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Vulnerabilità – Moms, una rubrica su maternità e genitorialità

Il presente articolo affronta la tematica della vulnerabilità umana, che appartiene tanto agli uomini quanto alle donne, e talvolta è più difficile da riconoscere ed accettare nel ruolo genitoriale.

Moms – (Nr.3) Vulnerabilità

 

C’è un lato di te che molte persone non vedono.
Il mio lato b?
Il tuo lato dolce. Quando sei vulnerabile ti ho visto fare grandi cose e non parlo di debolezza, parlo di quando abbassi un po’ la guardia.

Quello riportato è uno scambio tra Kate Foster e il marito Nathan durante il terzo episodio della prima stagione di Workin’ Moms.

Durante tutta la puntata viene affrontato il tema della vulnerabilità che a volte sembra essere confusa con termini quali “femminilità”e “leggerezza”, ma grazie all’affermazione di Nathan si rivela per quello che è.

Ognuna delle protagoniste si costringe a costruirsi una maschera per paura di essere vista con tutte le sue vulnerabilità, dove, come dice Nathan, vulnerabilità non è debolezza, ma essere umani ed accettarlo.

Molte donne credono che il concetto di maternità comprenda il non permettersi di essere vulnerabili e ancor di più non poterlo mostrare ai propri figli. Questa credenza viene esplicitata dal personaggio di Frankie, quando rivela che sua figlia ha bisogno che lei sia forte. La figlia ha 9 mesi e non può averle espresso questo bisogno, pertanto sembra più una convinzione di Frankie rispetto al suo ruolo materno. Tale pensiero sembrerebbe presupporre che la forza sia intesa come opposta alla debolezza, laddove debolezza rivela un’accezione negativa.

Finché alla vulnerabilità umana verrà data l’accezione negativa di “debolezza”, uomini e donne tenderanno a colpevolizzarsi quando non riescono a rispecchiare il concetto di “forza” che hanno in mente, o a deresponsabilizzarsi rispetto alle proprie potenzialità.

Solo l’accettazione della propria vulnerabilità, può portare ognuno a sperimentare al massimo se stesso e le proprie doti, dovendo confrontarsi solo con qualcosa che sta al proprio interno e che appartiene a sé.

Sin da bambini si tende ad attribuire i termini “forte” e “debole” alle figure genitoriali. La cultura talvolta tende a sostantivare questi due aggettivi, incrementando la credenza che i genitori debbano essere come dei supereroi di cui i figli non devono conoscere le vulnerabilità.

Alcune madri, come le protagoniste del telefilm Kate ed Ann, tendono a mettere una maschera per evitare di svelare le proprie vulnerabilità, altre si colpevolizzano non riuscendoci, come Frankie, ed altre ancora non hanno paura di mostrare la propria umanità, accettandola. Come mostra il confronto tra Kate e il marito, è proprio nell’accettazione di sé che si può iniziare un confronto più autentico con l’altro, poiché questo passa per un piano emotivo. Così è anche con i figli, che imparano dai comportamenti più che dalle parole.

Ogni bambino ha il diritto e il bisogno di incontrare l’autenticità dei propri genitori per poter permettere a se stesso di non sentirsi sbagliato nel momento in cui fa emergere il proprio vero Sé.

Quando la madre avrà il coraggio di togliersi la maschera donerà a se stessa e al proprio figlio il dono di poter essere liberamente unici ed irripetibili.

 

Acquisto compulsivo in tempi di covid-19

Un recente studio ha esaminato l’impatto della presenza di una rete sociale, della fiducia nella politica e della paura del Covid-19 sul lavoro da casa e sull’acquisto compulsivo tra i principali gruppi sociodemografici nel Regno Unito.

 

Il coronavirus (COVID-19) è una malattia infettiva causata dal virus SARS-COV-2. Sin dalle sue prime osservazioni cliniche in Cina nel dicembre 2019, esso è stato designato come pandemia globale: l’Italia, il Regno Unito e tanti altri Paesi hanno adottato misure drastiche, come il blocco a livello nazionale e una politica di allontanamento sociale, che include l’autoisolamento e il lavoro da casa, ove possibile. La popolazione è ovviamente diversificata e le persone provenienti da gruppi di età e background socio-economici diversi e con diversi livelli di salute mentale hanno reagito in modo diverso alla pandemia (Jaspal et al., 2020). In questo senso, le variabili psicologiche, come ad esempio la fiducia nella politica e nell’autorità, la paura del COVID-19, la rete sociale e il supporto percepito da parte di essa, sono stati fondamentali. Inoltre, le risposte psicologiche e comportamentali alla pandemia, come l’acquisto compulsivo, che è stato osservato sin dall’inizio, hanno avuto implicazioni significative sia per la gestione della malattia che per il benessere della popolazione (Kellett & Bolton, 2009).

Un recente studio, condotto da Jaspal e colleghi (2020), ha esaminato le differenze tra i principali gruppi sociodemografici e l’impatto della forza della rete sociale, della fiducia politica e della paura del COVID-19 sul lavoro da casa (comportamento chiave di allontanamento sociale) e sull’acquisto compulsivo, in un campione di 411 adulti residenti nel Regno Unito.

In questo contesto, fidarsi meno delle istituzioni politiche, e della loro capacità di guidarci nell’affrontare la crisi sanitaria, può generare ansia e panico in relazione al pericolo (Hier, 2003). La fiducia nella politica è un costrutto psicologico che determina il modo in cui gli individui pensano alle linee guida emanate relative alla pandemia. La paura è una reazione emotiva e fisiologica comune di fronte a grandi sfide sociali, ma può essere psicologicamente angosciante (Shultz et al., 2016) e acuta tra le persone con problemi di salute mentale cronica, o con tendenze a diffidare dagli altri, governo incluso (Lindström & Mohseni, 2009). Essa può spingere le persone ad adottare comportamenti preventivi utili all’eventuale gestione delle infezioni (Witte & Allen, 2000), ma, in livelli molto elevati, può portare a inerzia e a comportamenti di rischio, fra cui l’acquisto compulsivo (Witte & Allen, 2000). Questa emozione negativa può influenzare la risposta pubblica all’emergenza sanitaria.

Per quanto concerne la politica di distanziamento sociale, essa è fondamentale per ridurre la propagazione del virus, di conseguenza le persone sono state incaricate di adottare la modalità smart-working. E’ chiaro che ciò assume un significato completamente diverso dal costrutto psicologico di isolamento sociale, per cui le persone riducono i contatti interpersonali di qualsiasi tipologia, con gravi ripercussioni sul proprio funzionamento (Courtin & Knapp, 2017). Tuttavia, vi sono gruppi più vulnerabili meno in grado di lavorare da casa, come ad esempio gli anziani. L’allontanamento sociale può esacerbare l’isolamento sociale e, a sua volta, alimentare sentimenti di solitudine (Gierveld, 1998), oltre che comportamenti dannosi, quali l’acquisto compulsivo. Al contrario, una solida rete sociale, anche se virtuale, può fornire la motivazione e il sostegno necessari per avere esiti più favorevoli al benessere psicologico.

Infine, per acquisto compulsivo s’intende una propensione cognitiva e comportamentale disadattiva ed estrema verso un’attività di acquisto incontrollato, che spesso si verifica in risposta a sfide sociali minacciose (Kellett & Bolton, 2009). E’ chiaro che le crisi sanitarie, le epidemie e le pandemie possono costituire un fattore scatenante, fenomeno confermato dallo studio di Hall (2020) sulla popolazione del Regno Unito in relazione al COVID-19. Esso può essere particolarmente acuto nei soggetti con problemi di salute mentale preesistenti che lo utilizzano come strategia di coping (Gallagher et al., 2017), con conseguenze importanti sia nella sfera psicologica, tra cui senso di colpa, rimorso e ansia, che economica e finanziaria (Kellett & Bolton, 2009). Questi individui sono anche più propensi ad agire nella segretezza, alimentando i sentimenti di isolamento (Weinstein et al., 2016). L’acquisto compulsivo non sembra essere molto diffuso nella popolazione generale (Black, 2007), ma sembra aumentare in situazioni di incertezza. In risposta a COVID-19, le persone hanno preso di mira in particolare le confezioni di salviette antibatteriche e di rotoli di carta igienica e le bottiglie di disinfettanti per le mani (Hall, 2020). Esso è importante nel contesto di COVID-19 perché può aumentare non solo la paura e l’ansia, ma anche il rischio di ulteriori infezioni, visti i frequenti viaggi nei supermercati e, quindi, il contatto con altre persone in spazi relativamente piccoli.

La presente ricerca si è proposta di esplorare 4 ipotesi: (1) se esiste una relazione tra psicopatologie e fiducia nella politica, paura di COVID-19, e acquisti compulsivi; (2) se esiste una relazione tra sintomi COVID-19, isolamento sociale e acquisti compulsivi; e infine (3) se esiste una relazione tra l’età, il disturbo mentale diagnosticato, la sintomatologia COVID-19 e la forza della rete sociale, e smart-working e acquisto compulsivo, e se queste relazioni sono mediate dalla fiducia politica, dalla paura del COVID-19 e dalla durata dell’autoisolamento.

I partecipanti hanno risposto ad una serie di domande demografiche, tra cui se gli era stato diagnosticato o meno un disturbo mentale e, in caso di risposta affermativa, gli veniva chiesto di indicare il tipo di disturbo e erano in cura o meno. Successivamente, hanno completato il Trust in Politicians and the Trust in the Political System scales (Mutz & Reeves, 2005), composto da 12 item del tipo “I politici hanno generalmente buone intenzioni”. Inoltre, i soggetti hanno indicato se sono stati in isolamento a causa del Covid-19 e, se sì, per quanto tempo (da 1= meno di una settimana, a 6= più di 4 settimane); se hanno lavorato da casa e, se sì, per quanto tempo; hanno completato la Lubben Social Network Scale (Lubben et al., 2006), composta da 6 item che valutano l’isolamento sociale, del tipo “Quante volte vedi o senti amici/famiglia nel corso di un mese?” (con risposte su scala Likert da 0 a 5); se mostravano o meno la sintomatologia covid e se pensavano o meno di aver contratto la malattia. I soggetti hanno inoltre indicato la frequenza con cui pensano e parlano del COVID-19 in un giorno (da 1= per niente, a 4= più di 5 volte); hanno completato la Fear of COVID-19 Scale (Ahorsu et al., 2020), composta da 10 item del tipo “Ho molta paura del COVID-19”; infine, hanno completato la Compulsive Behaviour Scale (Edwards, 1993) adattata al contesto del COVID-19, composta da 22 items del tipo “Compro cose quando non ho bisogno di niente” (da 1= per niente, 5= totalmente applicabile).

Dai risultati dello studio è emerso che mediamente il campione si è isolato, lavorando da casa, per circa una settimana, di questi erano i gruppi più giovani e a reddito più alto ad avere maggiori probabilità di praticare smart-working rispetto ai lavoratori a basso reddito e a quelli più anziani. Il reddito è risultato correlato positivamente con la fiducia nelle istituzioni. Attraverso l’esplorazione della forza della rete sociale risulta che l’isolamento era moderato, inoltre, chi ha una rete più ampia tende ad avere più fiducia nella politica e a parlare e pensare più frequentemente del COVID-19. In generale, il campione ha riferito la paura di COVID-19 da moderata ad alta, moderata fiducia nella politica e livelli relativamente bassi di acquisto compulsivo: chi ha più paura tende ad agire più frequentemente comportamenti di acquisto compulsivo. Soltanto il 14% del campione ha riferito un disturbo mentale diagnosticato, i più comunemente riportati sono stati depressione e/o ansia, nello specifico è emerso che i soggetti con psicopatologia hanno meno fiducia nella politica, molta meno paura di COVID-19 e tendono in misura maggiore all’acquisto compulsivo rispetto a chi non ha un disturbo.

L’87% non ha riportato sintomatologia COVID-19, e il 95% di essi credeva di non averlo mai preso. Questi hanno riferito un comportamento di acquisto molto meno compulsivo, oltre che a un isolamento meno lungo rispetto alle persone con sintomatologia COVID-19. Pare che i soggetti più adulti abbiano più fiducia nella politica, tendano meno all’acquisto compulsivo e a lavorare da casa, e inoltre riferiscano sintomatologia COVID-19 più frequentemente rispetto alle fasce d’età più giovani. Infine, le persone più anziane hanno meno probabilità di impegnarsi in acquisti compulsivi.

 

Ah che stress! Cosa possiamo fare per gestire meglio le frustrazioni di ogni giorno? – VIDEO

CIP Modena ha presentato un ciclo di incontri online con lo scopo di approfondire i Disturbi di Personalità. Uno di questi, tenutosi il 22 settembre, ha affrontato il tema della gestione dello stress. Pubblichiamo per i nostri lettori il video dell’evento.

 

La tolleranza alla frustrazione è la capacità dell’individuo di far fronte a quell’insieme di profonda insoddisfazione, senso di impotenza e rabbia. Non sempre riusciamo a scaricare lo stress che accumuliamo e il nostro livello di tolleranza diminuisce. Cosa è utile fare e cosa non lo è?

Durante l’incontro organizzato da CIP Modena e condotto dalla Dott.ssa Antonella Gemelli, è stato analizzato il tema dell’intolleranza alla frustrazione e sono state descritte le principali strategie di fronteggiamento e gestione dello stress.

 

AH CHE STRESS! COSA POSSIAMO FARE
PER GESTIRE MEGLIO LE FRUSTRAZIONI DI OGNI GIORNO?

Guarda il video integrale del webinar:

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Il ruolo degli ormoni tiroidei nelle alterazioni del tono dell’umore

Depressione e tiroide: l’associazione tra alterazioni del tono dell’umore e disfunzioni tiroidee è nota fin dal 1825, quando il medico inglese Caleb Hillier Parry per primo descrisse la maggiore incidenza di “disturbi nervosi” nei soggetti con affezioni della tiroide. Gli attuali studi scientifici hanno portato a ritenere che esista un rapporto causa-effetto a doppio senso fra depressione e disfunzioni della tiroide.

 

La tiroide è una ghiandola endocrina situata nella parte anteriore del collo che governa, attraverso la produzione ormonale, importanti processi biologici come: il metabolismo, lo sviluppo scheletrico e sessuale, la termoregolazione corporea, il ritmo sonno-veglia e varie altre funzioni neurologiche e psichiche. Il funzionamento della tiroide è regolato dal sistema endocrino e da quello nervoso. L’ipolatamo secerne il TRH che stimola le cellule tireotrope dell’ipofisi a produrre TSH un ormone che, a sua volta, promuove la produzione di due ormoni tiroidei detti T3 e T4. Lo iodio insieme alla tirosina sono necessari per la sintesi di questi ormoni. La tirosina è anche il precursore delle catecolamine: dopamina, noradrenalina ed adrenalina, oltre a regolare varie funzioni fisiologiche, sono coinvolte nella risposta allo stress e nella regolazione del tono dell’umore. La secrezione degli ormoni tiroidei segue un ritmo circadiano; i livelli più alti di T3  e T4  si raggiungono durante la notte e nelle prime ore del mattino, mentre i livelli più bassi si rilevano tra le 12 e le 21 (Hershman JM. 2019)

Le disfunzioni tiroidee, che possono associarsi a processi infiammatori e/o proliferativi, sono l’ipotiroidismo e l’ipertiroidismo.

L’ ipertiroidismo viene definito come la condizione di iperfunzione della tiroide con ipersecrezione di ormoni tiroidei. Al contrario l’ipotiroidismo è una condizione di ipofunzione tiroidea. Può accadere che nell’ipotiroidismo i valori degli ormoni di T3 e T4 risultino nella norma. In questi casi, l’indice che può suggerire la presenza dell’ alterazione è un aumento del TSH, che viene prodotto in quantità maggiori proprio a causa della mancata inibizione esercitata da parte del T3 e del T4. Se il disturbo è segnalato solo da un TSH alto, con valori normali di T3 e T4, si parla di  ipotiroidismo subclinico (Castrucci, 2020).

Gli ormoni tiroidei hanno un ruolo essenziale nella regolazione delle funzioni neurologiche e psichiche (A. Fukao, J. Takamatsu, M. Ito, T. Arishima, H. Yokoyama, M. Tanaka, et al.  2017). Ansia, depressione e altri stati alterati dell’emotività possono presentarsi in caso di malfunzionamento della ghiandola (S. Fujinami 1991). Alcune ricerche sul legame tra depressione e tiroide hanno dimostrato che la depressione si associa all’ipotiroidismo ed all’iperdiroidismo con una frequenza rispettivamente del 56% e del 31% (C. Kirkegaard, J. Faber 1998, Morghese, 2018).

E’ noto che nei casi di ipertiroidismo possano comparire iperattività ed irritabilità. Al contrario le persone ipotiroidee hanno, in genere, un rallentamento delle funzioni psichiche. Secondo i dati disponibili in letteratura circa 1-4% dei pazienti con umore depresso hanno un chiaro ipotiroidismo e una percentuale variabile tra il 4% e il 40% può avere un ipotiroidismo sub clinico (M.P. Hage, S.T. Azar 2012). In quest’ultimo caso i sintomi  depressivi possono comparire  anche in assenza di segni a carico di altri organi ed apparati tipicamente colpiti  nella disfunzione tiroidea.

Nell’ipertiroidismo i sintomi psichici mimano quelli della sindrome ansiosa, ma possono includere anche stati di mania e di depressione. Nel morbo di Basedow-Graves, una patologia autoimmune che provoca ipertiroidismo, l’umore depresso è risultato in relazione con il peggioramento dell’ipertiroidismo provocato dalla malattia (Fukao A., Takamtsu J., Arishima T. et al. 2020). In pazienti con cicli rapidi del disturbo bipolare sono stati osservati valori bassi di ormoni tiroidei o valori di TSH elevati e sono state riscontrate altre evidenze di ipofunzione tiroidea (Perugi G. , Restuccia G. 2005). Questi dati hanno portato a ritenere che esista un rapporto causa-effetto a doppio senso fra depressione e funzione della tiroide.

