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L’importanza della precocità nell’impianto cocleare: evidenze dei benefici cognitivi e per lo sviluppo del linguaggio

Gli impianti cocleari (IC) sono ora universalmente considerati come lo standard di cura per il trattamento medico di perdita dell’udito sensoriale e neurosensoriale da grave a profonda negli adulti e nei bambini (Pisoni et al., 2018).

Bresciani Giulia – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Mestre

 

Nell’articolo di Kronenberger e colleghi (2014) la perdita permanente dell’udito è una condizione comune della prima infanzia, con una prevalenza di circa 1,5 su 1000 nascite. La diagnosi precoce, l’intervento e il monitoraggio dei bambini con perdita dell’udito sono raccomandati per lo sviluppo di una comunicazione e un linguaggio ottimali ed inoltre per promuovere le capacità socio-emotive, cognitive e di sviluppo motorio.

L’impianto cocleare nell’infanzia comporta un miglioramento significativo delle competenze linguistiche parlate, in particolare quando l’impianto avviene precocemente (Kronenberger et al., 2020). In ogni caso, come riportato dagli autori, esiste ancora un’enorme variabilità nelle abilità di linguaggio parlato nei bambini che vengono sottoposti ad impianto cocleare.

Negli anni sono stati individuati diversi predittori di un miglior outcome linguistico (Geers, 2006; Ruffin et al., 2013; Kronenberger et al., 2020), tra cui: l’età più precoce al momento dell’impianto, migliori soglie di media dei toni puri (PTA) prima dell’impianto, minore durata della sordità, uso di strategie di comunicazione uditivo-orale, una famiglia di dimensioni più piccole, uno status socioeconomico familiare più elevato, una maggiore istruzione dei genitori e una maggiore sensibilità materna nell’interazione genitore-figlio. Gli studi riportano però, che bambini con impianto cocleare sono comunque a rischio per difficoltà di lettura e scrittura oltre che a difficoltà relative al linguaggio recettivo in ambienti ‘avversivi per l’ascolto’, come classi molto rumorose o ambienti rumorosi (Kronenberger et al., 2014)

Come riportato da Kronenberger e colleghi (2020) lo sviluppo di abilità neurocognitive che includono il linguaggio, la memoria, il ragionamento non verbale e il funzionamento esecutivo (EF) riflette la crescita di base dei sistemi cerebrali che dipendono dall’esperienza sensoriale, dall’attività neurale e dalla relativa stimolazione, nonché dalle esperienze di apprendimento all’interno dei sistemi familiari, educativi e clinici. Ed è per tale motivo che una deprivazione sensoriale, come quella uditiva, può incidere sullo sviluppo di tali abilità.

Le funzioni esecutive come l’inibizione, la memoria di lavoro, la flessibilità cognitiva, l’attenzione sono necessarie a valutare, monitorare, sviluppare e portare a termine piani ed obiettivi, e deficit in questi domini possono portare ad alcuni ritardi o disordini come il disturbo di attenzione ed iperattività.

Le funzioni esecutive si sviluppano molto precocemente e mostrano progressi molto rapidi, soprattutto durante l’età scolare ma, come accennato prima, sono diversi i fattori che influenzano la vita dei bambini, non solo con sordità, e che incidono anche sullo sviluppo di tali abilità, tra cui: la genetica, l’ambiente familiare, l’abilità di apprendimento sociale, l’educazione ed il linguaggio (Kronenberger et al., 2020). Il linguaggio determina lo sviluppo di abilità come l’attenzione, la memoria di lavoro e la pianificazione ma al contempo, queste determinano lo sviluppo del linguaggio. È per tale motivo che è necessario prestare attenzione e trovare le strategie più adatte a questi bambini, per permettere loro di poter acquisire tali abilità, necessarie per i processi di apprendimento ma anche per la conduzione della vita quotidiana. Studi come quello condotto da Niparko e colleghi (2010) dimostrano che bambini che vengono impiantati precocemente hanno miglioramenti maggiori nelle abilità di linguaggio dall’età scolare fino all’adolescenza. Lo studio di Kronenberger e colleghi (2020) ha indagato la traiettoria di sviluppo del linguaggio e delle funzioni esecutive confrontando gruppi di bambini di età pre-scolare con impianto cocleare e a normosviluppo. Gli autori hanno dimostrato che i bambini con impianto cocleare ottenevano punteggi inferiori ai test di vocabolario e linguaggio globale a tutti gli step di valutazione, ma mostravano un miglioramento statisticamente significativo, a differenza del gruppo di controllo. I bambini con impianto cocleare risultavano in media nei due test all’età di sette anni.

Oltre ai fattori predittivi identificati in precedenza, studi recenti, come citato da Park e colleghi (2015), hanno enfatizzato il ruolo della funzione cognitiva dei soggetti sul risultato dell’impianto cocleare. Per tale motivo, gli autori hanno indagato la correlazione tra il QI di performance e l’outcome postoperatorio in bambini che si sono sottoposti ad intervento chirurgico per impianto cocleare. I loro risultati hanno evidenziato che l’esito postoperatorio dell’impianto cocleare è legato alle funzioni cognitive, in particolare al QI di performance piuttosto che al QI verbale. Inoltre, il ‘completamento di immagini’ (al bambino vengono presentare una serie di immagini con una parte mancante; viene chiesto di identificare la parte mancante indicando e/o nominando) e il ‘ri-ordinamento di immagini’ (al bambino vengono presentare una serie di immagini in ordine errato; viene chiesto di mettere nell’ordine corretto per raccontare una storia di senso compiuto), che riflettono la cognizione sociale, risultano associati al risultato post-impianto cocleare. Ciò implica che non solo l’intelligenza ma anche l’adattamento sociale contribuisce alla riabilitazione uditiva dopo l’impianto cocleare.

Gli autori riportano che il QI verbale riflette un’intelligenza o una conoscenza cristallizzata che proviene dall’apprendimento precedente e dalle esperienze passate. Nello specifico, le situazioni che richiedono un’intelligenza cristallizzata includono la comprensione e le prove di vocabolario. Man mano che invecchiamo e accumuliamo nuova conoscenza e comprensione, l’intelligenza cristallizzata diventa più forte. I bambini sordi non attraversano queste fasi a causa della privazione uditiva precedente all’impianto cocleare e, di conseguenza, il loro QI verbale risulta più basso. Al contrario, il QI di performance riflette l’intelligenza fluida, ovvero la capacità di percepire relazioni indipendenti da precedenti esperienze specifiche o istruzioni. Pertanto, il QI di performance dei soggetti con impianto cocleare risultava paragonabile a quello dei loro coetanei con udito normale.

Gli autori hanno inoltre scoperto che la cognizione sociale, misurata con i subtest ‘completamento di immagini’ e ‘ri-ordinamento di immagini’, appare minore nei bambini con impianto cocleare. Inoltre, hanno osservato che le abilità di coordinamento visuo-motorio appaiono relativamente buone, utilizzando i subtest ‘disegno con i cubi’ (consiste in una serie di motivi geometrici stampati; viene chiesto al bambino di riprodurli utilizzando blocchi rossi e bianchi) e ‘ricostruzione di oggetti’ (consiste in una serie di pezzi di oggetti comuni; viene chiesto al bambino di assemblarli per formare l’oggetto) nei soggetti con impianto cocleare, coerentemente con quanto riportato dalla letteratura. Ciò è stato attribuito alla plasticità cerebrale ovvero la capacità di integrazione visuo-motoria migliora secondariamente alla privazione uditiva. In particolare, il punteggio medio al subtest ‘cifrario’ (consiste in una serie di forme semplici, ciascuna abbinata ad un codice; viene chiesto al bambino di disegnare la forma nel codice corrispondente) è risultato basso, anche se riflette la capacità di coordinazione visuo-motoria. Ciò può essere spiegato dal fatto che il ‘cifrario’ è l’unico subtest del QI di perfomance che utilizza lettere, numeri e simboli.

Gli autori, riprendendo quanto affermato da Ostrom nel 1984, affermano che la cognizione sociale si concentra su come le persone elaborano, memorizzano e applicano le informazioni sulle altre persone e sulle situazioni sociali. Si concentra sul ruolo giocato dai processi cognitivi nelle nostre interazioni sociali. La competenza sociale è strettamente correlata alla cognizione sociale. Sulla base dei loro risultati, gli autori si allineano a studi precedenti che hanno riportato una forte correlazione positiva tra abilità linguistiche e competenza sociale.

Conclusioni

In conclusione, sono molteplici i fattori coinvolti e che vanno considerati per i bambini con impianto cocleare. Kronenberger e colleghi (2014) identificano i seguenti cambiamenti a seguito dell’impianto cocleare avvenuto precocemente e seguente ad un percorso di abilitazione: maggiore consapevolezza da parte dei genitori, educatori e operatori sanitari; è necessario lo sviluppo e l’uso di strumenti e protocolli di valutazione delle funzioni esecutive validi, poco costosi e facilmente e rapidamente amministrati da educatori e terapisti; è necessario lo sviluppo di interventi mirati che possono essere utilizzati durante il processo di abilitazione per migliorare le competenze nelle funzioni esecutive. Ad oggi, la riabilitazione post impianto cocleare si concentra sulle abilità di linguaggio e di comunicazione, ma i risultati degli studi presentati sottolineano l’importanza di un trattamento abilitativo e/o riabilitativo che riguardi le funzioni esecutive, essendo linguaggio e funzioni esecutive strettamente correlati. Inoltre, come riportato da Park e colleghi (2015) i risultati post-operatori dell’impianto cocleare sono associati alla riabilitazione sociale, ed è importante quindi che venga fatta insieme agli altri interventi di riabilitazione/abilitazione programmati.

Soul (2020): la scintilla è nel momento presente – Recensione del film

Dopo l’indiscutibile successo di Inside Out, Pixar torna a sorprendere il suo pubblico con Soul, il nuovo film di animazione che ci invita ad osservare il mondo e a trovare il senso della vita nelle piccole cose di tutti i giorni.

 

Il lungometraggio racconta di Joe, un insoddisfatto insegnante di musica jazz che sogna di potersi realizzare come artista sul palco di un club. A seguito di varie peripezie, tuttavia, egli si ritrova temporaneamente separato dal suo corpo nell’Ante-Mondo, un luogo dove le anime sono forgiate in vista della vita sulla Terra, accanto a Ventidue, un’anima impetuosa e incontenibile, che rivoluzionerà la sua esistenza.

‘Il tuo scopo non è la tua scintilla’. Con questa frase potremmo riassumere molto del contenuto di Soul, dichiarando che non sono gli obiettivi che ci diamo a definirci. Attraverso gli sforzi di Joe, infatti, il film ci mostra come la corsa ai traguardi della vita rischia di consumare le nostre energie, di esaurire lo slancio vitale sotteso alle passioni o di distrarci dalle preziosità del momento presente. Soul è un vero inno alla vita che a più riprese sprona lo spettatore a incuriosirsi della realtà che lo circonda e delle altre persone, troppo spesso inquadrate in modo stereotipato.

Le immagini del film che rappresentano tale auspicabile condizione di presenza sono potentissime e inducono un’esperienza incarnata nello spettatore: il morso alla primissima fetta di pizza, l’incantamento del pendolare che ascolta un artista di strada, un seme di acero che volteggiando cade sul palmo del protagonista (beh, non proprio…ma occorre guardare il film!).

Il jazz, che accompagna quasi ogni sequenza del film, ribadisce l’importanza del ‘gioco’, dell’espressione libera dai canoni e rappresenta benissimo il fluire del tempo e di quelle sensazioni che rischiamo di perderci se non prestiamo loro attenzione. Ma non solo. ‘La melodia è una scusa per far emergere il tuo vero Io‘ dichiara ad un certo punto il padre del protagonista. Con questa frase egli intende dire che improvvisare su un tema musicale che è sempre lo stesso finisce per definirci come individui. Il verbo ‘jazzare’ descrive quindi chi prende la vita e la colora secondo l’estro e il jazz club rappresenta semplicemente il luogo dove la nostra autenticità può esprimersi in modo irripetibile in armonia con quella degli altri.

Soul insomma ci invita a vivere adesso, senza condannarci ad aspettare il momento giusto per farlo, a jazzare liberamente, se ci piace, uscendo dalle ‘bolle’ – positive e negative – che ci allontanano dai momenti preziosi del presente. Ho apprezzato molto il passaggio del film dove chi rimugina è accostato a chi, ossessionato dalle sue passioni, si isola dal mondo, fino a diventare ‘un’anima perduta’. Preoccuparsi di ciò che accadrà, rimestare il passato o coinvolgersi in una attività al punto di estraniarsi dal mondo di fatto produce sempre l’effetto di allontanarci dall’unico tempo che possiamo veramente percepire: il presente. La bolla, nel bene o nel male, determina la costruzione di una realtà ben poco condivisibile con altri e spesso foriera di sofferenza.

Dopo aver visto Soul perciò rispolveriamo i volumi di Jon Kabat-Zinn e dell’ACT, proviamo a porre la nostra attenzione consapevole su un piccolo gesto oppure saltiamo in sella ad una vecchia bicicletta per comprendere se ci piace pedalare piuttosto che per raggiungere nuovi e ambiziosi traguardi.

 

Il vaccino contro la disinformazione

Uno dei modi per evitare che le persone cadano vittima di disinformazione è quello di vaccinarle contro la disinformazione, esporle, quindi, ad un esempio di disinformazione, in modo che possano sviluppare gli opportuni anticorpi alle false notizie.

 

In quest’epoca, che qualcuno ha chiamato della “post-verità” (Stephan Lewandosky, John Cook, Ullrich K. H. Ecker, 2017), le bufale o “fake news”, come talvolta denominate, possono diffondersi attraverso internet ad una velocità impressionante. Negli ultimi tempi si è assistito, peraltro, ad una maggiore attenzione anche alla terminologia utilizzata. Alcuni autori, infatti (Claire Wardle, Hossein Derakshan, 2017) hanno evidenziato come talvolta il termine “fake news” venga utilizzato anche come un trucco dialettico sporco, al fine di “bollare” in maniera negativa punti di vista differenti.

In inglese quindi, si utilizzano in genere due termini. Si parla quindi di “disinformation” quando vengono diffuse false notizie in maniera consapevole e con l’intento di danneggiare qualcuno (persone, gruppi od organizzazioni). Si usa, invece, il termine “misinformation” quando la diffusione delle false notizie è inconsapevole e quindi è fatta senza intento di danneggiare nessuno (Caroline Jack, 2017).

