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Monogamia e tradimenti: La stabilità di una storia d’amore – Una serie di Roberto Lorenzini

Oggi pubblichiamo il settimo lavoro della serie di Roberto Lorenzini, dedicata al tema della monogamia e delle sue implicazioni psicologiche, affettive, relazionali e, perché no, sessuali. Lorenzini propone una tesi forte: la monogamia non funziona. E prosegue il suo racconto esplorando lo sviluppo della vicenda amorosa e in particolare la fase stabile dell’amore.

MONOGAMIA E TRADIMENTI – (Nr. 7.2) La stabilità di una storia d’amore

 

7.2 La stabilità di una storia d’amore

Identità e amore: durante il corso dell’esistenza la nostra identità è stabile e mutevole ad un tempo e per tale motivo possiamo sempre temere di smarrirla e avere il bisogno di confermarla. Il nucleo centrale stabile dell’identità si definisce in relazione con gli altri in almeno due significati.

Il primo, più banale ci fa descrivere come “il figlio di … ”, “l’amico di … ”, “il compagno di … ”, “il padre di … ”.

Il secondo è più importante e significa che gli altri sono i testimoni e gli specchi che ci restituiscono l’idea di chi siamo. Anzi, per la precisione, all’inizio della nostra esistenza l’identità che ci costruiamo si modella sull’immagine che ci rimandano i nostri genitori. È nei loro occhi che scopriamo chi siamo e, se per un motivo o per un altro, non siamo visti la base stessa dell’identità sarà minata. Chiediamoci cosa si intenda esattamente per identità attraverso due situazioni concrete sperimentate da tutti.

La prima. Quando dico che resto me stesso nonostante il mio corpo e il mio modo di vedere il mondo (dunque la mia mente) cambino, cosa significa effettivamente? E da dove viene la sensazione di essere ancora e sempre “io” ancorché irriconoscibile per i miei compagni di liceo?

La seconda. Quando diciamo alla persona amata che continueremo ad amarla qualsiasi cambiamento avvenga in lei, vogliamo semplicemente essere galanti, ma sappiamo di ingannarla o ci crediamo davvero? E, in questo secondo caso, abbiamo ragione o ci stiamo sbagliando? Insomma, il tema è appunto la stabilità dell’identità dei soggetti (che sia l’”io” o il “tu”) nonostante il modificarsi delle loro caratteristiche. Iniziamo da questo secondo problema. È evidente che quando scegliamo una persona come possibile nostro partner lo facciamo sulla base di una serie di caratteristiche che ci piacciono in quanto presumiamo soddisfino i nostri scopi. Sono esattamente i suoi attributi a spingerci ad avvicinarci a lui piuttosto che a qualcun altro. L’altro è esattamente la sommatoria delle sue caratteristiche, doti, peculiarità e null’altro, non c’è un “tu” sostanziale che li trascende. Nel corso dell’esistenza succede in genere che molte persone che incontriamo abbiano un pacchetto di doti estremamente interessante creando i conflitti, a tutti noti, sulla scelta del partner. Purtroppo, non è possibile montarsi un puzzle perfetto prendendo un po’ di qua e un po’ di là, sebbene sia nella fantasia di molti poterlo fare (Mitchell, 2003).

Dopo questa iniziale fase di scelta inizia la relazione che si dipana nel tempo. Durante questo periodo si scoprono in genere nuovi aspetti dell’altro, alcuni graditi ed altri meno. Contemporaneamente alcune delle caratteristiche originali che avevano determinato la scelta vengono perdute. Il costituire una novità e l’essere imprevedibile cessano e l’altro diventa più scontato e consueto, la bellezza e la prestanza fisica sono tutte caratteristiche che tendono ad attenuarsi col tempo per non considerare cambiamenti bruschi e imprevisti derivanti da malattie, incidenti e contingenze negative d’ogni sorta. Insomma, in linea di massima l’altro peggiora ai nostri occhi e noi ai suoi. Eppure almeno parzialmente in buona fede affermiamo che l’altro è il nostro “Tu” (con la “T” maiuscola) e non lo sostituiremmo con nessuno anche se vistosamente cambiato.

Cosa è dunque che ci fa persistere nella relazione con un soggetto che se incontrassimo adesso non sceglieremmo assolutamente e che non ha più gran parte delle caratteristiche che ce lo avevano fatto preferire? Per certi versi entra in gioco il cosiddetto “bias dei costi sommersi” per cui il valore di un certo oggetto è dato dalla somma del suo valore reale aumentato delle risorse che vi abbiamo investito per cui è difficile abbandonare imprese su cui si è speso molto anche quando si mostrano chiaramente fallimentari (questa trappola spesso mantiene situazioni di grande sofferenza e addirittura pericolose) (Kanheman, 2011). Ma c’è qualcosa di più. L’altro è diventato il testimone di noi stessi, di chi siamo, è lo specchio fedele che ci rimanda la nostra identità. Non c’entra molto etimologicamente con il termine “riconoscenza”, ma è attraverso lui che riconosciamo noi stessi. E’ questo che ce lo rende prezioso normalmente e, al contrario, odiosissimo quando viviamo una conversione radicale o una rivoluzione kunhiana della nostra identità (Khun, 1962), perché ci ricorda come eravamo e non siamo più (a volte si evitano le persone che ci hanno aiutato nei momenti di grave difficoltà proprio perché ci ricordano il nostro essere stati bisognosi). Questa funzione dell’altro rimanda al primo problema e cioè come facciamo a riconoscerci e ad affermare che siamo gli stessi di 40 anni fa nonostante il fisico e la mente siano radicalmente cambiati. L’unico invariante è che restiamo i protagonisti di quella storia che ci narriamo continuamente come la “nostra storia”, non importa quanto effettivamente corrispondente alla realtà. È  il sé mnemonico ad essere il sostegno dell’identità e suoi indispensabili complici sono quegli interlocutori che scegliamo come testimoni privilegiati che proprio per questo sono tanto importanti e non vogliamo perdere. Ci reggono il gioco nel credere di essere quello che ci piace credere di essere. Questo val bene l’impegno di non lasciarli mai, qualsiasi cosa accada nella buona e nella cattiva sorte e siamo pronti a ricambiarli con la stessa moneta. Siamo specchi gli uni per gli altri e, come il famoso specchio della regina, ci diciamo quello che vogliamo sentirci dire, che siamo i più belli del reame, che Biancaneve è brutta e antipatica e, contemporaneamente, fuggiamo o puniamo chi accenna a dire che il re è nudo (Recalcati, 2014).

In sintesi, se l’innamoramento con la sua passionalità ed esclusività rappresenta la spinta alla procreazione, l’amore è connesso soprattutto con l’identità e privilegia la durata rispetto all’intensità ed è evolutivamente importante per l’allevamento della prole (Zeki, 2007).

 

Curare l’insonnia senza farmaci. Metodi di valutazione e intervento cognitivo-comportamentale (2015) di Devoto e Violani – Recensione del libro

Curare l’insonnia senza farmaci è uno di quei libri che non deve mancare nella libreria di un professionista della salute mentale.

Pizzo Denise – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Mestre

 

Edito da Carocci Faber, questo libro scritto a quattro mani da Alessandra Devoto e da Cristiano Violani, entrambi psicologi e docenti, esperti in valutazione e trattamento dei disturbi del sonno, è un manuale specialistico rivolto a psicologi clinici e psicoterapeuti che desiderano una guida valida ed efficace per valutare e trattare l’insonnia, in ottica CBT.

Molto spesso accade che nei nostri studi vengano pazienti che lamentano problematiche legate al sonno. Grazie a questo manuale è possibile comprendere la natura dell’insonnia e in quali casi il trattamento CBT-I è indicato.

La Cognitive Behavioral Therapy for Insomnia (CBT- I) è un protocollo breve indicato per il trattamento non farmacologico dell’insonnia primaria e cronica.

Il volume si articola in sei capitoli, in cui si affrontano in modo chiaro, saliente e ordinato le tematiche relative all’insonnia. Nel testo non vengono esemplificati casi clinici o resoconti di protocolli; il linguaggio è specialistico ma scorrevole.

Nel primo capitolo vengono definiti i criteri etiologici per la valutazione dell’insonnia. Dopo un’attenta e puntuale definizione di ‘insonnia’, secondo le classificazioni internazionali dei disturbi del sonno (ASDA, 1990, 1997, 2005, rispettivamente ICSD, ICSD-R, ICSD-2), curate dall’American Sleep Disorders Association (ASDA), gli autori si apprestano a distinguere i diversi tipi di insonnia; sottolineando l’importanza del trattamento cognitivo- comportamentale per chi lamenta insonnia primaria e cronica. L’insonnia è considerata cronica o persistente quando dura da almeno un mese (DSM- IV- TR, 2000), e, più tipicamente, per sei mesi e oltre (ISCD-R, ASDA, 1997). Vengono ben descritti e quantificati anche i diversi parametri necessari per un’attenta valutazione dell’insonnia. Nello specifico, il Sleep Onset Latency (SOL) o latenza di addormentamento e il Wakefulness After Sleep Onset (WASO) o quantità di veglia intranotturna. L’insonnia con difficoltà di addormentamento e quella con difficoltà di mantenimento del sonno vengono rispettivamente definiti da SOL e/o WASO superiore ai 30 minuti. Il risveglio precoce è definito come tale quando è caratterizzato da: un risveglio anticipato di più di 30 minuti rispetto a quanto desiderato, la presenza di un tempo totale di sonno minore di 6-6,5 ore. La durata del sonno non rientra tra i parametri quantitativi da considerare: in quanto varia fortemente in funzione dell’età e delle differenze individuali. Una misura utile per la valutazione dell’insonnia è l’Indice di Efficienza del Sonno (IES) corrispondente al rapporto tra Tempo Totale di Sonno (TTS) e Tempo Totale di Letto (TTL) moltiplicato per 100. Uno IES inferiore all’85% è considerato indicativo di problemi di insonnia, infatti, tipicamente gli insonni tendono a stare molto tempo a letto, anche se svegli.

Gli autori distinguono poi l’insonnia primaria dall’insonnia secondaria: in quest’ultima il disturbo del sonno è etiologicamente dipendente da un’altra condizione medica o psichiatrica sottostante. Vengono elencate e ben descritte poi le cinque categorie di insonnie primarie, secondo la tassonomia definita dall’ICSD-2 (ASDA, 2005): disturbo da insonnia da adattamento (o insonnia situazionale/transitoria/acuta), insonnia psicofisiologica, insonnia soggettiva (o insonnia paradossale/da mispercezione del sonno o pseudoinsonnia), insonnia da inadeguata igiene del sonno, insonnia idiopatica. Tra le insonnie secondarie, particolare attenzione va data all’insomnia rebound determinata dalla sospensione dei sedativi ipnotici o ansiolitici. In questo caso, il paziente si trova in un vero e proprio ‘vicolo cieco’: con l’uso prolungato del farmaco si sviluppa tolleranza e dunque il paziente sarà portato ad aumentare il dosaggio per ottenere gli effetti terapeutici iniziali; una volta raggiunto il massimo dosaggio, questo non funziona più, perciò il paziente dismetterà il farmaco (ormai inutile) e questo causerà un peggioramento transitorio delle difficoltà di sonno con la conseguenza finale di riassumere il farmaco. È importante rassicurare il paziente circa la natura transitoria degli effetti della sospensione del farmaco.

Nel secondo capitolo vengono descritti minuziosamente i modelli teorici principali che attivano e mantengono l’insonnia. Da cosa dipende l’insonnia? Gli autori descrivono sia i meccanismi patofisiologici che quelli psicologici, andando a offrire una cornice esplicativa integrata dell’insonnia primaria. All’insorgenza dell’insonnia contribuiscono i fattori genetici e familiari: in particolare, dell’insonnia idiopatica, a insorgenza infantile (Hauri, Olmstead, 1980; Bastien, Morin, 2000). Secondo la ricerca empirica, anche l’iperarousal gioca un ruolo importante nella determinazione dell’insonnia primaria. Lo stato di eccessiva attivazione cronica del sistema nervoso centrale e/o del sistema nervoso autonomo causa problematiche relative al sonno (Perlis et al., 1997; Bonnet, Arandt, 1998), manifestandosi come arousal corticale, arousal autonomo e come arousal cognitivo- emotivo. I vari tipi di arousal vengono rilevati con strumentazioni apposite: rispettivamente, misure elettroencefalografiche e di neuroimaging, misure elettrofiologiche e neuroendocrine, self- report.

In questo capitolo, Devoto e Violani illustrano in modo chiaro i fattori omeostatici e circadiani implicati nel sonno, conoscenze fondamentali per una corretta e puntuale valutazione e quindi trattamento dell’insonnia. Dall’inizio degli anni ottanta è ampiamente accettato che il sonno è regolato da due processi (Borbely, 1982). Secondo il Modello del doppio processo di regolazione del sonno, il ciclo sonno- veglia è regolato da due fattori: un fattore di tipo omeostatico (Processi S) e un fattore di tipo circadiano (Processo c). Questi due fattori si combinano nel risultante ciclo sonno- veglia, determinando le soglie dell’addormentamento (H) e del risveglio (L).

Il Modello delle 3P, originariamente proposto da Spielman e collaboratori (Spielman, 1986; Spielman, Glovinsky, 1991) spiega, invece, come il disturbo dell’insonnia si cronicizza. Vi sono alcuni fattori predisponenti (per es., predisposizione all’iperarousal, stile cognitivo ipervigile, presenza di psicopatologia ansioso-depressiva, storia di familiarità per l’insonnia, genere femminile, età avanzata); i fattori precipitanti contribuiscono all’esordio del disturbo (per es., perdite personali, problemi o preoccupazioni familiari e di salute, problemi di lavoro, situazioni di stress cronico); i fattori perpetuanti lo mantengono attivo (per es., assunzione di ipnoinducenti, aumento del tempo trascorso a letto e dei sonnellini diurni).

Gli autori poi riportano tre modelli psicologici che spiegano l’etiologia dell’insonnia primaria. Uno dei primi modelli che integra l’eccesso di arousal è stato quello di Morin (1993) che riconosce l’importanza dei fattori cognitivi e comportamenti che predispongono all’insonnia. Nel modello psicobiologico dell’inibizione proposto da Espie (2002), l’arousal alla base dell’insonnia primaria viene visto come un’inibizione della de-attivazione che normalmente precede il sonno: perché vi sia un sonno normale si assume che vi sia una parallela de-attivazione sia dell’arousal fisiologico sia dell’arousal cognitivo. L’enfasi sui processi cognitivi è presente anche in più recenti modelli psicologici sull’insonnia primaria. In particolare, secondo il modello cognitivo dell’insonnia di Harvey (2002, 2005) l’insonnia primaria è sostenuta da una serie di processi cognitivi attivi sia di notte che di giorno.

