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La Functional Analytic Psychotherapy – FAP

La Functional Analytic Psychotherapy (FAP; Kohlenberg & Tsai, 1991) è una delle terapie comportamentali definite da Hayes di terza generazione (Hayes, 2004).

 

Si presenta come un approccio idiografico appartenente alla tradizione comportamentale contestualista (Vilardaga, Hayes, Levin, & Muto, 2009). In questo modello terapeutico, lo strumento primario per una psicoterapia è la creazione di una relazione intensa e genuina tra terapeuta e cliente. Durante la sessione, il terapeuta rinforza in maniera naturale e contingente i comportamenti funzionali del cliente ed estingue quelli disfunzionali (Horvath, 2005; Kohlenberg & Tsai, 1994; Kohlenberg, Yeater e Kohlenberg, 1998; Tsai, Kohlenberg e Kanter, 2010).

I principi teorici della FAP

La FAP è stata concettualizzata negli anni ’90 da Robert Kohlenberg e Mavis Tsai che, dopo aver notato un’associazione clinicamente significativa tra i risultati raggiunti dal cliente in sessione e la qualità della relazione terapeutica, hanno iniziato a creare un modello teorico basato sui principi dell’analisi del comportamento contestualista nella relazione terapeutica. Le sue fondamenta fanno riferimento al comportamentismo radicale (ad es. Skinner, 1974), oggi situato nel quadro più ampio del funzionalismo contestuale (Hayes, Barnes-Holmes e Wilson, 2012; Hayes, Barnes-Holmes e Biglan, 2016).

Nel 1991, con l’uscita dell’omonimo manuale scritto da Robert Kohlenberg e Mavis Tsai, la FAP entra così a far parte delle terapie del comportamento di terza generazione (Hayes, 2004).

La FAP parte dall’assunto che tra i comportamenti del cliente che emergono durante la sessione e nella relazione con il terapeuta, e quelli che avvengono fuori dalla sessione ci sia un parallelismo; in altre parole, si parte dal presupposto che nella relazione terapeutica il cliente metterà in atto comportamenti funzionalmente simili a quelli che agisce nella sua vita di tutti i giorni. Quindi una delle prime osservazioni che un terapeuta FAP può mettere in atto è quella di individuare e distinguere, tra i comportamenti che il cliente emette in sessione e nella relazione terapeutica, quelli che potrebbero essere i comportamenti disfunzionali (CRB1- comportamento clinicamente rilevante di tipo 1) e quelli che potrebbero essere i comportamenti funzionali (CRB2 – comportamento clinicamente rilevante di tipo 2).

Nello specifico, l’enfasi viene posta sulla descrizione del comportamento in termini di funzione piuttosto che di topografia (Hayes & Follette, 1992). La descrizione funzionale serve a scoprire quali sono gli elementi del contesto che accrescono, diminuiscono o creano l’occasione per l’emissione di un certo comportamento.

Infatti, i comportamenti clinicamente rilevanti sono raggruppabili in classi funzionali di risposte. Una ‘classe funzionale’ viene definita come un insieme di comportamenti che hanno in comune gli stessi antecedenti e medesime conseguenze. Basandosi su questo principio, l’analisi del comportamento presuppone che alcuni comportamenti disfunzionali, che si verificano in sessione, siano basati sugli stessi antecedenti e conseguenze che sono comuni a quelli che si verificano nella vita quotidiana del cliente (Kuczynski et al., 2020).

Tre principi della FAP

Alla base del contesto clinico terapeutico della FAP, Mavis Tsai (2009) descrive tre principi che emergono, guidano la relazione terapeutica, possono essere evocati e favoriscono il cambiamento terapeutico: consapevolezza, coraggio e amore terapeutico (Awarness, Courage, Love).

Consapevolezza

Tsai et al. (2009) hanno definito la consapevolezza in termini di attenzione piena e consapevole alle proprie reazioni emotive, ai propri comportamenti e obiettivi terapeutici ma anche alle emozioni e al comportamento dell’altro individuo all’interno dell’interazione. Secondo la FAP la consapevolezza consente di prestare attenzione ai comportamenti dell’altro individuo, aumentando la probabilità di successo della relazione terapeutica (Kuczynski et al., 2020).

Coraggio

Tsai et al. (2009), descrivono una vasta gamma di comportamenti interpersonali coraggiosi come quei comportamenti che sono importanti perché coerenti con i valori, l’identità e i punti di vista del cliente. Per agire questi comportamenti, terapeuta e cliente scelgono di andare oltre i propri limiti, uscendo dalla propria zona di comfort e assumendosi il rischio di emettere comportamenti relazionali non in ‘automatico’ per valutarne poi il possibile effetto positivo, resistendo alla paura ed alle difficoltà.

Amore (terapeutico)

Il termine ‘Love’, che tradotto in italiano è ‘amore’, in questo modello terapeutico viene utilizzato per descrivere le qualità della propria risposta al comportamento emesso dal cliente. Il terapeuta utilizza il rinforzo verso i CRB2 che il cliente manifesta in sessione al fine di promuovere la generalizzazione del comportamento funzionale emerso nei contesti di vita rilevanti per il cliente. Tale rinforzo avviene in modo contingente, naturale e autentico con espressioni di empatia e rispetto (Tsai et al., 2009). L’amore terapeutico è etico, è sempre nell’interesse dei clienti ed è genuino. Essere terapeuticamente amorevoli implica cura e vicinanza relazionale verso il cliente (Kohlenberg &Tsai, 2012; Tsai et al., 2012).

Le cinque regole della FAP

Kohlenberg e Tsai (1991) hanno formulato cinque regole che guidano il terapeuta durante la sessione clinica con il cliente.

Regola 1: Osservare ed identificare i CRB

È fondamentale che il terapeuta sia attento al momento in cui si verifica un CRB (comportamento clinicamente rilevante) nel cliente poiché ciò avrà effetti significativi sulla concettualizzazione del caso, sulla natura e sul focus dell’intervento (Tsai, Kohlenberg et al., 2009).

Riconoscere i CRB consente al terapeuta di avviare un intervento individualizzato e orientato sul cliente.

Regola 2: Evocare i CRB

La regola n. 2 presuppone l’importanza di evocare i comportamenti relazionali e non solo verbali del cliente che avvengono in sessione. Questa osservazione è in costante aggiornamento per promuovere il rinforzo dei comportamenti funzionali, i CRB2. In questa fase il terapeuta, gradualmente più consapevole dei CRB 1 e 2 del cliente, può evocare nella relazione l’emissione dei CRB. L’atteggiamento del terapeuta quindi presuppone che anche per egli stesso sia importante emettere comportamenti funzionali a tale emissione.

Regola 3: Rinforzare naturalmente i CRB2

Il terapeuta rinforza in modo naturale e contingente i comportamenti funzionali del cliente (CRB2). Ciò, al fine di aumentare la probabilità che questi nuovi comportamenti siano maggiormente emessi in sessione e generalizzati fuori dal contesto terapeutico. Rinforzare in modo naturale significa esprimere amore, coraggio e consapevolezza verso il cliente, contemporaneamente all’attenzione al ‘timing’ ovvero la contingenza di questo rinforzo, per massimizzarne l’efficacia.

Regola 4: Osservare gli effetti rinforzanti del comportamento del terapeuta sui CRB del cliente

Seguendo questa regola il terapeuta osserva l’effetto che il rinforzo emesso verso il CRB2 ha avuto sul comportamento del cliente. È importante che il terapeuta osservi scrupolosamente ed indaghi con curiosità quali conseguenze ha avuto la sua risposta rinforzante sul cliente, tenendo conto che alcune risposte, ‘ipoteticamente’ rinforzanti, possano essere rinforzanti per alcuni clienti e non per altri.

