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Superhero Therapy. Un viaggio da eroe attraverso l’Acceptance and Commitment Therapy (2018) di Janina Scarlet – Recensione del libro

In Superhero Therapy, l’autrice Janina Scarlet, in modo originale, arriva al cuore di tutti, ragazzi e adulti, proponendo una visione diversa dalla consueta, ossia per vivere bene bisogna essere forti e provvisti di “poteri sopranaturali”, ma ci ricorda che la vita del supereroe inizia da una sofferenza.

 

Attraverso racconti e fumetti, l’autrice ci mette di fronte a grandi ed ahimè, sofferenze frequenti tra gli adolescenti quali ansia, depressione, disturbi alimentari, condotte autolesionistiche, traumi, violenze ed abusi fisici e psicologici, narrati attraverso i vissuti dei supereroi, protagonisti del libro.

Chi è Janina Scarlet

Psicologa Clinica presso il Center for Stress and Anxiety Management a San Diego (CA), non è soltanto l’autrice del testo, ma colei che grazie a un supereroe, ha salvato se stessa dai dolori fisici vissuti in tenera età a causa degli effetti devastanti prodotti dai veleni di Chernobyl (da ragazzina, infatti, viveva in Ucraina) e da quelli psicologici subiti dai 12 anni in poi quando la famiglia si trasferisce in America, divenendo vittima di bullismo a scuola tra i coetanei.

Superohero Therapy 2018 di Janina Scarlet Recensione del libro

Immagine 1 – Janina Scarlet

Ma la sua vita, ricorda l’autrice anche all’interno del testo, cambia quando vide il film X-Man, a quel punto, identificandosi in uno di quei personaggi mutanti, non si vive più come mostro, ma come supereroe, superando il suo disturbo da stress post traumatico.

Contenuti e finalità del libro

Presentato come manuale di auto-aiuto, ispirandosi ai principi terapeutici dell’Acceptance and Commitment Therapy (ACT), ed ai vissuti dei protagonisti supereroi, il libro spiega, in modo semplice e preciso, varie forme di disagio psichico frequenti non soltanto tra i giovani, come ad esempio i sintomi vissuti nell’attacco di panico, quelli relativi al disturbo post traumatico da stress, a seguito di un incidente stradale o la depressione della protagonista vittima di abusi sessuali e le condotte di abbuffate alimentari e condotte autolesionistiche di un altro dei nostri cari supereroi…

Conosceremo i mostri con i quali dovranno imparare a confrontarsi (e non lottare o evitare) come Ansia (l’esasperazione della paura), Depressione (che rappresenterebbe l’esasperazione della tristezza), Vergogna e Rabbia.

Immagine 2 – Alcuni dei personaggi presenti nel libro “Superhero Therapy”

E attraverso i principi dell’ACT, ogni capitolo spiega e propone un esercizio, durante questo training da supereroe: esercizi di mindfulness, coltivare il proprio IO da supereroe, riconoscere i propri valori, mostrare gratitudine, esercizi di defusione, disponibilità ad entrare in contatto con ciò che ci crea dolore, sviluppare auto-compassione e agire in linea con ciò che conta per noi!

Considero il presente manuale uno strumento utile ed arricchente per il professionista che lavora con giovani e non solo, al di là dello specifico approccio terapeutico, ma anche un libro utile ai ragazzi che spesso si sentono smarriti, intrappolati nei propri mostri, non credendo di poter attingere alle proprie risorse per affrontare la vita da supereroe.

Ritengo inoltre che il ricorso ai supereroi e fumetti sia un canale per arrivare ai giovani, in modo verosimile ma non violento. Da non fraintendere, a mio avviso, che per vivere una vita degna di valore bisogna essere un supereroe: attenzione lettori, quella potrebbe essere la voce di un nuovo nemico!

 

Comportamento immorale e auto-disumanizzazione

Un recente studio si è proposto di indagare sia sul ruolo causale del comportamento immorale sull’auto-disumanizzazione, sia sul ruolo causale dell’auto-disumanizzazione su di un successivo comportamento immorale.

 

La moralità varia a seconda del retaggio culturale e degli individui stessi, ma è universalmente considerata come una parte fondamentale di ciò che ci rende umani (Brandt e Reyna, 2011; Haslam, Bastian, Laham e Loughnan, 2011). La ricerca sulle teorie laiche dell’essenza umana mostra che le persone credono che la sensibilità morale costituisca una proprietà unicamente umana che ci distingue dagli animali (Haslam, 2006). In effetti, negare a qualcuno caratteristiche unicamente umane può rappresentare una disumanizzazione animalesca che ritrae le persone come “immorali o amorali, cioè inclini a violare il codice morale o prive del tutto di esso” (Haslam, 2006): questo punto di vista suggerisce una forte connessione tra immoralità e disumanizzazione. Le evidenze suggeriscono che un iniziale comportamento immorale, come ad esempio l’atto di mentire, può successivamente generare maggiore immoralità (Tenbrunsel & Messick, 2004).

A partire da questi risultati, lo studio di Kouchaki e colleghi si è incentrato sia sul ruolo causale del comportamento immorale sull’auto-disumanizzazione, sia sul ruolo causale dell’auto-disumanizzazione su di un successivo comportamento immorale. È importante sottolineare che se queste relazioni risultano reciprocamente vere, l’auto-disumanizzazione potrebbe aiutare a spiegare parzialmente le spirali discendenti della disonestà (Kauchaki et al., 2018). Il lavoro di Kauchaki e colleghi nasce dall’unione di tre studi, aventi sotto-obiettivi diversi e con procedure differenti, nei quali i partecipanti sono stati reperiti mediante un questionario svolto su Amazon’s Mechanical Turk che offriva una ricompensa di 0,50$ a ciascuno. Nel primo studio gli autori hanno testato se comportamenti non etici accrescessero l’auto-disumanizzazione chiedendo ai partecipanti di scrivere un testo dettagliato riguardante un proprio evento passato. Il campione era stato suddiviso casualmente in tre parti: un terzo doveva descrivere una situazione in cui aveva avuto un comportamento non etico, un terzo doveva richiamare un evento in cui si era comportato eticamente ed un terzo doveva descrivere un vissuto passato neutro. Dopo aver misurato in seguito i livelli di auto-disumanizzazione con il Mind Attribution Scale (Kozak et al., 2006), è emerso che i partecipanti che avevano descritto un atto non etico presentavano facoltà umane più basse rispetto agli altri due terzi del campione.

Nel secondo studio sono state esaminate le conseguenze dell’auto-disumanizzazione ipotizzando che questa potesse accrescere la disonestà. I partecipanti dovevano scrivere un testo in cui raccontare nel dettaglio una situazione in cui non sentivano se stessi al pieno delle facoltà di essere umano; successivamente gli fu chiesto di risolvere quanti più anagrammi possibile in 2 minuti con dei set di lettere che, se propriamente combinate, potevano formare parole in lingua inglese. Per ogni parola trovata avrebbero avuto una ricompensa di 0,25$. L’ultimo anagramma era però irrisolvibile, per cui gli autori si sono serviti della frequenza con cui i partecipanti avevano riportato di averlo risolto come misura per la menzogna. Coloro che avevano scritto un testo con un vissuto di auto-disumanizzazione avevano mentito in misura maggiore rispetto al gruppo di controllo, riportando di avere risolto l’anagramma.

Nel terzo studio si è quindi ipotizzato che un comportamento immorale potesse accrescere l’auto-disumanizzazione, che potesse a sua volta alimentare azioni immorali. Il campione era stato suddiviso in una prima parte che aveva precedentemente descritto una situazione esperita come non etica e una seconda parte che aveva descritto una situazione neutra. È stata data ai partecipanti la possibilità di tentare di prevedere quale sarebbe stato il risultato del lancio di una moneta, con un premio di 2$ se la previsione fosse stata corretta. Il lancio della moneta è stato truccato in modo che solo per il gruppo nella condizione non-etica la faccia della moneta risultasse sempre differente dalla previsione del partecipante, al quale è poi stato chiesto se avesse avuto problemi con lo svolgimento di questo compito. Successivamente è stata misurata l’auto-disumanizzazione con il questionario sopra citato ed è stato sottoposto un secondo compito sulla risoluzione degli anagrammi proprio con le condizioni dello studio precedente. Per quanto riguarda i risultati, i partecipanti che avevano la possibilità di imbrogliare nel primo compito hanno dichiarato di avere facoltà umane significativamente inferiori rispetto ai partecipanti in condizione neutra; allo sesso modo, coloro i quali erano nelle condizioni di essere disonesti nel secondo compito dopo aver compilato il questionario sull’auto-disumanizzazione hanno dichiarato facoltà umane marginalmente inferiori rispetto alla condizione neutra.

Lo studio presenta un paradigma secondo cui comportarsi in modo immorale può spingere le persone a interiorizzare sottilmente un’immagine di sé stesse come prive delle capacità mentali di base necessarie per resistere alla tentazione di comportarsi in modo disonesto, inducendole ulteriormente verso comportamenti immorali (Kauchaki et al., 2018). Il suddetto studio ha dimostrato la connessione tra moralità e umanità (come attribuzione della mente) evidenziando come il comportamento non etico portasse alla successiva auto-disumanizzazione, che poteva diventare pretesto per una nuova azione immorale volta a portare nuova disonestà a valle. Quando un individuo si auto-disumanizza, si rende animale o oggetto, e pertanto privo di ragione, anima e moralità (Volpato, 2011).

Questi risultati contribuiscono alla crescente letteratura che esamina le conseguenze di comportamenti non etici ed estendono questo lavoro esaminando i nessi causali mediante i quali il comportamento non etico può auto-rinforzarsi.

 

Essere genitori oggi: tra sfide e risorse – VIDEO

Mai come in questo periodo di emergenza i genitori hanno dovuto mettere in campo nuove strategie e risorse per affrontare le nuove sfide e guidare i propri figli. Pubblichiamo, per i nostri lettori, il video dell’incontro sull’argomento organizzato da Studi Cognitivi Modena.

 

Oggi i genitori si ritrovano ad affrontare sfide educative nel rapporto con i propri figli, a volte privi di risorse e con bisogno di informazioni.

In questa fase di emergenza sanitaria la situazione non può che aggravarsi costringendo a una quotidianità pressante e a una difficoltà a ritagliare spazi individuali. Può emergere un sovraccarico emotivo con il presentarsi di un’escalation di conflitti tra genitore-figlio e nella stessa coppia genitoriale.

L’incontro dell’11 maggio 2020, tenuto da Studi Cognitivi Modena e condotto dalle dr.sse Caterina Poli e Cristina Ferrari, ha avuto l’obiettivo di informare sui diversi stili genitoriali utilizzati all’interno della relazione con i propri figli, creando un momento di condivisione e confronto tra i partecipanti. Pubblichiamo, per i nostri lettori, il video dell’evento.

 

Essere genitori oggi: tra sfide e risorse
Guarda il video integrale del webinar:

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La solitudine dell’Anziano: gli effetti sulla salute fisica e mentale – Una giornata per sensibilizzare

Dal 2018, su proposta dell’Associazione Italiana di Psicogeriatria (AIP), il 15 Novembre è la Giornata Nazionale contro la solitudine degli anziani, tema molto sentito specialmente in questo periodo segnato da isolamento forzato e dalla chiusura al pubblico delle RSA.

 

Obiettivo della giornata è, dunque, sensibilizzare l’opinione pubblica e le professioni sanitarie sulla necessità di interventi adeguati volti a contrastare la gravità del fenomeno.

Lo psicologo dell’Università di Chicago John Cacioppo, uno dei maggiori esperti dell’argomento, ha definito la solitudine come uno stato emotivo negativo che si sperimenta quando è presente una discrepanza tra le relazioni che si desidererebbe possedere e quelle che si percepisce di avere nella realtà. Secondo l’autore, inoltre, tale condizione non riguarda tanto la quantità di tempo spesa con le altre persone quanto più la qualità delle relazioni stesse.

La solitudine è una compagna dolorosa di molte persone, in particolar modo anziane, e impatta profondamente sulla salute fisica e psicologica, portando spesso a esiti drammatici. Solitudine e isolamento sociale sembrerebbero associati a una riduzione della durata della vita simile a quella provocata dal fumo di 15 sigarette al giorno, con un aumento del 27% del rischio di mortalità prematura (Murthy, 2017).

D’altra parte, invece, instaurare relazioni solide porterebbe a un ridotto rischio di mortalità (Holt-Lunstad et al., 2017).

Effetti sulla salute fisica e mentale

Come è noto, la solitudine influisce sulla salute mentale, infatti essa costituisce un fattore di rischio per lo sviluppo della depressione (Cacioppo et al., 2010).

Diverse ricerche dimostrano, inoltre, come tale condizione sia associata anche ad altre diverse patologie quali ansia sociale, disturbo ossessivo-compulsivo, disturbi neurocognitivi e ricopra un ruolo di mediatore nella relazione ansia-depressione (Lim et al., 2016; Timpano et al., 2014; Rafnsson et al., 2017; Ebesutani et al., 2015).

La solitudine comporta anche conseguenze negative per la salute fisica, come ipertensione, disturbi del sonno e deficit del sistema immunitario (Cacioppo & Cacioppo, 2014), con spesso conseguente adozione di forme disadattive di auto-terapia quali consumo di alcol e fumo (Stickley et al., 2013).

Inoltre, la solitudine è associata a un aumento della mortalità, spesso con esito drammatico il suicidio (De Leo et al., 2013). Secondo la teoria interpersonale del suicidio alla base di tale gesto ci sarebbero proprio la mancanza di connessioni e la percezione di essere un peso (Van Orden et al., 2010).

La solitudine nella terza età

Secondo il rapporto Istat 2018, circa il 40% degli ultrasettantacinquenni non ha nessuno a cui rivolgersi in caso di bisogno.

Le cause alla base di tale condizione sono molteplici: crisi della famiglia, limitazioni fisiche e motorie, morte di molti coetanei, vedovanza, condizioni abitative limitanti, maggiore utilizzo di comunicazione tramite dispositivi elettronici piuttosto che face-to-face.

La solitudine, insieme a età, patologie croniche e non autosufficienza, è dunque un fattore di rischio per il processo di fragilizzazione dell’anziano.

Uno studio longitudinale di Perissinotto e colleghi (2012), su un campione di 1600 intervistati, ha rilevato che il 43% degli anziani viveva in una condizione di solitudine e, a distanza di sei anni dalla prima intervista, i ricercatori hanno scoperto che chi era solo aveva un rischio di mortalità del 45% più alto, con un peggioramento della qualità della vita e delle autonomie personali.

Per quanto riguarda la relazione tra solitudine e demenza, uno studio interessante ha analizzato in soggetti cognitivamente sani l’associazione tra livello di solitudine percepita e presenza di placche beta-amiloide (biomarcatore della malattia di Alzheimer) (Donovan et al., 2016). Dai risultati è emerso che le persone positive alla beta-amiloide si sentivano 7,5 volte più sole rispetto a chi era risultato negativo alla proteina.

L’isolamento nelle RSA ai tempi del Covid-19

Quest’anno più che mai è forte il bisogno di sensibilizzare la popolazione sulla solitudine degli anziani, in particolar modo di quelli istituzionalizzati. A causa dell’emergenza Covid-19, infatti, le strutture di assistenza si vedono costrette a dover nuovamente negare le visite dei familiari ai loro cari.

Già durante il primo lockdown erano insorte negli ospiti una serie di sintomatologie quali agitazione, insonnia, ansia, disturbi dell’alimentazione e del sonno, delirium, sarcopenia e conseguenti difficoltà di deambulazione (Bianchetti et al., 2020; Cagnin et al., 2020). Questi dati fanno sicuramente riflettere sulla drammaticità del periodo che stiamo vivendo e sulla ormai comprovata influenza dell’isolamento sociale sulla salute.

Iniziative adottate contro la solitudine dell’anziano

Nel corso degli ultimi anni sono nate diverse iniziative volte ad arginare tale problematica. Un esempio è il co-housing, ovvero la convivenza di più anziani rimasti soli o senza una adeguata rete sociale in appartamenti che possono prevedere l’assistenza da parte di alcuni operatori sociosanitari.

Altro esempio è il modello della Dementia Friendly Community, vere e proprie cittadine adattate all’anziano con decadimento cognitivo. Obiettivo principale di queste comunità è lenire la solitudine dell’anziano fragile, rispondendo ai suoi bisogni psicologici e offrendo una solida rete sociale. In questo contesto la persona malata può sentirsi compresa, rispettata, inclusa e coinvolta nella vita di comunità, con possibilità di scelta e controllo sulla propria vita.

Infine, quando si parla di solitudine è bene considerare anche quella vissuta dai caregiver familiari, totalmente sopraffatti dalle cure rivolte al proprio familiare da compromettere la propria salute fisica e mentale, la propria situazione lavorativa e sociale. Una iniziativa di sostegno psicologico, informazione e supporto sociale ai caregiver molto diffusa è l’istituzione dei Caffè Alzheimer, incontri generalmente mensili rivolti ai caregiver di persone affette da demenza durante i quali un professionista tratta un argomento specifico legato alla malattia e alla sua assistenza e i caregiver possono scambiarsi consigli, supportarsi a vicenda e fare rete.

 

Lo stress e il binomio mente-corpo

Per stress si intendono un insieme di fenomeni vegetativo-emotivi, cognitivi e comportamentali che tendono a presentarsi in modo congiunto quando un individuo è sottoposto a un compito di natura adattiva. Come interagisce lo stress con mente e corpo?

 

Cos’è lo stress?

La parola stress, il cui primo utilizzo risale ai primi anni del ‘900, viene utilizzata frequentemente ed il suo significato viene ricondotto a degli stili e dei ritmi di vita caotici (Grandi, Rafanelli, & Fava, 2011).

Per stress si intendono un insieme di fenomeni vegetativo-emotivi, cognitivi e comportamentali, i quali tendono a presentarsi in modo congiunto, nonostante ci siano delle differenze individuali e soggettive, quando un individuo è sottoposto a qualunque compito di natura adattiva.

Lo stress viene considerato una reazione funzionale al mantenimento dello stato di equilibrio omeostatico organismo-ambiente; tuttavia, diventa problematico quando questa risposta è stata sollecitata troppo a lungo o in modo troppo intenso. Queste condizioni determinerebbero un’alterazione delle capacità di adattamento e l’eventuale presenza di una sorta di esaurimento psicofisico (Atkinson & Hilgard, 2017; Damour & Hansell, 2018; Craparo, 2013; Trombini & Baldoni, 2001; Trombini & Baldoni, 1999).

Quindi lo stress è il risultato della relazione organismo-ambiente e l’attivazione di specifiche risposte psicofisiologiche, che in alcuni casi potrebbero essere problematiche per chi li mette in atto (Grandi, Rafanelli, & Fava, 2011). Esistono vari tipi di stress:

  • fisici: riguardano l’esposizione prolungata a condizioni di rumore, inquinamento, a temperature estreme e/o richiesta all’organismo di sforzi eccessivi a cui non è preparato;
  • psicosociale: riguarda tutte quelle situazioni in cui l’esigenza alla quale rispondere viene posta dal contesto sociale dei rapporti umani in cui si è immersi, oppure viene autoimposta;
  • acuti: riguardano quegli avvenimenti improvvisi e di breve durata della vita, siano essi blandi anche se frequenti (multa, oggetto perduto, etc.), o più gravi, ma meno frequenti (trasferimento, separazione, lutto);
  • cronici: sono tutte quelle condizioni persistenti (come conflittualità col coniuge, con il capo etc.) e d’intensità molto prolungata. Gli stress cronici sono molto peggiori di quelli acuti e meno sopportabili, anche se, in alcuni casi, lo stress acuto può trasformarsi in stress cronico (ad esempio, il disturbo da stress post-traumatico);
  • negativo (distress): situazioni valutate dal soggetto come negative e le cui conseguenze sono considerate minacce;
  • positivo (eustress): sono situazioni che, sebbene richiedano uno sforzo di adattamento maggiore del solito, sono tali che lo sforzo viene inteso come un impegno, una sfida.

Sin da quando si è iniziato a studiare e successivamente ad elaborare delle teorie, la parola “stress”, viene utilizzata non solo per alludere agli eventi stressanti (Holmes & Rahe, 1967), ma anche per le risposte psicofisiologiche messe in atto dall’individuo nei confronti di questi eventi (Cannon, 1929; Selye, 1974; Selye, 1976) e altri sul processo di cambiamento tra uomo e ambiente che dall’evento arriva alla risposta organica (Folkman & Lazarus, 1988).

Pertanto, a partire da queste considerazioni, lo stress, può essere percepito in tre modi:

  • come risposta;
  • come stimolo;
  • come transizione (Grandi, Rafanelli, & Fava, 2011).

