving e reappraisal) e quelle disadattive (ruminazione, evitamento emotivo e soppressione delle emozioni).

Gli autori hanno riscontrato che non solo coloro affetti da disturbi alimentari impiegano in misura maggiore strategie di regolazione emotiva disadattive, ma questa caratteristica è presente anche in campioni non clinici con sintomi legati all’alimentazione.

Emerge una maggiore associazione tra patologia alimentare e ruminazione, intesa come processo cognitivo di focalizzazione continua su un’emozione, le sue cause e le conseguenze che comporta. Probabilmente, le preoccupazioni rivolte al controllo del peso e del cibo ingerito tra i pazienti con anoressia nervosa sono riconducibili a ruminazioni caratteristiche del disturbo (Cowdrey & Park, 2012). Mentre ruminazione ed evitamento delle emozioni suscitate alla vista della propria immagine corporea, sono maggiormente presenti nell’anoressia e bulimia, la soppressione (emotiva o cognitiva) è presente trasversalmente anche nel disturbo da alimentazione discontrollata (binge eating; Prefit et al., 2019).

Non avendo gli strumenti per regolare efficacemente gli affetti negativi propri e altrui, coloro con disturbi alimentari mostrano scarsa consapevolezza e chiarezza emotiva (cioè difficoltà nell’identificare e descrivere i sentimenti), e non accettazione delle emozioni negative. Il problem-solving, definito come l’abilità di cambiare o modificare la situazione mediante comportamenti impegnati ad un obiettivo, è scarso similmente alle capacità di rivalutare stimoli stressanti riducendone la rilevanza emotiva (reappraisal).

Per quanto concerne le strategie disadattive, i risultati in letteratura dell’associazione tra abilità di regolazione emotiva e singoli disturbi alimentari sono controversi; mentre alcuni studi identificano specifiche abilità per ciascun disturbo (ad es. Danner et al., 2014; Svaldi et al., 2012) altri, compresa la meta-analisi qui illustrata, non supportano la presenza di differenze, sostenendo che la scarsa capacità di accedere a strategie di regolazione adattive sia trans-diagnostica tra i sottotipi di disturbi alimentari (ad es. Westwood et al., 2017).

Sebbene siano necessari ulteriori studi per comprendere le differenze tra le varie classificazioni delle patologie alimentari, l’implicazione principale dei risultati riguarda la possibilità di agire con interventi clinici mirati a potenziare le strategie di regolazione emotiva adattive tra coloro con una patologia alimentare. Tra questi, gli approcci terapeutici maggiormente rilevanti nell’apprendimento di abilità di autoregolazione emotiva sono i trattamenti basati sull’accettazione che riducono l’evitamento esperenziale e la terapia cognitivo comportamentale (Baer et al., 2005; Fairburn et al., 2003).

 

Il trattamento del disturbo da gioco d’azzardo: evidenze recenti su tipologia, modalità e durata

La maggior parte delle persone dedite al gioco d’azzardo lo fa per divertimento, riuscendo a mantenere un controllo su frequenza, intensità e coinvolgimento, senza sperimentare conseguenze negative significative. Alcuni individui, però, sviluppano una forma disadattiva di comportamento associato al gioco d’azzardo con alterazioni funzionali, conseguenze negative a livello relazionale, finanziario e professionale.

Daniela Marchetti – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

A livello mondiale, si stima che tra lo 0,2 e il 2,1% degli adulti soddisfano cinque o più criteri diagnostici del disturbo da gioco d’azzardo (DGA). Un ulteriore 0,5-4,0% soddisfa un numero di criteri diagnostici compresi tra tre e quattro, soglia compatibile con la presenza di gioco d’azzardo problematico (Stucki e Rihs-Middel, 2007). Le notevoli e persistenti conseguenze negative associate ai problemi di gioco d’azzardo e DGA, tra cui la scarsa qualità di vita e gli alti tassi di suicidio, hanno rafforzato, soprattutto nell’ultimo ventennio, la necessità di individuare e garantire un trattamento efficace per tutti coloro che sperimentano livelli crescenti di intensità della sintomatologia (Potenza et al., 2019). A rendere più complicato il lavoro dei clinici e dei ricercatori contribuiscono l’estrema eterogeneità di questa popolazione dovuta a specificità nei percorsi di sviluppo della patologia che spesso si accompagnano a livelli crescenti di gravità del disturbo. Un ulteriore aspetto da considerare è l’estrema comorbilità con altri disturbi che spesso richiede trattamenti concomitanti o successivi. Infatti, il DGA risulta frequentemente associato ad aumento nell’uso di sostanze, depressione e disturbi d’ansia (Grant e Odlaug, 2015).

Nonostante i costi personali significativi conseguenti al DGA, le ricerche evidenziano che solo una piccola percentuale dei soggetti affetti richiede formalmente un trattamento. Ad esempio, Suurvali e colleghi (2008) hanno rilevato che meno del 6% dei giocatori d’azzardo problematici accede ad un percorso di trattamento strutturato. Come fattori che contribuiscono alla scarsa richiesta di cure, sono stati sottolineati: il desiderio di gestire il problema in maniera indipendente, la mancanza di informazione sui servizi terapeutici territoriali e un senso di vergogna per la propria condotta disfunzionale (Suurvali, Cordingley, Hodgins e Cunningham, 2009). Nonostante vi sono evidenze sulla possibile remissione spontanea del DGA in circa il 35% delle persone, più frequentemente il decorso è cronico (Slutske, 2006). Per tali ragioni sempre più ci si interessa dell’importanza di individuare terapie di provata efficacia che possano rispondere ai bisogni di coloro che presentano un marcato comportamento disfunzionale di gioco d’azzardo.

Vengono solitamente proposti differenti approcci di trattamento: in regime di ricovero, intensivo ambulatoriale, terapia cognitivo-comportamentale (TCC) individuale o di gruppo e terapia farmacologica. Tuttavia, non tutti questi approcci hanno ricevute le dovute prove di efficacia. Sebbene attualmente non vi sia accordo su un trattamento standard, quelli più studiati sono stati probabilmente la TCC e la terapia con farmaci antagonisti degli oppioidi (Grant e Odlaug, 2015).

Sono stati pubblicati molteplici studi con disegno trasversale e alcuni studi longitudinali sugli effetti della psicoterapia nel ridurre il comportamento di gioco d’azzardo, le distorsioni cognitive che accompagnano lo sviluppo e il mantenimento del DGA e gli effetti che questa mostra su fattori legati alla sintomatologia clinica. Inoltre, è possibile annoverare un certo numero di rassegne sistematiche e meta-analisi. La TCC sembra in generale mostrare gli effetti più positivi (Petry, Ginley e Rash, 2017; Yakovenko, Quigley, Hemmelgarn, Hodgins e Ronksley, 2015) con maggior coerenza. Nello specifico la TCC e gli interventi brevi di stampo puramente motivazionale hanno mostrato una maggiore efficacia sugli outcome al post-trattamento rispetto alle condizioni di non trattamento che prevedevano l’inserimento in lista d’attesa o la partecipazione alla sola fase di assessment psicologico-clinico (Cowlishaw, Merkouris, Dowling, Anderson, Jackson e Thomas, 2012). Più recentemente Peter e colleghi (2019) hanno condotto uno studio di meta-analisi con l’obiettivo di testare un più ampio spettro di modalità terapeutiche. Tra queste, i personalized feedback interventions, sviluppati come interventi brevi, molto specifici e direttivi hanno mostrato effetti potenzialmente promettenti nel ridurre il gioco d’azzardo problematico.