Regola 5:  Fornire correlazioni analitiche funzionali, ed osservare la generalizzazione

Durante una sessione FAP, il terapeuta fa riferimento più volte alle analogie fra ciò che avviene in sessione col cliente e ciò che il cliente vive nella sua quotidianità. Queste continue ed esplicite analogie fra la vita quotidiana e le sedute di terapia hanno un duplice scopo. Da una parte, consentono al terapeuta di notare se il cliente ha emesso anche in sessione un comportamento problematico tipico dei suoi contesti di vita (un CRB1); dall’altra parte, segnalano al cliente ed al terapeuta la possibilità di generalizzare in quegli stessi contesti i miglioramenti già avvenuti in sessione. Per fare ciò il terapeuta FAP presta attenzione alla funzione dei comportamenti, al fine di estinguere i CRB1 e rinforzare i CRB2 in seduta per massimizzare la probabilità che il cliente li possa emettere nei diversi contesti di vita. La generalizzazione costituisce l’obiettivo condiviso nella terapia stessa. Ciò è possibile attraverso l’utilizzo di una serie di strategie tra le quali l’invito al cliente di mettere in atto, al di fuori del contesto della terapia, un CRB2 che ha appena emesso in sessione.

L’applicazione delle regole FAP non è rigida. Quando si assiste ad una sessione FAP, quello che possiamo osservare sin da subito è un’intima, coraggiosa e autentica interazione di due persone che scelgono di mettersi in gioco e lavorano con amore, coraggio e consapevolezza per migliorare la qualità della vita e il benessere relazionale del cliente. Nello stesso tempo il terapeuta arricchisce la propria esperienza e soddisfazione professionale. Entrambi avvertono una sensazione di efficacia terapeutica.

 

L’ingannevole paura di non essere all’altezza (2020) di R. Milanese – Recensione del libro

Nel suo libro L’ingannevole paura di non essere all’altezza l’autrice offre una mappa dettagliata e analizza, in ottica strategica, le principali ‘tentate soluzioni’ dell’insicuro.

 

Cos’è l’insicurezza? Cos’è l’autostima? Quali sono le principali psicotrappole di chi si sente e si percepisce insicuro? Il giudice più severo è interno a noi stessi oppure esterno? Attraverso i casi raccontati in questo libro è possibile per il lettore identificarsi in qualche protagonista delle storie (chi non si è mai sentito almeno per una volta insicuro?).

L’insicurezza, se assecondata passivamente, può condurre a veri e propri quadri psicopatologici ma allo stesso tempo, se utilizzata come stimolo per il miglioramento, diventa leva per creare la tanto famosa autostima. Dalla paura di esporsi, alla ricerca della perfezione, dalla paura del conflitto a quella di essere rifiutato, dalla paura dell’inadeguatezza a quella del fallimento, l’autrice offre una mappa dettagliata e analizza, in ottica strategica, le principali ‘tentate soluzioni’ dell’insicuro.

Il tema dell’insicurezza in quanto costrutto trasversale, permette a Roberta Milanese di spaziare tra varie problematiche e psicopatologie invalidanti: dalle fobie, alla paranoia, dal problem solving aziendale alle più strutturate ossessioni in un viaggio tra vari sistemi percettivi reattivi (costrutto della Terapia Strategica che si riferisce a una modalità ridondante di percepire e reagire alla realtà).

  L’ingannevole paura di non essere all’altezza, di scorrevole lettura, offre un’idea dell’efficienza dell’approccio Breve Strategico poiché, senza scendere in dettagli troppo tecnici, permette di capirne il suo orientamento pragmatico volto all’estinzione del problema nel più breve tempo possibile con risultati permanenti; utile per il lettore comune per comprendere quali possano essere le strategie più efficaci (e quelle sicuramente da evitare) di fronte ad un’insicurezza costante e invalidante. Allo stesso tempo è uno scritto che offre spunti per il professionista poiché, senza scendere in aspetti tecnici, vengono esposti svariati scenari clinici applicativi.

Ricordando che l’autostima non può essere regalata ma solo creata attraverso il superamento degli ostacoli, il testo si conclude con la spiegazione del ‘decalogo’ per una sana stima di se stessi; ovvero una serie di regole guida per continuare a costruire e sviluppare le nostre risorse:

  1. Affronta le sfide che la vita ti propone
  2. Alza progressivamente l’asticella ma non obiettivi impossibili
  3. Nessuno può saltare al tuo posto
  4. La perfezione è nemica dell’eccellenza
  5. Non si può piacere a tutti
  6. Le relazioni sono come il tango
  7. Chi non cambia è perduto
  8. Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce
  9. Impiega il tuo tempo nel migliorare te stesso
  10. Si è sconfitti solo quando ci si arrende.

 

Invalidazione genitoriale e disturbi alimentari: il ruolo del narcisismo

Il narcisismo può essere un promettente mediatore condiviso tra problematiche alimentari e invalidazione genitoriale, in quanto, similmente ad un disturbo alimentare, può insorgere per difficoltà di autoregolazione in seguito all’esposizione infantile ad un ambiente invalidante.

 

Il disturbo di personalità narcisistico, può presentarsi secondo due modalità di funzionamento differenti: narcisismo grandioso e vulnerabile.

Il primo, è caratterizzato da un senso del sé inflazionato, sentimenti di superiorità e desiderio di essere al centro dell’attenzione, che si esprimono a livello comportamentale con sfruttamento interpersonale, invidia, scarsa empatia, aggressività ed esibizionismo (Pincus et al., 2009).

Il narcisismo vulnerabile implica l’esperienza cosciente di impotenza, vuoto, bassa autostima ed il ricorso massiccio all’evitamento sociale per fronteggiare i sentimenti di vergogna, quando la presentazione del sé ideale non è possibile, o il bisogno di ammirazione viene frustrato (Pincus et al., 2009).

In accordo con la ricerca, tratti narcisistici si associano a disturbi del comportamento alimentare. Mentre entrambe le declinazioni di narcisismo correlano con la tendenza alla dieta e comportamenti di controllo verso l’ingestione di cibo, il narcisismo vulnerabile si associa a comportamenti bulimici di abbuffate e restrizioni (Zerach, 2014).

Studi longitudinali hanno chiarito il legame causale, identificando il ruolo dei tratti di vulnerabilità, predittivo di comportamenti alimentari restrittivi; mentre quelli grandiosi predicevano futuri comportamenti bulimici (Dakanalis et al., 2016).

L’invalidazione genitoriale subita in infanzia è un fattore di rischio evolutivo che determina l’insorgenza di successive problematiche alimentari. Sebbene coloro con bulimia nervosa e anoressia nervosa riportano livelli simili di invalidazione materna percepita, i primi hanno riportato maggiore invalidazione subita dal padre (Haslam et al., 2008).

L’ambiente infantile invalidante è connotato da una negativa, o del tutto ignorata risposta del genitore alle comunicazioni del bambino. In tale contesto affettivo-relazionale, egli non svilupperà la tolleranza al disagio (Gordon & Dombeck, 2010) ed avrà difficoltà nella regolazione degli stati emotivi, imbattendosi in una ricerca estenuante di approvazione e validazione esterna (Cary, 1994; Monell et al., 2015).

La ricerca non ha individuato un fattore condiviso tra invalidazione materna e paterna che potrebbe condurre alla genesi di problematiche alimentari successive. Mentre considerare l’espressione emotiva come segno di debolezza, sembrerebbe influire nella relazione tra invalidazione materna e preoccupazioni legate all’alimentazione (Haslam et al., 2012); l’evitamento degli affetti è emerso come mediatore esclusivo della relazione tra invalidazione paterna e disturbo alimentare (Mountford et al., 2007).

