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Bulimia Nervosa: ciò che mi nutre, mi distrugge – VIDEO

La bulimia nervosa è uno dei più comuni disturbi alimentari e comporta una tendenza a esercitare, in maniera disregolata, un eccessivo controllo sul proprio peso. Conosciamo meglio le sue caratteristiche grazie all’incontro proposto da CIP Milano.

 

II CIP Milano ha proposto una serie di incontri informativi sull’alimentazione e i disturbi alimentari rivolti a chiunque desiderasse conoscere meglio questi temi.

L’evento del 9 maggio 2020 ha trattato approfonditamente la bulimia nervosa, focalizzandosi sulle caratteristiche del disturbo e la sua sintomatologia. Questo disturbo psichico solitamente compare durante la prima adolescenza ed è caratterizzato da eccessiva e costante preoccupazione per il peso e le forme, per cui la persona inizia a seguire una dieta ferrea, presentando però poi abbuffate e vomito autoindotto.

L’incontro è stato tenuto dalla dott.ssa Martina Tramontano, psicologa e psicoterapeuta, che ha fornito esempi pratici, indicazioni utili per intraprendere un percorso di cura efficace e strategie per affrontare le problematiche quotidiane legate alla bulimia. Pubblichiamo per i nostri lettori il video dell’evento.

 

BULIMIA NERVOSA – Guarda il video integrale del webinar:

 

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L’identikit del passivo-aggressivo

Vi è mai capitato di ascoltare frasi del tipo: “Non sono arrabbiato con te”, “Qualsiasi cosa ti occorra ti aiuto io”, “Stavo semplicemente scherzando”, “Io pensavo che tu fossi a conoscenza di…”, ma in realtà il comportamento adottato intendeva esprimere esattamente il contrario. Bene! Eravate in presenza di un tipico comportamento passivo-aggressivo.

 

Il comportamento passivo-aggressivo venne storicamente identificato dal colonnello William Menniger nel corso della Seconda guerra mondiale, egli identificò alcuni particolari comportamenti da parte dei suoi soldati differenti dai soliti “ribelli”, ma in egual modo aggressivi e disfunzionali, questi comportamenti si palesavano mediante misure passive come una spiccata caparbietà, temporeggiamento, il broncio e sabotaggio passivo rispetto ai loro doveri militari.

Ad oggi tale schema comportamentale non viene identificato come una vera e propria patologia, infatti il DSM 5 lo identifica come un aspetto collegato ad alcuni disturbi, sebbene esso possa essere collegato a notevoli problematiche a livello lavorativo e ad un pattern di relazioni disfunzionali.

Il comportamento passivo-aggressivo è definito come un

modo deliberato e mascherato di esprimere sentimenti di rabbia. (Long, Long & Whitson, 2008)

Esso deriva dall’incapacità dell’individuo di esprimere e canalizzare le emozioni verso un’espressione assertiva, quest’ultima viene sostituita da un’eccelsa mistificazione delle emozioni mediante l’immagine di una persona carismatica, ironica e da una forte personalità. Questo modus operandi conduce il passivo-aggressivo ad agire mediante una sorta di non azione, motivata da emozioni e motivazioni negative e una forte ostilità. La carta d’identità del passivo-aggressivo consta delle seguenti caratteristiche:

  • Sarcasmo e ironia pungente sono estremamente spiccati;
  • Il linguaggio è caratterizzato da “frecciatine”, ma sono largamente usati anche i messaggi confusi e contradditori al fine di evitare intimità emotiva, un esempio è il famoso “Come vuoi” durante quella che si appresta a diventare una discussione. Oppure usano il silenzio come arma di difesa per far comprendere il “torto” eseguito dall’altro nei confronti del nostro passivo-aggressivo;
  • Ostilità e procrastinazione: l’aurea della persona amorevole e disponibile crolla nel momento in cui si svela la loro ostilità alimentata da un forte orgoglio, una tendenza a criticare tutto ciò che lo circonda e un malumore costante ma celato, per non parlare della tendenza continua al rimando e al lasciare incompleto quanto iniziato;
  • Quando vogliono qualcosa dall’altro, non avranno problemi a mostrarsi affabili premurosi e pieni di attenzione;
  • Tendono a fingere di dimenticare o a “fare il finto tonto” per non assumersi la responsabilità del caso;
  • Mostrano una spiccata propensione al vittimismo e a dare la colpa alle persone intorno;
  • A livello lavorativo sebbene appaiano ben disposti e collaborativi, tendono a resistere alle richieste dell’autorità in maniera indiretta, per esempio sabotando il lavoro richiesto sperando in una ripercussione sull’autorità;
  • Sono tipicamente pessimiste e tendono a ipotizzare solo l’esito negativo di qualsiasi azione, sono le classiche persone che ad una chiamata invece di dire “come stai” ti chiedono “cosa è successo”. Questo li porta a non essere mai sereni e soddisfatti di ciò che stanno vivendo, ogni momento è offuscato dal timore che qualcosa andrà male;
  • Probabilmente disporranno di una scarsissima autostima mistificato da un’immagine sicura di sé e persone da un “carattere forte”;
  • La connotazione più spiccata del comportamento passivo-aggressivo si riscontra all’interno delle relazioni, caratterizzate da un sottofondo di dipendenza affettiva e controllo manipolatorio al fine di portare l’altro a fare quello che vuole lui. Alla base di ciò pullula una forte conflittualità tra la voglia di indipendenza, il bisogno di essere accuditi e la paura dell’autonomia, in quanto temono che una volta raggiunta l’indipendenza rimarranno in balia dei pericoli in grado di ostacolare il loro finto equilibrio. Dunque, questo andamento oscillatorio porta il passivo-aggressivo a manipolare le persone vicine con un fare quasi borderline al fine di non farle andare via e ottenere sicurezza e protezione.

Ognuno di noi può assumere atteggiamenti di tipo passivo-aggressivi, ma il problema sorge nel momento in cui queste modalità diventano le uniche modalità di interazione con l’altro.

Dunque, queste persone sono come in un limbo destinati a perseverare nel circolo vizioso che va dalla ricerca dell’altro al bisogno di manipolarlo privandolo di una propria autonomia relazionale, un buon percorso di psicoterapia può aiutare queste persone a comprendere le ragioni del perenne malessere e raggiungere una consapevolezza circa i propri stati interni.

 

Gli effetti delle pratiche di meditazione sul benessere corporeo

Come le pratiche di meditazione agiscono su meccanismi neurofisiologici, neuroendocrini e substrati neurochimici, gli stessi che sottostanno al miglioramento in patologie cardiovascolari, neurologiche ed autoimmuni?

 

L’interazione mente/corpo è il fulcro d’azione principale delle pratiche meditative, le quali sono risultate utili come interventi integrativi agli attuali strumenti medici e farmacologici, in quanto la loro azione verte, oltre che sui processi cognitivi ed affettivi, anche su componenti somatiche. Sono stati riportati effetti diretti a più livelli sul sistema immunitario ed infiammatorio, nonché nella produzione ormonale e nel microbiota. Inevitabile anche la modulazione di meccanismi neurofisiologici, neuroendocrini e substrati neurochimici, gli stessi che sottostanno al miglioramento in patologie cardiovascolari, neurologiche ed autoimmuni.

Molteplici studi dimostrano come le pratiche di meditazione siano in grado di contrastare lo stato di stress tramite la modulazione delle funzioni di autoregolazione. Per stress s’intende la percezione di uno squilibrio tra richieste e risorse, la rottura di un bilanciamento omeostatico dinamico tra l’interno e l’esterno, ovvero una risposta aspecifica dell’organismo ad ogni richiesta effettuata su di esso. Quando la percezione soggettiva di equilibrio tra richieste e risorse si incrina a favore delle prime, si assiste ad un carico allostatico eccessivo che se perdura nel tempo comporta un’alterazione dei processi biologici sottostanti (gli stessi processi che sono alla base del sistema immunitario e del sistema nervoso). Le pratiche di meditazione consentono quindi di modulare tale disequilibrio, comportando una riduzione dell’eccitazione simpatica (tipica delle condizioni di stress) e un miglioramento dell’azione del sistema parasimpatico. Così facendo il soggetto che medita riacquisisce un corretto equilibrio simpato-vagale. Questo dato è importante in quanto l’iperattività dell’asse Ipotalamo-Ipofisi-Surrene (HPA) è alla base dell’insorgenza di disturbi debilitanti come Ansia e Depressione.

In aggiunta, sono stati osservati effetti sul sistema immunitario con abbassamento dei biomarcatori responsabili di infiammazioni (Pace et al., 2009) ed una maggiore risposta anticorpale dopo la somministrazione di vaccini antinfluenzali (Davidson et al., 2003). Si riscontra inoltre un aumento della melatonina nel plasma sanguigno, che sembra contribuire all’insorgenza di una sensazione di calma, consentendo la regolazione del ciclo sonno-veglia, causando sonnolenza e l’abbassamento della temperatura corporea (Jindal et al., 2013).

In ambito clinico è stato dimostrato come l’impiego della meditazione possa rivelarsi uno strumento preventivo e integrativo alle attuali cure farmacologiche per una serie di condizioni patologiche come i disordini cardiovascolari, la sindrome metabolica, l’insulino-resistenza e alcune forme tumorali. Per esempio, nello studio di Speca e colleghi (2000) è stata riportata una riduzione di sintomi da stress in soggetti con diversi tipi di cancro. Dopo la pratica meditativa infatti, i pazienti nel gruppo di trattamento, hanno riportato una riduzione del 31% dei sintomi dello stress, oltre che un miglioramento dei sintomi cardiopolmonari e gastrointestinali.

In persone con Artrite Reumatoide è stato ottenuto un miglioramento del benessere generale e riduzione del disagio correlato alla patologia (Zautra et al., 2008). E ancora, importanti evidenze sono state rilevate in relazione a condizioni patologiche tipicamente legate allo stress, come Psoriasi, Diabete di tipo 2, Fibromialgia e Artrite Reumatoide (Kabat-Zinn et al., 1998; Rosenzweig et al., 2007; Grossman et al., 2007; Pradhan et al., 2007). Ma anche verso Sclerosi Multipla e HIV, anche se attualmente risulta ancora difficile stabilire se tali evidenze siano conseguenza diretta di un effettivo beneficio di tali pratiche oppure un effetto non specifico e/o bias relativi a carenze metodologiche (Chiesa, 2010).

In conclusione, l’impiego delle pratiche meditative sembra essere molto promettente per il trattamento del dolore cronico, il quale è stato stimato come causa di sofferenza tra il 5.5% e il 33% della popolazione adulta mondiale. In una recente systematic review di Majeed et al. (2018), nella quale sono stati analizzati studi clinici randomizzati e meta-analisi, si è osservata una significativa diminuzione dei sintomi correlati al dolore cronico in soggetti appartenenti a popolazioni cliniche sottoposte a protocolli meditativi. Nello specifico è stata riportata una riduzione di intensità degli affetti negativi associati al dolore, alla paura e all’iper-vigilanza ad esso correlate, e della disabilità funzionale in pazienti con dolore persistente, nonché un significativo aumento dell’accettazione psicologica della patologia. Tale approccio è risultato efficace nel trattamento della lombalgia cronica, emicrania, mal di testa e dolore muscolo-scheletrico. Un’integrazione con gli attuali interventi terapeutici potrebbe inoltre comportare la diminuzione dell’utilizzo di farmaci, aumentando così la mobilità e il benessere.

E’ arrivata la cicogna: vivranno felici e contenti?

La nascita di un figlio è un evento che porta grande felicità, ma non di rado il passaggio da coppia a famiglia presenta complessità individuali, relazionali e trigenerazionali che possono mettere in discussione la coppia: ma come un’eventuale crisi può dimostrarsi un’opportunità migliorativa per la coppia?

 

Un lieto evento che comporta anche alcune criticità

La nascita di un figlio è tradizionalmente e culturalmente intesa come un evento gioioso, forse il più lieto in assoluto, quello di cui implicitamente il matrimonio (o la convivenza, in una visione meno culturalmente storicizzata) diviene uno step intermedio nella fase del ciclo di vita di una persona e di una coppia. Ne è prova la presenza di domande e aspettative che la società pone e ripone in una coppia composta da partner arrivati a una certa età e/o dopo un periodo di ‘sufficiente’ collaudo. Ovviamente per stabilire quale sia la ‘certa età’ e una durata del legame ‘sufficiente’ ci si appella a parametri che variano in funzione dei singoli contesti culturali e familiari. Ad ogni modo, se inizialmente le domande che una coppia si sente prevalentemente rivolgere sono del tipo ‘Allora, non è ora di andare a convivere/di sposarsi?’, non sarà sufficiente pronunciare ‘il fatidico sì’ per essersi liberati dalle curiosità altrui. In poco tempo infatti prenderanno il sopravvento domande del  tipo ‘Non è l’ora di allargare la famiglia?’ o ‘Quando pensate di fare un figlio?’. Sembra una questione di costume sociale, ma in realtà il lutto da elaborare per una mancata genitorialità (processo di per sé non facile) è a volte ulteriormente complicato anche da un senso di inadeguatezza rispetto al mancato raggiungimento delle aspettative sociali.

Che cosa succede invece alle coppie che riescono a coronare il sogno di diventare genitori? L’arrivo della cicogna rappresenta la classica ciliegina sulla torta nel percorso intrapreso per diventare una famiglia unita? Ci auguriamo di sì, per chi stesse vivendo questo importante momento, ma è utile anche considerare alcune variabili che potrebbero rendere meno idilliaca questa fase del ciclo di vita.

La nascita di un figlio può costituire un fattore di rischio per l’equilibrio di coppia e anche individuale dei genitori, magari soprattutto se il neonato ha un temperamento che lo caratterizza per difficoltà nel sonno, pianti frequenti per coliche o altri problemi e fatica nel mangiare adeguatamente: sono variabili che più facilmente implicano una difficoltà di gestione, e che rendono il bambino, suo malgrado, un alimentatore di tensioni che mette a dura prova l’equilibrio psicofisico dei genitori. Cambi radicali di ritmi, di routine, di abitudini, alterazioni del ciclo sonno-veglia e aspetti legati a eventuali preoccupazioni o senso di inadeguatezza verso i bisogni del neonato sono considerabili come fisiologiche scosse di assestamento che non per forza arriveranno a rappresentare un terremoto interno alla coppia. Vediamo però quali possono essere le faglie da cui è possibile che si sviluppino importanti scosse telluriche nella vita della coppia dei neo-genitori.

Quali sono i fattori di rischio per la coppia presenti già alle radici del desiderio della genitorialità?

Chi si occupa di urbanistica sa bene che la prima regola è non costruire in zone sismiche. Quali condizioni alla base della nascente genitorialità possono essere considerate, appunto, ‘zone sismiche’?

