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Plasticità sinaptica per una cura efficace: focus su dipendenze e disturbi emotivi – VIDEO

Il Centro Stimolazione Magnetica Transcranica ha proposto un incontro sull’integrazione della stimolazione magnetica transcranica con la psichiatria e la psicoterapia.

 

Nell’incontro dal titolo Plasticità sinaptica per una cura efficace: focus su dipendenze e disturbi emotivi lo staff medico informa e risponde alle domande su cos’è la TMS, come funziona, quando si applica e quali sono le figure coinvolte.

Lo Studio Clinico San Giorgio, ora diventato Centro Stimolazione Magnetica Transcranica – CIP TMS, propone un approccio innovativo e integrato per il trattamento di disturbi emotivi e dipendenze patologiche.

Neuropsichiatria e psicoterapia si integrano con la Stimolazione Magnetica Transcranica (TMS), una metodica di neuromodulazione cerebrale non invasiva ed efficace nella cura di dipendenze, depressione, disturbi ossessivi, sindrome di Tourette e delle demenze.

Per conoscere meglio le attività del Centro ma soprattutto le potenzialità della TMS nel trattamento di diverse psicopatologie, pubblichiamo per i nostri lettori il video del webinar.

 

PLASTICITA’ SINAPTICA PER UNA CURA EFFICACE – Guarda il video integrale del webinar:

 

Monogamia e tradimenti: la storia naturale della vicenda amorosa. Le tre componenti dell’innamoramento – Una serie di Roberto Lorenzini

Oggi pubblichiamo la seconda parte del settimo lavoro della serie di Roberto Lorenzini, dedicata al tema della monogamia e delle sue implicazioni psicologiche, affettive, relazionali e, perché no, sessuali. Lorenzini propone una tesi forte: la monogamia non funziona. E prosegue il suo racconto esplorando lo sviluppo della vicenda amorosa e la sua prima fase: l’innamoramento.

MONOGAMIA E TRADIMENTI – (Nr. 7.1.2) La storia naturale della vicenda amorosa. Le tre componenti dell’innamoramento

 

7. La storia naturale della vicenda amorosa

7.1.2 L’Innamoramento: le tre componenti

Tre sono le dimensioni intorno alle quali si articola l’innamoramento, la fase nascente dell’amore. Una prima dimensione potremmo considerarla ossessiva (Lorenzini, Sassaroli 1992) per la pervasività e l’intrusività dei pensieri riguardanti l’altro rispetto ai quali si è contemporaneamente egodistonici (ci si sente soffocati e impotenti e non li si vorrebbero) ed egosintonici (piacciono e si richiamano alla mente con nostalgia appena ci sfuggono via). Questa doppiezza riguarda un po’ tutta l’esperienza dell’innamoramento di cui ci si sente protagonisti assoluti e contemporaneamente vittime inermi.

La seconda dimensione costitutiva è quella bipolare dell’umore che si esprime nella totale euforia, felicità e iperattività associata alla presenza dell’altro, e nel suo opposto, la tristezza, l’anedonia e la mancanza di senso di qualsiasi cosa in sua assenza (Lorenzini, 2013). Queste oscillazioni tra la gioia suprema e la disperazione più cupa possono essere rapidissime, innescate da particolari apparentemente insignificanti e sempre in relazione alla presenza/assenza dell’altro, reale o presunta. Un’altra caratteristica che rende somigliante l’innamoramento al disturbo bipolare è l’aspetto amnesico delle precedenti analoghe esperienze, nonostante la ripetitività dei cliché. A meno che non sia la famigerata prima volta che il senso comune vuole non si dimentichi mai (e chissà poi se è vero?), l’innamoramento non ha memoria di sé. Del resto, come potremmo essere ogni volta certi di aver trovato l’amore perfetto ed eterno se ci ricordassimo tutte le altre volte che lo abbiamo sinceramente creduto per poi ritrovarci di fronte ad un avvocato divorzista disprezzando l’altro e noi stessi per aver preso lucciole per lanterne? L’innamoramento non ha memoria come certe sensazioni fisiche, a riprova della sua forte radice biologica: riuscite forse a ricordare il vissuto di caldo estivo soffocante quando tremate dal freddo in una gelida serata invernale oppure il contrario?

Certo possiamo ricordare di essere stati innamorati. La nostra memoria ci rammenta i fatti, le circostanze, le vicende che sono accadute ma lo stato d’animo non possiamo sperimentarlo se non siamo innamorati nel qui ed ora. Con questo escamotage possiamo dunque ogni volta dirci di nuovo che “quello non era vero amore”, al contrario di quello presente. È per questo che le stesse canzoni che quando non siamo innamorati ci sembrano un prodigio di stupidità e banalità su cui ironizzare, ci colmano gli occhi di lacrime e ci stringono la gola quando innamorati. La stupidità è una adeguata descrizione del comportamento da parte di un osservatore esterno ma l’innamorato sperimenta la massima serietà, pienezza e quasi sacralità del suo vissuto. L’innamorato lo è totalmente, assolutamente, pensa che non lo è mai stato e ormai lo sarà per sempre e che la sua è una esperienza unica (De Santis 2017).

Infine, la terza è la dimensione delirante vera e propria (Lorenzini e Coratti, 2008) e riguarda tre oggetti specifici. L’altro che visto come perfetto, meraviglioso e soprattutto onnipotente, è sperimentato come il dispensatore di ogni bene o, al contrario, la causa di ogni sofferenza. Se stesso che in presenza dell’altro è avvertito come grandioso e in sua assenza impotente e privo di ogni valore. La relazione stessa che è immaginata come unica e diversa da tutte le altre che si sono sperimentate in precedenza e diversissima da tutte quelle che vivono ogni giorno tutti gli altri esseri umani nonostante ne ripercorra in modo imbarazzante tutti i cliché più consunti e noti.

Nell’idealizzazione dell’oggetto amato avviene qualcosa in più di una semplice sopravvalutazione per cui esso appare più bello o più intelligente, gentile e onesto (per citare Dante) di quanto appaia agli altri e si assiste piuttosto a quella che potremmo definire una rivoluzione epistemologica khuniana per cui esso diventa il canone matriciale della bellezza, della gentilezza, della bontà e dell’intelligenza. Sono dunque i parametri stessi a cambiare. L’oggetto diventa il prototipo stesso della perfezione assoluta con cui da quel momento in poi ogni altro individuo sarà confrontato e il cui valore sarà esprimibile in percentuale di approssimazione al prototipo stesso. Se c’è un indicatore inequivocabile dell’innamoramento che lo differenzia dalle altre condizioni di sovrastima e idealizzazione è proprio questo cambiamento dei parametri: l’oggetto d’amore è visto più o meno lucidamente. Ciò che si modifica è il concetto stesso di “buono”, “bello”, “giusto”. L’innamorato cambia il proprio modo di vedere e valutare la realtà e per questo appare strano e diverso, talvolta inquietante, alle persone che lo conoscevano. Forse per questo si dice che “ha perso la testa”. La vecchia testa sente di non avere più il controllo sulla nuova e può spaventarsene (Lorenzini 2020).

Contemporaneamente il soggetto ha l’impressione che nessuno possa effettivamente capire ciò che sta vivendo e che è invece per lui totale e assolutamente evidente. Gli altri sono fatalmente esclusi, stanno in un altro mondo ragionevole che lui stesso comprende perché sperimentato in passato (si potrebbe dire le stesse cose che ora gli altri gli dicono), ma che è una dimensione che non lo comprende più. Questo comporta un progressivo isolamento e un circolo di rinforzo per cui l’amato finisce per rappresentare l’intero mondo relazionale del soggetto dopo che già da tempo ne costituisce l’unico interlocutore nel dialogo interno per cui tutto ciò che si vive è vissuto con lui e per lui.

 

“Il tutto è superiore alla semplice somma delle parti”: il gruppo come strumento in terapia

La psicoterapia di gruppo è un tipo di terapia che potremmo definire peculiare, nella quale un gruppo non troppo nutrito di persone si riunisce, sempre sotto la direzione generale di uno psicoterapeuta, per aiutarsi non solo individualmente ma anche reciprocamente.

Maria Obbedio – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi Bolzano

 

Che cos’è la terapia di gruppo?

Nata all’inizio del ‘900, oggi la terapia di gruppo è indubbiamente un’efficace forma psicoterapeutica. Ma in cosa consiste esattamente? Si ha terapia di gruppo quando si ha reciprocità, scambievolezza e confronto tra i componenti. È proprio quest’aspetto a gettare le basi per il raggiungimento di un risultato terapeutico e curativo. Il gruppo, infatti, è sia un complesso di individualità distinte tra loro che un “organismo” unico, il quale facilita importanti procedimenti di cambiamento. Durante le sedute, i singoli condividono le loro esperienze personali. Il principio di base è ritrovarsi insieme e parlare in modo sincero e naturale, sempre sotto la direzione generale del terapeuta. I vari gruppi si distinguono tra loro in base allo scopo che si prefiggono: alcuni si concentrano ad esempio più sul miglioramento delle abilità sociali, altri invece cercano di procurare ai pazienti i mezzi per affrontare situazioni critiche quali fobie, ansia, pensieri negativi etc. Aspetto importante da non sottovalutare è che i diversi componenti del gruppo sono tutti allo stesso modo protagonisti, attori principali della terapia, del loro e altrui cambiamento.

Quali sono i benefici della psicoterapia di gruppo?

I vantaggi della psicoterapia di gruppo sono svariati. Ad esempio:

  • Uguaglianza

Nel gruppo tutti sono uguali e il terapeuta, nonostante la sua posizione, lascia molto spazio e molta libertà ad ognuno, convertendosi in una voce del gruppo che non sta al di sopra di questo. Esso funge da mediatore e conduttore, rileggendo e dando chiarezza al contributo di ogni singolo.

  • Non sentirsi giudicati

È uno degli elementi più rilevanti. Nessuno viene giudicato. Appoggio e cooperazione devono essere sempre reciproci e corrisposti.

  • Sentimento di appartenenza al gruppo

Il gruppo condivide regole che occorre rispettare per portare avanti in modo sereno la terapia e facilitare il cambiamento. Affinché vi sia un lavoro di gruppo occorre dare tempo perché si crei fiducia e anche quel grado di confidenza tale dal creare il “noi”. Il gruppo non è solo un’insieme di individui. Il gruppo è un’identità. Il gruppo è il “noi”.

  • Imparare dagli errori degli altri

Stare attento alle storie altrui, alle loro preoccupazioni, alle loro soluzioni può essere uno spunto di riflessione per risolvere i nostri problemi.

  • Possibilità di sperimentare un luogo sereno e sicuro

Nessuno è obbligato a parlare, se non si sente pronto. Approccio questo importante per consentire al singolo di sperimentare un senso di sicurezza e serenità.

Poniamo che i componenti di un determinato gruppo si riuniscano, come terapeuti avremo di fronte persone verosimilmente diverse tra loro, che avranno tuttavia in comune almeno un fattore: aver chiesto aiuto per un problema.
 Ognuno potrà quindi veder riflesso in tutti gli altri componenti una doppia difficoltà:

  • difficoltà personale;
  • difficoltà nel convivere con questa difficoltà, sopratutto nel momento delle ricadute/scivolate.

Il fatto di vedere che una persona del gruppo – una volta che si sia costituita la necessaria confidenza e fiducia di base – trova il modo di avvicinarsi anche solo di un passo al superamento della difficoltà in questione, spontaneamente, genera, per motivi che potrebbero probabilmente essere letti in maniera diversa a seconda dell’orientamento teorico di chi osserva il fenomeno, una reazione a catena per cui ogni altro membro, con i propri tempi e mezzi psicologici, trova il modo di compiere quello stesso passo, ed alla fine il gruppo nel suo complesso riparte da un nuovo livello evolutivo.
 Una caratteristica del gruppo è la dialettica individuo/gruppo, mantenuta sempre attiva: esiste dunque un “discorso” che attiene all’individuo, un “discorso” che attiene al gruppo in quanto tale e una continua interdipendenza tra i due “discorsi”. 
Vi è quindi un’attenzione per la comunicazione e per il “processo gruppale”, attraverso la centralità sul qui ed ora e sul lì ed allora.

Il gruppo non agisce solo a livello verbale, ma anche non verbale: col tempo vi è un recupero della corporeità, dell’espressività essenziale ed utile per interagire con l’ambiente esterno.

Il gruppo offre ai suoi partecipanti la possibilità d’intravedere, nel tempo, nuove modalità di “lettura” della realtà e una rinnovata mobilità psicologica, proprio perché il gruppo terapeutico si colloca sul confine tra le diverse appartenenze dell’individuo: famiglie di origine, gruppi e culture di appartenenza, mondo sociale. Prendendosi cura del vissuto individuale, il gruppo terapeutico amplia gli scenari precedentemente angusti e promuove la ricerca di nuovi codici di accesso alla realtà sociale e individuale.

Gruppo e alcol

La psicoterapia di gruppo è da molto tempo considerata il trattamento d’elezione della dipendenza (Cooper, 1987; Flores, 1988). In essa, i noti fattori terapeutici, come la profusione di speranza, l’universalità, l’altruismo, il sostegno, la catarsi e le esperienze di apprendimento interpersonale (Yalom, 1995), contribuiscono in larga misura al doppio compito con cui ogni soggetto dipendente viene a confrontarsi nel trattamento, ossia il separarsi dalla sua sostanza d’abuso e il fondare un legame col gruppo dei soggetti dipendenti in fase di recupero.

Numerosi lavori scientifici sostengono l’efficacia della terapia di gruppo nel paziente alcolista, sia sotto forma di gruppi di discussione che di gruppi a orientamento psicodinamico, cognitivo-comportamentale o interazionale (Mullan,1963; Bogani,1984; Sierra, 1978; Vannicelli,1982; 1987; 1995; Bersani et all,2003). A questi contributi si aggiungono una serie di studi che dimostrano l’efficacia dell’associazione della terapia di gruppo con altre tecniche di trattamento per il paziente alcolista (Alfano, Thurstin, 1989).

Nello specifico, rimanendo sulla tematica del gruppo terapeutico, l’ingresso in un gruppo prevede un periodo variabilmente lungo, ma significativo, di lavoro individuale e una diagnosi intesa in senso ampio; in questo periodo viene effettuata una valutazione rispetto al possibile inserimento di un soggetto in uno specifico gruppo. Non accade per caso, non avviene con facilità, l’inserimento di un membro viene analizzato e valutato accuratamente per valutarne ad esempio motivazione all’ingresso, disponibilità ecc., questo perché l’ingresso di un nuovo membro ha un impatto molto importante sia per l’individuo che entra e sia per il gruppo che accoglie.

La prima fase, o meglio, il primo compito del conduttore di un gruppo è il coinvolgimento: potrebbe apparire un concetto scontato, ma non è da sottovalutare; è compito del conduttore creare un clima favorevole sia dove la comunicazione possa essere autentica e significativa e sia dove il paziente possa riconoscere il gruppo come un luogo sicuro, “speciale”. Il gruppo è formato non solo da persone, ma da storie, vissuti, ragion per cui emergono al suo interno non solo aspetti “positivi” legati alla possibilità di conoscere/si, ma anche “negativi”: esso conduce il soggetto a scontrarsi con i suoi limiti, ad evidenziare le proprie vulnerabilità.

