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Ansia sociale e alessitimia in relazione al bere problematico e alla teoria della mente

Un recente studio ha testato tre ipotesi: (1) l’ansia sociale predice l’alessitimia nel caso di depressione controllata, (2) l’alessitimia media il rapporto tra ansia sociale e bere problematico e (3) l’alessitimia media il rapporto tra ansia sociale e scarsa teoria della mente. I risultati hanno confermato le ipotesi iniziali?

 

I disturbi d’ansia sono i più comuni nell’ambito dei problemi di salute mentale (Baxter, Patton, Scott, Degenhardt, & Whiteford, 2013): nello specifico, il disturbo d’ansia sociale (SAD) è quello più comune al mondo (Ruscio et al., 2008). Si tratta di un disturbo cronico e pervasivo, caratterizzato da un’intensa paura e dall’elusione di situazioni sociali o di performance, che portano ad un’interferenza clinicamente significativa in diverse aree della vita di una persona, influenzando il funzionamento lavorativo e le relazioni interpersonali (American Associazione Psichiatrica, 2013). Le persone con ansia sociale possono sperimentare disagio soggettivo e somatico durante le interazioni sociali, spesso caratterizzato da un aumento della frequenza cardiaca, sudorazione e tremore (Stemberger, Turner, Beidel, & Calhoun, 1995). L’ansia sociale è un fattore di rischio per l’abuso di alcol nei giovani adulti (Schry & White, 2013), presumibilmente perché l’alcol agisce come “lubrificante sociale” a causa dei suoi effetti ansiolitici e disinibenti (Thomas, Randall, Book, & Randall, 2007).

Con il termine alessitimia (Sfineos, 1973) si intente un tratto di personalità subclinica, presumibilmente di origine biologica (Alessitimia Primaria, Freyberger, 1977; Thorberg, Young, Sullivan, Lyvers, Hurst, Tyssen, et al., 2016), che comporta pensiero simbolico notevolmente ridotto, piuttosto orientato verso l’esterno, una limitata capacità di identificazione e descrizione delle emozioni e dei sentimenti, un’attività fantastica impoverita e infine difficoltà di differenziare i sentimenti e le sensazioni somatiche di eccitazione emotiva (Nemiah, Freyberger, & Sifneos, 1976). Le persone altamente alessitimiche sono spesso preoccupate dagli eventi esterni e tendono a non sollecitare l’aiuto o il conforto degli altri a causa delle loro difficoltà interpersonali, che spesso si riflettono in una profonda solitudine (Qualter, Quinton, Wagner, & Brown, 2009). Essa è connessa ad una varietà di disturbi psicologici: depressione, ansia, ossessione-compulsione, schizofrenia, disturbi dello spettro autistico, PTSD e disturbi del comportamento alimentare. Tra il 28% e il 58% dei pazienti con diagnosi SAD hanno riportato elevati livelli di alessitimia (Cox, Swinson, Shulman, & Bourdeau, 1995), dimostrando che le difficoltà di identificazione e comunicazione delle emozioni e sentimenti rappresentano un impedimento maggiore per le relazioni interpersonali. Un’altra possibilità è delineata dal fatto che, in alcuni casi, l’alessitimia potrebbe essere una reazione ad un’intensa e cronica ansia o stress psicologico (Alessitimia secondaria, Freyberger, 1977).

Le persone socialmente ansiose possono non avere una visione accurata di come gli altri le percepiscono a causa di deficit nella comprensione degli stati mentali ed emotivi degli altri in situazioni sociali (Hezel & McNally, 2014), che è anche caratteristica dell’alessitimia (Lyvers, McCann, et al., 2018). La capacità di comprendere, identificare e ragionare sugli stati soggettivi degli altri è nota come teoria della mente (Onuoha, Quintana, Lyvers, & Guastella, 2016). Quest’ultima comporta due processi: il rilevamento o l’identificazione degli stati altrui sulla base di prove osservabili e il ragionamento o l’interpretazione degli stessi, al fine di prevedere o comprendere il comportamento degli altri.

Tra il 24% e il 48% (Buckner et al., 2008) delle persone con una diagnosi di SAD soddisfano i criteri per una diagnosi di Disturbo da uso di alcol nel corso della vita (AUD), rispetto a un tasso di prevalenza dell’AUD del 15% nella popolazione generale (Kessler et al., 2005). La comorbilità dell’ansia sociale e del bere problematico è stata riportata in campioni sia clinici che non clinici. L’abuso di alcol e la dipendenza spesso precedono lo sviluppo della SAD (Gilles et al., 2006). Ricerche sperimentali indicano che il consumo di alcol può diminuire l’ansia da prestazione in soggetti con SAD e che aumentano l’assunzione di alcol dopo un compito (Abrams et al., 2002). Un continuo ricorso a sostanze ansiolitiche come l’alcol per autoregolarsi, indipendentemente dalla quantità di assunzione, aumenta probabilmente il rischio di un uso problematico e di dipendenza. Inoltre, alti livelli di alessitimia sono comuni in individui con diagnosi di AUD (Thorberg, Young, Sullivan, & Lyvers, 2009): questi possono utilizzare sostanze come l’alcol per compensare la loro incapacità di modulare gli affetti (Speranza et al., 2004).

L’alessitimia può quindi svolgere un ruolo di mediazione nella relazione tra l’ansia sociale e il bere problematico, ipotesi esaminata in un recente studio condotto da Lyvers et al. (2019). Lo scopo è stato quello di ottenere delucidazione relative ai possibili fattori perpetuanti nell’ansia sociale e nel bere problematico. Il ruolo dell’alessitimia è importante in quanto possibile fattore di rischio per entrambi disturbi esplorati. Tre ipotesi testate: (1) l’ansia auto-riferita relativa ai contesti sociali predice l’alessitimia, nel caso di depressione controllata; (2) l’alessitimia media il rapporto tra ansia sociale e bere problematico; (2) l’alessitimia media il rapporto tra ansia sociale e scarsa teoria della mente. Il campione indagato consiste in 301 soggetti non clinici.

L’ansia sociale è stata valutata per mezzo della Social Interaction Anxiety Scale (SIAS, Mattick & Clarke, 1998), composta da 20 item che esplorano il livello di stress associato alle interazioni sociali ordinarie, del tipo “Ho difficoltà a parlare con altre persone”. L’alessitimia è stata valutata tramite la Toronto Alexithymia Scale 20 (TAS-20, Bagby, Parker & Taylor, 1994), composta da 20 item che esploravano (1) la difficoltà di identificare sentimenti (DIF, ad es. “Sono spesso confuso circa le emozioni che provo”), (2) la difficoltà nel descrivere i sentimenti (DDF, ad es. “E’ molto difficile per me descrivere a parole i miei sentimenti”), (3) il pensiero orientato verso l’esterno (EOT, ad es. “Preferisco parlare alle persone delle loro attività quotidiane piuttosto che dei loro sentimenti”). E’ stata inoltre utilizzata la Depression Anxiety Stress Scales-21 (DASS-21; Lovibond & Lovibond, 1995), una misura self-report, costituita da 21 item, che indaga l’esperienza emotiva negativa dell’ultima settimana. Nello specifico indaga: depressione (es. “Sento che la vita è senza significato”), ansia e stress. La teoria della mente è stata valutata tramite la Reading the Mind in the Eyes Test – Revised (RMET-R; Baron-Cohen et al., 2001), che esplora il riconoscimento delle emozioni attraverso le immagini degli occhi di uomini e donne: si tratta di 36 fotografie e intorno alla foto ci sono aggettivi del tipo “cauto”, “insistente”, “annoiato”, “avvilito”. Infine, l’utilizzo di alcol è stato misurato per mezzo dell’Alcohol Use Disorders Identification Test (AUDIT, Saunders et al., 1993), i cui valutano tre fattori: il consumo di alcolici, misurata da tre elementi (es. “Quanto spesso beve drink alcolici?”); la dipendenza da alcol (es. Quanto spesso durante l’ultimo anno si è sentito non in grado di smettere di bere una volta iniziato?”); e problemi legati all’alcol (es. “Lei o qualcun altro si è ferito a causa del suo alcolismo?”).

Le relazioni tra le variabili sono state coerenti con le aspettative, tanto che l’ansia sociale è emersa significativamente correlata con l’alessitimia, la teoria della mente, il bere problematico e la depressione. Inoltre, l’ansia sociale prevedeva alessitimia anche dopo aver tenuto sotto controllo la depressione, che indica che il rapporto tra ansia sociale e l’alessitimia non dipende dalla depressione (Ertekin et al., 2015). Dai risultati è inoltre emerso che l’ansia sociale può essere un risultato dell’alessitimia, o viceversa: i punteggi di ansia sociale correlano con le componenti “difficoltà a identificare le emozioni” e “difficoltà a descrivere le emozioni” dell’alessitimia. Inoltre, l’alessitimia media il rapporto tra ansia sociale e consumo problematico di alcol: precisamente l’uso di alcol per far fronte alle emozioni negative è stato specificamente collegato ad un aumento del rischio di dipendenza da alcol. L’alessitimia associata all’ansia sociale può quindi incoraggiare una dipendenza dagli effetti ansiolitici e disinibitori dell’alcol per ridurre l’ansia, incoraggiare l’espressione emotiva e rendere le interazioni sociali più facili da affrontare. Il presente studio ha anche accertato un ruolo di mediazione dell’alessitimia nel rapporto tra ansia sociale e scarsa teoria della mente. Pertanto, appare evidente che gli errori di identificazione e riflessione sugli stati mentali sembrano portare a risultati interpersonali negativi, promuovendo e mantenendo l’ansia sociale. Tuttavia, emerge che una scarsa teoria della mente nell’ansia sociale non può essere completamente giustificata dall’alessitimia.

In conclusione, le caratteristiche alessitimiche e la scarsa teoria della mente possono influire su coloro che soffrono di ansia sociale e il bere problematico: le difficoltà di identificazione e ragionamento sugli stati mentali altrui hanno il potenziale di perpetuare e mantenere l’ansia sociale e aumentano il rischio problemi di AUD. Poiché lo studio ha utilizzato un campione non clinico, i risultati indicano che le caratteristiche alessitimiche sono prominenti non solo tra gli individui con SAD, ma anche nei giovani adulti non diagnosticati che riferiscono di soffrire di ansia nel contesto delle interazioni sociali.

 

Dipendenza da gioco d’azzardo: un aiuto dai racconti dei pazienti – Comunicato Stampa

Comunicato Stampa – SISSA, Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati

Una nuova ricerca condotta dalla SISSA e dall’Università di Roma Tre identifica per la prima volta marcatori narrativi della dipendenza da gioco d’azzardo e apre la strada ad approcci innovativi di tipo terapeutico e preventivo.

 

Trieste, 9 novembre 2020

Come si raccontano le persone affette da gioco d’azzardo patologico? Che informazioni possiamo estrarre dalle loro narrazioni? Uno studio condotto dalla SISSA – Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati e dall’Università di Roma Tre ha analizzato per la prima volta in dettaglio le parole e le costruzioni linguistiche usate da soggetti con dipendenza da gioco d’azzardo. I ricercatori hanno identificato così alcuni elementi caratteristici del loro stato emotivo e cognitivo nei diversi stadi della malattia. Lo studio, pubblicato su Addictive disorders and their treatment, apre nuovi scenari per lo sviluppo di percorsi di recupero e prevenzione basati sulle competenze linguistiche.

Condividere, attraverso il racconto, le proprie esperienze con amici o parenti è un esercizio che molti di noi svolgono quotidianamente. Eppure le narrazioni personali rappresentano un processo per nulla banale. Ci aiutano a ordinare e a dare un senso alle nostra storia, permettono di integrare i diversi aspetti del vissuto psichico, dei diversi tempi – passato, presente e futuro – in cui vive la nostra mente.

Le parole che un individuo usa quando racconta un fatto o descrive una condizione interiore riflettono i suoi stati psicologici e rappresentano anche il suo particolare stile cognitivo, emotivo, i tratti di personalità, nonché gli eventuali sintomi di disturbi psicologici di cui può soffrire. Ecco perché il racconto di sé rappresenta anche un’importante via di accesso ai processi emotivi e cognitivi che viene utilizzata sia in contesti di ricerca che terapeutici.

Un gruppo di ricercatori e ricercatrici della SISSA e dell’Università di Roma Tre ha per la prima volta analizzato le narrazioni dei pazienti affetti da dipendenza al gioco d’azzardo per identificarne le problematiche più comuni e fornire possibili strumenti terapeutici innovativi.

In particolare, i ricercatori hanno intervistato 30 soggetti in trattamento per disturbo da gioco d’azzardo presso i servizi pubblici per le dipendenze della Regione Friuli Venezia Giulia. Le interviste, realizzate in forma semi-strutturata, riguardavano vari aspetti della loro esperienza con il gioco, dall’aspetto compulsivo, ai tentativi di controllare il desiderio, dai fattori scatenanti la dipendenza a quelli utili a raggiungere l’astinenza e riprendere il controllo.

Gli studiosi hanno quindi analizzato le parole utilizzate dai pazienti con il LIWC (Linguistic Inquiry and Word Count), il software più utilizzato al mondo per gli studi di linguistica computazionale.

Abbiamo così identificato diversi marcatori linguistici delle problematiche emotive e cognitive dei giocatori d’azzardo, che variano nelle diverse fasi della dipendenza – spiega Stefano Canali, ricercatore del Laboratorio Interdisciplinare della SISSA e del Cosmic Lab dell’Università di Roma Tre e responsabile dello studio. – Il più evidente fra tutti è l’assenza totale di parole e frasi riferite al futuro. Un fenomeno che probabilmente è allo stesso tempo indice e causa della difficoltà che ha il giocatore d’azzardo a pensare agli effetti dei comportamenti impulsivi e rischiosi sul suo domani.

Un altro marcatore narrativo che lo studio ha individuato è l’uso contemporaneo di espressioni in prima persona e in forma passiva per raccontare il rapporto col gioco.

È come se il soggetto si sentisse di essere ‘agente’ e responsabile dei comportamenti di gioco e, allo stesso tempo, di essere ‘agito’, passivo, trascinato dal desiderio e dagli automatismi. Questa contraddittorietà narrativa è indice di una chiara dissociazione del sé – afferma il ricercatore – Infine, a questi indicatori si affianca un’estrema difficoltà a descrivere i vissuti emotivi legati al desiderio del gioco e alla perdita del controllo. Un deficit narrativo che sembra migliorare con il percorso terapeutico.