Innanzitutto non è scontato che la nascita di un figlio sia stata l’esito di un progetto condiviso e pianificato: per esempio può capitare che sia presente il desiderio di un figlio, ma che il suo arrivo sia considerato decisamente prematuro, perché, per esempio, possono mancare le condizioni di stabilità abitativa, economica (studi non ancora compiuti, lavori precari…) o perché la coppia non si sente ancora abbastanza ‘stabile e rodata’. Quando invece la gravidanza avviene in una coppia che non aveva mai nemmeno affrontato l’argomento, la complessità aumenta, spesso perché uno dei due partner si rivela contrario o dubitante sull’opportunità di diventare genitore, fino a verbalizzare l’idea di considerare la possibilità di un’interruzione di gravidanza volontaria. A volte può anche succedere che la gravidanza si verifichi nei tempi previsti dalla coppia fortemente desiderosa di avere un figlio, ma una variabile esterna (grave malattia o morte di un familiare, perdita del lavoro, malattia o incidente di un membro della coppia) possa complicare gli equilibri della coppia, rendendo di conseguenza più faticosa anche la gestione del neonato e delle dinamiche relazionali.

Se le situazioni appena illustrate sembrano rappresentare un ovvio terreno sismico, meno evidenti sono altri elementi che è possibile ritrovare anche in coppie in cui vi è la dichiarata intenzione di avere un figlio. Non è scontato infatti che il desiderio di genitorialità sia allo stesso livello tra i due partner: ovviamente non esiste un termometro del desiderio, ma può capitare che uno dei due sia molto più motivato, mentre l’altro risulti semplicemente ‘possibilista’ o tenda a essere adesivo al progetto dell’altro pur non vivendolo con la stessa intensità.

Può capitare anche che, a ‘parità’ di motivazioni, queste ultime siano di natura molto differente: per esempio, un partner può sentire il bisogno di parificare il proprio ruolo nei confronti di altri fratelli (che magari hanno appena avuto figli), o sentire di dover risarcire un genitore (perchè rimasto vedovo, perchè non ha potuto fare il genitore ai tempi per problemi lavorativi o di altra natura….) o di risultare più in vista per i genitori in quanto primo tra i figli a generare un erede o un nipote che sia proprio maschio o femmina: si tratta di pressioni, più o meno esplicite e consapevoli, derivanti dalle famiglie di origine, il cui ruolo è molto importante negli aspetti connessi alla genitorialità, come vedremo nel corso dell’articolo.

Vi possono però essere pressioni interne alla coppia stessa. -Quindi…- magari vi starete domandando -…nemmeno una coppia in cui entrambi i partner che condividono il medesimo grado di motivazione nell’avere un figlio, e quest’ultimo arriva nei tempi pianificati, può dirsi sicura di non essere in zona sismica? –  Esattamente così. Infatti, per esempio, costituisce un rischio il desidero di avere un figlio se questi è pensato, più o meno inconsciamente o esplicitamente, come soluzione per risolvere una crisi di coppia già in atto in modo conclamato (magari dopo un tradimento o forti tensioni), puntando tutto sul convergere su un impegno e un progetto comune per rilanciare la coppia, o anche più semplicemente perché si attraversa un periodo di stagnazione, per cui un figlio è ciò che potrebbe rivitalizzare il rapporto o l’esistenza individuale dei partner.

Tutti questi aspetti, che sono solo alcuni dei potenzialmente infiniti scenari, rappresentano il contesto in cui un neonato inizia a co-costruire l’appartenenza alla propria famiglia, un percorso psicologico le cui premesse semantiche (Ugazio, 1998) ‘si costruiscono prima della nascita del bambino e prendono corpo nell’immagine virtuale che si crea intorno a un nascituro‘ (Gandoli & Martinelli, 2008, p.32). Tale presupposto spiega come mai un figlio non è mai neutro o immune a contesti di coppia in cui vi sia conflittualità: i segnali di malessere emotivo che già nella prima infanzia possono insorgere (comportamenti non gestibili dai genitori, difficoltà legate al sonno o all’alimentazione) sono infatti considerabili come una qualità emergente del sistema familiare a cui il bambino appartiene (Gandolfi & Martinelli, 2008; Gandolfi, 2015) e che spesso, nei casi appena descritti, si caratterizza per la presenza di conflitto nella coppia genitoriale (sia essa unita o separata). D’altronde, oramai numerosi studi rendono evidente la capacità dei bambini di percepire l’emotività dei propri adulti di riferimento (Andolfi, 1999; Aucoturier & Lapierre, 2001, Fivaz-Depeursinge, Corboz-Warnery, A., 2000; Fivaz-Depeursinge, Philipp, D.A.,  Mazzoni, S, 2015.) e di costruire il proprio positioning all’interno dell’impalcatura semantica familiare (Ugazio, 1998 e 2012; Gandolfi e Martinelli, 2008; Gandolfi, 2015).

Quali rischi sono insiti nelle transizioni della nascita, dalla pancia alla culla, da figli a genitori, da coppia a triade?

Tra aspettative e motivazioni più o meno condivise e tempistiche più o meno azzeccate, la nascita del bambino segna un passaggio nel ciclo di vita della persona, che in un’ottica individuale del ciclo di vita (Scabini 1995; Cigoli, 1997) aggiunge al ruolo prevalente di figlio quello di genitore, mentre a livello di coppia (Willi, 2004) il passaggio è da diade a triade (ovviamente nel caso si tratti di un primogenito). Si tratta di transizioni che comportano dei compiti evolutivi per i neogenitori, dal punto di vista psicologico individuale e relazionale, non solo con il partner, ma anche (e soprattutto?) con la propria famiglia di origine.

Uno degli scenari più comuni, esito spesso di un investimento molto diverso rispetto alla genitorialità da parte dei due partner, è il crearsi di un legame di coppia verticale, cioè tra figlio e un genitore, che prevale su quello orizzontale (quello cioè tra la coppia dei genitori), con l’effetto di far sentire uno dei due genitori escluso. Nell’immaginario collettivo è più facile che sia la madre a sviluppare un rapporto maggiormente intenso col figlio, quasi esclusivo, facendo sì che l’uomo si senta trascurato ed escluso, ma vi sono casi in cui i ruoli sono invertiti, nonostante il maggior tempo che la madre vive accanto al figlio. Non di rado, nelle narrazioni di persone che avviano relazioni extraconiugali od occasionali, l’inizio della crisi di coppia o del bisogno di ‘evasione’ è fatto risalire proprio a un vissuto di esclusione da parte del partner in seguito alla nascita di un figlio.

Ho già accennato al ruolo delle famiglie di origine, che nel momento in cui nasce un bambino assumono una rilevanza importante da un punto di vista psicologico e relazionale. Ci sono scenari in cui il legame di entrambi i partner con le proprie famiglie di origine è sereno e vi sono le adeguate condizioni organizzative (vicinanza chilometrica, assenza di fattori quali malattie, impegni massivi su altri fronti…) per cui per la gestione del bambino si crea un legame di cooperazione caratterizzato dall’assenza di competizioni educative e/o da attribuzioni di colpe. Su che cosa sia una competizione educativa ci offre una risposta un aneddoto che chiunque abbia sperimentato una relazione nonni-genitori-figli (a prescindere da quale ruolo abbia interpretato) avrà quasi certamente vissuto: il bambino è con i nonni e quando arriva il genitore a prenderlo si vivacizza impiegando troppo tempo per prepararsi, per sistemare i giochi e dimostrandosi refrattario a ogni richiesta genitoriale. A questo punto scatta la frase da parte uno dei nonni: ‘guarda, è stato tranquillo fino a quando sei arrivato tu’ (a tale frase ricorrono talvolta anche i genitori l’uno nei confronti dell’altro, e suona come un campanello d’allarme per la quiete di coppia). Ovviamente tale frase, presa singolarmente e come episodio isolato, non è patogena, ma ci spiega come è possibile essere in presenza di una nonna che si pone come ‘super genitore’. Mi preme sottolineare che a incidere in questo scenario non è tanto quanto il bambino realmente agisca, ma i significati che gli vengono attribuiti. Non c’è bisogno di aspettare infatti capricci o comportamenti particolari: Miriam Gandolfi insegna come sia sufficiente amplificare i messaggi delle frasi che si ascoltano nelle nursery degli ospedali durante la visita dei parenti ai bambini in culla esposti al pubblico: per esempio, la frase ‘guarda come è tranquillo, hai visto che hai fatto bene a riposarti in gravidanza, come ti dicevo io’ pronunciata da una nonna alla neo-madre, è un’affermazione che non sottolinea tanto il grado di bonarietà del neonato, ma il ruolo di super consigliere e super genitore della nonna in questione (Gandolfi, 2008, p.32). A volte tale situazione può essere indice di una più ampia cornice connotata da giochi di potere tra genitori e nonni in cui, per esempio, tratti fisici o comportamenti del bambino possono essere assunti come marker della sua maggior appartenenza all’uno o all’atro ramo familiare: ‘è tutto suo nonno/ padre/zio…’, che può essere legato a motivi di orgoglio se riferiti a parenti del proprio ramo familiare, o di attribuzione di colpe e responsabilità se imputati agli esponenti dell’altra famiglia (Gandolfi, 1987).  Si possono avere situazioni in cui uno dei due genitori provenga da contesti un cui le barriere generazionali nei confronti della propria famiglia di origine sono confuse, con confini labili che possono generare meccanismi di richiamo molto potenti. Ne sono alcuni esempi, ricevere la visita dei nonni in determinati giorni e orari non condivisi dai genitori, o il pranzo domenicale come tappa obbligata, o anche le vacanze estive, vissute, in parte o in toto, insieme ai nonni. Relativamente alle vacanze estive, è curioso poi osservare come gli altri nonni reagiscono. Lo faranno pesare? E il genitore figlio dei nonni meno ‘presenti’, come si sentirà? È già stato affiliato dai suoceri per precedenti contrasti con la propria famiglia o vive un senso di colpa e di esclusione per il quale i propri genitori lo istigano?

In tutto questo, pensate a che riverberi possa avere la scelta di mandare un bambino al nido o scegliere se affidarlo ai nonni, e in tal caso, a una delle due coppie di nonni o a entrambe? In quantità di tempo uguali, oppure no? Ogni scelta rischia di essere percepita come una scelta di campo, come un affronto o un nuovo debito di riconoscenza.

Ho presentato alcuni degli scenari possibili che possono portare la coppia a un aumento delle tensioni interne e, a livello individuale, anche a una messa in discussione del legame con la propria famiglia di origine. Non solo, a prescindere dagli scenari presentati, diventare genitori implica un confrontarsi con il modello genitoriale di cui si è fatta esperienza come figli. A volte ci si trova a comportarsi proprio nei modi dei propri genitori da cui ci si era giurati di voler prendere le massime distanze. Non è infatti rara la frase: ‘ho sempre criticato i miei genitori per questo/quel comportamento, e ora sto facendo lo stesso’. Sono tante le attribuzioni di significato possibili per spiegare un tale meccanismo che a volte mette in crisi una persona.

È utile rivolgersi a uno psicologo?

Abbiamo visto come quindi un neonato e un bambino, loro malgrado, possano rapidamente passare dal rappresentare la ciliegina sulla torta di un perfetto quadro idilliaco familiare a essere un detonatore potente nella coppia genitoriale, sia per fattori strettamente riguardanti la dinamica relazionale tra i due partner, sia per questioni che affondano radici nei legami (irrisolti) con le famiglie di origine, con cui magari uno o entrambi i partner hanno il proprio vero matrimonio psicologico (Andolfi, 1999; Gandolfi, 2015).

Non è certo la nascita di un bambino che avvia e crea tali dinamiche, ‘semplicemente’ ne permette il manifestarsi in maniera più evidente, sia perché rappresenta un intenso investimento emotivo, sia perché si moltiplicano richieste di visite (ed eventuali rifiuti), di consigli, di scambi tra la coppia genitoriale e le famiglie di origine. Talvolta la situazione precipita fino ad aprire una crisi di coppia, che non è necessariamente l’anticamera della separazione, ma può essere, come l’etimologia della parola ‘crisi’ insegna, anche un’opportunità: la coppia, anche tramite l’aiuto di una consultazione psicologica, può cogliere l’occasione per ridefinire alcune dinamiche relazionali, sia interne che esterne.

A livello interno, i membri della coppia possono acquisire modalità di comunicazione più costruttiva e meno distruttiva durante le discussioni, e/o imparare a esplicitare i fattori di malcontento, favorendo un confronto aperto: si tratta di una condizione che è possibile sviluppare nel momento in cui entrambi i partner arrivino ad avere la percezione di una distribuzione equilibrata del potere, maturando l’idea che la verità è relativa. Ammettere che esistano ‘le mie ragioni e le tue ragioni’ e che ‘anche la tue ragioni hanno una certa credibilità’ sono due premesse molto importanti per far sì che i litigi possano essere costruttivi. Il mio pregiudizio è che in una coppia le discussioni siano inevitabili, sane ed evolutive: l’importante è che siano uno stimolo per confrontarsi e chiarirsi, non un modo attraverso cui i due partner si allontanino irrigidendosi sulle proprie posizioni, così come sostiene anche Beavers (1996), dopo un trentennale lavoro con coppie presso il Southwest Family Institute di Dallas, centro da lui fondato.

A livello di ridefinizione dei legami con l’esterno, una consultazione psicologica può aiutare la coppia a delimitare i propri confini con le famiglie di origine, o meglio, utilizzando una metafora di Miriam Gandolfi (2015), a regolare l’apertura e la chiusura dei ‘cancelli’ che delimitano il territorio della coppia (e della neo-famiglia). Non significa escludere ed escludersi dai propri legami familiari, ma vivere senza sensi di colpa per aver ridefinito regole, distanze ed equilibri: è possibile declinare un invito a pranzo senza provare rimorsi e non godendosi quanto si era scelto di preferire all’abituale domenica dai genitori? È possibile iscrivere il figlio al nido, per scelte educative della coppia, anche se i nonni tanto reclamavano la cura del nipotino?

Infine, vi è anche la possibilità che una crisi della coppia porti a una separazione, opzione che non in assoluto rappresenta un esito clinicamente negativo: se è vero, infatti, che si tratta di un lutto da elaborare perché rappresenta il fallimento di un progetto, è comunque un’opzione più evolutiva, sana e preferibile al mantenimento di un legame altamente disfunzionale e patogeno: anche quando fatto ‘per il bene dei bambini’, non è mai un’intenzione (ammesso che sia autentica) che si può concretizzare, date le premesse conflittuali e di disaccordo. Non solo, una separazione è spesso agita e realizzata in linea con le premesse relazionali rivelatisi disfunzionali: si tratta di una premessa pericolosa perché rischia di mantenere un legame disperante (Cigoli, Galimberti, Mombelli, 1988) tra i genitori, anche una volta separati e anche se nel tempo entrambi avranno una nuova famiglia. Un percorso di coppia può supportare i partner anche verso una separazione che aiuti a portare in salvo quanto di positivo maturato nel corso del legame e a mantenere dei rapporti costruttivi per i figli.

Adolescenti e solitudine

Nell’adolescenza, quando stabilire e mantenere relazioni sociali soddisfacenti è un compito fondamentale per lo sviluppo, la solitudine cronica è legata ad una serie di esiti negativi.

