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Il geropsicologo: ruolo e competenze

L’American Psychological Association (APA) ha pubblicato nel 2003, con una revisione nel 2014, le ‘linee guida per la pratica psicologica con gli anziani’ e riconosciuto nel 2010 la figura del geropsicologo professionale.

 

Il progresso medico e scientifico, le migliori condizioni igienico-sanitarie e il diffondersi di stili di vita sani hanno portato indubbiamente una migliore qualità di vita, con conseguente aumento dell’aspettativa di vita e progressivo invecchiamento della popolazione. D’altra parte, però, si assiste a un aumento dei tassi di prevalenza dei disturbi neurocognitivi (DNC, APA 2013): secondo quanto riporta il più recente World Alzheimer Report (Patterson, 2018), attualmente nel mondo ci sono circa 50 milioni di persone con questa patologia e si prevede che entro il 2050 i casi saliranno a 152 milioni, con stima di una diagnosi di DNC ogni tre secondi. Tali numeri, ovviamente, comportano rilevanti implicazioni economiche con un costo attuale della patologia di circa un trilione di dollari l’anno, rendendo il DNC “priorità mondiale di salute pubblica” (World Alzheimer Report, 2012).

Al momento vengono impiegati farmaci sintomatici per attenuare le manifestazioni cliniche nelle fasi lievi-moderate di malattia. A ciò si aggiungono interventi psicosociali volti a rallentare l’evoluzione del DNC e a garantire migliore qualità di vita a chi ne è affetto, tra cui i protocolli di stimolazione cognitiva, in particolare la Cognitive Stimulation Therapy (CST; Spector et al., 2006), raccomandata dalle linee guida internazionali NICE (2018). Interventi farmacologici e psicosociali non sono in contrasto, anzi, i risultati migliori si ottengono dalla loro interazione (Ballard et al., 2011). Risulta, dunque, evidente la necessità di psicologi formati sui processi di invecchiamento che intervengano a livello domiciliare, semiresidenziale e residenziale al fine di garantire una migliore qualità di vita alle persone affette da DNC e ai loro caregivers.

La figura del geropsicologo

L’American Psychological Association (APA) ha pubblicato nel 2003, con una revisione nel 2014, le “linee guida per la pratica psicologica con gli anziani” e riconosciuto nel 2010 la figura del geropsicologo professionale. Egli è un professionista che indaga stabilità e cambiamenti psicologici della persona che invecchia, rallenta il decorso della demenza tramite interventi di stimolazione cognitiva, adotta strategie gestionali per ridurre i disturbi del comportamento nelle fasi avanzate di malattia e forma e sostiene i caregivers formali e informali, col principale fine di garantire una migliore qualità di vita all’intero sistema. Inoltre, non si occupa solo di invecchiamento patologico, ma anche di invecchiamento sano e attivo, promuovendo una cultura dell’anzianità e arginando forme di ageismo.

Le linee guida APA sopra citate sono delle raccomandazioni per i professionisti, seguite negli Stati Uniti ma che possono essere adattate anche ad altri paesi, offrendo così un quadro di riferimento per il lavoro clinico con gli anziani. Gli aspetti da esse approfonditi sono sei: la consapevolezza da parte del professionista dei propri atteggiamenti e credenze sull’invecchiamento; l’acquisizione di conoscenze circa gli aspetti biologici e sanitari connessi all’invecchiamento e le dinamiche sociali e psicologiche associate; le conoscenze circa la psicopatologia e i cambiamenti cognitivi; la conoscenza dei metodi di valutazione appropriati da un punto di vista psicometrico e culturale; i metodi di intervento, counseling e altri servizi; la necessità di una formazione continua.

Il geropsicologo in Italia

In Italia la figura del geropsicologo non è ancora riconosciuta ufficialmente, infatti la sua presenza nelle strutture per anziani varia di regione in regione. Il Veneto per esempio è una delle regioni che più riconosce l’importanza dell’intervento psicologico in questa fascia di popolazione, infatti gli standard regionali prevedono la presenza di uno psicologo ogni 120 utenti nelle strutture assistenziali in questione. Inoltre, l’Ordine degli Psicologi del Veneto ha pubblicato nel 2013 le linee guida “Ruolo e attività dello psicologo nell’area anziani” al fine di definire le prestazioni, i ruoli, le attività psicologiche e le buone prassi del professionista che si occupa dell’anziano, sia sano che patologico. Si tratta di una guida ateorica che valorizza la competenza multidisciplinare e che delinea le possibili funzioni del geropsicologo, individuando sei aree di intervento: residenzialità e semiresidenzialità, area ospedaliera, area domiciliare, università e centri di ricerca, terzo settore e comunità locale.

Per concludere, essendo la popolazione anziana in crescita, la pratica psicologica professionale con questo tipo di utenza e le pubblicazioni scientifiche a riguardo sono in forte aumento e, senza dubbio, nel futuro prossimo la presenza di figure professionali adeguatamente formate su questo settore saranno determinanti per una migliore qualità assistenziale.

I negazionisti: esempio di una società sempre più psicotica

L’elemento che hanno in comune i negazionisti è l’uso prevalente di un meccanismo di difesa teorizzato e ben studiato dai teorici dinamici: il diniego.

 

Abstract

L’autore intende evidenziare il ruolo della psicoanalisi nel fronteggiare nuove forme di disagio psichico collettivo. Durante la pandemia da COVID-19 diverse persone si sono riunite in gruppi sociali caratterizzate dall’uso del diniego come meccanismo di difesa per contrastare l’angoscia causata dalla pandemia. Tali gruppi sono per l’autore l’esempio di una società sempre più psicotica.

Abstract

The author intends to highlight the role of psychoanalysis in dealing with new forms of collective mental distress. During the COVID-19, several people gathered in social groups characterized by the use of denial as a defense mechanism to counter the anguish caused by the pandemic. For the author, these groups are an example of an increasingly psychotic society.

 

Recentemente Ratner e Gandhi (2020) hanno pubblicato, sulla prestigiosa rivista di medicina The Lancet, un articolo denuncia nei confronti di parte della popolazione statunitense che si rifiuta di eseguire le indicazioni mediche per poter contrastare la diffusione del COVID. Secondo alcuni cittadini U.S.A. il COVID-19 non esiste, per tale motivo è del tutto inutile rispettare le limitazioni imposte dal governo per poter fermare l’esponenziale diffusione del virus.

Un fenomeno analogo si è sviluppato anche nel nostro paese, in Italia i mass media hanno definito ‘negazionisti’ coloro che rifiutano di credere all’esistenza del virus. I negazionisti si sono recentemente radunati a Roma per poter protestare contro le misure adottate dal governo per contrastare l’avanzamento del coronavirus, manifestazione che si è caratterizzata da grida che urlavano no-mask.

Per i negazionisti il COVID-19 non esiste, a Bergamo non è morto nessuno, i video e le foto delle bare mostrate dai mass media erano dei fake, e secondo alcuni di loro i vaccini sono degli strumenti per poter ridurre il numero della popolazione mondiale. Per poter dare sostegno alle proprie tesi i negazionisti fanno uso delle più assurde teorie pseudoscientifiche, basate su aneddoti o elementi parziali di una verità scientifica.

Secondo Ratner e Gandhi vi è la necessità che la psicoanalisi si interroghi e cerchi di ‘curare’ queste nuove forme di disagio sociale. Ma perché proprio la psicoanalisi? L’elemento che hanno in comune i negazionisti italiani con quelli statunitensi è l’uso prevalente di un meccanismo di difesa teorizzato e ben studiato dai teorici dinamici: il diniego.

In accordo con Gabbard (2015) il diniego psichico è una forma primitiva di difesa che permette il disconoscimento di dati sensoriali provenienti dal mondo esterno fortemente destabilizzanti. La realtà esterna viene ritenuta eccessivamente minacciosa per la propria integrità psichica e per tali motivi viene rinnegata. Il diniego è un meccanismo di difesa riscontrato maggiormente nei pazienti psicotici o affetti da un grave disturbo di personalità. Il diniego permette di controllare l’angoscia causata da un evento esterno attraverso la completa negazione dell’evento stesso. I negazionisti mettendo in atto collettivamente il diniego negano l’esistenza all’interno della realtà di un elemento altamente minaccioso per la propria integrità psichica.

Solitamente meccanismi difensivi primitivi come il diniego vengono messi in atto da soggetti con una struttura precaria del proprio Io, struttura che può essere facilmente destabilizzata da eventi esterni catastrofici come il COVID-19.

I negazionisti sono il frutto di una società che promuove e incentiva sempre più l’uso di meccanismi difensivi primitivi come il diniego, una società che sembra essere sempre più psicotica. Il non riconoscimento di un dato oggettivo della realtà è l’elemento diagnostico che permette di individuare le personalità organizzate a un livello psicotico. Molte persone psicotiche possono anche essere ben integrate all’interno della società, non sempre essa è associata a una malattia fortemente invalidante come la schizofrenia. Infatti molti dei negazionisti non sembrano manifestare sintomi di una schizofrenia florida, eppure organizzano la loro identità collettiva attorno al diniego.

Il negazionismo non è limitato esclusivamente al COVID-19, ma coinvolge anche fatti storici come l’olocausto oppure temi sociali come il cambiamento climatico. In molti infatti negano la veridicità del genocidio degli ebrei da parte della Germania nazista, oppure negano l’esistenza di una crisi climatica. Tesi negazioniste molto spesso sono anche incentivate da scienziati associati a diverse lobby o dagli stessi esponenti politici.

Il negazionismo sembra quindi essere un sintomo di una società sempre più strutturata a livello psicotico, in cui si assiste al proliferarsi di impulsi aggressivi diretti nei confronti di coloro che seguono le tesi scientifiche. Affianco al diniego, tra i negazionisti si assiste anche alla manifestazione di alcune ideazioni paranoidi, riscontrate frequentemente nelle organizzazioni psicotiche. Aggressività, diniego e ideazioni paranoidi sono tre elementi che caratterizzano la società moderna e che sono esemplificati dallo strutturarsi di gruppi sociali come i negazionisti.

Come hanno affermato Ratner e Gandhi (2020) la psicoanalisi ha il dovere di interrogarsi sulle dinamiche psicotiche che stanno interessando la nostra società contemporanea. A differenza della società vittoriana vissuta da Freud che era caratterizzata dalla nevrosi e dalla rimozione come elemento strutturante, oggigiorno si viene a contatto con forme di disagio psichico sempre più ‘primitive’ e caratterizzate dal diniego o meccanismi di difesa simili. Il negazionismo è il sintomo gruppale di una psicosi sociale sempre più dilagante.

La psicoanalisi e anche le altre forme di psicoterapia focalizzate su dinamiche interne sia individuali che sociali, hanno l’obbligo di diventare strumenti di trasformazione sociale, andando oltre gli studi dei professionisti privati che da anni esercitano la pratica terapeutica. Già Freud aveva auspicato per la psicoanalisi un compito del genere, compito che diventa ancora più centrale in tempi di crisi come quella che il mondo si trova ad affrontare oggigiorno. La manifestazione di forme collettive patologiche come il negazionismo si combattono attraverso campagne educative sociali in cui la psicoanalisi o altre forme di psicoterapia diventano la base di trasformazioni socio-culturali indispensabili per una crescita generale dell’umanità. Il proliferarsi di dinamiche sempre più primitive all’interno della società deve preoccupare non poco tutti i professionisti impegnati nella salute mentale a un ripensamento delle strategie di cura e di prevenzione a livello sociale.

 

Usi e costumi nei siti di incontri online

E’ veramente il genere sessuale la variabile che meglio ci fa comprendere l’utente di siti e app di incontri online come Tinder e che ci fa prevedere i motivi che sono dietro il loro uso?

 

Internet sta con il tempo modificando le nostre abitudini. Molte cose che prima venivano fatte in luoghi fisici, come leggere il giornale, comprare un paio di scarpe o guardare la mappa di una nuova città, ora possono essere svolte davanti ad uno schermo, e in tempi più rapidi.

Ma per rendere ancora più evidente come internet abbia rivoluzionato il nostro modo di vivere basta pensare a come stanno cambiando le nostre abitudini relazionali. Internet ha infatti arricchito le possibilità che abbiamo di conoscere nuove persone, rendendo questa conoscenza indipendente dalla distanza che separa le persone. Non si sta affermando che oggi conosciamo necessariamente più persone di prima, ma che siamo sicuramente agevolati nel farlo.

In questo clima di maggiore ed indistinta connessione interpersonale, si sono diffusi nel tempo siti ed app di incontri: uno di questi e sicuramente il più popolare è Tinder, introdotto nel 2012.

L’esperimento di Botnen (2018) mostra come la maggior parte delle persone che usano questi siti per appuntamenti non siano interessati a cercare l’anima gemella, ma bensì a incontri occasionali, o ‘short term encounters’. Tuttavia la stessa ricerca, insieme a quella compiuta da Hallem (2018), mostra comunque un ampio ventaglio di motivazioni che, in alternativa, spingono ad usare questi siti: le persone possono infatti essere interessate a cercarvi individui con cui sviluppare una relazione duratura. Allo stesso modo invece possono decidere di usarli per assecondare i loro desideri sessuali con uno sconosciuto, per il semplice motivo che questi siti stanno diventando di tendenza, per la maggiore facilità della comunicazione, o semplicemente per noia.

Ma chi sono questi utenti e da cosa sono accomunati?

Il senso comune ed anche una consistente quantità di ricerche (Lippa, 2009; Schmitt, 2005; Peter and Valkenburg 2007; Tolman et al. 2003; Sumter, 2017) ci spingono a pensare agli uomini come più impegnati nella ricerca di nuove e brevi avventure sessuali. Le donne invece sembrerebbero vestire il ruolo più romantico, dell’utente più interessato a trovare un partner con cui creare una relazione.

Questa asimmetria sessuale legata al genere è in linea con il ruolo sessuale socialmente interiorizzato dell’uomo e della donna, che ha la sua base teorica sui precetti della Teoria dell’Investimento Parentale di Trivers (1972). L’universalità del differente, e se vogliamo complementare, comportamento sessuale dell’uomo e della donna sarebbe radicato nell’evoluzione della specie umana, che ha visto l’uomo impegnarsi in molteplici relazioni a breve termine per fare in modo di massimizzare la riproduzione. Le donne, invece, hanno meno da guadagnare dall’avere più partner sessuali e sono perciò biologicamente vincolate a ricercare ‘l’impegno’ con il proprio partner, in quanto si trovano ad operare all’interno dei limiti fisici imposti dalla maternità. Le donne saranno infatti motivate a stabilire una relazione che fornisca loro le risorse durante i mesi di gravidanza e nella crescita dei bambini.

