expand_lessAPRI WIDGET

Con gli occhi del medico di base: i disturbi psicologici nella medicina generale

Il rapporto tra corpo e psiche è un rapporto di interazione, ma l’azione della psiche sul corpo trovò in passato poca clemenza agli occhi dei medici. Oggi la medicina generale ha come compito il processo di diagnosi e di impostazione della cura e prevede la possibilità che il medico ipotizzi la presenza di fattori psicologici, implicati nel disturbo.

 

(…) mi tranquillizzò, gentile, dicendomi
che non avevo nulla di cui vergognarmi,
e che potevo continuare a fare il malato
quanto mi pareva e piaceva. Quasi
fosse un padrone di casa che dice all’ospite:
ma per carità si metta a suo agio,
si ammali pure qui da noi, senza far complimenti.
Quel suo modo rassicurante,
placido e ben intenzionato, riuscì
a calmarmi e a disarmarmi. (La sorella, Sandor Marai)

Il romanzo di Sàndor Marai, La sorella, come poche altre opere letterarie, colpisce per la capacità di raccontare in modo puntuale, vivido e analitico, le vicissitudini della malattia fisica, accompagnata da evidenti sintomi di natura psicologica. Un musicista colpito da un disturbo molto raro, viene ricoverato in una clinica e curato, grazie alla medicina e alla relazione che instaura con medici e infermiere. Da sempre, la relazione mente corpo attraversa il dibattito interno alle diverse discipline – filosofia, medicina, letteratura, psicologia, neurofisiologia, genetica – ma è con Freud, nell’ambito della cultura psicologica occidentale, che si comincia a delineare la possibilità che alcuni disturbi che coinvolgono il corpo non siano completamente spiegabili dalla medicina classica:

Il rapporto tra corpo e psiche (nell’animale come nell’uomo) è un rapporto di interazione, ma l’altro aspetto di questo rapporto, l’azione della psiche sul corpo, trovò in passato poca clemenza agli occhi dei medici. Pareva che questi temessero di accordare una certa autonomia alla vita psichica, come se con ciò abbandonassero il terreno della scientificità. Questo indirizzo unilaterale della medicina in direzione del corpo ha subito man mano negli ultimi quindici anni un mutamento che è scaturito dall’attività medica. Esiste infatti un gran numero di malati, lievi e gravi, (…) nei quali, nonostante tutti i progressi nei metodi di indagine della medicina scientifica, non sono rintracciabili segni visibili e tangibili del processo patologico né in vita né dopo la morte. (…). Si scoprì che, per lo meno in gran parte di questi malati, i segni del male non provengono se non da mutato influsso della vita psichica sul corpo, e che dunque la causa prima del disturbo è da ricercarsi nella psiche. (Freud 1890; trad.it 1967, 94-96)

Se è vero che il costrutto di malattia psicosomatica si diffonde già alla fine del diciannovesimo secolo, nel corso dei decenni successivi, Alexander ( 1950), Marty (1971), Ammon (1974) sono solo alcuni fra gli autori che hanno elaborato teorie per spiegare quelle patologie che si collocano fra mente e corpo. L’utenza del medico nelle cure primarie è eterogenea e caratterizzata da un ampio spettro di disturbi, rispetto ai quali il fattore psicologico può non presentarsi, oppure manifestarsi come elemento centrale o periferico. La medicina generale ha come compito il processo di diagnosi e di impostazione della cura che viene messo in atto grazie alle decisioni del medico, alla collaborazione del paziente, all’eventuale ricorso a test diagnostici e/o all’invio ad altri medici specialisti. Il processo diagnostico prevede la possibilità che il medico ipotizzi la presenza di fattori psicologici, implicati nel disturbo. Prendendo in prestito la distinzione fra “organic” e “disfunctional” citata da Porcelli (2009) in Medicina psicosomatica e psicologia clinica:

Per “organico” in psicosomatica si intende una condizione clinica in cui è documentabile una lesione d’organo mentre per “funzionale” si intende una condizione clinica in cui è colpita una funzione somatica ma senza evidenza di danno d’organo. La seconda coppia correlata alla prima è data dai termini “disease” e “Illness”. Entrambi sono traducibili come “malattia”, ma il primo si riferisce a una patologia di cui è nota l’eziologia (virus, deficit genetico, batterio ecc) mentre il secondo a un malessere o a un disturbo che non è determinato da un agente causale noto di tipo infettivo, genetico o ambientale. (p. 17)

Il fatto che un disturbo, in cui appare colpita una funzione somatica, non sia determinato da ragioni di tipo organico, diagnosticabili e diagnosticate, non significa necessariamente che entri in campo la componente psicologica. Alcuni eventi di natura organica infatti, spesso di passaggio, possono sfuggire alle indagini cliniche. E’ anche vero però che laddove ci si trovi davanti ad una compromissione a livello funzionale, quindi senza evidenza di danno d’organo, il medico prenderà in considerazione l’eventuale implicazione di aspetti psicologici. Se guardiamo ai pazienti con gli occhi del medico di base, mi sembra di particolare interesse il concetto di “peso relativo” (p. 91), cui fa riferimento Porcelli (2009): il clinico deve valutare quanto la componente psicologica sia implicata nel disturbo riportato dal paziente. In veste di primo fronte nei confronti dell’utenza, il medico delle cure primarie, avrà davanti a sé quattro categorie di casi:

  1. Malattie con evidenti cause organiche, che non hanno alcuna correlazione con aspetti psicologici. Dunque, nessun “peso” della componente psicologica.
  2. Disturbi funzionali, rispetto ai quali attraverso accertamenti clinici non si evidenzia nessun danno d’organo. Ipotizzabile quindi che il fattore psicologico abbia un “peso relativo”.
  3. Malattie con evidenti cause organiche alle quali si associano significativi elementi di natura psicologica (la stanchezza cronica o una percezione del dolore elevata, per esempio, in concomitanza con alcuni disturbi organici, non spiegate in modo esaustivo dagli stessi). “Il peso” della componente psicologica non è causa della malattia, ma interviene nel complicare e ampliare lo spettro dei sintomi.
  4. Disturbi psicologici, nei quali il “peso” della componente psicologica, appare centrale, esclusivo. Si tratta di pazienti che si presentano al medico di base con una sintomatologia più o meno ampia, il cui segno è evidentemente di ordine psicologico: disturbi del tono dell’umore, disturbi d’ansia ecc.

Quello che è già di per sé un processo complesso – la definizione della diagnosi e l’impostazione della cura- si arricchisce grazie all’eventuale presenza di un “peso” del fattore psicologico. Durante la fase diagnostica e terapeutica entra in gioco la qualità della comunicazione che intercorre fra medico e paziente, la fiducia che il paziente ripone nel medico e la sua disponibilità alla collaborazione, il senso di autoefficacia di entrambi. Lontani da un’ottica in cui il medico somministra una terapia ad una persona priva di ruolo nel contesto terapeutico, oggi, la narrativa del paziente circa il suo stato di salute, il suo approccio alla terapia, gli stati d’animo che lo accompagnano, sono centrali al fine della comunicazione della diagnosi, del processo di accertamento tramite esami di laboratorio, dell’impostazione della cura, della verifica di una guarigione avvenuta. McDougall (1990) dice in riferimento alle persone che riportano un disturbo psicosomatico

se ne ascolta la musica senza poter udire le parole. (p. 36)

Il “peso” della componente psicologica viene valutato non solo seguendo l’iter che comporta l’esclusione di altre cause, ma cercando di cogliere lo stato d’animo, il momento di vita, le relazioni familiari, la situazione lavorativa, la personalità, le condizioni fisiche, ascoltando quanto riportato dal paziente e cogliendo elementi non verbali che riguardano il tono della voce, la postura, la mimica facciale, ecc. Se il medico intende aprire la strada alla possibilità di accompagnare delle parole alla “musica” che sottintende il problema riportato, porterà avanti la conversazione con il paziente fino ad un eventuale invio ad un professionista della salute mentale attraverso un tipo di comunicazione che sia comprensibile e accettabile per lo stesso. Le parole “stress”, “emozioni”, “aspetti “psicologici”, vengono accolte con maggiore facilità dagli utenti della medicina generale, mentre “psicosomatico” è un’espressione che risulta di difficile collocazione agli occhi del paziente e meno appropriata all’interno di una comunicazione empatica. Che venga o meno accordato un “peso” significativo alla  componente psicologica rispetto alla genesi della malattia, il medico delle cure primarie cercherà di impostare una comunicazione con il paziente non solo sulla base della conoscenza delle caratteristiche personali dello stesso, ma anche ipotizzando quali stati di transizione accompagnano l’attuale momento di vita e l’esordio del disturbo. Fra gli stati di transizione più frequenti: l’ansia (il timore di non sentirsi in grado di affrontare l’evento malattia), la minaccia (il timore che la vita a causa della malattia cambierà in modo significativo), la colpa (il timore di aver causato, con i propri comportamenti, l’avanzare della malattia) e, infine, la tendenza a negare l’importanza, la significatività dell’evento. Farà fronte ai suddetti stati di transizione cercando un equilibrio fra la possibilità di non urtare la sensibilità del paziente e la possibilità di favorire l’autoefficacia dello stesso rispetto al farsi carico della cura. Infine, una nota in riferimento alle malattie croniche, le cui cause di frequente non sono legate ad aspetti psicologici, almeno non in modo esclusivo, ma rispetto alle quali il fattore psicologico diviene una dimensione che spesso accompagna il disturbo. La malattia cronica viene vissuta come un evento che turba l’equilibro del paziente e che genera spesso stati di ansia oltre che paura di andare incontro ad un cambiamento troppo significativo dello stile e della qualità della vita. Grazie alla conversazione, il medico ha la possibilità di verificare se la persona che ha davanti sta facendo fronte all’ ansia o ad una minaccia percepita: attraverso gli strumenti che ha a disposizione, se necessita di un suo intervento che lo aiuti a sostenere questa fase, oppure se è preferibile ipotizzare e favorire un invio ad un professionista della salute mentale.

 

Da lontano: gli effetti dell’emergenza Covid 19 e del confinamento nei bambini e nei ragazzi

Uno studio sugli effetti delle misure di contenimento del Covid-19 sui più piccoli. Quale impatto psicologico hanno avuto la pandemia e l’isolamento sui bambini e i ragazzi?

 

Quando ho deciso di occuparmi di questo piccolo studio stava terminando il mese di aprile e l’Italia si avviava ad uscire dal confinamento causa Emergenza Covid-19. Da più parti venne richiesta alle Istituzioni una maggiore attenzione alle esigenze dei bambini e dei ragazzi nella fase 2, giacché ormai da mesi permanevano in casa privati del contatto con i coetanei e con le altre persone importanti della loro vita che si trovavano al di fuori dello stretto ambito familiare.

Come Psicoterapeuta di lunga esperienza mobilitata dalle prime ore dell’emergenza sanitaria nella corretta informazione e nel trattamento del disagio psichico, constatavo delle criticità nei nuclei familiari e ricevevo richieste di rassicurazione in merito alle preoccupazioni dei genitori per le ricadute psicologiche su bambini e ragazzi causate dalla difficile, inattesa, a tratti sconvolgente situazione in cui ci siamo trovati a motivo della Pandemia da Coronavirus.

Imm. 1 – La pandemia da Covid-19 nei disegni dei bambini

Ho quindi pensato di elaborare un questionario ad hoc per valutare gli effetti di questi lunghi mesi di confinamento ed in particolare volto a mappare il cambiamento nei comportamenti e nei vissuti di bambini e ragazzi tra i 4 e i 15 anni appartenenti a diciotto nuclei familiari a me sconosciuti, individuati con la collaborazione dell’ambiente sanitario.

I genitori hanno scelto volentieri di collaborare al fine di individuare e “leggere” con l’aiuto della specialista le modificazioni delle abitudini, del tono dell’umore, della modalità di comunicazione dei figli durante la quarantena.

Il Questionario è composto da 46 domande con risposte strutturate su una scala Likert a 5 punti che vanno da “molto meno di prima” a “molto più di prima”, comprendendo le possibilità: né ora né prima, come prima e meno di prima.

I risultati sono stati degni di nota anche in considerazione del fatto che in precedenza a nessuno dei minori coinvolti era stato diagnosticato un disturbo psicologico.

In particolare si è evidenziato che:

  • il 18% dei bambini/ragazzi ha manifestato stati di tristezza ed apatia in misura maggiore rispetto a prima del confinamento;
  • Il 27% dei soggetti (tutti al di sotto dei 10 anni di età) ha avuto crisi di collera;
  • Il 45% ha espresso desiderio di contatto fisico (soprattutto tra i 6 e i 9 anni);
  • Il 22% ha avuto la tendenza ad alimentarsi troppo o male (in prevalenza nella fascia d’età 8-10 anni);
  • Il 32% è aumentato di peso, soprattutto i maschi;
  • Il 36% desiderava giocare ai videogiochi più di prima e ha richiesto di usare lo smartphone molto più di prima;
  • Il 45% ha espresso il desiderio di incontrare gli amici più di prima (di questi il 27% molto più di prima), mentre il 18% meno di prima.

I dati ci mostrano che la quarantena ha prodotto delle modificazioni importanti nel tono dell’umore, nelle abitudini alimentari, nell’utilizzo delle tecnologie e nei comportamenti dei bambini e dei ragazzi coinvolti nello studio. Di particolare rilevanza il dato sugli stati di tristezza e di apatia, che sommato a quello sulle crisi di collera, che nei bambini possono esitare nel Disturbo da disregolazione dell’umore dirompente, indica che quasi la metà del campione ha manifestato un abbattimento emotivo al limite del vissuto depressivo.

Il dato sul cambiamento in negativo delle abitudini alimentari, accostato a quello dell’incremento di peso, prevalentemente dei maschi, fa pensare ad un disagio psicologico acuito dall’esigenza, dei bambini-ragazzi, di reprimere i propri sentimenti a causa di stereotipi di genere ancora molto presenti nell’educazione, la qual cosa potrebbe aver favorito l’assunzione di cibo a scopo sedativo e/o consolatorio da monitorare nel tempo in modo che non sconfini in un disturbo della nutrizione e dell’alimentazione.

I dati relativi alla richiesta di utilizzo di computer e smartphone più e molto più di prima, collegati a quelli relativi alla ribellione alle regole, ci forniscono una immagine chiara di come le tecnologie, se pure indispensabili per garantire una continuità relazionale e didattica a distanza, tendano a creare dipendenza nei bambini e nei ragazzi, come del resto i genitori hanno confermato in fase di colloquio.

Quasi un minore su due ha manifestato per tutto il periodo del confinamento il desiderio di incontrare nuovamente i coetanei e tornare alle proprie attività soprattutto extrascolastiche in compagnia degli amici; il 18% che ha espresso tale desiderio meno di prima potrebbe segnalare una tendenza al ritiro (specie i più piccoli) o la comparsa di una sindrome della capanna (soprattutto i più grandi).

In circa la metà dei bambini / ragazzi soprattutto nella fascia di età 6-9 anni vi è stata una richiesta di maggiore contatto fisico con i genitori con la quale hanno verosimilmente cercato di compensare la deprivazione del contatto sociale, emotivo, fisico, affettivo e relazionale che stavano vivendo.

Allo scopo di sondare inoltre, le emozioni, i desideri e le mancanze dei bambini e dei ragazzi, ho deciso di effettuare una attenta analisi dei loro disegni eseguiti spontaneamente durante il confinamento ed in un caso subito dopo. Va sottolineato che il disegno è la via d’elezione per giungere all’inconscio del bambino, come enunciato da Morgestern, ma anche un gioco ed un prezioso strumento attraverso cui lo Psicologo-Psicoterapeuta può comprendere i conflitti, i traumi, le difese, le proiezioni, gli affetti del minore che nella rappresentazione grafica trasferisce se stesso.

Anche se ha trascorso la quarantena in una casa circondata dalla natura, ad O., 9 anni, manca tanto poter uscire per accompagnare la sua mamma a fare la spesa.

Rappresenta quindi, nel disegno a sinistra, la madre che si reca da sola al supermercato provvista della necessaria mascherina.

La bambina disegna inoltre un sole e delle nuvole dalle quali cade giù al suolo una fitta pioggia, segnale inequivocabile quest’ultimo di un forte stress. La raffigurazione del sole accanto al temporale, fa pensare a sentimenti contrastanti in O., compresenti e non ancora integrabili suscitati dalla percezione di una realtà perturbante ed incerta.

Imm. 2 – I disegni di O. (9 anni)

Il disagio che la situazione correlata al Coronavirus crea in O. si nota anche nel disegno centrale che è dedicato alla madre ed in cui si rappresenta piena di entusiasmo, ammiccante nell’atto di salutare ed in compagnia di un volto coperto dalla mascherina le cui gote sono rigate da lacrimoni, di un altro che manda a quel paese il virus e di un personaggio dagli occhi sgranati che non ha né naso né bocca. E’ evidente il bisogno della bambina di rassicurare la madre disegnando se stessa allegra e serena negando quindi il turbamento che prova al quale danno voce gli altri personaggi del disegno.

E’ interessante poi notare come un senso di vitalità maggiore, suggerito dalla solarità del colore giallo, compaia quando O. raffigura la natura che appare incontrastata laddove non ci sia la presenza dell’uomo.