Gli studi indicano che il legame tra disfunzioni tiroidee e disturbi affettivi può essere determinato da una disregolazione dei ritmi circadiani del TSH e dal coinvolgimento del TRH nella modulazione dell’umore.

Il TRH è presente al di fuori dell’asse ipotalamo-ipofisario ed è considerato un neurotrasmettitore ed un neuromodulatore (Grary et al. 2003, GG Yarbrough, J. Kamath,  A. Winokur, AJ. Prage Jr., 2007). La funzione extra-ipotalamica del TRH è stata dedotta da studi farmacologici sulla sua azione e su quella dei suoi analoghi. Tra i vari effetti questo ormone possiede anche quelli antidepressivi ed ansiolitici ( Sattin, 1999; Gutierrez-Mariscal et al., 2008)

Inoltre il coinvolgimento del TRH nella modulazione dell’umore è stato confermato da un esperimento condotto con i topi nei quali una mutazione rendeva il recettore per il TRH inattivo. In questa condizione i topi sviluppavano ansia e depressione ((Yuhua Sun, Bojana Zupan, Bruce M Raaka, Miklos Toth and Marvin C Gershengorn 2009).

Nei disturbi depressivi vi è un’alterazione dei ritmi circadiani, nei soggetti depressi è stato riscontato un basso livello di TSH notturno e nella depressione maggiore è stato evidenziato anche un basso tasso di TSH basale. Si è ipotizzato che queste alterazioni siano legate ad una stimolazione cronica dell’ipofisi da parte del TRH che rende la ghiandola meno responsiva (Lyall LM., Weis Ca., Graham N. et al 2018).

 

Identità sessuale liquida

Parlando di identità sessuale sono molti gli studi che sottolineano come tante persone che fanno incontri omosessuali, o semplicemente li desiderano, continuano a mantenere un’identità eterosessuale. Perché questa discrepanza tra il loro comportamento/desiderio sessuale e la loro identità?

 

Siamo sempre convinti che le persone che sono impegnate in una relazione sessuale con persone dello stesso sesso o che lo sono state in passato siano omosessuali o che si definiscano apertamente o meno entro tale categoria. La verità è molto meno “scontata” di quanto si vuole pensare. Tendiamo spesso a cadere in quest’errore perché sottovalutiamo la flessibilità dell’identità.

Parlando di identità sessuale sono molti gli studi che sottolineano come molte persone che fanno incontri omosessuali o semplicemente lo desiderano, continuano a mantenere un’identità eterosessuale (Seidman et al., 1999; Walker, 2014). Allo stesso modo persone che fino ad un determinato periodo della loro vita si sono definite come gay, lesbiche o bisessuali, possono finire per considerarsi eterosessuali (Diamond, 2003; Hamilton, 2007).

Così uno studio condotto da Hoburg, Konik, Williams, & Crawford (2004) in un college mostra come il 30% degli studenti e il 19% delle studentesse che si definivano eterosessuali dichiaravano di provare attrazione sessuale verso individui dello stesso sesso.

Allo stesso modo Savin-Williams & Ream (2007), in uno studio rappresentativo della popolazione americana dai 18 ai 26 anni, mostrarono come nonostante il 5% dei ragazzi e il 13% delle ragazze dichiarasse di provare attrazione sessuale verso persone dello stesso sesso, rispettivamente solo il 2% e il 4% si identificavano come gay, lesbiche o bisessuali (Savin-Williams & Ream, 2007).

L’esperimento che ora vedremo mostra come l’etichetta eterosessuale non sia così rigida ed esclusiva e che desiderio e comportamento sessuale non definiscono necessariamente l’identità sessuale della persona: in poche parole la persona non è il suo desiderio o il suo comportamento ma la definizione che dà di sé stessa.

L’identità infatti è un insieme di caratteristiche usate per auto-definirsi o per definire cosa si intende essere in una particolare situazione. Tale autodefinizione non è stabile, ma flessibile, e proprio per questo può cambiare nel corso della propria vita in base all’esperienza, alla crescita personale, alle relazioni che sviluppiamo e all’ambiente in cui viviamo (Rupp et al., 2013).

L’esperimento compiuto da Kuperberg e Walker (2018) ha coinvolto 24’000 studenti di 22 college diversi; di questo campione è stata presa in considerazione solo la percentuale di studenti che hanno dichiarato di aver avuto come ultimo rapporto un’esperienza con persone dello stesso sesso.

I reali protagonisti di questo studio sono perciò 718 studenti, di cui i ragazzi che hanno avuto una precedente relazione omosessuale sono 398, mentre 320 sono invece le ragazze che hanno dichiarato di aver avuto un rapporto con membri dello stesso sesso come ultima esperienza sessuale.

Di questi 718 studenti, il 12% dei ragazzi ed il 25% delle ragazze continuano ad autodefinirsi eterosessuali.

Ma perché questa discrepanza tra il loro comportamento sessuale e la loro identità?

Diverse teorie o variabili possono concorrere a rispondere a tale quesito: la variabile sociale gioca sicuramente un ruolo importante nella definizione di sé stessi. Un soggetto può infatti aver interiorizzato alcuni preconcetti circa il modo “giusto” di essere all’interno della società, in questo caso, rispetto alla sfera sessuale.

Conseguentemente a tale modo di pensare, l’esistenza del “giusto” presuppone l’esistenza del “non giusto”, e viceversa. Tutto ciò che non viene perciò incluso entro la categoria “giusto” è ciò che ne differisce per le sue caratteristiche intrinseche.

È a queste caratteristiche differenti e, soprattutto alla considerazione del soggetto circa queste differenti caratteristiche che esulano dal “giusto”, che ci si riferisce quando parliamo di omofobia interiorizzata o eterosessismo interiorizzato (internalized heterosexism).

Studiosi del campo come Kaufman & Johnson (2004) e Taylor (1999) hanno mostrato come alla base dell’incongruenza tra comportamenti sessuali e definizione sessuale di sé vi fossero dei sentimenti negativi e dei giudizi dispregiativi verso l’omosessualità.

Altri autori come Boykin (2005) e Ford, Whetten, Hall, Kaufman, e Thrasher (2007) hanno invece evidenziato il fatto che molte persone preferiscono nascondere o mantenere in maniera più discreta le loro relazioni o attività omosessuali.

Molto spesso la definizione di sé nell’ambito della sessualità avviene dopo una fase di squilibrio e sperimentazione: solo dopo aver ristabilito un senso di stabilità del proprio orientamento, una persona può definirsi a sé stesso e agli altri. Così, autori come Cass (1996), Horowitz & Newcomb (2002) e Kaufman & Johnson (2004) parlano del modello dello sviluppo in stadi dell’identità sessuale, mediante il quale il soggetto arriva a definire sé stesso attraverso un percorso graduale, in cui si passa da una confusa idea di sé nell’ambito sessuale, alla sperimentazione e, mediante questa, ad una definizione finale ma non per forza definitiva della propria identità sessuale.

Tornando alla domanda che ci siamo posti, per provare a rispondervi gli sperimentatori Kuperberg e Walker (2018) hanno cercato di identificare gli aspetti che differivano tra il gruppo di studenti che si sono autodefiniti eterosessuali ed il gruppo di studenti che si sono autodefiniti gay, lesbiche o bisessuali (o LGB), dopo aver avuto l’ultima esperienza sessuale con persone dello stesso genere.

Confrontando le risposte emerge che i soggetti del primo gruppo sono generalmente più conservatori, hanno alle spalle minori esperienze omosessuali rispetto a quelle eterosessuali, e descrivono l’esperienza omosessuale in maniera diversa e con sentimenti differenti: lo sperimentatore ha potuto dividere questo campione di soggetti “eterosessuali” in 6 sottogruppi, in base alle loro risposte.

Il 60% del totale rientra nei primi tre gruppi nominati rispettivamente “wanting more”, “drunk and curious” e “little enjoyment”. Il primo è anche il gruppo più numeroso ed include i soggetti che hanno trovato molto piacevole l’esperienza sessuale, è il secondo gruppo in ordine di percentuale ad aver dichiarato di voler avere una relazione con il partner sessuale e solo il 30% di questo gruppo dichiara di aver avuto altre esperienze omosessuali precedenti.

Il secondo gruppo, “drunk and curious”, è il gruppo con una più alta percentuale di soggetti che dichiarano di essere stati ubriachi durante il rapporto, oltre a non volere, nella maggior parte dei casi, continuare la relazione. Il terzo gruppo, chiamato “little enjoyment”, è composto dalle persone che non hanno trovato piacevole l’esperienza e che non vogliono proseguire la relazione.

Questi tre primi gruppi sono accomunati dal fatto di aver avuto le loro esperienze in contesti privati, per il fatto di non considerare l’omosessualità sbagliata e per il fatto che non sono particolarmente religiosi. Il ricercatore evidenzia come i soggetti di questi primi tre gruppi, date le loro risposte, possono essere considerati “sperimentatori” della loro sessualità, o meglio, soggetti al primo stadio del modello dello sviluppo dell’identità sessuale prima descritto. Si può pensare infatti che la loro sperimentazione in privato possa contribuire a cambiare nel tempo la loro definizione di sé come soggetti eterosessuali o, al contrario, com’è più probabile per i soggetti del terzo gruppo, contribuire a rinforzare la propria identità eterosessuale.

Il quarto gruppo è stato nominato “maybe for show”: la totalità del gruppo è composto da sole ragazze e rappresenta il gruppo meno religioso. Sono state definite in questo modo perché i loro comportamenti erano dettati dall’intenzione di attrarre i ragazzi. Queste ragazze dichiaravano infatti di aver manifestato i loro comportamenti sessuali con persone dello stesso sesso pubblicamente, di fronte ad altri ragazzi. Tale atteggiamento sembra seguire il senso comune, in cui si considera la bisessualità della donna nei suoi comportamenti espliciti piacevole ed eccitante agli occhi degli uomini. Tuttavia, un terzo di queste donne hanno dichiarato di essersi “divertite molto” e circa una su 10 ha ammesso di voler una futura relazione con lo stesso partner sessuale. In accordo con Ward (2015), quindi, alcune ragazze possono usare questi comportamenti provocatori come opportunità per sperimentare sentimenti di attrazione verso persone dello stesso sesso.

Gli ultimi due gruppi si differenziano dal resto del campione di riferimento per i loro maggiori legami con la religione e per il fatto di aver dichiarato che questa gioca un ruolo importante nell’orientare i loro comportamenti e la loro identità. Tanto nel gruppo “love it, but religion”, quanto nel “just not who I can be”, l’identità sessuale si scontra con l’identità religiosa.

Nel quinto gruppo, composto per il 92% da donne, è stata riscontrata la più alta percentuale di soggetti interessati ad una relazione con il partner sessuale, la più alta percentuale di persone che hanno dichiarato di essersi “divertite molto”, e la più alta percentuale di persone che hanno avuto il rapporto da sobrie. Queste infatti differiscono dal primo gruppo “wanting more” solo per l’impegno religioso e per essere più giovani.

L’ultimo gruppo, che rappresenta anche il gruppo meno numeroso, è quello denominato “just not who I can be”. Questo è composto per il 98% da uomini, con un alto grado di religiosità anche se il loro impegno religioso è meno frequente di quello dichiarato dal quinto gruppo. Per questi l’omosessualità è sempre condannabile perché considerata sbagliata. Inoltre, al contrario del quinto gruppo, questi non descrivono la loro esperienza omosessuale con la stessa intensità positiva, dichiarando di aver avuto “poco piacere” o di aver considerato l’esperienza piacevole solo “qualche volta”. Questi due gruppi, meglio degli altri, ci mostrano come la costruzione dell’identità implichi anche aspetti legati alla sfera sociale e, nel sesto gruppo, come l’interiorizzazione dei giudizi omofobici possa influenzare direttamente anche la definizione che un soggetto dà di sé.

L’identità sessuale, oltre ad essere perciò un percorso che fa il singolo, è anche una strada che si fa insieme alla comunità, in un determinato tempo ed in un determinato spazio. Ciò che è considerato giusto o che è stato ormai nel tempo interiorizzato nella società in cui si vive influenza fortemente la propria identità. A riprova di questo possiamo vedere come in nazioni dove l’omosessualità è divenuta socialmente più accettabile anche l’identità sessuale delle persone ha avuto un importante mutamento. Una ricerca compiuta dopo la legalizzazione dei matrimoni gay in diverse nazioni americane come in Vermont nel 2000 ed in Massachusetts nel 2004, mostrò come tra un campione di ragazzi tra i 13 ed i 20  anni scelti in maniera casuale, solo il 48% di loro si definiva come “completamente eterosessuale”, mentre la percentuale saliva al 65% tra i ragazzi più grandi, compresi tra i 21 ed i 34 anni (Laughlin, 2016).

Il fatto che i valori dominanti in una determinata società influenzino l’educazione, il modo in cui ci comportiamo e il modo in cui consideriamo i nostri o altrui comportamenti non ci stupisce. Perciò non dovremmo stupirci neanche quando in base alla società in cui viviamo definiamo noi stessi.

 

Il sogno tra significati e funzioni

Secondo la neurobiologia, i sogni sono un modo singolare che il nostro corpo utilizza per tenere ‘allenato’ il cervello.

 

Secondo le antiche tradizioni invece, i sogni sono messaggi mandati dagli dei. Per la psicologia e in particolare per la psicoanalisi, il valore dei sogni risiede soprattutto nella loro dimensione simbolica. I sogni sarebbero l’espressione di pensieri, sentimenti e ricordi che di giorno evitiamo, ma che nei sogni emergono sia pure camuffati, poiché da essi continuiamo a difenderci.

Freud (1899b) fu il primo a sostenere che i sogni rappresentassero la via principale per accedere ai contenuti inconsci. Nella sua teoria l’enfasi è stata posta in particolare sul concetto di desiderio, secondo Freud (1899b) infatti nel sogno i desideri rimossi e inaccettabili trovano una via per essere espressi nel Contenuto manifesto, che cela invece il Contenuto latente, cui non è consentito svelarsi nella sua ‘essenza’ dalla funzione di censura della coscienza. Il sogno può essere considerato quindi, già a partire da questi punti essenziali della teoria freudiana, come una forma di pensiero che si esprime principalmente per immagini, suoni, e sensazioni corporee e che ci permette di avere accesso a contenuti inconsci rimossi, sebbene in forma criptica. Freud (1899b) tuttavia concepiva le manifestazioni oniriche più come ‘processi distorsivi’ in cerca di interpretazione, che come processi di pensiero. L’impostazione di Jung, fondatore della psicologia analitica, è piuttosto diversa da quella di Freud. Per Jung i sogni sono l’espressione di un ‘inconscio collettivo’, ossia di quel patrimonio di simboli e d’immagini ‘archetipiche’ (cioè primordiali e appartenenti alla specie) che tutti gli uomini condividono. La loro forza risiede nel loro essere portatori di un sapere profondo, illuminante, capace di trasmettere saggezza ed energia. Secondo Jung il sogno non poteva essere solo un ‘appagamento camuffato di un desiderio nascosto’, ma era qualcosa di più complesso: i sogni erano indipendenti sia dalla nostra volontà sia dalla nostra coscienza. Secondo lo scienziato gli oggetti e le persone di un sogno non erano sempre investiti di un desiderio (sessuale o non) mancato. Inoltre, se da un lato Freud applicò alla realtà un punto di vista riduttivistico che lo portò a cercare di decifrare i segni presenti nei sogni, Jung, da un punto di vista teleologico e finalistico, si concentrò invece a rintracciare quale fosse la funzione dei sogni e quindi a decifrarne i simboli. Segni e simboli infatti rimandano a significati ben diversi: i primi vengono considerati significanti universali, i secondi rimandano a contenuti strettamente personali del sognatore, che ne riequilibrano la personalità. L’interesse di Jung per il mondo onirico non deriva però dai sogni in quanto tali, ma da quanto questi possono dire sul funzionamento della psiche in generale. Ritiene infatti, a differenza di Freud, che il sogno non nasconda nulla, che non inganni il sognatore, ma che semplicemente vada in qualche modo ‘tradotto’ attraverso i simboli propri di ogni persona e cultura. Naturalmente, la diversità teorica si riflette anche in una diversità pratica e quindi in diversi metodi di analisi pratica del contenuto onirico.

Oggi sappiamo che il sogno è anche la via regia per accedere alla memoria, dunque anche ai contenuti dell’inconscio, in quanto ci consente una ‘rappresentazione pittografica e simbolopoietica’ di tracce mnesiche anche implicite significative, a-verbali e a-simboliche (Mancia, 2004; p.69). Ciò è confermato anche in ambito neuroscientifico, dove diversi studi hanno dimostrato che durante il sonno REM (Rapid Eye Moviment) si ha l’attivazione di ampie aree associative tra cui quelle temporo-parietali, frontali e limbiche, che possono essere considerate responsabili delle funzioni mnestiche, semantiche, simboliche ed emozionali che connotano il pensiero onirico. Nel sonno REM si verificano inoltre condizioni di attivazione cerebrale che consentono il recupero di tracce mnestiche più definite e anche di narrazioni di una certa lunghezza (Mancia, 2004). C’è un chiaro legame tra il sogno e la memoria, in quanto nelle sue espressioni il sogno stesso non farebbe altro che allacciare, con la sua ‘logica’ peculiare, tracce mnesiche esplicite e implicite, cercando una certa continuità con l’esperienza presente del sognatore.