Tale organizzazione segue perciò il diverso grado di ‘investimento’ compiuto dai due partner, che ha permesso l’evoluzione stessa della specie. Tale differenza biologica tra uomo e donna che si è protratta nel tempo, stabilendo ruoli di genere ben precisi, si traduce oggi nella diversa modalità di pensare gli incontri che l’uomo e la donna mettono in atto (Easton et al. 2015).

Ma è veramente il genere sessuale la variabile che meglio ci fa comprendere l’utente di questi siti e che ci fa prevedere i motivi che sono dietro il loro uso?

Rispondere con un no categorico significherebbe non considerare tutte le ricerche e le teorie menzionate sopra. Chiunque si introduca nel tema che stiamo trattando in questo articolo non può affatto ignorare le differenze di genere sul tema delle strategie sessuali. Tuttavia, la ricerca di Hallam (2018) e di Botnen (2018) ci invitano a prendere in considerazione un’altra variabile rispetto al genere: l’orientamento socio-sessuale.

L’orientamento socio-sessuale è la propensione e il comportamento del singolo individuo riguardo il sesso occasionale (Simpson and Gangestad 1991). Tale variabile non punta più sull’osservare il sesso, ma sull’osservare il singolo indipendentemente dal sesso.

Anche se tale concetto è stato esposto per la prima volta da Alfred Kinsey (Kinsey et al. 1948) nel 1948, è stato messo in pratica nel campo della ricerca solo negli anni ’90, dopo che Simpson e Gangestad hanno messo a punto il Sociosexual Orientation Inventory (SOI) nel 1991 (Hallam et. al, 2018). Tale inventario permette l’acquisizione delle misure self-report di comportamenti, desideri e propensioni dei soggetti, che vengono poi tradotti in un valore all’interno della polarità ‘ristretto/non-ristretto’ dell’orientamento socio-sessuale. Con ristretto si intende la tendenza del soggetto a volere rapporti sessuali esclusivamente all’interno di relazioni ad alto coinvolgimento emotivo e che richiedono impegno verso l’altro. L’estremità dell’orientamento non-ristretto indica invece la tendenza a preferire relazioni che richiedono basso impegno, scarsa intimità e minimo coinvolgimento emotivo (Simpson e Gangestad 1991).

Parliamo di orientamento socio-sessuale perché se è vero che le ricerche focalizzate sul genere ci mostrano come gli uomini siano più inclini a cercare relazioni sessuali occasionali rispetto alle donne, non possiamo ignorare che molti uomini non rientrano in questa casistica. Lo stesso vale per quelle donne che al contrario dimostrano di preferire relazioni sessuali più fugaci e meno impegnative.

L’esperimento di Hallam (2018) ha preso in considerazione un campione di 254 persone, tra i 18 ed i 65 anni. Il 57,9% era composto da donne, il resto da uomini. La ricerca iniziava con un questionario circa la loro esperienza di incontri online. Le persone che hanno dichiarato di non avere avuto precedenti esperienze di incontri online (n = 53) sono state scartate dall’esperimento, in quanto la loro partecipazione non era in linea con l’argomento in analisi. L’esperimento infatti voleva indagare la rilevanza della variabile di genere nel comportamento sessuale, e se l’orientamento socio-sessuale dei soggetti predicesse meglio del genere la strategia negli appuntamenti degli utenti dei siti di incontri online.

Ai partecipanti sono state somministrate una serie di domande che indagavano le motivazioni dietro l’uso di questi siti, la loro età, il loro sesso ed il loro orientamento socio-sessuale, mediante l’ultima versione del SOI. Quindi sono stati analizzati i risultati, dapprima non considerando l’orientamento socio-sessuale, per poi considerare anche tale variabile.

Nella prima fase dell’analisi è stato registrato un notevole effetto del genere sulla strategia adottata dai soggetti durante l’uso di questi siti: è stato infatti appurato che i partecipanti di sesso maschile erano quelli che più cercavano in questi siti relazioni occasionali. Tuttavia, la seconda analisi che prendeva in considerazione anche l’orientamento socio-sessuale dei partecipanti ha mostrato come gli individui con un orientamento ‘non-ristretto’, che quindi preferiscono relazioni sessuali meno intime ed impegnative dal punto di vista sentimentale, erano più motivati a usare i siti e app di incontri per cercare sesso occasionale, e che viceversa individui con un orientamento socio-sessuale ‘ristretto’ erano più motivati a usare gli stessi siti per ricercare relazioni più impegnative. Molto interessante è il fatto che in quest’ultima analisi l’effetto della variabile di ‘genere’ emerso precedentemente era completamente sparito, in quanto la variabile dell’orientamento socio-sessuale aveva fatto confluire le donne e gli uomini dell’esperimento dentro lo stesso gruppo. Con questo esperimento la tesi iniziale è stata confermata, dimostrando che la variabile dell’orientamento socio-sessuale, meglio di quella del genere sessuale, riesce a predire le strategie degli utenti che usano i siti e le app di incontri online.

Lungi dal sottovalutare il binomio genere-strategia sessuale, tale ricerca, insieme a quella svolta da Botnen (2018) invita i ricercatori a considerare la variabile dell’orientamento socio-sessuale nello studio dei comportamenti sociali entro la sfera sessuale.

Tale modo di pensare ci spinge a porre più attenzione all’unicità del singolo individuo, piuttosto che definire i suoi comportamenti in base alla categoria sociale a cui appartiene. Quando si mantiene una rappresentazione troppo generalizzata e, quindi, rigida del genere sessuale si rischia di sottovalutare la flessibilità delle sue caratteristiche, oltre alla plasticità che ognuno di noi dimostra nel far fronte alle molteplici richieste dell’ambiente. Questo è tanto più vero se pensiamo alla nostra società e a come questa stia vivendo una lenta ma progressiva rivoluzione dei ruoli sociali legati al genere.

 

L’effetto della ruminazione rabbiosa nei bambini affetti da un disturbo dello spettro autistico

Data l’elevata compresenza esistente tra il disturbo dello spettro autistico (ASD) e i comportamenti dirompenti, una miglior comprensione del ruolo della ruminazione rabbiosa nell’ASD potrebbe contribuire allo sviluppo di nuovi trattamenti terapeutici

 

La ruminazione rabbiosa è un processo cognitivo caratterizzato da una tendenza a focalizzarsi su esperienze passate frustranti che hanno suscitato rabbia (Sukhodolsky et al., 2001). Trattandosi di una forma disadattiva di elaborazione emotiva, la ruminazione può precludere l’utilizzo di strategie di regolazione, quali la ristrutturazione cognitiva e il problem solving (Connor-Smith et al., 2000; Nolen-Hoeksema et al., 2008), dando origine ad un ampio spettro di condotte, quali manifestazioni ansiose e depressive (Aldao et al., 2010) o, ancora, comportamenti dirompenti, come irritabilità e aggressività (Aldao et al., 2016).

Il disturbo dello spettro autistico (ASD) è caratterizzato da deficit persistenti nella comunicazione e nell’interazione sociale, nonché dalla messa in atto di comportamenti ristretti e ripetitivi (American Psychiatric Association, 2013). Inoltre, è stato osservato che oltre il 50% dei bambini affetti da un disturbo dello spettro autistico presenta, al contempo, un disturbo del comportamento dirompente (DB) e/o disturbi internalizzanti (Lecavalier et al., 2019) che compromettono il funzionamento globale dei singoli.

In letteratura sono presenti numerosi studi che si sono proposti di indagare gli effetti della ruminazione rabbiosa nei bambini, ma si sa ancora poco rispetto all’influenza esercitata dalla ruminazione rabbiosa in infanti affetti da un disturbo dello spettro autistico. Difatti, solo due studi (Patel et al., 2017; Pugliese et al., 2015) hanno fornito una prova preliminare che in soggetti affetti da un disturbo dello spettro autistico, vi sia una maggior tendenza ad impegnarsi in un meccanismo di ruminazione focalizzato sulla rabbia e di una sua possibile associazione con i principali sintomi che caratterizzano il disturbo sopracitato.

Data l’elevata compresenza esistente tra l’ASD e i comportamenti dirompenti, una miglior comprensione del ruolo della ruminazione rabbiosa nell’ASD potrebbe contribuire allo sviluppo di nuovi trattamenti terapeutici (Mazefsky & White, 2014), motivo per cui un gruppo di ricercatori si è posto l’obiettivo di indagare le eventuali differenze esistenti nei meccanismi di ruminazione rabbiosa in un campione di bambini con ASD rispetto a bambini affetti da un disturbo del comportamento dirompente ed un gruppo di controllo. In secondo luogo, gli autori hanno ipotizzato che i meccanismi di ruminazione rabbiosa sarebbero stati associati a comportamenti aggressivi, nonché ai comportamenti ristretti e ripetitivi, tipici dei soggetti affetti da ASD.

Lo studio ha visto dunque la partecipazione di soggetti con un’età compresa tra gli 8 e i 16 anni; di questi, 63 erano affetti da un disturbo dello spettro autistico, 79 avevano ricevuto una diagnosi di disturbo del comportamento dirompente e 44 costituivano il gruppo di controllo. Inoltre, trattandosi di uno studio focalizzato sull’analisi della ruminazione rabbiosa nel disturbo dello spettro autistico, il gruppo composto da bambini con ASD è stato ulteriormente diviso in due sottogruppi, al fine di effettuare delle analisi post hoc che consentissero di esaminare le differenze nella ruminazione rabbiosa nei bambini con ASD con e senza comportamenti dirompenti concomitanti, definiti rispettivamente ASD/DB+ e ASD/DB-. Gli autori hanno dunque ulteriormente ipotizzato che i bambini ASD con disturbo del comportamento dirompente avrebbero mostrato livelli maggiori di ruminazione rabbiosa rispetto all’altro sotto-gruppo.

Per quanto concerne gli strumenti impiegati, è stata utilizzata l’Anger Rumination Scale (ARS; Sukhodolsky et al., 2001), al fine di misurare la tendenza dei partecipanti a soffermarsi su episodi che hanno suscitato rabbia, mentre, la seconda edizione della Social Responsiveness Scale (SRS-2; Constantino, 2005) è stata somministrata al fine di valutare i sintomi associati al disturbo dello spettro autistico, come i comportamenti ripetitivi e stereotipati. In questo caso, è stato chiesto ai genitori di compilare la suddetta scala. Ulteriormente, mediante la seconda edizione dell’Autism Diagnostic Observation Schedule (ADOS-2; Lord et al. 2012) è stata valutata la comunicazione, l’interazione sociale ed i comportamenti ristretti. Infine, con l’obiettivo di analizzare l’aggressività dei partecipanti, è stato chiesto ai genitori di compilare il Reactive-Proactive Agression Questionnaire (RPQ; Raine et al., 2006).

Coerentemente con le aspettative e con gli studi precedenti (Patel et al., 2017), i bambini affetti da un disturbo dello spettro autistico e i bambini con un disturbo del comportamento dirompente hanno mostrato livelli più elevati di ruminazione rabbiosa rispetto ai controlli sani, lasciando intendere la tendenza di questi soggetti ad impegnarsi in modelli disadattivi di regolazione (Mazefsky et al., 2014). I livelli di ruminazione rabbiosa erano però simili tra i gruppi ASD e DB, il che potrebbe suggerire che i due disturbi condividano un meccanismo sottostante di compromissione emotiva. Inoltre, questi risultati supportano l’ipotesi che la ruminazione sia un processo transdiagnostico comune a tutti i disturbi (Aldao et al., 2016). È interessante notare che il sottogruppo ASD/ DB+ ha mostrato maggiori livelli di ruminazione rabbiosa rispetto al sottogruppo ASD/DB-, il che è coerente con gli studi condotti su popolazioni con sviluppo tipico, che indicano che vi sia una maggior tendenza alla ruminazione rabbiosa nei giovani con disturbi del comportamento dirompente (Harmon et al., 2017). Infine, i risultati hanno mostrato che alti livelli di ruminazione rabbiosa erano associati a maggiori comportamenti ristretti e ripetitivi nei bambini affetti da un disturbo dello spettro autistico, rispetto agli infanti con sviluppo tipico. Anche in questo caso, i risultati si sono dimostrati coerenti con gli studi precedenti che avevano riportato una prova preliminare dell’associazione tra la ruminazione rabbiosa e i sintomi tipici del disturbo dello spettro autistico, come la perseveranza o l’eccessiva aderenza alla ripetitività (Pugliese et al., 2015). Queste scoperte sono degne di nota in quanto lasciano intendere che i comportamenti stereotipati e la rigidità del pensiero che caratterizzano i soggetti affetti da un disturbo dello spettro autistico potrebbero predisporli al meccanismo della ruminazione, determinando una maggiore difficoltà a disimpegnarsi da questa tipologia di pensieri perseveranti (Mazefsky et al., 2012). Purtroppo, data la natura correlazionale dello studio in questione, direzionalità e causalità non possono essere dedotte da queste associazioni. Pertanto, studi futuri dovranno fornire una migliore comprensione circa l’effetto della ruminazione nel disturbo dello spettro autistico, affinché si possano sviluppare nuovi interventi clinici che consentano di migliorare il funzionamento globale di questi pazienti.

 

La Musica in Gravidanza

In che modo l’ascolto della musica e della voce o del canto materno durante la gravidanza possono influenzare la relazione di attaccamento tra madre e bambino? E come la musica agisce sugli aspetti psicologici, quali ansia, depressione e stress?

Mariasilvia Rossetti e Giulia Balerci – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

La musica è un linguaggio universale ed è una disciplina che viene utilizzata in molti ambiti e con varie finalità: educative, di rilassamento, riabilitative, formative, narrative, espressive, rappresentative, artistiche e ludiche.

Sin da bambini, siamo esposti alla musica, alle canzoni e alle filastrocche recitate e cantate in modo divertente, che hanno il potere di far sorridere e rilassare. La musica permette al bambino anche di esperire la propria emotività e affettività, di apprendere, giocare, comunicare e trarre beneficio da essa.