Anche V., 7 anni, cerca di ostentare tranquillità nel disegno realizzato per la maestra che ricorda l’invio delle mascherine dalla Cina all’Italia in cui spiega cosa sia il Coronavirus, riproduce il famigerato arcobaleno con l’hashtag “andrà tutto bene” ma tradisce la forte nostalgia per la scuola in quel saluto “Ti voglio tanto tanto bene maestra Alessandra”. La bambina è particolarmente sensibile alle notizie relative all’emergenza sanitaria in quanto la mamma è infermiera e dunque coinvolta in prima persona nella lotta al virus: per la bambina sua madre è una super-eroina (disegno in alto a sinistra) alla quale dedica tanti cuori (elaborato in alto a destra).

Imm. 3 – I disegni di V. (7 anni)

La difficoltà che V. sente di attraversare nel periodo del confinamento assieme alla madre è ben rappresentata dal disegno in cui le due si incamminano verso un nuvolone minaccioso da cui si staccano alcuni enormi goccioloni di pioggia.

Imm. 4 – Disegno di V. (7 anni)

Per me che da tanti anni opero nella cura dei bambini e delle famiglie è stato emozionante assistere alla elaborazione spontanea di quello che è a tutti gli effetti un test carta-matita utilizzato dagli specialisti, quello della persona nella pioggia, variante di quello della figura umana di Machover che serve a valutare lo stress ambientale che il bambino si trova ad affrontare ed i suoi meccanismi di difesa.

Come si può osservare, rispetto ai disegni precedenti il colore scompare drasticamente ed anche se la piccola sembra mostrare fiducia nella possibilità di ripararsi con la mamma dalla situazione minacciosa sotto un grande ombrello, il nuvolone enorme e la pioggia sospesa (che non tocca terra) fanno pensare che il disagio esperito dalla bambina venga contemporaneamente percepito e banalizzato, indice, questo, della sua forza traumatica.

Toccante in un quadro così cupo quella dichiarazione d’amore alla madre scritta in alto a destra nel foglio e la fiducia che questo sentimento le salvi e le conduca fuori dalla difficoltà configurandosi come una stella polare che risplende nel cielo limpido (sotto la scritta).

I., 12 anni, e N., 7 anni, hanno trascorso la quarantena ad Exeter, città del Regno Unito in cui vivono con i genitori.

Ad I. manca tanto la scuola ed in particolare il contatto con la migliore amica indiana di cui disegna la piccola mano riportando una espressione gergale d’intesa “My hand, 1 hand”, a significare la loro grande amicizia (è molto bello notare il legame così forte tra ragazze provenienti da culture diverse, indiana ed italiana, in un contesto anglosassone che le ha perfettamente integrate ed in cui vivono in grande armonia).

Imm. 5 – Disegno di I. (12 anni)

N., invece, pensa che per affrontare la situazione ci siano delle azioni da compiere che scrive all’interno dell’arcobaleno (Be Brave, essere coraggioso, Be Happy, essere felice, Wash my hand, lavare le mie mani, Pray to God, pregare Dio, Help People, Aiutare le persone). Il bambino, che ha una indole introspettiva e spirituale, raffigura al di sopra dell’Iride alcune croci ed in basso a destra Gesù che ci guarda.

Imm. 6 – Disegno di N. (7 anni)

Anche a S., 8 anni, manca molto la sua amica del cuore e nei giorni del confinamento disegna in bianco e nero un parco giochi incolto e deserto in cui al posto dei bambini ci sono dei fiori giganti e distanziati. Rappresenta inoltre, in un altro disegno, un cuore doppio che piange e ride come a voler esprimere i suoi sentimenti contrastanti: da una parte la piacevolezza della sua nuova routine caratterizzata da attività di gioco e dalla compagnia dei genitori nonché il contatto virtuale con le maestre ed i compagni di classe, dall’altra la tristezza per non poter uscire e tornare alla normalità antecedente alla pandemia fatta di scuola, di giochi con gli amichetti, di attività sportive ed abbracci con i nonni cui pensa con struggimento.

Imm. 7 – Disegno di S. (8 anni)

Non appena si è potuto uscire, la bimba ha raggiunto la sua amica del cuore sperimentando un certo turbamento nel doverla incontrare con la mascherina e soprattutto nel non poterla toccare.

Questo disagio si ravvisa chiaramente nell’unico disegno in cui S. ha utilizzato i colori che sono certamente un segnale di gioia per il ricongiungimento ma dove emerge al contempo la scotomizzazione dell’altra bambina che non viene mai rappresentata, o perché deve ancora giungere, o in quanto fuori dalla scena, come se collocarla accanto a sé fosse un elemento conflittuale e/o perturbante.

Paradossalmente per qualcuno il confinamento ha rappresentato la possibilità di vivere con maggiore intensità gli affetti familiari. E’ ciò che è accaduto al piccolo R., 4 anni, che ha potuto avere l’attenzione del suo papà normalmente impegnato all’estero e, dal momento che gli è nato un fratellino un mese prima della Pandemia, le giornate sono scandite da tenerezze e giochi supervisionati dalla giovane, attenta e dolcissima mamma. La soddisfazione è tale che il bimbo effettua spesso disegni in cui ritrae l’intero nucleo familiare che è il fulcro degli affetti, delle norme ma soprattutto il primo contenitore psichico del bambino e non stupisce in tal senso che uno dei più importanti test carta matita sia proprio il disegno della famiglia di L. Corman.

Imm. 8 e 9 – Disegni di R. (4 anni)

Al piccolo M., 6 anni, è mancato tanto il nonno che lo affascina da sempre con i racconti che riguardano il suo lavoro in aeroporto.

Per questo il bambino ama spesso realizzare aeroplanini di carta. Durante il confinamento però la situazione gli ispira una creazione davvero speciale: dopo essersi ritratto tra mamma e papà, forma con il disegno un aeroplano, come a voler proiettare la propria famiglia al di là della situazione difficile vissuta.

Imm. 10 – Disegno di M. (6 anni)

L’esperienza di questa ricerca mi ha molto emozionata e resa consapevole del profondo impatto psicologico che hanno avuto sui bambini ed i ragazzi la Pandemia ed il confinamento.

Ai nuclei familiari che hanno aderito e partecipato con grande disponibilità a questa ricerca dico un commosso grazie, perché mi hanno fatto entrare nelle loro case, nelle loro vite, in quello spazio sacro dell’anima dove risiedono le paure, le ombre, ma anche i sentimenti, gli affetti e le speranze tra cui quella implicitamente condivisa, a volte affermata, altre sussurrata, a tratti taciuta, ma sempre presente, che tutto possa risolversi nel miglior modo possibile soprattutto per loro, i bambini ed i ragazzi che sono la parte più preziosa di noi ed il nostro futuro.

 

Mentre la tempesta colpiva forte (2020) di Alberto Pellai – Recensione del libro

Ndr: l’articolo è stato scritto prima degli ultimi DPCM

Sei lezioni, un percorso di miglioramento. Il libro Mentre la tempesta colpiva forte ci racconta come abbiamo imparato ad essere resilienti durante i mesi del lockdown a causa della pandemia da Covid-19. 

 

Alberto Pellai, medico e psicoterapeuta dell’età evolutiva, propone un nuovo libro che ci racconta cos’è successo durante il lockdown e come la tempesta di quell’oscuro periodo si è trasformata in un’occasione di crescita e di miglioramento come genitori e come famiglia.

Il Covid-19 ci ha fermati. Ci ha costretto a rimanere chiusi nelle nostre case. Ci ha costretto a pensare, a farci delle domande. Ci ha messo in crisi.

Ma non solo. Ci ha costretto a lavorare da casa, a stare 24/24h a stretto contatto con i nostri familiari.

Nessuno si aspettava questa situazione e mai avremmo voluto affrontarla. Ma così è stato e la nostra famiglia è diventata la culla in cui ricercare sicurezze che sembravano svanite. Grazie alla nostra famiglia abbiamo affrontato la bufera e, senza sapere come, questi mesi di tempesta si sono trasformati in un bellissimo arcobaleno.

Ed è proprio questo il ‘tesoro’ che ci ha lasciato il lockdown. Chiusi nelle nostre case con i nostri familiari siamo diventati più resilienti, più sicuri, più forti.

Questo libro parla proprio di questo, di come è stato possibile diventare più resilienti, di cosa sia successo all’interno delle nostre famiglie e di come lo sconvolgimento delle dinamiche familiari ci abbia in realtà aiutato a superare le paure e le ansie del periodo più intenso e spaventoso che ci ha travolto in questi mesi.

Il libro riesamina i fatti e gli eventi che si sono susseguiti durante l’isolamento. Inoltre, analizza come ci siamo comportati in relazione alle sfide quotidiane. Queste sono state i presupposti alla base del miglioramento delle nostre capacità nel superare eventi traumatici e di difficoltà.

Le sei lezioni di Alberto Pellai raccontano di come genitori e figli hanno sofferto insieme, hanno giocato insieme e hanno avuto il coraggio di affrontare unitamente la situazione senza mai arrendersi, senza avere paura di fallire. E alla fine sono riusciti a venirne fuori. Così la tempesta e la vulnerabilità di quel momento si sono trasformate in un punto di forza per tutta l’intera famiglia.

Il libro è quindi articolato come un percorso di miglioramento.

Questo miglioramento delle capacità di resilienza non deve essere dimenticato ora che le cose stanno ‘tornando alla normalità’. È utile esplorare questo percorso e tornare indietro sui propri passi ogni qual volta ci troviamo nuovamente in difficoltà.

È proprio questo il punto secondo l’autore: tutto ciò che abbiamo fronteggiato, tutto ciò che siamo diventati, tutti i miglioramenti che abbiamo fatto come genitori e figli sono una traccia di memoria che deve rimanere viva per aiutarci nel futuro. Le pagine del libro ci invitano a dare un significato a quello che abbiamo vissuto come genitori per poterne usufruirne nelle esperienze future. L’esperienza del lockdown in questo senso deve essere un valore aggiunto all’esperienza di genitore, un’occasione per ricominciare al meglio e in serenità. La resilienza familiare ci ha fatto scoprire qualità nuove, ci ha fatto riscoprire come persone, ci ha dato nuove competenze e consapevolezze come genitori. Tutte queste virtù le porteremo sempre in tasca e saranno lì pronte e a disposizione nei momenti di difficoltà, ma soprattutto nella vita di tutti i giorni. Ci aiuteranno a fronteggiare le sfide che ogni giorno affrontiamo nel ruolo di genitori.

Minority Stress e psicopatologia nelle minoranze sessuali e nelle persone Transgender

Le persone LGBT fanno parte di minoranze sessuali e sono quindi soggette al minority stress mediante eventi di vita esterni come la discriminazione, eccessiva vigilanza nell’anticipare i fattori esterni e internalizzazione delle credenze negative esterne.

 

La terminologia utilizzata nel mondo della sessualità è in costante evoluzione, e la gamma di vocaboli che definiscono le sfumature della sfera sessuale è molto ampia. L’acronimo LGBT, “Lesbian, Gay, Bisexual, Transgender”, racchiude in parte la denominazione relativa all’orientamento sessuale, “Lesbian, Gay, Bisexual”, e in parte quella relativa all’identità di genere nel caso dei “Transgender”. Per fare chiarezza sul lessico, transgender è una persona la cui identità di genere non coincide con il genere assegnato alla nascita, mentre una persona la cui identità di genere coincide con il genere assegnato è chiamato cisgender.

Le persone LGB e transgender condividono esperienze di vita caratterizzate da stigma e discriminazione, ma le comunità che le compongono sono a loro volta contraddistinte da molte diversità. Con il termine “Donna appartenente a Minoranza Sessuale” (DMS) indichiamo tutte quelle donne definite come non-eterosessuali. Esistono tre dimensioni di orientamento sessuale: identità sessuale (ad esempio gay), attrazione sessuale, comportamento sessuale. Le DMS sono considerate non-eterosessuali in almeno una di queste tre dimensioni, come ad esempio chi si identifica come eterosessuale, ma ha avuto partner sessuali donne. Le donne transgender sono persone alle quali è stato assegnato un sesso maschile alla nascita, ma si identificano come femmine. Secondo l’opinione comune, spesso queste ultime sono considerate eterosessuali, ma al contrariopossono identificarsi come lesbiche, bisessuali o queer, o sono sessualmente attratte o attive con altre donne.

Minority Stress è un termine che indica:

uno stato che interviene tra i fattori di stress sequenziali antecedenti a uno stato minoritario culturalmente sanzionato, il conseguente pregiudizio e discriminazione, l’impatto di queste forze sulla struttura cognitiva dell’individuo con il conseguente riadattamento o fallimento adattativo. (Brooks, 1981)

Meyer spiegò questo concetto sostenendo in altre parole che le minoranze sessuali sono soggette al minority stress in tre modi: il primo è mediante eventi di vita esterni come la discriminazione, mentre gli altri due sono stressors prossimali, che consistono nell’eccessiva vigilanza nell’anticipare i fattori esterni e nell’internalizzazione delle credenze negative esterne. Questi elementi rappresentano fattori di rischio che aumentano la probabilità dell’insorgenza di disturbi psicopatologici.

In seguito, sono illustrate le principali evidenze sulle psicopatologie che possono essere correlate al minority stress che affliggono le minoranze sessuali e le comunità LGBT. Le psicopatologie saranno poste a confronto esaminandone differenze di prevalenza tra minoranze sessuali, comunità LGBT, cisgender ed eterosessuali.

Immagine corporea e disturbi dell’alimentazione

  • Un sondaggio condotto su 289.024 studenti universitari statunitensi ha rivelato che su un totale di 3,27% di DMS, il 5.11% di esse avesse assunto pillole dimagranti, numero significativamente inferiore rispetto al 4.29% di universitarie eterosessuali che avevano assunto pillole dimigranti, su un totale di 61.06% donne eterosessuali (Diemer et al., 2014).
  • Secondo le evidenze raccolte da Gay and Lesbian Medical Association and LGBT health experts, le donne lesbiche tenderebbero ad essere maggiormente in sovrappeso o obese rispetto alle donne eterosessuali (GLMA, 2001).
  • Tra gli studi svolti sulle donne appartenenti alle comunità transgender, quello condotto da Vocks su 356 partecipanti provenienti da cliniche in Austria, Germania e Svizzera, ha rivelato che durante la transizione fisica queste erano meno soddisfatte del proprio peso e immagine corporea rispetto alle donne cisgender (Vocks et al., 2009).

Disturbi dell’umore e disturbi d’ansia

  • Da un’indagine sulla popolazione statunitense svolta da Bostwick e colleghi, è emerso che donne bisessuali avessero un rischio maggiore di sviluppare disturbi d’ansia o dell’umore rispetto a donne lesbiche ed eterosessuali; allo stesso tempo, dallo stesso studio emerge che donne con comportamento omosessuale fossero a minor rischio di sviluppare disturbi dell’umore e d’ansia rispetto alle eterosessuali (Bostwick et al., 2010).
  • Numerosi studi mostrano come la popolazione transgender presenterebbe un alto tasso di depressione (Clements-Nolle et al. 2006; Nuttbrock et al. 2010), ad esempio in uno studio svolto su 191 donne transgender in Ontario, la prevalenza di questo disturbo era stimato al 61% (Khobzi Rotondi, 2011).

Suicidio

  • Nella review e meta-analisi di Hottes e colleghi, si descrive come gli studi presi in analisi abbiano consistentemente mostrato tassi più elevati di suicidalità e di tentativi suicidari nelle DMS rispetto alle donne eterosessuali (Hottes et al., 2016).
  • Dati provenienti dalle California Quality of Life Surveys mostrano come il rischio di ideazione suicidaria fosse tre volte maggiore nelle donne bisessuali rispetto alle donne eterosessuali e due volte maggiore nelle donne omosessuali rispetto alle donne eterosessuali (Blosnich et al., 2016).
  • Con la National Transgender Discrimination Survey statunitense, si è scoperto che su 6.450 transgender intervistati,il 41% aveva tentato il suicidio (Grant et al., 2011).

Abuso di sostanze

  • Numerosi studi basati sulla popolazione statunitense mostrano come le partecipanti DMS presentassero un rischio maggiore di sviluppare un disturbo da uso di alcol rispetto alle donne eterosessuali (Drabble et al., 2005; McCabe et al., 2013); inoltre, secondo le ricerche svolte da McCabe e colleghi sul popolo USA nel 2013, le DMS partecipanti erano più inclini a sviluppare un disturbo da uso di sostanze (McCabe et al., 2013; McCabe et al., 2013).
  • Secondo i dati provenienti da campioni di comunità transgender statunitensi raccolti nell’ultimo decennio, le persone transgender presentavano livelli di abuso di alcol e sostanze maggiore rispetto alla controparte cisgender (Grant et al., 2011; Benotsch et al., 2013; Keuroghlian et al., 2015).

Considerazioni sui trattamenti

Le minoranze sessuali e le persone transgender affrontano diversi ostacoli nell’accesso a cure di qualità nell’ambito della salute mentale. Anche se disponibili a cercare aiuto, queste persone spesso scoprono che il personale sanitario non è ben istruito sui loro bisogni; inoltre sono molto diffidenti rispetto al trattamento della salute mentale a causa della lunga storia di patologizzazione e stigmatizzazione dell’omosessualità e dell’identità transgender.

Ci sono molti modi con cui gli esperti di salute mentale possono migliorare la qualità delle cure per le minoranze sessuali e per le donne transgender. Dal momento in cui un cliente entra in un servizio di salute mentale, cordialità, consapevolezza LGBT del personale e disponibilità di servizi igienici neutri rispetto al genere, segnalano la presenza di un ambiente accogliente in relazione a tale aspetto. Inoltre, sarebbe auspicabile nei clinici una maggiore formazione specialistica relativamente a tale tematica affinché gli operatori stessi possano essere parte attiva per favorire il decremento dello stigma, del pregiudizio e del minority stress.