Si tratta di uno studio pilota che ci ha permesso di dimostrare l’importanza dell’analisi del linguaggio nella comprensione delle funzioni psicologiche coinvolte nelle dipendenze – conclude Canali – Dal punto di vista clinico, i marcatori narrativi possono rappresentare un nuovo elemento di supporto nel processo terapeutico, oltre che un possibile strumento di riconoscimento di soggetti a rischio. Essi aprono inoltre la strada all’impiego di tecniche di potenziamento delle competenze narrative generali come strategie complementari nei percorsi di cura delle dipendenze, in analogia a quelle che si stanno sperimentando ad esempio con i pazienti affetti da autismo.

Gioco d’azzardo in Italia e in Friuli Venezia Giulia: dati 2019 e 2020

Secondo il Libro Blu 2019 dell’Agenzia delle Dogane e Monopoli pubblicato a giugno 2020, lo scorso anno l’ammontare complessivo delle puntate in Italia (slot machine, videolottery, lotterie gratta e vinci, scommesse sportive, superenalotto, gioco online ecc.) è stato di 110,5 miliardi di euro. Il volume di gioco del Friuli Venezia Giulia è stato pari a un miliardo e 369 milioni di euro, per un dato pro capite di 1.305,94 euro anno, considerando che in tale popolazione sono incluse anche persone istituzionalizzate o impossibilitate al gioco.

Nel corso del 2020, in concomitanza con la pandemia da SARS-Cov 2, si è vista una crescita sostanziale del gioco online. Solo nel mese di marzo 2020 i nuovi conti di gioco aperti sono aumentati del 35% rispetto a quelli di febbraio. Un’indagine condotta dall’Istituto di Fisiologia Clinica del CNR di Pisa ha riportato che tra i profili online aperti negli ultimi mesi, il 96% è stato aperto da giocatori che non avevano mai giocato su internet. Secondo la stessa fonte, il fatturato dovuto al gioco online è aumentato significativamente nel marzo 2020 rispetto all’anno precedente. In particolare, il fatturato dovuto al gioco del Poker online è più che raddoppiato (da 7.2 a 16 milioni di euro), mentre quello associato ai casinò online è passato da circa 73 milioni di euro nel marzo 2019 a 94 milioni di euro nel marzo 2020.

 

L’integrazione della TMS con la psichiatria e la psicoterapia. La metodica e l’uso in ambito psichiatrico – VIDEO

Il Centro Stimolazione Magnetica Transcranica ha proposto un incontro sulla plasticità sinaptica per una cura efficace, con un focus su TMS, dipendenze e disturbi emotivi. Pubblichiamo, per i nostri lettori, il video dell’incontro. 

 

Il 21 Luglio 2020 si è tenuto un incontro per conoscere e scoprire la Stimolazione Magnetica Transcranica (TMS) e i suoi utilizzi in ambito psichiatrico.

Lo Studio Clinico San Giorgio, ora diventato Centro Stimolazione Magnetica Transcranica – CIP TMS, propone un approccio innovativo e integrato per il trattamento di disturbi emotivi e dipendenze patologiche. Neuropsichiatria e psicoterapia si integrano con la Stimolazione Magnetica Transcranica (TMS), una metodica di neuromodulazione cerebrale non invasiva ed efficace nella cura di dipendenze, depressione, disturbi ossessivi, sindrome di Tourette e delle demenze. Per i nostri lettori pubblichiamo il video dell’evento “L’integrazione della TMS con la psichiatria e la psicoterapia. La metodica e l’uso in ambito psichiatrico” All’incontro hanno partecipato la dr.ssa Vaccaro, la dr.ssa Crespi, il dr. Ferro il dr. Schiena e il dr. Ruggiero.

 

TMS, PSICHIATRIA E PSICOTERAPIA – Guarda il video integrale del webinar:

 

Speranza, consapevolezza e cambiamento

Speranza è una delle parole più frequentemente menzionate nelle conversazioni di tutti i giorni: le persone sperano nel raggiungimento di un bene o nell’evitamento di un male, quasi come tendenza naturale. Che cosa significa da un punto di vista psicologico sperare? La speranza può aiutare ad avviare azioni che migliorino il nostro stato d’animo e il modo di porsi nella Vita?

 

Dunque c’è la luce
e ogni foglia è attaccata al ramo
con esatto amore
e ogni foglia in orario
lascia il ramo
con audace resa
e ogni uscire dalla soglia
del corpo è ricevuto
con unanime benvenuto
da quella scienza della gioia
che proprio ora proprio qui
riempie il foglio di ghirigori
per dirti che dunque
la luce c’è.
(Chandra Livia Candiani)

Negli ultimi mesi, la letteratura scientifica sta mostrando gli effetti legati al confinamento per il Covid-19 e alla gestione dell’emergenza sul benessere delle persone. Tali effetti erano stati considerati preventivamente da gruppi di professionisti ad inizio dell’evento pandemico, sulla scia di alcuni primi dati già pubblicati sulla popolazione cinese ed ora confermati dalle numerose evidenze scientifiche.

Dagli studi e dalle osservazioni rilevate, emerge che in molti siano stati colpiti nelle dimensioni vitali per l’essere umano, quale quella fisica, psicologica, sociale. Tra i disturbi maggiormente rilevati, e sovente intrecciati tra loro, sono stati individuati:

Infine, non meno importanti, le domande legate al senso e al significato sulla propria identità, sulle relazioni, sul lavoro, sull’ambiente, sulla Vita, la malattia e la morte. Alcuni tra i disagi sopra riportati sono stati evidenziati anche tra la popolazione infantile, che ha subito di riflesso la gestione dell’emergenza e le problematiche ad esse associate da parte dei familiari.

Nelle conversazioni quotidiane dei mesi passati ed odierne, spesso sentiamo frasi come:

“Spero di stare meglio”

“Spero che le cose vadano meglio”

“Spero che si risolva tutto per il meglio”

“Spero che vada, davvero, tutto bene…”

Pensieri che sovente ci accompagnano nel nostro percorso di vita, quasi un augurio che in automatico nasce spontaneo, da dentro, soprattutto nei momenti di crisi. Riflessioni molto attuali e vive, che hanno camminato insieme a noi in questi mesi, che si sono visti negli sguardi della gente per strada e che faticosamente ha ripreso le attività, o che ha dovuto fare i conti con cambiamenti importanti sul versante familiare, finanziario, lavorativo, amicale.

Secondo Shimanoff il termine speranza è una delle parole più frequentemente menzionate nelle conversazioni di tutti i giorni: le persone sperano nel raggiungimento di un bene o nell’evitamento di un male, quasi come tendenza naturale.

L’etimologia stessa della parola speranza ci rimanda a un tendere verso: dal latino “spes= speranza”, a sua volta collegato alla radice sanscrita “spa= tendere verso una meta”. Tendere verso un miglioramento, a partire da una condizione di malessere, frustrazione, insoddisfazione, anche paura e angoscia. La definizione di speranza contiene quindi nozioni individuali, orientamenti futuri, implica partecipazione attiva da parte dell’individuo e rappresenta la possibilità di un risultato positivo.

Che cosa significa da un punto di vista psicologico sperare? La speranza può aiutare ad avviare azioni che migliorino il nostro d’animo e il modo di porsi nella Vita?

Alcuni primi studi sulla dimensione della speranza sono stati condotti in situazioni di minaccia alla vita ed associati pertanto alla capacità della persona di trovare un senso all’evento avverso. Ad esempio Korner e McGee hanno documentato la relazione tra la speranza e la sopravvivenza degli ebrei nei campi nazisti. Sulla scia di quei primi studi, la dimensione della speranza è stata considerata come fattore fondante la relazione di cura e pertanto approfondita nelle sue componenti e qualità dal punto di vista delle persone malate. Una delle definizioni che ne deriva è:

forza vitale dinamica multidimensionale caratterizzata da un’aspettativa fiduciosa, ma incerta, di raggiungere un bene futuro che, per la persona che spera, è realisticamente possibile e personalmente significativo. 

In particolare è stato mostrato che vivere con speranza è un fattore significativo che aiuta le persone ad adattarsi alla malattia, a ridurre lo stress e a migliorare il benessere psicologico e la qualità della vita. La mancanza di speranza, definita come percezione di una situazione insormontabile dove nessun obiettivo sembra raggiungibile, è associata invece a depressione e al desiderio di affrettare la propria morte.

In uno studio condotto da Johnson su un gruppo di persone malate di tumore sono stati delineati 10 attributi della speranza, riassunti nella tabella sottostante.

  • Aspettative positive: una previsione positiva con speranza di un domani migliore, nonostante la malattia.
  • Qualità personali: una forza interiore, un approccio alla vita volto a risolvere i problemi e il raggiungimento di importanti obiettivi.
  • Spiritualità: fede verso un Essere superiore; speranza di una vita dopo la morte dove rincontrare i propri cari trovando uno scopo per vivere quello che resta della vita.
  • Obiettivi: fissare e raggiungere obiettivi di breve termine.
  • Confort: essere liberi dal dolore.
  • Assistenza: il comportamento degli altri per i contatti fisici, attenzione all’umore e  avere un’onesta informazione.
  • Relazioni interpersonali: relazioni ricche di affetto con amici e famigliari, relazioni oneste verso coloro che danno assistenza.
  • Controllo: possibilità di decidere sulle proprie cure.
  • Eredità: lasciare qualcosa di valore agli altri.
  • Rassegna della propria vita: riconoscere gli obiettivi raggiunti e i contributi dati per migliorare le vite degli altri.

Un altro studio ha evidenziato i fattori che invece ledono la speranza nelle persone malate:

  • Abbandono e isolamento: sia da parte della rete famigliare e sociale, che da parte degli operatori (percezione di una scarsa comunicazione con gli operatori).
  • Dolore: e disagio incontrollabili.
  • Svalutazione: della personalità.

Esiste uno strumento che aiuta a comprendere come la persona sta vivendo la speranza in un percorso legato alla malattia, composto da alcune domande che rimandano nella maggior parte dei casi agli attributi sopra descritti. Ad esempio:

  • Ho una profonda forza interiore?
  • Posso ricordare tempi felici e gioiosi?
  • Mi sento di dare e ricevere cura/amore?

Queste domande evidenziano l’importanza della qualità della relazione con se stessi e gli altri significativi (famigliari e amici) per poter nutrire in modo positivo la speranza.

Gli studi citati, anche se relativi ad un gruppo specifico – persone malate – orientano a riflessioni che ciascuno può porsi, a prescindere da una condizione di malattia, per poter iniziare a portare attenzione alla propria vita e alla speranza di darle valore e di renderla ogni giorno migliore:

  • Che cosa significa per me stare meglio?
  • In che modo posso prendermi cura del mio benessere?
  • Lo desidero veramente?
  • Mi interessa?
  • Che cosa sto cercando di fare affinché questo si possa realizzare?
  • Che tipo di relazione ho con la mia quotidianità?
  • Come la vivo?

Spesso tendiamo a delegare al di fuori di noi la risposta a queste domande, per molteplici ragioni:

  • per via delle aspettative degli altri su di noi;
  • per le aspettative che noi abbiamo su noi stessi;
  • per il non sentirci capaci;
  • per la sfiducia che abbiamo in noi stessi e negli altri;
  • per la paura di sbagliare;
  • per i giudizi che tendiamo a dare a noi stessi e agli altri;
  • per scarsa assunzione di responsabilità.

L’esperienza legata al lockdown e al Covid-19 ha fatto emergere l’importanza della consapevolezza di se stessi e delle relazioni con gli altri, alla quale non siamo quasi mai educati. Spesso, spinti da ritmi frenetici, siamo portati fuori da noi, alla ricerca di qualcuno o qualcosa che speriamo apporti un miglioramento nella nostra vita, allontanandoci dalla possibilità che abbiamo in ogni momento di partire da noi stessi per comprendere cosa ci fa stare bene, che cosa condiziona il nostro sentire e il nostro agire e che cosa possiamo fare per agire un cambiamento. Questo tipo di consapevolezza si costruisce gradualmente ogni giorno a partire dalle cose quotidiane della vita, ad esempio ogni volta che siamo presenti a ciò che facciamo, ogni volta che nutriamo un pensiero bello su di noi o sentiamo affetto per noi stessi e per qualcuno al quale vogliamo bene, quando portiamo attenzione alla motivazione di un nostro agire o ci prendiamo cura di una sofferenza che stiamo provando. In sostanza ogni volta che non deleghiamo ciò che siamo, rivolgendo lo sguardo dentro noi stessi per comprendere che il cambiamento non è qualcosa che altri possono darci ma è qualcosa che appartiene alle nostre capacità.

Un possibile parallelismo con questi significati è costituito dalla prevenzione e dagli stili di vita salutari, rispetto ai quali sono disponibili molte ricerche che ne evidenziano il ruolo centrale per la salute. La prevenzione in una delle sue accezioni è prima di tutto conoscenza di sé, in relazione ai pensieri, alle emozioni, alle relazioni e a come le viviamo. Ad esempio mangiare sano o fare attività fisica sono alcune delle principali indicazioni degli stili di vita salutari, ma se deleghiamo il nostro benessere a queste indicazioni, comprovate scientificamente, non considereremo una parte importante della salute: come ci sentiamo? Quali emozioni mettiamo nel piatto che mangiamo? Che cosa impedisce di prenderci l’impegno di fare attività fisica?

L’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce la salute come stato di completo benessere fisico, sociale e mentale e non soltanto l’assenza di malattia e infermità. In questa ottica la salute non è una condizione astratta, ma un mezzo finalizzato ad un obiettivo, quello di costruire il proprio benessere. Negli ultimi anni, diversi documenti di integrazione sottolineano anche l’importanza della spiritualità per la tutela e la promozione della salute, in quanto essa può aiutare a sostenere le cure, a gestire le difficoltà della vita e a migliorare la condizione di benessere che a sua volta aumenta il piacere di vivere.

I mesi precedenti hanno fatto emergere l’importanza di pensare alla salute ogni giorno, a partire dalla consapevolezza di che cosa ci aiuta a stare bene non solo dal punto di vista fisico, ma anche delle emozioni, delle relazioni, delle domande che possiamo farci nello stare nella Vita e nel comprendere quali significati può avere per noi. Per riprendere alcune domande relative alla speranza:

  • Ho una profonda forza interiore?
  • Posso ricordare tempi felici e gioiosi?
  • Mi sento di dare e ricevere cura/amore?

Portare attenzione a questi aspetti aiuta a discriminare che cosa ci condiziona e che cosa invece può essere fatto a partire da noi in modo attivo e responsabile, non giudicando quello che percepiamo di non riuscire a fare, ma dando valore all’azione che compiamo, anche una sola. Infine ‘farci accompagnare’ da queste riflessioni e agire in modo coerente ad esse, sostiene nel discriminare le informazioni veramente attendibili rispetto alla propria salute, limitando le paure che condizionano spesso la messa in atto di comportamenti che non tutelano realmente se stessi, ma sono adottati proprio perché inscindibilmente legati a stati d’animo che amplificano il bisogno di controllo.