In italiano, peraltro, il termine “misinformazione” non risulta ancora entrato nell’uso comune, ragion per cui nel seguito verrà utilizzato il termine “disinformazione”, che risulta sicuramente più familiare, anche se meno preciso come definizione. Il termine, quindi, verrà utilizzato sia per indicare la “disinformation” che la “misinformation” secondo le definizioni prima evidenziate.

I perchè della disinformazione

Cosa porta una o più persone a diffondere false notizie?

Gli scopi possono essere i più vari. Come evidenziato da alcuni autori (Claire Wardle, Hossein Derakshan, 2017) (Stephan Lewandosky e altri, 2012) i soggetti che diffondono disinformazione possono farlo, ad esempio, per motivi politici o, più semplicemente, per motivi economici. Molti click sulle notizie (false) fanno traffico su internet e quindi spesso si ha monetizzazione dei click.

False informazioni su un determinato fenomeno o notizia possono portare l’autore a vendere contenuti, come accessi a siti internet o anche libri, riguardanti quel fenomeno o notizia. La spiegazione è quindi talvolta estremamente banale. Questo è vero per l’autore della falsa notizia, che ha in ogni modo interesse a far parlare della sua “creatura”. Ma cosa spinge un “comune cittadino” a diffondere disinformazione, magari condividendo contenuti sul web?

E’ stato evidenziato (Miriam J. Metzger, Andrew J. Flanagin, 2013) che ormai i contenuti sul web sono talmente tanti che risulta molto difficile distinguere l’attendibilità delle fonti. Quindi, coloro che cercano delle informazioni o che ricevono una notizia, ad esempio per una condivisione da parte di un amico, ricorrono a quelle che si chiamano “euristiche“, vale a dire delle scorciatoie mentali che permettono di prendere decisioni semplici e veloci.

Tra le varie euristiche possiamo quindi avere, ad esempio, la cosiddetta “self-confirmation heuristic” in base alla quale colui che cerca le informazioni tende a privilegiare quelle fonti che confermano i suoi punti di vista. Un’altra euristica è la cosiddetta “endorsement heuristic” per cui si tendono a validare le informazioni già ritenute affidabili da altri.

La vaccinazione contro le false notizie

Le euristiche, quindi, ci permettono di prendere decisioni semplici e veloci con poco o nessuno sforzo cognitivo. Peraltro, se talvolta portano a decisioni corrette, può anche capitare che le euristiche siano la causa di comportamenti errati. Ciò può accadere perché l’utilizzo di una di queste “scorciatoie mentali” ci può far ritenere come valide informazioni che in realtà non lo sono.

Ma come rimediare nel momento in cui ciò accade? E’ sufficiente che le persone “disinformate” vengano correttamente informate?

E’ stato visto (Stephan Lewandosky e altri, 2020) che non è sufficiente evidenziare le informazioni giuste. Anzi, può anche accadere che si abbia un “back-fire effect” (Stephan Lewandosky e altri, 2012) (Stephan Lewandosky e altri, 2020) per cui l’esposizione all’informazione corretta rinforza la convinzione in quella errata.

E’ evidente, però, che questo non può farci desistere dal combattere la disinformazione (Stephan Lewandosky e altri, 2020). E’ quindi importante, in primo luogo, tarare la comunicazione delle informazioni corrette a seconda dei destinatari del messaggio.

Un altro modo per evitare che le persone cadano vittima di disinformazione, peraltro, è quella di “vaccinarle” contro la disinformazione (John Cook, Stephan Lewandosky, Ullrich K. H. Ecker, 2017) (Stephan Lewandosky, Sander an der Linden, 2018) (Jon Roozenbeek, Thomas Nygren, Sander van der Linden, 2020). La vaccinazione, come tutti sappiamo, consiste nell’inoculazione di un virus o di un batterio debole nell’organismo di un paziente, in modo che il suo sistema immunitario sviluppi degli anticorpi contro quel virus o batterio. Il vaccino contro la disinformazione opera nella stessa maniera. Il “paziente” viene quindi esposto ad un esempio di disinformazione, in modo che possa sviluppare gli opportuni “anticorpi” alle false notizie.

Un esempio

Un esempio di vaccinazione valido è sicuramente quello che prende in esame l’utilizzo delle figure dei Premi Nobel. Spesso, infatti, i soggetti interessati a diffondere disinformazione

  1. strumentalizzano la figura dei Premi Nobel;
  2. diffondono notizie (false e non verificate né verificabili) su presunte “candidature” al Premio Nobel.

Ed è stato visto che spesso tali “trucchi” sono stati usati (ironia della sorte) dal movimento NO-VAX al fine di avvalorare le proprie posizioni (ma potrebbe usarli un qualunque altro soggetto che diffonde disinformazione). E’ stata ad esempio utilizzata la figura di Luc Montagnier, che è stato Premio Nobel per la Medicina nel 2008, ma che negli ultimi anni ha aderito alle posizioni NO-VAX. (Candice Basterfield e altri, 2020). E qua, evidentemente, ci cascherebbe chiunque. Ognuno di noi penserebbe: “Cavoli, se lo ha detto un Premio Nobel, sarà vero”.

La questione, che molti ignorano, è che la storia è piena di Premi Nobel che poi hanno “perso la retta via” aderendo a posizioni molto criticabili. Oltre a Luc Montagnier si può citare Linus Pauling, Premio Nobel per la Chimica nel 1954 e per la Pace nel 1962, il quale sostenne che massicce dosi di vitamina C fossero utili contro il tumore (Candice Basterfield e altri, 2020). Altri esempi, in tempi più remoti, ma comunque significativi, sono quelli di Philipp Van Lenard, vincitore del Premio Nobel in fisica nel 1905, e di Johannes Stark, che fu insignito del Premio Nobel in fisica nel 1919. Entrambi abbracciarono l’idea di una “fisica ariana” e  criticarono la “fisica ebraica” di Albert Einstein.

Per quello che riguarda invece le presunte “candidature” al Premio Nobel, in tempi recenti sempre i NO-VAX hanno cercato di mostrare come autorevole il Prof. Giulio Tarro in quanto “candidato al Nobel”. La questione, che molti ignorano, è che le candidature al Premio Nobel vengono rese pubbliche solo dopo 50 anni, quindi nessuno può avere notizia delle medesime se non dopo il predetto lasso di tempo.

Essere vaccinati contro uno dei (tanti) metodi di disinformazione ci può quindi fornire uno strumento che può aiutare a distinguere le informazioni corrette dalle false notizie.

 

L’Umanesimo e l’Umano: le componenti di stampo cattolico nel pensiero di Vittorino Andreoli

Vittorino Andreoli è uno dei più noti accademici e psichiatri nella cultura italiana. Sebbene si identifichi nella visione umanistica di stampo laico, molte componenti del suo Pensiero sono riconducibili ad una matrice cattolica.

 

Vittorino Andreoli, che nel 2020 ha raggiunto le 80 primavere, è uno dei più noti accademici e psichiatri italiani. E’ noto sia per il suo lavoro accademico (Andreoli et al, 2002) che per il suo lavoro come scrittore di saggistica e di romanzi (Moncalero, 2018), oltre che esser stato l’esperto convocato in alcuni dei casi di cronaca nera più noti della cultura italiana, come quello di Pietro Maso (Scorranese, 2018).

Il professor Andreoli, nella sua lunga carriera, si è distinto principalmente per la lotta per la rivalutazione e umanizzazione del malato mentale (Huffpost, 2018), per la sua attenzione verso il mondo giovanile e le sue problematiche (Varlese, 2020), per la sua critica verso i sistemi educativi e scolastici italiani (Andreoli, 2015) e per la sua analisi critica della professione psichiatrica (Andreoli, 2017).

Uno degli aspetti più interessanti e a volte controversi è la matrice di stampo religioso degli elementi del suo pensiero.

Come descrive Andreoli, egli è cresciuto in un contesto cattolico al quale egli è stato molto legato vista anche la sua partecipazione nell’Azione Cattolica (Andreoli, 2000): tuttavia, l’incontro con il pensiero Marxista e il ruolo dell’Uomo dentro il pensiero comunista lo hanno allontanano dalla religione (Andreoli, ibidem).

Anche se continua a identificarsi in un pensiero Umanistico dove l’Uomo e le sue disposizioni è il soggetto rispetto ad una visione teocentrica, Vittorino Andreoli, nel suo pensiero, affronta alcune tematiche con un’ottica molto influenzata dalla Religione. Come indica l’accademica Emma Young (2020), le persone che perdono l’interesse o la fede nella propria religione sono tuttavia influenzate in maniera perenne, anche nelle questioni marginali, dal loro Credo passato.

Per questo certe visioni di Andreoli presentano caratteristiche che hanno similitudini con la visione cristiana.

Un esempio principale è la sua avversione verso la spiegazione di tutti i Misteri: per Andreoli, il Credere è un bisogno imprescindibile per l’essere umano, perché è un meccanismo di difesa dalla conoscenza della Morte, che deve essere tenuto entro confini sani e che non deve essere intaccato dallo scientismo (Andreoli, 2015).

Un altro esempio è l’importanza dell’essere umano di stare con i suoi simili, di stare in una Comunità: di fatti, Andreoli è critico nei confronti dell’idea della Libertà, poiché essa allontana l’essere umano dal suo bisogno biologico e fisiologico di animale sociale (Andreoli, 2018).

Per concludere, un’altra sua visione che può essere letta attraverso un’ottica cattolica è la sua contestualizzazione della figura Madre – Figlio: il professore Andreoli è contrario all’aborto e identifica nella figura della Madre un elemento legato in maniera inossidabile alla crescita sana della struttura psicofisica umana, tanto da proteggere la visione della Madre dalla svalutazione della società economica (Andreoli, 2016)

 

La percezione della donna tatuata

Molti ricercatori si sono così chiesti come venissero giudicate le donne tatuate, quali caratteristiche venissero loro attribuite da persone esterne o non conosciute direttamente e se il loro grado di bellezza ne fosse in qualche modo intaccato o condizionato.

 

Il tatuaggio nelle donne ha compiuto un viaggio lungo più di un secolo. Gli anni hanno scandito l’uso e il senso dietro questa pratica, passando dall’essere nella nostra società un segno distintivo della classe sociale cui si apparteneva, diventando poi con il tempo un strumento di ribellione verso le caratteristiche ed il ruolo che le norme sociali impongono alla donna, fino a giungere ai giorni nostri sotto forma di ornamento che attraversa le barriere di genere, cultura e classe sociale, diffondendosi indipendentemente dall’età e dalla professione delle persone (Hawkes, 2004).

Tale pratica si è imposta col tempo tra le fila dei più giovani sotto forma di moda, così che i numeri riportano una quadruplicazione dagli anni ’70 agli anni ’90 (Armstrong, 1991), aumento che sembra ancora lontano dall’arrestarsi.

Una grossa quantità di ricerche scientifiche mostra però come nonostante tale diffusione, che coinvolge entrambi i sessi, vi siano ancora importanti pregiudizi che influenzano tanto la percezione quanto il comportamento delle persone.

Molti ricercatori si sono così chiesti come venissero giudicate le donne tatuate, quali caratteristiche venissero loro attribuite da persone esterne o non conosciute direttamente e se il loro grado di bellezza ne fosse in qualche modo intaccato o condizionato.

Nello studio di Daina Hawkes (2004) che ha preso in considerazione un campione composto interamente da studenti universitari canadesi, di entrambi i sessi, tatuati e non, è emersa un’attitudine generalmente negativa verso le donne che avevano un tatuaggio visibile. I soggetti che non avevano alcun tatuaggio e non erano interessati ad averne hanno espresso i giudizi più duri a riguardo.

Tuttavia, i partecipanti che avevano anch’essi un tatuaggio tendevano a considerare le donne tatuate come più forti e attive rispetto alle donne non tatuate. Molto interessante è il fatto che tali caratteristiche sembravano condivise anche dalle donne che non avevano tatuaggi. A tal proposito occorre contestualizzare tali accezioni. In una società in cui vengono considerate la debolezza e la bassa intraprendenza della donna come tratti distintivi, se non addirittura desiderabili, è opportuno chiedersi come vengano valutati atteggiamenti che vanno nella direzione opposta. Parimenti, in una sottocultura che al contrario idealizza la forza e il ruolo attivo della donna all’interno della società, le caratteristiche prima descritte possono essere considerate come potenzialità. Occorre quindi scorgere quale visione della realtà sociale viene condivisa dai partecipanti per comprendere adeguatamente il senso che essi vogliono dare ai loro giudizi.

Se consideriamo come lo studio di Sanders (1988) mostri che le donne siano ben consapevoli dello stigma che un tatuaggio visibile può arrecare loro, non deve sorprenderci che le stesse tendano a decorare parti del corpo meno visibili, in modo da mantenere un’identità sociale non contaminata dai pregiudizi sui tatuaggi delle persone che incontrano. Della stessa idea sembra essere Atkinson (2002), quando afferma che le donne riflettano su tali pregiudizi e che, in base a questi, scelgano la posizione giusta per il loro tatuaggio. Così le donne con un tatuaggio visibile sembrano scegliere di vestire l’handicap insito in una tale decorazione, lanciando una sfida alla società e ai suoi pregiudizi, che nonostante il giudizio negativo, sembra riconoscere loro il carattere e la forza di questa scelta.

Ma la trasgressione provoca reazioni diverse negli uomini e nelle donne non tatuati: mentre le donne sembrano più sensibili degli uomini alla dimensione del tatuaggio che la donna sceglie di sfoggiare, gli uomini non ne sembrano particolarmente influenzati quando giudicano la donna tatuata. Il loro giudizio è negativo a priori, come se non venisse valutata tanto la dimensione della trasgressione quanto la trasgressione in sé.

Non solo: anche gli uomini e le donne tatuati non reagiscono allo stesso modo di fronte a un tatuaggio grande esposto da una donna. Mentre le seconde non esprimono un giudizio negativo, i primi mostrano di condividere la stessa opinione negativa espressa dagli uomini non tatuati. Sembra avvenire, come affermano Hawkes e collaboratori, uno scontro tra un movimento di affiliazione ed una tendenza sessista di vivere la percezione dello stimolo. La dimensione del tatuaggio sembra non cambiare il giudizio delle donne che condividono il fatto di avere anch’esse un tatuaggio, mentre nel caso degli uomini il senso di condivisione viene spezzato, travolto dal modo della donna di vivere il tatuaggio in modo più evidente (Hawkes, 2004).

Lo stesso Douglas (2002) nel suo lavoro mostra come i giudizi verso le donne tatuate tendano ad essere sempre più negativi rispetto a quelli attribuiti alle donne non tatuate: la modifica dell’immagine di una ragazza alla quale è stato aggiunto un drago nero come tatuaggio sulla parte alta del braccio è bastata per farle attribuire dal campione di riferimento determinati aggettivi piuttosto che altri.