 

Cibo per la mente: dalla fame nervosa alla mindful eating – VIDEO

Il Centro Clinico Studi Cognitivi Sassuolo ha tenuto un incontro online per parlare dell’impatto che il cibo può avere a livello cerebrale, della fame nervosa e di un nuovo metodo per imparare a nutrire consapevolmente il nostro cervello: la Mindful Eating. Per i nostri lettori, il video dell’incontro.

 

Molte sono le evidenze che il cibo rappresenti una fonte indispensabile per proteggere le funzioni mentali. Ciò che mangiamo, infatti, può influenzare i processi cerebrali in modi differenti: modulando le connessioni sinaptiche, regolando i neurotrasmettitori, modificando la fluidità delle membrane cellulari e la trasmissione dei segnali nervosi. Tali modificazioni possono andare ad impattare negativamente anche su stati emotivi dolorosi.

L’incontro organizzato da Centro Clinico Studi Cognitivi Sassuolo ha avuto come argomento l’impatto che il cibo può avere a livello cerebrale ed ha approfondito il tema della fame nervosa e della Mindful Eating, un nuovo metodo per imparare a nutrire consapevolmente il nostro cervello. Questo metodo, oltre ad avere un impatto sul funzionamento cerebrale, permette di gestire gli stati emotivi connessi alla routine di tutti i giorni (stress, ansia, ecc) in relazione al cibo.

L’incontro, tenuto dalla Dott.ssa Arianna Ferretti, è stato articolato in una parte teorica e una parte pratica composta da alcuni esercizi utili per imparare a prenderci cura della nostra mente. Per i nostri lettori, pubblichiamo il video dell’evento.

 

CIBO PER LA MENTE – Guarda il video integrale del webinar:

 

SCOPRI I PROSSIMI EVENTI IN PROGRAMMA >> CLICCA QUI

CENTRO CLINICO SASSUOLO >> CLICCA QUI

STUDI COGNITIVI MODENA >> CLICCA QUI

Amnesia digitale ed effetto Google: la nostra memoria estesa – Psicologia Digitale

L’amnesia digitale, digital amnesia, si differenzia dall’effetto Google, Google effect, perché la prima si riferisce alla tendenza a dimenticare le informazioni che sono memorizzate su un dispositivo digitale, mentre il secondo nello specifico alla tendenza a dimenticare ciò che si può trovare facilmente utilizzando i motori di ricerca online.

PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr. 14) Amnesia digitale ed effetto Google: la nostra memoria estesa

 

Anche se si tratta di due tendenze simili, ovvero dimenticare, sia intenzionalmente che involontariamente, informazioni che sono disponibili in formato digitale, amnesia digitale ed effetto Google non sono sinonimi.

L’amnesia digitale, digital amnesia, si differenzia dall’effetto Google, Google effect, perché la prima si riferisce alla tendenza a dimenticare le informazioni che sono memorizzate su un dispositivo digitale (come smartphone, tablet, computer), mentre il secondo nello specifico alla tendenza a dimenticare ciò che si può trovare facilmente utilizzando i motori di ricerca online.

L’amnesia digitale e l’effetto Google: cosa sono

Se adesso vi chiedessi quali sono i colori della bandiera della Nigeria probabilmente vi verrebbe in mente qualcosa ma non sareste sicuri della risposta. Così, lo chiedereste a Google. E Google vi risponderebbe in millisecondi e con esattezza, come sempre.

Siamo abituati ad ottenere risposte alle domande più disparate con un click. Nessuno sforzo, ormai è quasi un automatismo. Possiamo cercare – e trovare – su Google (o online in generale) qualsiasi informazione e curiosità, abbiamo accesso costante ad una memoria esterna illimitata.

A quanto pare ci siamo abituati a questa fonte illimitata e sempre disponibile di dati, tanto che abbiamo la tendenza a non ricordare informazioni che sappiamo di poter trovare facilmente online. E’ questo l’effetto Google, ovvero la tendenza a dimenticare le informazioni che possono essere facilmente trovate tramite motori di ricerca online.

I primi a descrivere il fenomeno sono stati Sparrow e colleghi nel 2011 che hanno testato quanto e come Internet sia diventata la nostra memoria esterna. I risultati principali della ricerca ci dicono che, anche quando sappiamo già la risposta, tendiamo comunque ad affidarci a Google per una verifica. In secondo luogo, tendiamo a non ricordare ciò che sappiamo essere disponibile online. Infine, è molto più probabile che le persone ricordino dove si trova l’informazione piuttosto che ricordare l’informazione stessa, proprio come se Google fosse una immensa libreria dove sappiamo dove andare a cercare ciò che ci serve quando ci serve.

Un altro enorme serbatoio di informazioni sono poi i dispositivi che usiamo quotidianamente, primo fra tutti lo smartphone. Alzi la mano chi si ricorda tutte le proprie password o chi sa ripetere – senza sbirciare sul cellulare! – il numero di telefono del partner. Pochi, e questo perché tendiamo ad affidare la memorizzazione di dati ai nostri dispositivi che riteniamo sempre a disposizione e sempre affidabili. Dimentichiamo quindi queste informazioni ed ecco perché questa dimenticanza viene chiamata ‘digital amnesia’. Il termine digital amnesia è stato coniato ufficialmente dal Laboratorio Kaspersky, un’azienda di sicurezza informatica che ha condotto una survey nel 2015-2016, prima in Europa e poi in Stati Uniti e India per un totale di oltre 6.000 rispondenti, per capire fino a che punto siamo dipendenti dalla tecnologia e il suo impatto sulla vita quotidiana.

In breve, l’immagine complessiva che ne è scaturita ci dice che Internet e dispositivi sono strumenti che vengono visti come ‘un’estensione del proprio cervello’ di cui non si può più fare a meno. Questa dipendenza non è ritenuta né un problema né un rischio, anzi gli intervistati si sono dichiarati contenti di poter fare affidamento su queste memorie esterne, anche quando sono consapevoli di non riuscire più a ricordare semplici dati come il numero di telefono del partner o un indirizzo. Sulla base di questi risultati il Kaspersky Lab ha coniato il termine “digital amnesia” – ovvero affidare la memorizzazione di informazioni a un dispositivo digitale.

Questa tendenza potrebbe avere un impatto sulla nostra memoria. C’è il rischio che la costante registrazione di informazioni sui dispositivi digitali ci renda meno propensi a trasferirle nella memoria a lungo termine e potrebbe anche incidere sul processo di memorizzazione, poiché usare solo la codifica digitale, per lo più visiva, rende più povero questo processo che di solito si avvale anche di altri input sensoriali.

Una nuova forma di memoria: la memoria transazionale digitale

Affidarsi a motori di ricerca o a dispositivi può essere considerata una forma di memoria transazionale (Sparrow et al., 2011). Quest’ultima, definita da Wegner nel 1985, implica la codifica, l’immagazzinamento e il recupero della conoscenza in maniera collettiva e condivisa tra membri di un gruppo. Gli individui sviluppano una “mente di gruppo”, una memoria estesa, un deposito condiviso di conoscenza. E’ un sistema potenziato, più complesso e potenzialmente più efficace di quello dei singoli. Pensiamo a sistemi come famiglia o ambiente di lavoro: i membri sviluppano una conoscenza di ciò che gli altri sanno (metaconoscenza) e sulla base di questa ogni individuo è consapevole di quali informazioni sono disponibili nel gruppo e da quale membro può recuperarle.

Wegner faceva riferimento a gruppi di persone; ora possiamo parlare di memoria transazionale digitale, dove il sistema è il mare magnum di conoscenza condivisa online.

L’amnesia digitale quindi non sarebbe che una risposta adattiva: includendo Internet e dispositivi come sistemi di memoria esterna sempre disponibili non si fa che modificare e ampliare risorse e modalità mnestiche.

Siamo sempre più in simbiosi con i nostri dispositivi digitali, sempre più interconnessi: abbiamo il vantaggio di avere accesso a una vasta gamma di informazioni. E quando le vorremo, sapremo dove e come cercarle.


EUROPEAN CONFERENCE OF DIGITAL PSYCHOLOGY

ISCRIZIONI APERTE >> Clicca qui per scoprirne di più

ECDP 2021 Virtual Forum - Banner 1600x900

Monogamia e tradimenti: la storia naturale della vicenda amorosa. L’innamoramento e la costruzione di una storia d’amore – Una serie di Roberto Lorenzini

Oggi pubblichiamo il settimo lavoro della serie di Roberto Lorenzini, dedicata al tema della monogamia e delle sue implicazioni psicologiche, affettive, relazionali e, perché no, sessuali. Lorenzini propone una tesi forte: la monogamia non funziona. E prosegue il suo racconto esplorando lo sviluppo della vicenda amorosa e la sua prima fase: l’innamoramento.

MONOGAMIA E TRADIMENTI – (Nr. 7) L’innamoramento e la costruzione di una storia d’amore

 

7. La storia naturale della vicenda amorosa

Tornando alla psicologia e dunque ai vissuti interiori esaminiamo la cosiddetta “Storia naturale della vicenda affettivo-sessuale” che magistralmente Roland Barthes (1979) ha descritto nel suo Frammenti di un discorso amoroso.

Distinguiamo tre fasi prima di riportare quanto presente in letteratura da parte di prestigiosi ricercatori.

7.1.1 L’innamoramento e la costruzione di una storia d’amore

Certamente la spinta all’incontro è stata evolutivamente selezionata e ad essa sono associate emozioni piacevoli per salvaguardarla da dimenticanze e trascuratezze (Alberoni 1979). Perché se ci dimenticassimo di fare l’amore o di mangiare sarebbe un disastro peggiore dell’innalzamento della temperatura. In accordo con Freud mi sembra, però, che essa non sia riducibile al solo ambito della sessualità e, intesa più genericamente come “libido”, sia motore di tutti gli altri sistemi relazionali interpersonali potendo in generale definirsi come energia psichica che spinge l’essere umano allo sviluppo, alla sua espansione e all’unificazione con gli altri e l’universo tutto. Così descritta sembrerebbe una spinta vitale esclusivamente positiva. Ma è proprio la sua inarrestabile potenza che la rende potenzialmente pericolosa quando è ostacolata. Infatti, quando una forza enorme destinata ad unire incontra barriere può travolgere tutto ciò che ne ostacola il cammino. Crimini terribili sono commessi in nome dell’amore quantunque si possa poi dire che non di vero amore si trattava. L’unica speranza di spiegare quale sia il vissuto dell’innamoramento sta nella possibilità che il lettore ricordi una volta in cui è stato innamorato. Altrimenti è come tentare di descrivere l’esperienza del colore e della luce ad un cieco dalla nascita o il sapore delle fragole a un portaombrelli (Lorenzini, 2020).

Soprattutto la prima volta le persone che vivono tale stato si chiedono cosa di inspiegabile, grandioso e incontrollabile gli stia capitando con uno stupore preoccupato che ricorda lo stato d’animo che segue una forte scossa di terremoto e lascia sospesi in attesa della replica, temuta devastante. Conoscere la diagnosi pare rassicurare e così, avvezzi a classificazioni categoriali, a mio avviso insufficienti, si interrogano se si tratti di “interesse”, “amicizia”, “infatuazione”, “passione”, “desiderio sessuale”, “amicizia”, “amicizia affettuosa”, “trombamicizia” nel linguaggio dei giovani, “innamoramento“, “voler bene” o vero e proprio “amore”. Per quanto riguarda le cause di tale stato possono spiegarselo come: l’incontro di due anime gemelle, il destino, la chimica e il sesso, il volere del Signore, e così via, a seconda delle credenze che hanno sul funzionamento del mondo e degli esseri umani (Popper, 1934, 1963, 1972). Ma cosa sperimenta in effetti la persona cui accade tale tempesta? Ovvero che è “fall in love” (uso controvoglia il termine inglese ma ben rappresenta l’evento come qualcosa che ci accade) (De Boere et al., 2012).

 

Possiamo ereditare i traumi dei nostri antenati?
 L’epigenetica può darci una risposta

L’epigenetica ci consente di studiare ed analizzare i meccanismi molecolari attraverso i quali le situazioni ambientali possono influenzare l’espressione genica senza modificare le sequenze inscritte nel DNA.

Giulia Balerci e Serena Pierantoni – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Eventi positivi o negativi, traumi o semplicemente eventi stressanti possono influenzare il comportamento umano nel tempo. L’aspetto rivoluzionario che alcuni studi stanno dimostrando riguarda la possibilità di una ‘trasmissione transgenerazionale’ del trauma a livello epigenetico.

In letteratura compaiono sempre più ricerche che dimostrano come gli effetti di un ambiente negativo si possano riflettere sulle generazioni future. Carestie, guerre e catastrofi naturali verificatesi durante la vita dei nonni sembra possano influenzare l’aspettativa media di vita dei nipoti, suggerendo dunque che le conseguenze di una condizione ambientale possono essere ereditate (Pembrey et al., 2006).

Una delle domande che affascina da sempre l’uomo è ‘come diventiamo quello che siamo?‘.

Per rispondere a tale domanda la ricerca in psicologia si sta impegnando nel cercare di comprendere come la predisposizione genetica e le esperienze salienti della vita possano modellare il comportamento umano e lo sviluppo psicologico.

Gli effetti di un trauma potrebbero essere legati ad alterazioni dell’espressione dei geni, che si perpetuano anche in assenza dell’evento che le ha generate. Al contrario della sequenza di DNA, che è per lo più statica per tutta la durata della vita, i marcatori epigenetici possono subire cambiamenti importanti nel corso dello sviluppo pur non alterando il codice genetico del DNA. L’epigenetica, dunque ci consente di studiare ed analizzare i meccanismi molecolari attraverso i quali le situazioni ambientali possono influenzare l’espressione genica senza modificare le sequenze inscritte nel DNA.

I cambiamenti epigenetici consistono in numerosi processi biochimici, tra cui metilazione e idrossimetilazione del DNA, acetilazione degli istoni, fosforilazione e ubiquitinazione.

Questi processi si dimostrano influenzati dall’esposizione ambientale e modellano l’attività trascrizionale dei geni senza cambiare il codice genetico sottostante.

È stato dimostrato che il trauma psicologico induce cambiamenti epigenetici che possono avere effetti a breve e lungo termine sulla funzione neuronale, sulla plasticità cerebrale e sugli adattamenti comportamentali agli stress psicologici (Zannas et al., 2015). In particolare, lo studio di Hannon et al. (2016) sull’epigenoma delle regioni della corteccia prefrontale di individui con diagnosi di schizofrenia, disturbo bipolare e controlli, ha identificato modifiche epigenetiche coinvolte nello sviluppo e nel metabolismo neuronale.

Un concetto importante che emerge dagli studi epigenetici nel Disturbo da Stress Post-Traumatico (PTSD) è che i cambiamenti della metilazione del DNA indotti dal trauma possono essere allele specifici e possono interagire in modo complesso con il patrimonio genetico e l’esposizione al trauma. Queste interazioni possono influenzare l’espressione dei geni coinvolti nelle risposte allo stress, nella funzione dei neurotrasmettitori e nella regolazione immunitaria, contribuendo alla generazione di endofenotipi di vulnerabilità o resilienza (Zannas et al., 2015).

Il PTSD si può manifestare in persone che hanno subito o hanno assistito a un evento traumatico, catastrofico o violento, oppure che sono venute a conoscenza di un’esperienza traumatica accaduta ad un familiare o una persona cara. Se la sofferenza si prolunga per oltre un mese dall’esposizione al trauma e interferisce significativamente con la vita lavorativa, sociale o scolastica dell’individuo, attraverso la comparsa di sintomi quali ricordi involontari ed intrusivi dell’evento, evitamento, alterazione negativa dei pensieri e delle emozioni, iperattivazione dell’arousal e della reattività, reazioni dissociative, intensa e prolungata sofferenza psicologica va posta la diagnosi di PTSD (American Psychiatric Association, 2014).

Un fattore da considerare è anche il momento dell’esposizione traumatica e la sua relazione temporale con i cambiamenti epigenetici e lo sviluppo di PTSD. Il trauma nelle prime fasi della vita è associato a cambiamenti epigenetici duraturi. Da studi recenti è stato dimostrato che la metilazione del DNA e l’acetilazione dell’istone sono coinvolti in ogni fase della memoria della paura, dal consolidamento iniziale all’estinzione e al potenziamento a lungo termine, processi che hanno dimostrato di essere alterati nei pazienti con PTSD (Zannas et al., 2015).

Diverse ricerche, condotte soprattutto su campione animale, stanno dimostrando che i cambiamenti indotti dallo stress nella metilazione del DNA possono essere ereditati.

Nello studio di Dias e Ressler (2014) si mostra come i topi a cui è stato insegnato a temere l’odore delle ciliegie abbinandolo ad una scossa elettrica, hanno avuto cuccioli (prima e seconda generazione) che hanno mostrato a loro volta segni di ansia quando venivano esposti a quello stesso odore, anche se non avevano mai appreso l’associazione dolorosa. Osservando il codice genetico della prole, i ricercatori hanno scoperto che uno dei geni olfattivi aveva sviluppato ipermetilazione del DNA. Un altro studio ha dimostrato che la separazione materna cronica e imprevedibile induce comportamenti depressivi, non solo nella prima generazione di topi, ma anche nella loro prole (Franklin et al., 2010).