Nel terzo capitolo del manuale ci si addentra nella valutazione clinica dell’insonnia, con particolare attenzione all’analisi differenziale. In appendice A vengono riportati i test: intervista strutturata sui disturbi del sonno, diario del sonno (sia verbale che grafico- con calcolo dei parametri del sonno), l’Insomnia Severity Index (ISI; Bastien, Vallières, Morin, 2001) che valuta la gravità percepita dell’insonnia nelle ultime due settimane, il Dysfunctional Beliefs and Attitudes about Sleep- 16 (DBAS-16; Morin, Vallières, Ivers, 2007) che valuta le cognizioni disfunzionali relative al sonno, l’Insomnia Self-efficacy Scale (ISES; Violani, 2009) composto di 12 domande che riguardano cosa il paziente pensa attualmente del suo sonno, il Morningness- Eveningness Questionnaire (MEQ; Violani, Catalani, Cariani, 1992; adattamento italiano da Horne, Ostberg, 1976) che distingue tra ‘tipi mattutini’ e ‘tipi serotonini’ e il Questionario Igiene del Sonno (IS; Violani, 2009) che valuta gli aspetti di gestione del quotidiano (abitudini, routine, comportamenti alimentari e sportivi) che nell’ultimo mese possono aver influenzato il sonno del paziente. Nell’appendice viene suggerito anche il Glasgow Sleep Effort Scale (Broomfield, Espie, 2005) che valuta l’ansia di prestazione rispetto al proprio sonno e viene suggerito dove trovare la versione italiana.

Oltre a riportare il test da somministrare e lo scoring, gli autori presentano dei consigli molto utili per presentarli ai pazienti, incrementando la motivazione al trattamento (secondo il modello transteorico di Prochaska e DiClemente, 1992).

Particolare attenzione viene data anche alla disamina dei principali strumenti usati per rilevare l’andamento obiettivo del sonno: la polisonnografia notturna (PSG) e l’actigrafia. La disamina verte sulla spiegazione di cosa sono e come funzionano e quali sono i parametri monitorati. Interessanti le ricerche riportate in merito all’utilità di tali strumenti. Le ricerche documentano che sia la polisonnografia che l’actigrafia sono utili per la diagnosi di insonnie secondarie e altri disturbi del sonno e per le insonnie soggettive (o paradossali), ma, generalmente, non sono da ritenersi indispensabili per le insonnie psicofisiologiche e per le insonnie primarie.

Di nuovo, gli autori ribadiscono l’importanza di fare diagnosi differenziale, soffermandosi in modo accurato su  quali sono le principali condizioni mediche e psichiatriche che condizionano negativamente il sonno.

Nel quarto capitolo si fa specificamente riferimento al trattamento cognitivo- comportamentale. Il CBT-I è la terapia di elezione per la cura dell’insonnia primaria (Morin et al., 1999; Perlis et al., 2003; Morin et al., 2006). La CBT si basa su un intervento psicologico multicomponenziale, in cui convergono diverse tecniche che mirano ad affrontare l’insieme dei fattori cognitivi e comportamentali alla base dell’insonnia primaria. Tali fattori svolgono un ruolo fondamentale nel mantenere questo disturbo, come descritto da Morin & Espie (2004) e risultano determinanti nel CBT-I. Il protocollo risulta, inoltre, coerente con i modelli psicofisiologici correnti di regolazione del sonno, accuratamente descritti nel capitolo 2 e qui ripresi.

Gli autori specificano la durata del protocollo e la sua articolazione, nel complesso e nella singola seduta.

Vengono quindi descritte, passo passo, le principali tecniche cognitivo- comportamentali utilizzate nel CBT-I: controllo degli stimoli, restrizione del sonno (con anche indicazioni quantitative), igiene del sonno (con regole per una corretta gestione del sonno), tecniche di rilassamento (tra le quali, rilassamento progressivo di Jacobson, tecniche di imagery, training autogeno, meditazione) e tecniche cognitive.

L’uso delle tecniche cognitive per il trattamento dell’insonnia è una componente cruciale del CBT-I. Vi è un generale accordo tra gli studiosi dell’insonnia che sia un disturbo alimentato e perpetuato da fattori cognitivi disfunzionali che aumentano le preoccupazioni, le profezie negative e la perdita di self-efficacy e, a loro volta, sostengono comportamenti disadattavi per il sonno (Edinger, Means, 2005). Le principali categorie cognitive considerate da Morin (1993) sono: aspettative irrealistiche sulle necessità di sonno, valutazioni errate sul disturbo del sonno, attribuzioni erronee rispetto ai deficit diurni, concezioni erronee rispetto alla cause dell’insonnia. Oltre a tali credenze erronee, le persone con insonnia sono soggette ad altri errori cognitivi (Beck, Ermery, Greenberg, 1985) che contribuiscono ad amplificare e a perpetuare il disturbo. Questi comprendono: eccessiva ruminazione o preoccupazioni ossessive per il sonno, pensieri catastrofici, rigidità di pensiero, ricordi selettivi. Identificare le cognizioni disfunzionali riguardo al sonno è il primo passo della terapia cognitiva (per fare questo, oltre al colloquio clinico, si posso usare i diari, il DBAS-16 e l‘ISES). Il secondo passo, consiste nell’incoraggiare il paziente a riconsiderare le sue convinzioni non come le uniche possibili, ma come una delle varie eventualità possibili. Si conclude poi con la ristrutturazione cognitiva, tipica della CBT. Nel capitolo, vengono riportate le tipiche credenze disfunzionali, sostituite da pensieri più utili e adattivi. Gli autori suggeriscono l’impiego di altre tecniche cognitive, quali la tecnica del controllo cognitivo (per es., la worry chair) e la tecnica dell’intenzione paradossale, più di matrice strategica. Una cosa apprezzabile è la discussione in merito all’integrazione di ogni singola tecnica con le altre tecniche previste nel CBT-I.

Nel quinto capitolo vengono riportarti i principali studi che hanno dimostrato l’efficacia del CBT-I rispetto ad altri trattamenti, le indicazioni e le controindicazioni per l’attuazione del CBT, anche grazie all’aiuto di una rappresentazione grafica esemplificativa e immediata (adattata da Smith, Perlis, 2006); infine, viene affrontato il problema della compliance al trattamento.

Nello specifico, vengono riportanti i cambiamenti quantitativi dei parametri del sonno e viene comprovata l’efficacia del trattamento CBT integrato rispetto alle singole tecniche cognitivo- comportamentali e ai trattamenti farmacologici, nelle insonnie primarie. Interessanti le ricerche riguardo la combinazione di CBT e trattamento farmacologico rispetto gli outcome del trattamento.

Nel sesto, si evidenziano le peculiarità del trattamento CBT-I in particolari condizioni mediche e di vita. Alcune malattie a forte impatto fisico ed emotivo tra cui neoplasie, HIV e dolore cronico (come artrite, fibromialgia) determinano spesso problemi di sonno e, per alcune di esse, sono stati sviluppati protocolli CBT specifici per la cura dell’insonnia.

Un paragrafo è dedicato al protocollo CBT per l’insonnia concomitante a patologie psichiatriche. Spesso, pazienti con disturbo di depressione maggiore, disturbo bipolare e disturbi d’ansia lamentano insonnia. La regola generale è quella di trattare il disturbo che il paziente lamenta maggiormente e che risulta più invalidante (e quindi valutare anche la psicoterapia). Sebbene vi siano alcune evidenze del fatto che la CBT per l’insonnia possa essere efficace per i pazienti con concomitanti disturbi psichiatrici (Kuo, Manber, Loewy, 2001; Manber et al., 2008), vi sono pochi dati utili a definire come e se adattare la CBT per l’insonnia con i pazienti con concomitanti disturbi psichiatrici. Interessante il paragrafo sugli effetti dell’alcol sul sonno.

Nel capitolo vengono anche date alcune indicazioni per la valutazione dell’insonnia per pazienti di particolari fasce di età (bambini, adolescenti, anziani). I dati epidemiologici indicano che negli anziani l’insonnia ha una maggiore prevalenza rispetto agli adulti più giovani. Nella valutazione iniziale dell’insonnia, è raccomandata la polisonnografia (PSG) e il CBT-I risulta particolarmente preferibile all’intervento farmacologico. Negli adolescenti si assiste a importanti cambiamenti nel sonno dovuti a mutamenti sociali ed evolutivi. Qui il CBT-I appare molto vantaggioso per l’esordio, in genere recente, che permette l’interruzione (quasi) immediata di comportamenti disfunzionali e la valutazione del disturbo del sonno può rappresentare un’occasione di diagnosi e intervento precoce su eventuali disagi psicologici che possono accompagnare l’insonnia. Con i bambini, si lavora molto sui comportanti dei genitori che fungono da rinforzo all’insonnia infantile.

Il paragrafo finale viene dedicato al sonno nella donna in gravidanza: tipicamente, in questa particolare fase di vita, il sonno subisce delle modificazioni. Il CBT-I risulta indicato qualora non emergano altri disturbi del sonno sottostanti (cioè disturbi respiratori, disturbi motori).

Nelle appendici, utilissime, vengono riportati i test con gli scoring; i centri dei medicina per il sonno, regione per regione; due questionari di screening per la valutazione preclinica delle insonnie;  i principali sedativi ipnoinducenti (benzodiazepine, farmaci ipnoinducenti non benzodiazepinici, antidepressivi, antistaminici, melatonina e prodotti da erboristeria) con meccanismi fisiologici d’azione e principali effetti collaterali.

Consiglio ai colleghi psicologi la lettura di questo manuale. Chiaro, puntuale, non noioso: offre tutti gli strumenti utili atti ad una precisa valutazione e trattamento dell’insonnia primaria che spesso riscontriamo nei pazienti.

 

La Regina degli Scacchi: timore di perdere o di vincere? – Recensione

La Regina degli Scacchi, la nuova miniserie firmata Netflix tratta dall’omonimo romanzo di Walter Travis del 1983, è un vero e proprio capolavoro ricco di ingredienti che la rendono magica e affascinante, dalla sceneggiatura alle sfumature psicologiche della protagonista.

 

Attenzione, l’articolo può contenere spoiler

Elizabeth Harmon, rimasta orfana di madre a seguito di un incidente stradale, provocato volontariamente dalla madre in un vero e proprio atto suicidario, inizia una nuova vita di solitudine all’interno di un orfanotrofio cristiano, dove le piccole ospiti vengono cresciute impettite, a suon di regole e pillole per l’umore. La piccola Beth trova un angolo di conforto e fuga nello scantinato dell’istituto, dove un vecchio custode se ne sta in disparte a giocare a scacchi da solo. Col suo modo burbero, asciutto e sospettoso, insegna alla sua nuova allieva i segreti degli scacchi, facendo emergere in lei un vero e proprio talento naturale.

La Regina degli Scacchi non è solo una storia di enfant prodige, né aspettatevi di trovare il classico cliché di genio e follia. Nonostante il formidabile talento si intrecci più volte con l’abuso di alcol e psicofarmaci, in Elisabeth c’è molto di più. La profonda incapacità di entrare in contatto con i vissuti emotivi rende la sua mente estremamente razionale, analitica, tanto da riuscire a sostenere situazioni ad alto livello di stress senza il minimo indugio. La personalità marcatamente evitante e una profonda alessitimia rendono la protagonista tanto affascinante quanto impenetrabile, sfuggente e per certi versi audace nelle scelte e nello stile di vita.

Come si intreccia questo quadro con l’abuso di sostanze? La dipendenza dalle pillole verdi, nata in orfanotrofio, è un file rouge che a un certo punto si intreccia con la dipendenza da alcol, proprio in coincidenza con l’avanzamento inarrestabile della sua carriera.

La sfida con il campione del mondo russo, Borkov, è sempre più vicina, manca una sola notte, e proprio quella notte Elisabeth manda all’aria i suoi piani per trascorrere una notte di disregolazione, tanto da arrivare alla partita ancora ubriaca. Sembrerebbe una classica reazione al timore di perdere, di non essere all’altezza di una sfida così importante e fantasticata tutta la vita. Eppure c’è qualcosa di più, che forse si può scorgere durante la partita con un giovanissimo sfidante di soli 13 anni. Quando lui le rivela il suo grande sogno di diventare campione del mondo a 16 anni, lei ribatte: ‘Se vincerai, dopo cosa verrà? Se vinci i mondiali a 16 anni, cos’altro ti rimarrà da fare?’. Un veloce e criptico scambio di battute, che credo raccolga l’emblema della sofferenza di Elisabeth. Una vita trascorsa al riparo dal disamore e dalla solitudine grazie agli scacchi, in cui lei stessa non è la regina ma il re, forte solo se protetta dallo scudo degli scacchi stessi. Cosa ne sarebbe della sua esistenza, una volta raggiunto il traguardo più alto? A quali rischi potrebbe esporsi e a che prezzo? In quest’ottica, l’abuso e la disregolazione non sono allora un sottile tentativo di auto-boicottaggio, in cui vincere fa tremendamente paura come il venir meno di un paracadute in caduta libera?

In sole sette puntate la vita di Elisabeth subirà moltissimi cambiamenti, tra i più importanti ci sarà un’altra vittoria, quella di riuscire a costruirsi une rete di veri amici, che daranno un nuovo senso alla sua vita. Non vi dico se alla fine diventerà la campionessa del mondo, ma di una cosa sono certa, sentirete anche voi il bisogno di spolverare la vostra vecchia scacchiera e di guardarla come se non l’aveste mai vista prima.

 

LA REGINA DEGLI SCACCHI – Guarda il trailer:

https://www.youtube.com/watch?v=Ya1MgSu8Pxc

Attaccamento insicuro e acquisti compulsivi nel disturbo da accumulo: il ruolo dell’intolleranza al disagio e dell’antropomorfismo

Il disturbo da accumulo si caratterizza per l’incapacità di scartare beni e dal disordine conseguente che arriva a compromettere l’uso della propria abitazione (American Psychiatric Association, 2013).

 

Due terzi di questi soggetti manifestano un aggravamento della psicopatologia per la presenza di problematiche di acquisto compulsivo, ma i fattori che contribuiscono a questo aspetto sono stati poco indagati dalla ricerca.

Coloro che tendono all’accumulo sono spesso socialmente isolati, con difficoltà interpersonali e traggono un senso di sicurezza dall’acquisto di beni piuttosto che da relazioni umane reciproche, soprattutto se queste sono sentite come inaffidabili e di scarso supporto (Steketee et al., 2001; Tolin et al., 2008).

Tuttavia, l’uso di oggetti come fonte di conforto non è esclusivamente patologico; sia i bambini nel gioco, che gli adulti, li utilizzano per indurre stati di benessere. Il motivo per cui questa tendenza è aggravata tra coloro con disturbo da accumulo può essere ricondotta allo stile di attaccamento.