Lo stimolo modificato, una ragazza di 24 anni tatuata, veniva immaginato dai partecipanti come una donna meno sportiva, meno motivata, meno onesta, meno generosa e intelligente, meno religiosa e, non ultimo, veniva giudicata come meno attraente rispetto alla stessa ragazza che veniva vista da un altro campione di riferimento senza tatuaggio (Douglas, 2002).

Anche l’esperimento di Seiter (2005) sembra andare nella stessa direzione dei precedenti. Qui i rispondenti giudicavano le ragazze tatuate delle immagini che venivano loro presentate, come meno competenti e meno socievoli rispetto alle donne non tatuate.

Ma i pregiudizi sembrano toccare anche il comportamento sessuale delle persone tatuate.

L’esperimento di Swami (2007) combinava due variabili diverse, quali il colore dei capelli e la presenza o meno di tatuaggi, nei disegni di donne che venivano presentati ad un pubblico maschile, in modo da scoprirne i pregiudizi. In base alle combinazioni proposte i rispondenti dovevano definirne il livello di attraenza fisica, l’attitudine verso la promiscuità e la quantità di alcool che le donne degli stimoli usavano consumare in una serata tipica: è emerso che alle donne tatuate venivano associate maggiori tendenze verso la promiscuità, un maggior uso di alcool e venivano giudicate meno attraenti. Tali giudizi diventavano via via più negativi se il numero di tatuaggi dello stimolo aumentava. Inoltre, alle ragazze illustrate con i capelli biondi venivano attribuiti giudizi più negativi rispetto alle ragazze brune (Swami, 2007).

Il giudizio negativo riguardo la bellezza delle donne tatuate non è stato confermato dall’esperimento di Guéguen (2013), il quale ha invece rinforzato l’evidenza sul pregiudizio della promiscuità. L’esperimento di Guéguen ha mostrato che tale pregiudizio sembrava condiviso dagli uomini fino ad incentivarli in maniera maggiore nel conoscere le ragazze tatuate. L’esperimento si è svolto in alcune spiagge francesi durante l’estate. Sono state scelte delle ragazze senza tatuaggi e, in maniera casuale, è stato applicato ad alcune di queste un tatuaggio provvisorio che rappresentava una farfalla nella zona bassa della schiena. Sia alle ragazze tatuate sia a quelle non tatuate è stato richiesto di sdraiarsi in spiaggia, fingendo di leggere un libro. Ripetendo l’esperimento numerose volte in spiagge diverse è stato notato un più rapido approccio degli uomini verso le ragazze con il tatuaggio rispetto a quelle senza. Conseguentemente è stata rilevata negli uomini che si erano avvicinati alle donne con il tatuaggio la convinzione di godere di una maggiore probabilità di ottenere un appuntamento e di avere un rapporto sessuale al primo incontro, rispetto agli uomini che si erano avvicinati alle ragazze senza tatuaggio. Tale convinzione, legata al pregiudizio che le donne tatuate siano più spregiudicate a livello sessuale, ha messo in moto un determinato comportamento negli uomini.

Tuttavia, la scelta e il modo dell’uomo di approcciare una donna sono guidati da un insieme complesso di componenti: cercando di immaginarne alcune possiamo pensare che l’uomo dia attenzione a molti elementi con i quali la donna comunica la propria personalità e le proprie attitudini, come ad esempio i prodotti cosmetici (Cash et al., 1989; Jacob et al., 2009), i vestiti (Abbey, 1987; Abbey et al., 1987; Guéguen, 2011b; Koukounas & Letch, 2001; Shotland & Craig, 1988), il colore dei capelli (Guéguen & Lamy, 2009; Swami & Barrett, 2011) e persino i tatuaggi. Tutti questi e molti altri rappresentano degli indizi che l’uomo capta e utilizza nel generare il proprio giudizio riguardo a una donna. Giudizio che influenzerà a sua volta, come già sottolineato, il suo comportamento, selezionando in base al proprio orientamento socio-sessuale una donna che egli immagina possedere determinate caratteristiche piuttosto che altre.

Citando la psicologia evoluzionista, la donna consapevole dei pregiudizi che ruotano attorno a determinate caratteristiche, sceglierebbe di vestire il tatuaggio per attrarre un maggior numero di uomini così da avere la possibilità di scegliere il migliore tra i tanti (Greer & Buss, 1994). Parimenti, l’uomo punterebbe alle donne che egli crede essere più recettive a livello sessuale per aumentare la possibilità di disseminare i propri geni (Buss & Schmitt, 1993). La consapevolezza della donna su tali pregiudizi spingerebbe ancor di più gli uomini a focalizzarsi verso donne che esibiscono tali segnali.

Ma se consideriamo che la seduzione è un gioco a volte fine a sé stesso, e che gli obiettivi relazionali non sono scolpiti nella pietra ma cambiano anche in base alla persona che abbiamo di fronte, difficilmente possiamo immaginare una realtà così meccanica e automatica. Molto spesso tali pregiudizi fanno muovere le persone verso vicoli ciechi e solo l’essere giunte di fronte ad un muro le costringerà a capire che la persona che stavano seguendo era altro da come l’avevano immaginata e che realtà e apparenza non si sovrappongono quasi mai perfettamente.

 

Bilinguismo e sviluppo cerebrale: differenze tra apprendimento precoce e tardivo della seconda lingua

Studi sul bilinguismo mostrano come l’acquisizione di due lingue dalla nascita e quindi l’esposizione linguistica arricchita si traducano in una competenza equivalente in entrambe le lingue apprese e cambiamenti a livello di neuroplasticità.

 

Il cervello mostra una notevole capacità di subire cambiamenti strutturali e funzionali in risposta alle esperienze che caratterizzano la nostra vita. Le evidenze scientifiche suggeriscono che in molti domini dell’acquisizione di nuove abilità la manifestazione di questa neuroplasticità dipende dal periodo della vita in cui inizia l’apprendimento (Berken, Gracco & Klein, 2017). Il bilinguismo fornisce un modello ottimale per evidenziare le differenze esistenti tra l’acquisizione di una lingua dalla nascita, con la creazione del circuito cerebrale per il linguaggio, e l’apprendimento tardivo di una nuova lingua, quando i circuiti relativi alla prima lingua sono già ben sviluppati.

La review di Berken e colleghi esamina alcune delle conoscenze esistenti sui periodi ottimali nello sviluppo del linguaggio, prestando particolare attenzione al raggiungimento della fonologia di tipo nativo, o lingua madre. Berken e collaboratori si sono concentrati sulle differenze nella struttura e nella funzione del cervello tra bilingui simultanei, che hanno quindi appreso due lingue alla nascita, e bilingui sequenziali, che hanno invece imparato la seconda lingua quando la prima era già stata consolidata. Queste tipologie di ricerche possono essere svolte grazie al neuroimaging, in cui si utilizzano tecnologie che consentono di studiare la relazione tra l’attività di determinate aree cerebrali e specifiche funzioni. Tra i principali strumenti di neuroimaging impiegati nelle ricerche sul bilinguismo troviamo la tomografia a emissione di positroni (Positron Emission Tomography, PET), la risonanza magnetica funzionale (functional Magnetic resonance imaging, fMRI) e la risonanza magnetica strutturale (Magnetic Resonange Imaging, MRI).

Lenneberg (1967) rese popolare l’osservazione di Penfield e Roberts (1959), secondo cui l’acquisizione di una capacità linguistica di livello ‘madrelingua’ fosse limitata dall’età, diventando progressivamente più difficile da raggiungere dopo un periodo critico che si ritiene termini con la pubertà, riflettendo un grado significativo di sviluppo del cervello.

È noto che i neonati preferiscano ascoltare il parlato rispetto ad altri suoni (Vouloumanos & Werker, 2004; Moon, Cooper, & Fifer, 1993), e, a questo proposito, i bambini esposti ad un certo linguaggio dalla nascita dimostrano, in un primo momento, una capacità universale di percepire i fonemi di tutte le lingue (Kuhl, 2010; Werker e Tees, 1984). All’età di 6 mesi, tuttavia, la capacità del bambino di discriminare i contrasti fonemici non nativi inizia a diminuire, inizialmente per le vocali e successivamente per le consonanti (Kuhl, 2004; Kuhl et al., 1992). Dai 9 ai 10 mesi di età, le vocalizzazioni prelinguistiche del bambino somigliano molto alla fonetica della loro lingua madre (Poulin-Dubois & Goodz, 2001). Entro i 12 mesi, la capacità fonetica del bambino è sintonizzata per acquisire la lingua a cui è stato esposto (Kuhl & Rivera-Gaxiola, 2008; Werker & Lalonde, 1988), facendo sì che l’accento del bambino diventi indistinguibile da quello di un madrelingua (Simmonds et al., 2011a). Tali osservazioni supportano l’esistenza di un periodo sensibile nell’acquisizione del linguaggio da parte del bambino, specialmente per quanto riguarda lo sviluppo fonologico; esistono inoltre prove abbondanti per una correlazione tra l’età di acquisizione e la competenza linguistica finale (Newport, Bevelier, & Neville, 2001; Moyer, 1999).

Per quanto riguarda l’acquisizione di due lingue dalla nascita, sembra che l’esposizione linguistica arricchita si traduca in una competenza equivalente in entrambe le lingue apprese. A livello microscopico, un ambiente bilingue durante il periodo neonatale può provocare una cascata di eventi biochimici che aumentano la produzione dei substrati cellulari che regolano la neuroplasticità, nonché la durata della loro sintesi (Berken et al., 2017). Ciò a sua volta, potrebbe provocare cambiamenti macrostrutturali che si manifestano come un’attivazione efficiente durante il discorso, un aumento delle dimensioni di alcune aree cerebrali del linguaggio e delle connessioni più forti tra regioni cerebrali distribuite all’interno della rete linguistica. Tale neuroplasticità avviene al fine di gestire e monitorare ciascuna lingua e per prevenire interferenze tra le due (Berken et al., 2017).

I modelli di sviluppo del linguaggio hanno quindi rivelato che quando due lingue vengono acquisite contemporaneamente dalla nascita, la funzione e la struttura del cervello sembrano essere organizzate in modo più efficace. Tuttavia, quando l’apprendimento di una seconda lingua si sviluppa più tardi nella vita, la capacità di cambiamento neuroplastico sembra essere più limitata (Berken et al., 2017): un’efficace acquisizione della seconda lingua potrebbe necessitare di più tempo ed impegno.

 

I serious games e le loro applicazioni. Dagli esergame ai games basati sul biofeedback – Lo psicologo del futuro

Un serious games è un gioco programmato con espliciti obiettivi pedagogici e/o psicologici ben definiti dal principio ed il cui scopo non è puramente ludico. Ciò non implica la creazione di giochi non divertenti, anzi, proprio grazie alla forma coinvolgente che contraddistingue i videogiochi sarà più facile raggiungere gli obiettivi prefissati.

LO PSICOLOGO DEL FUTURO – (Nr. 7) I serious games e le loro applicazioni. Dagli esergame ai games basati sul biofeedback

 

Tra gli obiettivi più diffusi ad oggi troviamo lo sviluppo di nuove conoscenze (ad esempio scientifiche), la formazione di nuove competenze (ad esempio meccaniche, chirurgiche), la modificazione di comportamenti disfunzionali e lo sviluppo di abilità cognitive (ad esempio training attentivi).

Molti di questi giochi si basano sul presupposto del fallimento, creando sfide che spronano i soggetti a mettere in campo un maggiore impegno, stimolando l’apprendimento. Quando la sfida diventa troppo difficoltosa ed in seguito ad una serie ripetuta di fallimenti, per evitare al giocatore di sperimentare un senso di frustrazione non funzionale, l’assistenza fornirà indicazioni per poter progredire. Una volta ottenuti tali suggerimenti, il gioco rimetterà alla prova il partecipante con altre sfide senza fornire nuovamente le indicazioni.

Evitare di generare frustrazione nel partecipante, tanto potrebbe far tremare Albert Ellis (Ellis et al., 1985), quanto risulta essere alla base di molti serious games che hanno fatto della “zona di sviluppo prossimale” (Bruner, 1984) uno dei capisaldi del proprio operato, abbracciando anche le evidenze, seppur scarse, che dimostrano come le emozioni positive associate al gioco amplifichino le possibilità che le persone espandano le proprie risorse (Fredrickson, 2001).

Tornando alla tolleranza alla frustrazione e ad altri obiettivi di natura più propriamente psicoterapeutica, attualmente gli studi che si sono concentrati sui serious games a carattere psicoterapeutico sono ancora esigui. Ma dai dati a disposizione emerge che tali games sono risultati efficaci ed i pazienti hanno trovato piacevole l’esperienza di gioco ed inoltre è emerso che hanno avuto accesso alle cure anche persone che altrimenti, per diversi motivi, ne risultavano esclusi.

In particolare, in una review del 2017 (Fleming et al., 2017) sono state riportate nel dettaglio sei modalità di serious games per salute mentale:

  • Esergame: ovvero, i giochi basati sul movimento sono risultati efficaci nel trattamento di sintomi depressivi, soprattutto nel caso di pazienti appartenenti alle fasce di età più avanzate.
  • Realtà Virtuale e Realtà aumentata: sono serious games che si servono degli strumenti virtuali per garantire un’interattività immersiva, che può essere arricchita da vari stimoli sensoriali non solamente visivi e uditivi. L’impatto terapeutico risulta amplificato in questo tipo di videogiochi, capaci di immergere il paziente in un ambiente realistico. Si rimanda alla lettura dell’articolo Daniel Freeman e l’Oxford VR – gameChange: un nuovo progetto sull’uso delle nuove tecnologie.
  • Serious games per computer: in particolare la maggior parte dei giochi presenti in questa categoria si basano sulla riduzione di sintomi relativi a disturbi dell’umore.
  • Serious games basati sulla terapia cognitivo-comportamentale (CBT): tra i più famosi si ritrovano SPARX (per approfondimenti visitare la pagina) e SuperBetter (per approfondimenti visitare la pagina).
  • Biofeedback: in questo tipo di giochi i partecipanti possono provare esercizi di rilassamento, mentre ricevono messaggi sincroni relativi al proprio stato di attivazione fisiologica. Il feedback è dunque uno strumento che permette agli utenti di regolarsi più facilmente nell’attività svolta.
  • Giochi di allenamento cognitivo: tra i giochi più famosi all’interno di questa categoria si trovano giochi che allenano i pazienti depressi nel mantenimento cognitivo, per fronteggiare gli effetti del deterioramento. Negli studi relativi a tali giochi non sono però stati ancora testati gli effetti di tali giochi sull’umore, ma solamente sugli aspetti cognitivi, per i quali risultano essere efficaci.