Un ulteriore esempio di epigenetica comportamentale negli animali si trova nella ricerca condotta da Tracy Bale (neurobiologa alla University of Maryland School of Medicine), nella quale topi maschi sono stati allevati in modo da sperimentare un’infanzia traumatica inclinando le loro gabbie o lasciando le luci accese di notte, scoprendo che, in risposta, i topi avevano sviluppato un cambiamento nel loro comportamento genico in relazione a come affrontare lo stress. E l’aspetto ancora più interessante riguarda il fatto che anche la progenie di questi topi maschi è risultata meno reattiva agli ormoni dello stress rispetto a un gruppo di controllo (Barish, 2018).

Sembra dunque possibile che, oltre ad ereditare dai nostri nonni e bisnonni gioielli ed averi, potremmo ricevere in eredità anche dei marcatori epigenetici, che andrebbero a formare una sorta di memoria biologica delle esperienze e di ciò che questi hanno appreso nel corso della vita. Pensiamo alle storie sulle prigionie di guerra, l’olocausto, le carestie che ci sono state raccontate dai nostri antenati e riflettiamo su quanto sia affascinante pensare che una traccia delle paure, delle sofferenze e dei traumi vissuti possano essere impressi nel nostro epigenoma.

Possiamo descrive questo processo usando le parole di Mark Klein:

I miei genitori sono sopravvissuti all’Olocausto e, con ogni probabilità, hanno avuto la loro epigenetica profondamente influenzata da quell’esperienza. In un senso molto reale, quindi, l’Olocausto è stato impresso in ciascuna delle mie cellule, alla nascita, e lo stesso vale per Hannah, mia figlia. Le nostre esperienze possono così rimbalzare attraverso le generazioni a un livello biologico profondo: un pensiero che fa riflettere per un genitore (Kellermann, 2013).

Integrando fattori ereditari e ambientali, l’epigenetica aggiunge una nuova e più completa dimensione psicobiologica alla spiegazione della trasmissione transgenerazionale del trauma.

Un processo in cui un trauma che è accaduto alla prima generazione viene trasmesso alla seconda e terza generazione. Questa ipotesi suggestiva è confermata da diversi studi condotti su figli di sopravvissuti all’Olocausto, veterani di guerra, genitori affetti da PTSD che mostrano una marcata e generale vulnerabilità allo stress in assenza di esperienze traumatiche. Sembra che questi individui, che ora sono adulti, abbiano in qualche modo assorbito il trauma represso e insufficientemente elaborato dei loro genitori. Studi condotti sui gemelli hanno evidenziato che il rischio di PTSD è associato a una vulnerabilità genetica sottostante e che oltre il 30% della varianza associata al PTSD è correlata a una componente ereditaria, in particolare può essere osservata nei marcatori epigenetici che influenzano i modelli di espressione genica nel sistema nervoso (Skelton, et al., 2012). Ancora altri studi dimostrano che bambini di famiglie in cui almeno un genitore ha subito torture presentano sintomi psicopatologici, come sintomi depressivi, sintomi di stress post-traumatico, somatizzazione e disturbi comportamentali più spesso rispetto ai bambini di famiglie in cui nessuno dei genitori ha subito torture o violenze (Daud et al., 2005). Dal lavoro di Braga et al. (2012) emergono altri dati interessanti: dall’analisi di numerosi casi clinici di pazienti sopravvissuti all’Olocausto si più identificare una sorta di ‘sindrome del sopravvissuto’ che viene perpetuata da una generazione alla successiva; sempre studi su casi clinici riportano una vasta gamma di sintomi affettivi ed emotivi trasmessi nel corso delle generazioni quali sfiducia nel mondo, compromissione della funzione genitoriale, dolore cronico, incapacità di comunicare i sentimenti, paura costante del pericolo, pressione per il rendimento scolastico, ansia da separazione e iperprotettività all’interno del sistema familiare.

Secondo Kellerman (2013) sono diversi i fattori da considerare quando si tratta della trasmissione del trauma: modelli relazionali disfunzionali, paure e ansie dei genitori che poi possono influenzare lo stile genitoriale, comportamenti problematici dei figli, modelli socioculturali appresi ed inoltre il disturbo del genitore potrebbe essere trasferito geneticamente al bambino, che sarebbe quindi predisposto a determinate risposte allo stress biologico. La trasmissione del trauma potrebbe dunque dipendere da uno, da tutti o da una combinazione di questi fattori.

Un approccio simile è quello di Jablonka e Lamb (2005) i quali nel loro libro Evolution in Four Dimensions suggeriscono che la trasmissione intergenerazionale possa avvenire su vari livelli:

  • livello stabilito della genetica;
  • livello epigenetico che coinvolge variazioni nell’espressione dei geni durante i processi di sviluppo
    che vengono successivamente trasmesse durante la riproduzione;
  • livello di trasmissione delle tradizioni comportamentali (es. preferenze alimentari);
  • livello socioculturale, comprendente le tradizioni tramandate con il linguaggio e la cultura.

Nello studio della trasmissione transgenerazionale del trauma bisogna prestare una particolare attenzione a non confondere la trasmissione transgenerazionale con un’influenza diretta genitore-figlio. Ad esempio, genitori iperprotettivi attraverso i loro comportamenti possono trasmettere le loro paure ai figli rendendoli ansiosi, o ancora genitori affetti da PTSD condizionano i propri figli attraverso una sorta di contagio emotivo. In questi casi i bambini possono essere considerati essi stessi sopravvissuti al trauma primario. Mentre il processo di trasmissione transgenerazionale del trauma è più difficile da delineare, in questo caso il bambino eredita il dolore e la sofferenza dei genitori traumatizzati pur non entrandovi direttamente in contatto. In pratica la progenie dei sopravvissuti al trauma sarebbe in qualche modo ‘programmata’ per esprimere una specifica risposta cognitiva ed emotiva in determinate situazioni difficili. Nei figli di genitori con PTSD si innescherebbe un sistema disfunzionale che, ad esempio, può generare un attacco di panico e attivare la reazione di ‘lotta e fuga’ come se l’individuo si trovasse in una situazione minacciosa anche quando questa in realtà non lo è. Questa sorta di cortocircuito cerebrale causerebbe una maggiore vulnerabilità allo stress in determinate condizioni (Kellerman 2013).

Uno studio condotto da ricercatori del National Bureau of Economic Research sulla Guerra di Secessione (1863-1864) ha scoperto che i figli dei soldati dell’esercito dell’Unione che avevano vissuto condizioni estenuanti come prigionieri di guerra avevano maggiori probabilità di morire giovani rispetto ai figli di soldati che non erano stati fatti prigionieri. Poiché gli autori dello studio hanno esaminato altri fattori che potrebbero avere ripercussioni sulla longevità dei figli, come ad esempio lo stato socioeconomico e la qualità dei matrimoni dei genitori, ritengono che questo effetto sulla mortalità dipenda dall’epigenetica (Khazan, 2016).

Ancora dal lavoro di Yehuda e Lehrner (2018) emerge che i veterani di guerra dello Yom Kippur avevano maggiori probabilità di sviluppare un Disturbo da Stress Post-Traumatico (PTSD) in risposta al combattimento se avessero avuto un genitore sopravvissuto all’Olocausto.

Sebbene sia la trasmissione intergenerazionale sia quella transgenerazionale degli effetti delle avversità ambientali siano state stabilite in modelli animali, studi sull’uomo non hanno ancora dimostrato che gli effetti del trauma sono ereditabili. Tuttavia la ricerca si sta impegnando per comprendere quali siano i meccanismi coinvolti e come l’esperienza del trauma, o meglio l’effetto di tali esperienze, possa essere trasmesso da una generazione all’altra.

L’idea di poter indagare come l’aver ereditato un trauma dai nostri antenati possa influenzare il nostro modo di essere e la nostra vulnerabilità agli eventi stressanti della vita non è solo molto interessante, ma ci potrebbe dare la possibilità di prevedere le risposte individuali agli eventi traumatici offrendo così l’opportunità di indirizzare strategie preventive e interventi precoci per gli individui più vulnerabili. Lo sviluppo di nuove terapie potrà basarsi sulla nostra capacità di svelare le complessità dell’epigenoma nelle condizioni normali e di malattia. Le terapie epigenetiche sono promettenti per una vasta gamma di applicazioni biologiche, dal trattamento del cancro al ricorso alle cellule staminali (Hamm e Costa, 2011).

È importante sottolineare che l’esposizione al trauma non porta sempre allo sviluppo del PTSD, e che quindi i cambiamenti epigenetici a seguito dell’esposizione al trauma non provocano necessariamente un disturbo psicologico, ma, anzi, in alcuni casi possono determinare l’apprendimento di nuovi comportamenti per evitare l’esposizione al trauma o altri meccanismi adattativi. Il principio della plasticità epigenetica implica che le modifiche all’epigenoma potrebbero resettarsi quando le avversità ambientali non sono più presenti o quando sviluppiamo un modo alternativo per affrontare le sfide ambientali. In questo caso si può parlare di un costrutto che in psicologia è chiamato resilienza. La definizione di resilienza maggiormente condivisa in psicologia è quella dell’American Psychological Association (2020), che la descrive come:

un processo di riadattamento di fronte ad avversità, traumi, tragedie, minacce, o anche significative fonti di stress – come problemi familiari e relazionali, seri problemi di salute, o pesanti situazioni finanziarie e lavorative.

Ricordiamoci che alla base della resilienza umana vi è proprio la capacità di rispondere in modo flessibile agli stimoli ambientali e che proprio come i vissuti traumatici possono essere trasmessi transgenerazionalmente, così può esserlo anche la capacità di fronteggiare e superare il trauma, con lo sviluppo di meccanismi di resilienza da parte delle generazioni successive.

Lo sviluppo di questa risorsa psicologica avviene attraverso un percorso personale, le generazioni che ci hanno preceduto possono fungere da modelli di apprendimento tramandando strategie più o meno funzionali e ciascuno di noi esplorando i propri vissuti e significati, allenando la propria capacità introspettiva, sarà in grado di trovare la modalità più adatta e funzionale per affrontare e superare le avversità della vita.

Le mascherine: un nemico da combattere o un valido alleato?

A partire dall’11 marzo numerosi studi hanno indagato quali siano state le ripercussioni a livello psicologico del Covid-19 e del conseguente lockdown, ma si sa ancora poco sui risvolti legati all’uso delle mascherine.

 

Era l’11 marzo 2020 quando il Direttore Generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato che il focolaio internazionale di infezione da Covid-19 era da considerarsi una pandemia, sottolineando, tuttavia, che essa poteva ancora essere controllata (World Health Organization, 2020). Da quel momento in poi, le nostre vite sono drasticamente cambiate a causa di una serie di restrizioni e limitazioni volte a salvaguardare il nostro e l’altrui stato di salute. Nonostante le suddette restrizioni varino da paese a paese, sono tre le raccomandazioni che accomunano ciascuno di noi: distanziamento sociale, detersione frequente delle proprie mani e utilizzo delle mascherine.

A partire dalla sopracitata data, numerosi studi hanno indagato quali siano state le ripercussioni a livello psicologico, determinate dal Covid-19 e dal lockdown, ma si sa ancora poco rispetto alle risonanze determinate dall’uso delle mascherine. Combattere contro un nemico invisibile potrebbe far abbassare la percezione del rischio ma, in questo caso, la controprova più tangibile dell’esistenza e persistenza di questa pandemia, risulta essere la mascherina.

A livello teorico, alcuni autori (Scheid, Lupien, Ford & West, 2020) hanno ipotizzato come tale restrizione potrebbe andare ad incidere su alcuni bisogni fondamentali quali, ad esempio, l’autonomia individuale. Di fatti, quando le persone percepiscono una minaccia alla propria libertà di scelta, ciò comporta delle reazioni negative (Brehm & Brehm, 1981) come il mancato rispetto (Hornick, Jacobson, Orwin, Piesse & Kalton, 2008) o la rabbia (Rains, 2013).

Allo stesso tempo, inibire un’espressione emotiva, determina un decremento dell’intensità percepita della medesima (Oberman et al., 2007). L’avere dunque una parte del volto coperto condiziona la nostra capacità di riconoscimento emotivo che, a sua volta, determina un’influenza sulle nostre relazioni interpersonali (Oberman et al., 2007).

Un gruppo di ricercatori si è proposto di valutare l’associazione tra l’aumento dell’uso delle mascherine in Polonia e le manifestazioni psicopatologiche. La raccolta dati è stata condotta tra il 16 marzo e il 26 aprile 2020. Successivamente, i partecipanti (n= 2040) sono stati divisi in due gruppi, differenziati in base alla data di somministrazione del questionario. Nello specifico, il primo gruppo è stato valutato quando l’uso della mascherina era ancora sporadico, mentre il secondo, a seguito dell’intensificazione del suo utilizzo. Ad entrambi, è stato somministrato il General Health Questionnaire-28 (GHQ-28), volto ad indagare la frequenza, nelle quattro settimane precedenti, di specifici sintomi: ansia, insonnia, sintomi somatici, deterioramento sociale e depressione.

Coloro i quali sono stati valutati a seguito dell’aumento delle restrizioni riguardanti l’uso della mascherina, hanno ottenuto punteggi inferiori nel GHQ-28, rispetto all’altro gruppo.

Sulla base dei risultati ottenuti, gli autori hanno dunque concluso che l’utilizzo delle mascherine determini un aumento della percezione di protezione di sé e di solidarietà sociale che contribuiscono ad un incremento della salute mentale.

Di fatti le mascherine risultano essere il mezzo più evidente attraverso il quale anche il singolo può sentire di esercitare un ruolo attivo nella lotta contro il virus. Di conseguenza, ciò determina un aumento della percezione del controllo che, a sua volta, affievolisce il senso di impotenza (Folkaman & Greer, 2000) e l’ansia ad essa associata, generando al contempo, un senso di coesione sociale (Cheng et al., 2020).

Se tali benefici sono stati riscontrati all’interno di un campione appartenente alla popolazione generale, che risvolto potrebbe avere l’utilizzo delle mascherine su pazienti psichiatrici, in particolar modo su coloro i quali soffrono di un disturbo di ansia sociale?

Sulla base di alcuni resoconti riportati da Vaile Wright, direttrice della Health Care Innovation della American Psychological Association, indossare la mascherina tende ad alleviare i sintomi connessi a tale patologia, in quanto, quando il volto è coperto da una maschera, le espressioni e gli atteggiamenti vengono obnubilati, abbassando la carica ansiogena correlata alle interazioni sociali (Volpe, 2020).

Dunque, la direttrice sostiene che, qualora tali resoconti venissero confermati da evidenze empiriche, si potrebbe ipotizzare di includere l’utilizzo della mascherina all’interno di un più ampio progetto terapeutico per questi pazienti (Volpe, 2020).

 

Cosa significa accettare il dolore?

E se avessimo semplicemente dato una nostra personale interpretazione del concetto di accettazione del dolore? E se si trattasse di un semplice madornale errore?

 

Quando soffriamo per qualcosa, schiavi dell’espressione ‘parlane, così ti liberi!!’, tendiamo a riversare in modo più o meno incondizionato la forma di infelicità che ci attanaglia in quel preciso istante sul malcapitato familiare che siede a fianco a noi a tavola, sull’amico che per sua sfortuna ha telefonato proprio in quel momento, sul fidanzato che per definizione è obbligato ad ascoltare o sul parrucchiere che invece fa finta di ascoltare… aspetta… o era il contrario?

È come se il nostro cervello interpretasse l’accettazione non nel suo sinonimo più logico di ‘comprensione’, ma nel senso più letterale del termine, cioè come derivato del verbo accettare, dividere, frammentare, per cui quando viviamo una situazione che dentro di noi genera sofferenza la nostra mente non trova di meglio che reputare vincente la scelta di spezzettare il fardello come si fa con una pagnotta, e donarne un pezzo a Michele, un pezzo a Maurizio, un pezzo a Marianna e così via.

Nella nostra infinità bontà, vogliamo saziare tutte le persone che ci circondano con i nostri problemi. Alla faccia della fame del mondo.

Negli Stati Uniti è stata stilata una classifica delle parole che le persone utilizzano di più durante le telefonate con la mamma, l’amico, il nemico, la moglie, l’amante, il collega, il cane, il gatto eccetera e… rullo di tamburi… la parola che ripetiamo più spesso è: ‘IO’.

D’altronde: esiste qualcosa di più importante dei nostri problemi in una società che esalta il concetto di condivisione, e che vacilla solo a sentir pronunciare la parola solitudine considerata oramai quasi come una forma di iettatura?

Lungi da me definire un errore relazionarsi con gli altri per avere un consiglio sui nostri insopportabili grattacapi.

E poco importa se i problemi sono reali o è semplicemente la nostra mente che rende vivo un pensiero che, per sua stessa definizione e natura, rimarrebbe appunto solo un pensiero.

Quindi non ti preoccupare.

Nessuno vuole privarti della gioia di donare metà della tua pagnotta a chi desideri.

Cerca, casomai, di trovare il coraggio di conservarne un pezzetto anche per te.

Nel nostro (infinito) egoismo, infatti, siamo perennemente convinti che ‘nessuno ci capisce’.

Ma non è che nessuno ci capisce perché neanche noi, in definitiva, non sappiamo bene cosa vogliamo?

Non appena ci capita un fuoco tra le mani, cerchiamo in tutti i modi di liberarcene per paura di rimanere scottati, e siamo convinti che sarà proprio la società liquida di cui parlava il sociologo Bauman ad aiutarci a spegnere definitivamente il nostro divampante incendio.

Ma bruciamoci! Che sarà mai?