 

Bambini con sintomi ansiosi? E se provassimo ad aiutarli attraverso i genitori? Il programma space, assolutamente spaziale!

Oggi gli studi rilevano che i disturbi d’ansia rappresentano uno dei disturbi psichiatrici più diffusi tra bambini e adolescenti. Come possiamo aiutare i giovani con sintomi ansiosi? La soluzione è semplice: utilizzare un metodo di provata efficacia, come l’innovativo programma SPACE.

 

Nel momento storico in cui viviamo, i sintomi ansiosi crescono esponenzialmente nella popolazione, senza fare distinzioni tra uomini e donne e non risparmiando i giovani. Proprio i bambini rischiano però di non veder riconosciuti i propri sintomi dagli adulti, che possono interpretarli come “normali paure dei bambini” o, peggio, mandare il messaggio più o meno esplicito che “il bambino sta solo facendo i capricci” e riprenderlo o ignorarlo invece di comprenderlo e aiutarlo.

Oggi gli studi rilevano che i disturbi d’ansia rappresentano uno dei disturbi psichiatrici più diffusi tra bambini e adolescenti (Costello et al., 2005). I sintomi, spesso non riconosciuti e/o non trattati correttamente, determinano poi implicazioni negative sullo sviluppo e sul funzionamento globale, causando grave disagio e carico anche su genitori e familiari, nonché costi sociali significativi.

Prendere atto di questa situazione ci mette di fronte a un quesito importante: come possiamo aiutare i giovani con sintomi ansiosi? La soluzione è semplice: utilizzare un metodo di provata efficacia!

L’innovativo Programma SPACE (Supportive Parenting for Anxious Chilhood Emotions) basato sulla Resistenza Non Violenta (NVR, Not Violent Resistance) ideato dagli autori internazionali Haim Omer e Eli Lebowitz risponde a questa richiesta. SPACE è un programma nato dalla percezione di molti genitori di aver perso il proprio spazio personale (da qui l’acronimo) a causa dei sintomi ansiosi dei propri figli, di cui si sentono ostaggio. Rappresenta un intervento di parent training che si rivolge esclusivamente ai genitori e fornisce una serie di strumenti pratici che mirano ad aiutarli a identificare le varie forme di adattamento che forniscono, implementare piani dettagliati per ridurre i comportamenti di adattamento e strategie per far fronte alle dure reazioni del bambino. Così facendo riusciranno a modificare il modo in cui si rapportano ai problemi dei figli, rendendolo più costruttivo e produttivo, anziché limitandosi ad assecondare passivamente i sintomi o a tentare di modificare direttamente i comportamenti dei figli rischiando continue escalation.

Perché SPACE?

La terapia cognitivo-comportamentale (CBT) ha da sempre fornito prove di efficacia molto elevata per il trattamento dei disturbi d’ansia (per una revisione si veda Caselli, G., Manfredi, C., Ruggiero, G.M. & Sassaroli, S., 2016). Quando però si prendono in carico i giovani pazienti, non sempre si riescono a ottenere risultati soddisfacenti. Una possibile spiegazione è dovuta al fatto che la CBT richiede la partecipazione attiva del paziente e una collaborazione costante col terapeuta, elementi non sempre facili da realizzare coi bambini. Avviene frequentemente, infatti, che i bambini rifiutino la psicoterapia, non ne capiscano il senso o vi partecipino malvolentieri, con scarso impegno e/o poca costanza. Bisogna poi considerare il contesto di vita del bambino e i fattori familiari che sono coinvolti nella genesi e/o nel mantenimento dei sintomi: i fattori esterni rivestono un’importanza maggiore nel caso di un bambino poiché egli dipende maggiormente dagli altri e non ha ancora sviluppato molte risorse per comprendere e gestire se stesso, i propri pensieri, le proprie emozioni, i propri comportamenti e gli eventi che affronta.

Quando la partecipazione del bambino al trattamento non risulta possibile o quando non si ottengono sufficienti benefici dalla terapia individuale, un intervento rivolto ai genitori può costituire un’alternativa efficace e praticabile. È questo che si propone il Programma SPACE. L’assunto è che un genitore tiene troppo al proprio figlio per abbandonarlo, trascurarlo o non impegnarsi per aiutarlo a stare meglio. Può sorprendere l’effetto che sottolineare un elemento così ovvio può avere sia sui genitori, che si riappropriano in questo modo del legame genitoriale, che sui figli, che sperimentano tutta la potenza della presenza e dell’amore dei genitori. Il Programma parte da questo assunto, mobilita i genitori e li guida nel raggiungimento del loro intento. Ciò è fondamentale perché permette di agire anche su quei casi in cui un trattamento classico sul bambino non sarebbe attuabile. È significativo rilevare che proprio a seguito dell’attuazione di SPACE molti bambini accettano di iniziare la psicoterapia che prima avevano rifiutato o, nel caso non sia mai stata proposta, chiedono ai genitori se ci sia qualcuno a cui rivolgersi.

Altro elemento da ricordare è l’effetto che il Programma ha progressivamente anche sui genitori: molti di loro riferiscono una sempre maggiore percezione di capacità ed efficacia associate a una parallela diminuzione del disagio e della percezione di impotenza scatenata dal sentirsi in balìa dei sintomi dei propri figli.

Gli autori

Eli Lebowitz è direttore del Programma per i disturbi d’ansia infantile e adolescenziale presso la Yale School of Medicine, Child Study Center. Le sue ricerche si concentrano sullo sviluppo, la neurobiologia e il trattamento dell’ansia e dei disturbi correlati, con particolare attenzione alle dinamiche familiari e al ruolo dei genitori. Dirige progetti di ricerca finanziati dai maggiori fondi internazionali ed è autore di articoli di ricerca e libri sull’ansia infantile e adolescenziale.

Haim Omer è docente presso il Dipartimento di Psicologia dell’Università di Tel Aviv ed è il fondatore, insieme a Irit Schorr-Sapir, della School of Non Violent Resistance di Tel Aviv, centro ufficiale di insegnamento, supervisione e promozione dell’approccio della Resistenza Non Violenta e della Nuova Autorità (New Authority, NA). Nel corso dei suoi quarant’anni di carriera come psicoterapeuta, ricercatore accademico e insegnante ha pubblicato oltre settanta lavori riferiti alla psicologia della demonizzazione, alla “presenza” genitoriale, alla NVR in famiglia, nella scuola e nella comunità, alla NA e alla funzione di “àncora” in quanto ponte tra i concetti di autorità e attaccamento.

Gli autori lavorano da anni in ambito clinico e i loro metodi sono validati e utilizzati in tutto il mondo: sono sorti centri che utilizzano la NVR in Israele, Germania, Svizzera, Francia, Austria, Paesi Bassi, Belgio, Inghilterra, Danimarca e Svezia e molti dei libri di Omer sono stati tradotti in inglese, tedesco, giapponese, ebreo, francese, portoghese, olandese e finalmente anche italiano.

Parallelamente al lavoro pratico si è sviluppato anche quello di formazione, sono infatti stati creati dei corsi specifici per l’apprendimento del metodo della NVR. Anche in Italia cominciano ad essere presenti dei pioneristici corsi formazione e dei seminari di presentazione come quello organizzato da Studi Cognitivi a gennaio 2018.

Il programma SPACE

Gli autori hanno messo a punto un programma manualizzato che si rivolge ai genitori di bambini e ragazzi con sintomi ansiosi, fornendo strategie innovative per attaccare i sintomi intervenendo sulle dinamiche sottostanti le interazioni tra i genitori e i ragazzi ansiosi. Il Programma, in questo modo, va a riempire un vuoto, permettendo di intervenire anche in contesti in cui la psicoterapia tradizionale non trova una proposta efficace.

Il fulcro del Programma SPACE è il concetto di adattamento familiare, ovvero i modi in cui i genitori vengono coinvolti nell’ansia del loro bambino. Vengono così presi in considerazione i comportamenti dei genitori finalizzati ad aiutare il bambino a evitare il disagio causato dal disturbo, sia in termini di coinvolgimento attivo nei sintomi ansiosi del figlio (ad esempio dormire vicino a un bambino che soffre di ansia da separazione) che di modificazioni delle abitudini familiari a causa della sua ansia (ad esempio non invitare ospiti a casa se il proprio figlio soffre di fobia sociale). L’attenzione viene quindi spostata al ruolo che tali dinamiche rivestono nello sviluppo e nel mantenimento dei disturbi d’ansia (elemento spesso trascurato dai classici protocolli terapeutici): l’obbiettivo (ridurre fino a eliminare i sintomi ansiosi del bambino) viene così raggiunto agendo sul modo in cui i genitori si approcciano ai sintomi ansiosi del figlio. Alcuni studi hanno già dimostrato il ruolo dell’adattamento familiare come predittore dell’esito della terapia (Crawford & Manassis, 2001; Garcia et al., 2010) e hanno rilevato l’efficacia di interventi sui genitori volti a ridurlo (Storch et al., 2010). Prendere in considerazione questo fattore sembra quindi naturale nell’impostazione di una terapia che si proponga di essere efficace.

Per raggiungere il risultato si introduce un altro concetto importante del Programma, quello di iniziative unilaterali, ovvero di azioni intraprese senza il consenso del figlio. Non è difficile immaginare che un bambino (ma anche un adulto) non voglia cambiare strategie e modalità che, seppur disfunzionali, lo fanno sentire protetto o tranquillo, anzi questo è proprio ciò che sta alla base del mantenimento del disturbo. Spesso però i genitori sono riluttanti a intraprendere azioni che i loro figli non accettano, agendo su base emotiva, spinti dal desiderio di accudimento o intimoriti dalle possibili proteste e ritorsioni che il figlio potrebbe mettere in atto. In questo modo stanno però dimenticando che i bambini hanno ancora bisogno che i genitori si prendano cura di loro e li aiutino a prendere decisioni e mettere in atto strategie di cui non sono ancora capaci: aspettando indefinitamente che il figlio sia d’accordo a lavorare sul problema, i genitori possono, al contrario, caricare sulle sue spalle un peso che non è in grado di sopportare.

Fondamentale e innovativa in ambito terapeutico è la cornice teorica della Resistenza Non Violenta (NVR), che guida la visione terapeutica e le strategie adottate. Questa scelta non dipende solo dalla formazione degli autori ma consegue alla scelta della tecnica più funzionale al contesto: quando si agisce sulla riduzione dell’adattamento familiare insorgono facilmente comportamenti di resistenza da parte dei bambini (e, più in generale, di chiunque si trovi a veder modificate modalità che sostengono i propri sintomi). Di fronte alle possibili minacce verbali e fisiche dei bambini è fondamentale che i genitori riescano a reagire in modo tale da persistere nel loro intento benevolo evitando al contempo le possibili escalation. La NVR fornisce gli strumenti e l’attitudine per poter raggiungere questo obbiettivo. Basata sulle lotte di Gandhi e Martin Luther King e adattata al contesto clinico e familiare da Haim Omer, si fonda sul concetto che in una situazione di conflitto o disaccordo la scelta di focalizzarsi sul cambiare l’altro porta a un’ostinata resistenza e all’escalation, perdendo così l’opportunità di agire in modo utile. La NVR mira invece al cambiamento prodotto attraverso la modifica del proprio comportamento, facendosi la domanda “Come posso proteggermi e mantenere le mie convinzioni senza aggredire o arrendermi?”. Così facendo i genitori possono gestire il disagio o la resistenza del figlio mantenendo al contempo un atteggiamento supportivo nei suoi confronti, offrendogli costantemente la sensazione di presenza e di un’ancora per resistere alle sue stesse potenti emozioni.

Il Programma SPACE è un metodo strutturato ma flessibile, organizzato in 8 sessioni di trattamento comuni a cui possono essere aggiunti, se il caso lo prevede, alcuni dei 5 moduli di intervento supplementari dedicati ad elementi specifici; richiede quindi 10-15 sedute a cadenza settimanale.

Per implementare l’efficacia del Programma è importante la presenza e la partecipazione di entrambi i genitori: loro saranno la parte attiva del trattamento ed è quindi fondamentale che siano presenti alle sedute, siano d’accordo sul metodo e collaborino per stabilire gli obiettivi e le strategie per raggiungerli. A tal proposito nel libro vengono proposti diversi strumenti che afferiscono alla NVR. Gli autori guidano il lettore passo passo spiegando i concetti in modo chiaro, quasi palpabile e inserendo numerosi esempi clinici: è come essere accompagnati per mano lungo un sentiero in cui si avverte tutta la potenza della resistenza non violenta e l’importanza di resistere per raggiungere l’obiettivo di stare meglio. Nei diversi momenti del trattamento si farà la conoscenza con l’annuncio (se possibile sempre scritto), il sit-in, la ricerca di sostenitori e varie strategie per fronteggiare i problemi che possono insorgere sia nei genitori che nel bambino.

Proprio la ricerca di sostenitori è una delle basi dell’approccio nella NVR e consiste nella ricerca di persone (familiari, amici, figure significative ma anche semplici conoscenti) che, una volta messe a conoscenza del problema, desiderino sostenere i genitori nelle azioni volte ad aiutare il figlio e stare vicini al ragazzo. Il ruolo dei sostenitori è infatti duplice: da un lato forniscono supporto ai genitori e ne sostengono gli obbiettivi e le strategie, dall’altro forniscono vicinanza e sostegno al figlio, contattandolo quando si verificano dei problemi ed essendo presenti per lui, passando del tempo insieme, aiutandolo a guardare le cose in modo più razionale, sostenendolo nel mettere a punto una strategia per rimediare a eventuali comportamenti negativi e nel trovare modi più funzionali di reagire in futuro. Essi sono quindi alleati preziosi che svolgono una parte fondamentale del processo terapeutico. Sono inoltre la prova tangibile della volontà dei genitori di rompere il segreto sui comportamenti problematici del figlio per poterlo aiutare al meglio.