 

Alla FIRST EUROPEAN CONFERENCE ON DIGITAL PSYCHOLOGY
ci sarà una sezione dedicata interamente ai videogiochi e serious games

Le iscrizioni sono aperte:

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EUROPEAN CONFERENCE OF DIGITAL PSYCHOLOGY
Scoprine di più: 

 

Dialoghi tra Neuroscienze e Psicoterapia: una tavola rotonda degli esperti sulle applicazioni della TMS – VIDEO

I professionisti del Centro TMS hanno tenuto un incontro all’interno della serie “Dialoghi tra Neuroscienze e Psicoterapia” sulla Stimolazione Magnetica Transcranica, illustrandone le caratteristiche e le applicazioni in campo psicoterapico. Pubblichiamo per i nostri lettori il video dell’evento.

 

Il team del Centro TMS, formato da terapeuti, psichiatri e neuroscienziati, si è trovato in una tavola rotonda virtuale per conversare dell’uso della Stimolazione Magnetica Transcranica (TMS) e della sua integrazione con la psicoterapia. In questa intervista a più voci, la dott.ssa Patrizia Vaccaro, oltre a spiegare come funziona il centro TMS di Milano, ha condotto gli esperti a spiegare le basi della TMS, i campi in cui risulta più efficace, come si integra con la psicoterapia e la farmacoterapia.

L’incontro è stato un’occasione per conoscere più da vicino una delle tecniche di neuromodulazione che si sta facendo sempre più spazio nel trattamento di molti disturbi, come ad esempio la depressione e le dipendenze.

 

DIALOGHI TRA NEUROSCIENZE E PSICOTERAPIA
Guarda il video integrale del webinar:

 

 

 

Quanto i pensieri influiscono nella sfera sessuale del Disturbo Ossessivo Compulsivo?

Le ossessioni possono avere diversi contenuti: in questo articolo ci soffermeremo sui pensieri sessuali tipici di una persona con Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC) e sui vissuti relativi alla sessualità.

Matteo Mercadante – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Il Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC)

Nel DSM 5 viene descritto il Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC) come caratterizzato dalla presenza di ossessioni e compulsioni: le prime implicano pensieri, immagini o impulsi ripetitivi e persistenti vissuti come spiacevoli e involontari, e sono vissute come intrusive e indesiderate causando disagio e ansia elevati; le seconde sono dei rituali, comportamenti ripetitivi (es. lavare, controllare) o azioni mentali (es. contare, ripetere parole mentalmente) che la persona si sente obbligata a mettere in atto in risposta a un’ossessione o secondo regole che devono essere applicate rigidamente (APA, 2013).

Le ossessioni possono avere diversi contenuti: in questo articolo ci soffermeremo sui pensieri sessuali tipici di una persona che presenta un DOC.

La sessualità è un aspetto fondamentale per il benessere psico-fisico della persona. Attraverso la sessualità, l’individuo entra maggiormente in relazione con se stesso, conoscendosi ulteriormente e accettando parti di sé. Prendendo consapevolezza della propria sessualità, può sperimentarla con l’altro e creare un’intimità.

La vita sessuale della persona con DOC risulta scarsamente soddisfatta: l’eccessiva ossessione, il controllo sulle emozioni e la rigidità non consentono a questi soggetti di vivere a pieno la loro sessualità, limitandosi in tante situazioni.

Tipologie di pensieri ossessivi riguardo la sessualità

I pensieri ossessivi con contenuti sessuali sono ritenuti inaccettabili dalla persona, vissuti come ego distonici e dolorosi. La loro prevalenza è compresa tra il 6% e il 24% nei soggetti con DOC (Grant et al., 2006).

I contenuti di tali ossessioni sono di vario tipo:

  • Possono presentarsi sottoforma di dubbi, impulsi relativi al proprio orientamento sessuale. Le preoccupazioni relative all’orientamento sessuale rientrano nella più ampia categoria di ossessioni sessuali. Le ossessioni per l’orientamento sessuale includono ricorrenti dubbi sul fatto che si possa essere omosessuali o eterosessuali, la paura di diventare omosessuali o la paura che altri possano pensare di essere omosessuali. Una persona può avere solo una di queste preoccupazioni o una combinazione. Un paziente con ossessioni sull’orientamento sessuale potrebbe avere pensieri del tipo: ‘Come posso essere attratto dagli uomini se ho sempre amato le donne? Ho frequentato molte donne prima e non ho mai pensato a una relazione con un uomo. Pensare di fare atti sessuali con un membro dello stesso sesso mi respinge. Non posso essere gay. Ma perché penso sempre agli uomini? Questo significa che sono gay.’ (Williams e Farris, 2011);
  • Ossessioni sulla possibilità di mettere in atto comportamenti devianti nella sfera sessuale (es: poter essere aggressivi con il partner, avere impulsi di tipo pedofilico);
  • Paure inerenti lo sporco e la contaminazione;
  • Dubbi ossessivi sulla relazione e sul partner (es. pensare a delle relazioni extraconiugali implica, per il soggetto con DOC, averle avute e quindi tradire il partner);
  • Impulsi inaccettabili nei confronti della famiglia o di figure religiose (es. immagini sessuali nei confronti di un parente o di una figura religiosa).

I pensieri ossessivi con contenuto sessuale possono far emergere diversi vissuti come disgusto, ansia, colpa, paura e vergogna a causa delle loro implicazioni morali, sociali e interpersonali.

Tendenzialmente, la persona con DOC non tollera queste emozioni e cerca di attenuarle attraverso comportamenti compulsivi di vario tipo come, ad esempio, la ricerca di rassicurazione negli altri, oppure trovare informazioni riguardo al tema temuto o, ancora, controlli ripetuti del proprio grado di eccitazione sessuale di fronte agli stimoli temuti. Il DOC con dubbi sulla propria omosessualità potrebbe cercare di auto-rassicurarsi ripercorrendo mentalmente le situazioni attivanti per cercare delle prove del proprio timore come, ad esempio, analizzare mentalmente nel dettaglio tutti i gesti appena effettuati di fronte a una persona dello stesso sesso. Tali comportamenti di auto-analisi possono essere visti anche in soggetti con altri tipi di ossessioni sessuali riguardanti bambini, familiari, ecc.

In uno studio di Siev e colleghi (2011) sono state esaminate le caratteristiche cognitive e cliniche associate alle ossessioni sessuali e hanno evidenziato la loro correlazione con le credenze riguardo l’importanza e il controllo dei pensieri e valutazioni immediatamente dopo specifiche intrusioni mentali indesiderate. Tali risultati dimostrano che gli individui con pensieri ossessivi di tipo sessuale sono angosciati dalla presenza e dal significato dei pensieri in sé.

Credenze circa i pensieri sessuali e ai comportamenti

Per quanto riguarda le credenze riguardo ai pensieri e alle intrusioni, sono presenti delle ‘credenze di fusione’ denominate da Wells, il quale determina tre domini di tali meta credenze (Wells, 2018):

  • Fusione Pensiero-Evento (Thought-event fusion, TEF) ossia credere che avere un pensiero intrusivo significhi che un evento si sia verificato o si verificherà. Ad esempio, se è presente il pensiero intrusivo di baciare una persona dello stesso sesso, può portare a credere che il solo pensarlo potrebbe significare di essere omosessuale o di poterlo diventare;
  • Fusione Pensiero-Azione (Thought-action fusion, TAF) cioè credere che i pensieri intrusivi, le sensazioni e gli impulsi abbiano il potere di far fare al soggetto qualcosa di non desiderato o sgradevole. Per esempio, avere l’immagine mentale di essere aggressivi con il proprio partner durante un rapporto sessuale può essere interpretato come qualcosa che accadrà e quindi il soggetto crede che compierà quell’azione;
  • Fusione Pensiero-Oggetto (Thought-object fusion, TOF) ossia credere che i pensieri e gli impulsi negativi possono essere trasferiti sugli oggetti, diventando più ‘reali’ e dannosi, oppure capaci di trasferirsi da un oggetto all’altro. Ad esempio, un individuo che pensa di poter essere un pedofilo mentre utilizza un rasoio, è convinto che tale pensiero possa trasferirsi sul rasoio stesso e quindi, in futuro, usarlo potrebbe aumentare il rischio di diventarlo per davvero.

Le credenze riguardo il bisogno di mettere in atto i rituali e i comportamenti neutralizzanti, riflettono solitamente l’importanza di controllare pensieri, impulsi e sensazioni come l’ansia (es. ‘Devo controllare la mia eccitazione, altrimenti l’ansia non diminuirà mai!’). Inoltre, sono presenti quando l’individuo ha bisogno di autoregolarsi mentalmente e fisicamente (es. ‘Devo mantenere uno stato mentale di calma per non avere quelle immagini violente mentre faccio sesso con la mia ragazza’).

Le credenze inerenti ai rituali rappresentano un livello metacognitivo che guida le risposte di coping con lo scopo di raggiungere uno stato ‘desiderato’, identificato con la ‘giusta’ messa in atto di comportamenti neutralizzanti.

I pensieri intrusivi diventano pericolosi per la persona con DOC a causa delle metacredenze legate a essi: l’individuo, quindi, cerca di valutare la pericolosità o meno della situazione senza dei fatti concreti e affidandosi a dei segnali interni, definiti ‘segnali di arresto’, che servono per interrompere i rituali: ad esempio, un soggetto con dubbi ossessivi sul suo orientamento sessuale, potrebbe smettere di controllare i gesti effettuati davanti a un’altra persona dello stesso sesso quando per cinque minuti non ha avuto pensieri intrusivi sulla sua sessualità. Tali segnali, tuttavia, sono difficili da soddisfare e ciò implica nuove intrusioni mantenendo attivo lo stress (Ibidem, 2018).

Vivendo in uno stato di ansia, il soggetto tenderà a interpretare erroneamente le proprie sensazioni fisiologiche e le attribuirà non al fatto che possa sentirsi ansioso, ma al fatto che possa essersi attivata una certa eccitazione sessuale, confermando ulteriormente i propri dubbi ossessivi. L’ansia, se prolungata nel tempo, può diventare molto invalidante per la persona, arrivando anche ad evitare tutta una serie di situazioni o stimoli attivanti: persone, luoghi, i pensieri stessi, ecc. Tali limiti influiscono significativamente compromettendo il funzionamento dell’individuo in diversi ambiti, tra cui quello legato alla sfera sessuale, provocandone un notevole disagio.

Alcuni autori (Albert et al., 2019) hanno esaminato vari studi in cui sono stati rilevati i fattori associati al rischio di suicidio nel DOC per identificare i predittori di suicidalità: tra quelli più significativi vi sono la gravità del DOC e la dimensione sintomatica dei pensieri inaccettabili (come aggressioni sessuali, religiose, ecc.).

In terapia è fondamentale intervenire sulle credenze metacognitive relative alle intrusioni e alle credenze inerenti i rituali e segnali di arresto (Wells, 2018): modificando tali credenze e rinforzando nuovi piani metacognitivi di elaborazione, la persona non percepirebbe più come pericolosi e inaccettabili i pensieri intrusivi e, di conseguenza, potrebbe permettersi di vivere più serenamente la sua vita sessuale.

 

Psicologia del tradimento: la natura dell’infedeltà

Viviamo in un periodo storico ipocrita e paradossale: da un lato la società ci propone e ci indirizza verso una sessualità svincolata da ogni tabù, dall’altro ci mortifica e fa vergognare del tradimento, anzi se solo osiamo ‘pensare’ di tradire.

 

Come si definisce quella situazione in cui una persona giura amore ad un’altra persona, garantendole fedeltà per tutta la vita?

Monotonia.

Scusate, piccolo lapsus freudiano: volevo dire monogamia.

Quando ho comunicato a mia moglie che avrei scritto un articolo sul tradimento, mi ha risposto sorridendo: «Ti verrà facile! Per natura tu sei infedele!».

Nella speranza si riferisse alla mia mania di abbandonare operatori telefonici a cui fino ad un attimo prima spergiuravo amore eterno per poi puntualmente tradirli con la più giovane e nuova compagnia che fa irruzione sul mercato, ho istintivamente (o forse sarebbe meglio dire difensivamente?) elaborato il seguente pensiero:

Ma in fondo, per natura, non siamo tutti un po’ infedeli?

L’uomo, infatti, è alla costante ricerca di piacere, di bellezza, di sensualità, di attrazione, di fantasia, di pulsione, di voglie, di novità.

Sono sensazioni che proviamo tutti, ma poiché siamo impegnati nella nostra salda e duratura relazione sentimentale, crediamo di non poter desiderare altro essere umano al di fuori del partner e le volte in cui riusciamo ad ammettere l’attrazione verso il nuovo collega appena assunto, dobbiamo aggrapparci ad una plausibile giustificazione per la nostra castigata e bigotta coscienza che molto spesso è di questo tenore:

Se ho voglia di lui/lei, significa che qualcosa non va nel mio attuale rapporto‘.

Sigmund Freud sottolineava come tutte le fissazioni, dopo un po’ di tempo, diventino inevitabilmente un disturbo della psiche; in pratica se desidero qualcosa e la mia natura istintivamente mi sprona a conquistarla, sono frenato dalla (dannata) mente che mi ricorda quanto sia riprovevole questo mio istinto, quanto queste pulsioni non siano socialmente accettabili e inoltre mi ricorda quanto dolore infliggerei a mia madre se venisse a sapere che, nonostante tutti i suoi sforzi, ha cresciuto un figlio fedifrago e lussurioso.

Nel film appena descritto, i protagonisti siamo noi ma il copione l’ha redatto integralmente la nostra mente.

Se così non fosse perché nonostante tutti i tentativi di reprimerla, questa strana ‘voglia’ la continuiamo a provare?

Viviamo in un periodo storico ipocrita e paradossale: da un lato la società ci propone e ci indirizza verso una sessualità svincolata da ogni tabù, dall’altro ci mortifica e fa vergognare se osiamo tradire, anzi se solo osiamo ‘pensare’ di tradire.

In realtà, credo che la questione sia abbastanza semplice anche se dura da accettare: siamo tutti destinati ad annoiarci delle cose e delle persone che abbiamo accanto, e il vero dramma è che la noia subentra a prescindere dalla bellezza o dal valore che diamo a ciò che possediamo.