Ciò ci permette di comprendere come a partire da Freud (1899) la concezione del sogno abbia subito un’evoluzione in concomitanza all’evolvere delle teorie psicanalitiche, dal ‘pulsionale’ al ‘relazionale’, ma anche grazie alle nuove scoperte scientifiche. E’ ormai assodato infatti che il cervello durante il sonno non riposa, semplicemente cambia i suoi ritmi e alterna la funzionalità di determinate aree in modo tale da consentire l’omeostasi a livello biologico dell’individuo, che tenderà a regolarizzare le sue varie funzioni vegetative, restringendo progressivamente ed in parallelo il campo di coscienza. Dunque dobbiamo trattare l’attività del cervello durante il sonno consapevoli che lo stesso si organizza secondo ‘turni di lavoro’ differenti che cambiano, modificando la loro attività di conseguenza alla fase del sonno in cui ci troviamo (Mancia, 2004). Tra le varie fasi del sonno la fase REM è quella che da sempre ha suscitato maggiore interesse, e non solo in ambito scientifico, in quanto rappresenta la base neurofisiologica del sogno nella sua forma più vivida e passibile di ricordo, consentendo al soggetto di dare sfogo al proprio inconscio, rimosso e non, per mezzo di intense allucinazioni e visioni, che appunto vanno di pari passo ad alterazioni dal punto di vista neurofisiologico, come il battito cardiaco e il respiro che diventano aritmici, la termoregolazione che viene sospesa e in sintesi l’intero sistema vegetativo che va in subbuglio per alcuni minuti (durante la notte comunque le varie fasi del sonno si alternano, accompagnando il soggetto fino al risveglio). Il sonno REM, per mezzo del sogno ci consente di collegare il nostro mondo interno, costituito da tracce mnesische implicite ed esplicite del ‘là e allora’, al mondo esterno e presente del sognatore, costituendo un vero e proprio ‘ponte temporale’ alla ricerca della continuità dell’esperienza e del significato simbolico della stessa, anche se forclusa dalla vita psichica del soggetto.

In altre parole il sogno rappresenta quel link mancante tra le esperienze del nostro passato e l’esperienza presente, in modo particolare per ciò che ne concerne relazioni interiorizzate e vissuti emotivi annessi. L’obiettivo delle produzioni oniriche è dunque quello di ‘simbolizzare’, di cercare quei significati mancanti, che tuttavia non potendosi manifestare in quanto tali in forma diretta, si manifestano in forma di ‘significanti dai molteplici significati’, operando una trasformazione che ha molto in comune con l’espressione artistica (Mancia, 2004; p. 91). In questo senso il sogno va concepito, non più come un processo di distorsione dei contenuti mentali inconsci, ma come una forma di pensiero da non scindere da quello diurno, dunque da concepire in continuità con lo stesso, sebbene si sviluppi a differenza di quest’ultimo con una logica ben diversa, basata sulla metafora e su significati simbolici, un po’ come accade nel linguaggio poetico, che nasce dalla ‘necessità dell’uomo di drammatizzazione del mondo interno e di elaborazione tesa alla costruzione del pensiero’ (Mancia, 2004; p. 91). In definitiva le funzioni simbolopoietiche del sogno consentono anche ai contenuti registrati dalle strutture della memoria implicita, appartenenti all’inconscio non rimosso, di venire rappresentati per mezzo di immagini, suoni, sensazioni corporee, che attraverso il linguaggio onirico permettono la simbolizzazione e verbalizzazione della storia affettiva ed emozionale del soggetto.

Il sogno può quindi rendere pensabili anche esperienze prive di ricordi, divenendo il teatro in cui vengono messi in atto affetti ed emozioni appartenenti alla storia relazionale del soggetto che, contestualizzati nel qui ed ora della relazione terapeutica permettono di accedere al ‘mondo interno’ del paziente, in particolare anche a quelle esperienze primarie presimboliche e preverbali, anche traumatiche, che altrimenti resterebbero non passibili di ricostruzione.

Lutto e Disturbo da Sofferenza Prolungata durante la pandemia di Covid-19

La pandemia di Covid-19 ha mutato l’esperienza della morte di un caro: da un lato il divieto di visitare la persona ammalata nelle strutture ospedialiere, dall’altro l’interruzione senza precedenti dei rituali culturali e religiosi che spesso forniscono alle persone in lutto un contesto sociale di supporto.

 

Il lutto è l’esperienza di perdere una persona cara e il dolore è la risposta naturale a questa perdita. In genere, il dolore acuto è dirompente e difficilmente gestibile. Tuttavia, la maggior parte delle persone si adatta alla morte di un caro, insieme ai cambiamenti che ne derivano nelle circostanze della vita, accettando un mutato rapporto con il defunto e trovando modi per ricordarlo e onorarlo. Si ripristina il senso e lo scopo della propria vita e la possibilità di felicità. Ciononostante, il processo di adattamento richiede tempo, e il dolore è complesso, sfaccettato e variabile (Goveas & Shear, 2020).

Le restrizioni in atto a causa della pandemia di COVID-19 hanno mutato l’esperienza della morte di un caro, infatti nelle strutture ospedaliere spesso non è permesso visitare la persona ammalata. Comprendere la realtà di una perdita è difficile in qualsiasi circostanza, ma può esserlo ancora di più quando la morte è improvvisa e la persona amata si spegne in solitudine. Da aggiungere al fardello di non essere con il caro morente c’è l’interruzione senza precedenti dei rituali culturali e religiosi che spesso forniscono alle persone in lutto un contesto sociale di supporto. Durante la pandemia, solo un numero limitato di membri della famiglia può riunirsi per il funerale, inoltre non sono consentite pratiche come il lavaggio del corpo o il bacio del defunto (Goveas & Shear, 2020). La visione privata spesso non è possibile e, se consentita, viene offerta solo ai familiari più stretti. Le persone in lutto devono astenersi dall’abbracciarsi l’un l’altro poiché qualsiasi contatto fisico, prima, durante e dopo i servizi funebri è fortemente sconsigliato a causa del COVID-19. Le morti che si verificano nel periodo della pandemia possono perciò intensificare il senso di isolamento sociale e solitudine che spesso caratterizzano il lutto (Goveas & Shear, 2020).

Quando l’adattamento alla dipartita del proprio caro viene bloccato o interrotto, il risultato può essere il Disturbo da Sofferenza Prolungata (PGD, Prolonged Grief Disorder), recentemente incluso come nuova diagnosi nella undicesima edizione della Classificazione Internazionale delle Malattie, (ICD-11) (World Health Organization, 1993) e di cui è stato discusso l’inserimento nella quinta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, (DSM-5) (American Psychiatric Association [APA], 2020). Questa sindrome è caratterizzata da desiderio e nostalgia del defunto in maniera persistente e pervasiva, pensieri preoccupanti accompagnati da altri sintomi di sofferenza emotiva, che causano disagio significativo o compromissione del funzionamento della persona e che durano almeno 6 mesi, superando il lasso di tempo previsto dalle norme sociali, culturali o religiose (APA, 2013). Le circostanze, il contesto e le conseguenze dei decessi nel corso della pandemia comprendono fattori di rischio che potrebbero aumentare i tassi di PGD (Goveas & Shear, 2020). Oltre al desiderio e alla tristezza, la maggior parte delle persone prova ansia, rabbia o senso di colpa (APA, 2013), infatti chi è in lutto potrebbe avere una tendenza ad immaginare scenari alternativi in cui il caro non è morto e può sentirsi in colpa per essere sopravvissuto. Inoltre, molte persone in lutto cercano di evitare situazioni che potrebbero innescare un intenso dolore emotivo. Sebbene tali comportamenti, pensieri e sentimenti siano naturali, qualora dovessero prendere il sopravvento, potrebbero far deragliare il processo di guarigione ed elaborazione del lutto (Goveas & Shear, 2020). Altri esempi di fattori di rischio per lo sviluppo del PGD includono depressione, ansia, traumi precedenti, una storia di attaccamento insicuro, o una relazione particolarmente stretta con il caro scomparso; ulteriori fattori di rischio sono legati a circostanze, contesto o conseguenze della morte (APA, 2013).

In una corretta elaborazione del lutto, le persone solitamente superano traguardi adattandosi alla perdita e imparando a comprendere e ad accettare il dolore (Goveas & Shear, 2020). L’acronimo H.E.A.L.I.N.G. (ing. guarigione), ideato dal Center for Complicated Grief della Columbia University, racchiude le pietre miliari per affrontare il lutto in maniera naturale, contrastando l’insorgenza del PGD (The Center for Complicated Grief, 2020). Le persone in lutto che utilizzano H.E.A.L.I.N.G.:

  • H. rafforzano le relazioni in corso e ripristinano il loro ruolo in un mondo senza la persona amata (Honor, onora),
  • E. A. si aprono all’affrontare le emozioni accettando il dolore (Ease pain, allevia il dolore; Accept grief, accetta il dolore),
  • L. I. e imparano a convivere con il ricordo del defunto (Learn to live with reminders, Impara a vivere con i ricordi; Integrate memories, integra i ricordi).
  • N. Raccontando la storia della morte del caro, si rendono gradualmente conto di avere una connessione continua con il defunto, che è interiorizzata e permanente (Narrate, racconta),
  • G. e allo stesso tempo accolgono altre persone accanto a sé (Gather others, riunisci) (The Center for Complicated Grief, 2020).

Comprendendo come la pandemia potrebbe influenzare lutto e dolore correlato e apprendendo le pietre miliari della guarigione si potrebbe ridurre l’insorgenza del PGD (Goveas & Shear, 2020). Per affrontare la sintomatologia di questo disturbo è consigliabile rivolgersi a specialisti in modo da intraprendere un percorso psicoterapeutico individuale o di gruppo. In particolare, gli studi di Jordan e Litz pubblicati nel sito internet dell’APA, hanno dimostrato come la psicoterapia di orientamento cognitivo-comportamentale mirata al dolore possa essere un valido trattamento per il PGD (Jordan & Litz, 2014). Ciononostante, poiché esiste una pressante necessità di attuare misure per ridurre le conseguenze negative del lutto nell’era COVID-19, sarebbe auspicabile implementare ulteriormente la formazione dei professionisti al riconoscimento e al trattamento della PGD.

 

Sex offender e psicopatologia

I Sex Offender sono coloro i quali commettono reati a sfondo sessuale contro qualsiasi essere umano, si tratti di uomini, donne o bambini. 

Pastore Fabio, Di Gioia Concetta – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

 Sono identificati con l’articolo 609 bis del codice penale, il quale descrive le tipologie di reato che riguardano la violenza sessuale.

Chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da cinque a dieci anni. Alla stessa pena soggiace chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali:

  • abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto;
  • traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona.

I sex offender non costituiscono una tipologia omogenea di individui. ‘La vera caratteristica del sex offender è in primis una: la non uniformità‘ (Kröber, 2009). Le motivazioni sottese al reato, il tipo di comportamento sessuale agito, il modus operandi e l’età in cui viene commessa la prima aggressione sessuale possono essere molto diversi da un sex offender all’altro. Così come possono essere molto diverse le vittime oggetto, sia per l’età, sia per il sesso, sia per le loro caratteristiche fisiche, sia per il tipo di relazione che intrattengono con l’autore del reato.

Nell’ambito giuridico, i sex offender sono persone che commettono violenza sessuale su minori e/o stupro e quindi penalmente punibili. Dal punto di vista psicologico vi sono delle differenze dal momento che una persona potrebbe commettere un reato di violenza sessuale ma non possedere i criteri e le caratteristiche che rispecchiano questa categoria.

Svariati sono gli aspetti che influenzano lo sviluppo di un comportamento sessuale deviante, tra cui il contesto sociale, culturale, familiare, disturbi cognitivi e scarsa empatia. Questi fattori, accompagnati da esperienze traumatiche e dalla crescita in un contesto familiare dove la figura della donna è spesso una figura svalutata e dunque la figura maschile è ritenuta nettamente superiore rispetto alla donna, contribuiscono allo sviluppo del mancato controllo degli impulsi, ad un bisogno di dominio e all’aumento dei comportamenti violenti accompagnati da eccitazione sessuale.

Caratteristiche ricorrenti nei profili dei sex offender sono la presenza di una impellenza compulsiva (Kimmel & Plante, 2004) ad agire la propria sessualità abnorme (Small, 2004), senza alcuna preoccupazione per l’altro (Hickey, 2005), di elementi sessuali ritualizzati (Beauregard, Lussier & Proulx, 2005), di fantasie sessuali di potere e sopraffazione sulla vittima (Gee, Devilly & Ward, 2004; Howitt, 2004; Sheldon & Howitt, 2008), e di simbolismo, ovvero la tendenza ad attribuire connotazioni sessuali ad oggetti inanimati.

Una caratteristica che sembra essere presente nella maggior parte dei sex offender riguarda le limitate capacità empatiche. L’empatia è un costrutto composto da caratteristiche sia cognitive sia affettive e si riferisce alla capacità di un soggetto di comprendere i sentimenti e le cognizioni altrui. I soggetti con difficoltà empatiche non sono completamente in grado di discernere gli stati emozionali altrui; gli uomini che aggrediscono donne e/o bambini spesso considerano le loro vittime come diverse da loro e, quindi, hanno difficoltà ad assumere la loro prospettiva. (Petruccelli I., Pedata L.T.,2008).

Il sex offender presenta, inoltre, un pensiero basato su una specifica distorsione cognitiva utilizzata come strategia difensiva, come supporto a ciò che sta facendo in tal modo da commettere reati gravi mantenendo un’integra percezione di sé come persona non repellente. Tale distorsione cognitiva prende il nome di disimpegno morale. Esso è un meccanismo difensivo composto da un insieme di dispositivi cognitivi interni al soggetto appresi ed interiorizzati che portano il sex offender a liberarsi dai sentimenti di autocondanna, lesivi per il mantenimento del proprio equilibrio interiore.

P. E. Dietz suddivide i sex offender in:

  • Tipo situazionale, il cui livello intellettivo è inferiore alla norma e il cui comportamento sessuale è mirato a soddisfare il bisogno sessuale di base e di potere attraverso rabbia intensa. Il comportamento è impulsivo, opportunista e considera in modo superficiale i rischi nel commettere e mettere in atto un comportamento sessuale criminale;
  • Tipo preferenziale, il cui livello intellettivo è superiore rispetto al tipo situazionale, mette in atto dei comportamenti sessuali criminali che riguardano i bisogni sessuali devianti, le cosiddette parafilie. Il comportamento è spesso elaborato e compulsivo, e vanno a crearsi dei veri e propri rituali sessuali.

Dalla suddivisione proposta da Dietz, Hazelwood, Warren e Burgess hanno definito due tipologie di sex offender:

  • Impulsivo, è un tipo di offender sessuale che di solito viene catturato con facilità a causa della sua scarsa pianificazione nel commettere i suoi crimini. È impulsivo e le fantasie di questa tipologia di sex offender sono semplici e concrete e solitamente includono due dimensioni: le caratteristiche della vittima e la percezione di Sé. L’apice del piacere sta nel catturare la donna e dominarla. La caratteristica che accomuna questi sex offender è la rabbia e l’odio che nutrono verso il genere femminile;
  • Rituale, è meno diffuso ed è anche quello più difficile da catturare ed identificare. Investe grandi quantità di tempo nella pianificazione e nell’organizzazione del crimine con sopralluoghi, ecc. La motivazione sottostante riguarda il bisogno di potere. Frequentemente manifesta stili di vita che appaiono convenzionali e piuttosto ordinari.

Il comportamento del sex offender può essere inquadrato clinicamente se rientra tra i Disturbi Parafilici elencati del DSM 5. Il termine parafilia, all’interno del DSM 5, indica un:

qualsiasi intenso e persistente interesse sessuale diverso dall’interesse sessuale per la stimolazione genitale o i preliminari sessuali con partner umani fenotipicamente normali, fisicamente maturi e consenzienti (APA, 2014).

Affinché sia possibile effettuare una diagnosi di Disturbo Parafilico è necessario che tale condotta parafilica sia causa di un intenso disagio o di una compromissione dell’individuo o rischi di arrecare danno a se stesso o a terze persone. Una condotta parafilica di per sé è una condizione necessaria ma non sufficiente per una diagnosi di Disturbo Parafilico in quanto può, a volte, non inficiare il benessere psicologico dell’individuo e non creare danno a se stesso o ad altre persone. Per alcuni sex offender le parafilie sono strumentali al raggiungimento della soddisfazione sessuale, per altri esse rivestono un ruolo marginale o nullo.

Tra i Disturbi Parafilici, descritti nel DSM 5, che possono caratterizzare i profili di alcuni sex offender, vi sono:

  • Disturbo Pedofilico, in cui è presente eccitazione e piacere sessuale da fantasie o comportamenti relativi ad attività sessuali con bambini prepuberi;
  • Disturbo Voyeuristico, in cui l’eccitazione sessuale deriva dall’osservazione furtiva di soggetti, spesso nudi, non di rado impegnati in attività sessuali;
  • Disturbo Esibizionistico, in cui l’eccitazione sessuale deriva da desideri o comportamenti di esposizione dei propri genitali a persone a loro insaputa;
  • Disturbo Frotteuristico, che si caratterizza per l’eccitazione data dal toccare o dallo strofinarsi con una persona non consenziente;
  • Disturbo Feticistico, che si caratterizza per l’attenzione sessuale verso un oggetto inanimato o una parte specifica del corpo non genitale;
  • Disturbo da Travestitismo, dove l’eccitazione sessuale deriva dal cross-dressing, ovvero l’azione di indossare indumenti del sesso opposto;
  • Disturbo da Masochismo Sessuale, in cui l’eccitazione sessuale deriva dal sentirsi umiliato, percosso, legato e da altri atti inducenti dolore e sofferenza;
  • Disturbo da Sadismo Sessuale, in cui l’eccitazione sessuale nasce dal causare deliberatamente e intenzionalmente sofferenza fisica o psicologica ad un’altra persona.
  • Disturbo Parafilico con Altra Specificazione, in cui rientrano parafilie quali la scatologia telefonica, dove l’eccitazione sessuale scaturisce da telefonate oscene; la necrofilia, consistente nel piacere derivato dall’atto sessuale con cadaveri; la zoofilia, ossia la preferenza per atti sessuali con animali; la coprofilia, ove il piacere è dato dal contatto con escrementi; la clismafilia, nella quale il soggetto trae eccitazione sessuale dall’inserimento nel retto di clisteri o altri oggetti, ed infine la urofilia, dove la soddisfazione sessuale è legata al contatto con l’urina propria o del partner.