Attraverso l’intervento musicoterapico, che per sua natura è multidisciplinare, è possibile indurre modificazioni a vari livelli: intrapsichico e interpersonale, ma anche cambiamenti a livello comportamentale e fisiologico (Raglio, 2008).

Tale articolo intende illustrare in che modo l’ascolto della musica e della voce o del canto materno durante la gravidanza possano influenzare la relazione di attaccamento tra madre e bambino e in che modo la musica agisca sugli aspetti psicologici, quali ansia, depressione e stress. Gli interventi musicali agiscono prevenendo l’incremento e il peggioramento di tali fattori di rischio ed evitando ripercussioni sia sulla mamma che sul nascituro, quali ad esempio depressione post-parto, ansia cronica, problematiche nello sviluppo cognitivo-motorio del bambino e autismo (Barlow & Glover, 2014).

Già nel periodo gestazionale l’orecchio è predisposto all’ascolto ed è sollecitato dal suono e dal tono di voce dalla mamma, dalle sue parole, dal continuo sottofondo del ritmo del battito cardiaco e dal suono prodotto dal flusso del liquido amniotico.

Vari studi hanno esaminato gli effetti benefici dell’ascolto di musica, in modo costante, sullo stress, sull’ansia e sulla depressione nelle donne durante il periodo della gravidanza.

Questa fase potrebbe essere caratterizzata da una prevalenza di stress psicologico dovuto ai cambiamenti che la coppia deve affrontare. Cambiamenti che riguardano una modifica dei ruoli interpersonali, ma anche gli stessi cambiamenti fisici e corporei che la gravidanza comporta per la donna. Non sono da tralasciare anche le preoccupazioni dovute ad eventuali e possibili complicazioni relative sia alla gestante che al feto. Tali problematiche andrebbero ulteriormente ad incrementare lo stress e l’ansia, predisponendo la mamma allo sviluppo di psicopatologie.

Gli studi mostrano che gli interventi basati sull’ascolto di musica, specialmente se in gruppo, riducono significativamente il livello di ansia materno (van Willenswaard et al., 2017). Relativamente allo stress, le evidenze mostrano che l’efficacia dell’intervento dipende dalla scelta della musica a partire dalle preferenze delle gestanti (Jiang, Zhou, Rickson & Jiang, 2013).

L’ansia nel periodo gestazionale, nei mesi prima del parto, potrebbe avere effetti negativi anche sul nascituro, oltre che sul benessere della mamma, perché potrebbe causare la nascita pretermine, alti rischi di depressione post-parto e problemi cognitivi ed emotivi nel bambino (Lin et al., 2019). La ricerca mostra che, l’intervento musicale, preferibilmente durante il terzo trimestre di gravidanza, piuttosto che durante il travaglio, si è rilevato efficace nel ridurre il livello d’ansia e può essere utilizzato come valida alternativa ai farmaci ansiolitici, i quali, a loro volta, aumentano le nascite pretermine e il basso peso del bambino alla nascita. Inoltre, tale intervento è molto praticabile, poco costoso, accessibile a tutti e senza effetti collaterali, al contrario del trattamento farmacologico.

Durante la gravidanza le puerpere presentano spesso i sintomi caratteristici della depressione: stanchezza, insonnia, irritabilità e anedonia.

Come già precedentemente detto, tale fase della vita è un periodo che prevede una transizione da un ruolo ad un altro, che include un adattamento emotivo e cambiamenti fisici. È stato visto che l’ascolto regolare della musica supporta la salute mentale della mamma, andando a ridurre i sintomi della depressione, riducendo il livello di cortisolo e di ansia (Fancourt & Perkins, 2018).

Così come l’ansia, anche la depressione durante la gravidanza può causare effetti avversi nel feto e, di conseguenza, sul bambino. I comportamenti e gli stati psico-emotivi esperiti dalla mamma vengono percepiti dal feto e contribuiscono al suo benessere.

Anche lo studio condotto da Nwebube, Glover e Stewart (2017) suggerisce di utilizzare l’intervento musicale come mezzo efficace non farmacologico per ridurre l’ansia e la depressione prenatali. In particolare, l’ascolto regolare di musica rilassante può ridurre i sintomi di ansia e depressione nelle donne incinte. Per 12 settimane le partecipanti hanno ascoltato musica giornalmente e attraverso dei questionari si sono indagati gli andamenti dell’ansia e della depressione. I risultati mostrano una diminuzione dell’ansia di stato, dell’ansia di tratto e della depressione.

L’ascolto della musica, inoltre, può alterare lo stato di eccitazione e modificare l’umore. Uno studio (Ventura, Gomes, & Carreira, 2012) condotto con donne in stato di gravidanza ha mostrato che se veniva fatta ascoltare loro la musica, prima di sottoporsi all’amniocentesi, questo riduceva sia l’ansia di stato che i livelli di cortisolo. Ha effetti benefici anche se utilizzata prima e durante la preparazione al parto cesareo, poiché va a ridurre i livelli di stress e permette, in questo modo, di somministrare alla donna un dosaggio minore di anestetico (Sidorenko, 2000).

Un altro intervento musicale, invece, ha insegnato a cantare ‘ninna nanne’ alle mamme durante la gravidanza (Carolan, Barry, Gamble, Turner, & Mascareñas, 2012) ed è stato rilevato che questo le ha aiutate ad esprimersi emotivamente, a ridurre il livello di ansia e a vivere un’esperienza positiva durante il periodo antecedente al parto.

Gli effetti benefici dell’ascolto di musica sulle emozioni della mamma si riflettono, a loro volta, sugli stati comportamentali del bambino appena nato, sulle sue prestazioni motorie, che risultano migliori rispetto al gruppo dei bambini di controllo, e sulla sua plasticità neurale (Arya, Chansoria, Konanki & Tiwari, 2012). Il feto, già a 28-32 settimane di gestazione, risponde con un aumento o una diminuzione della frequenza cardiaca a seconda dell’intensità del suono che gli viene fatto ascoltare, e questo potrebbe indicare un’attenzione selettiva allo stimolo sonoro proposto. Dalla trentatreesima settimana si rilevano un aumento più sostenuto della frequenza cardiaca e un cambiamento nei movimenti del corpo (Kisilevsky, Hains, Jacquet, Granier‐Deferre & Lecanuet, 2004). Questi effetti sono probabilmente mediati dai cambiamenti endocrini prodotti nella mamma, tra i quali un aumento degli ormoni della crescita, un incremento nella secrezione di steroidi e nei livelli di cortisolo e di testosterone. Anche altri studi mostrano che, nel terzo trimestre di gravidanza, durante l’ascolto di musica, si rilevano un aumento di movimenti del feto e una diminuzione delle contrazioni dell’utero, abbassando così il rischio di nascita pretermine. Anche l’ascolto della voce materna produce, in risposta, un aumento del battito cardiaco e dei movimenti del feto (Noura, 2005; Gebuza, Zaleska, Kaźmierczak, Mieczkowska, & Gierszewska, 2018).

Le interazioni tra gestante e feto durante la gravidanza vanno ad influenzare, oltre che la salute mentale della mamma prima e dopo il parto, anche la relazione di attaccamento: poiché aumentano le interazioni e la responsività della mamma ai comportamenti e alle richieste del bambino, di riflesso si riduce il rischio dello sviluppo di una depressione post parto (Mahmoudi, Elyasi, Nadi & Shirvani, 2020). Anche in questo caso, l’ascolto della musica apporta miglioramenti, incrementando la relazione di attaccamento tra la madre e il feto (Lee, 2010; Yang & Kim, 2010).

Jurgens, Levy-Rueff, Goffinet, Golse e Beauquier-Macotta (2010) hanno mostrato che l’origine del legame tra madre e bambino si colloca in gravidanza, precisamente nel momento in cui la madre inizia a percepire i movimenti fetali. È proprio in questo momento che comincia ad instaurarsi una relazione affettiva e interattiva con il bambino che cresce al suo interno, definita da Jurgens ‘attaccamento materno-fetale’.

Già nel ventre materno il bambino è immerso in stimoli sensoriali; la sua pelle è molto ricca di recettori specifici per le vibrazioni sonore, che permettono la percezione uditiva (Soldera, 2005). Il feto è stimolato dal battito cardiaco, dal respiro materno, dai ritmi sonno-veglia, dalla voce materna e percepisce questi ‘suoni’ attraverso le vibrazioni del flusso amniotico (Gualtieri, 2006).

Questi contatti sonori, primo tra tutti, la voce materna, oltre a stimolare l’attività delle cellule, delle vie uditive cerebrali e a favorire lo sviluppo delle abilità intellettive, sono una modalità per creare un vincolo affettivo tra adulto e neonato. Già alla nascita, se durante la gravidanza sono stati effettuati interventi di stimolazione uditiva, il bambino è in grado di discriminare la voce materna tra le altre e da quella del padre (Carnicer & Garrido, 2006).

Se durante la gestazione la mamma ha stabilito una relazione affettiva con il bambino, continuerà in modo più facile a mantenerla anche dopo la nascita: si crea così un ponte, un continuum del legame di attaccamento tra gravidanza e post-nascita.

Per quanto riguarda la relazione genitoriale, non è da trascurare l’apporto della voce paterna, caratterizzata da un timbro e una tonalità diversi. Viene suggerito anche a lui di parlare con il feto e, se possibile, cantare al bambino, in modo da entrare in sintonia e in relazione con i vissuti materni e fetali. In questo modo, inizierà anche lui ad instaurare una relazione con il figlio e a contribuire alla maturazione sensoriale del feto (Manfredi & Imbasciati, 2004).

Possiamo concludere che le esperienze sonore tra madre e bambino, a partire dalla gravidanza, e l’ascolto della musica in alcune fasi della gestazione, influenzano positivamente sia il benessere e lo sviluppo del feto, che il benessere della gestante prima e dopo il parto.

La Functional Analytic Psychotherapy – FAP

La Functional Analytic Psychotherapy (FAP; Kohlenberg & Tsai, 1991) è una delle terapie comportamentali definite da Hayes di terza generazione (Hayes, 2004).

 

Si presenta come un approccio idiografico appartenente alla tradizione comportamentale contestualista (Vilardaga, Hayes, Levin, & Muto, 2009). In questo modello terapeutico, lo strumento primario per una psicoterapia è la creazione di una relazione intensa e genuina tra terapeuta e cliente. Durante la sessione, il terapeuta rinforza in maniera naturale e contingente i comportamenti funzionali del cliente ed estingue quelli disfunzionali (Horvath, 2005; Kohlenberg & Tsai, 1994; Kohlenberg, Yeater e Kohlenberg, 1998; Tsai, Kohlenberg e Kanter, 2010).

I principi teorici della FAP

La FAP è stata concettualizzata negli anni ’90 da Robert Kohlenberg e Mavis Tsai che, dopo aver notato un’associazione clinicamente significativa tra i risultati raggiunti dal cliente in sessione e la qualità della relazione terapeutica, hanno iniziato a creare un modello teorico basato sui principi dell’analisi del comportamento contestualista nella relazione terapeutica. Le sue fondamenta fanno riferimento al comportamentismo radicale (ad es. Skinner, 1974), oggi situato nel quadro più ampio del funzionalismo contestuale (Hayes, Barnes-Holmes e Wilson, 2012; Hayes, Barnes-Holmes e Biglan, 2016).

Nel 1991, con l’uscita dell’omonimo manuale scritto da Robert Kohlenberg e Mavis Tsai, la FAP entra così a far parte delle terapie del comportamento di terza generazione (Hayes, 2004).

La FAP parte dall’assunto che tra i comportamenti del cliente che emergono durante la sessione e nella relazione con il terapeuta, e quelli che avvengono fuori dalla sessione ci sia un parallelismo; in altre parole, si parte dal presupposto che nella relazione terapeutica il cliente metterà in atto comportamenti funzionalmente simili a quelli che agisce nella sua vita di tutti i giorni. Quindi una delle prime osservazioni che un terapeuta FAP può mettere in atto è quella di individuare e distinguere, tra i comportamenti che il cliente emette in sessione e nella relazione terapeutica, quelli che potrebbero essere i comportamenti disfunzionali (CRB1- comportamento clinicamente rilevante di tipo 1) e quelli che potrebbero essere i comportamenti funzionali (CRB2 – comportamento clinicamente rilevante di tipo 2).

Nello specifico, l’enfasi viene posta sulla descrizione del comportamento in termini di funzione piuttosto che di topografia (Hayes & Follette, 1992). La descrizione funzionale serve a scoprire quali sono gli elementi del contesto che accrescono, diminuiscono o creano l’occasione per l’emissione di un certo comportamento.

Infatti, i comportamenti clinicamente rilevanti sono raggruppabili in classi funzionali di risposte. Una ‘classe funzionale’ viene definita come un insieme di comportamenti che hanno in comune gli stessi antecedenti e medesime conseguenze. Basandosi su questo principio, l’analisi del comportamento presuppone che alcuni comportamenti disfunzionali, che si verificano in sessione, siano basati sugli stessi antecedenti e conseguenze che sono comuni a quelli che si verificano nella vita quotidiana del cliente (Kuczynski et al., 2020).

Tre principi della FAP

Alla base del contesto clinico terapeutico della FAP, Mavis Tsai (2009) descrive tre principi che emergono, guidano la relazione terapeutica, possono essere evocati e favoriscono il cambiamento terapeutico: consapevolezza, coraggio e amore terapeutico (Awarness, Courage, Love).

Consapevolezza

Tsai et al. (2009) hanno definito la consapevolezza in termini di attenzione piena e consapevole alle proprie reazioni emotive, ai propri comportamenti e obiettivi terapeutici ma anche alle emozioni e al comportamento dell’altro individuo all’interno dell’interazione. Secondo la FAP la consapevolezza consente di prestare attenzione ai comportamenti dell’altro individuo, aumentando la probabilità di successo della relazione terapeutica (Kuczynski et al., 2020).

Coraggio

Tsai et al. (2009), descrivono una vasta gamma di comportamenti interpersonali coraggiosi come quei comportamenti che sono importanti perché coerenti con i valori, l’identità e i punti di vista del cliente. Per agire questi comportamenti, terapeuta e cliente scelgono di andare oltre i propri limiti, uscendo dalla propria zona di comfort e assumendosi il rischio di emettere comportamenti relazionali non in ‘automatico’ per valutarne poi il possibile effetto positivo, resistendo alla paura ed alle difficoltà.

