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Personalità e COVID-19: stabilità o cambiamento?

Le preoccupazioni legate al COVID-19 e lo stress generato dalle restrizioni sociali, impattano fortemente a livello psicologico ma non solo.

 

Evidenze sottolineano come la personalità possa subire dei cambiamenti come riflesso di un adattamento a nuove situazioni (Specht et al., 2011) ed una pandemia sconvolge notevolmente i bisogni di base oltre che le attività quotidiane degli individui.

I cinque fattori della personalità (estroversione, gradevolezza, coscienziosità, nevroticismo e apertura all’esperienza), sebbene siano caratteristiche individuali stabili a fronte di eventi normativi (McCrae & John, 1992), potrebbero mutare in condizioni concomitanti di forte disagio. In particolare, il nevroticismo, caratterizzato da instabilità emotiva, vulnerabilità e insicurezza, è considerato il tratto più reattivo allo stress generato da un evento avverso (Jeronimus et al., 2013; Löckenhoff et al., 2009) e subisce un decremento grazie ad interventi clinici volti a migliorare la salute mentale (Roberts et al., 2017).

La ricerca di Sutin et al. (2020) ha testato in due fasi, a distanza di 6 settimane (Febbraio 2020 e Marzo 2020), un campione statunitense nei fattori di personalità, valutando il loro mutamento in risposta alla pandemia di COVID-19. Gli autori hanno verificato se il nevroticismo nelle sue componenti ansiose, potesse subire un incremento nella seconda fase, più acuta e complicata a livello psicologico. Inoltre, hanno ipotizzato che il fattore coscienziosità potesse aumentare in risposta alla diffusione di messaggi volti ad enfatizzare il senso di responsabilità individuale. Sono stati esplorati ulteriori cambiamenti nei soggetti considerati ad alto rischio: adulti con età superiore ai 65 anni e coloro in isolamento.

Per ciascuno dei 5 fattori di personalità, gli autori hanno valutato tre sfaccettature. Ansia, depressione e instabilità emotiva per il nevroticismo; socievolezza, assertività e livello di energia per estroversione; curiosità intellettuale, sensibilità estetica e immaginazione creativa per apertura all’esperienza; compassione, rispetto e fiducia per gradevolezza ed infine organizzazione, produttività e responsabilità per coscienziosità.

Rispetto alla valutazione nella prima fase della pandemia e contrariamente alle ipotesi iniziali, alla seconda somministrazione i livelli di nevroticismo sono diminuiti insieme alle componenti associate di ansia e depressione; mentre l’instabilità emotiva non ha subito cambiamenti.

Nonostante le ingenti perdite economiche, la necessità di accaparrarsi beni primari e la preoccupazione individuale della presenza del virus abbiano causato ansia e stress, il nevroticismo non ha subito un incremento. Questo risultato è ricondotto al fatto che tale tratto, in queste condizioni contestuali, non viene riferito al sé, ma ricondotto ad una condizione condivisa da tutti nella società, una sorta di destino comune. Dunque la tendenza globale è quella di valutare sé stessi non più emotivamente angosciati di quanto lo siano le altre persone, unita al collocamento all’esterno del motivo del disagio, piuttosto che ad una propria mancanza personologica.

Alla seconda valutazione, non sono mutati nemmeno i livelli di coscienziosità. Invece che un incremento del senso di responsabilità, è aumentato l’aspetto della produttività, indicante la sensazione di sentirsi efficienti nel fronteggiare la crisi.

Il rispetto (inteso come sfaccettatura di coscienziosità e valutato come tendenza ad aderire rigorosamente a principi etici) è diminuito tra i partecipanti adulti più giovani, con età inferiore a 65 anni e lavoratori. Questo risultato è ricondotto ad un item del NEO-PI-3 (McCrae & Costa, 2010), volto a misurare la volontà nel perseguire i propri impegni, ma che ora ha assunto un significato differente con il mutamento del contesto sociale: l’andare a lavoro/scuola mentre si è malati non è considerato segno di coscienziosità, bensì di incoscienza. Restare a casa invece manifesta senso di responsabilità e impegno nel tutelare l’intera comunità.

Mentre nella seconda fase della somministrazione l’estroversione era lievemente aumentata nelle sue componenti di assertività e livello di energia, la socievolezza non ha subito alcun cambiamento.

L’essere in isolamento ha influito sui tratti di personalità; coloro che non erano in quarantena avevano livelli inferiori di nevroticismo e umore meno depresso alla seconda misurazione. L’affettività negativa e la depressione, generati dallo stato di solitudine, possono persistere insieme alla componente ansiosa anche nel lungo periodo (Brooks et al., 2020). L’isolamento ha portato ad un decremento di energia, curiosità, apertura mentale, gradevolezza e coscienziosità; con noia, sfiducia e riduzione delle capacità organizzative, a causa della minore pressione nel dover portare a termine gli impegni in modo tempestivo.

Globalmente i cambiamenti nei tratti sono stati di entità minima, a sostegno di una stabilità intrinseca della personalità nel fronteggiare stress acuti provenienti dall’ambiente (Mc Crae & Costa, 1986). E’ possibile che i tratti di personalità siano resilienti a fattori stressanti per garantire una propria bussola personale, continuità del proprio concetto di sé e della propria identità (Specht et al., 2011). Probabilmente aspetti come le variazioni dell’affettività di stato e la salute mentale, potrebbero risentire maggiormente dell’impatto del COVID-19 (McGinty et al., 2020).

Tuttavia è anche probabile che cambiamenti della personalità generati dalla crisi richiedano più tempo per consolidarsi; dunque la ricerca presente è limitata per non aver potuto verificare mutamenti nel lungo periodo e in altri contesti. Infine, il contesto sociale più ampio svolge un ruolo rilevante: oltre ad influenzare gli stati affettivi ansiosi o depressivi, agisce mutando le concezioni individuali, come nel caso del significato attribuito all’item che misurava la responsabilità (ora divenuto segno di incoscienza) nel perseguire le proprie attività nonostante la malattia.

 

Meme: analisi psicologica della nuova forma di comunicazione

Quante volte ci capita di condividere sui social o su chat private immagini che rispecchiano a pieno un nostro sentimento, una circostanza vissuta con qualcuno o un’esperienza comune di vita quotidiana?

 

Questa forma di comunicazione e condivisione, che da anni ormai circola in Internet, prende il nome di “meme” ed è l’emblema della cultura partecipativa in cui viviamo, dove, tramite i mezzi tecnologici di cui disponiamo, non vi è più distinzione tra chi produce e chi consuma. Innumerevoli individui creano, diffondono e trasformano memi su reti amatoriali di partecipazione culturale mediata (Milner, 2012).

Il meme, dunque, è un artefatto della cultura pop, che tramite la combinazione di un’immagine e di una didascalia apparentemente incongrue articola sentimenti e reazioni relativi a momenti di vita quotidiana. È, quindi, una forma di narrazione altamente visiva che richiede una certa alfabetizzazione digitale e che mobilita sentimenti di appartenenza e processi identitari.

Il concetto di meme si è evoluto nel tempo e adattato allo sviluppo dei mezzi di informazione, incorporando nel corso della sua ontogenesi una serie di caratteristiche distintive senza le quali non potrebbe essere tale.

Evoluzione del concetto di meme: dalla biologia alla comunicazione digitale

Il termine meme è stato coniato nel 1976 dal biologo Richard Dawkins che, abbracciando un approccio darwiniano, lo utilizza per riferirsi a una “unità di trasmissione culturale”, un artefatto che, come il gene, si propaga di generazione in generazione tramite l’imitazione. L’autore fa l’esempio di “melodie, idee, slogan, modi di vestirsi, modi di fare vasi o di costruire archi”. Per Dawkins, l’evoluzione culturale ha superato quella biologica come determinante del comportamento umano. Il meme si basa sulla nozione di replicabilità e, secondo il biologo, deve essere dotato di tre proprietà per avere successo: longevità, fecondità e stabilità.

Successivamente, grazie al contributo di diversi autori, si sono sviluppate diverse direzioni ontologiche del concetto, passando da una prospettiva biologica a una epidemiologica (Castaño Díaz, 2013). Il cognitivista Dan Sperber (1996), intendendo il meme come un replicatore culturale, sposta l’attenzione sulla natura rappresentativa dello stesso e ne analizza il processo di propagazione, che può essere verticale (su generazioni, come i geni) e/od orizzontale (tra i membri di una certa popolazione, come i virus). La psicologa Susan Blackmore (1999), sostenendo il ruolo centrale dell’imitazione per la replicazione del meme, aggiunge che esso non è autonomo ma richiede un soggetto per riprodursi. Infine, Daniel Dennet (1995) contribuisce all’evoluzione del concetto sottolineandone la possibilità di variazione, contrapposta alla stabilità sostenuta da Dawkins (1976). I contributi di questi autori hanno permesso il passaggio da una prospettiva di riproduzione genetica (meme-gene) a una modalità di riproduzione virale (meme-virus) che prevede la presenza di un ospite per replicarsi.

Infine, come conseguenza del diffondersi del digitale e dalla constatazione delle caratteristiche di replicabilità, interattività e portata dei nuovi media delineati da Nancy Baym (2010), nasce il concetto di “Internet meme”. Esso è una unità di informazione (idea, concetto o convinzione) che si replica via Internet sotto forma di immagine, video o frase e che può mutare ed evolversi. Tale mutazione può avvenire per significato, per struttura o per forma.

Costrutti e teorie psicologiche relate al meme

Come anticipato, il meme nella cultura digitale è un artefatto che, combinando un elemento visivo con una descrizione, ironizza sulla quotidianità. Chi produce un meme non intende creare qualcosa di unico o dar vita a una “creazione spettacolare” quanto più a raggiungere il maggior numero di persone possibile tramite il senso di appartenenza e la condivisione di affinità affettive e la sua comprensione richiede la mobilitazione di una serie di conoscenze classificatorie (Kanai, 2016).

Una delle teorie psicologiche riscontrabili specialmente nelle fasi di produzione e comprensione di un meme è indubbiamente la teoria dell’insight di Köhler (1917). Con insight (o intuizione) lo psicologo gestaltista intende, in un contesto di apprendimento, un processo attivo di valutazione delle risorse a disposizione e di utilizzo creativo di esse, al di là della loro funzione originaria. Esso permette una ristrutturazione dei dati a disposizione che consente di cogliere nessi non percepiti prima. In effetti, un meme assume senso e significato solo se immagine e didascalia, apparentemente non correlate, vengono abbinate e l’allineamento concettuale dei due elementi consente di cogliere qualcosa di nuovo socialmente applicabile (Kanai, 2016).

Il costrutto psicologico che sicuramente emerge da questa trattazione è quello di identità, in particolare quella sociale, e i concetti di appartenenza e classificazione ad essa associati. Tajfel e Turner (1979) con identità sociale si riferiscono a quella parte dell’immagine di sé che deriva dalla consapevolezza di appartenere a un gruppo sociale, unita alle componenti valutative ed emotive legate a tale appartenenza. L’identità sociale si costruisce per mezzo di tre processi funzionalmente collegati: la categorizzazione, l’identificazione e il confronto sociale. L’individuo ordina e semplifica la realtà facendo riferimento a un numero limitato di categorie di appartenenza di vario tipo, tendendo a massimizzare le somiglianze tra soggetti di una stessa categoria e le differenze tra categorie contrapposte. Successivamente, la base psicologica per la costruzione della propria identità sociale è il senso di appartenenza a determinate categorie. Infine, l’individuo confronta continuamente il proprio ingroup con l’outgroup per mezzo di bias valutativi che lo portano a favorire il proprio gruppo e a svalutare gli altri (Fig. 1). Questi processi di definizione di un’identità sociale positiva rispondono al bisogno di autoaccrescimento e autostima.

Meme: un artefatto della cultura pop per l'espressione dei sentimenti onlineFIGURA 1 – Meme tratto dalla pagina facebook “La Cricca degli Psicologi Folli”

Infine, spesso i memi associano una determinata situazione a una espressione facciale estrapolata da altri contesti (film, eventi pubblici, quadri ecc.; vedi Fig. 2). La comprensione del meme, in questo caso, è facilitata dall’universalità di determinate espressioni facciali. Ekman, esponente dell’approccio psicoevoluzionista, con la teoria neuro-culturale (1973) afferma l’esistenza di programmi neurofisiologici innati che danno luogo a emozioni primarie a cui corrispondono specifiche espressioni facciali, universalmente riconosciute.

Meme: un artefatto della cultura pop per l'espressione dei sentimenti online

FIGURA 2 – Meme tratto dalla pagina facebook “Classical Art Memes”

 

Valutazione delle esperienze infantili attraverso l’Adult Attachment Interview durante il percorso terapeutico

L’Adult Attachment Interview (AAI) è un’intervista strutturata, composta di 20 domande, che indagano gli episodi che il paziente ha vissuto in relazione alle principali figure di attaccamento, tipicamente i propri genitori.

Silvia Locatelli – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Bolzano

 

Spesso nella pratica clinica ci interroghiamo rispetto a quali siano state le esperienze del paziente durante la sua infanzia. Questo obiettivo, in base ai diversi approcci terapeutici che possiamo utilizzare, ci aiuta nella concettualizzazione del caso e nella conseguente condivisione del funzionamento al paziente, ad esempio conoscendo come alcune psicopatologie hanno parte della propria eziologia nella storia di attaccamento (Platts, 2002). Ma non solo. Infatti, gli episodi infantili di per sé possono essere significativi, ma può essere più significativo come il paziente li narra. Il modo in cui il paziente racconta le proprie esperienze, infatti, può fornire informazioni su come potrebbe procedere il percorso terapeutico (Talia et al. 2013, Talia et al., 2019).