Oltre alla tipologia di intervento, l’interesse dei ricercatori ha anche riguardato il ruolo che rivestono il numero di sedute di trattamento. Gli autori di una recente rassegna (Petry, Ginley e Rash, 2017) hanno evidenziato che un intervento che prevede dalle 6 alle 8 sedute di TCC e vi integra interventi di tipo motivazionali può essere considerato il più efficace sulla base degli studi condotti finora. Inoltre, i ricercatori sottolineano che interventi molto brevi che possono prevedere anche una sola seduta terapeutica possono in alcuni casi essere sufficienti. In particolare, le persone che presentano una forma subclinica del DGA, i cosiddetti giocatori d’azzardo problematici, possono mostrare alcuni effetti positivi dalla partecipazione a questa tipologia di interventi.

Tuttavia, come recentemente sottolineato da alcuni ricercatori statunitensi, le evidenze sulla durata e il numero di sedute di trattamento sono ancora lontane dal raggiungere una conclusione definitiva (Pfund, Peter, Whelan, Meyers, Ginley e Relyea (2020). In effetti emergono risultati contrastanti a seconda del disegno di ricerca e del contesto in cui gli studi sono stati effettuati. In alcuni di essi non sembrano addirittura emergere differenze statisticamente significative tra terapie svolte in un’unica sessione e terapie multi-sessione, mentre in altri casi gli outcome terapeutici migliorano al crescere del numero di sessioni previste. Come fanno notare Pfund e colleghi, gli alti tassi di drop-out registrati con questa tipologia di persone rendono necessari confronti più mirati che considerino non tanto la durata prestabilita e/o concordata del trattamento, quanto il numero di sessioni a cui il paziente realmente partecipa e la percentuale di completamento del programma terapeutico. Gli autori hanno pertanto confrontato i risultati ottenuti da quattordici studi indipendenti testando un discreto numero di outcome terapeutici, tra i quali: frequenza del gioco d’azzardo, tempo dedicato a questa attività, intensità della problematica o del disturbo. Nuovamente la TCC risulta il trattamento utilizzato maggiormente (37%) e a questo seguono TCC integrata con intervista motivazionale (32%), intervento motivazionale (16%), terapia cognitiva (10%), interventi basati su feedback personalizzati (5%). La maggior parte degli interventi sono svolti individualmente, mentre il 26% in modalità gruppale. Infine, questi trattamenti sono stati confrontanti con diverse condizioni di controllo: lista d’attesa, valutazione diagnostica, indicazione di interventi di auto-aiuto e psicoeducazione. Dai dati di meta-analisi calcolati risulta che, come ipotizzato dai ricercatori, gli esiti migliorano quando il trattamento presuppone un numero maggiore di sedute che vengono proposte ai pazienti e che vengono realmente svolte.

Tale dato generale deve tuttavia essere integrato dalle conoscenze ormai robuste che vedono le persone affette da DGA o con gioco d’azzardo problematico come una popolazione caratterizzata da forte eterogeneità che si manifesta non soltanto nei livelli di gravità e persistenza, ma anche e soprattutto nell’integrazione di caratteristiche bio-psico-sociali che danno luogo a potenziali e diversi percorsi individuali di sviluppo della problematica a cui bisogna inevitabilmente collegare obiettivi e modalità terapeutiche che consentano di programmare e prevedere interventi personalizzati sia nelle modalità sia nella durata.

 

Con gli occhi del medico di base: i disturbi psicologici nella medicina generale

Il rapporto tra corpo e psiche è un rapporto di interazione, ma l’azione della psiche sul corpo trovò in passato poca clemenza agli occhi dei medici. Oggi la medicina generale ha come compito il processo di diagnosi e di impostazione della cura e prevede la possibilità che il medico ipotizzi la presenza di fattori psicologici, implicati nel disturbo.

 

(…) mi tranquillizzò, gentile, dicendomi
che non avevo nulla di cui vergognarmi,
e che potevo continuare a fare il malato
quanto mi pareva e piaceva. Quasi
fosse un padrone di casa che dice all’ospite:
ma per carità si metta a suo agio,
si ammali pure qui da noi, senza far complimenti.
Quel suo modo rassicurante,
placido e ben intenzionato, riuscì
a calmarmi e a disarmarmi. (La sorella, Sandor Marai)

Il romanzo di Sàndor Marai, La sorella, come poche altre opere letterarie, colpisce per la capacità di raccontare in modo puntuale, vivido e analitico, le vicissitudini della malattia fisica, accompagnata da evidenti sintomi di natura psicologica. Un musicista colpito da un disturbo molto raro, viene ricoverato in una clinica e curato, grazie alla medicina e alla relazione che instaura con medici e infermiere. Da sempre, la relazione mente corpo attraversa il dibattito interno alle diverse discipline – filosofia, medicina, letteratura, psicologia, neurofisiologia, genetica – ma è con Freud, nell’ambito della cultura psicologica occidentale, che si comincia a delineare la possibilità che alcuni disturbi che coinvolgono il corpo non siano completamente spiegabili dalla medicina classica:

Il rapporto tra corpo e psiche (nell’animale come nell’uomo) è un rapporto di interazione, ma l’altro aspetto di questo rapporto, l’azione della psiche sul corpo, trovò in passato poca clemenza agli occhi dei medici. Pareva che questi temessero di accordare una certa autonomia alla vita psichica, come se con ciò abbandonassero il terreno della scientificità. Questo indirizzo unilaterale della medicina in direzione del corpo ha subito man mano negli ultimi quindici anni un mutamento che è scaturito dall’attività medica. Esiste infatti un gran numero di malati, lievi e gravi, (…) nei quali, nonostante tutti i progressi nei metodi di indagine della medicina scientifica, non sono rintracciabili segni visibili e tangibili del processo patologico né in vita né dopo la morte. (…). Si scoprì che, per lo meno in gran parte di questi malati, i segni del male non provengono se non da mutato influsso della vita psichica sul corpo, e che dunque la causa prima del disturbo è da ricercarsi nella psiche. (Freud 1890; trad.it 1967, 94-96)

Se è vero che il costrutto di malattia psicosomatica si diffonde già alla fine del diciannovesimo secolo, nel corso dei decenni successivi, Alexander ( 1950), Marty (1971), Ammon (1974) sono solo alcuni fra gli autori che hanno elaborato teorie per spiegare quelle patologie che si collocano fra mente e corpo. L’utenza del medico nelle cure primarie è eterogenea e caratterizzata da un ampio spettro di disturbi, rispetto ai quali il fattore psicologico può non presentarsi, oppure manifestarsi come elemento centrale o periferico. La medicina generale ha come compito il processo di diagnosi e di impostazione della cura che viene messo in atto grazie alle decisioni del medico, alla collaborazione del paziente, all’eventuale ricorso a test diagnostici e/o all’invio ad altri medici specialisti. Il processo diagnostico prevede la possibilità che il medico ipotizzi la presenza di fattori psicologici, implicati nel disturbo. Prendendo in prestito la distinzione fra “organic” e “disfunctional” citata da Porcelli (2009) in Medicina psicosomatica e psicologia clinica:

Per “organico” in psicosomatica si intende una condizione clinica in cui è documentabile una lesione d’organo mentre per “funzionale” si intende una condizione clinica in cui è colpita una funzione somatica ma senza evidenza di danno d’organo. La seconda coppia correlata alla prima è data dai termini “disease” e “Illness”. Entrambi sono traducibili come “malattia”, ma il primo si riferisce a una patologia di cui è nota l’eziologia (virus, deficit genetico, batterio ecc) mentre il secondo a un malessere o a un disturbo che non è determinato da un agente causale noto di tipo infettivo, genetico o ambientale. (p. 17)

Il fatto che un disturbo, in cui appare colpita una funzione somatica, non sia determinato da ragioni di tipo organico, diagnosticabili e diagnosticate, non significa necessariamente che entri in campo la componente psicologica. Alcuni eventi di natura organica infatti, spesso di passaggio, possono sfuggire alle indagini cliniche. E’ anche vero però che laddove ci si trovi davanti ad una compromissione a livello funzionale, quindi senza evidenza di danno d’organo, il medico prenderà in considerazione l’eventuale implicazione di aspetti psicologici. Se guardiamo ai pazienti con gli occhi del medico di base, mi sembra di particolare interesse il concetto di “peso relativo” (p. 91), cui fa riferimento Porcelli (2009): il clinico deve valutare quanto la componente psicologica sia implicata nel disturbo riportato dal paziente. In veste di primo fronte nei confronti dell’utenza, il medico delle cure primarie, avrà davanti a sé quattro categorie di casi:

  1. Malattie con evidenti cause organiche, che non hanno alcuna correlazione con aspetti psicologici. Dunque, nessun “peso” della componente psicologica.
  2. Disturbi funzionali, rispetto ai quali attraverso accertamenti clinici non si evidenzia nessun danno d’organo. Ipotizzabile quindi che il fattore psicologico abbia un “peso relativo”.
  3. Malattie con evidenti cause organiche alle quali si associano significativi elementi di natura psicologica (la stanchezza cronica o una percezione del dolore elevata, per esempio, in concomitanza con alcuni disturbi organici, non spiegate in modo esaustivo dagli stessi). “Il peso” della componente psicologica non è causa della malattia, ma interviene nel complicare e ampliare lo spettro dei sintomi.
  4. Disturbi psicologici, nei quali il “peso” della componente psicologica, appare centrale, esclusivo. Si tratta di pazienti che si presentano al medico di base con una sintomatologia più o meno ampia, il cui segno è evidentemente di ordine psicologico: disturbi del tono dell’umore, disturbi d’ansia ecc.

Quello che è già di per sé un processo complesso – la definizione della diagnosi e l’impostazione della cura- si arricchisce grazie all’eventuale presenza di un “peso” del fattore psicologico. Durante la fase diagnostica e terapeutica entra in gioco la qualità della comunicazione che intercorre fra medico e paziente, la fiducia che il paziente ripone nel medico e la sua disponibilità alla collaborazione, il senso di autoefficacia di entrambi. Lontani da un’ottica in cui il medico somministra una terapia ad una persona priva di ruolo nel contesto terapeutico, oggi, la narrativa del paziente circa il suo stato di salute, il suo approccio alla terapia, gli stati d’animo che lo accompagnano, sono centrali al fine della comunicazione della diagnosi, del processo di accertamento tramite esami di laboratorio, dell’impostazione della cura, della verifica di una guarigione avvenuta. McDougall (1990) dice in riferimento alle persone che riportano un disturbo psicosomatico

se ne ascolta la musica senza poter udire le parole. (p. 36)

Il “peso” della componente psicologica viene valutato non solo seguendo l’iter che comporta l’esclusione di altre cause, ma cercando di cogliere lo stato d’animo, il momento di vita, le relazioni familiari, la situazione lavorativa, la personalità, le condizioni fisiche, ascoltando quanto riportato dal paziente e cogliendo elementi non verbali che riguardano il tono della voce, la postura, la mimica facciale, ecc. Se il medico intende aprire la strada alla possibilità di accompagnare delle parole alla “musica” che sottintende il problema riportato, porterà avanti la conversazione con il paziente fino ad un eventuale invio ad un professionista della salute mentale attraverso un tipo di comunicazione che sia comprensibile e accettabile per lo stesso. Le parole “stress”, “emozioni”, “aspetti “psicologici”, vengono accolte con maggiore facilità dagli utenti della medicina generale, mentre “psicosomatico” è un’espressione che risulta di difficile collocazione agli occhi del paziente e meno appropriata all’interno di una comunicazione empatica. Che venga o meno accordato un “peso” significativo alla  componente psicologica rispetto alla genesi della malattia, il medico delle cure primarie cercherà di impostare una comunicazione con il paziente non solo sulla base della conoscenza delle caratteristiche personali dello stesso, ma anche ipotizzando quali stati di transizione accompagnano l’attuale momento di vita e l’esordio del disturbo. Fra gli stati di transizione più frequenti: l’ansia (il timore di non sentirsi in grado di affrontare l’evento malattia), la minaccia (il timore che la vita a causa della malattia cambierà in modo significativo), la colpa (il timore di aver causato, con i propri comportamenti, l’avanzare della malattia) e, infine, la tendenza a negare l’importanza, la significatività dell’evento. Farà fronte ai suddetti stati di transizione cercando un equilibrio fra la possibilità di non urtare la sensibilità del paziente e la possibilità di favorire l’autoefficacia dello stesso rispetto al farsi carico della cura. Infine, una nota in riferimento alle malattie croniche, le cui cause di frequente non sono legate ad aspetti psicologici, almeno non in modo esclusivo, ma rispetto alle quali il fattore psicologico diviene una dimensione che spesso accompagna il disturbo. La malattia cronica viene vissuta come un evento che turba l’equilibro del paziente e che genera spesso stati di ansia oltre che paura di andare incontro ad un cambiamento troppo significativo dello stile e della qualità della vita. Grazie alla conversazione, il medico ha la possibilità di verificare se la persona che ha davanti sta facendo fronte all’ ansia o ad una minaccia percepita: attraverso gli strumenti che ha a disposizione, se necessita di un suo intervento che lo aiuti a sostenere questa fase, oppure se è preferibile ipotizzare e favorire un invio ad un professionista della salute mentale.

 

Da lontano: gli effetti dell’emergenza Covid 19 e del confinamento nei bambini e nei ragazzi

Uno studio sugli effetti delle misure di contenimento del Covid-19 sui più piccoli. Quale impatto psicologico hanno avuto la pandemia e l’isolamento sui bambini e i ragazzi?

 

Quando ho deciso di occuparmi di questo piccolo studio stava terminando il mese di aprile e l’Italia si avviava ad uscire dal confinamento causa Emergenza Covid-19. Da più parti venne richiesta alle Istituzioni una maggiore attenzione alle esigenze dei bambini e dei ragazzi nella fase 2, giacché ormai da mesi permanevano in casa privati del contatto con i coetanei e con le altre persone importanti della loro vita che si trovavano al di fuori dello stretto ambito familiare.

