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Psicologo e psicoterapeuta: quali differenze? – Il progetto di presa in carico individualizzato

Qual è la differenza tra psicologo e psicoterapeuta? Purtroppo ancora oggi si fa molta confusione rispetto alle competenze specifiche dello psicologo e dello psicoterapeuta, e spesso da tale confusione non sono immuni gli stessi professionisti psicologi e psicoterapeuti, soprattutto se alle prime armi.

 

Talvolta andare a rivedere i confini tra l’attività psicologica e quella psicoterapeutica, non può che far bene, specie nell’ottica di andare a rinsaldare i criteri che fondano la validità di una teoria scientifica della cura.

In ambito legislativo la legge 56 del 18/02/1989, composta da 38 articoli, definisce l’identità professionale dello psicologo:

La professione di psicologo comprende l’uso degli strumenti conoscitivi e di intervento per la prevenzione, la diagnosi, le attività di abilitazione-riabilitazione e di sostegno in ambito psicologico rivolte alla persona, al gruppo, agli organismi sociali e alle comunità. Comprende altresì le attività di sperimentazione, ricerca e didattica in tale ambito.

Mentre l’articolo 3, dice dell’attività psicoterapeutica:

1. L’esercizio dell’attività psicoterapeutica è subordinato ad una specifica formazione professionale, da acquisirsi, dopo il conseguimento della laurea in psicologia o in medicina e chirurgia, mediante corsi di specializzazione almeno quadriennali che prevedano adeguata formazione e addestramento in psicoterapia, attivati ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 10 marzo 1982, n. 162, presso scuole di specializzazione universitaria o presso istituti a tal fine riconosciuti con le procedure di cui all’articolo 3 del citato decreto del Presidente della Repubblica. 

2. Agli psicoterapeuti non medici è vietato ogni intervento di competenza esclusiva della professione medica.

3. Previo consenso del paziente, lo psicoterapeuta e il medico curante sono tenuti alla reciproca informazione.

Sintentizzando i sopracitati articoli è possibile definire l’attività psicologica entro interventi abilitativi, riabilitativi e di sostegno psicologico, nonché diagnostici, ma non curativi, tale tipo di intervento rientra nelle competenze dello psicologo e psicoterapeuta o del medico psicoterapeuta. Lo psicologo può muoversi, pur con ampi spazi e con una specificità professionale, in ambito valutativo, abilitativo, riabilitativo e di sostegno, ma quando nella sua attività si trova di fronte ad “una malattia” (psicopatologia, o disturbo ecc – diagnosticata secondo i criteri dei manuali riconosciuti e validati scientificamente come ad esempio DSM e PDM) la competenza passa allo psicoterapeuta.

La psicoterapia deve essere considerata come “la risposta clinica esperta” ad una malattia. La psicoterapia è un’area di intervento con finalità di cura dove coesistono esclusivamente due figure sanitarie diverse: psicologo e medico con specifica preparazione. Ancora, la psicoterapia è un approccio scientifico alla cura della patologia, del disturbo e del disagio mentale.

L’obiettivo in qualsiasi fase del processo, prima diagnostico, dopo terapeutico deve essere sempre il raggiungimento di un maggior grado di benessere da parte del paziente. Pensare di lavorare senza delle “linee guida” appunto metodologiche, ma anche teoriche, senza aver ben chiara una prassi e delle procedure, senza padroneggiare e conoscere bene gli strumenti, compresi noi stessi, senza contestualizzare l’intervento, senza dunque un’analisi della domanda ben fatta, una buona raccolta anamnestica e senza l’aiuto di strumenti ad hoc, non può che condurci in una direzione ben lontana dall’aiuto della persona che abbiamo di fronte. Inoltre avere una cornice definita (dagli elementi sopracitati) non può che tutelarci come professionisti. Andare “a braccio” nel lavoro terapeutico, senza aver prima fatto un percorso diagnostico, senza aver stilato un progetto terapeutico e senza averlo condiviso, con il paziente (in linguaggio comprensibile), può essere molto pericoloso, sia perché ci allontana dalla deontologia della nostra professione, sia perché rischia di mettere in pericolo la salute della persona che in quel momento chiede di essere aiutata. Tutto ciò deve peraltro permetterci di non dimenticare l’importanza del nostro buon senso e della nostra persona, nella sua totalità, perché il tutto si inscrive all’interno di una relazione, che seppur protetta da regole e da un setting, nonché dall’asimmetria dei ruoli, deve fare i conti con le emozioni che entrano in gioco e con la “chimica” delle personalità. Facile a dirsi, molto complicato nella pratica, ma di fatto un buon professionista sa, che per le ragioni sopracitate, sia di ordine professionale che personale e sia per un mix delle stesse, non può pensare di poter prendere in carico indistintamente tutte le persone che si presenteranno a lui/lei con una richiesta d’aiuto. Ecco perché è fondamentale una buona conoscenza di sé e dunque anche aver svolto un buon percorso di analisi personale nonché la possibilità di contare su una buona supervisione.

In sostanza, nel corso dei primi colloqui lo psicoterapeuta compie una serie di valutazioni, tanto sul paziente quanto su di sé: valutazioni diagnostiche (con implicazioni relative); valutazioni relative la possibilità di intraprendere un lavoro terapeutico con quel paziente; valutazioni, infine, legate alla stesura del progetto terapeutico (es: che obiettivi mi devo prefiggere di raggiungere? Quali sono le priorità? Quali i punti di forza? Quali i punti di debolezza ? Quali i rischi? ecc. Assumersi l’onere di tutte queste valutazioni preliminari significa già muoversi nell’ottica di un progetto terapeutico, seppur passibile di revisione in corso d’opera, (quando tali valutazioni vengano approfondite o modificate). Ciò che definisce il progetto terapeutico rientra grossomodo nelle aspettative del terapeuta rispetto la possibilità di aiutare quella persona e nel suo modo di realizzarle: con quali mezzi, attraverso quali fasi, entro quali limiti? ecc. Il progetto terapeutico è un atto di somma importanza nella prassi del terapeuta e nonostante ciò molto spesso se ne trascura il rilievo dal punto di vista sia teorico che clinico. Probabilmente questa è stata un’eredità lasciata dagli psicoanalisti più ortodossi che hanno in qualche modo fatto resistenza per lungo tempo rispetto al concetto, ma anche all’implicazione nella prassi clinica del progetto terapeutico. Ciò può anche non stupire, dato un certo modo d’intendere l’analisi classica, però stupisce il fatto che di “progetto” non si parli neppure in molti manuali di psicoterapia e non solo inerenti l’approccio dinamico.

La parola “progetto” fa pensare ad architetti e ingegneri: un mix di gusto e di tecnologia. In funzione di che? Qualcosa da costruire. Ora, nel campo psicoterapeutico, probabilmente non si tratta tanto di costruire “nuove strutture” per il paziente, così come fa l’architetto per il cliente, o per lo meno non solo, bensì di “decostruire” vecchie modalità ripetitive insieme con lui; affinché egli sia libero di riutilizzare le forze così ritrovate come meglio crede. Ogni ambizione diversa da questa, ogni tentazione di riprogettare la personalità del paziente secondo le preferenze del terapeuta resta da evitare.

Fra i contributi recenti sulla nozione di “progetto terapeutico” molto interessante è l’articolo di Giovanni Foresti e Mario Rossi Monti (2002) che, mutuando la nozione di visioning dalla psicologia dell’organizzazione, propongono l’idea di un “visioning clinico” come terreno sul quale soltanto può fiorire un progetto efficace. Nella sfera delle organizzazioni sociali, per es. un’azienda, il termine vision connota la “visione d’insieme” costituita (a) dalla mission e (b) dalla strategia da seguire per realizzarla; al contempo, col termine visioning s’intende il lavoro comune proteso (A) all’aggiornamento permanente della vision, con tutte le verifiche che si rendono necessarie e tutte le revisioni che le verifiche suggeriscono, e (B) a fare di tutto ciò un patrimonio di esperienze, idee e valori profondamente condiviso da tutti i soggetti interessati. Dunque riprendendo il concetto di vision di Foresti e Rossi Monti è possibile intuire come possa esistere anche un visioning clinico di competenza del terapeuta. Questi deve infatti preoccuparsi di tenere viva nella mente e nell’azione «una rappresentazione complessa del paziente, sottoposta a continua verifica e ri-orientata sulla base dei risultati dell’intervento». Di fatto nell’impostazione operazionalizzata del DSM-5, così come nella diffusione crescente di guidelines e protocolli standardizzati (pur utili), l’oggettivazione del sintomo rischia di produrre una pratica terapeutica alquanto rigida, che consegue meccanicamente dalla diagnosi. Un vero“progetto terapeutico”, dovrebbe essere concepito sulla misura del paziente ed evolvere con lui. La lettura Esercizi di Visioning di Giovanni Foresti e Mario Rossi Monti è decisamente di tipo prospettico, intendendo con questo termine la capacità-necessità di “vedere in avanti”, in senso anticipatorio, ovvero di calibrare-dosare il cambiamento in riferimento a tutte le variabili in gioco, che devono essere ben chiare nel progetto terapeutico. In definitiva, considerando il progetto terapeutico come una componente fondamentale del visioning clinico c’è da fare qualche considerazione conclusiva:

A fianco delle categorie nosografiche è raccomandabile per il buon esito della psicoterapia l’adozione di strumenti mutuati dalla psicoanalisi, dalle teorie psicodinamiche: come l’esplorazione e la comprensione del mondo interno del paziente quale si manifesta nella relazione terapeutica e la messa in evidenza del vissuto soggettivo a monte del sintomo osservabile (sintomo che, rispetto ad esso, costituisce già una forma di coping). Inoltre per meglio legare diagnosi e progetto, le categorie fornite dal PDM sono forse più utili di quelle fornite dal DSM. Infatti: rispetto agli assi diagnostici del DSM-5 (che non sono vere “dimensioni” di una descrizione complessiva, ma piuttosto degli elenchi relativamente indipendenti l’uno dall’altro e non tutti egualmente significativi per ogni paziente), gli assi diagnostici del PDM costituiscono dimensioni ineludibili ed effettive di una descrizione unitaria, che non ignora il “vissuto soggettivo”.

Riabilitazione delle ADL nella demenza: il Procedural Memory Training

Il Procedural Memory Training (PMT; Zanetti et al., 1997) è un intervento di stimolazione cognitiva che agisce sulla memoria procedurale, finalizzato alla ricostruzione delle sequenze motorie che costituiscono i comportamenti oggetto di addestramento.

 

Il Disturbo Neurocognitivo Maggiore (DNC) è una patologia acquisita, cronica, progressiva e irreversibile caratterizzata principalmente da declino cognitivo, dapprima funzione-specifico e poi di tipo globale, accompagnato con l’aggravarsi del quadro clinico da disturbi del comportamento e perdita delle autonomie funzionali.

Con autonomia funzionale si intende la capacità della persona di soddisfare i propri bisogni, portando a termine in maniera indipendente le diverse attività che caratterizzano la quotidianità.

Generalmente si possono distinguere le Basic Activities of Daily Living (ADL, attività di vita quotidiana; Pezzuti et al., 2008) dalle Instrumental Activities of Daily Living (IADL, attività strumentali di vita quotidiana; Laicardi et al., 1998).

Attività di vita quotidiana (ADL) e attività strumentali di vita quotidiana (IADL)

Le IADL sono un insieme di abilità e competenze che necessitano di una pianificazione delle azioni, implicando, dunque, l’utilizzo delle funzioni esecutive, processi cognitivi di alto livello localizzati in sede frontale. Esse risultano necessarie per gestire e utilizzare ad esempio i mezzi di comunicazione, i mezzi pubblici, il denaro e i farmaci oltre che per fare acquisti e preparare i pasti. La compromissione di queste abilità è, nella maggior parte dei casi, il primo campanello d’allarme della presenza di un cambiamento cognitivo e caratterizza lo stadio lieve di malattia.

Le ADL, invece, sono tutte quelle attività volte ad accudire sé stessi come ad esempio lavarsi, vestirsi, mangiare, provvedere all’igiene personale e ai bisogni corporali (Katz et al., 1970). Esse sono procedure e abilità che vengono apprese in maniera volontaria nell’infanzia e che con la pratica divengono automatiche, facendo capo alla memoria procedurale. Come è noto, questo sistema di memoria viene preservato fino a stadi avanzati di malattia in quanto non necessita di risorse cognitive.

Inoltre, è interessante riscontrare come vi sia una perdita gerarchica delle ADL dipendente dalla sequenza con cui vengono apprese le attività in questione: le abilità più precocemente acquisite sono quelle che si preservano più a lungo. Limitazioni motorie a parte, è più probabile che si presenti prima una difficoltà a vestirsi o a lavarsi autonomamente e solo successivamente ad alimentarsi.

Generalmente, ADL e IADL vengono valutate attraverso questionari o interviste che chiedono all’anziano o al caregiver di riferimento di giudicare il grado di autonomia nei vari domini funzionali.

Il Procedural Memory Training (PMT)

Spesso il caregiver, praticando inconsapevolmente la Psicologia Sociale Maligna (Kitwood, 1997), tende ad accelerare la perdita delle autonomie funzionali dell’anziano attraverso pratiche di cura standardizzate che rispondono ad esigenze organizzative piuttosto che ai bisogni dell’anziano.

Una pratica comune è per esempio il sostituirsi all’anziano, velocizzando così le attività e contribuendo alla perdita dell’automatismo di certe azioni. Risulta, dunque, necessario rendere consapevoli i carevigers delle conseguenze di questa modalità di approccio e prendere in considerazione l’utilizzo di programmi di riabilitazione delle ADL, come ad esempio il Procedural Memory Training (PMT; Zanetti et al., 1997).

Esso è un intervento di stimolazione cognitiva che agisce sulla memoria procedurale, finalizzato alla ricostruzione delle sequenze motorie che costituiscono i comportamenti oggetto di addestramento.

Alla base della riabilitazione vi sono tecniche di modificazione del comportamento e apprendimento quali il modellamento, il prompting e fading, lo shaping (o modellaggio) e il concatenamento (o chaining).

Il modellamento, teorizzato da Bandura (1972), consiste nella promozione di esperienze di apprendimento attraverso la semplice osservazione e imitazione del comportamento messo in atto, in questo caso, dal riabilitatore.

Prompting e fading sono due fasi di un’unica metodologia che prevede in primo luogo l’offerta, nel momento esatto in cui dovrebbe verificarsi la prestazione, di uno stimolo-aiuto che promuovi l’avvio dell’azione (es. suggerimento verbale, indicazione gestuale, guida fisica) e in un secondo momento la progressiva riduzione di questi aiuti per favorirne l’acquisizione.

Lo shaping è, invece, una tecnica che permette di ampliare il repertorio del soggetto, rinforzando tutti quei comportamenti che si avvicinano progressivamente a quello desiderato.

Infine, il concatenamento è una strategia, usata per le abilità più complesse, che consiste nel suddividere l’abilità in componenti e, seguendo una catena comportamentale, nel rinforzare il loro corretto ordine di esecuzione.

Una volta identificate le abilità residue e compromesse dell’anziano e selezionata l’attività che si intende riabilitare, è necessario stabilire obiettivi raggiungibili per il partecipante, incrementando così il suo senso di padronanza e autoefficacia.

Essendo presente una forte variabilità intra- e interindividuale, sarà necessario procedere per prove ed errori, individuando così la tecnica di apprendimento più adatta all’anziano. Nel caso dell’ADL ‘mangiare’ ad esempio, c’è chi verrà abilitato tramite la sola osservazione del riabilitatore che simula l’azione in questione e chi, invece, per mezzo di suggerimenti, per esempio posizionandogli la posata nella mano.