La valutazione che può essere più utile sia per raccogliere gli episodi infantili e sia l’ulteriore analisi di come il paziente li narra è la Adult Attachment Interview (AAI). Si tratta di un’intervista strutturata, composta di 20 domande, che indagano gli episodi che il paziente ha vissuto in relazione alle principali figure di attaccamento, tipicamente i propri genitori (Main, 2008, Steele, 2009, Hesse, 2016). Inoltre l’intervista va a indagare altri episodi significativi che elicitano la ricerca di vicinanza, o la cognizione della loro assenza, rispetto a lutti significativi e eventi traumatici, la relazione attuale con il proprio figlio, o immaginato, e di come la relazione con i genitori del paziente si sia evoluta nel tempo (Main, 2008, Steele, 2009, Hesse, 2016). Dopo la raccolta di tali informazioni, sarà poi necessario un lavoro di analisi del trascritto dell’intervista per codificare non tanto la veridicità degli episodi raccontati, ma come il paziente li narra secondo principi di pragmatica della comunicazione (Main, 2008). Si tratta di un passaggio importante, poiché ci darà informazioni rispetto a quanto l’intervistato sia collaborativo nelle risposte che propone, quanto sia esaustivo e rilevante nel racconto degli episodi e, soprattutto, quanto l’intero racconto sia coerente e non contraddittorio nella sua struttura (Main, 2008, Hesse, 2016, Steele, 2009). Quindi il prodotto dell’analisi ci darà indicazioni rispetto a come l’intervistato, o il nostro paziente, ricordi, rappresenti nella propria mente, e quindi racconti le proprie esperienze infantili, secondo quattro categorie principali: rappresentazione di attaccamento sicuro, di attaccamento insicuro distanziante, invischiato, e di lutto o trauma irrisolto (Steele, 2009). In questo articolo non tratterò le differenze peculiari tra le diverse classificazioni, per i dettagli rimando alla letteratura di riferimento per una sintesi accurata del rationale riguardante l’intervista e le classificazioni (Main, 2008, Hesse, 2016).

L’esito dell’intervista, al di là delle classificazioni sicure o insicure, ci potrà quindi fornire indicazioni su come il paziente possa aver affrontato situazioni passate, legate alla propria infanzia, ad alto carico emotivo. Secondo l’analisi potremo notare come ne possa parlare in modo coerente, oppure in modalità più disfunzionali, come preoccupandosene nel momento presente o distanziandosene in modo freddo e razionale. Inoltre, tenendo conto del presupposto che le rappresentazioni di attaccamento possano influenzare le relazioni interpersonali attuali, la conoscenza degli stili di attaccamento potrebbe elucidare alcune lacune nell’eziologia di alcune forme psicopatologiche e promuovere il processo di cambiamento psicoterapeutico (Platts, 2000). Non entrando nel merito del dibattito rispetto ad alcune forme di psicoterapie basate sull’attaccamento o informate sull’attaccamento, non è confutabile questo principio, ad esempio a partire dai lavori di Liotti sulle rappresentazioni di attaccamento legate al trauma e disturbi dissociativi (Liotti, 2006). Secondo questo principio, altri autori hanno ipotizzato come l’attaccamento sia rilevante per alcuni fenomeni psicopatologici: disturbo borderline di personalità (Bateman, 2006), disturbo da stress post traumatico (Stoval-McClough, 2006), depressione maggiore (McBride, 2006), disturbo ossessivo compulsivo (Dordon, 2009).

Infatti, l’utilizzo dell’intervista in più momenti del percorso terapeutico può aiutare il terapeuta a sviluppare una migliore comprensione delle difficoltà emotive passate del paziente, quindi di ampliare i modi di adattarsi alle difficoltà attuali che l’individuo mette in atto (Steele, 2009). Questo si evidenzia con l’impatto delle domande sull’intervistato, in modo da ‘allertarlo’ sulla rilevanza della propria storia di attaccamento, in modo da dare un senso alle modalità di coping attuali del paziente (Steele, 2009). Motivo per cui è preferibile la forma dell’intervista, piuttosto che un questionario carta e matita. Questo è possibile grazie alla struttura delle domande, poiché non appena l’intervista inizia, viene chiesto all’intervistato di descrivere la propria famiglia di origine, chi si è preso cura di lui/lei durante l’infanzia, come le relazioni si sono evolute nel tempo, e come si sente nel momento presente rispetto al modo in cui è stato cresciuto (Steele, 2009). Quindi l’AAI, e non altre forme di valutazione autosomministrate riguardo le relazioni attuali, può meglio aiutare il terapeuta nella comprensione di come la probabile storia di attaccamento del paziente possa aver formato le modalità di regolazione emotiva del paziente e le rappresentazioni mentali (o stati mentali) associate a tali stati emotivi (Steele, 2009). Questi sono i principi per cui l’AAI può essere utilizzata all’inizio del percorso di terapia.

Oltre al contenuto delle informazioni che l’AAI ci può fornire, alcuni autori hanno ipotizzato come queste possano influenzare il processo terapeutico di per sé. Per esempio i processi influenzati possono riguardare la relazione terapeutica e l’aderenza al trattamento.

Ad esempio, in un lavoro di Talia e collaboratori (2013) si è visto come, in base a quale fosse lo stile di attaccamento del paziente, quest’ultimo poteva relazionarsi in modo diverso al terapeuta durante le sessioni di terapia. Infatti i pazienti con attaccamento distanziante avevano la tendenza a evitare, o limitare, la vicinanza emotiva al terapeuta, mentre pazienti sicuri e preoccupati avevano la tendenza a cercarne la vicinanza, anche se pazienti preoccupati avevano poi la tendenza a resistere al supporto del terapeuta, contrariamente a pazienti sicuri (Talia, 2013). Inoltre, in un articolo successivo, gli stessi autori hanno evidenziato come i risultati alla AAI predicessero la valutazione della relazione terapeutica da parte del paziente a conclusione della terapia stessa (Talia, 2019). Quindi una valutazione iniziale con l’AAI potrebbe aiutare il clinico nella previsione di come la relazione terapeutica potrebbe procedere, a che cosa fare più attenzione, secondo il principio per cui le rappresentazioni di attaccamento influenzano come il paziente si avvicini o meno al proprio terapeuta. È interessante notare come in questo lavoro gli autori abbiano proposto un approccio terapeutico breve basato sulla relazione (BRT), quindi l’associazione tra attaccamento e relazione terapeutica possa essere stata ulteriormente esaltata (Talia, 2019). Quindi potrebbe essere interessante misurare se l’AAI predica l’andamento della relazione terapeutica in psicoterapie non basate esclusivamente sulla relazione.

Infine, in un altro lavoro di metanalisi si è indagato se le rappresentazioni di attaccamento possano influenzare l’alleanza terapeutica (Dinier, 2011). Gli autori hanno quindi dimostrato come pazienti con attaccamento sicuro abbiano un’alleanza terapeutica qualitativamente migliore, mentre pazienti insicuri presentino un’alleanza terapeutica più debole, influenzando negativamente l’efficacia della terapia a cui erano sottoposti (Dinier, 2011). Trattandosi di una metanalisi, gli autori hanno tenuto conto di diverse misure dell’attaccamento negli adulti, sarebbe interessante verificare la bontà di questo risultato rispetto al solo utilizzo della AAI. Infatti non esistono evidenze di una correlazione diretta tra rappresentazione di attaccamento con i propri genitori durante l’infanzia, misurato con l’AAI, e rappresentazioni di attaccamento nelle relazioni attuali (Steele, 2009). Trattandosi di due aspetti diversi, se non due costrutti differenti, dell’attaccamento nell’adulto, non è detto che entrambi possano influenzare l’alleanza terapeutica con la stessa potenza.

In generale l’AAI ha contribuito alla letteratura rispetto ad approcci terapeutici di tipo psicodinamico (Steele, 2009). In particolare è rilevante come una diversa analisi dell’AAI, riguardante maggiormente la funzione riflessiva e la mentalizzazione, e non le classificazioni di attaccamento, sia stata fondamentale per la terapia basata sulla mentalizzazione per il disturbo borderline di personalità di Fonagy (Bateman, 2006). Per quanto riguarda gli approcci esclusivamente cognitivi, non tanto l’AAI, ma il modello in generale della teoria dell’attaccamento, è stato utilizzato, in particolare per la psicoterapia cognitivo evoluzionista di Liotti (Liotti, 2006). Tuttavia altri autori hanno utilizzato il modello di attaccamento come parte delle teorie degli schemi di Beck (Platts, 2002). Nonostante, in questo lavoro non sia fatto un riferimento specifico all’AAI, potrebbe essere interessante verificare le ipotesi proposte con l’utilizzo dell’intervista, invece dell’utilizzo di misure autosomministrate.

È comunque importante ricordare come l’AAI non si sostituisca al lavoro terapeutico, ma sia un’aggiunta al lavoro terapeutico, indipendentemente dall’approccio scelto (Steele, 2009). Infatti si tratta di una buona valutazione che al di là delle analisi prodotte può essere materiale di discussione con il paziente, per esempio nel momento in cui riportasse eventi significativi. In particolar modo nella discussione di lutti irrisolti (Steele, 2009).

Tuttavia si tratta di una valutazione ‘costosa’. Infatti è un’intervista della durata di 60-90 minuti, per cui si dovrà tenere conto delle ore spese per l’analisi e la produzione di una relazione scritta al paziente. Quindi, tenendo conto che i test autosommnistrati hanno numerose limitazioni, tra cui non misurare le esperienze infantili ma le relazioni attuali, sono comunque strumenti più veloci sia nella somministrazione che nella codifica. Sarà quindi compito del terapeuta, attraverso il colloquio clinico, comprendere se una valutazione così dispendiosa come l’AAI possa essere utile al lavoro con il proprio paziente. Infatti, a meno che non si tratti di una valutazione necessaria, come attuando la terapia basata sulla mentalizzazione, il costo dell’AAI è alto, nonostante possa essere indiscussa l’utilità di questo strumento rispetto a come il paziente racconti la propria storia, e di come questa modalità possa influenzare il percorso, e l’efficacia, della terapia.

L’ingannevole paura di non essere all’altezza. Strategie per riconoscere il proprio valore (2020) di Roberta Milanese – Recensione del libro

Oggi più che mai stiamo assistendo a un’epidemia di insicurezze che mette a dura prova la nostra autostima. Roberta Milanese, in tal senso, ha utilizzato per il titolo del suo libro l’immagine figurata di “non essere all’altezza”. Ma chi posiziona l’asticella? Chi è il giudice di gara?

 

Nietzsche diceva che esistono due tipi di persone: le prime sono quelle che nascono già sicure di sé, come se avessero ricevuto l’autostima in dono alla nascita, e questi – dice lui –  sono gli stolti; le seconde, invece, sono quelle che tutti i giorni devono convincere lo “scettico che è dentro di loro” del proprio valore. E non importa quanto si impegnino e facciano, ogni giorno lo scettico è di nuovo lì.

Questa è una delle eleganti e profonde riflessioni contenute all’interno dell’ultimo lavoro di Roberta Milanese, psicologa e psicoterapeuta e ricercatrice associata presso il Centro di Terapeuta Strategica di Arezzo, diretto da Giorgio Nardone.

Un testo che affronta un tema molto sentito e comune a tutti, un tema di cui oggi si parla sempre di più, ossia dell’autostima e di come essa dovrebbe essere esibita o agita.

Oggi più che mai, sottolinea l’autrice, stiamo assistendo a una “epidemia di insicurezze” che mette a dura prova per l’appunto la nostra autostima, non soltanto nel confronto con gli altri, ma anche e soprattutto con noi stessi. Roberta Milanese in tal senso, ha utilizzato per il titolo del suo libro l’immagine del “non essere all’altezza”, come l’asticella che si posizione per i salti in alto. Ma chi posiziona l’asticella? Chi è il giudice di gara?

Ed ecco che all’interno del testo ritroviamo la distinzione tra giudice interno e giudice esterno ed un terzo giudice ossia quello nascosto dentro a un sintomo. Da tali distinzioni seguono le relative paure descritte nei vari capitoli del libro come:

  • Paura di esporsi;
  • Paura dell’impopolarità,
  • Paura del conflitto;
  • Paura del rifiuto;

Quelle appena elencate sarebbero le paure derivanti dalla voce del giudice esterno, e per ciascuna di queste ne vengono approfondite le tentate soluzioni fallimentari, relative psicotrappole ma anche soluzioni e prescrizioni, proposte al lettore attraverso aneddoti vissuti dall’autrice nel lavoro da psicoterapeuta e da coach aziendale.

Ritornando al concetto di psicotrappole, eccone alcune di quelle ritrovabili tra le pagine del testo:

  • Sottovalutare/sopravvalutare gli altri, noi stessi, le situazioni e la realtà;
  • La trappola del “lo sento quindi” è caratterizzata dall’attribuire delle proprietà a qualcuno o a qualcosa sulla base di sensazioni e non di esperienze dirette;
  • Evitare;
  • Chiedere aiuto;
  • Eccesso di controllo;
  • Difendersi preventivamente;
  • Rinunciare (una delle psicotrappole più deleterie in quanto rende reale ciò che temiamo).

Ma come accennato prima, l’autrice approfondisce un altro giudice, ossia quello interno che si esprime nelle seguenti paure:

  • Paura dell’inadeguatezza;
  • Paura del fallimento.

In questo caso la persona vive in una condizione più comunemente conosciuta come la sindrome dell’impostore, dove al di là dei reali obiettivi raggiunti, feedback positivi da parte degli altri, la persona teme di uscire allo scoperto ed essere giudicata come fallita, incompetente; insomma, come l’autrice descrive, una situazione simile al giocatore di poker in cui potrebbe essere svelato da un momento all’altro il grande bluff.