Per concludere posso dire che questo manuale accende l’attenzione su un argomento di cui spesso ci si dimentica, ovvero i disturbi d’ansia dei bambini, e lo fa fornendone una nuova lettura e un diverso approccio terapeutico, allontanandosi dall’intervento diretto sul bambino (che non viene negato e può affiancarsi al Programma SPACE, creando una sinergia che massimizzi i risultati di entrambi i percorsi terapeutici) e focalizzandosi sugli elementi relazionali che lo circondano. I sintomi vengono affrontati indirettamente andando ad agire sui meccanismi che li mantengono e garantendo al contempo un ambiente di presenza, sostegno, resistenza alla violenza e collaborazione per il raggiungimento dell obiettivo. Haim Omer e Eli Lebowitz, tradotti dai professionisti Daniela Leveni e Daniele Piacentini (già curatori del primo manuale di NVR tradotto in italiano, “La nuova autorità. Famiglia, scuola e comunità”, 2016), ci aprono una nuova finestra sui disturbi emotivi e su come approcciarsi ad essi in modo nuovo. L’efficacia del programma è stata testata con diversi studi, il più importante dei quali è un confronto controllato tra SPACE per i genitori e CBT per il bambino (Lebowitz et al., 2019). Questo è uno studio di non inferiorità, cioè applica una metodologia che mira a dimostrare che un nuovo trattamento ha effetti comparabili a uno stabilito. SPACE si è dimostrato efficace quanto la CBT sul miglioramento dei sintomi d’ansia, ma più veloce ed efficace nel raggiungimento del de-adattamento dei genitori. Bisogna tenere presente che questo confronto comprendeva bambini che erano disposti a ricevere cure. Se si considera però che SPACE mostra un’efficacia simile anche quando il bambino rifiuta il trattamento, l’argomentazione a favore di SPACE diventa più forte.

Infine, sebbene il manuale sia rivolto in particolare ai disturbi d’ansia nei bambini, molti spunti possono essere utilizzati anche nel lavoro con gli adulti e in generale con disturbi diversi: le strategie e l’approccio presentati rappresentano quindi strumenti generalizzabili che arricchiscono il patrimonio formativo del professionista. Trattandosi di strategie di provata efficacia, conoscerle e prenderle in considerazione può permettere di trovare soluzioni funzionali in contesti di stallo terapeutico. Sembra quindi ragionevole volgere lo sguardo verso questo metodo e valutarne l’integrazione nel lavoro clinico.

Per approfondire l’approccio della Resistenza non violenta clicca QUI.

 

XII edizione: Giornata Nazionale Parkinson – Comunicato Stampa

Comunicato Stampa

XII edizione Giornata Nazionale Parkinson
28 novembre 2020

90 centri su tutto il territorio nazionale, quest’anno sulla piattaforma virtuale: GIORNATAPARKINSON2020.FONDAZIONELIMPE.IT

 

Anteprima – Giornata Nazionale Parkinson 2020

Interverrà il Viceministro della Salute, Sen. Pierpaolo Sileri

Sono stati invitati a partecipare i 20 assessori regionali alla Salute per la Tavola Rotonda:
“Sanità – Modelli Regionali a confronto”
27 novembre 2020
GIORNATAPARKINSON2020.FONDAZIONELIMPE.IT

 

Si collegheranno virtualmente, ognuna dalla propria “cabina di regia”, su un portale messo a disposizione dalla Fondazione LIMPE per il Parkinson Onlus (organizzatrice e promotrice della GNP) i 90 centri Parkinson che da 12 anni si danno appuntamento l’ultimo sabato di Novembre, che in questo 2020 corrisponde al giorno 28, per offrire ai pazienti e alle loro famiglie informazioni preziose e puntuali su questa malattia così complessa ed eterogenea: il Parkinson. A maggior ragione quest’anno – durante il quale le malattie croniche hanno visto venir meno quella continuità assistenziale di cui necessitano – il messaggio di Fondazione Limpe per il Parkinson Onlus affiancata dall’Accademia LIMPE – DISMOV, che patrocina la Giornata dalla sua nascita, sarà ancora più incisivo.

Questa XII edizione ha ricevuto il Patrocinio della Rai, delle Regioni italiane, la Media Partner della TGR, del GR Radio Rai e di Radio 1 Rai. Inoltre è prevista anche una importante anteprima virtuale venerdì 27 Novembre.

Il fulcro sarà l’intervento del Viceministro della Salute Sen. Pierpaolo Sileri, che porterà in diretta i suoi saluti istituzionali. Seguirà la Tavola Rotonda: “Sanità – Modelli Regionali a confronto”, moderata dal Presidente della Fondazione LIMPE per il Parkinson Onlus, Prof. Leonardo Lopiano, affiancato dal Presidente dell’Accademia LIMPE – DISMOV Prof. Mario Zappia. Questo momento di confronto verrà arricchito dai preziosi contributi del Prof. Sergio Pillon – Componente del Tavolo Tecnico Tecnologie Innovative ISS e dal Dr. Nicola Vanacore –  Direttore Reparto CNAPS – Promozione e valutazione delle politiche di prevenzione delle malattie croniche ISS.

Sono stati invitati a partecipare i 20 assessori regionali alla Salute per discutere su tre aspetti fondamentali legati alle politiche sanitarie per le malattie croniche: la Telemedicina in Italia, i Percorsi Diagnostico-Terapeutici Assistenziali (PDTA) e la Rete Ospedale – Territorio.

L’anteprima della GNP 2020 vedrà anche la partecipazione attiva dei Partner della Giornata, che da anni sostengono questa iniziativa sociale, come il Vice Direttore della TGR Rai Roberto Gueli e il meraviglioso Vincenzo Mollica che concederà in questa occasione una sua intervista in esclusiva.

La XII edizione della GNP inaugurerà la prima edizione del PREMIO LIMPE per la Comunicazione Scientifica di qualità nelle sue 5 declinazioni – Radio, TG, Contenitori TV, Agenzie, Quotidiani.

I nomi dei 5 giornalisti premiati verranno resi noti nel corso della diretta.

Saranno anche presenti i rappresentanti di alcune Aziende Farmaceutiche che operano nel mondo della malattia di Parkinson e che contribuiscono a sostenere la ricerca scientifica e molte iniziative sociali.

Il leit motiv della GNP 2020 sarà #muoviamocinsieme per affrontare la malattia di Parkinson perché solo creando una solida rete si riusciranno ad ottenere grandi risultati.

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Personalità e COVID-19: stabilità o cambiamento?

Le preoccupazioni legate al COVID-19 e lo stress generato dalle restrizioni sociali, impattano fortemente a livello psicologico ma non solo.

 

Evidenze sottolineano come la personalità possa subire dei cambiamenti come riflesso di un adattamento a nuove situazioni (Specht et al., 2011) ed una pandemia sconvolge notevolmente i bisogni di base oltre che le attività quotidiane degli individui.

I cinque fattori della personalità (estroversione, gradevolezza, coscienziosità, nevroticismo e apertura all’esperienza), sebbene siano caratteristiche individuali stabili a fronte di eventi normativi (McCrae & John, 1992), potrebbero mutare in condizioni concomitanti di forte disagio. In particolare, il nevroticismo, caratterizzato da instabilità emotiva, vulnerabilità e insicurezza, è considerato il tratto più reattivo allo stress generato da un evento avverso (Jeronimus et al., 2013; Löckenhoff et al., 2009) e subisce un decremento grazie ad interventi clinici volti a migliorare la salute mentale (Roberts et al., 2017).

La ricerca di Sutin et al. (2020) ha testato in due fasi, a distanza di 6 settimane (Febbraio 2020 e Marzo 2020), un campione statunitense nei fattori di personalità, valutando il loro mutamento in risposta alla pandemia di COVID-19. Gli autori hanno verificato se il nevroticismo nelle sue componenti ansiose, potesse subire un incremento nella seconda fase, più acuta e complicata a livello psicologico. Inoltre, hanno ipotizzato che il fattore coscienziosità potesse aumentare in risposta alla diffusione di messaggi volti ad enfatizzare il senso di responsabilità individuale. Sono stati esplorati ulteriori cambiamenti nei soggetti considerati ad alto rischio: adulti con età superiore ai 65 anni e coloro in isolamento.

Per ciascuno dei 5 fattori di personalità, gli autori hanno valutato tre sfaccettature. Ansia, depressione e instabilità emotiva per il nevroticismo; socievolezza, assertività e livello di energia per estroversione; curiosità intellettuale, sensibilità estetica e immaginazione creativa per apertura all’esperienza; compassione, rispetto e fiducia per gradevolezza ed infine organizzazione, produttività e responsabilità per coscienziosità.

Rispetto alla valutazione nella prima fase della pandemia e contrariamente alle ipotesi iniziali, alla seconda somministrazione i livelli di nevroticismo sono diminuiti insieme alle componenti associate di ansia e depressione; mentre l’instabilità emotiva non ha subito cambiamenti.

Nonostante le ingenti perdite economiche, la necessità di accaparrarsi beni primari e la preoccupazione individuale della presenza del virus abbiano causato ansia e stress, il nevroticismo non ha subito un incremento. Questo risultato è ricondotto al fatto che tale tratto, in queste condizioni contestuali, non viene riferito al sé, ma ricondotto ad una condizione condivisa da tutti nella società, una sorta di destino comune. Dunque la tendenza globale è quella di valutare sé stessi non più emotivamente angosciati di quanto lo siano le altre persone, unita al collocamento all’esterno del motivo del disagio, piuttosto che ad una propria mancanza personologica.

Alla seconda valutazione, non sono mutati nemmeno i livelli di coscienziosità. Invece che un incremento del senso di responsabilità, è aumentato l’aspetto della produttività, indicante la sensazione di sentirsi efficienti nel fronteggiare la crisi.

Il rispetto (inteso come sfaccettatura di coscienziosità e valutato come tendenza ad aderire rigorosamente a principi etici) è diminuito tra i partecipanti adulti più giovani, con età inferiore a 65 anni e lavoratori. Questo risultato è ricondotto ad un item del NEO-PI-3 (McCrae & Costa, 2010), volto a misurare la volontà nel perseguire i propri impegni, ma che ora ha assunto un significato differente con il mutamento del contesto sociale: l’andare a lavoro/scuola mentre si è malati non è considerato segno di coscienziosità, bensì di incoscienza. Restare a casa invece manifesta senso di responsabilità e impegno nel tutelare l’intera comunità.

Mentre nella seconda fase della somministrazione l’estroversione era lievemente aumentata nelle sue componenti di assertività e livello di energia, la socievolezza non ha subito alcun cambiamento.

L’essere in isolamento ha influito sui tratti di personalità; coloro che non erano in quarantena avevano livelli inferiori di nevroticismo e umore meno depresso alla seconda misurazione. L’affettività negativa e la depressione, generati dallo stato di solitudine, possono persistere insieme alla componente ansiosa anche nel lungo periodo (Brooks et al., 2020). L’isolamento ha portato ad un decremento di energia, curiosità, apertura mentale, gradevolezza e coscienziosità; con noia, sfiducia e riduzione delle capacità organizzative, a causa della minore pressione nel dover portare a termine gli impegni in modo tempestivo.

Globalmente i cambiamenti nei tratti sono stati di entità minima, a sostegno di una stabilità intrinseca della personalità nel fronteggiare stress acuti provenienti dall’ambiente (Mc Crae & Costa, 1986). E’ possibile che i tratti di personalità siano resilienti a fattori stressanti per garantire una propria bussola personale, continuità del proprio concetto di sé e della propria identità (Specht et al., 2011). Probabilmente aspetti come le variazioni dell’affettività di stato e la salute mentale, potrebbero risentire maggiormente dell’impatto del COVID-19 (McGinty et al., 2020).

Tuttavia è anche probabile che cambiamenti della personalità generati dalla crisi richiedano più tempo per consolidarsi; dunque la ricerca presente è limitata per non aver potuto verificare mutamenti nel lungo periodo e in altri contesti. Infine, il contesto sociale più ampio svolge un ruolo rilevante: oltre ad influenzare gli stati affettivi ansiosi o depressivi, agisce mutando le concezioni individuali, come nel caso del significato attribuito all’item che misurava la responsabilità (ora divenuto segno di incoscienza) nel perseguire le proprie attività nonostante la malattia.

 

Meme: analisi psicologica della nuova forma di comunicazione

Quante volte ci capita di condividere sui social o su chat private immagini che rispecchiano a pieno un nostro sentimento, una circostanza vissuta con qualcuno o un’esperienza comune di vita quotidiana?

 

Questa forma di comunicazione e condivisione, che da anni ormai circola in Internet, prende il nome di “meme” ed è l’emblema della cultura partecipativa in cui viviamo, dove, tramite i mezzi tecnologici di cui disponiamo, non vi è più distinzione tra chi produce e chi consuma. Innumerevoli individui creano, diffondono e trasformano memi su reti amatoriali di partecipazione culturale mediata (Milner, 2012).

Il meme, dunque, è un artefatto della cultura pop, che tramite la combinazione di un’immagine e di una didascalia apparentemente incongrue articola sentimenti e reazioni relativi a momenti di vita quotidiana. È, quindi, una forma di narrazione altamente visiva che richiede una certa alfabetizzazione digitale e che mobilita sentimenti di appartenenza e processi identitari.

Il concetto di meme si è evoluto nel tempo e adattato allo sviluppo dei mezzi di informazione, incorporando nel corso della sua ontogenesi una serie di caratteristiche distintive senza le quali non potrebbe essere tale.

Evoluzione del concetto di meme: dalla biologia alla comunicazione digitale

Il termine meme è stato coniato nel 1976 dal biologo Richard Dawkins che, abbracciando un approccio darwiniano, lo utilizza per riferirsi a una “unità di trasmissione culturale”, un artefatto che, come il gene, si propaga di generazione in generazione tramite l’imitazione. L’autore fa l’esempio di “melodie, idee, slogan, modi di vestirsi, modi di fare vasi o di costruire archi”. Per Dawkins, l’evoluzione culturale ha superato quella biologica come determinante del comportamento umano. Il meme si basa sulla nozione di replicabilità e, secondo il biologo, deve essere dotato di tre proprietà per avere successo: longevità, fecondità e stabilità.

Successivamente, grazie al contributo di diversi autori, si sono sviluppate diverse direzioni ontologiche del concetto, passando da una prospettiva biologica a una epidemiologica (Castaño Díaz, 2013). Il cognitivista Dan Sperber (1996), intendendo il meme come un replicatore culturale, sposta l’attenzione sulla natura rappresentativa dello stesso e ne analizza il processo di propagazione, che può essere verticale (su generazioni, come i geni) e/od orizzontale (tra i membri di una certa popolazione, come i virus). La psicologa Susan Blackmore (1999), sostenendo il ruolo centrale dell’imitazione per la replicazione del meme, aggiunge che esso non è autonomo ma richiede un soggetto per riprodursi. Infine, Daniel Dennet (1995) contribuisce all’evoluzione del concetto sottolineandone la possibilità di variazione, contrapposta alla stabilità sostenuta da Dawkins (1976). I contributi di questi autori hanno permesso il passaggio da una prospettiva di riproduzione genetica (meme-gene) a una modalità di riproduzione virale (meme-virus) che prevede la presenza di un ospite per replicarsi.