 

La solitudine, definita come la risposta emotiva negativa a una discrepanza tra la propria rete sociale desiderata e quella effettiva (Peplau e Perlman, 1982), è un’esperienza relativamente comune durante questa fase evolutiva. La sua prevalenza elevata è probabilmente dovuta a vari cambiamenti nelle aspettative sociali, nei ruoli e nelle relazioni (Qualter et al. 2015). Durante la tarda adolescenza, ad esempio, il passaggio alla vita lavorativa o all’università è una sfida in termini di mantenimento di una rete interpersonale sociale soddisfacente, di creazione di nuove relazioni e di rimodellamento di quelle esistenti (Cutrona 1982). La solitudine cronica durante questo periodo della vita rappresenta un serio motivo di preoccupazione, in quanto è associata a vari esiti negativi in termini di salute mentale. In particolare, le ricerche precedenti hanno trovato una forte associazione tra la solitudine cronica e i sintomi depressivi nell’infanzia e nell’adolescenza (Ladd e Ettekal 2013), tra la solitudine cronica e l’ansia (Vanhalst et al. 2013), l’ideazione suicidaria (Schinka et al. 2013) e l’aumento del rischio di problemi di salute fisica (Caspi et al. 2006). La solitudine temporanea ha un importante ruolo adattivo nel funzionamento sociale degli individui: può segnalare un deficit nelle interazioni sociali e quindi suscitare un tentativo riparatore di cercare o ristabilire un contatto sociale (Maner et al. 2007). Quando questa diventa cronica, l’individuo diventa ipervigile nei confronti della sfera sociale, al punto da vedere il mondo relazionale come un luogo più minaccioso (Cacioppo e Hawkley 2009): egli, a sua volta, tenderà ad isolarsi ulteriormente così da difendere se stesso dalle minacce, generando maggiore solitudine.

Il presente studio si è concentrato sull’indagine di (a) inclinazione e motivazione degli adolescenti ad accettare inviti di inclusione sociale e (b) le loro strategie di regolazione delle emozioni di fronte all’esclusione sociale.

Nello specifico, la qualità della motivazione è stata concettualizzata sulla base della teoria dell’autodeterminazione (Deci e Ryan, 2000) che postula l’esistenza di cinque tipologie di motivazione:

  • Amotivazione: soggetti che non danno valore all’attività sociale o si sentono impotenti e hanno bassi livelli di volontà. Essi tendono a non accettare un invito ad un evento sociale
  • Esterna: bassi livelli di volontà, che si accompagnano ad una regolazione emotiva esterna. Nello specifico, gli adolescenti possono accettare un invito all’inclusione sociale perché sentono che gli altri si aspettano che lo facciano o perché vogliono evitare le critiche.
  • Controllata: si accompagna ad una regolazione fondata sull’introiezione. Questi individui sentono una sorta di pressione interna e accettano un invito per evitare di sentirsi in colpa o per incrementare la propria autostima.
  • Autonoma o volitiva: si accompagnano a sentimenti di libertà psicologica e di volontà, con strategie di regolazione delle emozioni improntata sull’apprezzamento e l’attribuzione di valore alle attività interpersonali. Questi soggetti tendono ad accettare l’invito sociale perché capiscono che è importante partecipare all’evento, non soltanto per loro stessi, ma anche per le persone che li hanno invitati.
  • Intrinseca: le persone si impegnano in attività sociali per il piacere e la soddisfazione intrinseca all’attività stessa. Questi soggetti accettano di partecipare agli eventi perché credono che sarà divertente.

Per quanto riguarda le risposte emotive di fronte a situazione di esclusione sociale e le strategie utilizzate per far fronte a ciò, sono state indagate 5 strategie adattive e 4 disadattive, basate sul Cognitive Emotion Regulation Questionnaire (CERQ; Garnefski and Kraaij 2007).

Strategie adattive:

  • L’accettazione
  • L’attenzione per gli aspetti positivi
  • La rivalutazione positiva: reinterpretazione della situazione negativa attraverso la focalizzazione sui potenziali aspetti positivi.
  • La pianificazione: concentrazione su come si può migliorare la situazione.
  • La messa in prospettiva

Strategie disadattive:

  • L’attribuzione di colpa a se stesso
  • La ruminazione: la concentrazione ripetuta e passiva sugli aspetti negativi della situazione, sulle possibili cause e conseguenze.
  • La catastrofizzazione: la tendenza a esasperare gli aspetti negativi delle situazioni.
  • L’attribuzione di colpa all’altro.

In primo luogo, è stato condotto uno studio pilota di sviluppo delle misurazioni per realizzare, testare e perfezionare le vignette utilizzate nel presente studio, che ha portato a dieci vignette: cinque situazioni ipotetiche che descrivono l’inclusione sociale, del tipo ‘Una delle sue band preferite sta dando un concerto in città. Un amico la chiama per chiederle di andare al concerto con lui e qualche altro amico’, e cinque situazioni ipotetiche che descrivono l’esclusione sociale, come ad esempio ‘Riceve un messaggio da uno dei suoi amici che chiede perché non è alla festa. Non sa di quale festa si tratta e glielo chiede. Scopre che uno dei suoi amici ha dato una festa e lei non è stato invitato’. Dopo ogni vignetta di inclusione veniva chiesto ai partecipanti (N=395) di valutare la probabilità di accettare l’invito, a cui potevano rispondere con una scala Likert a 7 punti (da certamente no a certamente si). In un secondo momento veniva loro chiesto di immaginare di voler accettare l’invito, e di segnalare cinque possibili motivi derivati dalla teoria dell’autodeterminazione (Deci e Ryan, 2000). Dopo ogni vignetta di esclusione, invece, è stato chiesto di valutare cosa avrebbero pensato o fatto nella situazione, valutando così nove strategie di regolazione delle emozioni basate sul Cognitive Emotion Regulation Questionnaire (CERQ; Garnefski and Kraaij 2007). La solitudine, invece, è stata misurata per mezzo della peer-related loneliness subscale of the Loneliness and Aloneness Scale for Children and Adolescents (LACA; Marcoen et al. 1987): essa contiene 12 item, del tipo ‘Mi sento isolato da altre persone’ a cui il partecipante poteva rispondere tramite una scala Likert a 4 punti (da mai a spesso).

Vanhalst et al. (2018), hanno confrontato gli adolescenti che presentavano cinque diversi livelli di solitudine (cronica elevata, elevata in diminuzione, moderata in aumento, moderata stabile e bassa stabile) in termini di risposte alle ipotetiche vignette. I risultati hanno rivelato che il livello di solitudine correla negativamente alla probabilità di accettare inviti all’inclusione sociale. Inoltre, gli adolescenti con livelli di solitudine più elevati hanno riportato una motivazione intrinseca significativamente inferiore, mentre hanno riportato una più elevata motivazione esterna e un’amotivazione, così come erano meno capaci di focalizzarsi sugli aspetti positivi o di mettere le cose in prospettiva, e più propensi a incolpare se stessi, ad utilizzare la ruminazione e la catastrofizzazione per affrontare l’esclusione sociale.

La Deep Brain Stimulation nel Parkinson

La malattia di Parkinson colpisce negli USA l’1% circa della popolazione sopra i 50 anni e si manifesta con sintomatologia motoria a cui si associano deficit cognitivi di varia natura.

Marta Paris – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Mestre

 

Neuroanatomia e sintomatologia del morbo di Parkinson

I gangli della base (GB) sono dei nuclei profondi del telencefalo, coinvolti nel circuito motorio. In particolare, le cortecce cerebrali frontale, prefrontale e parietale inviano l’informazione motoria ai gangli della base e al talamo, che poi ritorna alla corteccia, nello specifico all’area motoria supplementare. Questo è il circuito motorio, deputato alla selezione e all’inizio dei movimenti volontari.

I gangli della base sono costituiti dal nucleo caudato, il putamen, il globus pallidus e il nucleo subtalamico. Inoltre, possiamo aggiungere la substantia nigra, una struttura del mesencefalo connessa reciprocamente con i gangli della base e con il proencefalo. Il nucleo caudato ed il putamen formano insieme lo striato, che è il bersaglio dell’input corticale ai gangli della base. Il globus pallidus è la fonte di output verso il talamo. Le altre strutture partecipano in vario modo ai circuiti che modulano la via diretta. L’ipotesi che il circuito motorio attraverso i gangli della base serva a facilitare l’inizio dei movimenti volontari è stata confermata da studi di numerose malattie dell’uomo. Secondo il modello, alla base dell’ipocinesia, una riduzione del movimento, c’è l’aumentata inibizione del talamo da parte dei gangli della base; la diminuzione dell’attività efferente dei gangli della base porta invece all’ipercinesia, un eccesso di movimento.

La malattia di Parkinson riproduce la prima condizione. Caratterizzata da ipocinesia, negli USA colpisce l’1% circa della popolazione sopra i 50 anni, i suoi sintomi comprendono lentezza dei movimenti (bradicinesia), difficoltà ad iniziare movimenti volontari (acinesia), aumento del tono muscolare (rigidità) e tremore delle mani e della mandibola più evidenti a riposo. Oltre alla sintomatologia motoria, si associano deficit cognitivi di attenzione, memoria di lavoro, difficoltà nella fluenza verbale, nel decision making e tendenza all’impulsività (Bear, Connors, & Paradiso, 2007).

La base organica del morbo di Parkinson è una degenerazione degli input che dalla substantia nigra vanno allo striato. Questi input usano la dopamina (DA) quale trasmettitore, che generalmente facilita il circuito motorio diretto attivando le cellule del putamen. La diminuzione della dopamina chiude l’imbuto che fornisce l’attivazione dell’area motoria supplementare e del nucleo ventrolaterale tramite i gangli della base, creando così un’inibizione del segnale motorio.

La maggior parte delle terapie della malattia di Parkinson hanno lo scopo di aumentare i livelli di dopamina che viene rilasciata al nucleo caudato e al putamen. Una di queste è l’assunzione farmacologica di levodopa, un precursore della dopamina, che attraversa la barriera ematoencefalica e fa aumentare la sintesi di dopamina nelle cellule della substantia nigra, alleviando così alcuni sintomi. Tuttavia, il trattamento con L-dopa non modifica il decorso della malattia, né rallenta la neurodegenerazione della substantia nigra (Bear, Connors, & Paradiso, 2007).

Dal punto di vista sintomatologico, la sfera motoria non è l’unica implicata nella malattia di Parkinson. Possono emergere sintomi cognitivi, come descritto precedentemente, in particolare deficit frontali e prefrontali di tipo esecutivo, come limitata fluenza verbale su base fonetica, errori cognitivi come la perseverazione e l’impulsività, memoria di lavoro ed elaborazione delle informazioni deficitaria, scarsa capacità di giudizio connessa a difficoltà nel processo di presa di decisione (Gurd, Kischka, & Marshall, 2013).

I sintomi neurologici e neuropsicologici vengono spesso associati a disturbi dell’umore. Nello specifico, la depressione è comune in pazienti con morbo di Parkinson, e questo ha un notevole impatto nella qualità della vita del paziente. I dati pubblicati stimano una prevalenza di significativi sintomi depressivi circa nel 35% dei pazienti, con una sottostima dell’impatto sul benessere della popolazione coinvolta in questa malattia, non escludendone quindi il coinvolgimento dei familiari e caregivers. La depressione sembra essere un fattore di stress molto più forte del deficit motorio: questo ne presuppone la correlazione, dove la sintomatologia depressiva causa un peggioramento anche a livello motorio, con ulteriori limitazioni delle autonomie della persona. Dall’altro lato, la depressione è fra i più forti predittori di inizio della terapia dopaminergica (Accolla & Pollo, 2019).

Come nelle malattie croniche, si osserva una depressione reattiva alla comunicazione della diagnosi, correlata alla paura della malattia e della disabilità attuale o futura. Nonostante questo, i disturbi dell’umore tendono a presentarsi circa 4-6 mesi prima dei sintomi motori, e molto spesso predicono la diagnosi, indicando quindi che i fattori neurobiologici sono più determinanti rispetto ai fattori psicosociali alla base della depressione. A seguito di indagini neurobiologiche in pazienti Parkinson con depressione confrontati con pazienti Parkinson senza depressione, si conferma una ridotta attività e possibile densità di materia grigia nel lobo frontale e in altre strutture limbiche corticali e sottocorticali, identificando così una sede anatomica della depressione nel Parkinson (Accolla & Pollo, 2019).

Vantaggi e svantaggi della Deep Brain Stimulation

Un ulteriore trattamento possibile per la malattia di Parkinson è la Deep Brain Stimulation (DBS) e questa risulta essere un’alternativa al trattamento farmacologico molto importante. Essa consiste nell’impianto di elettrodi che stimolano circuiti cerebrali, compensando squilibri dovuti alla carenza di neuroni dopaminergici. È una procedura chirurgica ormai consolidata che dà risultati eccellenti e che è sicura, per quanto lo possa essere un intervento chirurgico, che è sempre gravato da un minimo di rischio, quale, per esempio, il rischio di infezioni. Sono stati individuati, nello specifico, due nuclei sede di stimolazione: il nucleo subtalamico (STN) e il globus pallidus interno (GPi).

Oltre al miglioramento della sintomatologia motoria sensibile all’azione farmacologica della L-dopa del 60-80%, è stato dimostrato che la stimolazione profonda del nucleo subtalamico (STN-DBS) ha degli effetti positivi rispetto alla somministrazione del farmaco, tra cui il comportamento impulsivo dei pazienti, ma facendo emergere altre complicazioni a livello comportamentale (Lulé, et al., 2011).

Lo studio di Lulé et al. (2011) ha lo scopo quindi di indagare l’impulsività in trattamenti terapeutici differenti. Vengono confrontati i risultati di 15 pazienti PD con DBS (PD-DBS) rispettivamente accesa e spenta, con 15 pazienti PD senza DBS sotto terapia farmacologica L-dopa (PD-DA), con stessa fascia di età e durata della patologia. Vengono sottoposti a valutazione neuropsicologica per misurare il comportamento impulsivo (gambling performance), depressione, umore attuale, e performance cognitiva. Dallo studio emergono risultati interessanti: i pazienti con terapia farmacologica elevata nell’Iowa Gambling Task (test che misura l’impulsività e la capacità di decision making), scelgono più spesso le carte dal mazzo svantaggioso rispetto al gruppo di soggetti con DBS-off, dimostrando così una maggiore presenza di comportamento impulsivo e rischioso associato al farmaco. La performance di questo gruppo è paragonabile a quella di pazienti con lesione ventromediale. Il confronto fra il gruppo con farmaco PD-DA ed il gruppo PD-DBS-on evidenzia una minore riduzione del comportamento impulsivo e rischioso, a supporto dell’idea che la DBS possa agire sui circuiti frontali coinvolti nella capacità cognitiva di decision making. Dall’analisi di questo studio emerge quindi l’evidenza che gli effetti della DBS sul comportamento rischioso e sull’impulsività possono venire confusi con gli effetti della terapia farmacologica dopaminergica, e che l’impulsività diminuisce con impianto DBS ma rimane comunque un sintomo importante da tenere in considerazione (Lulé, et al., 2011).