Il narcisismo può essere un promettente mediatore condiviso, in quanto, similmente ad un disturbo alimentare, può insorgere per difficoltà di autoregolazione in seguito all’esposizione infantile ad un ambiente invalidante. La ricerca ha evidenziato che l’invalidazione genitoriale prediceva in modo significativo entrambe le forme di narcisismo (Huxley & Bizumic, 2017), ma era soprattutto quello vulnerabile che si associava a problematiche alimentari. A differenza dei grandiosi, i narcisisti vulnerabili non sono in grado di mantenere un elevato senso del sé a causa di uno stile interpersonale evitante e non assertivo, che impedisce di richiedere una validazione esterna (Dickinson & Pincus, 2003; Hartmann et al., 2010). L’assenza di un riscontro positivo dall’altro, può determinare bassa autostima e affettività negativa, che a loro volta inducono problematiche nell’alimentazione. A differenza dei vulnerabili, i narcisisti grandiosi sono in grado di utilizzare efficacemente l’altro per regolare gli affetti e mantenere una concezione elevata del proprio senso del sé (Dickinson & Pincus, 2003).

Lo studio di Sivanathan et al. (2019) si è occupato di indagare se il narcisismo grandioso e quello vulnerabile si associavano in modo differente ai disturbi alimentari e, nel dettaglio, se quello vulnerabile poteva mediare la relazione tra invalidazione genitoriale e disturbo alimentare. Sono stati reclutati 352 partecipanti: donne di età compresa tra i 18 e i 30 anni che hanno completato un questionario online.

Gli autori hanno riscontrato che la vulnerabilità narcisistica si associava a problematiche alimentari, agendo come fattore di mediazione comune tra invalidazione genitoriale e disturbi del comportamento alimentare.

Sebbene entrambe le forme di narcisismo correlino tra loro condividendo alcuni aspetti di base, come senso di diritto e necessità di una validazione esterna finalizzata a mantenere un solido senso del sé (Krizan & Herlache, 2017), le caratteristiche uniche della componente grandiosa, come la tendenza a distorcere i feedback esterni per mantenere la propria superiorità e la mancanza di empatia, sono protettive rispetto l’insorgenza di una patologia alimentare. Avendo uno stile assertivo, non mostrano affettività negativa e bassa autostima in seguito alle interazioni sociali (Dickinson & Pincus, 2003).

I narcisisti vulnerabili, a causa dell’invalidazione genitoriale subita, hanno problematiche di regolazione emotiva e tendono a dipendere da fonti esterne per mantenere una buona immagine di sé. Tuttavia, avendo uno stile interpersonale evitante, non riescono ad ottenere un conforto dall’altro. L’affettività negativa conseguente e la fragilità del proprio sé si riversano in condotte alimentari problematiche, insorte anche per feedback sociali negativi e con la finalità di regolare stati emotivi spiacevoli.

I disturbi alimentari in comorbilità con tratti di vulnerabilità narcisistica assumono i connotati di restrizioni, volte alla ricerca di una magrezza che si pensa erroneamente possa incrementare i livelli di autostima, o episodi di abbuffate per regolare affetti spiacevoli, caratterizzanti il binge-eating disorder (Rieger et al., 2010).

Il narcisismo vulnerabile e l’invalidazione genitoriale hanno un ruolo fondamentale nell’eziologia dei disturbi alimentari; tuttavia per comprendere la natura causale di queste relazioni e l’andamento nel tempo delle variabili, la ricerca futura dovrebbe orientarsi verso indagini longitudinali.

Sia il narcisismo che i disturbi del comportamento alimentare comportano difficoltà nella loro gestione terapeutica (Campbell et al., 2009; Pincus et al., 2014); cambiamenti di pensiero o comportamento, indotti da un intervento di terapia cognitivo-comportamentale, vengono facilmente percepiti dall’individuo come minacce all’autostima.

I pazienti con tratti narcisistici e disturbi alimentari, si percepiscono privi di valore, per cui sentono di non meritare il trattamento; ma allo stesso tempo reagiscono con risentimento di fronte alle richieste di una terapia strutturata. Questo comporta l’abbandono precoce della cura, rafforzando la convinzione che non sia pertinente ai loro bisogni (Campbell et al., 2009).

Alla luce di ciò, è utile imparare a riconoscere la fenomenologia clinica delle manifestazioni di narcisismo e le loro associazioni con la patologia alimentare, al fine di migliorare la presa in carico e il trattamento.

 

Che fatica le relazioni! Analizziamo i meccanismi della dipendenza relazionale – VIDEO

CIP Modena ha presentato un ciclo di incontri online con lo scopo di informare sui Disturbi di Personalità. Uno di questi, tenutosi il 24 agosto, ha affrontato il tema della dipendenza relazionale. Pubblichiamo per i nostri lettori il video dell’evento.

 

Alcune persone hanno difficoltà a descrivere e comprendere cosa abbia scatenato un’emozione e parallelamente a comprendere cosa gli altri pensano e sentono e ad utilizzare tale conoscenza per migliorare la loro vita di relazione e formare legami stabili. Siamo spesso guidati nella vita di relazione da un insieme di aspettative, consapevoli, su come gli altri risponderanno ai loro desideri, speranze, piani, bisogni e ambizioni.

Durante l’incontro organizzato dal CIP Modena e tenuto dalla Dott.ssa Simona Giuri, sono state discusse alcune modalità relazionali disfunzionali e sono state date delle indicazioni per una maggiore gestione di alcune dinamiche sociali complicate. Pubblichiamo per i nostri lettori il video dell’evento.

 

CHE FATICA LE RELAZIONI! ANALIZZIAMO I MECCANISMI DELLA DIPENDENZA RELAZIONALE

Guarda il video integrale del webinar:

 

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Monogamia e tradimenti: la gelosia – Una serie di Roberto Lorenzini

Oggi pubblichiamo il nono lavoro della serie di Roberto Lorenzini, dedicata al tema della monogamia e delle sue implicazioni psicologiche, affettive, relazionali e, perché no, sessuali. Lorenzini propone una tesi forte: la monogamia non funziona. E prosegue il suo racconto esplorando lo sviluppo della vicenda amorosa e in particolare la gelosia.

MONOGAMIA E TRADIMENTI – (Nr. 9) La gelosia

 

9. La gelosia

La gelosia è una emozione che probabilmente si è sviluppata a protezione della certezza riproduttiva. Con la gelosia (controlli, minacce al partner e al rivale) i maschi cercano di evitare di investire tempo e risorse per allevare un figlio non proprio, le femmine che il proprio partner dirotti altrove le risorse destinate a loro e al figlio. Naturalmente come sempre avviene nel corso dell’evoluzione un organo, una funzione o un comportamento inizialmente sviluppato per un certo scopo viene poi ad essere utilizzato per altri e più sofisticati obiettivi, per cui occorre diffidare di un semplice riduzionismo che vede nell’uomo soltanto il mammifero che è in lui. Così la gelosia è ormai al servizio di aspetti psicologici sofisticati quali la difesa dell’autostima ed in parte dell’immagine sociale.

Rispetto alla gelosia primordiale, quella che non si preoccupa tanto della ferita alla propria immagine dovuta al fatto che il mio partner preferisca un altro, ma di cose molto più concrete come il fatto che io, maschio, non sia costretto a sgobbare tutto il giorno per allevare un bastardo o io, femmina, non veda mio figlio e me stessa a rischio di sopravvivenza perché il mio partner porta le prede migliori alla vicina di grotta, tra maschi e femmine esiste un’altra differenza decisiva.

In tutti i mammiferi la fecondazione avviene dentro il corpo della femmina e fuori dalla vista del maschio. Per questo la femmina è sempre certa che il figlio che porta in grembo sia il suo ma, al contrario, il maschio non lo è mai, non può esserlo. Le statistiche possibili grazie al test del DNA ci dicono che attualmente un figlio su 5 non è del padre legittimo che ritiene di esserlo.