Lo stile di attaccamento influenza le abilità di regolazione emotiva, di autocontrollo e l’impegno nelle interazioni sociali (Sroufe, 2005): mentre chi presenta uno stile sicuro ha un solido senso del proprio valore personale e percepisce l’altro come affidabile, gli insicuri (ansiosi ed evitanti) mostrano comportamenti disadattivi e problemi interpersonali (Graham & Unterschute, 2015).

Coloro con attaccamento ansioso, avendo interiorizzato l’indisponibilità dell’altro, si rivolgono agli oggetti per ottenere supporto emotivo e compensare l’assenza di connessioni umane. Lo stile ansioso infatti, si associa a forti valori materialistici (Norris et al., 2012), attaccamento emotivo agli oggetti (Keefer et al., 2012) e maggiori tendenze all’accumulo (Medard & Kellett, 2014).

La tendenza ad antropomorfizzare i beni attribuendo loro qualità, motivazioni ed emozioni umane, spiega l’ansia da separazione che viene sperimentata in seguito alla perdita di un oggetto prezioso, per cui si aggrappano ad esso saldamente, rafforzando la convinzione che sia necessario.

La letteratura corrente individua una correlazione tra attaccamento ansioso e antropomorfismo; quest’ultimo associato a comportamenti di accumulo e difficoltà a scartare oggetti, ma soprattutto alla tendenza a compiere acquisti compulsivi (Burgess et al., 2018; Neave et al., 2016).

L’attaccamento ansioso, può indurre all’acquisto compulsivo mediante la presenza dell’intolleranza al disagio (Phung et al., 2015); che rimanda all’incapacità di gestire le risposte emotive e alla mancata accettazione delle emozioni spiacevoli percepite insopportabili (Simons & Gaher, 2005).

Lo studio di Norberg et al. (2018), ha indagato l’influenza dello stile di attaccamento ansioso sulla tendenza a compiere acquisti eccessivi, analizzando separatamente il contributo di due aspetti: l’intolleranza al disagio e la tendenza ad antropomorfizzare gli oggetti confortanti. Essendo plausibile che l’intolleranza all’angoscia possa condurre all’antropomorfismo per la necessità di ricercare conforto, è stato testato anche un modello di mediazione seriale (ovvero attaccamento insicuro che porta intolleranza al disagio, che conduce all’antropomorfismo che a sua volta determina acquisti eccessivi).

Inoltre, sia comportamenti di acquisto eccessivo che l’acquisizione eccessiva di beni gratuiti possono contribuire a problematiche di accumulo, dunque le ipotesi precedenti sono state testate separatamente per entrambi gli esiti comportamentali.

Il campione era composto da 361 partecipanti con problemi di acquisto eccessivo subclinico e disturbo da accumulo conclamato. Coerentemente con la letteratura, una maggiore gravità della patologia era emersa tra coloro che effettuavano acquisti compulsivi (Frost et al., 2009, 2013).

Coloro con attaccamento ansioso avevano riportato una maggiore tendenza a compiere acquisti compulsivi ma anche ad acquisire beni gratuiti; con entrambe le relazioni completamente mediate dall’intolleranza al disagio e dall’antropomorfismo.

Lo studio conferma un modello di mediazione doppio; con l’attaccamento ansioso legato da un lato all’intolleranza verso il disagio e dall’altro ad una maggiore tendenza ad antropomorfizzare oggetti confortanti, nell’associazione con gli acquisti eccessivi. La mediazione seriale non era supportata in quanto l’intolleranza al disagio non influenzava l’antropomorfismo e, presa singolarmente, era un mediatore migliore di questo.

Tra gli individui insicuri, l’intolleranza al disagio influisce in misura maggiore dell’antropomorfismo nell’acquisto di beni ma non nella loro acquisizione gratuita; questo viene ricondotto alla diversa tipologia di oggetti che vengono acquistati rispetto a quelli raccolti gratuitamente. Spesso questi ultimi non hanno valenza affettiva, mentre quelli che vengono acquistati non sono solo utili, ma istillano un senso di appartenenza e autostima.

Coloro che accumulano possono acquistare oggetti per raggiungere uno stato di sicurezza, anche a costo della perdita progressiva di legami sociali. Tuttavia, come emerge da questa ricerca, più che esserne la conseguenza, la disconnessione sociale è parte della causa, e deriva da un attaccamento insicuro, connotato da difficoltà nella gestione e tolleranza delle emozioni negative da un lato e dalla tendenza all’antropomorfismo dall’altro.

Nel trattamento per il disturbo da accumulo si dovrebbe lavorare in fase preliminare sulla tolleranza al disagio e l’accettazione emotiva mediante interventi di psicoeducazione, strategie dell’Acceptance and Commitment Therapy (Hayes et al., 2012) e della Terapia Dialettico Comportamentale (Linehan, 2015), volte a ridurre problemi di acquisto compulsivo e il rischio di abbandono del trattamento successivo.

La ristrutturazione cognitiva permette di contrastare i pensieri legati all’antropomorfismo, insegnando agli accumulatori compulsivi modalità più funzionali per ricevere supporto. Inoltre, la Terapia Dialettico Comportamentale (Linehan, 2015), permette l’acquisizione di abilità di efficacia interpersonale, facilitando la costruzione di relazioni stabili che contrastano l’isolamento e l’investimento affettivo verso gli oggetti.

 

Caino nella terra del rimorso

Recuperare come società il dovere etico e morale di prendersi cura di chi ha un disagio, dovrebbe essere il tema principale di cui discutere quando avviene una tragedia di sangue, poiché molte ancora possano essere prevenute elaborando quei traumi sociali che come miti familiari si perpetuano di generazione in generazione, causando non più tarantati, né santi ed eroi portatori di una concretizzazione del simbolo, ma ciò che i giornali chiamano ‘mostri’.

 

Salento, «terra del rimorso», «terra del passato che torna e opprime col suo rigurgito».

Questa è la prima frase che si legge sulla quarta di copertina del libro di Ernesto De Martino, noto etnologo e antropologo che si occupò principalmente dei culti, sacri e civili, e delle tradizioni del meridione, da figlio partenopeo qual era.

Ne La terra del rimorso, De Martino descrive il retroterra e la subcultura rurale salentina da cui emerse il fenomeno del tarantismo, ‘antico rito contadino caratterizzato dal simbolismo della taranta – il ragno che morde e avvelena – e dalla potenza estatica e terapeutica della musica e della danza’. Della Comunità, soprattutto, che prendeva in carico e in cura la persona che gridava in tal modo il proprio disagio, e attraverso la musica e la danza le si stringeva intorno, lenendo la sua sofferenza.

Secondo Giovanni Jervis, lo psichiatra presente nell’équipe dell’antropologo, il concetto che meglio rispecchia i cicli di crisi e di riscatto dei tarantati è quello di ‘nevrosi’. Ma si tratta di un concetto-limite, poiché il fenomeno non denotava un conflitto tra pulsione naturale (ad esempio sessuale) e un dettame sociale (‘non si fa’), bensì un contrasto tra due pulsioni culturalmente indotte: per dirla con le parole di Lichtenberg e della psicoanalisi contemporanea, tra il sistema motivazionale dell’avversività – il bisogno di ribellarsi alla società che aveva scatenato il sintomo – e il sistema motivazionale dell’attaccamento/affiliazione – il bisogno allo stesso tempo di essere da questa riconosciuti, amati, curati. A questi si potrebbe aggiungere anche il bisogno di assertività, di esserci e lasciare traccia di sé. La società, con i suoi dettami culturali e familiari spesso ambigui e contraddittori, era la causa dell’isteria, quel ragno che morde e avvelena, la terra del rimorso: in altre parole del non detto, del figurato, dell’inconscio. Una terra solitamente matriarcale in cui a qualsiasi bisogno e motivazione del singolo veniva anteposta la famiglia, in una costante incapacità di differenziazione e di separazione-individuazione. Tuttavia, quella stessa società a sua volta era chiamata a fare ammenda, a curare, mantenendo in equilibrio la persona, ‘dando una forma storicamente plausibile a un rischio angoscioso e senza nome’.

Società tra colpa e accudimento: prendersi cura di chi ha un disagio

Imm. 1 – Curing Tarantism by Dancing the Tarantella

Il rimorso è al tempo stesso un luogo ancestrale, nascosto e inospitale, che alberga nel profondo di ognuno in ogni era e luogo. E’ la zona franca in cui gli istinti primordiali, le sofferenze e le angosce dei nostri antenati corrodono, tarlano, manipolano il vivere quotidiano, lì dove non viene riconosciuta la propria identità, finché non si intraprende un percorso di catarsi.

In un’epoca come quella in cui viviamo, individualistica e globalizzata già prima del Covid, ma che negli ultimi tempi, giustamente, ha aggiunto anche una maggiore distanza sociale e isolamento, l’individuo non può più contare sull’altro per elaborare quei traumi relazionali e sociali che come miti familiari si perpetuano di generazione in generazione, causando dei paria distruttivi: non più tarantati, né santi e eroi portatori anch’essi di una concretizzazione del simbolo, ma ciò che i giornali chiamano ‘mostri’.

E il passato che torna e opprime con il suo rigurgito, porta all’esasperazione di un giovane che grida il suo disagio nel modo più atroce e efferato possibile, ponendo fine a delle vite e alla sua stessa umanità: per vendetta, attua una covata e ben studiata carneficina verso coloro che lo avevano tagliato fuori dalla loro vita vista come perfetta e ovattata, ricalcando probabilmente il suo vissuto di emarginazione e portandolo a inscenare sadicamente la sua sofferenza. Qualche anno prima, una giovane pone fine alla vita della cugina, Sarah Scazzi, sempre perché la rabbia e l’invidia covata per la ragazzina, che le stava portando via il carisma che aveva sul gruppo e la persona amata, esplode in un raptus omicida. Notevole come la nevrosi sociale ritorni sempre come un mantra: il conflitto tra bisogno di affiliazione e avversività ha scatenato nei singoli l’invidia omicida.

Da odierni Caino, portano addosso il trauma familiare dell’Eden desiderato e perduto, e odiano la felicità altrui. L’invidia stessa non è altro che l’odio scaturito da un fortissimo desiderio. Luke Burgis, imprenditore e filosofo americano appassionato di storia dell’umanità, accomuna tutti i periodi di crisi della società, tarantismo compreso, a una ‘crisi del desiderio’. Citando la teoria del desiderio mimetico del polimatematico René Girard, l’autore spiega come la storia opera nei cicli del desiderio. Imitiamo i desideri degli altri senza la consapevolezza che stiamo imitando, e questo porta alla rivalità e al conflitto con altre persone, e può inghiottire una comunità o una società nel caos. ‘Per Girard’, continua Burgis, ‘riti strani come il tarantismo potevano essere compresi solo comprendendo uno strato più profondo della psicologia umana: il luogo in cui il desiderio nasce e prende forma. Il modo in cui risolviamo i desideri frustrati – individualmente e in comune – è la chiave per comprendere il comportamento umano quando la medicina, l’economia e tutte le forme di scientismo si agitano’.

Dalla ricerca condotta ben sei decenni fa, De Martino aveva colto inoltre degli elementi simbolici ricorrenti che ricalcavano la vita e la discesa agli inferi dei tarantati: il periodo di vita in cui insorgeva tale disagio, simbolizzato dal morso del ragno, ossia la tarda adolescenza-prima età adulta, una situazione traumatica o di crisi (matrimoni forzati, amori impossibili, la perdita del lavoro, ecc.) e la ritualità sacra che si rifaceva a San Paolo, protettore dei tarantati, che avrebbe concesso la grazia della guarigione. Il rituale sacro e quello civile della comunità sentita come vicina e accogliente, un rito iniziatico, ‘ripetuto nel tempo e ordinato da regole antichissime’ e volto a prendere in carico ed esorcizzare il desiderio frustrato, non può più rimettersi in atto al giorno d’oggi, tuttavia, come dimostra l’antropologo nel suo scritto, ha avuto per secoli la funzione di scongiurare le ansie di un’esistenza segnata dal disagio o dall’emarginazione.

La psicologia, la psicoanalisi, la psicoterapia, seppur recenti nel vasto mondo delle scienze, ereditano il valore antropologico e terapeutico che in maniera inconsapevole e primitiva hanno svolto questi rituali e che continuano a svolgere in aree sperdute della terra, avendo lo stesso fine: ‘un dispositivo simbolico mediante il quale un contenuto psichico conflittuale che non aveva trovato soluzione sul piano della coscienza, e che operava nell’oscurità dell’inconscio rischiando di farsi valere come sintomo nevrotico, viene evocato e configurato su un altro piano (mitico-rituale nel caso del tarantismo, relazionale-fenomenologico nella relazione terapeutica), e su tale piano fatto defluire e realizzato periodicamente, alleggerendo del peso delle sue sollecitazioni e facilitando periodi un relativo equilibrio psichico’.

Prendere in carico e riconoscere, rispecchiare, la persona come individuo permette di svolgere il processo identitario di cui ogni giovane ha bisogno e che non sempre appunto trova nella famiglia o nella società, sfociando talvolta, come abbiamo visto, in molti episodi di cronaca in un dolore e una rabbia malevola che non vede l’altro, che lo distrugge come essere inanimato.

Basti pensare al film che circa un anno fa ha riscosso critiche e riconoscimenti, il Joker di Todd Phillips, altro odierno Caino spinto dalla mancanza d’ascolto e di riconoscimento a trovare la propria malvagia identità nella rabbia distruttiva e nella vendetta, a farci comprendere che tali dinamiche non possono essere confinate a un unico retroterra culturale ma che rappresentano l’inconscio primitivo di qualsiasi società, anche la più evoluta. Lì dove l’individuo non riesce a riconoscersi, lì dove il desiderio rimane frustrato, appare ciò che Jung chiamava l’Ombra.

Recuperare come società il dovere etico e morale di prendersi cura di chi ha un disagio, dovrebbe essere il tema principale di cui discutere quando avvengono tragedie di questo genere, poiché molte ancora possano essere prevenute. Come ci si è mossi per preservare l’integrità fisica della persona, con l’assunzione di medici e infermieri nel periodo pandemico, così dovrebbe avvenire per l’integrità psichica, che, passo dopo passo stiamo vedendo franare davanti ai nostri occhi, con l’aumentare dei suicidi e delle esplosioni di violenza eterodiretta, senza poi chiedere a posteriori, come avrebbe detto il Joker in una terra del rimorso in stile newyorkese, ‘a chi ha una malattia mentale di comportarsi come se non ce l’avesse’.

Mosso da simili riflessioni De Martino arrivava infine a concludere che ‘per questo orientamento il simbolo della taranta comporta un ethos, cioè una mediata volontà di storia, un progetto di ‘vita insieme’, un impegno ad uscire dall’isolamento nevrotico per partecipare ad un sistema di fedeltà culturali e ad un ordine di comunicazioni interpersonali tradizionalmente accreditato e socialmente condiviso: un ethos che, per quanto elementare e storicamente condizionato, e per quanto ‘minore’ nel quadro della vita culturale dell’Italia meridionale, consente di qualificare il tarantismo come ‘religione del rimorso’ e come ‘terra del rimorso’ la molto piccola area del nostro pianeta in cui questa religione ‘minore’ vide per alcuni secoli il suo giorno’. Il rimorso di una società che cerca empaticamente e catarticamente di risollevare il singolo dai suoi traumi e disagi, molto spesso da essa stessa creati.