Ulteriori studi confermano che soggetti con STN-DBS hanno una maggiore velocità di reazione allo stimolo risposta e quindi maggiore impulsività in compiti che richiedono una rapida presa di decisione, rispetto a situazioni con più alternative e che richiedono quindi maggior ragionamento prima di rispondere. Risulta molto importante studiare più approfonditamente la connessione fra il controllo dell’impulso in compiti cognitivi sperimentali e il tipo di difficoltà nel controllo evidenziata in contesto clinico (Wylie, et al., 2010).

Come descritto precedentemente, il PD non presenta soltanto una sintomatologia neurologica e cognitiva ma anche psicologica e psichiatrica. La procedura di DBS ha un effetto generale positivo sull’umore, indipendentemente dal target di stimolazione scelto. Questo confermato da una recente meta-analisi, dove è stata trovata una piccola riduzione dei sintomi depressivi, dopo impianto di DBS rispettivamente a livello del STN e GPi (Combs, et al., 2015). Un’interpretazione plausibile di questi dati potrebbe essere che, in fase avanzata di malattia, il miglioramento significativo dei sintomi motori e degli effetti collaterali della L-dopa a seguito dell’impianto DBS abbiano un notevole effetto sullo stato depressivo, indipendentemente dal livello di depressione iniziale, prima dell’intervento. Non si può escludere un coinvolgimento ed influenza della DBS nel sistema limbico, mediata indirettamente dal rilascio di neurotrasmettitori quali serotonina e noradrenalina (Accolla & Pollo, 2019).

Anche se gli effetti sul tono dell’umore sono stati studiati in diverse ricerche, rimane comunque la presenza di dati contrastanti in letteratura, probabilmente a causa di campioni e procedure di assessment differenti. Recenti risultati dimostrano un elevato rischio di suicidio a seguito di intervento DBS, la maggior parte con precedente storia di depressione. Fra tutti, potrebbe esserci un bias di selezione dei soggetti idonei all’impianto, dove i soggetti che non accettano la malattia siano più propensi a volere sottoporsi all’intervento. Questa fascia di popolazione potrebbe essere meno pronta ad accettare le conseguenze negative ed i rischi della DBS, e rimanerne delusa. Spetta quindi all’equipe clinica spiegare nei minimi dettagli vantaggi e svantaggi di questa procedura, preparare il paziente a tutte le controindicazioni del caso, e valutare tramite un assessment dettagliato e preciso le caratteristiche del soggetto, per definirlo idoneo o meno al trattamento (Accolla & Pollo, 2019).

La STN-DBS permette, se non in toto, di ridurre a livello importante la terapia farmacologica dopaminergica. La neurodegenerazione nel PD include anche le cellule dopaminergiche mesolimbiche dell’area ventrale tegmentale, che proiettano verso lo striato ventrale e verso le regioni orbitofrontali, coinvolte in funzioni non motorie come la motivazione e la ricompensa. L’interruzione completa o parziale della L-dopa porta notevoli vantaggi e miglioramenti a livello motorio, ma può essere responsabile di una manifestazione progressiva e aumentata di apatia, anedonia, e peggioramento eventuale dei sintomi depressivi, a seguito della DBS. Questo aspetto cruciale deve essere tenuto in considerazione nelle fasi postoperatorie, dato che sono sintomi che possono apparire ed aumentare lentamente e progressivamente. Un corretto assessment e una buona gestione a livello psicologico e psicoterapeutico può essere sia una forma di prevenzione che di miglioramento dell’esito dell’operazione neurologica in sé. Sintomi psichiatrici come la mania e l’ipomania a seguito di impianto DBS sono ben documentati, e possono essere gestiti anche modificando i parametri di stimolazione degli elettrodi impiantati (Accolla & Pollo, 2019).

In letteratura emergono poi dati che documentano la presenza di ipersessualità ed aumento di arousal sessuale in pazienti con disordini del movimento. Il DSM-5 descrive diverse forme di disfunzioni sessuali, inclusi i disturbi collegati al desiderio sessuale, l’arousal e l’orgasmo. Le parafilie sono descritte all’interno di un gruppo di disturbi separato, che include esibizionismo, feticismo e pedofilia. L’ipersessualità viene proposta, nell’ultima edizione del manuale, come nuovo disturbo, descritto principalmente come un disturbo del desiderio sessuale non parafiliaco, con componente di impulsività (APA, 2014). Lo studio di Teive et al. (2015) ha lo scopo di presentare una serie di casi di aumento del desiderio sessuale e di ipersessualità in un gruppo di pazienti con disturbi del movimento, tra cui anche la malattia di Parkinson. Nello specifico, vengono identificati sei soggetti PD, con forme differenti di ipersessualità e parafilie. Queste disfunzioni risultano essere causate dall’uso di agonisti dopaminergici, abuso di L-dopa, e dopo operazione DBS. Dai dati raccolti in questo studio, emerge che pazienti con PD sperimentano ipersessualità a causa del deficit di controllo degli impulsi (ICD), una conseguenza negativa della terapia farmacologica con DA e L-dopa. Inoltre, una seconda causa di ipersessualità nel PD potrebbe essere la stimolazione eccessiva dei recettori dopaminergici. In due casi su sei esaminati, l’ipersessualità era connessa alla DBS nel nucleo subtalamico (STN). Anche in questo caso, la sintomatologia venne gestita con una riduzione dei farmaci dopaminergici e con regolazione dei parametri della DBS (Teive, Moro, Moscovich, & Munhoz, 2016).

Commenti e Conclusioni

Il morbo di Parkinson è una patologia neurodegenerativa e cronica, ed attualmente non è ancora stata trovata una cura specifica. La sua natura progressiva ha portato alla luce molti sintomi oltre a quello primario di tipo motorio, proprio perché trova correlazioni a livello neurobiologico con circuiti e nuclei cerebrali adibiti ad altre funzioni cognitive ed emotive. In questo articolo abbiamo descritto i due trattamenti attualmente più diffusi per il rallentamento della degenerazione caratteristica della patologia, quali il trattamento farmacologico dopaminergico e la deep brain stimulation (DBS). Nello specifico la DBS risulta essere un intervento neurochirurgico oggigiorno diffuso e sperimentato più volte, anche su nuclei cerebrali profondi differenti, che agisce specificatamente migliorando, se non eliminando del tutto, le controindicazioni e i disturbi motori indotti dall’uso prolungato di terapia dopaminergica con L-dopa. Nonostante i vantaggi nella regolazione motoria e una leggera riduzione dell’impulsività e della disregolazione del comportamento rischioso dei soggetti, la DBS nasconde in sé alcuni punti deboli, quali la sintomatologia depressiva, l’apatia, la diminuzione della motivazione, sintomi di ansia e rischio di comportamento sucidario, proprio perché agisce stimolando le stesse zone anatomiche e i circuiti neurobiologici alla base di queste patologie psichiatriche. Visti i dati contrastanti in letteratura, è fondamentale un’analisi dettagliata e precisa dello stato neurologico, neuropsicologico e psichiatrico, strutturata su misura di paziente, considerando la sua storia di vita, lo sviluppo della patologia, non tralasciando la famiglia e la rete sociale. Data la presenza di rischi e conseguenze a seguito di impianto DBS, risulta un passaggio necessario spiegare la tipologia di intervento al paziente ed ai suoi familiari, concordando insieme la scelta più adeguata alla situazione che sta affrontando. È molto importante considerare attentamente i pro e i contro della procedura per lasciare poi il paziente libero di decidere. La psicoterapia viene considerata una delle terapie non farmacologiche con effetti più promettenti che andrebbe integrata in ogni fase di decorso della patologia, per ottenere sia un effetto di prevenzione che di supporto e cura dei sintomi psicologici e comportamentali conseguenti.

 

Disturbo da stress post-traumatico legato alla pandemia da Covid-19: gli effetti della sovraesposizione mediatica e delle fake news

La pandemia da Covid -19 ha fatto crescere il disagio mentale in tutto il mondo. Dopo il lockdown è aumentato concretamente il rischio della comparsa nella popolazione di sintomi da stress post-traumatico. Tra i vari fattori che hanno generato ansia e preoccupazione nei cittadini ci sono anche la sovraesposizione mediatica e le notizie contraddittorie diffuse da vari mezzi d’informazione.

 

In un editoriale pubblicato l’11 maggio 2020 sulla rivista World Psichiatry, il direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità Tedros Adhanon Ghebreyesus ha sottolineato come la pandemia da coronavirus abbia fatto crescere in modo significativo, in tutto il mondo, il disagio mentale. Ha inoltre affermato che esiste il rischio che si verifichi un’ondata senza precedenti di disturbi da stress post-traumatico (PDST) (Di Cugno, 2020).

Secondo un’indagine condotta in Italia dall’istituto Mario Negri, lo stress, che la pandemia da Covid-19 ha generato nella popolazione, è principalmente legato alla preoccupazione per la propria salute, alla percezione di non poter proteggere se stessi e i propri cari, all’isolamento sociale, imposto dal confinamento, e ai timori legati all’immobilismo dell’economia. I risultati dell’indagine, pubblicati a giugno 2020, indicano che per un italiano su due il lockdown è stato un trauma.

Terminato il periodo di isolamento il rischio è che si assista ad un aumento d’incidenza nella popolazione di sintomi quali: ansia, disturbi del sonno, ricordi ricorrenti del trauma, somatizzazioni e depressione tipici del disturbo da stress post traumatico. Un disturbo che non si realizza, dal punto di vista clinico, contestualmente al trauma ma necessita di tempo per costruirsi. Si tratta di una patologia che si basa sulla memoria e perciò i suoi effetti possono manifestarsi successivamente al vissuto traumatico (Occhi S., Albiol LM, Cicognani E.,2007; Castrucci, 2020).

La comunicazione mediatica ed il disturbo da stress post-traumatico

Un ulteriore motivo di stress è rappresentato da una ripetuta esposizione mediatica alle notizie sull’epidemia virale.

Le informazioni veicolate dai media, sugli eventi legati alla pandemia, possono causare un aumento dell’ansia, generare maggiori risposte allo stress e comportare la messa in atto di richieste di aiuto e strategie per la protezione della propria salute incongrue (Grafin DR et al. 2020). Da uno studio pubblicato su Sciece Advances emerge che chi sviluppa sintomi da stress, per sovraesposizione mediatica, cerca di alleviare lo stress seguendo attentamente tutte le informazioni che riguardano l’evento traumatico stesso. S’innesca così un circolo vizioso che porta ad un peggioramento del disturbo (Thompson RR, Jonsen NM et al. 2019).

Il problema strategico della comunicazione, in particolare nelle situazioni emergenziali, non consiste tanto nel far giungere un messaggio quanto nel garantire che il messaggio sappia attivare le associazioni volute dall’emittente nel ricevente. S’intende con “rumore”, quando si parla di comunicazione, tutto quanto crea disturbo alla comunicazione stessa, questo può essere di natura ambientale o interno ai partecipanti alla comunicazione. Il rumore interno a chi riceve, analogamente a quello interno a chi comunica, dipende dalla situazione emotiva, dallo stress psico-fisico e dalla mappa mentale e culturale soggettiva. A questo si aggiunge l’intenzionalità della persona che comunica. Tutto ciò spiega perché arrivare ad una comunicazione trasparente è piuttosto complesso (Anolli 2020).

Durante la pandemia la comunicazione non è stata cristallina per la presenza di numerose fake news. Tanto che, per cercare di arginare questo fenomeno, i centri per il controllo e la prevenzione delle malattie (CDC), l’OMS ed altre organizzazioni sanitarie hanno pubblicato, su una serie di piattaforme, le linee guida sui corretti comportamenti da tenere, per proteggersi dall’infezione virale e i consigli su come fronteggiare lo stress (Ministero dell Salute, 2020).

Tuttavia non c’è ancora completa conoscenza di come queste piattaforme possano essere sfruttare al meglio per supportare in modo ottimale la risposta alle emergenze e la capacità della popolazione a far fronte in maniera positiva agli eventi traumatici (Merchant RM, Laurie N.2020).

Il timore che l’incidenza di disturbi ansioso-depressivi possa aumentare significativamente rispetto ai periodi pre-pandemici ha già trovato riscontro in vari lavori scientifici (Ettman CK., AbdallaAm., Cohen Gh et al. 2020).

Per contenere gli effetti dello stress è importante attuare interventi di prevenzione, in altri termini si tratta di mettere in campo risoluzioni, su soggetti che hanno subito un trauma, prima che si instauri il disturbo vero e proprio (Occhi S., Albiol LM., Cicognani E., 2007).

Vista l’influenza che l’amplificazione mediatica e le fake news hanno nell’esporre la popolazione al disturbo da stress post-traumatico, tutte le iniziative messe in atto per ridurre tali fenomeni e per fornire ai cittadini una corretta informazione possono essere considerate strategie preventive. Occorre poi dare assistenza a quanti hanno sviluppato un PDST, con interventi terapeutici che prevedono strategie psicoterapiche e psicofarmacologiche (Foa EB et al. 2009).

 

Ipnoterapia senza trance (2020) di Giorgio Nardone – Recensione del libro

L’ipnoterapia senza trance è un’applicazione strategica della suggestione in ambito clinico.

 

In un excursus storico l’autore sottolinea la forza e il potere del linguaggio e in particolare la capacità performativa, ovvero la capacità di originare cambiamento.

Dagli antichi Sofisti, ai grandi oratori dell’Impero Romano, passando da Milton Erickson agli studi del secolo scorso della scuola di Paolo Alto guidata da Watzlawick, Nardone ripercorre le tappe dell’analisi storica del linguaggio attraverso le sue forme verbali, non verbali e paraverbali.

Influenzamento, suggestione e persuasione da sempre sfuggono allo studio dei criteri scientifici ‘quantitativi’ proprio perché si fondano su criteri ‘qualitativi’. Giornalmente sperimentiamo questi effetti nel nostro rapporto con noi stessi, con gli altri e con il mondo. Non possiamo negare i potenti effetti della persuasione e della suggestione.

Non c’è nulla nell’intelletto che non passi prima per i sensi.

Come avviene un cambiamento? Beh a noi esseri umani piace pensarci come esseri razionali guidati dalla logica ma basta osservarci un po’ più da vicino e sperimentare subito quanto la ragione sia pochissime volte motivo di cambiamento. Spesso un cambiamento è conseguenza di un’esperienza o un evento che ci tocca in primis sulle nostre corde emotive. Il cambiamento non può prescindere dal coinvolgimento emotivo nel senso più atavico del termine, la parte razionale, la ‘cognizione’ e la presa di coscienza sono sempre secondarie all’impatto emotivo.

Da sempre in campo psicologico si crede che il pensiero e le cognizioni rappresentino l’Olimpo del sapere, le moderne neuroscienze dimostrano invece che l’80% delle nostre attività cerebrali si trovano al di sotto della coscienza (Cit. pag.20).