Amore (terapeutico)

Il termine ‘Love’, che tradotto in italiano è ‘amore’, in questo modello terapeutico viene utilizzato per descrivere le qualità della propria risposta al comportamento emesso dal cliente. Il terapeuta utilizza il rinforzo verso i CRB2 che il cliente manifesta in sessione al fine di promuovere la generalizzazione del comportamento funzionale emerso nei contesti di vita rilevanti per il cliente. Tale rinforzo avviene in modo contingente, naturale e autentico con espressioni di empatia e rispetto (Tsai et al., 2009). L’amore terapeutico è etico, è sempre nell’interesse dei clienti ed è genuino. Essere terapeuticamente amorevoli implica cura e vicinanza relazionale verso il cliente (Kohlenberg &Tsai, 2012; Tsai et al., 2012).

Le cinque regole della FAP

Kohlenberg e Tsai (1991) hanno formulato cinque regole che guidano il terapeuta durante la sessione clinica con il cliente.

Regola 1: Osservare ed identificare i CRB

È fondamentale che il terapeuta sia attento al momento in cui si verifica un CRB (comportamento clinicamente rilevante) nel cliente poiché ciò avrà effetti significativi sulla concettualizzazione del caso, sulla natura e sul focus dell’intervento (Tsai, Kohlenberg et al., 2009).

Riconoscere i CRB consente al terapeuta di avviare un intervento individualizzato e orientato sul cliente.

Regola 2: Evocare i CRB

La regola n. 2 presuppone l’importanza di evocare i comportamenti relazionali e non solo verbali del cliente che avvengono in sessione. Questa osservazione è in costante aggiornamento per promuovere il rinforzo dei comportamenti funzionali, i CRB2. In questa fase il terapeuta, gradualmente più consapevole dei CRB 1 e 2 del cliente, può evocare nella relazione l’emissione dei CRB. L’atteggiamento del terapeuta quindi presuppone che anche per egli stesso sia importante emettere comportamenti funzionali a tale emissione.

Regola 3: Rinforzare naturalmente i CRB2

Il terapeuta rinforza in modo naturale e contingente i comportamenti funzionali del cliente (CRB2). Ciò, al fine di aumentare la probabilità che questi nuovi comportamenti siano maggiormente emessi in sessione e generalizzati fuori dal contesto terapeutico. Rinforzare in modo naturale significa esprimere amore, coraggio e consapevolezza verso il cliente, contemporaneamente all’attenzione al ‘timing’ ovvero la contingenza di questo rinforzo, per massimizzarne l’efficacia.

Regola 4: Osservare gli effetti rinforzanti del comportamento del terapeuta sui CRB del cliente

Seguendo questa regola il terapeuta osserva l’effetto che il rinforzo emesso verso il CRB2 ha avuto sul comportamento del cliente. È importante che il terapeuta osservi scrupolosamente ed indaghi con curiosità quali conseguenze ha avuto la sua risposta rinforzante sul cliente, tenendo conto che alcune risposte, ‘ipoteticamente’ rinforzanti, possano essere rinforzanti per alcuni clienti e non per altri.

Regola 5:  Fornire correlazioni analitiche funzionali, ed osservare la generalizzazione

Durante una sessione FAP, il terapeuta fa riferimento più volte alle analogie fra ciò che avviene in sessione col cliente e ciò che il cliente vive nella sua quotidianità. Queste continue ed esplicite analogie fra la vita quotidiana e le sedute di terapia hanno un duplice scopo. Da una parte, consentono al terapeuta di notare se il cliente ha emesso anche in sessione un comportamento problematico tipico dei suoi contesti di vita (un CRB1); dall’altra parte, segnalano al cliente ed al terapeuta la possibilità di generalizzare in quegli stessi contesti i miglioramenti già avvenuti in sessione. Per fare ciò il terapeuta FAP presta attenzione alla funzione dei comportamenti, al fine di estinguere i CRB1 e rinforzare i CRB2 in seduta per massimizzare la probabilità che il cliente li possa emettere nei diversi contesti di vita. La generalizzazione costituisce l’obiettivo condiviso nella terapia stessa. Ciò è possibile attraverso l’utilizzo di una serie di strategie tra le quali l’invito al cliente di mettere in atto, al di fuori del contesto della terapia, un CRB2 che ha appena emesso in sessione.

L’applicazione delle regole FAP non è rigida. Quando si assiste ad una sessione FAP, quello che possiamo osservare sin da subito è un’intima, coraggiosa e autentica interazione di due persone che scelgono di mettersi in gioco e lavorano con amore, coraggio e consapevolezza per migliorare la qualità della vita e il benessere relazionale del cliente. Nello stesso tempo il terapeuta arricchisce la propria esperienza e soddisfazione professionale. Entrambi avvertono una sensazione di efficacia terapeutica.

 

L’ingannevole paura di non essere all’altezza (2020) di R. Milanese – Recensione del libro

Nel suo libro L’ingannevole paura di non essere all’altezza l’autrice offre una mappa dettagliata e analizza, in ottica strategica, le principali ‘tentate soluzioni’ dell’insicuro.

 

Cos’è l’insicurezza? Cos’è l’autostima? Quali sono le principali psicotrappole di chi si sente e si percepisce insicuro? Il giudice più severo è interno a noi stessi oppure esterno? Attraverso i casi raccontati in questo libro è possibile per il lettore identificarsi in qualche protagonista delle storie (chi non si è mai sentito almeno per una volta insicuro?).

L’insicurezza, se assecondata passivamente, può condurre a veri e propri quadri psicopatologici ma allo stesso tempo, se utilizzata come stimolo per il miglioramento, diventa leva per creare la tanto famosa autostima. Dalla paura di esporsi, alla ricerca della perfezione, dalla paura del conflitto a quella di essere rifiutato, dalla paura dell’inadeguatezza a quella del fallimento, l’autrice offre una mappa dettagliata e analizza, in ottica strategica, le principali ‘tentate soluzioni’ dell’insicuro.

Il tema dell’insicurezza in quanto costrutto trasversale, permette a Roberta Milanese di spaziare tra varie problematiche e psicopatologie invalidanti: dalle fobie, alla paranoia, dal problem solving aziendale alle più strutturate ossessioni in un viaggio tra vari sistemi percettivi reattivi (costrutto della Terapia Strategica che si riferisce a una modalità ridondante di percepire e reagire alla realtà).

  L’ingannevole paura di non essere all’altezza, di scorrevole lettura, offre un’idea dell’efficienza dell’approccio Breve Strategico poiché, senza scendere in dettagli troppo tecnici, permette di capirne il suo orientamento pragmatico volto all’estinzione del problema nel più breve tempo possibile con risultati permanenti; utile per il lettore comune per comprendere quali possano essere le strategie più efficaci (e quelle sicuramente da evitare) di fronte ad un’insicurezza costante e invalidante. Allo stesso tempo è uno scritto che offre spunti per il professionista poiché, senza scendere in aspetti tecnici, vengono esposti svariati scenari clinici applicativi.

Ricordando che l’autostima non può essere regalata ma solo creata attraverso il superamento degli ostacoli, il testo si conclude con la spiegazione del ‘decalogo’ per una sana stima di se stessi; ovvero una serie di regole guida per continuare a costruire e sviluppare le nostre risorse:

  1. Affronta le sfide che la vita ti propone
  2. Alza progressivamente l’asticella ma non obiettivi impossibili
  3. Nessuno può saltare al tuo posto
  4. La perfezione è nemica dell’eccellenza
  5. Non si può piacere a tutti
  6. Le relazioni sono come il tango
  7. Chi non cambia è perduto
  8. Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce
  9. Impiega il tuo tempo nel migliorare te stesso
  10. Si è sconfitti solo quando ci si arrende.

 

Invalidazione genitoriale e disturbi alimentari: il ruolo del narcisismo

Il narcisismo può essere un promettente mediatore condiviso tra problematiche alimentari e invalidazione genitoriale, in quanto, similmente ad un disturbo alimentare, può insorgere per difficoltà di autoregolazione in seguito all’esposizione infantile ad un ambiente invalidante.

 

Il disturbo di personalità narcisistico, può presentarsi secondo due modalità di funzionamento differenti: narcisismo grandioso e vulnerabile.

Il primo, è caratterizzato da un senso del sé inflazionato, sentimenti di superiorità e desiderio di essere al centro dell’attenzione, che si esprimono a livello comportamentale con sfruttamento interpersonale, invidia, scarsa empatia, aggressività ed esibizionismo (Pincus et al., 2009).

Il narcisismo vulnerabile implica l’esperienza cosciente di impotenza, vuoto, bassa autostima ed il ricorso massiccio all’evitamento sociale per fronteggiare i sentimenti di vergogna, quando la presentazione del sé ideale non è possibile, o il bisogno di ammirazione viene frustrato (Pincus et al., 2009).

In accordo con la ricerca, tratti narcisistici si associano a disturbi del comportamento alimentare. Mentre entrambe le declinazioni di narcisismo correlano con la tendenza alla dieta e comportamenti di controllo verso l’ingestione di cibo, il narcisismo vulnerabile si associa a comportamenti bulimici di abbuffate e restrizioni (Zerach, 2014).

Studi longitudinali hanno chiarito il legame causale, identificando il ruolo dei tratti di vulnerabilità, predittivo di comportamenti alimentari restrittivi; mentre quelli grandiosi predicevano futuri comportamenti bulimici (Dakanalis et al., 2016).

L’invalidazione genitoriale subita in infanzia è un fattore di rischio evolutivo che determina l’insorgenza di successive problematiche alimentari. Sebbene coloro con bulimia nervosa e anoressia nervosa riportano livelli simili di invalidazione materna percepita, i primi hanno riportato maggiore invalidazione subita dal padre (Haslam et al., 2008).

L’ambiente infantile invalidante è connotato da una negativa, o del tutto ignorata risposta del genitore alle comunicazioni del bambino. In tale contesto affettivo-relazionale, egli non svilupperà la tolleranza al disagio (Gordon & Dombeck, 2010) ed avrà difficoltà nella regolazione degli stati emotivi, imbattendosi in una ricerca estenuante di approvazione e validazione esterna (Cary, 1994; Monell et al., 2015).

La ricerca non ha individuato un fattore condiviso tra invalidazione materna e paterna che potrebbe condurre alla genesi di problematiche alimentari successive. Mentre considerare l’espressione emotiva come segno di debolezza, sembrerebbe influire nella relazione tra invalidazione materna e preoccupazioni legate all’alimentazione (Haslam et al., 2012); l’evitamento degli affetti è emerso come mediatore esclusivo della relazione tra invalidazione paterna e disturbo alimentare (Mountford et al., 2007).

Il narcisismo può essere un promettente mediatore condiviso, in quanto, similmente ad un disturbo alimentare, può insorgere per difficoltà di autoregolazione in seguito all’esposizione infantile ad un ambiente invalidante. La ricerca ha evidenziato che l’invalidazione genitoriale prediceva in modo significativo entrambe le forme di narcisismo (Huxley & Bizumic, 2017), ma era soprattutto quello vulnerabile che si associava a problematiche alimentari. A differenza dei grandiosi, i narcisisti vulnerabili non sono in grado di mantenere un elevato senso del sé a causa di uno stile interpersonale evitante e non assertivo, che impedisce di richiedere una validazione esterna (Dickinson & Pincus, 2003; Hartmann et al., 2010). L’assenza di un riscontro positivo dall’altro, può determinare bassa autostima e affettività negativa, che a loro volta inducono problematiche nell’alimentazione. A differenza dei vulnerabili, i narcisisti grandiosi sono in grado di utilizzare efficacemente l’altro per regolare gli affetti e mantenere una concezione elevata del proprio senso del sé (Dickinson & Pincus, 2003).

Lo studio di Sivanathan et al. (2019) si è occupato di indagare se il narcisismo grandioso e quello vulnerabile si associavano in modo differente ai disturbi alimentari e, nel dettaglio, se quello vulnerabile poteva mediare la relazione tra invalidazione genitoriale e disturbo alimentare. Sono stati reclutati 352 partecipanti: donne di età compresa tra i 18 e i 30 anni che hanno completato un questionario online.

Gli autori hanno riscontrato che la vulnerabilità narcisistica si associava a problematiche alimentari, agendo come fattore di mediazione comune tra invalidazione genitoriale e disturbi del comportamento alimentare.

Sebbene entrambe le forme di narcisismo correlino tra loro condividendo alcuni aspetti di base, come senso di diritto e necessità di una validazione esterna finalizzata a mantenere un solido senso del sé (Krizan & Herlache, 2017), le caratteristiche uniche della componente grandiosa, come la tendenza a distorcere i feedback esterni per mantenere la propria superiorità e la mancanza di empatia, sono protettive rispetto l’insorgenza di una patologia alimentare. Avendo uno stile assertivo, non mostrano affettività negativa e bassa autostima in seguito alle interazioni sociali (Dickinson & Pincus, 2003).

I narcisisti vulnerabili, a causa dell’invalidazione genitoriale subita, hanno problematiche di regolazione emotiva e tendono a dipendere da fonti esterne per mantenere una buona immagine di sé. Tuttavia, avendo uno stile interpersonale evitante, non riescono ad ottenere un conforto dall’altro. L’affettività negativa conseguente e la fragilità del proprio sé si riversano in condotte alimentari problematiche, insorte anche per feedback sociali negativi e con la finalità di regolare stati emotivi spiacevoli.

I disturbi alimentari in comorbilità con tratti di vulnerabilità narcisistica assumono i connotati di restrizioni, volte alla ricerca di una magrezza che si pensa erroneamente possa incrementare i livelli di autostima, o episodi di abbuffate per regolare affetti spiacevoli, caratterizzanti il binge-eating disorder (Rieger et al., 2010).

Il narcisismo vulnerabile e l’invalidazione genitoriale hanno un ruolo fondamentale nell’eziologia dei disturbi alimentari; tuttavia per comprendere la natura causale di queste relazioni e l’andamento nel tempo delle variabili, la ricerca futura dovrebbe orientarsi verso indagini longitudinali.

Sia il narcisismo che i disturbi del comportamento alimentare comportano difficoltà nella loro gestione terapeutica (Campbell et al., 2009; Pincus et al., 2014); cambiamenti di pensiero o comportamento, indotti da un intervento di terapia cognitivo-comportamentale, vengono facilmente percepiti dall’individuo come minacce all’autostima.