Infine, come conseguenza del diffondersi del digitale e dalla constatazione delle caratteristiche di replicabilità, interattività e portata dei nuovi media delineati da Nancy Baym (2010), nasce il concetto di “Internet meme”. Esso è una unità di informazione (idea, concetto o convinzione) che si replica via Internet sotto forma di immagine, video o frase e che può mutare ed evolversi. Tale mutazione può avvenire per significato, per struttura o per forma.

Costrutti e teorie psicologiche relate al meme

Come anticipato, il meme nella cultura digitale è un artefatto che, combinando un elemento visivo con una descrizione, ironizza sulla quotidianità. Chi produce un meme non intende creare qualcosa di unico o dar vita a una “creazione spettacolare” quanto più a raggiungere il maggior numero di persone possibile tramite il senso di appartenenza e la condivisione di affinità affettive e la sua comprensione richiede la mobilitazione di una serie di conoscenze classificatorie (Kanai, 2016).

Una delle teorie psicologiche riscontrabili specialmente nelle fasi di produzione e comprensione di un meme è indubbiamente la teoria dell’insight di Köhler (1917). Con insight (o intuizione) lo psicologo gestaltista intende, in un contesto di apprendimento, un processo attivo di valutazione delle risorse a disposizione e di utilizzo creativo di esse, al di là della loro funzione originaria. Esso permette una ristrutturazione dei dati a disposizione che consente di cogliere nessi non percepiti prima. In effetti, un meme assume senso e significato solo se immagine e didascalia, apparentemente non correlate, vengono abbinate e l’allineamento concettuale dei due elementi consente di cogliere qualcosa di nuovo socialmente applicabile (Kanai, 2016).

Il costrutto psicologico che sicuramente emerge da questa trattazione è quello di identità, in particolare quella sociale, e i concetti di appartenenza e classificazione ad essa associati. Tajfel e Turner (1979) con identità sociale si riferiscono a quella parte dell’immagine di sé che deriva dalla consapevolezza di appartenere a un gruppo sociale, unita alle componenti valutative ed emotive legate a tale appartenenza. L’identità sociale si costruisce per mezzo di tre processi funzionalmente collegati: la categorizzazione, l’identificazione e il confronto sociale. L’individuo ordina e semplifica la realtà facendo riferimento a un numero limitato di categorie di appartenenza di vario tipo, tendendo a massimizzare le somiglianze tra soggetti di una stessa categoria e le differenze tra categorie contrapposte. Successivamente, la base psicologica per la costruzione della propria identità sociale è il senso di appartenenza a determinate categorie. Infine, l’individuo confronta continuamente il proprio ingroup con l’outgroup per mezzo di bias valutativi che lo portano a favorire il proprio gruppo e a svalutare gli altri (Fig. 1). Questi processi di definizione di un’identità sociale positiva rispondono al bisogno di autoaccrescimento e autostima.

Meme: un artefatto della cultura pop per l'espressione dei sentimenti onlineFIGURA 1 – Meme tratto dalla pagina facebook “La Cricca degli Psicologi Folli”

Infine, spesso i memi associano una determinata situazione a una espressione facciale estrapolata da altri contesti (film, eventi pubblici, quadri ecc.; vedi Fig. 2). La comprensione del meme, in questo caso, è facilitata dall’universalità di determinate espressioni facciali. Ekman, esponente dell’approccio psicoevoluzionista, con la teoria neuro-culturale (1973) afferma l’esistenza di programmi neurofisiologici innati che danno luogo a emozioni primarie a cui corrispondono specifiche espressioni facciali, universalmente riconosciute.

Meme: un artefatto della cultura pop per l'espressione dei sentimenti online

FIGURA 2 – Meme tratto dalla pagina facebook “Classical Art Memes”

 

Valutazione delle esperienze infantili attraverso l’Adult Attachment Interview durante il percorso terapeutico

L’Adult Attachment Interview (AAI) è un’intervista strutturata, composta di 20 domande, che indagano gli episodi che il paziente ha vissuto in relazione alle principali figure di attaccamento, tipicamente i propri genitori.

Silvia Locatelli – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Bolzano

 

Spesso nella pratica clinica ci interroghiamo rispetto a quali siano state le esperienze del paziente durante la sua infanzia. Questo obiettivo, in base ai diversi approcci terapeutici che possiamo utilizzare, ci aiuta nella concettualizzazione del caso e nella conseguente condivisione del funzionamento al paziente, ad esempio conoscendo come alcune psicopatologie hanno parte della propria eziologia nella storia di attaccamento (Platts, 2002). Ma non solo. Infatti, gli episodi infantili di per sé possono essere significativi, ma può essere più significativo come il paziente li narra. Il modo in cui il paziente racconta le proprie esperienze, infatti, può fornire informazioni su come potrebbe procedere il percorso terapeutico (Talia et al. 2013, Talia et al., 2019).

La valutazione che può essere più utile sia per raccogliere gli episodi infantili e sia l’ulteriore analisi di come il paziente li narra è la Adult Attachment Interview (AAI). Si tratta di un’intervista strutturata, composta di 20 domande, che indagano gli episodi che il paziente ha vissuto in relazione alle principali figure di attaccamento, tipicamente i propri genitori (Main, 2008, Steele, 2009, Hesse, 2016). Inoltre l’intervista va a indagare altri episodi significativi che elicitano la ricerca di vicinanza, o la cognizione della loro assenza, rispetto a lutti significativi e eventi traumatici, la relazione attuale con il proprio figlio, o immaginato, e di come la relazione con i genitori del paziente si sia evoluta nel tempo (Main, 2008, Steele, 2009, Hesse, 2016). Dopo la raccolta di tali informazioni, sarà poi necessario un lavoro di analisi del trascritto dell’intervista per codificare non tanto la veridicità degli episodi raccontati, ma come il paziente li narra secondo principi di pragmatica della comunicazione (Main, 2008). Si tratta di un passaggio importante, poiché ci darà informazioni rispetto a quanto l’intervistato sia collaborativo nelle risposte che propone, quanto sia esaustivo e rilevante nel racconto degli episodi e, soprattutto, quanto l’intero racconto sia coerente e non contraddittorio nella sua struttura (Main, 2008, Hesse, 2016, Steele, 2009). Quindi il prodotto dell’analisi ci darà indicazioni rispetto a come l’intervistato, o il nostro paziente, ricordi, rappresenti nella propria mente, e quindi racconti le proprie esperienze infantili, secondo quattro categorie principali: rappresentazione di attaccamento sicuro, di attaccamento insicuro distanziante, invischiato, e di lutto o trauma irrisolto (Steele, 2009). In questo articolo non tratterò le differenze peculiari tra le diverse classificazioni, per i dettagli rimando alla letteratura di riferimento per una sintesi accurata del rationale riguardante l’intervista e le classificazioni (Main, 2008, Hesse, 2016).

L’esito dell’intervista, al di là delle classificazioni sicure o insicure, ci potrà quindi fornire indicazioni su come il paziente possa aver affrontato situazioni passate, legate alla propria infanzia, ad alto carico emotivo. Secondo l’analisi potremo notare come ne possa parlare in modo coerente, oppure in modalità più disfunzionali, come preoccupandosene nel momento presente o distanziandosene in modo freddo e razionale. Inoltre, tenendo conto del presupposto che le rappresentazioni di attaccamento possano influenzare le relazioni interpersonali attuali, la conoscenza degli stili di attaccamento potrebbe elucidare alcune lacune nell’eziologia di alcune forme psicopatologiche e promuovere il processo di cambiamento psicoterapeutico (Platts, 2000). Non entrando nel merito del dibattito rispetto ad alcune forme di psicoterapie basate sull’attaccamento o informate sull’attaccamento, non è confutabile questo principio, ad esempio a partire dai lavori di Liotti sulle rappresentazioni di attaccamento legate al trauma e disturbi dissociativi (Liotti, 2006). Secondo questo principio, altri autori hanno ipotizzato come l’attaccamento sia rilevante per alcuni fenomeni psicopatologici: disturbo borderline di personalità (Bateman, 2006), disturbo da stress post traumatico (Stoval-McClough, 2006), depressione maggiore (McBride, 2006), disturbo ossessivo compulsivo (Dordon, 2009).

Infatti, l’utilizzo dell’intervista in più momenti del percorso terapeutico può aiutare il terapeuta a sviluppare una migliore comprensione delle difficoltà emotive passate del paziente, quindi di ampliare i modi di adattarsi alle difficoltà attuali che l’individuo mette in atto (Steele, 2009). Questo si evidenzia con l’impatto delle domande sull’intervistato, in modo da ‘allertarlo’ sulla rilevanza della propria storia di attaccamento, in modo da dare un senso alle modalità di coping attuali del paziente (Steele, 2009). Motivo per cui è preferibile la forma dell’intervista, piuttosto che un questionario carta e matita. Questo è possibile grazie alla struttura delle domande, poiché non appena l’intervista inizia, viene chiesto all’intervistato di descrivere la propria famiglia di origine, chi si è preso cura di lui/lei durante l’infanzia, come le relazioni si sono evolute nel tempo, e come si sente nel momento presente rispetto al modo in cui è stato cresciuto (Steele, 2009). Quindi l’AAI, e non altre forme di valutazione autosomministrate riguardo le relazioni attuali, può meglio aiutare il terapeuta nella comprensione di come la probabile storia di attaccamento del paziente possa aver formato le modalità di regolazione emotiva del paziente e le rappresentazioni mentali (o stati mentali) associate a tali stati emotivi (Steele, 2009). Questi sono i principi per cui l’AAI può essere utilizzata all’inizio del percorso di terapia.

Oltre al contenuto delle informazioni che l’AAI ci può fornire, alcuni autori hanno ipotizzato come queste possano influenzare il processo terapeutico di per sé. Per esempio i processi influenzati possono riguardare la relazione terapeutica e l’aderenza al trattamento.

Ad esempio, in un lavoro di Talia e collaboratori (2013) si è visto come, in base a quale fosse lo stile di attaccamento del paziente, quest’ultimo poteva relazionarsi in modo diverso al terapeuta durante le sessioni di terapia. Infatti i pazienti con attaccamento distanziante avevano la tendenza a evitare, o limitare, la vicinanza emotiva al terapeuta, mentre pazienti sicuri e preoccupati avevano la tendenza a cercarne la vicinanza, anche se pazienti preoccupati avevano poi la tendenza a resistere al supporto del terapeuta, contrariamente a pazienti sicuri (Talia, 2013). Inoltre, in un articolo successivo, gli stessi autori hanno evidenziato come i risultati alla AAI predicessero la valutazione della relazione terapeutica da parte del paziente a conclusione della terapia stessa (Talia, 2019). Quindi una valutazione iniziale con l’AAI potrebbe aiutare il clinico nella previsione di come la relazione terapeutica potrebbe procedere, a che cosa fare più attenzione, secondo il principio per cui le rappresentazioni di attaccamento influenzano come il paziente si avvicini o meno al proprio terapeuta. È interessante notare come in questo lavoro gli autori abbiano proposto un approccio terapeutico breve basato sulla relazione (BRT), quindi l’associazione tra attaccamento e relazione terapeutica possa essere stata ulteriormente esaltata (Talia, 2019). Quindi potrebbe essere interessante misurare se l’AAI predica l’andamento della relazione terapeutica in psicoterapie non basate esclusivamente sulla relazione.

Infine, in un altro lavoro di metanalisi si è indagato se le rappresentazioni di attaccamento possano influenzare l’alleanza terapeutica (Dinier, 2011). Gli autori hanno quindi dimostrato come pazienti con attaccamento sicuro abbiano un’alleanza terapeutica qualitativamente migliore, mentre pazienti insicuri presentino un’alleanza terapeutica più debole, influenzando negativamente l’efficacia della terapia a cui erano sottoposti (Dinier, 2011). Trattandosi di una metanalisi, gli autori hanno tenuto conto di diverse misure dell’attaccamento negli adulti, sarebbe interessante verificare la bontà di questo risultato rispetto al solo utilizzo della AAI. Infatti non esistono evidenze di una correlazione diretta tra rappresentazione di attaccamento con i propri genitori durante l’infanzia, misurato con l’AAI, e rappresentazioni di attaccamento nelle relazioni attuali (Steele, 2009). Trattandosi di due aspetti diversi, se non due costrutti differenti, dell’attaccamento nell’adulto, non è detto che entrambi possano influenzare l’alleanza terapeutica con la stessa potenza.

In generale l’AAI ha contribuito alla letteratura rispetto ad approcci terapeutici di tipo psicodinamico (Steele, 2009). In particolare è rilevante come una diversa analisi dell’AAI, riguardante maggiormente la funzione riflessiva e la mentalizzazione, e non le classificazioni di attaccamento, sia stata fondamentale per la terapia basata sulla mentalizzazione per il disturbo borderline di personalità di Fonagy (Bateman, 2006). Per quanto riguarda gli approcci esclusivamente cognitivi, non tanto l’AAI, ma il modello in generale della teoria dell’attaccamento, è stato utilizzato, in particolare per la psicoterapia cognitivo evoluzionista di Liotti (Liotti, 2006). Tuttavia altri autori hanno utilizzato il modello di attaccamento come parte delle teorie degli schemi di Beck (Platts, 2002). Nonostante, in questo lavoro non sia fatto un riferimento specifico all’AAI, potrebbe essere interessante verificare le ipotesi proposte con l’utilizzo dell’intervista, invece dell’utilizzo di misure autosomministrate.

È comunque importante ricordare come l’AAI non si sostituisca al lavoro terapeutico, ma sia un’aggiunta al lavoro terapeutico, indipendentemente dall’approccio scelto (Steele, 2009). Infatti si tratta di una buona valutazione che al di là delle analisi prodotte può essere materiale di discussione con il paziente, per esempio nel momento in cui riportasse eventi significativi. In particolar modo nella discussione di lutti irrisolti (Steele, 2009).

Tuttavia si tratta di una valutazione ‘costosa’. Infatti è un’intervista della durata di 60-90 minuti, per cui si dovrà tenere conto delle ore spese per l’analisi e la produzione di una relazione scritta al paziente. Quindi, tenendo conto che i test autosommnistrati hanno numerose limitazioni, tra cui non misurare le esperienze infantili ma le relazioni attuali, sono comunque strumenti più veloci sia nella somministrazione che nella codifica. Sarà quindi compito del terapeuta, attraverso il colloquio clinico, comprendere se una valutazione così dispendiosa come l’AAI possa essere utile al lavoro con il proprio paziente. Infatti, a meno che non si tratti di una valutazione necessaria, come attuando la terapia basata sulla mentalizzazione, il costo dell’AAI è alto, nonostante possa essere indiscussa l’utilità di questo strumento rispetto a come il paziente racconti la propria storia, e di come questa modalità possa influenzare il percorso, e l’efficacia, della terapia.