Lo stress come Risposta

Lo studioso Cannon (1929), ha approfondito il concetto di “Costanza dell’Ambiente Interno” ed ha utilizzato il termine “omeostasi”, intesa come la presenza di un equilibrio interno nell’organismo, mantenuto da un insieme di processi biochimici complessi. Ogni cambiamento che proviene dall’ambiente esterno, produce nell’individuo un insieme di risposte fisiologiche che hanno l’obiettivo di ripristinare l’omeostasi (Cannon, 1929). Cannon (1929), inoltre, è stato il primo a studiare la relazione tra emozioni e specifiche reazioni fisiologiche, il cui obiettivo è quello di aumentare le probabilità di sopravvivenza del soggetto di fronte ad una minaccia.

Secondo lo studioso, paura e rabbia sono due emozioni che sollecitano due tipi di comportamenti; la prima, produce nell’individuo la reazione di scappare, la seconda di attaccare; Cannon (1929) ha definito questi due comportamenti come “risposta di lotta-fuga”.

Questa risposta, elicita anche delle reazioni a livello fisiologico, perché permette al soggetto di assimilare le risorse necessarie tese o all’attacco o alla fuga. A livello fisiologico, si assiste all’attivazione del sistema nervoso simpatico e all’inibizione del parasimpatico.

Gli studi di Cannon (1929), furono ulteriormente approfonditi da Selye (1974, 1976). Lo studioso ha osservato che tutti gli animali, a cui veniva sottoposto uno stimolo stressante (stressor), mettevano in atto la stessa risposta indipendentemente dalle caratteristiche degli stimoli stressanti. La risposta messa in atto dagli animali di fronte agli stressors è stata definita da Selye (1976) “stress”.

L’esposizione agli stressors produce delle risposte fisiologiche, che sono provocate dall’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene; questa condizione viene definita dall’autore “Sindrome Generale di Adattamento” (GAS) (Selye 1974, 1976).

La GAS conste di tre fasi:

  • La fase di allarme: in questa prima fase, il corpo si impegna totalmente a richiamare tutte le forze e le energie per far fronte allo stressor nel migliore dei modi. La principale reazione interna è la produzione di adrenalina (catecolamine) con conseguente aumento del battito cardiaco: il corpo si prepara alla classica risposta “combatti o fuggi”, dominata dal nostro istinto di sopravvivenza. Il nostro corpo percepisce una novità, ma come tale la interpreta come possibile pericolo reagendo di conseguenza: in questo caso il protagonista è sicuramente l’ipotalamo. Questa importante area dell’encefalo agisce attraverso tre vie:
  1. secrezione di cortisolo, adrenalina e noradrenalina (aumento pari anche a 10 volte il normale);
  2. produzione di antidolorifici naturali del corpo, le betaendorfine, che innalzando la soglia del dolore permettono di sopportare meglio traumi, sforzi e tensioni emotive;
  3. attraverso il sistema simpatico inibizione del funzionamento dell’apparato digerente e stimolazione di altri sistemi come quello vascolare, muscolare liscio e ghiandolare.
  • La fase di resistenza o adattamento, in questa fase l’organismo si adegua alle nuove circostanze e cerca di resistere finché l’elemento stressante non scompare. In questa fase di resistenza abbiamo la sovrapproduzione di cortisolo che causa un indebolimento delle difese immunitarie, arrivando fino alla loro soppressione: questo inizialmente non causa problemi, ma nel lungo periodo con uno stress cronico rende molto più probabile l’attecchimento di molte malattie virali, batteriche e si pensa anche autoimmuni come l’artrite reumatoide o la sclerosi multipla.
  • La fase dell’esaurimento, quella conclusiva, assicura al corpo il riposo necessario per rimettersi completamente; in genere comincia quando l’organismo percepisce il pericolo come finito o quando le energie cominciano a venir meno.

Quando la fase di resistenza termina, si possono presentare due casi:

  • le energie non sono esaurite del tutto e la persona avverte la fase di esaurimento come un torpore benefico rilassante, con una sensibile sensazione di debolezza e lassità (come dopo una competizione o un rapporto sessuale)
  • la fase di resistenza è durata troppo e l’esaurimento è dovuto alla completa mancanza di energie, con periodi di recupero lunghi e debilitanti (anche depressivi). Biochimicamente parlando abbiamo un calo repentino degli ormoni surrenalici (adrenalina, noradrenalina e cortisolo) e la rapida diminuzione delle riserve energetiche. In sostanza ci troviamo davanti a un’azione depressiva contraria a quella da resistenza che tenderà a riportare il corpo nella condizione precedente allo stress e quindi in equilibrio (il sistema parasimpatico calmante prende il posto di quello simpatico).

Importante è ricordare che molte volte quando il soggetto diventa stress-dipendente, arrivando a vivere fasi di resistenza prolungatissime, può sentire la necessità impellente di utilizzare sedativi, alcool, fumo e altri mezzi per passare artificialmente alla fase di esaurimento e permettere al proprio corpo di riposarsi (Selye, 1974, 1976).

Lo stress come Stimolo

Lo stress, secondo la prospettiva “dello stimolo”, viene considerato come uno o più eventi di vita che producono un’attivazione psicofisiologica, che predispongono l’individuo a sviluppare una malattia (Kemeny, 2003). È possibile distinguere gli eventi stressanti esterni ed interni.

Gli eventi stressanti (ad esempio lutti, catastrofi, perdite improvvise) che si presentano nella vita del soggetto, sono dei cambiamenti che producono una reazione.

Gli eventi stressanti interni, hanno una radice psicologica e sono, per esempio: bassa autostima, assenza di energia, etc (Grandi, Rafanelli, & Fava, 2011).

Lo stress come Transizione

Questo modello si contrappone a quanto è stato esposto in precedenza, in quanto è stato osservato che gli individui non mettono in atto la stessa risposta di fronte ad uno o più stressors.

Secondo Lazarus (1966), l’attribuzione ad un evento come minaccioso dipende dall’individuo; il soggetto valuta ed interpreta cognitivamente gli eventi che si manifestano nell’ambiente, decidendo e decretando se tale evento è minaccioso o meno.

Il modello che è stato elaborato da Lazarus e Folkman (1984) enfatizza i processi cognitivi che si attivano quando si presenta un evento potenzialmente stressante e i processi fisiologici che si attivano in risposta a tale evento.

La valutazione cognitiva è sottesa a due processi: primaria e secondaria. Durante la valutazione cognitiva primaria, l’individuo attribuisce un significato ad un evento, la gravità di un evento e gli attribuisce una connotazione (positiva o negativa all’evento). Nella valutazione cognitiva secondaria, l’individuo ricerca la risposta più adatta da mettere in atto per fronteggiare lo stress (Folkman & Lazarus, 1984). Oltre alle fasi che sono state appena annoverate e descritte, ne esiste una terza che è definita “re-appraisal”, che consiste nella esaminazione delle strategie usate per fronteggiare gli stressors, e valuta se esse siano state efficaci o se è necessario utilizzarne altre.

Da queste considerazioni, per concludere, è possibile affermare che lo stress si sviluppa nell’interazione tra la persona e l’ambiente circostante (Grandi, Rafanelli, & Fava, 2011).

Gli effetti dello stress nell’individuo

Lo stress varia da persona a persona e variano anche le cause ad esso legate, può infatti essere causato da disturbi legati al sonno come dall’eccesso lavoro, dalle troppe responsabilità, da un momento emotivo o psicologico debole, da periodi intensi o da un evento traumatico. I fattori di stress che possono determinare conseguenze fisiche e psicologiche sono recepiti in maniera diversa a seconda dell’individuo (Supradyn, 2020).

I sintomi fisici possono derivare da perturbazioni da parte dell’inconscio, come ad esempio un’incidente d’auto o un infortunio. In questi casi la mente può sfruttare l’occasione dell’incidente al fine di sviluppare il dolore che ha una funzione per l’individuo, come sollevarlo da una situazione di lavoro difficile. Attraverso la simulazione e lo studio di un incidente stradale è stato dimostrato che il 10% dei partecipanti aveva dolore al collo 4 settimane dopo “l’incidente” anche se il collo non era stato chiamato in causa durante la dinamica. Coloro che avevano più probabilità di sviluppare dolore al collo erano quei soggetti sotto stress o con pressione emotiva più forte al momento del sinistro (Castro, WHM, & al., 2001).

Invece, i conducenti di auto da demolizione che hanno una media di oltre 150 scontri per gara raramente sviluppano dolore cronico al collo (Simotas & Shen, 2005).

Inoltre, l’inconscio è collegato a quei sintomi che fanno parte del nucleo familiare, per esempio cefalea e dolori addominali o sintomi citati in riviste, programmi televisivi.

Un altro meccanismo scatenante lo stress è legato agli eventi passati. Per esempio, un soggetto che ha avuto un infortunio in una zona specifica del corpo ha più probabilità di sviluppare dolore psicogeno in quel punto, in quanto il modello neurologico del dolore e della sensibilizzazione nervosa è stato riprodotto in passato ed è ricordato dal cervello. Infine, alcuni sintomi sono rappresentativi e associati ad un processo psicologico chiaro, come un uomo che sviluppa dolore all’inguine dopo aver avuto una relazione extraconiugale. Sembra che la mente inconscia sia in grado di produrre sintomi fisici in momenti di grande stress come meccanismo di uscita o fuga per via dell’accumulo di emozioni inaccettabili che non hanno sbocco (Chila, 2015).

Come può agire la psicologia?

La capacità e la consapevolezza di saper gestire il proprio ambiente (fisico e sociale) contribuisce ad un miglior recupero psicofisico migliore in seguito ad uno stress (Frazier, Steward, & Mortensen, 2004).

Dal punto di vista psicologico, la capacità di fronteggiare lo stress consiste nel:

  • saper riconoscere il proprio stato di stress;
  • risalire alle cause che provocano le tensioni nella vita quotidiana.

Per gestire lo stress e per tornare a uno stato di benessere psicofisico è necessario riconoscere le cause di tensione e di stress della vita quotidiana e delle situazioni eccezionali che la vita ci pone. Gestire lo stress significa trovare strategie per modificare lo stato in cui ci troviamo, intervenendo sull’ambiente oppure su noi stessi, modificando:

  • i pensieri
  • le emozioni
  • le azioni
  • le nostre reazioni abituali.

Il Pensiero Creativo potrebbe essere un’ottima soluzione per gestire lo stress; molti tendono ad associarlo ad artisti, bambini e, quindi, a coloro i quali “si possono permettere di sognare o fantasticare”.

In realtà, il pensiero creativo serve per pensare ad alternative possibili, avere idee originali per trovare soluzioni, uscire da situazioni difficili o da schemi comportamentali che ci bloccano. In questo contesto la creatività diventa sinonimo di:

  • Abilità nel trovare alternative
  • Curiosità
  • Idee originali
  • Autorevolezza e personalità
  • Varietà di interessi

Così definito, il pensiero creativo è molto utile nella soluzione dei problemi, nella presa di decisioni, permette di trovare alternative originali nelle situazioni difficili e può rappresentare un ottimo antidoto allo stress.

Oltre al pensiero creativo, un’ottima strategia per fronteggiare lo stress potrebbe essere quella di scrivere un diario ed annotare tutte le sensazioni che si percepiscono, per far sì che il foglio diventi un contenitore in grado di “con-tenere” tutto ciò che viene scritto (Viscuso, 2018).

Altre strategie per fronteggiare lo stress potrebbero essere lo yoga, la mindfullness e l’attività fisica; queste attività aiutano a scaricare e favoriscono il benessere psicofisico.

Un aspetto su cui porre enfasi riguarda la consapevolezza delle nostre reazioni abituali per fronteggiare lo stress, in quanto possiamo capire quali tra queste sono d’aiuto e quali aggravano la nostra condizione di stress.

Sono stati individuati tre fattori che contribuiscono all’adeguata gestione dello stress, essi sono:

  • l’esprimere le proprie emozioni
  • l’essere attivi
  • il pensare positivamente

Un’ulteriore strategia per gestire lo stress in modo efficace, potrebbe essere quella di fare esercizi di rilassamento.

Ascolta il tuo corpo – Prenditi il tempo di passare in rassegna il tuo stato fisico (Bastano pochi secondi) dai piedi alla testa. Prendi consapevolezza di dove sono situate le tensioni o i punti più rilassati, dove senti fastidio o dove senti buone sensazioni e cerca di capire se ci sono eventi o stati d’animo che producono tali sensazioni a livello fisico. I segnali del corpo sono un primo campanello di allarme dello stress.

Un altro esercizio che potrebbe alleviare la condizione di stress è l’ “Esercizio della calma” (adatto anche per i bambini).

Mantenere la calma aiuta a essere pronti a risolvere i problemi e a gestire quei momenti in cui ci si sente spaventati, infastiditi o agitati. Ecco 4 semplici passi:

  1. Dì a te stesso: “Fermati e guardati intorno”, “Stai calmo”;
  2. Inspira profondamente e lentamente dal naso contando fino a 5;
  3. Trattieni il respiro contando fino a 2;
  4. Espira lentamente dalla bocca contando fino a 5.

Ripeti tutto fino a quando non ti senti calmo.

NB: l’esercizio deve essere praticato e imparato prima che ce ne sia bisogno, non si può imparare quando non si è calmi (LifeSkills, 2020).

…e l’Osteopatia?

Studi effettuati nel 2011 sul sistema nervoso autonomo hanno evidenziato come dei soggetti avessero l’attività di alcune aree del cervello alterate; le quali erano deputate alla modulazione del dolore e alla reazione allo stress.

Questa condizione migliorava in seguito a specifici trattamenti osteopatici, con riduzione dei seguenti livelli: riduzione dei livelli di cortisolo nel sangue, i soggetti accusavano meno dolori e un conseguente miglioramento della loro qualità di vita e cambiamento di risposta allo stress

L’osteopata può usufruire di diversi approcci per contrastare lo stress:

  • Cranio sacrale: agendo con tecniche che stimolano la fluttuazione del liquor (liquido cefalo rachidiano) e tecniche che andranno a stimolare\inibire l’ipofisi e il suo ormone ACTH.
  • Linfatico: eseguendo un drenaggio linfatico sia a livello cranico, sia a livello corporeo, per far si che vengano eliminate le scorie accumulate a causa dello stress.
  • Fasciale: agendo sul tessuto connettivo (che riveste gran parte del nostro corpo) si otterrà un effetto su quelle strutture che ricoprono muscoli e periostio, altamente innervate e vascolarizzate.
  • Digito-pressione: tramite la stimolazione dei riflessi neurolinfatici di Chapman, ovvero dei riflessi viscero-somatici (Vivisol, 2018).

Inoltre, è stato visto come la stimolazione del nervo vago (detto anche pneumogastrico il quale rappresenta il X paio dei nervi cranici) possa giovare dei benefici al paziente con disturbi da stress.

Nel 2003, Kappler e Ramey hanno documentato che il nervo vago aveva ampie interconnessioni con i nervi cranici e il segmento vertebrale C2. Hanno inoltre indicato che il nervo vago era responsabile del dolore riferito e dei riflessi parasimpatici, compresi i mal di testa posteriori riferiti dalla gola, dai polmoni, dal cuore o dall’intestino (Hulett, 1906; Kappler & Ramey, 2003).

Il nervo vago è così chiamato perché ha molteplici ramificazioni che si differenziano da due steli radicati nel cervelletto e nel sistema cerebrale e si irradiano, “vagando”, fino ad attraversare torace ed addome: toccando il cuore e la maggior parte degli organi interni principali lungo il suo percorso. Il nervo vago è collegato al sistema nervoso parasimpatico, che stimola la quiete, il rilassamento, il riposo, la digestione e l’immagazzinamento di energia. Nel 1921 Otto Loewi scoprì che la stimolazione del nervo vago provoca una riduzione della frequenza cardiaca, innescando il rilascio dell’acetilcolina, che è un tranquillante che si può produrre nel corpo semplicemente respirando profondamente (Donna, 2020).

L’infiammazione di questo nervo è collegata a diversi disturbi quali: nausea, vomito, vertigini, mal di testa, problemi alla vista, formicolii su tutto il corpo, parestesie agli arti, intorpidimento muscolare, dolore e rigidità cervicale, artrosi, disturbi della deglutizione, acidità di stomaco, crampi addominali, tachicardia, abbassamento della pressione arteriosa, difficoltà respiratorie. Anche un’alimentazione ricca di grassi può compromettere la condizione del nervo.

Il nervo vago, o nervo pneumogastrico, è un nervo cranico che appartiene al sistema parasimpatico e si estende dall’encefalo fino alla cavità addominale. Questo nervo, infatti, fuoriesce dal midollo, passa attraverso il collo e il torace e raggiunge l’addome ed è fondamentale perché si dirama verso gli organi principali del corpo: laringe, faringe, trachea, cuore, polmoni e parte dell’apparato digerente ed urinario.

Proprio perché passa attraverso diversi organi, questo nervo ha molteplici funzioni e la sua infiammazione può essere dovuta a varie cause.

Il nervo è fondamentale perché viene coinvolto nei movimenti di restringimento dei bronchi e del rallentamento della frequenza cardiaca, aiuta a stimolare la produzione dell’acido gastrico e quindi per la digestione (Donna, 2020).

 

Ossessioni e compulsioni nei bambini: dal fenomeno normale alla psicopatologia – Report del webinar con Gabriele Melli

Si è tenuto pochi giorni fa il webinar gratuito organizzato dal Centro Studi Erickson, dal titolo Ossessioni e compulsioni nei bambini: dal fenomeno normale alla psicopatologia, condotto dal Dottor Gabriele Melli.

 

Si è tenuto pochi giorni fa il webinar gratuito organizzato dal Centro Studi Erickson, dal titolo Ossessioni e compulsioni nei bambini: dal fenomeno normale alla psicopatologia, condotto da Gabriele Melli, psicologo, psicoterapeuta, Presidente dell’Istituto di Psicologia e Psicoterapia Comportamentale e Cognitiva (IPSICO di Firenze) ed autore del testo Vincere le ossessioni. Capire e affrontare il disturbo ossessivo-compulsivo”.

Durante il webinar, Melli ha illustrato con chiarezza cosa intendere per ossessioni patologiche ossia, pensieri, immagini, fantasie o impulsi che creano enorme disagio in chi li sperimenta.

IMMAGINE 1 – Gabriele Melli

Tante le tematiche, ma fra le più comuni sono state citate le ossessioni da contaminazione, sottolineando come la fonte di contaminazione non sia legata solo ed esclusivamente a sostanze contagiose o tossiche ma anche a sostanze ed oggetti legati all’idea di “sporco” che generano disgusto e relativo comportamento di evitamento o pulizia; ed ancora dubbi ossessivi di sbagliare e attraverso tali errori e sbagli, arrecare danni (ad esempio temendo di aver dimenticato il rubinetto dell’acqua aperto e di allagare casa) con relativo rituale di controllo, la categoria di pensieri tabù o inaccetabili, come pensieri di natura aggressiva (pensare di fare violenza alla madre o un proprio caro) e/o autolesiva (da non confondere con le idee suicidarie) e per gli adolescenti che si affacciano alla sessualità, possiamo ritrovare ossessioni di natura sessuale.

Nei bambini le ossessioni patologiche di contaminazione ricoprono circa il 40% dei casi, seguite poi dalle ossessioni di carattere aggressivo e pensiero magico (se faccio o non faccio un certo rituale, potrebbe accadere qualcosa di terribile ai miei cari).

Ossessioni e compulsioni sono frequenti in bambini ed adolescenti, continua a spiegarci Melli, e questo non deve immediatamente destarci preoccupazione, in quanto spesso possono avere un carattere transitorio e svanire spontaneamente. Ne sono esempi alcuni rituali che devono essere agiti soprattutto alla sera oppure alcuni rituali di carattere magico come quelli citati sopra. Ma è bene anche riconoscere alcuni segnali premonitori di possibile evoluzione verso la patologia per riuscire ad intervenire tempestivamente, come la ritualità, ossia quando si comincia ad osservare ad esempio nel bambino, che il suo comportamento non è frutto di abitudini ma designa una estrema rigidità non modificabile del rituale (pena un estremo stato di disagio). Altro aspetto a cui prestare attenzione, suggerisce Gabriele Melli è il notare che il bambino passa molto tempo in uno stato di angoscia, assorto nei suoi pensieri, senza apparente perché. Ciò può essere dovuto al fatto che il bambino si trova assorbito in una lotta contro i contenuti del suo pensiero che cerca di allontanare o controllare e che oltre a generare ansia, spesso si accompagnano a senso di colpa e vergogna (per pensare certi pensieri).