Vantaggi e svantaggi

Un intervento come il Procedural Memory Training permette, dunque, il mantenimento delle ADL, rallentando così il grado di dipendenza dell’anziano e aumentandone la qualità di vita.

In condizioni di istituzionalizzazione, indubbiamente è una pratica che richiede notevoli tempi di assistenza per ogni ospite per cui potrebbe non essere gradita dagli operatori in quanto costituirebbe un ostacolo alla loro tabella di marcia. D’altra parte, però, nonostante questo sacrificio iniziale, le richieste di assistenza da parte dei malati si ridurrebbero, con conseguente minore carico assistenziale.

Nel contesto domiciliare, la pratica del PMT da parte del familiare potrebbe avere risvolti positivi non solo in termini assistenziali ma anche relazionali.

Il lato non razionale dei mercati finanziari: i principali bias degli investitori

Si tende a pensare che nel campo dei mercati finanziari gli individui tendano ad essere estremamente razionali, ma la maggior parte degli studi ha fornito una prova dell’esistenza di bias che influenzano gli investitori durante i processi decisionali.

 

Lo studio dei mercati finanziari, nel corso del tempo, ha dato origine a molteplici visioni che, nella maggior parte dei casi, hanno sempre avuto una connotazione comune: sostenevano il principio della “completa razionalità dell’individuo”. Difatti, secondo le teorie economiche standard, l’uomo, sulla base del suo facile accesso ad una perfetta informazione e, possedendo un sistema completo di preferenze, riesce a scegliere autonomamente gli strumenti più adeguati a perseguire i suoi interessi. Ma, all’interno dei mercati finanziari, spesso si osservano delle anomalie che non è possibile spiegare in maniera razionale. È proprio sulla base di tale presupposto che, in tempi non troppo recenti, si è sviluppata la disciplina dell’economia comportamentale, quella

branca dell’economia che descrive i fenomeni finanziari applicandovi gli elementi psicologici, ovvero quei tratti umani che influenzano sistematicamente le decisioni individuali e gli esiti del mercato. (Thaler, 2020)

Attraverso una revisione sistematica della letteratura inerente alla suddetta disciplina, alcuni ricercatori si sono proposti di indagare e descrivere i principali pregiudizi, o bias, in cui incorrono gli investitori durante il loro processo decisionale.

Per assolvere a tale obiettivo, nel corso di un anno, gli autori hanno raccolto differenti studi inerenti al tema, pubblicati a partire dal 1974 fino al 2019.

Prospect theory: decision making under risk è da considerarsi la pietra miliare nello sviluppo dell’economia comportamentale, in quanto illustra il processo decisionale degli investitori dinanzi a situazioni di rischio. In questo documento, Kahneman e Tversky (1979) hanno introdotto il concetto di “teoria del prospetto”, secondo cui gli investitori, dinanzi a differenti alternative che comportano un rischio, propendano verso le opzioni che garantiscano loro un esito certo.

Fu nell’anno successivo che Thaler illustrò come, durante il processo decisionale, gli investitori siano influenzati da alcuni pregiudizi che spesso conducono a scelte non ottimali. Difatti, in tempi più recenti, sono stati gli stessi studi nell’ambito della neurofinanza a confermare che le emozioni influenzano la cognizione e, di conseguenza, le decisioni prese dagli agenti economici sono tutto fuorché razionali, così come sostenuto dalle teorie della finanza tradizionale (Shukla, Rushdi & Katiyar, 2020).

Essere a conoscenza dei profili dei CEO e, conseguentemente, dei bias a cui son soggetti più frequentemente, potrebbe aiutare a prevedere eventi aziendali, siano essi fusioni o acquisizioni, frazionamenti o offerte di titoli (Subrahmanyam, 2008).

Shukla, Rushdi e Katiyar (2020) hanno dunque proposto i sette bias principali che interferiscono con il processo decisionale degli investitori.

L’overconfidence è stata definita come una sovrastima, da parte dei trader, delle proprie capacità di prevedere gli eventi del mercato che, inevitabilmente, si riflette sul comportamento e sulle scelte dei singoli. Difatti, si è visto come gli investitori troppo sicuri di sé tendono a sottovalutare i rischi delle loro operazioni (Odean, 1998) o ad aumentare i processi di negoziazione (Denves et al., 2008).

In posizione diametralmente opposta rispetto all’eccesso di fiducia, vi è l’effetto gregge, ovvero la tendenza degli individui a seguire le decisioni e i comportamenti altrui. È stato dimostrato come, in ambito finanziario, ciò si verifichi sia nei trend a rialzo che a ribasso (Choi, 2016).

Talvolta, soprattutto in periodi di crisi, quando l’investitore ha un maggior bisogno di liquidità, tende a vendere i titoli in crescita, ovvero quegli investimenti che hanno guadagnato valore, e a trattenere le perdite, ovvero quelle attività che hanno perso valore (Weber et al., 1998). Generalmente si tende a mantenere una perdita nella speranza di recuperare con una futura ripresa del titolo (Il Sole 24 Ore, 9 Aprile 2014). Questa tendenza è stata definita effetto disposizione.

L’euristica o effetto ancoraggio fu una delle prime distorsioni ad essere descritta da Kahnemann e Tversky (1974). Quando agli individui vien chiesto di effettuare delle valutazioni quantitative, le loro stime vengono generalmente influenzate da determinati valori iniziali disponibili (Shiller, 1999). Dodonova (2009) ha osservato che le persone generalmente utilizzano l’ancoraggio per giudicare ciò che vogliono acquistare.

A differenza di quanto ipotizzato dalla letteratura, inoltre, gli investitori sono fortemente avversi alle perdite (Hwang et al., 2010). È stato osservato come, quando sperimentano un ribasso, essi soffrono di più di quanto non gioiscano quando realizzano un guadagno equivalente. Il bias di avversione alla perdita è stato riscontrato prevalentemente in gruppi di investitori con un’età tra i 41 e i 55 anni e tra le donne (Arora et al., 2015).

Il mental accounting è stato definito come

l’insieme delle operazioni mentali utilizzate da individui e famiglie per organizzare, valutare e monitorare delle transazioni finanziarie. (Thaler, 1999, p. 183)

Dunque, i singoli tendono a classificare e ad utilizzare in maniera differente gli utili, sulla base della loro tipologia. Barberis et al. (2003) hanno spiegato che la contabilità mentale consente agli investitori di organizzare il proprio portafoglio in vari conti separati. Gli investitori che sono influenzati da pregiudizi di contabilità mentale generalmente trattano ogni elemento del loro portafoglio separatamente invece di analizzarne la totalità (Agnew, 2006).

Infine, tra i principali bias degli investitori vi è la rappresentatività, ovvero quella scorciatoia mentale definibile come un’eccessiva fiducia negli stereotipi (Shefrin, 2008). Secondo Thaler e Sunstein (2008),

nello stimare la probabilità che A aderisca alla categoria B, gli individui si domandano quanto A sia simile al prototipo che hanno di B. (Thaler & Sunstein, 2008, p. 34)

Durante il processo di elaborazione di nuove informazioni, dunque, alcuni investitori elaborano risultati che si riverberano sui propri schemi preesistenti (Pompian, 2017).

Concludendo, la maggior parte degli studi presi in esame ha fornito una prova dell’esistenza dei pregiudizi che influenzano gli investitori durante i processi decisionali. Sulla base di questa revisione, è stato messo in luce come la finanza comportamentale offra un modello basato sugli assunti psicologici per spiegare le anomalie che si verificano all’interno dei mercati finanziari. Questo campo liberalizza i presupposti di razionalità presenti nelle teorie economiche standard e illustra come gli investitori non siano agenti razionali, ma “subiscano” – inevitabilmente – l’influenza dei propri bias.

 

Aspetti dimensionali nei disturbi di personalità: la disregolazione emotiva, analisi ed interventi – VIDEO

Studi Cognitivi Modena ha tenuto un incontro che permette di approfondire dettagliatamente la disregolazione emotiva nel contesto dei disturbi di personalità. Pubblichiamo per i nostri lettori il video dell’evento.

 

La disregolazione emotiva risulta presente in molti disturbi psichiatrici e di personalità dell’adulto. Le aree neurologiche connesse a tale dimensione riguardano la corteccia prefrontale cingolo anteriore e l’amigdala.

Nello stato di disregolazione emotiva emerge, infatti, una prolungata attivazione dell’amigdala a stimoli emotivi e ridotta attivazione della corteccia prefrontale durante l’elaborazione di stimoli emotivi negativi. Da un punto di vista clinico vengono evidenziati cambiamenti delle attivazioni e funzionalità dell’amigdala e della corteccia, dopo interventi dialettico-comportamentali.

Nel corso della serata del 26 maggio 2020, le relatrici, la Dott.ssa Alessandra Brugnoni e la Dott.ssa Antonella Gemelli, hanno approfondito il tema della difficoltà a regolare le emozioni, con particolare attenzione ai correlati neurofunzionali e agli effetti su questi di interventi psicoterapeutici dialettico comportamentali (terapie evidence based).

 

Aspetti dimensionali nei disturbi di personalità:
la disregolazione emotiva, analisi ed interventi

Guarda il video integrale del webinar:

 

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Monogamia e tradimenti: La stabilità di una storia d’amore – Una serie di Roberto Lorenzini

Oggi pubblichiamo il settimo lavoro della serie di Roberto Lorenzini, dedicata al tema della monogamia e delle sue implicazioni psicologiche, affettive, relazionali e, perché no, sessuali. Lorenzini propone una tesi forte: la monogamia non funziona. E prosegue il suo racconto esplorando lo sviluppo della vicenda amorosa e in particolare la fase stabile dell’amore.

MONOGAMIA E TRADIMENTI – (Nr. 7.2) La stabilità di una storia d’amore

 

7.2 La stabilità di una storia d’amore

Identità e amore: durante il corso dell’esistenza la nostra identità è stabile e mutevole ad un tempo e per tale motivo possiamo sempre temere di smarrirla e avere il bisogno di confermarla. Il nucleo centrale stabile dell’identità si definisce in relazione con gli altri in almeno due significati.

Il primo, più banale ci fa descrivere come “il figlio di … ”, “l’amico di … ”, “il compagno di … ”, “il padre di … ”.

Il secondo è più importante e significa che gli altri sono i testimoni e gli specchi che ci restituiscono l’idea di chi siamo. Anzi, per la precisione, all’inizio della nostra esistenza l’identità che ci costruiamo si modella sull’immagine che ci rimandano i nostri genitori. È nei loro occhi che scopriamo chi siamo e, se per un motivo o per un altro, non siamo visti la base stessa dell’identità sarà minata. Chiediamoci cosa si intenda esattamente per identità attraverso due situazioni concrete sperimentate da tutti.

La prima. Quando dico che resto me stesso nonostante il mio corpo e il mio modo di vedere il mondo (dunque la mia mente) cambino, cosa significa effettivamente? E da dove viene la sensazione di essere ancora e sempre “io” ancorché irriconoscibile per i miei compagni di liceo?

La seconda. Quando diciamo alla persona amata che continueremo ad amarla qualsiasi cambiamento avvenga in lei, vogliamo semplicemente essere galanti, ma sappiamo di ingannarla o ci crediamo davvero? E, in questo secondo caso, abbiamo ragione o ci stiamo sbagliando? Insomma, il tema è appunto la stabilità dell’identità dei soggetti (che sia l’”io” o il “tu”) nonostante il modificarsi delle loro caratteristiche. Iniziamo da questo secondo problema. È evidente che quando scegliamo una persona come possibile nostro partner lo facciamo sulla base di una serie di caratteristiche che ci piacciono in quanto presumiamo soddisfino i nostri scopi. Sono esattamente i suoi attributi a spingerci ad avvicinarci a lui piuttosto che a qualcun altro. L’altro è esattamente la sommatoria delle sue caratteristiche, doti, peculiarità e null’altro, non c’è un “tu” sostanziale che li trascende. Nel corso dell’esistenza succede in genere che molte persone che incontriamo abbiano un pacchetto di doti estremamente interessante creando i conflitti, a tutti noti, sulla scelta del partner. Purtroppo, non è possibile montarsi un puzzle perfetto prendendo un po’ di qua e un po’ di là, sebbene sia nella fantasia di molti poterlo fare (Mitchell, 2003).

Dopo questa iniziale fase di scelta inizia la relazione che si dipana nel tempo. Durante questo periodo si scoprono in genere nuovi aspetti dell’altro, alcuni graditi ed altri meno. Contemporaneamente alcune delle caratteristiche originali che avevano determinato la scelta vengono perdute. Il costituire una novità e l’essere imprevedibile cessano e l’altro diventa più scontato e consueto, la bellezza e la prestanza fisica sono tutte caratteristiche che tendono ad attenuarsi col tempo per non considerare cambiamenti bruschi e imprevisti derivanti da malattie, incidenti e contingenze negative d’ogni sorta. Insomma, in linea di massima l’altro peggiora ai nostri occhi e noi ai suoi. Eppure almeno parzialmente in buona fede affermiamo che l’altro è il nostro “Tu” (con la “T” maiuscola) e non lo sostituiremmo con nessuno anche se vistosamente cambiato.

Cosa è dunque che ci fa persistere nella relazione con un soggetto che se incontrassimo adesso non sceglieremmo assolutamente e che non ha più gran parte delle caratteristiche che ce lo avevano fatto preferire? Per certi versi entra in gioco il cosiddetto “bias dei costi sommersi” per cui il valore di un certo oggetto è dato dalla somma del suo valore reale aumentato delle risorse che vi abbiamo investito per cui è difficile abbandonare imprese su cui si è speso molto anche quando si mostrano chiaramente fallimentari (questa trappola spesso mantiene situazioni di grande sofferenza e addirittura pericolose) (Kanheman, 2011). Ma c’è qualcosa di più. L’altro è diventato il testimone di noi stessi, di chi siamo, è lo specchio fedele che ci rimanda la nostra identità. Non c’entra molto etimologicamente con il termine “riconoscenza”, ma è attraverso lui che riconosciamo noi stessi. E’ questo che ce lo rende prezioso normalmente e, al contrario, odiosissimo quando viviamo una conversione radicale o una rivoluzione kunhiana della nostra identità (Khun, 1962), perché ci ricorda come eravamo e non siamo più (a volte si evitano le persone che ci hanno aiutato nei momenti di grave difficoltà proprio perché ci ricordano il nostro essere stati bisognosi). Questa funzione dell’altro rimanda al primo problema e cioè come facciamo a riconoscerci e ad affermare che siamo gli stessi di 40 anni fa nonostante il fisico e la mente siano radicalmente cambiati. L’unico invariante è che restiamo i protagonisti di quella storia che ci narriamo continuamente come la “nostra storia”, non importa quanto effettivamente corrispondente alla realtà. È  il sé mnemonico ad essere il sostegno dell’identità e suoi indispensabili complici sono quegli interlocutori che scegliamo come testimoni privilegiati che proprio per questo sono tanto importanti e non vogliamo perdere. Ci reggono il gioco nel credere di essere quello che ci piace credere di essere. Questo val bene l’impegno di non lasciarli mai, qualsiasi cosa accada nella buona e nella cattiva sorte e siamo pronti a ricambiarli con la stessa moneta. Siamo specchi gli uni per gli altri e, come il famoso specchio della regina, ci diciamo quello che vogliamo sentirci dire, che siamo i più belli del reame, che Biancaneve è brutta e antipatica e, contemporaneamente, fuggiamo o puniamo chi accenna a dire che il re è nudo (Recalcati, 2014).