I pazienti con tratti narcisistici e disturbi alimentari, si percepiscono privi di valore, per cui sentono di non meritare il trattamento; ma allo stesso tempo reagiscono con risentimento di fronte alle richieste di una terapia strutturata. Questo comporta l’abbandono precoce della cura, rafforzando la convinzione che non sia pertinente ai loro bisogni (Campbell et al., 2009).

Alla luce di ciò, è utile imparare a riconoscere la fenomenologia clinica delle manifestazioni di narcisismo e le loro associazioni con la patologia alimentare, al fine di migliorare la presa in carico e il trattamento.

 

Che fatica le relazioni! Analizziamo i meccanismi della dipendenza relazionale – VIDEO

CIP Modena ha presentato un ciclo di incontri online con lo scopo di informare sui Disturbi di Personalità. Uno di questi, tenutosi il 24 agosto, ha affrontato il tema della dipendenza relazionale. Pubblichiamo per i nostri lettori il video dell’evento.

 

Alcune persone hanno difficoltà a descrivere e comprendere cosa abbia scatenato un’emozione e parallelamente a comprendere cosa gli altri pensano e sentono e ad utilizzare tale conoscenza per migliorare la loro vita di relazione e formare legami stabili. Siamo spesso guidati nella vita di relazione da un insieme di aspettative, consapevoli, su come gli altri risponderanno ai loro desideri, speranze, piani, bisogni e ambizioni.

Durante l’incontro organizzato dal CIP Modena e tenuto dalla Dott.ssa Simona Giuri, sono state discusse alcune modalità relazionali disfunzionali e sono state date delle indicazioni per una maggiore gestione di alcune dinamiche sociali complicate. Pubblichiamo per i nostri lettori il video dell’evento.

 

CHE FATICA LE RELAZIONI! ANALIZZIAMO I MECCANISMI DELLA DIPENDENZA RELAZIONALE

Guarda il video integrale del webinar:

 

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Monogamia e tradimenti: la gelosia – Una serie di Roberto Lorenzini

Oggi pubblichiamo il nono lavoro della serie di Roberto Lorenzini, dedicata al tema della monogamia e delle sue implicazioni psicologiche, affettive, relazionali e, perché no, sessuali. Lorenzini propone una tesi forte: la monogamia non funziona. E prosegue il suo racconto esplorando lo sviluppo della vicenda amorosa e in particolare la gelosia.

MONOGAMIA E TRADIMENTI – (Nr. 9) La gelosia

 

9. La gelosia

La gelosia è una emozione che probabilmente si è sviluppata a protezione della certezza riproduttiva. Con la gelosia (controlli, minacce al partner e al rivale) i maschi cercano di evitare di investire tempo e risorse per allevare un figlio non proprio, le femmine che il proprio partner dirotti altrove le risorse destinate a loro e al figlio. Naturalmente come sempre avviene nel corso dell’evoluzione un organo, una funzione o un comportamento inizialmente sviluppato per un certo scopo viene poi ad essere utilizzato per altri e più sofisticati obiettivi, per cui occorre diffidare di un semplice riduzionismo che vede nell’uomo soltanto il mammifero che è in lui. Così la gelosia è ormai al servizio di aspetti psicologici sofisticati quali la difesa dell’autostima ed in parte dell’immagine sociale.

Rispetto alla gelosia primordiale, quella che non si preoccupa tanto della ferita alla propria immagine dovuta al fatto che il mio partner preferisca un altro, ma di cose molto più concrete come il fatto che io, maschio, non sia costretto a sgobbare tutto il giorno per allevare un bastardo o io, femmina, non veda mio figlio e me stessa a rischio di sopravvivenza perché il mio partner porta le prede migliori alla vicina di grotta, tra maschi e femmine esiste un’altra differenza decisiva.

In tutti i mammiferi la fecondazione avviene dentro il corpo della femmina e fuori dalla vista del maschio. Per questo la femmina è sempre certa che il figlio che porta in grembo sia il suo ma, al contrario, il maschio non lo è mai, non può esserlo. Le statistiche possibili grazie al test del DNA ci dicono che attualmente un figlio su 5 non è del padre legittimo che ritiene di esserlo.

Solo il maschio corre un alto rischio di investire risorse per favorire il diffondersi di geni non suoi ma di un rivale. È nella natura delle cose che la femmina per salvaguardare la sua prole, qualora non appartenga al partner ufficiale e ben sapendo che quest’ultimo non investirebbe su figli non suoi, debba fare di tutto per nasconderglielo; si pensi alla Filomena Maturano di Eduardo De Filippo e ai suoi tre figli che per lei sono tutti “pezzi ‘e core”, mentre per il suo compagno l’unico a cui dare tutto il suo aiuto e la sua ricchezza sarebbe il suo legittimo figlio, se riuscisse a sapere quale sia dei tre.

Questa diversità nella certezza rispetto alla prole, unità alla diversità dell’investimento e del ruolo che i due sessi giocano nella vicenda riproduttiva fa sì che uomini e donne siano piuttosto diversi anche nello sperimentare la gelosia.

Per gli uomini il tradimento più temuto è proprio quello squisitamente sessuale: ciò che temono è che la loro compagna faccia sesso con un altro e che questo sottragga loro la possibilità di generare un proprio figlio perché la loro compagna è impegnata a riprodurre i geni di un rivale; peggio ancora se ciò avviene a loro insaputa e così oltre al danno, e cioè perdere la loro possibilità riproduttiva, sussiste anche la beffa di tirar su il figlio di un altro. Per gli uomini il tradimento semplicemente affettivo, cioè che la compagna si innamori di un altro è molto meno grave del vero e proprio tradimento sessuale (Buss, Larsen e Western, 1996); e quando comunque lo si considera grave è perché si teme che l’innamoramento sia la premessa per un tradimento sessuale. In effetti per le donne il sesso è più associato all’innamoramento di quanto non lo sia negli uomini. L’ossessione del maschio geloso è l’immagine ripetitiva della sua compagna che sta facendo sesso con il rivale.

Per le donne le cose stanno in maniera un po’ diversa. Il pericolo principale che vedono nel tradimento è che il proprio compagno dirotti attenzioni e risorse verso una nuova compagna e altri figli; quello che non tollerano è che sia sottratto loro il tempo, le attenzioni, l’affetto. In effetti le lamentele che i partner si rivolgono più frequentemente riguardano per i maschi la mancanza di sesso e passionalità erotica, per le donne la trascuratezza e la mancanza di attenzione verso i bisogni emotivi.

Questa diversità nello sperimentare il tradimento e della diversa posta in palio per i due sessi è rispecchiata nelle leggi che condannano l’adulterio in ogni parte del mondo. Dovunque c’è una severità estremamente maggiore nel punire l’adulterio femminile rispetto a quello maschile (si pensi addirittura al delitto d’onore che lasciava impunito il femminicidio, in vigore in Italia fino alla metà del secolo scorso). Ovviamente ciò è dovuto in parte alla connotazione maschilista della maggior parte delle attuali società per cui essendo l’uomo al potere è lui che fa le leggi e quindi è benevolo con i propri errori e drastico con quelli della controparte femminile, ma non è tutto qui. La differenza fondamentale è che l’uomo adultero non impone alla moglie di allevare dei figli non suoi.

 

Un viaggio all’interno dell’ ACT per adolescenti – Video intervista a Sheri Turrell

Intervista a Sheri Turrell, famosa psicologa di Toronto e trainer riconosciuto di Acceptance and Commitment Therapy (ACT), che lavora principalmente con gli adolescenti e le loro famiglie in setting individuali e di gruppo.

 

La competente e simpatica Sheri Turrell, ha accettato di fare con me una video intervista con riferimento al lavoro con i giovani  mediante i principi dell’ACT. Sheri Turrell è una famosa psicologa di Toronto (Canada), trainer riconosciuto di Acceptance and Commitment Therapy (ACT), lavora principalmente con gli adolescenti e le loro famiglie in setting individuali e di gruppo, è impegnata in attività di ricerca e formazione e autrice insieme a Mary Bell nel 2016 del manuale ACT per adolescenti. Trattare teenager e adolescenti in terapia individuale e di gruppo (titolo originale: ACT for Adolescents. Treating Teens and Adolescents in Individual and Group Therapy), tradotto in Italia nel 2019 da Emanuele Rossi ed edito dalla casa editrice Giovanni Fioriti Editori

Per rendere più dinamica questa intervista, ho pensato di mostrare a Sheri delle immagini ed oggetti, lasciando a lei la scelta e l’ordine da dare alla sua argomentazione.

Tra gli oggetti da me selezionati: il foglio rappresentante l’Exaflex, la Matrice (MATRIX), un cartoncino riportante l’acronimo STOP (lingua originale D.O.T.S), un simpatico cartoncino rappresentante un lama (richiamante l’acronimo LLAMA) ed alcuni oggetti come una corda, una trappola per dita cinese ed un riccio in gomma.

La scelta non è stata casuale, infatti l’esagono che all’interno dell’ACT prende il nome di Exaflex, rappresenta i sei cardini del processo per sviluppare una flessibilità psicologica, quali contatto con il momento presente; individuare i valori; azione impegnata verso ciò che conta per noi; sé come contesto che ci ricorda che, anche se i pensieri fanno parte di noi, noi non siamo i nostri pensieri; defusione e accettazione.

Figura 1 – Exaflex

Abbiamo visto e approfondito insieme a Sheri la Matrice, strumento molto utilizzato che consente di rappresentare graficamente su una griglia a quattro quadranti e ponendo noi al centro, ciò che conta per noi o chi vorremmo essere (in basso a destra), cosa potremmo fare per avvicinarci a chi o cosa conta per noi (in alto a destra), quali sono i pensieri e le emozioni che ci allontanano da ciò che conta per noi (in basso a sinistra) e quali sono le strategie di evitamento che mettiamo in atto e che magari possono funzionare a breve termine, per allontanarci da emozioni o pensieri dolorosi (in alto a sinistra).

Figura 2 – La Matrice (MATRIX)

 La compilazione di quest’ultimo quadrante (in alto a sinistra), introduce l’acronimo *STOP corrispondente a:

  • S: sabotarsi, auto lesionarsi (self-harm);
  • T: tranquillizzarsi, distrarsi (distraction);
  • O: optare per la fuga (opting out);
  • P: perdersi il presente, viaggiare nel tempo (time travel).

Figura 3 – Il cartoncino riportante l’acronimo STOP (lingua originale D.O.T.S)

La traduzione tra parentesi fa riferimento alla lingua originale adattata per la traduzione italiana dei lavori di Russ Harris (2009), ma l’acronimo in lingua originale sarebbe DOTS (Distraction; Opting out; Thinking strategies; Substances e other Strategies).

Gli STOP sarebbero un modo intuitivo utilizzato soprattutto con gli adolescenti per renderli consapevoli, ci spiegherà Sheri, di cosa stanno attualmente facendo per fuggire da pensieri, sensazioni, emozioni che non vogliono e se tali strategie funzionino a lungo termine.

Un altro protagonista della nostra intervista è stato il LLAMA.

Figura 4 – Il cartoncino rappresentante un lama (richiamante l’acronimo LLAMA)

Con tale acronimo entriamo nel vivo del lavoro terapeutico ispirato all’ACT. L’acronimo infatti corrisponderebbe a:

  • L: l’etichettare (labeling);
  • L: lasciare andare (letting go);
  • A: autorizzare, accettare ciò che si presenta (allow);
  • M: mindfulness
  • A: approcciare chi/cosa è importante per noi ed agire (approaching what matters).

Abbiamo inoltre, visto insieme dei comuni oggetti che possono essere utilizzati in seduta con i ragazzi sia in setting individuale che di gruppo, come una fune, bolle di sapone, trappola per dita, un riccio, dei palloncini.

Figura 5 – Alcuni oggetti come una corda, una trappola per dita cinese ed un riccio in gomma

Sarà Sheri a scegliere alcuni dei materiali sopra citati e descritti e raccontarci come da lei vengono utilizzati in seduta.

 

Guarda il contenuto dell’intervista completa a Sheri Turrell

 

Lo sviluppo della regolazione delle emozioni in adolescenza: basi neurocognitive

Studi di neuroimaging hanno suggerito la presenza di una relazione tra sviluppo anatomico, chimico, fisiologico del cervello e le manifestazioni comportamentali tipiche degli adolescenti.

Pamela Filiberto – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Mestre 

 

Introduzione

La regolazione delle emozioni a livello sia comportamentale che neurobiologico sta catturando l’interesse crescente degli studiosi nei settori disciplinari legati alle scienze psicologiche, anche in considerazione del legame tra i processi di disregolazione emotiva e l’insorgenza di forme di psicopatologia.

Sempre più numerose sono inoltre le ricerche che approfondiscono la relazione tra l’incremento dei disturbi di tipo internalizzante ed esternalizzante e una scarsa regolazione delle emozioni ad esempio durante il periodo dell’adolescenza.

Comprendere come la regolazione delle emozioni si sviluppa e matura e inserire queste conoscenze all’interno degli studi sul ritmo di maturazione del cervello dell’adolescente, potrebbe aiutare a fornire una cornice di riferimento per lo sviluppo di validi modelli di interpretazione e di intervento.

La regolazione delle emozioni

La regolazione delle emozioni è definita come il processo generazione, monitoraggio, valutazione e modifica delle reazioni emotive al fine del raggiungimento di un obiettivo (Thompson, 1994).

Una regolazione delle emozioni pienamente funzionale richiede la capacità di riconoscere il significato emotivo degli stimoli percepiti, di attivare un processo regolativo e di scegliere e attuare una strategia appropriata (Sheppes et al., 2015). Come tale, richiede il coordinamento di processi multipli ad alto livello, comprese le funzioni esecutive (Ahmed et al., 2015) e in alcuni casi anche le competenze cognitive sociali, come la capacità di comprendere e considerare il punto di vista dell’altro.

Nel considerare le strategie di regolazione delle risposte emotive, una distinzione importante esiste tra regolazione implicita ed esplicita.

La regolazione implicita delle emozioni è definita come ‘qualsiasi processo che opera senza la necessità di una supervisione consapevole o di intenzioni esplicite e mira a modificare la qualità, l’intensità o la durata di una risposta emotiva’ (Koole e Rothermund, 2011).