Tappa fondamentale questa, per la quale anche l’aiuto del gruppo è necessaria, poichè in realtà è il gruppo stesso a operare questo primo cambiamento nel paziente. Il terapeuta cerca “solo” di incanalare idee, vissuti, ma lascia spazio al gruppo perché esso sia attivo. Nelle prime fasi, infatti, il gruppo assume le caratteristiche di “spazio contenitore e trasformativo” del singolo. Il gruppo attraverso la coesione e il senso di appartenenza dei suoi membri, si rivela come uno spazio fisico e mentale contenitivo: ognuno, al suo interno, è libero dal giudizio degli altri, può esprimersi liberamente e sentirsi al sicuro. Il gruppo è un contenitore che svolge la funzione di “schermo protettivo”, dove sentirsi accolti, ascoltati e stabili: è un’occasione di sviluppo che consente di affrontare le vulnerabilità determinate dalla dipendenza. L’esperienza gruppale può fornire la ripresa di un’area relazionale alternativa alle scene modello distruttive e reattive che costellano il passato di questi pazienti. Il gruppo aiuta il soggetto a creare una “nuova narrazione”, un vero e proprio racconto storico (alla cui formazione il soggetto partecipa come attore) che permette uno sguardo diverso nei confronti di un passato mortifero e doloroso. E’ questa una delle potenzialità trasformative del gruppo: l’incontro tra i partecipanti e il conduttore permette la costruzione di relazioni più sane, volte alla sperimentazione di modelli nuovi di comportamento.

Gli elementi strutturali di base di un gruppo terapeutico creano molti importanti confini: la costituzione di uno specifico spazio gruppale permette di distinguere tra il “dentro” e il “fuori” del gruppo, evidenziando il senso di appartenenza e la differenziazione tra ciò che è del gruppo e ciò che non lo è. E’ importante sottolineare che nello spazio fisico gruppale si esprime anche uno spazio psicologico collettivo, influenzato dalle esperienze personali dei membri del gruppo e del clima dominante nell’hic et nunc della singola seduta.

Le norme di gruppo sono parte integrante del dispositivo gruppale e sono necessarie per una partecipazione positiva alla terapia di gruppo. Le norme riflettono non solo le regole di comportamento da adottare durante gli incontri di gruppo, bensì le aspettative implicite ed esplicite dei membri su come dovrebbero funzionare gli incontri stessi.

Nel corso dell’anno il gruppo cresce, cambia, evolve: non solo a livello numerico, si potrebbero notare ad esempio periodi nei quali vi è un “ricambio” di partecipanti, incontri con pochi partecipanti o viceversa con una grande affluenza, ma sopratutto matura a livello di vissuti, storie, esperienze portando/si ad una fase evolutiva nuova. Sì, il gruppo non è un’entità ferma, immutabile ma è in continuo movimento.

Ragion per cui ne esistono di diverse tipologie: tra questi, per citarne alcuni, troviamo comunità terapeutiche, centri diurni, gruppi di auto-aiuto. Il ruolo dei “conduttori” non è quello di dirigere il Gruppo, ma di accompagnarlo; non è quello di spingerlo, ma di facilitarlo nel suo processo di comunicazione. In questo senso, vengono definiti più correttamente “facilitatori” o “agevolatori” del Gruppo. Pertanto, il loro ruolo è quello di favorire un clima psicologico di sicurezza, pienamente accettante e non giudicante, in cui si realizzino gradualmente la libertà di espressione e la riduzione degli atteggiamenti difensivi. Nei gruppi di auto-aiuto però, i partecipanti anziani “che ci sono passati e ci sono riusciti”, possono guidare i nuovi arrivati sia in un percorso gruppale che individuale.

Le caratteristiche peculiari di questi gruppi Self-help sono :

  • condivisione del problema comune: tutti i membri hanno un problema di dipendenza da sostanze;
  • parità tra partecipanti: non vi sono conduttori professionisti. Il ruolo di leader viene assunto, a turno, da “membri anziani” che costituiscono un nucleo stabile. Gli “anziani” creano un rapporto personale con i nuovi chiamato “sponsorship” ed esprimono un impegno continuativo nel gruppo;
  • coesione del gruppo: il clima gruppale è sempre molto intenso e carico emotivamente. L’atmosfera è quella dell’accoglienza e dell’accettazione;
  • autonomia: l’autonomia del gruppo è percepita come fattore indispensabile al suo buon andamento.

Certo, un percorso evolutivo, a qualunque tipologia appartenga, non è sicuramente scevro da momenti di sofferenza, scoraggiamento, rabbia, frustrazione, ricadute nelle proprie “vecchie e malsane” modalità. 
Una possibile risposta, tuttavia, è che l’orientamento positivo, in senso evolutivo, del gruppo lo trasforma contemporaneamente in un contenitore degli affetti negativi che vengono così non negati, ma anzi accolti, rielaborati e reintegrati in un sentimento collettivo, non più solo patrimonio di uno specifico individuo, ma vissuto e risultato dello sforzo complessivo di tutto il gruppo. Allora la stessa ricaduta, con la messa in atto di un comportamento “vecchio e malsano” verrà rielaborata e riletta sotto forma di scivolata, meno colpevolizzante e giudicante. Questo avviene perché il gruppo stesso assume ben presto, nella mente dei suoi partecipanti, la forma di uno spazio nuovo. Uno spazio nuovo in cui si crea un clima di dialogo e di scambio, nel quale ciò che l’altro “porta” diventa facilmente proprio e viceversa.

 

La forza nascosta della gentilezza: il potere dei piccoli gesti che fanno stare bene noi e gli altri (2017) di C. Milani – Recensione libro

Cristina Milani, vice presidente del World Kindness Movement affronta il tema della gentilezza da un punto di vista storico, psicologico e geografico esplorando le ragioni del suo abbandono

 

Accanto al disinteresse e alla svalutazione che la società odierna riserva alla gentilezza, l’autrice ritrova in germe il seme di un rinnovato ritorno alla gentilezza nel bisogno di empatia, condivisione e unione sempre più presenti. Auspica dunque ad una rivoluzione gentile che investa il singolo e la comunità, uniti nella costruzione di un mondo migliore.

Alle radici della gentilezza perduta

La gentilezza, sempre più sconosciuto e sepolto retaggio dei tempi passati, spesso confusa e relegata a buona educazione e buone maniere, o a quelli che comunemente si sminuirebbe in convenevoli. Eppure la gentilezza vera è molto altro: amabilità, garbo e cortesia in tutti i sensi, qualità che è cura e attenzione verso l’altro e la comunità, intesa soprattutto come bene pubblico. Andando alle radici dell’abbandono di questa preziosa qualità in disuso, l’autrice designa un terzo fattore a quelli già comprovati: l’assetto valoriale nell’educazione dei figli che ha escluso la gentilezza, la delusione verso uno Stato assente, ma anche, denota, la richiesta di libertà successiva alle grandi dittature. Occupati a lottare e far valere i propri diritti, continuamente disillusi, si è perseverato inasprendo toni e atteggiamenti, a scapito del rispetto reciproco e per il bene pubblico. Cosicché l’indignazione derivata da un governo assente e incapace di garantire stabilità e risoluzione dei problemi ha legittimato la cafoneria come forma di espressione della propria rabbia e delusione.

Ma vi è un’altra aggravante, la gentilezza più che una lodevole virtù è oggi spesso considerata debolezza. Come è potuto accadere?

Anche qui l’autrice inscrive il fenomeno nel contesto socioculturale ed economico del nostro paese ovvero il sistema che, a partire dagli anni ’80, connota la società odierna: libero mercato, consumismo, individualismo e competitività. Nella misura in cui l’altro viene visto come un nemico, un competitor, in una società che corre volta al bene materiale e quantificabile, finalizzata solo al proprio personale benessere, viene a mancare la solidarietà. Non solo, le relazioni interpersonali diventano superficiali e utilitaristiche, non vi è tempo per lo scambio di emozioni e valori autentici, intangibili, non c’è spazio per condivisione ed emotività. La cultura individualista rende egoisti, aridi, e l’unico terreno fertile diventa quello dell’odio, dell’invidia, dell’antagonismo. La gentilezza viene rimossa, ritenuta inutile e da deboli, perché i perdenti sono coloro che non sono “abbastanza aggressivi” nell’accaparrarsi il proprio podio.

Riprendendo la teoria dell’attaccamento di Bowlby e i relativi modelli cognitivi comportamentali che si sono imposti nei primi 2 anni di vita, l’autrice distingue tra 4 organizzazioni cognitive con cui le persone interagiscono e agiscono nell’ambiente da adulti. In questo specifico caso, con la gentilezza:

  • Organizzazione fobica, il “gentile esagerato”: esercita una forma manipolatoria di gentilezza che permette all’individuo di relazionarsi con l’ambiente e gli altri evitando pericoli o abbandoni. Tale individuo ha sviluppato una immagine di sé vulnerabile, costantemente esposta a rischi, che ha arginato con una mania del controllo verso l’ambiente. Risulta quindi di una cortesia assordante che crea imbarazzo o l’impressione di essere presi in giro dagli altri.
  • Organizzazione depressiva, il “gentile tattico”: la gentilezza è qui espediente per conquistare una socialità altrimenti negata. Queste persone, che nell’infanzia hanno subito esclusione e rifiuto, sono cresciute con l’idea di non essere capaci di suscitare interesse e amore negli altri, e sviluppato la rabbia come unica modalità per comunicare i propri bisogni e disagi. Sono quindi sempre disposte a dare una mano ma se prese in un momento di rabbia, si mostrano invece dure e scontrose. Sono accoglienti con la propria cerchia, quanto incuranti verso gli sconosciuti.
  • Organizzazione psicosomatica, il “gentile condizionato”: in una identità personale basata su incertezza e insicurezza, l’unica variabile in grado di permettere la creazione di una identità diventa la propria fisicità con le relative variazioni. Il corpo diventa espediente per raggiungere la perfezione, così la gentilezza potrebbe essere per tali individui uno stile di vita volto alla continua ricerca di conferme. Il rischio è che, usandola come sistema di difesa, si tenderà a giustificare tutto.
  • Organizzazione ossessiva, il “gentile controllante”: a causa di una educazione rigida e anaffettiva ricevuta da piccoli, il formalismo è l’elemento che contraddistingue in personalità e apparenza questi individui, incapaci di esprimere contenuti emotivi e slanci spontanei. La gentilezza fatica qui a rivelarsi, prevalentemente applicata nel formalismo delle buone maniere.

Ma gentili si nasce o si diventa?

Interrogandosi sulla natura biologica della gentilezza, un’équipe di psicologi della Hebrew University ha, nel 2011, riscontrato l’attivazione del gene AVPR1A, il quale rilascia neurotrasmettitori che producono una sensazione di benessere, quando si compie un atto gentile verso il prossimo. La verità è che, saremmo forse anche spinti da un impulso biologico ad essere gentili, ma gran parte della partita la giocano i modelli comportamentali sviluppatisi nell’infanzia e soprattutto l’ambiente circostante in cui siamo immersi. Ad inibire la gentilezza, non sono solo i ritmi frenetici della società e l’arrivismo dilagante, ma anche la mancanza di empatia, che è spesso diretta conseguenza dei fattori precedentemente citati. L’empatia, per definizione la capacità di comprendere, “sentire” appieno lo stato d’animo altrui, genera cooperazione; perché nel sentirsi compresi ci si sente immediatamente più vicini a qualcuno, anche se è uno sconosciuto. La gentilezza influenza così l’umore, a beneficio non solo di chi la riceve ma anche di chi la compie, con l’attivazione di serotonina, l’ormone della felicità, che si attiva tanto più quando gli atti di gentilezza sono eterodiretti.

In un mondo frenetico e competitivo, che ci rende freddi e autocentrati su noi stessi, si diventa inattenti e insensibili ai bisogni altrui, fino a sfociare nella maleducazione e il bullismo. Spesso ciò accade senza la consapevolezza del perpetuatore, a dimostrazione di come la gentilezza sia un elemento di educazione imprescindibile allo stare in società. Un grande ruolo nell’avallare e legittimare i comportamenti aggressivi e maleducati l’ha giocato internet con i social media e il mondo virtuale spesso parallelo in cui siamo immersi. L’assenza di vicinanza crea spersonalizzazione e deresponsabilizzazione, così dietro lo scudo di uno schermo e di una tastiera ci si sente liberi di esprimere i propri sentimenti negativi o sfogare le proprie frustrazioni con l’hate speech. La rete ha in questo senso snaturato, impoverito e raffreddato il terreno fertile dell’empatia, il cui hummus risiede in tempo, vicinanza fisica ed emotiva e anche lentezza.

La gentilezza senza pazienza non si rivela

afferma la Milani, e ce ne accorgiamo quando ci troviamo davanti una persona arrabbiata. L’autrice invita a praticare l’arte dell’attesa e del prestare attenzione a 360 gradi, essendo centrati sul momento presente che si sta vivendo. La gentilezza è un boomerang che torna indietro con gli interessi, nel senso più positivo del termine; in altri casi invece disarma, calma, spiazza. Si pensi a cosa accade quando esprimiamo la nostra frustrazione e disappunto (seppur a ragion veduta) e riceviamo piena comprensione o una educata spiegazione, il risentimento si placa immediatamente. La gentilezza fa accadere le cose e ce lo dimostra il potere di un sorriso che abbatte paure, barriere, sospetti istantaneamente, più di mille altre parole o gesti.

Arruolarsi per una rivoluzione gentile..

La “rivoluzione gentile” auspicata dall’autrice consiste nel riappropriarsi di una visione del mondo fondata sul “noi” e non più solo sull’io; è possibile riportare in auge la gentilezza innescando un cambiamento culturale che solo la solidarietà proveniente dall’empatia sociale è capace di attuare. Questo intento è oggi rappresentato dal crescente proliferare di Onlus, attività di volontariato e fundraising in supporto delle giuste cause. Infatti, nonostante il preoccupante scenario sinora mostrato, l’autrice constata e riconosce come negli ultimi tempi si assista a un ritorno alla gentilezza, mobilitata dal bisogno degli individui ad aggregarsi per ritrovare quella identità sociale perduta. Attraverso la partecipazione, ci si unisce per un bene comune, costruendo una nuova identità, coesione e anche libertà.

..Iniziando da se stessi

“Chi ben comincia è a metà dell’opera” recita un vecchio proverbio, e per farlo è imprescindibile iniziare da sé stessi. Essere gentili con sé stessi vuol dire volersi bene, che non è il concedersi un regalo materiale come spesso si pensa, bensì applicare un “sano egoismo” nella forma più introspettiva del termine. Facendo bene a se stessi, si propaga forza e benessere centrifugo anche per chi ci sta attorno. Volersi bene vuol dire anche accettare di essere unici, fallibili, imparando a perdonarsi e accettarsi, adottando una forma mentis fondata sulla positività. Trattare bene gli altri ha a che fare con noi stessi più di quanto si possa immaginare, un approccio critico e sgarbato adottato con gli altri implica il meccanismo della proiezione: stiamo in realtà scaricando sull’altro qualcosa che non amiamo e accettiamo di noi.

La gentilezza nelle relazioni si esplica nel motivare, valorizzare le persone, spesso anche solo nell’osservarle facendo loro notare un particolare gradito; ne sono esempio gli apprezzamenti spontanei sul look persino tra sconosciuti. Replicare con altri quel che ha fatto bene a noi o “Praticare gentilezza a casaccio e atti di bellezza privi di senso” per dirlo con le parole di Anne Herbert, riprendendo la sua filosofia del random act of kindness.