Il simbolismo della taranta rimane potente: la danza della tarantata la epurava dalla sua malattia, si credeva che lei stessa in quel momento ballasse con il ragno perché la miscela di sangue e veleno li univa, finché il veleno non fosse definitivamente estirpato. In altre parole: i musici, i chitarristi, la comunità che le si stringeva intorno non erano altro che quella società che l’aveva figurativamente morsa, e ora ballavano con lei, finché il veleno della colpa e del rimorso non fosse stato definitivamente esaurito. E’ necessario quindi impegnarci a trovare nuove narrazioni che possano intersoggettivamente nascere in seno a una crisi sociale come quella in cui stiamo vivendo, nuovi modi che possano far defluire il veleno prima che questo torni a distruggere ancora. Il prendersi carico della salute mentale, come abbiamo visto, potrebbe essere la soluzione.

 

Depressione post partum dei padri: fattori di rischio, di protezione e prevenzione

Vasta è la letteratura sulla depressione post-partum materna. Negli ultimi decenni l’interesse clinico e di ricerca si è spostato sulla depressione dei padri e sui possibili esiti e risvolti nella crescita dei figli.

 

Ciononostante, la conoscenza dei fattori di rischio della depressione paterna è scarsa. Alcuni studi hanno dimostrato che tra i fattori di rischio associati al disagio psicologico paterno prenatale è possibile includere un rapporto coniugale insoddisfacente, una scarsa rete sociale e informazioni insufficienti sulla gravidanza e il parto (Boyce et al., 2007). Altre ricerche hanno evidenziato come l’avere un rapporto non supportivo, la disarmonia coniugale, l’essere disoccupati, la giovane età, uno scarso funzionamento sociale e una storia passata segnata da un disturbo psichiatrico siano associati a problemi di salute mentale paterni durante il periodo perinatale (Bellard & Davies, 1996; Harvey & McGrath, 1988; Lovestone & Kumar, 1993).

Fattori di rischio biologici: il ruolo degli ormoni

Sulla base delle conoscenze esistenti sulla depressione post-partum materna, è possibile ipotizzare che la depressione vissuta da un padre potrebbe essere causata da cambiamenti ormonali che si verificano durante la gravidanza della sua compagna e nel periodo post-natale (Kim & Swain, 2007).

In primo luogo, la depressione post-partum paterna potrebbe essere correlata a cambiamenti nei livelli di testosterone, che diminuiscono durante la gravidanza della partner e dopo il parto (Fleming et al., 2002; Storey et al., 2000). I livelli di testosterone inizierebbero a diminuire almeno un paio di mesi prima del parto e tendono a mantenersi bassi per diversi mesi dopo il parto per la maggior parte dei padri (Wynne-Edwards, 2003).

Diversi ricercatori suggeriscono che tale diminuzione comporta minore aggressività, una migliore concentrazione, un maggior investimento nella genitorialità e la presenza di un attaccamento più forte con il proprio bambino (Wynne-Edwards, 2003; Clark & Galef, 1999). I padri che hanno bassi livelli di testosterone esprimono più empatia e manifestano la necessità di rispondere al pianto dei bambini (Rohde et al., 2005).

In secondo luogo, la depressione post-partum paterna potrebbe essere correlata a più bassi livelli di estrogeni. Negli uomini il livello di estrogeni comincia ad aumentare durante l’ultimo mese di gravidanza della partner fino al periodo post-parto (Berg & Wynne-Edwards, 2002). In considerazione delle scoperte sul rapporto tra l’aumento dei livelli di estrogeni e i comportamenti materni (Numan, 1994), l’aumento di estrogeni nel padre sembrerebbe accrescere comportamenti genitoriali più attivi dopo la nascita del figlio.

Fleming e colleghi (2002) hanno anche scoperto che più il padre è coinvolto e attivo nel suo ruolo genitoriale, maggiore è il livello di estrogeni rispetto ad altri padri. Dunque sembrerebbe che la presenza di una disregolazione di estrogeni paterni possa costituire un altro fattore di rischio importante per l’umore depresso dei padri.

Un altro fattore di rischio biologico nella depressione post-partum paterna potrebbe essere la presenza di livelli più bassi di cortisolo, un ormone che regola le risposte fisiologiche agli eventi stressanti (Nelson, 1999). Alti livelli di cortisolo sono generalmente associati a elevati livelli di stress. Tuttavia, per una madre, durante il post-parto, elevati livelli di cortisolo sono associati ad un aumento della sensibilità e responsività verso il bambino (Fleming, O’Day & Kraemer, 1999) e ad un umore meno depresso (Fleming & Anderson, 1987). Allo stesso modo livelli più bassi di cortisolo nei padri potrebbero essere legati a difficoltà nel legame padre-figlio ed essere associati ad un maggiore umore depresso.

Ancora, la depressione post-partum paterna potrebbe essere correlata a livelli di vasopressina bassi, che aumentano dopo la nascita del bambino, in modo analogo al livello di ossitocina della madre (Young & Frank, 1999). La vasopressina sembra giocare un ruolo importante nel migliorare lo sviluppo del legame genitore-bambino per i padri (Wang, Ferris & De Vries, 1994). Un recente studio su una varietà di piccole scimmie, note per il loro ampio coinvolgimento nella genitorialità, riporta in particolare nel periodo post-partum la presenza nei padri di comportamenti come il trasportare, proteggere e nutrire la prole (Welberg, 2006). Simili comportamenti paterni durante il primo mese di vita del bambino sono associati ad un rapido aumento dei recettori della vasopressina nella corteccia prefrontale del cervello. Forse allora, i padri umani con bassi livelli di vasopressina possono avere difficoltà con comportamenti genitoriali adeguati e così di nuovo essere più vulnerabili alla depressione.

In ultimo, la depressione post-partum paterna potrebbe essere correlata a cambiamenti nei livelli di prolattina, che gioca un ruolo importante per l’insorgenza ed il mantenimento di comportamenti genitoriali (Storey et al., 2000). I livelli di prolattina negli uomini aumentano durante la gravidanza e continuano ad aumentare nel corso dei primi anni (Storey et al., 2000). Livelli alti di prolattina nel periodo postnatale sono legati a maggiori risposte agli stimoli infantili nei neo-padri (Storey et al., 2000). Un livello di prolattina più basso, pertanto, potrebbe portare un neogenitore ad avere difficoltà ad adattarsi alla genitorialità e quindi esporlo a stati d’animo più negativi.

Fattori di rischio ambientali

L’adozione di un modello ecologico può fornire una prospettiva più ampia nella comprensione di come i diversi livelli di appartenenza, come la famiglia, la comunità, il lavoro, la società e la cultura, interagiscono e influenzano lo sviluppo di un individuo (Bronfenbrenner, 1979). Nuove esigenze e responsabilità durante il periodo post-partum sono spesso causa di importanti cambiamenti nella vita di un padre, cambiamenti che possono diventare fattori di rischio ambientali per lo sviluppo di una depressione.

I padri spesso sperimentano più difficoltà nello sviluppo di legami affettivi con i loro figli rispetto alle madri, che tendono a sviluppare un attaccamento quasi istantaneo dopo la nascita del bambino. Il legame padre-bambino sembra svilupparsi più gradualmente nei primi due mesi dopo il parto (Anderson, 1996). Prima di allora, i padri hanno maggiori difficoltà rispetto alle madri nel creare un legame emotivo con i loro bambini (Edhborg et al., 2005). Questo relativamente lento sviluppo del legame di attaccamento potrebbe essere correlato ad un sentimento di impotenza e depressione nel padre nei primi mesi successivi al parto.

Uno dei fattori che possono rendere la genitorialità paterna difficile è l’assenza di un buon modello genitoriale di riferimento. Negli ultimi anni, è visibile un aumento delle aspettative della società verso i padri di avere un maggiore coinvolgimento nella genitorialità, ma molti padri non hanno acquisito adeguate competenze genitoriali dai propri padri o da altri familiari di sesso maschile (Barclay & Lupton, 1999). La mancanza di comprensione di ciò che ci si aspetta da un padre potrebbe causare ansia e portare ad un maggiore rischio di depressione post-partum paterna (Condon, Boyce & Corkindale, 2004).

Anche la mancanza di ricompense e gratificazioni nella genitorialità potrebbe contribuire allo sviluppo di una depressione post-partum paterna. I padri riportano spesso come feedback positivi, ad esempio, i sorrisi dei loro bambini, che fungono da gratificazione e rinforzo ai comportamenti paterni di caregiving (Anderson, 1996). Tuttavia, la mancanza di esperienza di un padre nel suo ruolo genitoriale, le poche ore a disposizione per stare con il bambino soprattutto nei primi mesi di vita, possono rendere le interazioni padre-figlio angoscianti. I padri riferiscono anche di sentirsi isolati dal legame esclusivo madre-bambino e di sentirsi gelosi del maggiore tempo che le loro partner passano con il bambino, in particolare del legame che si sviluppa attraverso l’allattamento al seno (Rutter et al., 2004). È interessante notare che i padri possono segnalare anche sentimenti di gelosia verso i loro bambini, perché i bambini occupano una grande quantità di attenzione della partner (Goodman, 2002).

Inoltre, a causa di improvvisi cambiamenti di vita, le relazioni coniugali spesso risultano minacciate durante i primi tempi del periodo post-natale (Anderson, 1996). I padri segnalano una maggiore insoddisfazione nei rapporti di coppia, tra cui la mancanza di intimità (Meighan et al., 1999) e la perdita di interesse nella relazione sessuale (Condon, Boyce & Corkindale, 2004).

Nei rapporti coniugali, lo stress della genitorialità dei padri durante il periodo post-partum può essere ulteriormente complicato dalle differenze di percezione dei ruoli di genere distinti di padri e madri. L’enfasi sul ruolo dell’uomo come il capofamiglia può essere aumentata a causa dei maggiori oneri finanziari dopo la nascita del bambino, e, a sua volta, può impedire ai padri di essere più coinvolti nella genitorialità. Una maggiore sensazione di fallimento in termini di prestazioni può essere significativamente correlata al disagio psicologico tra i padri (Morse, Buist & Durkin, 2001).

Fattori di protezione e prevenzione per la depressione postnatale paterna

Diversi tipi di supporto possono facilitare il processo di transizione verso la paternità durante il periodo post-partum, fungendo da fattori di protezione per la depressione paterna. Il supporto più efficace probabilmente proviene dal proprio partner perché la depressione post-partum paterna è strettamente legata alla salute mentale della partner.

Un maggiore incoraggiamento da parte della madre e la possibilità di discutere attivamente e congiuntamente come coppia su come prepararsi all’arrivo del bambino può promuovere il coinvolgimento del padre nella genitorialità e alleviare lo stress di diventare genitore. Le madri che condividono il ruolo genitoriale con i padri possono evitare i sentimenti che provano molti padri di isolamento dal rapporto madre-bambino, così come sentimenti difficili da gestire, quali, ad esempio, la gelosia verso il bambino.

Inoltre, il sostegno e il riconoscimento da parte di altri membri della famiglia dell’importanza del ruolo paterno e la comprensione delle difficoltà che i padri possono incontrare possono avere un effetto positivo sui padri stessi.

Il supporto da parte della società, come ad esempio la possibilità di usufruire del congedo di paternità retribuito, sembrerebbe aiutare i padri ad adattarsi ai cambiamenti del periodo post-partum. Ad esempio, Feldman e colleghi (2004) hanno dimostrato che permessi lunghi di paternità sono associati ad un atteggiamento più positivo verso la genitorialità. D’altra parte, congedi di paternità più brevi sono associati con bassa qualità di cura dei figli e minor adattamento al lavoro tra padri.

Purtroppo non tutti i Paesi possono vantare una politica per la paternità retribuita o comunque garantire ai padri in diversa misura tale diritto.

Può essere comune per i nuovi padri la percezione di non essere compresi e la mancanza di una rete di sostegno (Areias et al., 1996). Infatti, tradizionalmente, i padri sono stati in gran parte riconosciuti solo nel ruolo di supporto per le loro partner. Tuttavia, considerato il recente aumento del coinvolgimento dei padri nella genitorialità, sarebbero necessari supporti adeguati dalla società che si concentrino sui ruoli attivi dei padri per aiutarli ad alleviare il loro stress nel periodo post-partum.

I programmi psicoeducativi aiutano i padri a comprendere i loro ruoli previsti ed attesi. I risultati suggeriscono che un programma di prevenzione per la depressione post-partum per le madri e i rispettivi partner è più efficace di un programma per le sole madri (Morgan et al., 1997). Per lo stesso motivo, un programma sulla depressione post-partum sia per i padri che per le madri potrebbe essere più efficace per alleviare la depressione paterna. I padri allo stato attuale sono spesso coinvolti in corsi pre-parto. Essi dovrebbero essere inclusi in ogni contatto con gli operatori sanitari anche successivamente al parto.

Inoltre, poiché l’ansia e l’umore depresso potrebbero iniziare durante la gravidanza della partner, un intervento precoce per entrambi i genitori sarebbe più efficace prima che i sintomi diventino gravi.

Infine, incoraggiare i padri a cercare l’aiuto di professionisti del settore sanitario per un assessment e una valutazione completa e a prendere in considerazione l’ausilio di una psicoterapia o antidepressivi potrebbe migliorare significativamente la salute della famiglia.

Lo screening, la prevenzione e il trattamento dovrebbero prendere in considerazione tutta la famiglia.

Il Disturbo da Stress Post Traumatico. Allo studio nuove prospettive per la diagnosi, la cura e la prevenzione

Il Disturbo da Stress Post Traumatico (PTSD) è una malattia psichiatrica complessa che ha come agente eziologico il trauma ed un complesso quadro sintomatico con ampie zone di sovrapposizione con altre patologie.

 

Tale disturbo, inizialmente associato all’impiego dei soldati in operazioni militari, sta diventando sempre più comune a causa della ricorrenza con cui ai nostri giorni si verificano gravi incidenti, violenze private, atti criminali/terroristici, emergenze sanitarie e calamità naturali che possono far sperimentare ad un individuo o ad un’intera comunità esperienze di forte paura e terrore.

La diagnosi del PTSD avviene attraverso la verifica dei criteri descritti nella quinta edizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (APA, 2013), utilizzando strumenti di valutazione come ad esempio il Clinician-Administered PTSD Scale (Weathers et al.,2018). Al momento, il trattamento di elezione del disturbo è la psicoterapia, che consente di desensibilizzare i pensieri spiacevoli e angoscianti legati al trauma e di attivare le reti neuronali necessarie a far transitare il ricordo traumatico dalla corteccia prefrontale, in cui rimane emotivamente attivo, alla corteccia parietale, dove viene elaborato e memorizzato come evento passato.