Solo il maschio corre un alto rischio di investire risorse per favorire il diffondersi di geni non suoi ma di un rivale. È nella natura delle cose che la femmina per salvaguardare la sua prole, qualora non appartenga al partner ufficiale e ben sapendo che quest’ultimo non investirebbe su figli non suoi, debba fare di tutto per nasconderglielo; si pensi alla Filomena Maturano di Eduardo De Filippo e ai suoi tre figli che per lei sono tutti “pezzi ‘e core”, mentre per il suo compagno l’unico a cui dare tutto il suo aiuto e la sua ricchezza sarebbe il suo legittimo figlio, se riuscisse a sapere quale sia dei tre.

Questa diversità nella certezza rispetto alla prole, unità alla diversità dell’investimento e del ruolo che i due sessi giocano nella vicenda riproduttiva fa sì che uomini e donne siano piuttosto diversi anche nello sperimentare la gelosia.

Per gli uomini il tradimento più temuto è proprio quello squisitamente sessuale: ciò che temono è che la loro compagna faccia sesso con un altro e che questo sottragga loro la possibilità di generare un proprio figlio perché la loro compagna è impegnata a riprodurre i geni di un rivale; peggio ancora se ciò avviene a loro insaputa e così oltre al danno, e cioè perdere la loro possibilità riproduttiva, sussiste anche la beffa di tirar su il figlio di un altro. Per gli uomini il tradimento semplicemente affettivo, cioè che la compagna si innamori di un altro è molto meno grave del vero e proprio tradimento sessuale (Buss, Larsen e Western, 1996); e quando comunque lo si considera grave è perché si teme che l’innamoramento sia la premessa per un tradimento sessuale. In effetti per le donne il sesso è più associato all’innamoramento di quanto non lo sia negli uomini. L’ossessione del maschio geloso è l’immagine ripetitiva della sua compagna che sta facendo sesso con il rivale.

Per le donne le cose stanno in maniera un po’ diversa. Il pericolo principale che vedono nel tradimento è che il proprio compagno dirotti attenzioni e risorse verso una nuova compagna e altri figli; quello che non tollerano è che sia sottratto loro il tempo, le attenzioni, l’affetto. In effetti le lamentele che i partner si rivolgono più frequentemente riguardano per i maschi la mancanza di sesso e passionalità erotica, per le donne la trascuratezza e la mancanza di attenzione verso i bisogni emotivi.

Questa diversità nello sperimentare il tradimento e della diversa posta in palio per i due sessi è rispecchiata nelle leggi che condannano l’adulterio in ogni parte del mondo. Dovunque c’è una severità estremamente maggiore nel punire l’adulterio femminile rispetto a quello maschile (si pensi addirittura al delitto d’onore che lasciava impunito il femminicidio, in vigore in Italia fino alla metà del secolo scorso). Ovviamente ciò è dovuto in parte alla connotazione maschilista della maggior parte delle attuali società per cui essendo l’uomo al potere è lui che fa le leggi e quindi è benevolo con i propri errori e drastico con quelli della controparte femminile, ma non è tutto qui. La differenza fondamentale è che l’uomo adultero non impone alla moglie di allevare dei figli non suoi.

 

Un viaggio all’interno dell’ ACT per adolescenti – Video intervista a Sheri Turrell

Intervista a Sheri Turrell, famosa psicologa di Toronto e trainer riconosciuto di Acceptance and Commitment Therapy (ACT), che lavora principalmente con gli adolescenti e le loro famiglie in setting individuali e di gruppo.

 

La competente e simpatica Sheri Turrell, ha accettato di fare con me una video intervista con riferimento al lavoro con i giovani  mediante i principi dell’ACT. Sheri Turrell è una famosa psicologa di Toronto (Canada), trainer riconosciuto di Acceptance and Commitment Therapy (ACT), lavora principalmente con gli adolescenti e le loro famiglie in setting individuali e di gruppo, è impegnata in attività di ricerca e formazione e autrice insieme a Mary Bell nel 2016 del manuale ACT per adolescenti. Trattare teenager e adolescenti in terapia individuale e di gruppo (titolo originale: ACT for Adolescents. Treating Teens and Adolescents in Individual and Group Therapy), tradotto in Italia nel 2019 da Emanuele Rossi ed edito dalla casa editrice Giovanni Fioriti Editori

Per rendere più dinamica questa intervista, ho pensato di mostrare a Sheri delle immagini ed oggetti, lasciando a lei la scelta e l’ordine da dare alla sua argomentazione.

Tra gli oggetti da me selezionati: il foglio rappresentante l’Exaflex, la Matrice (MATRIX), un cartoncino riportante l’acronimo STOP (lingua originale D.O.T.S), un simpatico cartoncino rappresentante un lama (richiamante l’acronimo LLAMA) ed alcuni oggetti come una corda, una trappola per dita cinese ed un riccio in gomma.

La scelta non è stata casuale, infatti l’esagono che all’interno dell’ACT prende il nome di Exaflex, rappresenta i sei cardini del processo per sviluppare una flessibilità psicologica, quali contatto con il momento presente; individuare i valori; azione impegnata verso ciò che conta per noi; sé come contesto che ci ricorda che, anche se i pensieri fanno parte di noi, noi non siamo i nostri pensieri; defusione e accettazione.

Figura 1 – Exaflex

Abbiamo visto e approfondito insieme a Sheri la Matrice, strumento molto utilizzato che consente di rappresentare graficamente su una griglia a quattro quadranti e ponendo noi al centro, ciò che conta per noi o chi vorremmo essere (in basso a destra), cosa potremmo fare per avvicinarci a chi o cosa conta per noi (in alto a destra), quali sono i pensieri e le emozioni che ci allontanano da ciò che conta per noi (in basso a sinistra) e quali sono le strategie di evitamento che mettiamo in atto e che magari possono funzionare a breve termine, per allontanarci da emozioni o pensieri dolorosi (in alto a sinistra).

Figura 2 – La Matrice (MATRIX)

 La compilazione di quest’ultimo quadrante (in alto a sinistra), introduce l’acronimo *STOP corrispondente a:

  • S: sabotarsi, auto lesionarsi (self-harm);
  • T: tranquillizzarsi, distrarsi (distraction);
  • O: optare per la fuga (opting out);
  • P: perdersi il presente, viaggiare nel tempo (time travel).

Figura 3 – Il cartoncino riportante l’acronimo STOP (lingua originale D.O.T.S)

La traduzione tra parentesi fa riferimento alla lingua originale adattata per la traduzione italiana dei lavori di Russ Harris (2009), ma l’acronimo in lingua originale sarebbe DOTS (Distraction; Opting out; Thinking strategies; Substances e other Strategies).

Gli STOP sarebbero un modo intuitivo utilizzato soprattutto con gli adolescenti per renderli consapevoli, ci spiegherà Sheri, di cosa stanno attualmente facendo per fuggire da pensieri, sensazioni, emozioni che non vogliono e se tali strategie funzionino a lungo termine.

Un altro protagonista della nostra intervista è stato il LLAMA.

Figura 4 – Il cartoncino rappresentante un lama (richiamante l’acronimo LLAMA)

Con tale acronimo entriamo nel vivo del lavoro terapeutico ispirato all’ACT. L’acronimo infatti corrisponderebbe a:

  • L: l’etichettare (labeling);
  • L: lasciare andare (letting go);
  • A: autorizzare, accettare ciò che si presenta (allow);
  • M: mindfulness
  • A: approcciare chi/cosa è importante per noi ed agire (approaching what matters).

Abbiamo inoltre, visto insieme dei comuni oggetti che possono essere utilizzati in seduta con i ragazzi sia in setting individuale che di gruppo, come una fune, bolle di sapone, trappola per dita, un riccio, dei palloncini.