Un testo ricco di riflessioni dove diventa difficile non ritrovarsi e non trovare utili spunti come terapista, un testo che mette in luce una delle grandi trappole nella quale oggi noi tutti, e soprattutto i giovanissimi, tendiamo a cadere, ossia l’idea ingannevole di dover a tutti i costi essere all’altezza. Come ricorda Roberta Milanese, spesso i nostri pazienti giungono da noi presentando come problema il non avere autostima a sufficienza, ma la stessa ci ricorda che l’autostima, come presente anche nell’aforisma di Nietzsche, non si eredita, ma si costruisce giorno per giorno, affrontando le sfide che la vita ci propone perché la rinuncia, ricorda Honoré de Balzac, è un suicidio quotidiano. D’altro canto va fatta anche attenzione al meccanismo opposto di mettersi costantemente alla prova, ma il tutto deve essere valutato secondo il fine che si cela dietro le nostre scelte. Infine mi piacerebbe concludere la presente recensione così come si conclude anche il libro, ossia riportando quello che l’autrice chiama Decalogo per una sana autostima:

  • Affronta le sfide che la vita ti propone;
  • Alza progressivamente l’asticella, ma non porti obiettivi impossibili;
  • Nessuno può “saltare” al tuo posto;
  • La perfezione è nemica dell’eccellenza;
  • Non si può piacere a tutti;
  • Le relazioni sono come il tango;
  • Chi non cambia è perduto;
  • Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce;
  • Impiega il tuo tempo nel migliorare te stesso;
  • Si è sconfitti solo quando ci si arrende.

 

Gli effetti del cambiamento delle stagioni sui pazienti affetti da disturbo ossessivo-compulsivo

Il disturbo ossessivo compulsivo (DOC; American Psychiatric Association, 2013) presenta un’elevata comorbilità con differenti disturbi dell’umore, tra cui il disturbo depressivo maggiore, il disturbo distimico ed il disturbo bipolare (Ruscio et al., 2010).

 

Nonostante numerosi studi abbiano confermato la compresenza di queste di patologie, la co-occorrenza tra il DOC e il disturbo affettivo stagionale non è stata ancora indagata, sebbene alcune evidenze abbiano mostrato una significativa variazione stagionale nella gravità del disturbo ossessivo compulsivo (Brewerton & Ballenger, 1992; Yoney et al., 1991). Inoltre, la prevalenza del DOC è maggiore in autunno piuttosto che in estate (de Graaf et al., 2005).

Vi è un’ulteriore caratteristica che accomuna il disturbo ossessivo-compulsivo ed il disturbo affettivo stagionale, ovvero una disregolazione del sistema serotoninergico che, secondo numerose evidenze, gioca un ruolo fondamentale nell’eziologia di entrambi i disturbi. I dati su cui si fonda l’ipotesi del coinvolgimento serotoninergico derivano, in entrambi i casi, prevalentemente dai trattamenti farmacologici (Cassano, 2006). Difatti, gli inibitori della ricaptazione della serotonina (SSRI), rientrano nell’trattamento farmacologico di elezione sia per quanto attiene al disturbo affettivo stagionale (Lam et al., 2006), che per il disturbo ossessivo-compulsivo (Fineberg et al., 2015).

È sulla base delle considerazioni appena esposte che, nel 2017, un gruppo di ricercatori si è proposto di investigare la frequenza dei cambiamenti dell’umore stagionali in pazienti affetti da un disturbo ossessivo-compulsivo e di verificare se il passaggio delle stagioni fosse associato ad una maggior gravità di ossessioni, compulsioni ed ansia tra i pazienti con DOC con cambiamenti stagionali dell’umore.

In prima battuta, i ricercatori hanno valutato i pazienti indipendentemente dalle stagioni, variabile di cui si è tenuto conto in un secondo momento. Ulteriormente, gli autori hanno analizzato la relazione tra la durata della luce solare nel giorno della valutazione e la gravità dei sintomi associati al DOC, di quelli depressivi e di quelli ansiosi.

Lo studio è stato effettuato su un campione costituito da 104 soggetti affetti da un disturbo ossessivo-compulsivo e 125 individui di controllo. I due gruppi sono stati ulteriormente divisi sulla base del periodo della valutazione, ovvero rispetto ai pazienti con DOC, 51 sono stati valutati in inverno e 53 nelle stagioni non invernali, mentre rispetto al gruppo di controllo, 61 soggetti sono stati valutati nei mesi invernali e 64 nel restante periodo.

È bene specificare che tutti i partecipanti vivevano ad Istanbul da almeno tre anni, città caratterizzata da un clima mediterraneo “più fresco”.

Al fine di valutare i cambiamenti dell’umore e del comportamento in funzione delle stagioni, ai partecipanti è stato richiesto di compilare il Seasonal Pattern Assessment Questionnaire (SPAQ; Rosenthal et al., 1987). Questa scala di autovalutazione richiede al soggetto di indicare sia se abbia mai vissuto dei cambiamenti stagionali ed, eventualmente, indicarne la gravità. È necessario, però, specificare che il suddetto questionario non è da considerarsi uno strumento diagnostico per il disturbo affettivo stagionale.

Inoltre, sono stati somministrati il Yale-Brown Obsession and Compulsion Scale (Y-BOCS; Goodman et al., 1989), utilizzato per valutare la gravità del disturbo ossessivo-compulsivo, l’Hamilton Depression Rating Scale-17 (HDRS-17), necessario al fine di indagare la gravità dei sintomi depressivi (Williams, 1978) ed infine, ai soli pazienti affetti da DOC, è stato chiesto di compilare il Beck Anxiety Inventory (Beck et al., 1998) con l’obiettivo di analizzare le possibili manifestazioni ansiose dei soggetti.

Sulla base dei risultati ottenuti, si è evinto che i pazienti affetti da un disturbo ossessivo-compulsivo manifestavano più cambiamenti affettivi stagionali rispetto ai controlli. Inoltre, quando i pazienti sono stati valutati nel periodo in cui manifestavano le alterazioni, si è assistito ad un incremento sia della gravità dei sintomi depressivi che delle compulsioni, rispetto al periodo in cui i pazienti non avevano presentato i cambiamenti affettivi stagionali. Da ciò si è ipotizzato che il cambiamento delle stagioni possa influire sulla gravità di alcuni sintomi nei pazienti con DOC. Difatti, in coloro i quali riportavano cambiamenti affettivi stagionali, la durata della luce solare del giorno della valutazione ha predetto la gravità dei sintomi depressivi e delle compulsioni, ma non la gravità del DOC e delle ossessioni.

Concludendo, la co-occorrenza dei cambiamenti affettivi stagionali e del disturbo ossessivo-compulsivo, lascia ipotizzare che essi condividano un’eziologia comune ma, come evidenziato dagli autori, l’effetto longitudinale dei cambiamenti affettivi stagionali sulla qualità della vita, sulla prognosi e sul rischio di suicidio dei pazienti con disturbo ossessivo-compulsivo, merita ulteriori approfondimenti.

 

I 3 campanelli d’allarme per riconoscere un Disturbo Alimentare: a cosa prestare attenzione – VIDEO dall’incontro del CIP Milano

Il Centro Disturbi dell’Alimentazione delle Cliniche Italiane di Psicoterapia – CIP Milano ha proposto un incontro per imparare a riconoscere e a gestire i Disturbi Alimentari grazie ai consigli pratici degli esperti. Pubblichiamo, per i nostri lettori, il video dell’incontro.

 

I Disturbi Alimentari rappresentano un problema di ampia diffusione e di grande interesse. Tuttavia, la conoscenza di questi disturbi appare ancora ridotta e spesso le informazioni divulgate sono confuse e contraddittorie. Ne deriva che chi soffre di questi disturbi, e chi vive a stretto contatto, fatica nel riconoscere tempestivamente i segnali legati ad un problema alimentare.

Durante l’incontro del 26 Settembre, i professionisti del CIP Milano hanno illustrato quali sono i tre campanelli d’allarme ai quali prestare attenzione, secondo una prospettiva multidisciplinare. Pubblichiamo, per i nostri lettori, il video dell’evento.

 

I 3 CAMPANELLI D’ALLARME PER RICONOSCERE UN DISTURBO ALIMENTARE:
A COSA PRESTARE ATTENZIONE

Guarda il video integrale del webinar:

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Monogamia e tradimenti: la storia naturale della vicenda amorosa. Perché ci si innamora? – Una serie di Roberto Lorenzini

Oggi pubblichiamo la terza parte del settimo lavoro della serie di Roberto Lorenzini, dedicata al tema della monogamia e delle sue implicazioni psicologiche, affettive, relazionali e, perché no, sessuali. Lorenzini propone una tesi forte: la monogamia non funziona. E prosegue il suo racconto esplorando lo sviluppo della vicenda amorosa e la sua prima fase: l’innamoramento.

MONOGAMIA E TRADIMENTI – (Nr. 7.1.3) La storia naturale della vicenda amorosa. Perché ci si innamora?

7. La storia naturale della vicenda amorosa

7.1.3 Perché ci si innamora?

E perché ci si innamora? (Branden 2010, Galimberti 2004). Se non ci si accontenta della saggia prospettiva di De André secondo cui “l’amore ha l’amore come solo argomento” secondo la quale non si devono cercare cause perché l’amore non ne ha essendo lui stesso il motore immobile della vita nell’universo, si possono trovare alcuni tipici fattori favorenti ed altri scatenanti. Tra i primi sono da annoverare certamente aspetti genetici (Lorenzini e Sassaroli, 1995). Esistono evidenti differenze individuali ereditarie non solo nei caratteri somatici, ma anche negli aspetti psicologici come la tendenza ad essere paurosi o coraggiosi, la tendenza ad essere conservatori oppure esplorativi e alla ricerca di novità, o, ancora all’estroversione o all’introversione. Più gli studi sul genoma e l’ereditarietà procedono, più gli aspetti ereditari del comportamento sono considerati determinanti dopo che nel ‘900 soprattutto le cause ambientali e culturali erano state ritenute decisive. Tra le varie caratteristiche innate possiamo certamente elencare: la predisposizione all’esperienza dell’innamoramento così come l’importanza della sessualità che sia negli uomini che nelle donne è diversa da persona a persona e, infine, la capacità innata di entrare facilmente in relazione con l’altro che potremmo anche chiamare “simpatia o seduttività naturale”. È molto probabile che tra le due ci sia un rinforzo reciproco perché spesso diamo importanza a ciò che ci riesce bene e, di contro, ci riesce bene ciò cui diamo importanza. Una prova indiretta dell’ereditarietà di tali aspetti la si ritrova ricostruendo le storie plurigenerazionali delle famiglie. In alcune famiglie prevalgono unioni monogamiche mentre in altre la norma è la presenza di molteplici storie affettive contemporanee e non (Lorenzini e Sassaroli, 2000). Un’altra prova di una tendenza innata sta nel fatto che l’andamento delle precedenti storie affettive di un soggetto è il predittore più attendibile dell’andamento delle future. Si potrebbe persino costruire un algoritmo che a partire dai dati sulle storie già vissute dai due protagonisti di una coppia ne preveda evoluzione e durata. Una conoscenza implicita di tale regola la si ritrova nelle affermazioni di reciproca sospettosità nelle coppie coniugali originate da una precedente relazione adulterina (ognuno sa che l’altro è un potenziale traditore avendolo già fatto).

Altro fattore predisponente, in parte anch’esso genetico, è una personalità “dipendente” che essenzialmente consiste nel bisogno assoluto di un altro e potremmo dire, nell’avere il baricentro della propria identità ed esistenza spostato fuori di sé (Lorenzini e Sassaroli, 1995).

Un fattore scatenante e assolutamente contingente ma che viene messo in primo piano nei conflitti che spesso accompagnano una chiusura con lo scopo di ribaltarne la responsabilità sull’altro è la presenza di qualche eventuale importante bisogno inevaso nella relazione presente che il nuovo oggetto d’amore va a colmare.

Infine, un altro fattore favorente l’innamoramento sono dei particolari momenti di passaggio esistenziale in cui un nuovo assetto identitario va definito e di cui l’altro diventa testimone. Mentre nell’amore (ovvero nella forma cronicizzata) l’altro è il testimone di una vita (come vedremo più avanti), nell’acuzie dell’innamoramento l’altro è il validatore assoluto del presente.

Fasi particolarmente esposte saranno dunque l’adolescenza in cui si passa da una identità fondata sulla famiglia d’origine ad una fondata sul mondo esterno e il gruppo dei pari; l’inizio dell’età adulta con la conquista dell’autonomia e la creazione di un nuovo nucleo familiare e infine il passaggio alla terza età proverbiale per le crisi da menopausa e andropausa quando più forte emerge il bisogno di riconoscimento per un corpo e una identità anche di ruolo sociale che cambia drasticamente. Non è dato sapere se l’innamoramento sia esperienza frequente anche subito dopo il passaggio nell’al di là che tra tutti è il più radicale, vedremo a suo tempo se ci innamoreremo di qualche angelo o di una diavolessa procace. Una volta compreso il ruolo di validazione del sé che l’innamoramento può avere, non solo nelle personalità narcisistiche dove tale reciproca ricarica è in primo piano nella genesi e nel mantenimento, non sarà difficile immaginare che innamoramenti possono essere scatenati da cambiamenti della propria condizione (gli esiti di una grave malattia, tracolli economici, pensionamento, perdita di importanti legami). Quando ci si scopre diversi si ha bisogno di qualcuno che validi e stabilizzi la nuova identità.

Una volta innescato l’innamoramento funzionano da rinforzo le emozioni positive che si sperimentano nello stare insieme e da rinforzo negativo le pene indicibili dell’assenza. Spesso le persone si interrogano se una certa scelta, ed in particolare quelle affettive, siano state fatte razionalmente o siano frutto di condizionamenti come se non fossimo noi stessi il frutto della nostra storia, dei nostri incontri e fosse possibile e auspicabile essere una “tabula rasa”. Altro non siamo se non l’insieme dei nostri determinanti genetici e ambientali (Pinker 2006).

L’innamoramento che è esclusivo, nel doppio significato che non lo si può essere di due oggetti contemporaneamente né si può tollerare che l’altro lo sia, se vissuto pienamente con una full immersion può attenuarsi progressivamente fino a cessare del tutto o trasformarsi nella forma cronica normalmente chiamata “amore” che perde quasi del tutto la caratteristica dell’esclusività e smussa molti degli aspetti assolutistici sopradescritti diventando altro di cui parleremo più avanti.