Come Psicoterapeuta di lunga esperienza mobilitata dalle prime ore dell’emergenza sanitaria nella corretta informazione e nel trattamento del disagio psichico, constatavo delle criticità nei nuclei familiari e ricevevo richieste di rassicurazione in merito alle preoccupazioni dei genitori per le ricadute psicologiche su bambini e ragazzi causate dalla difficile, inattesa, a tratti sconvolgente situazione in cui ci siamo trovati a motivo della Pandemia da Coronavirus.

Imm. 1 – La pandemia da Covid-19 nei disegni dei bambini

Ho quindi pensato di elaborare un questionario ad hoc per valutare gli effetti di questi lunghi mesi di confinamento ed in particolare volto a mappare il cambiamento nei comportamenti e nei vissuti di bambini e ragazzi tra i 4 e i 15 anni appartenenti a diciotto nuclei familiari a me sconosciuti, individuati con la collaborazione dell’ambiente sanitario.

I genitori hanno scelto volentieri di collaborare al fine di individuare e “leggere” con l’aiuto della specialista le modificazioni delle abitudini, del tono dell’umore, della modalità di comunicazione dei figli durante la quarantena.

Il Questionario è composto da 46 domande con risposte strutturate su una scala Likert a 5 punti che vanno da “molto meno di prima” a “molto più di prima”, comprendendo le possibilità: né ora né prima, come prima e meno di prima.

I risultati sono stati degni di nota anche in considerazione del fatto che in precedenza a nessuno dei minori coinvolti era stato diagnosticato un disturbo psicologico.

In particolare si è evidenziato che:

  • il 18% dei bambini/ragazzi ha manifestato stati di tristezza ed apatia in misura maggiore rispetto a prima del confinamento;
  • Il 27% dei soggetti (tutti al di sotto dei 10 anni di età) ha avuto crisi di collera;
  • Il 45% ha espresso desiderio di contatto fisico (soprattutto tra i 6 e i 9 anni);
  • Il 22% ha avuto la tendenza ad alimentarsi troppo o male (in prevalenza nella fascia d’età 8-10 anni);
  • Il 32% è aumentato di peso, soprattutto i maschi;
  • Il 36% desiderava giocare ai videogiochi più di prima e ha richiesto di usare lo smartphone molto più di prima;
  • Il 45% ha espresso il desiderio di incontrare gli amici più di prima (di questi il 27% molto più di prima), mentre il 18% meno di prima.

I dati ci mostrano che la quarantena ha prodotto delle modificazioni importanti nel tono dell’umore, nelle abitudini alimentari, nell’utilizzo delle tecnologie e nei comportamenti dei bambini e dei ragazzi coinvolti nello studio. Di particolare rilevanza il dato sugli stati di tristezza e di apatia, che sommato a quello sulle crisi di collera, che nei bambini possono esitare nel Disturbo da disregolazione dell’umore dirompente, indica che quasi la metà del campione ha manifestato un abbattimento emotivo al limite del vissuto depressivo.

Il dato sul cambiamento in negativo delle abitudini alimentari, accostato a quello dell’incremento di peso, prevalentemente dei maschi, fa pensare ad un disagio psicologico acuito dall’esigenza, dei bambini-ragazzi, di reprimere i propri sentimenti a causa di stereotipi di genere ancora molto presenti nell’educazione, la qual cosa potrebbe aver favorito l’assunzione di cibo a scopo sedativo e/o consolatorio da monitorare nel tempo in modo che non sconfini in un disturbo della nutrizione e dell’alimentazione.

I dati relativi alla richiesta di utilizzo di computer e smartphone più e molto più di prima, collegati a quelli relativi alla ribellione alle regole, ci forniscono una immagine chiara di come le tecnologie, se pure indispensabili per garantire una continuità relazionale e didattica a distanza, tendano a creare dipendenza nei bambini e nei ragazzi, come del resto i genitori hanno confermato in fase di colloquio.

Quasi un minore su due ha manifestato per tutto il periodo del confinamento il desiderio di incontrare nuovamente i coetanei e tornare alle proprie attività soprattutto extrascolastiche in compagnia degli amici; il 18% che ha espresso tale desiderio meno di prima potrebbe segnalare una tendenza al ritiro (specie i più piccoli) o la comparsa di una sindrome della capanna (soprattutto i più grandi).

In circa la metà dei bambini / ragazzi soprattutto nella fascia di età 6-9 anni vi è stata una richiesta di maggiore contatto fisico con i genitori con la quale hanno verosimilmente cercato di compensare la deprivazione del contatto sociale, emotivo, fisico, affettivo e relazionale che stavano vivendo.

Allo scopo di sondare inoltre, le emozioni, i desideri e le mancanze dei bambini e dei ragazzi, ho deciso di effettuare una attenta analisi dei loro disegni eseguiti spontaneamente durante il confinamento ed in un caso subito dopo. Va sottolineato che il disegno è la via d’elezione per giungere all’inconscio del bambino, come enunciato da Morgestern, ma anche un gioco ed un prezioso strumento attraverso cui lo Psicologo-Psicoterapeuta può comprendere i conflitti, i traumi, le difese, le proiezioni, gli affetti del minore che nella rappresentazione grafica trasferisce se stesso.

Anche se ha trascorso la quarantena in una casa circondata dalla natura, ad O., 9 anni, manca tanto poter uscire per accompagnare la sua mamma a fare la spesa.

Rappresenta quindi, nel disegno a sinistra, la madre che si reca da sola al supermercato provvista della necessaria mascherina.

La bambina disegna inoltre un sole e delle nuvole dalle quali cade giù al suolo una fitta pioggia, segnale inequivocabile quest’ultimo di un forte stress. La raffigurazione del sole accanto al temporale, fa pensare a sentimenti contrastanti in O., compresenti e non ancora integrabili suscitati dalla percezione di una realtà perturbante ed incerta.

Imm. 2 – I disegni di O. (9 anni)

Il disagio che la situazione correlata al Coronavirus crea in O. si nota anche nel disegno centrale che è dedicato alla madre ed in cui si rappresenta piena di entusiasmo, ammiccante nell’atto di salutare ed in compagnia di un volto coperto dalla mascherina le cui gote sono rigate da lacrimoni, di un altro che manda a quel paese il virus e di un personaggio dagli occhi sgranati che non ha né naso né bocca. E’ evidente il bisogno della bambina di rassicurare la madre disegnando se stessa allegra e serena negando quindi il turbamento che prova al quale danno voce gli altri personaggi del disegno.

E’ interessante poi notare come un senso di vitalità maggiore, suggerito dalla solarità del colore giallo, compaia quando O. raffigura la natura che appare incontrastata laddove non ci sia la presenza dell’uomo.

Anche V., 7 anni, cerca di ostentare tranquillità nel disegno realizzato per la maestra che ricorda l’invio delle mascherine dalla Cina all’Italia in cui spiega cosa sia il Coronavirus, riproduce il famigerato arcobaleno con l’hashtag “andrà tutto bene” ma tradisce la forte nostalgia per la scuola in quel saluto “Ti voglio tanto tanto bene maestra Alessandra”. La bambina è particolarmente sensibile alle notizie relative all’emergenza sanitaria in quanto la mamma è infermiera e dunque coinvolta in prima persona nella lotta al virus: per la bambina sua madre è una super-eroina (disegno in alto a sinistra) alla quale dedica tanti cuori (elaborato in alto a destra).