Nella drammatica (e a volte comica) ossessiva ricerca di qualcuno disposto ad ascoltare le nostre miserie per regalargli così il nostro più profondo dolore con l’assurda convinzione che in questo modo porremo fine alle sofferenze, perdiamo di vista la cosa fondamentale.

Il nostro errore non consiste nel cercare un po’ di naturale e legittimo sostegno negli altri (alla fine, non è ciò di cui abbiamo bisogno tutti?) ma bensì nel fatto che consideriamo il vomitare i nostri problemi addosso agli altri, il solo tramite per sfuggire alla sofferenza!

Certo che provi una paura fottuta a rimanere nella stessa stanza con il tuo dolore.

Certo che inquieta cercare di risolvere da soli le schifezze della nostra vita.

Certo che è più facile evitare l’angoscia, il fastidio o la noia, piuttosto che affrontarli a viso aperto.

Non riusciamo a stare da soli con i nostri pensieri negativi, figuriamoci a rimanere a tu per tu con la sofferenza!

Dovremmo prendere esempio da Uma Thurman, che nonostante la sua forma acuta di claustrofobia, per esigenze di copione ha accettato di essere sepolta viva un metro sotto terra e in una bara nel film Kill Bill Vol. 2.

Dopo le riprese ha dichiarato: ‘Non c’era bisogno di recitare durante quella scena. Le mie urla erano vere’.

Ciò nonostante, ha affrontato il suo demone.

Non voglio dire che dobbiamo arrivare a farci seppellire sottoterra, ma sembra che facciamo di tutto per non sentirci responsabili per quelle situazioni per le quali nove volte su dieci siamo i soli ad essere responsabili.

Diciamoci la verità: non abbiamo la minima voglia di approfondire i nostri problemi.

E non vogliamo accettarli perché, semplicemente, a noi basta svuotarci.

Se ci pensi bene, anche durante i momenti di relax gestiamo quattro-cinque cose contemporaneamente (tra l’altro tutte male) perché abbiamo paura di affrontare le nostre scottanti questioni e siamo convinti che non pensandoci o affidandole agli altri prima o poi spariranno da sole, come per magia.

Svegliati Houdini, perché non è così.

Il fatto è che tendi a riempirti le giornate con cazzate perché consideri molto più liberatorio parlare con la tua amica Elisabetta di quanto sia cambiato il tuo fidanzato che prima aveva occhi solo per te e adesso si è comprato un paio di Rayban oscurati per nascondere il fatto che ha occhi solo per le altre, piuttosto che affrontare il perché abbia avuto tale metamorfosi e cercare di sforzarti di capire cosa puoi realmente fare per migliorare la tua relazione dato per assodato che, ahimè, non è un pacco e che non puoi restituirlo come con Amazon, ma al massimo puoi rimandarlo a sua madre (ma se è furba neanche lei si riprende quel vecchio rottame che, chissà come, è riuscita ad affibbiarti).

È proprio vero quel detto ‘quando l’amore c’è, parli con lui escludendo tutti gli altri, ma quando è in crisi parli con tutti gli altri escludendo lui’.

Massimo Troisi nel film Pensavo fosse amore invece era un calesse, agli amici che a turno si presentavano a casa sua per tentare a tutti i costi di consolarlo, e che si prodigavano per non lasciarlo solo visto la cocente delusione d’amore che aveva subito, ripeteva:

Andate via vi prego. Lasciatemi soffrire tranquillo. Chi vi chiede niente a voi? Vi ho chiesto qualcosa? No. Voglio solo soffrire bene. Mi distraete. Non mi riesco a concentrare. Con voi qua per casa non ci riesco. Soffro male, soffro poco, non mi diverto. Non c’è quella bella sofferenza!‘.

Mi distraete dal dolore, ripete nel film.

Esiste un esempio più chiaro di consapevolezza del dolore?

Non possiamo liberarci dal dolore senza averlo accettato.

E decidere di accettarlo significa essere disposti ad assaporarlo, significa viverlo.

Significa mettersi in discussione.

Significa prendere coscienza che siamo fallibili e che commettiamo errori.

Significa che se la tua ragazza ti lascia forse è riduttivo etichettarla solo come una povera immatura.

Significa capire che se hanno promosso il tuo collega, non è necessariamente detto che sia un raccomandato ma, forse, è solo più bravo di te.

Significa sentirsi a proprio agio con il fallimento.

Significa accettare di aver perso.

Significa accettare di soffrire da soli per un po’.

Significa bruciarsi.

Ma bruciamoci! Che sarà mai?

 

La diagnosi in mezzo a un guado: siamo pronti a farci traghettare da processi, dimensioni e tratti?

Uno dei temi centrali, direi fondativi, della psicoterapia è la diagnosi e il sistema nosografico sul quale questa si sostiene.

Il puzzle diagnostico

Sia chi osteggia e denigra ogni forma diagnostica sia chi difende a spada tratta il proprio modello deve prima o poi giungere ad una formulazione del caso. Cosa dice il cliente quando parla della sua sofferenza? Perché manifesta proprio quel tipo di sofferenza? Come si è originata? Cosa la mantiene ed impedisce che la persona stia meglio? Quali tentativi ha finora sperimentato per superarla?

Queste sono alcune tra le numerose domande che un terapeuta si pone nell’intraprendere assieme al proprio cliente un percorso di auspicabile cambiamento. Ma come una sorta di gioco di prestigio in cui il mago non sembra mai finire di estrarre fazzoletti colorati, la diagnosi porta con sé la nosografia, la teoria della cura, della tecnica, della relazione e chi più ne ha più ne metta. E come un telefono senza fili, ad ogni passaggio l’informazione rischia sempre di essere distorta e travisata, e siamo tutti convinti di aver perfettamente compreso ed espresso ancor più chiaramente!

Esempio eclatante di questa babele è la recente evoluzione della CBT (Cognitive Behavioral Therapy) o meglio di quella cornice che Steven Hayes contribuì a definire Third Wave (terza onda o ondata) e che oggi include forme assai diverse di psicoterapie evidence-based (Hayes & Hofmann, 2020). Sì, perché Aaron Beck, fondatore della CBT, creò le basi del suo successo anche grazie alla continua attenzione alle prove di efficacia. Con Beck la psicoterapia riconosce, senza se e senza ma, che non posso dire se quel che faccio è efficace se non posso dimostrare cosa ho fatto e perché l’ho fatto!

E fin qui niente da segnalare o eccepire. Ma come in ogni storia degna di interesse, giunge un però. O meglio giunge la Terza Onda a rovinare i piani e a mostrare un accavallarsi di comorbidità nelle diagnosi (quelli che si credeva fossero depressi, erano anche ansiosi e un po’ evitanti) e di evidenze in favore di interventi che hanno dei target che fino ad allora non consideravamo evidence-based (la mindfulness funziona dimenticandosi la ristrutturazione cognitiva e concentrandosi sull’attenzione).

Con cosa sostituiamo le categorie?

La Terza Onda ha risposto alle critiche più ricorrenti alla CBT focalizzandosi sempre più sui processi. E questo cambiamento si è legato ad interventi basati su mindfulness, accettazione ed in genere ad una ritrovata prospettiva mind-body. In forme diverse tutti hanno cercato di mantenere alcune componenti base del lavoro di Beck: i belief hanno incontrato gli schemi, i pensieri automatici i rimuginii, la ristrutturazione cognitiva l’imagery, e tanto altro ancora. Ognuno però ci ha messo del suo, o meglio ognuno ha preso quel che già esisteva rielaborandolo secondo la propria prospettiva.

Uno dei rompicapi su cui tutti però ci perdiamo è come mettere assieme una diagnosi che decantiamo non più categoriale con due dati: uno osservato, uno latente. Quello osservato è la mole innegabile di evidenze a favore della significatività statistica, predittività longitudinale e rilevanza clinica di tratti e processi. Quello latente è l’uso da parte di tutti gli alfieri della Terza Onda e non solo di dimensioni e fattori transdiagnostici pur dichiarandosi spesso fieri oppositori delle teorie dei tratti e dei processi.

Purtroppo, sui tratti incombe una sorta di pregiudizio morale simile a quello sulla genetica, come se il sapere che non supererò mai i 181 centimetri di altezza e non sarò mai una persona spontaneamente ordinata annulli il mio libero arbitrio! Ritengo che se riconosciamo l’utilità di un approccio evidence-based come la CBT non possiamo poi affermare che le soverchianti evidenze a favore di modelli quali Big Five (Widiger et al., 2013), HiTOP (Kotov et al., 2017), AMPD (Waugh et al., 2017) e RDOC (Cuthbert & Kozak, 2013) sviliscano la natura dell’uomo e non permettano di comprendere il funzionamento dei nostri clienti. La sensazione è che davvero siamo ad un guado. In cui coloro che hanno contribuito a dar valore alla Terza Onda mostrano chiaramente quale sia la direzione per uscir dal fiume. Nessuno ad oggi ha chiaro cosa vi sia là oltre e in molti vorremmo tener almeno un piede sulla sponda nota.

3 idee per far pace (si spera) con i tratti

Il lettore si starà chiedendo, con fastidio o curiosità, dove io voglia andar a parare e quali siano le risposte che offro. Ecco, mi spiace deludere, ma verrei meno alle premesse del mio discorso se sollevassi un velo per mostrare chissà quale mirabolante soluzione. I fenomeni complessi richiedono modelli complessi (Del Giudice, 2020). Quello che posso delineare è un tentativo parziale che sia coerente con quanto la letteratura sembra suggerire.

  • Processi e tratti. L’uso di una sola prospettiva o modello sarà necessariamente fallace, così come l’assenza di dettagliate rilevazioni tramite strumenti autosomministrati e interviste. L’avanguardia della ricerca in tale ambito sta portando avanti due filoni fondamentali (Samuel & Lynam, 2019): l’integrazione di misure su tratti di personalità e processi transdiagnostici al fine di individuare fattori comuni di psicopatologia; una visione sempre più tempo-dipendente delle rilevazioni che valorizzi il variare di queste piuttosto che la loro staticità. In pratica, significa che visto riconosciamo sempre più la rilevanza della gravità psicopatologica (si pensi alla mai dimenticata scala di funzionamento del DSM-IV-TR o al criterio a dell’AMPD) è importante indagare quali tratti o processi si associano (nonché spiegano e predicono) tale gravità. Al contempo abbandonando le categorie per la loro instabilità esplicativa, conviene monitorare più volte l’andamento dei famigerati processi e tratti. Sempre più studi ci dicono che perfino la personalità si modula e varia nel tempo e la forma di tale variazione sembra essere essa stessa un predittore psicopatologico. Personalmente integro sempre misure autosomministrate e interviste basate su DSM-5, Big Five e specifici processi e dimensioni. E per la sfortuna dei miei clienti ripeto più volte tali rilevazioni.
  • Dai tratti alle traiettorie. Big Five e DSM-5 ci offrono ad esempio spaccati diversi non solo del problema presentato, ma anche del funzionamento della persona. I dati ci dicono che il Big Five coglie una sorta di architettura base della personalità che tende ad essere abbastanza stabile del tempo e slegata da eventuali interventi psicoterapeutici. Se la mia configurazione si caratterizza per un elevato nevroticismo, fasi specifiche della mia vita (es. un nuovo lavoro particolarmente gratificante) o un intervento orientato al cambiamento (es. psicoterapia) possono mostrare una riduzione dei punteggi. Ciononostante, l’architettura mostrerà sempre una certa rilevanza del nevroticismo. E dunque avere come target terapeutico un punteggio al disotto della media normativa parrebbe poco sensato sia per il terapeuta che per il cliente. I tratti che emergono invece dall’AMPD o da misure transdiagnostiche specifiche ci aiutano ad individuare quella che in precision medicine si definisce una traiettoria (Zimmerman et al., 2019). Ovvero come l’architettura di personalità (es. nevroticismo) o specifici spectra (es. internalizzante) si evolvono nel tempo manifestando forme diverse di sofferenza e di tentativi di adattamento a questa. La stessa persona con elevato nevroticismo sembra caratterizzarsi da sempre per uno spettro internalizzante, ha sviluppato forme di autocritica e perfezionismo per auto-regolarsi di fronte ad un ambiente familiare invalidante e oggi si presenta al nostro studio riportando i criteri per soddisfare un disturbo ossessivo compulsivo di personalità (DOCP). Non avendo ad oggi un modello inattaccabile, vedere lo stesso problema da prospettive diverse, anche categoriali, riduce il rischio del famigerato bias di conferma, leggasi raccontarsela!
  • Il contratto terapeutico. Se abbiamo tutte queste informazioni, come decidiamo su cosa agire? È bene ricordarsi che la domanda sanitaria è dell’utente non del professionista! Ergo, non siamo noi a decidere se si lavora su una manifestazione sintomatologica (es. sintomi depressivi ricorrenti) in tempi relativamente brevi o su una traiettoria di personalità (es. DOCP) in tempi necessariamente medio-lunghi. Quel che sta a noi è esser chiari nell’offerta sanitaria ed avere auspicabilmente alle spalle una équipe o una rete di invii. Sempre per l’onnipresente bias di conferma rischiamo altrimenti di crederci tuttologi. Concordare 8 sedute per lavorare solo sui sintomi depressivi (come ci troviamo a fare nei sistemi sanitari pubblici) non è un’offesa agli dèi della psicoterapia, è la risultante di un sano bilanciamento tra vincoli e possibilità. Ovviamente con la premessa di co-costruire un contratto terapeutico chiaro in cui si spiega cosa si può fare e cosa no. Al contempo, usare la comprensione del funzionamento di personalità per un intervento breve non è farsi distrarre (Wright et al., 2019). È di nuovo aver chiaro i vincoli e dunque le possibilità del nostro agire. Si vedano gli innumerevoli studi sui non-rispondenti alle terapie standard per sintomi ansiosi, depressivi o post-traumatici. Similmente se concordiamo di lavorare sulla personalità non ci dobbiamo dimenticare dei sintomi, sapendo che efficacia e alleanza terapeutica saranno ben più solide se possiamo offrire una precoce riduzione di quegli stessi sintomi (Flückiger et al., 2020).

In conclusione, sì siamo in mezzo ad un guado. Sappiamo che la riva da cui giungiamo è ormai alle nostre spalle e che la direzione intrapresa ci porta innanzi. Tratti, processi e dimensioni sono forse appigli instabili, ma sembrano andare nella direzione auspicata.

“L’apparizione dell’idiota”, la psiche nel teatro

Nel teatro, come nel cinema, talvolta è interessante trovare in modo naturale, senza neanche cercare, temi rilevanti di psicologia. “L’apparizione dell’idiota” di fatto sembra proprio focalizzarsi su alcuni ambiti psicologici quali il cambio di prospettiva, l’incontro col vuoto, il controllo e tanto altro che appartiene alla quotidianità dell’essere umano.

 

E’ proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un’altra prospettiva.

Questa citazione di Robin Williams ne L’attimo fuggente sembra racchiudere il significato dello spettacolo teatrale, tratto dall’omonimo e-book di Marcello Linfatti, L’apparizione dell’idiota.

La rappresentazione, che ha avuto luogo al Teatro delle Muse di Roma nelle serate del 17 e del 18 Settembre 2020, prende in considerazione più temi riguardanti l’intrapsichico e le relazioni interpersonali.

I vari personaggi della vicenda sembrano essere le voci interne di ciascun essere umano in lotta tra loro. Dentro ognuno di noi, infatti, coesiste la propria voce e quelle degli altri che abbiamo incamerato a modo nostro. Spesso è difficile far valere il proprio punto di vista dentro di sé, quando in gioco ci sono emozioni come la paura.

In realtà ognuno di noi ha le basi per sapere cosa è meglio e cosa no per se stesso e questo è uno dei messaggi che vengono esplicitati durante lo spettacolo, attraverso il monologo di Giangiangi. Attraverso un fiume di parole questo personaggio si libera, vomitando il suo disprezzo per le limitazioni che gli uomini si sono posti da soli per vivere.

Lo spettacolo, ambientato in un futuro distopico, mostra un nonno che racconta ad una nipote in che modo l’essere umano si sia rovinato da solo. Il primo passaggio che ha permesso questo è la difficoltà umana di restare col vuoto, che ha spinto gli uomini stessi a creare un sistema basato sul fare, da qui il termine “i facitori”,e che non permette di “stare” con le proprie emozioni. L’angoscia scatenata dal vuoto è tanto difficile da sperimentare che si preferisce avere la parvenza di mantenere il più possibile di quello che ci è dato sotto controllo.

Infatti descrive un falso vivere, che può essere tradotto in un sopravvivere, divenuto tale per la mancanza di coraggio di incontrare le proprie emozioni e prendersi la responsabilità di quello che si vuole per se stessi.

I momenti in cui appare “l’idiota”, da cui il titolo del libro e dello spettacolo, sono illuminanti e la sua voce sembra essere quella dentro di noi, mai sopita, ma nascosta bene talvolta, che combatte con la visione altrui di come si dovrebbe agire, pensare o essere.

Gli “idioti” sono coloro che non hanno smesso di guardare gli avvenimenti sotto un’altra prospettiva, di interrogarsi riguardo a quello che accade, di incuriosirsi rispetto a se stessi e al proprio modo di pensare, come lo stimolante Gregory Bateson. Aderire alle voci degli altri che abbiamo incamerato dentro di noi è forse più semplice e in alcuni casi ci permette di sopravvivere, ma non di vivere.

Questo spettacolo, similmente al libro Se incontri il Buddha per la strada uccidilo di Sheldon B. Kopp, sembra avere la funzione di entrare in contatto con le parti più autentiche di noi. Grazie al pensiero e agli studi di persone come Kopp e Bateson ci si può interrogare su quanto talvolta sia meno semplice, ma più proficuo, uscire dal tracciato per cercare la strada migliore per sé.