Nella parte finale del libro, l’autrice rimanda a una cultura aziendale gentile, proponendo di integrare nella figura dei leader moderni non solo le capacità gestionali, ma anche quelle relazionali; coltivando il contatto personale e riducendo la distanza psicologica, includendo la gratitudine, l’umiltà e il legame di fiducia nel modello di competenze. La gentilezza diventa motore per incrementare l’efficienza manageriale, dando centralità al fattore umano, abbattendo le gerarchie verticali, al fine di garantire la durata nel tempo delle aziende.

L’arringa finale dell’autrice a difesa della gentilezza, vede associati l’essere gentili all’essere socialmente responsabili, soprattutto verso l’ambiente, per uno stile di vita più consapevole oltre che gentile. Con la convinzione che solo l’impegno proattivo e responsabile del singolo nella vita comunitaria possa generare un impatto positivo sulla società, contribuendo a costruire un mondo migliore.

 

Amicizia, lavoro ed empowerment nella comunità LGB

Le amicizie possono essere una parte indispensabile della costruzione della fiducia tra i lavoratori, contribuendo a una maggiore cooperazione e a una migliore performance istituzionale, oltre che individuale.

 

Secondo lo State of the American Workplace di Gallup (2017), le amicizie sul posto di lavoro sono una parte fondamentale dell’impegno positivo e della funzionalità organizzativa, eppure solo il 20% dei lavoratori ha segnalato un legame stretto con i colleghi. Le amicizie sono definite come legami deliberati tra persone che condividono fiducia, rispetto, reciprocità, cura, sostegno emotivo (Howe, 2011), solidarietà e genuinità (Pahl, 2000): i veri amici si chiamano l’un l’altro nel momento del bisogno e si sentono sicuri che la loro chiamata sarà accolta con empatia. Anche se in genere non abbiamo il potere di scegliere i nostri colleghi, il nostro livello di istruzione e le nostre scelte di carriera determinano in una certa misura chi incontreremo (Smith, McPherson, & Smith-Lovin, 2014). Questa tipologia di legami svolge funzioni sociali ed emotive essenziali: permette di esplorare, collaborare o negoziare per affrontare sfide o modelli di business problematici. In altre parole, le amicizie possono essere una parte indispensabile della costruzione della fiducia tra i lavoratori, contribuendo a una maggiore cooperazione e a una migliore performance istituzionale, oltre che individuale (Requena, 2003). Morrison e Nolan (2009) hanno dimostrato che le relazioni positive sul posto di lavoro sostengono il benessere individuale e le prestazioni lavorative, sono fondamentali per l’atteggiamento, il rendimento e la soddisfazione dei colleghi, oltre che favoriscono la condivisione delle informazioni e la collaborazione.

Alcune organizzazioni attribuiscono poca importanza alle relazioni o addirittura le scoraggiano attivamente, anche se “ignorare le amicizie significa ignorare la natura umana” (Gallup, 2017). Tuttavia, il luogo di lavoro è stato storicamente un luogo di esclusione e di isolamento per i professionisti lesbiche, gay e bisessuali (LGB), mentre sarebbe auspicabile sviluppare un ambiente di lavoro più inclusivo (Willis, 2010). I primi rapporti nella vita e i legami con i membri della famiglia servono come base per le amicizie durante l’età adulta (Welch & Houser, 2010). Le amicizie LGB hanno storicamente assunto la forma di legami di parentela estesi tra le minoranze sessuali, come risposta ad una famiglia biologica eterosessuale, omofobica o comunque non solidale (Dewaele, Cox, Van den Berghe, & Vincke, 2011). Per alcune di queste persone, gli amici possono servire come forma primaria di sostegno sociale ed emotivo (Sias & Bartoo, 2007). Rumens (2011), inoltre, sottolinea che “alcuni dipendenti appartenenti a minoranze, come ad esempio soggetti appartenenti alla comunità LGB, possono avere difficoltà a connettersi tra loro sul posto di lavoro” con conseguenze particolari: la pressione a rimanere in silenzio promuove disimpegno, l’isolamento e il senso di non appartenenza.

Il presente studio si è proposto di indagare l’importanza delle amicizie sul posto di lavoro per il personale accademico LGB in campo sociale, nella consulenza e nei servizi umani, e di esaminare il rapporto tra le amicizie e l’empowerment sul lavoro. Nello specifico, le domande di ricerca sono state le seguenti tre:

  1. In che misura il campione indagato (N= 245) riporta amicizie sul posto di lavoro?
  2. In che modo le amicizie sul posto di lavoro e l’empowerment differiscono in base all’orientamento sessuale?
  3. In che modo l’orientamento sessuale e l’amicizia sul posto di lavoro prevedono insieme l’empowerment sul posto di lavoro?

La prevalenza e le opportunità di amicizia sul posto di lavoro sono state valutate tramite la Workplace Friendship Scale (Nielsen, Jex, and Adams, 2000), ovvero una scala a 12 items, del tipo “Ho l’opportunità di conoscere i miei colleghi” oppure “Ho stretto forti amicizie sul lavoro”, a cui i partecipanti potevano rispondere tramite una scala Likert a 5 punti (da fortemente in disaccordo a fortemente d’accordo). Per empowerment psicologico sul lavoro si intende la misura in cui le persone sperimentano il significato, la competenza, la determinazione di sé e l’impatto sul posto di lavoro. Esso è stato valutato per mezzo della Psychological Empowerment Scale, composta da 12 items che esplorano quattro dimensioni, a cui i partecipanti potevano rispondere tramite una scala Likert a 7 punti (da fortemente in disaccordo a fortemente in accordo): il significato (es. “il lavoro che faccio è importante per me”), la competenza (es. “Sono sicuro della mia capacità di fare il mio lavoro”), l’autodeterminazione (es. “Ho una notevole autonomia nel determinare come faccio il mio lavoro” ) e l’impatto (es. “Ciò che accade nel mio reparto ha grande impatto sulla mia vita”) (Spreitzer, 1995).

I risultati hanno rivelato che, nel complesso, all’interno del campione esisteva una prevalenza da moderata ad alta di amicizie sul posto di lavoro, così come è emerso un grado da moderato ad alto di empowerment psicologico. Tra i partecipanti LGB e quelli non LGB non sono emerse differenze significative relative alle opportunità e alla prevalenza di amicizia, al contrario della variabile di empowerment sul posto di lavoro. Inoltre, la ricerca ha palesato la relazione significativa tra orientamento sessuale ed empowerment, e tra empowerment e opportunità di amicizia, ma non con la prevalenza di amicizie. Ciò suggerisce che per i lavoratori, avere l’opportunità di sviluppare amicizie al lavoro è più importante che avere degli amici, in quanto questo riguarda questioni più ampie relative a come il supporto organizzativo e la cultura potrebbero influire sull’empowerment del posto di lavoro (Kokkonen et al., 2015).

 

Quali sono le implicazioni neurologiche nel Disturbo da stress post-traumatico (PTSD)?

Un evento traumatico può causare delle modificazioni neurotrasmettitoriali, determinate dai fattori ormonali attivati dallo stress, che quantificano la cronicità del disturbo e la persistenza delle conseguenze dell’esposizione del soggetto all’evento traumatico.

 

Pierre Janet asseriva:

Tutti i famosi moralisti dei tempi passati hanno posto l’attenzione al modo in cui certi eventi lasciano ricordi indelebili e stressanti, ricordi a cui chi ne è afflitto fa continuamente ritorno, e dai quali si sente tormentato giorno e notte..

Il disturbo da stress post-traumatico (PTSD) rappresenta una patologia di derivazione mentale molto comune, caratterizzata dall’insieme di forti e profonde sofferenze psicologiche che conseguono a un evento di tipo traumatico, catastrofico e spesso violento.

Prescindendo dal fattore scatenante, tutto ciò conduce a disagi clinicamente significativi o compromissioni nelle interazioni sociali, nella capacità di lavorare e in altre aree importanti per il normale funzionamento, accompagnati da una reattività psicologica cronica abnorme rispetto alla situazione e quindi dalla conseguente incapacità di regolare le reazioni emotive provenienti da stimoli interni o esterni.

Il PTSD può svilupparsi in seguito all’esposizione di un soggetto a uno o più eventi traumatici, come ad esempio: incidenti stradali, aerei, terremoti, aggressioni sessuali, atti di terrorismo o altri tipi di minacce che possono insorgere nella vita di un individuo.

Ma quali sono i criteri diagnostici? Riportando la quinta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei disturbi mentali (DSM 5; APA, 2013), per lo sviluppo di un PTSD è necessario che:

  • CRITERIO A: La persona sia stata esposta a un trauma, quale la morte reale o una minaccia di morte, grave lesione, oppure violenza sessuale facendo un’esperienza diretta o indiretta dell’evento traumatico oppure venendo a conoscenza di un evento traumatico violento o accidentale accaduto ad un membro della famiglia o ad un amico stretto. Un’altra possibile causa traumatica che può portare allo sviluppo di un PTSD è l’esposizione ripetuta o estrema a dettagli crudi dell’evento traumatico, come ad esempio succede ai primi soccorritori che raccolgono resti umani o agli agenti di polizia ripetutamente esposti a dettagli di abusi su minori.
  • CRITERIO B: Sintomi intrusivi correlati all’evento traumatico insorgano dopo l’evento traumatico, e possono manifestarsi sotto forma di ricordi del trauma ricorrenti, involontari ed intrusivi, sogni spiacevoli ricorrenti in cui il contenuto e/o le emozioni del sogno sono collegati all’evento traumatico e reazioni dissociative come flashback in cui ci si sente o si agisce come se l’evento traumatico si stesse ripresentando. Le reazioni dissociative possono arrivare alla completa perdita di consapevolezza dell’ambiente circostante. Inoltre può essere presente intensa o prolungata sofferenza psicologica nonché marcate reazioni fisiologiche all’esposizione a fattori scatenanti interni o esterni che simboleggiano o assomigliano a qualche aspetto dell’evento traumatico.
  • CRITERIO C: Evitamento persistente degli stimoli associati all’evento traumatico, viene messo in atto dopo l’evento traumatico. La persona evita o tenta di evitare ricordi spiacevoli, pensieri o sentimenti relativi o strettamente associati all’evento traumatico. Inoltre, vengono evitati fattori esterni quali persone, luoghi, conversazioni, attività, oggetti e situazioni che possono suscitare ricordi spiacevoli, pensieri o sentimenti relativi o strettamente associati all’evento traumatico.
  • CRITERIO D: Alterazioni negative di pensieri ed emozioni associate all’evento traumatico si manifestano dopo l’evento traumatico. La persona può non ricordare qualche aspetto importante dell’evento traumatico (dovuta tipicamente ad amnesia dissociativa e non ad altri fattori come trauma cranico, alcool o droghe), sviluppare persistenti ed esagerate convinzioni o aspettative negative su se stessi, gli altri, o il mondo. Possono manifestarsi pensieri distorti e persistenti relativi alla causa o alle conseguenze dell’evento traumatico che portano a dare la colpa a se stessi oppure agli altri. Si può inoltre sperimentare uno stato emotivo negativo e provare sentimenti persistenti di paura, orrore, rabbia, colpa o vergogna, una marcata riduzione di interesse o partecipazione ad attività significative, sentimenti di distacco o di estraneità verso gli altri o incapacità di provare emozioni positive come felicità, soddisfazione o sentimenti d’amore.
  • CRITERIO E: Marcate alterazioni dell’arousal e della reattività associate all’evento traumatico, si manifestano dopo l’evento traumatico come comportamento irritabile ed esplosioni di rabbia (con minima o nessuna provocazione) tipicamente espressi nella forma di aggressione verbale o fisica nei confronti di persone o oggetti, comportamento spericolato o autodistruttivo, ipervigilanza, esagerate risposte di allarme, problemi di concentrazione, difficoltà relative al sonno come difficoltà nell’addormentarsi o nel rimanere addormentati oppure sonno non ristoratore.
  • CRITERIO F: La durata delle alterazioni descritte è superiore ad 1 mese.
  • CRITERIO G: L’alterazione causa disagio clinicamente significativo o compromissione del funzionamento in ambito sociale, lavorativo o in altre aree importanti.
  • CRITERIO H: L’alterazione non è attribuibile agli effetti fisiologici di una sostanza come ad esempio farmaci o alcol o a un’altra condizione medica.

A seguito di un evento stressante, oltre a sviluppare un PTSD, si possono manifestare anche sintomi dissociativi non attribuibili agli effetti fisiologici di una sostanza o ad un’altra condizione medica. Questi sintomi dissociativi possono riguardare:

  • LA DEPERSONALIZZAZIONE: ci si può sentire distaccati dai propri processi mentali come se si fosse un osservatore esterno al proprio corpo (ad esempio sensazione di essere in un sogno; sensazioni di irrealtà di se stessi o del proprio corpo o del lento scorrere del tempo).
  • LA DEREALIZZAZIONE: si possono avere cioè persistenti o ricorrenti esperienze di irrealtà dell’ambiente circostante (ad esempio il mondo intorno sembra irreale, onirico, distante o distorto).

In un ottica bio-psico-sociale, risulta possibile asserire che l’ambiente in cui cresce e si sviluppa la personalità del soggetto, accompagnato dagli eventi di vita e dalla personale predisposizione genetica, costituiscono dei fattori fondamentali per lo sviluppo di una particolare modalità di risposta all’evento stressante.

Pitman, Orr e Shalev (1993) affermano che gli stimoli che conducono l’individuo a reagire in modo eccessivo possono non essere condizionati a sufficienza; una serie di cause non direttamente collegate all’esperienza traumatica possono risultare cumulative all’evento stesso, tali appunto da provocare delle reazioni estreme quali: anedonia, disturbi del sonno, evitamento e ritiro sociale, deficit di concentrazione, agitazione, irritabilità frequenti e un pattern d’eccitazione cronico. In assenza di un trascorso ricco di avversità, in seguito all’esposizione a un grave trauma, il soggetto ha la possibilità di poter sviluppare o meno il disturbo, possibilità che non è una certezza. Allo stesso modo non tutti i soggetti esposti in età infantile ad eventi di vita avversi, sviluppano la patologia. Semplicemente, alcuni eventi di vita, possono essere in grado di dar luogo a un fenotipo vulnerabile predisponente alla malattia, soprattutto se il soggetto subisce una nuova esposizione a traumi e stress.

La diretta conseguenza di vissuti ed esperienze stressanti, comporta una condizione che Hans Selye definisce “sindrome generale di adattamento” che consta di tre fasi: la prima di Allarme, in cui il soggetto cerca di allocare le risorse necessarie per far fronte alla situazione, con una conseguente attivazione del sistema nervoso autonomo e precisamente la componente del simpatico ed in particolare l’asse HPA (ipotalamo-ipofisi-surrene), se lo sforzo si protrae nel tempo ha avvio la fase della Resistenza, l’individuo cerca di adattarsi ma questo può portare alla formazione di ulcere ed all’ingrossamento delle ghiandole surrenali fino a giungere alla terza fase ossia quella dell’Esaurimento, quando l’esposizione all’evento stressante si protrae in modo abnorme e l’organismo non può mantenere oltre lo stato di resistenza, così esaurisce le energie impiegate nell’adattamento rischiando danni irreversibili.