In sintesi, se l’innamoramento con la sua passionalità ed esclusività rappresenta la spinta alla procreazione, l’amore è connesso soprattutto con l’identità e privilegia la durata rispetto all’intensità ed è evolutivamente importante per l’allevamento della prole (Zeki, 2007).

 

Curare l’insonnia senza farmaci. Metodi di valutazione e intervento cognitivo-comportamentale (2015) di Devoto e Violani – Recensione del libro

Curare l’insonnia senza farmaci è uno di quei libri che non deve mancare nella libreria di un professionista della salute mentale.

Pizzo Denise – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Mestre

 

Edito da Carocci Faber, questo libro scritto a quattro mani da Alessandra Devoto e da Cristiano Violani, entrambi psicologi e docenti, esperti in valutazione e trattamento dei disturbi del sonno, è un manuale specialistico rivolto a psicologi clinici e psicoterapeuti che desiderano una guida valida ed efficace per valutare e trattare l’insonnia, in ottica CBT.

Molto spesso accade che nei nostri studi vengano pazienti che lamentano problematiche legate al sonno. Grazie a questo manuale è possibile comprendere la natura dell’insonnia e in quali casi il trattamento CBT-I è indicato.

La Cognitive Behavioral Therapy for Insomnia (CBT- I) è un protocollo breve indicato per il trattamento non farmacologico dell’insonnia primaria e cronica.

Il volume si articola in sei capitoli, in cui si affrontano in modo chiaro, saliente e ordinato le tematiche relative all’insonnia. Nel testo non vengono esemplificati casi clinici o resoconti di protocolli; il linguaggio è specialistico ma scorrevole.

Nel primo capitolo vengono definiti i criteri etiologici per la valutazione dell’insonnia. Dopo un’attenta e puntuale definizione di ‘insonnia’, secondo le classificazioni internazionali dei disturbi del sonno (ASDA, 1990, 1997, 2005, rispettivamente ICSD, ICSD-R, ICSD-2), curate dall’American Sleep Disorders Association (ASDA), gli autori si apprestano a distinguere i diversi tipi di insonnia; sottolineando l’importanza del trattamento cognitivo- comportamentale per chi lamenta insonnia primaria e cronica. L’insonnia è considerata cronica o persistente quando dura da almeno un mese (DSM- IV- TR, 2000), e, più tipicamente, per sei mesi e oltre (ISCD-R, ASDA, 1997). Vengono ben descritti e quantificati anche i diversi parametri necessari per un’attenta valutazione dell’insonnia. Nello specifico, il Sleep Onset Latency (SOL) o latenza di addormentamento e il Wakefulness After Sleep Onset (WASO) o quantità di veglia intranotturna. L’insonnia con difficoltà di addormentamento e quella con difficoltà di mantenimento del sonno vengono rispettivamente definiti da SOL e/o WASO superiore ai 30 minuti. Il risveglio precoce è definito come tale quando è caratterizzato da: un risveglio anticipato di più di 30 minuti rispetto a quanto desiderato, la presenza di un tempo totale di sonno minore di 6-6,5 ore. La durata del sonno non rientra tra i parametri quantitativi da considerare: in quanto varia fortemente in funzione dell’età e delle differenze individuali. Una misura utile per la valutazione dell’insonnia è l’Indice di Efficienza del Sonno (IES) corrispondente al rapporto tra Tempo Totale di Sonno (TTS) e Tempo Totale di Letto (TTL) moltiplicato per 100. Uno IES inferiore all’85% è considerato indicativo di problemi di insonnia, infatti, tipicamente gli insonni tendono a stare molto tempo a letto, anche se svegli.

Gli autori distinguono poi l’insonnia primaria dall’insonnia secondaria: in quest’ultima il disturbo del sonno è etiologicamente dipendente da un’altra condizione medica o psichiatrica sottostante. Vengono elencate e ben descritte poi le cinque categorie di insonnie primarie, secondo la tassonomia definita dall’ICSD-2 (ASDA, 2005): disturbo da insonnia da adattamento (o insonnia situazionale/transitoria/acuta), insonnia psicofisiologica, insonnia soggettiva (o insonnia paradossale/da mispercezione del sonno o pseudoinsonnia), insonnia da inadeguata igiene del sonno, insonnia idiopatica. Tra le insonnie secondarie, particolare attenzione va data all’insomnia rebound determinata dalla sospensione dei sedativi ipnotici o ansiolitici. In questo caso, il paziente si trova in un vero e proprio ‘vicolo cieco’: con l’uso prolungato del farmaco si sviluppa tolleranza e dunque il paziente sarà portato ad aumentare il dosaggio per ottenere gli effetti terapeutici iniziali; una volta raggiunto il massimo dosaggio, questo non funziona più, perciò il paziente dismetterà il farmaco (ormai inutile) e questo causerà un peggioramento transitorio delle difficoltà di sonno con la conseguenza finale di riassumere il farmaco. È importante rassicurare il paziente circa la natura transitoria degli effetti della sospensione del farmaco.

Nel secondo capitolo vengono descritti minuziosamente i modelli teorici principali che attivano e mantengono l’insonnia. Da cosa dipende l’insonnia? Gli autori descrivono sia i meccanismi patofisiologici che quelli psicologici, andando a offrire una cornice esplicativa integrata dell’insonnia primaria. All’insorgenza dell’insonnia contribuiscono i fattori genetici e familiari: in particolare, dell’insonnia idiopatica, a insorgenza infantile (Hauri, Olmstead, 1980; Bastien, Morin, 2000). Secondo la ricerca empirica, anche l’iperarousal gioca un ruolo importante nella determinazione dell’insonnia primaria. Lo stato di eccessiva attivazione cronica del sistema nervoso centrale e/o del sistema nervoso autonomo causa problematiche relative al sonno (Perlis et al., 1997; Bonnet, Arandt, 1998), manifestandosi come arousal corticale, arousal autonomo e come arousal cognitivo- emotivo. I vari tipi di arousal vengono rilevati con strumentazioni apposite: rispettivamente, misure elettroencefalografiche e di neuroimaging, misure elettrofiologiche e neuroendocrine, self- report.

In questo capitolo, Devoto e Violani illustrano in modo chiaro i fattori omeostatici e circadiani implicati nel sonno, conoscenze fondamentali per una corretta e puntuale valutazione e quindi trattamento dell’insonnia. Dall’inizio degli anni ottanta è ampiamente accettato che il sonno è regolato da due processi (Borbely, 1982). Secondo il Modello del doppio processo di regolazione del sonno, il ciclo sonno- veglia è regolato da due fattori: un fattore di tipo omeostatico (Processi S) e un fattore di tipo circadiano (Processo c). Questi due fattori si combinano nel risultante ciclo sonno- veglia, determinando le soglie dell’addormentamento (H) e del risveglio (L).

Il Modello delle 3P, originariamente proposto da Spielman e collaboratori (Spielman, 1986; Spielman, Glovinsky, 1991) spiega, invece, come il disturbo dell’insonnia si cronicizza. Vi sono alcuni fattori predisponenti (per es., predisposizione all’iperarousal, stile cognitivo ipervigile, presenza di psicopatologia ansioso-depressiva, storia di familiarità per l’insonnia, genere femminile, età avanzata); i fattori precipitanti contribuiscono all’esordio del disturbo (per es., perdite personali, problemi o preoccupazioni familiari e di salute, problemi di lavoro, situazioni di stress cronico); i fattori perpetuanti lo mantengono attivo (per es., assunzione di ipnoinducenti, aumento del tempo trascorso a letto e dei sonnellini diurni).

Gli autori poi riportano tre modelli psicologici che spiegano l’etiologia dell’insonnia primaria. Uno dei primi modelli che integra l’eccesso di arousal è stato quello di Morin (1993) che riconosce l’importanza dei fattori cognitivi e comportamenti che predispongono all’insonnia. Nel modello psicobiologico dell’inibizione proposto da Espie (2002), l’arousal alla base dell’insonnia primaria viene visto come un’inibizione della de-attivazione che normalmente precede il sonno: perché vi sia un sonno normale si assume che vi sia una parallela de-attivazione sia dell’arousal fisiologico sia dell’arousal cognitivo. L’enfasi sui processi cognitivi è presente anche in più recenti modelli psicologici sull’insonnia primaria. In particolare, secondo il modello cognitivo dell’insonnia di Harvey (2002, 2005) l’insonnia primaria è sostenuta da una serie di processi cognitivi attivi sia di notte che di giorno.

Nel terzo capitolo del manuale ci si addentra nella valutazione clinica dell’insonnia, con particolare attenzione all’analisi differenziale. In appendice A vengono riportati i test: intervista strutturata sui disturbi del sonno, diario del sonno (sia verbale che grafico- con calcolo dei parametri del sonno), l’Insomnia Severity Index (ISI; Bastien, Vallières, Morin, 2001) che valuta la gravità percepita dell’insonnia nelle ultime due settimane, il Dysfunctional Beliefs and Attitudes about Sleep- 16 (DBAS-16; Morin, Vallières, Ivers, 2007) che valuta le cognizioni disfunzionali relative al sonno, l’Insomnia Self-efficacy Scale (ISES; Violani, 2009) composto di 12 domande che riguardano cosa il paziente pensa attualmente del suo sonno, il Morningness- Eveningness Questionnaire (MEQ; Violani, Catalani, Cariani, 1992; adattamento italiano da Horne, Ostberg, 1976) che distingue tra ‘tipi mattutini’ e ‘tipi serotonini’ e il Questionario Igiene del Sonno (IS; Violani, 2009) che valuta gli aspetti di gestione del quotidiano (abitudini, routine, comportamenti alimentari e sportivi) che nell’ultimo mese possono aver influenzato il sonno del paziente. Nell’appendice viene suggerito anche il Glasgow Sleep Effort Scale (Broomfield, Espie, 2005) che valuta l’ansia di prestazione rispetto al proprio sonno e viene suggerito dove trovare la versione italiana.

Oltre a riportare il test da somministrare e lo scoring, gli autori presentano dei consigli molto utili per presentarli ai pazienti, incrementando la motivazione al trattamento (secondo il modello transteorico di Prochaska e DiClemente, 1992).

Particolare attenzione viene data anche alla disamina dei principali strumenti usati per rilevare l’andamento obiettivo del sonno: la polisonnografia notturna (PSG) e l’actigrafia. La disamina verte sulla spiegazione di cosa sono e come funzionano e quali sono i parametri monitorati. Interessanti le ricerche riportate in merito all’utilità di tali strumenti. Le ricerche documentano che sia la polisonnografia che l’actigrafia sono utili per la diagnosi di insonnie secondarie e altri disturbi del sonno e per le insonnie soggettive (o paradossali), ma, generalmente, non sono da ritenersi indispensabili per le insonnie psicofisiologiche e per le insonnie primarie.

Di nuovo, gli autori ribadiscono l’importanza di fare diagnosi differenziale, soffermandosi in modo accurato su  quali sono le principali condizioni mediche e psichiatriche che condizionano negativamente il sonno.

Nel quarto capitolo si fa specificamente riferimento al trattamento cognitivo- comportamentale. Il CBT-I è la terapia di elezione per la cura dell’insonnia primaria (Morin et al., 1999; Perlis et al., 2003; Morin et al., 2006). La CBT si basa su un intervento psicologico multicomponenziale, in cui convergono diverse tecniche che mirano ad affrontare l’insieme dei fattori cognitivi e comportamentali alla base dell’insonnia primaria. Tali fattori svolgono un ruolo fondamentale nel mantenere questo disturbo, come descritto da Morin & Espie (2004) e risultano determinanti nel CBT-I. Il protocollo risulta, inoltre, coerente con i modelli psicofisiologici correnti di regolazione del sonno, accuratamente descritti nel capitolo 2 e qui ripresi.

Gli autori specificano la durata del protocollo e la sua articolazione, nel complesso e nella singola seduta.

Vengono quindi descritte, passo passo, le principali tecniche cognitivo- comportamentali utilizzate nel CBT-I: controllo degli stimoli, restrizione del sonno (con anche indicazioni quantitative), igiene del sonno (con regole per una corretta gestione del sonno), tecniche di rilassamento (tra le quali, rilassamento progressivo di Jacobson, tecniche di imagery, training autogeno, meditazione) e tecniche cognitive.

L’uso delle tecniche cognitive per il trattamento dell’insonnia è una componente cruciale del CBT-I. Vi è un generale accordo tra gli studiosi dell’insonnia che sia un disturbo alimentato e perpetuato da fattori cognitivi disfunzionali che aumentano le preoccupazioni, le profezie negative e la perdita di self-efficacy e, a loro volta, sostengono comportamenti disadattavi per il sonno (Edinger, Means, 2005). Le principali categorie cognitive considerate da Morin (1993) sono: aspettative irrealistiche sulle necessità di sonno, valutazioni errate sul disturbo del sonno, attribuzioni erronee rispetto ai deficit diurni, concezioni erronee rispetto alla cause dell’insonnia. Oltre a tali credenze erronee, le persone con insonnia sono soggette ad altri errori cognitivi (Beck, Ermery, Greenberg, 1985) che contribuiscono ad amplificare e a perpetuare il disturbo. Questi comprendono: eccessiva ruminazione o preoccupazioni ossessive per il sonno, pensieri catastrofici, rigidità di pensiero, ricordi selettivi. Identificare le cognizioni disfunzionali riguardo al sonno è il primo passo della terapia cognitiva (per fare questo, oltre al colloquio clinico, si posso usare i diari, il DBAS-16 e l‘ISES). Il secondo passo, consiste nell’incoraggiare il paziente a riconsiderare le sue convinzioni non come le uniche possibili, ma come una delle varie eventualità possibili. Si conclude poi con la ristrutturazione cognitiva, tipica della CBT. Nel capitolo, vengono riportate le tipiche credenze disfunzionali, sostituite da pensieri più utili e adattivi. Gli autori suggeriscono l’impiego di altre tecniche cognitive, quali la tecnica del controllo cognitivo (per es., la worry chair) e la tecnica dell’intenzione paradossale, più di matrice strategica. Una cosa apprezzabile è la discussione in merito all’integrazione di ogni singola tecnica con le altre tecniche previste nel CBT-I.

Nel quinto capitolo vengono riportarti i principali studi che hanno dimostrato l’efficacia del CBT-I rispetto ad altri trattamenti, le indicazioni e le controindicazioni per l’attuazione del CBT, anche grazie all’aiuto di una rappresentazione grafica esemplificativa e immediata (adattata da Smith, Perlis, 2006); infine, viene affrontato il problema della compliance al trattamento.

Nello specifico, vengono riportanti i cambiamenti quantitativi dei parametri del sonno e viene comprovata l’efficacia del trattamento CBT integrato rispetto alle singole tecniche cognitivo- comportamentali e ai trattamenti farmacologici, nelle insonnie primarie. Interessanti le ricerche riguardo la combinazione di CBT e trattamento farmacologico rispetto gli outcome del trattamento.

Nel sesto, si evidenziano le peculiarità del trattamento CBT-I in particolari condizioni mediche e di vita. Alcune malattie a forte impatto fisico ed emotivo tra cui neoplasie, HIV e dolore cronico (come artrite, fibromialgia) determinano spesso problemi di sonno e, per alcune di esse, sono stati sviluppati protocolli CBT specifici per la cura dell’insonnia.