Si può verificare anche una evoluzione negativa, cronica e dannosa dell’innamoramento che è il cosiddetto “innamoramento interruptus”. A somiglianza del lutto non elaborato, fissa l’immagine dell’oggetto in una teca intoccabile e paralizza l’esistenza del soggetto in un presente che non ha futuro e non riesce a diventare passato (i terribili incorruttibili amori eterni che sottraggono libido all’esistenza di cui è ricca la letteratura di tutti i tempi): i segni più evidenti di questo blocco sono i ricordi intrusivi e la perdita di interesse per il presente reale, una sorta di depressione cronica che può condizionare tutta la vita. Per la fenomenologia delle varie fasi dell’esperienza amorosa si veda Roland Barthes Frammenti di un discorso amoroso un saggio in bilico tra scienza, fenomenologia e poesia del semiologo francese organizzato per 80 voci ordinate alfabeticamente, il libro è uscito per le Éditions du Seuil nel 1977 e tradotto da per Einaudi nel 1979.

 

Workaholism: le conseguenze della dipendenza da lavoro

Cosa porta un individuo a sviluppare il bisogno di lavorare incessantemente arrivando addirittura ad oscurare la propria vita privata? E quali potrebbero essere le conseguenze che tale dipendenza comporterebbe nella vita del dipendente da lavoro?

Erika Virgili – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Ebbene, come ogni altra dipendenza anche quella da lavoro è sorretta da particolari meccanismi che comportano conseguenze non solo a livello individuale, ma anche relazionale e lavorativo. E’ interessante riflettere, ad esempio, sul tipo di contributo che un workaholic potrebbe apportare all’interno di un’organizzazione o di un’azienda.

Innanzitutto il termine Workaholism è stato coniato da Oates (1971), il quale definisce tale patologia come una compulsione e un incontrollabile bisogno di lavorare incessantemente. Da allora il termine è divenuto ampiamente conosciuto ed usato sempre più. Considerando che il termine “workaholism” deve la sua derivazione al termine “alcoholism” (alcolismo), è intuitivo dedurre la connotazione negativa del termine.

Il workaholism potrebbe sembrare un concetto ingannevole e sfocato se viene identificato semplicemente con la tendenza di lavorare un numero di ore superiore alla norma. Molteplici, infatti, potrebbero essere le motivazioni che spingono un individuo a lavorare un gran numero di ore: presenza di problemi economici, personali o familiari, desiderio di rispettare le aspettative dei propri superiori, la forte ambizione nel fare carriera (Schaufeli, Taris & Rehnen, 2008); ma non è questo che ci indica la presenza di una dipendenza psicologica dal lavoro. McMillan e O’Driscoll (2006) hanno identificato le caratteristiche principali degli individui affetti da workaholism, individuandone due dimensioni principali:

  • una dimensione comportamentale, riscontrata nel lavorare eccessivamente;
  • una dimensione cognitiva, riscontrata nel lavorare compulsivamente.

Anche Snir e Harpaz (2004) definiscono la Workaholism secondo aspetti su base sia comportamentale che cognitiva, sottolineando come il grande investimento di tempo in attività e pensieri inerenti al lavoro non sia indotto da necessità esterne. Secondo alcuni studi varie sono le conseguenze negative che i workaholics sperimentano in primis su stessi e sulla loro salute, tant’ è che già Oates nel 1971 sottolineò come, in maniera molto simile agli alcolisti, i maniaci del lavoro tendono ad avere problemi non solo legati alla salute, ma anche alla propria serenità e conseguentemente alle relazioni interpersonali e sociali: il tutto a causa dell’incontrollabile bisogno di lavorare. La workaholism è infatti strettamente correlata alle problematiche psico-fisiche dell’individuo dipendente (Andreassen et al., 2007; Burke & Matthiesen, 2004), che presenta uno stile di vita assolutamente inflessibile e compulsivo, arrivando ad ostacolare e sacrificare i rapporti interpersonali come la rete familiare e amicale del soggetto stesso. Le persone dipendenti da lavoro sono infatti assolutamente disposte a sacrificare i rapporti personali allo scopo di poter trascorrere maggior tempo sul posto di lavoro, traendone di conseguenza maggior soddisfazioni possibili (Porter, 2001). Robinson e Post (1997) hanno valutato come le persone dipendenti da lavoro instaurino, solitamente, capacità comunicative inadeguate e inefficienti con la propria rete familiare, all’interno della quale i ruoli non risultano ben consolidati e definiti.

Alcuni studi dimostrano un rapporto positivo tra workaholism e il conflitto lavoro-famiglia. Robinson, Flower e Carroll (2001) hanno evidenziato come le persone con workaholism mostrino attaccamenti emozionali quasi inesistenti, supportati dalla ridotta sperimentazione di sentimenti positivi e di attrazione fisica nei confronti del partner rispetto agli individui non workaholics. Infatti tutte le risorse dei workaholics vengono ossessivamente e compulsivamente spese nel lavoro, non riuscendo quindi ad offrire sostegno emotivo al partner e alla famiglia, per la quale dispone di risorse più consumate e povere di quelle impiegate nel lavoro. Questo punto di vista è dunque coerente con la convinzione che le persone affette da workaholism siano in possesso di risorse limitate e poco flessibili. Di conseguenza la gestione di più ruoli, come quello del coniuge e del lavoratore, diventa molto problematica al punto di provocare ansia e frustrazione, soprattutto nel momento in cui l’individuo è impossibilitato al lavoro.

Lo stile di vita inflessibile e compulsivo fa in modo che l’individuo sviluppi rapporti difficili non soltanto con i componenti della famiglia, ma anche con i colleghi di lavoro.

La workaholism apporta dunque conseguenze negative sia psicofisiche sia sociali, che impatto avrà sull’individuo a livello lavorativo e sull’azienda a livello produttivo?

La workaholism, che sia alimentata o meno da determinate impostazioni lavorative dell’organizzazione in cui la persona workaholic opera ed interagisce, oltre ad avere un notevole impatto sul benessere psico-fisico dell’individuo stesso, comporta anche determinate conseguenze all’interno delle organizzazioni, in termini di produzione e non solo.

Sicuramente la cultura e l’impostazione dell’organizzazione lavorativa, ovvero valori condivisi, norme e credenze che vigono tra i membri della stessa, è rilevante poiché alcune aziende o industrie basandosi su determinati principi, potrebbero sostenere o addirittura provocare la dipendenza da lavoro, andando ad esempio a rinforzare e promuovere il lavoro eccessivo e la competitività (Schein, 1990)

Come già anticipato inizialmente, il ruolo e l’utilizzo della tecnologia in azienda ha una grande influenza nello sfondo socio-lavorativo della dipendenza da lavoro, poiché la correlazione tra tecnologie e workaholism può presentarsi secondo diverse sfaccettature: da un lato, il progresso della tecnologia potrebbe permettere ai lavoratori di integrare più facilmente le esigenze lavorative con le esigenze della comune vita privata, concedendo agli individui maggior flessibilità sulla gestione del tempo di lavoro, andando a ridurre i comportamenti dei workaholics; dall’altro lato però, come inizialmente sottolineato, lo sviluppo delle tecnologie nel mondo del lavoro ha reso più labile il confine tra lavoro stesso e vita privata, rendendone i margini più facilmente permeabili e andando conseguentemente ad alimentare comportamenti compulsivi verso il lavoro stesso dati dalla possibilità di “connettersi” al lavoro in qualsiasi momento e in qualunque luogo (Porter, 2001). Da uno studio portato avanti nel 2004 da Ammons e Markham è risultato che coloro che sfruttano la possibilità di lavorare da casa sviluppano una maggior vulnerabilità alla dipendenza da lavoro. Motivo per cui si potrebbe pensare che lo sviluppo della tecnologia potrebbe fornire un costante stimolo per evocare comportamenti di dipendenza.

Solitamente, all’interno di un’organizzazione, i dipendenti che lavorano un maggiore numero di ore con dedizione, sono poi coloro che ottengono promozioni con conseguente aumento di stipendio, in quanto dedicare molto tempo al lavoro viene considerato come un vero e proprio investimento, spesso premiato dal mercato stesso. I dirigenti tendono dunque a “sponsorizzare” coloro che mostrano tale diligenza. Infatti, secondo Burke (2001) gli individui con workaholism, inizialmente, sono spesso i primi a ricevere promozioni. Ma la carriera che i workaholics riescono ad ottenere non è assolutamente senza costi, poiché se da un lato il lavoro porta grandi soddisfazioni, dall’altro, come già detto, non si può che assistere ad un impoverimento della salute fisica, psicologica e della vita privata (Ng, Sorensen & Feldman, 2006). Se è vero che i workaholics possono ottenere risultati lavorativi positivi a breve termine, arrivando quindi ad alimentare ed incrementare i propri comportamenti di dipendenza, cosa potrebbe accadere prendendo in considerazione la prestazione dello stesso in periodi di tempo più lunghi? In realtà i ritmi lavorativi sempre molto elevati, il sostenuto perfezionismo, l’incapacità di delegare, il tutto con conseguente stanchezza fisica e mentale e la sfiducia nell’operato degli altri, interferiscono con il corretto funzionamento lavorativo sia del workaholic stesso e sia del workaholic in relazione ai colleghi (basti pensare a compiti che necessitano del lavoro di squadra), con probabile rendimento scadente causato dalla mancanza di risorse comunicative adeguate e necessarie allo svolgimento del compito (Ng, Sorensen & Feldman, 2006).

Per questo motivo Ng, Sorensen e Feldman (2006) sostengono che la workaholism sia correlata per brevi intervalli di tempo ad una propria soddisfazione lavorativa alimentata da buone performance, mentre per intervalli di tempo più ampi a stanchezza fisica e mentale nutrita da un esasperato perfezionismo e problemi comunicativi tra colleghi.

Si pensi ai dipendenti che, all’interno di un’azienda, devono collaborare con un collega workaholic che dedica al lavoro molte ore, in modo ossessivamente perfezionistico: questo potrebbe esercitare indirettamente pressione sugli altri dipendenti. In alcuni casi la pressione lavorativa può aiutare a mantenere o aumentare la concentrazione e l’impegno sul lavoro, ma nella collaborazione con i workaholics la pressione intensa e continua potrebbe avere un impatto negativo sul piacere e sulla dedizione al lavoro degli altri dipendenti coinvolti. Se l’assetto organizzativo favorisce e premia i workaholics, saranno conseguentemente penalizzati i dipendenti che utilizzano il proprio tempo in maniera efficiente e sufficiente.

Considerando che gli individui con workaholism ricevono un accrescimento del proprio ego sulla base del coinvolgimento che hanno nei confronti del lavoro, il bene dell’organizzazione, dell’azienda o del team dei lavoratori risulterà secondario all’attuazione di comportamenti e meccanismi finalizzati ad accrescere e salvaguardare la propria autostima. Ciò vuol dire che il risultato finale del lavoro sarà secondario alla tutela del proprio ego, nonostante la risposta comune a qualsiasi tipo di problematica che si presenterà sia in ambito lavorativo che nella vita privata, sarà quella di lavorare un maggiore numero di ore. I workaholics troveranno molteplici motivazioni per giustificare la grande quantità di tempo trascorso a lavoro, in quanto avranno bisogno di organizzare scrupolosamente le proprie attività, di verificare i risultati ottenuti, e di programmare come raggiungere gli obiettivi preposti secondo le loro modalità. Gli errori o le mancanze nel lavoro svolto, verranno utilizzati come ulteriore motivazione per trascorrere ulteriore tempo a lavoro, affinché il proprio operato possa risultare corretto ed apprezzato. Per tutte le motivazioni fin qui elencate, spesso i lavori in team in presenza di un workaholic risultano inefficienti e il lavoro di squadra tra il dipendente da lavoro e gli altri colleghi improduttivo: ecco come vengono così persi i potenziali guadagni di un lavoro portato avanti secondo una collaborazione tra colleghi, andando a danneggiare l’efficacia dell’azienda. I colleghi, evitando i workaholics, tentano di operare senza il beneficio del contributo di un membro dell’organizzazione, assumendosi di conseguenza maggiori responsabilità del lavoro da svolgere e con la possibilità di aumentare pressioni sui colleghi di pari livello o su quelli con mansioni inferiori, creando un effetto a catena; questa è la modalità secondo la quale la problematica si diffonde attraverso tutta l’organizzazione. Ulteriore caso è quello in cui un manager o un superiore soffra di workaholism: ciò implicherà la grande difficoltà dell’individuo di delegare il lavoro, la richiesta esigente rivolta al personale, il controllo totale sulle attività svolte, le influenze che sia i colleghi che i subordinati potrebbero subire dalla messa in atto delle strategie del workaholic. Tutti aspetti che creano grandi problematiche all’interno di un’azienda, sia in termini di salute psico-fisica degli individui sia in termini di perdita più strettamente economica.

A lungo termine il workaholic è lasciato senza alcun beneficio, nonostante tali individui tendano a fissarsi obiettivi sempre più elevati, con la speranza che, una volta raggiunto, il senso di benessere e di fierezza durerà (Porter, 1996).

Le organizzazioni lavorative oggi sembrano essersi rese conto che i continui cambiamenti nel mondo del lavoro richiedono senza dubbio lavoratori flessibili, pronti a cambiare le proprie strategie e ad adattarle alle richieste del mercato in continuo mutamento. L’inflessibilità dei maniaci del lavoro non può essere in sintonia con questo approccio continuamente ri-adattivo, ragione per cui gli individui con tale dipendenza potrebbero non risultare all’altezza di lavorare in un’azienda che vada al passo con i tempi.

 

ACT in breve. Una guida illustrata verso una “Mente liberata” – Video intervista a Steven Hayes

L’approccio ACT si è dimostrato efficace per favorire il cambiamento nelle persone e per sviluppare una flessibilità psicologica che ci consenta di vivere a pieno la nostra vita in linea con ciò che è importante per noi. La video intervista a Steven Hayes.