 

Bisogni primari: anoressia nervosa, disfunzioni sessuali e attaccamento

Sembra che il recupero della normale funzione sessuale sia un importante predittore nei pazienti con anoressia nervosa, in quanto indice di un “contatto sano” con il proprio corpo

 

L’anoressia nervosa è un disturbo alimentare riportato nel DSM-5 all’interno dei disturbi della nutrizione e dell’alimentazione. I criteri definiscono tale disturbo come consistente in una restrizione dell’introito energetico rispetto al fabbisogno in relazione all’età, alla traiettoria evolutiva, al sesso e alla salute fisica (APA, 2013) con una severa perdita di peso, paura di ingrassare con conseguente comportamento che interferisce con l’aumento di peso e con un grado di severità legato al BMI (indice di massa corporea).

A differenza delle precedenti edizioni del DSM, nella quinta edizione i disturbi della sfera sessuale sono divisi in tre categorie distinte: disfunzioni sessuali, parafilie e disforie di genere (APA, 2013).

Secondo Maslow (1954) sessualità e fame sono due bisogni naturali e fisiologici legati a esigenze primarie, nello specifico sono necessari per la sopravvivenza dell’individuo.

Molti studi si sono focalizzati su una possibile correlazione tra diminuzione del desiderio sessuale e disturbi alimentari (Castellini et al., 2019) non come conseguenza del sottopeso, bensì come un problema specifico profondamente legato alla percezione disturbata della propria immagine corporea, il disagio percepito e la restrizione dietetica (Castellini et al., 2012; 2017). Studi di follow-up hanno evidenziato come il recupero della normale funzione sessuale sia un importante predittore nei pazienti con anoressia nervosa, in quanto indice di un “contatto sano” con il proprio corpo (Castellini et al., 2019).

Brassard e colleghi (2007) hanno osservato come uno stile di attaccamento evitante è correlato maggiormente alla riduzione di desiderio sessuale rispetto ad uno stile di attaccamento ansioso. Butzer e colleghi (2008) hanno evidenziato come entrambi gli stili di attaccamento determinano nei soggetti una riduzione della soddisfazione sessuale.

Di recente Cassioli e colleghi (2019) hanno condotto uno studio osservazionale presso la clinica di disturbi alimentari nell’università di Firenze, per comprendere (1) la relazione tra disfunzioni sessuali e alterazioni legate all’immagine corporea, (2) la relazione tra disfunzioni sessuali e attaccamento insicuro, (3) il ruolo del corpo come mediatore tra disturbi alimentari e riduzione del desiderio sessuale, infine (4) il ruolo dello stile di attaccamento come mediatore tra disturbi alimentari, alterazione della percezione dell’immagine corporea e riduzione del desiderio sessuale. I ricercatori hanno somministrato i questionari (come la Symptom Checklist-90, Eating Disorder Examination Questionnaire, Identity and Eating Disorders, Attachment Style Questionnaire e la versione breve del Childhood Trauma Questionnaire) ad un gruppo sperimentale composto da 111 donne adulte con anoressia nervosa e ad un gruppo di controllo composto da 120 soggetti in salute.

I risultati hanno evidenziato come le pazienti del gruppo sperimentale hanno risultati più bassi rispetto al gruppo di controllo in tutte le aree indagate (Cassioli et al., 2019). Un desiderio sessuale basso era associato alla psicopatologia specifica dei disturbi alimentari, al tipo di attaccamento e alla percezione della propria immagine. La restrizione dietetica è associata a una riduzione del desiderio sessuale attraverso una chiusura e un disagio provati a causa di un disturbo della percezione del proprio corpo.

Questo studio (Cassioli et al., 2019) suggerisce come un disturbo legato percezione corporea, mantenuto da un comportamento alimentare disfunzionale, giochi un ruolo chiave nello sviluppo di disfunzioni sessuali in pazienti con disturbi alimentari, solitamente con una conseguente compromissione dell’intimità del soggetto.

 

Una lettura transculturale delle emozioni nella perdita perinatale: l’influenza del contesto socio-culturale sull’esperienza psicologica materna

La perdita perinatale si configura come un evento drammatico, traumatico e paradossale. Il contesto socio-culturale di riferimento gioca un ruolo fondamentale nel processo di attribuzione di significato alla perdita influenzando la risposta materna sia a livello di vissuto psicologico soggettivo sia a livello sociale e relazionale.

 

La perdita perinatale rappresenta un evento traumatico e paradossale, la cui attribuzione di significato e conseguenti risposte, sia a livello individuale che sociale, variano considerevolmente a seconda del contesto socio-culturale di riferimento (Chichester, 2005).

La cultura di appartenenza ricopre un ruolo importante nel processo di attribuzione di significato alle esperienze di perdita e, di conseguenza, può condizionare sia la possibilità di elaborare il lutto attraverso pratiche e rituali specifici e socialmente condivisi, sia la qualità del vissuto psicologico ed emotivo di coloro che ne sono coinvolti (D’Elia, 2007).

A prescindere dalle specificità che caratterizzano le singole culture, è possibile distinguere tra società individualiste e collettiviste (o tradizionaliste) a seconda che in esse si dia priorità all’individuo e alla sua realizzazione oppure al gruppo di appartenenza, ai legami e alle risorse condivise (Hofstede, 1980).

Da questi due diversi orientamenti deriva non solo una diversa organizzazione a livello sociale e relazionale, ma anche una differente concezione di sé, dei propri obiettivi e del proprio comportamento in relazione alle norme sociali o alle proprie attitudini (Oyserman, Coon, & Kemmelmeier, 2002). Nel caso di contesti individualisti, ad esempio le società di stampo europeo o americano, si parla di Sé Indipendente dal contesto sociale, incentrato sui propri obiettivi e guidato dai propri valori e dalle proprie aspirazioni. In contesti più tradizionali, si pensi alle culture africane, si parla invece di Sé Interdipendente, in quanto l’appartenenza al gruppo, lo status sociale e le relazioni interpersonali costituiscono una parte fondamentale della propria identità e determinano l’agire della singola persona (Markus & Kitayama, 1991).

La concezione di Sé influenza inoltre altre aree del funzionamento psicologico della persona: i processi di attribuzione causale, la rappresentazione della propria autostima e, di conseguenza, la qualità delle emozioni esperite sono fortemente influenzate da fattori ambientali esterni o disposizionali interni a seconda della natura più Interdipendente o Indipendente del Sé dell’individuo.

Rispetto alla sfera emotiva, alcuni autori hanno messo in luce una sottile ma fondamentale distinzione tra l’emozione della vergona e il senso di colpa (Smith, Webster, Parrott, & Eyre, 2002). Infatti, se la prima emerge come conseguenza di una valutazione negativa da parte degli altri in riferimento non a un’azione in particolare ma alla persona nel suo complesso, il senso di colpa emerge invece a seguito di un giudizio negativo da parte di sé conseguente al fallimento nel raggiungimento degli obiettivi personali.

Anche nel caso specifico della perdita perinatale è possibile osservare una differente reazione a livello di vissuto soggettivo ma anche relazionale materno a seconda del contesto culturale di appartenenza (Gandino, Provera, 2019).

In contesti occidentali infatti sentimenti quali senso di colpa, fallimento e autoaccusa sono i vissuti più frequentemente associati a questo drammatico evento ed emergono a seguito dell’impossibilità di realizzare un compito sia evolutivo che esistenziale (Burden et al., 2016). Il primo fa riferimento alla genitorialità: la madre inizia a sviluppare un legame di attaccamento e responsabilità genitoriale prenatale nei confronti del bambino già in gravidanza e non è raro che si assuma la responsabilità della perdita, ricercando le cause del decesso, già di per sé ambigue e difficilmente definibili, in fattori disposizionali interni. Il secondo compito riguarda invece la conferma della propria identità di donna adulta, messo in discussione dalla incapacità del proprio corpo, percepito come insufficiente e inadeguato, a generare una nuova vita.

In contesti tradizionali, invece, dal momento che la maternità costituisce il fattore che maggiormente, se non esclusivamente, dà valore alla donna, in quanto le permette di assolvere il compito sociale e religioso di garantire continuità alla discendenza, la morte perinatale priva la donna non solo del proprio valore ma anche del proprio significato in quanto le nega un ruolo all’interno della società (Beyeza-Kashesya et al., 2010). La vergogna, in questo caso, è determinata dalla compromissione del proprio valore e della propria immagine agli occhi degli altri, cui spesso si associano episodi di stigma e di emarginazione sociale, con conseguenze negative anche sul piano fisico e psicologico.

In conclusione, sebbene non si possa escludere la presenza di emozioni di colpa e vergogna rispettivamente all’interno di contesti tradizionali e individuali, tuttavia si può notare una maggiore preponderanza dell’una o dell’altra emozione in relazione alla concezione di Sé e, in senso più ampio, alla cultura di appartenenza. La lettura della perdita perinatale in prospettiva transculturale, in un’epoca caratterizzata da importanti e sempre più complessi flussi migratori, può costituire un importante strumento per cogliere la complessità del vissuto psicologico soggettivo e dunque, in ultima analisi, per fornire un aiuto clinico efficace e personalizzato.

 

F.B.: la 8° storiella di Fantapsicologia

Il presidente della SOPSI, che fungeva da chairman, presentò i due relatori sottolineando la sinergia con cui le due correnti di pensiero che rappresentavano avevano negli anni concorso all’edificazione della Psichiatria pubblica e privata che faceva eccellere l’Italia nel campo dell’assistenza psichiatrica mondiale come l’OMS non smetteva di sottolineare.

 

Se la natura mi avesse dotato, oltre che di parecchie altre cosine che qui tralascio, dell’immaginazione di un narratore e non soltanto dell’aspirazione frustrante a diventarlo, non sarebbe stata necessaria la rilettura (si dice sempre che si è riletto un certo grande classico per non ammettere di non averlo mai letto prima) de La leggenda del grande inquisitore per dare origine al sogno ad occhi parzialmente aperti, o daydreaming (così hanno di recente nominato il fantasticare alcuni ricercatori israeliani e presto, scommetteteci, avremo i corrispondenti farmaci: stimolanti per i creativi di ogni ordine e grado e inibitori per tutti noi altri che non ci si metta strani grilli per la testa) che ho fatto al crepuscolo di una giornata di benvenuta pioggia da conclusione di estate, dedicata a riordinare sul computer gli scritti antichi e da cestinare concernenti il buon vecchio dipartimento di salute mentale.

In poche parole un pezzo della mia vita professionale e affettiva da riesaminare, riassaporare per un attimo superandone l’ormai stagnante odore di vecchio e stantio per poi spostarli nel dimenticatoio per una breve pausa di decompressione, prova di distacco, in attesa che si attenui la bastarda onnipresente nostalgia dei vecchi, per poi obliarli definitivamente con lo ‘svuota cestino’ che poi, dannato, è lui stesso ad istillarci nuovi dubbi dandoci la possibilità di ripensarci quando chiede se siamo proprio sicuri di eliminare definitivamente quei pezzi di vita che dopo sarà come non ci fossero mai stati. Chi non conoscesse La leggenda del grande inquisitore che è contenuta nel romanzo I fratelli Karamavoz di Fëdor Dostoevskij, ma che si può leggere anche separatamente essendo stata editata come libretto a se stante, sappia che l’idea centrale di questa storiella, l’unica originale peraltro, non è farina del mio sacco che, a dir la verità mi sembra da un bel po’ assolutamente vuoto e non solo di farina. Non la riassumo per non spoilerare chi non la conoscesse, diciamo solo che è da non perdere e certamente merita di leggerla anche senza inoltrarsi negli alambiccati casini della famiglia Karamavoz (tre fratelli e un padre che Dio ce ne scampi ad averli anche solo come vicini di casa in vacanza per due mesi) che pure si dice rappresenti un capolavoro assoluto della narrativa ottocentesca. Del resto lo stesso effetto di rifugio in un analfabetismo di ritorno me lo provoca quell’altro indiscusso capolavoro da tutti riconosciuto tale, in specie dai dotti psicoanalisti, che è La ricerca del tempo perduto di Proust. I capolavori non fanno per me, che sono evidentemente per le seconde scelte, gli avanzi di magazzino, le cose semplici, pane e salame invece della cucina gourmet. Al massimo il miglior rapporto qualità/prezzo e certamente non ‘il top di gamma’..

Il protagonista lo chiameremo FB (libro di facce) anche se non si trattava di face-book in quanto assumeva tutte le sembianze possibili in un libro di volti spauriti caratteristici dei nostri desolati (nel senso letterale di privi di sole perché spesso nascosti nelle viscere sottoterra degli ospedali con la scusa che i nostri hanno la tendenza a volare come angeli dalle finestre) ambienti in qualsiasi ruolo li si frequenti a lungo.

Quel giorno FB aveva l’aspetto smarrito di due genitori separati da quando il loro piccolo Marco aveva 6 anni che, dopo oltre quattro lustri di guerra aperta brandendo tranci dello stesso Marco, si ritrovavano seduti accanto in un corridoio adibito a sala d’attesa ad aspettare che l’assistente sociale di turno li ricevesse per raccogliere le notizie per una eventuale presa in carico già definita improbabile dall’amico psichiatra che li aveva indirizzati ai suoi colleghi del CSM di zona perché Marco non aveva nessuna intenzione di andare a farsi vedere e voleva semplicemente i soldi per partire per l’Olanda, convinto che il suo malessere fosse dovuto allo schifo che provava per la società italiana e per Mariella che ne condensava tutte le ipocrisie con il suo perbenismo cattolico che non le aveva impedito di scoparsi il suo (di Marco) migliore amico. La signora Ines strangolava l’incredulità di trovarsi lì con una sciarpa da ex rivoluzionaria sessuale sessantottina inutilmente pentita, l’avvocato Marcoccia nel completo grigio da lavoro dove sarebbe corso appena sistemato il figlio nella sua rigidità ricordava una salma in attesa di saldatura (come avevano potuto stare insieme quei due anche solo per fare quattro salti nel letto pareva ora un mistero). In effetti l’assistente sociale, professionale nella sua imperturbabilità, confermò loro che non c’erano gli estremi per un TSO e che bisognava convincere il ragazzo ad uscire dalla sua stanza dove era chiuso da 47 giorni e presentarsi personalmente alla loro struttura che era quella competente per territorio. Era inutile, spiegò loro con le parole la noia di chi ha dovuto ripetere mille volte le stesse cose a mille facce perplesse, che si recasse al CSM della ASL limitrofa dove Marco sapeva che dei suoi amici si erano trovati bene, perché in tempo di carenza di risorse la distinzione territoriale era applicata rigorosamente. Nella sanità sotto pressione c’era più che mai bisogno di regole e ordine. Appena l’assistente sociale, improvvidamente e non richiesta, fece intendere che la loro separazione quando Marco stava per affacciarsi alla scolarizzazione, era stata certamente un evento patogeno, avevano ripreso a litigare come 15 anni prima sulle rispettive responsabilità nella vicenda del duplice reciproco tradimento e persino sul rispettivo carico genetico familiare perché nella scheda, che era stata meticolosamente compilata, una domanda riguardava la presenza di precedenti psichiatrici nelle famiglie d’origine. Questo fatto che non si sapesse la causa delle malattie mentali permetteva di scagliarsi l’un l’altro colpe che camuffavano risentimenti e ferite ancora aperte. I toni della lite misero in imbarazzo la compassata salma che prese sottobraccio la antica rivoluzionaria e la condusse fuori, una volta in auto chiuse immediatamente i finestrini e soffocò le lagnanze incessanti con un’autoradio Voxson estraibile coevo del loro, oggi pareva incredibile, innamoramento.

Un giorno FB aveva avuto le guance scavate, i capelli neri lisci e sudici appiccicati agli zigomi e le occhiaie profonde del tossicodipendente con vent’anni di carriera alle spalle che era rimbalzato tra il CSM che lo rifiutava per via dell’abuso di sostanze ed il Sert che non voleva saperne a motivo delle voci insultanti che lo assillavano (lui stesso non sapeva se pensarsi vizioso o malato) ed era in attesa che la regione si convenzionasse con una sorta di comunità terapeutica che dei fratacchioni avevano aperto in un loro ex convento sui monti Cimini, svuotato dalla ormai cronica crisi vocazionale e che, accogliendo i disgraziati tout court, senza troppe etichette e specificazioni nosografiche, poteva essere considerata idonea per quelle che venivano chiamate ‘doppie diagnosi’, ma il processo di accreditamento aveva ottenuto da due anni la sospensiva dal TAR del Lazio per un ricorso presentato da altre comunità terapeutiche concorrenti. Nel frattempo spizzava il poker di spade di una overdose risolutiva dopo la quale il rimbalzo tra le strutture non avrebbe più visto lui come pallina ma le responsabilità a partire dall’ultimo ‘no’ cui sarebbe rimasto il cerino in mano.