Gli stimoli emotivi catturano la nostra attenzione, in particolare attraverso l’attivazione di strutture del sistema limbico come l’amigdala, la quale avvia una risposta di allerta a tutto il sistema al fine di una rapida elaborazione della risposta appropriata al contesto (Gamer e Büchel, 2009).

Gli studi hanno mostrato che durante l’adolescenza il sistema di regolazione implicito delle emozioni è modificato rispetto all’adulto, con un aumento delle risposte limbiche agli stimoli emotivi (Hare et al., 2008), una riduzione del controllo prefrontale (Verude et al., 2013) e una connettività alterata o ridotta tra questi sistemi (Somerville et al., 2011). Inoltre, vi è evidenza che la capacità di filtrare gli stimoli emotivi che entrano nel flusso di elaborazione continua a maturare durante tutta l’adolescenza.

Le strategie esplicite di regolazione delle emozioni richiedono, al contrario, uno sforzo consapevole durante l’avvio e un certo livello di monitoraggio durante l’implementazione (Gyurak et al., 2011). Le strategie che hanno ricevuto la maggiore attenzione dal punto di vista degli studi sperimentali sono di due tipi: la rivalutazione cognitiva, ossia la reinterpretazione degli scenari scatenanti le emozioni sotto una luce più positiva; la soppressione espressiva, cioè la riduzione della manifestazione esteriore di una reazione emotiva.

Utilizzando un metodo di indagine self-report, alcuni ricercatori hanno scoperto che l’uso della soppressione espressiva tende a diminuire tra i 9 e i 15 anni e questo è in linea con l’ipotesi che durante la crescita si accumulano esperienze e si acquisiscono capacità cognitive e sociali che consentono lo sviluppo e l’adozione di strategie alternative di regolazione delle emozioni (John e Gross, 2004). La soppressione espressiva è generalmente considerata una strategia maladattiva e l’uso di questa soluzione è associata a una ridotta capacità di riparare gli stati d’animo negativi e a una minore esperienza di emozioni positive (Gross e John, 2003).

A livello cognitivo, i complessi processi esecutivi e sociali necessari per la regolazione delle emozioni, tra cui la memoria di lavoro, il controllo inibitorio, il pensiero astratto, il processo decisionale e l’assunzione di prospettive, sono quindi in fase di sviluppo durante l’adolescenza (ad esempio Blakemore and Robbins, 2012; Somerville e Casey, 2010).

Il miglioramento di questi processi cognitivi sembra essere sostenuto da un processo di maturazione del cervello, particolarmente a carico della corteccia prefrontale, e da un rimodellamento delle connessioni tra regioni prefrontali e regioni limbiche.

La maturazione del cervello dell’adolescente

Durante l’adolescenza, le regioni cerebrali coinvolte nella generazione e regolazione delle emozioni, come il sistema limbico e la corteccia prefrontale, subiscono un intenso e prolungato sviluppo strutturale e funzionale.

È stato ipotizzato che l’immaturità cerebrale renda gli adolescenti poveri delle necessarie abilità di regolare con successo le loro emozioni, mettendoli maggiormente a rischio di insorgenza di disturbi quali ansia e stress (Powers and Casey, 2015). In particolare, studi di neuroimaging hanno suggerito la presenza di una relazione tra sviluppo anatomico, chimico, fisiologico del cervello e le manifestazioni comportamentali tipiche degli adolescenti. L’evidenza suggerisce, ad esempio, che la corteccia prefrontale (PFC), centrale nella generazione e nel mantenimento delle strategie di regolazione delle emozioni (Ochsner e Gross, 2008), sia l’ultima area a raggiungere la piena maturazione, in un periodo che si avvicina ai 25-28 anni di età.

Al contrario, le regioni subcorticali e limbiche, che sono fortemente coinvolte nello sviluppo e nell’avvio delle reazioni emotive agli stimoli ambientali, terminano il processo di maturazione proprio durante l’adolescenza. Ad esempio, l’amigdala aumenta di volume tra i 7,5 e i 18,5 anni (Schumann et al., 2004). Questo ritardo della corteccia orbito-frontale (OFC) rispetto alle aree limbiche sottostanti, produce un disallineamento e uno squilibrio tra i sistemi neurali implicati della reattività emotiva e nella regolazione, con il risultato di aumentare la presenza di comportamenti impulsivi e di ricerca del rischio (Casey et al., 2008).

I modelli più recenti di regolazione delle emozioni

Più recentemente è stato sviluppato il ‘Modello triadico’ (Ernst, 2014) dei comportamenti. Questo modello propone uno squilibrio tra tre sistemi chiave: la corteccia prefrontale (PFC) coinvolta nel controllo normativo, lo striato ventrale (VS) coinvolto nei comportamenti di approccio e di ricompensa, e l’amigdala coinvolta nei processi di evitamento. Il modello presuppone che i tre sistemi maturino lungo linee temporali diverse e che questa asincronia, combinata con una connettività meno matura tra le regioni cerebrali, possa essere implicata nell’assunzione di rischi da parte degli adolescenti.

Sia il modello del developmental mismatch che il modello triadico sono stati accusati di ipersemplificazione nel loro tentativo di collegare la tipicità del comportamento dell’adolescente allo sviluppo del cervello (Pfeifer and Allen, 2012).

Negli anni recenti è stato proposto un nuovo ‘modello di processo esteso’ (Sheppes et al., 2015). Questo presuppone che la regolazione delle emozioni avvenga in tre fasi: (1) Identificazione, in cui uno stato emotivo è individuato e viene compiuta la decisione di regolare o meno l’attivazione; (2) Selezione, in cui si seleziona una strategia di regolamentazione appropriata e (3) Attuazione, in cui la strategia viene implementata. Per esempio, nella fase di Identificazione, un individuo potrebbe percepire l’esperienza di un’emozione negativa, valutare che questa superi una determinata soglia di influenza negativa tale da richiedere una necessaria regolamentazione, quindi decidere di agire per selezionare una strategia appropriata. Questo alimenta poi la fase di Selezione, in cui viene valutata l’intera gamma di strategie regolatorie che porta infine all’ingaggio di azioni appropriate al raggiungimento dello scopo.

Quando si cerca di adattare il modello di processo esteso al periodo dell’adolescenza, vengono sollevati una serie di interrogativi. Innanzitutto, il ciclo percezione-valutazione-azione si svolge nello stesso modo che negli adulti, o ci sono differenze legate alle traiettorie di sviluppo? Si potrebbe ipotizzare, ad esempio, che se il bisogno di approvazione sociale sia rilevante (Blakemore e Mills, 2014), uno stato edonico suscitato in presenza di coetanei potrebbe non far scattare la valutazione di una necessità di regolazione nella fase di Identificazione. Allo stesso modo si potrebbe ipotizzare una certa immaturità mostrata dagli adolescenti nella fase di Selezione, dovuta alla mancanza di accesso all’ampia gamma di strategie di regolamentazione possibili.

Gli adolescenti potrebbero infatti non essere a conoscenza di particolari strategie di regolazione, oppure non avere sufficiente pratica nell’utilizzarle, oppure potrebbero faticare per via dell’immaturità delle funzioni esecutive avanzate (Hofmann et al., 2012) e/o delle abilità di cognizione sociale (Gross, 2014) richieste per l’accesso alle strategie.

La maturità delle funzioni esecutive potrebbe anche influire sulla capacità di passare in modo flessibile da una strategia all’altra durante la Selezione, se la scelta originaria si dovesse dimostrare inefficace. Inoltre, le funzioni esecutive e le competenze di cognizione sociale potrebbero giocare un ruolo importante nella fase di Attuazione. Per esempio, la strategia di rivalutazione (ossia cambiare cognitivamente la propria interpretazione di una situazione emotiva) richiede che funzioni come la memoria di lavoro e la fluidità verbale siano presenti (Hofmann et al., 2012), ma forse ancora più importante è che gli individui siano in grado di assumere la prospettiva di un’altra persona (Gross, 2014).

Conclusione

Le ricerche sembrano suggerire che l’immaturità dei processi neurocognitivi e le abilità sociali possano contribuire a far sì che gli aspetti dell’elaborazione emotiva e dello sviluppo della regolazione seguano una traiettoria non lineare.

Al tempo stesso, è stato suggerito che l’adolescenza è anche un periodo di profondi apprendimenti e di una vivace attitudine alla scoperta e alla sperimentazione flessibile e che potrebbe quindi essere una fase critica per lo sviluppo di strategie di regolazione adattiva delle emozioni e, a sua volta, per l’attuazione di interventi di prevenzione o di educazione efficaci.

 

Il ruolo chiave dell’iper-responsabilità nel disturbo ossessivo compulsivo

Salkovskis osservò che nel disturbo ossessivo compulsivo i pensieri e le immagini automatiche provocate dalle ossessioni ruotano intorno ad una responsabilità personale. L’iper-responsabilità: un eccessivo senso di colpa che spinge a produrre pensieri negativi automatici con un conseguente disagio molto forte.

 

Negli ultimi anni sono stati svolti numerosi studi sulla sintomatologia ossessiva e compulsiva: Wells (2000) definisce ossessioni e compulsioni come fenomeni normali, Rachman (1978) e Salkovskis (1984) osservarono come il contenuto delle ossessioni “normali” è simile a quello delle ossessioni patologiche, come queste ultime si manifestino nell’80-88% delle persone e come arrechino un livello di sofferenza e di disagio maggiore nei soggetti con diagnosi di disturbo ossessivo compulsivo. Salkovskis (1985) osservò come i pensieri e le immagini automatiche provocate dalle ossessioni ruotano intorno ad una responsabilità personale: si parla di iper-responsabilità per indicare un eccessivo senso di colpa sperimentato dal soggetto, che lo spinge a produrre pensieri negativi automatici con un conseguente disagio molto forte (Ladouceur et al., 1996).

Nel 1999, Salkovskis coniò un modello del disturbo ossessivo compulsivo con il quale vengono spiegati gli esiti negativi interconnessi dovuti all’iper-responsabilità come 1) l’aumento del disagio, di ansia e depressione, 2) una maggiore attenzione alle intrusioni e/o a stimoli correlati, 3) l’accessibilità al pensiero originale e di idee correlate e, infine, 4) tentativi controproducenti messi in atto per ridurre i pensieri e diminuire l’iper-responsabilità (Salkovskis, 1999).

Mitchell e colleghi (2019) hanno testato il modello di Salkovskis (1999) del disturbo ossessivo compulsivo che enfatizza il ruolo dell’iper-responsabilità: le componenti individuali del modello sono state misurate utilizzando indicatori multipli in un campione composto da 170 studenti non laureati, inoltre le variabili incluse sono esperienze precoci, incidenti critici, assunzioni di responsabilità e credenze, valutazioni errate di intrusioni, cambiamenti di umore, strategie di sicurezza controproducenti e azioni di neutralizzazione. (Mitchell et al., 2019). I sintomi del disturbo ossessivo compulsivo e le azioni di neutralizzazione sono stati misurati con la Yale-Brown Obsessive Compulsive Scale (Y-BOCS; Baer et al., 1993) e Obsessive Compulsive Inventory Revised (OCI-R; Foa et al., 2002). Le assunzioni di responsabilità basate sulle credenze sono state misurate con Obsessive Beliefs Questionnaire Responsibility Subscale (OBQ-44; Obsessive Compulsive Cognitions Working Group, 2005) e con Responsibility Attitudes Scale (RAS, Salkovskis et al., 2000). L’interpretazione errata di pensieri intrusivi è stata misurata con Responsibility Interpretations Questionnaire (RIQ; Salkovskis et al., 2000) e con Revised Obsessional Intrusions Inventory (ROII; Purdon e Clark, 1994). I cambiamenti di umore sono stati misurati con la sottoscala Profile of Mood States – Short Form (POMS-SF; Curran et al., 1995). Le strategie di sicurezza controproducenti – che consistono in variabili latenti con forme di pensiero deleterie di soppressione e controllo – sono state misurate con White Bear Suppression Inventory (WBSI; Wegner e Zanakos, 1994) per valutare la motivazione del soggetto alla soppressione dei pensieri – e con il Thought Control Questionnaire (TCQ; Wells and Davies, 1994) per osservare differenti strategie di soppressione del pensiero come distrazione, controllo sociale, preoccupazione, punizione e rivalutazione. L’evitamento è stato misurato con Acceptance and Action Questionnaire (AAQ-2; Hayes et al., 2004) e, infine, le altre variabili come incidenti critici, esperienze precoci e bias attentivi sono state misurate con Parental Bonding Instrument (Parker et al., 1979), Life Experiences Survey (Sarason et al., 1978) e con il Trauma History Questionnaire (Green, 1996) associato a un test attentivo.

L’iper-responsabilità rispecchia i dati del campione e, come previsto dal modello, l’interpretazione errata di pensieri intrusivi (come indicato dalla responsabilità personale) è il mediatore tra le credenze alla base della responsabilità, le strategie di sicurezza controproducenti, azioni neutralizzanti e cambiamenti di umore (Mitchell et al., 2019).

 

In ricordo di Maria Miceli

È purtroppo scomparsa la professoressa Maria Miceli, psicologa sociale con una formazione filosofica, ricercatore presso l’ISTC-CNR.

Miceli ha realizzato una significativa attività di ricerca sulla relazione tra il dominio cognitivo e quello emotivo e motivazionale. Condivideva con il suo principale collaboratore Cristiano Castelfranchi una impostazione cognitiva di tipo computazionale in cui si indagavano gli stati mentali riconducendoli a scopi e credenze. Al tempo stesso, e forse in questo consisteva il suo contributo distinto rispetto a Castelfranchi (dal quale non era sempre facilmente distinguibile, tanto elevato era il loro affiatamento), Miceli nutriva interesse per gli aspetti emotivi e motivazionali meno riconducibili all’aspetto cognitivo o, almeno, alla cognizione come valutazione realistica degli ostacoli dell’ambiente esterno e dei limiti delle proprie capacità. Vi è, scriveva Miceli, un’altra cognizione che non valuta ostacoli esterni e limiti personali ma rappresenta le aspirazioni, le ambizioni e i valori dell’individuo.