L’ingannevole paura di non essere all’altezza. Strategie per riconoscere il proprio valore (2020) di Roberta Milanese – Recensione del libro

Oggi più che mai stiamo assistendo a un’epidemia di insicurezze che mette a dura prova la nostra autostima. Roberta Milanese, in tal senso, ha utilizzato per il titolo del suo libro l’immagine figurata di “non essere all’altezza”. Ma chi posiziona l’asticella? Chi è il giudice di gara?

 

Nietzsche diceva che esistono due tipi di persone: le prime sono quelle che nascono già sicure di sé, come se avessero ricevuto l’autostima in dono alla nascita, e questi – dice lui –  sono gli stolti; le seconde, invece, sono quelle che tutti i giorni devono convincere lo “scettico che è dentro di loro” del proprio valore. E non importa quanto si impegnino e facciano, ogni giorno lo scettico è di nuovo lì.

Questa è una delle eleganti e profonde riflessioni contenute all’interno dell’ultimo lavoro di Roberta Milanese, psicologa e psicoterapeuta e ricercatrice associata presso il Centro di Terapeuta Strategica di Arezzo, diretto da Giorgio Nardone.

Un testo che affronta un tema molto sentito e comune a tutti, un tema di cui oggi si parla sempre di più, ossia dell’autostima e di come essa dovrebbe essere esibita o agita.

Oggi più che mai, sottolinea l’autrice, stiamo assistendo a una “epidemia di insicurezze” che mette a dura prova per l’appunto la nostra autostima, non soltanto nel confronto con gli altri, ma anche e soprattutto con noi stessi. Roberta Milanese in tal senso, ha utilizzato per il titolo del suo libro l’immagine del “non essere all’altezza”, come l’asticella che si posizione per i salti in alto. Ma chi posiziona l’asticella? Chi è il giudice di gara?

Ed ecco che all’interno del testo ritroviamo la distinzione tra giudice interno e giudice esterno ed un terzo giudice ossia quello nascosto dentro a un sintomo. Da tali distinzioni seguono le relative paure descritte nei vari capitoli del libro come:

  • Paura di esporsi;
  • Paura dell’impopolarità,
  • Paura del conflitto;
  • Paura del rifiuto;

Quelle appena elencate sarebbero le paure derivanti dalla voce del giudice esterno, e per ciascuna di queste ne vengono approfondite le tentate soluzioni fallimentari, relative psicotrappole ma anche soluzioni e prescrizioni, proposte al lettore attraverso aneddoti vissuti dall’autrice nel lavoro da psicoterapeuta e da coach aziendale.

Ritornando al concetto di psicotrappole, eccone alcune di quelle ritrovabili tra le pagine del testo:

  • Sottovalutare/sopravvalutare gli altri, noi stessi, le situazioni e la realtà;
  • La trappola del “lo sento quindi” è caratterizzata dall’attribuire delle proprietà a qualcuno o a qualcosa sulla base di sensazioni e non di esperienze dirette;
  • Evitare;
  • Chiedere aiuto;
  • Eccesso di controllo;
  • Difendersi preventivamente;
  • Rinunciare (una delle psicotrappole più deleterie in quanto rende reale ciò che temiamo).

Ma come accennato prima, l’autrice approfondisce un altro giudice, ossia quello interno che si esprime nelle seguenti paure:

  • Paura dell’inadeguatezza;
  • Paura del fallimento.

In questo caso la persona vive in una condizione più comunemente conosciuta come la sindrome dell’impostore, dove al di là dei reali obiettivi raggiunti, feedback positivi da parte degli altri, la persona teme di uscire allo scoperto ed essere giudicata come fallita, incompetente; insomma, come l’autrice descrive, una situazione simile al giocatore di poker in cui potrebbe essere svelato da un momento all’altro il grande bluff.

Un testo ricco di riflessioni dove diventa difficile non ritrovarsi e non trovare utili spunti come terapista, un testo che mette in luce una delle grandi trappole nella quale oggi noi tutti, e soprattutto i giovanissimi, tendiamo a cadere, ossia l’idea ingannevole di dover a tutti i costi essere all’altezza. Come ricorda Roberta Milanese, spesso i nostri pazienti giungono da noi presentando come problema il non avere autostima a sufficienza, ma la stessa ci ricorda che l’autostima, come presente anche nell’aforisma di Nietzsche, non si eredita, ma si costruisce giorno per giorno, affrontando le sfide che la vita ci propone perché la rinuncia, ricorda Honoré de Balzac, è un suicidio quotidiano. D’altro canto va fatta anche attenzione al meccanismo opposto di mettersi costantemente alla prova, ma il tutto deve essere valutato secondo il fine che si cela dietro le nostre scelte. Infine mi piacerebbe concludere la presente recensione così come si conclude anche il libro, ossia riportando quello che l’autrice chiama Decalogo per una sana autostima:

  • Affronta le sfide che la vita ti propone;
  • Alza progressivamente l’asticella, ma non porti obiettivi impossibili;
  • Nessuno può “saltare” al tuo posto;
  • La perfezione è nemica dell’eccellenza;
  • Non si può piacere a tutti;
  • Le relazioni sono come il tango;
  • Chi non cambia è perduto;
  • Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce;
  • Impiega il tuo tempo nel migliorare te stesso;
  • Si è sconfitti solo quando ci si arrende.

 

Gli effetti del cambiamento delle stagioni sui pazienti affetti da disturbo ossessivo-compulsivo

Il disturbo ossessivo compulsivo (DOC; American Psychiatric Association, 2013) presenta un’elevata comorbilità con differenti disturbi dell’umore, tra cui il disturbo depressivo maggiore, il disturbo distimico ed il disturbo bipolare (Ruscio et al., 2010).

 

Nonostante numerosi studi abbiano confermato la compresenza di queste di patologie, la co-occorrenza tra il DOC e il disturbo affettivo stagionale non è stata ancora indagata, sebbene alcune evidenze abbiano mostrato una significativa variazione stagionale nella gravità del disturbo ossessivo compulsivo (Brewerton & Ballenger, 1992; Yoney et al., 1991). Inoltre, la prevalenza del DOC è maggiore in autunno piuttosto che in estate (de Graaf et al., 2005).

Vi è un’ulteriore caratteristica che accomuna il disturbo ossessivo-compulsivo ed il disturbo affettivo stagionale, ovvero una disregolazione del sistema serotoninergico che, secondo numerose evidenze, gioca un ruolo fondamentale nell’eziologia di entrambi i disturbi. I dati su cui si fonda l’ipotesi del coinvolgimento serotoninergico derivano, in entrambi i casi, prevalentemente dai trattamenti farmacologici (Cassano, 2006). Difatti, gli inibitori della ricaptazione della serotonina (SSRI), rientrano nell’trattamento farmacologico di elezione sia per quanto attiene al disturbo affettivo stagionale (Lam et al., 2006), che per il disturbo ossessivo-compulsivo (Fineberg et al., 2015).

È sulla base delle considerazioni appena esposte che, nel 2017, un gruppo di ricercatori si è proposto di investigare la frequenza dei cambiamenti dell’umore stagionali in pazienti affetti da un disturbo ossessivo-compulsivo e di verificare se il passaggio delle stagioni fosse associato ad una maggior gravità di ossessioni, compulsioni ed ansia tra i pazienti con DOC con cambiamenti stagionali dell’umore.

In prima battuta, i ricercatori hanno valutato i pazienti indipendentemente dalle stagioni, variabile di cui si è tenuto conto in un secondo momento. Ulteriormente, gli autori hanno analizzato la relazione tra la durata della luce solare nel giorno della valutazione e la gravità dei sintomi associati al DOC, di quelli depressivi e di quelli ansiosi.

Lo studio è stato effettuato su un campione costituito da 104 soggetti affetti da un disturbo ossessivo-compulsivo e 125 individui di controllo. I due gruppi sono stati ulteriormente divisi sulla base del periodo della valutazione, ovvero rispetto ai pazienti con DOC, 51 sono stati valutati in inverno e 53 nelle stagioni non invernali, mentre rispetto al gruppo di controllo, 61 soggetti sono stati valutati nei mesi invernali e 64 nel restante periodo.

È bene specificare che tutti i partecipanti vivevano ad Istanbul da almeno tre anni, città caratterizzata da un clima mediterraneo “più fresco”.

Al fine di valutare i cambiamenti dell’umore e del comportamento in funzione delle stagioni, ai partecipanti è stato richiesto di compilare il Seasonal Pattern Assessment Questionnaire (SPAQ; Rosenthal et al., 1987). Questa scala di autovalutazione richiede al soggetto di indicare sia se abbia mai vissuto dei cambiamenti stagionali ed, eventualmente, indicarne la gravità. È necessario, però, specificare che il suddetto questionario non è da considerarsi uno strumento diagnostico per il disturbo affettivo stagionale.

Inoltre, sono stati somministrati il Yale-Brown Obsession and Compulsion Scale (Y-BOCS; Goodman et al., 1989), utilizzato per valutare la gravità del disturbo ossessivo-compulsivo, l’Hamilton Depression Rating Scale-17 (HDRS-17), necessario al fine di indagare la gravità dei sintomi depressivi (Williams, 1978) ed infine, ai soli pazienti affetti da DOC, è stato chiesto di compilare il Beck Anxiety Inventory (Beck et al., 1998) con l’obiettivo di analizzare le possibili manifestazioni ansiose dei soggetti.

Sulla base dei risultati ottenuti, si è evinto che i pazienti affetti da un disturbo ossessivo-compulsivo manifestavano più cambiamenti affettivi stagionali rispetto ai controlli. Inoltre, quando i pazienti sono stati valutati nel periodo in cui manifestavano le alterazioni, si è assistito ad un incremento sia della gravità dei sintomi depressivi che delle compulsioni, rispetto al periodo in cui i pazienti non avevano presentato i cambiamenti affettivi stagionali. Da ciò si è ipotizzato che il cambiamento delle stagioni possa influire sulla gravità di alcuni sintomi nei pazienti con DOC. Difatti, in coloro i quali riportavano cambiamenti affettivi stagionali, la durata della luce solare del giorno della valutazione ha predetto la gravità dei sintomi depressivi e delle compulsioni, ma non la gravità del DOC e delle ossessioni.

Concludendo, la co-occorrenza dei cambiamenti affettivi stagionali e del disturbo ossessivo-compulsivo, lascia ipotizzare che essi condividano un’eziologia comune ma, come evidenziato dagli autori, l’effetto longitudinale dei cambiamenti affettivi stagionali sulla qualità della vita, sulla prognosi e sul rischio di suicidio dei pazienti con disturbo ossessivo-compulsivo, merita ulteriori approfondimenti.

 

I 3 campanelli d’allarme per riconoscere un Disturbo Alimentare: a cosa prestare attenzione – VIDEO dall’incontro del CIP Milano

Il Centro Disturbi dell’Alimentazione delle Cliniche Italiane di Psicoterapia – CIP Milano ha proposto un incontro per imparare a riconoscere e a gestire i Disturbi Alimentari grazie ai consigli pratici degli esperti. Pubblichiamo, per i nostri lettori, il video dell’incontro.

 

I Disturbi Alimentari rappresentano un problema di ampia diffusione e di grande interesse. Tuttavia, la conoscenza di questi disturbi appare ancora ridotta e spesso le informazioni divulgate sono confuse e contraddittorie. Ne deriva che chi soffre di questi disturbi, e chi vive a stretto contatto, fatica nel riconoscere tempestivamente i segnali legati ad un problema alimentare.

Durante l’incontro del 26 Settembre, i professionisti del CIP Milano hanno illustrato quali sono i tre campanelli d’allarme ai quali prestare attenzione, secondo una prospettiva multidisciplinare. Pubblichiamo, per i nostri lettori, il video dell’evento.

 

I 3 CAMPANELLI D’ALLARME PER RICONOSCERE UN DISTURBO ALIMENTARE:
A COSA PRESTARE ATTENZIONE

Guarda il video integrale del webinar:

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Monogamia e tradimenti: la storia naturale della vicenda amorosa. Perché ci si innamora? – Una serie di Roberto Lorenzini

Oggi pubblichiamo la terza parte del settimo lavoro della serie di Roberto Lorenzini, dedicata al tema della monogamia e delle sue implicazioni psicologiche, affettive, relazionali e, perché no, sessuali. Lorenzini propone una tesi forte: la monogamia non funziona. E prosegue il suo racconto esplorando lo sviluppo della vicenda amorosa e la sua prima fase: l’innamoramento.

MONOGAMIA E TRADIMENTI – (Nr. 7.1.3) La storia naturale della vicenda amorosa. Perché ci si innamora?

7. La storia naturale della vicenda amorosa

7.1.3 Perché ci si innamora?

E perché ci si innamora? (Branden 2010, Galimberti 2004). Se non ci si accontenta della saggia prospettiva di De André secondo cui “l’amore ha l’amore come solo argomento” secondo la quale non si devono cercare cause perché l’amore non ne ha essendo lui stesso il motore immobile della vita nell’universo, si possono trovare alcuni tipici fattori favorenti ed altri scatenanti. Tra i primi sono da annoverare certamente aspetti genetici (Lorenzini e Sassaroli, 1995). Esistono evidenti differenze individuali ereditarie non solo nei caratteri somatici, ma anche negli aspetti psicologici come la tendenza ad essere paurosi o coraggiosi, la tendenza ad essere conservatori oppure esplorativi e alla ricerca di novità, o, ancora all’estroversione o all’introversione. Più gli studi sul genoma e l’ereditarietà procedono, più gli aspetti ereditari del comportamento sono considerati determinanti dopo che nel ‘900 soprattutto le cause ambientali e culturali erano state ritenute decisive. Tra le varie caratteristiche innate possiamo certamente elencare: la predisposizione all’esperienza dell’innamoramento così come l’importanza della sessualità che sia negli uomini che nelle donne è diversa da persona a persona e, infine, la capacità innata di entrare facilmente in relazione con l’altro che potremmo anche chiamare “simpatia o seduttività naturale”. È molto probabile che tra le due ci sia un rinforzo reciproco perché spesso diamo importanza a ciò che ci riesce bene e, di contro, ci riesce bene ciò cui diamo importanza. Una prova indiretta dell’ereditarietà di tali aspetti la si ritrova ricostruendo le storie plurigenerazionali delle famiglie. In alcune famiglie prevalgono unioni monogamiche mentre in altre la norma è la presenza di molteplici storie affettive contemporanee e non (Lorenzini e Sassaroli, 2000). Un’altra prova di una tendenza innata sta nel fatto che l’andamento delle precedenti storie affettive di un soggetto è il predittore più attendibile dell’andamento delle future. Si potrebbe persino costruire un algoritmo che a partire dai dati sulle storie già vissute dai due protagonisti di una coppia ne preveda evoluzione e durata. Una conoscenza implicita di tale regola la si ritrova nelle affermazioni di reciproca sospettosità nelle coppie coniugali originate da una precedente relazione adulterina (ognuno sa che l’altro è un potenziale traditore avendolo già fatto).