Nei sex offender a volte tali Disturbi Parafilici sembrano essere associati alla presenza di Disturbi di Personalità. Molteplici studi effettuati mostrano come ormai si è concordi nel ritenere che esista stretta correlazione tra il comportamento del sex offender e la propria appartenenza diagnostica a categorie rientranti in Disturbi di Personalità specifici. I Disturbi di Personalità più ricorrenti nei sex offender sono:

  • Disturbo di Personalità Narcisistico, che presenta totale incapacità empatica e relazionale, senso di grandiosità e onnipotenza, volontà personale di agire a proprio vantaggio ai danni o svantaggio dell’altro, disinteresse verso la sfera emotiva e psicologica della vittima. Dunque, abbiamo la presenza di un’esagerata infondata sensazione della propria importanza, preoccupazione con fantasie di successi senza limiti;
  • Disturbo di Personalità Antisociale, il quale manifesta un estremo disinteresse e/o non riconoscimento delle regole sociali, anche inerenti la sfera d’azione dell’etica e della morale, reinterpretate secondo criteri puramente soggetti che violino il principio del ‘socialmente accettabile’. Tale disturbo è già possibile individuarlo, ma non diagnosticarlo dal momento che è possibile effettuare la diagnosi solo dai 18 anni, intorno ai 15 anni con la diagnosi di disturbo della condotta dove il ragazzo assume un atteggiamento oppositivo-provocatorio, aggressivo, violento nei confronti degli altri senza alcun risentimento. Il punto cardine di tale disturbo è la totale mancanza di empatia e indifferenza verso sentimenti e preoccupazioni altrui e la completa assenza di senso di colpa;
  • Disturbo di Personalità Borderline, prende forma con oscillazioni continue dell’umore, sbilanciamenti di rapido passaggio da azioni di calma apparente ad agiti aggressivi nel lasso di brevissimo tempo senza reale motivazione oggettiva, controllo contenuto improvvisamente esploso in azioni violente/aggressive incontrollate. Il disturbo di personalità borderline è un equilibrio tra nevrosi e psicosi ed i soggetti affetti (tale disturbo colpisce maggiormente il genere femminile) sono particolarmente attraenti e compiacenti;

In uno studio, Bogaerts e collaboratori (2005) dimostrarono una significativa presenza di disturbi di personalità come il disturbo schizoide, quello narcisistico e l’evitante nel loro campione di child molesters. In uno studio condotto su un campione di oltre 8000 sex offender, Sjostedt e collaboratori (2003) hanno indagato la presenza di vari disturbi psichiatrici maggiori, evidenziando la presenza di percentuali più elevate rispetto alla popolazione generale (schizofrenia: 1,5% vs 0,3%; disturbo bipolare: 0,3% vs 0,1%; altri disturbi psicotici: 2,5% vs 0,4%). Secondo Leue e collaboratori (2004), invece, solo alcuni disturbi dell’umore, d’ansia e alimentari sarebbero presenti in maniera significativa nei sex offender. Fra i disturbi d’ansia, diversi autori (Douglas, Burgess, Burgess & Ressler, 1992; Keppel, 1995; Howitt, 1995; Iwawaki & Wilson, 1983; Briere & Runtz, 1989; Langevin & Lang, 1985) segnalano la fobia sociale come quadro clinico particolarmente rappresentato, a denotare l’incapacità di tali soggetti a stabilire relazioni solide ed efficaci con gli altri. In uno studio condotto in U.S.A. da Cochrane e collaboratori (2001) è emerso come la popolazione di sex offender, rispetto ad altri tipi di ‘offender’, manifesti più frequentemente alcuni disturbi mentali (ritardo mentale: 11% vs 2%; parafilie: 25% vs 2%); meno frequentemente altri disturbi (disturbi dell’umore: 5% vs 20%; disturbi psicotici: 16% vs 32%) e sostanzialmente in egual misura altri ancora (disturbi di personalità: 42% vs 42%; abuso di sostanze: 42% vs 48%).

Secondo Skeem e Mulvey (2001) i disturbi da uso di alcol e sostanze, oltre che correlati al rischio di reiterazione di reati sessuali, aumenterebbero il rischio di recidiva per reati violenti (sessuali e non sessuali) e gli stessi autori ritengono che la presenza di personalità antisociale aumenti il rischio di recidivismo per i reati violenti, non solo sessuali ma anche non sessuali.

In definitiva, i dati sinteticamente riportati sembrano dimostrare come le dimensioni psicopatologiche strutturali della personalità e i disturbi da uso di sostanze siano effettivamente correlati ad un più alto rischio di reiterazione di condotte sessuali delittuose (ma anche di altri reati non a sfondo sessuale). Tuttavia questi ed altri vari studi mostrano uno scenario piuttosto eterogeneo nella descrizione/definizione dei profili psicopatologici dei sex offender. Tale eterogeneità non ha consentito finora di delimitare chiaramente i confini di eventuali patologie mentali coesistenti con specifici comportamenti sessuali anomali a volte delittuosi. La correlazione tra psicopatologia e comportamento sessuale illecito è una questione, dunque, che necessita di ulteriori ricerche.

In aiuto alla valutazione attraverso il colloquio clinico e l’utilizzo dei test psicodiagnostici come test di personalità, è utile effettuare una valutazione neuropsicologica. Un’attenta valutazione neuropsicologica, oltre che a fornire un quadro cognitivo completo permette di comprendere il funzionamento. La valutazione comprende 3 fasi:

  • il colloquio clinico e la raccolta delle principali notizie anamnestiche;
  • la valutazione cognitiva standardizzata;
  • la valutazione emotiva e comportamentale dell’esaminato.

È importante che ogni percorso preveda un assessment del rendimento cognitivo generale. Tuttavia, proprio per la vastità delle classificazione dei sex offender, è difficile definire un profilo neuropsicologico specifico. La valutazione neuropsicologica di un sex offender deve essere completa e non può prescindere da una valutazione di tutti i domini cognitivi ed è per questo che si dovrà prestare attenzione, in modo particolare, all’analisi qualitativa e quantitativa di alcuni test specifici da scegliere come ad esempio un test per il QI, per le funzioni esecutive, per la fluenza verbale, per l’attenzione e la velocità nel cogliere e codificare le informazioni, per la valutazione del giudizio morale e, fondamentale, un testo per la componente impulsiva. Dunque, una valutazione neuropsicologica potrebbe aiutare ad identificare differenti aspetti e fattori a rischio associati alla violenza sessuale quali una inclinazione al crimine o la presenza di competenze sociali ridotte o, ancora, profili con un’elevata impulsività e con ridotte capacità verbali, ma è anche importante per individuare i soggetti con più elevato rischio di recidiva nel commettere reati o fatti.

Sul piano dell’intervento terapeutico, l’associazione congiunta tra psicoterapia e l’uso del farmaco risulta essere maggiormente efficace rispetto alla sola psicoterapia o al solo farmaco, anche se il percorso terapeutico per essere più incisivo dovrebbe durare per almeno tre o cinque anni (Rice & Harris, 2011).

I trattamenti farmacologici sembrano facilitare l’adesione ai programmi terapeutici e aumentano la possibilità di successo nel diminuire il tasso di recidiva. Fra i presidi farmacologici usati, quelli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI) si sono dimostrati efficaci in particolar modo sugli aspetti compulsivi del comportamento sessuale (Kraus, Hill, Haberman, Strohm, Berner & Briken, 2006). Le sostanze ormonali, come i farmaci antiandrogeni (GnRH agonisti), stanno assumendo un ruolo crescente nel trattamento dei sex offender per prevenire il rischio della recidiva criminale.

I trattamenti psicoterapici ad orientamento cognitivo-comportamentale mirano a ridurre la recidiva dei sex offender agendo sulle distorsioni cognitive, sugli atteggiamenti, e sull’autoregolazione sessuale, affettiva, relazionale e cognitiva; mirano a far comprendere al sex offender i motivi ‘profondi’ del proprio comportamento sessuale e i bisogni a cui essi rispondono, e a riprogrammare il comportamento sessuale verso delle modalità più appropriate e socialmente adeguate. Al centro dei programmi di trattamento vi è un lavoro sui pensieri, idee, convinzioni errate sul mondo e su se stessi: il diritto al sesso, la visione ostile del mondo o la convinzione che i bambini non vengano turbati da attività sessuali sono le convinzioni più frequenti che mantengono il ricorso alla violenza sessuale.

Obiettivo del trattamento terapeutico è quello di insegnare al sex offender a riconoscere e rispettare le esigenze e i bisogni dell’altro grazie al recupero della dimensione empatica con la vittima (cfr. Kenworthy, Adams & Bilby, et al. 2004; Hanson, Bourgon, Helmus & Hodgson, 2009; Giulini & Xella, 2011). L’obiettivo fondamentale è il raggiungimento di un cambiamento duraturo dell’assetto cognitivo relativamente al comportamento sessuale, attraverso una ristrutturazione cognitiva e psico-educazionale delle abilità sociali.

Con i sex offender caratterizzati da marcati aspetti di antisocialità e psicopatia si riscontrano particolari difficoltà trattamentali, poiché mostrano forte resistenza al cambiamento e elevato tasso di recidiva nel reato.

Un elemento che si configura come basilare per il buon esito della psicoterapia è il terapeuta stesso, e la relazione che si instaura tra quest’ultimo e il sex offender. L’empatia, il rispetto, il calore e la sincerità, la confidenza e l’interesse verso il sex offender si sono dimostrati fondamentali per una buona riuscita del trattamento. Una relazione terapeuta-paziente proficua è inoltre caratterizzata dalla presenza di comportamenti autorevoli, ma anche dall’ascolto, dall’incoraggiamento e dalla capacità di contenere la frustrazione e l’aggressività del sex offender durante le sedute. La relazione terapeuta-paziente incide fortemente sull’esito della terapia e ne previene l’abbandono del percorso trattamentale.

 

Dolore e attaccamento

Sembra che avere un attaccamento insicuro determini quantomeno una vulnerabilità dell’individuo verso atteggiamenti e comportamenti psico-sociali negativi. Avere un attaccamento insicuro possiamo dire ci faccia mettere degli occhiali che distorcono negativamente il nostro modo di reagire al dolore.

 

Abbiamo già parlato altrove della profonda poliedricità del dolore, che non si può definire solo nella sua componente nocicettiva (sensoriale), bensì riguarda aspetti psicologici complessi (Musci, 2017). Più importante forse è il fatto che il rapporto tra la componente nocicettiva e quella psicologica è bi-direzionale, pertanto se provare dolore influenza certamente il nostro modo di rapportarci al mondo è altrettanto vero che aspetti squisitamente psicologici come la valutazione cognitiva influenzano il nostro modo di percepirlo e affrontarlo. Sempre nello stesso articolo avevamo discusso di aspetti per lo più “interni” all’individuo e relativi alla valutazione del dolore (e a ciò che mette in atto per farvi fronte). Ora affronteremo un argomento che apre il nostro intendere il dolore a dinamiche sociali: l’attaccamento. Si tratta di un fenomeno complesso, ormai ampiamente studiato su molteplici aspetti della vita degli individui, che si radica nella relazione primaria con il caregiver.

Prima però di approfondire il rapporto tra attaccamento e dolore pare necessario accennare in questa sede ad un modello teorico piuttosto recente e comunque ancora ampiamente trascurato soprattutto dal campo clinico psicologico (ed anche medico), che bene si sposa sia con l’interpretazione del dolore sia con lo stesso utilizzo dell’attaccamento come chiave di lettura di alcuni meccanismi messi in atto dall’individuo per interpretare il dolore e fare fronte al dolore; stiamo parlando del modello bio-psico-sociale (Gatchel et al., 2007)

Noi tutti siamo più o meno d’accordo nel pensare alla nostra realtà come determinata dall’interazione tra biologico, psicologico e sociale, tuttavia ci è voluto davvero tanto tempo prima che si prendesse sul serio una tale prospettiva. Per quanto concerne il dolore, è fondamentalmente dagli anni ’90 che si è iniziato a parlare di modello bio-psico-sociale e si è iniziato seriamente a studiarlo solo a partire dall’inizio del millennio. Senza addentrarci troppo nella spiegazione delle singole componenti, che va oltre l’obiettivo di questo articolo, possiamo immaginarci il dolore (o meglio l’esperienza dolorifica), come il frutto di tutto quello che vedete in figura 1.

Figura 1 – Modello bio-psico-sociale

Capite bene che il dolore è quindi qualcosa di diverso rispetto ad una semplice “presenza/assenza” di sintomo dolorifico (nocicezione), è un qualcosa che prende in considerazione fenomeni emotivi, cognitivo/valutativi, affettivi e di risposta allo stress (ricordiamoci che il dolore è la fonte stressogena per antonomasia), insieme a tutto quel bagaglio personale, culturale e sociale che viene racchiuso nel dominio “social” (dove sicuramente ci potrebbero entrare molte altre variabili). Va da sé che questo modello ha delle implicazioni enormi sul modo in cui vediamo il dolore (ma anche la malattia in generale) e quindi a come vi interveniamo clinicamente. Prima di tutto presuppone che ogni soggetto esperisca il dolore in modo diverso rispetto a ogni altra persona (ciò vale per qualsiasi fenomeno mentale), pensate a quante volte vi è capitato di dire “… ha una soglia del dolore diversa della mia”. In questo rientrano tutti quei fenomeni predisponenti o protettivi di cui l’attaccamento è il miglior rappresentante. Secondo, presuppone un ampio (ri)utilizzo delle aree cerebrali soprattutto corticali (dove l’esperienza cosciente prende vita) e terzo presuppone un ampio rapporto di ritrasmissione del segnale e un’ampia dislocazione su più livelli di elaborazione dell’informazione (il dolore è processato a tutti i livelli, dal midollo osseo fino alla corteccia, passando per tronco dell’encefalo e circuito limbico). Questi due ultimi aspetti spiegano perché il dolore è un fenomeno tanto poliedrico e complesso, quanto “antico” e governato da aspetti non coscientemente processati, bensì vissuti in modo automatico e corporeo.

Questo modello ci permette di avere una veduta più ampia circa il dolore, traghettandoci verso la sua interpretazione in termini di fenomeno caleidoscopico, assolutamente unico e determinato anche dal dominio sociale. L’attaccamento si colloca perfettamente nel solco di questa nuova prospettiva dei fenomeni mentali e, secondo il parere di scrive, rappresenta al meglio quel punto di intersezione tra biologico, psicologico e sociale. Al netto delle importanti ripercussioni teoriche e cliniche del sistema di attaccamento, verso le quali rimandiamo ad un altro articolo (Attaccamento e Teoria dell’attaccamento, State of Mind), quello che ci preme sottolineare in questa sede è il fatto che influenza in modo importante il nostro modo di approcciarci al mondo anche da adulti, l’attaccamento diviene il filtro della nostra realtà esterna, ma anche interna, infatti, lo stile di attaccamento influenza il nostro sistema di regolazione cognitiva ed anche la componente metacognitiva (Caselli, Ruggiero, Sassaroli, 2017). Per esempio, chi ha uno stile ansioso dirige l’attenzione costantemente verso i segnali di minaccia (Natural Threat Monitoring – NTM), mentre chi ha uno stile evitante tende a sopprimere gli stimoli minacciosi e vulnerabilità personali (Natural Threat Repressing – NTR) (ibidem).

Sul rapporto tra dolore cronico e attaccamento si sa, tuttavia, ancora poco. Un tentativo per colmare questo gap è stato proposto da Meredith e colleghi (2008) che prima analizzano la letteratura disponibile (che dal 2008 ad oggi non ha fatto tantissimi passi in avanti) e poi propongono un modello teorico di interazione tra dolore e sistema di attaccamento. Presentano il modello Attachment-Diathesis Model of Chronic Pain (ADMoCP) che oltre alla teoria dell’attaccamento attinge anche alla teoria cognitiva della risposta allo stress di Lazarus (1993). Il presupposto è che l’attaccamento influenzi a tutti i livelli gli aspetti primari della valutazione e della risposta (figura 2).

Figura 2 – Modello Attachment-Diathesis Model of Chronic Pain (ADMoCP)

Il dolore è primariamente “filtrato” dal sistema di attaccamento individuale (A) che attiva a sua volta una valutazione cognitiva (B) e una risposta (C). Tutto questo ha un impatto sull’adattamento al dolore (D). Interessante notare come il sistema di attaccamento appaia influenzare direttamente l’adattamento alla situazione e il rapporto che la valutazione cognitiva e la risposta a tale valutazione hanno (insieme) sull’adattamento.

Così il sistema di attaccamento può esacerbare il dolore e favorire aspetti (comportamenti, valutazioni, strategie di coping etc.) in contrasto con le terapie mediche e controllo del dolore (tabella 1). Questi “meccanismi” sono svariati e sono stati aggiornati nell’ultima review proposta dalla stessa autrice (Meredith e Strong, 2019) sul rapporto tra attaccamento e malattia cronica che, tuttavia, si possono quasi completamente integrare rispetto il rapporto con il dolore cronico e rappresentano un’estensione di quanto già proposto da Meredith e colleghi nel 2008.

Tabella 1 – Aspetti connessi al sistema di attaccamento – Tratta da Meredith e Strong 2019

Non ci soffermeremo su ogni aspetto presentato in tabella 1, è sufficiente comprendere come il sistema di attaccamento porta con sé una serie di meccanismi che fanno in modo di controllare (o almeno tentare) i risvolti più negativi della condizione morbosa e algica. L’attaccamento può agire come catalizzatore di strategie negative che conducono ad una peggiore gestione del dolore, un esempio è il catastrofismo che è stato visto sostenere una condizione di dolore cronico, ma anche l’ipervigilanza, l’ipersensibilità che potremmo benissimo inserire nelle strategie di un soggetto NTM oppure la repressione della propria espressività emotiva, l’inibizione delle emozioni e il ritiro dalle relazioni di cura, aspetti che ben rappresentano un soggetto NTR.

In definitiva, avere un attaccamento insicuro determina quantomeno una vulnerabilità dell’individuo verso atteggiamenti e comportamenti psico-sociali negativi. Avere un attaccamento insicuro possiamo dire ci faccia mettere degli occhiali che distorcono negativamente il nostro modo di reagire all’esperienza dolorifica.