Insomma, Miceli ampliò l’oggetto dell’indagine cognitiva dalla ragion pura alla ragion pratica. Per questo studiò a fondo le emozioni associate ad autovalutazioni negative (senso di colpa, vergogna), alle emozioni “ostili” (rabbia, risentimento, indignazione, disprezzo, disgusto), a quelle che implicano processi di confronto sociale (senso di inferiorità, ammirazione, invidia, emulazione, gelosia), a quelle che implicano rappresentazioni anticipatorie (paura, ansia, speranza, fiducia) o sono provocate dall’invalidazione di rappresentazioni anticipatorie (sorpresa, delusione, scoraggiamento, sollievo, rimpianto). Con questo bagaglio di studi scrisse con Cristiano Castelfranchi libri sulle emozioni e sui bisogni che ebbero una grande influenza che andò oltre la scienza pura e investirono la clinica e la psicoterapia cognitivo comportamentale italiana, grazie alla mediazione di Francesco Mancini.

Collegati per l’erario ma persi nelle profondità del Malessere: Smart Working e salute mentale

Durante la recente epidemia della Sars-Cov-2, il lavoro in modalità Smart è stato fondamentale, tanto che ancora oggi alcune aziende lo usano in toto o in gran parte della settimana lavorativa. Sebbene ciò possa inficiare sull’equilibrio mentale moderato dal radicato bisogno dell’Uomo di aver contatto con il proprio simile.

 

La recente epidemia di Sars-Cov-2 ha colpito radicalmente tutte le Società Umane presenti nel globo, con gravi conseguenze sanitarie (WHO, 2020), sociali ed economiche (UNDP, 2020). Un lato che sicuramente è stato sottoposto a stress continuo è quello psicologico (Serafini et al, 2020), tanto che un interesse principale del mondo medico è stato il controllo delle reazioni alla pandemia da parte di soggetti sofferenti patologie mentali gravi (Barber, S. et alt., 2020).

Oltre a ciò, si è registrato anche un aumento considerevole delle situazioni di disagio emotivo e neurochimico nella porzione della popolazione sana (Dubey S, Biswas P, Ghosh R, et al., 2020), con un grande aumento di malessere depressivo (D’aria, 2020).

L’aspetto del disagio psicologico per la situazione della pandemia ha destato preoccupazione nella ripresa delle attività lavorative seguenti le direttive della OMS (Kniffin, K.M. et al., 2020), con il mondo della cura psicologica attiva per aiutare i lavoratori ad affrontare la “new normality” (O’Hara, 2020). La risposta dell’ambiente lavorativo alle restrizioni dovute alla situazione di crisi mondiale ha interessato molto il mondo della ricerca (Sasaki, N. et alt, 2020), soprattutto l’evoluzione delle relazioni nell’ambiente lavorativo sottoposto al lavoro a distanza.

Essendo una valida strategia di diversificazione produttiva ed organizzativa nelle aziende (Gastaldi, Luca, et al., 2014), l’utilizzo dello smart working nelle aziende che hanno avuto disponibilità durante le fasi di lockdown ha permesso alla economia mondiale di non chiudere del tutto (Pesenti, L., Scansani, G., 2020), con benefici tali che si sta ipotizzando una nuova evoluzione del luogo di lavoro basata su ciò nella fase declinante della crisi (Patella,M., 2020).

Se dal punto di vista della strategia aziendale e del vantaggio organizzativo lo smart working è un beneficio, i problemi si riscontrano nell’oggetto analizzato dell’articolo, ovvero il punto di vista sociale e mentale. Essendo l’Uomo un animale per cui la socialità è un aspetto che impatta profondamente la sua salute (Tomasello, M., 2014), la costrizione a regole ferree negli approcci interpersonali e nelle disposizioni ambientali e corporali ha messo alla prova l’umore e la stabilità psichica delle persone (Venkatesh, A., & Edirappuli, S. ,2020), ridefinendo radicalmente gli scambi sociali nelle varie società umane (Galea, S., Merchant, R. M., & Lurie, N.,2020).

Come purtroppo è stato facilmente evidenziato dalle prove empiriche derivate dalle relazioni familiari (Spinelli, Maria, et al., 2020) e sentimentali (Pietromonaco, P. R., & Overall, N. C., 2020), anche il campione derivato dalle relazioni lavorative ha visto emergere delle problematiche. Lo smart working, come mezzo di lavoro, è ottimo per la creazione in breve tempo di risultati economici di valore sostenibile nel tempo (Bednar, Welch, 2019), per la facilitazione del change management (Tagliaro, Ciaramella, 2016) e per la creazione di prodotto senza limiti legati al tempo ed alla posizione geografica (Angelici, Profeta, 2020). Se dal punto lavorativo il lavoro agile è una aggiunta di valore, le maggiori criticità si sono riscontrate nel campo psico-salutare: infatti, l’eventuale continua disponibilità al rimettersi alla produzione nei luoghi di vita privata potrebbe creare problemi dal punto di vista della qualità della produzione, creando la sensazione all’attore di essere sempre sul luogo di lavoro (Neri et al, 2017).

L’ulteriore problema è l’eventuale assenza fisica dal luogo di lavoro: sebbene il lavoro agile sia considerato un grande risparmio dal punto di vista economico, sia per l’attore impiegato che per l’azienda (McEwan, 2016), le relazioni sul luogo di lavoro sono un elemento imprescindibile per la salubrità della vita lavorativa e personale del lavoratore (Podolny, Baron, 1997).

Inoltre, l’uso prolungato aziendale dello smart working porterebbe all’assenza prolungata da un ambiente dove avvengono relazioni sociali, uno degli aspetti fondamentali per la sanità mentale dell’uomo (Rossi et al, 2020). Quindi, l’assenza di frequentazione di un ambiente diverso dal nucleo familiare con il contrastante rimanere nella posizione remota per più tempo, avendo a che fare con lo stress lavorativo aggiunto allo stress della minaccia alla salute, ha fatto emergere la possibilità di subire conseguenze psicofisiche anche gravi, come i disturbi del sonno (Gualano, Maria Rosaria, et al., 2020).

Visto che attualmente si sta tornando al lavoro su luogo fisico, con le precauzioni dovute assieme alle conseguenze (Tan, Wanqiu, et al., 2020), è assicurato che lo smart working non sarà per niente relegato a metodo di lavoro secondario, con progetti al riguardo circa la sua fruizione per le persone più svantaggiate, come gli impiegati più anziani (Andrushevich, Aliaksei, et al., 2020).

 

Mindful eating per condire la vita. La mindfulness applicata all’alimentazione: temi trattati, efficacia dimostrata e sviluppi terapeutici futuri

La mindful eating è l’alimentazione consapevole: è la capacità di portare piena attenzione e consapevolezza all’esperienza alimentare e al cibo.

Denise Pizzo – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Mestre

 

La ricerca scientifica da oltre trent’anni evidenzia i benefici della mindfulness.

Da quando Jon Kabat Zinn implementò il programma MBSR (Mindfulness- Based Stress Reduction) nella Clinica per la Riduzione dello Stress del Massachussetts numerosi sono stati i protocolli sviluppati, sia in psichiatria che in altri specifici ambiti di vita.

Ora la mindfulness trova spazio in contesti aziendali, ospedalieri, oncologici, sportivi, scolastici; è stata declinata per specifiche fasce d’età e specifiche psicopatologie. È risultata talmente potente da essere stata inserita in alcune psicoterapie, come la Terapia cognitiva basata sulla mindfulness (MBCT, Mindfulness-Based Cognitive Therapy) per depressioni recidivanti, e la Terapia dialettico-comportamentale (DBT, Dialectical Behaviour Therapy) per il disturbo borderline di personalità. Insegnamenti di mindfulness sono presenti in altri setting clinici, come ad esempio l’Acceptance and Commitment Therapy (ACT) di Steve Hays, la Schema Therapy di Young e Klosko, la Compassion Focused Therapy (CFT) di Paul Gilbert e altre.

La mindfulness sta sempre più espandendo i suoi confini, ipersettorializzandosi su specifici ambiti. Tra questi non poteva non prendere forma la mindfulness applicata all’alimentazione: la mindful eating.

La mindful eating è l’alimentazione consapevole: è la capacità di portare piena attenzione e consapevolezza all’esperienza alimentare e al cibo. Permette di diventare consapevoli dei nostri stati interni (sensazioni fisiche, emozioni, pensieri) relativi al mangiare, riconnettendoci con la nostra innata saggezza interiore.

L’ente internazionale di riferimento per la mindful eating è il Center For Mindful Eating (TMCE), organizzazione non-profit fondata nel 2006 che si propone di diffonderne i principi e di fare ricerca scientifica.

Tra i soci fondatori della TMCE c’è Jean Kristeller, ideatrice del programma MB-EAT, che descrive la mindful eating come il ‘prestare deliberatamente attenzione all’esperienza con gli alimenti e la nutrizione, senza giudicare’ (2015). La definizione di Kristeller riecheggia quella della mindfulness di Jon Kabat Zinn, con cui peraltro ha lavorato in stretto contatto: ‘la mindfulness è porre attenzione in un modo particolare: intenzionalmente, al momento presente e in modo non giudicante’ (1994).

La Mindfulness-Based Eating Awareness Training (MB-EAT, Kristeller, Baer & Quillian-Wolever, 2006; Kristeller & Hallett, 1999) è un programma evidence based, che integra MBSR e CBT. La MB-EAT si struttura in nove incontri e due di follow-up finalizzati al miglioramento del proprio comportamento alimentare e più in generale allo sviluppo di un più salutare ed equilibrato atteggiamento verso il cibo.

Il programma implementato da Kristeller, strutturato ma flessibile, è coerente con il modello della regolazione affettiva (Wilson, 1984), la teoria della restrizione (p.e. il modello della dieta cronica di Herman e Polivy, 1980), il modello dell’evitamento delle emozioni (Heartherton e Baumeister, 1991), il controllo mentale (Wegner, 1994) e i modelli neuro-cognitivi e terapeutici della mindfulness. Alla base del training di mindful eating ci sono quindi le pratiche di mindfulness che incrementano la capacità di essere consapevoli, di dirigere l’attenzione al momento presente, di sospendere il giudizio e le reazioni automatiche. Queste abilità possono essere direzionate alle attività della vita di tutti i giorni – come l’MBSR insegna – compresa l’alimentazione, come già Jon Kabat Zinn aveva suggerito in Full Catastrophe Living (1990), edito in Italia con il titolo Vivere momento per momento.

Tre sono i pilastri su cui si erge la MB-EAT: le pratiche di mindfulness, la psicoeducazione e le tecniche cognitivo-comportamentali.

Le tecniche di neuroimaging hanno ampiamente dimostrato le modificazioni neurologiche causate da una regolare pratica di mindfulness: l’inspessimento corticale della corteccia prefrontale mediale, deputata alle funzioni esecutive – quali la pianificazione, il problem solving, la regolazione delle emozioni, la memoria, l’attenzione (Lazar et al., 2005), un’attenuazione dell’attivazione dell’amigdala a fronte di stimoli minacciosi (Creswell et al., 2007), la stimolazione dell’ippocampo in cui avviene la neurogenesi (Hölzel et al., 2007). Senza contare l’abbassamento del livello di cortisolo (l’ormone nello stress) nel sangue, comportando anche effetti neuroprotettivi sul cervello (Xiong & Doraiswamy, 2009). La mindfulness è in grado di incrementare la capacità di autoregolazione, disinnescando comportamenti automatici di risposta (Brown, Ryan & Creswell, 2007). In tal modo, è in grado di ridurre il processo di inferenza automatica, migliorando il controllo cognitivo, facilitando l’insight metacognitivo e la prevenzione di pensieri distorti (Kang et al., 2013).

Complessivamente, questa funzione de-automatizzante della mindfulness promuove strategie autoregolatorie adattive e outcomes salutari. Si noti l’importanza dell’incremento delle capacità di autoregolazione nei comportamenti alimentari: spesso apriamo il frigo in modo automatico o mangiamo una patatina dietro l’altra di fronte alla TV senza nemmeno renderci conto di essere arrivati alla fine del pacchetto; fino ad arrivare a disturbi conclamati del comportamento alimentare, come accade nella bulimia nervosa e nel disturbo da alimentazione incontrollata (BED) dove esiste una problematica correlata alla disregolazione emotiva e degli impulsi.

Il secondo grande pilastro che compone la MB-EAT è la psicoeducazione. Attraverso contenuti più didattici, i partecipanti vengono informati sui contenuti emotivi e cognitivi che emergono nei confronti del cibo. Vengono date nozioni sui bias cognitivi che si attivano di fronte al cibo (come ad esempio, il pensiero dicotomico, l’attenzione selettiva, il catastrofismo, le affermazioni prescrittive, il doppio standard valutativo per sé e per gli altri, l’effetto violazione del controllo), sui condizionamenti che ci ritroviamo a vivere costantemente sulle nostre tavole (come ad esempio, ‘Mangia tutto quello che hai nel piatto’, ‘Se rifiuto altro cibo penserà che non ho gradito’, ecc.), sui meccanismi di regolazione ipotalamica in piena connessione alla saggezza interiore e di fame/ vuoto gastrico e sazietà/ pienezza; vengono spiegati (ed esperiti) i nove tipi di fame, le sei fasi del mangiare e il livello di soddisfazione delle papille gustative.

Il terzo pilastro della MB-EAT è costituito da tecniche cognitivo-comportamentali. Nello specifico, si accompagna il paziente nell’esposizione graduale al cibo trigger, fonte di ansia. Il cibo viene qui trattato come vero e proprio oggetto fobico a cui esporsi per estinguere poi l’evitamento esperienziale e l’ansia associata. In questo modo, il paziente apprenderà un modus operandi più funzionale per gestire qualsiasi cibo trigger,  traendone una relazione più sana e meno ansiosa e colpevole.

La mindful eating risulta davvero un approccio innovativo al cibo: non prescrive cosa mangiare e cosa non mangiare, ma insegna come mangiare. Attraverso graduali esercizi di alimentazione consapevole e meditazioni guidate tratte dalla MBSR (sitting meditation di tipo vipassana e samatha, body scan, movimenti consapevoli), il paziente sviluppa una relazione salutare con il cibo, basata sull’ascolto dei segnali interni del corpo, sull’uso dei cinque sensi, sulle emozioni, sui pensieri, imparando a disattivare il ‘pilota automatico’ e coltivando accettazione, auto-compassione e perdono.