Al riguardo, una ricerca (Haiyin Li et al., 2020) pubblicata dal Journal of Clinical Investigation sembra aver individuato alcune novità. In particolare, i ricercatori del Center for Addiction and Mental Health di Toronto, esplorando i meccanismi molecolari alla base del PTSD, hanno riscontrato che, nei soggetti esposti a forti stress ed eventi traumatici, tende ad aumentare la presenza di un complesso proteico denominato GR-FKBP51 che, a distanza di tempo, continua a permanere a livelli elevati solo in coloro che sviluppano la malattia. Il quadro di situazione verificato ha indotto i ricercatori a ritenere che tale complesso proteico possa essere utilizzato come un biomarcatore diagnostico e a sviluppare un peptide capace di limitarne la formazione, favorendo la prevenzione ed il trattamento del disturbo.

E’ già da tempo noto che lo stress determina una iperattività dell’apparato endocrino e quindi una maggiore produzione di ormoni che svolgono un ruolo importante nell’ambito dei processi d’attivazione fisiologica dell’organismo conseguenti all’esposizione ad una minaccia. Normalmente, il nostro corpo è capace di ripristinare una situazione di equilibrio. Quando ciò non avviene, il perpetuarsi dello stato di attivazione può determinare dei ‘malfunzionamenti’ che possono incidere significativamente sullo stato di salute e di benessere. In tale prospettiva è possibile ipotizzare che la maggiore presenza del complesso GR-FKBP51 possa contribuire a determinare nei soggetti coinvolti in eventi traumatici e/o sottoposti a forti stress emotivi le anomalie funzionali delle aree cerebrali preposte al processamento degli stimoli emozionali, alla valutazione/identificazione dei contesti sicuri e alla definizione della soglia della reattività emotiva più volte osservati negli studi condotti con tecniche di neuroimaging.

In conclusione, lo studio canadese ha sicuramente introdotto una prospettiva intrigante seppur meritevole di approfondimenti e conferme scientifiche attraverso la replicazione dei fenomeni osservati. Al riguardo, è auspicabile che siano sviluppati nuovi filoni di ricerca scientifica che consentano, integrando competenze mediche, psicologiche e sociali, di indagare con una prospettiva più ampia il complesso meccanismo che determina il manifestarsi del PTSD e di individuare le linee di azione più idonee alla sua prevenzione, diagnosi  e cura.

 

Autore: Giacinto D’Urso

Mollami (2019) – Cinema & Psicoterapia

Il film Mollami diretto dall’esordiente Matteo Gentiloni parla delle vicissitudini di Valentina, un’adolescente che ‘rovina tutto ciò che tocca’.

 

Info

Regia di Matteo Gentiloni. Interpretato da Martina Gatti, Alessandro Sperduti, Gianmarco Tognazzi

Trama

I problemi di Valentina nascono da un’esperienza traumatica vissuta nell’infanzia: il fratello muore tuffandosi in mare da uno scoglio, sollecitato dalla sorella che lo sbeffeggia perché pauroso.

Il senso di colpa che accompagna la ragazza è rappresentato da Renato un grande pupazzo di colore blu che solo lei può vedere e che compare quando sta per combinarne una delle sue.

Un derivato della morfina, il PCP le dà sollievo da questo peso che l’accompagna, anche quando decide di postare in rete un filmato hard che la riguarda. Il padre, un avvocato di successo, a questo punto la manda in una comunità in Austria per aiutarla e per lenire il suo senso di vergogna. L’accompagna un praticante dello studio, Antonio. I due non raggiungeranno mai la rehab, ma il viaggio servirà ad entrambi per elaborare i loro vissuti dolorosi, darsi una prospettiva diversa e cambiare molte cose nella loro vita.

Motivi d’interesse

Valentina ha un vissuto doloroso alle spalle, la madre, insicura, fragile e vulnerabile l’ha abbandonata, il padre assente non le offre cura e protezione. Le manca una base sicura, un riferimento che ogni ragazzo dovrebbe avere. La ragazza ha utilizzato un piano semiadattivo immunizzante (sesso e droga) come strategia di coping per il dolore che ha sperimentato nella sua vita. Si sente responsabile per la morte del fratello e convive con un forte senso di colpa. Il suo compagno di viaggio, Antonio, dal canto suo, ‘sopravvive’ senza avere la capacità di fare scelte che gli diano un’autodirezionalità e il senso della vita. Subisce l’ambizione della fidanzata che lavora nello stesso studio e, pur di ottenere riconoscimenti per sé stessa e per il compagno, si offre, cedendo alle lusinghe del titolare, padre di Valentina.

La storia propone due diverse soluzioni agli spaccati di vita autentici che sono narrati nel film, ed entrambe passano per la presa di consapevolezza di significati da ristrutturare e di stati emotivi da regolare. L’abbraccio di Valentina al pupazzo blu si contrappone all’utilizzo del PCP che fa scomparire Renato e simboleggia il perdono e l’accettazione, mentre il diniego che Antonio pone alla richiesta della fidanzata di tornare insieme, segna una netta presa di distanza dalla mancanza di capacità di scelta.

Indicazioni di utilizzo in terapia

Il film semplice e didascalico, può essere molto utile per lavorare sul senso di colpa e per rendere meno condizionante e più tollerabile il tema del disamore e meno utile e automatico il piano immunizzante di alcuni pazienti. Chi volesse approfondire le procedure di utilizzo dei film in terapia può fare riferimento alla bibliografia sotto citata.

 

MOLLAMI – Guarda il trailer del film:

https://www.youtube.com/watch?v=1vwGtxX7kRk

Prendersi una pausa da Instagram: gli Effetti sul Benessere Soggettivo

Negli ultimi anni Instagram (Ig) è diventato un social network molto utilizzato, contando oltre 1 miliardo di utenti attivi (Salvati, 2020).

 

Sebbene ci siano prove significative che dimostrano che l’utilizzo di questo social abbia un impatto negativo sulla soddisfazione del corpo tra le donne (Kleemans et al., 2018; Tiggeman & Barbato, 2018), pochissime ricerche hanno studiato gli effetti del suo uso sul benessere soggettivo. L’unico studio sperimentale in questo campo ha dimostrato che gli effetti di Instagram sul benessere dipendono in gran parte dalle tendenze al confronto sociale (de Vries et al., 2018). Questo processo, infatti, si pone come variabile moderatrice nella relazione tra l’esposizione ai post e il benessere percepito (Tiggemann & McGill’s, 2004). Poiché i social network si basano su una presentazione positiva di sé, ciascun utente è continuamente sovraesposto a caratteristiche e qualità positive di altri utenti, il che potrebbe evocare sentimenti di invidia. Inoltre, Ig consente agli utenti di modificare le proprie fotografie per renderle più accattivanti, con possibilità di cambiare tonalità, luminosità e saturazione tramite la scelta di filtri: ciò può contribuire all’accrescimento della cultura del perfezionismo (Lup et al., 2015). Questo implica che gli utenti non solo hanno maggiori probabilità di promuovere un sé ideale, ma hanno anche più probabilità di essere esposti al sé ideale degli altri, aumentando così la tendenza a confronti sociali verso l’altro (Festinger, 1954), che quindi inducono affetti negativi. È stato scoperto che le donne usano i social network più degli uomini (Muscanell & Guadagno, 2012) e che sono più attive rispetto ad essi in termini di frequenza di caricamento di foto (Ferenczi et al., 2017), perciò quando si studia l’associazione tra uso di Ig e benessere il genere deve essere preso in considerazione.

Nel 2019, Fioravanti e colleghi hanno realizzato uno studio il cui obiettivo era indagare se un’astensione di una settimana da Ig influisse sul benessere soggettivo di giovani donne e uomini, ipotizzando che prendersi una pausa dal social avrebbe potuto avere un effetto positivo sul benessere, che questo effetto avrebbe potuto essere moderato da tendenze di confronto sociale, e che probabilmente l’effetto sarebbe stato più forte nelle donne (Fioravanti et al., 2019). Gli 80 partecipanti, reclutati tramite pubblicità sui social network, sono stati selezionati sulla base di alcuni criteri di inclusione: avere almeno 18 anni e possedere un account Ig da almeno 1 anno, periodo in cui ne era stato fatto un utilizzo quotidiano. I partecipanti sono stati assegnati in modo casuale al gruppo sperimentale e di controllo, ciascuno dei due composto di 20 femmine e 20 maschi: il gruppo sperimentale si sarebbe astenuto dall’utilizzare il social per una settimana, mentre il gruppo di controllo avrebbe continuato ad accedervi come di consueto. Per ridurre al minimo la tentazione di visitare il social, ai membri del gruppo sperimentale è stato chiesto di eliminarne l’applicazione sui dispositivi in loro possesso.

Prima della sperimentazione è stato svolto un test preliminare, lo State Appearance Comparison Scale (Tiggemann & MCGill, 2004), per valutare la frequenza con cui gli utenti si impegnavano nell’elaborazione dell’aspetto e nel fare confronti con altri utenti del social. Per indagare il benessere soggettivo è stata utilizzata la versione italiana della Satisfaction with Life Scale (SWLS, Di Fabio & Gori, 2016), scala di autovalutazione che misura la soddisfazione globale della vita, mentre per valutare l’esperienza affettiva piacevole o avversiva derivata dall’astensione dal social è stata utilizzata la versione italiana del Positive and Negative Affect Schedule (PANAS, Terracciano et al., 2003). Entrambi i questionari sono stati sottoposti all’inizio e alla fine della sperimentazione.

Questa ricerca ha mostrato che prendersi una breve pausa dall’uso di Ig potrebbe avere un effetto positivo sul benessere soggettivo delle donne, sia in termini di soddisfazione per la vita che di emozioni positive correlate (Fioravanti et al., 2019). Le donne che hanno smesso di utilizzare questo social per una settimana hanno mostrato una crescita significativa nei punteggi affettivi positivi, mentre il gruppo di controllo ha esperito una diminuzione significativa. Le variazioni sull’affetto positivo erano principalmente un prodotto delle tendenze al confronto sociale, poiché smettere di utilizzare il social aveva avuto effetti positivi solo tra donne che avevano riferito una tendenza al confronto con altre utenti. Il confronto poteva incidere non solo sull’insoddisfazione corporea derivata dalle immagini sui social network, ma anche sul decremento dell’affetto positivo (Fioravanti et al., 2019). È opportuno specificare che le variazioni nei livelli di soddisfazione di vita possono essere spiegate anche da altri fattori rispetto alle tendenze di confronto sociale. Anche se la condivisione di foto relative all’aspetto è molto comune su Ig, molti utenti sono esposti a un’ampia varietà di immagini, come ad esempio a foto di viaggi, o che comunque non hanno a che fare con l’aspetto fisico. Di conseguenza, non si può escludere la possibilità che i processi di confronto sociale debbano essere affrontati a un livello più generale. Inoltre, si potrebbe ipotizzare che l’aumento dei livelli di soddisfazione della vita possa essere dipeso anche dalla mancata ricezione di feedback, giudizi e opinioni, sulla loro vita condivisa. Una motivazione aggiuntiva per i risultati ottenuti in questo studio potrebbe essere anche spiegata dal fatto che essere un utente attivo può essere arduo, poiché i social network incoraggiano un impegno costante nella pubblicazione di nuovi contenuti. In questo studio, il confronto sull’aspetto non è risultato significativamente inferiore negli uomini rispetto alle donne (Fioravanti et al., 2019), tuttavia, studi precedenti hanno dimostrato che l’importanza che si attribuisce al proprio aspetto è inferiore per gli uomini rispetto alle donne (Cash et al., 2004). Questo potrebbe essere un altro fattore che aiuta a spiegare perché astenersi dal confrontare il proprio aspetto su Ig potrebbe essere più vantaggioso per le donne.

Queste evidenze mostrano come processi cognitivi connessi all’utilizzo di Instagram possano incidere negativamente sul benessere soggettivo, e come quindi prendersi una pausa dal social potrebbe aumentare affetti positivi e livelli di soddisfazione della vita.

 

Il Morbo di Parkinson, la Deep Brain Stimulation e lo sviluppo di strategie di intervento integrato nella gestione della malattia

Il morbo di Parkinson è il più frequente dei disordini del movimento che colpiscono l’individuo nell’età adulta fra i quaranta ed i settanta anni.

 

Questa è una malattia neurodegenerativa cronica che si manifesta allorquando la perdita di neuroni nella substantia nigra determina un calo nella produzione di dopamina e la comparsa di accumuli della proteina ‘alfa-sinucleina’ in varie aree del cervello.

La patologia causa progressivamente forme più gravi di acinesia, malfunzionamenti di diverse funzioni motorie e vegetative, irrigidimento della muscolatura, tremori e disturbi psichici (principalmente di natura depressiva, ansiosa e cognitiva) che limitano e logorano la qualità di vita del malato.

Ad oggi non esiste una cura che consenta di guarire dal morbo di Parkinson ed i principali trattamenti sono solo capaci di limitarne la manifestazione sintomatologica. In tale quadro, la Deep Brain Stimulation (DBS) si è rilevata particolarmente efficace per migliorare le capacità motorie attraverso la stimolazione elettrica delle aree cerebrali coinvolte nella modulazione del movimento. Tale terapia è stata oggetto di particolare attenzione nell’ambito del mondo della ricerca scientifica e sembra che in futuro potrà essere ulteriormente perfezionata.

Infatti, la rivista Brain Stimulation ha recentemente pubblicato gli esiti di uno studio (Canessa A.et al., 2020) che ha consentito di identificare dei biomarcatori specifici dello stato di deambulazione. Nel merito, i ricercatori, analizzando il funzionamento del nucleo subtalamico (STN) in malati con impianto di stimolazione profonda, sono addivenuti alla conclusione che quando l’individuo incomincia a camminare, l’attività di questa area cerebrale tende a caratterizzarsi per una variazione di frequenza della banda beta. L’identificazione di questi segnali ha consentito agli esperti di sviluppare algoritmi matematici che permetteranno in futuro di realizzare dispositivi capaci di modulare la DBS adattandola allo stato ed al bisogno del singolo, migliorandone quindi la capacità di deambulazione.

Il perfezionamento delle terapie a disposizione per il trattamento del morbo di Parkinson risulta determinante per accrescere le aspettative e la qualità della vita oltre che per il mantenimento di un adeguato livello di inclusione sociale dei pazienti e del loro nucleo familiare.