 

Di nuovo in compagnia del grande Steven Hayes, Psicologo clinico americano e Professore di Psicologia dell’Università del Nevada, autore di numerose pubblicazioni e libri tradotti anche in italiano come “ACT. Teoria e pratica dell’Acceptance and Commitment Therapy”, “Smetti di soffrire, inizia a vivere. Impara a superare il dolore emotivo, a liberarti dai pensieri negativi e vivi una vita che vale la pena di vivere”, “Il manuale del terapeuta ACT. Apprendere e allenare le abilità dell’Acceptance and Commitment Therapy” traduzione italiana della seconda edizione americana di Learning ACT Edition, ed ultima pubblicazione tradotta in italiano uscita a luglio 2020 “La mente liberata. Come trasformare il tuo pensiero e affrancarti da stress, ansia e dipendenze” (Titolo originale: A Liberated Mind. How to pivot Toward what matters) edito dalla Giunti.

La mente liberata è un libro completo, dove Steven Hayes mette a disposizione tutte le sue esperienze di uomo, professionista e soprattutto terapista ACT, spiegandoci accuratamente, ma con un linguaggio accessibile anche ai non addetti ai lavori, i principi dell’ACT, perché tale approccio funziona nel favorire il cambiamento nelle persone e come allenarci per sviluppare una flessibilità psicologica che ci consenta di vivere a pieno la nostra vita, in linea con ciò che è importante per noi.

E proprio quest’ultimo lavoro ci guiderà nell’intervista di oggi e più precisamente parleremo dell’ E-book realizzato dello stesso con disegni rappresentativi di alcune parti contenute all’interno del libro e disegnate dalla figlia Esther.

L’E-book è scaricabile gratuitamente >> CLICCA QUI.

Segnalo inoltre, anche la possibilità di avere lo stesso tradotto in lingua italiana ad opera del collega Salvatore Torregrossa, che ringrazio per il grande lavoro di divulgazione e diffusione del modello ACT e relativi materiali utili attraverso siti e social.

La traduzione in italiano è reperibile CLICCANDO QUI.

L’e-book immortala parti centrali del testo e di conseguenza del lavoro sulla flessibilità psicologica che può aiutare ognuno di noi ad uscire dalle proprie trappole.

Vediamone alcune:

 

 

 

 

Immagini tratte dall’E-book

Con la presente video intervista, faremo un viaggio tra le varie pagine di quest’ultimo ed avremo il privilegio di sentirle commentare e spiegare da colui che gli ha dato vita.

Buona visione.

 

GUARDA IL VIDEO DELL’INTERVISTA A STEVEN HAYES:

 

Stati e reti: mente vagabonda, rimuginio e REM

Esistono diverse forme di pensiero vagabondo, o mind wandering, auto generate in base a ciò su cui il soggetto focalizza la concentrazione e sui vincoli automatici legati al processo biologico della paura.

 

Il “mind wandering” indica la tendenza della mente a vagare, soprattutto in condizioni di sonnolenza o con pochi imput sensoriali (Hobson, 1988; Klinger, 1978; Pope, 1978). James (1890) spiegò che il controllo volontario dell’attenzione non è esclusivamente focalizzato sull’impedire alla mente di vagare; per l’appunto Wegner (1997) osservò come gli sforzi attentivi fatti per tenere l’attenzione su un’attività specifica, cercando così di evitare distrazioni, possano paradossalmente aumentare la quantità di mind wandering (Critcher e Gilovich, 2010). La rete mind wandering, conosciuta anche come “default mode network” (DMN) – che comprende le cortecce infero-parietale, temporale, prefrontale mediale e cingolata posteriore – è composta dall’attivazione simultanea di differenti regioni del cervello che si verifica quando la mente non è focalizzata su qualcosa di specifico (Raichle et al., 2015). In una recente revisione, Fox e colleghi (2018) hanno evidenziato come esistono diverse forme di pensiero vagabondo auto generate in base a ciò su cui il soggetto focalizza la concentrazione (ad esempio, “che regalo dovrei comprare?”) e su vincoli automatici legati al processo biologico della paura (“dov’è finita quella vespa?).

Il rimugino è una funzione mentale rivolta al futuro che ci incoraggia a evitare eventi o situazioni avverse (Borkovec, 1994, p.28). Tali scenari vengono immaginati in modo estremo attraverso l’utilizzo di pensieri visivi e verbali che portano il soggetto ad intraprendere azioni evitanti.

Addis e colleghi (2007) hanno affermato che il DMN è chiamato anche “imagination network”, in quanto le regioni cerebrali sono attive quando gli individui pensano al passato e al futuro. Il “mind wandering ansioso”, detto anche rimuginio, si verifica quando l’attività all’interno di questa rete è associata ad una risposta biologica di paura, che scatena nel soggetto scenari immaginari catastrofici che spingono la mente vagabonda verso comportamenti evitanti (Eichler-Summers, 2019). L’attività di questa rete, mentre il soggetto pensa al passato o al futuro, rappresenta non più uno stato di riposo, bensì uno stato ansioso come nei casi di ruminazione ansiosa o pensiero ossessivo (Fox et al., 2018).

Eichler- Summers (2019) ha messo in luce che la rete cerebrale responsabile del sonno REM mostra una grande sovrapposizione con il default mode network, nonostante alcune differenze: rispetto al risveglio, le attività nelle aree della rete predefinita responsabili dell’esperienza emotiva sono maggiormente attivate, soprattutto per quanto riguarda il Sé, la memoria episodica e a lungo termine, le relazioni con gli altri. Durante il sonno REM, è presente anche un’eliminazione totale dell’attività nelle funzioni esecutive (per il pensiero orientato agli obiettivi alla memoria di lavoro), fatta eccezione per i sognatori lucidi (Domhoff, 2017). Questo dato suggerisce come sognare e mind wandering siano correlati (Fox et al., 2018).

 

Perché sono arrabbiato con me? Funzione e sviluppo della rabbia secondaria

La rabbia è una delle sette emozioni primarie (Ekman, 2008), ovvero un tipo di emozione innata e universalmente presente in ogni essere umano fin dai primi mesi di vita; ma cosa si intende per rabbia secondaria?

 

Come tutte le emozioni, anche la rabbia ha un preciso scopo etologico: nasce nel momento in cui percepiamo un pericolo o un’intrusione (Greenberg & Paivio, 2000) e abbiamo la necessità di mettere in atto dei comportamenti di risposta aggressivi che garantiscano, o per lo meno aumentino, le nostre possibilità di sopravvivenza. La pervasività dei vissuti connessi alla rabbia (risposte fisiologiche automatiche, sensazione di avere o meno il controllo della situazione e dei nostri comportamenti ecc) può variare significativamente in base a quanto siamo arrabbiati, costante che a sua volta dipende dai pensieri che rivolgiamo verso lo stimolo ambientale, ovvero quanto riteniamo pericolosa la situazione con cui ci stiamo confrontando. Non di rado, infatti, proviamo rabbia anche quando abbiamo la sensazione di aver subito un’ingiustizia (noi o i nostri cari), un’offesa (noi o i nostri cari) o di essere stati bloccati nel raggiungimento o nella realizzazione dei nostri scopi o obiettivi (noi o i nostri cari), ovvero in situazioni in cui la nostra vita non è effettivamente in pericolo. Ed è in questo contesto, decisamente più cognitivo, che si determina il passaggio tra ira, rabbia, fastidio e frustrazione, ovvero tra le diverse sfumature quantitative e qualitative che può assumere questa emozione.

Gli esseri umani, però, non si limitano solo a produrre pensieri o a provare emozioni elicitati direttamente da stimoli esterni, ma riflettono e sentono anche a partire da spinte che provengono direttamente da dentro loro stessi. Ciò significa che possiamo provare rabbia anche per ciò che pensiamo e proviamo nei confronti di noi stessi.

Greenberg e Paivio (2000), in ambito clinico, suggeriscono di operare una distinzione tra rabbia primaria e rabbia secondaria. Gli autori identificano le espressioni della rabbia secondaria come “reazioni secondarie ad altre emozioni e processi cognitivi” che si verificano quando “[…] i pensieri coscienti e le attribuzioni di colpa […] sono insufficienti a causare l’attivazione della rabbia”. Secondo gli autori, quindi, la rabbia secondaria avrebbe lo scopo di “bloccare lo stress e il dolore, derivanti da altri sentimenti, rimuovendoli dalla consapevolezza”. È molto probabile che la maggior parte di noi conosca qualcuno (o sia lui/lei stesso) che si è arrabbiato con sé stesso per aver fallito ad un esame o per non aver espresso la sua opinione durante una riunione di lavoro; o che ha reagito con grida di rimprovero verso un figlio o un nipote o un alunno che si è fatto male dopo essersi comportato in modo avventato; o che rivolge verso sé stesso frasi denigratorie e dispregiative ogni volta che si sente debole, indifeso o spaventato.

Le funzioni della rabbia, quindi, si configurano sia nella possibilità di incrementare la risposta verso uno stimolo attivatore minaccioso, per poterlo affrontare efficacemente da un lato (Novaco, 2010), ma anche nella possibilità di avere uno strumento di difesa da altre sensazioni (Gorrese, 2013). Ma perché dovremmo difenderci da altre emozioni, che per quanto scomode e spiacevoli, non mettono in pericolo la nostra vita (anzi, hanno una precisa funzione di sopravvivenza della specie)? Perché valutiamo alcuni vissuti così sbagliati e minacciosi da doverli evitare o sopprimere?

Gli approfondimenti sull’attaccamento e sulle dinamiche familiari possono fornire alcune risposte.

Mantenendo uno sguardo ampio, si può affermare che la cultura, i miti e i tabù che caratterizzano un sistema familiare compongono il terreno in cui un individuo sviluppa, tra le alte cose, specifiche modalità di regolazione e interazione emotiva. È possibile che i bambini che sono stati sgridati quando hanno manifestato fastidio, nervoso e rabbia tenderanno ad apprendere a nascondere questi vissuti, finendo per non concedersi di provare questi sentimenti e ad arrabbiandosi con se stessi qualora questo dovesse accadere (Shaver & Mikulincer, 2002; Clear & Zimmer-Gembeck, 2015).

In alternativa, la rabbia può essere l’emozione con cui il contesto familiare chiede all’individuo di reagire quando prova paura o tristezza, portandolo così a condannare e denigrare se stesso ogni qualvolta senta affiorare questi sentimenti. In questo caso potremmo dire che bambini che sono stati sgridati quando hanno pianto davanti a un giocattolo rotto o hanno chiesto di essere protetti dai mostri sotto al letto o dal cane che abbaiava con forza tenderanno poi a evitare di provare questi vissuti, percependosi deboli e incapaci qualora dovesse accadere.

Osservando nello specifico la relazione fra il bambino e la figura di attaccamento, nel caso in cui la ricerca della vicinanza abbia fallito, portando a rifiuto e ostilità invece che ad ascolto e comprensione, verrà così interiorizzato un modello orientato alla soppressione delle emozioni spiacevoli, tra cui la rabbia (Caldwell & Shaver, 2012, 2015; Wei et al., 2005).

Emerge quindi quanto le prime esperienze relazionali infantili giochino un importante ruolo nella modalità di vivere e gestire la rabbia, oltre che sulle conseguenti emozioni secondarie.

Approfondire la relazione tra le esperienze infantili e la rabbia secondaria può avere importanti risvolti nel lavoro terapeutico. Qualora il terapeuta arrivi a riattivare i modelli operativi interni che il paziente ha sviluppato in origine all’interno del suo nucleo familiare, ciò consentirà alla coppia terapeutica di utilizzare le reazioni di rabbia come punto di accesso ai vissuti infantili dolorosi. Il paziente potrà così avere l’opportunità di accedere a una visione di sé maggiormente introspettiva, raggiungendo la consapevolezza che il problema non è il sentire l’emozione -anche se molto spiacevole-, ma la valutazione che rivolge a se stesso davanti alla consapevolezza di specifiche emozioni. Il cambiamento dovrà quindi essere indirizzato al rimodellamento dell’attaccamento e della percezione di sé (Gorrese, 2013).

 

L’esperienza emozionale correttiva e la sua importanza nella terapia strategica

Esiste un principio terapeutico secondo cui il paziente, per essere aiutato, deve fare esperienze emotive concrete che gli permettano di “riparare” l’influenza traumatica di esperienze negative precedenti, esperienze emozionali correttive.

 

L’approccio strategico non si basa su una teoria “omnicomprensiva” a cui ricondurre i fenomeni osservabili, ma si interessa di come le persone costruiscano la propria realtà soggettiva in termini di percezione e relazione che ognuno ha con sé stesso, con gli altri e con il mondo e l’obiettivo è quello di creare un cambiamento volto a risolvere un problema.

L’espressione “esperienza emozionale correttiva” è stata introdotta dallo psicanalista F. Alexander per indicare il principio terapeutico secondo cui il paziente, per essere aiutato, deve fare esperienze emotive concrete che gli permettano di “riparare” l’influenza traumatica di esperienze negative precedenti. Secondo Alexander (1946), infatti, l’insight intellettuale da solo non basta per produrre un cambiamento significativo e duraturo; ciò può essere ottenuto solo tramite esperienze reali vissute nel presente nella relazione del paziente col terapeuta o anche nella vita quotidiana, in grado di riparare l’effetto di quelle passate.

Watzlawick che ha analizzato nelle sue opere come avvengono nella realtà concreta i cambiamenti ha confermato questa ipotesi in particolare riferendosi al cambiamento di “secondo tipo” ovvero un cambiamento che riesca a rompere uno schema percettivo e apra alla necessità di creare un nuovo equilibrio (Watzlawick, 1974).