È lo stesso principio che ha permesso all’umanità di evolversi perché l’infinito desiderio dell’uomo di spingersi oltre ogni suo limite e lottare per conquistare un mondo nuovo esiste solo perché quello vecchio… lo conosce già.

Noi trattiamo così male il nostro pianeta perché ci siamo abituati e, diciamolo, anche un po’ stufati della sua bellezza che diamo ogni giorno per scontata.

Sapete che cosa hanno in comune Uma Thurman, Victoria Beckham, Siena Miller, Jennifer Garner e la top model Jarry Hall, oltre ad essere state nominate tra le donne più belle dell’universo?

Sono state tutte tradite dal rispettivo compagno con la babysitter di turno che, mentre si occupava dei loro figli, contemporaneamente si occupava anche dei loro mariti.

Quello che voglio dire è che non ha importanza se stai frequentando Scarlett Johansson; tra un po’ di tempo, lei non ti ecciterà più come il primo giorno e lo so che adesso lo ritieni impossibile ma è solamente perché non la stai frequentando per davvero, Scarlett Johansson.

Eccola quindi la realtà, in tutta la sua crudeltà: è la nostra natura, è il nostro istinto primordiale che a volte riusciamo a non ascoltare fino a non renderci nemmeno conto che proviamo nuove pulsioni, che a volte riusciamo a reprimere anche se il nostro caro inconscio prima o poi le farà riemergere sotto qualche altra forma, e che a volte predominano in tutta la loro travolgente spiazzante naturalezza.

Non possiamo, perciò, decidere autonomamente di provare attrazione verso un’altra persona.

Possiamo, però, scegliere di non farlo diventare un problema.

Siamo più di 7 miliardi su questo pianeta, non è un po’ esagerato tormentarsi moralmente, riempirsi di sensi di colpa, avere rimorsi di coscienza, mettere in discussione la nostra relazione e in alcuni casi addirittura tutta la vita, solo perché proviamo una qualche forma di desiderio spesso non ancora ben definibile nei confronti di un altro essere umano?

Come sostiene la geniale psicoterapeuta Esther Perel nel libro Così fan tutti, le storie clandestine che sopravvivono una volta uscite allo scoperto, sono statisticamente pochissime.

Ma come? Da una relazione per la quale è stato messo a rischio così tanto, ci si aspetterebbe una maggiore resistenza e invece quando arriva la separazione o il divorzio, quando cioè il sublime si mescola con l’ordinario e il rapporto entra nel mondo reale fatto del ‘tocca a te fare i piatti’ e dell”abbassa la tavoletta’, tutto finisce per magia.

L’incantesimo svanisce perché troppo spesso ricercando lo sguardo altrui non è solo dal nostro partner che ci stiamo allontanando, ma anche dalla persona che siamo diventati.

Non è solo un altro essere umano che ci provoca pulsioni, ma è anche il nuovo contesto fatto di segretezza, di trasgressione, di incertezza, di indeterminazione, di fisicità che ancora non conosciamo a memoria e del fatto di non sapere se e quando avverrà il prossimo clandestino incontro.

Noi cerchiamo un altro amante quanto un’altra versione di noi stessi, perché questo ci consentirebbe di poter dare giusto una ‘piccola occhiata’ alla parte sconosciuta che è dentro di noi, che ci spaventa e affascina allo stesso tempo.

Freud rimarcherebbe il nostro eterno essere bambini: non possiamo avere l’amante perché sappiamo che è sbagliato… ed è proprio per questo che lo vogliamo ancora di più!

Dal punto di vista biologico, quando siamo attratti da qualcuno, il nostro cervello genera degli ormoni responsabili dell’aumento della pulsazione, della pressione sanguigna e della voglia sessuale. Questi ormoni, oltre a danzare come Nureyev liberamente per tutto il nostro corpo, stimolano l’ipofisi che a sua volta produce ossitocina e fa venire voglia alle persone che si piacciono di fare sesso.

Anzi, spesso la voglia viene solo ad una parte (generalmente l’uomo), se l’altra parte non corrisponde la pulsione (generalmente la donna).

In questa adrenalinica situazione il nostro corpo è alterato, per cui è naturale che dopo un po’ i livelli fisiologici siano destinati a calare e a stabilizzarsi ma non è altro che una reazione del nostro organismo che, per tutelarci, ci riequilibra a valori ordinari.

Noi, però, che commettiamo da sempre il madornale errore di equiparare la quotidianità alla banalità, lo consideriamo un primo preoccupante calo dell’innamoramento.

Nel libro Matrimonio e morale del 1929, il filosofo Bertrand Russell, sottolinea come «la Psicologia dell’adulterio è falsata dalla morale convenzionale che nei paesi monogami, l’attrazione per una persona non possa coesistere con il serio affetto per un’altra. Tutto questo è falso».

Non erano nemmeno gli anni ‘30 e già il concetto di monogamia vacillava.

A pensarci bene, però, in fondo il dogma della monogamia è presente nella nostra natura.

Forse abbiamo sempre dato per scontato che dovesse essere quella fisica, mentre in realtà concetti di unicità e fedeltà si sposano molto meglio con la monogamia… sentimentale.

Per amore della rosa, si sopportano anche le corna recita un famoso proverbio in cui si respira tutta la saggezza popolare.

Ah no, scusate. Si sopportano anche le spine, non le corna.

Maledetti lapsus freudiani!

L’arte di riparare un cuore (2020) di Duccio Baroni – Recensione

L’arte di riparare un cuore risulta un libro intelligente e agile, nel quale l’autore, racconta e supporta il processo di elaborazione del lutto relativo alla perdita di una relazione significativa..

 

Può accadere lentamente, come una candela che si spegne, o inaspettatamente, come un’esplosione. In entrambi i casi ciò che resta sono ceneri e macerie.

La fine di una relazione è un’esperienza umana dolorosa, che può causare una sofferenza acuta, totalizzante, difficile da fronteggiare. Baroni, ne L’arte di riparare un cuore, conduce con gentilezza il lettore lungo un percorso di accettazione delle emozioni sgradevoli connaturate alla fine di un amore, normalizzandole e contestualizzandole in una cornice funzionale: quel dolore ha un senso, un significato che, se accolto ed elaborato, può permetterci di rifiorire con ritrovata vitalità. E, se rialzarsi ‘tra le macerie’ di ciò che è stato è uno sforzo simile a quello di attraversare un bosco oscuro (in assenza di energie e senza alcuna indicazione sulle strade da prendere), ‘l’arte di riparare un cuore’ può fungere da guida per orientare il proprio cammino verso l’uscita.

Lo diviene offrendo una serie di strumenti utili a ‘puntellare’ il percorso di risalita, tra i quali le tecniche di grounding, l’acceptance degli stati emotivi, la respirazione diaframmatica, la self compassion, la mindfulness, il rilassamento muscolare progressivo. Tra le pagine, il lettore è piacevolmente stimolato da attività ed esercizi, adatti per praticare con immediatezza la teoria.

Nel complesso, L’arte di riparare un cuore risulta un libro intelligente e agile, nel quale l’autore, pur utilizzando un linguaggio che risulta familiare ai terapeuti cognitivo-comportamentali, racconta e supporta, con leggerezza e semplicità, il processo di elaborazione del lutto relativo alla perdita di una relazione significativa.

A partire dal superamento della fase iniziale, la negazione, il percorso tracciato da Baroni è ricco di spunti, strategie ed indicazioni: far saltare i ponti col passato, prendersi amorevolmente cura di sé, creare una valida rete di supporto, fronteggiare le tempeste emotive, comprendere e dare significato alla rottura della relazione, riconoscere i propri schemi disfunzionali per imparare a costruire relazioni più soddisfacenti.

 

L’arte dell’influenza: quando e perché gli artisti che deviano dalle regole hanno un impatto maggiore

Mentre alcuni artisti raggiungono la fama, altri cadono nell’oblio (Stamkou et al., 2018). Che cosa determina l’impatto che un artista e la sua arte possono avere?

 

Gli uomini che vengono ricordati secoli dopo la loro morte, in gran parte sono artisti. Pittori come Monet sono considerati dei geni al giorno d’oggi, eppure furono criticati duramente dai loro contemporanei per aver violato norme legate alla bellezza (Stamkou et al., 2018). Prendendo in considerazione un punto di vista psicologico, le deviazioni dalle norme prevalenti rappresentano una vera e propria sfida per lo spettatore perché rendono più difficile la comprensione del significato di un’opera d’arte, smorzando così la sua fluidità a livello visivo (Koffa, 1935; Landau et al., 2006; Schwarz et al., 2004; Reber et al., 1998; Rosch, 1975). Sia nel settore sociale che in quello artistico, ci si aspetta che le persone preferiscano modelli che si conformino maggiormente alle norme e alle aspettative implicite culturali. Di conseguenza, le idee che violano le aspettative culturali e le persone che violano le norme sono trattate con sospetto e vengono scoraggiate (Mueller et al., 2012; Okimoto e Brescoll, 2010) in quanto rappresentano una minaccia per gruppi e società ben funzionanti (Heerdink et al., 2013; Jetten e Hornsey, 2014; Jonas et al., 2014; Proulx et al., 2010; Van Kleef et al., 2015).

Per devianza artistica si intende una compromissione dell’impatto visivo di un’opera, dovuta a stimoli inaspettati che sono più difficili da elaborare e da comprendere (Koffka, 1935; Landau et al., 2006; Reber et al., 1998, 2004; Rosch, 1975). Nelle teorie di percezione visiva, il mantenimento della percezione di stimoli previsti richiede meno risorse cognitive, di conseguenza genera un effetto maggiormente positivo (de-Wit, Machilsen e Putzeys, 2010). Artisti che si discostano dalle norme culturali hanno maggiori probabilità di evocare emozioni negative come colpa e rabbia (Helweg-Larsen e LoMonaco, 2008; Kam e Bond, 2009; Ohbuchi et al., 2004), rischiando di perdere la loro posizione nell’ambito artistico (Yukl, 2010).

Nel campo artistico, le preferenze predicibili erano legate a stimoli riguardanti colori (Martindale e Moore, 1988), mobili (Whitfield e Slatter, 1979), dipinti (Farkas, 2002) ed esempi di categorie semantiche (Martindale et al., 1988).

Al di fuori del dominio artistico, la ricerca sulla devianza può contribuire all’influenza in circostanze particolari (Stamkou et al., 2018): deviare dalla norma indica lo sperimentare il ‘margine di manovra per agire secondo il proprio, nonostante i vincoli e le potenziali ripercussioni’ (Stamkou e Van Kleef, 2014). Dato che il potere sociale è associato alla mancanza di vincoli (Galinsky et al., 2003; Keltner et al., 2003), individui che assumono un comportamento apparentemente non vincolato da pressioni normative può essere percepito come potente (Stamkou et al., 2018). I nuovi movimenti artistici non emergono dal vuoto: ad esempio la teoria di Hollander, 1958 spiega come all’interno di un gruppo un individuo possa deviare dalle vecchie pratiche dopo aver acquisito fiducia nel gruppo sociale, cioè dopo aver dimostrato di essere in grado di seguire le norme già in essere per sviluppare in seguito nuove norme (Bray et al., 1982; Stone e Cooper, 2009). Nello specifico, si parla di devianza intrapersonale quando ci si riferisce alla tendenza evolutiva umana che spinge il singolo individuo a volersi distinguere dagli altri (Burris e Rempel, 2004).

Differenti ricerche dimostrano come le informazioni vengono memorizzate in un modo migliore quando sono distinte da altre (Leyens et al., 1997), mentre sentimenti di estrema somiglianza sono associati a effetti negativi in termini mnestici (Fromkin, 1972). La somiglianza può portare ad una valutazione positiva delle esperienze scarse e ad una maggiore identificazione con i gruppi distintivi (Brewer e Pickett, 1999; Stamkou et al., 2018).

Stamkou e colleghi (2018) svilupparono un modello teorico cercando di spiegare come gli artisti che si discostano dalle norme guadagnano un impatto maggiore a livello sociale, cercando di rispondere a 1) perché le opere artistiche visive spesso deviano dalle norme artistiche prevalenti della loro epoca, e 2) in che modo gli artisti devianti ottengono un riconoscimento e hanno un impatto duraturo (Stamkou et al., 2018).

Gli autori hanno presentato a dei soggetti differenti immagini: nel primo studio è stato dimostrato come nelle culture occidentali sono considerati maggiormente progressivi gli stili non realistici rispetto a quelli realistici. Altri 5 studi, svolti su due stili differenti di devianza artistica, forniscono prove dei vari effetti a livello di impatto (ad esempio, l’influenza percepita dell’artista, la valutazione dell’opera d’arte e l’attenzione visiva all’opera d’arte).

Nel secondo studio di Stamkou e colleghi (2018) emerge come gli individui consideravano gli artisti che si discostavano dal loro stile precedente in modo diverso rispetto agli artisti che seguivano costantemente un unico stile. Tali effetti sono evidenti anche nel terzo studio dove un impatto più forte si verifica quando gli artisti passavano da uno stile retrogressivo a uno progressivo. Gli artisti che deviavano dallo stile dei loro contemporanei erano considerati di maggiore impatto rispetto agli artisti che seguivano il filone predominante, inoltre l’impatto era maggiore se gli artisti abbandonavano uno stile regressivo attraverso l’utilizzo di strumenti progressivi (Stamkou et al., 2018). Infine, quando il contesto storico ha impedito agli osservatori di dedurre lo sviluppo dei mezzi espressivi utilizzati dagli artisti, la devianza artistica ha aumentato l’impatto percepito indipendentemente dai mezzi utilizzati con cui gli artisti hanno deviato le norme culturali.

Religione e Attaccamento a Dio tra i detenuti

Il presente studio si propone di indagare il rapporto tra religiosità (intrinseca ed estrinseca) e disimpegno morale nelle persone detenute e condannate. Mira inoltre a verificare se il tipo di attaccamento interpersonale è collegato al tipo di attaccamento a Dio e, infine, intende indagare se esiste una connessione tra la religiosità e l’attaccamento adulto.

 

In letteratura, molti studi hanno analizzato le credenze e gli atteggiamenti religiosi in gruppi di persone che vivono in contesti estesi o in istituzioni totalitarie (ad esempio, le carceri). In questi studi, la religione era a volte considerata dai detenuti come un utile strumento di adattamento, una forma di socializzazione e supporto (Eshuys & Smallbone, 2006).