Un paragrafo è dedicato al protocollo CBT per l’insonnia concomitante a patologie psichiatriche. Spesso, pazienti con disturbo di depressione maggiore, disturbo bipolare e disturbi d’ansia lamentano insonnia. La regola generale è quella di trattare il disturbo che il paziente lamenta maggiormente e che risulta più invalidante (e quindi valutare anche la psicoterapia). Sebbene vi siano alcune evidenze del fatto che la CBT per l’insonnia possa essere efficace per i pazienti con concomitanti disturbi psichiatrici (Kuo, Manber, Loewy, 2001; Manber et al., 2008), vi sono pochi dati utili a definire come e se adattare la CBT per l’insonnia con i pazienti con concomitanti disturbi psichiatrici. Interessante il paragrafo sugli effetti dell’alcol sul sonno.

Nel capitolo vengono anche date alcune indicazioni per la valutazione dell’insonnia per pazienti di particolari fasce di età (bambini, adolescenti, anziani). I dati epidemiologici indicano che negli anziani l’insonnia ha una maggiore prevalenza rispetto agli adulti più giovani. Nella valutazione iniziale dell’insonnia, è raccomandata la polisonnografia (PSG) e il CBT-I risulta particolarmente preferibile all’intervento farmacologico. Negli adolescenti si assiste a importanti cambiamenti nel sonno dovuti a mutamenti sociali ed evolutivi. Qui il CBT-I appare molto vantaggioso per l’esordio, in genere recente, che permette l’interruzione (quasi) immediata di comportamenti disfunzionali e la valutazione del disturbo del sonno può rappresentare un’occasione di diagnosi e intervento precoce su eventuali disagi psicologici che possono accompagnare l’insonnia. Con i bambini, si lavora molto sui comportanti dei genitori che fungono da rinforzo all’insonnia infantile.

Il paragrafo finale viene dedicato al sonno nella donna in gravidanza: tipicamente, in questa particolare fase di vita, il sonno subisce delle modificazioni. Il CBT-I risulta indicato qualora non emergano altri disturbi del sonno sottostanti (cioè disturbi respiratori, disturbi motori).

Nelle appendici, utilissime, vengono riportati i test con gli scoring; i centri dei medicina per il sonno, regione per regione; due questionari di screening per la valutazione preclinica delle insonnie;  i principali sedativi ipnoinducenti (benzodiazepine, farmaci ipnoinducenti non benzodiazepinici, antidepressivi, antistaminici, melatonina e prodotti da erboristeria) con meccanismi fisiologici d’azione e principali effetti collaterali.

Consiglio ai colleghi psicologi la lettura di questo manuale. Chiaro, puntuale, non noioso: offre tutti gli strumenti utili atti ad una precisa valutazione e trattamento dell’insonnia primaria che spesso riscontriamo nei pazienti.

 

La Regina degli Scacchi: timore di perdere o di vincere? – Recensione

La Regina degli Scacchi, la nuova miniserie firmata Netflix tratta dall’omonimo romanzo di Walter Travis del 1983, è un vero e proprio capolavoro ricco di ingredienti che la rendono magica e affascinante, dalla sceneggiatura alle sfumature psicologiche della protagonista.

 

Attenzione, l’articolo può contenere spoiler

Elizabeth Harmon, rimasta orfana di madre a seguito di un incidente stradale, provocato volontariamente dalla madre in un vero e proprio atto suicidario, inizia una nuova vita di solitudine all’interno di un orfanotrofio cristiano, dove le piccole ospiti vengono cresciute impettite, a suon di regole e pillole per l’umore. La piccola Beth trova un angolo di conforto e fuga nello scantinato dell’istituto, dove un vecchio custode se ne sta in disparte a giocare a scacchi da solo. Col suo modo burbero, asciutto e sospettoso, insegna alla sua nuova allieva i segreti degli scacchi, facendo emergere in lei un vero e proprio talento naturale.

La Regina degli Scacchi non è solo una storia di enfant prodige, né aspettatevi di trovare il classico cliché di genio e follia. Nonostante il formidabile talento si intrecci più volte con l’abuso di alcol e psicofarmaci, in Elisabeth c’è molto di più. La profonda incapacità di entrare in contatto con i vissuti emotivi rende la sua mente estremamente razionale, analitica, tanto da riuscire a sostenere situazioni ad alto livello di stress senza il minimo indugio. La personalità marcatamente evitante e una profonda alessitimia rendono la protagonista tanto affascinante quanto impenetrabile, sfuggente e per certi versi audace nelle scelte e nello stile di vita.

Come si intreccia questo quadro con l’abuso di sostanze? La dipendenza dalle pillole verdi, nata in orfanotrofio, è un file rouge che a un certo punto si intreccia con la dipendenza da alcol, proprio in coincidenza con l’avanzamento inarrestabile della sua carriera.

La sfida con il campione del mondo russo, Borkov, è sempre più vicina, manca una sola notte, e proprio quella notte Elisabeth manda all’aria i suoi piani per trascorrere una notte di disregolazione, tanto da arrivare alla partita ancora ubriaca. Sembrerebbe una classica reazione al timore di perdere, di non essere all’altezza di una sfida così importante e fantasticata tutta la vita. Eppure c’è qualcosa di più, che forse si può scorgere durante la partita con un giovanissimo sfidante di soli 13 anni. Quando lui le rivela il suo grande sogno di diventare campione del mondo a 16 anni, lei ribatte: ‘Se vincerai, dopo cosa verrà? Se vinci i mondiali a 16 anni, cos’altro ti rimarrà da fare?’. Un veloce e criptico scambio di battute, che credo raccolga l’emblema della sofferenza di Elisabeth. Una vita trascorsa al riparo dal disamore e dalla solitudine grazie agli scacchi, in cui lei stessa non è la regina ma il re, forte solo se protetta dallo scudo degli scacchi stessi. Cosa ne sarebbe della sua esistenza, una volta raggiunto il traguardo più alto? A quali rischi potrebbe esporsi e a che prezzo? In quest’ottica, l’abuso e la disregolazione non sono allora un sottile tentativo di auto-boicottaggio, in cui vincere fa tremendamente paura come il venir meno di un paracadute in caduta libera?

In sole sette puntate la vita di Elisabeth subirà moltissimi cambiamenti, tra i più importanti ci sarà un’altra vittoria, quella di riuscire a costruirsi une rete di veri amici, che daranno un nuovo senso alla sua vita. Non vi dico se alla fine diventerà la campionessa del mondo, ma di una cosa sono certa, sentirete anche voi il bisogno di spolverare la vostra vecchia scacchiera e di guardarla come se non l’aveste mai vista prima.

 

LA REGINA DEGLI SCACCHI – Guarda il trailer:

https://www.youtube.com/watch?v=Ya1MgSu8Pxc

Attaccamento insicuro e acquisti compulsivi nel disturbo da accumulo: il ruolo dell’intolleranza al disagio e dell’antropomorfismo

Il disturbo da accumulo si caratterizza per l’incapacità di scartare beni e dal disordine conseguente che arriva a compromettere l’uso della propria abitazione (American Psychiatric Association, 2013).

 

Due terzi di questi soggetti manifestano un aggravamento della psicopatologia per la presenza di problematiche di acquisto compulsivo, ma i fattori che contribuiscono a questo aspetto sono stati poco indagati dalla ricerca.

Coloro che tendono all’accumulo sono spesso socialmente isolati, con difficoltà interpersonali e traggono un senso di sicurezza dall’acquisto di beni piuttosto che da relazioni umane reciproche, soprattutto se queste sono sentite come inaffidabili e di scarso supporto (Steketee et al., 2001; Tolin et al., 2008).

Tuttavia, l’uso di oggetti come fonte di conforto non è esclusivamente patologico; sia i bambini nel gioco, che gli adulti, li utilizzano per indurre stati di benessere. Il motivo per cui questa tendenza è aggravata tra coloro con disturbo da accumulo può essere ricondotta allo stile di attaccamento.

Lo stile di attaccamento influenza le abilità di regolazione emotiva, di autocontrollo e l’impegno nelle interazioni sociali (Sroufe, 2005): mentre chi presenta uno stile sicuro ha un solido senso del proprio valore personale e percepisce l’altro come affidabile, gli insicuri (ansiosi ed evitanti) mostrano comportamenti disadattivi e problemi interpersonali (Graham & Unterschute, 2015).

Coloro con attaccamento ansioso, avendo interiorizzato l’indisponibilità dell’altro, si rivolgono agli oggetti per ottenere supporto emotivo e compensare l’assenza di connessioni umane. Lo stile ansioso infatti, si associa a forti valori materialistici (Norris et al., 2012), attaccamento emotivo agli oggetti (Keefer et al., 2012) e maggiori tendenze all’accumulo (Medard & Kellett, 2014).

La tendenza ad antropomorfizzare i beni attribuendo loro qualità, motivazioni ed emozioni umane, spiega l’ansia da separazione che viene sperimentata in seguito alla perdita di un oggetto prezioso, per cui si aggrappano ad esso saldamente, rafforzando la convinzione che sia necessario.

La letteratura corrente individua una correlazione tra attaccamento ansioso e antropomorfismo; quest’ultimo associato a comportamenti di accumulo e difficoltà a scartare oggetti, ma soprattutto alla tendenza a compiere acquisti compulsivi (Burgess et al., 2018; Neave et al., 2016).

L’attaccamento ansioso, può indurre all’acquisto compulsivo mediante la presenza dell’intolleranza al disagio (Phung et al., 2015); che rimanda all’incapacità di gestire le risposte emotive e alla mancata accettazione delle emozioni spiacevoli percepite insopportabili (Simons & Gaher, 2005).

Lo studio di Norberg et al. (2018), ha indagato l’influenza dello stile di attaccamento ansioso sulla tendenza a compiere acquisti eccessivi, analizzando separatamente il contributo di due aspetti: l’intolleranza al disagio e la tendenza ad antropomorfizzare gli oggetti confortanti. Essendo plausibile che l’intolleranza all’angoscia possa condurre all’antropomorfismo per la necessità di ricercare conforto, è stato testato anche un modello di mediazione seriale (ovvero attaccamento insicuro che porta intolleranza al disagio, che conduce all’antropomorfismo che a sua volta determina acquisti eccessivi).

Inoltre, sia comportamenti di acquisto eccessivo che l’acquisizione eccessiva di beni gratuiti possono contribuire a problematiche di accumulo, dunque le ipotesi precedenti sono state testate separatamente per entrambi gli esiti comportamentali.

Il campione era composto da 361 partecipanti con problemi di acquisto eccessivo subclinico e disturbo da accumulo conclamato. Coerentemente con la letteratura, una maggiore gravità della patologia era emersa tra coloro che effettuavano acquisti compulsivi (Frost et al., 2009, 2013).

Coloro con attaccamento ansioso avevano riportato una maggiore tendenza a compiere acquisti compulsivi ma anche ad acquisire beni gratuiti; con entrambe le relazioni completamente mediate dall’intolleranza al disagio e dall’antropomorfismo.

Lo studio conferma un modello di mediazione doppio; con l’attaccamento ansioso legato da un lato all’intolleranza verso il disagio e dall’altro ad una maggiore tendenza ad antropomorfizzare oggetti confortanti, nell’associazione con gli acquisti eccessivi. La mediazione seriale non era supportata in quanto l’intolleranza al disagio non influenzava l’antropomorfismo e, presa singolarmente, era un mediatore migliore di questo.

Tra gli individui insicuri, l’intolleranza al disagio influisce in misura maggiore dell’antropomorfismo nell’acquisto di beni ma non nella loro acquisizione gratuita; questo viene ricondotto alla diversa tipologia di oggetti che vengono acquistati rispetto a quelli raccolti gratuitamente. Spesso questi ultimi non hanno valenza affettiva, mentre quelli che vengono acquistati non sono solo utili, ma istillano un senso di appartenenza e autostima.

Coloro che accumulano possono acquistare oggetti per raggiungere uno stato di sicurezza, anche a costo della perdita progressiva di legami sociali. Tuttavia, come emerge da questa ricerca, più che esserne la conseguenza, la disconnessione sociale è parte della causa, e deriva da un attaccamento insicuro, connotato da difficoltà nella gestione e tolleranza delle emozioni negative da un lato e dalla tendenza all’antropomorfismo dall’altro.

Nel trattamento per il disturbo da accumulo si dovrebbe lavorare in fase preliminare sulla tolleranza al disagio e l’accettazione emotiva mediante interventi di psicoeducazione, strategie dell’Acceptance and Commitment Therapy (Hayes et al., 2012) e della Terapia Dialettico Comportamentale (Linehan, 2015), volte a ridurre problemi di acquisto compulsivo e il rischio di abbandono del trattamento successivo.

La ristrutturazione cognitiva permette di contrastare i pensieri legati all’antropomorfismo, insegnando agli accumulatori compulsivi modalità più funzionali per ricevere supporto. Inoltre, la Terapia Dialettico Comportamentale (Linehan, 2015), permette l’acquisizione di abilità di efficacia interpersonale, facilitando la costruzione di relazioni stabili che contrastano l’isolamento e l’investimento affettivo verso gli oggetti.

 

Caino nella terra del rimorso

Recuperare come società il dovere etico e morale di prendersi cura di chi ha un disagio, dovrebbe essere il tema principale di cui discutere quando avviene una tragedia di sangue, poiché molte ancora possano essere prevenute elaborando quei traumi sociali che come miti familiari si perpetuano di generazione in generazione, causando non più tarantati, né santi ed eroi portatori di una concretizzazione del simbolo, ma ciò che i giornali chiamano ‘mostri’.

 

Salento, «terra del rimorso», «terra del passato che torna e opprime col suo rigurgito».

Questa è la prima frase che si legge sulla quarta di copertina del libro di Ernesto De Martino, noto etnologo e antropologo che si occupò principalmente dei culti, sacri e civili, e delle tradizioni del meridione, da figlio partenopeo qual era.

Ne La terra del rimorso, De Martino descrive il retroterra e la subcultura rurale salentina da cui emerse il fenomeno del tarantismo, ‘antico rito contadino caratterizzato dal simbolismo della taranta – il ragno che morde e avvelena – e dalla potenza estatica e terapeutica della musica e della danza’. Della Comunità, soprattutto, che prendeva in carico e in cura la persona che gridava in tal modo il proprio disagio, e attraverso la musica e la danza le si stringeva intorno, lenendo la sua sofferenza.

Secondo Giovanni Jervis, lo psichiatra presente nell’équipe dell’antropologo, il concetto che meglio rispecchia i cicli di crisi e di riscatto dei tarantati è quello di ‘nevrosi’. Ma si tratta di un concetto-limite, poiché il fenomeno non denotava un conflitto tra pulsione naturale (ad esempio sessuale) e un dettame sociale (‘non si fa’), bensì un contrasto tra due pulsioni culturalmente indotte: per dirla con le parole di Lichtenberg e della psicoanalisi contemporanea, tra il sistema motivazionale dell’avversività – il bisogno di ribellarsi alla società che aveva scatenato il sintomo – e il sistema motivazionale dell’attaccamento/affiliazione – il bisogno allo stesso tempo di essere da questa riconosciuti, amati, curati. A questi si potrebbe aggiungere anche il bisogno di assertività, di esserci e lasciare traccia di sé. La società, con i suoi dettami culturali e familiari spesso ambigui e contraddittori, era la causa dell’isteria, quel ragno che morde e avvelena, la terra del rimorso: in altre parole del non detto, del figurato, dell’inconscio. Una terra solitamente matriarcale in cui a qualsiasi bisogno e motivazione del singolo veniva anteposta la famiglia, in una costante incapacità di differenziazione e di separazione-individuazione. Tuttavia, quella stessa società a sua volta era chiamata a fare ammenda, a curare, mantenendo in equilibrio la persona, ‘dando una forma storicamente plausibile a un rischio angoscioso e senza nome’.