Figura 5 – Alcuni oggetti come una corda, una trappola per dita cinese ed un riccio in gomma

Sarà Sheri a scegliere alcuni dei materiali sopra citati e descritti e raccontarci come da lei vengono utilizzati in seduta.

 

Guarda il contenuto dell’intervista completa a Sheri Turrell

 

Lo sviluppo della regolazione delle emozioni in adolescenza: basi neurocognitive

Studi di neuroimaging hanno suggerito la presenza di una relazione tra sviluppo anatomico, chimico, fisiologico del cervello e le manifestazioni comportamentali tipiche degli adolescenti.

Pamela Filiberto – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Mestre 

 

Introduzione

La regolazione delle emozioni a livello sia comportamentale che neurobiologico sta catturando l’interesse crescente degli studiosi nei settori disciplinari legati alle scienze psicologiche, anche in considerazione del legame tra i processi di disregolazione emotiva e l’insorgenza di forme di psicopatologia.

Sempre più numerose sono inoltre le ricerche che approfondiscono la relazione tra l’incremento dei disturbi di tipo internalizzante ed esternalizzante e una scarsa regolazione delle emozioni ad esempio durante il periodo dell’adolescenza.

Comprendere come la regolazione delle emozioni si sviluppa e matura e inserire queste conoscenze all’interno degli studi sul ritmo di maturazione del cervello dell’adolescente, potrebbe aiutare a fornire una cornice di riferimento per lo sviluppo di validi modelli di interpretazione e di intervento.

La regolazione delle emozioni

La regolazione delle emozioni è definita come il processo generazione, monitoraggio, valutazione e modifica delle reazioni emotive al fine del raggiungimento di un obiettivo (Thompson, 1994).

Una regolazione delle emozioni pienamente funzionale richiede la capacità di riconoscere il significato emotivo degli stimoli percepiti, di attivare un processo regolativo e di scegliere e attuare una strategia appropriata (Sheppes et al., 2015). Come tale, richiede il coordinamento di processi multipli ad alto livello, comprese le funzioni esecutive (Ahmed et al., 2015) e in alcuni casi anche le competenze cognitive sociali, come la capacità di comprendere e considerare il punto di vista dell’altro.

Nel considerare le strategie di regolazione delle risposte emotive, una distinzione importante esiste tra regolazione implicita ed esplicita.

La regolazione implicita delle emozioni è definita come ‘qualsiasi processo che opera senza la necessità di una supervisione consapevole o di intenzioni esplicite e mira a modificare la qualità, l’intensità o la durata di una risposta emotiva’ (Koole e Rothermund, 2011).

Gli stimoli emotivi catturano la nostra attenzione, in particolare attraverso l’attivazione di strutture del sistema limbico come l’amigdala, la quale avvia una risposta di allerta a tutto il sistema al fine di una rapida elaborazione della risposta appropriata al contesto (Gamer e Büchel, 2009).

Gli studi hanno mostrato che durante l’adolescenza il sistema di regolazione implicito delle emozioni è modificato rispetto all’adulto, con un aumento delle risposte limbiche agli stimoli emotivi (Hare et al., 2008), una riduzione del controllo prefrontale (Verude et al., 2013) e una connettività alterata o ridotta tra questi sistemi (Somerville et al., 2011). Inoltre, vi è evidenza che la capacità di filtrare gli stimoli emotivi che entrano nel flusso di elaborazione continua a maturare durante tutta l’adolescenza.

Le strategie esplicite di regolazione delle emozioni richiedono, al contrario, uno sforzo consapevole durante l’avvio e un certo livello di monitoraggio durante l’implementazione (Gyurak et al., 2011). Le strategie che hanno ricevuto la maggiore attenzione dal punto di vista degli studi sperimentali sono di due tipi: la rivalutazione cognitiva, ossia la reinterpretazione degli scenari scatenanti le emozioni sotto una luce più positiva; la soppressione espressiva, cioè la riduzione della manifestazione esteriore di una reazione emotiva.

Utilizzando un metodo di indagine self-report, alcuni ricercatori hanno scoperto che l’uso della soppressione espressiva tende a diminuire tra i 9 e i 15 anni e questo è in linea con l’ipotesi che durante la crescita si accumulano esperienze e si acquisiscono capacità cognitive e sociali che consentono lo sviluppo e l’adozione di strategie alternative di regolazione delle emozioni (John e Gross, 2004). La soppressione espressiva è generalmente considerata una strategia maladattiva e l’uso di questa soluzione è associata a una ridotta capacità di riparare gli stati d’animo negativi e a una minore esperienza di emozioni positive (Gross e John, 2003).

A livello cognitivo, i complessi processi esecutivi e sociali necessari per la regolazione delle emozioni, tra cui la memoria di lavoro, il controllo inibitorio, il pensiero astratto, il processo decisionale e l’assunzione di prospettive, sono quindi in fase di sviluppo durante l’adolescenza (ad esempio Blakemore and Robbins, 2012; Somerville e Casey, 2010).

Il miglioramento di questi processi cognitivi sembra essere sostenuto da un processo di maturazione del cervello, particolarmente a carico della corteccia prefrontale, e da un rimodellamento delle connessioni tra regioni prefrontali e regioni limbiche.

La maturazione del cervello dell’adolescente

Durante l’adolescenza, le regioni cerebrali coinvolte nella generazione e regolazione delle emozioni, come il sistema limbico e la corteccia prefrontale, subiscono un intenso e prolungato sviluppo strutturale e funzionale.

È stato ipotizzato che l’immaturità cerebrale renda gli adolescenti poveri delle necessarie abilità di regolare con successo le loro emozioni, mettendoli maggiormente a rischio di insorgenza di disturbi quali ansia e stress (Powers and Casey, 2015). In particolare, studi di neuroimaging hanno suggerito la presenza di una relazione tra sviluppo anatomico, chimico, fisiologico del cervello e le manifestazioni comportamentali tipiche degli adolescenti. L’evidenza suggerisce, ad esempio, che la corteccia prefrontale (PFC), centrale nella generazione e nel mantenimento delle strategie di regolazione delle emozioni (Ochsner e Gross, 2008), sia l’ultima area a raggiungere la piena maturazione, in un periodo che si avvicina ai 25-28 anni di età.

Al contrario, le regioni subcorticali e limbiche, che sono fortemente coinvolte nello sviluppo e nell’avvio delle reazioni emotive agli stimoli ambientali, terminano il processo di maturazione proprio durante l’adolescenza. Ad esempio, l’amigdala aumenta di volume tra i 7,5 e i 18,5 anni (Schumann et al., 2004). Questo ritardo della corteccia orbito-frontale (OFC) rispetto alle aree limbiche sottostanti, produce un disallineamento e uno squilibrio tra i sistemi neurali implicati della reattività emotiva e nella regolazione, con il risultato di aumentare la presenza di comportamenti impulsivi e di ricerca del rischio (Casey et al., 2008).

I modelli più recenti di regolazione delle emozioni

Più recentemente è stato sviluppato il ‘Modello triadico’ (Ernst, 2014) dei comportamenti. Questo modello propone uno squilibrio tra tre sistemi chiave: la corteccia prefrontale (PFC) coinvolta nel controllo normativo, lo striato ventrale (VS) coinvolto nei comportamenti di approccio e di ricompensa, e l’amigdala coinvolta nei processi di evitamento. Il modello presuppone che i tre sistemi maturino lungo linee temporali diverse e che questa asincronia, combinata con una connettività meno matura tra le regioni cerebrali, possa essere implicata nell’assunzione di rischi da parte degli adolescenti.

Sia il modello del developmental mismatch che il modello triadico sono stati accusati di ipersemplificazione nel loro tentativo di collegare la tipicità del comportamento dell’adolescente allo sviluppo del cervello (Pfeifer and Allen, 2012).