La letteratura psicologica distingue tra l’attaccamento a Dio e religiosità (Pace, Zappulla, & Di Maggio, 2016). Il primo costrutto è legato al legame figurativo con il divino, a cui è richiesto sostegno e supporto (Kirkpatrick & Shaver, 1992); la religiosità è un costrutto che promuove l’azione sociale (Allport & Ross, 1967). Gli stili di attaccamento a Dio, vengono concettualizzati sulla base del modello proposto da Bowlby (1969, 1973): Dio può agire come base sicura, come figura in grado di fornire sostegno, rassicurazione, bisogno di protezione e fonte di aiuto in situazioni stressanti, può rappresentare un luogo sicuro per depositare speranze, paure, desideri e problemi con la sensazione di essere accolti, ascoltati e consolati (Kirkpatrick & Shaver, 1992; Pace, Cacioppo, & Schimmenti, 2011). Lo studio condotto da Kirkpatrick e Shaver (1992) ha mostrato come il rapporto di una persona con Dio possa assumere la forma di un rapporto di attaccamento simile a quello che si riscontra tra il bambino e la figura di accudimento primaria (sicuro, evitante o ambivalente). Per quanto riguarda la religiosità, Allport (1961), spiegando quei meccanismi che a volte sono giustificati dalla religione (ad esempio, il pregiudizio, la bontà, la tolleranza, ecc.), ha sottolineato l’esistenza di due dimensioni della religiosità: intrinseca e estrinseca. Una persona che ha una forte religiosità estrinseca si rivolge a Dio senza allontanarsi da se stesso, permette alle persone di usare la religione per i propri scopi e bisogni, migliorando la fiducia in se stessi. Tuttavia, le credenze religiose sono abbracciate selettivamente in maniera da essere coerenti con i propri bisogni personali. La religiosità intrinseca aiuta a soddisfare i bisogni di sicurezza, affermazione sociale e autostima (Passanisi, Craparo, & Pace, 2017). Questo tipo di religiosità, vissuta in profondità, considera la fede come un valore in sé, trascende gli interessi personali e implica impegno e sacrificio. La religiosità intrinseca motiva la persona a perseguire una vita religiosa coinvolta e impegnata, essa porta le persone a trovare nella fede una delle principali ragioni di vita (Fizzotti, 2008). Un importante studio condotto da Koenig (1995), condotto su gruppi di detenuti, ha inquadrato la religione intrinseca come un fattore rilevante per l’adattamento e di promozione dell’azione sociale. Al contrario, il disimpegno morale può essere collegato all’uso strumentale della religione. Il disimpegno morale, infatti, rappresenta un meccanismo di auto-regolazione volto ad allontanare il senso di colpa in seguito ad un’azione che viola i valori interni ed etici (Bandura, 1999). In particolare, per i trasgressori, è possibile che alcuni costrutti sociali (ad esempio, le credenze) possano essere considerati fattori di rischio per il disimpegno morale perché possono influenzare il pensiero secondo cui l’azione deviante può essere giustificata. Pertanto, in linea con Kirkpatrick (1997), che ha suggerito che la costruzione della religiosità dovrebbe includere anche credenze, valori ed esperienze spirituali, e in linea con la letteratura che ha considerato la religione come un agente di controllo sociale (Durkheim, 1951), il presente studio: (1) si propone di indagare il rapporto tra religiosità (intrinseca ed estrinseca) e disimpegno morale nelle persone detenute e condannate; (2) mira a verificare se il tipo di attaccamento interpersonale è collegato al tipo di attaccamento a Dio; infine, (3) mira a verificare se esiste una connessione tra la religiosità e l’attaccamento adulto.

I partecipanti allo studio sono stati 30 giovani adulti volontari reclutati negli istituti penitenziari italiani. La Moral Disengagement Scale (MDS; Caprara, Barbaranelli, Vicino, & Bandura, 1996), composta da 32 item divisi in 8 sottoscale, ha permesso di valutare gli 8 meccanismi di disimpegno morale individuati da Bandura (1986): giustificazione morale, etichettamento eufemistico, confronto vantaggioso, spostamento di responsabilità, diffusione di responsabilità, ignorare o distorcere le conseguenze, la disumanizzazione e l’attribuzione di colpe. La Attachment to God Inventory (AGI; Beck & McDonald, 2004), composta da 28 items ha permesso di valutare due dimensioni dell’attaccamento a Dio: l’ansia per l’abbandono (es. ‘Mi preoccupo molto del mio rapporto con Dio’) e evitamento dell’intimità (es. ‘Non sento un profondo bisogno di essere vicino a Dio’). La Revised Intrinsic/Extrinsic Religious Orientation Scale (ROS I-E/R; Gorsuch & McPherson, 1989), ha valutato la religiosità estrinseca (es. ‘Prego principalmente per l’aiuto e la protezione’) e quella intrinseca (es. ‘E’ importante per me trascorrere del tempo in meditazione e preghiera’) per mezzo di 14 items. Infine, l’Attachment Style Questionnaire (ASQ; Fossati et al., 2003), costituito da 40 items, ha permesso di valutare 5 dimensioni dell’attaccamento adulto, attraverso 5 scale: Fiducia/Fedeltà, Disagio per l’intimità, Necessità di approvazione, Preoccupazione della relazione, Secondarietà della relazione.

Dai risultati è emerso che bassi livelli di religiosità intrinseca spiegano alti livelli di disimpegno morale. In altre parole, le persone che hanno una fede autentica e profonda non sono abituate a usare meccanismi che le aiutano a liberarsi dalle regole sociali. Probabilmente, gli autori di crimini, che hanno avuto la possibilità di riflettere sulle loro azioni durante la prigionia, aiutati anche dalla loro religiosità, hanno capito che non era più necessario utilizzare meccanismi che giustificassero le loro azioni devianti. Inoltre, dai risultati è emerso che la scala ‘Preoccupazione della relazione’, che indica una tendenza all’attaccamento interpersonale ansioso e ambivalente, predice un attaccamento evitante a Dio. E’ possibile che questo stile di attaccamento possa portare una persona a sviluppare un timore di abbandono, così come sentimenti di sfiducia. Tuttavia, questi sentimenti possono portare una persona a sviluppare modelli operativi interni basati sull’evitamento e sulla diffidenza nei confronti di altre possibili figure di attaccamento. La Scala ‘Secondarietà per la relazione’, che indica una tendenza all’attaccamento disorganizzato, predice negativamente la religiosità intrinseca e positivamente la religiosità estrinseca. Queste persone hanno un’adeguata fiducia in se stessi, ma sono inclini a svalutare le relazioni, ad evitare l’intimità e sono disinteressate alle opinioni altrui; preferiscono sentirsi meno coinvolti perché non vogliono rimanere troppo invischiati nelle relazioni interpersonali. Infatti, le relazioni intime sono spesso carenti di vicinanza e di comunicazione. Pertanto, è possibile che una persona che già non è incline al coinvolgimento affettivo interpersonale non senta il bisogno di manifestare una forte religiosità e quindi un profondo legame con la fede (religiosità intrinseca). Tuttavia, l’autore del reato, per mantenere un’immagine positiva di se stesso, per cercare di mantenere un legame, e per sentirsi protetto e/o aiutato, può ricorrere alla religiosità estrinseca, che è ciò che la persona spesso ‘sfrutta’ per soddisfare la sua esigenza (Allport & Ross, 1967).

Il presente studio suggerisce che la religiosità, l’attaccamento a Dio e l’attaccamento interpersonale sono costrutti legati l’uno all’altro. Inoltre, questo studio sottolinea che è importante prestare attenzione all’autore del reato, che a volte viene dimenticato nelle carceri, per capire come il suo funzionamento mentale cambia nel corso della sua detenzione, così come i fattori protettivi a cui si aggrappa durante l’adattamento.

L’esperienza della malattia cronica nel paziente con Sclerosi Multipla: dall’accettazione della diagnosi all’impatto dell’emergenza sanitaria

In un recente studio (Motolese et al., 2020) che puntava ad esplorare l’impatto dell’epidemia da Covid-19 sulla salute mentale di un gruppo di pazienti italiani affetti da Sclerosi Multipla, è emersa una ricaduta significativa su questi pazienti rispetto ai controlli.

 

Che cosa significa convivere con una malattia neurodegenerativa? Che cosa mi aspetta? Quanto e come cambierà la mia vita? Queste e tante altre possono essere le domande che si pone una persona a cui viene diagnosticata la Sclerosi Multipla (SM), malattia sempre più diffusa che conta 2,8 milioni di persone affette nel mondo di cui 126.000 in Italia (www.aism.it). La malattia si manifesta spesso in giovane età esordendo in genere tra i venti e i quarant’anni, ed è la prima causa di disabilità non traumatica tra i giovani adulti (Bianconi et al., 2006) Questo implica, da parte dei pazienti, la necessità di riadattarsi alla vita con la consapevolezza di una nuova realtà fatta di limiti, ma anche di scoperte su se stessi e sulle proprie capacità di affrontare il cambiamento.

È una malattia fortemente caratterizzata dall’imprevedibilità, infatti, pur avendo dei sintomi comuni, ciascuno sperimenta la propria patologia con andamento ed esperienze diversi. Questo aspetto è legato alla natura stessa della Sclerosi Multipla in quanto malattia autoimmune. In altre parole, le cellule del sistema immunitario attaccano il Sistema Nervoso Centrale (SNC) causando un’infiammazione che porta alla demielinizzazione degli assoni con conseguente rallentamento nella conduzione degli impulsi nervosi (Bertolotto, Caricati, 2013). La perdita di mielina può verificarsi in diversi distretti del SNC – nervi ottici, cervelletto, midollo spinale, ecc.. – da qui l’eterogeneità della sintomatologia che può includere – tra gli altri – disturbi visivi, fatica cronica, alterazione della sensibilità, pesantezza o rigidità muscolare (spasticità), disturbi del movimento e della coordinazione, disturbi vescicali e cognitivi. In linea generale, sono state osservate alcune tipologie di decorso: nella forma recidivante-remittente si manifestano episodi di riacutizzazione dei sintomi seguiti da periodi di remissione parziale o completa; nelle forme progressive vi è un graduale peggioramento con accumulo di invalidità anche in assenza di ricadute (Bertolotto, Caricati, 2013). A tutto questo si aggiunge l’assenza di una cura definitiva. Ad oggi, le terapie esistenti hanno il solo scopo di rallentare la progressione della malattia, ma non di guarirla. Partendo da queste premesse si può immaginare quanto impegnative siano le sfide che chi riceve la diagnosi di SM si trova ad affrontare.

Nelle prime fasi dopo la diagnosi – che in alcuni casi si configura come un vero e proprio evento traumatico, uno shock che irrompe nella normalità della persona minacciandone la stabilità – molte sono le aspettative sulla malattia e su come cambierà la propria vita. La Sclerosi Multipla, sin dal suo esordio, ha quindi un forte impatto sul benessere psicologico – oltre che fisico – del paziente che si trova inaspettatamente a dover gestire una nuova condizione di vita, ben diversa da quella precedente alla diagnosi. Nel corso della malattia, la depressione si manifesta nel 50% dei pazienti con Sclerosi Multipla, ma è stata osservata anche la comparsa di un disturbo di adattamento associato alla diagnosi in quanto evento stressante. Nel tempo, possono manifestarsi reazioni ansiose e depressive e un sentimento di paura legato alla possibile perdita di funzioni motorie, sensoriali e cognitive, nonché della propria autonomia (Capone, 2019). Al suo esordio, la patologia si scontra inoltre con le priorità di un giovane nella fase più produttiva della vita, con conseguenze sulla sfera personale, relazionale, sociale, lavorativa. Cambiamenti rilevanti possono avvenire sul piano delle relazioni, in famiglia o con il proprio partner, dove possono emergere difficoltà nel comprendere a vicenda il rispettivo stato emotivo. Il paziente, così come i familiari, possono difendersi mettendo in atto una vera e propria negazione del problema, rifuggendo o minimizzando tutto ciò che riguarda la malattia. Un’ulteriore fonte di stress è rappresentata dal cambiamento dell’immagine di sé che la persona affronta nel momento in cui deve fare i conti con una condizione dalla prognosi imprevedibile che intacca la visione del proprio futuro nonché la percezione del proprio ruolo di adulto. Questo clima di incertezza può condizionare anche la pianificazione della vita lavorativa. Se per ogni giovane adulto costruire il proprio futuro nel mondo del lavoro è un compito arduo, per una persona con SM può essere doppiamente faticoso. Si deve tenere conto dei limiti oggettivi imposti dalla malattia, della fatica cronica, delle eventuali discriminazioni che – sfortunatamente – si possono incontrare ancora oggi in un contesto lavorativo.

Nel tempo, con il giusto impegno e supporto, si impara a conoscere la malattia e le sue caratteristiche e, con un approccio centrato sul problema, si apprendono strategie utili alla gestione di questa nuova condizione. Ognuno di noi, infatti, è dotato di sottili meccanismi che hanno il compito di consentirci il miglior adattamento possibile ai cambiamenti che intervengono nella realtà. In situazioni impreviste e difficili ci avvaliamo di strategie cognitive e comportamentali, le cosiddette strategie di coping, in grado di aiutarci nel far fronte ad una situazione stressante. Il coping si rivela fondamentale nel determinare il tipo di risposta dell’individuo alla malattia cronica (Goretti, 2013). Le caratteristiche di personalità del soggetto e alcuni elementi della rappresentazione mentale della malattia contribuiscono a determinare l’utilizzo di una specifica strategia di coping piuttosto che di un’altra (Bianconi et al., 2006).

Alla luce di queste osservazioni, è possibile affermare che convivere con una malattia come la Sclerosi Multipla significa dover fare un continuo sforzo di adattamento ad una realtà in perenne mutazione. Non è possibile parlare di semplice accettazione della malattia, si deve tenere conto delle infinite sfumature della patologia che si mescolano con le altrettante sfaccettature che caratterizzano ogni persona rendendo unica la sua risposta al cambiamento. Il lavoro su se stesse che le persone con Sclerosi Multipla devono affrontare è un lavoro senza fine proprio perché la malattia, dopo il suo esordio, diventa una compagna fissa e pone continue richieste che si accompagnano spesso ad un considerevole carico emotivo.