Società tra colpa e accudimento: prendersi cura di chi ha un disagio

Imm. 1 – Curing Tarantism by Dancing the Tarantella

Il rimorso è al tempo stesso un luogo ancestrale, nascosto e inospitale, che alberga nel profondo di ognuno in ogni era e luogo. E’ la zona franca in cui gli istinti primordiali, le sofferenze e le angosce dei nostri antenati corrodono, tarlano, manipolano il vivere quotidiano, lì dove non viene riconosciuta la propria identità, finché non si intraprende un percorso di catarsi.

In un’epoca come quella in cui viviamo, individualistica e globalizzata già prima del Covid, ma che negli ultimi tempi, giustamente, ha aggiunto anche una maggiore distanza sociale e isolamento, l’individuo non può più contare sull’altro per elaborare quei traumi relazionali e sociali che come miti familiari si perpetuano di generazione in generazione, causando dei paria distruttivi: non più tarantati, né santi e eroi portatori anch’essi di una concretizzazione del simbolo, ma ciò che i giornali chiamano ‘mostri’.

E il passato che torna e opprime con il suo rigurgito, porta all’esasperazione di un giovane che grida il suo disagio nel modo più atroce e efferato possibile, ponendo fine a delle vite e alla sua stessa umanità: per vendetta, attua una covata e ben studiata carneficina verso coloro che lo avevano tagliato fuori dalla loro vita vista come perfetta e ovattata, ricalcando probabilmente il suo vissuto di emarginazione e portandolo a inscenare sadicamente la sua sofferenza. Qualche anno prima, una giovane pone fine alla vita della cugina, Sarah Scazzi, sempre perché la rabbia e l’invidia covata per la ragazzina, che le stava portando via il carisma che aveva sul gruppo e la persona amata, esplode in un raptus omicida. Notevole come la nevrosi sociale ritorni sempre come un mantra: il conflitto tra bisogno di affiliazione e avversività ha scatenato nei singoli l’invidia omicida.

Da odierni Caino, portano addosso il trauma familiare dell’Eden desiderato e perduto, e odiano la felicità altrui. L’invidia stessa non è altro che l’odio scaturito da un fortissimo desiderio. Luke Burgis, imprenditore e filosofo americano appassionato di storia dell’umanità, accomuna tutti i periodi di crisi della società, tarantismo compreso, a una ‘crisi del desiderio’. Citando la teoria del desiderio mimetico del polimatematico René Girard, l’autore spiega come la storia opera nei cicli del desiderio. Imitiamo i desideri degli altri senza la consapevolezza che stiamo imitando, e questo porta alla rivalità e al conflitto con altre persone, e può inghiottire una comunità o una società nel caos. ‘Per Girard’, continua Burgis, ‘riti strani come il tarantismo potevano essere compresi solo comprendendo uno strato più profondo della psicologia umana: il luogo in cui il desiderio nasce e prende forma. Il modo in cui risolviamo i desideri frustrati – individualmente e in comune – è la chiave per comprendere il comportamento umano quando la medicina, l’economia e tutte le forme di scientismo si agitano’.

Dalla ricerca condotta ben sei decenni fa, De Martino aveva colto inoltre degli elementi simbolici ricorrenti che ricalcavano la vita e la discesa agli inferi dei tarantati: il periodo di vita in cui insorgeva tale disagio, simbolizzato dal morso del ragno, ossia la tarda adolescenza-prima età adulta, una situazione traumatica o di crisi (matrimoni forzati, amori impossibili, la perdita del lavoro, ecc.) e la ritualità sacra che si rifaceva a San Paolo, protettore dei tarantati, che avrebbe concesso la grazia della guarigione. Il rituale sacro e quello civile della comunità sentita come vicina e accogliente, un rito iniziatico, ‘ripetuto nel tempo e ordinato da regole antichissime’ e volto a prendere in carico ed esorcizzare il desiderio frustrato, non può più rimettersi in atto al giorno d’oggi, tuttavia, come dimostra l’antropologo nel suo scritto, ha avuto per secoli la funzione di scongiurare le ansie di un’esistenza segnata dal disagio o dall’emarginazione.

La psicologia, la psicoanalisi, la psicoterapia, seppur recenti nel vasto mondo delle scienze, ereditano il valore antropologico e terapeutico che in maniera inconsapevole e primitiva hanno svolto questi rituali e che continuano a svolgere in aree sperdute della terra, avendo lo stesso fine: ‘un dispositivo simbolico mediante il quale un contenuto psichico conflittuale che non aveva trovato soluzione sul piano della coscienza, e che operava nell’oscurità dell’inconscio rischiando di farsi valere come sintomo nevrotico, viene evocato e configurato su un altro piano (mitico-rituale nel caso del tarantismo, relazionale-fenomenologico nella relazione terapeutica), e su tale piano fatto defluire e realizzato periodicamente, alleggerendo del peso delle sue sollecitazioni e facilitando periodi un relativo equilibrio psichico’.

Prendere in carico e riconoscere, rispecchiare, la persona come individuo permette di svolgere il processo identitario di cui ogni giovane ha bisogno e che non sempre appunto trova nella famiglia o nella società, sfociando talvolta, come abbiamo visto, in molti episodi di cronaca in un dolore e una rabbia malevola che non vede l’altro, che lo distrugge come essere inanimato.

Basti pensare al film che circa un anno fa ha riscosso critiche e riconoscimenti, il Joker di Todd Phillips, altro odierno Caino spinto dalla mancanza d’ascolto e di riconoscimento a trovare la propria malvagia identità nella rabbia distruttiva e nella vendetta, a farci comprendere che tali dinamiche non possono essere confinate a un unico retroterra culturale ma che rappresentano l’inconscio primitivo di qualsiasi società, anche la più evoluta. Lì dove l’individuo non riesce a riconoscersi, lì dove il desiderio rimane frustrato, appare ciò che Jung chiamava l’Ombra.

Recuperare come società il dovere etico e morale di prendersi cura di chi ha un disagio, dovrebbe essere il tema principale di cui discutere quando avvengono tragedie di questo genere, poiché molte ancora possano essere prevenute. Come ci si è mossi per preservare l’integrità fisica della persona, con l’assunzione di medici e infermieri nel periodo pandemico, così dovrebbe avvenire per l’integrità psichica, che, passo dopo passo stiamo vedendo franare davanti ai nostri occhi, con l’aumentare dei suicidi e delle esplosioni di violenza eterodiretta, senza poi chiedere a posteriori, come avrebbe detto il Joker in una terra del rimorso in stile newyorkese, ‘a chi ha una malattia mentale di comportarsi come se non ce l’avesse’.

Mosso da simili riflessioni De Martino arrivava infine a concludere che ‘per questo orientamento il simbolo della taranta comporta un ethos, cioè una mediata volontà di storia, un progetto di ‘vita insieme’, un impegno ad uscire dall’isolamento nevrotico per partecipare ad un sistema di fedeltà culturali e ad un ordine di comunicazioni interpersonali tradizionalmente accreditato e socialmente condiviso: un ethos che, per quanto elementare e storicamente condizionato, e per quanto ‘minore’ nel quadro della vita culturale dell’Italia meridionale, consente di qualificare il tarantismo come ‘religione del rimorso’ e come ‘terra del rimorso’ la molto piccola area del nostro pianeta in cui questa religione ‘minore’ vide per alcuni secoli il suo giorno’. Il rimorso di una società che cerca empaticamente e catarticamente di risollevare il singolo dai suoi traumi e disagi, molto spesso da essa stessa creati.

Il simbolismo della taranta rimane potente: la danza della tarantata la epurava dalla sua malattia, si credeva che lei stessa in quel momento ballasse con il ragno perché la miscela di sangue e veleno li univa, finché il veleno non fosse definitivamente estirpato. In altre parole: i musici, i chitarristi, la comunità che le si stringeva intorno non erano altro che quella società che l’aveva figurativamente morsa, e ora ballavano con lei, finché il veleno della colpa e del rimorso non fosse stato definitivamente esaurito. E’ necessario quindi impegnarci a trovare nuove narrazioni che possano intersoggettivamente nascere in seno a una crisi sociale come quella in cui stiamo vivendo, nuovi modi che possano far defluire il veleno prima che questo torni a distruggere ancora. Il prendersi carico della salute mentale, come abbiamo visto, potrebbe essere la soluzione.

 

Depressione post partum dei padri: fattori di rischio, di protezione e prevenzione

Vasta è la letteratura sulla depressione post-partum materna. Negli ultimi decenni l’interesse clinico e di ricerca si è spostato sulla depressione dei padri e sui possibili esiti e risvolti nella crescita dei figli.

 

Ciononostante, la conoscenza dei fattori di rischio della depressione paterna è scarsa. Alcuni studi hanno dimostrato che tra i fattori di rischio associati al disagio psicologico paterno prenatale è possibile includere un rapporto coniugale insoddisfacente, una scarsa rete sociale e informazioni insufficienti sulla gravidanza e il parto (Boyce et al., 2007). Altre ricerche hanno evidenziato come l’avere un rapporto non supportivo, la disarmonia coniugale, l’essere disoccupati, la giovane età, uno scarso funzionamento sociale e una storia passata segnata da un disturbo psichiatrico siano associati a problemi di salute mentale paterni durante il periodo perinatale (Bellard & Davies, 1996; Harvey & McGrath, 1988; Lovestone & Kumar, 1993).

Fattori di rischio biologici: il ruolo degli ormoni

Sulla base delle conoscenze esistenti sulla depressione post-partum materna, è possibile ipotizzare che la depressione vissuta da un padre potrebbe essere causata da cambiamenti ormonali che si verificano durante la gravidanza della sua compagna e nel periodo post-natale (Kim & Swain, 2007).

In primo luogo, la depressione post-partum paterna potrebbe essere correlata a cambiamenti nei livelli di testosterone, che diminuiscono durante la gravidanza della partner e dopo il parto (Fleming et al., 2002; Storey et al., 2000). I livelli di testosterone inizierebbero a diminuire almeno un paio di mesi prima del parto e tendono a mantenersi bassi per diversi mesi dopo il parto per la maggior parte dei padri (Wynne-Edwards, 2003).

Diversi ricercatori suggeriscono che tale diminuzione comporta minore aggressività, una migliore concentrazione, un maggior investimento nella genitorialità e la presenza di un attaccamento più forte con il proprio bambino (Wynne-Edwards, 2003; Clark & Galef, 1999). I padri che hanno bassi livelli di testosterone esprimono più empatia e manifestano la necessità di rispondere al pianto dei bambini (Rohde et al., 2005).

In secondo luogo, la depressione post-partum paterna potrebbe essere correlata a più bassi livelli di estrogeni. Negli uomini il livello di estrogeni comincia ad aumentare durante l’ultimo mese di gravidanza della partner fino al periodo post-parto (Berg & Wynne-Edwards, 2002). In considerazione delle scoperte sul rapporto tra l’aumento dei livelli di estrogeni e i comportamenti materni (Numan, 1994), l’aumento di estrogeni nel padre sembrerebbe accrescere comportamenti genitoriali più attivi dopo la nascita del figlio.

Fleming e colleghi (2002) hanno anche scoperto che più il padre è coinvolto e attivo nel suo ruolo genitoriale, maggiore è il livello di estrogeni rispetto ad altri padri. Dunque sembrerebbe che la presenza di una disregolazione di estrogeni paterni possa costituire un altro fattore di rischio importante per l’umore depresso dei padri.

Un altro fattore di rischio biologico nella depressione post-partum paterna potrebbe essere la presenza di livelli più bassi di cortisolo, un ormone che regola le risposte fisiologiche agli eventi stressanti (Nelson, 1999). Alti livelli di cortisolo sono generalmente associati a elevati livelli di stress. Tuttavia, per una madre, durante il post-parto, elevati livelli di cortisolo sono associati ad un aumento della sensibilità e responsività verso il bambino (Fleming, O’Day & Kraemer, 1999) e ad un umore meno depresso (Fleming & Anderson, 1987). Allo stesso modo livelli più bassi di cortisolo nei padri potrebbero essere legati a difficoltà nel legame padre-figlio ed essere associati ad un maggiore umore depresso.

Ancora, la depressione post-partum paterna potrebbe essere correlata a livelli di vasopressina bassi, che aumentano dopo la nascita del bambino, in modo analogo al livello di ossitocina della madre (Young & Frank, 1999). La vasopressina sembra giocare un ruolo importante nel migliorare lo sviluppo del legame genitore-bambino per i padri (Wang, Ferris & De Vries, 1994). Un recente studio su una varietà di piccole scimmie, note per il loro ampio coinvolgimento nella genitorialità, riporta in particolare nel periodo post-partum la presenza nei padri di comportamenti come il trasportare, proteggere e nutrire la prole (Welberg, 2006). Simili comportamenti paterni durante il primo mese di vita del bambino sono associati ad un rapido aumento dei recettori della vasopressina nella corteccia prefrontale del cervello. Forse allora, i padri umani con bassi livelli di vasopressina possono avere difficoltà con comportamenti genitoriali adeguati e così di nuovo essere più vulnerabili alla depressione.

In ultimo, la depressione post-partum paterna potrebbe essere correlata a cambiamenti nei livelli di prolattina, che gioca un ruolo importante per l’insorgenza ed il mantenimento di comportamenti genitoriali (Storey et al., 2000). I livelli di prolattina negli uomini aumentano durante la gravidanza e continuano ad aumentare nel corso dei primi anni (Storey et al., 2000). Livelli alti di prolattina nel periodo postnatale sono legati a maggiori risposte agli stimoli infantili nei neo-padri (Storey et al., 2000). Un livello di prolattina più basso, pertanto, potrebbe portare un neogenitore ad avere difficoltà ad adattarsi alla genitorialità e quindi esporlo a stati d’animo più negativi.

Fattori di rischio ambientali

L’adozione di un modello ecologico può fornire una prospettiva più ampia nella comprensione di come i diversi livelli di appartenenza, come la famiglia, la comunità, il lavoro, la società e la cultura, interagiscono e influenzano lo sviluppo di un individuo (Bronfenbrenner, 1979). Nuove esigenze e responsabilità durante il periodo post-partum sono spesso causa di importanti cambiamenti nella vita di un padre, cambiamenti che possono diventare fattori di rischio ambientali per lo sviluppo di una depressione.

I padri spesso sperimentano più difficoltà nello sviluppo di legami affettivi con i loro figli rispetto alle madri, che tendono a sviluppare un attaccamento quasi istantaneo dopo la nascita del bambino. Il legame padre-bambino sembra svilupparsi più gradualmente nei primi due mesi dopo il parto (Anderson, 1996). Prima di allora, i padri hanno maggiori difficoltà rispetto alle madri nel creare un legame emotivo con i loro bambini (Edhborg et al., 2005). Questo relativamente lento sviluppo del legame di attaccamento potrebbe essere correlato ad un sentimento di impotenza e depressione nel padre nei primi mesi successivi al parto.

Uno dei fattori che possono rendere la genitorialità paterna difficile è l’assenza di un buon modello genitoriale di riferimento. Negli ultimi anni, è visibile un aumento delle aspettative della società verso i padri di avere un maggiore coinvolgimento nella genitorialità, ma molti padri non hanno acquisito adeguate competenze genitoriali dai propri padri o da altri familiari di sesso maschile (Barclay & Lupton, 1999). La mancanza di comprensione di ciò che ci si aspetta da un padre potrebbe causare ansia e portare ad un maggiore rischio di depressione post-partum paterna (Condon, Boyce & Corkindale, 2004).