In quanto esseri pensanti e razionali, vorremmo che la consapevolezza ci inducesse a cambiare in molti aspetti della nostra vita, ma nella realtà concreta questo non avviene quasi mai; è un’esperienza vissuta in prima persona, che ci “segna” o sconvolge a livello emotivo, che ci porta a cambiare. E’ un’esperienza concreta che ristruttura il nostro modo di vedere e percepire le cose che poi ci porta ad agire in modo diverso. Anche se ci piace pensare di essere guidati dalla razionalità, quello che tutti noi sperimentiamo è che la maggior parte delle volte la sola consapevolezza di come funzioni un problema e la volontà di cambiare non bastano affatto. Un esempio concreto è il disturbo ossessivo compulsivo: le persone che ne sono affette sono pienamente consapevoli e razionalmente coscienti dell’irrazionalità di ciò che mettono in atto con i loro comportamenti, ma non ne possono fare a meno.

La nostra vita è permeata di contraddizioni e paradossi.

Quando ci occupiamo di fenomeni che hanno a che fare con il rapporto che la mente ha con la mente, con le altre menti, con la società, la logica lineare non funziona più perché io influenzo ciò con cui interagisco; introduco continuamente un cambiamento nella realtà che mi torna indietro. (Nardone, Balbi, 2008)

Il nostro funzionamento mentale è permeato di logiche non ordinarie e la nostra mente crea costantemente autoinganni che a volte risultano funzionali e altre molto disfunzionali.

Il cambiamento di secondo tipo, cioè quello percettivo, non comprende soltanto gli aspetti cognitivi ma anche e soprattutto quelli emotivi, questo significa che

il cambiamento non può esprimersi solo a livello di ristrutturazione cognitiva, ma in una ristrutturazione che ne alteri, sulla base di esperienze concrete provocate dall’intervento terapeutico, anche le emozioni. (Nardone, 1990)

Le esperienze concrete in grado di modificare la percezione della realtà da parte di un individuo, provocano un cambiamento a livello emotivo, cognitivo e comportamentale. (Nardone, Portelli, 2015)

Si rende necessario, quindi, che un intervento finalizzato a produrre un cambiamento di tale portata (cioè di secondo tipo) debba riuscire a creare nella percezione del soggetto un’esperienza diversa nella realtà che egli vive. A livello operativo si sostanzia una terapia in grado di influenzare il paziente nella direzione di esperienze concrete da vivere che permetteranno il “cambio di schema” necessario per il superamento del problema attraverso l’uso terapeutico di tecniche suggestive e stratagemmi che ricalchino la logica a volte paradossale a volte contraddittoria degli schemi che reggono il problema.

Questo tipo di intervento è reso possibile dall’adozione, nell’elaborazione delle strategie, di modelli logici inediti che vanno oltre la logica ordinaria e che si fondano su logiche non-ordinarie come paradosso, contraddizione e credenza.

L’essere umano quindi costruisce il proprio comportamento sulla base delle proprie e personali percezioni in un dinamismo a causalità circolare. Agendo sulle “tentate soluzioni disfunzionali” bloccando o modificandone la ricorsività, potremmo bloccare il circolo vizioso che alimenta e sostiene il problema e creare un cambiamento all’interno dell’omeostasi del sistema percettivo reattivo (SPR).

Il cambiamento effettivo prevede non solo il cambiamento delle cognizioni ma soprattutto quello delle percezioni le quali innescano emozioni che a loro volta influenzano le cognizioni ed i comportamenti. Tale cambiamento per essere effettivo deve passare attraverso concrete esperienze. (Nardone, 1995)

 

 

Svezzamento ed eziopatogenesi dei disturbi alimentari secondo una prospettiva psicodinamica

La potenziale criticità della fase dello svezzamento è legata all’improvviso infrangersi dell’illusione di un rapporto simbiotico tra madre e bambino – di cui l’allattamento al seno rappresenta la conferma fisiologica ed affettiva. 

 

C’è tutta un misteriosa modalità di comunicazione, intensa ed esclusiva, che si organizza attraverso l’allattamento. Lo sguardo che la madre rivolge al bambino attaccato al proprio seno, il suo modo di tenerlo tra le braccia, il ritmo e l’intensità della poppata, lo sguardo del bambino sulla madre, non vanno esenti da connotati affettivi la cui presenza rende l’attaccamento al seno un autentico rito, personale e gelosamente custodito dalla diade, in cui il nutrimento non ha soltanto valenza fisiologica, ma si rivolge alla totalità della dimensione esistenziale del bambino.

Il neonato che si attacca al seno introietta la presenza della madre come quella di un oggetto stabile e sicuro, nutrendo il corpo con la bocca e la psiche con lo sguardo. Il bambino si attacca alla madre non soltanto con le labbra, dunque, e attraverso il rassicurante ritmo della poppata costruisce il primo contatto con la realtà, ponendo le basi della propria dimensione egoica.

Il passaggio all’alimentazione autonoma rappresenta la cesura di questo abbraccio confortante, in cui il nutrimento fisico-affettivo deriva direttamente dalla madre e da quest’ultima viene regolato. Il bambino può vivere questo momento con angoscia e sofferenza e percepire nello stesso un senso di abbandono da parte della madre che non vuole più nutrirlo. Questo può condurlo al rifiuto di un nutrimento che, per quanto offerto dalla madre, non deriva più dal suo seno, bensì da strumenti artificiali – il cucchiaio, la tazza o il biberon – che il bambino percepisce come pericolosi surrogati dell’oggetto materno.

In un momento evolutivo in cui il terrore del “non conosciuto” assume un’intensità psichicamente non controllabile, rifiutarlo è la sola modalità che il bambino ha di liquidarne la veemenza, la potenzialità aggressiva. In questo senso il rifiuto del nutrimento è un atto di ostilità, un senso di rivalsa verso una madre cattiva, ma anche il disperato tentativo di salvataggio del Sé da un’angoscia endogena che minaccia di distruggerlo.

La generazione psichica del rifiuto alimentare: Melanie Klein ed Esther Bick

Nella finalità di spiegare la presenza di un’aggressività innata verso la madre – testimoniata dalla presenza della fase schizoparanoide – la Klein ha analizzato il concetto di svezzamento qualificandolo come uno tra i possibili elementi generatori della pulsione distruttiva nei confronti dell’oggetto materno (1957). In particolare ella evidenzia come lo svezzamento costituisca una sorta di dichiarazione abbandonica irreversibile, per quanto implicita, da parte della madre verso il figlio, che dopo questo abbandono si sente vittima di un’angoscia depressiva causata dalla consapevolezza, rabbiosa e disperata al contempo, di aver perduto l’oggetto d’amore.

La madre interiorizzata prende dunque le sembianze di un oggetto persecutorio crudele e minacciante del quale il bambino avverte la necessità di liberarsi. E il miglior modo per farlo è privarla del nutrimento. Rifiutare il cibo per non nutrire l’immagine della madre che custodisce dentro di sé è al contempo uno strumento per manifestare la propria ostilità all’oggetto materno che gli offre alimenti non provenienti dal “seno buono” (1952).

A tal proposito la Klein (1952) cita il caso di un bambino che rifiutava puntualmente di ricevere il nutrimento artificiale da parte della madre, dibattendosi e dimenandosi tra le sue braccia ogni volta in cui la donna avvicinava alle labbra del neonato il biberon. Al contrario, quando era il padre a porgergli il latte, il piccolo si attaccava e succhiava avidamente fino a terminare la bottiglietta. Il messaggio del bambino è evidente: egli non voleva accettare il nutrimento offerto dalla madre “cattiva e abbandonica” per non nutrire l’immagine interiorizzata che custodiva di lei. Non consentirsi il nutrimento equivaleva a distruggere la madre interiorizzata e, dunque, a distruggere anche l’angoscia distruttiva e il senso di avidità inappagata dalla stessa provocata. Era la vendetta verso il seno (madre)- cattivo (Klein, 1952; Bruch, 1973) .

La Bick non fa esplicito riferimento all’invidia per il seno materno. Il petto della madre è al contrario un abbraccio appagante che consente di costruire il Sé e il cui abbandono improvviso può comportare un trauma nell’incipiente organizzazione interna del bambino. Ma anche la Bick condivide il pensiero della Klein circa l’esistenza di pulsioni aggressive verso la madre già durante l’allattamento e ne identifica la presenza nell’intensificazione del ritmo della poppata o della forza della presa sul seno. In quel momento l’avidità libidica è volta ad introiettare l’oggetto buono e i beni dallo stesso custoditi, ma è anche un attacco finalizzato a contrastare il senso di persecuzione materna da cui il bambino si sente minacciato nelle prime fasi della vita (Harris, Bick, 1960).

Il processo di svezzamento vede un notevole incremento di tale aggressività, la cui manifestazione si arricchisce di un contenuto di ostilità verso la madre, una condotta ritorsiva del bambino verso il rifiuto materno. Un rifiuto che in certi casi può mostrarsi totale – e dunque il bambino si sottrae del tutto all’introduzione del cibo – e che in altri casi si manifesta attraverso un’esplicita condotta oppositiva verso il nutrimento, che viene accolto con una mimica facciale di disgusto, spesso unita ad episodi di pianto e nervosismo diffuso: il bimbo gira la testa  verso la parte opposta al biberon, chiude la bocca, piange, si dimena prima di ingoiare il boccone. Il suo “non voler mangiare” è un’opposizione all’introietto, che dà voce ad un linguaggio preverbale cui è sottesa un’ostilità non solo verso il cibo, ma anche verso la madre che nello stesso viene identificata.

Effetti collaterali del pensiero concreto: il fallimento della reverie

Il rifiuto e l’ostilità al nutrimento possono altresì manifestarsi con sintomi somatizzati, quali coliche addominali ed episodi di vomito, che in questi caso rappresentano la velleità di espulsione totale del cibo (e quindi della madre) unita all’impossibilità di assimilare contenuti psichici e di nutrirsene ai fini del sostentamento.

Il cibo è un elemento ostile, un corpo estraneo che non può essere digerito perché la madre non ha fornito al bambino le sicurezze emotive in grado di stemperare le angosce di disintegrazione seguenti la separazione materna.

Si è verificato quello che Bion chiama fallimento della reverie, uno stato mentale grazie al quale la madre recepisce il contenuto psichico del bambino, altresì quello più angoscioso, e glielo restituisce in una modalità meno distruttiva e minacciosa per il Sé (1962a; 1962b). La reverie consente alla madre di elaborare funzionalmente gli elementi più grezzi e frammentari della psiche del bimbo, quelli più incomprensibili, oscuri, perché senza forma né significato; quegli stessi elementi sensoriali dai quali si sente terribilmente minacciato e di fronte ai quali si percepisce debole e vulnerabile.

Il ventre psichico della madre rielabora l’inconcepibile al posto del figlio, consentendo la trasformazione dei temibili elementi beta in elementi psichici cognitivamente più evoluti ed emotivamente più controllabili, i c.d. elementi alfa. Ipotizzando un’analogia tra apparato digerente e dimensione psichica potremmo dire che la madre deve ricevere nella propria mente le identificazioni proiettive del bambino, al fine di scomporle, di “digerirle” al posto suo (1962a; 1962b).

Ovviamente, nel caso in cui la madre non si mostri in grado di svolgere la funzione di reverie, strettamente collegata alla funzione alfa, il bambino sarà costretto a fronteggiare da solo i temibili contenuti del proprio apparato psichico, e l’evacuazione totale degli stessi sarà la sola salvezza possibile: ecco dunque il vomito come l’espressione concreta – l’acting out – di questa espulsione “salvifica” (1962a). Ma in tal modo il cibo viene allontanato senza essere stato digerito né assimilato, esattamente come non è stato assimilato né rielaborato il contenuto psichico degli elementi beta, con la conseguenza che né il corpo né la psiche potranno ricevere l’adeguato nutrimento.

La madre disfunzionale: quando il bambino è un invasore nella mente

Una madre che tiene atteggiamenti di questo genere percepisce il bambino non come un nucleo esistenziale da accudire in senso evolutivo, bensì un oggetto dissociato nella sua mente, un frammento distonico e disturbante che la aggredisce, depredandola dei suoi beni. Molte madri si sentono inconsciamente perseguitate dal proprio figlio poiché tendono a proiettare in lui un vissuto conflittuale infantile sofferto a causa di una madre abbandonica e ostile e trasmesso in una sorta di contagio generazionale.

Questa ambivalenza di odio e amore non conferisce al bambino la soggettività nutrita, il senso del Sé adeguato, l’emotività stabile e organizzata necessari ad affrontare il processo di separazione materna, della quale lo svezzamento costituisce un passo fondamentale. La scarsa dimensione empatica della madre si traduce inoltre in un’incapacità di comprendere i bisogni e le esigenze del piccolo e, dunque, nell’impossibilità di individuare il modo e il momento migliori per somministrare il cibo o farne cessare l’assunzione. Se ne origina una ritmicità alterata e disorientante a causa della quale il bambino viene talvolta costretto ad alimentarsi anche quando non ha fame e talaltra viene lasciato troppo a lungo in attesa di un nutrimento che, anche quando arriva, è somministrato in modalità psichicamente disorganizzata.

Abituata a pensare in modo operatorio più che riflessivo, la madre eserciterà sul bambino una modalità di accudimento basata sulla risposta ansiosa, sull’agito, sul contatto fisico non empatizzato, ma finalizzato al mero controllo corporeo.

In questi deficit di simbolizzazione il bambino non potrà avere accesso ai propri contenuti emotivi, altresì quelli più angosciosi, e non gli resterà che liberarsene in modalità agite e irriflessive, come i disturbi della digestione, le coliche, il vomito, nel tentativo di costruire uno spazio psichico stabile cui la madre non è stata in grado di dar vita.

Al contrario, il senso di estraneità e di risentimento che ella nutre verso il neonato, visto come una parte non integrata del Sé, non potrà non riflettersi sulla psiche del bambino stesso, condannandolo al dominio di un percetto persecutorio che potrà essere annientato o con il vomito e, dunque, l’espulsione diretta del cibo, o con la mancata alimentazione, ovvero il rifiuto totale dell’introduzione alimentare.