Proprio in ambito clinico lo psicoterapeuta è chiamato a rispondere alla richiesta del paziente di cambiare qualcosa che non sta funzionando.

Qui si rende necessario tutto il potere del clinico per ciò che riguarda persuasione e suggestione, in un mix tra aderenza rigorosa alle tecniche e creatività artistica per calzare le strategie e gli stratagemmi (risultati efficaci in passato) all’unicità del paziente. Non possiamo evitare di influenzare e di essere influenzati. Il terapeuta esperto utilizza la persuasione per essere maggiormente efficace e lo fa creando un contesto in cui chi è intrappolato in un problema o disturbo possa in primis sperimentare, attraverso i sensi, un cambio di prospettiva quale primo passo per uscire dalla ricorsività del problema. L’uso sapiente di metafore, analogie, ristrutturazioni e l’alternarsi tecnico di questo tipo di linguaggio analogico (che abbassa le resistenze al cambiamento) e l’uso del linguaggio indicativo, si intrecciano in un ballo a due in cui il terapeuta accompagna il paziente a sperimentare realtà prima non considerate e, laddove ce ne fosse il bisogno, accompagna il paziente a sentire l’urgenza di agire differentemente. Agire….e non pensare, perché, di nuovo, è l’azione che produce cambiamento, la cognizione è conseguenza dell’azione.

Nella parte centrale del libro sono descritte, con abbondanza di esempi, alcune delle tecniche ‘apparentemente magiche’ quali:

  • prescrizioni
  • ristrutturazioni
  • domande performative
  • parafrasi e formule evocative

Il libro si conclude con le trascrizioni di due casi resi particolari per l’alta resistenza al cambiamento che caratterizza i pazienti. Giorgio Nardone, se mai ce ne fosse bisogno, offre un’ulteriore prova della sua efficacia persuasoria in grado, molto spesso, di salvare letteralmente la vita a persone affette da gravi disturbi psicologici. Tutto ciò non è frutto di ‘poteri magici’ (perché sfuggenti ai criteri quantitativi scientifici) ma della sapiente applicazione di strategie e stratagemmi che scientificamente nel corso del tempo si sono rivelati efficaci e di atti performativi e creativi figli di anni di pratica clinica.

La scienza a ben vedere è un ‘linguaggio’ che ha costruito l’uomo per interpretare e fare i conti con la realtà. Il principio di oggettività assoluta non può essere verificato poiché l’osservatore non può non influenzare e essere influenzato da ciò che sta osservando.

Questo scritto rappresenta…un passo in più per suggestionare la scienza ad avvicinarsi dal criterio di ‘verità assoluta’ al criterio di ‘efficacia’.

Disturbo ossessivo-compulsivo e dismorfismo corporeo: comorbilità e rischio suicidario

Il Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC) e il Disturbo da Dismorfismo Corporeo (DDC) sono due entità diagnostiche distinte, classificate dal DSM-5 come patologie inerenti lo spettro ossessivo-compulsivo.

 

Il Disturbo Ossessivo-Compulsivo, con una prevalenza stimata nel corso della vita del 2.3% (Ruscio et al., 2010), si connota per la presenza di ossessioni ricorrenti ed intrusive generanti disagio, che l’individuo cerca di ridurre mediante comportamenti o azioni mentali ripetitive.

Nonostante in passato fosse associato a basso rischio suicidario, le ricerche nell’ultimo decennio riportano un tasso significativo di comportamenti suicidari tra i pazienti con Disturbo Ossessivo-Compulsivo; variabile tra il 10 e il 53% per l’ideazione attuale e tra l’1 e il 46% per i tentativi di suicidio, in base alla presenza di comorbilità psichiatriche e gravità delle ossessioni (Angelakis et al., 2015; Dell’Osso et al., 2012).

Il Disturbo da Dismorfismo Corporeo si caratterizza per la presenza di preoccupazioni eccessive, insistenti ed angoscianti rivolte ad un difetto fisico percepito, soggetto a ripetuto controllo. La prevalenza nella popolazione generale del disturbo è di circa il 2% (Buhlmann et al., 2010). Solitamente chi ne soffre ha scarso insight, compromissione del funzionamento psicosociale e sperimenta disagio psicologico derivante dall’imbarazzo per la propria immagine corporea (Phillips, 2000; Singh & Veale, 2019). Il ritiro sociale conseguente, unito alla percezione negativa di sé e dell’ambiente, potrebbero spiegare l’elevata prevalenza di ideazione suicidaria e tentativi di suicidio; rispettivamente tra il 55 e il 68% (specifica per il DDC) e del 25% (Phillips et al., 2005).

Una recente revisione della letteratura, che ha incluso 31 studi pubblicati dal 1998 al 2020, ha esaminando le comorbilità psichiatriche di Disturbo Ossessivo-Compulsivo e Disturbo da Dismorfismo Corporeo ed i fattori che per entrambi concorrono ad aumentare il rischio suicidario (Eskander, Noha; Limbana, Therese; Khan, 2020).

Secondo l’indagine, il 90% dei pazienti con Disturbo Ossessivo-Compulsivo presentano una diagnosi concomitante; più comunemente un disturbo depressivo insorto a causa delle ossessioni, o ansioso, che aumentano significativamente il rischio suicidario (Fenske & Petersen, 2015). Tratti perfezionistici e l’alessitimia (intesa come la difficoltà a riconoscere le emozioni), si associano a comportamenti suicidari (Eskander et al., 2020). Quest’ultima, correlando con la gravità dei sintomi del Disturbo Ossessivo-Compulsivo, scarso insight e senso di responsabilità inflazionato, aumenta notevolmente l’ideazione suicidaria (De Berardis et al., 2015). Il rischio suicidario emerge con l’insorgere dell’aggressività, delle ossessioni legate ad aspetti religiosi e sessuali, e delle preoccupazioni di ordine e simmetria (Velloso et al., 2016).

Tra i pazienti con Disturbo Ossessivo-Compulsivo è bene indagare la presenza del desiderio di morire discernendolo dalle ossessioni suicide (Eskander et al., 2020). Mentre queste ultime, essendo percepite come ego-distoniche e quindi indesiderabili, non si associano alla volontà di agire attentando alla propria vita; l’ideazione suicidaria, sentita come ego-sintonica e non intrusiva, aumenta il rischio di intento suicidario (Rachamallu et al., 2017).

Il Disturbo da Dismorfismo Corporeo aumenta il rischio suicidario presentandosi spesso in comorbilità con una diagnosi di disturbo alimentare (bulimia e anoressia) e depressivo, generante disfunzione psicosociale (Phillips, 2004; Ruffolo et al., 2006). L’ideazione suicidaria e i tentativi di suicidio aumentano con la presenza concomitante di disturbo da stress post-traumatico e borderline di personalità (Phillips, 2007).

Tra gli uomini con Dismorfia Muscolare (ovvero la preoccupazione di non essere sufficientemente muscolosi), la vergogna del proprio aspetto fisico che induce all’isolamento aumenta il rischio di uso di sostanze oltre che suicidario (Pope et al., 2005).

La doppia diagnosi di Disturbo Ossessivo-Compulsivo e Disturbo da Dismorfismo Corporeo è tre volte superiore nei campioni aventi il Dismorfismo Corporeo come diagnosi primaria (27,5%; Frías et al., 2015). Essendo spesso in comorbilità, oltre che presentare entrambi caratteristiche cliniche ansiose e depressive tradizionalmente associate al suicidio, condividono fattori genetici, ambientali e socio-demografici. Con una trasmissione genetica del 64%, Disturbo Ossessivo-Compulsivo e Disturbo da Dismorfismo Corporeo presentano gli stessi tassi di eventi traumatici passati e simili rapporti di genere (Eskander et al., 2020). A livello sintomatologico manifestano simili comportamenti ripetitivi; che siano rituali di controllo del proprio aspetto o compulsioni di controllo esterno, entrambi riportano preoccupazioni per la simmetria del corpo (Frías et al., 2015).

Pur avendo scarsi outcome a livello psicosociale e rischio maggiore di sviluppare fobia sociale, disturbo bipolare e di uso di sostanze; il rischio suicidario nel Disturbo Ossessivo-Compulsivo e nel Disturbo da Dismorfismo Corporeo viene per lo più sottovalutato.

È auspicabile una valutazione in fase preliminare la presa in carico del paziente con Disturbo Ossessivo-Compulsivo delle comorbilità psichiatriche e dell’ideazione suicidaria concorrente (Eskander et al., 2020).

Per quanto concerne la variabilità delle manifestazioni cliniche del dismorfismo corporeo, i medici dei reparti di chirurgia estetica (luogo nel quale afferisce circa il 33% di questi pazienti; Veale et al., 2016), dovrebbero consultarsi con operatori della salute mentale per una diagnosi accurata che valuti gli aspetti che potrebbero condurre al rischio suicidario successivo.

Nonostante entrambi i disturbi siano sotto-diagnosticati per il pregiudizio e lo stigma associato, solo attraverso un’identificazione accurata si potranno predisporre trattamenti di successo, che siano conformi alle manifestazioni cliniche.

 

Alla scoperta dell’ADHD (Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività) e dei DSA (Disturbi Specifici dell’Apprendimento) – VIDEO

I disturbi infantili di origine neurobiologica più frequentemente diagnosticati in età evolutiva sono il Disturbo da deficit di attenzione e iperattività e i Disturbi Specifici dell’Apprendimento.

 

Le manifestazioni cliniche di base dell’ADHD sono la difficoltà a prestare attenzione, i comportamenti impulsivi e/o un livello di attività motoria accentuato. Si parla di ADHD con disattenzione predominante quando il problema centrale del bambino è proprio il deficit attentivo, e di ADHD con impulsività e iperattività predominante, invece, quando la funzionalità attentiva risulta lievemente compromessa e il focus del disturbo risiede nel comportamento ipercinetico e nella mancanza di autoregolazione. Infine il tipo ADHD combinato presenta entrambe le classi di sintomi.

L’acronimo DSA (Disturbi Specifici dell’Apprendimento) indica invece una categoria diagnostica, relativa ai Disturbi Evolutivi Specifici di Apprendimento che appartengono ai disturbi del neurosviluppo, che riguarda i disturbi delle abilità scolastiche, ossia Dislessia, Disortografia, Disgrafia e Discalculia.

Ma quali sono i segnali che ci aiutano a riconoscere queste condizioni? Cosa fare per essere certi che si tratti di un disturbo e non solo di una difficoltà? Come posso aiutare il mio bambino a casa e a scuola?

Per far luce sulle tematiche presentate, pubblichiamo per i nostri lettori il video dell’evento, condotto dalla Dott.ssa Alessandra Epis e dalla Dott.ssa Caterina Poli.

 

ALLA SCOPERTA DELL’ADHD E DEI DSA – Guarda il video integrale del webinar:

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Barbari, Spade Maledette e sfogo degli elementi primitivi: il dominio dell’ambiente nella “Sword & Sorcery”

La letteratura fantastica è una delle letterature commercialmente più produttive e interessanti dal punto di vista culturale, essendo una deriva della narrativa epica delle varie culture ed essendo una interessante valvola di sfogo della fantasia umana. In questo articolo sarà analizzato il dominio dell’ambiente e degli eventi della letteratura fantasy denominata “sword & sorcery”.

 

Una delle basi di tutte le culture umane presenti sul globo è la narrativa mitologica ed epica. Di fatto, attraverso la narrazione prima orale e poi scritta sulle gesta di eroi e di creature ultraterrene, l’Uomo ha incominciato a sviluppare le sue capacità di storytelling, capacità che ha usato poi per tramandare la tradizione e gli elementi della cultura a cui appartiene (Fisher, 1985), per identificare meglio i ruoli culturali e storici a cui ispirarsi (Dowden, 2002) e per riscrivere i fatti vissuti con il filtro della fantasia, sviluppando di conseguenza le sue capacità narrative e di rielaborazione creativa (Mellmann, 2012). Dai miti antichi si è arrivati così alle leggende popolari, analizzate ampiamente da antropologi come J.G. Frazer (Vickery, 2015) e alla fiaba, metodo narrativo usato per veicolare un insegnamento morale implicito o esplicito (Dubitsky et al 1982). La fiaba è stata l’oggetto principale della analisi linguistica e semiologico-semiotica, come la fondamentale morfologia della fiaba di Propp (2010).

Nel ventesimo secolo, dalle mitologie antiche e dalle storie popolari, si è sviluppata la letteratura fantasy, ovvero una narrativa moderna con personaggi fittizi con stilemi e schemi base, come la presenza di elementi magici e di capacità di dominio non scientifico dell’ambiente (Petzold, 1986). La narrativa fantastica moderna inizia ufficialmente, nella sua significazione letteraria e commerciale, con le opere di J.R.R. Tolkien (Flieger, 1999), principalmente la Trilogia de Il Signore degli Anelli (Shippey. 2014).

Di fatto gli archetipi, la geografia, la tipologia narrativa e il sistema di suddivisione dell’epopea narrata in trilogia sarà alla base dell’approccio e dell’innovazione dei maggiori esponenti nell’avvenire (Clark, 2000).

Sebbene l’origine ufficiale della letteratura canonica fantasy inizia con le opere dello studioso di Oxford, dalle quali ha avuto origine la sottocorrente della “heroic fantasy” (Veglahn,1987), un’altra tipologia di narrativa fantastica aveva trovato spazio nel mondo letterario commerciale, principalmente quello legato ai pulp magazines e alla letteratura popolare su testate a poco prezzo: ovvero la narrativa fantastica della sword & sourcery. Con il termine di “Sword & Sourcery” si intende quella narrativa fantastica stilizzata sulle avventure principalmente di un eroe in solitaria o accompagnato saltuariamente da altri personaggi, per lo più di sesso femminile diventanti l’interesse erotico del protagonista, che affronta situazioni di pericolo con elementi innaturali e magici, solitamente causati da una figura negativa come un tiranno malvagio o un negromante (Emery, 2018). L’autore icona del sottogenere in questione è Robert E. Howard, creatore dei mondi pericolosi di personaggi culto come Conan il Barbaro e Kull di Valusia (De Camp et al, 2011).

Negli scritti di Howard emergono gli elementi psico-letterari che saranno la base per questo sottogenere fantasy, al quale appartengono le gesta come eroi di Eric di Melnibone  di Michael Moorock (Petty) e Kane di K.E.Wagner (Szumskyj, 2007), ovvero: la moralità spesso ambigua o direttamente legata a elementi negativi come la venialità e la sete di violenza, le avventure tipicamente in solitaria, la narrazione delle gesta via approccio episodico spesso sotto la forma di racconto breve ed infine l’oggetto di indagine dell’articolo, ovvero il dominio degli avvenimenti e dell’ambiente da parte del protagonista (Davidson, 1972). Infatti, l’elemento che ha interessato gli esperti della scienza psicologica è il fatto che i personaggi di questa corrente di letteratura fantastica riescano a domare mostri, ad abbattere tiranni e a diventare re attraverso la loro forza nerboruta, l’uso sapiente delle armi ed eventuali mezzi magici, riuscendo così ad agire attivamente sugli eventi e sull’ambiente in cui essi agiscono (Parsons, 2014). Attraverso queste gesta narrative di eroi e mostri gli autori forniscono la catarsi circa un tema onnipresente nello studio delle scienze umane, ovvero l’inaccettabilità dell’uomo di essere soggetto passivo nei confronti degli eventi e delle situazioni ambientali (Strugnell, 1992).