Altro fattore predisponente, in parte anch’esso genetico, è una personalità “dipendente” che essenzialmente consiste nel bisogno assoluto di un altro e potremmo dire, nell’avere il baricentro della propria identità ed esistenza spostato fuori di sé (Lorenzini e Sassaroli, 1995).

Un fattore scatenante e assolutamente contingente ma che viene messo in primo piano nei conflitti che spesso accompagnano una chiusura con lo scopo di ribaltarne la responsabilità sull’altro è la presenza di qualche eventuale importante bisogno inevaso nella relazione presente che il nuovo oggetto d’amore va a colmare.

Infine, un altro fattore favorente l’innamoramento sono dei particolari momenti di passaggio esistenziale in cui un nuovo assetto identitario va definito e di cui l’altro diventa testimone. Mentre nell’amore (ovvero nella forma cronicizzata) l’altro è il testimone di una vita (come vedremo più avanti), nell’acuzie dell’innamoramento l’altro è il validatore assoluto del presente.

Fasi particolarmente esposte saranno dunque l’adolescenza in cui si passa da una identità fondata sulla famiglia d’origine ad una fondata sul mondo esterno e il gruppo dei pari; l’inizio dell’età adulta con la conquista dell’autonomia e la creazione di un nuovo nucleo familiare e infine il passaggio alla terza età proverbiale per le crisi da menopausa e andropausa quando più forte emerge il bisogno di riconoscimento per un corpo e una identità anche di ruolo sociale che cambia drasticamente. Non è dato sapere se l’innamoramento sia esperienza frequente anche subito dopo il passaggio nell’al di là che tra tutti è il più radicale, vedremo a suo tempo se ci innamoreremo di qualche angelo o di una diavolessa procace. Una volta compreso il ruolo di validazione del sé che l’innamoramento può avere, non solo nelle personalità narcisistiche dove tale reciproca ricarica è in primo piano nella genesi e nel mantenimento, non sarà difficile immaginare che innamoramenti possono essere scatenati da cambiamenti della propria condizione (gli esiti di una grave malattia, tracolli economici, pensionamento, perdita di importanti legami). Quando ci si scopre diversi si ha bisogno di qualcuno che validi e stabilizzi la nuova identità.

Una volta innescato l’innamoramento funzionano da rinforzo le emozioni positive che si sperimentano nello stare insieme e da rinforzo negativo le pene indicibili dell’assenza. Spesso le persone si interrogano se una certa scelta, ed in particolare quelle affettive, siano state fatte razionalmente o siano frutto di condizionamenti come se non fossimo noi stessi il frutto della nostra storia, dei nostri incontri e fosse possibile e auspicabile essere una “tabula rasa”. Altro non siamo se non l’insieme dei nostri determinanti genetici e ambientali (Pinker 2006).

L’innamoramento che è esclusivo, nel doppio significato che non lo si può essere di due oggetti contemporaneamente né si può tollerare che l’altro lo sia, se vissuto pienamente con una full immersion può attenuarsi progressivamente fino a cessare del tutto o trasformarsi nella forma cronica normalmente chiamata “amore” che perde quasi del tutto la caratteristica dell’esclusività e smussa molti degli aspetti assolutistici sopradescritti diventando altro di cui parleremo più avanti.

Si può verificare anche una evoluzione negativa, cronica e dannosa dell’innamoramento che è il cosiddetto “innamoramento interruptus”. A somiglianza del lutto non elaborato, fissa l’immagine dell’oggetto in una teca intoccabile e paralizza l’esistenza del soggetto in un presente che non ha futuro e non riesce a diventare passato (i terribili incorruttibili amori eterni che sottraggono libido all’esistenza di cui è ricca la letteratura di tutti i tempi): i segni più evidenti di questo blocco sono i ricordi intrusivi e la perdita di interesse per il presente reale, una sorta di depressione cronica che può condizionare tutta la vita. Per la fenomenologia delle varie fasi dell’esperienza amorosa si veda Roland Barthes Frammenti di un discorso amoroso un saggio in bilico tra scienza, fenomenologia e poesia del semiologo francese organizzato per 80 voci ordinate alfabeticamente, il libro è uscito per le Éditions du Seuil nel 1977 e tradotto da per Einaudi nel 1979.

 

Workaholism: le conseguenze della dipendenza da lavoro

Cosa porta un individuo a sviluppare il bisogno di lavorare incessantemente arrivando addirittura ad oscurare la propria vita privata? E quali potrebbero essere le conseguenze che tale dipendenza comporterebbe nella vita del dipendente da lavoro?

Erika Virgili – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Ebbene, come ogni altra dipendenza anche quella da lavoro è sorretta da particolari meccanismi che comportano conseguenze non solo a livello individuale, ma anche relazionale e lavorativo. E’ interessante riflettere, ad esempio, sul tipo di contributo che un workaholic potrebbe apportare all’interno di un’organizzazione o di un’azienda.

Innanzitutto il termine Workaholism è stato coniato da Oates (1971), il quale definisce tale patologia come una compulsione e un incontrollabile bisogno di lavorare incessantemente. Da allora il termine è divenuto ampiamente conosciuto ed usato sempre più. Considerando che il termine “workaholism” deve la sua derivazione al termine “alcoholism” (alcolismo), è intuitivo dedurre la connotazione negativa del termine.

Il workaholism potrebbe sembrare un concetto ingannevole e sfocato se viene identificato semplicemente con la tendenza di lavorare un numero di ore superiore alla norma. Molteplici, infatti, potrebbero essere le motivazioni che spingono un individuo a lavorare un gran numero di ore: presenza di problemi economici, personali o familiari, desiderio di rispettare le aspettative dei propri superiori, la forte ambizione nel fare carriera (Schaufeli, Taris & Rehnen, 2008); ma non è questo che ci indica la presenza di una dipendenza psicologica dal lavoro. McMillan e O’Driscoll (2006) hanno identificato le caratteristiche principali degli individui affetti da workaholism, individuandone due dimensioni principali:

  • una dimensione comportamentale, riscontrata nel lavorare eccessivamente;
  • una dimensione cognitiva, riscontrata nel lavorare compulsivamente.

Anche Snir e Harpaz (2004) definiscono la Workaholism secondo aspetti su base sia comportamentale che cognitiva, sottolineando come il grande investimento di tempo in attività e pensieri inerenti al lavoro non sia indotto da necessità esterne. Secondo alcuni studi varie sono le conseguenze negative che i workaholics sperimentano in primis su stessi e sulla loro salute, tant’ è che già Oates nel 1971 sottolineò come, in maniera molto simile agli alcolisti, i maniaci del lavoro tendono ad avere problemi non solo legati alla salute, ma anche alla propria serenità e conseguentemente alle relazioni interpersonali e sociali: il tutto a causa dell’incontrollabile bisogno di lavorare. La workaholism è infatti strettamente correlata alle problematiche psico-fisiche dell’individuo dipendente (Andreassen et al., 2007; Burke & Matthiesen, 2004), che presenta uno stile di vita assolutamente inflessibile e compulsivo, arrivando ad ostacolare e sacrificare i rapporti interpersonali come la rete familiare e amicale del soggetto stesso. Le persone dipendenti da lavoro sono infatti assolutamente disposte a sacrificare i rapporti personali allo scopo di poter trascorrere maggior tempo sul posto di lavoro, traendone di conseguenza maggior soddisfazioni possibili (Porter, 2001). Robinson e Post (1997) hanno valutato come le persone dipendenti da lavoro instaurino, solitamente, capacità comunicative inadeguate e inefficienti con la propria rete familiare, all’interno della quale i ruoli non risultano ben consolidati e definiti.

Alcuni studi dimostrano un rapporto positivo tra workaholism e il conflitto lavoro-famiglia. Robinson, Flower e Carroll (2001) hanno evidenziato come le persone con workaholism mostrino attaccamenti emozionali quasi inesistenti, supportati dalla ridotta sperimentazione di sentimenti positivi e di attrazione fisica nei confronti del partner rispetto agli individui non workaholics. Infatti tutte le risorse dei workaholics vengono ossessivamente e compulsivamente spese nel lavoro, non riuscendo quindi ad offrire sostegno emotivo al partner e alla famiglia, per la quale dispone di risorse più consumate e povere di quelle impiegate nel lavoro. Questo punto di vista è dunque coerente con la convinzione che le persone affette da workaholism siano in possesso di risorse limitate e poco flessibili. Di conseguenza la gestione di più ruoli, come quello del coniuge e del lavoratore, diventa molto problematica al punto di provocare ansia e frustrazione, soprattutto nel momento in cui l’individuo è impossibilitato al lavoro.

Lo stile di vita inflessibile e compulsivo fa in modo che l’individuo sviluppi rapporti difficili non soltanto con i componenti della famiglia, ma anche con i colleghi di lavoro.

La workaholism apporta dunque conseguenze negative sia psicofisiche sia sociali, che impatto avrà sull’individuo a livello lavorativo e sull’azienda a livello produttivo?

La workaholism, che sia alimentata o meno da determinate impostazioni lavorative dell’organizzazione in cui la persona workaholic opera ed interagisce, oltre ad avere un notevole impatto sul benessere psico-fisico dell’individuo stesso, comporta anche determinate conseguenze all’interno delle organizzazioni, in termini di produzione e non solo.

Sicuramente la cultura e l’impostazione dell’organizzazione lavorativa, ovvero valori condivisi, norme e credenze che vigono tra i membri della stessa, è rilevante poiché alcune aziende o industrie basandosi su determinati principi, potrebbero sostenere o addirittura provocare la dipendenza da lavoro, andando ad esempio a rinforzare e promuovere il lavoro eccessivo e la competitività (Schein, 1990)

Come già anticipato inizialmente, il ruolo e l’utilizzo della tecnologia in azienda ha una grande influenza nello sfondo socio-lavorativo della dipendenza da lavoro, poiché la correlazione tra tecnologie e workaholism può presentarsi secondo diverse sfaccettature: da un lato, il progresso della tecnologia potrebbe permettere ai lavoratori di integrare più facilmente le esigenze lavorative con le esigenze della comune vita privata, concedendo agli individui maggior flessibilità sulla gestione del tempo di lavoro, andando a ridurre i comportamenti dei workaholics; dall’altro lato però, come inizialmente sottolineato, lo sviluppo delle tecnologie nel mondo del lavoro ha reso più labile il confine tra lavoro stesso e vita privata, rendendone i margini più facilmente permeabili e andando conseguentemente ad alimentare comportamenti compulsivi verso il lavoro stesso dati dalla possibilità di “connettersi” al lavoro in qualsiasi momento e in qualunque luogo (Porter, 2001). Da uno studio portato avanti nel 2004 da Ammons e Markham è risultato che coloro che sfruttano la possibilità di lavorare da casa sviluppano una maggior vulnerabilità alla dipendenza da lavoro. Motivo per cui si potrebbe pensare che lo sviluppo della tecnologia potrebbe fornire un costante stimolo per evocare comportamenti di dipendenza.

Solitamente, all’interno di un’organizzazione, i dipendenti che lavorano un maggiore numero di ore con dedizione, sono poi coloro che ottengono promozioni con conseguente aumento di stipendio, in quanto dedicare molto tempo al lavoro viene considerato come un vero e proprio investimento, spesso premiato dal mercato stesso. I dirigenti tendono dunque a “sponsorizzare” coloro che mostrano tale diligenza. Infatti, secondo Burke (2001) gli individui con workaholism, inizialmente, sono spesso i primi a ricevere promozioni. Ma la carriera che i workaholics riescono ad ottenere non è assolutamente senza costi, poiché se da un lato il lavoro porta grandi soddisfazioni, dall’altro, come già detto, non si può che assistere ad un impoverimento della salute fisica, psicologica e della vita privata (Ng, Sorensen & Feldman, 2006). Se è vero che i workaholics possono ottenere risultati lavorativi positivi a breve termine, arrivando quindi ad alimentare ed incrementare i propri comportamenti di dipendenza, cosa potrebbe accadere prendendo in considerazione la prestazione dello stesso in periodi di tempo più lunghi? In realtà i ritmi lavorativi sempre molto elevati, il sostenuto perfezionismo, l’incapacità di delegare, il tutto con conseguente stanchezza fisica e mentale e la sfiducia nell’operato degli altri, interferiscono con il corretto funzionamento lavorativo sia del workaholic stesso e sia del workaholic in relazione ai colleghi (basti pensare a compiti che necessitano del lavoro di squadra), con probabile rendimento scadente causato dalla mancanza di risorse comunicative adeguate e necessarie allo svolgimento del compito (Ng, Sorensen & Feldman, 2006).

Per questo motivo Ng, Sorensen e Feldman (2006) sostengono che la workaholism sia correlata per brevi intervalli di tempo ad una propria soddisfazione lavorativa alimentata da buone performance, mentre per intervalli di tempo più ampi a stanchezza fisica e mentale nutrita da un esasperato perfezionismo e problemi comunicativi tra colleghi.

Si pensi ai dipendenti che, all’interno di un’azienda, devono collaborare con un collega workaholic che dedica al lavoro molte ore, in modo ossessivamente perfezionistico: questo potrebbe esercitare indirettamente pressione sugli altri dipendenti. In alcuni casi la pressione lavorativa può aiutare a mantenere o aumentare la concentrazione e l’impegno sul lavoro, ma nella collaborazione con i workaholics la pressione intensa e continua potrebbe avere un impatto negativo sul piacere e sulla dedizione al lavoro degli altri dipendenti coinvolti. Se l’assetto organizzativo favorisce e premia i workaholics, saranno conseguentemente penalizzati i dipendenti che utilizzano il proprio tempo in maniera efficiente e sufficiente.