Cosa fare allora?

In questa sede Gabriele Melli offre dei suggerimenti volti all’ampio pubblico di professionisti ma anche ai familiari, ossia tentare di stabilire una comunicazione con il bambino, capire cosa lo preoccupa, cosa lo spaventi, cercando di individuare la funzione del rituale compulsivo. Infatti, sottolinea Melli, il compiere o non compiere un comportamento, rituale magico, deve essere finalizzato a contenere e neutralizzare l’angoscia generata dall’ossessione.

Un valido ed efficace aiuto diventa inoltre la Terapia Cognitivo Comportamentale, che vanta protocolli validati scientificamente.

Anche in questo caso verrà svolta un’analisi funzionale del comportamento. E questo servirà ad individuare da quale comportamento e rituale il bambino è diventato “dipendente” ed accompagnare lo stesso ed i suoi familiare lungo il percorso di “disintossicazione”.

Sarà essenziale anche una fase psicoeducativa, in quanto sarà necessaria la collaborazione attiva del bambino unita al fatto che lo stesso deve sapere perché verranno fatte o non fatte determinate cose; ci si muoverà sia nella sfera comportamentale, cercando di rompere circuiti di evitamento, rituali, e ricerca di rassicurazioni, che su quella cognitiva, al fine di esplorare e rivedere cosa il bambino “pensa dei suoi pensieri”, per aiutarlo ad accettarli, non giudicarli, non averne paura e non sentirsi in colpa.

Un breve webinar ma ricco di informazioni utili sicuramente da approfondire. Si rimanda al sito del Centro Studi Erickson per eventuali date ed eventi formativi.

 

Ossessioni e compulsioni nei bambini: dal fenomeno normale alla psicopatologia

Guarda il video integrale del webinar:

 

Triade Oscura, narcisismo collettivo e credenze sulla salute: quali comportamenti per fronteggiare la pandemia di COVID-19?

La pandemia di COVID-19 ha offerto ai ricercatori la possibilità di esaminare come i tratti di personalità e le convinzioni individuali sul virus, possano predire comportamenti preventivi adattivi (ad es. lavarsi le mani, disinfettare oggetti di uso frequente, stare in casa) e disadattivi (ad es. fare scorte eccessive). 

 

Sebbene tradizionalmente sia stato studiato il ruolo dei Big Five (ovvero estroversione, amicalità, coscienziosità, stabilità emotiva e apertura mentale), in relazione ai comportamenti preventivi, la ricerca di Nowak et al. (2020) ha indagato tratti di personalità meno socialmente desiderabili: la Triade Oscura (cioè narcisismo, machiavellismo e psicopatia) e il narcisismo collettivo, caratterizzati da una massimizzazione degli interessi personali o del proprio gruppo, a discapito di altre persone o gruppi.

Il machiavellismo comprende aspetti di manipolazione, cinismo, ma anche una ricerca di potere e indipendenza. Tra questi individui, la mancanza di rispetto delle norme preventive imposte dal governo può derivare in parte dal credere in teorie complottiste e dunque pensare che chi detiene il potere, similmente a loro, agisca in modo manipolatorio e ingannevole (Kay, 2020).

Mentre il narcisismo rimanda ad una visione grandiosa di sé ed irragionevole senso di diritto, la psicopatia si manifesta con atteggiamenti socialmente insensibili e impulsivi (Paulhus & Williams, 2002).

Nonostante individui con i tratti della Triade Oscura siano tradizionalmente meno propensi a rispettare le restrizioni legate al virus imposte dal governo (Zajenkowski et al., 2020), i narcisisti collettivi, come reazione ad una minaccia che potrebbe mettere a rischio lo status quo del gruppo, adottano comportamenti preventivi se incoraggiati dalle autorità di riferimento (Henderson-King et al., 2009).

Il narcisismo collettivo, considerato nello studio di Nowak et al. (2020) in entrambe le forme “aggressivo” e “comunitario”, rimanda ad un’esasperazione dell’immagine positiva e dell’importanza del gruppo di appartenenza (de Zavala et al., 2009). Sebbene in entrambi sia presente una forte identificazione con il proprio gruppo, senso di diritto del gruppo e lamentele per mancanza di riconoscimento esterno, i domini ai quali si riferiscono sono differenti. Mentre l’aggressivo rimanda a convinzioni irrealisticamente positive sulla potenza del gruppo nell’ambito dell’agency (realizzazione, competenza e dominio), il comunitario rimanda al dominio della communion (cordialità, disponibilità e sacrificio) (de Zavala et al., 2009; Żemojtel-Piotrowska, M., Piotrowski, J., Sedikides, et al., 2020).

Sia i tratti auto-orientati (triade oscura) che quelli rilevanti per la propria identità come membro del gruppo (narcisismo collettivo), si manifestano nelle situazioni che comportano una minaccia rivolta a sé e al proprio contesto, come una pandemia, influenzando l’esito comportamentale insieme alle convinzioni sul virus.

Le cinque credenze individuali sul virus che spiegano l’adozione o meno di comportamenti salutistici, sono state teorizzate nell’Health Belief Model (Rosenstock, 1974; Rosenstock et al., 1988). Mentre la vulnerabilità percepita consiste nella stima soggettiva del rischio di sviluppare un problema di salute, la gravità percepita rimanda alla valutazione del problema e delle sue potenziali conseguenze. I benefici percepiti dell’azione preventiva riguardano la valutazione dell’efficacia di impegnarsi in un comportamento che promuove la salute per ridurre il rischio di malattia. Mentre le barriere percepite all’azione che si riferiscono alla valutazione degli ostacoli al cambiamento comportamentale, possono impedire comportamenti preventivi; l’autoefficacia è la percezione della propria competenza nell’eseguire un comportamento con successo.

Lo studio di Nowak et al. (2020) effettuato su un campione di 755 adulti polacchi durante l’emergenza sanitaria, ha riscontrato come i tratti della Triade Oscura ed il narcisismo collettivo siano correlati con l’adozione di comportamenti preventivi disadattivi (accumulare scorte), essendo entrambi manifestazioni di una minimizzazione del pericolo percepito e massimizzazione degli interessi personali. L’esito è coerente con le caratteristiche intrinseche degli individui con alti livelli di narcisismo, machiavellismo e psicopatia; impulsivi, impegnati nel tutelare i propri interessi e che tendono ad attuare comportamenti rischiosi (Crysel et al., 2013; Jonason & Fletcher, 2018; Jones & Paulhus, 2011).

Lo studio ha supportato parzialmente il valore del modello delle credenze sulla salute nel predire i comportamenti preventivi e di accumulo; mentre tra coloro con tratti della Triade Oscura i comportamenti di accaparramento non sono spiegati in modo sostanziale dalle convinzioni sul virus, tra coloro con narcisismo collettivo, sono le convinzioni che spiegano del tutto l’adozione di comportamenti preventivi.

I tratti della Triade Oscura si associavano alla credenza di vulnerabilità percepita, che portava ad una preoccupazione maggiore verso gli aspetti negativi della prevenzione senza considerarne i benefici e ad un comportamento volto ad accaparrare scorte per volontà di auto-protezione. Al contrario, elevati livelli di barriere percepite riducevano i comportamenti preventivi e quindi indirettamente anche i comportamenti di accaparramento. Mentre il narcisismo si associava ad una maggiore gravità e benefici percepiti, la psicopatia si associava solo ai benefici percepiti. Sia psicopatia che machiavellismo correlavano con una minore autoefficacia percepita nelle azioni preventive.

Entrambe le forme di narcisismo collettivo si associavano a tutte le credenze e all’accaparramento di beni, ma non al comportamento preventivo. Nonostante i narcisisti collettivi abbiano riportato alcune convinzioni sul coronavirus adattive (cioè benefici percepiti dell’azione, autoefficacia e assenza di barriere percepite all’azione) non hanno adottato comportamenti preventivi adattivi.

Lo studio dimostra come le manifestazioni comportamentali adattive e disadattive possano essere influenzate sia dai tratti di personalità che da convinzioni sulla salute. Entrambi gli aspetti, rientrano nelle differenze individuali che andrebbero valutate attentamente nelle situazioni di crisi e considerate per adattare interventi di sostegno psicologico volto a prevenire l’adozione di comportamenti di accumulo nei soggetti a rischio.

Le predisposizioni individuali hanno un ruolo rilevante; dunque anche le raccomandazioni ed i messaggi volti a migliorare l’aderenza verso determinati atteggiamenti preventivi, per essere efficaci, non devono sottovalutare questo aspetto.

 

Conscious Project: Systemic Path for the Rights. Il trattamento dei Sex Offenders presso la Casa Circondariale di Cassino (FR)

Il progetto Conscious è stato reinterpretato in termini di trattamento clinico-sanitario ed è stato adattato al contesto intramurario del carcere di Cassino (FR) affrontando le diverse sfide di un trattamento sanitario di questo tipo nei confronti dei sex offenders.

Abstract

A differenza di molti altri Paesi, che hanno sviluppato programmi trattamentali volti a prevenire la recidiva nei soggetti autori di reati a carattere sessuale, in Italia, malgrado l’adesione formale del Paese alla Convenzione di Lanzarote che ne sollecita l’implementazione, questo non è avvenuto: la legislazione italiana ha però inasprito le pene per gli autori di reati sessuali introducendo la legge 69/2019, nota come “Codice Rosso” pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 173/2019 ed entrata in vigore dal 09/08/2019. È un provvedimento volto a rafforzare la tutela delle vittime dei reati di violenza domestica e di genere, inasprendone la repressione tramite interventi sul Codice Penale e sul Codice di Procedura Penale con conseguenti pene più severe per gli autori di reati a carattere sessuale. Il Progetto “Conscious” (ispirato al programma trattamentale del C.I.P.M. – Centro Italiano per la Promozione della Mediazione Giulini e Xella, 2011) propone invece un approccio al problema del tutto nuovo per l’Italia.

Il progetto, finanziato dalla Comunità Europea, per il 2019-2020, coordinato dalla UOC ASL Frosinone Dipartimento di Salute Mentale e delle Patologie da Dipendenza, ha permesso l’attivazione del trattamento all’interno della Casa Circondariale di Cassino (FR), un carcere attivo dal punto di vista trattamentale, ma dalla struttura tradizionale, in cui gli autori di reati sessuali (o sex offender) sono reclusi in una sezione protetta. In questo contesto difficile e poco preparato all’intervento specifico sugli autori di reati sessuali, si è scelto di utilizzare un tipo di trattamento ispirato al Good Lives Model, che restituisce l’importanza che merita all’alleanza terapeutica tra utenti e operatori e concentra il focus sugli obiettivi da raggiungere oltre che sui rischi da evitare.

Questo lavoro illustra come il progetto Conscious sia stato reinterpretato in termini di trattamento clinico-sanitario e come tale programma sia stato adattato al contesto intramurario del carcere di Cassino (FR) affrontando le diverse sfide di un trattamento sanitario di questo tipo nei confronti di una utenza non solo “protetta” ma “ibernata” ed esclusa da interventi di prevenzione della recidiva e di miglioramento del livello di qualità della vita, non solo all’interno del carcere ma anche all’esterno, dopo la fine della detenzione. Il Progetto Conscious rappresenta un esempio di modello di rete intersistemico, che unico in Italia, ha evidenziato possibilità di replicabilità anche in altri contesti; in particolare verrà evidenziata l’imprescindibilità di un sistema sanitario che tutela le vittime e che pone il grande tema della presa in carico e trattamento dei reati sessuali da parte dei servizi della sanità pubblica.

1. Introduzione

I reati a sfondo sessuale rappresentano, nell’immaginario collettivo, l’azione umana più riprovevole e pericolosa per la società civile perché mina le basi stesse di essa, ovvero la tutela dei più deboli; tali elementi si acuiscono se le vittime sono minori e quindi ancora più indifesi e quando a volte le pene non corrispondono a ciò che emotivamente l’atto richiama in ognuno di noi. Nel fotografare il fenomeno l’ultima rilevazione Istat, pubblicata nel 2018, stima che siano 8 milioni 816mila (43,6%) le donne fra i 14 e i 65 anni che nel corso della vita hanno subito qualche forma di molestia sessuale e che siano 3 milioni 118mila le donne (15,4%) che le hanno subite negli ultimi tre anni. Circa 1 milione 173 mila donne fra i 15 e i 65 anni hanno subito ricatti sessuali sul posto di lavoro nel corso della loro vita lavorativa. Accanto ad un aumento delle campagne di comunicazione e di interventi a tutela delle vittime si evidenzia un vulnus che richiama stereotipi sociali stratificati e rigidi e che riguardano la possibilità di trattamento degli autori di violenza sessuale al fine di garantire una maggiore protezione alle vittime evitando il fenomeno conosciuto con il nome di vittimizzazione secondaria. Ma chi sono i sex offenders? Quali sono le strutture di personalità e il modo in cui leggono e si rapportano con il mondo esterno?

In questo articolo vogliamo descrivere come l’attuazione di un progetto europeo, che ha visto come principale attuatore un’Azienda Sanitaria pubblica, ha consentito un avvicinamento ad un ambito per gli operatori finora inesplorato e una sfida e un’opportunità di crescita oltre che la sperimentazione di un’offerta terapeutica pubblica molto rara nel suo genere.

2. I Sex offenders

Riprendendo un articolo di Carabellese e ed altri (2012) utilizziamo una frase di Krober del 2009 che ci sembra sempre attuale:

La vera caratteristica del sex offender è in primis una: la non uniformità (Kröber, 2009).

Contrariamente a quello che potrebbe comunemente pensarsi a riguardo, infatti, i sex offenders non costituiscono una tipologia omogenea di individui. Diverso il loro modus operandi, il tipo di comportamento sessuale tenuto, le motivazioni sottese al reato, l’età in cui commettono la loro prima – e talvolta unica – aggressione sessuale. Diversa, inoltre, la vittima, per età, sesso, tipo di relazione (intrafamiliare o non) con l’autore (Carabellese ed altri, 2012)

Gli studi effettuati sulle cosiddette condotte parafiliache (Fornari 1999, Holmes 2002) evidenziano inoltre come l’eziopatogenesi sia quanto mai complessa e non può essere ricondotta a fattori solo unicamente esterni, ambientale e sociali, o solo unicamente intrapsichici; le diverse posizioni, da un lato quella psicologica e dall’altro quella criminologico giuridica complicano l’approccio sia teoretico che clinico e trattamentale a tali comportamenti.

Queste due posizioni, partendo da presupposti diversi, determinano approcci spesso molto diversificati ed esperienze di intervento che in Italia oltre ad essere poco puntiformi difficilmente dialogano.

Tale elemento, riportato all’esperienza del Progetto Conscious, evidenzia la necessità, nell’avvicinarsi a questo campo, di mantenere una visione non riduzionista nell’approccio al tema della trattabilità e rappresenta altresì una guida per gli operatori che nell’ipotizzare un trattamento con gli autori di reato sessuale si trovano a dover rinunciare a categorie classificatorie definite.

L’esperienza di Conscious rappresenta inoltre la sintesi ed integrazione tra le due posizioni precedentemente esposte evidenziando la necessità da parte di un ente pubblico, quale un’azienda sanitaria, dell’occuparsi di un aspetto della salute individuale e collettiva finora poco identificato, poiché principalmente declinato negli aspetti emozionali e di governo del sistema attraverso le azioni di sostegno diretto alle vittime.

3. Clinica e Nosografia: alcune questioni

Il tentativo di classificare e distinguere i comportamenti sessuali devianti da ciò che nelle rappresentazioni sociali del termine può essere definito “normale” ci porta ad evidenziare come i sistemi di classificazione difficilmente riescano ad esaurire una complessità così articolata di atti tanto che spesso risulta difficile effettuare una diagnosi secondo i criteri di frequenza, intensità e durata. L’abuso sessuale, ad esempio, non rientra tra le patologie inserite nel DSM5 a differenza della pedofilia; la conseguenza è che i comportamenti dei sex offenders non possono essere inquadrati clinicamente se non nel capitolo dei Disturbi Parafilici con una forte limitazione relativamente alla varietà dei comportamenti che si riscontrano nella realtà clinica.

Nello specifico per quanto riguarda la Pedofilia, Il DSM 5 l’annovera tra i disturbi parafilici e ne descrive le caratteristiche come fantasie, impulsi sessuali, o comportamenti ricorrenti e intensamente eccitanti sessualmente, che implicano attività sessuale con uno o più bambini prepuberi (di età fino ai 13 anni o inferiore).

Questi aspetti devono produrre un disagio clinicamente significativo o una compromissione in campo sociale, lavorativo o in altra area significativa per il soggetto che deve avere una età minima di 16 anni e avere almeno 5 anni in più del bambino oggetto delle fantasie, degli impulsi e degli atti.

Come illustrato bene nel testo Buttare la chiave? a cura di Giulini e Xella (2011);

Vi sono molti studi e molte riflessioni che pongono problemi rispetto ai criteri così definiti:….non è chiaro cosa significhi il termine ricorrente che si applica alle fantasie, agli impulsi e ai comportamenti; non si comprende se chi abusa di un minore una sola volta sia un pedofilo o no…..inoltre è problematico il criterio di disagio clinicamente significativo soprattutto in relazione alla dimensione della negazione: se non c’è alcuna coscienza di colpa e la condotta risulta egosintonica, non si capisce se i soggetti debbano essere considerati pedofili oppure no, se debbano essere considerati  o meno affetti da disturbo psichiatrico

Altri due elementi di criticità risultano essere: il limite di età dei tredici anni …

molti molestatori scelgono vittime puberi ma ugualmente molto giovani

e

il tema degli autori di reato sessuale che appartengono alla fascia di età tardo adolescenziale e per i quali, secondo il DSM V, non può essere fatta diagnosi di pedofilia (ivi, pag. 5)

Da un punto di vista clinico la complessità non risulta minore in quanto la maggior parte degli autori di reato sessuale presenta disturbi di personalità o tratti di essi tra cui i più frequenti sono il disturbo antisociale, il disturbo narcisistico e il disturbo borderline di personalità; quello che ci preme evidenziare sono le caratteristiche ricorrenti che accomunano tali quadri clinici e cioè la incapacità di empatizzare e di decodificare le proprie emozioni e quelle degli altri, l’impulsività, l’instabilità come la caratteristica ricorrente nelle azioni e nelle relazioni, un deficit generalizzato nelle abilità sociali e di metacognizione; non dimentichiamo inoltre come molto spesso nella storia di vita e di sviluppo degli autori di reato sessuale troviamo condizioni di abbandono, neglect, abusi sessuali e violenza, sessualizzazione precoce e in età adulta consumo di alcool e droghe: detto in termini più generali, una storia di infanzia non protetta.

4. Il quadro normativo italiano

Da un punto di vista giurisdizionale l’elemento indicante il cambiamento culturale nel nostro paese è rappresentato dalla legge 66/96 che modifica il concetto di reato sessuale da reati contro la moralità pubblica a delitti contro la persona. Si prende atto quindi del grave danno causato alle vittime di questi reati e se ne inaspriscono le pene. Con la legge 296/98, si introduce l’extraterritorialità, cioè la possibilità di punire gli autori di reati contro minori commessi all’estero (il cosiddetto ‘Turismo sessuale’) e lo sfruttamento di minori a scopo di produzione di pornografia minorile – reato letteralmente ‘esploso’ con la diffusione di Internet.

Per questo stesso motivo, con la L. 38/2006 viene creato il CNCPO (Centro Nazionale per il Contrasto alla Pedopornografia Online), un reparto della Polizia Postale con il compito di individuare, anche utilizzando agenti sotto copertura, produttori e fruitori di pedopornografia e, – purtroppo molto raramente – di individuare i bambini vittimizzati.

La stessa legge vieta ai condannati per reati sessuali contro minori ogni occupazione che li ponga a contatto con bambini.

Per finire, il cosiddetto “Codice Rosso” (L.69/2019) inasprisce ulteriormente le pene per i reati sessuali (la pena passa da un minimo di 5 a un massimo di 10 a un minimo di 6 e un massimo di 12) specie quelli contro minori di 14 anni, caso in cui viene aumentata di un terzo. Viene introdotto anche il reato di revenge porn, cioè di diffusione di immagini a contenuto sessuale senza il consenso dell’interessato.

A questo intento di crescente tutela per le vittime non corrisponde però, a differenza di quanto accade in altri Paesi, una corrispondente attenzione per la prevenzione di tali reati, prevenzione che passa, oltre che da un auspicabile cambiamento culturale, da un’azione sugli autori che non può e non deve limitarsi alla pura e semplice carcerazione. In primis, perché la Costituzione Italiana (art.27) prescrive che la pena non sia fine a se stessa, ma miri alla “rieducazione del condannato”, in secondo luogo, perché le persone detenute per reati sessuali vivono la carcerazione (come vedremo più oltre) in uno stato di “ibernazione penitenziaria” (Giulini, Vassalli, Di Mauro 2003), fatto di isolamento e inattività, che collude con le loro difficoltà relazionali di base e le accentua. Infine, si tratta di detenuti che un giorno usciranno: e nessun tipo di monitoraggio, supporto o controllo può essere attualmente messo in atto.