Oltre a questa tematica, la letteratura sword & sourcery è studiata principalmente per la sua raffigurazione del sesso femminile (Wright, 2012) e per il rapporto controverso che il già citato K.E.Wagner ha avuto con la sua precedente professione e l’ambiente di competenza, ovvero la psichiatria (British Fantasy Society, Straub., 2012)

 

Le abbuffate nei disturbi alimentari maschili

Alcuni dati provenienti dalla ricerca suggeriscono che i maschi con disturbi alimentari potrebbero avere una percezione diversa degli episodi di abbuffata rispetto alla controparte femminile.

 

Nell’ambito dei disturbi alimentari con abbuffata si intende ‘un episodio alimentare in cui una quantità oggettivamente grande – date le circostanze – viene ingerita. Il soggetto sperimenta durante l’episodio un marcato senso di perdita di controllo‘ (Fairburn, 2018). Sono comportamenti presenti in un sottogruppo di persone con disturbi del comportamento alimentare e derivano della rigida restrizione dietetica e la pressoché inevitabile rottura di quest’ultima. La risposta a questa percepita mancanza di autocontrollo sull’alimentazione è quella di reagire negativamente e abbandonare temporaneamente la restrizione calorica (La Mela & Maglietta, 2011). Le abbuffate sono eventi altamente dannosi per il paziente in quanto sono seguiti da sentimenti di vergogna e senso di colpa che aggravano la psicopatologia, in particolare quando sono seguiti da vomito autoindotto e altri comportamenti di compenso. Inoltre particolari eventi di vita e cambiamenti emotivi possono contribuire alla rottura delle regole dietetiche e, dal momento che l’abbuffata migliora temporaneamente il tono dell’umore, c’è il rischio che possa diventare un mezzo disfunzionale per far fronte a tali difficoltà (Dalle Grave, Calugi & Sartirana, 2018).

Gli uomini potrebbero essere sottostimati per qualsiasi diagnosi di disturbo alimentare, in quanto reticenti a chiedere aiuto per una patologia considerata tipicamente femminile (Greenberg & Schoen, 2008), ma più nello specifico tale disparità di genere potrebbe anche essere dovuta a una differente percezione degli uomini nei riguardi degli episodi di abbuffata e, in particolare, il criterio diagnostico riguardante la ‘sensazione di perdere il controllo’ potrebbe non riflettere il vissuto degli uomini.

In una recente ricerca sui disturbi alimentari maschili, Carey, Saules e Carr (2017) hanno intervistato 13 studenti maschi con obesità che soddisfacevano il criterio A1 del DSM 5 per il Disturbo da Alimentazione Incontrollata: mangiare, in un periodo definito di tempo (per es., un periodo di due ore) una quantità di cibo significativamente maggiore di quella che la maggior parte degli individui mangerebbe nello stesso tempo ed in circostanze simili. I partecipanti hanno riportato come il consumo di grandi porzioni di cibo fosse per loro associato alla mascolinità ed erano restii a correlare i propri episodi di iperalimentazione con la mancanza di controllo poiché non conforme al proprio ruolo di genere. Tuttavia dalle interviste emergeva, seppur in modo contraddittorio, una difficoltà a fermarsi durante questi episodi e notevoli criticità nel cambiare i propri pattern alimentari, associando questi comportamenti a una ‘mancanza di attenzione’. Inoltre gli studenti intervistati hanno riportato antecedenti emotivi che preannunciavano gli episodi di abbuffata, ma questi ultimi, a differenza della controparte femminile, non sembravano essere associati alla restrizione alimentare o alla rottura di una regola dietetica. Dalle interviste è inoltre emerso che questi episodi di iperalimentazione avevano conseguenze negative analoghe a quelle delle abbuffate, qual sentimenti di rabbia, colpa e tristezza, ma anche ripercussioni fisiche come ad esempio sensazioni di malessere addominale, letargia e disturbi del sonno. Infine la maggior parte dei partecipanti allo studio ha riportato insoddisfazione per il proprio corpo, associata al desiderio di essere magri e muscolosi con storie di esercizio fisico estremo come metodo di compenso.

Dai dati provenienti dalla ricerca sopracitata si può ipotizzare che i maschi affetti da un disturbo alimentare, caratterizzato da episodi ricorrenti di abbuffata, potrebbero essere sottostimati in quanto eludono il criterio diagnostico di perdita di controllo, poiché tale descrizione sarebbe in conflitto con il proprio ruolo di genere. Inoltre i maschi che si abbuffano tenderebbero a mascherare tali condotte poiché, secondo le loro narrazioni, il mangiare tanto è considerato ‘da uomini’. Tuttavia, come nei disturbi alimentari femminili, anche nei disturbi alimentari maschili gli episodi di abbuffata sarebbero preceduti e seguiti da vissuti emotivi intensi. In altre parole, nei maschi, gli episodi di abbuffata potrebbero essere più difficili da riportare all’interno di una richiesta d’aiuto e mascherati da condotte più accettabili per il proprio ruolo maschile.

In questa direzione si muove la lettura del fenomeno del ‘cheat meal’. Letteralmente significa ‘pasto sgarro’, è un termine diventato di uso comune che indica una situazione alimentare, solitamente settimanale, che ci si concede senza pensare alle regole della dieta che si sta seguendo. Nel dettaglio questa pratica si trova in quelle diete tipicamente maschili e riguardano abbuffate iperproteiche pensate per aumentare la massa muscolare alterando la funzione metabolica. Recentemente Pila e collaboratori (2017) hanno analizzato numerose fotografie caricate su diversi social network con l’hashtag #cheatmeal, individuando come aspetto rilevante di questi scatti le enormi quantità di cibo presentate come pasti, con volumi calorici ascrivibili a episodi di abbuffata oggettiva. Si consideri inoltre che gli uomini ricorrono al vomito e ai lassativi in misura minore rispetto alle donne, ma prediligono l’attività fisica come condotta compensatoria (Striegel-Moore et al., 2009), la quale risulta più socialmente accettabile e quindi più difficile da rilevare come elemento psicopatologico. Per concludere si segnala la necessità di valutare con attenzione la presenza di abbuffate nei maschi con disturbo alimentare, in quanto non sempre facili da individuare come tali; inoltre future prospettive di ricerca dovrebbero approfondire questo tema al fine di creare strumenti diagnostici che tengano conto delle differenze di genere nella percezione degli episodi di binge eating.

 


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L’utilizzo della Stimolazione Magnetica Transcranica ripetitiva (rTMS) nel trattamento delle tossicodipendenze

Il fenomeno delle tossicodipendenze è sempe più diffuso e comporta grandi costi economici e sociali. Negli ultimi anni si è cercato di sviluppare trattamenti sempre più efficaci tra cui la Stimolazione Magnetica Transcranica Ripetitiva (rTMS), già conosciuta per il trattamento di altri disturbi.

Miriam Curti – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Come riporta la Relazione Annuale al Parlamento sul Fenomeno delle Tossicodipendenze in Italia 2019 (dati 2018), l’utilizzo di droghe nella nostra nazione miete quasi una vittima al giorno: 334 nel 2018, ben 38 in più dell’anno precedente. Da un punto di vista economico, la cura e il trattamento delle tossicodipendenze è quantificabile in poco meno di 2 miliardi di euro, non tenendo conto di tutti quei trattamenti che vengono effettuati per le patologie conseguenti e correlate all’utilizzo e abuso di sostanze stupefacenti (Dipartimento Politiche Antidroga, 2019).

In questo articolo, verranno presi in analisi gli effetti legati all’utilizzo della cocaina. Essa, infatti, rientra tra le sostanze che più comportano un impatto negativo sulle funzioni cognitive e che, dopo la cannabis, rappresenta la sostanza maggiormente consumata dai poliutilizzatori e tra le più pericolose da un punto di vista sociale.

L’uso di droga interferisce con il modo in cui i neuroni inviano, ricevono e processano i segnali tramite i neurotrasmettitori. Alcuni tipi di droga, come ad esempio anfetamina e cocaina, possono portare i neuroni a rilasciare una quantità abnorme di neurotrasmettitori naturali oppure impedirne il normale riutilizzo da parte del cervello. Questo meccanismo porta, dunque, a una amplificazione o interruzione della normale comunicazione tra i neuroni.

L’abuso di droghe va ad alterare importanti aree cerebrali che sono necessarie alle funzioni vitali andando, poi, a innescare l’utilizzo compulsivo di tali sostanze e portando a una vera e propria forma di dipendenza.

Le aree cerebrali in cui, tramite studi neuroimaging, è stato possibile evidenziare un’alterazione funzionale, conseguente all’utilizzo di droghe, sono molteplici. Tra queste:

  • i gangli della base: implicati nella motivazione, rappresentano un’area chiave di ciò che viene comunemente definito “sistema ricompensa”. In seguito all’abuso di sostanze, è possibile osservare una iperattivazione di questo circuito che produce euforia. Tuttavia, in seguito a esposizioni ripetute, il circuito arriva ad adattarsi alla presenza della droga e ciò ne riduce la sua sensibilità. Questo meccanismo impedisce all’individuo di sperimentare sensazioni piacevoli che non siano connesse all’utilizzo della sostanza.
  • l’amigdala: che gioca un ruolo cruciale nello sperimentare ansia, irritabilità e disagio nella fase di astinenza. Lo sperimentare queste sensazioni, quindi, motiva la persona a ricercare nuovamente la sostanza al fine di ottenere una qualche forma di sollievo temporaneo.
  • la corteccia prefrontale: implicata in numerosi processi cognitivi superiori, quali, problem solving, decision-making e controllo degli impulsi. L’utilizzo di cocaina porta a una riduzione delle capacità mentali innescando ciò che dalle neuroscienze viene definito un vero e proprio brain disease. Diversi studi sugli umani suggeriscono che i deficit in tale area cerebrale potrebbero essere cruciali nell’innescare l’utilizzo compulsivo delle droghe.

Alla luce di quanto detto, sia in merito ai danni cerebrali innescati dall’abuso delle sostanze, sia alla casistica sempre più in aumento, è comprensibile l’enorme sforzo fatto nel corso degli anni per rintracciare il trattamento efficace volto al contrasto della tossicodipendenza.

Nel corso degli anni, infatti, sono stati presi in considerazione principalmente tre approcci per intervenire sul disturbo:

  1. Farmacologia: con l’intento principale di produrre una buona gestione del craving, aiutando i pazienti a tollerare e gestire la fase di astinenza e contrastando quanto più possibile eventuali ricadute.
  2. Psicoterapia: Nel trattamento della dipendenza da cocaina vi sono prove di efficacia per numerosi tipi d’ intervento psicoterapico, dalla terapia cognitivo-comportamentale, a quella psicodinamica, fino ad arrivare alle terapie di gruppo (Raggi, 2016)
  3. Sistemi di rieducazione.

Purtroppo, nel trattamento delle tossicodipendenze, per quanto ognuno di questi interventi abbia portato alla luce prove di efficacia, bisogna sempre tener conto dell’alto livello di attrattività che la cocaina ha sugli individui e che spesso porta a ricadute anche in seguito ai trattamenti sopra citati.

La scoperta di un nuovo trattamento, “il fascio di luce che sconfiggerà le tossicodipendenze”

Arriviamo all’anno 2013, anno in cui il Dottor Antonello Bonci insieme al suo staff conduce un esperimento sui ratti dipendenti da cocaina. Alla base di tale studio vi è l’Optogenetica, ossia un tipo di trattamento in cui vengono combinate tecniche ottiche e genetiche per poter tracciare circuiti neurali nel cervello. Nell’esperimento, venivano immesse nel cervello dei ratti delle cellule particolarmente sensibili alla luce (le canaldropsine) che, in un secondo momento venivano attivate tramite l’utilizzo di uno stimolo luminoso. Attraverso questa tecnica si scoprì che, nei ratti con dipendenza da cocaina, la porzione della corteccia pre-limbica presentava una ridotta eccitabilità e che la stimolazione in vivo (mediante optogenetica) di tale area produceva una maggiore attività di tale area, traducendosi in una riduzione dei comportamenti compulsivi di ricerca della droga.

Si trattava di un esperimento del tutto innovativo che apriva le porte a nuove linee di trattamento della tossicodipendenza. A partire da tale studio, infatti, si accese l’interesse verso questa nuova metodica per comprendere come tali risultati potessero essere replicati anche sull’uomo.

In Italia, il Dottor Luigi Gallimberti (Medico specializzato in Psichiatria e Tossicologia) fu tra i primi a portare avanti degli studi sull’uomo per comprendere come poter ottenere i medesimi risultati che i colleghi avevano osservato sugli animali.

Ci si affidò all’utilizzo della rTMS (Stimolazione Magnetica Transcranica Ripetitiva), già conosciuta per il trattamento di altri disturbi, tra cui la depressione. Si tratta di una tecnica non invasiva di stimolazione elettromagnetica, a corrente indotta, del cervello e del sistema nervoso in generale. Essa consente di studiare il funzionamento dei circuiti e delle connessioni neuronali all’interno del cervello, provocando una micro lesione transitoria che inibisce il funzionamento dell’area oggetto d’indagine (Fiore, 2017).

Questa tecnica di stimolazione cerebrale consente di eccitare o inibire porzioni focalizzate della corteccia cerebrale attraverso la creazione di un campo magnetico. Nell’area interessata dall’arrivo del campo magnetico i neuroni vengono, quindi, attivati in un modo artificiale dalla corrente elettrica generata dal campo (Immagine 1). La TMS provoca un’interferenza temporanea e locale con l’attività cerebrale normale e, quindi, con i processi di elaborazione che sono svolti dall’area cerebrale interessata dalla stimolazione. Mediante l’utilizzo di una bobina sarebbe possibile, dunque, andare a modificare il funzionamento neurale implicato nel desiderio della sostanza e nei comportamenti di ricerca compulsiva della sostanza stessa. Un punto a favore di tale metodica è la sua non invasività e la sua capacità di modificare l’attività elettrica cerebrale in maniera del tutto indolore.

Immagine 1 – Il funzionamento della TMS

Il protocollo clinico e le prove di efficacia

L’utilizzo della rTMS come trattamento per la tossicodipendenza prevede un protocollo clinico specifico in cui un set di impulsi ripetuti viene applicato con lo scopo di alterare l’eccitabilità delle zone stimolate e delle aree del cervello anatomicamente e funzionalmente connesse. I meccanismi alla base degli effetti elicitati dall’utilizzo della TMS sono quelli di adattamento e di neuroplasticità.