Il nostro interesse per il dolore deriva proprio dal fatto che si tratta di un fenomeno che inequivocabilmente è figlio del “lavoro” bio-psico-sociale e dove definire i confini tra questi tre domini è praticamente impossibile. Bene si sposa con il concetto di attaccamento: comprendere che il sistema di adattamento sociale (così pensiamo all’attaccamento) di cui ognuno di noi è equipaggiato (chi meglio, chi peggio) possa essere uno dei modi per valutare come ogni individuo risponde al dolore è sicuramente uno strumento clinico prezioso. Sempre di più bisogna fare affinché l’attaccamento venga studiato nei reparti ospedalieri, perché sembrerebbe essere la base sulla quale si instaura la relazione terapeutica e quindi anche l’aderenza alle terapie, ma non solo, interagirebbe su tutti quegli aspetti che promuovono il benessere individuale (comportamenti, valutazioni, interazioni sociali, strategie di coping etc.). Se ciò non bastasse, l’attaccamento appare influenzare “direttamente” la percezione del dolore, per esempio aumentandone la sensibilità individuale. In definitiva, il dolore, nel suo essere una “sensazione” ancestrale, disponibile ai livelli più primordiali di evoluzione (addirittura negli invertebrati) si è evoluto nell’essere umano in modo peculiare, mantiene il suo “scopo” originario, quello di farci scappare o rispondere ad una minaccia, ma raccoglie in più caratteristiche cognitive, emotive, affettive e sociali complesse (come l’attaccamento) che rendono il dolore non più “nocicezione” bensì “esperienza dolorifica”.

 

Psicologo e psicoterapeuta: quali differenze? – Il progetto di presa in carico individualizzato

Qual è la differenza tra psicologo e psicoterapeuta? Purtroppo ancora oggi si fa molta confusione rispetto alle competenze specifiche dello psicologo e dello psicoterapeuta, e spesso da tale confusione non sono immuni gli stessi professionisti psicologi e psicoterapeuti, soprattutto se alle prime armi.

 

Talvolta andare a rivedere i confini tra l’attività psicologica e quella psicoterapeutica, non può che far bene, specie nell’ottica di andare a rinsaldare i criteri che fondano la validità di una teoria scientifica della cura.

In ambito legislativo la legge 56 del 18/02/1989, composta da 38 articoli, definisce l’identità professionale dello psicologo:

La professione di psicologo comprende l’uso degli strumenti conoscitivi e di intervento per la prevenzione, la diagnosi, le attività di abilitazione-riabilitazione e di sostegno in ambito psicologico rivolte alla persona, al gruppo, agli organismi sociali e alle comunità. Comprende altresì le attività di sperimentazione, ricerca e didattica in tale ambito.

Mentre l’articolo 3, dice dell’attività psicoterapeutica:

1. L’esercizio dell’attività psicoterapeutica è subordinato ad una specifica formazione professionale, da acquisirsi, dopo il conseguimento della laurea in psicologia o in medicina e chirurgia, mediante corsi di specializzazione almeno quadriennali che prevedano adeguata formazione e addestramento in psicoterapia, attivati ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 10 marzo 1982, n. 162, presso scuole di specializzazione universitaria o presso istituti a tal fine riconosciuti con le procedure di cui all’articolo 3 del citato decreto del Presidente della Repubblica. 

2. Agli psicoterapeuti non medici è vietato ogni intervento di competenza esclusiva della professione medica.

3. Previo consenso del paziente, lo psicoterapeuta e il medico curante sono tenuti alla reciproca informazione.

Sintentizzando i sopracitati articoli è possibile definire l’attività psicologica entro interventi abilitativi, riabilitativi e di sostegno psicologico, nonché diagnostici, ma non curativi, tale tipo di intervento rientra nelle competenze dello psicologo e psicoterapeuta o del medico psicoterapeuta. Lo psicologo può muoversi, pur con ampi spazi e con una specificità professionale, in ambito valutativo, abilitativo, riabilitativo e di sostegno, ma quando nella sua attività si trova di fronte ad “una malattia” (psicopatologia, o disturbo ecc – diagnosticata secondo i criteri dei manuali riconosciuti e validati scientificamente come ad esempio DSM e PDM) la competenza passa allo psicoterapeuta.

La psicoterapia deve essere considerata come “la risposta clinica esperta” ad una malattia. La psicoterapia è un’area di intervento con finalità di cura dove coesistono esclusivamente due figure sanitarie diverse: psicologo e medico con specifica preparazione. Ancora, la psicoterapia è un approccio scientifico alla cura della patologia, del disturbo e del disagio mentale.

L’obiettivo in qualsiasi fase del processo, prima diagnostico, dopo terapeutico deve essere sempre il raggiungimento di un maggior grado di benessere da parte del paziente. Pensare di lavorare senza delle “linee guida” appunto metodologiche, ma anche teoriche, senza aver ben chiara una prassi e delle procedure, senza padroneggiare e conoscere bene gli strumenti, compresi noi stessi, senza contestualizzare l’intervento, senza dunque un’analisi della domanda ben fatta, una buona raccolta anamnestica e senza l’aiuto di strumenti ad hoc, non può che condurci in una direzione ben lontana dall’aiuto della persona che abbiamo di fronte. Inoltre avere una cornice definita (dagli elementi sopracitati) non può che tutelarci come professionisti. Andare “a braccio” nel lavoro terapeutico, senza aver prima fatto un percorso diagnostico, senza aver stilato un progetto terapeutico e senza averlo condiviso, con il paziente (in linguaggio comprensibile), può essere molto pericoloso, sia perché ci allontana dalla deontologia della nostra professione, sia perché rischia di mettere in pericolo la salute della persona che in quel momento chiede di essere aiutata. Tutto ciò deve peraltro permetterci di non dimenticare l’importanza del nostro buon senso e della nostra persona, nella sua totalità, perché il tutto si inscrive all’interno di una relazione, che seppur protetta da regole e da un setting, nonché dall’asimmetria dei ruoli, deve fare i conti con le emozioni che entrano in gioco e con la “chimica” delle personalità. Facile a dirsi, molto complicato nella pratica, ma di fatto un buon professionista sa, che per le ragioni sopracitate, sia di ordine professionale che personale e sia per un mix delle stesse, non può pensare di poter prendere in carico indistintamente tutte le persone che si presenteranno a lui/lei con una richiesta d’aiuto. Ecco perché è fondamentale una buona conoscenza di sé e dunque anche aver svolto un buon percorso di analisi personale nonché la possibilità di contare su una buona supervisione.

In sostanza, nel corso dei primi colloqui lo psicoterapeuta compie una serie di valutazioni, tanto sul paziente quanto su di sé: valutazioni diagnostiche (con implicazioni relative); valutazioni relative la possibilità di intraprendere un lavoro terapeutico con quel paziente; valutazioni, infine, legate alla stesura del progetto terapeutico (es: che obiettivi mi devo prefiggere di raggiungere? Quali sono le priorità? Quali i punti di forza? Quali i punti di debolezza ? Quali i rischi? ecc. Assumersi l’onere di tutte queste valutazioni preliminari significa già muoversi nell’ottica di un progetto terapeutico, seppur passibile di revisione in corso d’opera, (quando tali valutazioni vengano approfondite o modificate). Ciò che definisce il progetto terapeutico rientra grossomodo nelle aspettative del terapeuta rispetto la possibilità di aiutare quella persona e nel suo modo di realizzarle: con quali mezzi, attraverso quali fasi, entro quali limiti? ecc. Il progetto terapeutico è un atto di somma importanza nella prassi del terapeuta e nonostante ciò molto spesso se ne trascura il rilievo dal punto di vista sia teorico che clinico. Probabilmente questa è stata un’eredità lasciata dagli psicoanalisti più ortodossi che hanno in qualche modo fatto resistenza per lungo tempo rispetto al concetto, ma anche all’implicazione nella prassi clinica del progetto terapeutico. Ciò può anche non stupire, dato un certo modo d’intendere l’analisi classica, però stupisce il fatto che di “progetto” non si parli neppure in molti manuali di psicoterapia e non solo inerenti l’approccio dinamico.

La parola “progetto” fa pensare ad architetti e ingegneri: un mix di gusto e di tecnologia. In funzione di che? Qualcosa da costruire. Ora, nel campo psicoterapeutico, probabilmente non si tratta tanto di costruire “nuove strutture” per il paziente, così come fa l’architetto per il cliente, o per lo meno non solo, bensì di “decostruire” vecchie modalità ripetitive insieme con lui; affinché egli sia libero di riutilizzare le forze così ritrovate come meglio crede. Ogni ambizione diversa da questa, ogni tentazione di riprogettare la personalità del paziente secondo le preferenze del terapeuta resta da evitare.

Fra i contributi recenti sulla nozione di “progetto terapeutico” molto interessante è l’articolo di Giovanni Foresti e Mario Rossi Monti (2002) che, mutuando la nozione di visioning dalla psicologia dell’organizzazione, propongono l’idea di un “visioning clinico” come terreno sul quale soltanto può fiorire un progetto efficace. Nella sfera delle organizzazioni sociali, per es. un’azienda, il termine vision connota la “visione d’insieme” costituita (a) dalla mission e (b) dalla strategia da seguire per realizzarla; al contempo, col termine visioning s’intende il lavoro comune proteso (A) all’aggiornamento permanente della vision, con tutte le verifiche che si rendono necessarie e tutte le revisioni che le verifiche suggeriscono, e (B) a fare di tutto ciò un patrimonio di esperienze, idee e valori profondamente condiviso da tutti i soggetti interessati. Dunque riprendendo il concetto di vision di Foresti e Rossi Monti è possibile intuire come possa esistere anche un visioning clinico di competenza del terapeuta. Questi deve infatti preoccuparsi di tenere viva nella mente e nell’azione «una rappresentazione complessa del paziente, sottoposta a continua verifica e ri-orientata sulla base dei risultati dell’intervento». Di fatto nell’impostazione operazionalizzata del DSM-5, così come nella diffusione crescente di guidelines e protocolli standardizzati (pur utili), l’oggettivazione del sintomo rischia di produrre una pratica terapeutica alquanto rigida, che consegue meccanicamente dalla diagnosi. Un vero“progetto terapeutico”, dovrebbe essere concepito sulla misura del paziente ed evolvere con lui. La lettura Esercizi di Visioning di Giovanni Foresti e Mario Rossi Monti è decisamente di tipo prospettico, intendendo con questo termine la capacità-necessità di “vedere in avanti”, in senso anticipatorio, ovvero di calibrare-dosare il cambiamento in riferimento a tutte le variabili in gioco, che devono essere ben chiare nel progetto terapeutico. In definitiva, considerando il progetto terapeutico come una componente fondamentale del visioning clinico c’è da fare qualche considerazione conclusiva:

A fianco delle categorie nosografiche è raccomandabile per il buon esito della psicoterapia l’adozione di strumenti mutuati dalla psicoanalisi, dalle teorie psicodinamiche: come l’esplorazione e la comprensione del mondo interno del paziente quale si manifesta nella relazione terapeutica e la messa in evidenza del vissuto soggettivo a monte del sintomo osservabile (sintomo che, rispetto ad esso, costituisce già una forma di coping). Inoltre per meglio legare diagnosi e progetto, le categorie fornite dal PDM sono forse più utili di quelle fornite dal DSM. Infatti: rispetto agli assi diagnostici del DSM-5 (che non sono vere “dimensioni” di una descrizione complessiva, ma piuttosto degli elenchi relativamente indipendenti l’uno dall’altro e non tutti egualmente significativi per ogni paziente), gli assi diagnostici del PDM costituiscono dimensioni ineludibili ed effettive di una descrizione unitaria, che non ignora il “vissuto soggettivo”.

Riabilitazione delle ADL nella demenza: il Procedural Memory Training

Il Procedural Memory Training (PMT; Zanetti et al., 1997) è un intervento di stimolazione cognitiva che agisce sulla memoria procedurale, finalizzato alla ricostruzione delle sequenze motorie che costituiscono i comportamenti oggetto di addestramento.

 

Il Disturbo Neurocognitivo Maggiore (DNC) è una patologia acquisita, cronica, progressiva e irreversibile caratterizzata principalmente da declino cognitivo, dapprima funzione-specifico e poi di tipo globale, accompagnato con l’aggravarsi del quadro clinico da disturbi del comportamento e perdita delle autonomie funzionali.

Con autonomia funzionale si intende la capacità della persona di soddisfare i propri bisogni, portando a termine in maniera indipendente le diverse attività che caratterizzano la quotidianità.

Generalmente si possono distinguere le Basic Activities of Daily Living (ADL, attività di vita quotidiana; Pezzuti et al., 2008) dalle Instrumental Activities of Daily Living (IADL, attività strumentali di vita quotidiana; Laicardi et al., 1998).

Attività di vita quotidiana (ADL) e attività strumentali di vita quotidiana (IADL)

Le IADL sono un insieme di abilità e competenze che necessitano di una pianificazione delle azioni, implicando, dunque, l’utilizzo delle funzioni esecutive, processi cognitivi di alto livello localizzati in sede frontale. Esse risultano necessarie per gestire e utilizzare ad esempio i mezzi di comunicazione, i mezzi pubblici, il denaro e i farmaci oltre che per fare acquisti e preparare i pasti. La compromissione di queste abilità è, nella maggior parte dei casi, il primo campanello d’allarme della presenza di un cambiamento cognitivo e caratterizza lo stadio lieve di malattia.

Le ADL, invece, sono tutte quelle attività volte ad accudire sé stessi come ad esempio lavarsi, vestirsi, mangiare, provvedere all’igiene personale e ai bisogni corporali (Katz et al., 1970). Esse sono procedure e abilità che vengono apprese in maniera volontaria nell’infanzia e che con la pratica divengono automatiche, facendo capo alla memoria procedurale. Come è noto, questo sistema di memoria viene preservato fino a stadi avanzati di malattia in quanto non necessita di risorse cognitive.

Inoltre, è interessante riscontrare come vi sia una perdita gerarchica delle ADL dipendente dalla sequenza con cui vengono apprese le attività in questione: le abilità più precocemente acquisite sono quelle che si preservano più a lungo. Limitazioni motorie a parte, è più probabile che si presenti prima una difficoltà a vestirsi o a lavarsi autonomamente e solo successivamente ad alimentarsi.

Generalmente, ADL e IADL vengono valutate attraverso questionari o interviste che chiedono all’anziano o al caregiver di riferimento di giudicare il grado di autonomia nei vari domini funzionali.

Il Procedural Memory Training (PMT)

Spesso il caregiver, praticando inconsapevolmente la Psicologia Sociale Maligna (Kitwood, 1997), tende ad accelerare la perdita delle autonomie funzionali dell’anziano attraverso pratiche di cura standardizzate che rispondono ad esigenze organizzative piuttosto che ai bisogni dell’anziano.

Una pratica comune è per esempio il sostituirsi all’anziano, velocizzando così le attività e contribuendo alla perdita dell’automatismo di certe azioni. Risulta, dunque, necessario rendere consapevoli i carevigers delle conseguenze di questa modalità di approccio e prendere in considerazione l’utilizzo di programmi di riabilitazione delle ADL, come ad esempio il Procedural Memory Training (PMT; Zanetti et al., 1997).

Esso è un intervento di stimolazione cognitiva che agisce sulla memoria procedurale, finalizzato alla ricostruzione delle sequenze motorie che costituiscono i comportamenti oggetto di addestramento.

Alla base della riabilitazione vi sono tecniche di modificazione del comportamento e apprendimento quali il modellamento, il prompting e fading, lo shaping (o modellaggio) e il concatenamento (o chaining).

Il modellamento, teorizzato da Bandura (1972), consiste nella promozione di esperienze di apprendimento attraverso la semplice osservazione e imitazione del comportamento messo in atto, in questo caso, dal riabilitatore.

Prompting e fading sono due fasi di un’unica metodologia che prevede in primo luogo l’offerta, nel momento esatto in cui dovrebbe verificarsi la prestazione, di uno stimolo-aiuto che promuovi l’avvio dell’azione (es. suggerimento verbale, indicazione gestuale, guida fisica) e in un secondo momento la progressiva riduzione di questi aiuti per favorirne l’acquisizione.

Lo shaping è, invece, una tecnica che permette di ampliare il repertorio del soggetto, rinforzando tutti quei comportamenti che si avvicinano progressivamente a quello desiderato.

Infine, il concatenamento è una strategia, usata per le abilità più complesse, che consiste nel suddividere l’abilità in componenti e, seguendo una catena comportamentale, nel rinforzare il loro corretto ordine di esecuzione.

Una volta identificate le abilità residue e compromesse dell’anziano e selezionata l’attività che si intende riabilitare, è necessario stabilire obiettivi raggiungibili per il partecipante, incrementando così il suo senso di padronanza e autoefficacia.

Essendo presente una forte variabilità intra- e interindividuale, sarà necessario procedere per prove ed errori, individuando così la tecnica di apprendimento più adatta all’anziano. Nel caso dell’ADL ‘mangiare’ ad esempio, c’è chi verrà abilitato tramite la sola osservazione del riabilitatore che simula l’azione in questione e chi, invece, per mezzo di suggerimenti, per esempio posizionandogli la posata nella mano.

Vantaggi e svantaggi

Un intervento come il Procedural Memory Training permette, dunque, il mantenimento delle ADL, rallentando così il grado di dipendenza dell’anziano e aumentandone la qualità di vita.

In condizioni di istituzionalizzazione, indubbiamente è una pratica che richiede notevoli tempi di assistenza per ogni ospite per cui potrebbe non essere gradita dagli operatori in quanto costituirebbe un ostacolo alla loro tabella di marcia. D’altra parte, però, nonostante questo sacrificio iniziale, le richieste di assistenza da parte dei malati si ridurrebbero, con conseguente minore carico assistenziale.

Nel contesto domiciliare, la pratica del PMT da parte del familiare potrebbe avere risvolti positivi non solo in termini assistenziali ma anche relazionali.