Volgendo l’attenzione all’attualità, si può immaginare come la situazione di emergenza sanitaria in corso abbia avuto un impatto significativo sulle persone affette da Sclerosi Multipla e, più in generale, su tutti i pazienti con malattie croniche. L’avvento del Covid-19 ha avuto ricadute importanti su molti aspetti della vita di questi pazienti, a partire dalle limitazioni nell’accesso alle strutture ospedaliere e di cura – dove una persona con Sclerosi Multipla si reca con cadenza programmata per controlli, visite e terapie – alla crescente difficoltà nella fruizione dei servizi riabilitativi fondamentali nel garantire a molti una migliore qualità della vita. L’inattività può infatti contribuire ad aggravare la spasticità o comportare indebolimento muscolare, influendo negativamente sul benessere fisico della persona (Mendozzi, 2020). Anche sul piano emotivo e psicologico l’esperienza della pandemia ha portato con sé diversi vissuti. Nello specifico, in un recente studio (Motolese et al., 2020) che puntava ad esplorare l’impatto dell’epidemia da Covid-19 sulla salute mentale di un gruppo di pazienti italiani affetti da Sclerosi Multipla, comparati alla popolazione generale, è emerso come il diffondersi dell’epidemia da SARS-Cov-2 abbia avuto una ricaduta significativa su questi pazienti. Gli stessi riferivano infatti una maggiore presenza di sintomi depressivi, scarsa qualità del sonno e un’aumentata percezione dei livelli di fatica, sintomo della Sclerosi Multipla fortemente invalidante. In un altro studio, Stojanov et al. (2020) hanno indagato lo stato psicologico di un gruppo di soggetti con Sclerosi Multipla recidivante-remittente facendo emergere – tra gli altri risultati – una serie di preoccupazioni sulla malattia da parte dei pazienti; queste riguardavano la paura di contrarre l’infezione e che questa potesse peggiorare la propria condizione pre-esistente, il timore di non riuscire a reperire i farmaci o di non potersi recare in ospedale come da abitudine. Tali osservazioni rappresentano senz’altro un punto di partenza per una nuova sfida che coinvolge pazienti, personale sanitario e professionisti della salute mentale.

Tutte queste informazioni ci dicono anche che quello della malattia cronica è un quadro complesso; lo è sempre stato e lo diventa ancora di più in un tempo come quello che stiamo vivendo. Per questo motivo, in un’ottica più ampia, l’esperienza della malattia cronica apre importanti riflessioni. Essa ci pone davanti alle imperfezioni e ai limiti entro i quali si realizza la nostra esistenza, limiti che appartengono a tutti – ma spesso ignorati – che il malato cronico testimonia con le sue difficoltà quotidiane, facendoci riflettere sul modo in cui ci approcciamo al mondo, alla sofferenza e su come guardiamo al futuro; il malato cronico è colui che sperimenta quotidianamente i vincoli della condizione umana, ma al tempo stesso ci mostra come sia possibile vivere anche in presenza di importanti limitazioni e, perfino, trasformare i momenti di difficoltà in opportunità di sviluppo e realizzazione personale (Bonino, 2019).

 

Il nurturing touch come strumento di relazione nella demenza grave

Difficoltà comunicative e senso di impotenza sono ostacoli spesso lamentati dai caregivers di persone affette da demenza.

 

Ad uno stadio moderato-grave di malattia, infatti, la produzione e comprensione del linguaggio sono deficitarie ed emerge la necessità di affidarsi ad altri mezzi di comunicazione. La parola diviene per il malato un ulteriore stimolo indecifrabile all’interno di un contesto già di per sé di difficile comprensione. Occorre, dunque, affidarsi alla comunicazione non verbale ovvero a quell’insieme piuttosto eterogeneo di indizi perlopiù corporei e spaziali che accompagnano e danno significato all’atto linguistico. Nel caso della demenza, assumono particolare importanza la prossemica, ovvero l’utilizzo dello spazio e delle distanze relazionali (Hall, 1968), e l’aptica, ovvero il contatto corporeo.

È sempre bene tenere a mente che il contatto e la vicinanza fisica sono accettate solo se appropriati alla situazione, compresi dalla persona e se non impongono un’intimità maggiore di quella desiderata (Hollinger & Buschmann, 1993); in caso contrario essi causeranno agitazione e reazioni automatiche di attacco-fuga.

L’importanza del contatto fisico nel processo di cura

Il tatto è il primo senso che si sviluppa ed è fondamentale lungo tutto l’arco di vita (Montagu, 1978). La quantità di corteccia cerebrale dedicata all’interpretazione delle sensazioni provenienti dalle dita (dolore, temperatura, pressione) è maggiore rispetto a qualsiasi altra parte del corpo.

Come anticipato, il sistema aptico riguarda l’utilizzo del contatto corporeo come mezzo comunicativo. Il contatto può essere reciproco, come ad esempio la stretta di mano, o unidirezionale. Inoltre, è possibile individuare zone del corpo vulnerabili, toccate solo da professionisti o da persone molto intime, e non vulnerabili, il cui contatto è permesso anche ad estranei (ad esempio la mano). Il contatto fisico è un atto comunicativo ambiguo che dipende anche da fattori culturali, possiamo infatti distinguere culture del contatto (arabe, latine) e del non contatto (nordiche, giapponese, indiana).

Spesso nelle strutture di assistenza sanitaria le interazioni fisiche sono estremamente orientate agli aspetti sanitari (lavare, vestire, alimentare) ma mancano di significato emotivo.

Ciò potrebbe far ricordare gli studi di René Spitz condotti negli anni ’40 negli orfanotrofi su bambini precocemente separati dalle madri, specie durante il primo anno di vita. Con ospedalismo l’autore si riferiva a una sindrome caratterizzata da disturbi del comportamento, ritardo dello sviluppo cognitivo e affettivo e fragilità somatica, che nel peggiore dei casi portava al marasma e alla morte stessa. Essa si presentava quando, nonostante venissero fornite cure fisiche adeguate e soddisfatti i bisogni fisiologici, vi era una mancanza di stimolazione sensoriale e di scambi e comunicazioni di natura affettiva.

Da queste riflessioni emerge, dunque, la differenza tra un contatto quotidiano, meccanico, automatico, breve e orientato all’obiettivo, e uno terapeutico, consapevole, partecipato, prolungato e volto a procurare benessere (Goldschmidt & van Meines, 2011).

Nurturing touch: il tocco che nutre

Con massaggio si intende la semplice ‘manipolazione manuale dei tessuti molli per promuovere la salute e il benessere’ (Moyer, Rounds & Hannum, 2004).

Spesso il massaggio alla mano viene utilizzato nelle cure palliative (Osaka et al., 2009), nella demenza grave (Yang et al., 2007) e nel dolore post-operatorio (Wang & Keck, 2004), con l’obiettivo di fare compagnia al malato, offrire supporto emotivo, una presenza e momenti relazionali significativi. Chiamato più tecnicamente nurturing touch (‘il tocco che nutre’), tale massaggio è una tecnica sviluppata dalla massoterapista neozelandese Peggy Dawson che rientra nella medicina complementare e alternativa (CAM) o medicina integrativa, un approccio olistico che ovviamente non intende sostituire la medicina tradizionale ma accompagnarla.

La mano è una parte non vulnerabile del nostro corpo, facile da raggiungere e punto di contatto accettabile tra persone di diverso genere (Goldschmidt & van Meines, 2011).

Gli effetti riscontrati di questa pratica sono: riduzione di cortisolo, ormone dello stress (Field, 2000); liberazione di endorfine, analgesici naturali del corpo (Kaada & Torsteinbø, 1989); aumento di ossitocina, ormone peptide associato al rilassamento (Rapaport, Schettler & Bresee, 2010). Relativamente ai pazienti con demenza, dagli studi sembra che il nurturing touch riduca l’aggressività, l’agitazione e gli stati ansiosi (Harris & Richards, 2010; Wu, Wang & Wang, 2017).

Il massaggio alla mano sembrerebbe dunque un efficace strumento di relazione con la persona affetta da demenza, specie nelle fasi avanzate di malattia, contribuendo ad una migliore qualità di vita. A ciò si aggiungono anche effetti positivi per il caregiver, riferendo un aumento del tono dell’umore (Field, 2000).

Il nurturing touch è uno strumento che può essere insegnato a operatori e familiari per migliorare la qualità delle cure e per praticarlo è necessaria l’autorizzazione medica dal momento che in determinate patologie o condizioni sanitarie potrebbe essere controindicato.

 

Umorismo e differenze di genere: quali sono ed in quali ambiti?

L’umorismo è un fenomeno altamente complesso ed esistono differenze individuali in tutti i suoi aspetti.

 

Tali diversità riguardano, ad esempio, l’apprezzamento, la comprensione, la produzione e la comunicazione dell’umorismo (Martin 2010). Un aspetto che ha da sempre incuriosito i ricercatori di questo ambito è stato quello di definire se vi siano differenze stabili in base al genere.

Una prima revisione della letteratura fu condotta venti anni fa (Lampert & Ervin-Tipp, 1998). Questi primi risultati evidenziarono una maggior propensione degli uomini a creare stimoli umoristici, ad usare maggiormente l’umorismo nelle conversazioni, ad apprezzare in maniera maggiore l’umorismo aggressivo e sessuale rispetto alle donne.

Tuttavia, un aspetto saliente di questa revisione è data dal fatto che gli stessi autori evidenziarono limiti nella modalità di studio degli stimoli umoristici (ad es., in laboratorio rispetto ad una valutazione ecologica) nell’impostazione dei comportamenti studiati e dalla presenza di evidenti difetti metodologici (ad es., utilizzando autovalutazioni rispetto a giudizi di altri). Queste limiti metodologici possono quindi aver portato a risultati distorti, esagerando le effettive differenze di genere (Ergül, 2014).

Le differenze di genere: lo state dell’arte

Partendo dalle limitazioni presentate nelle precedenti revisioni, e con l’idea di fornire una panoramica omnicomprensiva delle differenze di genere, è stata recentemente pubblicata una revisione della letteratura che ha preso in considerazione 77 articoli pubblicati tra il 1977 ed il 2018 (Hofmann et al., 2020).

L’obiettivo principale è stato quello di identificare, presentare e discutere tutta la letteratura disponibile e pertinente incentrata sulle differenze di genere in tutti gli aspetti relativi all’umorismo, attraverso varie discipline, e includendo studi basati sia su un approccio quantitativo, sia qualitativo. Mentre alcuni aspetti dell’umorismo, come il senso dell’umorismo quale caratteristica di personalità, possono avere una radice temperamentale (quindi biologica), altri sono influenzati dall’interazione con l’ambiente e il contesto sociale. Inoltre, alcune diversità possono essere esplicitamente collegate a specifiche differenze culturali. Anche la questione dei limiti metodologici spesso acclamati nei primi studi (cioè, l’uso di materiali non rappresentativi, decontestualizzazione, uso di ‘barzellette fabbricate’), è stata affrontata in questo lavoro. Ad esempio, il contesto sociale è stato incluso per fornire una cornice del materiale umoristico presentato (i.e., l’umorismo utilizzato in Facebook; Strain et al., 2015). Inoltre, invece di usare barzellette, in alcuni studi è stato chiesto ai partecipanti raccontare eventi divertenti delle loro vite per ottenere stimoli umoristici ecologicamente validi (Abel & Flick 2012).

Generalmente parlando, l’analisi dei 77 articoli scientifici ha mostrato che si possono riscontrare differenze di genere in aspetti specifici.

Differenze tratti di personalità legati all’umorismo

Relativamente alle differenze nei tratti di personalità legati all’umorismo il risultato più evidente è che uomini e donne differiscono costantemente nei tratti associati all’aggressività, in cui gli uomini ottengono punteggi sempre più alti. Allo stesso modo, gli uomini ottengono punteggi più elevati per ciò che concerne il katagelasticism (la gioia di ridere di altri; Proyer & Ruch,  2010). Queste differenze emergono anche prendendo in considerazione il modello degli stili umoristici, elaborato da Martin e colleghi (2003) in cui gli uomini mostrano punteggi più elevati nello stile aggressivo, rispetto alle donne.

In linea con gli studi precedenti (Lampert & Ervin-Tipp, 1998) tali risultati possono quindi definirsi come stabili e generalizzabili, anche a fronte di metodologie di ricerca più accurate svolte negli ultimi venti anni. Va sottolineato che non sono state trovate differenze negli altri tratti legati all’umorismo e quindi, uomini e donne descrivono il loro senso dell’umorismo in modo simile, con la sola eccezione dell’umorismo aggressivo. Quella emersa, inoltre, può essere vista come una differenza culturale: in varie culture, evitare un’aperta espressione di aggressività è indice di femminilità, mentre mostrare competitività verbale e fisica è sinonimo di mascolinità (Dionigi & Gremigni, 2010).

Differenze nell’apprezzamento dell’umorismo

L’argomento delle differenze di genere nell’apprezzamento dell’umorismo è il tema più studiato nel corso degli anni. La maggior parte degli studi condotti è stata svolta in laboratorio presentando a partecipanti di entrambi i sessi una gamma di stimoli umoristici preselezionati chiedendo loro di valutare i materiali secondo le dimensioni scelte. La maggioranza degli studi presi in esame nelle revisione (sette su otto) mostra come gli uomini preferiscano maggiormente l’umorismo sessuale rispetto alle donne. In un altro studio, emerge che le donne apprezzano maggiormente gli stimoli umoristici a tema sessuale se il bersaglio sono gli uomini più di quanto facciano gli uomini, mentre tendono ad apprezzare in maniera minore degli uomini le battute in cui sono loro il bersaglio (Herzog, 1999). In riferimento all’umorismo ostile, in maniera simile, ogni genere tende ad apprezzare maggiormente le battute che vedono come bersaglio l’altro genere (Abrams & Bippus, 2011). Ancora, le donne mostrano di preferire l’umorismo utilizzato in maniera affiliativa maggiormente rispetto ad un uso ostile e aggressivo, mentre gli uomini hanno valutato positivamente entrambi gli stili. Non sono emerse differenze significative nell’apprezzamento del nonsense humor (Kohler & Ruch, 1996), battute neutrali (Ferstl et al., 2017) e nell’apprezzamento riguardante aneddoti divertenti di vita vissuta, in cui non erano presenti contenuti ostili o sessuali.

Differenze nella produzione dell’umorismo

Diversi studi presi in considerazione nella revisione della letteratura hanno mostrato come la produzione di contenuti umoristici da parte degli uomini (ad esempio, chiedendo ad entrambi i sessi di inventare didascalie per dei fumetti), era in media più divertente rispetto a didascalie inventate dalle donne (Greengross & Miller, 2011; Mickes et al. 2012). Inoltre, gli uomini hanno prodotto un numero maggiore di didascalie rispetto alle donne. Tuttavia, in un simile compito di produzione di umorismo, Kellner e Benedek (2017) non hanno trovato differenze di genere nella capacità di produzione di umorismo, intelligenza e creatività. Infine, Hooper et al. (2016) non hanno trovato differenze di genere in due dei tre campioni presi in esame, mentre nel terzo campione le donne sono state giudicate più divertenti degli uomini.