Un eccesso di risposta comporta una sovrapproduzione di cortisolo, il cosiddetto “ormone dello stress”, con alcune ricadute importanti e potenzialmente nocive sulla pressione arteriosa, sull’attività cardiaca, sulla funzione renale e sull’equilibrio glicemico. Numerosi studi, accompagnati dall’utilizzo di tecniche di neuroimaging ed indagini scientifiche, hanno riportato alcune modifiche a livello neuroanatomico, nei soggetti affetti da PTSD. Tali modifiche interessano principalmente il sistema libico ed in particolar modo l’Ippocampo, che presenta una evidente e significativa atrofia. Proprio a tal proposito, con lo scopo di spiegare la natura dell’atrofia ippocampale nel disturbo da stress post-traumatico, alcuni studi hanno individuato l’esposizione ai glucocorticoidi, ossia gli ormoni steroidei secreti durante lo stress, come il principale fattore di rischio del PTSD.

Sebbene l’origine certa, alla base dell’eziopatogenesi del disturbo, risulti ancora controversa si pensa che un ippocampo atrofico, sia il risultato di una sua prolungata esposizione ai glucocorticoidi, ricordiamo che la secrezione dei glucocorticoidi è stimolata dall’ormone adenocorticotropo (ACTH). Il cortisolo prima citato come risposta allo stress, è appunto il principale ormone glucocorticoide.

Secondo Yehuda, il meccanismo di atrofia ippocampale risulta dovuto ad un’alterazione dell’asse HPA (ipotalamo-ipofisi-surrene), che non è causata da scarsi livelli di cortisolo, bensì da un incremento del feedback negativo dell’asse stesso. Infatti, i ridotti livelli di cortisolo, non sono altro che la conseguenza di un aumento del feedback dello stesso sulla ghiandola pituitaria e quindi sull’ipotalamo. A questo punto, è possibile affermare che all’aumentare della sensibilità dei recettori ippocampali per i glucocorticoidi, aumenterà anche la vulnerabilità ippocampale all’atrofia anche in assenza di levati livelli di cortisolo. Quindi risulterebbe l’attivazione dei recettori dei glucocorticoidi e non specificatamente i livelli di cortisolo, in grado di causare quella serie di eventi, aventi come risultato finale, una degenerazione neuronale.

Incubi, flashback, pensieri intrusivi, immagini sensoriali e altri sintomi del PTSD possono essere il risultato della continua attivazione delle informazioni immagazzinate in modo alterato.

Un blocco nell’elaborazione, ne impedisce la transizione delle informazioni riguardanti l’evento traumatico attraverso le fasi normali dell’integrazione adattiva, queste ultime arrivano al Sistema Nervoso Centrale attraverso gli organi di senso, per poi essere trasferite al talamo qui sono parzialmente integrate prima che questo, a sua volta, le invii al fine di effettuare ulteriori valutazioni sia all’amigdala che alla corteccia pre-frontale. L’amigdala conferisce un significato emotivo agli eventi, mentre l’ippocampo anatomicamente ad essa adiacente, arricchisce l’informazione attribuendo un significato verbale. Entrambi svolgono un ruolo centrale nell’acquisizione e nella fissazione dell’informazione. Quindi possiamo affermare che talamo, amigdala, ippocampo e corteccia prefrontale risultano coinvolti nei processi di interpretazione, integrazione e memorizzazione delle informazioni provenienti dagli organi di senso, tuttavia sembrano essere disturbati da elevati livelli di eccitazione. Infatti, se la moderata attivazione da parte dell’amigdala aumenta la memoria dichiarativa mediata dall’ippocampo, un alto livello eccitatorio ostacola la sua funzionalità. Esiste una sufficientemente consolidata letteratura che indica come in conseguenza ad alcune situazioni traumatiche, specialmente se queste risultano essere estreme e ripetute nel tempo, come ad esempio nel caso dell’abuso sessuale intrafamiliare, hanno luogo specifiche alterazioni neurologiche e biochimiche la cui certa implicazione non è tutt’ora compresa.

I ricordi traumatici, conducono ad un’eccessiva eccitazione da parte dell’amigdala che genera risposte emotive ed impressioni sensoriali che potrebbero basarsi unicamente su frammenti di informazione (componenti sensoriali come ad esempio immagini visive, sensazioni uditive, tattili o olfattive, oppure come vivide rappresentazioni dell’evento traumatico stesso), piuttosto che su di una percezione completa. Quando viene richiamato alla mente un ricordo traumatico, ne consegue una aumentata attività dell’emisfero cerebrale destro, che si verifica in particolar modo nelle aree coinvolte nell’eccitazione emotiva e quindi strettamente legate a quelle sezioni del sistema limbico, correlate all’amigdala. L’area di Broca, la zona dell’emisfero sinistro responsabile della verbalizzazione delle esperienze personali, sembra essere spenta, ecco perché i soggetti che subiscono un’esperienza traumatica provano una sorta di terrore muto; conseguentemente non sono in grado di tradurre l’evento traumatico in parole. Ciò deriva da un’atipica ed insolita elaborazione e fissazione dell’informazione: l’evento traumatico produce un’attivazione del locus coeruleus, la cui scarica noradrenergica a sua volta conduce all’iperattivazione dell’amigdala e della corteccia, inibendo però l’ippocampo.

A causa di una simile condizione l’informazione, che è carica di significati emotivi assegnati dall’amigdala, non può essere ampliata con i significati verbali e simbolici da parte dell’ippocampo che risulta essere strutturalmente ridotto e quindi atrofico, per l’azione dei glucocorticoidi. Il risultato è quello di un’anomala fissazione e dell’informazione, che non sarà effettuata sotto forma di ricordo, ma di vissuto. L’evento traumatico quindi, rappresenta la causa delle modificazioni neurotrasmettitoriali, determinate dai fattori ormonali attivati dallo stress che quantificano la cronicità del disturbo e la persistenza delle conseguenze dell’esposizione del soggetto all’evento traumatico. Tuttavia, ad oggi, risulta ancora largamente sconosciuto l’esatto meccanismo della sua interazione che parte dall’evento traumatico fino al manifestarsi del PTSD.

 

Quando mamma e papà litigano: gli effetti del conflitto coniugale sui figli

I genitori dovrebbero comprendere quali dinamiche del conflitto coniugale possono incidere e ostacolare lo sviluppo del benessere del proprio figlio, ricercando modalità di espressione funzionali che favoriscano la propria libertà di espressione preservando il diritto del figlio di un sereno sviluppo.

Cos’è un conflitto coniugale?

Il conflitto è un’evenienza del tutto normale nel rapporto fra coniugi e può avere una valenza distruttiva o costruttiva. Varia nel tempo, nelle modalità e può interessare aspetti differenti di vita quotidiana come la gestione economica, l’educazione dei figli, le relazioni extra familiari o con le famiglie d’origine, ma anche problemi strettamente legati al funzionamento della coppia coniugale.

Il conflitto permette di esprimere, in maniera più o meno funzionale, opinioni differenti. L’espressione di questo grado di discordanza in presenza dei figli genera risposte negli stessi a più livelli: emotivo, comportamentale, cognitivo e fisiologico. Il genitore non è chiamato per questo a reprimere la sua discordanza nella coppia, ma può comprendere quali dinamiche del conflitto coniugale, possono incidere ed ostacolare lo sviluppo del benessere del proprio figlio, ricercando modalità di espressione funzionali che favoriscano la propria libertà di espressione preservando il diritto del figlio di un sereno sviluppo.

Modalità di conflitto

I dati presenti nella letteratura scientifica ci spiegano che non solo esistono diverse forme di conflitto e che queste hanno un impatto diverso sullo sviluppo del benessere del bambino. Questi differiscono fra loro per una diversa modalità di espressione che viene definita: aggressiva o ostile, a cui segue una fase di “risoluzione” del conflitto.

L’espressione del conflitto aggressivo fa riferimento a ciò che comunemente definiamo aggressione fisica all’altro o verso gli oggetti utilizzati per colpire o minacciare l’altro. L’esposizione all’aggressione fisica risulta collegata allo sviluppo di problemi di adattamento del bambino.

L’espressione del conflitto ostile invece riguarda sia le modalità verbali che quelle non verbali.

Nel primo caso, di ostilità verbale, si è osservato come urla, minacce ed espressioni di rabbia verbali innescano nel bambino elevati stati di angoscia che aumentano particolarmente in presenza di minacce di abbandono. Si osserva inoltre come i bambini effettuino tentativi di mediazione con una frequenza maggiore rispetto ad altre forme di conflitto.

Nel secondo caso, di ostilità non verbale, si fa riferimento a quegli atteggiamenti di ritiro che i coniugi possono assumere nella relazione e benché non si tratti di un conflitto “conclamato” questo è in grado comunque di generare angoscia nel bambino che percepisce sia l’evitamento che il mutismo reciproco dei genitori.

“Fare la pace”

Il termine di un conflitto coniugale viene segnato da una fase di risoluzione intesa non necessariamente come il raggiunto “accordo” tra coniugi, quanto come un insieme di strategie o modalità di comportamento che i coniugi assumono al termine del conflitto. Queste sono in grado di far aumentare o diminuire lo stato d’angoscia precedentemente indotto dal conflitto: maggiore è il grado di risoluzione raggiunto dai coniugi, maggiore sarà la possibilità di ridurre lo stato di angoscia nel figlio.

Una possibilità di risoluzione del conflitto coniugale è rappresentata dal compromesso che è capace di ridurre nel bambino reazioni negative, a differenza dell’ostilità verbale e del mutismo. Soluzioni di sottomissione o evitamento dell’argomento conflittuale invece vengono chiaramente percepite dal bambino come soluzioni parziali, che rivelano comunque un impatto positivo sul suo senso di angoscia, ma non un’assenza o totale riduzione della stessa. Possiamo dunque affermare che maggiore è l’efficacia risolutiva del conflitto, intesa come capacità di giungere ad un reale compromesso, maggiore è la diminuzione della reattività negativa del bambino.

Così come il conflitto anche le modalità di risoluzione possono avere un impatto sul bambino, a tal proposito la ricerca ha osseravto come l’angoscia del bambino diminuisca in maniera rilevante se i coniugi risolvono il conflitto a “porte chiuse”. Ciò acquista veridicità solo se con i loro comportamenti sono in grado poi di mostrare, e quindi testimoniare, un cambiamento positivo reciproco. Risolvere un conflitto coniugale a “porte chiuse” non significa escludere il bambino da ciò che è avvenuto: “i bambini traggono beneficio dal poter ascoltare spiegazioni brevi dell’avvenuta risoluzione…”, o semplicemente dall’osservare o dal sentirsi dire che i genitori si stanno impegnando per cercare un accordo.

Effetti sul bambino

Gli effetti dell’esposizione al conflitto, in particolare a quello aggressivo, inducono nel bambino: un aumento dell’insicurezza nella relazione con i genitori, problemi di internalizzazione ed esternalizzazione e sintomi tipici del disturbo da stress post traumatico (PTSD). Tali effetti possono coinvolgere anche l’ambito extra-familiare, in particolare quello scolastico, provocando un’alterazione nel funzionamento del bambino sia in termini di performance scolastica, sia in ambito socio-relazionale.

La variazione della performance spesso induce ad un calo della prestazione scolastica poiché l’esposizione al conflitto è in grado di minare la capacità del bambino di mantenere l’attenzione su un compito per lungo tempo. Tale “capacità mentale è quella che gli scienziati cognitivi chiamano memoria di lavoro”, che permette allo studente di riuscire a mentenere vivo il ricordo delle informazioni apprese o in fase di apprendimento. Non è un caso che la sede della memoria di lavoro sia la corteccia prefontale, struttura in cui giungono contemporaneamente informazioni ed emozioni.

In ambito socio-relazione l’insicurezza emotiva generata dal conflitto coniugale, struttura nel tempo un modello rappresentazionale insicuro delle relazioni sociali sia col gruppo dei pari che con le figure adulte operanti nella scuola.

Ulteriore effetto è quello relativo all’insorgere di disturbi del sonno. Avendo le relazioni coniugali ed il conflitto un impatto globale sul bambino, questo indurrà un’alterazione dei processi di regolazione, sonno incluso.

Le alterazioni fin qui descritte sono accompagnate dall’azione dei sistemi fisiologici, dunque collegati all’attività elettrica del cervello e al rilascio degli ormoni neuroendocrini. Queste alterazioni, sebbene abbiano una funzione adattiva rispetto alla capacità di fronteggiare il pericolo percepito dal bambino, inducono, nel tempo, una continua reattività fisiologica allo stato di stress ed uno stato di fatica che spesso culmina in problemi di salute sia fisica che mentale.

Esiste un’età maggiormente vulnerabile al conflitto coinugale?

I bambini, sebbene riescano a far fronte al conflitto coniugale, sono anche intensamente sensibili e reattivi alle espressioni di rabbia del mondo dei propri genitori. Basti pensare che già a partire dai sei mesi i bambini sono in grado di manifestare risposte di angoscia alla rabbia espressa dal genitore, attraverso espressioni del volto o gesti che testimoniano la paura provata. Risposte di angoscia che con la crescita possono poi manifestarsi sia con comportamenti aggressivi o con atteggiamenti mediatori delle divergenze genitoriali.

Molti studi hanno ripetutamente dimostrato che i bambini cercano in tutti i modi di far sì che i genitori si sentano emotivamente sollevati, confortandoli o aiutandoli a tirare fuori e risolvere le divergenze.

Un figlio appare dunque sempre vulnerabile al conflitto coniugale, ciò che infatti si osserva è che un bambino esposto al conflitto coniugale durante l’infanzia mostra “costellazioni di vulnerabilità” non minori o maggiori di quanto mostrerà in adolescenza, ma sostanzialmente differenti nell’esito, poiché differente è il grado di strutturazione di personalità e i compiti evolutivi connessi alla sua fase di sviluppo. Sono proprio i compiti evolutivi a risentire dell’effetto del conflitto coniugale, questo diventa nel tempo una “fatica” aggiuntiva al processo di crescita o sviluppo, o nei casi più gravi, un reale impedimento.

 

Porn Addiction

La porn addiction è la dipendenza da materiale pornografico. In una società sempre più tecnologica ed esposta agli stimoli attraverso uno schermo, la dipendenza dal porno sembra essere la dipendenza sessuale più diffusa tra i giovani. 

 

Molti studiosi concordano sul fatto che diversi fattori contribuiscono allo svilupparsi della porn addiction, quali ad esempio l’anonimato, la facile accessibilità ai contenuti pornografici nella rete e il fatto che tale materiale sia alla portata di tutti. Tali fattori sono anche stati nominati e confermati dagli stessi pazienti in riabilitazione come caratteristiche che nutrono la loro dipendenza e che facilitano le ricadute.

Porn addiction: ma come funziona la dipendenza dal porno?

Come ogni dipendenza, tutto inizia da un parziale e saltuario uso di materiale pornografico. Va detto che solo una minoranza delle persone che ne fa uso trasformerà tale esperienza in un abuso. Per queste persone il desiderio verso contenuti a sfondo sessuale diventa nel tempo incontrollabile, fino ad essere una vera e propria ossessione. Questa urgenza finalizzata alla soddisfazione sessuale può spingere le persone a mettere in secondo piano la loro vita quotidiana e i loro impegni o responsabilità di tutti i giorni.