Il lato non razionale dei mercati finanziari: i principali bias degli investitori

Si tende a pensare che nel campo dei mercati finanziari gli individui tendano ad essere estremamente razionali, ma la maggior parte degli studi ha fornito una prova dell’esistenza di bias che influenzano gli investitori durante i processi decisionali.

 

Lo studio dei mercati finanziari, nel corso del tempo, ha dato origine a molteplici visioni che, nella maggior parte dei casi, hanno sempre avuto una connotazione comune: sostenevano il principio della “completa razionalità dell’individuo”. Difatti, secondo le teorie economiche standard, l’uomo, sulla base del suo facile accesso ad una perfetta informazione e, possedendo un sistema completo di preferenze, riesce a scegliere autonomamente gli strumenti più adeguati a perseguire i suoi interessi. Ma, all’interno dei mercati finanziari, spesso si osservano delle anomalie che non è possibile spiegare in maniera razionale. È proprio sulla base di tale presupposto che, in tempi non troppo recenti, si è sviluppata la disciplina dell’economia comportamentale, quella

branca dell’economia che descrive i fenomeni finanziari applicandovi gli elementi psicologici, ovvero quei tratti umani che influenzano sistematicamente le decisioni individuali e gli esiti del mercato. (Thaler, 2020)

Attraverso una revisione sistematica della letteratura inerente alla suddetta disciplina, alcuni ricercatori si sono proposti di indagare e descrivere i principali pregiudizi, o bias, in cui incorrono gli investitori durante il loro processo decisionale.

Per assolvere a tale obiettivo, nel corso di un anno, gli autori hanno raccolto differenti studi inerenti al tema, pubblicati a partire dal 1974 fino al 2019.

Prospect theory: decision making under risk è da considerarsi la pietra miliare nello sviluppo dell’economia comportamentale, in quanto illustra il processo decisionale degli investitori dinanzi a situazioni di rischio. In questo documento, Kahneman e Tversky (1979) hanno introdotto il concetto di “teoria del prospetto”, secondo cui gli investitori, dinanzi a differenti alternative che comportano un rischio, propendano verso le opzioni che garantiscano loro un esito certo.

Fu nell’anno successivo che Thaler illustrò come, durante il processo decisionale, gli investitori siano influenzati da alcuni pregiudizi che spesso conducono a scelte non ottimali. Difatti, in tempi più recenti, sono stati gli stessi studi nell’ambito della neurofinanza a confermare che le emozioni influenzano la cognizione e, di conseguenza, le decisioni prese dagli agenti economici sono tutto fuorché razionali, così come sostenuto dalle teorie della finanza tradizionale (Shukla, Rushdi & Katiyar, 2020).

Essere a conoscenza dei profili dei CEO e, conseguentemente, dei bias a cui son soggetti più frequentemente, potrebbe aiutare a prevedere eventi aziendali, siano essi fusioni o acquisizioni, frazionamenti o offerte di titoli (Subrahmanyam, 2008).

Shukla, Rushdi e Katiyar (2020) hanno dunque proposto i sette bias principali che interferiscono con il processo decisionale degli investitori.

L’overconfidence è stata definita come una sovrastima, da parte dei trader, delle proprie capacità di prevedere gli eventi del mercato che, inevitabilmente, si riflette sul comportamento e sulle scelte dei singoli. Difatti, si è visto come gli investitori troppo sicuri di sé tendono a sottovalutare i rischi delle loro operazioni (Odean, 1998) o ad aumentare i processi di negoziazione (Denves et al., 2008).

In posizione diametralmente opposta rispetto all’eccesso di fiducia, vi è l’effetto gregge, ovvero la tendenza degli individui a seguire le decisioni e i comportamenti altrui. È stato dimostrato come, in ambito finanziario, ciò si verifichi sia nei trend a rialzo che a ribasso (Choi, 2016).

Talvolta, soprattutto in periodi di crisi, quando l’investitore ha un maggior bisogno di liquidità, tende a vendere i titoli in crescita, ovvero quegli investimenti che hanno guadagnato valore, e a trattenere le perdite, ovvero quelle attività che hanno perso valore (Weber et al., 1998). Generalmente si tende a mantenere una perdita nella speranza di recuperare con una futura ripresa del titolo (Il Sole 24 Ore, 9 Aprile 2014). Questa tendenza è stata definita effetto disposizione.

L’euristica o effetto ancoraggio fu una delle prime distorsioni ad essere descritta da Kahnemann e Tversky (1974). Quando agli individui vien chiesto di effettuare delle valutazioni quantitative, le loro stime vengono generalmente influenzate da determinati valori iniziali disponibili (Shiller, 1999). Dodonova (2009) ha osservato che le persone generalmente utilizzano l’ancoraggio per giudicare ciò che vogliono acquistare.

A differenza di quanto ipotizzato dalla letteratura, inoltre, gli investitori sono fortemente avversi alle perdite (Hwang et al., 2010). È stato osservato come, quando sperimentano un ribasso, essi soffrono di più di quanto non gioiscano quando realizzano un guadagno equivalente. Il bias di avversione alla perdita è stato riscontrato prevalentemente in gruppi di investitori con un’età tra i 41 e i 55 anni e tra le donne (Arora et al., 2015).

Il mental accounting è stato definito come

l’insieme delle operazioni mentali utilizzate da individui e famiglie per organizzare, valutare e monitorare delle transazioni finanziarie. (Thaler, 1999, p. 183)

Dunque, i singoli tendono a classificare e ad utilizzare in maniera differente gli utili, sulla base della loro tipologia. Barberis et al. (2003) hanno spiegato che la contabilità mentale consente agli investitori di organizzare il proprio portafoglio in vari conti separati. Gli investitori che sono influenzati da pregiudizi di contabilità mentale generalmente trattano ogni elemento del loro portafoglio separatamente invece di analizzarne la totalità (Agnew, 2006).

Infine, tra i principali bias degli investitori vi è la rappresentatività, ovvero quella scorciatoia mentale definibile come un’eccessiva fiducia negli stereotipi (Shefrin, 2008). Secondo Thaler e Sunstein (2008),

nello stimare la probabilità che A aderisca alla categoria B, gli individui si domandano quanto A sia simile al prototipo che hanno di B. (Thaler & Sunstein, 2008, p. 34)

Durante il processo di elaborazione di nuove informazioni, dunque, alcuni investitori elaborano risultati che si riverberano sui propri schemi preesistenti (Pompian, 2017).

Concludendo, la maggior parte degli studi presi in esame ha fornito una prova dell’esistenza dei pregiudizi che influenzano gli investitori durante i processi decisionali. Sulla base di questa revisione, è stato messo in luce come la finanza comportamentale offra un modello basato sugli assunti psicologici per spiegare le anomalie che si verificano all’interno dei mercati finanziari. Questo campo liberalizza i presupposti di razionalità presenti nelle teorie economiche standard e illustra come gli investitori non siano agenti razionali, ma “subiscano” – inevitabilmente – l’influenza dei propri bias.

 

Aspetti dimensionali nei disturbi di personalità: la disregolazione emotiva, analisi ed interventi – VIDEO

Studi Cognitivi Modena ha tenuto un incontro che permette di approfondire dettagliatamente la disregolazione emotiva nel contesto dei disturbi di personalità. Pubblichiamo per i nostri lettori il video dell’evento.

 

La disregolazione emotiva risulta presente in molti disturbi psichiatrici e di personalità dell’adulto. Le aree neurologiche connesse a tale dimensione riguardano la corteccia prefrontale cingolo anteriore e l’amigdala.

Nello stato di disregolazione emotiva emerge, infatti, una prolungata attivazione dell’amigdala a stimoli emotivi e ridotta attivazione della corteccia prefrontale durante l’elaborazione di stimoli emotivi negativi. Da un punto di vista clinico vengono evidenziati cambiamenti delle attivazioni e funzionalità dell’amigdala e della corteccia, dopo interventi dialettico-comportamentali.

Nel corso della serata del 26 maggio 2020, le relatrici, la Dott.ssa Alessandra Brugnoni e la Dott.ssa Antonella Gemelli, hanno approfondito il tema della difficoltà a regolare le emozioni, con particolare attenzione ai correlati neurofunzionali e agli effetti su questi di interventi psicoterapeutici dialettico comportamentali (terapie evidence based).

 

Aspetti dimensionali nei disturbi di personalità:
la disregolazione emotiva, analisi ed interventi

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Monogamia e tradimenti: La stabilità di una storia d’amore – Una serie di Roberto Lorenzini

Oggi pubblichiamo il settimo lavoro della serie di Roberto Lorenzini, dedicata al tema della monogamia e delle sue implicazioni psicologiche, affettive, relazionali e, perché no, sessuali. Lorenzini propone una tesi forte: la monogamia non funziona. E prosegue il suo racconto esplorando lo sviluppo della vicenda amorosa e in particolare la fase stabile dell’amore.

MONOGAMIA E TRADIMENTI – (Nr. 7.2) La stabilità di una storia d’amore

 

7.2 La stabilità di una storia d’amore

Identità e amore: durante il corso dell’esistenza la nostra identità è stabile e mutevole ad un tempo e per tale motivo possiamo sempre temere di smarrirla e avere il bisogno di confermarla. Il nucleo centrale stabile dell’identità si definisce in relazione con gli altri in almeno due significati.

Il primo, più banale ci fa descrivere come “il figlio di … ”, “l’amico di … ”, “il compagno di … ”, “il padre di … ”.

Il secondo è più importante e significa che gli altri sono i testimoni e gli specchi che ci restituiscono l’idea di chi siamo. Anzi, per la precisione, all’inizio della nostra esistenza l’identità che ci costruiamo si modella sull’immagine che ci rimandano i nostri genitori. È nei loro occhi che scopriamo chi siamo e, se per un motivo o per un altro, non siamo visti la base stessa dell’identità sarà minata. Chiediamoci cosa si intenda esattamente per identità attraverso due situazioni concrete sperimentate da tutti.

La prima. Quando dico che resto me stesso nonostante il mio corpo e il mio modo di vedere il mondo (dunque la mia mente) cambino, cosa significa effettivamente? E da dove viene la sensazione di essere ancora e sempre “io” ancorché irriconoscibile per i miei compagni di liceo?

La seconda. Quando diciamo alla persona amata che continueremo ad amarla qualsiasi cambiamento avvenga in lei, vogliamo semplicemente essere galanti, ma sappiamo di ingannarla o ci crediamo davvero? E, in questo secondo caso, abbiamo ragione o ci stiamo sbagliando? Insomma, il tema è appunto la stabilità dell’identità dei soggetti (che sia l’”io” o il “tu”) nonostante il modificarsi delle loro caratteristiche. Iniziamo da questo secondo problema. È evidente che quando scegliamo una persona come possibile nostro partner lo facciamo sulla base di una serie di caratteristiche che ci piacciono in quanto presumiamo soddisfino i nostri scopi. Sono esattamente i suoi attributi a spingerci ad avvicinarci a lui piuttosto che a qualcun altro. L’altro è esattamente la sommatoria delle sue caratteristiche, doti, peculiarità e null’altro, non c’è un “tu” sostanziale che li trascende. Nel corso dell’esistenza succede in genere che molte persone che incontriamo abbiano un pacchetto di doti estremamente interessante creando i conflitti, a tutti noti, sulla scelta del partner. Purtroppo, non è possibile montarsi un puzzle perfetto prendendo un po’ di qua e un po’ di là, sebbene sia nella fantasia di molti poterlo fare (Mitchell, 2003).

Dopo questa iniziale fase di scelta inizia la relazione che si dipana nel tempo. Durante questo periodo si scoprono in genere nuovi aspetti dell’altro, alcuni graditi ed altri meno. Contemporaneamente alcune delle caratteristiche originali che avevano determinato la scelta vengono perdute. Il costituire una novità e l’essere imprevedibile cessano e l’altro diventa più scontato e consueto, la bellezza e la prestanza fisica sono tutte caratteristiche che tendono ad attenuarsi col tempo per non considerare cambiamenti bruschi e imprevisti derivanti da malattie, incidenti e contingenze negative d’ogni sorta. Insomma, in linea di massima l’altro peggiora ai nostri occhi e noi ai suoi. Eppure almeno parzialmente in buona fede affermiamo che l’altro è il nostro “Tu” (con la “T” maiuscola) e non lo sostituiremmo con nessuno anche se vistosamente cambiato.

Cosa è dunque che ci fa persistere nella relazione con un soggetto che se incontrassimo adesso non sceglieremmo assolutamente e che non ha più gran parte delle caratteristiche che ce lo avevano fatto preferire? Per certi versi entra in gioco il cosiddetto “bias dei costi sommersi” per cui il valore di un certo oggetto è dato dalla somma del suo valore reale aumentato delle risorse che vi abbiamo investito per cui è difficile abbandonare imprese su cui si è speso molto anche quando si mostrano chiaramente fallimentari (questa trappola spesso mantiene situazioni di grande sofferenza e addirittura pericolose) (Kanheman, 2011). Ma c’è qualcosa di più. L’altro è diventato il testimone di noi stessi, di chi siamo, è lo specchio fedele che ci rimanda la nostra identità. Non c’entra molto etimologicamente con il termine “riconoscenza”, ma è attraverso lui che riconosciamo noi stessi. E’ questo che ce lo rende prezioso normalmente e, al contrario, odiosissimo quando viviamo una conversione radicale o una rivoluzione kunhiana della nostra identità (Khun, 1962), perché ci ricorda come eravamo e non siamo più (a volte si evitano le persone che ci hanno aiutato nei momenti di grave difficoltà proprio perché ci ricordano il nostro essere stati bisognosi). Questa funzione dell’altro rimanda al primo problema e cioè come facciamo a riconoscerci e ad affermare che siamo gli stessi di 40 anni fa nonostante il fisico e la mente siano radicalmente cambiati. L’unico invariante è che restiamo i protagonisti di quella storia che ci narriamo continuamente come la “nostra storia”, non importa quanto effettivamente corrispondente alla realtà. È  il sé mnemonico ad essere il sostegno dell’identità e suoi indispensabili complici sono quegli interlocutori che scegliamo come testimoni privilegiati che proprio per questo sono tanto importanti e non vogliamo perdere. Ci reggono il gioco nel credere di essere quello che ci piace credere di essere. Questo val bene l’impegno di non lasciarli mai, qualsiasi cosa accada nella buona e nella cattiva sorte e siamo pronti a ricambiarli con la stessa moneta. Siamo specchi gli uni per gli altri e, come il famoso specchio della regina, ci diciamo quello che vogliamo sentirci dire, che siamo i più belli del reame, che Biancaneve è brutta e antipatica e, contemporaneamente, fuggiamo o puniamo chi accenna a dire che il re è nudo (Recalcati, 2014).

In sintesi, se l’innamoramento con la sua passionalità ed esclusività rappresenta la spinta alla procreazione, l’amore è connesso soprattutto con l’identità e privilegia la durata rispetto all’intensità ed è evolutivamente importante per l’allevamento della prole (Zeki, 2007).

 

Curare l’insonnia senza farmaci. Metodi di valutazione e intervento cognitivo-comportamentale (2015) di Devoto e Violani – Recensione del libro

Curare l’insonnia senza farmaci è uno di quei libri che non deve mancare nella libreria di un professionista della salute mentale.

Pizzo Denise – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Mestre

 

Edito da Carocci Faber, questo libro scritto a quattro mani da Alessandra Devoto e da Cristiano Violani, entrambi psicologi e docenti, esperti in valutazione e trattamento dei disturbi del sonno, è un manuale specialistico rivolto a psicologi clinici e psicoterapeuti che desiderano una guida valida ed efficace per valutare e trattare l’insonnia, in ottica CBT.

Molto spesso accade che nei nostri studi vengano pazienti che lamentano problematiche legate al sonno. Grazie a questo manuale è possibile comprendere la natura dell’insonnia e in quali casi il trattamento CBT-I è indicato.

La Cognitive Behavioral Therapy for Insomnia (CBT- I) è un protocollo breve indicato per il trattamento non farmacologico dell’insonnia primaria e cronica.

Il volume si articola in sei capitoli, in cui si affrontano in modo chiaro, saliente e ordinato le tematiche relative all’insonnia. Nel testo non vengono esemplificati casi clinici o resoconti di protocolli; il linguaggio è specialistico ma scorrevole.

Nel primo capitolo vengono definiti i criteri etiologici per la valutazione dell’insonnia. Dopo un’attenta e puntuale definizione di ‘insonnia’, secondo le classificazioni internazionali dei disturbi del sonno (ASDA, 1990, 1997, 2005, rispettivamente ICSD, ICSD-R, ICSD-2), curate dall’American Sleep Disorders Association (ASDA), gli autori si apprestano a distinguere i diversi tipi di insonnia; sottolineando l’importanza del trattamento cognitivo- comportamentale per chi lamenta insonnia primaria e cronica. L’insonnia è considerata cronica o persistente quando dura da almeno un mese (DSM- IV- TR, 2000), e, più tipicamente, per sei mesi e oltre (ISCD-R, ASDA, 1997). Vengono ben descritti e quantificati anche i diversi parametri necessari per un’attenta valutazione dell’insonnia. Nello specifico, il Sleep Onset Latency (SOL) o latenza di addormentamento e il Wakefulness After Sleep Onset (WASO) o quantità di veglia intranotturna. L’insonnia con difficoltà di addormentamento e quella con difficoltà di mantenimento del sonno vengono rispettivamente definiti da SOL e/o WASO superiore ai 30 minuti. Il risveglio precoce è definito come tale quando è caratterizzato da: un risveglio anticipato di più di 30 minuti rispetto a quanto desiderato, la presenza di un tempo totale di sonno minore di 6-6,5 ore. La durata del sonno non rientra tra i parametri quantitativi da considerare: in quanto varia fortemente in funzione dell’età e delle differenze individuali. Una misura utile per la valutazione dell’insonnia è l’Indice di Efficienza del Sonno (IES) corrispondente al rapporto tra Tempo Totale di Sonno (TTS) e Tempo Totale di Letto (TTL) moltiplicato per 100. Uno IES inferiore all’85% è considerato indicativo di problemi di insonnia, infatti, tipicamente gli insonni tendono a stare molto tempo a letto, anche se svegli.