Vi sono in realtà, nella legislazione italiana, alcuni cenni alla possibilità di trattamento per questi rei: già nella legge 296/98 si ipotizza un “recupero dei responsabili di tali delitti”, con la previsione di un Fondo ottenuto dai proventi delle attività sanzionate, riservato in prima battuta alle vittime e in via residua al trattamento dei rei che “ne facciano apposita richiesta”. Anche la legge 262/2012 (che recepisce la Convenzione di Lanzarote per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale del 25/10/2007) prevede che i rei di questi reati possano sottoporsi a un trattamento psicologico con finalità di recupero e di sostegno, e che la partecipazione a tale trattamento è valutata ai sensi dell’articolo 4-bis, comma 1-quinquies, della presente legge ai fini della concessione dei benefici.

E infine, il “Codice Rosso” indica la che per gli autori di reati sessuali e di violenza di genere,

la sospensione condizionale della pena è comunque subordinata alla partecipazione a specifici percorsi di recupero presso enti o associazioni che si occupano di prevenzione, assistenza psicologica e recupero di soggetti condannati per i medesimi reati.

Purtroppo, a fronte di queste sia pur minime aperture la pratica è molto diversa: l’attuazione di programmi di recupero è compromessa dalla mancanza di fondi destinati allo scopo e alla carenza di personale formato per questo compito. Il trattamento degli autori di reato sessuale, come vedremo più oltre, ha un effetto marcato di riduzione della recidiva (che viene almeno dimezzata) e quindi di protezione della società, ma deve essere erogato secondo linee guida ormai chiaramente stabilite e validate dalla ricerca a livello internazionale.

5. L’esperienze di trattamento

L’idea che la devianza sessuale potesse essere oggetto di trattamento nasce negli anni ’70 del secolo scorso negli Stati Uniti e in Canada, all’inizio su una base nettamente comportamentista: se ogni comportamento umano è frutto di apprendimento, è possibile ‘correggere’ l’interesse sessuale deviante attraverso un ri-condizionamento degli impulsi. Ad esempio associando lo stimolo sessuale deviante (visivo o uditivo) a stimoli sgradevoli, come un odore pungente o disgustoso.

In realtà le cose, purtroppo, non sono così semplici perché, come abbiamo detto più sopra, i sex offender sono un gruppo eterogeneo, e un trattamento ‘taglia unica’ non può dare i risultati sperati. La ricerca degli ultimi trent’anni si è dunque focalizzata sull’individuare le caratteristiche che rendono efficace un trattamento, dove ‘efficace’ sta soprattutto per ‘in grado di massimizzare l’effetto sul rischio di recidiva con il minimo dispendio di risorse’. Così come accade anche in Europa, l’opinione pubblica (e la politica, che spesso ne segue gli umori) non accetta facilmente che un’istituzione governativa impieghi risorse nel trattamento di soggetti universalmente percepiti come perversi e incurabili se non vi è una ragionevole probabilità che tali trattamenti raggiungano lo scopo per il quale sono nati.

Molto presto, quindi, si sviluppa la ricerca sull’efficacia di tali trattamenti. Andrews e Bonta avevano enunciato, già nel 1990 (Andrews, Bonta e Hoge, 1990) il principio Risk-Need-Responsivity (RNR) che sarà rielaborato in ricerche e studi successivi (Bonta 1996; Andrews, Bonta, 2003, 2007). Secondo questo principio, i programmi di prevenzione della recidiva, per essere efficaci, devono essere differenziati in base a:

  • Rischio: ogni autore di reato deve ricevere un trattamento di intensità proporzionale al rischio personale di commettere di nuovo un reato;
  • Bisogni: i fattori, o bisogni criminogeni, devono essere individuati chiaramente e il trattamento dev’essere mirato su di essi;
  • Responsività: la possibilità di imparare dal trattamento va massimizzata attraverso l’impiego di programmi strutturati, di tipo cognitivo-comportamentale, che si sono dimostrati i più efficaci, commisurati alla motivazione, alle capacità e alle risorse dei soggetti.

In altre parole, il principio RNR consiglia di impiegare nel modo migliore le risorse disponibili, indirizzandole soprattutto a persone ad alto rischio di recidiva, concentrandosi sui fattori personali che determinano tale rischio, utilizzando strategie trattamentali di comprovata efficacia e tenendo conto delle differenze individuali.

Va qui sfatato un mito molto diffuso: cioè l’idea che i sex offenders abbiano un’altissima probabilità di tornare a commettere lo stesso reato. In realtà, il tasso di recidiva di questi autori di reato è significativamente più basso di quello dei criminali comuni. Studi effettuati in Paesi dove esiste un controllo dell’autore di reato sessuale anche dopo il rilascio dal carcere ci dicono che il tasso di recidiva medio si attesta sul 17/18%.

Perché, allora, la percezione pubblica del rischio di recidiva è così elevata? (dal 60 all’80%, secondo alcune ricerche); perché i casi che arrivano a conoscenza della pubblica opinione sono quelli più gravi, con grande diffusione mediatica: ancora una volta, dobbiamo ricordare che i sex offenders non sono tutti uguali e che è essenziale, per una prevenzione efficace, individuare che è veramente a rischio.

Perché il principio RNR abbia un senso, bisogna quindi aver chiaro:

  • Quali sono i fattori effettivamente collegati alla recidiva.
  • In che misura un soggetto presenta tali fattori.

Da allora, i programmi a diffusione nazionale nei vari Paesi hanno un’impronta cognitivo- comportamentale e mirano a ridurre le credenze pro-reato (distorsioni cognitive), a migliorare l’adattamento sociale, a riconoscere la propria responsabilità, a controllare l’impulsività e le tendenze devianti. La ricerca ci dice che programmi di questo tipo arrivano a ridurre della metà il rischio di recidiva.

Nel corso del tempo, a una impostazione molto tecnica e standardizzata, mirata essenzialmente alla prevenzione della recidiva, si è aggiunta una sempre maggiore attenzione alla motivazione personale al cambiamento e alla relazione terapeutica. Si afferma l’idea, ben nota in psicologia generale, che mirare ad un obiettivo positivo, a ottenere qualcosa cui si tiene, è molto più motivante e coinvolgente, anche ai fini di un’alleanza di lavoro, di quanto non sia mirare ad evitare qualcosa. Il focus del trattamento deve includere quindi il raggiungimento di obiettivi personali positivi, che di per sé sono anche fattori protettivi rispetto alla recidiva perché permettono di avere una vita migliore. Il Good Lives Model di Ward (Ward e Beech, 2006; Ward e Gannon 2005, Ward e al., 2013) introduce questo importante cambiamento, che attualmente è stato implementato nella maggioranza dei programmi tratta mentali. Va da sé che una maggiore attenzione alla persona implica un’attenzione alla relazione: di qui l’importanza che a condurre il trattamento siano operatori motivati, con buone capacità relazionali e che possano usufruire di una formazione continua ( Marshall e al. 1999,2006).

In Italia, fino ad oggi gli unici interventi trattamentali sono stati realizzati ad opera di associazioni del privato sociale, non collegate fra loro. Tra queste il C.I.P.M. (Centro Italiano per la Promozione della Mediazione) è l’unica ad avere una rete disseminata sul territorio italiano e ad implementare programmi, che, pur nelle differenze di contesto, hanno molti punti in comune tra loro. I programmi del C.I.P.M. si ispirano alle linee guida internazionali e per questo motivo sono diventati, come vedremo più oltre, il punto di riferimento di Conscious.

Centrale, in questa impostazione, è il concetto di ‘rete’: la collaborazione con le Istituzioni – direzione e personale di polizia penitenziaria, area educativa, UEPE, Magistratura di Sorveglianza, Avvocati, Polizia di Stato, ecc. – è cruciale per il buon funzionamento del trattamento, che dovrebbe proseguire anche fuori dal carcere (come in effetti avviene nelle sedi C.I.P.M. di Milano e Roma) creando un vero e proprio “campo trattamentale”, ossia un insieme di luoghi, persone, istituzioni e programmi di intervento che, tutti insieme, costituiscono l’ambiente del trattamento (Giulini e Scotti, 2014) e il punto di riferimento cui rivolgersi nelle situazioni critiche.

6. Il Progetto Conscious

Il progetto europeo Conscious, cofinanziato dal Programma Rights, Equality and Citizenship Programme of the European Union (2014-2020), condotto dal Dipartimento Salute Mentale e Patologie da Dipendenza della ASL Frosinone, in partenariato con il Garante dei Detenuti del Lazio, con l’European Network for the Work with Perpetrators of Domestic Violence e con il Centro Nazionale Studi e Ricerche sul diritto della Famiglia e dei Minori, ha l’obiettivo di contrastare la violenza di genere intervenendo sulla riduzione del rischio di recidiva per gli autori di violenza. Conscious è sostenuto, oltre che dalla Casa Circondariale di Cassino e di Frosinone, dal Provveditorato del Lazio, Abruzzo e Molise (P.R.A.P) del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, dal Tribunale di Sorveglianza di Roma, dall’Ufficio Esecuzione Penale Esterna di Frosinone (UEPE) e dall’Ordine degli Avvocati di Frosinone. Il Network è aperto alla partecipazione di ogni attore pubblico e privato impegnato sul tema. Il progetto è attivo da ottobre 2018 si concluderà a Dicembre 2020 dopo una sospensione dovuta all’emergenza COVID-19. La prima riflessione rispetto al progetto riguarda il ruolo dei servizi sanitari nel trattamento degli autori di violenza di genere; perché il sistema sanitario pubblico dovrebbe interessarsi a questo tema? Dall’analisi dell’evoluzione del fenomeno che abbiamo descritto precedentemente abbiamo verificato come in molti paesi europei il servizio sanitario si occupa da molto tempo delle donne vittime di violenza. Gli studi clinici e le organizzazioni sanitarie hanno evidenziato i disturbi, le patologie ed i danni fisici e psichici nelle persone che hanno subito violenza. In Italia, ad esempio, con il cosiddetto Codice Rosa, le singole aziende sanitarie strutturano percorsi di ascolto e protezione delle vittime a partire dal triage di Pronto Soccorso. Maggiori resistenze e minore attenzione è invece rivolta agli autori di violenza. Da questo nasce la prima riflessione che ha dato origine al progetto: occuparsi solo delle vittime non garantisce la tutela della salute della collettività; buttare la chiave di una cella, per usare una metafora, non garantisce la non reiterazione del comportamento; anzi il carcere congela le emozioni e i pensieri in un luogo e tempo sospeso che rischia di deflagrare in ulteriori agiti violenti. Se la tutela della salute prevede interventi di prevenzione, tra cui la prevenzione della violenza di genere, significa allora che il sistema sanitario deve occuparsi anche degli autori di violenza poiché ciò equivale a realizzare un’importante azione di prevenzione della recidiva e della vittimizzazione secondaria e quindi di prevenzione di ulteriori danni per la salute delle vittime e della collettività.

6.1 Gli Obiettivi

L’ obiettivo generale del progetto è la sperimentazione e modellizzazione di una rete di cooperazione intersistemica. Nessuna istituzione o organismo può da solo realizzare una politica di prevenzione della violenza. Pertanto l’interesse non è stato esclusivamente quello di garantire i trattamenti specialistici per i perpetretor, quanto di definire e stabilizzare accordi e funzionamento del lavoro congiunto di molte istituzioni ed organismi pubblici, del privato sociale e della società civile. Le parole chiave del progetto Conscious sono sintetizzabili in: modello, rete, cooperazione, inter-sistema. Gli stakeholders rappresentano nell’impianto i veri protagonisti di progetto poiché costituiscono la rete di base necessaria al funzionamento del modello in sperimentazione. E’ una rete che abbraccia tutte le parti del sistema: l’Amministrazione Penitenziaria (attraverso singoli Istituti, Amministrazione centrale e sistema della probation) ed il Sistema di giustizia (con gli Avvocati e la Magistratura), ma anche la comunità nel suo complesso con la rete delle associazioni e il no profit. L’impianto teorico e il modello di trattamento sono stati appresi da CIPM Milano che vanta un’esperienza pluridecennale in questo campo. Il gruppo di CIPM ha fornito gli strumenti teorici e clinici garantendo la supervisione durante tutto il progetto. Questo approccio utilizza un tipo di trattamento ispirato al Good Lives Model, che sottolinea l’importanza della relazione con gli operatori da un lato, e concentra l’attenzione sugli obiettivi da raggiungere (oltre che sui rischi da evitare), dall’altro.

Gli obiettivi specifici sono sintetizzabili:

  • Prevenzione della recidiva di sex offenders e autori di violenza domestica attraverso un modello di cooperazione inter-sistemica tra istituzioni socio-sanitarie, giuridico e penitenziarie.
  • Incrementare le competenze professionali (personale sanitario, penitenziario, volontario) per la successiva realizzazione dei Programma di Trattamento dei perpetrator.
  • Sviluppare nel contesto locale un modello di lavoro interistituzionale stabile nel tempo (Standardizzazione di metodi e procedure, valutazione impatto economico finanziario – studio di fattibilità per il trasferimento del modello intersistemico).
  • Evitare che processi di esclusione contribuiscano a favorire recidive (attivazione di interventi sui perpetrator, internamente ed esternamente al carcere, per il loro reinserimento sociale).

6.2. L’esperienza di Conscious nella sezione Sex Offender del Carcere di Cassino

Prima dell’avvio del progetto Conscious presso il Carcere di Cassino, il detenuto autore di reato sessuale era impegnato prioritariamente nella ricerca di benefici di legge che gli permettessero di riottenere in tempi brevi la libertà, oppure, eventualmente, di scontare il residuo della pena attraverso forme alternative alla detenzione. Le sue principali attività potevano riguardare la terapia farmacologica, la scolarizzazione, qualche attività creativa (teatro, poesia, lavorazione artistica dei metalli, ecc…), gli incontri con l’Area Trattamentale e l’Area Sanitaria e con altre figure che entrano in contatto occasionale e circostanziato con il detenuto, quali Caritas, UEPE, Sportello Mediazione Culturale, Sportello Diritti Del Detenuto, Sportello Garante dei Detenuti.

L’approccio del Progetto Conscious sposta il focus attentivo del detenuto autore di reato sessuale. Questo approccio utilizza un tipo di trattamento ispirato al Good Lives Model, che sottolinea l’importanza della relazione con gli operatori da un lato, e concentra l’attenzione sugli obiettivi da raggiungere (oltre che sui rischi da evitare) dall’altro. In particolare, l’approccio usato nel progetto Conscious trae ispirazione dal programma PETRAAS, ideato in Québec dal gruppo di lavoro che fa capo ad André McKibben e all’Istituto penitenziario di Rocher-Percé (Mckibben, 2011), tradotto e adattato al contesto italiano da Carla Maria Xella per il C.I.P.M.

I suoi punti principali possono essere così riassunti:

  • Gli autori di reati sessuali non sono diversi dagli altri esseri umani. Il loro comportamento deviante è il risultato di un insieme di fattori interagenti di natura neurobiologica, ambientale, familiare e di variabili intervenienti che hanno facilitato la scelta deviante. Infatti è di comune riscontro che nelle loro storie personali vi siano genitori e/o caregiver disfunzionali, segreti di famiglia più o meno censurati e relazioni precoci disturbate.
  • Tra questi vi sono i fattori di rischio individuali, ma anche gli obiettivi personali che vanno a formare l’idea che ognuno di essi ha di una vita buona, soddisfacente e felice. Anche questi obiettivi non sono diversi da quelli degli altri esseri umani. I principali obiettivi, o beni primari, sono: Vita (abitazione, mezzi di sostentamento, salute, benessere), Relazioni, Conoscenza, Indipendenza e scelte personali, Competenza (sentirsi capaci in ciò che si fa), Comunità (sentirsi parte di un gruppo), Serenità mentale, Felicità e piacere, Spiritualità (dare un senso alla propria vita) e Creatività. Ciò che è diverso, ed inaccettabile, sono i mezzi che hanno usato per raggiungerli.

Al momento della presentazione del progetto sono stati contattati 54 candidati detenuti presso le Sezioni “Protetti” della CC di Cassino (FR) che hanno ricevuto una prima valutazione individuale. A seguito di ciò 24 detenuti hanno aderito all’iniziativa firmando il primo Treatment Agreement e di questi 12 hanno firmato il secondo Treatment Agreement per partecipare al Trattamento Intensificato.

Si sono tenuti 2 incontri di gruppo con cadenza settimanale e colloqui di sostegno individuale e di tutoring con cadenza quindicinale. Da notare che prima di arrivare a questa condizione ottimale si è dovuto lavorare sulla paura del giudizio, l’etichettamento, la fantasia del complotto (trattamento = ammissione di colpa = recrudescenza giudiziaria), la negazione del reato e l’autoproclamazione di innocenza a oltranza. Sono questi gli aspetti sui quali il detenuto autore di reato sessuale mostra maggiore resistenza. Primo momento indispensabile del progetto è stata la valutazione del profilo personale (e personologico) di ogni partecipante per l’individuazione e la valutazione dei fattori di rischio; si tratta della fase in cui un operatore tutor (nella nostra esperienza, uno psicologo) somministra un’intervista semi-strutturata, mirata all’individuazione dei fattori criminogeni, la STABLE 2007, e, quando possibile, compila uno strumento attuariale, lo Static 99R, sulla base del fascicolo penale del soggetto. Tali reattivi sono stati nuovamente somministrati al termine del trattamento (test- retest) per la valutazione del cambiamento.

In questo elaborato non parliamo semplicemente di reato, ma più appropriatamente di danno; questo sia perché il progetto mette al centro la persona, sia perché il fine ultimo è la ricerca di soluzioni idonee affinché la pena non risulti una fine (o fine a se stessa), ma rappresenti l’occasione per un nuovo inizio in una più ampia visione di giustizia riparativa. In questo modo il lavoro di gruppo ha spostato il focus attentivo dei partecipanti dalla dimensione reocentrica alla dimensione del danno, cambiando radicalmente il modo di percepire e percepirsi rispetto al reato e alla vittima.

Tutto questo è stato possibile anche perché il gruppo ha concepito la possibilità di una vita diversa, attraverso l’esercizio e lo sviluppo di adeguate abilità sociali e la sperimentazione di nuovi rapporti significativi, quelli con gli operatori appunto, pronti a trasmettere fiducia nella possibilità di alternative con la pensabilità di future azioni reali nelle loro vite quotidiane fuori dal carcere. Non sono mancati tuttavia momenti di scompenso emotivo del gruppo legati all’inatteso trasferimento di alcuni utenti in trattamento presso altri istituti, da una parte, e successivamente all’improvvisa sospensione delle attività di gruppo causa COVID-19, dall’altra.

Durante tutto il lockdown gli operatori del progetto si sono impegnati nel “mantenere” in essere il trattamento attraverso colloqui individuali di tutoring e sostegno psicologico, (nel rispetto delle norme anti COVID previste dal DPCM 04/03/2020), impedendo che gli utenti si sentissero abbandonati soprattutto in un momento così delicato come quello in cui stavano scrivendo la lettera che la vittima avrebbe scritto loro (esercizio dell’empatia). Ma proprio l’emergere di questi vissuti emotivi ha reso più forte la consapevolezza di quanto i legami all’interno del gruppo fossero diventati intensi, preziosi per persone che nella loro vita troppo spesso hanno sperimentato rapporti perlopiù disfunzionali, ambivalenti e privi di connotazione empatica. Da questi elementi si è partiti per rielaborare il senso della perdita, dell’attesa, del doversi mettere nuovamente/veramente in gioco dando importanza alla costruzione di relazioni sociali che fanno rete, la stessa che può proteggere e prevenire “il danno”. Grazie al lavoro svolto attraverso questo progetto, il carcere inizia ad essere percepito non più (non solo) come luogo di punizione/detenzione, ma come luogo di trattamento, crescita e trasformazione che intende favorire cambiamenti di interesse sociale, perché pone in primo piano la qualità della vita e la sicurezza della comunità, nella quale il detenuto sarà parte integrante ed inserito in nuovi (e rinnovati) rapporti sociali.