Anche la mancanza di ricompense e gratificazioni nella genitorialità potrebbe contribuire allo sviluppo di una depressione post-partum paterna. I padri riportano spesso come feedback positivi, ad esempio, i sorrisi dei loro bambini, che fungono da gratificazione e rinforzo ai comportamenti paterni di caregiving (Anderson, 1996). Tuttavia, la mancanza di esperienza di un padre nel suo ruolo genitoriale, le poche ore a disposizione per stare con il bambino soprattutto nei primi mesi di vita, possono rendere le interazioni padre-figlio angoscianti. I padri riferiscono anche di sentirsi isolati dal legame esclusivo madre-bambino e di sentirsi gelosi del maggiore tempo che le loro partner passano con il bambino, in particolare del legame che si sviluppa attraverso l’allattamento al seno (Rutter et al., 2004). È interessante notare che i padri possono segnalare anche sentimenti di gelosia verso i loro bambini, perché i bambini occupano una grande quantità di attenzione della partner (Goodman, 2002).

Inoltre, a causa di improvvisi cambiamenti di vita, le relazioni coniugali spesso risultano minacciate durante i primi tempi del periodo post-natale (Anderson, 1996). I padri segnalano una maggiore insoddisfazione nei rapporti di coppia, tra cui la mancanza di intimità (Meighan et al., 1999) e la perdita di interesse nella relazione sessuale (Condon, Boyce & Corkindale, 2004).

Nei rapporti coniugali, lo stress della genitorialità dei padri durante il periodo post-partum può essere ulteriormente complicato dalle differenze di percezione dei ruoli di genere distinti di padri e madri. L’enfasi sul ruolo dell’uomo come il capofamiglia può essere aumentata a causa dei maggiori oneri finanziari dopo la nascita del bambino, e, a sua volta, può impedire ai padri di essere più coinvolti nella genitorialità. Una maggiore sensazione di fallimento in termini di prestazioni può essere significativamente correlata al disagio psicologico tra i padri (Morse, Buist & Durkin, 2001).

Fattori di protezione e prevenzione per la depressione postnatale paterna

Diversi tipi di supporto possono facilitare il processo di transizione verso la paternità durante il periodo post-partum, fungendo da fattori di protezione per la depressione paterna. Il supporto più efficace probabilmente proviene dal proprio partner perché la depressione post-partum paterna è strettamente legata alla salute mentale della partner.

Un maggiore incoraggiamento da parte della madre e la possibilità di discutere attivamente e congiuntamente come coppia su come prepararsi all’arrivo del bambino può promuovere il coinvolgimento del padre nella genitorialità e alleviare lo stress di diventare genitore. Le madri che condividono il ruolo genitoriale con i padri possono evitare i sentimenti che provano molti padri di isolamento dal rapporto madre-bambino, così come sentimenti difficili da gestire, quali, ad esempio, la gelosia verso il bambino.

Inoltre, il sostegno e il riconoscimento da parte di altri membri della famiglia dell’importanza del ruolo paterno e la comprensione delle difficoltà che i padri possono incontrare possono avere un effetto positivo sui padri stessi.

Il supporto da parte della società, come ad esempio la possibilità di usufruire del congedo di paternità retribuito, sembrerebbe aiutare i padri ad adattarsi ai cambiamenti del periodo post-partum. Ad esempio, Feldman e colleghi (2004) hanno dimostrato che permessi lunghi di paternità sono associati ad un atteggiamento più positivo verso la genitorialità. D’altra parte, congedi di paternità più brevi sono associati con bassa qualità di cura dei figli e minor adattamento al lavoro tra padri.

Purtroppo non tutti i Paesi possono vantare una politica per la paternità retribuita o comunque garantire ai padri in diversa misura tale diritto.

Può essere comune per i nuovi padri la percezione di non essere compresi e la mancanza di una rete di sostegno (Areias et al., 1996). Infatti, tradizionalmente, i padri sono stati in gran parte riconosciuti solo nel ruolo di supporto per le loro partner. Tuttavia, considerato il recente aumento del coinvolgimento dei padri nella genitorialità, sarebbero necessari supporti adeguati dalla società che si concentrino sui ruoli attivi dei padri per aiutarli ad alleviare il loro stress nel periodo post-partum.

I programmi psicoeducativi aiutano i padri a comprendere i loro ruoli previsti ed attesi. I risultati suggeriscono che un programma di prevenzione per la depressione post-partum per le madri e i rispettivi partner è più efficace di un programma per le sole madri (Morgan et al., 1997). Per lo stesso motivo, un programma sulla depressione post-partum sia per i padri che per le madri potrebbe essere più efficace per alleviare la depressione paterna. I padri allo stato attuale sono spesso coinvolti in corsi pre-parto. Essi dovrebbero essere inclusi in ogni contatto con gli operatori sanitari anche successivamente al parto.

Inoltre, poiché l’ansia e l’umore depresso potrebbero iniziare durante la gravidanza della partner, un intervento precoce per entrambi i genitori sarebbe più efficace prima che i sintomi diventino gravi.

Infine, incoraggiare i padri a cercare l’aiuto di professionisti del settore sanitario per un assessment e una valutazione completa e a prendere in considerazione l’ausilio di una psicoterapia o antidepressivi potrebbe migliorare significativamente la salute della famiglia.

Lo screening, la prevenzione e il trattamento dovrebbero prendere in considerazione tutta la famiglia.

Il Disturbo da Stress Post Traumatico. Allo studio nuove prospettive per la diagnosi, la cura e la prevenzione

Il Disturbo da Stress Post Traumatico (PTSD) è una malattia psichiatrica complessa che ha come agente eziologico il trauma ed un complesso quadro sintomatico con ampie zone di sovrapposizione con altre patologie.

 

Tale disturbo, inizialmente associato all’impiego dei soldati in operazioni militari, sta diventando sempre più comune a causa della ricorrenza con cui ai nostri giorni si verificano gravi incidenti, violenze private, atti criminali/terroristici, emergenze sanitarie e calamità naturali che possono far sperimentare ad un individuo o ad un’intera comunità esperienze di forte paura e terrore.

La diagnosi del PTSD avviene attraverso la verifica dei criteri descritti nella quinta edizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (APA, 2013), utilizzando strumenti di valutazione come ad esempio il Clinician-Administered PTSD Scale (Weathers et al.,2018). Al momento, il trattamento di elezione del disturbo è la psicoterapia, che consente di desensibilizzare i pensieri spiacevoli e angoscianti legati al trauma e di attivare le reti neuronali necessarie a far transitare il ricordo traumatico dalla corteccia prefrontale, in cui rimane emotivamente attivo, alla corteccia parietale, dove viene elaborato e memorizzato come evento passato.

Al riguardo, una ricerca (Haiyin Li et al., 2020) pubblicata dal Journal of Clinical Investigation sembra aver individuato alcune novità. In particolare, i ricercatori del Center for Addiction and Mental Health di Toronto, esplorando i meccanismi molecolari alla base del PTSD, hanno riscontrato che, nei soggetti esposti a forti stress ed eventi traumatici, tende ad aumentare la presenza di un complesso proteico denominato GR-FKBP51 che, a distanza di tempo, continua a permanere a livelli elevati solo in coloro che sviluppano la malattia. Il quadro di situazione verificato ha indotto i ricercatori a ritenere che tale complesso proteico possa essere utilizzato come un biomarcatore diagnostico e a sviluppare un peptide capace di limitarne la formazione, favorendo la prevenzione ed il trattamento del disturbo.

E’ già da tempo noto che lo stress determina una iperattività dell’apparato endocrino e quindi una maggiore produzione di ormoni che svolgono un ruolo importante nell’ambito dei processi d’attivazione fisiologica dell’organismo conseguenti all’esposizione ad una minaccia. Normalmente, il nostro corpo è capace di ripristinare una situazione di equilibrio. Quando ciò non avviene, il perpetuarsi dello stato di attivazione può determinare dei ‘malfunzionamenti’ che possono incidere significativamente sullo stato di salute e di benessere. In tale prospettiva è possibile ipotizzare che la maggiore presenza del complesso GR-FKBP51 possa contribuire a determinare nei soggetti coinvolti in eventi traumatici e/o sottoposti a forti stress emotivi le anomalie funzionali delle aree cerebrali preposte al processamento degli stimoli emozionali, alla valutazione/identificazione dei contesti sicuri e alla definizione della soglia della reattività emotiva più volte osservati negli studi condotti con tecniche di neuroimaging.

In conclusione, lo studio canadese ha sicuramente introdotto una prospettiva intrigante seppur meritevole di approfondimenti e conferme scientifiche attraverso la replicazione dei fenomeni osservati. Al riguardo, è auspicabile che siano sviluppati nuovi filoni di ricerca scientifica che consentano, integrando competenze mediche, psicologiche e sociali, di indagare con una prospettiva più ampia il complesso meccanismo che determina il manifestarsi del PTSD e di individuare le linee di azione più idonee alla sua prevenzione, diagnosi  e cura.

 

Autore: Giacinto D’Urso

Mollami (2019) – Cinema & Psicoterapia

Il film Mollami diretto dall’esordiente Matteo Gentiloni parla delle vicissitudini di Valentina, un’adolescente che ‘rovina tutto ciò che tocca’.

 

Info

Regia di Matteo Gentiloni. Interpretato da Martina Gatti, Alessandro Sperduti, Gianmarco Tognazzi

Trama

I problemi di Valentina nascono da un’esperienza traumatica vissuta nell’infanzia: il fratello muore tuffandosi in mare da uno scoglio, sollecitato dalla sorella che lo sbeffeggia perché pauroso.

Il senso di colpa che accompagna la ragazza è rappresentato da Renato un grande pupazzo di colore blu che solo lei può vedere e che compare quando sta per combinarne una delle sue.

Un derivato della morfina, il PCP le dà sollievo da questo peso che l’accompagna, anche quando decide di postare in rete un filmato hard che la riguarda. Il padre, un avvocato di successo, a questo punto la manda in una comunità in Austria per aiutarla e per lenire il suo senso di vergogna. L’accompagna un praticante dello studio, Antonio. I due non raggiungeranno mai la rehab, ma il viaggio servirà ad entrambi per elaborare i loro vissuti dolorosi, darsi una prospettiva diversa e cambiare molte cose nella loro vita.

Motivi d’interesse

Valentina ha un vissuto doloroso alle spalle, la madre, insicura, fragile e vulnerabile l’ha abbandonata, il padre assente non le offre cura e protezione. Le manca una base sicura, un riferimento che ogni ragazzo dovrebbe avere. La ragazza ha utilizzato un piano semiadattivo immunizzante (sesso e droga) come strategia di coping per il dolore che ha sperimentato nella sua vita. Si sente responsabile per la morte del fratello e convive con un forte senso di colpa. Il suo compagno di viaggio, Antonio, dal canto suo, ‘sopravvive’ senza avere la capacità di fare scelte che gli diano un’autodirezionalità e il senso della vita. Subisce l’ambizione della fidanzata che lavora nello stesso studio e, pur di ottenere riconoscimenti per sé stessa e per il compagno, si offre, cedendo alle lusinghe del titolare, padre di Valentina.

La storia propone due diverse soluzioni agli spaccati di vita autentici che sono narrati nel film, ed entrambe passano per la presa di consapevolezza di significati da ristrutturare e di stati emotivi da regolare. L’abbraccio di Valentina al pupazzo blu si contrappone all’utilizzo del PCP che fa scomparire Renato e simboleggia il perdono e l’accettazione, mentre il diniego che Antonio pone alla richiesta della fidanzata di tornare insieme, segna una netta presa di distanza dalla mancanza di capacità di scelta.

Indicazioni di utilizzo in terapia

Il film semplice e didascalico, può essere molto utile per lavorare sul senso di colpa e per rendere meno condizionante e più tollerabile il tema del disamore e meno utile e automatico il piano immunizzante di alcuni pazienti. Chi volesse approfondire le procedure di utilizzo dei film in terapia può fare riferimento alla bibliografia sotto citata.

 

MOLLAMI – Guarda il trailer del film:

https://www.youtube.com/watch?v=1vwGtxX7kRk

Prendersi una pausa da Instagram: gli Effetti sul Benessere Soggettivo

Negli ultimi anni Instagram (Ig) è diventato un social network molto utilizzato, contando oltre 1 miliardo di utenti attivi (Salvati, 2020).

 

Sebbene ci siano prove significative che dimostrano che l’utilizzo di questo social abbia un impatto negativo sulla soddisfazione del corpo tra le donne (Kleemans et al., 2018; Tiggeman & Barbato, 2018), pochissime ricerche hanno studiato gli effetti del suo uso sul benessere soggettivo. L’unico studio sperimentale in questo campo ha dimostrato che gli effetti di Instagram sul benessere dipendono in gran parte dalle tendenze al confronto sociale (de Vries et al., 2018). Questo processo, infatti, si pone come variabile moderatrice nella relazione tra l’esposizione ai post e il benessere percepito (Tiggemann & McGill’s, 2004). Poiché i social network si basano su una presentazione positiva di sé, ciascun utente è continuamente sovraesposto a caratteristiche e qualità positive di altri utenti, il che potrebbe evocare sentimenti di invidia. Inoltre, Ig consente agli utenti di modificare le proprie fotografie per renderle più accattivanti, con possibilità di cambiare tonalità, luminosità e saturazione tramite la scelta di filtri: ciò può contribuire all’accrescimento della cultura del perfezionismo (Lup et al., 2015). Questo implica che gli utenti non solo hanno maggiori probabilità di promuovere un sé ideale, ma hanno anche più probabilità di essere esposti al sé ideale degli altri, aumentando così la tendenza a confronti sociali verso l’altro (Festinger, 1954), che quindi inducono affetti negativi. È stato scoperto che le donne usano i social network più degli uomini (Muscanell & Guadagno, 2012) e che sono più attive rispetto ad essi in termini di frequenza di caricamento di foto (Ferenczi et al., 2017), perciò quando si studia l’associazione tra uso di Ig e benessere il genere deve essere preso in considerazione.

Nel 2019, Fioravanti e colleghi hanno realizzato uno studio il cui obiettivo era indagare se un’astensione di una settimana da Ig influisse sul benessere soggettivo di giovani donne e uomini, ipotizzando che prendersi una pausa dal social avrebbe potuto avere un effetto positivo sul benessere, che questo effetto avrebbe potuto essere moderato da tendenze di confronto sociale, e che probabilmente l’effetto sarebbe stato più forte nelle donne (Fioravanti et al., 2019). Gli 80 partecipanti, reclutati tramite pubblicità sui social network, sono stati selezionati sulla base di alcuni criteri di inclusione: avere almeno 18 anni e possedere un account Ig da almeno 1 anno, periodo in cui ne era stato fatto un utilizzo quotidiano. I partecipanti sono stati assegnati in modo casuale al gruppo sperimentale e di controllo, ciascuno dei due composto di 20 femmine e 20 maschi: il gruppo sperimentale si sarebbe astenuto dall’utilizzare il social per una settimana, mentre il gruppo di controllo avrebbe continuato ad accedervi come di consueto. Per ridurre al minimo la tentazione di visitare il social, ai membri del gruppo sperimentale è stato chiesto di eliminarne l’applicazione sui dispositivi in loro possesso.