A questo primo step della porn addiction ne segue poi spesso un altro, facilmente riscontrabile anche nelle persone che abusano di farmaci o di sostanze stupefacenti: la tolleranza. La tolleranza è la reazione che la sostanza o lo stimolo, a lungo andare, provoca nel corpo del soggetto. L’assunzione continua di qualsiasi sostanza, come di un farmaco, porta il corpo ad abituarsi ad essa. Così la stessa quantità di sostanza non produce più gli effetti desiderati, che invece possono essere raggiunti solamente con un aumento della dose. Nella dipendenza dal porno il soggetto che va a ricercare il piacere nel materiale pornografico, a lungo andare, può avere bisogno di rinnovare questo materiale per continuare a rendere l’esperienza piacevole. Tale tendenza spesso spinge questi soggetti verso una pornografia sempre più deviante, che può sfociare tanto nel fetish, quanto nella pornografia aggressiva o perfino nella child pornography. I pazienti affetti da dipendenza dal porno dichiarano infatti di non essere più soddisfatti dal proprio partner, proprio perché i loro appetiti sono rivolti verso una sessualità meno canonica e convenzionale, più particolare e specifica. Il porno può arrivare quindi ad intromettersi nei delicati equilibri della coppia, fino a degradare la sua intimità.

Ma occorre tenere in considerazione una cosa: nella maggior parte dei casi le conseguenze della porn addiction non sono pericolose a livello sociale, quanto piuttosto relazionale. Il soggetto dipendente dal porno non aggredisce ma al contrario si ritira. Perde il lavoro, la famiglia, gli amici, il partner. Consapevole della sua impossibilità nel controllarsi, il soggetto sente di avere un problema e ne prova vergogna e senso di colpa. La sua autostima si abbassa e questo crea un isolamento progressivo in cui l’unica fonte di gratificazione diventa la fonte stessa della sua inquietudine.

Parlando di riabilitazione e cura non bisogna pensare la porn addiction alla stessa maniera della dipendenza da uso di sostanze stupefacenti o alcool. Come spiega Mark Griffiths, della Nottingham Trent University, nella maggior parte dei casi la riabilitazione rivolta agli alcolisti prevede o almeno punta verso l’astinenza dalla sostanza per tutta la vita. Comprendiamo benissimo come non solo sia impossibile, ma anche disfunzionale allontanare un soggetto dipendente dal porno dalla rete. La riabilitazione quindi si avvicina molto ad una rieducazione sessuale, come un ritorno verso una normale e sana relazione con la sfera sessuale, nella stessa misura in cui si punta a ristabilire un sano rapporto con il cibo nei disordini alimentari.

 

Pregiudizi, misinformazione e xenofobia ai tempi del COVID-19

Le riviste accademiche, oltre a promuovere conoscenze, giocano un ruolo cruciale nel controllo della situazione Covid-19: le informazioni possono influenzare il nostro cervello come può farlo un virus.

 

Il COVID-19 è una malattia causata dal 2019-nCov, ufficialmente chiamato SARS-CoV-2, che può presentarsi secondo diversi gradi di gravità (Yang et al., 2020). Si tratta del terzo grave focolaio coronavirus in meno di 20 anni dopo la SARS nel 2002-2003 e la MERS nel 2012, anche se la prima forma di coronavirus fu identificata intorno al 1960 (Yang et al., 2020).

Le riviste e gli studiosi, causa emergenza COVID-19, si sono focalizzati sulle possibili implicazioni della salute globale e nettamente meno sulla possibile diffusione di xenofobia e pregiudizi: Zeng e colleghi (2020) hanno effettuato una ricerca su PubMed e hanno trovato che oltre 2000 manoscritti menzionano Wuhan come luogo di origine della pandemia (Holshue et al., 2020) e dove è stata segnalata per la prima volta nel dicembre 2019. Tuttavia, non è certo che l’origine fosse in questa città nella provincia di Hubei. Dato che nel corso della storia le malattie virali sono state associate ai luoghi in cui si sono verificati i primi focolai, nel 2015 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha introdotto delle linee guida per disputare questa convinzione, col fine di ridurre pregiudizi e forme discriminatorie nei confronti di tali regioni o dei cittadini che vi abitano (Fukuda et al., 2015; Zeng et al., 2020).

Le riviste accademiche, oltre a promuovere conoscenze, giocano un ruolo cruciale nel controllo della situazione COVID-19: le informazioni possono influenzare il nostro cervello come può farlo un virus. Specialmente l’informazione inaffidabile e il pregiudizio collettivo hanno esacerbato la paura: alcune riviste accademiche e mediche hanno ignorato il fatto che alcuni contenuti pubblicati avrebbero potuto dare origine alla formazione dei pregiudizi e a comportamenti xenofobi e discriminatori (Jakovljevic et al., 2020; Zeng et al., 2020).

Dall’inizio della pandemia, l’aumento dei pregiudizi, del razzismo e della xenofobia nei confronti di persone provenienti dalla Cina è stato registrato in molti paesi: uno studio di Jakovljevic e colleghi (2020) ha messo in luce come nel Regno Unito si stiano verificando livelli crescenti di episodi di razzismo nei confronti di persone orientali, come riportato da denunce per aggressioni. Di pari passo alla rapida diffusione del COVID-19, dal 19 marzo al 13 maggio 2020 sono stati documentati più di 1700 episodi di discriminazione verso gli asiatici nel Regno Unito, come riportato dalla campagna STOP AAPI Hate (Le et al., 2020).

L’ambasciata cinese in Germania ha riportato un aumento dei casi di discriminazione contro i cittadini cinesi dall’inizio dell’epidemia, mentre a Wuhan molti cittadini riferiscono di aver subito discriminazioni e di essere stati stigmatizzati anche dopo il periodo di quarantena (Jakovljevic et al., 2020).

Il presidente degli Stati Uniti d’America, Donald Trump, ha definito la sindrome respiratoria acuta grave come “il virus cinese”, accusando il governo cinese di aver trattenuto informazioni salvavita a proposito del virus nei primi giorni di pandemia (Levine, 2020).

Zeng e colleghi (2020) hanno sottolineato come una risposta utile possa essere la solidarietà globale e non la discriminazione delle persone attraverso l’etichettatura errata delle questioni scientifiche o la loro politicizzazione (Devakumar et al., 2020). Di conseguenza editori, revisori e autori dovrebbero controllare attentamente la presenza di eventuali commenti inappropriati per mantenere il fine della ricerca scientifica come non nocivo, bensì obiettivo e rigoroso.

 

Il piacere del violare la legge delle Sette Parole: l’attrazione verso lo shock jocking

L’essere umano ha sviluppato sistemi giuridici ed etico-morali per regolare la vita in maniera oggettiva ed isolata dall’elemento animale originale. Tuttavia, l’uomo ha un rapporto paradossale e controverso con il concetto di limite e a questo si collega l’evoluzione del fenomeno dello shock jocking.

 

L’essere umano, per il funzionamento salubre della sua vita sociale ed organizzativa, ha bisogno di regole e di leggi. Tuttavia, essendo allo stesso tempo un animale sociale avente un rapporto paradossale con le limitazioni, necessita di un rilascio della tensione che ribalti le prospettive sulle situazioni che vive quotidianamente. Per questo motivo negli ultimi quarant’anni si è vista l’ascesa dello shock jocking, ovvero la conduzione di programmi radiofonici dove il contenuto sfida le regole culturali e morali.

L’essere umano, nella sua evoluzione di animale sociale autoconsapevole, nello sviluppo delle sue capacità organizzative e sociali, ha sviluppato l’atto di creare norme giuridiche, etiche e morali per regolare le sue iterazioni sociali e comunicative (Prescott, J. W., 1972). Essendo l’essere umano un animale che attua, inconsapevolmente o no, elementi di discriminazione a seconda del background culturale, etnico o di intimità relazionale, anche quando è chiaramente deviante (Warren, 2019), esso ha sviluppato sistemi giuridici (Hovenkamp, 1985) ed etici-morali (Weish, 1947) all’interno dei suoi sistemi culturali e religiosi per regolare la vita degli attori in maniera oggettiva ed isolata dall’elemento animale originale (Fuentes, 2004).

Tuttavia, come si è evidenziato nella sua crescita psicoattitudinale, l’essere umano ha un rapporto paradossale e controverso con il concetto di limite, sia verso quello della sua vita (Greenberg & Arndt, 2011) che quello imposto dal sistema giuridico (Wood, 2007). Questo è dovuto allo sviluppo della autoconsapevolezza dell’essere umano verso i propri limiti fisici e sociali, cosa che ha condotto allo sviluppo di meccanismi come il bias della superiorità ( Hornsey, 2003) e il “my-side” bias (Jarrett, 2018).

Una tipologia di intrattenimento che, basandosi proprio sul bisogno di ribellione alle regole su principi etico-morali presenti nelle costituzioni giuridiche, ha avuto un grande successo ed è diventato un fenomeno culturale è lo shock jock. Per shock jock è inteso quella tipologia di programma radiofonico il cui prodotto è considerato oltraggioso, con ampio utilizzo di turpiloquio e di momenti tendenti all’indecente (Sixsmith, 2019). Questa tipologia di programma radiofonico è stato popolarizzato in America grazie a figure come Howard Stern, Opie & Anthony, Bubba the Love Sponge e Don Imus. Nello Stivale questa tipologia ha influenzato programmi come “Lo Zoo” di 105 e “La Zanzara” di Radio 24.

Questa tipologia di programma radiofonico ha avuto un grandissimo successo commerciale e di popolarità grazie al prodotto veicolato, che spesso sfida le leggi sul costume sessuale, sulla parità dei sessi e sul buon costume in pubblico (Soley, 2007).

Il contenuto di questa tipologia di programma, condito da battute infantili e spesso reputabili come senza rispetto, rispecchia in pieno il rapporto paradossale che l’essere umano ha nei confronti delle costrizioni etiche e pubblicamente culturali in cui vive.

Di fatto, attraverso l’ascolto e la possibilità di partecipare attivamente alle controversie dello show, il soggetto sfoga le frustrazioni e le tensioni create dall’avere a che fare con situazioni legate a copioni e a protocolli impedenti di esprimere completamente la propria opinione, la propria esperienza e quindi i propri stereotipi e/o i lati più oscuri della personalità, elementi che solo attraverso una comunicazione, anche solo all’apparenza, comicamente senza limiti possano essere soddisfatti (Hayes, Gravesen, 2014).

Attualmente, con l’arrivo delle stazioni radio satellitari senza obblighi di censura e un progressivo allentamento delle restrizioni culturali dei costumi nel ventunesimo secolo, questo genere è caduto dal punto di vista della potenza effettiva del suo prodotto, ma è ancora celebre e studiato dal mondo culturale di massa e accademico, soprattutto per il suo legame con il double think e la violenza psicologica percepita (Janzen, Arrigo, 1997).

 

Perfezionismo: aspetti adattivi e disadattivi

Il costrutto di perfezionismo ha ricevuto un’attenzione particolare, fin dalla seconda metà del ‘900, ed è stato rilevato essere responsabile di vari quadri psicopatologici eterogenei.

 

Nello specifico, alcune ricerche hanno mostrato correlazioni positive tra un perfezionismo disadattivo e Disturbo Depressivo Maggiore (Frost & DiBartolo, 2002; Nakano, 2009), e Disturbi dell’Alimentazione (Bardone-Cone et al., 2007; Sassaroli & Ruggiero, 2005; Welch, Miller, Ghaderi, & Vaillancourt, 2009). Questo rinnovato interesse ha fatto sì che si intensificasse la ricerca sul perfezionismo, con il fine di comprendere gli aspetti interpersonali, tra cui il lato maladattivo o disadattivo del perfezionismo, definire il costrutto di perfezionismo e come misurarlo (Blatt, 1995).

Aspetti adattivi e disadattivi

Sebbene il comportamento perfezionista sia stato descritto come un fattore positivo nell’adattamento o nella realizzazione personale e professionale (Hamachek, 1978), spesso invece è visto come uno stile nevrotico pervasivo (e.g. Flett, Hewitt, & Dyck, 1989; Pacht, 1984; Weisinger & Lobsenz, 1981).

Difatti, il perfezionismo è spesso correlato a vari esiti negativi comprendenti sentimenti caratteristici di insuccesso, colpa, indecisione, procrastinazione, vergogna e scarsa autostima (Hamachek, 1978; Hollender, 1965; Pacht, 1984; Solomon & Rothblum, 1984; Sorotzkin, 1985).

Studi successivi hanno permesso di rilevare come un perfezionismo disadattivo possa portare a sviluppare forme psicopatologiche, come ad esempio: Disturbo Depressivo Maggiore (Accordino, Accordino, & Slaney, 2000; DiBartolo, Li, & Frost, 2008; McCreary, Joiner, Schmidt, & Ialongo, 2004), Alcolismo, Anoressia Nervosa e Disturbi di Personalità (e.g. Burns & Beck, 1978; Pacht, 1984).

Le difficoltà di adattamento rilevabili, si pensa che siano dovute dalla tendenza perfezionista ad impegnarsi nel seguente modo: definire standard non realistici e motivazione nel raggiungere questi; attenzione selettiva ed eccessiva; generalizzazione del fallimento; rigidità nelle autovalutazioni; tendenza a impegnarsi nel pensiero polarizzato di tipo tutto-o-nulla, per cui solo il successo totale o il fallimento totale esistono come risultati (Burns, 1980; Hamachek, 1978; Hollender, 1965; Pacht, 1984).

A loro volta, secondo Hewitt e Genest, (1990), queste caratteristiche sembrerebbero derivare, in parte, dalle operazioni cognitive inerenti allo schema personale ideale che possediamo.

Inoltre, non possiamo trascurare come il perfezionismo abbia aspetti interpersonali e come questi aspetti siano importanti nel contribuire alla difficoltà di adattamento.

Recenti studi hanno dato un’ulteriore definizione rispetto al perfezionismo adattivo e quello maladattivo (Cox, Enns, & Clara, 2002; Slade & Owens 1998).

Il perfezionismo maladattivo è caratterizzato da standard eccessivamente elevati, dalla presenza costante di dubbi sulle proprie azioni, preoccupazioni di sbagliare, intolleranza dell’incertezza, adozione di modelli socialmente desiderabili ma non auto-determinati, spesso irrealizzabili, senza alcuna possibilità di riuscire a compiacersi della propria performance (Cox, Enns, & Clara, 2002; Slade & Owens 1998). Quindi, si presenta come una forma disfunzionale e ‘patologica’ che reca svantaggi agli individui, costantemente insoddisfatti poiché convinti di non fare mai abbastanza, vivendo uno stato di ansia e di paura rispetto al giudizio degli altri e al fallimento.

Al contrario, il perfezionismo adattivo può essere definito come una forma funzionale e ‘sana’, caratterizzata da standard prestazionali elevati, alti livelli di organizzazione, impegno costante per raggiungere i propri obiettivi, mantenendo un certo grado di flessibilità cognitiva che permetta la rivalutazione dei loro standard in base ad esperienze, eventi di vita ed eventuali richieste situazionali. Questa sembra determinare una soddisfazione personale, poiché il soggetto detiene la capacità di definire le attribuzioni delle cause di successo e insuccesso in modo realistico, riuscendo a compiacersi del proprio agito, indipendentemente dall’esito stesso della propria prestazione.

Tuttavia, una visione completa di tale costrutto non può non tenere conto di come i fattori genetici, ambientali, culturali e individuali, interagiscono fra loro determinando lo sviluppo del perfezionismo stesso.

 

Lettera alla mia terapeuta

Le donne si trovano spesso a dover affrontare diverse sfide, come quella di conciliare maternità e lavoro. I vissuti e i pensieri di due pazienti ci guidano nello scoprire più da vicino queste difficoltà.