7. Riflessioni conclusive

I detenuti sex offenders vivono da sempre isolati, reietti e stigmatizzati dalla società, anche carceraria, che li definisce “infami”. Forse anche le istituzioni hanno inconsciamente colluso con questa “cultura del mostro”, un individuo da tenere lontano il più possibile dalla società “sana” perché autore di azioni spregevoli. Tali atteggiamenti discriminatori hanno generato nei confronti degli autori di reati sessuali deprivazione sociale ed ambientale e una difficoltà ad accedere a eventuali benefici di legge che, pur prescindendo dall’ostatività dell’art. 4/bis prevista per questo tipo di reati, rimangono inascoltati (perché ignorati), e/o malamente accolti, come se nell’esplicita ostatività espressa dal codice penale ci sia una implicita ed imperante ostatività del codice morale di chi, a vario titolo, li sorveglia e tratta con questo tipo di detenuti.

Il Progetto Conscious, ponendo al centro dei propri obiettivi l’integrazione di attività trattamentali e percorsi di rieducazione e reinserimento sociale, favorisce l’attribuzione di una maggiore dignità all’individuo/detenuto sia all’interno che all’esterno del Carcere. Inoltre, se da un lato il progetto Conscious promuove crescita e cambiamento nel detenuto, dall’altro si configura come un occasione per attivare cambiamenti e trasformazioni nello spazio più ampio delle Istituzioni, non solo detentive. La portata innovativa infatti, se da una parte mira a garantire trattamenti specialistici per gli autori di violenza di genere e sex offender, dall’altra getta le basi per poter creare un sistema, una rete, stabile nel tempo e che duri oltre la fine della detenzione stessa.

The research leading to this publication has received funding from the Rights, Equality and Citizenship Programme of the European Union (2014-2020) under the agreement n. 810588. This publication reflects only the author’s view and the European Commission is not responsible for any use that may be made of the information it contains.

 

Housing first, “Prima la casa”: un modello di intervento per i senza fissa dimora

Il principio fondante del modello housing first è che la casa è un diritto umano primario: fornire un’abitazione a persone senza fissa dimora diventa il punto di partenza, e non quello finale, per l’attivazione di un percorso di inclusione sociale.

Giulia Rossi – OPEN SCHOOL, Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Bolzano

 

La storia e i principi fondanti

Housing first è un modello di intervento per la riduzione del fenomeno complesso e multidimensionale del Homelessness. Il principio fondante è che la casa è un diritto umano primario: fornire un’abitazione a persone senza fissa dimora diventa il punto di partenza per l’attivazione di un percorso di inclusione sociale e non l’obiettivo finale. Il nome dell’approccio descrive esattamente il nucleo centrale fondante: “housing first” ovvero “prima la casa”.

Nasce negli Stati Uniti tra gli anni ’50 e ’60, ma è con l’attivazione del programma Pathways to Housing a New York nel 1992 che l’approccio inizia a diffondersi tra le organizzazioni ed i servizi sociali. Il fondatore del programma è il Dr. Sam Tsemberis, psicologo clinico e di comunità, tutt’ora punto di riferimento a livello mondiale per la promozione dell’approccio e della sua efficacia. Nel 2006 inizia a diffondersi anche in Europa e nel 2014 nasce la prima rete italiana di organizzazioni pubbliche e private (Network Housing First Italia – NHFI) impegnata a sviluppare e a diffondere progetti abitativi per i senza fissa dimora.

I principi fondanti dell’approccio sono i seguenti:

  1. Abitare è un diritto umano: la dimora concepita come una questione di giustizia sociale, non è conseguente ad un particolare status sociale o ad un percorso caratterizzato da precise condotte, bensì un diritto universale indipendente da qualsiasi variabile.
  2. I partecipanti hanno diritto di scelta e di controllo: l’”autodeterminazione” sugli interventi necessari per migliorare il proprio stato di salute viene assicurata. E’ quindi lo stesso soggetto a scegliere e decidere quali tipi di trattamento vuole intraprendere per soddisfare i propri bisogni e necessità. L’accompagnamento e lo stimolo ad una riflessione critica da parte degli operatori vengono garantiti, ma si lascia la libertà di decisione alla persona, quale esperta della propria realtà. Ogni progetto risulta quindi altamente individualizzato.
  3. Distinzione tra abitare e trattamento terapeutico: fino a che il rispetto dei termini di affitto viene garantito, la persona può mantenere la sua abitazione nonostante decida di non intraprendere nessun tipo di trattamento per modificare il suo stile di vita (es. presenza dipendenze da alcool e/o droghe). Nel caso decidesse di trasferirsi, i servizi e l’accompagnamento che caratterizzavano il suo percorso vengono mantenuti anche a cambio di abitazione avvenuta.
  4. Orientamento al recovery: sostegno e trattamento sono solo una parte del processo di recupero; è il soggetto stesso che decide a quale sviluppo personale mirare e quale direzione voler dare alla propria vita futura. L’orientamento al ricovero mira infatti, non solo a trattare eventuali dipendenze o disturbi correlati, ma ad uno sviluppo globale della persona, permettendo alla persona di trovare se stessa, di identificare e sviluppare le proprie passioni, di integrarsi positivamente nel tessuto comunitario, di fondare le basi per crearsi un piano di vita che sia realista, concreto e coerente con i propri bisogni e necessità.
  5. Riduzione del danno: problemi di droga e consumo di alcool vengono compresi e interpretati in relazione agli altri bisogni e alle mancanze che hanno caratterizzato la vita della persona. Lo scopo non diventa quindi l’astinenza, ma un supporto nella gestione e riduzione del consumo e dei suoi danni a breve e lungo termine.
  6. Coinvolgimento attivo e non coercitivo: l’enfasi viene posta sul fatto che un cambiamento positivo è sempre possibile. L’accompagnamento da parte degli operatori si basa su diversi processi, quali confronto, persuasione, supporto, informazione. In caso di mancato cambiamento non avviene nessun tipo di conseguenza sulla permanenza nella casa.
  7. Progettazione centrata sulla persona: la possibilità di scegliere e controllare la tipologia di servizi ed interventi a cui accedere danno vita a progetti estremamente individualizzati, dove non c’è quindi una costrizione nell’intraprendere un percorso prestabilito, ma un calibrare il sostegno e il trattamento a seconda dell’individuo e dei suoi bisogni. Una comprensione quindi di tutti gli aspetti della vita della persona che per lei giocano un ruolo importante, un’integrazione sociale positiva all’interno della comunità (es. volontariato, progetto formativo, attività artistiche, etc.) ed un supporto nel mantenere pulita, sicura e confortevole la dimora, risultano essere le cornici entro cui creare una progettazione centrata a 360° sulla persona.
  8. Supporto flessibile per tutto il tempo necessario: l’accompagnamento avviene alla persona, non al luogo. Quindi se per sua scelta o per costrizioni esterne, la persona dovesse lasciare il progetto e quindi anche la casa, l’accompagnamento viene garantito e mantenuto. Il sostegno alla persona non mutua, e la relazione si indirizza verso i nuovi bisogni emersi dalla situazione specifica in cui si trova la persona nel qui ed ora per tutto il tempo necessario.

Gli obiettivi

Aldilà degli obiettivi specifici individualizzati, secondo la guida Europea all’Housing First (2016) gli obiettivi condivisi di ogni progetto Housing First devono essere i seguenti:

  1. Accompagnare la persona alla vita in alloggio: la relazione con l’operatore risulta cruciale ed un rapporto regolare è fondamentale per facilitare un percorso di successo. L’unicità del progetto stesso determinerà poi la frequenza specifica e le modalità degli incontri. I compiti basilari dell’operatore sono i seguenti: monitorare la situazione abitativa e dare consigli pratici per una sua corretta gestione, monitorare il benessere fisico e psicologico della persona consigliandolo e supportandolo all’indipendenza, monitorare il budgeting, assicurarsi che le relazioni con il vicinato e la comunità siano positive ed offrire altri tipi di supporto in maniera flessibile, a seconda dei bisogni portati dalla persona.
  2. Promuovere salute e benessere: la complessità e la multiproblematicità delle situazioni richiedono la presenza di interventi ed approcci multidisciplinari che possono essere disponibili all’interno del team del progetto Housing First (Assertive Community Treatment) o da enti esterni con cui attivare un lavoro di rete (Intensive Case Management).
  3. Promuovere l’integrazione sociale:
  • integrazione all’interno della comunità;
  • potenziare la sua rete di supporto sociale;
  • mediare l’accesso ad attività produttive o di valore per la comunità (volontariato, piccoli lavori per il vicinato, etc).

Il progetto Housing First sottolinea che un processo di integrazione sociale può attivarsi dal momento in cui la situazione abitativa e di vita della persona si è “normalizzata”. Quest’ultime risultano essere le premesse affinché avvenga un’inclusione positiva all’interno del tessuto sociale. Il sentirsi membro di una comunità, svolgere attività strutturate e significative che diano un senso e regolarità alla propria esistenza, forniscono le fondamenta per accrescere un sentimento di auto-stima e di accettazione da parte del contesto.

Affinché l’alloggio venga considerato “casa”, il progetto Housing First rispetta, per quanto possibile, i criteri fisici, sociali e legali della classificazione europea dell’homelessness (ETHOS). Nel rispetto dei regolamenti che organizzano la conduzione standard e la locazione privata, vengono quindi garantititi:

  • gli aspetti legali del contratto di locazione: non potranno quindi aver luogo sfratti senza avvertimento e rispetto delle regole del contratto;
  • privacy;
  • accessibilità dell’affitto;
  • standard minimo di locazione per evitare sovrappopolamenti;
  • autonomia decisionale sia sulle entrate e uscite, anche di terze persone, sia sull’arredare e decorare la casa a proprio piacimento.

La casa diventa in questo modo una sicurezza ontologica, che permette alla persona di iniziare un processo caratterizzato da un senso di sicurezza, certezza e prevedibilità sulla propria vita.

L’efficacia tra evidenze e criticismi

Alcuni criticismi sono emersi nei confronti di Housing First, in particolare in riferimento alla fedeltà di molti servizi che dichiarano di rifarsi all’approccio ma che poi evidenziano una scarsa aderenza ai principi fondanti e alla robustezza della valutazione di efficacia (Pleace e Bretherton, 2013). Per sviare a queste problematiche Tsemberis fornisce una serie di indicatori per “misurare” la fedeltà del progetto all’approccio Housing First e valutarne l’efficacia. Si tratta di indicatori sia qualitativi che quantitativi, ed eventuali discostamenti dal modello base potrebbero avere un impatto diretto sull’andamento dei percorsi degli utenti (Pleace & Bretherton, 2013).

Il modello Housing First si dimostra comunque efficace nel porre fine a casi cronici di homelessness con disagio multifattoriale, sia in Europa che in America (e.g. Pleace et al. 2015). Da ulteriori evidenze empiriche emerge anche un miglioramento dello stato di salute e del benessere dei fruitori del servizio, come una diminuzione del consumo di stupefacenti e alcolici (e.g.  Bretherton & Pleace, 2015), un miglioramento della salute fisica e mentale (e.g. Bush-Geertsema, 2013) e maggiore integrazione a livello sociale (e.g. Ornelas et al. 2014). Cruciale è stato l’utilizzo di servizi Housing first nella strategia di contrasto all’homelessness del governo finlandese che è riuscito a diminuire del 25% il numero di senza fissa dimora tra il 2008 e 2013 (Pleace et al. 2015).

A livello Europeo è in atto uno studio cross-nazionale che ha l’obiettivo di comparare progetti di housing first e servizi tradizionali in termini di: relazione tra le caratteristiche di settings e outcome di recovery, e le percezioni personali dei fruitori dei servizi riguardo le proprie capability (Greenwood et al. 2020)

 

Donne che camminano tra i lupi: le conseguenze psicologiche delle molestie di strada

Le molestie di strada (o street harassment) vengono generalmente definite come attenzioni sessuali non desiderate esercitate da un estraneo in ambienti pubblici, siano essi strade, parchi o trasporti (Wesselmann & Kelly, 2010).

 

Questo genere di molestie comprende un ampio spettro di comportamenti, quali fischi, pedinamenti, palpeggiamenti o qualsivoglia altro tipo di atteggiamento volto ad intimidire la vittima, attraverso connotazioni dal forte contenuto sessuale e minando la sua sicurezza (Stop Street Harassment, 2019). Nonostante questo fenomeno si rifletta sia sugli uomini che sulle donne, queste ultime sono maggiormente esposte a tali rischi. Difatti, in uno studio condotto da Stop Street Harassment (2014) è stato evidenziato come, su 2000 persone intervistate, il 65% delle donne e il 25% degli uomini ha dichiarato di esser stato vittima di molestie di strada.

Questo fenomeno correla positivamente con l’auto-oggettivazione, che coincide con la tendenza a focalizzarsi, preoccuparsi e, conseguentemente, a vergognarsi per il proprio aspetto corporeo (Fairchild & Rudman, 2008).

Naturalmente, l’autostima della vittima gioca un ruolo chiave nella sua capacità di gestione del problema. Di fatti, è stato dimostrato come le donne che presentano una bassa autostima tendono ad auto-colpevolizzarsi di più per l’esperienza subita, rispetto a coloro che presentano livelli di autostima più elevati (Saunders et al., 2017).

Purtroppo, l’essere vittime di tali violenze, porta spesso a dei cambiamenti repentini, che includono l’interrompere le attività all’aria aperta, lasciare il lavoro o cambiare quartiere (Stop Street Harassment, 2014).

Numerosi studiosi affermano che le molestie di strada nei confronti delle donne, altro non siano che forme di dominazione maschile, che tendono ad isolare il genere femminile, rafforzando l’idea che gli ambienti pubblici siano spazi ad esclusivo usufrutto degli uomini (Davis, 1993; Thompson, 1994). Ciò non fa altro che esercitare un controllo sulla crescita emotiva ed intellettuale delle donne, affinché esse assumano atteggiamenti graditi agli uomini (Davis, 1993) e siano disponibili a ricevere commenti in qualsiasi momento e in qualsiasi ambiente (Thompson, 1994). Naturalmente, vi è chi ha avanzato l’ipotesi che ciò sia dovuto al fatto che alcuni uomini percepiscano una mancanza di potere che contribuisce ad incrementare il senso di minaccia percepito che, a sua volta, porta a commettere tali gesti (di Leonardo, 1981).

Nonostante quanto appena esposto, pochi studi si sono proposti di analizzare quali effetti comporti l’essere vittime di molestie di strada, sulla salute mentale delle donne.

Alcuni autori hanno dunque deciso di approfondire tale aspetto, ipotizzando come le molestie di strada potessero essere delle variabili predittive rispetto alle manifestazioni di ansia (Prima ipotesi) e depressione (Seconda ipotesi) e come esse potessero essere, a loro volta, predittive rispetto alla qualità del sonno delle vittime. Allo studio hanno preso parte 252 studentesse, di differente etnia, con un’età media di 19 anni.

In primo luogo, al fine di valutare la presenza o meno di eventuali sintomi depressivi e ansiosi, sono state utilizzate le relative sotto-scale del Brief Symptom Inventory (Derogatic & Melisaratos, 1983). È stata, inoltre, analizzata la qualità del sonno delle partecipanti, attraverso un item estratto dal Pittsburgh Sleep Quality Index (Buysse et al., 1989). Infine, è stata misurata la frequenza con cui le partecipanti erano state vittime di molestie di strada. Nello specifico, al fine di valutare la suddetta variabile, alle studentesse è stata presentata una lista di 28 comportamenti, ed è stato chiesto loro di specificare con quale frequenza avessero subito quella tipologia di molestia da parte di uno sconosciuto.

Come previsto, considerando anche la letteratura precedente, i risultati hanno confermato la presenza di correlazioni significative tra le variabili prese in esame, fornendo la conferma che le molestie di strada sono effettivamente correlate con ansia, depressione e qualità del sonno. Nello specifico, lo studio ha dimostrato che le molestie di strada predicono, indipendentemente, ansia e depressione, ognuna delle quali, a sua volta, predice una peggior qualità del sonno.

Come sottolineato dagli autori, lo studio appena presentato è uno dei primi ad aver trattato le molestie di strada come un problema di salute pubblica e non come un semplice fastidio, affinché possano essere sviluppati interventi al fine di promuovere la salute mentale delle vittime.

 

Il ruolo dei familiari nel mantenimento e nel trattamento del disturbo ossessivo compulsivo – Report del webinar

Il 16 ottobre 2020, si è tenuto un webinar organizzato dalle Scuole di Psicoterapia Cognitiva APC-SPC-AIP-SICC-IGB sul tema del ruolo dei familiari nel mantenimento e nel trattamento del disturbo ossessivo compulsivo (DOC).

 

Ad argomentarlo è stato lo psicologo e psicoterapeuta Dott. Angelo Maria Saliani.

Un webinar ricco di contenuti, parti esperienziali e condivisione di materiale, immediatamente spendibile nella pratica clinica per il professionista.

Partendo dal contributo di Van Noppen, Rasmussen ed Eisen (1919), sono state esplorate le tipiche reazioni dei familiari alla sintomatologia ossessivo compulsiva del paziente. Gli autori citati infatti, evidenziano le tipiche reazioni emotive e comportamentali inserendole lungo un continuum che va dall’accomodamento all’antagonismo.

IMMAGINE 1 – La relazione tra il paziente e il familiare

Ha spiegato infatti il Dott. Saliani che spesso, nelle dinamiche relazionali tra paziente e familiare, si assiste ad un coinvolgimento emotivo che può andare dall’essere per l’appunto accomodanti, accondiscendenti e complici nell’esecuzione ad esempio di rituali di controllo o comportamenti di evitamento, creando inoltre quella che il Dott. Saliani definisce situazione del Primo Tipo ossia quella in cui il familiare partecipa attivamente al sintomo, oppure all’altro estremo, dove il familiare reagisce con antagonismo ossia con rifiuto, ostilità, critica, punizioni, dettate dalla frustrazione emotiva che inquina l’atmosfera familiare quotidiana. Oltre ad averci illustrato il perché tali strategie non funzionano se non in senso di mantenimento del sintomo e peggiorativo in quanto alimentano nel paziente, specie con l’antagonismo, chiusura, vergogna e senso di colpa, il Dott. Saliani ha illustrato ulteriori modalità messe in atto dal familiare, delle vere e proprie trappole interpersonali denominate insieme al gruppo di lavoro Balestrini, Mancini e Barcaccia:

  • Pacca sulla spalla: caratterizzato dal tentativo del familiare di fornire rassicurazioni circa i timori del paziente;
  • Bugia a fin di bene: sempre nel tentativo di placare l’ansia del paziente, a volte il familiare ricorre anche a per l’appunto dire bugie a fin di bene (es. “Ma sì, stai tranquillo. Ho controllato anch’io…”);
  • Suggerimento di soluzioni: inconsapevolmente il familiare, colludendo con il sintomo, propone delle strategie alternative, ma alquanto disfunzionali (es. per essere sicuri che i tuoi oggetti non entrino in contatto con i nostri, stabiliremo uno spazio nella tua camera dove avrai accesso solo tu);
  • Disputa razionale: in questo caso il familiare cerca di dimostrare con spiegazioni razionali, l’infondatezza dei suoi timori;
  • Supplica addolorata: spesso, in preda all’esasperazione il familiare supplica il paziente di smetterla, interrompere l’esecuzione del sintomo, facendo notare la sofferenza che crea nel resto dei familiari. Ovviamente anche in questo caso l’effetto sarà peggiorativo, in quanto aumenterà il senso di colpa, già abbondantemente presente in una persona con DOC;
  • Biasimo: in questo caso si assiste ad esplosioni di rabbia dei familiari che a questo punto agiscono con critiche, offese, rimproveri e musi lunghi nei confronti del paziente.

IMMAGINE 2 – Le trappole interpersonali messe in atto dal familiare

IMMAGINE 3 – Le trappole interpersonali messe in atto dal familiare

Ampiamente approfondite e spiegate tali strategie, i partecipanti hanno avuto la possibilità di esercitarsi ed entrare nel vivo di quanto finora spiegato.

Tuttavia, oltre all’elenco delle trappole, sono state fornite anche quelle strategie terapeutiche per uscire da tali trappole, attraverso cinque principi fondamentali:

  1. Validare lo stato emotivo del paziente: il paziente è diventato una vittima del meccanismo ossessivo compulsivo (così come i familiari che vanno anch’essi ascoltati e validati);
  2. Rifiuto gentile e fermo: non va assecondata la richiesta ossessiva;
  3. Motivare il rifiuto senza entrare nella logica ossessiva;
  4. Sostenere ed incoraggiare il paziente a tollerare l’ansia;
  5. Chiudere gentilmente lo scambio: spesso il paziente può divenire anche insistente nelle sue richieste di rassicurazione o controlli ed evitamenti (es. “fai tu al posto mio”), ed in quel caso diventa utile, dopo aver applicato i passi sopra elencati, chiudere lo scambio che rischia di divenire sterile né far surriscaldare emotivamente.