Imm. 3 – I disegni di V. (7 anni)

La difficoltà che V. sente di attraversare nel periodo del confinamento assieme alla madre è ben rappresentata dal disegno in cui le due si incamminano verso un nuvolone minaccioso da cui si staccano alcuni enormi goccioloni di pioggia.

Imm. 4 – Disegno di V. (7 anni)

Per me che da tanti anni opero nella cura dei bambini e delle famiglie è stato emozionante assistere alla elaborazione spontanea di quello che è a tutti gli effetti un test carta-matita utilizzato dagli specialisti, quello della persona nella pioggia, variante di quello della figura umana di Machover che serve a valutare lo stress ambientale che il bambino si trova ad affrontare ed i suoi meccanismi di difesa.

Come si può osservare, rispetto ai disegni precedenti il colore scompare drasticamente ed anche se la piccola sembra mostrare fiducia nella possibilità di ripararsi con la mamma dalla situazione minacciosa sotto un grande ombrello, il nuvolone enorme e la pioggia sospesa (che non tocca terra) fanno pensare che il disagio esperito dalla bambina venga contemporaneamente percepito e banalizzato, indice, questo, della sua forza traumatica.

Toccante in un quadro così cupo quella dichiarazione d’amore alla madre scritta in alto a destra nel foglio e la fiducia che questo sentimento le salvi e le conduca fuori dalla difficoltà configurandosi come una stella polare che risplende nel cielo limpido (sotto la scritta).

I., 12 anni, e N., 7 anni, hanno trascorso la quarantena ad Exeter, città del Regno Unito in cui vivono con i genitori.

Ad I. manca tanto la scuola ed in particolare il contatto con la migliore amica indiana di cui disegna la piccola mano riportando una espressione gergale d’intesa “My hand, 1 hand”, a significare la loro grande amicizia (è molto bello notare il legame così forte tra ragazze provenienti da culture diverse, indiana ed italiana, in un contesto anglosassone che le ha perfettamente integrate ed in cui vivono in grande armonia).

Imm. 5 – Disegno di I. (12 anni)

N., invece, pensa che per affrontare la situazione ci siano delle azioni da compiere che scrive all’interno dell’arcobaleno (Be Brave, essere coraggioso, Be Happy, essere felice, Wash my hand, lavare le mie mani, Pray to God, pregare Dio, Help People, Aiutare le persone). Il bambino, che ha una indole introspettiva e spirituale, raffigura al di sopra dell’Iride alcune croci ed in basso a destra Gesù che ci guarda.

Imm. 6 – Disegno di N. (7 anni)

Anche a S., 8 anni, manca molto la sua amica del cuore e nei giorni del confinamento disegna in bianco e nero un parco giochi incolto e deserto in cui al posto dei bambini ci sono dei fiori giganti e distanziati. Rappresenta inoltre, in un altro disegno, un cuore doppio che piange e ride come a voler esprimere i suoi sentimenti contrastanti: da una parte la piacevolezza della sua nuova routine caratterizzata da attività di gioco e dalla compagnia dei genitori nonché il contatto virtuale con le maestre ed i compagni di classe, dall’altra la tristezza per non poter uscire e tornare alla normalità antecedente alla pandemia fatta di scuola, di giochi con gli amichetti, di attività sportive ed abbracci con i nonni cui pensa con struggimento.

Imm. 7 – Disegno di S. (8 anni)

Non appena si è potuto uscire, la bimba ha raggiunto la sua amica del cuore sperimentando un certo turbamento nel doverla incontrare con la mascherina e soprattutto nel non poterla toccare.

Questo disagio si ravvisa chiaramente nell’unico disegno in cui S. ha utilizzato i colori che sono certamente un segnale di gioia per il ricongiungimento ma dove emerge al contempo la scotomizzazione dell’altra bambina che non viene mai rappresentata, o perché deve ancora giungere, o in quanto fuori dalla scena, come se collocarla accanto a sé fosse un elemento conflittuale e/o perturbante.

Paradossalmente per qualcuno il confinamento ha rappresentato la possibilità di vivere con maggiore intensità gli affetti familiari. E’ ciò che è accaduto al piccolo R., 4 anni, che ha potuto avere l’attenzione del suo papà normalmente impegnato all’estero e, dal momento che gli è nato un fratellino un mese prima della Pandemia, le giornate sono scandite da tenerezze e giochi supervisionati dalla giovane, attenta e dolcissima mamma. La soddisfazione è tale che il bimbo effettua spesso disegni in cui ritrae l’intero nucleo familiare che è il fulcro degli affetti, delle norme ma soprattutto il primo contenitore psichico del bambino e non stupisce in tal senso che uno dei più importanti test carta matita sia proprio il disegno della famiglia di L. Corman.

Imm. 8 e 9 – Disegni di R. (4 anni)

Al piccolo M., 6 anni, è mancato tanto il nonno che lo affascina da sempre con i racconti che riguardano il suo lavoro in aeroporto.

Per questo il bambino ama spesso realizzare aeroplanini di carta. Durante il confinamento però la situazione gli ispira una creazione davvero speciale: dopo essersi ritratto tra mamma e papà, forma con il disegno un aeroplano, come a voler proiettare la propria famiglia al di là della situazione difficile vissuta.

Imm. 10 – Disegno di M. (6 anni)

L’esperienza di questa ricerca mi ha molto emozionata e resa consapevole del profondo impatto psicologico che hanno avuto sui bambini ed i ragazzi la Pandemia ed il confinamento.

Ai nuclei familiari che hanno aderito e partecipato con grande disponibilità a questa ricerca dico un commosso grazie, perché mi hanno fatto entrare nelle loro case, nelle loro vite, in quello spazio sacro dell’anima dove risiedono le paure, le ombre, ma anche i sentimenti, gli affetti e le speranze tra cui quella implicitamente condivisa, a volte affermata, altre sussurrata, a tratti taciuta, ma sempre presente, che tutto possa risolversi nel miglior modo possibile soprattutto per loro, i bambini ed i ragazzi che sono la parte più preziosa di noi ed il nostro futuro.

 

Mentre la tempesta colpiva forte (2020) di Alberto Pellai – Recensione del libro

Ndr: l’articolo è stato scritto prima degli ultimi DPCM

Sei lezioni, un percorso di miglioramento. Il libro Mentre la tempesta colpiva forte ci racconta come abbiamo imparato ad essere resilienti durante i mesi del lockdown a causa della pandemia da Covid-19. 

 

Alberto Pellai, medico e psicoterapeuta dell’età evolutiva, propone un nuovo libro che ci racconta cos’è successo durante il lockdown e come la tempesta di quell’oscuro periodo si è trasformata in un’occasione di crescita e di miglioramento come genitori e come famiglia.

Il Covid-19 ci ha fermati. Ci ha costretto a rimanere chiusi nelle nostre case. Ci ha costretto a pensare, a farci delle domande. Ci ha messo in crisi.

Ma non solo. Ci ha costretto a lavorare da casa, a stare 24/24h a stretto contatto con i nostri familiari.

Nessuno si aspettava questa situazione e mai avremmo voluto affrontarla. Ma così è stato e la nostra famiglia è diventata la culla in cui ricercare sicurezze che sembravano svanite. Grazie alla nostra famiglia abbiamo affrontato la bufera e, senza sapere come, questi mesi di tempesta si sono trasformati in un bellissimo arcobaleno.