 

Sara ha un pacchetto per me. È il regalo per il mio compleanno, lo scarto incuriosita ed esce fuori un libro L’atlante delle donne. La più aggiornata e accurata analisi di come vivono le donne nel mondo. Le dico “lo sai vero che sicuramente mi farà arrabbiare?!” e lei sorride “si certo!”. Sara è separata, ha due bimbe, ha un ruolo importante in una grande azienda e viaggia spesso per questo, un fisico mozzafiato e un’intelligenza rara. E lavora di continuo per mantenere tutto in bilico. A mio avviso le sue giornate sono di 48 ore e, se non la conoscessi bene, penserei ad una dipendenza da anfetamine o simili. La ammiro perché sinceramente non so se potrei fare qualcosa di simile. Il libro che ha scelto quindi non è un caso. Abbiamo parlato spesso di lei, della situazione femminile in generale e della difficoltà di conciliare maternità e lavoro. O forse maternità e autonomia. Sfogliamo le pagine e capitiamo a pagina 135 esattamente, dov’è stilata una lista delle faccende domestiche per le quali le donne hanno la responsabilità principale (es. tenere i rapporti con la scuola/asilo sulle questioni quotidiane, gestire gli appuntamenti medici…). La lista è lunga. Poi voltiamo pagina e viene riportato il divario europeo sullo stipendio lordo orario medio delle donne in percentuale a quello degli uomini (in Italia del 94%, anno 2014/2015). Iniziamo a riflettere sulla difficoltà delle donne di portare avanti, nel migliore dei modi, maternità e carriera. Mi sale la rabbia. “Ecco vedi lo sapevo!”. Mi sfotte, “dai ora non pensarci”, mi abbraccia e ci salutiamo. Ovviamente non pensarci per me è impossibile. Tiro fuori dal comodino una lettera consegnatami qualche settimana fa e inizio a leggere.

Cara dottoressa,

nel 1975 non ero ancora nata. Nemmeno immaginata, forse sognata. “Lettera a un bambino mai nato”, di Oriana Fallaci, esce proprio in quel periodo ed io, di quel periodo, non so nulla.

Mentre leggo faccio fatica a pensare che sia un libro di 45 anni fa. È tutto così vivido e presente. Io che sono qui con il mio lavoro e non so cosa voglio fare. Non so se le parole che ho in testa sono mie o dell’amica, del vicino di casa, dello scrittore intervistato in tv o della docente di antropologia dell’università. Io non so che fare dottoressa, questa è la verità. Non so se lasciare quell’uomo che da me non vuole figli o se inseguirlo perché forse non ne voglio nemmeno io. O forse si. È vero non c’ero nel ’75 ma non sono nemmeno così giovane da non pormi questa domanda. Ho rimandato la risposta troppo a lungo.

La mindfulness ci dice che bisogna guardare al presente e vedere ciò che desideriamo in questo momento, qui ed ora. Bella come cosa, stupenda. Ma il presente cambia di continuo. E il presente di oggi non sarà quello vissuto domani. Oggi faccio la spesa e ho voglia di una bella carbonara e prendo il tutto. Il giorno dopo mi sveglio e desidero insalata e pomodori. Ma niente non li ho presi il giorno prima. Nemmeno una spesa riesco a fare, nemmeno so cosa vorrei mangiare il giorno prima per quello dopo. Mia nonna a colazione davanti caffè, latte e biscotti mi chiedeva che volevo per cena. Io avevo solo la nausea nel pensare a carne, peperoni e pasta al sugo. E mi sembrava un dilemma insormontabile. “Fai tu” rispondevo. Ma ora a chi posso dirlo “decidi tu”? Al mio compagno? Ma so che poi lo odierei per questo. E se rimarrò con lui non voglio odiarlo, ma non voglio odiare nemmeno me stessa, con cui sicuramente rimarrò.

Non ho mai abortito ma ho fatto il test di gravidanza due volte. La prima sapevo che non sarebbe stata una gravidanza desiderata, ero giovane e lui in quel momento aveva deciso per entrambi. Ma test negativo. La seconda è stata più difficile perché una parte di me lo desiderava e stavo lì con la felicità che ci fosse qualcuno dentro di me e la paura per lo stesso motivo. Anche lì, test negativo. Non ci stavamo provando, non era il momento nemmeno quello, ma credo di aver pianto. Sentivo una perdita. Quando c’è solo l’ipotesi di qualcosa già la vivi emotivamente, come lei dottoressa mi ha spiegato. Come gli esercizi in immaginazione che facciamo. E solo ora li capisco veramente.

Forse ci penso e ripenso perché sono una perfezionista. Lo abbiamo visto nella nostra terapia. Forse vorrei essere una mamma perfetta, ma so che non lo sarò mai. E temo che poi questo bambino o questa bambina debbano sedersi dove sto io, in uno studio simile al suo, a raccontare tutto ciò che ho fallito. Lo so, lo so, si arrabbierà per questo. Ma chi non si sente sbagliato venendo in terapia? Non prediamoci in giro. Il bello, però, è che gli unici momenti in cui non mi sono sentita sbagliata sono stati quelli in studio con lei. Ma questo è un altro discorso. 

Il mio lavoro, per cui ho faticato così a lungo, si bloccherà per un figlio o una figlia. Dopo 45 anni avrò gli stessi problemi della donna della Fallaci. Se non farò quel viaggio il mio capo si sbarazzerà di me. E non posso permettermelo. La mia ginecologa e la mia endocrinologa tempo fa mi dissero che un figlio o una figlia sono della madre, che una donna quando decide di volerli deve immaginarsi da sola perché è lei che se ne dovrà occupare. Purtroppo è veramente così. E questo mi ha lasciato tristezza perché credo ancora nella figura del padre e la desidero, dall’altra invece la forza di capire che è tutto nelle mie mani se lo voglio veramente.

Grazie anche a lei dottoressa, in tutta onestà, credo che potrei essere una buona (non perfetta) madre già solo per il fatto che mi sto preoccupando così tanto per una figlia o un figlio che non sono mai stati concepiti. E credo di poter essere una buona madre perché so che mi peserà non avere più la mia libertà e questo lo so perché vorrei esserci per loro. Ma anche se è passato quasi mezzo secolo, Oriana mi starà guardando, ci starà guardando con tristezza e rabbia, perché per una donna è ancora complicato scegliere tra se stessa e suo figlio o sua figlia. Purtroppo la società ci chiede ancora di farlo e ci rimprovera se scegliamo noi stesse. Fallaci non ha sbrogliato la matassa, chi sono io per pensare di riuscirci?

Voglio accantonare ora questo dilemma perché ho la speranza di svegliarmi un giorno e di avere chiara davanti ai miei occhi la risposta. Una magia? Sì, lo è.

Magari tra altri 50 anni una donna come me non dovrà più rispondere a questo dilemma. Una magia? Sì, lo è.

Ho scritto per fermare i pensieri, o come lei preferisce, per bloccare il rimuginio.

Ci vediamo lunedì alla solita ora.

Piango mentre leggo le parole di Caterina. Anzi no, non sono sue, ma di mia sorella. O forse della ragazza che beveva il caffè stamattina al bar. O forse della maestra d’asilo. O della presentatrice in tv. O forse di Sara. O forse sono mie. O forse sono la voce di qualsiasi donna.

 

MBCT come trattamento del Disturbo da ansia da malattia ai tempi del Covid-19

Sembra che l’MBCT sia utile nel trattamento dell’ipocondria perché produce un nuovo e più accogliente rapporto con l’esperienza, osservata in modo più obiettivo e può intervenire su molti dei meccanismi ritenuti responsabili del mantenimento dell’ansia da malattia.

 

In questo periodo storico il mondo intero è afflitto dalla pandemia causata dalla diffusione del virus Covid-19. Mai come ora il virus che attacca il corpo umano, talvolta in maniera asintomatica e altre volte con sintomi e patologie letali, potrebbe accrescere la prevalenza di quello che nella quinta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali è chiamato Disturbo d’ansia da malattia, o più comunemente ipocondria (DSM-5 – American Psychiatric Association, 2014). Il disturbo d’ansia da malattia è un problema comune che colpisce la maggior parte delle persone a un certo punto della loro vita e che diventa clinicamente significativo per il 5% della popolazione generale (Gureje et al. 1997). Sebbene le preoccupazioni riguardo il contrarre malattie siano familiari a molti, la diagnosi di questa tipologia di disturbo è caratterizzata dall’escalation che va dall’avere preoccupazioni transitorie riguardo lo sviluppo di una malattia ad avere preoccupazioni croniche e invalidanti sull’avere una grave patologia. Una delle psicoterapie più efficaci per questo disturbo è quella cognitivo-comportamentale (Cognitive-Behavioural Therapy, CBT) (Sorensen et al.2011). Tuttavia, alcuni studi sulla CBT per il disturbo d’ansia da malattia hanno riportato che solo il 30% dei partecipanti ha accettato di svolgere le sessioni psicoterapeutiche (Barsky & Ahern 2004), con tassi di abbandono fino al 25-30% (Greeven et al., 2007): questo tipo di intervento potrebbe non essere sempre accettato da pazienti ipocondriaci.

Un altro approccio è la Mindfulness-Based Cognitive Therapy (MBCT) la quale adotta un modello per la cura dell’ansia da malattia simile alla CBT, ma vi differisce in quanto basata sulla consapevolezza, offrendo quindi la possibilità di cambiamento e cura in un modo piuttosto diverso, più accettabile per alcuni malati (Segal et al., 2002). Essendo la mindfulness e nello specifico la Mindfulness-Based Cognitive Therapy focalizzate sull’osservazione, l’accettazione e la consapevolezza del presente, queste differiscono con la CBT nella quale il focus è incentrato sul contenuto e il significato dei pensieri. Questo programma mindfulness-based è stato originariamente progettato per fornire una prevenzione delle ricadute della depressione ricorrente, incentrandosi sui processi cognitivi di ruminazione e reattività cognitiva (Teasdale et al. 1995). La Mindfulness-Based Cognitive Therapy combina componenti psico-educative alla mindfulness: vengono insegnate pratiche di meditazione affinché i partecipanti possano imparare a coltivare consapevolezza esperienziale diretta e accettazione senza giudizio di ciò che si manifesta in ogni momento, inclusi stati d’animo negativi e ansia. La depressione, così come l’ansia, e nello specifico disturbo da ansia da malattia, può innescare una serie di simulazioni mentali o narrazioni che vengono trattate da percorsi neurali primitivi nel cervello come minacce reali. La problematica sorge quando la modalità di elaborazione che viene utilizzata in queste simulazioni mentali è la “modalità del fare” o “doing mode”. Questa è una modalità mentale che cerca di risolvere il problema emotivo con ricordi sul passato e immagini del futuro al fine di trovare una soluzione al problema. Tuttavia, sebbene questa modalità sia una strategia utile per molte attività quotidiane, quando applicata a eventi mentali, serve solo ad aumentare i livelli di ruminazione ed il senso di impotenza e angoscia, oltre a ridurre la capacità attenzionale (Surawy et. Al, 2015). L’addestramento alla consapevolezza mira a insegnare l’accesso a una “modalità dell’essere” della mente o “being mode”, vale a dire ad osservare l’esperienza momento per momento con apertura e non giudizio. Ciò consente di vedere più chiaramente la tendenza della mente a creare narrazioni che vengono considerate come realtà e di osservare le reazioni a questa tendenza, ovvero il volere che gli stati positivi continuino, gli stati negativi finiscano e gli stati neutri siano più eccitanti (Surawy et al., 2015).

Ci sono diversi motivi per affermare che la Mindfulness-Based Cognitive Therapy sia utile nel trattamento dell’ansia da malattia. In primo luogo, questa terapia produce un nuovo e più accogliente rapporto con l’esperienza, osservata in modo più obiettivo; in secondo luogo, l’MBCT può intervenire su molti dei meccanismi ritenuti responsabili del mantenimento dell’ansia da malattia (Salkovskis & Warwick 2001): preoccupazione, ruminazione ed evitamento, ipervigilanza alle sensazioni corporee con interpretazione errata di tali sensazioni, e intolleranza all’incertezza (Surawy et al., 2015).

La Mindfulness-Based Cognitive Therapy ha effetto su questi meccanismi agendo in quattro modi:

  • vivendo nel momento presente: recuperando il coinvolgimento con i momenti ordinari della vita, piacevoli in sé e ottimi rimedi per pensieri negativi orientati al sé e al futuro tipici dell’ansia da malattia (Muse et al. 2010);
  • esplorando le sensazioni corporee: sviluppando una curiosità positiva verso le sensazioni corporee, osservando come queste sono percepite e come mente e corpo reagiscono ad esse;
  • rispondendo invece di reagire: osservando l’esperienza senza giudizio, rompendo il ciclo che potrebbe portare ad avere preoccupazione ansiosa, evitamento o ruminazione;
  • acquisendo competenze per prevenire le ricadute: notando i segnali di allarme e imparando abilità che possono essere utilizzate per impedire un’escalation in un episodio di ansia da malattia (Surawy et al., 2015).

Gli studi che valutano la Mindfulness-Based Cognitive Therapy per l’ansia da malattia riportano risultati incoraggianti. Uno studio ha riportato che questo intervento psicoterapeutico ha prodotto miglioramenti significativi nei pensieri correlati alla malattia e nei sintomi somatici, che sono stati mantenuti a tre mesi dalle sessioni (Lovas e Barsky 2010). Più recentemente, uno studio clinico randomizzato che confrontava l’MBCT con altre psicoterapie ha riportato che i pazienti Mindfulness-Based Cognitive Therapy avevano meno probabilità di soddisfare i criteri per la diagnosi sia immediatamente dopo l’intervento che a un anno di follow-up (McManus et al.2012).

Quindi, poiché lo sviluppo della consapevolezza aiuta a diminuire l’ansia nel disturbo d’ansia da malattia (McManus et al. 2012), la Mindfulness-Based Cognitive Therapy potrebbe essere considerata un’utile terapia per questo tipo di problematica. Sebbene il mondo sia coinvolto in una pandemia che potrebbe accrescere i livelli di disturbo d’ansia da malattia, il protocollo MBCT si pone come un approccio alla cura per questa tipologia di disturbo.

 

I compiti a casa, quanta fatica! Mio figlio è solo svogliato? – VIDEO

Come ci si comporta davanti alla comparsa di fragilità negli apprendimenti? Nel corso dell’incontro psicologhe e logopediste hanno illustrato l’iter valutativo e riabilitativo per la presa in carico del bambino con Disturbi Specifici dell’Apprendimento. Per i nostri lettori pubblichiamo il video dell’evento.

 

 I disturbi specifici dell’apprendimento (DSA) rappresentano delle condizioni nelle quali risultano specificamente compromesse la capacità di apprendimento della lettura (dislessia), della scrittura (disgrafia e disortografia) e delle abilità di calcolo (discalculia).

La principale caratteristica di questi disturbi è proprio la specificità, ovvero il disturbo interessa uno specifico e circoscritto dominio di abilità indispensabile per l’apprendimento (lettura, scrittura, calcolo) lasciando intatto il funzionamento intellettivo generale. È importante intervenire tempestivamente per limitare le conseguenze negative e permettere al bambino di vivere con serenità e successo il proprio percorso scolastico e la propria quotidianità.