Anche in questo caso i partecipanti hanno avuto modo, suddivisi in gruppi, di mettersi alla prova nel ruolo del terapista, del familiare e del paziente, provando a simulare un dialogo che da disfunzionale, divenisse virtuoso.

Ma continua a spiegarci il Dott. Saliani, possiamo assistere anche a trappole del Secondo Tipo, ossia quelle in cui il paziente non richiede un coinvolgimento diretto nell’esecuzione del sintomo, ma il familiare lo subisce. In questo caso l’intervento terapeutico con i familiari in questo può essere più complicato rispetto a quello sopra descritto (del Primo Tipo), ma non impossibile.

Anche in questo caso sono state illustrate le strategie per uscire da tali trappole, che prevedono la messa in atto di un dialogo virtuoso che contempli le cinque variabili come le precedenti descritte, e che prevedono l’aggiunta del contratto.

Un contratto, continua a spiegare il Dott. Saliani, che verrà concordato e scritto anche in presenza del terapeuta, che andrà stipulato a freddo (non nel momento in cui il paziente è in preda al meccanismo ossessivo compulsivo), ed applicato con coerenza e fermezza a caldo (pensiamo ad esempio al paziente che usufruisce del passaggio del familiare e che perde tempo in eccessivi controlli compulsivi. Da contratto potrebbe esser stabilito ad esempio il numero di controlli di cui potrà usufruire e del tempo massimo che il familiare aspetterà. In quel caso, anche il familiare, infranto il patto concordato, sarà chiamato ad attenersi al contratto, ossia in riferimento all’esempio appena citato, andare via se il paziente non rispetta il tempo pattuito).

Il webinar nella sua seconda parte, è entrato nel vivo del lavoro terapeutico con i familiari, della strutturazione del setting, delle singole sedute, temi da affrontare di volta in volta, compiti da assegnare, il tutto illustrato e spiegato con precisione.

Un webinar sicuramente molto arricchente, curato ed accurato e che ritengo dunque aver centrato a pieno gli obiettivi formativi prefissati.

Plasticità sinaptica per una cura efficace: focus su dipendenze e disturbi emotivi – VIDEO

Il Centro Stimolazione Magnetica Transcranica ha proposto un incontro sull’integrazione della stimolazione magnetica transcranica con la psichiatria e la psicoterapia.

 

Nell’incontro dal titolo Plasticità sinaptica per una cura efficace: focus su dipendenze e disturbi emotivi lo staff medico informa e risponde alle domande su cos’è la TMS, come funziona, quando si applica e quali sono le figure coinvolte.

Lo Studio Clinico San Giorgio, ora diventato Centro Stimolazione Magnetica Transcranica – CIP TMS, propone un approccio innovativo e integrato per il trattamento di disturbi emotivi e dipendenze patologiche.

Neuropsichiatria e psicoterapia si integrano con la Stimolazione Magnetica Transcranica (TMS), una metodica di neuromodulazione cerebrale non invasiva ed efficace nella cura di dipendenze, depressione, disturbi ossessivi, sindrome di Tourette e delle demenze.

Per conoscere meglio le attività del Centro ma soprattutto le potenzialità della TMS nel trattamento di diverse psicopatologie, pubblichiamo per i nostri lettori il video del webinar.

 

PLASTICITA’ SINAPTICA PER UNA CURA EFFICACE – Guarda il video integrale del webinar:

 

Monogamia e tradimenti: la storia naturale della vicenda amorosa. Le tre componenti dell’innamoramento – Una serie di Roberto Lorenzini

Oggi pubblichiamo la seconda parte del settimo lavoro della serie di Roberto Lorenzini, dedicata al tema della monogamia e delle sue implicazioni psicologiche, affettive, relazionali e, perché no, sessuali. Lorenzini propone una tesi forte: la monogamia non funziona. E prosegue il suo racconto esplorando lo sviluppo della vicenda amorosa e la sua prima fase: l’innamoramento.

MONOGAMIA E TRADIMENTI – (Nr. 7.1.2) La storia naturale della vicenda amorosa. Le tre componenti dell’innamoramento

 

7. La storia naturale della vicenda amorosa

7.1.2 L’Innamoramento: le tre componenti

Tre sono le dimensioni intorno alle quali si articola l’innamoramento, la fase nascente dell’amore. Una prima dimensione potremmo considerarla ossessiva (Lorenzini, Sassaroli 1992) per la pervasività e l’intrusività dei pensieri riguardanti l’altro rispetto ai quali si è contemporaneamente egodistonici (ci si sente soffocati e impotenti e non li si vorrebbero) ed egosintonici (piacciono e si richiamano alla mente con nostalgia appena ci sfuggono via). Questa doppiezza riguarda un po’ tutta l’esperienza dell’innamoramento di cui ci si sente protagonisti assoluti e contemporaneamente vittime inermi.

La seconda dimensione costitutiva è quella bipolare dell’umore che si esprime nella totale euforia, felicità e iperattività associata alla presenza dell’altro, e nel suo opposto, la tristezza, l’anedonia e la mancanza di senso di qualsiasi cosa in sua assenza (Lorenzini, 2013). Queste oscillazioni tra la gioia suprema e la disperazione più cupa possono essere rapidissime, innescate da particolari apparentemente insignificanti e sempre in relazione alla presenza/assenza dell’altro, reale o presunta. Un’altra caratteristica che rende somigliante l’innamoramento al disturbo bipolare è l’aspetto amnesico delle precedenti analoghe esperienze, nonostante la ripetitività dei cliché. A meno che non sia la famigerata prima volta che il senso comune vuole non si dimentichi mai (e chissà poi se è vero?), l’innamoramento non ha memoria di sé. Del resto, come potremmo essere ogni volta certi di aver trovato l’amore perfetto ed eterno se ci ricordassimo tutte le altre volte che lo abbiamo sinceramente creduto per poi ritrovarci di fronte ad un avvocato divorzista disprezzando l’altro e noi stessi per aver preso lucciole per lanterne? L’innamoramento non ha memoria come certe sensazioni fisiche, a riprova della sua forte radice biologica: riuscite forse a ricordare il vissuto di caldo estivo soffocante quando tremate dal freddo in una gelida serata invernale oppure il contrario?

Certo possiamo ricordare di essere stati innamorati. La nostra memoria ci rammenta i fatti, le circostanze, le vicende che sono accadute ma lo stato d’animo non possiamo sperimentarlo se non siamo innamorati nel qui ed ora. Con questo escamotage possiamo dunque ogni volta dirci di nuovo che “quello non era vero amore”, al contrario di quello presente. È per questo che le stesse canzoni che quando non siamo innamorati ci sembrano un prodigio di stupidità e banalità su cui ironizzare, ci colmano gli occhi di lacrime e ci stringono la gola quando innamorati. La stupidità è una adeguata descrizione del comportamento da parte di un osservatore esterno ma l’innamorato sperimenta la massima serietà, pienezza e quasi sacralità del suo vissuto. L’innamorato lo è totalmente, assolutamente, pensa che non lo è mai stato e ormai lo sarà per sempre e che la sua è una esperienza unica (De Santis 2017).

Infine, la terza è la dimensione delirante vera e propria (Lorenzini e Coratti, 2008) e riguarda tre oggetti specifici. L’altro che visto come perfetto, meraviglioso e soprattutto onnipotente, è sperimentato come il dispensatore di ogni bene o, al contrario, la causa di ogni sofferenza. Se stesso che in presenza dell’altro è avvertito come grandioso e in sua assenza impotente e privo di ogni valore. La relazione stessa che è immaginata come unica e diversa da tutte le altre che si sono sperimentate in precedenza e diversissima da tutte quelle che vivono ogni giorno tutti gli altri esseri umani nonostante ne ripercorra in modo imbarazzante tutti i cliché più consunti e noti.

Nell’idealizzazione dell’oggetto amato avviene qualcosa in più di una semplice sopravvalutazione per cui esso appare più bello o più intelligente, gentile e onesto (per citare Dante) di quanto appaia agli altri e si assiste piuttosto a quella che potremmo definire una rivoluzione epistemologica khuniana per cui esso diventa il canone matriciale della bellezza, della gentilezza, della bontà e dell’intelligenza. Sono dunque i parametri stessi a cambiare. L’oggetto diventa il prototipo stesso della perfezione assoluta con cui da quel momento in poi ogni altro individuo sarà confrontato e il cui valore sarà esprimibile in percentuale di approssimazione al prototipo stesso. Se c’è un indicatore inequivocabile dell’innamoramento che lo differenzia dalle altre condizioni di sovrastima e idealizzazione è proprio questo cambiamento dei parametri: l’oggetto d’amore è visto più o meno lucidamente. Ciò che si modifica è il concetto stesso di “buono”, “bello”, “giusto”. L’innamorato cambia il proprio modo di vedere e valutare la realtà e per questo appare strano e diverso, talvolta inquietante, alle persone che lo conoscevano. Forse per questo si dice che “ha perso la testa”. La vecchia testa sente di non avere più il controllo sulla nuova e può spaventarsene (Lorenzini 2020).

Contemporaneamente il soggetto ha l’impressione che nessuno possa effettivamente capire ciò che sta vivendo e che è invece per lui totale e assolutamente evidente. Gli altri sono fatalmente esclusi, stanno in un altro mondo ragionevole che lui stesso comprende perché sperimentato in passato (si potrebbe dire le stesse cose che ora gli altri gli dicono), ma che è una dimensione che non lo comprende più. Questo comporta un progressivo isolamento e un circolo di rinforzo per cui l’amato finisce per rappresentare l’intero mondo relazionale del soggetto dopo che già da tempo ne costituisce l’unico interlocutore nel dialogo interno per cui tutto ciò che si vive è vissuto con lui e per lui.

 

“Il tutto è superiore alla semplice somma delle parti”: il gruppo come strumento in terapia

La psicoterapia di gruppo è un tipo di terapia che potremmo definire peculiare, nella quale un gruppo non troppo nutrito di persone si riunisce, sempre sotto la direzione generale di uno psicoterapeuta, per aiutarsi non solo individualmente ma anche reciprocamente.

Maria Obbedio – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi Bolzano

 

Che cos’è la terapia di gruppo?

Nata all’inizio del ‘900, oggi la terapia di gruppo è indubbiamente un’efficace forma psicoterapeutica. Ma in cosa consiste esattamente? Si ha terapia di gruppo quando si ha reciprocità, scambievolezza e confronto tra i componenti. È proprio quest’aspetto a gettare le basi per il raggiungimento di un risultato terapeutico e curativo. Il gruppo, infatti, è sia un complesso di individualità distinte tra loro che un “organismo” unico, il quale facilita importanti procedimenti di cambiamento. Durante le sedute, i singoli condividono le loro esperienze personali. Il principio di base è ritrovarsi insieme e parlare in modo sincero e naturale, sempre sotto la direzione generale del terapeuta. I vari gruppi si distinguono tra loro in base allo scopo che si prefiggono: alcuni si concentrano ad esempio più sul miglioramento delle abilità sociali, altri invece cercano di procurare ai pazienti i mezzi per affrontare situazioni critiche quali fobie, ansia, pensieri negativi etc. Aspetto importante da non sottovalutare è che i diversi componenti del gruppo sono tutti allo stesso modo protagonisti, attori principali della terapia, del loro e altrui cambiamento.

Quali sono i benefici della psicoterapia di gruppo?

I vantaggi della psicoterapia di gruppo sono svariati. Ad esempio:

  • Uguaglianza

Nel gruppo tutti sono uguali e il terapeuta, nonostante la sua posizione, lascia molto spazio e molta libertà ad ognuno, convertendosi in una voce del gruppo che non sta al di sopra di questo. Esso funge da mediatore e conduttore, rileggendo e dando chiarezza al contributo di ogni singolo.

  • Non sentirsi giudicati

È uno degli elementi più rilevanti. Nessuno viene giudicato. Appoggio e cooperazione devono essere sempre reciproci e corrisposti.

  • Sentimento di appartenenza al gruppo

Il gruppo condivide regole che occorre rispettare per portare avanti in modo sereno la terapia e facilitare il cambiamento. Affinché vi sia un lavoro di gruppo occorre dare tempo perché si crei fiducia e anche quel grado di confidenza tale dal creare il “noi”. Il gruppo non è solo un’insieme di individui. Il gruppo è un’identità. Il gruppo è il “noi”.

  • Imparare dagli errori degli altri

Stare attento alle storie altrui, alle loro preoccupazioni, alle loro soluzioni può essere uno spunto di riflessione per risolvere i nostri problemi.

  • Possibilità di sperimentare un luogo sereno e sicuro

Nessuno è obbligato a parlare, se non si sente pronto. Approccio questo importante per consentire al singolo di sperimentare un senso di sicurezza e serenità.

Poniamo che i componenti di un determinato gruppo si riuniscano, come terapeuti avremo di fronte persone verosimilmente diverse tra loro, che avranno tuttavia in comune almeno un fattore: aver chiesto aiuto per un problema.
 Ognuno potrà quindi veder riflesso in tutti gli altri componenti una doppia difficoltà:

  • difficoltà personale;
  • difficoltà nel convivere con questa difficoltà, sopratutto nel momento delle ricadute/scivolate.

Il fatto di vedere che una persona del gruppo – una volta che si sia costituita la necessaria confidenza e fiducia di base – trova il modo di avvicinarsi anche solo di un passo al superamento della difficoltà in questione, spontaneamente, genera, per motivi che potrebbero probabilmente essere letti in maniera diversa a seconda dell’orientamento teorico di chi osserva il fenomeno, una reazione a catena per cui ogni altro membro, con i propri tempi e mezzi psicologici, trova il modo di compiere quello stesso passo, ed alla fine il gruppo nel suo complesso riparte da un nuovo livello evolutivo.
 Una caratteristica del gruppo è la dialettica individuo/gruppo, mantenuta sempre attiva: esiste dunque un “discorso” che attiene all’individuo, un “discorso” che attiene al gruppo in quanto tale e una continua interdipendenza tra i due “discorsi”. 
Vi è quindi un’attenzione per la comunicazione e per il “processo gruppale”, attraverso la centralità sul qui ed ora e sul lì ed allora.

Il gruppo non agisce solo a livello verbale, ma anche non verbale: col tempo vi è un recupero della corporeità, dell’espressività essenziale ed utile per interagire con l’ambiente esterno.

Il gruppo offre ai suoi partecipanti la possibilità d’intravedere, nel tempo, nuove modalità di “lettura” della realtà e una rinnovata mobilità psicologica, proprio perché il gruppo terapeutico si colloca sul confine tra le diverse appartenenze dell’individuo: famiglie di origine, gruppi e culture di appartenenza, mondo sociale. Prendendosi cura del vissuto individuale, il gruppo terapeutico amplia gli scenari precedentemente angusti e promuove la ricerca di nuovi codici di accesso alla realtà sociale e individuale.

Gruppo e alcol

La psicoterapia di gruppo è da molto tempo considerata il trattamento d’elezione della dipendenza (Cooper, 1987; Flores, 1988). In essa, i noti fattori terapeutici, come la profusione di speranza, l’universalità, l’altruismo, il sostegno, la catarsi e le esperienze di apprendimento interpersonale (Yalom, 1995), contribuiscono in larga misura al doppio compito con cui ogni soggetto dipendente viene a confrontarsi nel trattamento, ossia il separarsi dalla sua sostanza d’abuso e il fondare un legame col gruppo dei soggetti dipendenti in fase di recupero.

Numerosi lavori scientifici sostengono l’efficacia della terapia di gruppo nel paziente alcolista, sia sotto forma di gruppi di discussione che di gruppi a orientamento psicodinamico, cognitivo-comportamentale o interazionale (Mullan,1963; Bogani,1984; Sierra, 1978; Vannicelli,1982; 1987; 1995; Bersani et all,2003). A questi contributi si aggiungono una serie di studi che dimostrano l’efficacia dell’associazione della terapia di gruppo con altre tecniche di trattamento per il paziente alcolista (Alfano, Thurstin, 1989).

Nello specifico, rimanendo sulla tematica del gruppo terapeutico, l’ingresso in un gruppo prevede un periodo variabilmente lungo, ma significativo, di lavoro individuale e una diagnosi intesa in senso ampio; in questo periodo viene effettuata una valutazione rispetto al possibile inserimento di un soggetto in uno specifico gruppo. Non accade per caso, non avviene con facilità, l’inserimento di un membro viene analizzato e valutato accuratamente per valutarne ad esempio motivazione all’ingresso, disponibilità ecc., questo perché l’ingresso di un nuovo membro ha un impatto molto importante sia per l’individuo che entra e sia per il gruppo che accoglie.

La prima fase, o meglio, il primo compito del conduttore di un gruppo è il coinvolgimento: potrebbe apparire un concetto scontato, ma non è da sottovalutare; è compito del conduttore creare un clima favorevole sia dove la comunicazione possa essere autentica e significativa e sia dove il paziente possa riconoscere il gruppo come un luogo sicuro, “speciale”. Il gruppo è formato non solo da persone, ma da storie, vissuti, ragion per cui emergono al suo interno non solo aspetti “positivi” legati alla possibilità di conoscere/si, ma anche “negativi”: esso conduce il soggetto a scontrarsi con i suoi limiti, ad evidenziare le proprie vulnerabilità.

Tappa fondamentale questa, per la quale anche l’aiuto del gruppo è necessaria, poichè in realtà è il gruppo stesso a operare questo primo cambiamento nel paziente. Il terapeuta cerca “solo” di incanalare idee, vissuti, ma lascia spazio al gruppo perché esso sia attivo. Nelle prime fasi, infatti, il gruppo assume le caratteristiche di “spazio contenitore e trasformativo” del singolo. Il gruppo attraverso la coesione e il senso di appartenenza dei suoi membri, si rivela come uno spazio fisico e mentale contenitivo: ognuno, al suo interno, è libero dal giudizio degli altri, può esprimersi liberamente e sentirsi al sicuro. Il gruppo è un contenitore che svolge la funzione di “schermo protettivo”, dove sentirsi accolti, ascoltati e stabili: è un’occasione di sviluppo che consente di affrontare le vulnerabilità determinate dalla dipendenza. L’esperienza gruppale può fornire la ripresa di un’area relazionale alternativa alle scene modello distruttive e reattive che costellano il passato di questi pazienti. Il gruppo aiuta il soggetto a creare una “nuova narrazione”, un vero e proprio racconto storico (alla cui formazione il soggetto partecipa come attore) che permette uno sguardo diverso nei confronti di un passato mortifero e doloroso. E’ questa una delle potenzialità trasformative del gruppo: l’incontro tra i partecipanti e il conduttore permette la costruzione di relazioni più sane, volte alla sperimentazione di modelli nuovi di comportamento.

Gli elementi strutturali di base di un gruppo terapeutico creano molti importanti confini: la costituzione di uno specifico spazio gruppale permette di distinguere tra il “dentro” e il “fuori” del gruppo, evidenziando il senso di appartenenza e la differenziazione tra ciò che è del gruppo e ciò che non lo è. E’ importante sottolineare che nello spazio fisico gruppale si esprime anche uno spazio psicologico collettivo, influenzato dalle esperienze personali dei membri del gruppo e del clima dominante nell’hic et nunc della singola seduta.

Le norme di gruppo sono parte integrante del dispositivo gruppale e sono necessarie per una partecipazione positiva alla terapia di gruppo. Le norme riflettono non solo le regole di comportamento da adottare durante gli incontri di gruppo, bensì le aspettative implicite ed esplicite dei membri su come dovrebbero funzionare gli incontri stessi.

Nel corso dell’anno il gruppo cresce, cambia, evolve: non solo a livello numerico, si potrebbero notare ad esempio periodi nei quali vi è un “ricambio” di partecipanti, incontri con pochi partecipanti o viceversa con una grande affluenza, ma sopratutto matura a livello di vissuti, storie, esperienze portando/si ad una fase evolutiva nuova. Sì, il gruppo non è un’entità ferma, immutabile ma è in continuo movimento.

Ragion per cui ne esistono di diverse tipologie: tra questi, per citarne alcuni, troviamo comunità terapeutiche, centri diurni, gruppi di auto-aiuto. Il ruolo dei “conduttori” non è quello di dirigere il Gruppo, ma di accompagnarlo; non è quello di spingerlo, ma di facilitarlo nel suo processo di comunicazione. In questo senso, vengono definiti più correttamente “facilitatori” o “agevolatori” del Gruppo. Pertanto, il loro ruolo è quello di favorire un clima psicologico di sicurezza, pienamente accettante e non giudicante, in cui si realizzino gradualmente la libertà di espressione e la riduzione degli atteggiamenti difensivi. Nei gruppi di auto-aiuto però, i partecipanti anziani “che ci sono passati e ci sono riusciti”, possono guidare i nuovi arrivati sia in un percorso gruppale che individuale.