Ed è proprio questo il ‘tesoro’ che ci ha lasciato il lockdown. Chiusi nelle nostre case con i nostri familiari siamo diventati più resilienti, più sicuri, più forti.

Questo libro parla proprio di questo, di come è stato possibile diventare più resilienti, di cosa sia successo all’interno delle nostre famiglie e di come lo sconvolgimento delle dinamiche familiari ci abbia in realtà aiutato a superare le paure e le ansie del periodo più intenso e spaventoso che ci ha travolto in questi mesi.

Il libro riesamina i fatti e gli eventi che si sono susseguiti durante l’isolamento. Inoltre, analizza come ci siamo comportati in relazione alle sfide quotidiane. Queste sono state i presupposti alla base del miglioramento delle nostre capacità nel superare eventi traumatici e di difficoltà.

Le sei lezioni di Alberto Pellai raccontano di come genitori e figli hanno sofferto insieme, hanno giocato insieme e hanno avuto il coraggio di affrontare unitamente la situazione senza mai arrendersi, senza avere paura di fallire. E alla fine sono riusciti a venirne fuori. Così la tempesta e la vulnerabilità di quel momento si sono trasformate in un punto di forza per tutta l’intera famiglia.

Il libro è quindi articolato come un percorso di miglioramento.

Questo miglioramento delle capacità di resilienza non deve essere dimenticato ora che le cose stanno ‘tornando alla normalità’. È utile esplorare questo percorso e tornare indietro sui propri passi ogni qual volta ci troviamo nuovamente in difficoltà.

È proprio questo il punto secondo l’autore: tutto ciò che abbiamo fronteggiato, tutto ciò che siamo diventati, tutti i miglioramenti che abbiamo fatto come genitori e figli sono una traccia di memoria che deve rimanere viva per aiutarci nel futuro. Le pagine del libro ci invitano a dare un significato a quello che abbiamo vissuto come genitori per poterne usufruirne nelle esperienze future. L’esperienza del lockdown in questo senso deve essere un valore aggiunto all’esperienza di genitore, un’occasione per ricominciare al meglio e in serenità. La resilienza familiare ci ha fatto scoprire qualità nuove, ci ha fatto riscoprire come persone, ci ha dato nuove competenze e consapevolezze come genitori. Tutte queste virtù le porteremo sempre in tasca e saranno lì pronte e a disposizione nei momenti di difficoltà, ma soprattutto nella vita di tutti i giorni. Ci aiuteranno a fronteggiare le sfide che ogni giorno affrontiamo nel ruolo di genitori.

Minority Stress e psicopatologia nelle minoranze sessuali e nelle persone Transgender

Le persone LGBT fanno parte di minoranze sessuali e sono quindi soggette al minority stress mediante eventi di vita esterni come la discriminazione, eccessiva vigilanza nell’anticipare i fattori esterni e internalizzazione delle credenze negative esterne.

 

La terminologia utilizzata nel mondo della sessualità è in costante evoluzione, e la gamma di vocaboli che definiscono le sfumature della sfera sessuale è molto ampia. L’acronimo LGBT, “Lesbian, Gay, Bisexual, Transgender”, racchiude in parte la denominazione relativa all’orientamento sessuale, “Lesbian, Gay, Bisexual”, e in parte quella relativa all’identità di genere nel caso dei “Transgender”. Per fare chiarezza sul lessico, transgender è una persona la cui identità di genere non coincide con il genere assegnato alla nascita, mentre una persona la cui identità di genere coincide con il genere assegnato è chiamato cisgender.

Le persone LGB e transgender condividono esperienze di vita caratterizzate da stigma e discriminazione, ma le comunità che le compongono sono a loro volta contraddistinte da molte diversità. Con il termine “Donna appartenente a Minoranza Sessuale” (DMS) indichiamo tutte quelle donne definite come non-eterosessuali. Esistono tre dimensioni di orientamento sessuale: identità sessuale (ad esempio gay), attrazione sessuale, comportamento sessuale. Le DMS sono considerate non-eterosessuali in almeno una di queste tre dimensioni, come ad esempio chi si identifica come eterosessuale, ma ha avuto partner sessuali donne. Le donne transgender sono persone alle quali è stato assegnato un sesso maschile alla nascita, ma si identificano come femmine. Secondo l’opinione comune, spesso queste ultime sono considerate eterosessuali, ma al contrariopossono identificarsi come lesbiche, bisessuali o queer, o sono sessualmente attratte o attive con altre donne.

Minority Stress è un termine che indica:

uno stato che interviene tra i fattori di stress sequenziali antecedenti a uno stato minoritario culturalmente sanzionato, il conseguente pregiudizio e discriminazione, l’impatto di queste forze sulla struttura cognitiva dell’individuo con il conseguente riadattamento o fallimento adattativo. (Brooks, 1981)

Meyer spiegò questo concetto sostenendo in altre parole che le minoranze sessuali sono soggette al minority stress in tre modi: il primo è mediante eventi di vita esterni come la discriminazione, mentre gli altri due sono stressors prossimali, che consistono nell’eccessiva vigilanza nell’anticipare i fattori esterni e nell’internalizzazione delle credenze negative esterne. Questi elementi rappresentano fattori di rischio che aumentano la probabilità dell’insorgenza di disturbi psicopatologici.

In seguito, sono illustrate le principali evidenze sulle psicopatologie che possono essere correlate al minority stress che affliggono le minoranze sessuali e le comunità LGBT. Le psicopatologie saranno poste a confronto esaminandone differenze di prevalenza tra minoranze sessuali, comunità LGBT, cisgender ed eterosessuali.

Immagine corporea e disturbi dell’alimentazione

  • Un sondaggio condotto su 289.024 studenti universitari statunitensi ha rivelato che su un totale di 3,27% di DMS, il 5.11% di esse avesse assunto pillole dimagranti, numero significativamente inferiore rispetto al 4.29% di universitarie eterosessuali che avevano assunto pillole dimigranti, su un totale di 61.06% donne eterosessuali (Diemer et al., 2014).
  • Secondo le evidenze raccolte da Gay and Lesbian Medical Association and LGBT health experts, le donne lesbiche tenderebbero ad essere maggiormente in sovrappeso o obese rispetto alle donne eterosessuali (GLMA, 2001).
  • Tra gli studi svolti sulle donne appartenenti alle comunità transgender, quello condotto da Vocks su 356 partecipanti provenienti da cliniche in Austria, Germania e Svizzera, ha rivelato che durante la transizione fisica queste erano meno soddisfatte del proprio peso e immagine corporea rispetto alle donne cisgender (Vocks et al., 2009).

Disturbi dell’umore e disturbi d’ansia

  • Da un’indagine sulla popolazione statunitense svolta da Bostwick e colleghi, è emerso che donne bisessuali avessero un rischio maggiore di sviluppare disturbi d’ansia o dell’umore rispetto a donne lesbiche ed eterosessuali; allo stesso tempo, dallo stesso studio emerge che donne con comportamento omosessuale fossero a minor rischio di sviluppare disturbi dell’umore e d’ansia rispetto alle eterosessuali (Bostwick et al., 2010).
  • Numerosi studi mostrano come la popolazione transgender presenterebbe un alto tasso di depressione (Clements-Nolle et al. 2006; Nuttbrock et al. 2010), ad esempio in uno studio svolto su 191 donne transgender in Ontario, la prevalenza di questo disturbo era stimato al 61% (Khobzi Rotondi, 2011).