Resta, tuttavia, imprescindibile ricercare forme d’intervento multi professionali che coinvolgano il medico (ad esempio il neurologo, il geriatra ed il medico di famiglia), lo psicologo, il nutrizionista e l’assistente sociale. In particolare, lo psicologo risulta determinante per lo sviluppo di interventi mirati alla gestione dello stress (che come noto è causa del peggioramento dei sintomi della malattia come ad esempio i tremori), dell’ansia, dei disturbi del sonno (di cui sono conosciute le implicazioni sulla gestione delle emozioni, sul tono dell’umore, sulla memoria e in generarle sulla funzionalità della corteccia prefrontale, sede di tutte le funzioni neurocognitive di ordine superiore), allo sviluppo delle life skills e al rafforzamento dei fattori di protezione della resilienza individuale e familiare. Affrontare, dunque, la malattia con un approccio biopsicosociale può contribuire allo sviluppo di strategie di gestione del paziente più efficaci perché finalizzate, anche in situazioni di crisi come quella conseguente alla pandemia da COVID-19, al suo completo benessere fisico, mentale e sociale.

 

 

NUMB dei Linkin Park: i vissuti dell’adolescente e il conflitto genitori-figli – Rubrica Psico Canzoni

La rubrica si propone di dare un’interpretazione dei testi di alcune canzoni. Numb dei Linkin Park si presta ad una lettura dei vissuti interiori di un adolescente e della sua relazione con il genitore.

Psico Canzoni – (Nr.1) NUMB dei Linkin Park

 

Introduzione

La Rubrica Psico-Canzoni nasce col fine d’interpretare alcuni testi di canzoni, talvolta avvalendosi anche del relativo video. L’interpretazione è esclusivamente di carattere psicologico, attraverso tanto la lente psicodinamica quanto quella sistemico relazionale.

I brani vengono scelti in base ai contenuti riportati nel testo e alla loro fruibilità nello spiegare temi di carattere intrapsichico e l’interpersonale.

NUMB – Linkin Park

L’8 Settembre 2003 è la data d’uscita del singolo Numb dei Linkin Park, tratto dall’album Meteora.

Come si legge sin dalla prima strofa I’m tired of being what you want me to be il brano si focalizza su uno specifico ambito del conflitto tra genitore e adolescente: le aspettative che l’adulto nutre nei confronti del figlio. Per un giovane, che già si trova a fare i conti con i cambiamenti corporei e relazionali tipici dell’adolescenza, diviene molto faticoso e controproducente aderire a quello che qualcun altro vuole da lui, soprattutto se quel qualcuno è la madre o il padre.

L’adolescenza è una fase molto delicata della vita di ogni individuo, dedicata alla conoscenza e alla ricerca del proprio Sé autentico. Durante il percorso di scoperta il genitore può divenire la base da cui partire, dove partire è allontanarsi, senza sentirsi mai solo. Talvolta questa compagnia può costare cara per chi ne usufruisce, poichè può essere vincolata da fili impercettibili, o come li chiamerebbe Ivan Boszormenyi-Nagy “lealtà invisibili”. Questi fili non lasciano piena libertà di pensiero ed azione, ma tengono costantemente il ragazzo o la ragazza attenti a non varcare la soglia della volontà genitoriale che hanno introiettato.

La tossicodipendenza, l’anoressia e simili non sono una ribellione a quello che i genitori desiderano per il figlio, ma la manifestazione dell’impossibilità di differenziarsi da un genitore. Dove il filo invisibile è poco elastico, questa sintomatologia diventa l’unica via per sopravvivere ad un’alternativa di schiaccianti sensi di colpa.

Quella che per anni è stata chiamata “ribellione” adolescenziale, ora sembra più una lotta dell’individuo per far emergere se stesso, in un contesto familiare, che, per paura, credenze, per mantenere il controllo o altro ancora, cerca di impedirne inconsciamente la differenziazione.

Quando il desiderio di essere sempre più se stesso e meno quello che il genitore vuole (to be more like me and be less like you) riesce a prevalere sui fili invisibili e i conseguenti sensi di colpa, finalmente vi è un inizio di individuazione, che permette all’adolescente di iniziare a ragionare con la propria testa e ad ascoltarsi, prendendo la via che lo porterà ad essere unico.

Come ogni lutto, anche l’adolescenza, intesa come la perdita dell’infanzia nell’acquisizione della maturità, deve permettersi di passare per la rabbia, che per alcuni si traduce in un momento d’insensibilità (da cui il titolo della canzone Numb).

Solo dopo questa fase sarà permessa dentro l’individuo l’umanizzazione del genitore, che comporta emozioni quali delusione, tristezza e infine consapevolezza davanti a chi sembrava tanto grande.

But I know that you were just like me with someone disappointed in you è l’amara consapevolezza che fa cadere il mito genitoriale e nella caduta di Dedalo forse Icaro può salvarsi, perchè non sarà costretto a mettersi ali di cera che bruceranno al Sole, ma potrà imboccare la propria strada che custodirà la sua autenticità.

 

NUMB, LINKIN PARK – Guarda il video:

 

The Social Dilemma (2020) – Recensione del film

‘Se non stai pagando per il prodotto, allora il prodotto sei tu’. Poche, semplici parole per riassumere il senso di The Social Dilemma, il docufilm in onda da Settembre 2020 sulla piattaforma Netflix.

 

Il messaggio è chiaro e colpisce noi spettatori che, seppur consapevoli della crescita esponenziale della dipendenza dai social network, facciamo ancora fatica a rallentare le nostre interazioni con lo smartphone.

Il filone narrativo del documentario diretto da Jeff Orlowski, regista già vincitore di un Emmy Award con Chasing Ice (2012), si muove in parallelo su due filoni: quello razionale delle interviste e delle testimonianze di ex dirigenti e impiegati delle aziende social e quello più emotivo, in cui viene narrata la vita di Ben (Skyler Gisondo) un adolescente sempre più immerso all’interno del suo smartphone. Il sistema di programmazione che gestisce i social è rappresentato metaforicamente da 3 avatar di Ben, che il regista utilizza come espediente simile a quello del film di animazione Inside Out (2015) della Pixar, anche se questa volta non si dà forma e voce alle emozioni umane, ma appunto al sistema operativo dello smartphone del protagonista.

Il dilemma di cui si parla fa riferimento sia alle implicazioni etiche e sociali dell’utilizzo della tecnologia e della sovrapproduzione di disinformazione, sia ad una interessante disquisizione su come i social media mettano in atto una ‘manipolazione’ dell’individuo con lo scopo di generare profitti. Nulla di originale? Vero, se non per il fatto che antiche strategie di indirizzo dell’opinione pubblica attraverso media come giornali e tv, ora sono costruite sul singolo individuo, agendo su sistemi di ricompensa molto conosciuti a chi si occupa di neuroscienze.

Attraverso le testimonianze di Tristan Harris, voce principale, (ex consulente etico di Google, ora presidente del Center For Human Technology), Justin Rosenstein (co-inventore del tasto ‘mi piace’ di Facebook) e altri (Jaron Lanier, Shoshana Zuboff, ecc…) si spiega come tutto sia utile a mantenere questo sistema: il numero di reazioni ad un post, il tempo di visualizzazione, le ricerche utilizzate tramite Google…

L’obiettivo sarebbe quello di definire profili ad personam, che possono essere utilizzati da pubblicitari o politici per spostare l’attenzione dello user verso specifici contenuti, alimentando un circolo vizioso da cui il cliente fa fatica ad uscire, trovandosi a circoscrivere tra l’altro la propria gamma di interessi a poche tematiche o personaggi.

Tali pericolose implicazioni vengono descritte nel docufilm osservando contingenze specifiche come quelle delle elezioni presidenziali e amministrative di importanti nazioni, in cui i principali protagonisti della sfera politica potrebbero potenzialmente utilizzare le strutture ad algoritmi con il fine di creare per ogni fruitore dei social una sorta di bolla, un mondo in cui si costruisce una propria verità e proprie motivazioni.

Vengono citati a tal proposito mostri sacri della letteratura e della cinematografia come The Truman Show (1998) e Matrix (1999) per spiegare in modo semplice il concetto della ‘bolla’ creata da un meccanismo con cui ci interfacciamo costantemente, a cui diamo continuamente indicazioni attraverso like, commenti, visualizzazioni e ricerche.

Colpisce soprattutto la testimonianza degli intervistati, di chi per primo iniziò a creare questi algoritmi, stupiti a loro volta dagli effetti collaterali sottovalutati inizialmente dai primi ideatori, come ad esempio l’influenza sui disturbi mentali degli adolescenti, comprovati dalla ricerca scientifica e dalle correlazioni statistiche: incremento di ritiro sociale, ideazioni suicidarie collegate all’interazione con i social, depressione, ansia sociale, FOMO (fear of missing out) e, ovviamente, dipendenza dagli stessi social.

Un piccolo spazio, che forse poteva essere maggiore considerando la rilevanza sul tema, è dato alla spiegazione dei meccanismi di ricompensa alla base della dipendenza (concetti conosciuti a partire dagli studi di James Olds e Peter Milner del 1954), che rendono inconsapevole l’utente social della dipendenza stessa.

Il meccanismo viene spiegato in modo semplice ed è importante ricordarne alcuni punti salienti: quando arriva un like, il nostro cervello lo interpreta come una ricompensa e rilascia una ‘scarica’ di dopamina dando forza a quello che viene definito ‘dopamine-driven feedback loop’. Questo circolo vizioso si caratterizza sostanzialmente dalle seguenti fasi.

Si inizia con l’interazione con il social di turno che, forte del suo algoritmo, ci spinge continuamente a condividere nuovi contenuti. Successivamente avviene un’azione effettiva (il post, il retweet, il commento, o anche solo il ‘rallentare davanti ad un’immagine’). Più lunga sarà l’attesa, maggiore sarà la soddisfazione nel momento in cui si riceve una reazione (un like, un follow, un commento) che viene interpretata dal cervello come ricompensa e che genera quella piccola ‘scarica’ di dopamina sufficiente ad innescare nuovamente il circolo vizioso, che si protrae nel tempo e che può portare inconsapevolmente ad una vera e propria dipendenza, come accade per le sostanze stupefacenti o le slot-machine. Il lettore interessato al tema della dipendenza da social network può leggere gli interessanti studi di Quinghua, Guedes e Krach, solo per citarne alcuni.

Il documentario si conclude con il termine dell’arco narrativo delle vicende di Ben e, nei titoli di coda, con le raccomandazioni degli intervistati sopra citati, che consigliano tra l’altro di ridurre drasticamente il tempo passato al cellulare, di evitare di creare profili social a ragazzi troppo giovani, di disattivare le notifiche, di seguire più personaggi politici possibile e di ampliare gli interessi seguiti attraverso queste piattaforme. Tutto questo con il fine ultimo di ‘spiazzare’ gli algoritmi ed evitare che ci condizionino oltre misura.

The social dilemma si configura quindi come un interessante documentario che aiuta lo spettatore ad avviare una riflessione personale sull’utilizzo eccessivo dei social network, da consigliare soprattutto agli adolescenti, ovvero alla fascia statisticamente più a rischio per quanto riguarda il tema della dipendenza da smartphone e delle implicazioni psicologiche e sociali che ne derivano.

 

THE SOCIAL DILEMMA – Guarda il trailer del docufilm:

Libera puoi: l’Ordine delle Psicologhe e degli Psicologi della Regione Emilia-Romagna scrive alle donne per incoraggiarle ad uscire dal silenzio – Comunicato Stampa

Comunicato Stampa

“Libera puoi”. La Commissione delle Pari Opportunità dell’Ordine delle Psicologhe e degli Psicologi della Regione Emilia-Romagna scrive alle donne per incoraggiarle ad uscire dal silenzio e celebrarle oggi, 25 novembre, giornata internazionale contro la violenza sul genere femminile. Grazie ad una rete antiviolenza forte e attiva a livello regionale aumentano le denunce da parte delle donne.

 

24 Novembre, Bologna

Il valore della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne, celebrata il 25 novembre, non sarà uguale a quello degli anni passati. Il 2020 passerà alla storia non soltanto come anno della Pandemia ma anche come momento storico di protezione delle donne che, grazie ad una rete regionale e nazionale antiviolenza, hanno intrapreso un cammino di denuncia.

Il lockdown, imposto come misura di contenimento alla diffusione del COVID19, ha sottoposto le donne a un rischio ancora più alto rispetto ad abusi e maltrattamenti. Da marzo fino a giugno 2020 in Emilia-Romagna, secondo quanto riferito dall’ISTAT, il numero verde 1522 ha registrato oltre 800 richieste di aiuto, protezione o consulenza da parte delle donne, per denunciare atti di violenza o stalking.

La buona notizia è la capacità delle donne di essere più coraggiose grazie anche alla presenza di una rete antiviolenza, di cui gli psicologi e le psicologhe dell’Emilia-Romagna sono parte integrante e attiva.

Libera puoi, la violenza non è un destino ma è una condizione che ingabbia uomini e donne i cui cancelli possono essere aperti dice lo slogan del Ministero delle Pari Opportunità. USCIRE DAL SILENZIO, parlare della violenza può favorire un percorso verso l’autonomia. Si tratta di un percorso psicologico impegnativo ma possibile

Sono le parole della Commissione delle Pari Opportunità dell’Ordine delle Psicologhe e degli Psicologi dell’Emilia-Romagna, che in questa ricorrenza sottolinea l’importanza di spezzare la catena del silenzio.

Carmelina Fierro - Coordinatrice Commissione PO Ordine Psicologhe e Psicologi ER

Imm. 1 – Dott.ssa Carmelina Fierro,
Coordinatrice della Commissione Pari Opportunità dell’Ordine degli Psicologi dell’Emilia-Romagna

Nel 2020 le telefonate al numero antiviolenza 1522 sono cresciute del 73%. Il 30,7% delle donne continua a chiedere aiuto per violenza e per stalking. Una su due teme per la propria incolumità.

In compenso la lotta alla violenza non si è mai fermata, né ha rallentato. I centri antiviolenza, le case rifugio, le Istituzioni, i distretti sanitari (Pronto Soccorso e AUSL) e l’Ordine delle psicologhe e degli psicologi dell’Emilia-Romagna hanno messo in rete interventi di contrasto e prevenzione al fenomeno dando ascolto e sostegno alle vittime di abusi.

Questa giornata – spiega la Coordinatrice della Commissione Pari Opportunità dell’Ordine degli Psicologi dell’Emilia-Romagna Carmelina Fierro – necessita di un’attenzione particolare e specialistica perché legata all’identità di ciascuna persona e nello specifico dei soggetti coinvolti in una dinamica di violenza che attualmente si manifesta soprattutto nei confronti della donna. Non solo protezione ma anche riprogettazione. La vittima di violenza, danneggiata nella sua integrità personale, necessita di un intervento psicologico mirato che l’accompagni e l’aiuti a riconoscersi ed essere riconosciuta con le proprie caratteristiche, limiti e pregi. Un percorso che diventa indispensabile per conquistare o riconquistare la propria salute psicologica. L’intervento psicologico nell’ambito della violenza significa quindi lavorare per una ristrutturazione del modo di concepire e di pensare se stesse/i in relazione alle altre persone, offrire la possibilità di cambiare la prospettiva della propria esistenza

 

Ansia sociale e alessitimia in relazione al bere problematico e alla teoria della mente

Un recente studio ha testato tre ipotesi: (1) l’ansia sociale predice l’alessitimia nel caso di depressione controllata, (2) l’alessitimia media il rapporto tra ansia sociale e bere problematico e (3) l’alessitimia media il rapporto tra ansia sociale e scarsa teoria della mente. I risultati hanno confermato le ipotesi iniziali?