Insegna a coltivare fiducia nei confronti del nostro corpo e ad esservi sensibili, riscoprendo la saggezza interiore connaturata nell’infanzia. I bambini sono, infatti, puri esseri mindful, che sperimentano il mondo interamente con i sensi, by-passando le metacredenze e i giudizi. Poi, intorno ai tre anni, si sviluppa la teoria della mente (ToM) che ci rende sensibili alle opinioni altrui, alle aspettative sociali e ai condizionamenti che incessantemente ci vengono ripetuti nell’infanzia (ad esempio, ‘Mangia tutto che ci sono bambini che muoiono di fame’, ‘Se mangi la verdura, avrai il dolce’, ‘Finisci quello che hai nel piatto così fai felice la mamma’). Prestando attenzione a quello che ci viene detto dall’esterno, finiamo gradualmente col disconnetterci dal nostro corpo, da quella che in mindfulness viene definita ‘saggezza interiore’. E la saggezza interiore non è altro che il nostro ipotalamo che sa perfettamente cosa e quanto mangiare per sentirsi bene. Un esperimento degli anni Trenta (Davis, 1939) ha messo in evidenza che i bambini con età compresa tra i 6 gli 11 mesi osservati per una settimana ai quali veniva offerta una varietà di cibo sul vassoio, mangiavano un appropriato numero di calorie con una distribuzione adeguata fra i vari nutrienti, come se fossero guidati da un nutrizionista interiore. La mindful eating dà voce a quel nutrizionista interiore, in piena connessione con il proprio corpo e la propria mente.

Con la MB-EAT si scopre quando si è davvero affamati e quale fame si attiva (fame degli occhi, fame della bocca, fame del naso, fame delle orecchie, fame del tatto, fame cellulare, fame dello stomaco, fame del cuore, fame della mente), si impara a scindere la sazietà dalla pienezza gastrica, conduce a scelte alimentari più consapevoli (a partire dall’acquisto del cibo).

La mindful eating è in grado di amplificare la godibilità del cibo: ogni morso diventa un’esperienza unica che amplifica l’esperienza del momento presente. Le diete (intese in senso restrittivo- e non etimologicamente come ‘stile di vita’) non solo ci disconnettono dal nostro corpo, ma violano anche il principio di piacere associato al cibo. La soddisfazione legata al cibo può assumere configurazioni diverse: godere del cibo che sto mangiando, sentirmi piacevolmente pieno, una situazione conviviale che riunisce amici e/o familiari. Le diete rimuovono il senso di soddisfazione legato al cibo: non mangi perché ‘è buono’, ma mangi perché ‘devi’. L’idea di controllo, limitazione, sacrificio interferiscono pesantemente con la sensazione fondamentale su cui si basa il nostro rapporto con il cibo: il piacere. Questo rappresenta un paradosso. La soluzione è rappresentata dalla mindfulness che enfatizza la soddisfazione del cibo non nella quantità, ma nella qualità: grazie a esercizi guidati, si scopre di essere in grado di trarre piacere da piccole quantità di cibo. E la soddisfazione legata al cibo non verrà poi seguita da sensi di colpa – come accade spesso negli emotional eaters: si coltiva l’astensione da posizioni giudicanti e rigide rispetto a sensazioni, pensieri, emozioni e comportamenti che riguardano il nostro modo di nutrirci. Questo aspetto è fondamentale per imparare a sviluppare un atteggiamento di amorevole gentilezza in contrasto con quegli atteggiamenti colpevolizzanti che spesso esistono nei confronti del cibo. Questa esperienza consente di coltivare l’arte del lasciare andare e dell’essere più accettanti.

Da anni, la ricerca scientifica documenta i benefici della mindful eating, anche nella popolazione clinica. Nello specifico, risulta utile nel trattamento della bulimia nervosa (Proulx, 2007), efficace nel ridurre i comportamenti di binge eating ed emotional eating (Godsey, 2013; Katterman et. al. 2014; Godfrey et. al., 2015). Trattamenti basati sulla mindful eating aiutano il mantenimento della perdita del peso in soggetti obesi o sovrappeso (Mantzios et al., 2015) e dopo interventi di chirurgia bariatrica (Chacko, 2016). Ci sono studi in merito all’efficacia della mindfulness in soggetti diabetici (Medina et al., 2009) e nel mantenimento del peso nei soggetti con sindrome di Prader-Willi (Singh et al., 2011). Discordanti sono i dati in merito all’impiego della consapevolezza alimentare nell’anoressia nervosa (Rodriguez et al., 2013): alcuni studi riportano dati incoraggianti (Albers, 2011) ma sono da verificare con ulteriori ricerche che coinvolgano un maggior campione: il rischio è che con l’aumento dei tempi di latenza tra stimolo e risposta, il controllo (in questo caso alimentare) aumenti, determinando un peggioramento delle condizioni cliniche.

In uno dei primi studi (1999), Kristeller et al. dimostrarono le potenzialità di un trattamento basato sulla mindfulness con soggetti con binge eating. Lo studio coinvolse 18 donne di età compresa tra i 25 e i 62 anni, con problemi di alimentazione compulsiva e di peso corporeo. Nessuna di loro aveva mai fatto meditazione in precedenza. I risultati di questo piccolo studio furono entusiasmanti: la frequenza e l’entità delle abbuffate si riduceva a più della metà (da 4.02 a settimana a 1.57 a settimana) in sei settimane e i partecipanti avevano nettamente ridotto i problemi generali con l’alimentazione; anche l’ansia e la depressione erano diminuite. In aggiunta, più queste donne applicavano le pratiche mindfulness all’alimentazione, più forti erano i miglioramenti riscontrati. Questi risultati furono incoraggianti per l’implementazione del programma MB-EAT.

L’efficacia del programma MB-EAT è stata poi testata con uno studio controllato e randomizzato eseguito in due centri, comparandolo con un programma psicoeducazionale basato sulla TCC e una lista di attesa come gruppo di controllo (Kristeller, 2013) in un campione con diversi gruppi etnici di donne e uomini obesi con BED o con BED subclinico. Un’analisi intent-to-treat ha mostrato una diminuzione delle abbuffate oggettive, della loro gravità e dei sintomi depressivi in entrambi i gruppi in trattamento. Tuttavia, soltanto le persone assegnate al gruppo MB-EAT mostravano un minore livello di locus of control rispetto al cibo, suggerendo una maggiore interiorizzazione del cambiamento. I risultati mostravano che, inoltre, dopo 4 mesi dalla fine dell’intervento, il 95% di chi era stato sottoposto a trattamento MB-EAT usciva dalla diagnosi di BED contro il 76% di chi era stato trattato con TCC.

Viviamo in una società opulenta, dove i comportamenti alimentari disfunzionali sono spesso il sintomo di problematiche emotive e relazionali più ampie. Uno strumento come la mindful eating e, più nello specifico, la MB-EAT può rivelarsi vincente nel combattere questi disagi che arrecano tale sofferenza. Come terapeuti formati, avere nella ‘borsa degli attrezzi’ uno strumento di tale potenza, sostenuto dalle evidenze scientifiche, può sicuramente aiutarci nel lavoro con i nostri pazienti.

 

L’influenza dell’intelligenza emotiva sulla qualità delle performance lavorative

La dicotomia tra razionalità ed emotività caratterizza da sempre l’essere umano. Alcune persone estremizzano l’uso della razionalità per reprimere e governare le proprie emozioni, mentre altri faticano a modularle, rimanendo in balìa di esse. Al contrario, imparare a gestire e sfruttare questa ambivalenza, secondo un’ottica integrativa, è una risorsa preziosa per poter migliorare la qualità della nostra vita nei suoi ambiti principali, come quello lavorativo.

 

Per comprendere come sia possibile fare ciò, bisogna focalizzarsi sul concetto di “intelligenza emotiva”, definita da Goleman (1996) attraverso cinque caratteristiche: autoconsapevolezza, gestione del sé, empatia, motivazione, abilità sociali (per ulteriori approfondimenti suggerisco la lettura del seguente articolo Intelligenza emotiva pubblicato da State of Mind). Essa è un’abilità che ereditiamo dall’iniziale sviluppo della Teoria della Mente: la capacità di attribuire gli stati mentali (ovvero bisogni, credenze, desideri, punti di vista, emozioni) propri e altrui (Premack &Woodruff, 1978). Tale capacità si sviluppa intorno ai 4 anni, quando il bambino inizia a condividere la sua attenzione con un adulto significativo, come la madre, interagendo con lei in maniera diretta, ad esempio attraverso sguardi e interazioni faccia a faccia. Sulla base della teoria della mente è possibile, nel corso del tempo, affinare e arricchire il nostro bagaglio emotivo, sviluppando doti come la capacità di provare empatia, di saper accettare il pensiero dell’altro e di creare relazioni autentiche e profonde, decentrandosi e abbandonando una prospettiva egocentrica e individualistica.

L’intelligenza emotiva è una nostra grande alleata, soprattutto in particolari contesti, dove si presentano situazioni in cui è richiesta collaborazione, ad esempio all’interno del contesto lavorativo.

Studi condotti sul campo da Kelley e Caplan (1993) hanno dimostrato che, a parità di competenze, la differenza relativa alla qualità della performance è data dal Qi emozionale piuttosto che dal Qi riferito all’intelligenza o dal talento accademico. Una delle peculiarità di questi “eccellenti lavoratori” esaminati era la capacità di instaurare buoni rapporti con gli altri, così da formare una sorta di squadra, una rete di sostegno informale, utile per affrontare problemi e crisi. Ma è importante che tale rete venga creata prima che si presenti realmente il problema da gestire. Questo è possibile quando l’empatia e la collaborazione contribuiscono a mantenere un clima positivo tra i colleghi. Questo clima è essenziale per sviluppare, esprimere e sperimentare al meglio le proprie capacità personali, integrandole con i talenti degli altri (Goleman, 1996).

Quali caratteristiche ci possono aiutare a migliorare la nostra performance lavorativa?

Persone competenti e di talento, ma che non riescono a collaborare e interagire in maniera positiva con gli altri, vengono spesso escluse dalle reti collaborative che si instaurano tra i colleghi, compromettendo così i risultati della propria performance. È possibile sfruttare al meglio la propria intelligenza emotiva per ottenere risultati migliori, potenziando tali caratteristiche:

  • la capacità di coordinazione tra i propri sforzi e quelli altrui;
  • la capacità di persuasione e di collaborazione;
  • una gestione adeguata dei conflitti;
  • una gestione adeguata delle proprie risorse, del tempo e degli impegni lavorativi;
  • la comprensione e accettazione delle prospettive dei clienti e dei colleghi e le rispettive diversità;
  • la capacità di lavorare in gruppo (Goleman, 1996).

In una società caratterizzata sempre di più da un crescente individualismo, indifferenza e competitività, che ci spingono spesso a sperimentare stati di solitudine e difficoltà, l’intelligenza emotiva permette invece di farci distinguere e di trasformare anche l’ambito lavorativo in un’opportunità di crescita personale e di collaborazione con gli altri. Il contesto lavorativo, afferma Goleman (2000), è un contesto in cui non basta avvalersi di una logica fredda e rigida: occorre sapersi rapportare con gli altri in maniera flessibile, con spirito ottimistico e di adattamento. Questo clima di fiducia e alleanza non solo ci permette di affrontare con maggior positività i nostri compiti, ma anche di ottimizzare tempi e processi esecutivi, arricchendo i nostri talenti con quelli altrui, grazie all’aiuto reciproco. Non a caso, infatti, l’intelligenza emotiva è considerata una delle 10 soft skills più richieste ai candidati durante i colloqui di lavoro (Robles, 2012).

 

“Tutto è difficile prima di diventare facile” e “La paura che diventa coraggio” (2020) di Luca Mazzucchelli e Giulia Telli – Recensione dei libri

Freschi di pubblicazione, Tutto è difficile prima di diventare facile e La paura che diventa coraggio, sono due simpatici libri per bambini che nascono da un nuovo progetto SerenaMente di Luca Mazzucchelli, famoso psicologo e psicoterapeuta, e la moglie Giulia Telli, illustratrice e nota sul web per i suoi consigli circa le letture per bambini.

 

Nati da SerenaMente, una collana che ha come finalità quella di aiutare genitori e bambini a familiarizzare con alcuni concetti tratti dal mondo della psicologia e della crescita personale, i due libri ce ne parlano attraverso le esperienze di animaletti che faranno da protagonisti all’interno dei racconti.

La paura che diventa coraggio

In La paura che diventa coraggio, la protagonista è una Volpe che tanto desidera liberarsi dalla paura ma tanto nella prima parte del racconto la subisce; sarà grazie ai suggerimenti dell’amico Tasso e gli aneddoti del saggio nonno dello stesso che Volpe riuscirà gradualmente ad affrontare e superare la sua paura, riuscendola a trasformare in coraggio.

Tutto è difficile prima di diventare facile

In Tutto è difficile prima di diventare facile, il protagonista è un cane lupo dal nome Simba che desidererebbe tanto diventare un acrobata del circo, ma siccome molto timido e scoraggiato dagli altri, era pronto a rinunciare al suo sogno. Anche in questo caso sarà la saggezza del gatto Orazio che lo spronerà a non abbandonare il suo desiderio ed impegnarsi per questo, riuscendo a tollerare le frustrazioni che potranno presentarsi ed utilizzare la grinta, la costanza e determinazione che lo accompagnerà a raggiungere il suo obiettivo.

Due libretti, dedicati ai piccoli lettori e ai loro genitori, che in maniera leggera affrontano grandi temi di cui ne è comprovato l’aspetto utile per il nostro benessere psicologico ed il loro, che sintetizzerei con il termine resilienza. Oggi, sappiamo infatti, grazie anche agli studi delle neuroscienze, che la resilienza ha un carattere di normalità e non di straordinarietà e dunque caratteristica potenzialmente comune a tutti gli esseri umani. Ma va anche detto che la probabilità di sviluppare risposte resilienti sarebbe correlato a diversi fattori ambientali, come le relazioni affettive e di supporto, le relazioni esterne, fattori individuali come l’autostima, il sentimento di efficacia personale, la capacità di sperimentare sentimenti come la gratitudine e la compassione, la grinta, la flessibilità psicologica, competenze sociali, strategie di coping, uniti ad impegno, controllo e senso di sfida. Dunque può essere allenata, sviluppata e potenziata e chi ben incomincia è a metà dell’opera.

Tutti questi “ingredienti” che dal mio punto di vista sono presenti all’interno di questi due racconti e narrati con un linguaggio piacevole e scorrevole, ritengo possano essere apprezzati da grandi e piccini.

 

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