Gli autori distinguono poi l’insonnia primaria dall’insonnia secondaria: in quest’ultima il disturbo del sonno è etiologicamente dipendente da un’altra condizione medica o psichiatrica sottostante. Vengono elencate e ben descritte poi le cinque categorie di insonnie primarie, secondo la tassonomia definita dall’ICSD-2 (ASDA, 2005): disturbo da insonnia da adattamento (o insonnia situazionale/transitoria/acuta), insonnia psicofisiologica, insonnia soggettiva (o insonnia paradossale/da mispercezione del sonno o pseudoinsonnia), insonnia da inadeguata igiene del sonno, insonnia idiopatica. Tra le insonnie secondarie, particolare attenzione va data all’insomnia rebound determinata dalla sospensione dei sedativi ipnotici o ansiolitici. In questo caso, il paziente si trova in un vero e proprio ‘vicolo cieco’: con l’uso prolungato del farmaco si sviluppa tolleranza e dunque il paziente sarà portato ad aumentare il dosaggio per ottenere gli effetti terapeutici iniziali; una volta raggiunto il massimo dosaggio, questo non funziona più, perciò il paziente dismetterà il farmaco (ormai inutile) e questo causerà un peggioramento transitorio delle difficoltà di sonno con la conseguenza finale di riassumere il farmaco. È importante rassicurare il paziente circa la natura transitoria degli effetti della sospensione del farmaco.

Nel secondo capitolo vengono descritti minuziosamente i modelli teorici principali che attivano e mantengono l’insonnia. Da cosa dipende l’insonnia? Gli autori descrivono sia i meccanismi patofisiologici che quelli psicologici, andando a offrire una cornice esplicativa integrata dell’insonnia primaria. All’insorgenza dell’insonnia contribuiscono i fattori genetici e familiari: in particolare, dell’insonnia idiopatica, a insorgenza infantile (Hauri, Olmstead, 1980; Bastien, Morin, 2000). Secondo la ricerca empirica, anche l’iperarousal gioca un ruolo importante nella determinazione dell’insonnia primaria. Lo stato di eccessiva attivazione cronica del sistema nervoso centrale e/o del sistema nervoso autonomo causa problematiche relative al sonno (Perlis et al., 1997; Bonnet, Arandt, 1998), manifestandosi come arousal corticale, arousal autonomo e come arousal cognitivo- emotivo. I vari tipi di arousal vengono rilevati con strumentazioni apposite: rispettivamente, misure elettroencefalografiche e di neuroimaging, misure elettrofiologiche e neuroendocrine, self- report.

In questo capitolo, Devoto e Violani illustrano in modo chiaro i fattori omeostatici e circadiani implicati nel sonno, conoscenze fondamentali per una corretta e puntuale valutazione e quindi trattamento dell’insonnia. Dall’inizio degli anni ottanta è ampiamente accettato che il sonno è regolato da due processi (Borbely, 1982). Secondo il Modello del doppio processo di regolazione del sonno, il ciclo sonno- veglia è regolato da due fattori: un fattore di tipo omeostatico (Processi S) e un fattore di tipo circadiano (Processo c). Questi due fattori si combinano nel risultante ciclo sonno- veglia, determinando le soglie dell’addormentamento (H) e del risveglio (L).

Il Modello delle 3P, originariamente proposto da Spielman e collaboratori (Spielman, 1986; Spielman, Glovinsky, 1991) spiega, invece, come il disturbo dell’insonnia si cronicizza. Vi sono alcuni fattori predisponenti (per es., predisposizione all’iperarousal, stile cognitivo ipervigile, presenza di psicopatologia ansioso-depressiva, storia di familiarità per l’insonnia, genere femminile, età avanzata); i fattori precipitanti contribuiscono all’esordio del disturbo (per es., perdite personali, problemi o preoccupazioni familiari e di salute, problemi di lavoro, situazioni di stress cronico); i fattori perpetuanti lo mantengono attivo (per es., assunzione di ipnoinducenti, aumento del tempo trascorso a letto e dei sonnellini diurni).

Gli autori poi riportano tre modelli psicologici che spiegano l’etiologia dell’insonnia primaria. Uno dei primi modelli che integra l’eccesso di arousal è stato quello di Morin (1993) che riconosce l’importanza dei fattori cognitivi e comportamenti che predispongono all’insonnia. Nel modello psicobiologico dell’inibizione proposto da Espie (2002), l’arousal alla base dell’insonnia primaria viene visto come un’inibizione della de-attivazione che normalmente precede il sonno: perché vi sia un sonno normale si assume che vi sia una parallela de-attivazione sia dell’arousal fisiologico sia dell’arousal cognitivo. L’enfasi sui processi cognitivi è presente anche in più recenti modelli psicologici sull’insonnia primaria. In particolare, secondo il modello cognitivo dell’insonnia di Harvey (2002, 2005) l’insonnia primaria è sostenuta da una serie di processi cognitivi attivi sia di notte che di giorno.

Nel terzo capitolo del manuale ci si addentra nella valutazione clinica dell’insonnia, con particolare attenzione all’analisi differenziale. In appendice A vengono riportati i test: intervista strutturata sui disturbi del sonno, diario del sonno (sia verbale che grafico- con calcolo dei parametri del sonno), l’Insomnia Severity Index (ISI; Bastien, Vallières, Morin, 2001) che valuta la gravità percepita dell’insonnia nelle ultime due settimane, il Dysfunctional Beliefs and Attitudes about Sleep- 16 (DBAS-16; Morin, Vallières, Ivers, 2007) che valuta le cognizioni disfunzionali relative al sonno, l’Insomnia Self-efficacy Scale (ISES; Violani, 2009) composto di 12 domande che riguardano cosa il paziente pensa attualmente del suo sonno, il Morningness- Eveningness Questionnaire (MEQ; Violani, Catalani, Cariani, 1992; adattamento italiano da Horne, Ostberg, 1976) che distingue tra ‘tipi mattutini’ e ‘tipi serotonini’ e il Questionario Igiene del Sonno (IS; Violani, 2009) che valuta gli aspetti di gestione del quotidiano (abitudini, routine, comportamenti alimentari e sportivi) che nell’ultimo mese possono aver influenzato il sonno del paziente. Nell’appendice viene suggerito anche il Glasgow Sleep Effort Scale (Broomfield, Espie, 2005) che valuta l’ansia di prestazione rispetto al proprio sonno e viene suggerito dove trovare la versione italiana.

Oltre a riportare il test da somministrare e lo scoring, gli autori presentano dei consigli molto utili per presentarli ai pazienti, incrementando la motivazione al trattamento (secondo il modello transteorico di Prochaska e DiClemente, 1992).

Particolare attenzione viene data anche alla disamina dei principali strumenti usati per rilevare l’andamento obiettivo del sonno: la polisonnografia notturna (PSG) e l’actigrafia. La disamina verte sulla spiegazione di cosa sono e come funzionano e quali sono i parametri monitorati. Interessanti le ricerche riportate in merito all’utilità di tali strumenti. Le ricerche documentano che sia la polisonnografia che l’actigrafia sono utili per la diagnosi di insonnie secondarie e altri disturbi del sonno e per le insonnie soggettive (o paradossali), ma, generalmente, non sono da ritenersi indispensabili per le insonnie psicofisiologiche e per le insonnie primarie.

Di nuovo, gli autori ribadiscono l’importanza di fare diagnosi differenziale, soffermandosi in modo accurato su  quali sono le principali condizioni mediche e psichiatriche che condizionano negativamente il sonno.

Nel quarto capitolo si fa specificamente riferimento al trattamento cognitivo- comportamentale. Il CBT-I è la terapia di elezione per la cura dell’insonnia primaria (Morin et al., 1999; Perlis et al., 2003; Morin et al., 2006). La CBT si basa su un intervento psicologico multicomponenziale, in cui convergono diverse tecniche che mirano ad affrontare l’insieme dei fattori cognitivi e comportamentali alla base dell’insonnia primaria. Tali fattori svolgono un ruolo fondamentale nel mantenere questo disturbo, come descritto da Morin & Espie (2004) e risultano determinanti nel CBT-I. Il protocollo risulta, inoltre, coerente con i modelli psicofisiologici correnti di regolazione del sonno, accuratamente descritti nel capitolo 2 e qui ripresi.

Gli autori specificano la durata del protocollo e la sua articolazione, nel complesso e nella singola seduta.

Vengono quindi descritte, passo passo, le principali tecniche cognitivo- comportamentali utilizzate nel CBT-I: controllo degli stimoli, restrizione del sonno (con anche indicazioni quantitative), igiene del sonno (con regole per una corretta gestione del sonno), tecniche di rilassamento (tra le quali, rilassamento progressivo di Jacobson, tecniche di imagery, training autogeno, meditazione) e tecniche cognitive.

L’uso delle tecniche cognitive per il trattamento dell’insonnia è una componente cruciale del CBT-I. Vi è un generale accordo tra gli studiosi dell’insonnia che sia un disturbo alimentato e perpetuato da fattori cognitivi disfunzionali che aumentano le preoccupazioni, le profezie negative e la perdita di self-efficacy e, a loro volta, sostengono comportamenti disadattavi per il sonno (Edinger, Means, 2005). Le principali categorie cognitive considerate da Morin (1993) sono: aspettative irrealistiche sulle necessità di sonno, valutazioni errate sul disturbo del sonno, attribuzioni erronee rispetto ai deficit diurni, concezioni erronee rispetto alla cause dell’insonnia. Oltre a tali credenze erronee, le persone con insonnia sono soggette ad altri errori cognitivi (Beck, Ermery, Greenberg, 1985) che contribuiscono ad amplificare e a perpetuare il disturbo. Questi comprendono: eccessiva ruminazione o preoccupazioni ossessive per il sonno, pensieri catastrofici, rigidità di pensiero, ricordi selettivi. Identificare le cognizioni disfunzionali riguardo al sonno è il primo passo della terapia cognitiva (per fare questo, oltre al colloquio clinico, si posso usare i diari, il DBAS-16 e l‘ISES). Il secondo passo, consiste nell’incoraggiare il paziente a riconsiderare le sue convinzioni non come le uniche possibili, ma come una delle varie eventualità possibili. Si conclude poi con la ristrutturazione cognitiva, tipica della CBT. Nel capitolo, vengono riportate le tipiche credenze disfunzionali, sostituite da pensieri più utili e adattivi. Gli autori suggeriscono l’impiego di altre tecniche cognitive, quali la tecnica del controllo cognitivo (per es., la worry chair) e la tecnica dell’intenzione paradossale, più di matrice strategica. Una cosa apprezzabile è la discussione in merito all’integrazione di ogni singola tecnica con le altre tecniche previste nel CBT-I.

Nel quinto capitolo vengono riportarti i principali studi che hanno dimostrato l’efficacia del CBT-I rispetto ad altri trattamenti, le indicazioni e le controindicazioni per l’attuazione del CBT, anche grazie all’aiuto di una rappresentazione grafica esemplificativa e immediata (adattata da Smith, Perlis, 2006); infine, viene affrontato il problema della compliance al trattamento.

Nello specifico, vengono riportanti i cambiamenti quantitativi dei parametri del sonno e viene comprovata l’efficacia del trattamento CBT integrato rispetto alle singole tecniche cognitivo- comportamentali e ai trattamenti farmacologici, nelle insonnie primarie. Interessanti le ricerche riguardo la combinazione di CBT e trattamento farmacologico rispetto gli outcome del trattamento.

Nel sesto, si evidenziano le peculiarità del trattamento CBT-I in particolari condizioni mediche e di vita. Alcune malattie a forte impatto fisico ed emotivo tra cui neoplasie, HIV e dolore cronico (come artrite, fibromialgia) determinano spesso problemi di sonno e, per alcune di esse, sono stati sviluppati protocolli CBT specifici per la cura dell’insonnia.

Un paragrafo è dedicato al protocollo CBT per l’insonnia concomitante a patologie psichiatriche. Spesso, pazienti con disturbo di depressione maggiore, disturbo bipolare e disturbi d’ansia lamentano insonnia. La regola generale è quella di trattare il disturbo che il paziente lamenta maggiormente e che risulta più invalidante (e quindi valutare anche la psicoterapia). Sebbene vi siano alcune evidenze del fatto che la CBT per l’insonnia possa essere efficace per i pazienti con concomitanti disturbi psichiatrici (Kuo, Manber, Loewy, 2001; Manber et al., 2008), vi sono pochi dati utili a definire come e se adattare la CBT per l’insonnia con i pazienti con concomitanti disturbi psichiatrici. Interessante il paragrafo sugli effetti dell’alcol sul sonno.

Nel capitolo vengono anche date alcune indicazioni per la valutazione dell’insonnia per pazienti di particolari fasce di età (bambini, adolescenti, anziani). I dati epidemiologici indicano che negli anziani l’insonnia ha una maggiore prevalenza rispetto agli adulti più giovani. Nella valutazione iniziale dell’insonnia, è raccomandata la polisonnografia (PSG) e il CBT-I risulta particolarmente preferibile all’intervento farmacologico. Negli adolescenti si assiste a importanti cambiamenti nel sonno dovuti a mutamenti sociali ed evolutivi. Qui il CBT-I appare molto vantaggioso per l’esordio, in genere recente, che permette l’interruzione (quasi) immediata di comportamenti disfunzionali e la valutazione del disturbo del sonno può rappresentare un’occasione di diagnosi e intervento precoce su eventuali disagi psicologici che possono accompagnare l’insonnia. Con i bambini, si lavora molto sui comportanti dei genitori che fungono da rinforzo all’insonnia infantile.

Il paragrafo finale viene dedicato al sonno nella donna in gravidanza: tipicamente, in questa particolare fase di vita, il sonno subisce delle modificazioni. Il CBT-I risulta indicato qualora non emergano altri disturbi del sonno sottostanti (cioè disturbi respiratori, disturbi motori).

Nelle appendici, utilissime, vengono riportati i test con gli scoring; i centri dei medicina per il sonno, regione per regione; due questionari di screening per la valutazione preclinica delle insonnie;  i principali sedativi ipnoinducenti (benzodiazepine, farmaci ipnoinducenti non benzodiazepinici, antidepressivi, antistaminici, melatonina e prodotti da erboristeria) con meccanismi fisiologici d’azione e principali effetti collaterali.

Consiglio ai colleghi psicologi la lettura di questo manuale. Chiaro, puntuale, non noioso: offre tutti gli strumenti utili atti ad una precisa valutazione e trattamento dell’insonnia primaria che spesso riscontriamo nei pazienti.

 

La Regina degli Scacchi: timore di perdere o di vincere? – Recensione

La Regina degli Scacchi, la nuova miniserie firmata Netflix tratta dall’omonimo romanzo di Walter Travis del 1983, è un vero e proprio capolavoro ricco di ingredienti che la rendono magica e affascinante, dalla sceneggiatura alle sfumature psicologiche della protagonista.

 

Attenzione, l’articolo può contenere spoiler

Elizabeth Harmon, rimasta orfana di madre a seguito di un incidente stradale, provocato volontariamente dalla madre in un vero e proprio atto suicidario, inizia una nuova vita di solitudine all’interno di un orfanotrofio cristiano, dove le piccole ospiti vengono cresciute impettite, a suon di regole e pillole per l’umore. La piccola Beth trova un angolo di conforto e fuga nello scantinato dell’istituto, dove un vecchio custode se ne sta in disparte a giocare a scacchi da solo. Col suo modo burbero, asciutto e sospettoso, insegna alla sua nuova allieva i segreti degli scacchi, facendo emergere in lei un vero e proprio talento naturale.

La Regina degli Scacchi non è solo una storia di enfant prodige, né aspettatevi di trovare il classico cliché di genio e follia. Nonostante il formidabile talento si intrecci più volte con l’abuso di alcol e psicofarmaci, in Elisabeth c’è molto di più. La profonda incapacità di entrare in contatto con i vissuti emotivi rende la sua mente estremamente razionale, analitica, tanto da riuscire a sostenere situazioni ad alto livello di stress senza il minimo indugio. La personalità marcatamente evitante e una profonda alessitimia rendono la protagonista tanto affascinante quanto impenetrabile, sfuggente e per certi versi audace nelle scelte e nello stile di vita.

Come si intreccia questo quadro con l’abuso di sostanze? La dipendenza dalle pillole verdi, nata in orfanotrofio, è un file rouge che a un certo punto si intreccia con la dipendenza da alcol, proprio in coincidenza con l’avanzamento inarrestabile della sua carriera.

La sfida con il campione del mondo russo, Borkov, è sempre più vicina, manca una sola notte, e proprio quella notte Elisabeth manda all’aria i suoi piani per trascorrere una notte di disregolazione, tanto da arrivare alla partita ancora ubriaca. Sembrerebbe una classica reazione al timore di perdere, di non essere all’altezza di una sfida così importante e fantasticata tutta la vita. Eppure c’è qualcosa di più, che forse si può scorgere durante la partita con un giovanissimo sfidante di soli 13 anni. Quando lui le rivela il suo grande sogno di diventare campione del mondo a 16 anni, lei ribatte: ‘Se vincerai, dopo cosa verrà? Se vinci i mondiali a 16 anni, cos’altro ti rimarrà da fare?’. Un veloce e criptico scambio di battute, che credo raccolga l’emblema della sofferenza di Elisabeth. Una vita trascorsa al riparo dal disamore e dalla solitudine grazie agli scacchi, in cui lei stessa non è la regina ma il re, forte solo se protetta dallo scudo degli scacchi stessi. Cosa ne sarebbe della sua esistenza, una volta raggiunto il traguardo più alto? A quali rischi potrebbe esporsi e a che prezzo? In quest’ottica, l’abuso e la disregolazione non sono allora un sottile tentativo di auto-boicottaggio, in cui vincere fa tremendamente paura come il venir meno di un paracadute in caduta libera?