 

I disturbi d’ansia sono i più comuni nell’ambito dei problemi di salute mentale (Baxter, Patton, Scott, Degenhardt, & Whiteford, 2013): nello specifico, il disturbo d’ansia sociale (SAD) è quello più comune al mondo (Ruscio et al., 2008). Si tratta di un disturbo cronico e pervasivo, caratterizzato da un’intensa paura e dall’elusione di situazioni sociali o di performance, che portano ad un’interferenza clinicamente significativa in diverse aree della vita di una persona, influenzando il funzionamento lavorativo e le relazioni interpersonali (American Associazione Psichiatrica, 2013). Le persone con ansia sociale possono sperimentare disagio soggettivo e somatico durante le interazioni sociali, spesso caratterizzato da un aumento della frequenza cardiaca, sudorazione e tremore (Stemberger, Turner, Beidel, & Calhoun, 1995). L’ansia sociale è un fattore di rischio per l’abuso di alcol nei giovani adulti (Schry & White, 2013), presumibilmente perché l’alcol agisce come “lubrificante sociale” a causa dei suoi effetti ansiolitici e disinibenti (Thomas, Randall, Book, & Randall, 2007).

Con il termine alessitimia (Sfineos, 1973) si intente un tratto di personalità subclinica, presumibilmente di origine biologica (Alessitimia Primaria, Freyberger, 1977; Thorberg, Young, Sullivan, Lyvers, Hurst, Tyssen, et al., 2016), che comporta pensiero simbolico notevolmente ridotto, piuttosto orientato verso l’esterno, una limitata capacità di identificazione e descrizione delle emozioni e dei sentimenti, un’attività fantastica impoverita e infine difficoltà di differenziare i sentimenti e le sensazioni somatiche di eccitazione emotiva (Nemiah, Freyberger, & Sifneos, 1976). Le persone altamente alessitimiche sono spesso preoccupate dagli eventi esterni e tendono a non sollecitare l’aiuto o il conforto degli altri a causa delle loro difficoltà interpersonali, che spesso si riflettono in una profonda solitudine (Qualter, Quinton, Wagner, & Brown, 2009). Essa è connessa ad una varietà di disturbi psicologici: depressione, ansia, ossessione-compulsione, schizofrenia, disturbi dello spettro autistico, PTSD e disturbi del comportamento alimentare. Tra il 28% e il 58% dei pazienti con diagnosi SAD hanno riportato elevati livelli di alessitimia (Cox, Swinson, Shulman, & Bourdeau, 1995), dimostrando che le difficoltà di identificazione e comunicazione delle emozioni e sentimenti rappresentano un impedimento maggiore per le relazioni interpersonali. Un’altra possibilità è delineata dal fatto che, in alcuni casi, l’alessitimia potrebbe essere una reazione ad un’intensa e cronica ansia o stress psicologico (Alessitimia secondaria, Freyberger, 1977).

Le persone socialmente ansiose possono non avere una visione accurata di come gli altri le percepiscono a causa di deficit nella comprensione degli stati mentali ed emotivi degli altri in situazioni sociali (Hezel & McNally, 2014), che è anche caratteristica dell’alessitimia (Lyvers, McCann, et al., 2018). La capacità di comprendere, identificare e ragionare sugli stati soggettivi degli altri è nota come teoria della mente (Onuoha, Quintana, Lyvers, & Guastella, 2016). Quest’ultima comporta due processi: il rilevamento o l’identificazione degli stati altrui sulla base di prove osservabili e il ragionamento o l’interpretazione degli stessi, al fine di prevedere o comprendere il comportamento degli altri.

Tra il 24% e il 48% (Buckner et al., 2008) delle persone con una diagnosi di SAD soddisfano i criteri per una diagnosi di Disturbo da uso di alcol nel corso della vita (AUD), rispetto a un tasso di prevalenza dell’AUD del 15% nella popolazione generale (Kessler et al., 2005). La comorbilità dell’ansia sociale e del bere problematico è stata riportata in campioni sia clinici che non clinici. L’abuso di alcol e la dipendenza spesso precedono lo sviluppo della SAD (Gilles et al., 2006). Ricerche sperimentali indicano che il consumo di alcol può diminuire l’ansia da prestazione in soggetti con SAD e che aumentano l’assunzione di alcol dopo un compito (Abrams et al., 2002). Un continuo ricorso a sostanze ansiolitiche come l’alcol per autoregolarsi, indipendentemente dalla quantità di assunzione, aumenta probabilmente il rischio di un uso problematico e di dipendenza. Inoltre, alti livelli di alessitimia sono comuni in individui con diagnosi di AUD (Thorberg, Young, Sullivan, & Lyvers, 2009): questi possono utilizzare sostanze come l’alcol per compensare la loro incapacità di modulare gli affetti (Speranza et al., 2004).

L’alessitimia può quindi svolgere un ruolo di mediazione nella relazione tra l’ansia sociale e il bere problematico, ipotesi esaminata in un recente studio condotto da Lyvers et al. (2019). Lo scopo è stato quello di ottenere delucidazione relative ai possibili fattori perpetuanti nell’ansia sociale e nel bere problematico. Il ruolo dell’alessitimia è importante in quanto possibile fattore di rischio per entrambi disturbi esplorati. Tre ipotesi testate: (1) l’ansia auto-riferita relativa ai contesti sociali predice l’alessitimia, nel caso di depressione controllata; (2) l’alessitimia media il rapporto tra ansia sociale e bere problematico; (2) l’alessitimia media il rapporto tra ansia sociale e scarsa teoria della mente. Il campione indagato consiste in 301 soggetti non clinici.

L’ansia sociale è stata valutata per mezzo della Social Interaction Anxiety Scale (SIAS, Mattick & Clarke, 1998), composta da 20 item che esplorano il livello di stress associato alle interazioni sociali ordinarie, del tipo “Ho difficoltà a parlare con altre persone”. L’alessitimia è stata valutata tramite la Toronto Alexithymia Scale 20 (TAS-20, Bagby, Parker & Taylor, 1994), composta da 20 item che esploravano (1) la difficoltà di identificare sentimenti (DIF, ad es. “Sono spesso confuso circa le emozioni che provo”), (2) la difficoltà nel descrivere i sentimenti (DDF, ad es. “E’ molto difficile per me descrivere a parole i miei sentimenti”), (3) il pensiero orientato verso l’esterno (EOT, ad es. “Preferisco parlare alle persone delle loro attività quotidiane piuttosto che dei loro sentimenti”). E’ stata inoltre utilizzata la Depression Anxiety Stress Scales-21 (DASS-21; Lovibond & Lovibond, 1995), una misura self-report, costituita da 21 item, che indaga l’esperienza emotiva negativa dell’ultima settimana. Nello specifico indaga: depressione (es. “Sento che la vita è senza significato”), ansia e stress. La teoria della mente è stata valutata tramite la Reading the Mind in the Eyes Test – Revised (RMET-R; Baron-Cohen et al., 2001), che esplora il riconoscimento delle emozioni attraverso le immagini degli occhi di uomini e donne: si tratta di 36 fotografie e intorno alla foto ci sono aggettivi del tipo “cauto”, “insistente”, “annoiato”, “avvilito”. Infine, l’utilizzo di alcol è stato misurato per mezzo dell’Alcohol Use Disorders Identification Test (AUDIT, Saunders et al., 1993), i cui valutano tre fattori: il consumo di alcolici, misurata da tre elementi (es. “Quanto spesso beve drink alcolici?”); la dipendenza da alcol (es. Quanto spesso durante l’ultimo anno si è sentito non in grado di smettere di bere una volta iniziato?”); e problemi legati all’alcol (es. “Lei o qualcun altro si è ferito a causa del suo alcolismo?”).

Le relazioni tra le variabili sono state coerenti con le aspettative, tanto che l’ansia sociale è emersa significativamente correlata con l’alessitimia, la teoria della mente, il bere problematico e la depressione. Inoltre, l’ansia sociale prevedeva alessitimia anche dopo aver tenuto sotto controllo la depressione, che indica che il rapporto tra ansia sociale e l’alessitimia non dipende dalla depressione (Ertekin et al., 2015). Dai risultati è inoltre emerso che l’ansia sociale può essere un risultato dell’alessitimia, o viceversa: i punteggi di ansia sociale correlano con le componenti “difficoltà a identificare le emozioni” e “difficoltà a descrivere le emozioni” dell’alessitimia. Inoltre, l’alessitimia media il rapporto tra ansia sociale e consumo problematico di alcol: precisamente l’uso di alcol per far fronte alle emozioni negative è stato specificamente collegato ad un aumento del rischio di dipendenza da alcol. L’alessitimia associata all’ansia sociale può quindi incoraggiare una dipendenza dagli effetti ansiolitici e disinibitori dell’alcol per ridurre l’ansia, incoraggiare l’espressione emotiva e rendere le interazioni sociali più facili da affrontare. Il presente studio ha anche accertato un ruolo di mediazione dell’alessitimia nel rapporto tra ansia sociale e scarsa teoria della mente. Pertanto, appare evidente che gli errori di identificazione e riflessione sugli stati mentali sembrano portare a risultati interpersonali negativi, promuovendo e mantenendo l’ansia sociale. Tuttavia, emerge che una scarsa teoria della mente nell’ansia sociale non può essere completamente giustificata dall’alessitimia.

In conclusione, le caratteristiche alessitimiche e la scarsa teoria della mente possono influire su coloro che soffrono di ansia sociale e il bere problematico: le difficoltà di identificazione e ragionamento sugli stati mentali altrui hanno il potenziale di perpetuare e mantenere l’ansia sociale e aumentano il rischio problemi di AUD. Poiché lo studio ha utilizzato un campione non clinico, i risultati indicano che le caratteristiche alessitimiche sono prominenti non solo tra gli individui con SAD, ma anche nei giovani adulti non diagnosticati che riferiscono di soffrire di ansia nel contesto delle interazioni sociali.

 

Dipendenza da gioco d’azzardo: un aiuto dai racconti dei pazienti – Comunicato Stampa

Comunicato Stampa – SISSA, Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati

Una nuova ricerca condotta dalla SISSA e dall’Università di Roma Tre identifica per la prima volta marcatori narrativi della dipendenza da gioco d’azzardo e apre la strada ad approcci innovativi di tipo terapeutico e preventivo.

 

Trieste, 9 novembre 2020

Come si raccontano le persone affette da gioco d’azzardo patologico? Che informazioni possiamo estrarre dalle loro narrazioni? Uno studio condotto dalla SISSA – Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati e dall’Università di Roma Tre ha analizzato per la prima volta in dettaglio le parole e le costruzioni linguistiche usate da soggetti con dipendenza da gioco d’azzardo. I ricercatori hanno identificato così alcuni elementi caratteristici del loro stato emotivo e cognitivo nei diversi stadi della malattia. Lo studio, pubblicato su Addictive disorders and their treatment, apre nuovi scenari per lo sviluppo di percorsi di recupero e prevenzione basati sulle competenze linguistiche.

Condividere, attraverso il racconto, le proprie esperienze con amici o parenti è un esercizio che molti di noi svolgono quotidianamente. Eppure le narrazioni personali rappresentano un processo per nulla banale. Ci aiutano a ordinare e a dare un senso alle nostra storia, permettono di integrare i diversi aspetti del vissuto psichico, dei diversi tempi – passato, presente e futuro – in cui vive la nostra mente.

Le parole che un individuo usa quando racconta un fatto o descrive una condizione interiore riflettono i suoi stati psicologici e rappresentano anche il suo particolare stile cognitivo, emotivo, i tratti di personalità, nonché gli eventuali sintomi di disturbi psicologici di cui può soffrire. Ecco perché il racconto di sé rappresenta anche un’importante via di accesso ai processi emotivi e cognitivi che viene utilizzata sia in contesti di ricerca che terapeutici.

Un gruppo di ricercatori e ricercatrici della SISSA e dell’Università di Roma Tre ha per la prima volta analizzato le narrazioni dei pazienti affetti da dipendenza al gioco d’azzardo per identificarne le problematiche più comuni e fornire possibili strumenti terapeutici innovativi.

In particolare, i ricercatori hanno intervistato 30 soggetti in trattamento per disturbo da gioco d’azzardo presso i servizi pubblici per le dipendenze della Regione Friuli Venezia Giulia. Le interviste, realizzate in forma semi-strutturata, riguardavano vari aspetti della loro esperienza con il gioco, dall’aspetto compulsivo, ai tentativi di controllare il desiderio, dai fattori scatenanti la dipendenza a quelli utili a raggiungere l’astinenza e riprendere il controllo.

Gli studiosi hanno quindi analizzato le parole utilizzate dai pazienti con il LIWC (Linguistic Inquiry and Word Count), il software più utilizzato al mondo per gli studi di linguistica computazionale.

Abbiamo così identificato diversi marcatori linguistici delle problematiche emotive e cognitive dei giocatori d’azzardo, che variano nelle diverse fasi della dipendenza – spiega Stefano Canali, ricercatore del Laboratorio Interdisciplinare della SISSA e del Cosmic Lab dell’Università di Roma Tre e responsabile dello studio. – Il più evidente fra tutti è l’assenza totale di parole e frasi riferite al futuro. Un fenomeno che probabilmente è allo stesso tempo indice e causa della difficoltà che ha il giocatore d’azzardo a pensare agli effetti dei comportamenti impulsivi e rischiosi sul suo domani.

Un altro marcatore narrativo che lo studio ha individuato è l’uso contemporaneo di espressioni in prima persona e in forma passiva per raccontare il rapporto col gioco.

È come se il soggetto si sentisse di essere ‘agente’ e responsabile dei comportamenti di gioco e, allo stesso tempo, di essere ‘agito’, passivo, trascinato dal desiderio e dagli automatismi. Questa contraddittorietà narrativa è indice di una chiara dissociazione del sé – afferma il ricercatore – Infine, a questi indicatori si affianca un’estrema difficoltà a descrivere i vissuti emotivi legati al desiderio del gioco e alla perdita del controllo. Un deficit narrativo che sembra migliorare con il percorso terapeutico.