Negli anni recenti è stato proposto un nuovo ‘modello di processo esteso’ (Sheppes et al., 2015). Questo presuppone che la regolazione delle emozioni avvenga in tre fasi: (1) Identificazione, in cui uno stato emotivo è individuato e viene compiuta la decisione di regolare o meno l’attivazione; (2) Selezione, in cui si seleziona una strategia di regolamentazione appropriata e (3) Attuazione, in cui la strategia viene implementata. Per esempio, nella fase di Identificazione, un individuo potrebbe percepire l’esperienza di un’emozione negativa, valutare che questa superi una determinata soglia di influenza negativa tale da richiedere una necessaria regolamentazione, quindi decidere di agire per selezionare una strategia appropriata. Questo alimenta poi la fase di Selezione, in cui viene valutata l’intera gamma di strategie regolatorie che porta infine all’ingaggio di azioni appropriate al raggiungimento dello scopo.

Quando si cerca di adattare il modello di processo esteso al periodo dell’adolescenza, vengono sollevati una serie di interrogativi. Innanzitutto, il ciclo percezione-valutazione-azione si svolge nello stesso modo che negli adulti, o ci sono differenze legate alle traiettorie di sviluppo? Si potrebbe ipotizzare, ad esempio, che se il bisogno di approvazione sociale sia rilevante (Blakemore e Mills, 2014), uno stato edonico suscitato in presenza di coetanei potrebbe non far scattare la valutazione di una necessità di regolazione nella fase di Identificazione. Allo stesso modo si potrebbe ipotizzare una certa immaturità mostrata dagli adolescenti nella fase di Selezione, dovuta alla mancanza di accesso all’ampia gamma di strategie di regolamentazione possibili.

Gli adolescenti potrebbero infatti non essere a conoscenza di particolari strategie di regolazione, oppure non avere sufficiente pratica nell’utilizzarle, oppure potrebbero faticare per via dell’immaturità delle funzioni esecutive avanzate (Hofmann et al., 2012) e/o delle abilità di cognizione sociale (Gross, 2014) richieste per l’accesso alle strategie.

La maturità delle funzioni esecutive potrebbe anche influire sulla capacità di passare in modo flessibile da una strategia all’altra durante la Selezione, se la scelta originaria si dovesse dimostrare inefficace. Inoltre, le funzioni esecutive e le competenze di cognizione sociale potrebbero giocare un ruolo importante nella fase di Attuazione. Per esempio, la strategia di rivalutazione (ossia cambiare cognitivamente la propria interpretazione di una situazione emotiva) richiede che funzioni come la memoria di lavoro e la fluidità verbale siano presenti (Hofmann et al., 2012), ma forse ancora più importante è che gli individui siano in grado di assumere la prospettiva di un’altra persona (Gross, 2014).

Conclusione

Le ricerche sembrano suggerire che l’immaturità dei processi neurocognitivi e le abilità sociali possano contribuire a far sì che gli aspetti dell’elaborazione emotiva e dello sviluppo della regolazione seguano una traiettoria non lineare.

Al tempo stesso, è stato suggerito che l’adolescenza è anche un periodo di profondi apprendimenti e di una vivace attitudine alla scoperta e alla sperimentazione flessibile e che potrebbe quindi essere una fase critica per lo sviluppo di strategie di regolazione adattiva delle emozioni e, a sua volta, per l’attuazione di interventi di prevenzione o di educazione efficaci.

 

Il ruolo chiave dell’iper-responsabilità nel disturbo ossessivo compulsivo

Salkovskis osservò che nel disturbo ossessivo compulsivo i pensieri e le immagini automatiche provocate dalle ossessioni ruotano intorno ad una responsabilità personale. L’iper-responsabilità: un eccessivo senso di colpa che spinge a produrre pensieri negativi automatici con un conseguente disagio molto forte.

 

Negli ultimi anni sono stati svolti numerosi studi sulla sintomatologia ossessiva e compulsiva: Wells (2000) definisce ossessioni e compulsioni come fenomeni normali, Rachman (1978) e Salkovskis (1984) osservarono come il contenuto delle ossessioni “normali” è simile a quello delle ossessioni patologiche, come queste ultime si manifestino nell’80-88% delle persone e come arrechino un livello di sofferenza e di disagio maggiore nei soggetti con diagnosi di disturbo ossessivo compulsivo. Salkovskis (1985) osservò come i pensieri e le immagini automatiche provocate dalle ossessioni ruotano intorno ad una responsabilità personale: si parla di iper-responsabilità per indicare un eccessivo senso di colpa sperimentato dal soggetto, che lo spinge a produrre pensieri negativi automatici con un conseguente disagio molto forte (Ladouceur et al., 1996).

Nel 1999, Salkovskis coniò un modello del disturbo ossessivo compulsivo con il quale vengono spiegati gli esiti negativi interconnessi dovuti all’iper-responsabilità come 1) l’aumento del disagio, di ansia e depressione, 2) una maggiore attenzione alle intrusioni e/o a stimoli correlati, 3) l’accessibilità al pensiero originale e di idee correlate e, infine, 4) tentativi controproducenti messi in atto per ridurre i pensieri e diminuire l’iper-responsabilità (Salkovskis, 1999).

Mitchell e colleghi (2019) hanno testato il modello di Salkovskis (1999) del disturbo ossessivo compulsivo che enfatizza il ruolo dell’iper-responsabilità: le componenti individuali del modello sono state misurate utilizzando indicatori multipli in un campione composto da 170 studenti non laureati, inoltre le variabili incluse sono esperienze precoci, incidenti critici, assunzioni di responsabilità e credenze, valutazioni errate di intrusioni, cambiamenti di umore, strategie di sicurezza controproducenti e azioni di neutralizzazione. (Mitchell et al., 2019). I sintomi del disturbo ossessivo compulsivo e le azioni di neutralizzazione sono stati misurati con la Yale-Brown Obsessive Compulsive Scale (Y-BOCS; Baer et al., 1993) e Obsessive Compulsive Inventory Revised (OCI-R; Foa et al., 2002). Le assunzioni di responsabilità basate sulle credenze sono state misurate con Obsessive Beliefs Questionnaire Responsibility Subscale (OBQ-44; Obsessive Compulsive Cognitions Working Group, 2005) e con Responsibility Attitudes Scale (RAS, Salkovskis et al., 2000). L’interpretazione errata di pensieri intrusivi è stata misurata con Responsibility Interpretations Questionnaire (RIQ; Salkovskis et al., 2000) e con Revised Obsessional Intrusions Inventory (ROII; Purdon e Clark, 1994). I cambiamenti di umore sono stati misurati con la sottoscala Profile of Mood States – Short Form (POMS-SF; Curran et al., 1995). Le strategie di sicurezza controproducenti – che consistono in variabili latenti con forme di pensiero deleterie di soppressione e controllo – sono state misurate con White Bear Suppression Inventory (WBSI; Wegner e Zanakos, 1994) per valutare la motivazione del soggetto alla soppressione dei pensieri – e con il Thought Control Questionnaire (TCQ; Wells and Davies, 1994) per osservare differenti strategie di soppressione del pensiero come distrazione, controllo sociale, preoccupazione, punizione e rivalutazione. L’evitamento è stato misurato con Acceptance and Action Questionnaire (AAQ-2; Hayes et al., 2004) e, infine, le altre variabili come incidenti critici, esperienze precoci e bias attentivi sono state misurate con Parental Bonding Instrument (Parker et al., 1979), Life Experiences Survey (Sarason et al., 1978) e con il Trauma History Questionnaire (Green, 1996) associato a un test attentivo.

L’iper-responsabilità rispecchia i dati del campione e, come previsto dal modello, l’interpretazione errata di pensieri intrusivi (come indicato dalla responsabilità personale) è il mediatore tra le credenze alla base della responsabilità, le strategie di sicurezza controproducenti, azioni neutralizzanti e cambiamenti di umore (Mitchell et al., 2019).