Suicidio

  • Nella review e meta-analisi di Hottes e colleghi, si descrive come gli studi presi in analisi abbiano consistentemente mostrato tassi più elevati di suicidalità e di tentativi suicidari nelle DMS rispetto alle donne eterosessuali (Hottes et al., 2016).
  • Dati provenienti dalle California Quality of Life Surveys mostrano come il rischio di ideazione suicidaria fosse tre volte maggiore nelle donne bisessuali rispetto alle donne eterosessuali e due volte maggiore nelle donne omosessuali rispetto alle donne eterosessuali (Blosnich et al., 2016).
  • Con la National Transgender Discrimination Survey statunitense, si è scoperto che su 6.450 transgender intervistati,il 41% aveva tentato il suicidio (Grant et al., 2011).

Abuso di sostanze

  • Numerosi studi basati sulla popolazione statunitense mostrano come le partecipanti DMS presentassero un rischio maggiore di sviluppare un disturbo da uso di alcol rispetto alle donne eterosessuali (Drabble et al., 2005; McCabe et al., 2013); inoltre, secondo le ricerche svolte da McCabe e colleghi sul popolo USA nel 2013, le DMS partecipanti erano più inclini a sviluppare un disturbo da uso di sostanze (McCabe et al., 2013; McCabe et al., 2013).
  • Secondo i dati provenienti da campioni di comunità transgender statunitensi raccolti nell’ultimo decennio, le persone transgender presentavano livelli di abuso di alcol e sostanze maggiore rispetto alla controparte cisgender (Grant et al., 2011; Benotsch et al., 2013; Keuroghlian et al., 2015).

Considerazioni sui trattamenti

Le minoranze sessuali e le persone transgender affrontano diversi ostacoli nell’accesso a cure di qualità nell’ambito della salute mentale. Anche se disponibili a cercare aiuto, queste persone spesso scoprono che il personale sanitario non è ben istruito sui loro bisogni; inoltre sono molto diffidenti rispetto al trattamento della salute mentale a causa della lunga storia di patologizzazione e stigmatizzazione dell’omosessualità e dell’identità transgender.

Ci sono molti modi con cui gli esperti di salute mentale possono migliorare la qualità delle cure per le minoranze sessuali e per le donne transgender. Dal momento in cui un cliente entra in un servizio di salute mentale, cordialità, consapevolezza LGBT del personale e disponibilità di servizi igienici neutri rispetto al genere, segnalano la presenza di un ambiente accogliente in relazione a tale aspetto. Inoltre, sarebbe auspicabile nei clinici una maggiore formazione specialistica relativamente a tale tematica affinché gli operatori stessi possano essere parte attiva per favorire il decremento dello stigma, del pregiudizio e del minority stress.

 

Cibo per la mente: dalla fame nervosa alla mindful eating – VIDEO

Il Centro Clinico Studi Cognitivi Sassuolo ha tenuto un incontro online per parlare dell’impatto che il cibo può avere a livello cerebrale, della fame nervosa e di un nuovo metodo per imparare a nutrire consapevolmente il nostro cervello: la Mindful Eating. Per i nostri lettori, il video dell’incontro.

 

Molte sono le evidenze che il cibo rappresenti una fonte indispensabile per proteggere le funzioni mentali. Ciò che mangiamo, infatti, può influenzare i processi cerebrali in modi differenti: modulando le connessioni sinaptiche, regolando i neurotrasmettitori, modificando la fluidità delle membrane cellulari e la trasmissione dei segnali nervosi. Tali modificazioni possono andare ad impattare negativamente anche su stati emotivi dolorosi.

L’incontro organizzato da Centro Clinico Studi Cognitivi Sassuolo ha avuto come argomento l’impatto che il cibo può avere a livello cerebrale ed ha approfondito il tema della fame nervosa e della Mindful Eating, un nuovo metodo per imparare a nutrire consapevolmente il nostro cervello. Questo metodo, oltre ad avere un impatto sul funzionamento cerebrale, permette di gestire gli stati emotivi connessi alla routine di tutti i giorni (stress, ansia, ecc) in relazione al cibo.

L’incontro, tenuto dalla Dott.ssa Arianna Ferretti, è stato articolato in una parte teorica e una parte pratica composta da alcuni esercizi utili per imparare a prenderci cura della nostra mente. Per i nostri lettori, pubblichiamo il video dell’evento.

 

CIBO PER LA MENTE – Guarda il video integrale del webinar:

 

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Amnesia digitale ed effetto Google: la nostra memoria estesa – Psicologia Digitale

L’amnesia digitale, digital amnesia, si differenzia dall’effetto Google, Google effect, perché la prima si riferisce alla tendenza a dimenticare le informazioni che sono memorizzate su un dispositivo digitale, mentre il secondo nello specifico alla tendenza a dimenticare ciò che si può trovare facilmente utilizzando i motori di ricerca online.

PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr. 14) Amnesia digitale ed effetto Google: la nostra memoria estesa

 

Anche se si tratta di due tendenze simili, ovvero dimenticare, sia intenzionalmente che involontariamente, informazioni che sono disponibili in formato digitale, amnesia digitale ed effetto Google non sono sinonimi.

L’amnesia digitale, digital amnesia, si differenzia dall’effetto Google, Google effect, perché la prima si riferisce alla tendenza a dimenticare le informazioni che sono memorizzate su un dispositivo digitale (come smartphone, tablet, computer), mentre il secondo nello specifico alla tendenza a dimenticare ciò che si può trovare facilmente utilizzando i motori di ricerca online.

L’amnesia digitale e l’effetto Google: cosa sono

Se adesso vi chiedessi quali sono i colori della bandiera della Nigeria probabilmente vi verrebbe in mente qualcosa ma non sareste sicuri della risposta. Così, lo chiedereste a Google. E Google vi risponderebbe in millisecondi e con esattezza, come sempre.

Siamo abituati ad ottenere risposte alle domande più disparate con un click. Nessuno sforzo, ormai è quasi un automatismo. Possiamo cercare – e trovare – su Google (o online in generale) qualsiasi informazione e curiosità, abbiamo accesso costante ad una memoria esterna illimitata.

A quanto pare ci siamo abituati a questa fonte illimitata e sempre disponibile di dati, tanto che abbiamo la tendenza a non ricordare informazioni che sappiamo di poter trovare facilmente online. E’ questo l’effetto Google, ovvero la tendenza a dimenticare le informazioni che possono essere facilmente trovate tramite motori di ricerca online.

I primi a descrivere il fenomeno sono stati Sparrow e colleghi nel 2011 che hanno testato quanto e come Internet sia diventata la nostra memoria esterna. I risultati principali della ricerca ci dicono che, anche quando sappiamo già la risposta, tendiamo comunque ad affidarci a Google per una verifica. In secondo luogo, tendiamo a non ricordare ciò che sappiamo essere disponibile online. Infine, è molto più probabile che le persone ricordino dove si trova l’informazione piuttosto che ricordare l’informazione stessa, proprio come se Google fosse una immensa libreria dove sappiamo dove andare a cercare ciò che ci serve quando ci serve.