Si tratta di uno studio pilota che ci ha permesso di dimostrare l’importanza dell’analisi del linguaggio nella comprensione delle funzioni psicologiche coinvolte nelle dipendenze – conclude Canali – Dal punto di vista clinico, i marcatori narrativi possono rappresentare un nuovo elemento di supporto nel processo terapeutico, oltre che un possibile strumento di riconoscimento di soggetti a rischio. Essi aprono inoltre la strada all’impiego di tecniche di potenziamento delle competenze narrative generali come strategie complementari nei percorsi di cura delle dipendenze, in analogia a quelle che si stanno sperimentando ad esempio con i pazienti affetti da autismo.

Gioco d’azzardo in Italia e in Friuli Venezia Giulia: dati 2019 e 2020

Secondo il Libro Blu 2019 dell’Agenzia delle Dogane e Monopoli pubblicato a giugno 2020, lo scorso anno l’ammontare complessivo delle puntate in Italia (slot machine, videolottery, lotterie gratta e vinci, scommesse sportive, superenalotto, gioco online ecc.) è stato di 110,5 miliardi di euro. Il volume di gioco del Friuli Venezia Giulia è stato pari a un miliardo e 369 milioni di euro, per un dato pro capite di 1.305,94 euro anno, considerando che in tale popolazione sono incluse anche persone istituzionalizzate o impossibilitate al gioco.

Nel corso del 2020, in concomitanza con la pandemia da SARS-Cov 2, si è vista una crescita sostanziale del gioco online. Solo nel mese di marzo 2020 i nuovi conti di gioco aperti sono aumentati del 35% rispetto a quelli di febbraio. Un’indagine condotta dall’Istituto di Fisiologia Clinica del CNR di Pisa ha riportato che tra i profili online aperti negli ultimi mesi, il 96% è stato aperto da giocatori che non avevano mai giocato su internet. Secondo la stessa fonte, il fatturato dovuto al gioco online è aumentato significativamente nel marzo 2020 rispetto all’anno precedente. In particolare, il fatturato dovuto al gioco del Poker online è più che raddoppiato (da 7.2 a 16 milioni di euro), mentre quello associato ai casinò online è passato da circa 73 milioni di euro nel marzo 2019 a 94 milioni di euro nel marzo 2020.

 

L’integrazione della TMS con la psichiatria e la psicoterapia. La metodica e l’uso in ambito psichiatrico – VIDEO

Il Centro Stimolazione Magnetica Transcranica ha proposto un incontro sulla plasticità sinaptica per una cura efficace, con un focus su TMS, dipendenze e disturbi emotivi. Pubblichiamo, per i nostri lettori, il video dell’incontro. 

 

Il 21 Luglio 2020 si è tenuto un incontro per conoscere e scoprire la Stimolazione Magnetica Transcranica (TMS) e i suoi utilizzi in ambito psichiatrico.

Lo Studio Clinico San Giorgio, ora diventato Centro Stimolazione Magnetica Transcranica – CIP TMS, propone un approccio innovativo e integrato per il trattamento di disturbi emotivi e dipendenze patologiche. Neuropsichiatria e psicoterapia si integrano con la Stimolazione Magnetica Transcranica (TMS), una metodica di neuromodulazione cerebrale non invasiva ed efficace nella cura di dipendenze, depressione, disturbi ossessivi, sindrome di Tourette e delle demenze. Per i nostri lettori pubblichiamo il video dell’evento “L’integrazione della TMS con la psichiatria e la psicoterapia. La metodica e l’uso in ambito psichiatrico” All’incontro hanno partecipato la dr.ssa Vaccaro, la dr.ssa Crespi, il dr. Ferro il dr. Schiena e il dr. Ruggiero.

 

TMS, PSICHIATRIA E PSICOTERAPIA – Guarda il video integrale del webinar:

 

Speranza, consapevolezza e cambiamento

Speranza è una delle parole più frequentemente menzionate nelle conversazioni di tutti i giorni: le persone sperano nel raggiungimento di un bene o nell’evitamento di un male, quasi come tendenza naturale. Che cosa significa da un punto di vista psicologico sperare? La speranza può aiutare ad avviare azioni che migliorino il nostro stato d’animo e il modo di porsi nella Vita?

 

Dunque c’è la luce
e ogni foglia è attaccata al ramo
con esatto amore
e ogni foglia in orario
lascia il ramo
con audace resa
e ogni uscire dalla soglia
del corpo è ricevuto
con unanime benvenuto
da quella scienza della gioia
che proprio ora proprio qui
riempie il foglio di ghirigori
per dirti che dunque
la luce c’è.
(Chandra Livia Candiani)

Negli ultimi mesi, la letteratura scientifica sta mostrando gli effetti legati al confinamento per il Covid-19 e alla gestione dell’emergenza sul benessere delle persone. Tali effetti erano stati considerati preventivamente da gruppi di professionisti ad inizio dell’evento pandemico, sulla scia di alcuni primi dati già pubblicati sulla popolazione cinese ed ora confermati dalle numerose evidenze scientifiche.

Dagli studi e dalle osservazioni rilevate, emerge che in molti siano stati colpiti nelle dimensioni vitali per l’essere umano, quale quella fisica, psicologica, sociale. Tra i disturbi maggiormente rilevati, e sovente intrecciati tra loro, sono stati individuati:

Infine, non meno importanti, le domande legate al senso e al significato sulla propria identità, sulle relazioni, sul lavoro, sull’ambiente, sulla Vita, la malattia e la morte. Alcuni tra i disagi sopra riportati sono stati evidenziati anche tra la popolazione infantile, che ha subito di riflesso la gestione dell’emergenza e le problematiche ad esse associate da parte dei familiari.

Nelle conversazioni quotidiane dei mesi passati ed odierne, spesso sentiamo frasi come:

“Spero di stare meglio”

“Spero che le cose vadano meglio”

“Spero che si risolva tutto per il meglio”

“Spero che vada, davvero, tutto bene…”

Pensieri che sovente ci accompagnano nel nostro percorso di vita, quasi un augurio che in automatico nasce spontaneo, da dentro, soprattutto nei momenti di crisi. Riflessioni molto attuali e vive, che hanno camminato insieme a noi in questi mesi, che si sono visti negli sguardi della gente per strada e che faticosamente ha ripreso le attività, o che ha dovuto fare i conti con cambiamenti importanti sul versante familiare, finanziario, lavorativo, amicale.

Secondo Shimanoff il termine speranza è una delle parole più frequentemente menzionate nelle conversazioni di tutti i giorni: le persone sperano nel raggiungimento di un bene o nell’evitamento di un male, quasi come tendenza naturale.

L’etimologia stessa della parola speranza ci rimanda a un tendere verso: dal latino “spes= speranza”, a sua volta collegato alla radice sanscrita “spa= tendere verso una meta”. Tendere verso un miglioramento, a partire da una condizione di malessere, frustrazione, insoddisfazione, anche paura e angoscia. La definizione di speranza contiene quindi nozioni individuali, orientamenti futuri, implica partecipazione attiva da parte dell’individuo e rappresenta la possibilità di un risultato positivo.

Che cosa significa da un punto di vista psicologico sperare? La speranza può aiutare ad avviare azioni che migliorino il nostro d’animo e il modo di porsi nella Vita?

Alcuni primi studi sulla dimensione della speranza sono stati condotti in situazioni di minaccia alla vita ed associati pertanto alla capacità della persona di trovare un senso all’evento avverso. Ad esempio Korner e McGee hanno documentato la relazione tra la speranza e la sopravvivenza degli ebrei nei campi nazisti. Sulla scia di quei primi studi, la dimensione della speranza è stata considerata come fattore fondante la relazione di cura e pertanto approfondita nelle sue componenti e qualità dal punto di vista delle persone malate. Una delle definizioni che ne deriva è:

forza vitale dinamica multidimensionale caratterizzata da un’aspettativa fiduciosa, ma incerta, di raggiungere un bene futuro che, per la persona che spera, è realisticamente possibile e personalmente significativo. 

In particolare è stato mostrato che vivere con speranza è un fattore significativo che aiuta le persone ad adattarsi alla malattia, a ridurre lo stress e a migliorare il benessere psicologico e la qualità della vita. La mancanza di speranza, definita come percezione di una situazione insormontabile dove nessun obiettivo sembra raggiungibile, è associata invece a depressione e al desiderio di affrettare la propria morte.

In uno studio condotto da Johnson su un gruppo di persone malate di tumore sono stati delineati 10 attributi della speranza, riassunti nella tabella sottostante.

  • Aspettative positive: una previsione positiva con speranza di un domani migliore, nonostante la malattia.
  • Qualità personali: una forza interiore, un approccio alla vita volto a risolvere i problemi e il raggiungimento di importanti obiettivi.
  • Spiritualità: fede verso un Essere superiore; speranza di una vita dopo la morte dove rincontrare i propri cari trovando uno scopo per vivere quello che resta della vita.
  • Obiettivi: fissare e raggiungere obiettivi di breve termine.
  • Confort: essere liberi dal dolore.
  • Assistenza: il comportamento degli altri per i contatti fisici, attenzione all’umore e  avere un’onesta informazione.
  • Relazioni interpersonali: relazioni ricche di affetto con amici e famigliari, relazioni oneste verso coloro che danno assistenza.
  • Controllo: possibilità di decidere sulle proprie cure.
  • Eredità: lasciare qualcosa di valore agli altri.
  • Rassegna della propria vita: riconoscere gli obiettivi raggiunti e i contributi dati per migliorare le vite degli altri.

Un altro studio ha evidenziato i fattori che invece ledono la speranza nelle persone malate:

  • Abbandono e isolamento: sia da parte della rete famigliare e sociale, che da parte degli operatori (percezione di una scarsa comunicazione con gli operatori).
  • Dolore: e disagio incontrollabili.
  • Svalutazione: della personalità.

Esiste uno strumento che aiuta a comprendere come la persona sta vivendo la speranza in un percorso legato alla malattia, composto da alcune domande che rimandano nella maggior parte dei casi agli attributi sopra descritti. Ad esempio:

  • Ho una profonda forza interiore?
  • Posso ricordare tempi felici e gioiosi?
  • Mi sento di dare e ricevere cura/amore?

Queste domande evidenziano l’importanza della qualità della relazione con se stessi e gli altri significativi (famigliari e amici) per poter nutrire in modo positivo la speranza.

Gli studi citati, anche se relativi ad un gruppo specifico – persone malate – orientano a riflessioni che ciascuno può porsi, a prescindere da una condizione di malattia, per poter iniziare a portare attenzione alla propria vita e alla speranza di darle valore e di renderla ogni giorno migliore:

  • Che cosa significa per me stare meglio?
  • In che modo posso prendermi cura del mio benessere?
  • Lo desidero veramente?
  • Mi interessa?
  • Che cosa sto cercando di fare affinché questo si possa realizzare?
  • Che tipo di relazione ho con la mia quotidianità?
  • Come la vivo?

Spesso tendiamo a delegare al di fuori di noi la risposta a queste domande, per molteplici ragioni:

  • per via delle aspettative degli altri su di noi;
  • per le aspettative che noi abbiamo su noi stessi;
  • per il non sentirci capaci;
  • per la sfiducia che abbiamo in noi stessi e negli altri;
  • per la paura di sbagliare;
  • per i giudizi che tendiamo a dare a noi stessi e agli altri;
  • per scarsa assunzione di responsabilità.

L’esperienza legata al lockdown e al Covid-19 ha fatto emergere l’importanza della consapevolezza di se stessi e delle relazioni con gli altri, alla quale non siamo quasi mai educati. Spesso, spinti da ritmi frenetici, siamo portati fuori da noi, alla ricerca di qualcuno o qualcosa che speriamo apporti un miglioramento nella nostra vita, allontanandoci dalla possibilità che abbiamo in ogni momento di partire da noi stessi per comprendere cosa ci fa stare bene, che cosa condiziona il nostro sentire e il nostro agire e che cosa possiamo fare per agire un cambiamento. Questo tipo di consapevolezza si costruisce gradualmente ogni giorno a partire dalle cose quotidiane della vita, ad esempio ogni volta che siamo presenti a ciò che facciamo, ogni volta che nutriamo un pensiero bello su di noi o sentiamo affetto per noi stessi e per qualcuno al quale vogliamo bene, quando portiamo attenzione alla motivazione di un nostro agire o ci prendiamo cura di una sofferenza che stiamo provando. In sostanza ogni volta che non deleghiamo ciò che siamo, rivolgendo lo sguardo dentro noi stessi per comprendere che il cambiamento non è qualcosa che altri possono darci ma è qualcosa che appartiene alle nostre capacità.

Un possibile parallelismo con questi significati è costituito dalla prevenzione e dagli stili di vita salutari, rispetto ai quali sono disponibili molte ricerche che ne evidenziano il ruolo centrale per la salute. La prevenzione in una delle sue accezioni è prima di tutto conoscenza di sé, in relazione ai pensieri, alle emozioni, alle relazioni e a come le viviamo. Ad esempio mangiare sano o fare attività fisica sono alcune delle principali indicazioni degli stili di vita salutari, ma se deleghiamo il nostro benessere a queste indicazioni, comprovate scientificamente, non considereremo una parte importante della salute: come ci sentiamo? Quali emozioni mettiamo nel piatto che mangiamo? Che cosa impedisce di prenderci l’impegno di fare attività fisica?

L’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce la salute come stato di completo benessere fisico, sociale e mentale e non soltanto l’assenza di malattia e infermità. In questa ottica la salute non è una condizione astratta, ma un mezzo finalizzato ad un obiettivo, quello di costruire il proprio benessere. Negli ultimi anni, diversi documenti di integrazione sottolineano anche l’importanza della spiritualità per la tutela e la promozione della salute, in quanto essa può aiutare a sostenere le cure, a gestire le difficoltà della vita e a migliorare la condizione di benessere che a sua volta aumenta il piacere di vivere.

I mesi precedenti hanno fatto emergere l’importanza di pensare alla salute ogni giorno, a partire dalla consapevolezza di che cosa ci aiuta a stare bene non solo dal punto di vista fisico, ma anche delle emozioni, delle relazioni, delle domande che possiamo farci nello stare nella Vita e nel comprendere quali significati può avere per noi. Per riprendere alcune domande relative alla speranza:

  • Ho una profonda forza interiore?
  • Posso ricordare tempi felici e gioiosi?
  • Mi sento di dare e ricevere cura/amore?

Portare attenzione a questi aspetti aiuta a discriminare che cosa ci condiziona e che cosa invece può essere fatto a partire da noi in modo attivo e responsabile, non giudicando quello che percepiamo di non riuscire a fare, ma dando valore all’azione che compiamo, anche una sola. Infine ‘farci accompagnare’ da queste riflessioni e agire in modo coerente ad esse, sostiene nel discriminare le informazioni veramente attendibili rispetto alla propria salute, limitando le paure che condizionano spesso la messa in atto di comportamenti che non tutelano realmente se stessi, ma sono adottati proprio perché inscindibilmente legati a stati d’animo che amplificano il bisogno di controllo.

 

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