Le caratteristiche peculiari di questi gruppi Self-help sono :

  • condivisione del problema comune: tutti i membri hanno un problema di dipendenza da sostanze;
  • parità tra partecipanti: non vi sono conduttori professionisti. Il ruolo di leader viene assunto, a turno, da “membri anziani” che costituiscono un nucleo stabile. Gli “anziani” creano un rapporto personale con i nuovi chiamato “sponsorship” ed esprimono un impegno continuativo nel gruppo;
  • coesione del gruppo: il clima gruppale è sempre molto intenso e carico emotivamente. L’atmosfera è quella dell’accoglienza e dell’accettazione;
  • autonomia: l’autonomia del gruppo è percepita come fattore indispensabile al suo buon andamento.

Certo, un percorso evolutivo, a qualunque tipologia appartenga, non è sicuramente scevro da momenti di sofferenza, scoraggiamento, rabbia, frustrazione, ricadute nelle proprie “vecchie e malsane” modalità. 
Una possibile risposta, tuttavia, è che l’orientamento positivo, in senso evolutivo, del gruppo lo trasforma contemporaneamente in un contenitore degli affetti negativi che vengono così non negati, ma anzi accolti, rielaborati e reintegrati in un sentimento collettivo, non più solo patrimonio di uno specifico individuo, ma vissuto e risultato dello sforzo complessivo di tutto il gruppo. Allora la stessa ricaduta, con la messa in atto di un comportamento “vecchio e malsano” verrà rielaborata e riletta sotto forma di scivolata, meno colpevolizzante e giudicante. Questo avviene perché il gruppo stesso assume ben presto, nella mente dei suoi partecipanti, la forma di uno spazio nuovo. Uno spazio nuovo in cui si crea un clima di dialogo e di scambio, nel quale ciò che l’altro “porta” diventa facilmente proprio e viceversa.

 

La forza nascosta della gentilezza: il potere dei piccoli gesti che fanno stare bene noi e gli altri (2017) di C. Milani – Recensione libro

Cristina Milani, vice presidente del World Kindness Movement affronta il tema della gentilezza da un punto di vista storico, psicologico e geografico esplorando le ragioni del suo abbandono

 

Accanto al disinteresse e alla svalutazione che la società odierna riserva alla gentilezza, l’autrice ritrova in germe il seme di un rinnovato ritorno alla gentilezza nel bisogno di empatia, condivisione e unione sempre più presenti. Auspica dunque ad una rivoluzione gentile che investa il singolo e la comunità, uniti nella costruzione di un mondo migliore.

Alle radici della gentilezza perduta

La gentilezza, sempre più sconosciuto e sepolto retaggio dei tempi passati, spesso confusa e relegata a buona educazione e buone maniere, o a quelli che comunemente si sminuirebbe in convenevoli. Eppure la gentilezza vera è molto altro: amabilità, garbo e cortesia in tutti i sensi, qualità che è cura e attenzione verso l’altro e la comunità, intesa soprattutto come bene pubblico. Andando alle radici dell’abbandono di questa preziosa qualità in disuso, l’autrice designa un terzo fattore a quelli già comprovati: l’assetto valoriale nell’educazione dei figli che ha escluso la gentilezza, la delusione verso uno Stato assente, ma anche, denota, la richiesta di libertà successiva alle grandi dittature. Occupati a lottare e far valere i propri diritti, continuamente disillusi, si è perseverato inasprendo toni e atteggiamenti, a scapito del rispetto reciproco e per il bene pubblico. Cosicché l’indignazione derivata da un governo assente e incapace di garantire stabilità e risoluzione dei problemi ha legittimato la cafoneria come forma di espressione della propria rabbia e delusione.

Ma vi è un’altra aggravante, la gentilezza più che una lodevole virtù è oggi spesso considerata debolezza. Come è potuto accadere?

Anche qui l’autrice inscrive il fenomeno nel contesto socioculturale ed economico del nostro paese ovvero il sistema che, a partire dagli anni ’80, connota la società odierna: libero mercato, consumismo, individualismo e competitività. Nella misura in cui l’altro viene visto come un nemico, un competitor, in una società che corre volta al bene materiale e quantificabile, finalizzata solo al proprio personale benessere, viene a mancare la solidarietà. Non solo, le relazioni interpersonali diventano superficiali e utilitaristiche, non vi è tempo per lo scambio di emozioni e valori autentici, intangibili, non c’è spazio per condivisione ed emotività. La cultura individualista rende egoisti, aridi, e l’unico terreno fertile diventa quello dell’odio, dell’invidia, dell’antagonismo. La gentilezza viene rimossa, ritenuta inutile e da deboli, perché i perdenti sono coloro che non sono “abbastanza aggressivi” nell’accaparrarsi il proprio podio.

Riprendendo la teoria dell’attaccamento di Bowlby e i relativi modelli cognitivi comportamentali che si sono imposti nei primi 2 anni di vita, l’autrice distingue tra 4 organizzazioni cognitive con cui le persone interagiscono e agiscono nell’ambiente da adulti. In questo specifico caso, con la gentilezza:

  • Organizzazione fobica, il “gentile esagerato”: esercita una forma manipolatoria di gentilezza che permette all’individuo di relazionarsi con l’ambiente e gli altri evitando pericoli o abbandoni. Tale individuo ha sviluppato una immagine di sé vulnerabile, costantemente esposta a rischi, che ha arginato con una mania del controllo verso l’ambiente. Risulta quindi di una cortesia assordante che crea imbarazzo o l’impressione di essere presi in giro dagli altri.
  • Organizzazione depressiva, il “gentile tattico”: la gentilezza è qui espediente per conquistare una socialità altrimenti negata. Queste persone, che nell’infanzia hanno subito esclusione e rifiuto, sono cresciute con l’idea di non essere capaci di suscitare interesse e amore negli altri, e sviluppato la rabbia come unica modalità per comunicare i propri bisogni e disagi. Sono quindi sempre disposte a dare una mano ma se prese in un momento di rabbia, si mostrano invece dure e scontrose. Sono accoglienti con la propria cerchia, quanto incuranti verso gli sconosciuti.
  • Organizzazione psicosomatica, il “gentile condizionato”: in una identità personale basata su incertezza e insicurezza, l’unica variabile in grado di permettere la creazione di una identità diventa la propria fisicità con le relative variazioni. Il corpo diventa espediente per raggiungere la perfezione, così la gentilezza potrebbe essere per tali individui uno stile di vita volto alla continua ricerca di conferme. Il rischio è che, usandola come sistema di difesa, si tenderà a giustificare tutto.
  • Organizzazione ossessiva, il “gentile controllante”: a causa di una educazione rigida e anaffettiva ricevuta da piccoli, il formalismo è l’elemento che contraddistingue in personalità e apparenza questi individui, incapaci di esprimere contenuti emotivi e slanci spontanei. La gentilezza fatica qui a rivelarsi, prevalentemente applicata nel formalismo delle buone maniere.

Ma gentili si nasce o si diventa?

Interrogandosi sulla natura biologica della gentilezza, un’équipe di psicologi della Hebrew University ha, nel 2011, riscontrato l’attivazione del gene AVPR1A, il quale rilascia neurotrasmettitori che producono una sensazione di benessere, quando si compie un atto gentile verso il prossimo. La verità è che, saremmo forse anche spinti da un impulso biologico ad essere gentili, ma gran parte della partita la giocano i modelli comportamentali sviluppatisi nell’infanzia e soprattutto l’ambiente circostante in cui siamo immersi. Ad inibire la gentilezza, non sono solo i ritmi frenetici della società e l’arrivismo dilagante, ma anche la mancanza di empatia, che è spesso diretta conseguenza dei fattori precedentemente citati. L’empatia, per definizione la capacità di comprendere, “sentire” appieno lo stato d’animo altrui, genera cooperazione; perché nel sentirsi compresi ci si sente immediatamente più vicini a qualcuno, anche se è uno sconosciuto. La gentilezza influenza così l’umore, a beneficio non solo di chi la riceve ma anche di chi la compie, con l’attivazione di serotonina, l’ormone della felicità, che si attiva tanto più quando gli atti di gentilezza sono eterodiretti.

In un mondo frenetico e competitivo, che ci rende freddi e autocentrati su noi stessi, si diventa inattenti e insensibili ai bisogni altrui, fino a sfociare nella maleducazione e il bullismo. Spesso ciò accade senza la consapevolezza del perpetuatore, a dimostrazione di come la gentilezza sia un elemento di educazione imprescindibile allo stare in società. Un grande ruolo nell’avallare e legittimare i comportamenti aggressivi e maleducati l’ha giocato internet con i social media e il mondo virtuale spesso parallelo in cui siamo immersi. L’assenza di vicinanza crea spersonalizzazione e deresponsabilizzazione, così dietro lo scudo di uno schermo e di una tastiera ci si sente liberi di esprimere i propri sentimenti negativi o sfogare le proprie frustrazioni con l’hate speech. La rete ha in questo senso snaturato, impoverito e raffreddato il terreno fertile dell’empatia, il cui hummus risiede in tempo, vicinanza fisica ed emotiva e anche lentezza.

La gentilezza senza pazienza non si rivela

afferma la Milani, e ce ne accorgiamo quando ci troviamo davanti una persona arrabbiata. L’autrice invita a praticare l’arte dell’attesa e del prestare attenzione a 360 gradi, essendo centrati sul momento presente che si sta vivendo. La gentilezza è un boomerang che torna indietro con gli interessi, nel senso più positivo del termine; in altri casi invece disarma, calma, spiazza. Si pensi a cosa accade quando esprimiamo la nostra frustrazione e disappunto (seppur a ragion veduta) e riceviamo piena comprensione o una educata spiegazione, il risentimento si placa immediatamente. La gentilezza fa accadere le cose e ce lo dimostra il potere di un sorriso che abbatte paure, barriere, sospetti istantaneamente, più di mille altre parole o gesti.

Arruolarsi per una rivoluzione gentile..

La “rivoluzione gentile” auspicata dall’autrice consiste nel riappropriarsi di una visione del mondo fondata sul “noi” e non più solo sull’io; è possibile riportare in auge la gentilezza innescando un cambiamento culturale che solo la solidarietà proveniente dall’empatia sociale è capace di attuare. Questo intento è oggi rappresentato dal crescente proliferare di Onlus, attività di volontariato e fundraising in supporto delle giuste cause. Infatti, nonostante il preoccupante scenario sinora mostrato, l’autrice constata e riconosce come negli ultimi tempi si assista a un ritorno alla gentilezza, mobilitata dal bisogno degli individui ad aggregarsi per ritrovare quella identità sociale perduta. Attraverso la partecipazione, ci si unisce per un bene comune, costruendo una nuova identità, coesione e anche libertà.

..Iniziando da se stessi

“Chi ben comincia è a metà dell’opera” recita un vecchio proverbio, e per farlo è imprescindibile iniziare da sé stessi. Essere gentili con sé stessi vuol dire volersi bene, che non è il concedersi un regalo materiale come spesso si pensa, bensì applicare un “sano egoismo” nella forma più introspettiva del termine. Facendo bene a se stessi, si propaga forza e benessere centrifugo anche per chi ci sta attorno. Volersi bene vuol dire anche accettare di essere unici, fallibili, imparando a perdonarsi e accettarsi, adottando una forma mentis fondata sulla positività. Trattare bene gli altri ha a che fare con noi stessi più di quanto si possa immaginare, un approccio critico e sgarbato adottato con gli altri implica il meccanismo della proiezione: stiamo in realtà scaricando sull’altro qualcosa che non amiamo e accettiamo di noi.

La gentilezza nelle relazioni si esplica nel motivare, valorizzare le persone, spesso anche solo nell’osservarle facendo loro notare un particolare gradito; ne sono esempio gli apprezzamenti spontanei sul look persino tra sconosciuti. Replicare con altri quel che ha fatto bene a noi o “Praticare gentilezza a casaccio e atti di bellezza privi di senso” per dirlo con le parole di Anne Herbert, riprendendo la sua filosofia del random act of kindness.

Nella parte finale del libro, l’autrice rimanda a una cultura aziendale gentile, proponendo di integrare nella figura dei leader moderni non solo le capacità gestionali, ma anche quelle relazionali; coltivando il contatto personale e riducendo la distanza psicologica, includendo la gratitudine, l’umiltà e il legame di fiducia nel modello di competenze. La gentilezza diventa motore per incrementare l’efficienza manageriale, dando centralità al fattore umano, abbattendo le gerarchie verticali, al fine di garantire la durata nel tempo delle aziende.

L’arringa finale dell’autrice a difesa della gentilezza, vede associati l’essere gentili all’essere socialmente responsabili, soprattutto verso l’ambiente, per uno stile di vita più consapevole oltre che gentile. Con la convinzione che solo l’impegno proattivo e responsabile del singolo nella vita comunitaria possa generare un impatto positivo sulla società, contribuendo a costruire un mondo migliore.

 

Amicizia, lavoro ed empowerment nella comunità LGB

Le amicizie possono essere una parte indispensabile della costruzione della fiducia tra i lavoratori, contribuendo a una maggiore cooperazione e a una migliore performance istituzionale, oltre che individuale.

 

Secondo lo State of the American Workplace di Gallup (2017), le amicizie sul posto di lavoro sono una parte fondamentale dell’impegno positivo e della funzionalità organizzativa, eppure solo il 20% dei lavoratori ha segnalato un legame stretto con i colleghi. Le amicizie sono definite come legami deliberati tra persone che condividono fiducia, rispetto, reciprocità, cura, sostegno emotivo (Howe, 2011), solidarietà e genuinità (Pahl, 2000): i veri amici si chiamano l’un l’altro nel momento del bisogno e si sentono sicuri che la loro chiamata sarà accolta con empatia. Anche se in genere non abbiamo il potere di scegliere i nostri colleghi, il nostro livello di istruzione e le nostre scelte di carriera determinano in una certa misura chi incontreremo (Smith, McPherson, & Smith-Lovin, 2014). Questa tipologia di legami svolge funzioni sociali ed emotive essenziali: permette di esplorare, collaborare o negoziare per affrontare sfide o modelli di business problematici. In altre parole, le amicizie possono essere una parte indispensabile della costruzione della fiducia tra i lavoratori, contribuendo a una maggiore cooperazione e a una migliore performance istituzionale, oltre che individuale (Requena, 2003). Morrison e Nolan (2009) hanno dimostrato che le relazioni positive sul posto di lavoro sostengono il benessere individuale e le prestazioni lavorative, sono fondamentali per l’atteggiamento, il rendimento e la soddisfazione dei colleghi, oltre che favoriscono la condivisione delle informazioni e la collaborazione.

Alcune organizzazioni attribuiscono poca importanza alle relazioni o addirittura le scoraggiano attivamente, anche se “ignorare le amicizie significa ignorare la natura umana” (Gallup, 2017). Tuttavia, il luogo di lavoro è stato storicamente un luogo di esclusione e di isolamento per i professionisti lesbiche, gay e bisessuali (LGB), mentre sarebbe auspicabile sviluppare un ambiente di lavoro più inclusivo (Willis, 2010). I primi rapporti nella vita e i legami con i membri della famiglia servono come base per le amicizie durante l’età adulta (Welch & Houser, 2010). Le amicizie LGB hanno storicamente assunto la forma di legami di parentela estesi tra le minoranze sessuali, come risposta ad una famiglia biologica eterosessuale, omofobica o comunque non solidale (Dewaele, Cox, Van den Berghe, & Vincke, 2011). Per alcune di queste persone, gli amici possono servire come forma primaria di sostegno sociale ed emotivo (Sias & Bartoo, 2007). Rumens (2011), inoltre, sottolinea che “alcuni dipendenti appartenenti a minoranze, come ad esempio soggetti appartenenti alla comunità LGB, possono avere difficoltà a connettersi tra loro sul posto di lavoro” con conseguenze particolari: la pressione a rimanere in silenzio promuove disimpegno, l’isolamento e il senso di non appartenenza.

Il presente studio si è proposto di indagare l’importanza delle amicizie sul posto di lavoro per il personale accademico LGB in campo sociale, nella consulenza e nei servizi umani, e di esaminare il rapporto tra le amicizie e l’empowerment sul lavoro. Nello specifico, le domande di ricerca sono state le seguenti tre:

  1. In che misura il campione indagato (N= 245) riporta amicizie sul posto di lavoro?
  2. In che modo le amicizie sul posto di lavoro e l’empowerment differiscono in base all’orientamento sessuale?
  3. In che modo l’orientamento sessuale e l’amicizia sul posto di lavoro prevedono insieme l’empowerment sul posto di lavoro?

La prevalenza e le opportunità di amicizia sul posto di lavoro sono state valutate tramite la Workplace Friendship Scale (Nielsen, Jex, and Adams, 2000), ovvero una scala a 12 items, del tipo “Ho l’opportunità di conoscere i miei colleghi” oppure “Ho stretto forti amicizie sul lavoro”, a cui i partecipanti potevano rispondere tramite una scala Likert a 5 punti (da fortemente in disaccordo a fortemente d’accordo). Per empowerment psicologico sul lavoro si intende la misura in cui le persone sperimentano il significato, la competenza, la determinazione di sé e l’impatto sul posto di lavoro. Esso è stato valutato per mezzo della Psychological Empowerment Scale, composta da 12 items che esplorano quattro dimensioni, a cui i partecipanti potevano rispondere tramite una scala Likert a 7 punti (da fortemente in disaccordo a fortemente in accordo): il significato (es. “il lavoro che faccio è importante per me”), la competenza (es. “Sono sicuro della mia capacità di fare il mio lavoro”), l’autodeterminazione (es. “Ho una notevole autonomia nel determinare come faccio il mio lavoro” ) e l’impatto (es. “Ciò che accade nel mio reparto ha grande impatto sulla mia vita”) (Spreitzer, 1995).

I risultati hanno rivelato che, nel complesso, all’interno del campione esisteva una prevalenza da moderata ad alta di amicizie sul posto di lavoro, così come è emerso un grado da moderato ad alto di empowerment psicologico. Tra i partecipanti LGB e quelli non LGB non sono emerse differenze significative relative alle opportunità e alla prevalenza di amicizia, al contrario della variabile di empowerment sul posto di lavoro. Inoltre, la ricerca ha palesato la relazione significativa tra orientamento sessuale ed empowerment, e tra empowerment e opportunità di amicizia, ma non con la prevalenza di amicizie. Ciò suggerisce che per i lavoratori, avere l’opportunità di sviluppare amicizie al lavoro è più importante che avere degli amici, in quanto questo riguarda questioni più ampie relative a come il supporto organizzativo e la cultura potrebbero influire sull’empowerment del posto di lavoro (Kokkonen et al., 2015).

 

Quali sono le implicazioni neurologiche nel Disturbo da stress post-traumatico (PTSD)?

Un evento traumatico può causare delle modificazioni neurotrasmettitoriali, determinate dai fattori ormonali attivati dallo stress, che quantificano la cronicità del disturbo e la persistenza delle conseguenze dell’esposizione del soggetto all’evento traumatico.

 

Pierre Janet asseriva:

Tutti i famosi moralisti dei tempi passati hanno posto l’attenzione al modo in cui certi eventi lasciano ricordi indelebili e stressanti, ricordi a cui chi ne è afflitto fa continuamente ritorno, e dai quali si sente tormentato giorno e notte..

Il disturbo da stress post-traumatico (PTSD) rappresenta una patologia di derivazione mentale molto comune, caratterizzata dall’insieme di forti e profonde sofferenze psicologiche che conseguono a un evento di tipo traumatico, catastrofico e spesso violento.

Prescindendo dal fattore scatenante, tutto ciò conduce a disagi clinicamente significativi o compromissioni nelle interazioni sociali, nella capacità di lavorare e in altre aree importanti per il normale funzionamento, accompagnati da una reattività psicologica cronica abnorme rispetto alla situazione e quindi dalla conseguente incapacità di regolare le reazioni emotive provenienti da stimoli interni o esterni.

Il PTSD può svilupparsi in seguito all’esposizione di un soggetto a uno o più eventi traumatici, come ad esempio: incidenti stradali, aerei, terremoti, aggressioni sessuali, atti di terrorismo o altri tipi di minacce che possono insorgere nella vita di un individuo.