 

In ricordo di Maria Miceli

È purtroppo scomparsa la professoressa Maria Miceli, psicologa sociale con una formazione filosofica, ricercatore presso l’ISTC-CNR.

Miceli ha realizzato una significativa attività di ricerca sulla relazione tra il dominio cognitivo e quello emotivo e motivazionale. Condivideva con il suo principale collaboratore Cristiano Castelfranchi una impostazione cognitiva di tipo computazionale in cui si indagavano gli stati mentali riconducendoli a scopi e credenze. Al tempo stesso, e forse in questo consisteva il suo contributo distinto rispetto a Castelfranchi (dal quale non era sempre facilmente distinguibile, tanto elevato era il loro affiatamento), Miceli nutriva interesse per gli aspetti emotivi e motivazionali meno riconducibili all’aspetto cognitivo o, almeno, alla cognizione come valutazione realistica degli ostacoli dell’ambiente esterno e dei limiti delle proprie capacità. Vi è, scriveva Miceli, un’altra cognizione che non valuta ostacoli esterni e limiti personali ma rappresenta le aspirazioni, le ambizioni e i valori dell’individuo.

Insomma, Miceli ampliò l’oggetto dell’indagine cognitiva dalla ragion pura alla ragion pratica. Per questo studiò a fondo le emozioni associate ad autovalutazioni negative (senso di colpa, vergogna), alle emozioni “ostili” (rabbia, risentimento, indignazione, disprezzo, disgusto), a quelle che implicano processi di confronto sociale (senso di inferiorità, ammirazione, invidia, emulazione, gelosia), a quelle che implicano rappresentazioni anticipatorie (paura, ansia, speranza, fiducia) o sono provocate dall’invalidazione di rappresentazioni anticipatorie (sorpresa, delusione, scoraggiamento, sollievo, rimpianto). Con questo bagaglio di studi scrisse con Cristiano Castelfranchi libri sulle emozioni e sui bisogni che ebbero una grande influenza che andò oltre la scienza pura e investirono la clinica e la psicoterapia cognitivo comportamentale italiana, grazie alla mediazione di Francesco Mancini.

Collegati per l’erario ma persi nelle profondità del Malessere: Smart Working e salute mentale

Durante la recente epidemia della Sars-Cov-2, il lavoro in modalità Smart è stato fondamentale, tanto che ancora oggi alcune aziende lo usano in toto o in gran parte della settimana lavorativa. Sebbene ciò possa inficiare sull’equilibrio mentale moderato dal radicato bisogno dell’Uomo di aver contatto con il proprio simile.

 

La recente epidemia di Sars-Cov-2 ha colpito radicalmente tutte le Società Umane presenti nel globo, con gravi conseguenze sanitarie (WHO, 2020), sociali ed economiche (UNDP, 2020). Un lato che sicuramente è stato sottoposto a stress continuo è quello psicologico (Serafini et al, 2020), tanto che un interesse principale del mondo medico è stato il controllo delle reazioni alla pandemia da parte di soggetti sofferenti patologie mentali gravi (Barber, S. et alt., 2020).

Oltre a ciò, si è registrato anche un aumento considerevole delle situazioni di disagio emotivo e neurochimico nella porzione della popolazione sana (Dubey S, Biswas P, Ghosh R, et al., 2020), con un grande aumento di malessere depressivo (D’aria, 2020).

L’aspetto del disagio psicologico per la situazione della pandemia ha destato preoccupazione nella ripresa delle attività lavorative seguenti le direttive della OMS (Kniffin, K.M. et al., 2020), con il mondo della cura psicologica attiva per aiutare i lavoratori ad affrontare la “new normality” (O’Hara, 2020). La risposta dell’ambiente lavorativo alle restrizioni dovute alla situazione di crisi mondiale ha interessato molto il mondo della ricerca (Sasaki, N. et alt, 2020), soprattutto l’evoluzione delle relazioni nell’ambiente lavorativo sottoposto al lavoro a distanza.

Essendo una valida strategia di diversificazione produttiva ed organizzativa nelle aziende (Gastaldi, Luca, et al., 2014), l’utilizzo dello smart working nelle aziende che hanno avuto disponibilità durante le fasi di lockdown ha permesso alla economia mondiale di non chiudere del tutto (Pesenti, L., Scansani, G., 2020), con benefici tali che si sta ipotizzando una nuova evoluzione del luogo di lavoro basata su ciò nella fase declinante della crisi (Patella,M., 2020).

Se dal punto di vista della strategia aziendale e del vantaggio organizzativo lo smart working è un beneficio, i problemi si riscontrano nell’oggetto analizzato dell’articolo, ovvero il punto di vista sociale e mentale. Essendo l’Uomo un animale per cui la socialità è un aspetto che impatta profondamente la sua salute (Tomasello, M., 2014), la costrizione a regole ferree negli approcci interpersonali e nelle disposizioni ambientali e corporali ha messo alla prova l’umore e la stabilità psichica delle persone (Venkatesh, A., & Edirappuli, S. ,2020), ridefinendo radicalmente gli scambi sociali nelle varie società umane (Galea, S., Merchant, R. M., & Lurie, N.,2020).

Come purtroppo è stato facilmente evidenziato dalle prove empiriche derivate dalle relazioni familiari (Spinelli, Maria, et al., 2020) e sentimentali (Pietromonaco, P. R., & Overall, N. C., 2020), anche il campione derivato dalle relazioni lavorative ha visto emergere delle problematiche. Lo smart working, come mezzo di lavoro, è ottimo per la creazione in breve tempo di risultati economici di valore sostenibile nel tempo (Bednar, Welch, 2019), per la facilitazione del change management (Tagliaro, Ciaramella, 2016) e per la creazione di prodotto senza limiti legati al tempo ed alla posizione geografica (Angelici, Profeta, 2020). Se dal punto lavorativo il lavoro agile è una aggiunta di valore, le maggiori criticità si sono riscontrate nel campo psico-salutare: infatti, l’eventuale continua disponibilità al rimettersi alla produzione nei luoghi di vita privata potrebbe creare problemi dal punto di vista della qualità della produzione, creando la sensazione all’attore di essere sempre sul luogo di lavoro (Neri et al, 2017).

L’ulteriore problema è l’eventuale assenza fisica dal luogo di lavoro: sebbene il lavoro agile sia considerato un grande risparmio dal punto di vista economico, sia per l’attore impiegato che per l’azienda (McEwan, 2016), le relazioni sul luogo di lavoro sono un elemento imprescindibile per la salubrità della vita lavorativa e personale del lavoratore (Podolny, Baron, 1997).

Inoltre, l’uso prolungato aziendale dello smart working porterebbe all’assenza prolungata da un ambiente dove avvengono relazioni sociali, uno degli aspetti fondamentali per la sanità mentale dell’uomo (Rossi et al, 2020). Quindi, l’assenza di frequentazione di un ambiente diverso dal nucleo familiare con il contrastante rimanere nella posizione remota per più tempo, avendo a che fare con lo stress lavorativo aggiunto allo stress della minaccia alla salute, ha fatto emergere la possibilità di subire conseguenze psicofisiche anche gravi, come i disturbi del sonno (Gualano, Maria Rosaria, et al., 2020).

Visto che attualmente si sta tornando al lavoro su luogo fisico, con le precauzioni dovute assieme alle conseguenze (Tan, Wanqiu, et al., 2020), è assicurato che lo smart working non sarà per niente relegato a metodo di lavoro secondario, con progetti al riguardo circa la sua fruizione per le persone più svantaggiate, come gli impiegati più anziani (Andrushevich, Aliaksei, et al., 2020).

 

Mindful eating per condire la vita. La mindfulness applicata all’alimentazione: temi trattati, efficacia dimostrata e sviluppi terapeutici futuri

La mindful eating è l’alimentazione consapevole: è la capacità di portare piena attenzione e consapevolezza all’esperienza alimentare e al cibo.