È interessante notare anche che nel giudicare l’umorismo prodotto da uomini e donne sono emersi risultati diversi quando si confrontano gruppi di valutatori di diverse nazioni (ma della stessa lingua). Quindi, se uomini e donne si trovano ad essere inegualmente divertenti, questo effetto potrebbe essere riferito a specifici gruppi culturali. Inoltre, diversi studi mostrano come l’auto percezione di essere divertenti è maggiore per gli uomini, rispetto alle donne (Mickes et al., 2012; Hooper et al., 2016). Quindi, gli uomini si autovalutano come più divertenti (il bias di attribuzione è stato replicato in diversi studi) ma rimane da verificare se lo siano effettivamente.

Un aspetto saliente che è emerge è che l’umorismo femminile è generalmente volto a produrre intimità e familiarità. Le donne, infatti, scherzano maggiormente su esperienze condivise di delusione ed eventi negativi accaduti loro, mentre gli uomini utilizzano l’umorismo per attrarre l’attenzione (Dionigi & Gremigni, 2010). Le donne, inoltre, tendono a mostrare le proprie imperfezioni in maniera umoristica, come autoaffermazione: se cose simili accadono anche ad altre persone significa che si rientra nella normalità. In più, l’assurdità non danneggia nessuno (Crawford, 2003).

L’utilizzo dell’umorismo nelle interazioni

Per ciò che concerne la comunicazione umoristica, uno dei maggiori limiti è dato dal fatto che quando si prendono in considerazione gli studi esistenti, spesso sono stati condotti su valutazioni autoriferite e non su osservazioni reali. Gli studi metodologicamente più convincenti utilizzano metodologie qualitative quali l’Analisi Conversazionale (AC) ed i risultati suggeriscono differenze di genere, ma non sono unidirezionali (ad esempio Dunbar et al. 2012). Nelle diadi sessuali miste, gli uomini esprimono umorismo più frequentemente delle donne. Nelle diadi dello stesso sesso, le donne tendono a produrre più commenti umoristici degli uomini. Pertanto, non ci sono differenze di genere generali, ma le differenze dipendono dai diversi contesti sociali, con chi gli individui stanno parlando e in quale situazione si trovano (romanticismo, lavoro). Sebbene emerga chiaramente che gli uomini producano maggiori commenti umoristici delle donne nelle relazioni sentimentali e nei momenti di corteggiamento, questo risultato non è generalizzabile a tutte le situazioni (Bressler et al., 2006, Greengross & Miller, 2011; Tornquist & Chiappe, 2015). In alcuni contesti, ad esempio, le donne che tendevano a raccontare in modo divertente i propri aneddoti di vita venivano ritenute maggiormente attraenti dagli uomini (Greengross & Miller, 2011). Questo aspetto, tematicamente ampio e con un crescente corpo di letteratura, necessita di ulteriori approfondimenti, anche utilizzando la suddivisione in specifici sottotemi.

Conclusione

Questa recente revisione della letteratura ha mostrato che esistono delle differenze di genere in alcune aree specifiche quali la produzione, l’apprezzamento, le risposte all’umorismo e la tipologia di comunicazione umoristica maggiormente utilizzata. Tuttavia, la dimensione di questi risultati può essere fortemente influenzata dal metodo di valutazione e dal contesto, in linea con quanto emerso già più di venti anni fa (Lampert & Ervin-Tipp, 1998). Gli studi futuri dovrebbero porre maggiore attenzioni su alcuni fattori che possono influenzare i risultati, quali il ruolo che ha il genere sulle autovalutazioni. Inoltre, le modalità di valutazione degli stimoli condotti in laboratorio deve essere esplorata in modo più dettagliato in studi futuri (Ergül 2014).

 

Earworm: quella melodia che si ripete nella testa

Vi è mai capitato di sentire nella testa la stessa melodia ascoltata in radio o in tv che continua a ripetersi più e più volte? Il termine earworm (ita. tarlo nell’orecchio) si riferisce proprio alle musiche orecchiabili che scorrono ripetutamente nella mente di una persona (Reuman, Buchholz & Abramowitz, 2020).

 

Tali esperienze sono state documentate per oltre un secolo (Ebbinghaus, 1885; Kraepelin, 1915), e sono state definite anche come ‘ripetizione di immagini musicali’, ‘musica appiccicosa’, ‘sindrome della canzone bloccata’ o fenomeno delle Immagini Musicali Intrusive (Intrusive Musical Imagery, IMI), (Levitin, 2006; Sacks, 2007). Nel 2007, il medico e scrittore britannico Oliver Sacks notò che gli earworms possono durare per ore o giorni prima di dissolversi. Sacks ha sottolineato che i tarli dell’orecchio possono presentare parole (p. es., una pubblicità) oppure no (p. es., la Quinta sinfonia di Beethoven), e che le persone che lo sperimentano possono sentirsi ‘intrappolate’ nella canzone al punto che questa potrebbe perdere il suo significato, nonché interferire con attività quotidiane e sonno (Sacks, 2007).

Per quanto riguarda la prevalenza, i sondaggi indicano che più dell’85% delle persone sperimenta l’IMI almeno settimanalmente (Bailes, 2007; Liikkanen, 2012). La frequenza di questa esperienza è positivamente associata alla quantità di coinvolgimento musicale (p. es. regolarità dell’ascolto di musica) e all’importanza percepita della musica (Beaman & Williams, 2010; Liikkanen, 2012). Sacks ha paragonato il ‘processo coercitivo’ patologico a un tic, e ha tracciato parallelismi con autismo, sindrome di Tourette e disturbo ossessivo-compulsivo (DOC), osservando che gli individui coinvolti nell’IMI possono essere agganciati da suoni automatici e ripetitivi che li portano a ripetere involontariamente le melodie nella mente. Sacks ha ipotizzato che l’earworm sia un fenomeno moderno, poiché le nuove tecnologie, come lettori musicali portatili e cuffie, hanno reso la musica prontamente disponibile, e ciò è confermato dagli studi di Beaman e Williams (Sacks, 2007; Beaman & Williams, 2010).

La letteratura empirica sugli earworms è scarsa; tuttavia, alcuni ricercatori hanno concettualizzato il fenomeno come un’intrusione indesiderata che rientra nel contesto del disturbo ossessivo-compulsivo.

Ad oggi, il modello cognitivo-comportamentale è l’approccio concettuale più supportato empiricamente per comprendere il DOC (Salkovskis, 1999). Secondo questa prospettiva, le ossessioni derivano da cognizioni disfunzionali e disadattive che si ritiene conducano a interpretazioni errate di pensieri intrusivi ricorrenti come altamente preoccupanti (ad esempio, ‘Durerà per sempre’, ‘Non riesco a farcela con questa canzone nella mia testa’). Tre dei domini delle convinzioni ossessive includono:

  • la tendenza a sovrastimare la minaccia e la responsabilità;
  • la tendenza a credere che i propri pensieri siano significativi e necessitino di essere controllati;
  • il bisogno di certezza e perfezione (Reuman, 2020).

Si ritiene che questi tipi di credenze siano alla base della preoccupazione ossessiva che porta ad eseguire comportamenti per distrarsi o bloccare i pensieri intrusivi e altri fenomeni come l’earworm. In questa circostanza, quando si presta una maggiore attenzione al tarlo dell’orecchio aumenta la propria preoccupazione. Lo studio di Reuman e collaboratori ha esaminato il ruolo dei pensieri ossessivi nell’earworm, ipotizzando che la tendenza a controllare i pensieri intrusivi, il bisogno di perfezionismo, e l’errata interpretazione di queste credenze sarebbero fortemente associati all’esperienza dell’earworm (Reuman, 2020).

Reuman e colleghi hanno pertanto selezionato 240 partecipanti i quali hanno completato un sondaggio online sull’esperienza delle ossessioni musicali e dei relativi costrutti teorici di interesse (Reuman, 2020). Coerentemente con le ricerche precedenti, quasi tutti i partecipanti hanno riferito di aver sperimentato un earworm nell’ultimo mese, e più di un quinto dei partecipanti ha riferito di aver sperimentato questo fenomeno più di una volta al giorno. L’angoscia e le interferenze associate all’earworm erano in media da lievi a moderate e, sebbene la durata di questa esperienza fosse in media di 10-30 minuti, diversi partecipanti hanno riferito una durata di più di 3 ore. La maggior parte dei partecipanti al presente studio ha riportato tentativi di controllare il proprio earworm. Coerentemente con i risultati di Beaman e Williams, le tecniche di distrazione, come parlare con un amico o ascoltare un’altra canzone, erano gli interventi più comuni per porre fine alla ‘canzone bloccata’. Le evidenze ottenute hanno rivelato che l’evitamento esperienziale (p.es. ‘Voglio smettere di pensare a questa melodia’) è un predittore dell’angoscia e dell’interferenza con le attività quotidiane (Reuman, 2020). I risultati suggeriscono quindi che l’angoscia e l’interferenza con la quotidianità dovute agli earworms possono essere correlati ai tentativi di sopprimerli.

Leggere tante notizie sul COVID-19 tranquillizza le persone o peggiora lo stress psicologico?

Come sappiamo, l’impatto del Covid-19 è stato importante sotto tanti punti di vista, incluso quello psicologico

 

Il COVID-19 è una malattia che si è diffusa rapidamente in tutto il mondo a partire dalla fine del 2019. Come sappiamo, l’impatto è stato importante sotto tanti punti di vista, incluso quello psicologico: gli individui di tutto il mondo hanno riferito sintomi elevati di ansia e depressione (Wen et al., 2020; Slovic, 1987). L’esposizione ai social media (SME), e di conseguenza, alle informazioni relative al COVID-19, può essere un fattore che contribuisce al disagio psicologico (Zhen & Zhou, 2020; Gao, Zheng & Jia, 2020) diventando il punto di partenza di pensieri ruminativi. Al contrario, la consapevolezza, intesa come tratto che implica un’attenzione neutrale rispetto a quanto sta accadendo (Brown & Ryan, 2003), è considerata come un fattore protettivo di fronte all’insorgenza di sintomi psicologici (Basharpoor et al., 2015; Ciesla et al., 2012).

Secondo il Modello della Credenza Sanitaria, le informazioni a cui siamo esposti, influenzano la percezione delle minacce per la salute (Janz & Becker, 1984): le notizie circa i contagi e i tassi di mortalità incrementano certamente la percezione di minaccia, ma anche la mera condivisione del proprio disagio emotivo sui social network, trasferisce consciamente o inconsciamente tali sentimenti agli altri (Modello del Contagio Emotivo, Kramer, Guillory & Hancock, 2014). Ciò implica che gli stati affettivi negativi sperimentati dalla popolazione mondiale durante la pandemia possono essere amplificati attraverso i social media, portando ad un maggior numero di persone che riferiscono sintomi ansiosi e/o depressivi (Zhen & Zhou, 2020;). La ruminazione si riferisce a una modalità di risposta al disagio sotto forma di pensiero ripetitivo e passivo sul sé e sulle esperienze (Watkins, 2008; Nolen-Hoeksema & Wisco, 2008). Sulla base del modello integrato dello stile di risposta ruminativa (Shaw, Hilt & Starr, 2019) gli ambienti stressanti suscitano pensieri ruminativi pertinenti, contribuendo ulteriormente ai sintomi psicologici. Di conseguenza, le informazioni relative al COVID-19 possono attivare processi cognitivi di tipo ruminativo associati alla pandemia, e inoltre diversi studi hanno hanno scoperto che la ruminazione predice positivamente i sintomi ansiosi e depressivi (Fang, Marchetti & Hoorelbeke, 2019). La consapevolezza, intesa come caratteristica simile a un tratto, implica l’essere consapevoli, in maniera non giudicante, delle proprie esperienze momento per momento, e per questo potrebbe moderare gli effetti della ruminazione sulla salute mentale (Branstrom et al., 2011). Studi precedenti hanno scoperto che la consapevolezza può assumere una funzione di cuscinetto contro l’effetto dello stress percepito sui sintomi psicologici (Branstrom et al., 2011). Dopo essere stati esposti alle informazioni relative al COVID-19, rispetto alle persone con bassi livelli di consapevolezza, quelle con alti livelli possono più facilmente disimpegnarsi dagli eventi negativi. Di conseguenza, queste persone possono aver diminuito i pensieri passivi e ripetitivi sulla pandemia e sperimentare livelli relativamente bassi di ansia e depressione.

Nonostante ciò, pochissimi studi hanno esaminato queste relazioni nel contesto della pandemia, pertanto Hong et al. (2020) si sono proposti di indagare, in soggetti giovani di Wuhan (N=439), la relazione esistente tra l’esposizione ai social media e il disagio psicologico legato al COVID-19, l’effetto mediatore della ruminazione e l’effetto moderatore della consapevolezza in questo processo.

L’esposizione ai social media è stata valutata per mezzo del Social Media Exposure Questionnaire (Gao, Zheng & Jia, 2020), composto da 6 items che chiedevano ai partecipanti di indicare in che misura sono stati esposti alle informazioni sul COVID-19 sulle sei piattaforme di social media più utilizzate in Cina (WeChat, QQ, Sina Weibo, Tik Tok, Zhihu e Baidu Tieba). La consapevolezza è stata valutata dalla versione cinese della Child and Adolescent Mindfulness Measure (Liu, X., et al., 2019), composta da 10 items, mentre la ruminazione è stata indagata per mezzo della Event-Related Rumination Inventory (Zhou et al., 2014), composta da 10 items. Infine, lo stress psicologico è stato valutato con la Kessler Psychological Distress Scale (Andrews & Slade, 2001), contenente 10 items.

Dai risultati della presente ricerca, è emersa una relazione tra consapevolezza, ruminazione e stress psicologio. Inoltre l’esposizione alle informazioni relative al COVID-19 non prevedevano direttamente il disagio psicologico dei giovani di Wuhan. Nello specifico, quando i partecipanti hanno riferito di aver letto una grande quantità di notizie dalle varie piattaforme mediatiche, percepivano il virus come una grave minaccia per la salute, riportando livelli più elevati di paura, ansia e depressione. Inoltre, l’esposizione ai social media influenza il disagio emotivo attraverso la funzione di mediazione della ruminazione: una maggiore esposizione, che in questo caso costituisce il fattore stressante, tende ad attivare processi cognitivi di tipo ruminativo, che a sua volta incrementano i livelli di ansia e depressione. Infine, è emerso che la consapevolezza modera l’effetto dell’esposizione alle informazioni relative al COVID-19 sul pensiero ruminativo: precisamente, alti livelli di consapevolezza implicano un’assenza di ruminazione in seguito all’esposizione ai social media, e di conseguenza minor stress psicologico.

 

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