Ma quali sono i criteri diagnostici? Riportando la quinta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei disturbi mentali (DSM 5; APA, 2013), per lo sviluppo di un PTSD è necessario che:

  • CRITERIO A: La persona sia stata esposta a un trauma, quale la morte reale o una minaccia di morte, grave lesione, oppure violenza sessuale facendo un’esperienza diretta o indiretta dell’evento traumatico oppure venendo a conoscenza di un evento traumatico violento o accidentale accaduto ad un membro della famiglia o ad un amico stretto. Un’altra possibile causa traumatica che può portare allo sviluppo di un PTSD è l’esposizione ripetuta o estrema a dettagli crudi dell’evento traumatico, come ad esempio succede ai primi soccorritori che raccolgono resti umani o agli agenti di polizia ripetutamente esposti a dettagli di abusi su minori.
  • CRITERIO B: Sintomi intrusivi correlati all’evento traumatico insorgano dopo l’evento traumatico, e possono manifestarsi sotto forma di ricordi del trauma ricorrenti, involontari ed intrusivi, sogni spiacevoli ricorrenti in cui il contenuto e/o le emozioni del sogno sono collegati all’evento traumatico e reazioni dissociative come flashback in cui ci si sente o si agisce come se l’evento traumatico si stesse ripresentando. Le reazioni dissociative possono arrivare alla completa perdita di consapevolezza dell’ambiente circostante. Inoltre può essere presente intensa o prolungata sofferenza psicologica nonché marcate reazioni fisiologiche all’esposizione a fattori scatenanti interni o esterni che simboleggiano o assomigliano a qualche aspetto dell’evento traumatico.
  • CRITERIO C: Evitamento persistente degli stimoli associati all’evento traumatico, viene messo in atto dopo l’evento traumatico. La persona evita o tenta di evitare ricordi spiacevoli, pensieri o sentimenti relativi o strettamente associati all’evento traumatico. Inoltre, vengono evitati fattori esterni quali persone, luoghi, conversazioni, attività, oggetti e situazioni che possono suscitare ricordi spiacevoli, pensieri o sentimenti relativi o strettamente associati all’evento traumatico.
  • CRITERIO D: Alterazioni negative di pensieri ed emozioni associate all’evento traumatico si manifestano dopo l’evento traumatico. La persona può non ricordare qualche aspetto importante dell’evento traumatico (dovuta tipicamente ad amnesia dissociativa e non ad altri fattori come trauma cranico, alcool o droghe), sviluppare persistenti ed esagerate convinzioni o aspettative negative su se stessi, gli altri, o il mondo. Possono manifestarsi pensieri distorti e persistenti relativi alla causa o alle conseguenze dell’evento traumatico che portano a dare la colpa a se stessi oppure agli altri. Si può inoltre sperimentare uno stato emotivo negativo e provare sentimenti persistenti di paura, orrore, rabbia, colpa o vergogna, una marcata riduzione di interesse o partecipazione ad attività significative, sentimenti di distacco o di estraneità verso gli altri o incapacità di provare emozioni positive come felicità, soddisfazione o sentimenti d’amore.
  • CRITERIO E: Marcate alterazioni dell’arousal e della reattività associate all’evento traumatico, si manifestano dopo l’evento traumatico come comportamento irritabile ed esplosioni di rabbia (con minima o nessuna provocazione) tipicamente espressi nella forma di aggressione verbale o fisica nei confronti di persone o oggetti, comportamento spericolato o autodistruttivo, ipervigilanza, esagerate risposte di allarme, problemi di concentrazione, difficoltà relative al sonno come difficoltà nell’addormentarsi o nel rimanere addormentati oppure sonno non ristoratore.
  • CRITERIO F: La durata delle alterazioni descritte è superiore ad 1 mese.
  • CRITERIO G: L’alterazione causa disagio clinicamente significativo o compromissione del funzionamento in ambito sociale, lavorativo o in altre aree importanti.
  • CRITERIO H: L’alterazione non è attribuibile agli effetti fisiologici di una sostanza come ad esempio farmaci o alcol o a un’altra condizione medica.

A seguito di un evento stressante, oltre a sviluppare un PTSD, si possono manifestare anche sintomi dissociativi non attribuibili agli effetti fisiologici di una sostanza o ad un’altra condizione medica. Questi sintomi dissociativi possono riguardare:

  • LA DEPERSONALIZZAZIONE: ci si può sentire distaccati dai propri processi mentali come se si fosse un osservatore esterno al proprio corpo (ad esempio sensazione di essere in un sogno; sensazioni di irrealtà di se stessi o del proprio corpo o del lento scorrere del tempo).
  • LA DEREALIZZAZIONE: si possono avere cioè persistenti o ricorrenti esperienze di irrealtà dell’ambiente circostante (ad esempio il mondo intorno sembra irreale, onirico, distante o distorto).

In un ottica bio-psico-sociale, risulta possibile asserire che l’ambiente in cui cresce e si sviluppa la personalità del soggetto, accompagnato dagli eventi di vita e dalla personale predisposizione genetica, costituiscono dei fattori fondamentali per lo sviluppo di una particolare modalità di risposta all’evento stressante.

Pitman, Orr e Shalev (1993) affermano che gli stimoli che conducono l’individuo a reagire in modo eccessivo possono non essere condizionati a sufficienza; una serie di cause non direttamente collegate all’esperienza traumatica possono risultare cumulative all’evento stesso, tali appunto da provocare delle reazioni estreme quali: anedonia, disturbi del sonno, evitamento e ritiro sociale, deficit di concentrazione, agitazione, irritabilità frequenti e un pattern d’eccitazione cronico. In assenza di un trascorso ricco di avversità, in seguito all’esposizione a un grave trauma, il soggetto ha la possibilità di poter sviluppare o meno il disturbo, possibilità che non è una certezza. Allo stesso modo non tutti i soggetti esposti in età infantile ad eventi di vita avversi, sviluppano la patologia. Semplicemente, alcuni eventi di vita, possono essere in grado di dar luogo a un fenotipo vulnerabile predisponente alla malattia, soprattutto se il soggetto subisce una nuova esposizione a traumi e stress.

La diretta conseguenza di vissuti ed esperienze stressanti, comporta una condizione che Hans Selye definisce “sindrome generale di adattamento” che consta di tre fasi: la prima di Allarme, in cui il soggetto cerca di allocare le risorse necessarie per far fronte alla situazione, con una conseguente attivazione del sistema nervoso autonomo e precisamente la componente del simpatico ed in particolare l’asse HPA (ipotalamo-ipofisi-surrene), se lo sforzo si protrae nel tempo ha avvio la fase della Resistenza, l’individuo cerca di adattarsi ma questo può portare alla formazione di ulcere ed all’ingrossamento delle ghiandole surrenali fino a giungere alla terza fase ossia quella dell’Esaurimento, quando l’esposizione all’evento stressante si protrae in modo abnorme e l’organismo non può mantenere oltre lo stato di resistenza, così esaurisce le energie impiegate nell’adattamento rischiando danni irreversibili.

Un eccesso di risposta comporta una sovrapproduzione di cortisolo, il cosiddetto “ormone dello stress”, con alcune ricadute importanti e potenzialmente nocive sulla pressione arteriosa, sull’attività cardiaca, sulla funzione renale e sull’equilibrio glicemico. Numerosi studi, accompagnati dall’utilizzo di tecniche di neuroimaging ed indagini scientifiche, hanno riportato alcune modifiche a livello neuroanatomico, nei soggetti affetti da PTSD. Tali modifiche interessano principalmente il sistema libico ed in particolar modo l’Ippocampo, che presenta una evidente e significativa atrofia. Proprio a tal proposito, con lo scopo di spiegare la natura dell’atrofia ippocampale nel disturbo da stress post-traumatico, alcuni studi hanno individuato l’esposizione ai glucocorticoidi, ossia gli ormoni steroidei secreti durante lo stress, come il principale fattore di rischio del PTSD.

Sebbene l’origine certa, alla base dell’eziopatogenesi del disturbo, risulti ancora controversa si pensa che un ippocampo atrofico, sia il risultato di una sua prolungata esposizione ai glucocorticoidi, ricordiamo che la secrezione dei glucocorticoidi è stimolata dall’ormone adenocorticotropo (ACTH). Il cortisolo prima citato come risposta allo stress, è appunto il principale ormone glucocorticoide.

Secondo Yehuda, il meccanismo di atrofia ippocampale risulta dovuto ad un’alterazione dell’asse HPA (ipotalamo-ipofisi-surrene), che non è causata da scarsi livelli di cortisolo, bensì da un incremento del feedback negativo dell’asse stesso. Infatti, i ridotti livelli di cortisolo, non sono altro che la conseguenza di un aumento del feedback dello stesso sulla ghiandola pituitaria e quindi sull’ipotalamo. A questo punto, è possibile affermare che all’aumentare della sensibilità dei recettori ippocampali per i glucocorticoidi, aumenterà anche la vulnerabilità ippocampale all’atrofia anche in assenza di levati livelli di cortisolo. Quindi risulterebbe l’attivazione dei recettori dei glucocorticoidi e non specificatamente i livelli di cortisolo, in grado di causare quella serie di eventi, aventi come risultato finale, una degenerazione neuronale.

Incubi, flashback, pensieri intrusivi, immagini sensoriali e altri sintomi del PTSD possono essere il risultato della continua attivazione delle informazioni immagazzinate in modo alterato.

Un blocco nell’elaborazione, ne impedisce la transizione delle informazioni riguardanti l’evento traumatico attraverso le fasi normali dell’integrazione adattiva, queste ultime arrivano al Sistema Nervoso Centrale attraverso gli organi di senso, per poi essere trasferite al talamo qui sono parzialmente integrate prima che questo, a sua volta, le invii al fine di effettuare ulteriori valutazioni sia all’amigdala che alla corteccia pre-frontale. L’amigdala conferisce un significato emotivo agli eventi, mentre l’ippocampo anatomicamente ad essa adiacente, arricchisce l’informazione attribuendo un significato verbale. Entrambi svolgono un ruolo centrale nell’acquisizione e nella fissazione dell’informazione. Quindi possiamo affermare che talamo, amigdala, ippocampo e corteccia prefrontale risultano coinvolti nei processi di interpretazione, integrazione e memorizzazione delle informazioni provenienti dagli organi di senso, tuttavia sembrano essere disturbati da elevati livelli di eccitazione. Infatti, se la moderata attivazione da parte dell’amigdala aumenta la memoria dichiarativa mediata dall’ippocampo, un alto livello eccitatorio ostacola la sua funzionalità. Esiste una sufficientemente consolidata letteratura che indica come in conseguenza ad alcune situazioni traumatiche, specialmente se queste risultano essere estreme e ripetute nel tempo, come ad esempio nel caso dell’abuso sessuale intrafamiliare, hanno luogo specifiche alterazioni neurologiche e biochimiche la cui certa implicazione non è tutt’ora compresa.

I ricordi traumatici, conducono ad un’eccessiva eccitazione da parte dell’amigdala che genera risposte emotive ed impressioni sensoriali che potrebbero basarsi unicamente su frammenti di informazione (componenti sensoriali come ad esempio immagini visive, sensazioni uditive, tattili o olfattive, oppure come vivide rappresentazioni dell’evento traumatico stesso), piuttosto che su di una percezione completa. Quando viene richiamato alla mente un ricordo traumatico, ne consegue una aumentata attività dell’emisfero cerebrale destro, che si verifica in particolar modo nelle aree coinvolte nell’eccitazione emotiva e quindi strettamente legate a quelle sezioni del sistema limbico, correlate all’amigdala. L’area di Broca, la zona dell’emisfero sinistro responsabile della verbalizzazione delle esperienze personali, sembra essere spenta, ecco perché i soggetti che subiscono un’esperienza traumatica provano una sorta di terrore muto; conseguentemente non sono in grado di tradurre l’evento traumatico in parole. Ciò deriva da un’atipica ed insolita elaborazione e fissazione dell’informazione: l’evento traumatico produce un’attivazione del locus coeruleus, la cui scarica noradrenergica a sua volta conduce all’iperattivazione dell’amigdala e della corteccia, inibendo però l’ippocampo.

A causa di una simile condizione l’informazione, che è carica di significati emotivi assegnati dall’amigdala, non può essere ampliata con i significati verbali e simbolici da parte dell’ippocampo che risulta essere strutturalmente ridotto e quindi atrofico, per l’azione dei glucocorticoidi. Il risultato è quello di un’anomala fissazione e dell’informazione, che non sarà effettuata sotto forma di ricordo, ma di vissuto. L’evento traumatico quindi, rappresenta la causa delle modificazioni neurotrasmettitoriali, determinate dai fattori ormonali attivati dallo stress che quantificano la cronicità del disturbo e la persistenza delle conseguenze dell’esposizione del soggetto all’evento traumatico. Tuttavia, ad oggi, risulta ancora largamente sconosciuto l’esatto meccanismo della sua interazione che parte dall’evento traumatico fino al manifestarsi del PTSD.

 

Quando mamma e papà litigano: gli effetti del conflitto coniugale sui figli

I genitori dovrebbero comprendere quali dinamiche del conflitto coniugale possono incidere e ostacolare lo sviluppo del benessere del proprio figlio, ricercando modalità di espressione funzionali che favoriscano la propria libertà di espressione preservando il diritto del figlio di un sereno sviluppo.

Cos’è un conflitto coniugale?

Il conflitto è un’evenienza del tutto normale nel rapporto fra coniugi e può avere una valenza distruttiva o costruttiva. Varia nel tempo, nelle modalità e può interessare aspetti differenti di vita quotidiana come la gestione economica, l’educazione dei figli, le relazioni extra familiari o con le famiglie d’origine, ma anche problemi strettamente legati al funzionamento della coppia coniugale.

Il conflitto permette di esprimere, in maniera più o meno funzionale, opinioni differenti. L’espressione di questo grado di discordanza in presenza dei figli genera risposte negli stessi a più livelli: emotivo, comportamentale, cognitivo e fisiologico. Il genitore non è chiamato per questo a reprimere la sua discordanza nella coppia, ma può comprendere quali dinamiche del conflitto coniugale, possono incidere ed ostacolare lo sviluppo del benessere del proprio figlio, ricercando modalità di espressione funzionali che favoriscano la propria libertà di espressione preservando il diritto del figlio di un sereno sviluppo.

Modalità di conflitto

I dati presenti nella letteratura scientifica ci spiegano che non solo esistono diverse forme di conflitto e che queste hanno un impatto diverso sullo sviluppo del benessere del bambino. Questi differiscono fra loro per una diversa modalità di espressione che viene definita: aggressiva o ostile, a cui segue una fase di “risoluzione” del conflitto.

L’espressione del conflitto aggressivo fa riferimento a ciò che comunemente definiamo aggressione fisica all’altro o verso gli oggetti utilizzati per colpire o minacciare l’altro. L’esposizione all’aggressione fisica risulta collegata allo sviluppo di problemi di adattamento del bambino.

L’espressione del conflitto ostile invece riguarda sia le modalità verbali che quelle non verbali.

Nel primo caso, di ostilità verbale, si è osservato come urla, minacce ed espressioni di rabbia verbali innescano nel bambino elevati stati di angoscia che aumentano particolarmente in presenza di minacce di abbandono. Si osserva inoltre come i bambini effettuino tentativi di mediazione con una frequenza maggiore rispetto ad altre forme di conflitto.

Nel secondo caso, di ostilità non verbale, si fa riferimento a quegli atteggiamenti di ritiro che i coniugi possono assumere nella relazione e benché non si tratti di un conflitto “conclamato” questo è in grado comunque di generare angoscia nel bambino che percepisce sia l’evitamento che il mutismo reciproco dei genitori.

“Fare la pace”

Il termine di un conflitto coniugale viene segnato da una fase di risoluzione intesa non necessariamente come il raggiunto “accordo” tra coniugi, quanto come un insieme di strategie o modalità di comportamento che i coniugi assumono al termine del conflitto. Queste sono in grado di far aumentare o diminuire lo stato d’angoscia precedentemente indotto dal conflitto: maggiore è il grado di risoluzione raggiunto dai coniugi, maggiore sarà la possibilità di ridurre lo stato di angoscia nel figlio.

Una possibilità di risoluzione del conflitto coniugale è rappresentata dal compromesso che è capace di ridurre nel bambino reazioni negative, a differenza dell’ostilità verbale e del mutismo. Soluzioni di sottomissione o evitamento dell’argomento conflittuale invece vengono chiaramente percepite dal bambino come soluzioni parziali, che rivelano comunque un impatto positivo sul suo senso di angoscia, ma non un’assenza o totale riduzione della stessa. Possiamo dunque affermare che maggiore è l’efficacia risolutiva del conflitto, intesa come capacità di giungere ad un reale compromesso, maggiore è la diminuzione della reattività negativa del bambino.

Così come il conflitto anche le modalità di risoluzione possono avere un impatto sul bambino, a tal proposito la ricerca ha osseravto come l’angoscia del bambino diminuisca in maniera rilevante se i coniugi risolvono il conflitto a “porte chiuse”. Ciò acquista veridicità solo se con i loro comportamenti sono in grado poi di mostrare, e quindi testimoniare, un cambiamento positivo reciproco. Risolvere un conflitto coniugale a “porte chiuse” non significa escludere il bambino da ciò che è avvenuto: “i bambini traggono beneficio dal poter ascoltare spiegazioni brevi dell’avvenuta risoluzione…”, o semplicemente dall’osservare o dal sentirsi dire che i genitori si stanno impegnando per cercare un accordo.

Effetti sul bambino

Gli effetti dell’esposizione al conflitto, in particolare a quello aggressivo, inducono nel bambino: un aumento dell’insicurezza nella relazione con i genitori, problemi di internalizzazione ed esternalizzazione e sintomi tipici del disturbo da stress post traumatico (PTSD). Tali effetti possono coinvolgere anche l’ambito extra-familiare, in particolare quello scolastico, provocando un’alterazione nel funzionamento del bambino sia in termini di performance scolastica, sia in ambito socio-relazionale.

La variazione della performance spesso induce ad un calo della prestazione scolastica poiché l’esposizione al conflitto è in grado di minare la capacità del bambino di mantenere l’attenzione su un compito per lungo tempo. Tale “capacità mentale è quella che gli scienziati cognitivi chiamano memoria di lavoro”, che permette allo studente di riuscire a mentenere vivo il ricordo delle informazioni apprese o in fase di apprendimento. Non è un caso che la sede della memoria di lavoro sia la corteccia prefontale, struttura in cui giungono contemporaneamente informazioni ed emozioni.

In ambito socio-relazione l’insicurezza emotiva generata dal conflitto coniugale, struttura nel tempo un modello rappresentazionale insicuro delle relazioni sociali sia col gruppo dei pari che con le figure adulte operanti nella scuola.

Ulteriore effetto è quello relativo all’insorgere di disturbi del sonno. Avendo le relazioni coniugali ed il conflitto un impatto globale sul bambino, questo indurrà un’alterazione dei processi di regolazione, sonno incluso.

Le alterazioni fin qui descritte sono accompagnate dall’azione dei sistemi fisiologici, dunque collegati all’attività elettrica del cervello e al rilascio degli ormoni neuroendocrini. Queste alterazioni, sebbene abbiano una funzione adattiva rispetto alla capacità di fronteggiare il pericolo percepito dal bambino, inducono, nel tempo, una continua reattività fisiologica allo stato di stress ed uno stato di fatica che spesso culmina in problemi di salute sia fisica che mentale.

Esiste un’età maggiormente vulnerabile al conflitto coinugale?

I bambini, sebbene riescano a far fronte al conflitto coniugale, sono anche intensamente sensibili e reattivi alle espressioni di rabbia del mondo dei propri genitori. Basti pensare che già a partire dai sei mesi i bambini sono in grado di manifestare risposte di angoscia alla rabbia espressa dal genitore, attraverso espressioni del volto o gesti che testimoniano la paura provata. Risposte di angoscia che con la crescita possono poi manifestarsi sia con comportamenti aggressivi o con atteggiamenti mediatori delle divergenze genitoriali.

Molti studi hanno ripetutamente dimostrato che i bambini cercano in tutti i modi di far sì che i genitori si sentano emotivamente sollevati, confortandoli o aiutandoli a tirare fuori e risolvere le divergenze.

Un figlio appare dunque sempre vulnerabile al conflitto coniugale, ciò che infatti si osserva è che un bambino esposto al conflitto coniugale durante l’infanzia mostra “costellazioni di vulnerabilità” non minori o maggiori di quanto mostrerà in adolescenza, ma sostanzialmente differenti nell’esito, poiché differente è il grado di strutturazione di personalità e i compiti evolutivi connessi alla sua fase di sviluppo. Sono proprio i compiti evolutivi a risentire dell’effetto del conflitto coniugale, questo diventa nel tempo una “fatica” aggiuntiva al processo di crescita o sviluppo, o nei casi più gravi, un reale impedimento.

 

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