Nonostante in quell’occasione fosse un palestrato trentacinquenne arrogante classico esemplare della periferia sud-est di Roma, la più grande paura FB l’aveva provata il giorno che era stato trascinato dalla guardia psichiatrica coadiuvata dalla polizia municipale e dai carabinieri con l’ordinanza del sindaco sulla base dei certificati di due psichiatri che non lo avevano mai visto e dopo una pesante sedazione in ambulanza (la famosa tripletta di manicomiale memoria) era stato lasciato su una barella del pronto soccorso del ‘Grassi’ di Ostia dove, per non legarlo come gli infermieri dicevano si sarebbe meritato per la sua irrequietezza molesta, veniva periodicamente rimboccato con ulteriori neurolettici q.b., come si diceva negli appunti culinari della nonna. Il primo a scambiarci poche frasi fu il rianimatore chiamato d’urgenza per un arresto cardiaco, ma fu soltanto per accertarsi che avesse ripreso conoscenza e la conversazione si limitò alle generalità ed alle domandine del mini mental test. Nei sette giorni successivi di degenza nel reparto di diagnosi e cura, al contrario, alle sue vicende personali si erano interessati numerosi psicologi tirocinanti che se non altro sorridevano in modo benevolo ancorché standardizzato (dovevano aver fatto un corso apposta) e di una era stato sul punto di innamorarsi: tradizionale bellezza agrodolce calabrese con la sua parlata aspirata sulle labbra alla fragola che pareva risucchiargli l’anima. I medici, anch’essi giovani per quanto può esserlo un medico specializzando nella maggior parte dei casi o appena specializzato e precario, erano molto presi con i problemi del rinnovo contrattuale trimestrale che manteneva la loro vita in stand-by anche fino alla soglia dei 50 anni. Aveva sentito dire dagli infermieri sempre avvelenati per il mancato riconoscimento economico delle loro mansioni che c’erano anche dei medici di ruolo e persino un primario ma evidentemente i suoi 15 giorni di ricovero erano stati troppo pochi per avere la fortuna di incontrarli, ammesso che di fortuna si trattasse. Alla dimissione gli fu però dato in nome della continuità terapeutica un depliant del suo CSM di appartenenza dove certamente lo avrebbero ascoltato con interesse e curiosità gli psicologi al tirocinio post laurea o per la specializzazione. Avrebbe potuto parlare a volontà. Bravi ragazzi molto motivati. Peccato quel sorrisetto dubitativo che accompagnò la consegna dell’opuscoletto illustrato con tutte le attività del CSM.

In un’altra occasione era stato invece un settantenne sovrappeso e spelacchiato in testa con movimenti lenti da bradipo per la prolungata frequentazione di neurolettici e antiparkinson, vecchio paziente psichiatrico che ora a fine corsa aveva trovato parcheggio in una comunità per lungodegenti, ben diversa dai vecchi e finalmente chiusi manicomi dove aveva vissuto per dieci anni dopo la chiusura dell’OPG di Montelupo fiorentino dove lo avevano spedito per aver impiccato il cane del diabolico vicino invece di ringraziarlo per non aver fatto fare la stessa fine direttamente al minaccioso proprietario che lo tormentava giorno, notte, alba e tramonto con le radiazioni elettroomosessuali nonostante le mutande di latta che si era fabbricato da solo con le scatole dei fagioli borlotti.

In fondo stava certamente meglio del fratello quarantenne, faccia da lupo, un tempo anarchico rivoluzionario e aspirante bombarolo se non fosse stato ubriaco dalla mattina alla sera, che invece tirava avanti con il sussidio del comune nella vecchia casa paterna e veniva ogni mese siringato dai solerti infermieri del CSM con una sostanza che lo rendeva mite come un agnellino pasquale ma lo faceva camminare come quelli di the walking dead e gli aveva tolto ogni virilità, anche solitaria.

A volte FB invidiava la volta che era stato un ragazzo di 16 anni scemotto, bruttarello, fragile e inconsistente, che non sapeva chi fosse e nell’attesa di capire se dovesse essere il servizio materno infantile o il CSM ad occuparsi del suo stranguglione adolescenziale era volato dal quinto piano lasciando solo un rabbioso biglietto contro il padre, cazzuta superstar irraggiungibile che, avvisato dal portiere, ne aveva raccolto il corpo nel cortile interno del condominio lasciando poi al dipendente la pulizia con la segatura di quelle orribili poltiglie organiche.

In fondo si era risparmiato un percorso già segnato in un mondo a parte per i disadattati come lui. Un mondo fatto di centri diurni invece che di bar e discoteche, di soggiorni invece che di vacanze con gli amici che di famiglia nemmeno a parlarne, di occupazioni protette finanziate con i sussidi e infiniti, inutili corsi di formazione per occupare il tempo. Per finire, nella migliore delle ipotesi, in una casa famiglia per un cohausing anch’esso protetto da solerti operatori di cooperativa.

Certo se i suoi fossero stati benestanti ma soprattutto non matti come si era convinto fossero, giungendo in cuor suo a perdonarli ma troppo tardi, lo avrebbero indirizzato verso il circuito privato dove le sale d’attesa hanno la musica di sottofondo, le segretarie sono belle, accoglienti e talvolta ammiccanti alle fantasie che evidentemente scorrono negli occhi bizzarri, stanchi, appannati e sconfitti dei postulanti ascolto, i medici sorridenti e ottimisti e gli psicologi associati pronti a testare ogni particolare sommovimento emotivo o comportamentale in vista di ricerche e pubblicazioni che li sottrarrebbero all’anonimato e alla dipendenza dalla paghetta familiare con cui, quasi tutti trentenni, si sostentano dal tempo del ‘fuorisede’.

A proposito di ciò FB doveva ammettere che quando si era trovato nei panni di quelli dall’altra parte della fittizia barricata che separa i matti dai sani rassicurando quest’ultimi su loro stessi, si era reso conto di quanto la sofferenza non fosse proprietà privata di nessuno e dilagasse dovunque per capillarità e vicinanza come le infiltrazioni d’acqua sui muri delle stanze prese a pensione per studiare nella grande città.

FB era stato Marco, uno psicologo trentatreenne bello e naturalmente elegante, reso simpatico dall’eco pugliese nella sua cadenza, eternamente tirocinante pre-laurea, post-laurea, per il grottesco esame di stato e poi per le scuole di specializzazione senza le quali anche i concorsi e qualsiasi lavoro sono preclusi, tranne la schiavitù gratuita ai pochi vecchi affermati. I suoi genitori avevano venduto 5 ettari della masseria salentina per mantenerlo agli studi a Roma ma non ce la facevano più a sostenerlo nell’infinita formazione. Aveva iniziato a lavorare in un club riservato di notte e, grazie ai suoi riccioli neri ed al fisico da bronzo di Riace tranne quel piccolo, appunto, particolare per cui i due statuari guerrieri provano imbarazzo da millenni, si era fatto una sua selezionata clientela privata (altrettanto praticavano e con più facilità molte sue giovani colleghe tra un esame di fisiologia e di psicologia sociale e di gruppo) tra le signore oltre gli ‘anta’ annoiate della borghesia medio alta e proprio grazie ad una di loro, moglie del direttore della prestigiosa scuola di specializzazione S.S.P.T. (scuola di specializzazione di psicoterapia totale), aveva infine ottenuto il diploma e un periodo di volontariato (che comunque fa curriculum e non si rifiuta mai) al reparto di psichiatria del Policlinico Umberto I°.

Ora che la dolce ma concreta Luisa, la sua ex conosciuta al liceo, stanca di aspettare, si era messa con un giovane agente di tecnocasa ed era rimasta subito incinta, non aveva più la fretta di un tempo e poteva aspettare che si aprissero le porte della cooperativa Il semino di senape a cui erano appaltati molti dei servizi esternalizzati dalle strutture riabilitative della regione Lazio. Allora avrebbe potuto lavorare per 7 € l’ora e farsi pure le vacanze estive con i soggiorni a Rimini insieme ai pazienti (allora gli sarebbe mancato solo ‘un amaro Lucano’ per non volere di più dalla vita) da cui non ricordava più bene cosa lo distinguesse.

C’erano stati tempi migliori quando FB era stato un affermato psichiatra e psicoterapeuta privato con uno studio intestato a suo nome che si era scavato una nicchia ecologica nella Roma dei commercianti arricchiti e della intellighenzia snob di sinistra. Si annoiava mortalmente ad ascoltare lagnanze e tiramenti di vecchi e giovani rampolli costantemente irati per il fatto che non sempre la realtà si piegasse ai loro voleri, ma era una noia ben retribuita. Non aveva mai guarito nessuno e li avrebbe mandati tutti in miniera a lavorare ma lo pagavano bene per ascoltarli e dargli ragione e lui aveva una famiglia da mantenere e così, disprezzandosi nel guardarsi con gli occhi di quando era giovane, stava al gioco e moriva lentamente giorno per giorno senza accorgersene.

Paradossalmente il periodo che FB ricordava con più piacevolezza era stato quando era stato un operatore senza volto (strano o forse comprensibilissimo per uno che si chiama FB), una formichina laboriosa e instancabile che con una presenza costante alimentata dall’affetto aveva tenuto per mano quotidianamente i fratelli che si erano trovati nei suoi stessi luoghi psichiatrici ma, per un semplice gioco del destino, dall’altra parte, ora in un centro diurno, ora in un CSM, ora in una comunità terapeutica. Gli sembrava di essere stato utile quando aveva dimenticato chi fosse e si era sentito solo uomo tra fratelli e sorelle dolenti di tribolazioni che erano anche le sue.

Oggi, nel presente di questo ottobre romano proverbiale per la sua dolcezza nel trattenere l’estate nella trasparenza dell’aria, FB era ad un appuntamento importante, il congresso annuale della SOPSI la società italiana di psicopatologia, tra tutte le società scientifiche la più ricca (tutti i partecipanti avevano quota di iscrizione e soggiorno a carico di questa o quell’industria alla faccia del conflitto di interessi ma perlomeno non era a Tenerife o a Cuba come capitava in passato in tempo di vacche grasse quando si ospitavano anche i congiunti o considerati tali, segretarie di studio, collaboratrici e addetti al benessere della persona che venivano eventualmente reperiti in loco) perché sponsorizzata da tutte le più importanti multinazionali farmaceutiche che definivano continuamente nuovi disturbi patologizzando altri territori della diversità, per ciascuno proponendo un farmaco perfetto fino alla scadenza del copyright per poi essere sostituito da un altro ancora più perfetto e dieci volte più costoso.

Il congresso tradizionalmente si teneva nelle prestigiose sale dell’Hotel Hilton di Roma sopra la valle dove giaceva la città giudiziaria della capitale (dove avrebbe giustamente dovuto sprofondare, pensava, l’anima forcaiola, giustizialista e intransigente di FB giovane non del tutto scomparsa) e alla stessa altezza dell’osservatorio e del vecchio bar dello Zodiaco che concedeva una vista mozzafiato su tutta Roma, godibile anche dalle terrazze del limitrofo Hilton, dove i professoroni, come si diceva al tempo in cui c’era più rispetto, andavano a fumare e continuare le accese discussioni cliniche e architettare gli accordi politici durante le pause.

Per l’occasione era vestito secondo il code ‘psichiatra che non ci tiene avendo altro a cui pensare e disdegnando l’apparenza’: jeans Lewis 501 per stare sul classico evergreen, camicia azzurra sotto un maglioncino girocollo blu scuro per richiamare l’efficienza di Marchionne, giacca di velluto marrone con le pezze di cuoio ai gomiti assolutamente controindicata per il colore (blu versus marrone, lo sanno tutti) per significare che mette su quel che capita uscendo di corsa per andare dai pazienti, mocassini da barca blu che non nascondevano la loro età e le peripezie attraversate. La faccia altrettanto ciancicata e smaliziata l’aveva presa in prestito da Paolo Conte in ‘Genova per noi’.

FB era lì per l’ultima sessione del congresso, prima dell’assemblea plenaria dei soci cui non avrebbe assistito spinto dalla vanità morettiana (nessuno è perfetto) del ‘ma mi si nota di più se…..o se……’ in cui era previsto il confronto tra lui vecchio psichiatra del tempo della riforma e il rampante Prof. Giambattista Lo Mascolo Di Gravignano, ordinario di Psichiatria della Sapienza, direttore generale del MIUR per le scuole di specializzazione e appena l’anno precedente eletto presidente assoluto della Società Italiana di Psichiatria (SIP). Il Lo Mascolo si era presentato al confronto che verteva su ‘il senso della guarigione e la conseguente implementazione dei nuovi servizi psichiatrici alla luce delle attese rivelazioni del prossimo DSM X’, quello che si riteneva ultimativo ed avrebbe chiuso definitivamente la storia delle nosografie psichiatriche, in un formato molto più accademico con un completo doppiopetto blu scuro, un papillon rosso ferrari, scarpe nere lucide sfavillanti allacciate da poliziotto newyorkese della omicidi. Il collo taurino ma flaccido strizzato dal colletto della camicia rivelava l’età vicina agli 80 che numerosi lifting cercavano malamente di celare con un volto da bambola Berlusconiana con cui aveva una certa esibita somiglianza.

Il presidente della SOPSI, Prof. Riccardo Della Lunga Bonaffini, che fungeva da chairman, presentò i due relatori sottolineando la sinergia, e toccandosi un naso che impertinente non smetteva di allungarsi per collodiana memoria, con cui le due correnti di pensiero che rappresentavano avevano negli anni concorso all’edificazione della Psichiatria pubblica e privata che faceva eccellere l’Italia nel campo dell’assistenza psichiatrica mondiale come l’OMS non smetteva di sottolineare. Nella sala da 800 posti gremita, forte era l’attesa per il confronto che, al di là della presentazione del Della Lunga Bonaffini, si sapeva riservare in genere momenti polemici e contrapposizioni nette. Le due tifoserie erano sostanzialmente divise nella sala. A sinistra sotto il palchetto di FB gli irregolari del suo esercito sbandato come i nostri fanti l’8 settembre del ’43 frugavano affannosamente nelle giberne per trovare una penna o un mozzicone di matita per prendere appunti su fogli bianchi che venivano divisi e scambiati perché ognuno ne avesse un pezzetto. Caleidoscopio di colori e indisciplinati brusii di chiacchiere appassionate e urgenti. A destra il plotone ordinato degli accademici che chiamava con disprezzo gli altri i territoriali o, peggio, ‘terricoli’, si era improvvisamente illuminato per l’accendersi simultaneo di tutti gli i-pad. I volti rischiarati dal basso apparivano un po’ oltretombali nella sala oscurata per far risaltare le slides di cui ancora i relatori avevano bisogno per dire sempre le stesse cose da quarant’anni, in ciò assomigliando ai preti che necessitano del messale ogni giorno per una intera vita. Il primo a prendere la parola fu ovviamente per ossequio al prestigio e all’età il Lo Mascolo che, dopo i ringraziamenti di rito e gli elogi al collega, sostenne fondamentalmente due concetti. Il primo era che la riforma psichiatrica, ormai a 40 anni dal suo inizio, poteva dirsi brillantemente conclusa e che da nord a sud ogni cittadino aveva il suo CSM di riferimento, che ovunque espletava una attività ambulatoriale e domiciliare. Ogni CSM a sua volta era in rete con uno o più centri diurni e strutture semiresidenziali in cui trascorrevano le giornate i pazienti che non potevano stare a casa, con strutture di ricovero per gli acuti, i cosiddetti SPDC e per i cronici tante diverse opportunità: comunità terapeutiche, RSA e case famiglia a protezione variabile. Insomma quello che c’era scritto in qualsiasi depliant di presentazione di un DSM e che FB aveva ricevuto durante la dimissione insieme al sorriso ironico dell’infermiere che gli aveva augurato buona fortuna. Per non parlare poi, aveva proseguito sempre più orgoglioso e sudato Lo Mascolo, delle attività che tutte queste strutture ‘mettevano in essere’ (gli scappò detto con gergo sbirresco indubbiamente indotto dalle scarpe): formazione professionale, attività ricreative di ogni genere, soggiorni di vacanze, lavoro protetto, abitare protetto ed in alcune situazioni d’avanguardia anche ‘amore protetto’, senza specificare ulteriormente. Da qui avrebbe preso spunto nella replica FB, suscitando ilarità tra i suoi e sguardi di riprovazione tra i regolari, per dire che quella che veniva proposta era una vita all’interno di un enorme preservativo.

La seconda tesi che Lo Mascolo aveva di seguito sostenuto riguardava quello che lui stesso chiamava la riscoperta del secondo mandato della psichiatria, oltre a quello della cura che consisteva nella pacificazione della società turbata dalle intemperanze e dallo scandalo potenzialmente contagioso per le menti dei giovani che i matti ormai liberi potevano costituire. La guarigione e il ritorno alla produttività non erano solo un diritto, come sbandierato all’inizio della riforma, ma, ora che era realizzata, anche un dovere dal quale con le buone o con le cattive non ci si poteva esimere e questo era un compito che spettava certo con dolce gentilezza, ma anche ferma decisione, agli operatori psichiatrici che per un certo tempo era sembrato alla popolazione addirittura che colludessero e assecondassero le bizzarie dei loro pazienti. Non era più tempo di ambiguità e da questa chiarezza, si trattava di stare senza tentennamenti dalla parte della ragione e del buon senso, la nuova psichiatria aveva riguadagnato il prestigio perduto, le iscrizioni alla specializzazione erano tornate a crescere come il ricorso al privato e gli onorari praticati e persino la sua nomina ministeriale poteva essere considerata un riconoscimento in tal senso che ci teneva a condividere con tutti i colleghi. Un ‘grazie, no’ riecheggiò da sinistra.