Prima della sperimentazione è stato svolto un test preliminare, lo State Appearance Comparison Scale (Tiggemann & MCGill, 2004), per valutare la frequenza con cui gli utenti si impegnavano nell’elaborazione dell’aspetto e nel fare confronti con altri utenti del social. Per indagare il benessere soggettivo è stata utilizzata la versione italiana della Satisfaction with Life Scale (SWLS, Di Fabio & Gori, 2016), scala di autovalutazione che misura la soddisfazione globale della vita, mentre per valutare l’esperienza affettiva piacevole o avversiva derivata dall’astensione dal social è stata utilizzata la versione italiana del Positive and Negative Affect Schedule (PANAS, Terracciano et al., 2003). Entrambi i questionari sono stati sottoposti all’inizio e alla fine della sperimentazione.

Questa ricerca ha mostrato che prendersi una breve pausa dall’uso di Ig potrebbe avere un effetto positivo sul benessere soggettivo delle donne, sia in termini di soddisfazione per la vita che di emozioni positive correlate (Fioravanti et al., 2019). Le donne che hanno smesso di utilizzare questo social per una settimana hanno mostrato una crescita significativa nei punteggi affettivi positivi, mentre il gruppo di controllo ha esperito una diminuzione significativa. Le variazioni sull’affetto positivo erano principalmente un prodotto delle tendenze al confronto sociale, poiché smettere di utilizzare il social aveva avuto effetti positivi solo tra donne che avevano riferito una tendenza al confronto con altre utenti. Il confronto poteva incidere non solo sull’insoddisfazione corporea derivata dalle immagini sui social network, ma anche sul decremento dell’affetto positivo (Fioravanti et al., 2019). È opportuno specificare che le variazioni nei livelli di soddisfazione di vita possono essere spiegate anche da altri fattori rispetto alle tendenze di confronto sociale. Anche se la condivisione di foto relative all’aspetto è molto comune su Ig, molti utenti sono esposti a un’ampia varietà di immagini, come ad esempio a foto di viaggi, o che comunque non hanno a che fare con l’aspetto fisico. Di conseguenza, non si può escludere la possibilità che i processi di confronto sociale debbano essere affrontati a un livello più generale. Inoltre, si potrebbe ipotizzare che l’aumento dei livelli di soddisfazione della vita possa essere dipeso anche dalla mancata ricezione di feedback, giudizi e opinioni, sulla loro vita condivisa. Una motivazione aggiuntiva per i risultati ottenuti in questo studio potrebbe essere anche spiegata dal fatto che essere un utente attivo può essere arduo, poiché i social network incoraggiano un impegno costante nella pubblicazione di nuovi contenuti. In questo studio, il confronto sull’aspetto non è risultato significativamente inferiore negli uomini rispetto alle donne (Fioravanti et al., 2019), tuttavia, studi precedenti hanno dimostrato che l’importanza che si attribuisce al proprio aspetto è inferiore per gli uomini rispetto alle donne (Cash et al., 2004). Questo potrebbe essere un altro fattore che aiuta a spiegare perché astenersi dal confrontare il proprio aspetto su Ig potrebbe essere più vantaggioso per le donne.

Queste evidenze mostrano come processi cognitivi connessi all’utilizzo di Instagram possano incidere negativamente sul benessere soggettivo, e come quindi prendersi una pausa dal social potrebbe aumentare affetti positivi e livelli di soddisfazione della vita.

 

Il Morbo di Parkinson, la Deep Brain Stimulation e lo sviluppo di strategie di intervento integrato nella gestione della malattia

Il morbo di Parkinson è il più frequente dei disordini del movimento che colpiscono l’individuo nell’età adulta fra i quaranta ed i settanta anni.

 

Questa è una malattia neurodegenerativa cronica che si manifesta allorquando la perdita di neuroni nella substantia nigra determina un calo nella produzione di dopamina e la comparsa di accumuli della proteina ‘alfa-sinucleina’ in varie aree del cervello.

La patologia causa progressivamente forme più gravi di acinesia, malfunzionamenti di diverse funzioni motorie e vegetative, irrigidimento della muscolatura, tremori e disturbi psichici (principalmente di natura depressiva, ansiosa e cognitiva) che limitano e logorano la qualità di vita del malato.

Ad oggi non esiste una cura che consenta di guarire dal morbo di Parkinson ed i principali trattamenti sono solo capaci di limitarne la manifestazione sintomatologica. In tale quadro, la Deep Brain Stimulation (DBS) si è rilevata particolarmente efficace per migliorare le capacità motorie attraverso la stimolazione elettrica delle aree cerebrali coinvolte nella modulazione del movimento. Tale terapia è stata oggetto di particolare attenzione nell’ambito del mondo della ricerca scientifica e sembra che in futuro potrà essere ulteriormente perfezionata.

Infatti, la rivista Brain Stimulation ha recentemente pubblicato gli esiti di uno studio (Canessa A.et al., 2020) che ha consentito di identificare dei biomarcatori specifici dello stato di deambulazione. Nel merito, i ricercatori, analizzando il funzionamento del nucleo subtalamico (STN) in malati con impianto di stimolazione profonda, sono addivenuti alla conclusione che quando l’individuo incomincia a camminare, l’attività di questa area cerebrale tende a caratterizzarsi per una variazione di frequenza della banda beta. L’identificazione di questi segnali ha consentito agli esperti di sviluppare algoritmi matematici che permetteranno in futuro di realizzare dispositivi capaci di modulare la DBS adattandola allo stato ed al bisogno del singolo, migliorandone quindi la capacità di deambulazione.

Il perfezionamento delle terapie a disposizione per il trattamento del morbo di Parkinson risulta determinante per accrescere le aspettative e la qualità della vita oltre che per il mantenimento di un adeguato livello di inclusione sociale dei pazienti e del loro nucleo familiare.

Resta, tuttavia, imprescindibile ricercare forme d’intervento multi professionali che coinvolgano il medico (ad esempio il neurologo, il geriatra ed il medico di famiglia), lo psicologo, il nutrizionista e l’assistente sociale. In particolare, lo psicologo risulta determinante per lo sviluppo di interventi mirati alla gestione dello stress (che come noto è causa del peggioramento dei sintomi della malattia come ad esempio i tremori), dell’ansia, dei disturbi del sonno (di cui sono conosciute le implicazioni sulla gestione delle emozioni, sul tono dell’umore, sulla memoria e in generarle sulla funzionalità della corteccia prefrontale, sede di tutte le funzioni neurocognitive di ordine superiore), allo sviluppo delle life skills e al rafforzamento dei fattori di protezione della resilienza individuale e familiare. Affrontare, dunque, la malattia con un approccio biopsicosociale può contribuire allo sviluppo di strategie di gestione del paziente più efficaci perché finalizzate, anche in situazioni di crisi come quella conseguente alla pandemia da COVID-19, al suo completo benessere fisico, mentale e sociale.

 

 

NUMB dei Linkin Park: i vissuti dell’adolescente e il conflitto genitori-figli – Rubrica Psico Canzoni

La rubrica si propone di dare un’interpretazione dei testi di alcune canzoni. Numb dei Linkin Park si presta ad una lettura dei vissuti interiori di un adolescente e della sua relazione con il genitore.

Psico Canzoni – (Nr.1) NUMB dei Linkin Park

 

Introduzione

La Rubrica Psico-Canzoni nasce col fine d’interpretare alcuni testi di canzoni, talvolta avvalendosi anche del relativo video. L’interpretazione è esclusivamente di carattere psicologico, attraverso tanto la lente psicodinamica quanto quella sistemico relazionale.

I brani vengono scelti in base ai contenuti riportati nel testo e alla loro fruibilità nello spiegare temi di carattere intrapsichico e l’interpersonale.

NUMB – Linkin Park

L’8 Settembre 2003 è la data d’uscita del singolo Numb dei Linkin Park, tratto dall’album Meteora.

Come si legge sin dalla prima strofa I’m tired of being what you want me to be il brano si focalizza su uno specifico ambito del conflitto tra genitore e adolescente: le aspettative che l’adulto nutre nei confronti del figlio. Per un giovane, che già si trova a fare i conti con i cambiamenti corporei e relazionali tipici dell’adolescenza, diviene molto faticoso e controproducente aderire a quello che qualcun altro vuole da lui, soprattutto se quel qualcuno è la madre o il padre.

L’adolescenza è una fase molto delicata della vita di ogni individuo, dedicata alla conoscenza e alla ricerca del proprio Sé autentico. Durante il percorso di scoperta il genitore può divenire la base da cui partire, dove partire è allontanarsi, senza sentirsi mai solo. Talvolta questa compagnia può costare cara per chi ne usufruisce, poichè può essere vincolata da fili impercettibili, o come li chiamerebbe Ivan Boszormenyi-Nagy “lealtà invisibili”. Questi fili non lasciano piena libertà di pensiero ed azione, ma tengono costantemente il ragazzo o la ragazza attenti a non varcare la soglia della volontà genitoriale che hanno introiettato.

La tossicodipendenza, l’anoressia e simili non sono una ribellione a quello che i genitori desiderano per il figlio, ma la manifestazione dell’impossibilità di differenziarsi da un genitore. Dove il filo invisibile è poco elastico, questa sintomatologia diventa l’unica via per sopravvivere ad un’alternativa di schiaccianti sensi di colpa.

Quella che per anni è stata chiamata “ribellione” adolescenziale, ora sembra più una lotta dell’individuo per far emergere se stesso, in un contesto familiare, che, per paura, credenze, per mantenere il controllo o altro ancora, cerca di impedirne inconsciamente la differenziazione.

Quando il desiderio di essere sempre più se stesso e meno quello che il genitore vuole (to be more like me and be less like you) riesce a prevalere sui fili invisibili e i conseguenti sensi di colpa, finalmente vi è un inizio di individuazione, che permette all’adolescente di iniziare a ragionare con la propria testa e ad ascoltarsi, prendendo la via che lo porterà ad essere unico.

Come ogni lutto, anche l’adolescenza, intesa come la perdita dell’infanzia nell’acquisizione della maturità, deve permettersi di passare per la rabbia, che per alcuni si traduce in un momento d’insensibilità (da cui il titolo della canzone Numb).

Solo dopo questa fase sarà permessa dentro l’individuo l’umanizzazione del genitore, che comporta emozioni quali delusione, tristezza e infine consapevolezza davanti a chi sembrava tanto grande.

But I know that you were just like me with someone disappointed in you è l’amara consapevolezza che fa cadere il mito genitoriale e nella caduta di Dedalo forse Icaro può salvarsi, perchè non sarà costretto a mettersi ali di cera che bruceranno al Sole, ma potrà imboccare la propria strada che custodirà la sua autenticità.

 

NUMB, LINKIN PARK – Guarda il video:

 

The Social Dilemma (2020) – Recensione del film

‘Se non stai pagando per il prodotto, allora il prodotto sei tu’. Poche, semplici parole per riassumere il senso di The Social Dilemma, il docufilm in onda da Settembre 2020 sulla piattaforma Netflix.

 

Il messaggio è chiaro e colpisce noi spettatori che, seppur consapevoli della crescita esponenziale della dipendenza dai social network, facciamo ancora fatica a rallentare le nostre interazioni con lo smartphone.

Il filone narrativo del documentario diretto da Jeff Orlowski, regista già vincitore di un Emmy Award con Chasing Ice (2012), si muove in parallelo su due filoni: quello razionale delle interviste e delle testimonianze di ex dirigenti e impiegati delle aziende social e quello più emotivo, in cui viene narrata la vita di Ben (Skyler Gisondo) un adolescente sempre più immerso all’interno del suo smartphone. Il sistema di programmazione che gestisce i social è rappresentato metaforicamente da 3 avatar di Ben, che il regista utilizza come espediente simile a quello del film di animazione Inside Out (2015) della Pixar, anche se questa volta non si dà forma e voce alle emozioni umane, ma appunto al sistema operativo dello smartphone del protagonista.

Il dilemma di cui si parla fa riferimento sia alle implicazioni etiche e sociali dell’utilizzo della tecnologia e della sovrapproduzione di disinformazione, sia ad una interessante disquisizione su come i social media mettano in atto una ‘manipolazione’ dell’individuo con lo scopo di generare profitti. Nulla di originale? Vero, se non per il fatto che antiche strategie di indirizzo dell’opinione pubblica attraverso media come giornali e tv, ora sono costruite sul singolo individuo, agendo su sistemi di ricompensa molto conosciuti a chi si occupa di neuroscienze.

Attraverso le testimonianze di Tristan Harris, voce principale, (ex consulente etico di Google, ora presidente del Center For Human Technology), Justin Rosenstein (co-inventore del tasto ‘mi piace’ di Facebook) e altri (Jaron Lanier, Shoshana Zuboff, ecc…) si spiega come tutto sia utile a mantenere questo sistema: il numero di reazioni ad un post, il tempo di visualizzazione, le ricerche utilizzate tramite Google…

L’obiettivo sarebbe quello di definire profili ad personam, che possono essere utilizzati da pubblicitari o politici per spostare l’attenzione dello user verso specifici contenuti, alimentando un circolo vizioso da cui il cliente fa fatica ad uscire, trovandosi a circoscrivere tra l’altro la propria gamma di interessi a poche tematiche o personaggi.

Tali pericolose implicazioni vengono descritte nel docufilm osservando contingenze specifiche come quelle delle elezioni presidenziali e amministrative di importanti nazioni, in cui i principali protagonisti della sfera politica potrebbero potenzialmente utilizzare le strutture ad algoritmi con il fine di creare per ogni fruitore dei social una sorta di bolla, un mondo in cui si costruisce una propria verità e proprie motivazioni.

Vengono citati a tal proposito mostri sacri della letteratura e della cinematografia come The Truman Show (1998) e Matrix (1999) per spiegare in modo semplice il concetto della ‘bolla’ creata da un meccanismo con cui ci interfacciamo costantemente, a cui diamo continuamente indicazioni attraverso like, commenti, visualizzazioni e ricerche.

Colpisce soprattutto la testimonianza degli intervistati, di chi per primo iniziò a creare questi algoritmi, stupiti a loro volta dagli effetti collaterali sottovalutati inizialmente dai primi ideatori, come ad esempio l’influenza sui disturbi mentali degli adolescenti, comprovati dalla ricerca scientifica e dalle correlazioni statistiche: incremento di ritiro sociale, ideazioni suicidarie collegate all’interazione con i social, depressione, ansia sociale, FOMO (fear of missing out) e, ovviamente, dipendenza dagli stessi social.

Un piccolo spazio, che forse poteva essere maggiore considerando la rilevanza sul tema, è dato alla spiegazione dei meccanismi di ricompensa alla base della dipendenza (concetti conosciuti a partire dagli studi di James Olds e Peter Milner del 1954), che rendono inconsapevole l’utente social della dipendenza stessa.

Il meccanismo viene spiegato in modo semplice ed è importante ricordarne alcuni punti salienti: quando arriva un like, il nostro cervello lo interpreta come una ricompensa e rilascia una ‘scarica’ di dopamina dando forza a quello che viene definito ‘dopamine-driven feedback loop’. Questo circolo vizioso si caratterizza sostanzialmente dalle seguenti fasi.

Si inizia con l’interazione con il social di turno che, forte del suo algoritmo, ci spinge continuamente a condividere nuovi contenuti. Successivamente avviene un’azione effettiva (il post, il retweet, il commento, o anche solo il ‘rallentare davanti ad un’immagine’). Più lunga sarà l’attesa, maggiore sarà la soddisfazione nel momento in cui si riceve una reazione (un like, un follow, un commento) che viene interpretata dal cervello come ricompensa e che genera quella piccola ‘scarica’ di dopamina sufficiente ad innescare nuovamente il circolo vizioso, che si protrae nel tempo e che può portare inconsapevolmente ad una vera e propria dipendenza, come accade per le sostanze stupefacenti o le slot-machine. Il lettore interessato al tema della dipendenza da social network può leggere gli interessanti studi di Quinghua, Guedes e Krach, solo per citarne alcuni.