Considerando che gli individui con workaholism ricevono un accrescimento del proprio ego sulla base del coinvolgimento che hanno nei confronti del lavoro, il bene dell’organizzazione, dell’azienda o del team dei lavoratori risulterà secondario all’attuazione di comportamenti e meccanismi finalizzati ad accrescere e salvaguardare la propria autostima. Ciò vuol dire che il risultato finale del lavoro sarà secondario alla tutela del proprio ego, nonostante la risposta comune a qualsiasi tipo di problematica che si presenterà sia in ambito lavorativo che nella vita privata, sarà quella di lavorare un maggiore numero di ore. I workaholics troveranno molteplici motivazioni per giustificare la grande quantità di tempo trascorso a lavoro, in quanto avranno bisogno di organizzare scrupolosamente le proprie attività, di verificare i risultati ottenuti, e di programmare come raggiungere gli obiettivi preposti secondo le loro modalità. Gli errori o le mancanze nel lavoro svolto, verranno utilizzati come ulteriore motivazione per trascorrere ulteriore tempo a lavoro, affinché il proprio operato possa risultare corretto ed apprezzato. Per tutte le motivazioni fin qui elencate, spesso i lavori in team in presenza di un workaholic risultano inefficienti e il lavoro di squadra tra il dipendente da lavoro e gli altri colleghi improduttivo: ecco come vengono così persi i potenziali guadagni di un lavoro portato avanti secondo una collaborazione tra colleghi, andando a danneggiare l’efficacia dell’azienda. I colleghi, evitando i workaholics, tentano di operare senza il beneficio del contributo di un membro dell’organizzazione, assumendosi di conseguenza maggiori responsabilità del lavoro da svolgere e con la possibilità di aumentare pressioni sui colleghi di pari livello o su quelli con mansioni inferiori, creando un effetto a catena; questa è la modalità secondo la quale la problematica si diffonde attraverso tutta l’organizzazione. Ulteriore caso è quello in cui un manager o un superiore soffra di workaholism: ciò implicherà la grande difficoltà dell’individuo di delegare il lavoro, la richiesta esigente rivolta al personale, il controllo totale sulle attività svolte, le influenze che sia i colleghi che i subordinati potrebbero subire dalla messa in atto delle strategie del workaholic. Tutti aspetti che creano grandi problematiche all’interno di un’azienda, sia in termini di salute psico-fisica degli individui sia in termini di perdita più strettamente economica.

A lungo termine il workaholic è lasciato senza alcun beneficio, nonostante tali individui tendano a fissarsi obiettivi sempre più elevati, con la speranza che, una volta raggiunto, il senso di benessere e di fierezza durerà (Porter, 1996).

Le organizzazioni lavorative oggi sembrano essersi rese conto che i continui cambiamenti nel mondo del lavoro richiedono senza dubbio lavoratori flessibili, pronti a cambiare le proprie strategie e ad adattarle alle richieste del mercato in continuo mutamento. L’inflessibilità dei maniaci del lavoro non può essere in sintonia con questo approccio continuamente ri-adattivo, ragione per cui gli individui con tale dipendenza potrebbero non risultare all’altezza di lavorare in un’azienda che vada al passo con i tempi.

 

ACT in breve. Una guida illustrata verso una “Mente liberata” – Video intervista a Steven Hayes

L’approccio ACT si è dimostrato efficace per favorire il cambiamento nelle persone e per sviluppare una flessibilità psicologica che ci consenta di vivere a pieno la nostra vita in linea con ciò che è importante per noi. La video intervista a Steven Hayes.

 

Di nuovo in compagnia del grande Steven Hayes, Psicologo clinico americano e Professore di Psicologia dell’Università del Nevada, autore di numerose pubblicazioni e libri tradotti anche in italiano come “ACT. Teoria e pratica dell’Acceptance and Commitment Therapy”, “Smetti di soffrire, inizia a vivere. Impara a superare il dolore emotivo, a liberarti dai pensieri negativi e vivi una vita che vale la pena di vivere”, “Il manuale del terapeuta ACT. Apprendere e allenare le abilità dell’Acceptance and Commitment Therapy” traduzione italiana della seconda edizione americana di Learning ACT Edition, ed ultima pubblicazione tradotta in italiano uscita a luglio 2020 “La mente liberata. Come trasformare il tuo pensiero e affrancarti da stress, ansia e dipendenze” (Titolo originale: A Liberated Mind. How to pivot Toward what matters) edito dalla Giunti.

La mente liberata è un libro completo, dove Steven Hayes mette a disposizione tutte le sue esperienze di uomo, professionista e soprattutto terapista ACT, spiegandoci accuratamente, ma con un linguaggio accessibile anche ai non addetti ai lavori, i principi dell’ACT, perché tale approccio funziona nel favorire il cambiamento nelle persone e come allenarci per sviluppare una flessibilità psicologica che ci consenta di vivere a pieno la nostra vita, in linea con ciò che è importante per noi.

E proprio quest’ultimo lavoro ci guiderà nell’intervista di oggi e più precisamente parleremo dell’ E-book realizzato dello stesso con disegni rappresentativi di alcune parti contenute all’interno del libro e disegnate dalla figlia Esther.

L’E-book è scaricabile gratuitamente >> CLICCA QUI.

Segnalo inoltre, anche la possibilità di avere lo stesso tradotto in lingua italiana ad opera del collega Salvatore Torregrossa, che ringrazio per il grande lavoro di divulgazione e diffusione del modello ACT e relativi materiali utili attraverso siti e social.

La traduzione in italiano è reperibile CLICCANDO QUI.

L’e-book immortala parti centrali del testo e di conseguenza del lavoro sulla flessibilità psicologica che può aiutare ognuno di noi ad uscire dalle proprie trappole.

Vediamone alcune:

 

 

 

 

Immagini tratte dall’E-book

Con la presente video intervista, faremo un viaggio tra le varie pagine di quest’ultimo ed avremo il privilegio di sentirle commentare e spiegare da colui che gli ha dato vita.

Buona visione.

 

GUARDA IL VIDEO DELL’INTERVISTA A STEVEN HAYES:

 

Stati e reti: mente vagabonda, rimuginio e REM

Esistono diverse forme di pensiero vagabondo, o mind wandering, auto generate in base a ciò su cui il soggetto focalizza la concentrazione e sui vincoli automatici legati al processo biologico della paura.

 

Il “mind wandering” indica la tendenza della mente a vagare, soprattutto in condizioni di sonnolenza o con pochi imput sensoriali (Hobson, 1988; Klinger, 1978; Pope, 1978). James (1890) spiegò che il controllo volontario dell’attenzione non è esclusivamente focalizzato sull’impedire alla mente di vagare; per l’appunto Wegner (1997) osservò come gli sforzi attentivi fatti per tenere l’attenzione su un’attività specifica, cercando così di evitare distrazioni, possano paradossalmente aumentare la quantità di mind wandering (Critcher e Gilovich, 2010). La rete mind wandering, conosciuta anche come “default mode network” (DMN) – che comprende le cortecce infero-parietale, temporale, prefrontale mediale e cingolata posteriore – è composta dall’attivazione simultanea di differenti regioni del cervello che si verifica quando la mente non è focalizzata su qualcosa di specifico (Raichle et al., 2015). In una recente revisione, Fox e colleghi (2018) hanno evidenziato come esistono diverse forme di pensiero vagabondo auto generate in base a ciò su cui il soggetto focalizza la concentrazione (ad esempio, “che regalo dovrei comprare?”) e su vincoli automatici legati al processo biologico della paura (“dov’è finita quella vespa?).

Il rimugino è una funzione mentale rivolta al futuro che ci incoraggia a evitare eventi o situazioni avverse (Borkovec, 1994, p.28). Tali scenari vengono immaginati in modo estremo attraverso l’utilizzo di pensieri visivi e verbali che portano il soggetto ad intraprendere azioni evitanti.

Addis e colleghi (2007) hanno affermato che il DMN è chiamato anche “imagination network”, in quanto le regioni cerebrali sono attive quando gli individui pensano al passato e al futuro. Il “mind wandering ansioso”, detto anche rimuginio, si verifica quando l’attività all’interno di questa rete è associata ad una risposta biologica di paura, che scatena nel soggetto scenari immaginari catastrofici che spingono la mente vagabonda verso comportamenti evitanti (Eichler-Summers, 2019). L’attività di questa rete, mentre il soggetto pensa al passato o al futuro, rappresenta non più uno stato di riposo, bensì uno stato ansioso come nei casi di ruminazione ansiosa o pensiero ossessivo (Fox et al., 2018).

Eichler- Summers (2019) ha messo in luce che la rete cerebrale responsabile del sonno REM mostra una grande sovrapposizione con il default mode network, nonostante alcune differenze: rispetto al risveglio, le attività nelle aree della rete predefinita responsabili dell’esperienza emotiva sono maggiormente attivate, soprattutto per quanto riguarda il Sé, la memoria episodica e a lungo termine, le relazioni con gli altri. Durante il sonno REM, è presente anche un’eliminazione totale dell’attività nelle funzioni esecutive (per il pensiero orientato agli obiettivi alla memoria di lavoro), fatta eccezione per i sognatori lucidi (Domhoff, 2017). Questo dato suggerisce come sognare e mind wandering siano correlati (Fox et al., 2018).

 

Perché sono arrabbiato con me? Funzione e sviluppo della rabbia secondaria

La rabbia è una delle sette emozioni primarie (Ekman, 2008), ovvero un tipo di emozione innata e universalmente presente in ogni essere umano fin dai primi mesi di vita; ma cosa si intende per rabbia secondaria?

 

Come tutte le emozioni, anche la rabbia ha un preciso scopo etologico: nasce nel momento in cui percepiamo un pericolo o un’intrusione (Greenberg & Paivio, 2000) e abbiamo la necessità di mettere in atto dei comportamenti di risposta aggressivi che garantiscano, o per lo meno aumentino, le nostre possibilità di sopravvivenza. La pervasività dei vissuti connessi alla rabbia (risposte fisiologiche automatiche, sensazione di avere o meno il controllo della situazione e dei nostri comportamenti ecc) può variare significativamente in base a quanto siamo arrabbiati, costante che a sua volta dipende dai pensieri che rivolgiamo verso lo stimolo ambientale, ovvero quanto riteniamo pericolosa la situazione con cui ci stiamo confrontando. Non di rado, infatti, proviamo rabbia anche quando abbiamo la sensazione di aver subito un’ingiustizia (noi o i nostri cari), un’offesa (noi o i nostri cari) o di essere stati bloccati nel raggiungimento o nella realizzazione dei nostri scopi o obiettivi (noi o i nostri cari), ovvero in situazioni in cui la nostra vita non è effettivamente in pericolo. Ed è in questo contesto, decisamente più cognitivo, che si determina il passaggio tra ira, rabbia, fastidio e frustrazione, ovvero tra le diverse sfumature quantitative e qualitative che può assumere questa emozione.

Gli esseri umani, però, non si limitano solo a produrre pensieri o a provare emozioni elicitati direttamente da stimoli esterni, ma riflettono e sentono anche a partire da spinte che provengono direttamente da dentro loro stessi. Ciò significa che possiamo provare rabbia anche per ciò che pensiamo e proviamo nei confronti di noi stessi.

Greenberg e Paivio (2000), in ambito clinico, suggeriscono di operare una distinzione tra rabbia primaria e rabbia secondaria. Gli autori identificano le espressioni della rabbia secondaria come “reazioni secondarie ad altre emozioni e processi cognitivi” che si verificano quando “[…] i pensieri coscienti e le attribuzioni di colpa […] sono insufficienti a causare l’attivazione della rabbia”. Secondo gli autori, quindi, la rabbia secondaria avrebbe lo scopo di “bloccare lo stress e il dolore, derivanti da altri sentimenti, rimuovendoli dalla consapevolezza”. È molto probabile che la maggior parte di noi conosca qualcuno (o sia lui/lei stesso) che si è arrabbiato con sé stesso per aver fallito ad un esame o per non aver espresso la sua opinione durante una riunione di lavoro; o che ha reagito con grida di rimprovero verso un figlio o un nipote o un alunno che si è fatto male dopo essersi comportato in modo avventato; o che rivolge verso sé stesso frasi denigratorie e dispregiative ogni volta che si sente debole, indifeso o spaventato.

Le funzioni della rabbia, quindi, si configurano sia nella possibilità di incrementare la risposta verso uno stimolo attivatore minaccioso, per poterlo affrontare efficacemente da un lato (Novaco, 2010), ma anche nella possibilità di avere uno strumento di difesa da altre sensazioni (Gorrese, 2013). Ma perché dovremmo difenderci da altre emozioni, che per quanto scomode e spiacevoli, non mettono in pericolo la nostra vita (anzi, hanno una precisa funzione di sopravvivenza della specie)? Perché valutiamo alcuni vissuti così sbagliati e minacciosi da doverli evitare o sopprimere?

Gli approfondimenti sull’attaccamento e sulle dinamiche familiari possono fornire alcune risposte.

Mantenendo uno sguardo ampio, si può affermare che la cultura, i miti e i tabù che caratterizzano un sistema familiare compongono il terreno in cui un individuo sviluppa, tra le alte cose, specifiche modalità di regolazione e interazione emotiva. È possibile che i bambini che sono stati sgridati quando hanno manifestato fastidio, nervoso e rabbia tenderanno ad apprendere a nascondere questi vissuti, finendo per non concedersi di provare questi sentimenti e ad arrabbiandosi con se stessi qualora questo dovesse accadere (Shaver & Mikulincer, 2002; Clear & Zimmer-Gembeck, 2015).

In alternativa, la rabbia può essere l’emozione con cui il contesto familiare chiede all’individuo di reagire quando prova paura o tristezza, portandolo così a condannare e denigrare se stesso ogni qualvolta senta affiorare questi sentimenti. In questo caso potremmo dire che bambini che sono stati sgridati quando hanno pianto davanti a un giocattolo rotto o hanno chiesto di essere protetti dai mostri sotto al letto o dal cane che abbaiava con forza tenderanno poi a evitare di provare questi vissuti, percependosi deboli e incapaci qualora dovesse accadere.

Osservando nello specifico la relazione fra il bambino e la figura di attaccamento, nel caso in cui la ricerca della vicinanza abbia fallito, portando a rifiuto e ostilità invece che ad ascolto e comprensione, verrà così interiorizzato un modello orientato alla soppressione delle emozioni spiacevoli, tra cui la rabbia (Caldwell & Shaver, 2012, 2015; Wei et al., 2005).

Emerge quindi quanto le prime esperienze relazionali infantili giochino un importante ruolo nella modalità di vivere e gestire la rabbia, oltre che sulle conseguenti emozioni secondarie.

Approfondire la relazione tra le esperienze infantili e la rabbia secondaria può avere importanti risvolti nel lavoro terapeutico. Qualora il terapeuta arrivi a riattivare i modelli operativi interni che il paziente ha sviluppato in origine all’interno del suo nucleo familiare, ciò consentirà alla coppia terapeutica di utilizzare le reazioni di rabbia come punto di accesso ai vissuti infantili dolorosi. Il paziente potrà così avere l’opportunità di accedere a una visione di sé maggiormente introspettiva, raggiungendo la consapevolezza che il problema non è il sentire l’emozione -anche se molto spiacevole-, ma la valutazione che rivolge a se stesso davanti alla consapevolezza di specifiche emozioni. Il cambiamento dovrà quindi essere indirizzato al rimodellamento dell’attaccamento e della percezione di sé (Gorrese, 2013).

 

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