L’età adolescenziale: ancora il rifiuto del cibo come rifiuto dell’oggetto materno

Lo svezzamento rappresenta il doloroso dissolvimento di un’illusione simbiotica con la madre e con i beni dalla stessa forniti. Questo si traduce nella mancata gratificazione di una pulsione orale che, dopo il periodo di acquiescenza “sublimante” garantito dalla fase di latenza, torna a presentarsi con intensità nello stadio adolescenziale; ma l’adolescenza è anche una fase evolutiva in cui il risveglio pulsionale, pur ispirato da finalità autonomistiche e di affermazione del Sé, tende ad esprimersi attraverso agiti regressivi.

Proprio questa regressione comporta il riproporsi intenso e vigoroso di bisogni orali tipici dell’infanzia, che l’adolescente crede di poter dominare attraverso il controllo dell’introduzione del cibo, arrivando talvolta alla sospensione dello stesso. Sfuggendo il cibo si dà voce ad una serie di conflitti non verbalizzati che proprio attraverso il rifiuto nutritivo trovano un’ illusione di dominio, unita alla convinzione di poter affermare il Sé solo distruggendo la “madre-Sé”.

Ancora una volta, come si era verificato durante la fase dello svezzamento, si ripresenta la sovrapposizione psichica tra cibo e oggetto materno, visti entrambi come fonte di nutrimento ed energia vitale, ma anche di persecuzione invasiva e annichilente.

È pertanto possibile affermare che, nell’adolescenza come nello svezzamento, il rifiuto del cibo è il rifiuto di un cattivo introietto materno, cui si unisce il rifiuto di Eros, della vita e dell’autoconservazione garantita dalla presenza del nutrimento. È il rifugio in un ascetismo che nega ogni pulsione vitale, ma è altresì un tentativo di negazione della vita, un investimento egoico su Tanatos, è la resa al principio persecutorio di autodistruzione generato da una madre cattiva.

Distruggere il Sé si rivela necessario a portare a termine il progetto di distruzione legato all’odio verso la madre e all’odio verso il Sé che nella madre si identifica, in una crudele ricorsività simbiotica. Infrangere l’identificazione patologica tra nutrimento e madre e sciogliere il legame libidico “crudele” costruito con quest’ultima, può rivelarsi il primo passo utile ad ottenere un investimento pulsionale “erotico”- in quanto ispirato da Eros – volto alla gratificazione delle pulsioni considerate vitali, e dunque della vita stessa.

 


 

 

 

La mente liberata. Come trasformare il tuo pensiero e affrancarti da stress, ansia e dipendenze (2020) di Steven Hayes – Recensione del testo

Finalmente a luglio 2020 viene pubblicato anche in Italia La mente liberata, un testo in cui Steven Hayes mette in campo tutte le sue conoscenze, esperienze e competenze come uomo, come psicologo, psicoterapeuta e ideatore dell’ACT.

 

Proprio tale approccio verrà spiegato ed approfondito sia rispetto alle sue origini, aspetti epistemologici e teorie di riferimento, che rispetto alla sua validità scientifica e applicabilità, non soltanto nell’ambito clinico ma più in generale nella vita di ciascuno di noi. Il testo, dal titolo originale A Liberated Mind: How to Pivot Toward What Matters e tradotto in italiano ed edito dalla Giunti, si apre con la prefazione di Paolo Moderato che ne esalta i caratteri salienti, aumentando la curiosità ed il desiderio da parte del lettore di iniziare questo viaggio fra i vari capitoli del testo. Come sottolinea Paolo Moderato, il fine del presente libro è quello di trasmettere alle persone il messaggio secondo cui

per vivere una vita degna, ricca di significato, dobbiamo smettere di vivere nella nostra mente come se fosse la realtà, dobbiamo abbandonare l’impari e perdere la lotta con la sofferenza ed imparare a stare con ciò che è doloroso

ma farlo in modo diverso ossia con un approccio mentale che Steven Hayes chiama flessibilità psicologica. Ma che cosa si intende per flessibilità psicologica e come svilupparla?

L’autore ce lo spiega in modo preciso e attento, ma al contempo semplice, all’interno dei vari capitoli del suo libro.

Ma la flessibilità psicologica contempla in sé diversi aspetti che vanno sviluppati e allenati con costanza ed impegno in quanto, ci spiega Steven Hayes, siamo inclini all’inflessibilità psicologica. Se da una parte infatti, nella nostra mente risiede una parte saggia, dall’altra c’è una parte dominante che l’autore chiama Dittatore Interiore, che ci impone regole, che ci sabota, che ritiene di sapere cos’è giusto per noi e ciò che rappresenta un problema nella nostra vita, applicando anche in questo caso in modo rigido ed inflessibile, strategie di problem solving che, nel tentativo di risolvere il problema, lo causano, lo mantengono o peggiorano, come ad esempio l’evitamento, il controllo esasperato, la ricerca di approvazione e consenso da parte degli altri. Inizia così una lotta interminabile nei confronti di pensieri ed emozioni che riteniamo negative o troppo dolorose e che pensiamo essere loro la causa del nostro male.

Esperienze di vita personale dell’autore e di persone incontrate durante la sua carriera, impreziosiscono il testo.

Dopo una rapida ma esauriente carrellata dei vari contributi nella storia della psicologia, si entra nel panorama della terapia cognitivo comportamentale mettendo in luce ciò che è avvenuto durante le tre generazioni ed il perché molti capisaldi all’interno di tale approccio hanno sentito l’esigenza di ampliare il loro sguardo per riuscire a cogliere perché le persone rimangono intrappolate dentro la loro sofferenza e cosa li aiuta nel processo di cambiamento.

Ed ecco che si giunge nel cuore dell’ACT.

Ho capito che, per imparare ad aiutare le persone a creare un nuovo rapporto con i loro pensieri, le loro emozioni, dovevo comprendere la voce del Dittatore nelle nostre menti.

Il Dittatore Interiore, lo abbiamo tutti, spiega Steven Hayes, e risponde a tacite ed innate regole, che ci inducono a non sbagliare, non essere meno, non…, non vivere liberamente!

Comprendere come funziona la nostra mente per sua natura diventa importante anche nel lavoro con il paziente; non si parla solo di capire ma di accogliere e accettare contenuti anche spaventosi o dolorosi ed osservarli senza per questo identificarci con gli stessi, riuscendo a riconosce la distinzione tra contenitore e contenuto: noi siamo il contenitore, la nostra storia, esperienze di vita, pensieri, emozioni rappresentano il contenuto!

Spesso noi ci identifichiamo con i nostri pensieri, le nostre emozioni e la nostra esperienza ma ciò che viene fatto attraverso l’ACT è di riuscire a sviluppare un sé osservante, scegliendo noi cosa osservare, come osservare e verso cosa muoverci, ma per muoverci verso nuove direzioni bisogna imparare a lasciare andare…

Per molto tempo mi sono sentita come se fossi in un tiro alla fune con un gigantesco mostro d’ansia che cercava di trascinarmi in un baratro senza fondo. Ho lottato e tirato, ma non importa quanto duramente ci abbia provato, non potevo vincere, non potevo nemmeno arrendermi ed essere gettata nell’oblio. Per me è stato molto difficile capire che non avevo bisogno di vincere quella guerra. La vita non mi stava chiedendo questo. Mi stava chiedendo di lasciare andare la fune. Una volta fatto, ho potuto usare braccia e mani per cose più interessanti.

La seconda parte del testo diviene un laboratorio personale per imparare a mettersi in gioco con la descrizione di una serie di esercizi da poter sperimentare in prima persona. L’esercizio della mano, attività per la distinzione del sé trascendente/sé contestualizzato, scrivere e riscrivere la propria storia, esercizi di meditazione mindfulness, esercizi volti a sviluppare la consapevolezza, l’accettazione, la defusione, esercizi per assumere la prospettiva dell’altro, esercizi per riconoscere i propri valori,  per scegliere ciò che è importante davvero per noi e per scegliere degli obiettivi ed impegnarsi nel cambiamento.

Nell’ultima parte del testo, quanto imparato nei precedenti capitoli viene applicato ed approfondito ad ampio raggio rispetto a varie problematiche riscontrabili nella nostra vita (dalla dieta, alla performance, alle relazioni, malattie e disabilità). La flessibilità psicologica, ricorda Steven Hayes, porta effetti benefici nella nostra salute psicofisica se portata avanti con costanza, perché come la danza, una volta imparata la tecnica, l’esercizio costante e quotidiano la renderà più armonica e naturale.

Perché “la vita non è un problema da risolvere, ma un percorso da vivere imparando a camminare”, scrive Paolo Moderato nella prefazione del testo, o danzare la “danza della flessibilità” riprendendo le parole dell’autore.

Un libro completo, che insegna, emoziona, coinvolge; un libro utile sia ai non addetti ai lavori quanto al professionista, un libro che non manca di rigore scientifico nel suo contenuto ma trasmesso con una leggera semplicità che lo rende uno strumento accessibile a tutti.

 

Nostalgia e stili di coping

Berrett e i suoi colleghi hanno identificato due potenziali profili di personalità nostalgici: il ruminatore nevrotico e l’individuo i cui pensieri sul passato sono motivati dalla curiosità e dalla meraviglia (riflessione).

 

La nostalgia è un’esperienza frequente in tutte le culture, sia fra i giovani che gli anziani (Wildschut, Sedikides, Arndt, & Routledge, 2006). È un’esperienza tipicamente agrodolce (Barrett et al., 2010), che comporta sia un senso di perdita per il passato, sia la felicità nel ricordare momenti positivi (Hepper, Ritchie, Sedikides, & Wildschut, 2012). Essa può essere scatenata da sentimenti di solitudine, da uno stato d’animo negativo e da una minaccia (Juhl, Routledge, Arndt, Sedikides, & Wildschut, 2010), suggerendo che si tratta di una risorsa a cui si accede come tampone psicologico nei momenti di disagio. In effetti, la nostalgia risulta essere positivamente correlata a strategie di adattamento, come la ricerca di un sostegno emotivo e il ricorso alla religione (Batcho, 2013). Tuttavia, occorre distinguere tra l’uso della nostalgia come una strategia di coping adattiva e i suoi effetti nelle persone con ridotte capacità di regolazione delle emozioni.

Berrett et al. (2010) hanno identificato due potenziali profili di personalità nostalgici: il ruminatore nevrotico e l’individuo i cui pensieri sul passato sono motivati dalla curiosità e dalla meraviglia (riflessione). Per ruminazione si intende una involontaria attenzione ai pensieri negativi (Joorman, 2005), essa è fortemente predittiva della depressione e comporta una minore motivazione a svolgere attività che migliorano l’umore (Forbes & Dahl, 2005). Al contrario, la riflessione corrisponde ad una forma di autoanalisi fortemente adattiva e psicologicamente sana. L’obiettivo degli studi qui riportati è quello di contribuire alla comprensione dei benefici psicologici (o meno) della nostalgia, testando il rapporto tra essa e gli stili di coping come la ruminazione e la riflessione.

Nostalgia, ruminazione e depressione: studio 1

Il presente studio si è proposto di indagare se esiste una relazione tra nostalgia e ruminazione, e se la relazione tra nostalgia e depressione è mediata dalla ruminazione. Il campione considerato è composto da 213 studenti universitari Australiani. La nostalgia è stata misurata utilizzando la Southampton Nostalgia Scale (SNS, Routledge, Arndt, Sedikides, & Wildschut, 2008) e la Batcho’s Nostalgia Inventory BNI (1995). La scala SNS chiede ai partecipanti di rispondere a cinque domande relative alla frequenza con cui provano nostalgia, mentre il questionario BNI è composto da 9 item volti ad esplorare in che misura i soggetti sentano la mancanza delle cose relative al passato. La ruminazione è stata misurata attraverso la Rumination-Reflection Questionnaire (RRQ; Trapnell & Campbell, 1999), una scala a 24 item. Infine, la depressione è stata valutata per mezzo della Beck Depression Inventory (BDI, Beck, Ward, Mendelson, Mock, & Erbaugh, 1961). I risultati hanno rivelato una correlazione significativa tra la ruminazione, la nostalgia e la depressione: nello specifico è emerso che tra la “mancanza” del passato (BNI) e la depressione vi è una correlazione più stretta rispetto a quella più esistente tra la depressione e la frequenza delle esperienze nostalgiche (SNS). Infine, i risultati segnalano il ruolo di mediazione della ruminazione tra la nostalgia e la depressione, agendo con un effetto indiretto.

Nostalgia e stili di coping: studio 2

I risultati dello studio precedente suggerivano che la ruminazione è coinvolta nel rapporto tra nostalgia e depressione. Data la loro relazione, è possibile che siano coinvolti anche altri stili di coping disadattivi, come ad esempio l’evitamento, la fuga e la negazione, e stili adattivi, ovvero di risoluzione dei problemi, ricerca di sostegno sociale o l’utilizzo dell’umorismo (Thompson et al., 2010). Pertanto il presente studio aveva l’obiettivo di esplorare se la nostalgia del passato correla con ulteriori stili di coping adattivi e disadattivi. I partecipanti (N=715) hanno completato il BNI, che esplorava la nostalgia intesa come mancanza del passato, e la Coping Orientations to Problems Experienced scale (COPE; Carver et al., 1989), che misurava le strategie di coping positive e negative. I risultati hanno rivelato l’esistenza di una correlazione positiva tra la nostalgia per il passato e gli stili disadattivi, come la ruminazione, il diniego e il disimpegno comportamentale, e una correlazione negativa con uno stile di coping proattivo adattivo. Questi risultati dimostrano che gli individui nostalgici sono più propensi ad adottare strategie maladattive di fuga dalla realtà, a scapito di un atteggiamento più attivo nei confronti della risoluzione di problemi.