Per quanto riguarda le prove di efficacia, già dal primo studio pilota i risultati ottenuti hanno fatto ben sperare sull’applicabilità e la significatività del trattamento. Nel 2015. Infatti, il Dottor Galimberti in collaborazione con il Dottor Bonci e tutto il loro staff hanno condotto uno studio per verificare se la stimolazione della corteccia prefrontale dorsolaterale (DLPFC) potesse impedire (o quantomeno, contenere) l’uso di cocaina nell’uomo.

Nella prima fase dello studio, durata circa 29 giorni, 32 pazienti dipendenti da cocaina sono stati assegnati in maniera casuale al gruppo sperimentale (sessioni di 12 minuti di rTMS) sulla DLPFC sinistra o al gruppo di controllo (in cui non vi era utilizo di rTMS, bensì di farmaci). A questa fase è seguito poi un follow-up di 63 giorni (Fase 2), durante il quale tutti i partecipanti sono stati sottoposti al trattamento rTMS.

I risultati hanno mostrato un numero significativamente più alto di test antidroga delle urine negativi alla cocaina nel gruppo sperimentale rispetto al gruppo di controllo (p = 0,004). Inoltre, anche il desiderio di cocaina era significativamente inferiore nel gruppo rTMS rispetto ai controlli (p = 0,038). I pazienti che hanno completato la fase 1 nel gruppo di controllo e che, successivamente hanno ricevuto un trattamento rTMS durante la fase 2,  hanno mostrato un miglioramento significativo con esiti favorevoli che sono comparabili a quelli del gruppo rTMS. Inoltre, non sono stati riscontrati eventi avversi significativi conseguenti all’utilizzo della TMS.

La scelta della DLPFC come area da stimolare risiede nel fatto che, come detto anche precedentemente, essa sembra essere il sito principale di dei processi decisionali, controllo cognitivo delle emozioni e comportamenti associati al rischio. Tramite studi di neuroimaging è stata dimostrata un’alterazione delle funzioni della DLPFC nei soggetti con diagnosi conclamata di tossicodipendenza. Dunque, andando a potenziare la sua attività elettrica, si dovrebbe riuscire anche a ristabilire il funzionamento del “sistema di ricompensa” e il rilascio di dopamina (meccanismi compromessi nei soggetti che abusano di sostanze). Da qui, si comprende bene l’utilizzo della TMS come volta al raggiungimento di diversi obiettivi:

  • il potenziamento dei meccanismi di autocontrollo e inibizione dell’impulsività;
  • l’inibizione dell’attività dei sistemi cerebrali che mediano il desiderio della sostanza;
  • il ripristino dei normali livelli di funzionamento del sistema della ricompensa e della dopamina.

Proprio in merito all’ultimo punto, in alcuni studi è stata utilizzata, congiuntamente alla rTMS, la tomografia ad emissione di Positroni (PET) che permette di quantificare il rilascio di dopamina. Ciò che è emerso dai risultati ottenuti è che il trattamento di Stimolazione promuove il rilascio di dopamina nel nucleo caudato. Infatti, nei soggetti dipendenti, la bassa produzione di dopamina in questa area cerebrale sembra essere la principale causa di anedonia (scarsa capacità di provare piacere). Inoltre, la modulazione della neurotrasmissione della dopamina nella corteccia cingolata anteriore e orbitofrontale permette di rafforzare la capacità di inibizione del desiderio e, di conseguenza, la presenza di comportamenti compulsivi di ricerca.

Alla luce di tali risultati, sembrerebbe logico ipotizzare un’efficacia totale ed indiscussa di tale trattamento e, probabilmente, proprio per tale ragione questi esperimenti hanno catturato l’attenzione di diverse testate giornalistiche che hanno parlato di tali scoperte in termini “sensazionali”.

Tuttavia, adottando un vero atteggiamento scientifico, sarebbe corretto adottare un’ottica critica. I risultati ottenuti sicuramente fanno ben sperare, ma con un’attenta ricerca è possibile osservare il basso numero di studi clinici condotti sull’utilizzo della TMS nelle tossicodipendenze. Inoltre, benchè gli studi condotti abbiano previsto una randomizzazione del campione nell’assegnazione al gruppo sperimentale o di controllo, è necessario tenere sempre in considerazione l’effetto dell’aspettativa dei soggetti. In questo caso parliamo di persone che, manifestando forti problemi comportamentali con importanti conseguenze sull’aspetto sociale, si sottopongono volontariamente al trattamento e che, proprio per questo, potrebbero avere forti aspettative in merito alla buona riuscita del trattamento stesso. Ricordiamo, infatti, che in questo caso il gruppo di controllo viene comunque sottoposto ad una sessione di rTMS, seppur senza il rilascio vero e proprio di elettricità. A tal proposito, infatti, come era facilmente intuibile, alcuni studi clinici hanno messo in luce come il trattamento con rTMS possa risultare efficace anche quando somministrato come placebo.

In altri studi ancora, invece, è stato mostrato come una parte del campione non fosse riuscita ad ottenere risultati a lungo termine con l’utilizzo esclusivo della stimolazione, bensì è risultato necessario integrare a tale metodica un percorso di psicoterapia e sistemi di rieducazione.

Nonostante ciò, in Italia, ad oggi sono presenti diversi centri privati che accolgono ogni giorno numerosi pazienti tossicodipendenti e li seguono in tutto il loro percorso di cura e riabilitazione.

In generale, le neuroscienze in questo campo avrebbero bisogno di prove di efficacia ancor più forti e numerose. Dunque, parlando di tossicodipendenza è fondamentale far riferimento all’aspetto biologico, ma non dimentichiamo mai che l’uomo non è solo ciò.

Ed ecco perché, l’utilizzo della metodica rTMS, per quanto possa rappresentare un trattamento efficace e funzionale, esso non può essere preso in considerazione senza una presa in carico del paziente “in toto” attraverso percorsi psicoterapici che tengano conto dei bisogni, delle aspettative e della storia di vita di ciascun individuo.

 


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Maltrattamento in età infantile: come cambia il riconoscimento delle emozioni?

L’essere stati vittime di un trauma o di maltrattamenti in età infantile può determinare una tendenza a interpretare negativamente le espressioni facciali neutre. Questo fenomeno non caratterizza solo l’età infantile ma si protrae sino all’età adulta

 

La capacità di riconoscere e differenziare le espressioni facciali neutre da quelle emotive si sviluppa durante l’infanzia (Durand, Gallay, Seigneuric, Robichon & Baudouin, 2007).

Dunque non sorprende come, talvolta, l’essere stati vittima di maltrattamenti in età infantile ostruisca lo sviluppo di tale capacità, determinando una tendenza ad interpretare negativamente le espressioni facciali neutre. Questo fenomeno, inoltre, non caratterizza solo l’età infantile (Pollak, Cicchetti, Hornung & Reed, 2000) ma si protrae sino all’età adulta (Wagner & Linehan, 1999).

Ciò detto, risulta necessario approfondire quanto riscontrato anche in alcune popolazioni cliniche. Difatti, in presenza di traumi o maltrattamenti subiti in età infantile, gli individui affetti da disturbo borderline di personalità, mostrano una tendenza ad interpretare le espressioni facciali neutre come espressioni di rabbia (Mitchell, Dickens & Picchioni, 2014) o di tristezza (Meehan et al., 2017), mentre coloro i quali presentano un disturbo dissociativo dell’identità, quando vivono uno stato emotivo connesso al trauma, tendono ad interpretare le espressioni neutrali come maggiormente minacciose (Schlumpf et al., 2013) .

In contesti di vita quotidiana, è stato osservato come anche gli individui affetti da un disturbo da stress post-traumatico (PTSD; American Psychiatric Association, 2013), non riescano a differenziare le espressioni di rabbia da quelle neutre ma, nonostante ciò, in letteratura esiste un solo studio che si sia proposto di analizzare parzialmente tale fenomeno, senza riscontrare differenze significative rispetto a controlli sani (Nazarov et al., 2014).

È a partire da queste considerazioni, e dai suddetti limiti, che un gruppo di ricercatori (Pfaltz et al., 2019) ha sviluppato l’ipotesi che individui affetti da un disturbo da stress post traumatico presentino un deficit nel riconoscimento delle espressioni neutre, tendendo a classificarle come espressioni negative. Inoltre, gli autori si sono proposti di verificare se tale fenomeno fosse più strettamente connesso al maltrattamento subito durante l’infanzia che alla diagnosi di PTSD. Supponendo che i bias osservati nel disturbo borderline di personalità o nel disturbo dissociativo dell’identità potessero essere collegati all’esperienza di maltrattamento nell’infanzia, gli autori hanno ipotizzato che gli individui con esperienze infantili più traumatiche avrebbero interpretato più frequentemente le espressioni facciali come negative rispetto ai controlli.

Dato che precedenti studi hanno dimostrato come il numero di eventi traumatici subiti, l’alessitimia e la dissociazione possono influenzare il riconoscimento delle emozioni in individui affetti da PTSD (Passardi, Peyk, Rufer, Wingenbach & Pfaltz, 2019), gli autori hanno deciso di includere nell’analisi anche le suddette variabili.
Allo studio hanno preso parte individui affetti da PTSD (n =39), un gruppo di controllo composto da individui sani ma vittime di traumi (n=44) e un gruppo di controllo, costituito da individui sani esenti esperienze traumatiche rilevanti (n= 35).

Ai partecipanti sono stati presentati 300 filmati, di cui 270 raffiguranti espressioni facciali emotive (positive e negative) e 30 espressioni neutre. È stato dunque chiesto loro di classificare nel più breve tempo possibile le emozioni mostrate, in modo che essi potessero rispondere in maniera spontanea, così come avviene durante la vita quotidiana.

I risultati non hanno mostrato differenze significative tra i risultati ottenuti dai soggetti affetti da PTSD e i soggetti di controllo, nel riconoscimento delle espressioni neutre. Di contro, gli individui che hanno subito esperienze di abuso sessuale infantile più invasive hanno ottenuto risultati peggiori nel riconoscimento delle espressioni facciali neutre rispetto agli individui che hanno subito esperienze di abuso sessuale meno invasive. Inoltre, coloro i quali sono stati vittime di abusi sessuali infantili e di abbandono fisico, tendono ad interpretare le espressioni facciali neutre come maggiormente colleriche. Più incisiva sarà stata l’esperienza di abuso sessuale, più i soggetti tenderanno ad interpretare le espressioni facciali neutre come disprezzo, rispetto a coloro i quali abbiano subito esperienze meno incisive, o esperienze di abbandono fisico o di abuso emotivo.

Sulla base dei risultati emersi, si è dunque concluso che, il maltrattamento sui minori, in particolare l’abuso sessuale infantile, possa influire più significativamente sulla difficoltà relativa al riconoscimento delle espressioni neutre e alla conseguente interpretazione negativa delle suddette, rispetto alla presenza di disturbi mentali come il disturbo da stress post-traumatico o al disturbo borderline di personalità, o ancora rispetto a variabili come l’alessitimia e la dissociazione.

A tal proposito, è stato ipotizzato che ciò sia in parte dovuto al fatto che tali eventi siano spesso accompagnati o seguiti da una neutralità espressiva da parte dei carnefici. Le vittime possono quindi aver imparato a non fidarsi dell’apparente calma delle espressioni neutre, a causa delle aspettative che esse siano seguite da esperienze avverse (Schlumpf et al., 2013).

Gli autori hanno dunque concluso che l’abuso sessuale infantile possa esercitare un danno non solo sullo sviluppo cognitivo ed emotivo dei soggetti, ma anche sulle abilità sociali, ulteriormente inficiate dall’incapacità di identificare correttamente le espressioni facciali.

Naturalmente, qualora le ricerche successive dovessero confermare quanto appena esposto anche in condizioni di vita reale, ciò comporterebbe rilevanti conseguenze in ambito clinico. Nello specifico, in prima battuta sarebbe necessario riconoscere gli individui portatori di tali difficoltà, in quanto potrebbero mostrare risposte comportamentali disadattive ad espressioni neutre mostrate dal proprio interlocutore, generando problematiche di tipo relazionale (Cloitre, Scarvalone & Difede, 1997), anche all’interno del setting psicoterapico.

Di conseguenza, al fine di migliorare la relazione terapeutica, bisognerebbe sensibilizzare maggiormente i clinici circa il suddetto fenomeno, in modo che essi possano prestare una maggiore attenzione alla propria comunicazione non-verbale e, al contempo, circoscrivere in una cornice di significato più puntuale le risposte dei propri pazienti.

 

La Psicologia Digitale – Lo psicologo del futuro

La Psicologia Digitale esamina i modi in cui le tecnologie possono essere progettate per realizzare strumenti diagnostici e terapeutici a disposizione degli psicologi.

LO PSICOLOGO DEL FUTURO – (Nr. 5) La Psicologia Digitale

 

 Le nuove tecnologie e l’avvento del digitale stanno drasticamente modificando i nostri comportamenti, le modalità di apprendimento, i fenomeni psicologici, la ricerca scientifica e le tecniche diagnostiche e riabilitative utilizzate in psicologia.

In questo scenario gli sviluppi tecnologici mostrano un duplice aspetto: da una parte essi sono strumenti diagnostici e terapeutici promettenti, dall’altra generano inevitabilmente importanti cambiamenti non solo sociali ma anche psicologici e mentali che occorre indagare e approfondire.

Le competenze e le tecniche psicologiche hanno la necessità di confrontarsi con il mondo digitale e svilupparsi in parallelo e in accordo a questi cambiamenti. Ciò vale tanto per il mondo accademico, quanto per i singoli professionisti.

La Psicologia Digitale, anche chiamata Cyberpsicologia, è la disciplina che si prefigge di indagare e sistematizzare questo cambiamento. Essa studia infatti in che modo e in che misura gli sviluppi tecnologici comportano variazioni non solo sociali ma anche psicologiche e mentali. Esamina inoltre i modi in cui le tecnologie possono essere progettate per realizzare strumenti diagnostici e terapeutici a disposizione degli psicologi.

Perché è necessario che gli psicologi di oggi, non solo gli psicologi del futuro, conoscano le nuove tecnologie e i loro effetti?

In primo luogo, per poter intercettare le nuove forme di disagio psicologico, in maniera rapida e precisa. In seconda battuta, per trattare il disagio in maniera maggiormente efficace: l’utilizzo delle nuove tecnologie spesso aumenta la compliance e l’engagement del paziente. Infine, ad oggi, rivolgersi alla psicologia digitale, permette di potersi distinguere in un mercato competitivo.

Alcuni esempi di tecnologie a disposizione dell’attività professionale di psicologo sono:

Nella FIRST EUROPEAN CONFERENCE ON DIGITAL PSYCHOLOGY. DIGITAL PERSPECTIVES IN PSYCHOLOGY, organizzata dalla Sigmund Freud University, che si terrà il 19-20 febbraio 2021 verranno trattate le aree tematiche sopra citate in lectio magistralis tenute da esperti del settore.

Non mancare! Per registrarti clicca qui.