Come ci si comporta davanti alla comparsa di fragilità negli apprendimenti? A chi bisogna rivolgersi? Quali valutazioni sono necessarie? In caso di diagnosi che tipo di percorso riabilitativo può essere utile al bambino?

Per approfondire l’argomento, pubblichiamo oggi, per i lettori di State of Mind, il video dell’incontro “I compiti a casa, quanta fatica! Mio figlio è solo svogliato?”, condotto dalle Dott.sse M. Gianotti, S. Nicoli, psicologhe e psicoterapeute, e dalle Dott.sse F. Burani e S. Corradini, logopediste.

 

I COMPITI A CASA, QUANTA FATICA! – Guarda il video integrale del webinar:

 

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Tra depressione e masochismo: le possibili affinità e le differenze

Tracciare una linea di demarcazione tra depressione e disturbo masochistico significa cercare di differenziare due tipologie psicopatologiche che, nonostante le apparenti affinità, presentano numerosi punti di distanza.

 

In una prospettiva psicodinamica vediamo come entrambi questi disturbi ruotino attorno ad un nucleo centrale comune: una profonda sofferenza emotiva causata dalla perdita e dalla lontananza dell’oggetto amato, evento drammatico e doloroso dal quale scaturiscono sentimenti di colpevolezza, stigmatizzazione e disprezzo dapprima rivolti verso l’oggetto stesso, e in un secondo tempo spostati sul Sé, tramite un rivolgimento autoaggressivo pulsionale che assume il ruolo di meccanismo difensivo (Freud, 1917).

Malgrado questa radice patologica condivisa, tuttavia, i disturbi risultano divergenti sotto molteplici aspetti, contenutistici e altresì terapeutici.

In primo luogo la disperazione del depresso è caratterizzata da connotazioni di irreversibilità, di non mutabilità. Egli crede di aver perduto definitivamente l’oggetto d’amore, così come è convinto di non avere possibilità di stabilire un legame con lo stesso, se non quello di accoglierlo inconsciamente nella propria dimensione egoica. L’oggetto è definitivamente morto, e l’unico modo per riunirsi ad esso è morire anch’egli.

Al contrario il masochista percepisce la perdita in una connotazione meno definitiva, e nel tentativo di mantenere una sorta di vicinanza all’oggetto perpetra una serie di atteggiamenti basati sul dolore autoinflitto. Ma la sua sofferenza non è volta ad un’autocolpevolizzazione rimuginante e passiva come quella del depresso; è piuttosto una sofferenza viva, che si rinnova continuamente alla ricerca di fonti esterne in grado di provocarla. Il masochista, in altre parole, cerca in ogni modo di soffrire, e di questa sofferenza si compiace poiché la reputa l’unico modo per relazionarsi all’oggetto amato. Dunque egli non cerca la sofferenza solo per autopunirsi, ma anche per mantenere in vita un rapporto con l’oggetto d’amore.

Ulteriore differenza tra i due aspetti patologici è quella che spinge il depresso a rifuggire ogni sorta di interazione sociale, laddove il masochista tende a ricercare relazioni esterne in grado di riprodurre adesivamente l’unica relazione d’amore che ritiene possibile, ovvero quella foriera di dolore e sofferenza. Quanto espresso potrebbe risultare una parziale spiegazione della propensione masochistica a relazionarsi con soggetti sadici, narcisisti, antisociali, e della pervicacia con la quale i masochisti decidono di mantenere intatto questo legame patologico pur avendo la possibilità di modificarlo in senso adattivo o di liberarsene; questa tipologia di masochismo- noto come anaclitico- manifestando tratti patologici simili al disturbo dipendente della personalità– spinge il soggetto all’accettazione di un vissuto relazionale mortificante, nella convinzione che si tratti dell’unico modo per assicurarsi la vicinanza fisica ed affettiva dell’altro. Il dolore diviene pertanto l’unica fonte gratificante, in un meccanismo paradossale che rende la sofferenza anche l’unica meta pulsionale del masochista.

Si aggiunge che tramite l’esercizio della sofferenza il masochista riesce a mantenere, al contrario del depresso, una sorta di autostima e di autocompiacimento, aspetti valutativi a loro volta strettamente connessi alla sperimentazione del dolore e dell’autodeprivazione.

In poche parole, attraverso la sofferenza il masochista crede di adempiere il proprio dovere, quindi è come se soltanto soffrendo egli si sentisse in pace con il mondo. Individui di questo genere, nel proprio percorso evolutivo, sono stati probabilmente indotti a considerare la sofferenza in una prospettiva esaltante, e a credere che il dolore e il sacrificio costituiscano l’unico modo per sentirsi apprezzati e ricevere rinforzi da parte delle principali figure affettive (McWilliams, 1994).

In certe famiglie l’oblazione e l’automortificazione sono vissute come attività nobilitanti e degne di elogio, e prospettate come mezzo di realizzazione del Sé. Ne consegue la nascita di una concezione moralizzante della sofferenza, vista come un mezzo di purificazione, di espiazione catartica, ma anche come un modo di mantenere intatta una moralità costruita sui dettami di un Super-io particolarmente intransigente.

Questo masochismo, noto con il nome di morale o a direzione introiettiva (Reik, 1941) è molto comune nelle persone che intraprendono le c.d. professioni di aiuto, nelle quali si verifica una posposizione dei propri bisogni per occuparsi di quelli degli altri, che assumono la priorità. Si tratta di una sublimazione delle pulsioni affettive in attività altruistiche che, se per certi aspetti può rivelarsi adattiva e funzionale, nel caso del masochista assume connotazioni patologiche, inflessibili e rigide, tanto da divenire l’unico modo per avvicinarsi al Sé e al Sé con l’altro. Soffrire corrisponde ad un dovere inderogabile, ma è anche un modo per dimostrare il proprio valore, per dimostrare la propria superiorità morale garantita da un’oblatività indefessa che trova nella sofferenza la più nobile forma espressiva.

Nella dimensione valutativa del depresso il dolore costituisce la giusta conseguenza alla perdita dell’oggetto, mentre in quella del masochista la punizione è l’unico modo per non perdere definitivamente l’oggetto. Ciò testimonia come l’universo emozionale del masochista, per quanto disfunzionale e autoinfliggente, sia ancora presente. Nel dolore del masochista c’è una speranza d’amore: in quello del depresso ogni speranza è perduta.

Il masochista è un depresso che continua a sperare (McWilliams, 1994). E la sua speranza è volta a credere che il legame con l’oggetto d’amore sarà mantenuto a prezzo della mortificazione, del dolore sperimentato fino all’annientamento del Sé (Bieber, 1980).

Depressione e masochismo in psicoterapia: differenze di trattamento

La differenza tra le due psicopatologie si esplica anche nel setting terapeutico. È necessario non effettuare diagnosi confusive o affrettate: trattare un depresso come un masochista e viceversa potrebbe infatti portare ad un peggioramento di entrambi gli stati patologici e creare una frattura dell’alleanza in grado di invalidare l’intero percorso terapeutico. La personalità masochista ha bisogno di scoprire che l’autoaffermazione rappresenta una fonte di autocompiacimento, e che le relazioni oggettuali meritevoli di essere coltivate non sono quelle fondate sulla sofferenza, ma quelle dove il rapporto è costruito su basi simmetriche in cui nessuno prevale sull’altro.

L’obiettivo della terapia col masochista è quello di sciogliere il suo legame libidico con un oggetto interno ‘mortificante’ che deve essere amato tramite la punizione, e la sostituzione dello stesso con un oggetto più funzionale che esalti la reciprocità e il rispetto relazionale. Si deve riuscire ad eliminare, nel masochista, il valore affettivo conferito alla sofferenza: per questo si potranno utilizzare anche tecniche terapeutiche volte alla non collusività e alla criticità della sofferenza del paziente, spingendolo a posizioni più reattive e meno accondiscendenti (McWilliams, 1994). D’altro canto, manifestazioni troppo empatiche o premurose potrebbero rafforzare in lui la convinzione che la sofferenza sia l’unico modo per stabilire legami con gli altri, persino col terapeuta, o ancor peggio provocare agiti autodistruttivi in conseguenza di una comprensione che non crede di meritare.

La terapia dell’ascolto e della rieducazione si rivela in questi casi più fruttuosa di quella farmacologica: si osserva infatti come somministrando un antidepressivo ad un masochista, non si fa che aumentare in lui la convinzione che soltanto attraverso un’autorità, una fonte esterna o un potere magico potrà trovare sollievo al suo dolore (McWilliams, 1994).

Al contrario, ove un comportamento eccessivamente correttivo venga manifestato nei confronti del depresso, la condizione di quest’ultimo potrebbe risultare aggravata da tentativi di suicidio e di abbandono della terapia. Sentirsi criticato o stigmatizzato dal terapeuta lo condurrebbe soltanto alla sperimentazione di stati d’animo più cupi e disperati, capaci di fortificare la colpevolizzazione e la disistima fino all’esito estremo.

Il depresso ha bisogno di sapere che il terapeuta non lo giudicherà, che sarà presente nei momenti di bisogno, che si mostrerà empatico con le sue reazioni emotive e affettive, in un’accettazione condivisa del Sé. Il paziente deve sentirsi compreso e accolto pur nel vuoto della sua esistenza, e ha bisogno di avvertire che il terapeuta è capace di collocarsi nella sua stessa condizione emotiva, in una prospettiva sintonica e accogliente, utile a costruire relazioni oggettuali meno abbandoniche delle precedenti e a raggiungere una stabile percezione del Sé.

 

I Fear Appeals: quando la paura educa

Di fronte ad un fear appeal avvengono due diversi processi: uno di controllo del pericolo e l’altro di controllo della paura. Il pericolo è una caratteristica dell’oggetto in questione, mentre la paura è uno stato emotivo che dipende dall’intensità percepita del pericolo.

 

Con comunicazione persuasiva si intende un messaggio destinato a un pubblico di cui si intende cambiare un atteggiamento e i comportamenti ad esso associati. Essa viene impiegata principalmente nella pubblicità e nella promozione di comportamenti salutari.

Nelle campagne sulla salute si fa spesso largo uso dei fear appeals (‘appelli alla paura’), una tipologia di comunicazione che si serve della paura suscitata nel destinatario per promuovere un cambiamento positivo nello stile di vita (Rogers & Deckner, 1975).

Il fear appeal è, dunque, un messaggio relativo ad un rischio, composto da una componente di minaccia che suscita timore e da una raccomandazione sul comportamento. Si tratta di rappresentazioni visive o verbali che mostrano le conseguenze negative di un determinato comportamento a rischio, come le immagini forti presenti sui pacchetti di sigarette o la famosa scritta ‘il fumo uccide’, accompagnate da raccomandazioni come, in questo caso, quella di rivolgersi al numero verde indicato.

In letteratura diversi modelli intendono spiegare i meccanismi alla base dei fear appeals ma i risultati emersi sono contrastanti (Tannenbaum et al., 2015).

Drive Model

Tale approccio parte dalla constatazione che le persone, sperimentando emozioni spiacevoli dovute a comunicazioni minacciose per il Sé, sono portate a ricercare soluzioni che possano ridurre questo stato di tensione (Hovland et al., 1953). La paura, dunque, agisce da ‘drive’ ovvero guida gli individui verso comportamenti che possano ridurre tale stato emotivo.

Sono state ipotizzate diverse relazioni tra efficacia del messaggio e livello di paura suscitato, ad esempio di tipo curvilineare secondo cui all’aumentare della tensione aumenta anche il cambiamento desiderato, raggiungendo un punto ottimale oltre il quale si hanno effetti avversi.

Si tratta, comunque, di un modello semplicistico dal momento che non tiene conto dei possibili mediatori interferenti tra l’esposizione del messaggio e il suo impatto.

Modello delle Risposte Parallele

Leventhal negli anni ‘70 critica il Drive Model e, mettendo in secondo piano stati emotivi e motivazione e dando invece più rilievo agli aspetti cognitivi, propone il Modello delle Risposte Parallele.

Secondo l’autore la paura non causa l’effetto persuasivo ma è semplicemente associata ad esso in maniera parallela. Di fronte ad un fear appeal avvengono due diversi processi: uno di controllo del pericolo e l’altro di controllo della paura. Il pericolo è una caratteristica dell’oggetto in questione, mentre la paura è uno stato emotivo che dipende dall’intensità percepita del pericolo.

Tramite il processo di controllo del pericolo, il destinatario del messaggio analizza le diverse alternative comportamentali e i costi e benefici associati, sfruttando dunque abilità di problem-solving, mentre tramite il processo di controllo della paura si focalizza su informazioni di tipo emotivo e intende controllare le sensazioni tramite meccanismi di diniego, negazione o altro.

Leventhal, dunque, col suo modello separa le risposte emotive da quelle cognitive e prende in considerazione le differenze individuali.

Teoria della Motivazione alla Protezione

Ronald Rogers nel 1975 propone un modello che intende esplorare le reazioni cognitive degli individui ai messaggi sui comportamenti a rischio, portando avanti il filone di ricerca nato con Leventhal sui processi di controllo del pericolo.

L’autore parte dall’indagine delle componenti che generalmente ritroviamo nei messaggi persuasivi: 1) la probabilità che la minaccia avvenga; 2) la gravità del danno; 3) l’efficacia del comportamento raccomandato per contrastare la minaccia; 4) la stimolazione dell’auto-efficacia.

A ciascuna di queste componenti corrisponde un ‘mediatore cognitivo’, ovvero delle percezioni che, a seconda della loro intensità, possono motivare o meno la persona a mettere in atto le raccomandazioni proposte. I mediatori cognitivi sono: la percezione dell’intensità della minaccia e della propria vulnerabilità, la percezione dell’efficacia della raccomandazione e la percezione della propria auto-efficacia.

Il Modello della Motivazione alla Protezione, quindi, sostiene che la motivazione alla protezione è suscitata dai processi cognitivi che mediano il messaggio.

L’autore nel 1983 propone una nuova versione del modello, introducendo due processi di valutazione: la valutazione (disadattiva) della minaccia e la valutazione delle strategie di coping.

Secondo questa revisione, la percezione di vulnerabilità e gravità è influenzata dal premio o beneficio che il soggetto ottiene adottando il comportamento rischioso (ad esempio ‘fumare mi rilassa’); se tale beneficio si palesa allora il soggetto rifiuta le raccomandazioni proposte.

Per quanto riguarda invece le strategie di coping, se la percezione dell’efficacia della risposta e dell’auto-efficacia è maggiore rispetto ai costi di esecuzione del comportamento raccomandato, allora esso verrà messo in atto.

La Teoria della Motivazione alla Protezione ha permesso, quindi, di identificare le componenti dei fear appeals, sottolineando il ruolo dei processi cognitivi nel cambiamento di atteggiamenti, intenzioni e comportamenti.

Modello Esteso dei Processi Paralleli

Uno dei modelli più recenti sui fear appeals è il Modello Esteso dei Processi Paralleli (Witte, 1992). Date le componenti del messaggio persuasivo individuate da Rogers, Witte riconosce anche le valutazioni cognitive che ne seguono sull’efficacia percepita e sulla minaccia e i possibili esiti ad esse associati, ovvero assenza di reazione, controllo del pericolo, controllo della paura.

Data una minaccia per la salute, l’individuo prima ne valuta la rilevanza e poi la gravità: se viene percepita una bassa suscettibilità e una bassa gravità allora semplicemente non reagisce al messaggio, mentre se si sente vulnerabile si impaurisce e si mobilita per cambiare la situazione.