In sole sette puntate la vita di Elisabeth subirà moltissimi cambiamenti, tra i più importanti ci sarà un’altra vittoria, quella di riuscire a costruirsi une rete di veri amici, che daranno un nuovo senso alla sua vita. Non vi dico se alla fine diventerà la campionessa del mondo, ma di una cosa sono certa, sentirete anche voi il bisogno di spolverare la vostra vecchia scacchiera e di guardarla come se non l’aveste mai vista prima.

 

LA REGINA DEGLI SCACCHI – Guarda il trailer:

https://www.youtube.com/watch?v=Ya1MgSu8Pxc

Attaccamento insicuro e acquisti compulsivi nel disturbo da accumulo: il ruolo dell’intolleranza al disagio e dell’antropomorfismo

Il disturbo da accumulo si caratterizza per l’incapacità di scartare beni e dal disordine conseguente che arriva a compromettere l’uso della propria abitazione (American Psychiatric Association, 2013).

 

Due terzi di questi soggetti manifestano un aggravamento della psicopatologia per la presenza di problematiche di acquisto compulsivo, ma i fattori che contribuiscono a questo aspetto sono stati poco indagati dalla ricerca.

Coloro che tendono all’accumulo sono spesso socialmente isolati, con difficoltà interpersonali e traggono un senso di sicurezza dall’acquisto di beni piuttosto che da relazioni umane reciproche, soprattutto se queste sono sentite come inaffidabili e di scarso supporto (Steketee et al., 2001; Tolin et al., 2008).

Tuttavia, l’uso di oggetti come fonte di conforto non è esclusivamente patologico; sia i bambini nel gioco, che gli adulti, li utilizzano per indurre stati di benessere. Il motivo per cui questa tendenza è aggravata tra coloro con disturbo da accumulo può essere ricondotta allo stile di attaccamento.

Lo stile di attaccamento influenza le abilità di regolazione emotiva, di autocontrollo e l’impegno nelle interazioni sociali (Sroufe, 2005): mentre chi presenta uno stile sicuro ha un solido senso del proprio valore personale e percepisce l’altro come affidabile, gli insicuri (ansiosi ed evitanti) mostrano comportamenti disadattivi e problemi interpersonali (Graham & Unterschute, 2015).

Coloro con attaccamento ansioso, avendo interiorizzato l’indisponibilità dell’altro, si rivolgono agli oggetti per ottenere supporto emotivo e compensare l’assenza di connessioni umane. Lo stile ansioso infatti, si associa a forti valori materialistici (Norris et al., 2012), attaccamento emotivo agli oggetti (Keefer et al., 2012) e maggiori tendenze all’accumulo (Medard & Kellett, 2014).

La tendenza ad antropomorfizzare i beni attribuendo loro qualità, motivazioni ed emozioni umane, spiega l’ansia da separazione che viene sperimentata in seguito alla perdita di un oggetto prezioso, per cui si aggrappano ad esso saldamente, rafforzando la convinzione che sia necessario.

La letteratura corrente individua una correlazione tra attaccamento ansioso e antropomorfismo; quest’ultimo associato a comportamenti di accumulo e difficoltà a scartare oggetti, ma soprattutto alla tendenza a compiere acquisti compulsivi (Burgess et al., 2018; Neave et al., 2016).

L’attaccamento ansioso, può indurre all’acquisto compulsivo mediante la presenza dell’intolleranza al disagio (Phung et al., 2015); che rimanda all’incapacità di gestire le risposte emotive e alla mancata accettazione delle emozioni spiacevoli percepite insopportabili (Simons & Gaher, 2005).

Lo studio di Norberg et al. (2018), ha indagato l’influenza dello stile di attaccamento ansioso sulla tendenza a compiere acquisti eccessivi, analizzando separatamente il contributo di due aspetti: l’intolleranza al disagio e la tendenza ad antropomorfizzare gli oggetti confortanti. Essendo plausibile che l’intolleranza all’angoscia possa condurre all’antropomorfismo per la necessità di ricercare conforto, è stato testato anche un modello di mediazione seriale (ovvero attaccamento insicuro che porta intolleranza al disagio, che conduce all’antropomorfismo che a sua volta determina acquisti eccessivi).

Inoltre, sia comportamenti di acquisto eccessivo che l’acquisizione eccessiva di beni gratuiti possono contribuire a problematiche di accumulo, dunque le ipotesi precedenti sono state testate separatamente per entrambi gli esiti comportamentali.

Il campione era composto da 361 partecipanti con problemi di acquisto eccessivo subclinico e disturbo da accumulo conclamato. Coerentemente con la letteratura, una maggiore gravità della patologia era emersa tra coloro che effettuavano acquisti compulsivi (Frost et al., 2009, 2013).

Coloro con attaccamento ansioso avevano riportato una maggiore tendenza a compiere acquisti compulsivi ma anche ad acquisire beni gratuiti; con entrambe le relazioni completamente mediate dall’intolleranza al disagio e dall’antropomorfismo.

Lo studio conferma un modello di mediazione doppio; con l’attaccamento ansioso legato da un lato all’intolleranza verso il disagio e dall’altro ad una maggiore tendenza ad antropomorfizzare oggetti confortanti, nell’associazione con gli acquisti eccessivi. La mediazione seriale non era supportata in quanto l’intolleranza al disagio non influenzava l’antropomorfismo e, presa singolarmente, era un mediatore migliore di questo.

Tra gli individui insicuri, l’intolleranza al disagio influisce in misura maggiore dell’antropomorfismo nell’acquisto di beni ma non nella loro acquisizione gratuita; questo viene ricondotto alla diversa tipologia di oggetti che vengono acquistati rispetto a quelli raccolti gratuitamente. Spesso questi ultimi non hanno valenza affettiva, mentre quelli che vengono acquistati non sono solo utili, ma istillano un senso di appartenenza e autostima.

Coloro che accumulano possono acquistare oggetti per raggiungere uno stato di sicurezza, anche a costo della perdita progressiva di legami sociali. Tuttavia, come emerge da questa ricerca, più che esserne la conseguenza, la disconnessione sociale è parte della causa, e deriva da un attaccamento insicuro, connotato da difficoltà nella gestione e tolleranza delle emozioni negative da un lato e dalla tendenza all’antropomorfismo dall’altro.

Nel trattamento per il disturbo da accumulo si dovrebbe lavorare in fase preliminare sulla tolleranza al disagio e l’accettazione emotiva mediante interventi di psicoeducazione, strategie dell’Acceptance and Commitment Therapy (Hayes et al., 2012) e della Terapia Dialettico Comportamentale (Linehan, 2015), volte a ridurre problemi di acquisto compulsivo e il rischio di abbandono del trattamento successivo.

La ristrutturazione cognitiva permette di contrastare i pensieri legati all’antropomorfismo, insegnando agli accumulatori compulsivi modalità più funzionali per ricevere supporto. Inoltre, la Terapia Dialettico Comportamentale (Linehan, 2015), permette l’acquisizione di abilità di efficacia interpersonale, facilitando la costruzione di relazioni stabili che contrastano l’isolamento e l’investimento affettivo verso gli oggetti.

 

Caino nella terra del rimorso

Recuperare come società il dovere etico e morale di prendersi cura di chi ha un disagio, dovrebbe essere il tema principale di cui discutere quando avviene una tragedia di sangue, poiché molte ancora possano essere prevenute elaborando quei traumi sociali che come miti familiari si perpetuano di generazione in generazione, causando non più tarantati, né santi ed eroi portatori di una concretizzazione del simbolo, ma ciò che i giornali chiamano ‘mostri’.

 

Salento, «terra del rimorso», «terra del passato che torna e opprime col suo rigurgito».

Questa è la prima frase che si legge sulla quarta di copertina del libro di Ernesto De Martino, noto etnologo e antropologo che si occupò principalmente dei culti, sacri e civili, e delle tradizioni del meridione, da figlio partenopeo qual era.

Ne La terra del rimorso, De Martino descrive il retroterra e la subcultura rurale salentina da cui emerse il fenomeno del tarantismo, ‘antico rito contadino caratterizzato dal simbolismo della taranta – il ragno che morde e avvelena – e dalla potenza estatica e terapeutica della musica e della danza’. Della Comunità, soprattutto, che prendeva in carico e in cura la persona che gridava in tal modo il proprio disagio, e attraverso la musica e la danza le si stringeva intorno, lenendo la sua sofferenza.

Secondo Giovanni Jervis, lo psichiatra presente nell’équipe dell’antropologo, il concetto che meglio rispecchia i cicli di crisi e di riscatto dei tarantati è quello di ‘nevrosi’. Ma si tratta di un concetto-limite, poiché il fenomeno non denotava un conflitto tra pulsione naturale (ad esempio sessuale) e un dettame sociale (‘non si fa’), bensì un contrasto tra due pulsioni culturalmente indotte: per dirla con le parole di Lichtenberg e della psicoanalisi contemporanea, tra il sistema motivazionale dell’avversività – il bisogno di ribellarsi alla società che aveva scatenato il sintomo – e il sistema motivazionale dell’attaccamento/affiliazione – il bisogno allo stesso tempo di essere da questa riconosciuti, amati, curati. A questi si potrebbe aggiungere anche il bisogno di assertività, di esserci e lasciare traccia di sé. La società, con i suoi dettami culturali e familiari spesso ambigui e contraddittori, era la causa dell’isteria, quel ragno che morde e avvelena, la terra del rimorso: in altre parole del non detto, del figurato, dell’inconscio. Una terra solitamente matriarcale in cui a qualsiasi bisogno e motivazione del singolo veniva anteposta la famiglia, in una costante incapacità di differenziazione e di separazione-individuazione. Tuttavia, quella stessa società a sua volta era chiamata a fare ammenda, a curare, mantenendo in equilibrio la persona, ‘dando una forma storicamente plausibile a un rischio angoscioso e senza nome’.

Società tra colpa e accudimento: prendersi cura di chi ha un disagio

Imm. 1 – Curing Tarantism by Dancing the Tarantella

Il rimorso è al tempo stesso un luogo ancestrale, nascosto e inospitale, che alberga nel profondo di ognuno in ogni era e luogo. E’ la zona franca in cui gli istinti primordiali, le sofferenze e le angosce dei nostri antenati corrodono, tarlano, manipolano il vivere quotidiano, lì dove non viene riconosciuta la propria identità, finché non si intraprende un percorso di catarsi.

In un’epoca come quella in cui viviamo, individualistica e globalizzata già prima del Covid, ma che negli ultimi tempi, giustamente, ha aggiunto anche una maggiore distanza sociale e isolamento, l’individuo non può più contare sull’altro per elaborare quei traumi relazionali e sociali che come miti familiari si perpetuano di generazione in generazione, causando dei paria distruttivi: non più tarantati, né santi e eroi portatori anch’essi di una concretizzazione del simbolo, ma ciò che i giornali chiamano ‘mostri’.

E il passato che torna e opprime con il suo rigurgito, porta all’esasperazione di un giovane che grida il suo disagio nel modo più atroce e efferato possibile, ponendo fine a delle vite e alla sua stessa umanità: per vendetta, attua una covata e ben studiata carneficina verso coloro che lo avevano tagliato fuori dalla loro vita vista come perfetta e ovattata, ricalcando probabilmente il suo vissuto di emarginazione e portandolo a inscenare sadicamente la sua sofferenza. Qualche anno prima, una giovane pone fine alla vita della cugina, Sarah Scazzi, sempre perché la rabbia e l’invidia covata per la ragazzina, che le stava portando via il carisma che aveva sul gruppo e la persona amata, esplode in un raptus omicida. Notevole come la nevrosi sociale ritorni sempre come un mantra: il conflitto tra bisogno di affiliazione e avversività ha scatenato nei singoli l’invidia omicida.

Da odierni Caino, portano addosso il trauma familiare dell’Eden desiderato e perduto, e odiano la felicità altrui. L’invidia stessa non è altro che l’odio scaturito da un fortissimo desiderio. Luke Burgis, imprenditore e filosofo americano appassionato di storia dell’umanità, accomuna tutti i periodi di crisi della società, tarantismo compreso, a una ‘crisi del desiderio’. Citando la teoria del desiderio mimetico del polimatematico René Girard, l’autore spiega come la storia opera nei cicli del desiderio. Imitiamo i desideri degli altri senza la consapevolezza che stiamo imitando, e questo porta alla rivalità e al conflitto con altre persone, e può inghiottire una comunità o una società nel caos. ‘Per Girard’, continua Burgis, ‘riti strani come il tarantismo potevano essere compresi solo comprendendo uno strato più profondo della psicologia umana: il luogo in cui il desiderio nasce e prende forma. Il modo in cui risolviamo i desideri frustrati – individualmente e in comune – è la chiave per comprendere il comportamento umano quando la medicina, l’economia e tutte le forme di scientismo si agitano’.

Dalla ricerca condotta ben sei decenni fa, De Martino aveva colto inoltre degli elementi simbolici ricorrenti che ricalcavano la vita e la discesa agli inferi dei tarantati: il periodo di vita in cui insorgeva tale disagio, simbolizzato dal morso del ragno, ossia la tarda adolescenza-prima età adulta, una situazione traumatica o di crisi (matrimoni forzati, amori impossibili, la perdita del lavoro, ecc.) e la ritualità sacra che si rifaceva a San Paolo, protettore dei tarantati, che avrebbe concesso la grazia della guarigione. Il rituale sacro e quello civile della comunità sentita come vicina e accogliente, un rito iniziatico, ‘ripetuto nel tempo e ordinato da regole antichissime’ e volto a prendere in carico ed esorcizzare il desiderio frustrato, non può più rimettersi in atto al giorno d’oggi, tuttavia, come dimostra l’antropologo nel suo scritto, ha avuto per secoli la funzione di scongiurare le ansie di un’esistenza segnata dal disagio o dall’emarginazione.

La psicologia, la psicoanalisi, la psicoterapia, seppur recenti nel vasto mondo delle scienze, ereditano il valore antropologico e terapeutico che in maniera inconsapevole e primitiva hanno svolto questi rituali e che continuano a svolgere in aree sperdute della terra, avendo lo stesso fine: ‘un dispositivo simbolico mediante il quale un contenuto psichico conflittuale che non aveva trovato soluzione sul piano della coscienza, e che operava nell’oscurità dell’inconscio rischiando di farsi valere come sintomo nevrotico, viene evocato e configurato su un altro piano (mitico-rituale nel caso del tarantismo, relazionale-fenomenologico nella relazione terapeutica), e su tale piano fatto defluire e realizzato periodicamente, alleggerendo del peso delle sue sollecitazioni e facilitando periodi un relativo equilibrio psichico’.

Prendere in carico e riconoscere, rispecchiare, la persona come individuo permette di svolgere il processo identitario di cui ogni giovane ha bisogno e che non sempre appunto trova nella famiglia o nella società, sfociando talvolta, come abbiamo visto, in molti episodi di cronaca in un dolore e una rabbia malevola che non vede l’altro, che lo distrugge come essere inanimato.

Basti pensare al film che circa un anno fa ha riscosso critiche e riconoscimenti, il Joker di Todd Phillips, altro odierno Caino spinto dalla mancanza d’ascolto e di riconoscimento a trovare la propria malvagia identità nella rabbia distruttiva e nella vendetta, a farci comprendere che tali dinamiche non possono essere confinate a un unico retroterra culturale ma che rappresentano l’inconscio primitivo di qualsiasi società, anche la più evoluta. Lì dove l’individuo non riesce a riconoscersi, lì dove il desiderio rimane frustrato, appare ciò che Jung chiamava l’Ombra.

Recuperare come società il dovere etico e morale di prendersi cura di chi ha un disagio, dovrebbe essere il tema principale di cui discutere quando avvengono tragedie di questo genere, poiché molte ancora possano essere prevenute. Come ci si è mossi per preservare l’integrità fisica della persona, con l’assunzione di medici e infermieri nel periodo pandemico, così dovrebbe avvenire per l’integrità psichica, che, passo dopo passo stiamo vedendo franare davanti ai nostri occhi, con l’aumentare dei suicidi e delle esplosioni di violenza eterodiretta, senza poi chiedere a posteriori, come avrebbe detto il Joker in una terra del rimorso in stile newyorkese, ‘a chi ha una malattia mentale di comportarsi come se non ce l’avesse’.

Mosso da simili riflessioni De Martino arrivava infine a concludere che ‘per questo orientamento il simbolo della taranta comporta un ethos, cioè una mediata volontà di storia, un progetto di ‘vita insieme’, un impegno ad uscire dall’isolamento nevrotico per partecipare ad un sistema di fedeltà culturali e ad un ordine di comunicazioni interpersonali tradizionalmente accreditato e socialmente condiviso: un ethos che, per quanto elementare e storicamente condizionato, e per quanto ‘minore’ nel quadro della vita culturale dell’Italia meridionale, consente di qualificare il tarantismo come ‘religione del rimorso’ e come ‘terra del rimorso’ la molto piccola area del nostro pianeta in cui questa religione ‘minore’ vide per alcuni secoli il suo giorno’. Il rimorso di una società che cerca empaticamente e catarticamente di risollevare il singolo dai suoi traumi e disagi, molto spesso da essa stessa creati.

Il simbolismo della taranta rimane potente: la danza della tarantata la epurava dalla sua malattia, si credeva che lei stessa in quel momento ballasse con il ragno perché la miscela di sangue e veleno li univa, finché il veleno non fosse definitivamente estirpato. In altre parole: i musici, i chitarristi, la comunità che le si stringeva intorno non erano altro che quella società che l’aveva figurativamente morsa, e ora ballavano con lei, finché il veleno della colpa e del rimorso non fosse stato definitivamente esaurito. E’ necessario quindi impegnarci a trovare nuove narrazioni che possano intersoggettivamente nascere in seno a una crisi sociale come quella in cui stiamo vivendo, nuovi modi che possano far defluire il veleno prima che questo torni a distruggere ancora. Il prendersi carico della salute mentale, come abbiamo visto, potrebbe essere la soluzione.

 

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