Un altro enorme serbatoio di informazioni sono poi i dispositivi che usiamo quotidianamente, primo fra tutti lo smartphone. Alzi la mano chi si ricorda tutte le proprie password o chi sa ripetere – senza sbirciare sul cellulare! – il numero di telefono del partner. Pochi, e questo perché tendiamo ad affidare la memorizzazione di dati ai nostri dispositivi che riteniamo sempre a disposizione e sempre affidabili. Dimentichiamo quindi queste informazioni ed ecco perché questa dimenticanza viene chiamata ‘digital amnesia’. Il termine digital amnesia è stato coniato ufficialmente dal Laboratorio Kaspersky, un’azienda di sicurezza informatica che ha condotto una survey nel 2015-2016, prima in Europa e poi in Stati Uniti e India per un totale di oltre 6.000 rispondenti, per capire fino a che punto siamo dipendenti dalla tecnologia e il suo impatto sulla vita quotidiana.

In breve, l’immagine complessiva che ne è scaturita ci dice che Internet e dispositivi sono strumenti che vengono visti come ‘un’estensione del proprio cervello’ di cui non si può più fare a meno. Questa dipendenza non è ritenuta né un problema né un rischio, anzi gli intervistati si sono dichiarati contenti di poter fare affidamento su queste memorie esterne, anche quando sono consapevoli di non riuscire più a ricordare semplici dati come il numero di telefono del partner o un indirizzo. Sulla base di questi risultati il Kaspersky Lab ha coniato il termine “digital amnesia” – ovvero affidare la memorizzazione di informazioni a un dispositivo digitale.

Questa tendenza potrebbe avere un impatto sulla nostra memoria. C’è il rischio che la costante registrazione di informazioni sui dispositivi digitali ci renda meno propensi a trasferirle nella memoria a lungo termine e potrebbe anche incidere sul processo di memorizzazione, poiché usare solo la codifica digitale, per lo più visiva, rende più povero questo processo che di solito si avvale anche di altri input sensoriali.

Una nuova forma di memoria: la memoria transazionale digitale

Affidarsi a motori di ricerca o a dispositivi può essere considerata una forma di memoria transazionale (Sparrow et al., 2011). Quest’ultima, definita da Wegner nel 1985, implica la codifica, l’immagazzinamento e il recupero della conoscenza in maniera collettiva e condivisa tra membri di un gruppo. Gli individui sviluppano una “mente di gruppo”, una memoria estesa, un deposito condiviso di conoscenza. E’ un sistema potenziato, più complesso e potenzialmente più efficace di quello dei singoli. Pensiamo a sistemi come famiglia o ambiente di lavoro: i membri sviluppano una conoscenza di ciò che gli altri sanno (metaconoscenza) e sulla base di questa ogni individuo è consapevole di quali informazioni sono disponibili nel gruppo e da quale membro può recuperarle.

Wegner faceva riferimento a gruppi di persone; ora possiamo parlare di memoria transazionale digitale, dove il sistema è il mare magnum di conoscenza condivisa online.

L’amnesia digitale quindi non sarebbe che una risposta adattiva: includendo Internet e dispositivi come sistemi di memoria esterna sempre disponibili non si fa che modificare e ampliare risorse e modalità mnestiche.

Siamo sempre più in simbiosi con i nostri dispositivi digitali, sempre più interconnessi: abbiamo il vantaggio di avere accesso a una vasta gamma di informazioni. E quando le vorremo, sapremo dove e come cercarle.


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Monogamia e tradimenti: la storia naturale della vicenda amorosa. L’innamoramento e la costruzione di una storia d’amore – Una serie di Roberto Lorenzini

Oggi pubblichiamo il settimo lavoro della serie di Roberto Lorenzini, dedicata al tema della monogamia e delle sue implicazioni psicologiche, affettive, relazionali e, perché no, sessuali. Lorenzini propone una tesi forte: la monogamia non funziona. E prosegue il suo racconto esplorando lo sviluppo della vicenda amorosa e la sua prima fase: l’innamoramento.

MONOGAMIA E TRADIMENTI – (Nr. 7) L’innamoramento e la costruzione di una storia d’amore

 

7. La storia naturale della vicenda amorosa

Tornando alla psicologia e dunque ai vissuti interiori esaminiamo la cosiddetta “Storia naturale della vicenda affettivo-sessuale” che magistralmente Roland Barthes (1979) ha descritto nel suo Frammenti di un discorso amoroso.

Distinguiamo tre fasi prima di riportare quanto presente in letteratura da parte di prestigiosi ricercatori.

7.1.1 L’innamoramento e la costruzione di una storia d’amore

Certamente la spinta all’incontro è stata evolutivamente selezionata e ad essa sono associate emozioni piacevoli per salvaguardarla da dimenticanze e trascuratezze (Alberoni 1979). Perché se ci dimenticassimo di fare l’amore o di mangiare sarebbe un disastro peggiore dell’innalzamento della temperatura. In accordo con Freud mi sembra, però, che essa non sia riducibile al solo ambito della sessualità e, intesa più genericamente come “libido”, sia motore di tutti gli altri sistemi relazionali interpersonali potendo in generale definirsi come energia psichica che spinge l’essere umano allo sviluppo, alla sua espansione e all’unificazione con gli altri e l’universo tutto. Così descritta sembrerebbe una spinta vitale esclusivamente positiva. Ma è proprio la sua inarrestabile potenza che la rende potenzialmente pericolosa quando è ostacolata. Infatti, quando una forza enorme destinata ad unire incontra barriere può travolgere tutto ciò che ne ostacola il cammino. Crimini terribili sono commessi in nome dell’amore quantunque si possa poi dire che non di vero amore si trattava. L’unica speranza di spiegare quale sia il vissuto dell’innamoramento sta nella possibilità che il lettore ricordi una volta in cui è stato innamorato. Altrimenti è come tentare di descrivere l’esperienza del colore e della luce ad un cieco dalla nascita o il sapore delle fragole a un portaombrelli (Lorenzini, 2020).

Soprattutto la prima volta le persone che vivono tale stato si chiedono cosa di inspiegabile, grandioso e incontrollabile gli stia capitando con uno stupore preoccupato che ricorda lo stato d’animo che segue una forte scossa di terremoto e lascia sospesi in attesa della replica, temuta devastante. Conoscere la diagnosi pare rassicurare e così, avvezzi a classificazioni categoriali, a mio avviso insufficienti, si interrogano se si tratti di “interesse”, “amicizia”, “infatuazione”, “passione”, “desiderio sessuale”, “amicizia”, “amicizia affettuosa”, “trombamicizia” nel linguaggio dei giovani, “innamoramento“, “voler bene” o vero e proprio “amore”. Per quanto riguarda le cause di tale stato possono spiegarselo come: l’incontro di due anime gemelle, il destino, la chimica e il sesso, il volere del Signore, e così via, a seconda delle credenze che hanno sul funzionamento del mondo e degli esseri umani (Popper, 1934, 1963, 1972). Ma cosa sperimenta in effetti la persona cui accade tale tempesta? Ovvero che è “fall in love” (uso controvoglia il termine inglese ma ben rappresenta l’evento come qualcosa che ci accade) (De Boere et al., 2012).

 

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