In conclusione, questi risultati dimostrano che il rapporto tra la propensione alla nostalgia e la depressione è in parte mediato dalla ruminazione. Le analisi effettuate non confermano un rapporto di causalità, ma aprono alla possibilità che le persone con tendenze ruminative tendano a concentrarsi maggiormente sui ricordi negativi del passato, a vedere il passato sotto una luce più negativa, o a confrontare il passato in modo più sfavorevole con il presente, pensando a modelli che potrebbero plausibilmente esacerbare uno stato d’animo depresso.

 

SARS-CoV-2 e danno neurologico

Gli effetti della malattia da Covid-19 si delineano sempre più come patologia sistemica, non sono solo i polmoni ad essere colpiti ma anche cuore, intestino, vasi sanguigni, occhi, reni e cervello.

 

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha annunciato il 9 gennaio 2020 il riconoscimento da parte delle autorità sanitarie della Cina dell’esistenza di un nuovo ceppo di coronavirus finora sconosciuto e mai identificato prima nell’uomo. A tale microrganismo è stato inizialmente assegnato il nome: 2019-nCoV. Successivamente, il Gruppo di Studio sul Coronavirus (CSG) del Comitato internazionale per la tassonomia dei virus (International Committee on Taxonomy of Viruses) ha classificato ufficialmente il virus con il nome di SARS-CoV-2, acronimo dall’inglese Severe Acute Respiratory Syndrome-Coronavirus–2.

È stato riconosciuto agente etiologico di un focolaio di casi di polmonite registrati a partire dal 31 dicembre 2019 nella città di Wuhan, nella Cina centrale. L’11 febbraio 2020, l’OMS ha annunciato che la malattia respiratoria causata dal SARS-CoV-2 è stata chiamata COVID-19 (Corona Virus Disease) (Bollettino Epidemiologico Nazionale 2020).

Il 30 gennaio 2020 l’OMS dichiara l’epidemia da COVID-19 un’emergenza di sanità pubblica di rilevanza internazionale (WHO 2020). Il 31 gennaio 2020 il Consiglio dei Ministri d’Italia dichiara lo stato di emergenza sanitaria, in concomitanza alla conferma dei primi due casi in Italia, seppure non autoctoni (Delibera del Consiglio dei Ministri del 31 gennaio 2020). Il 21 Febbraio l’Istituto Superiore di Sanità conferma il primo caso autoctono in Italia, in Regione Lombardia (Bollettino Epidemiologico Nazionale 2020). Infine il 12 Marzo 2020 l’OMS dichiara ufficialmente la pandemia da COVID-19 (WHO 2020).

I Coronavirus sono una vasta famiglia di virus noti per causare malattie che vanno dal comune raffreddore a malattie più gravi. Sono virus RNA a filamento positivo, con aspetto simile a una corona al microscopio elettronico. La sottofamiglia Orthocoronavirinae della famiglia Coronaviridae è classificata in quattro generi di coronavirus (CoV): Alpha-, Beta-, Delta– e Gammacoronavirus (Ministero della Salute 2020).

La trasmissione da uomo a uomo è stata confermata, ma sono necessarie ulteriori informazioni per valutare la portata di questa modalità di trasmissione (Regione Toscana 2020).

Gli effetti della malattia da SARS-CoV-2 si delineano sempre più come patologia sistemica, non sono solo i polmoni ad essere colpiti ma anche cuore, intestino, vasi sanguigni, occhi, reni e cervello.

I sintomi individuati in questi mesi (riduzione del gusto e dell’olfatto, alterazione dello stato di coscienza, fatica, mialgie e cefalea) sono di fatto riconducibili ad alterazioni del sistema neurologico.

I livelli di neurofilamenti a catena leggera (proteine che costituiscono un indice di danno delle fibre del sistema nervoso) dosati nel sangue, sono sensibilmente aumentati nei pazienti con sintomatologia neurologica e sono correlabili al grado di severità della malattia, mentre non si ha una correlazione diretta tra sintomi neurologici aspecifici, come perdita del gusto e dell’olfatto ed incremento ematico della presenza di neurofilamenti a catena leggera. Pur non esistendo una correlazione diretta tra sintomatologia neurologica aspecifica e presenza di neurofilamenti a catena leggera, è stato osservato che questi possono risultare aumentati in pazienti asintomatici a dimostrazione di un possibile danno neurologico anche in pazienti con infezione subclinica (Mariotto et al, 2020).

Per quanto riguarda la severità dei danni a livello cerebrale questi potrebbero verificarsi anche in pazienti con sintomi lievi o in fase di recupero.

Il danno cerebrale potrebbe essere legato alla replicazione a livello cellulare del virus ed anche ad un danno vascolare. Questa doppia azione negativa spiega come si possa assistere a quadri clinici che variano dall’infiammazione cerebrale, al delirio, all’ictus (Ross W Paterson 2020). Lo stesso studio documenta la presenza di casi di Encefalite Acuta Disseminata, delirio, psicosi.

Il quadro patologico si estende a tutto il sistema nervoso, infatti sono stati rilevati casi di alterazioni della trasmissione nervosa periferica tipo sindrome di Guillain-Barré.

La sindrome di Guillain-Barré (SGB) definisce un gruppo di neuropatie post-infettive rare, che di solito si manifestano in pazienti in buona salute. La SGB è eterogenea dal punto di vista clinico. L’incidenza annuale complessiva della SGB varia tra 1/91.000 e 1/55.000. In Europa e Nord America, l’AIDP è la forma più frequente della SGB (circa il 90% dei casi) e, per questo motivo, il termine SGB, di solito, è sinonimo di AIDP nei paesi occidentali. Il trattamento consiste nella somministrazione di immunoglobuline (IVIg) per via endovenosa o plasmaferesi. Sono importanti la fisioterapia e la riabilitazione. La prognosi varia a seconda delle forme della SGB: alcuni pazienti si ristabiliscono completamente, altri non sono in grado di camminare 6 mesi dopo l’esordio della malattia, altri ancora non sopravvivono (Orphanet).

Autismi in pratica. Apprendimento e autismo

Quando si decide che i tempi sono maturi per insegnare una nuova competenza a una persona autistica, è importante tenere bene a mente come si impara. Noi tutti impariamo tramite condizionamento classico, condizionamento operante e modellamento. Vediamoli nel dettaglio.

 

Condizionamento classico

Alcuni stimoli elicitano automaticamente determinate risposte, ovvero i riflessi incondizionali, così definiti perché non dipendono da precedenti esperienze di apprendimento o condizionamento. Se associo a uno di questi stimoli (incondizionali) uno stimolo neutro, dopo una serie di presentazioni sarà sufficiente proporre quello neutro per ottenere la medesima risposta (prima incondizionale, ora condizionale). Lo stimolo, da neutro, si trasformerà quindi in stimolo condizionale. Fondamentalmente, è quello che ha fatto Pavlov con cani, cibo e campanelle.

Condizionamento operante

Si tratta di un paradigma sperimentale messo a punto da Skinner che si basa sul principio secondo cui alcuni comportamenti vengono riproposti perché hanno conseguenze piacevoli. Nello specifico, attraverso rinforzatori somministrati immediatamente dopo l’emissione del comportamento che vogliamo incrementare per frequenza, intensità e/o durata, aumentiamo la probabilità di riemissione del detto comportamento. In pratica, se vogliamo che il nostro bambino infili delle perle lungo uno scovolino, potremmo decidere di somministrargli un premio (bolle di sapone? patatine? 3 minuti di pausa? Solo l’assessment delle preferenze può dircelo!) a ogni perla infilata, affinché egli crei la relazione infilare perla = ottenere premio e sia più motivato a riprodurre la medesima azione. Si tratta quindi di condizionare, appunto, l’emissione del comportamento bersaglio.

Prima di partire però, devo chiarirmi quanto spesso il comportamento da incrementare si presenta senza rinforzo (bisogna fare una baseline), passaggio che mi permetterà di stabilire un obiettivo (quanto spesso ha senso che lo faccia?) e di verificare l’efficacia della mia strategia. Devo poi anche stabilire il tipo di rinforzo, che può essere:

  • positivo, erogo qualcosa di gradito all’emissione del comportamento target;
  • negativo, elimino qualcosa che genera disagio all’emissione del comportamento target (i calzini? La luce? Noi stessi? Ehi, se siamo noi la cosa da far sparire come premio vuol dire che il pairing va rivisto!).

I rinforzi positivi possono a loro volta essere:

  • tangibili, ovvero premi materiali come oggetti, giocattoli, cibo, etc.;
  • sociali, e cioè manifestazioni di approvazioni e affetto (“batti 5!”, “Sei un campione!”, “Grande che sei riuscito a infilare 6 perle!”);
  • simbolici, come gettoni di una token economy o soldi;
  • dinamici, ossia attività gratificanti o privilegi particolari (il vola-vola, la pausa, etc.).

Se associamo a un rinforzo tangibile quello sociale, possiamo aumentare la probabilità che, a un certo punto, il rinforzo sociale da solo sia sufficiente come premio durante le attività.

Usare rinforzi che si consumano velocemente (caramelline di zucchero, bolle di sapone, etc.) permette di ritornare più facilmente sul compito, mentre se a ogni perla infilata concedessimo al bambino di giocare con la sua macchinina preferita rischieremmo di perderlo.

Come ridurre il numero di rinforzi erogati, una volta che il comportamento target risulta appreso? Innanzitutto, accertiamoci che sia davvero appreso, raccogliendo dati, e poi sfumiamo i premi.

Non pensiamo che l’uso di rinforzi valga solo per i bambini in generale e per quelli con autismo in particolare. Vale anche per noi, adulti neurotipici ed emancipati. Avete presente lo stipendio? Altro non è che un rinforzo simbolico per aver trascorso 8 ore al giorno, 5 giorni a settimana, per un mese sul posto di lavoro. E la colazione al bar? Un bel rinforzo tangibile per premiarci di esserci alzati anche questa mattina al suono della sveglia. E quanto ci piace ricevere complimenti per il lavoro svolto? Ecco un rinforzo sociale. E, a fine settimana, l’aperitivo con gli amici per sollevarci dalle fatiche della routine, è un rinforzo dinamico, no?

Modellamento

Concetto sistematizzato da Bandura, consiste nell’apprendere da modello, osservando e imitando le azioni altrui. E sì, spesso nell’autismo le capacità di imitazione sono deficitarie, ma ci sono diversi tipi di funzionamento e, negli ultimi tempi, grazie anche alla maggiore fruibilità delle tecnologie, si sta diffondendo una strategia che appare molto promettente: il video modeling. Tale tecnica si applica mostrando all’individuo a cui si vuole insegnare un dato comportamento (complimentarsi, comprendere un messaggio verbale, giocare da solo o con i pari, etc.) un video in cui esso viene emesso da un modello di stessi età, genere ed etnia. Il video self-modeling implica che protagonista del video sia lo stesso destinatario dell’intervento, ripreso mentre emette spontaneamente il comportamento target o, nel caso di un training di abilità sociali, durante un role-play.

 

Le proprie regole – Moms, una rubrica su maternità e genitorialità

Il seguente articolo, riprendendo la seconda puntata della serie tv Workin’ Moms affronta il tema delle regole, dandone una nuova lettura. Assumendo una nuova prospettiva si può dare origine ad un cambiamento.

Moms – (Nr.2) Le proprie regole

 

Se anche dal mio seno uscisse benzina, il latte artificiale è una scelta della madre.
Anche se la madre prende una cattiva decisione?

Questo riportato è lo scambio tra Kate Foster e la babysitter di suo figlio nel secondo episodio della serie tv Workin’ Moms.

Sin dall’inizio della puntata viene mostrato come molti credono che una madre debba seguire delle regole generali e prestabilite nella relazione con il proprio figlio. Spesso infatti, tanto tra chi gestisce i corsi pre e post-partum quanto tra alcune madri, persiste la convinzione che seguendo la strada tracciata da altri si possa mantenere il controllo sugli avvenimenti e sulle relazioni.

Il controllo non sposa la spontaneità, il che può dare vita ad una rigidità nel rapporto madre-figlio con delle ripercussioni su entrambi. Madre e bambino potrebbero adattarsi a regole imposte da altri senza vagliare ciò che è meglio per se stessi. Da ciò potrebbe derivarne la negazione dei propri bisogni.

È importante dunque che ogni madre ascolti se stessa prima delle regole scelte in base all’esperienza altrui. Proprio come chi guida può imparare le strade perdendosi e come un bambino di prima elementare può capire dove scrivere confondendo la posizione delle righe, una madre scopre come funziona la relazione con il proprio figlio solo standoci dentro.

È interessante il modo in cui la serie tv sceglie di affrontare il tema dell’allattamento. Mettendolo nel minestrone degli ambiti dove ogni madre può scegliere le proprie regole, l’argomento “allattamento” diviene uno dei tanti caratterizzanti la relazione madre-bambino e non quello preminente. Questo permette alla donna di non vederlo più come un dovere, ma come un’opzione.

Workin’ Moms propone ad ogni donna di cambiare prospettiva, scegliere per sé i temi a cui dare rilevanza. L’allattamento, i termini da utilizzare o meno col proprio figlio e il rientro al lavoro divengono ingredienti di un calderone che ogni donna può modulare in base a come preferisce che sia la relazione col suo bambino o la sua bambina. Solo ascoltandosi e stando nella relazione si ha la possibilità di capire quando è il momento di allattare e quando quello di smettere, quando tornare al lavoro e quando concedersi altro tempo a casa e quali parole si possono usare o meno col proprio bambino.

Non possono esistere regole precostituite per tutte le interazioni tra madri e figli, poiché ogni relazione è differente e ogni donna può capire da sola i tempi, modalità e limitazioni che caratterizzano la relazione di cui fa parte.

Grazie a Catherine Reitman, autrice del telefilm, è possibile fare finalmente i conti con la realtà, dove alcune donne traggono piacere nel momento in cui si tirano il latte, altre sollievo, ad altre non cambia nulla e altre ancora purtroppo ne soffrono.

Da cui ne segue che dove vi è la diversità non possono esserci regole preconfezionate, che si aggrappano ad un debole controllo sulla realtà.

 

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