Il documentario si conclude con il termine dell’arco narrativo delle vicende di Ben e, nei titoli di coda, con le raccomandazioni degli intervistati sopra citati, che consigliano tra l’altro di ridurre drasticamente il tempo passato al cellulare, di evitare di creare profili social a ragazzi troppo giovani, di disattivare le notifiche, di seguire più personaggi politici possibile e di ampliare gli interessi seguiti attraverso queste piattaforme. Tutto questo con il fine ultimo di ‘spiazzare’ gli algoritmi ed evitare che ci condizionino oltre misura.

The social dilemma si configura quindi come un interessante documentario che aiuta lo spettatore ad avviare una riflessione personale sull’utilizzo eccessivo dei social network, da consigliare soprattutto agli adolescenti, ovvero alla fascia statisticamente più a rischio per quanto riguarda il tema della dipendenza da smartphone e delle implicazioni psicologiche e sociali che ne derivano.

 

THE SOCIAL DILEMMA – Guarda il trailer del docufilm:

Libera puoi: l’Ordine delle Psicologhe e degli Psicologi della Regione Emilia-Romagna scrive alle donne per incoraggiarle ad uscire dal silenzio – Comunicato Stampa

Comunicato Stampa

“Libera puoi”. La Commissione delle Pari Opportunità dell’Ordine delle Psicologhe e degli Psicologi della Regione Emilia-Romagna scrive alle donne per incoraggiarle ad uscire dal silenzio e celebrarle oggi, 25 novembre, giornata internazionale contro la violenza sul genere femminile. Grazie ad una rete antiviolenza forte e attiva a livello regionale aumentano le denunce da parte delle donne.

 

24 Novembre, Bologna

Il valore della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne, celebrata il 25 novembre, non sarà uguale a quello degli anni passati. Il 2020 passerà alla storia non soltanto come anno della Pandemia ma anche come momento storico di protezione delle donne che, grazie ad una rete regionale e nazionale antiviolenza, hanno intrapreso un cammino di denuncia.

Il lockdown, imposto come misura di contenimento alla diffusione del COVID19, ha sottoposto le donne a un rischio ancora più alto rispetto ad abusi e maltrattamenti. Da marzo fino a giugno 2020 in Emilia-Romagna, secondo quanto riferito dall’ISTAT, il numero verde 1522 ha registrato oltre 800 richieste di aiuto, protezione o consulenza da parte delle donne, per denunciare atti di violenza o stalking.

La buona notizia è la capacità delle donne di essere più coraggiose grazie anche alla presenza di una rete antiviolenza, di cui gli psicologi e le psicologhe dell’Emilia-Romagna sono parte integrante e attiva.

Libera puoi, la violenza non è un destino ma è una condizione che ingabbia uomini e donne i cui cancelli possono essere aperti dice lo slogan del Ministero delle Pari Opportunità. USCIRE DAL SILENZIO, parlare della violenza può favorire un percorso verso l’autonomia. Si tratta di un percorso psicologico impegnativo ma possibile

Sono le parole della Commissione delle Pari Opportunità dell’Ordine delle Psicologhe e degli Psicologi dell’Emilia-Romagna, che in questa ricorrenza sottolinea l’importanza di spezzare la catena del silenzio.

Carmelina Fierro - Coordinatrice Commissione PO Ordine Psicologhe e Psicologi ER

Imm. 1 – Dott.ssa Carmelina Fierro,
Coordinatrice della Commissione Pari Opportunità dell’Ordine degli Psicologi dell’Emilia-Romagna

Nel 2020 le telefonate al numero antiviolenza 1522 sono cresciute del 73%. Il 30,7% delle donne continua a chiedere aiuto per violenza e per stalking. Una su due teme per la propria incolumità.

In compenso la lotta alla violenza non si è mai fermata, né ha rallentato. I centri antiviolenza, le case rifugio, le Istituzioni, i distretti sanitari (Pronto Soccorso e AUSL) e l’Ordine delle psicologhe e degli psicologi dell’Emilia-Romagna hanno messo in rete interventi di contrasto e prevenzione al fenomeno dando ascolto e sostegno alle vittime di abusi.

Questa giornata – spiega la Coordinatrice della Commissione Pari Opportunità dell’Ordine degli Psicologi dell’Emilia-Romagna Carmelina Fierro – necessita di un’attenzione particolare e specialistica perché legata all’identità di ciascuna persona e nello specifico dei soggetti coinvolti in una dinamica di violenza che attualmente si manifesta soprattutto nei confronti della donna. Non solo protezione ma anche riprogettazione. La vittima di violenza, danneggiata nella sua integrità personale, necessita di un intervento psicologico mirato che l’accompagni e l’aiuti a riconoscersi ed essere riconosciuta con le proprie caratteristiche, limiti e pregi. Un percorso che diventa indispensabile per conquistare o riconquistare la propria salute psicologica. L’intervento psicologico nell’ambito della violenza significa quindi lavorare per una ristrutturazione del modo di concepire e di pensare se stesse/i in relazione alle altre persone, offrire la possibilità di cambiare la prospettiva della propria esistenza

 

Ansia sociale e alessitimia in relazione al bere problematico e alla teoria della mente

Un recente studio ha testato tre ipotesi: (1) l’ansia sociale predice l’alessitimia nel caso di depressione controllata, (2) l’alessitimia media il rapporto tra ansia sociale e bere problematico e (3) l’alessitimia media il rapporto tra ansia sociale e scarsa teoria della mente. I risultati hanno confermato le ipotesi iniziali?

 

I disturbi d’ansia sono i più comuni nell’ambito dei problemi di salute mentale (Baxter, Patton, Scott, Degenhardt, & Whiteford, 2013): nello specifico, il disturbo d’ansia sociale (SAD) è quello più comune al mondo (Ruscio et al., 2008). Si tratta di un disturbo cronico e pervasivo, caratterizzato da un’intensa paura e dall’elusione di situazioni sociali o di performance, che portano ad un’interferenza clinicamente significativa in diverse aree della vita di una persona, influenzando il funzionamento lavorativo e le relazioni interpersonali (American Associazione Psichiatrica, 2013). Le persone con ansia sociale possono sperimentare disagio soggettivo e somatico durante le interazioni sociali, spesso caratterizzato da un aumento della frequenza cardiaca, sudorazione e tremore (Stemberger, Turner, Beidel, & Calhoun, 1995). L’ansia sociale è un fattore di rischio per l’abuso di alcol nei giovani adulti (Schry & White, 2013), presumibilmente perché l’alcol agisce come “lubrificante sociale” a causa dei suoi effetti ansiolitici e disinibenti (Thomas, Randall, Book, & Randall, 2007).

Con il termine alessitimia (Sfineos, 1973) si intente un tratto di personalità subclinica, presumibilmente di origine biologica (Alessitimia Primaria, Freyberger, 1977; Thorberg, Young, Sullivan, Lyvers, Hurst, Tyssen, et al., 2016), che comporta pensiero simbolico notevolmente ridotto, piuttosto orientato verso l’esterno, una limitata capacità di identificazione e descrizione delle emozioni e dei sentimenti, un’attività fantastica impoverita e infine difficoltà di differenziare i sentimenti e le sensazioni somatiche di eccitazione emotiva (Nemiah, Freyberger, & Sifneos, 1976). Le persone altamente alessitimiche sono spesso preoccupate dagli eventi esterni e tendono a non sollecitare l’aiuto o il conforto degli altri a causa delle loro difficoltà interpersonali, che spesso si riflettono in una profonda solitudine (Qualter, Quinton, Wagner, & Brown, 2009). Essa è connessa ad una varietà di disturbi psicologici: depressione, ansia, ossessione-compulsione, schizofrenia, disturbi dello spettro autistico, PTSD e disturbi del comportamento alimentare. Tra il 28% e il 58% dei pazienti con diagnosi SAD hanno riportato elevati livelli di alessitimia (Cox, Swinson, Shulman, & Bourdeau, 1995), dimostrando che le difficoltà di identificazione e comunicazione delle emozioni e sentimenti rappresentano un impedimento maggiore per le relazioni interpersonali. Un’altra possibilità è delineata dal fatto che, in alcuni casi, l’alessitimia potrebbe essere una reazione ad un’intensa e cronica ansia o stress psicologico (Alessitimia secondaria, Freyberger, 1977).

Le persone socialmente ansiose possono non avere una visione accurata di come gli altri le percepiscono a causa di deficit nella comprensione degli stati mentali ed emotivi degli altri in situazioni sociali (Hezel & McNally, 2014), che è anche caratteristica dell’alessitimia (Lyvers, McCann, et al., 2018). La capacità di comprendere, identificare e ragionare sugli stati soggettivi degli altri è nota come teoria della mente (Onuoha, Quintana, Lyvers, & Guastella, 2016). Quest’ultima comporta due processi: il rilevamento o l’identificazione degli stati altrui sulla base di prove osservabili e il ragionamento o l’interpretazione degli stessi, al fine di prevedere o comprendere il comportamento degli altri.

Tra il 24% e il 48% (Buckner et al., 2008) delle persone con una diagnosi di SAD soddisfano i criteri per una diagnosi di Disturbo da uso di alcol nel corso della vita (AUD), rispetto a un tasso di prevalenza dell’AUD del 15% nella popolazione generale (Kessler et al., 2005). La comorbilità dell’ansia sociale e del bere problematico è stata riportata in campioni sia clinici che non clinici. L’abuso di alcol e la dipendenza spesso precedono lo sviluppo della SAD (Gilles et al., 2006). Ricerche sperimentali indicano che il consumo di alcol può diminuire l’ansia da prestazione in soggetti con SAD e che aumentano l’assunzione di alcol dopo un compito (Abrams et al., 2002). Un continuo ricorso a sostanze ansiolitiche come l’alcol per autoregolarsi, indipendentemente dalla quantità di assunzione, aumenta probabilmente il rischio di un uso problematico e di dipendenza. Inoltre, alti livelli di alessitimia sono comuni in individui con diagnosi di AUD (Thorberg, Young, Sullivan, & Lyvers, 2009): questi possono utilizzare sostanze come l’alcol per compensare la loro incapacità di modulare gli affetti (Speranza et al., 2004).

L’alessitimia può quindi svolgere un ruolo di mediazione nella relazione tra l’ansia sociale e il bere problematico, ipotesi esaminata in un recente studio condotto da Lyvers et al. (2019). Lo scopo è stato quello di ottenere delucidazione relative ai possibili fattori perpetuanti nell’ansia sociale e nel bere problematico. Il ruolo dell’alessitimia è importante in quanto possibile fattore di rischio per entrambi disturbi esplorati. Tre ipotesi testate: (1) l’ansia auto-riferita relativa ai contesti sociali predice l’alessitimia, nel caso di depressione controllata; (2) l’alessitimia media il rapporto tra ansia sociale e bere problematico; (2) l’alessitimia media il rapporto tra ansia sociale e scarsa teoria della mente. Il campione indagato consiste in 301 soggetti non clinici.

L’ansia sociale è stata valutata per mezzo della Social Interaction Anxiety Scale (SIAS, Mattick & Clarke, 1998), composta da 20 item che esplorano il livello di stress associato alle interazioni sociali ordinarie, del tipo “Ho difficoltà a parlare con altre persone”. L’alessitimia è stata valutata tramite la Toronto Alexithymia Scale 20 (TAS-20, Bagby, Parker & Taylor, 1994), composta da 20 item che esploravano (1) la difficoltà di identificare sentimenti (DIF, ad es. “Sono spesso confuso circa le emozioni che provo”), (2) la difficoltà nel descrivere i sentimenti (DDF, ad es. “E’ molto difficile per me descrivere a parole i miei sentimenti”), (3) il pensiero orientato verso l’esterno (EOT, ad es. “Preferisco parlare alle persone delle loro attività quotidiane piuttosto che dei loro sentimenti”). E’ stata inoltre utilizzata la Depression Anxiety Stress Scales-21 (DASS-21; Lovibond & Lovibond, 1995), una misura self-report, costituita da 21 item, che indaga l’esperienza emotiva negativa dell’ultima settimana. Nello specifico indaga: depressione (es. “Sento che la vita è senza significato”), ansia e stress. La teoria della mente è stata valutata tramite la Reading the Mind in the Eyes Test – Revised (RMET-R; Baron-Cohen et al., 2001), che esplora il riconoscimento delle emozioni attraverso le immagini degli occhi di uomini e donne: si tratta di 36 fotografie e intorno alla foto ci sono aggettivi del tipo “cauto”, “insistente”, “annoiato”, “avvilito”. Infine, l’utilizzo di alcol è stato misurato per mezzo dell’Alcohol Use Disorders Identification Test (AUDIT, Saunders et al., 1993), i cui valutano tre fattori: il consumo di alcolici, misurata da tre elementi (es. “Quanto spesso beve drink alcolici?”); la dipendenza da alcol (es. Quanto spesso durante l’ultimo anno si è sentito non in grado di smettere di bere una volta iniziato?”); e problemi legati all’alcol (es. “Lei o qualcun altro si è ferito a causa del suo alcolismo?”).

Le relazioni tra le variabili sono state coerenti con le aspettative, tanto che l’ansia sociale è emersa significativamente correlata con l’alessitimia, la teoria della mente, il bere problematico e la depressione. Inoltre, l’ansia sociale prevedeva alessitimia anche dopo aver tenuto sotto controllo la depressione, che indica che il rapporto tra ansia sociale e l’alessitimia non dipende dalla depressione (Ertekin et al., 2015). Dai risultati è inoltre emerso che l’ansia sociale può essere un risultato dell’alessitimia, o viceversa: i punteggi di ansia sociale correlano con le componenti “difficoltà a identificare le emozioni” e “difficoltà a descrivere le emozioni” dell’alessitimia. Inoltre, l’alessitimia media il rapporto tra ansia sociale e consumo problematico di alcol: precisamente l’uso di alcol per far fronte alle emozioni negative è stato specificamente collegato ad un aumento del rischio di dipendenza da alcol. L’alessitimia associata all’ansia sociale può quindi incoraggiare una dipendenza dagli effetti ansiolitici e disinibitori dell’alcol per ridurre l’ansia, incoraggiare l’espressione emotiva e rendere le interazioni sociali più facili da affrontare. Il presente studio ha anche accertato un ruolo di mediazione dell’alessitimia nel rapporto tra ansia sociale e scarsa teoria della mente. Pertanto, appare evidente che gli errori di identificazione e riflessione sugli stati mentali sembrano portare a risultati interpersonali negativi, promuovendo e mantenendo l’ansia sociale. Tuttavia, emerge che una scarsa teoria della mente nell’ansia sociale non può essere completamente giustificata dall’alessitimia.

In conclusione, le caratteristiche alessitimiche e la scarsa teoria della mente possono influire su coloro che soffrono di ansia sociale e il bere problematico: le difficoltà di identificazione e ragionamento sugli stati mentali altrui hanno il potenziale di perpetuare e mantenere l’ansia sociale e aumentano il rischio problemi di AUD. Poiché lo studio ha utilizzato un campione non clinico, i risultati indicano che le caratteristiche alessitimiche sono prominenti non solo tra gli individui con SAD, ma anche nei giovani adulti non diagnosticati che riferiscono di soffrire di ansia nel contesto delle interazioni sociali.

 

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