Al tempo stesso, se il soggetto percepisce un’alta auto-efficacia e un’alta efficacia della raccomandazione allora si attiva una risposta di controllo del pericolo (motivazione alla protezione). Nel caso, invece, di una bassa auto-efficacia percepita e di dubbi sul comportamento raccomandato verrà attivato il processo di controllo della paura (motivazione difensiva).

Come si può notare, questo modello non è altro che una integrazione sistematica dei precedenti modelli.

Alternative

Come detto in introduzione, i risultati emersi sull’efficacia dei fear appeals sono piuttosto controversi. Se alcuni studi hanno dimostrato una correlazione positiva tra la paura suscitata e l’efficacia del messaggio (Stainback & Rogers, 1983), altri hanno riscontrato un effetto boomerang, ovvero una reazione nella direzione opposta a quella desiderata all’aumentare della paura (Snyder & Blood, 1992).

Altri studi ancora hanno riscontrato come effetto a medio-lungo termine di questi messaggi una ‘epidemia dell’apprension’”, ovvero una reazione di paura e preoccupazione eccessivamente prolungata (Becker, 1993).

Altri effetti riscontrati sono reazioni di aggressività o rassegnazione da parte del soggetto poiché colpevolizzato per il proprio comportamento (Minkler, 1999) e la riproduzione sociale, ovvero il rinforzo invece che il cambiamento dei comportamenti a rischio (O’Keefe, 1971).

Secondo recenti studi, un modo per promuovere cambiamenti salutari e abbandonare comportamenti a rischio è l’utilizzo dell’autoaffermazione prima dell’esposizione del messaggio persuasivo (Harris & Napper, 2005), dove con autoaffermazione si intende una procedura tramite cui i soggetti vengono invitati a riflettere sui loro valori o attributi.

Un altro metodo presentato in letteratura è l’accompagnamento al fear appeal di un prompt di pianificazione dell’azione (Leventhal et al., 1965).

 

Regolazione emotiva e disturbi del comportamento alimentare

Una buona regolazione emotiva si associa a migliori esiti a livello di salute, benessere relazionale e lavorativo, la sua compromissione, invece, è stata tradizionalmente associata al rischio di soffrire di patologie mentali, tra cui i disturbi alimentari.

 

La regolazione emotiva si riferisce all’insieme di processi automatici o volontari che riguardano l’attivazione, il mantenimento, la modifica e più in generale la modulazione conscia o inconscia delle proprie esperienze emotive, al fine di rispondere alle richieste ambientali (Bargh & Williams, 2007; Gross & Thompson, 2007). 

Nel tempo sono state proposte diverse concettualizzazioni teoriche della regolazione emotiva: dal modello di Gross (1998) che descrive in modo processuale e dinamico le emozioni, al suo ampliamento in un modello più esteso che considera la regolazione come un processo valutativo suddiviso in tre fasi (Gross, 2015). Dall’identificazione della situazione si passa alla selezione della strategia di regolazione che viene in seguito implementata. Se nel tempo essa si dimostrerà efficace, verrà attivata in modo ricorrente.

Mentre una buona regolazione delle emozioni si associa a migliori esiti a livello di salute, benessere relazionale e lavorativo; la sua compromissione è stata tradizionalmente associata al rischio di soffrire di patologie mentali, tra cui i disturbi alimentari (ad es. Aldao et al., 2010).

Abbuffate o restrizioni sono strategie disadattive di evitamento o soppressione delle emozioni negative, che non vengono identificate ed affrontate in modo funzionale (Evers et al., 2010). L’alessitimia (ovvero l’incapacità di identificare le emozioni correttamente) è un fattore che coinvolge l’intero spettro dei disturbi alimentari (Westwood et al., 2017). Ad esempio, tra i pazienti con anoressia nervosa, l’incapacità di riconoscere e regolare gli affetti negativi si traduce in strategie disadattive come l’esercizio fisico eccessivo o restrizioni alimentari (Engel et al., 2013). Un aspetto inerente la regolazione emotiva, nel quale differiscono i sottotipi di disturbi alimentari, è la sfera del controllo degli impulsi (American Psychiatric Association, 2013). Mentre i pazienti bulimici hanno maggiori difficoltà nel regolare il comportamento, affrontando l’affetto negativo con abbuffate impulsive che aiutano nel breve termine, tra i pazienti con anoressia restrittiva non è presente questo aspetto (Smyth et al., 2007; Wild et al., 2007).

Lo scopo della meta-analisi di Prefit et al. (2019), era indagare l’associazione tra regolazione emotiva e patologia alimentare includendo 96 studi. I disturbi alimentari e le singole diagnosi specifiche sono state analizzate rispetto alle strategie adattive, che favoriscono la modulazione degli stati affettivi (consapevolezza, chiarezza emotiva, accettazione, problem-solving e reappraisal) e quelle disadattive (ruminazione, evitamento emotivo e soppressione delle emozioni).

Gli autori hanno riscontrato che non solo coloro affetti da disturbi alimentari impiegano in misura maggiore strategie di regolazione emotiva disadattive, ma questa caratteristica è presente anche in campioni non clinici con sintomi legati all’alimentazione.

Emerge una maggiore associazione tra patologia alimentare e ruminazione, intesa come processo cognitivo di focalizzazione continua su un’emozione, le sue cause e le conseguenze che comporta. Probabilmente, le preoccupazioni rivolte al controllo del peso e del cibo ingerito tra i pazienti con anoressia nervosa sono riconducibili a ruminazioni caratteristiche del disturbo (Cowdrey & Park, 2012). Mentre ruminazione ed evitamento delle emozioni suscitate alla vista della propria immagine corporea, sono maggiormente presenti nell’anoressia e bulimia, la soppressione (emotiva o cognitiva) è presente trasversalmente anche nel disturbo da alimentazione discontrollata (binge eating; Prefit et al., 2019).

Non avendo gli strumenti per regolare efficacemente gli affetti negativi propri e altrui, coloro con disturbi alimentari mostrano scarsa consapevolezza e chiarezza emotiva (cioè difficoltà nell’identificare e descrivere i sentimenti), e non accettazione delle emozioni negative. Il problem-solving, definito come l’abilità di cambiare o modificare la situazione mediante comportamenti impegnati ad un obiettivo, è scarso similmente alle capacità di rivalutare stimoli stressanti riducendone la rilevanza emotiva (reappraisal).

Per quanto concerne le strategie disadattive, i risultati in letteratura dell’associazione tra abilità di regolazione emotiva e singoli disturbi alimentari sono controversi; mentre alcuni studi identificano specifiche abilità per ciascun disturbo (ad es. Danner et al., 2014; Svaldi et al., 2012) altri, compresa la meta-analisi qui illustrata, non supportano la presenza di differenze, sostenendo che la scarsa capacità di accedere a strategie di regolazione adattive sia trans-diagnostica tra i sottotipi di disturbi alimentari (ad es. Westwood et al., 2017).

Sebbene siano necessari ulteriori studi per comprendere le differenze tra le varie classificazioni delle patologie alimentari, l’implicazione principale dei risultati riguarda la possibilità di agire con interventi clinici mirati a potenziare le strategie di regolazione emotiva adattive tra coloro con una patologia alimentare. Tra questi, gli approcci terapeutici maggiormente rilevanti nell’apprendimento di abilità di autoregolazione emotiva sono i trattamenti basati sull’accettazione che riducono l’evitamento esperenziale e la terapia cognitivo comportamentale (Baer et al., 2005; Fairburn et al., 2003).

 

Il trattamento del disturbo da gioco d’azzardo: evidenze recenti su tipologia, modalità e durata

La maggior parte delle persone dedite al gioco d’azzardo lo fa per divertimento, riuscendo a mantenere un controllo su frequenza, intensità e coinvolgimento, senza sperimentare conseguenze negative significative. Alcuni individui, però, sviluppano una forma disadattiva di comportamento associato al gioco d’azzardo con alterazioni funzionali, conseguenze negative a livello relazionale, finanziario e professionale.

Daniela Marchetti – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

A livello mondiale, si stima che tra lo 0,2 e il 2,1% degli adulti soddisfano cinque o più criteri diagnostici del disturbo da gioco d’azzardo (DGA). Un ulteriore 0,5-4,0% soddisfa un numero di criteri diagnostici compresi tra tre e quattro, soglia compatibile con la presenza di gioco d’azzardo problematico (Stucki e Rihs-Middel, 2007). Le notevoli e persistenti conseguenze negative associate ai problemi di gioco d’azzardo e DGA, tra cui la scarsa qualità di vita e gli alti tassi di suicidio, hanno rafforzato, soprattutto nell’ultimo ventennio, la necessità di individuare e garantire un trattamento efficace per tutti coloro che sperimentano livelli crescenti di intensità della sintomatologia (Potenza et al., 2019). A rendere più complicato il lavoro dei clinici e dei ricercatori contribuiscono l’estrema eterogeneità di questa popolazione dovuta a specificità nei percorsi di sviluppo della patologia che spesso si accompagnano a livelli crescenti di gravità del disturbo. Un ulteriore aspetto da considerare è l’estrema comorbilità con altri disturbi che spesso richiede trattamenti concomitanti o successivi. Infatti, il DGA risulta frequentemente associato ad aumento nell’uso di sostanze, depressione e disturbi d’ansia (Grant e Odlaug, 2015).

Nonostante i costi personali significativi conseguenti al DGA, le ricerche evidenziano che solo una piccola percentuale dei soggetti affetti richiede formalmente un trattamento. Ad esempio, Suurvali e colleghi (2008) hanno rilevato che meno del 6% dei giocatori d’azzardo problematici accede ad un percorso di trattamento strutturato. Come fattori che contribuiscono alla scarsa richiesta di cure, sono stati sottolineati: il desiderio di gestire il problema in maniera indipendente, la mancanza di informazione sui servizi terapeutici territoriali e un senso di vergogna per la propria condotta disfunzionale (Suurvali, Cordingley, Hodgins e Cunningham, 2009). Nonostante vi sono evidenze sulla possibile remissione spontanea del DGA in circa il 35% delle persone, più frequentemente il decorso è cronico (Slutske, 2006). Per tali ragioni sempre più ci si interessa dell’importanza di individuare terapie di provata efficacia che possano rispondere ai bisogni di coloro che presentano un marcato comportamento disfunzionale di gioco d’azzardo.

Vengono solitamente proposti differenti approcci di trattamento: in regime di ricovero, intensivo ambulatoriale, terapia cognitivo-comportamentale (TCC) individuale o di gruppo e terapia farmacologica. Tuttavia, non tutti questi approcci hanno ricevute le dovute prove di efficacia. Sebbene attualmente non vi sia accordo su un trattamento standard, quelli più studiati sono stati probabilmente la TCC e la terapia con farmaci antagonisti degli oppioidi (Grant e Odlaug, 2015).

Sono stati pubblicati molteplici studi con disegno trasversale e alcuni studi longitudinali sugli effetti della psicoterapia nel ridurre il comportamento di gioco d’azzardo, le distorsioni cognitive che accompagnano lo sviluppo e il mantenimento del DGA e gli effetti che questa mostra su fattori legati alla sintomatologia clinica. Inoltre, è possibile annoverare un certo numero di rassegne sistematiche e meta-analisi. La TCC sembra in generale mostrare gli effetti più positivi (Petry, Ginley e Rash, 2017; Yakovenko, Quigley, Hemmelgarn, Hodgins e Ronksley, 2015) con maggior coerenza. Nello specifico la TCC e gli interventi brevi di stampo puramente motivazionale hanno mostrato una maggiore efficacia sugli outcome al post-trattamento rispetto alle condizioni di non trattamento che prevedevano l’inserimento in lista d’attesa o la partecipazione alla sola fase di assessment psicologico-clinico (Cowlishaw, Merkouris, Dowling, Anderson, Jackson e Thomas, 2012). Più recentemente Peter e colleghi (2019) hanno condotto uno studio di meta-analisi con l’obiettivo di testare un più ampio spettro di modalità terapeutiche. Tra queste, i personalized feedback interventions, sviluppati come interventi brevi, molto specifici e direttivi hanno mostrato effetti potenzialmente promettenti nel ridurre il gioco d’azzardo problematico.

Oltre alla tipologia di intervento, l’interesse dei ricercatori ha anche riguardato il ruolo che rivestono il numero di sedute di trattamento. Gli autori di una recente rassegna (Petry, Ginley e Rash, 2017) hanno evidenziato che un intervento che prevede dalle 6 alle 8 sedute di TCC e vi integra interventi di tipo motivazionali può essere considerato il più efficace sulla base degli studi condotti finora. Inoltre, i ricercatori sottolineano che interventi molto brevi che possono prevedere anche una sola seduta terapeutica possono in alcuni casi essere sufficienti. In particolare, le persone che presentano una forma subclinica del DGA, i cosiddetti giocatori d’azzardo problematici, possono mostrare alcuni effetti positivi dalla partecipazione a questa tipologia di interventi.

Tuttavia, come recentemente sottolineato da alcuni ricercatori statunitensi, le evidenze sulla durata e il numero di sedute di trattamento sono ancora lontane dal raggiungere una conclusione definitiva (Pfund, Peter, Whelan, Meyers, Ginley e Relyea (2020). In effetti emergono risultati contrastanti a seconda del disegno di ricerca e del contesto in cui gli studi sono stati effettuati. In alcuni di essi non sembrano addirittura emergere differenze statisticamente significative tra terapie svolte in un’unica sessione e terapie multi-sessione, mentre in altri casi gli outcome terapeutici migliorano al crescere del numero di sessioni previste. Come fanno notare Pfund e colleghi, gli alti tassi di drop-out registrati con questa tipologia di persone rendono necessari confronti più mirati che considerino non tanto la durata prestabilita e/o concordata del trattamento, quanto il numero di sessioni a cui il paziente realmente partecipa e la percentuale di completamento del programma terapeutico. Gli autori hanno pertanto confrontato i risultati ottenuti da quattordici studi indipendenti testando un discreto numero di outcome terapeutici, tra i quali: frequenza del gioco d’azzardo, tempo dedicato a questa attività, intensità della problematica o del disturbo. Nuovamente la TCC risulta il trattamento utilizzato maggiormente (37%) e a questo seguono TCC integrata con intervista motivazionale (32%), intervento motivazionale (16%), terapia cognitiva (10%), interventi basati su feedback personalizzati (5%). La maggior parte degli interventi sono svolti individualmente, mentre il 26% in modalità gruppale. Infine, questi trattamenti sono stati confrontanti con diverse condizioni di controllo: lista d’attesa, valutazione diagnostica, indicazione di interventi di auto-aiuto e psicoeducazione. Dai dati di meta-analisi calcolati risulta che, come ipotizzato dai ricercatori, gli esiti migliorano quando il trattamento presuppone un numero maggiore di sedute che vengono proposte ai pazienti e che vengono realmente svolte.

Tale dato generale deve tuttavia essere integrato dalle conoscenze ormai robuste che vedono le persone affette da DGA o con gioco d’azzardo problematico come una popolazione caratterizzata da forte eterogeneità che si manifesta non soltanto nei livelli di gravità e persistenza, ma anche e soprattutto nell’integrazione di caratteristiche bio-psico-sociali che danno luogo a potenziali e diversi percorsi individuali di sviluppo della problematica a cui bisogna inevitabilmente collegare obiettivi e modalità terapeutiche che consentano di programmare e prevedere interventi personalizzati sia nelle modalità sia nella durata.

 

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