Per ottenere maggiori informazioni scrivete a [email protected]

 

Le iscrizioni alla prima Conferenza europea di Psicologia Digitale sono aperte:

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EUROPEAN CONFERENCE OF DIGITAL PSYCHOLOGY
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Chi non conosce il proprio limite tema il destino e l’assenza del bonus mensile: il bisogno del concetto di Razionalità Limitata

Nel mondo lavorativo odierno, il ricorso al multitasking è considerato un elemento imprescindibile per una buona produzione professionale. Sebbene possa portare a benefici iniziali di breve durata, molto spesso ciò conduce a conseguenze psicofische pesanti, anche gravi. Ne segue una analisi critica, recuperando il concetto della “Razionalità Limitata” di Herbert Simon.

 

Nel mondo aziendale moderno, il ricorso al multitasking è considerato un elemento necessario e fondamentale per la produzione. Di fatto, le innovazioni multimediali hanno diminuito i tempi e i costi di non pochi processi produttivi, dunque si presenta il bisogno di svolgere più mansioni in tempo reale, mettendo alla prova i limiti umani e delle Organizzazioni di assorbire le informazioni necessarie ed il loro effettivo utilizzo (D.H. Henard , M.A. McFadyen, 2006).

Come indicano Rom Schrift e Shalena Srna, rispettivamente professore di marketing e dottoranda alla Università di Wharton, assieme al professore di Yale Gal Zauberman. L’uso del multitasking per tempi brevi può avere dei benefici, ottenuti soprattutto con l’autoinganno (2018): secondo gli accademici, illudendosi nel periodo necessario di essere bravi nella gestione di più compiti può condurre a risultati lavorativi positivi, maggiore autostima e meno rischi psicologici d’impatto.

Tuttavia, nel mondo lavorativo odierno, influenzato soprattutto dalla Industria 4.0 (Morrar, R., Arman, H., & Mousa, S. 2017) e dall’utilizzo dei Big Data (McAfee, A., Brynjolfsson, E., Davenport, T. H., Patil, D. J., & Barton, D., 2012), la necessità di ricorrere al multitasking supera assai la capacità che l’essere umano ha di concentrarsi e di gestire l’energia mentale richiesta. Ciò può portare a conseguenze psicofisiche gravi, come  l’eccesso di stress che conduce a sviluppare malattie croniche ed autoimmuni (Natali, 2020). Mats Alvesson e Andrè Spicer, due noti accademici rispettivamente dell’Università di Lund e della Cass Business School, indicano come soluzione al problema il recupero del concetto di “razionalità limitata”, contestualizzata da Herbert Simon.

Come è riportato nel testo divulgativo dei due professori, “Il Paradosso della Stupidità” (2017), il Premio Nobel per L’Economia nel 1978 e Premio Turing nel 1975, basandosi sulla sua esperienza lavorativa post-universitaria presso l’ufficio di bilancio del municipio della sua città natale, Milwuakee, notò come l’educazione scolastica ed accademica indottrinasse ad avere sempre un filtro di analisi razionale in qualsiasi momento, cosa che crea sempre paradossi nei luoghi di lavoro, dove spesso i veri motori del gioco economico sono il cinismo, la routine e la gestione delle emozioni.

Memore di questi vissuti empirici, Simon ha identificato la teoria della razionalità limitata, secondo la quale la base del decision making sarebbe il tenere a mente le limitate energie cognitivo-mentali dell’essere umano. Di fatto l’Uomo, avendo limitate abilità cognitive, non essendo portato spesso a progettare piani a lungo termine ed essendo disponibile ad abbandonare i propri interessi a beneficio di altri attori (Sträter, K.F.,  2019) , spesso sopravvaluta il carico mentale richiesto dal lavoro, perdendo così il più delle volte la sua capacità di usare il raziocinio.

Alvesson e Spicer riprendono la teoria dell’economo ed esperto di organizzazioni americano perché pensano che possa essere un monito per quanto riguarda l’abuso del multitasking: di fatto, come scritto in precedenza, l’essere umano ha capacità razionali e cognitive limitate, non adatte per niente all’uso sfrenato degli strumenti dell’informational technology e della sempiterna ricerca dell’ottimale da parte delle Aziende. Infatti, per Simon, la soluzione salubre sia per le Organizzazioni che per gli attori, è la ricerca della quantità soddisfacente (1987). Per ricordare, come dice Gabriele Romagnoli (2017), che

i limiti in generale sono un vantaggio, non una diminuzione delle possibilità.

 

La morte fa paura. Consapevolezza e accettazione (2020) di Patrizia Ruggerini – Recensione del libro

‘Si muore sempre peggio’. E’ da questa amara considerazione che nasce lo spunto per la realizzazione del libro La morte fa paura. Consapevolezza e accettazione di Patrizia Ruggerini.

 

Le parole sono pronunciate dalla direttrice dell’hospice in cui l’autrice inizia il volontariato, nel suo percorso di formazione per diventare counselor, e rappresentano per lei un’eco della sua esperienza personale, esperienza che la porta ad interessarsi a questo tema, personalmente e professionalmente, e da cui prende l’avvio una profonda riflessione sul fine vita. Abbiamo dimenticato come si fa a ‘morire bene’: lo vediamo nella solitudine delle corsie degli ospedali, nella difficoltà di fronte a qualcuno che condivide con noi l’esperienza di un lutto o di una malattia, nella nostra tentazione di sviare il discorso, minimizzare, andare oltre troppo in fretta, incapaci di stare nella sofferenza, di stare di fronte alla morte. L’autrice ci porta a soffermarci su quello che vorremmo evitare ma che non possiamo eludere, mettendo in luce il disagio e il fallimento della nostra società nell’accompagnamento al fine vita.

L’idea della morte suscita in tutti noi sentimenti e atteggiamenti di paura, negazione, evitamento. Per paura di morire arriviamo a farci fare di tutto ed è incredibilmente difficile, anche di fronte ad una grave malattia, prendere davvero in considerazione che il suo decorso possa essere infausto. Rimaniamo attaccati alla vita talvolta ad ogni costo, incapaci di accettare la nostra mortalità e quella dei nostri cari.

Se guardiamo al nostro passato possiamo vedere che non è sempre stato così: prima dell’industrializzazione la morte era un evento più naturale, le famiglie erano più numerose, i vecchi stavano in casa e morivano in casa, accompagnati dalla presenza dei loro cari e da rituali di accompagnamento al fine vita che davano un senso al momento di passaggio e servivano ai morenti per accommiatarsi e ai familiari per salutarli e accettare la separazione con maggiore consapevolezza. Era un momento importante, in cui nessuno stava solo e in cui tutti partecipavano al ciclo della vita, bambini compresi. La morte, semplicemente, era parte della vita. Oggi le cose sono molto cambiate: da un lato i progressi della medicina ci hanno allontanati dalla consapevolezza della nostra mortalità; dall’altro non solo i nuclei famigliari sono molto più ridotti e faticano per questo a farsi carico della sofferenza e dell’accudimento dei loro vecchi e dei loro malati, ma manca la familiarità con la morte, mancano rituali di passaggio capaci di accompagnare e sostenere tutta la famiglia in questo momento delicato e si fa molta più fatica ad accettare la morte come evento naturale.

L’atteggiamento più frequente nei familiari, infatti, come nota l’autrice nella sua esperienza in hospice, è la negazione, l’’omertà: non vogliono che il malato sia informato del suo reale stato di salute. Nel tentativo di proteggerlo, lo relegano in una triste solitudine. Gli impediscono di avere così accesso alla risorsa più importante, la relazione, la possibilità di esprimere la sua sofferenza e di beneficiare del conforto empatico di chi gli vuole bene. Invece di stringersi intorno al malato e aiutarlo ad andarsene nel modo più sereno e armonico possibile, i familiari sono troppo spaventati e privi degli strumenti adeguati per reggere la fatica di confrontarsi con la morte, e questo crea una grande sofferenza nel malato e in tutta la famiglia.

Guardare un morente è come guardare in uno specchio: ci riflette la nostra fragilità, la nostra precarietà in questo mondo, ci anticipa il nostro ineluttabile destino. Senza gli strumenti giusti non siamo capaci di tanto coraggio.

Questa difficoltà non riguarda solo i familiari, ma anche i medici che sono spesso collusivi con questa tendenza a nascondere, a negare, a minimizzare. Il sistema sanitario, con le sue tempistiche ristrette e la continua carenza di risorse, certamente non aiuta a costruire una relazione medico-paziente umana e profonda, ma ciò cha manca è anche un’adeguata formazione del personale sanitario, ad ogni livello, nella comunicazione chiara ed empatica. L’esperienza più comune che vivono i malati è quella di non avere spazio per esternare i propri dubbi e le proprie paure, che vengono messe a tacere da frettolose rassicurazioni talvolta infondate che creano pericolose illusioni e lasciano il malato sempre più solo.

Nonostante la legge preveda il ‘consenso informato’, basato sui diritti della persona sanciti dalla Costituzione, troppo spesso la comunicazione è frammentaria, superficiale e al malato non è davvero garantita la possibilità di scegliere in piena consapevolezza e libertà.

Occorre un cambio di prospettiva: guardare al malato, non alla malattia. Non ‘curare’, ma guardare alla persona per ‘prendersene cura’ nella sua interezza.

Per fare questo dobbiamo imparare (o re-imparare) a stare in relazione, a porci accanto al malato in un atteggiamento empatico, dando spazio alle sue emozioni e accogliendole, per quanto difficili. E’ necessario lasciare andare la nostra tensione per fare spazio alle emozioni del malato senza sovraccaricarlo con le nostre.

In un’epoca di ‘analfabetismo emozionale’, le riflessioni di Patrizia Ruggerini accompagnano in una direzione opposta, verso l’importanza di una rieducazione al sentire: l’unico modo per ‘morire bene’ è arrivare consapevoli a questo passaggio riconoscendo le emozioni di paura, dolore e sofferenza, affrontandole, ascoltandole e imparando a regolarle, senza negarle né farsi dominare da esse. Dobbiamo accrescere la nostra competenza emotiva durante tutta la nostra vita, imparare a usare bene le nostre emozioni: le emozioni non sono un nemico da sconfiggere o da cui fuggire, ma uno strumento per muoversi nel mondo, per capire dove stiamo andando rispetto ai nostri bisogni fondamentali. Senza questo strumento siamo ciechi e incapaci di ridare dignità e valore alla malattia e alla morte. E dunque alla vita.

Forse proprio questo difficile momento storico ci costringe a fermarci e prendere di nuovo consapevolezza della nostra finitezza, del nostro essere mortali per rimetterci in contatto con ciò che davvero rende la vita degna di essere vissuta: le nostre emozioni e il nostro essere in relazione con gli altri. Lo abbiamo visto drammaticamente in questi mesi e purtroppo lo vediamo ancora: la cosa più difficile della pandemia non è la morte, ma la solitudine, la separazione dagli affetti, l’impossibilità di dirsi addio e tenersi la mano nel momento del passaggio. Allora forse possiamo imparare qualcosa da questa terribile esperienza, ritrovare il contatto con noi stessi e le nostre emozioni per stare in relazione autentica ed empatica con chi è nel momento più difficile, proprio quando ha maggiore bisogno di sostegno e vicinanza.

Due “falsi Sé”: confronto tra disturbo narcisistico e disturbo borderline di personalità

Le diagnosi di disturbo borderline di personalità e di disturbo narcisistico di personalità sono state aggiunte nella terza edizione del DSM e i due disturbi sono stati considerati per alcuni aspetti parenti stretti e allo stesso tempo lontani.

 

Secondo il DSM-5 (APA, 2013), il disturbo borderline (BPD) è un disturbo di personalità che presenta un pattern di relazioni interpersonali intense e instabili, instabilità affettiva dovuta a una marcata reattività dell’umore, impulsività marcata, un’alterazione dell’identità legata all’immagine di sé o alla percezione di sé, rabbia intensa o inappropriata e sforzi per evitare un abbandono reale o immaginario.

Il disturbo narcisistico (NPD) di personalità (APA, 2013) evidenzia un quadro pervasivo di grandiosità, mancanza di empatia e necessità di ammirazione: spesso i soggetti sono assorbiti da fantasie di successo, bellezza, fascino, potere e amore ideale, credono di essere unici e speciali, sono presenti sentimenti di invidia e comportamenti presuntuosi o arroganti.

Entrambe le diagnosi sono state aggiunte nella terza edizione del DSM (Widiger, 1993), per alcuni aspetti considerate parenti stretti e allo stesso tempo lontani. Rinsley (1984, p.2) osservò, da un punto di vista psicodinamico, come i disturbi di personalità possano rappresentare

esempi di due varietà fondamentali di patologia dell’autostima, ovvero quelle diagnosticabili come borderline e quelle diagnosticabili come narcisistiche.

Negli anni ’70 era presente un grande interesse per le diagnosi di questi due disturbi (Ronningstam & Gunderson, 1991): Adler (1981) sostiene che questi facciano parte dello stesso continuum, con la differenza che i pazienti narcisisti mostrano una maggiore capacità coesiva, una stabilità e una sopportazione più alta nel gestire la solitudine rispetto ai pazienti borderline. L’autore di questo articolo, Gunderson (1984) riporta una differenza tra il senso di idealizzazione perenne presente nel disturbo narcisistico di personalità e l’oscillazione tra idealizzazione e svalutazione osservabile nel disturbo borderline. Masterson (1988) ritiene che questi disturbi riflettano due falsi sé opposti, come il falso sé “gonfiato” nei pazienti narcisisti e il falso sé “sgonfio” nei pazienti borderline.

Fossati e colleghi (2016) hanno valutato le associazioni tra il DSM-5, il modello alternativo dei disturbi di personalità considerando il disturbo narcisistico (NPD) e il disturbo borderline di personalità (BPD) attraverso la somministrazione del Personality Inventory for DSM-5 (PID-5) e la SCID-II su un campione di 238 pazienti (NPD = 49; BPD = 32; altri PD = 91; nessun PD = 63) ricoverati e ambulatoriali dell’ospedale San Raffaele di Milano. I risultati mostrano come la labilità emotiva, la depressione, l’insicurezza dovuta a separazione, l’impulsività, l’ostilità e l’assunzione di rischi fossero associate a diagnosi di disturbo borderline di personalità. In particolar modo, i tratti che discriminano i pazienti con disturbo borderline sono l’insicurezza dovuta alla separazione, la distraibilità, l’impulsività e la disregolazione percettiva.

Negli ultimi anni si ha ancora poca conoscenza sui tratti narcisistici nel disturbo borderline di personalità (Euler et al., 2018): uno studio ha cercato di indagare le associazioni tra narcisismo e narcisismo nelle due varianti vulnerabile e grandioso in relazione al genere e alle caratteristiche del disturbo borderline di personalità. Il Pathological Narcissism Inventory e altre misure psicometriche sono state somministrate a 65 pazienti borderline. I risultati mostrano come i pazienti maschi con disturbo borderline di personalità presentano punteggi narcisistici più elevati rispetto alle femmine (p<0,01), il narcisismo grandioso ha mostrato un’associazione più forte col disturbo narcisistico di personalità, mentre il narcisismo vulnerabile è associato solo col disturbo borderline di personalità (tale tipologia di narcisismo era predetta dalla sensibilità al rigetto e dalla depressione).

 

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