Al termine del suo intervento sollecitò domande di chiarimento rimandando il dibattito alla conclusione. Dai lati opposti della sala sbocciarono, è corretto dire, prontamente da dietro i tendaggi di pesante velluto color pervinca due hostess che, sbandierando giulive microfoni portatili a cono, si premuravano di raggiungere le mani alzate per amplificare le voci corrispondenti. Le due ragazze, ed anche questo era un segno dei tempi, non avrebbero sfigurato per l’abbigliamento succinto e l’andatura ancheggiante nella serata celebrativa dei settant’anni di Play Boy. Persino i due relatori, più platealmente FB di Lo Mascolo, a dispetto del nome, ebbero un momento di acuto strabismo divergente e nistagmo per divaricare all’inverosimile il campo visivo, alternando il grandangolo allo zoom sui particolari, non rinunciando così né alla brunetta piccola e morbida né alla spilungona bionda dal fare algido e professionale. Gli interventi furono così banali che sollevarono il legittimo dubbio di avere come unico scopo il richiamare la vicinanza delle portatrici dei coni. Non erano vere domande ma sottolineature di concetti già espressi dal relatore al semplice scopo di rinforzarli e di mostrarsi a lui compiacenti discepoli. Una dirigente di II° livello della ASL di Rovigo, dopo i complimenti al relatore, chiese se non fosse ormai indispensabile dare la possibilità di TSO anche alle cliniche private accreditate per alleggerire la pressione sugli SPDC. Uno psichiatra cosentino depassè si interrogava se non fosse opportuno appaltare tutta l’attività psicoterapeutica agli specialisti privati considerate le carenze del pubblico. Il più politico degli interventi venne da uno psichiatra di Ancona, la cui calata marchigiana ne minava severamente l’autorevolezza che l’età avanzata avrebbe dovuto conferirgli, che si domandava come depotenziare le associazioni di utenti e familiari che con le loro assurde pretese di pronta e totale guarigione e sempre pronti a rivolgersi alla magistratura stavano portando la piaga della medicina difensiva anche nel campo della salute mentale. La richiesta era la depenalizzazione dei reati connessi all’attività clinica. Lo Mascolo, gongolante e col labbro superiore imperlato di sudore, si limitava ad ascoltare i vari interventi, guardare le due hostess e assentire pesantemente col capo, non si sa se alle due bellezze o ai contenuti espressi, allargando sempre di più un sorriso inespressivo e fatuo che tra poco avrebbe congiunto un orecchio con l’altro mostrando una chiostra di denti bianchissimi esaltati dall’abbronzatura del calabro sole di Tropea.

Quando le mani smisero di alzarsi il chairman Della Lunga Bonaffini si scosse dal torpore che, complice il buffet offerto al coffe break da Astrazeneca, lo aveva assalito trasportandolo in fantasie lontane dove solo le due hostess lo avevano seguito, e diede la parola a FB il quale, restando seduto e aggiustandosi il microfono, esordì dicendo che avrebbe ribattuto separatamente ai due fondamentali concetti portanti espressi dal Lo Mascolo nella sua brillante sintesi dello stato dell’arte.

Per quanto riguardava il completamento della riforma psichiatrica con l’attivazione di tutti i servizi previsti, che non stava qui a rielencare che meglio di come aveva fatto il collega non sarebbe stato possibile, era certamente vero, ma nel farlo si era perso lo spirito più profondo della riforma creando nuovamente sul territorio invece che negli ospedali psichiatrici ‘un mondo a parte’, una realtà parallela dove c’era tutto quello che costituisce una vita normale. Un tetto sulla testa, un lavoro, delle relazioni sociali e molto molto svago, ma tutto in formato ‘per i matti’, un mondo protetto, a scartamento ridotto. Il manicomio era stato sostituito dal ‘terricomio’ molto più accettabile, certo, ma dove l’essenza della separazione, il senso dell’istituzione totale nel significato di Irvin Goffman rimaneva intatto solo più strisciante e meno visibile.

A questo si collegava il secondo punto sul doppio mandato di cura e controllo della psichiatria. Secondo FB era ingannevole sostenere fossero compenetrabili, addirittura quasi identici. Guarire non significava normalizzare le devianze per restituire cittadini efficienti e laboriosi alla società del profitto e del consumo, ma  preservare tutte le diversità, non solo quelle di genere, etniche e di orientamento sessuale (cosa ormai accettata in teoria sebbene non nei fatti) ma anche quelle personologiche. Ognuno aveva diritto di esprimere se stesso attraverso l’esercizio dei diritti previsti dalla costituzione con l’unica limitazione del codice penale che aveva la presunzione di essere uguale per tutti.

FB affermò con decisione e piglio messianico che pian piano tutte le strutture psichiatriche si sarebbero eliminate e gli ex pazienti sarebbero confluiti nel circuito normale dell’esistenza dove, se avessero provocato scandalo, sarebbe stato un benefico disvelamento delle contraddizioni e ipocrisie della nostra società e queste si sarebbero dovute risolvere là dove si generavano non solo per il benessere dei matti ma di tutti. In questo paragonò i matti a dei segnalatori di ciò che non va, che per la loro esasperata sensibilità se ne accorgono per primi. Un pò come quei pesci che vengono messi negli acquedotti e la cui morte segnala il peggioramento della qualità dell’acqua. Reso tremante dalla foga profetica si alzò in piedi per dire che quando fosse scomparso l’ultimo psichiatra con il suo armamentario reificante in diagnosi la complessità e diversità del genere umano ad un tempo angelico e demoniaco, allora sarebbe scomparso anche l’ultimo matto. Non ne era del tutto convinto neppure lui, ma un po’, q.b. per dirlo in quel contesto, sì.

Il Prof. Giambattista Lo Mascolo Di Gravignano, che si era a stento trattenuto fino a quel momento limitandosi a scapeiare (muovere la testa in senso orizzontale a destra e a sinistra con scatti improvvisi) come un somaro infastidito dai tafani, sbottò attaccando il collega a testa bassa chiamandolo per la prima volta per nome ‘He no, Franco, non puoi farci questo, abbiamo costruito tutto questo nel tuo nome e non credere sia stato facile riconvertire la mentalità di molti colleghi. Dimettere i medici dall’ospedale non è stato meno faticoso che reinserire i pazienti. Certamente ti renderai conto cosa è stato smontare i solidi regni dei primariati ospedalieri, dei padiglioni ordinati, dei reparti divisi per patologie per creare, addirittura con meno fondi unità operative complesse e semplici, strutture e strutturine con incarichi a vassalli, valvassori e valvassini. Ed ora tu vorresti smontare questo enorme lavoro fatto in tuo nome? Non te lo permetteremo! Ci siamo sacrificati non sai quanto per tradurre i tuoi sogni in fatti concreti ed ora tu butti tutto per riproporre un nuovo incubo? Non sarà così, credimi. Anzi, ascolta, nel mentre che il consiglio direttivo valuterà le decisioni da prendere in merito alla tua permanenza nella società di psichiatria, avevo già pensato che avresti apprezzato un periodo di riposo e riflessione completamente a carico della associazione a ‘Villa dei Pini’ sulle colline intorno a Fiesole, che immagino accetterai con gratitudine e soprattutto volontariamente. In altro modo, ne converrai, sarebbe decisamente sgradevole’. Mentre pronunciava queste parole il megapresidente aveva ricontrollato la presenza nella tasca destra della sua giacca di un ordinanza del sindaco di Roma nella persona del funzionario delegato agli affari sanitari riguardante il trattamento sanitario obbligatorio del Sig Franco Basaglia nato a Venezia nel 1924.

Mentre FB usciva dalla sala a passo lesto, finalmente con la faccia seducente di giovane studente di medicina della buona borghesia veneziana, il Prof. Giambattista Lo Mascolo Di Gravignano, ordinario di Psichiatria della Sapienza, direttore generale del MIUR per le scuole di specializzazione e appena l’anno precedente eletto presidente assoluto della Società Italiana di Psichiatria (SIP), si lasciò andare stremato sulla poltrona presidenziale. Ma come fu accertato dalle perizie degli ingegneri dei VV.FF. non fu la sua culata per quanto possente a far precipitare con un boato e un fungo di polvere atomico l’hotel Hilton al centro della sottostante città giudiziaria. Le cause effettive sarebbero rimaste per sempre sconosciute, come per la maggior parte delle stragi italiane. Fu ipotizzato, come al solito, il coinvolgimento di pezzi deviati dei servizi e, questa volta, anche per la vicinanza del vaticano e il fatto che fosse proprio il giorno di San Francesco patrono d’Italia, l’intervento diretto di Dio, il che impedì qualsiasi ulteriore indagine. Fortuna volle che data l’ora e il clima meraviglioso la maggior parte dei turisti giapponesi e russi fosse in giro per Roma a caccia con le loro macchine fotografiche. Certo è che l’enorme moria di psichiatri e psicoterapeuti esperti (ne perirono 2500 ed altri mille smisero di esercitare per il timore di un ulteriore castigo divino) costrinse il ministero della salute a bandire gli stati generali per la salute mentale e rifondare il tutto partendo da zero e con i giovani. C’era da essere ottimisti, se non altro considerando il fatto che il ministro della sanità era un compagno quarantunenne che aveva lo stesso nome del più grande comico del ‘900: Bob Hope.

 

Il COVID-19 aumenterà l’incidenza del morbo di Parkinson?

Gli scienziati del Florey Institute Of Neuroscience and Mental Health stanno studiando il legame tra COVID-19 e aumento dell’incidenza del morbo di Parkinson

 

Ad oggi sappiamo che il COVID-19, oltre alle crisi respiratorie, ha anche conseguenze neurologiche, come si può evincere dalla presenza di sintomi quali: encefaliti e iposmia (perdita dell’olfatto); in particolare, quest’ultimo sintomo, si presenta in circa il 90% dei pazienti (Beauchamp et al., 2020).

A causa dei sintomi di stampo neurologico, i ricercatori si stanno chiedendo se ci potrebbero essere altre conseguenze prossime, riscontrabili a livello cerebrale.

Il modo in cui il virus arrivi al sistema nervoso centrale è tutt’oggi sconosciuto, tuttavia già il semplice fatto che sia in grado di arrivarci è sintomo di pericolo cerebrale (Beauchamp et al., 2020).

Il timore che attanaglia l’attuale mondo scientifico è che il virus in questione potrebbe dare origine a un processo neurodegenerativo (Beauchamp et al., 2020).

Gli scienziati del Florey Institute Of Neuroscience and Mental Healt stanno studiando il legame tra COVID-19 e aumento dell’incidenza del morbo di Parkinson (Beauchamp et al., 2020).

La presenza di un sintomo quale l’iposmia è indizio del fatto che ci sia la presenza di un’infiammazione acuta a livello del sistema olfattivo; l’infiammazione gioca un ruolo importante nella genesi delle malattie neurodegenerative, soprattutto nel morbo di Parkinson. Esso consiste nella perdita dei neuroni dopaminergici (cellule che producono dopamina) presenti a livello della substantia nigra e della regione mesoencefalica, ad oggi, la causa che porta alla morte di queste cellule è sconosciuta (Poewe et al., 2017). I sintomi caratteristici del Parkinson sono le difficoltà motorie, tuttavia, con il passare del tempo, e la conseguente neurodegenerazione, compaiono anche sintomi di stampo cognitivo-comportamentali; si tratta di un disturbo che si manifesta principalmente tra gli anziani dopo i 50 anni (Poewe et al., 2017).

Per la diagnosi l’osservazione delle alterazioni motorie è fondamentale, tuttavia, quando esse si manifestano significa che sono già state perse il 50-70% delle cellule dopaminergiche; arrivati a tal punto, diventa difficile trattare il morbo. Attualmente, la procedura clinica più efficace per gestire tale condizione è quella di adottare terapie neuroprotettive, tuttavia, per farlo c’è la necessità di una diagnosi precoce (Beauchamp et al., 2020).

I ricercatori del Florey Insitute, lanciano un monito alla comunità scientifica rimembrando le conseguenze neurologiche che seguirono la pandemia di influenza spagnola nel 1918; infatti, a causa di essa, il rischio di sviluppare il Parkinson negli anni seguenti aumentò di tre volte nella popolazione. Per questo motivo, gli scienziati stanno cercando di comprendere quali potrebbero essere le conseguenze neurologiche del COVID-19, cosi da poter adottare terapie neuroprotettive e diminuire l’incidenza delle malattie neurodegenerative conseguenti alla pandemia mondiale da SARS-CoV-2 (Beauchamp et al., 2020).

 

Divenire anche mamma – Moms, una nuova serie su maternità e genitorialità

Nel seguente articolo, il primo della serie, verrà affrontato il tema della nascita di una madre e della sua autoconsapevolezza, che spesso è minata dall’introiezione di regole e di aspettative altrui

Moms – (Nr.1) Divenire anche mamma

Introduzione

La serie tv canadese Workin’ Moms, presente nella piattaforma Netflix, nonostante il titolo all’apparenza selettivo, si focalizza sull’unicità e la diversità di ogni donna: mamma e non mamma, lavoratrice e non lavoratrice.

Il telefilm affronta il tema della maternità a 360 gradi, includendo anche coloro che non vogliono divenire madri. Viene anche “normalizzata” la figura del papà che sceglie di prendersi cura del figlio appieno, valorizzando l’equiparazione dei sessi e liberando la donna da convinzioni culturali che a lungo hanno assegnato ruoli impedenti la libera scelta.

La rubrica si focalizza sui temi riportati negli episodi della serie tv sopra citata, selezionandone gli argomenti. L’analisi di ogni tema avviene attraverso la lente dell’approccio psicologico sistemico – relazionale – simbolico – esperienziale.

La finalità principale della rubrica è quella di rendere consapevole ogni donna del proprio diritto ad essere madre a modo proprio o di non esserlo affatto, senza per questo sentirsi “sbagliata”, ma sempre più incentivata a trovare la propria strada dentro di sé.

Essendo il tema principale la maternità, il titolo scelto per la rubrica è Moms.

Diventare anche mamma

“E’ difficile pensare che sei la mamma di qualcuno.”
“Non ne hai idea.”

Nella prima puntata della prima stagione di Workin’ Moms questo è uno dei primi scambi tra Kate Foster, la protagonista, e il suo capo, poco dopo il suo ritorno al lavoro dal periodo di maternità.

Si dice che quando nasce un bambino, nasce anche una mamma e mai affermazione sembra più empatica. Alcune donne iniziano ad intessere la relazione più significativa della vita del proprio bambino sin dalla gestazione, altre dopo il parto, altre ancora dopo averne ottenuto l’adozione.

E proprio come quando un essere umano nel momento in cui nasce riesce naturalmente a trovare il seno materno per nutrirsi e dorme al bisogno, così una donna quando diviene anche madre è capace di esserlo in modo spontaneo. Una madre infatti riconosce dentro di sé i bisogni del proprio figlio, così come la donna che è in lei riconosce i propri bisogni.

Possono nascere delle difficoltà quando la donna che è appena divenuta mamma inizia a credere che l’esperienza altrui possa essere più rilevante del proprio “sesto senso” materno. In tal modo mette in discussione se stessa e le proprie capacità innate, proprio come un bambino quando inizia a sollevarsi da solo e per elementi come l’ansia genitoriale rischia di ritardare il proprio sviluppo.

L’accettazione di se stessa in quanto essere umano tra altri esseri umani, aiuta la madre che nasce a sentirsi capace di capire proprio figlio.

I bambini spesso non si agitano solo per i propri bisogni, ma anche perché sentono l’ansia materna di non riuscire ad ottemperare ad introiezioni di aspettative altrui o di regole scritte sui manuali.

Purtroppo non esiste alcun libro che possa spiegare come comportarsi con il proprio figlio, poiché ogni essere umano è differente e così lo è ogni situazione familiare in cui si viene a trovare. Eppure ancora oggi alcune donne credono che possa esserci qualcuno che ne sa più di loro rispetto all’essere umano di cui è lei ad occuparsi e che spesso è uscito proprio da lei.

Il rischio che ne consegue è una donna che va in tilt, compressa tra come si muoverebbe naturalmente e ciò che crede di dover seguire per essere una buona mamma.

Uno dei pochi autori che una madre dovrebbe leggere è Winnicott, il quale sosteneva che la madre migliore non fosse quella perfetta, ma quella sufficientemente buona.

La maternità è un cambiamento emotivo, ormonale e fisico, dove il corpo della donna è in continua rapida evoluzione. È importante, dunque, affinché la donna non resti schiacciata da un forte Super Io, che impari ad ascoltarsi, perché solo lei può sapere cosa è meglio per sé e per il suo bambino. Nessun libro può avere la presunzione di sapere come funzionano due esseri umani che l’autore non ha mai incontrato.

Ebbene, come dice Kate Foster nello scambio con il proprio capo, è un passaggio complesso quello da donna a donna e madre ed è difficile riconoscere questo ruolo come una parte di sé. È  fondamentale durante il transito non perdere se stesse e la consapevolezza che il proprio modo di ragionare e di agire sia il migliore per sé e per la creatura di cui si è responsabili.

 

European Conference on Digital Psychology – Virtual Forum

La prima Conferenza Europea sulla Psicologia Digitale, organizzata da SFU Milano il 19 e 20 febbraio 2021 diventa un evento online. A causa della situazione pandemica legata alla diffusione del COVID-19 la conferenza inizialmente pensata per svolgersi in presenza, si terrà interamente su una piattaforma virtuale, che permetterà di mantenere le caratteristiche imprescindibili delle conferenze in presenza e di sperimentarne di nuove: Live Session con domande e risposte, Networking Lounge per una sessione dei poster interattiva, one-to-one meeting, area espositori e gamification.

Le iscrizioni sono APERTE.

Per iscriverti, clicca qui.

  • Ultima data per la registrazione Early: 15 Dicembre 2020.
  • Ultima data per la registrazione Late: 15 Gennaio 2021.
cancel