Denise Pizzo – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Mestre

 

La ricerca scientifica da oltre trent’anni evidenzia i benefici della mindfulness.

Da quando Jon Kabat Zinn implementò il programma MBSR (Mindfulness- Based Stress Reduction) nella Clinica per la Riduzione dello Stress del Massachussetts numerosi sono stati i protocolli sviluppati, sia in psichiatria che in altri specifici ambiti di vita.

Ora la mindfulness trova spazio in contesti aziendali, ospedalieri, oncologici, sportivi, scolastici; è stata declinata per specifiche fasce d’età e specifiche psicopatologie. È risultata talmente potente da essere stata inserita in alcune psicoterapie, come la Terapia cognitiva basata sulla mindfulness (MBCT, Mindfulness-Based Cognitive Therapy) per depressioni recidivanti, e la Terapia dialettico-comportamentale (DBT, Dialectical Behaviour Therapy) per il disturbo borderline di personalità. Insegnamenti di mindfulness sono presenti in altri setting clinici, come ad esempio l’Acceptance and Commitment Therapy (ACT) di Steve Hays, la Schema Therapy di Young e Klosko, la Compassion Focused Therapy (CFT) di Paul Gilbert e altre.

La mindfulness sta sempre più espandendo i suoi confini, ipersettorializzandosi su specifici ambiti. Tra questi non poteva non prendere forma la mindfulness applicata all’alimentazione: la mindful eating.

La mindful eating è l’alimentazione consapevole: è la capacità di portare piena attenzione e consapevolezza all’esperienza alimentare e al cibo. Permette di diventare consapevoli dei nostri stati interni (sensazioni fisiche, emozioni, pensieri) relativi al mangiare, riconnettendoci con la nostra innata saggezza interiore.

L’ente internazionale di riferimento per la mindful eating è il Center For Mindful Eating (TMCE), organizzazione non-profit fondata nel 2006 che si propone di diffonderne i principi e di fare ricerca scientifica.

Tra i soci fondatori della TMCE c’è Jean Kristeller, ideatrice del programma MB-EAT, che descrive la mindful eating come il ‘prestare deliberatamente attenzione all’esperienza con gli alimenti e la nutrizione, senza giudicare’ (2015). La definizione di Kristeller riecheggia quella della mindfulness di Jon Kabat Zinn, con cui peraltro ha lavorato in stretto contatto: ‘la mindfulness è porre attenzione in un modo particolare: intenzionalmente, al momento presente e in modo non giudicante’ (1994).

La Mindfulness-Based Eating Awareness Training (MB-EAT, Kristeller, Baer & Quillian-Wolever, 2006; Kristeller & Hallett, 1999) è un programma evidence based, che integra MBSR e CBT. La MB-EAT si struttura in nove incontri e due di follow-up finalizzati al miglioramento del proprio comportamento alimentare e più in generale allo sviluppo di un più salutare ed equilibrato atteggiamento verso il cibo.

Il programma implementato da Kristeller, strutturato ma flessibile, è coerente con il modello della regolazione affettiva (Wilson, 1984), la teoria della restrizione (p.e. il modello della dieta cronica di Herman e Polivy, 1980), il modello dell’evitamento delle emozioni (Heartherton e Baumeister, 1991), il controllo mentale (Wegner, 1994) e i modelli neuro-cognitivi e terapeutici della mindfulness. Alla base del training di mindful eating ci sono quindi le pratiche di mindfulness che incrementano la capacità di essere consapevoli, di dirigere l’attenzione al momento presente, di sospendere il giudizio e le reazioni automatiche. Queste abilità possono essere direzionate alle attività della vita di tutti i giorni – come l’MBSR insegna – compresa l’alimentazione, come già Jon Kabat Zinn aveva suggerito in Full Catastrophe Living (1990), edito in Italia con il titolo Vivere momento per momento.

Tre sono i pilastri su cui si erge la MB-EAT: le pratiche di mindfulness, la psicoeducazione e le tecniche cognitivo-comportamentali.

Le tecniche di neuroimaging hanno ampiamente dimostrato le modificazioni neurologiche causate da una regolare pratica di mindfulness: l’inspessimento corticale della corteccia prefrontale mediale, deputata alle funzioni esecutive – quali la pianificazione, il problem solving, la regolazione delle emozioni, la memoria, l’attenzione (Lazar et al., 2005), un’attenuazione dell’attivazione dell’amigdala a fronte di stimoli minacciosi (Creswell et al., 2007), la stimolazione dell’ippocampo in cui avviene la neurogenesi (Hölzel et al., 2007). Senza contare l’abbassamento del livello di cortisolo (l’ormone nello stress) nel sangue, comportando anche effetti neuroprotettivi sul cervello (Xiong & Doraiswamy, 2009). La mindfulness è in grado di incrementare la capacità di autoregolazione, disinnescando comportamenti automatici di risposta (Brown, Ryan & Creswell, 2007). In tal modo, è in grado di ridurre il processo di inferenza automatica, migliorando il controllo cognitivo, facilitando l’insight metacognitivo e la prevenzione di pensieri distorti (Kang et al., 2013).

Complessivamente, questa funzione de-automatizzante della mindfulness promuove strategie autoregolatorie adattive e outcomes salutari. Si noti l’importanza dell’incremento delle capacità di autoregolazione nei comportamenti alimentari: spesso apriamo il frigo in modo automatico o mangiamo una patatina dietro l’altra di fronte alla TV senza nemmeno renderci conto di essere arrivati alla fine del pacchetto; fino ad arrivare a disturbi conclamati del comportamento alimentare, come accade nella bulimia nervosa e nel disturbo da alimentazione incontrollata (BED) dove esiste una problematica correlata alla disregolazione emotiva e degli impulsi.

Il secondo grande pilastro che compone la MB-EAT è la psicoeducazione. Attraverso contenuti più didattici, i partecipanti vengono informati sui contenuti emotivi e cognitivi che emergono nei confronti del cibo. Vengono date nozioni sui bias cognitivi che si attivano di fronte al cibo (come ad esempio, il pensiero dicotomico, l’attenzione selettiva, il catastrofismo, le affermazioni prescrittive, il doppio standard valutativo per sé e per gli altri, l’effetto violazione del controllo), sui condizionamenti che ci ritroviamo a vivere costantemente sulle nostre tavole (come ad esempio, ‘Mangia tutto quello che hai nel piatto’, ‘Se rifiuto altro cibo penserà che non ho gradito’, ecc.), sui meccanismi di regolazione ipotalamica in piena connessione alla saggezza interiore e di fame/ vuoto gastrico e sazietà/ pienezza; vengono spiegati (ed esperiti) i nove tipi di fame, le sei fasi del mangiare e il livello di soddisfazione delle papille gustative.

Il terzo pilastro della MB-EAT è costituito da tecniche cognitivo-comportamentali. Nello specifico, si accompagna il paziente nell’esposizione graduale al cibo trigger, fonte di ansia. Il cibo viene qui trattato come vero e proprio oggetto fobico a cui esporsi per estinguere poi l’evitamento esperienziale e l’ansia associata. In questo modo, il paziente apprenderà un modus operandi più funzionale per gestire qualsiasi cibo trigger,  traendone una relazione più sana e meno ansiosa e colpevole.

La mindful eating risulta davvero un approccio innovativo al cibo: non prescrive cosa mangiare e cosa non mangiare, ma insegna come mangiare. Attraverso graduali esercizi di alimentazione consapevole e meditazioni guidate tratte dalla MBSR (sitting meditation di tipo vipassana e samatha, body scan, movimenti consapevoli), il paziente sviluppa una relazione salutare con il cibo, basata sull’ascolto dei segnali interni del corpo, sull’uso dei cinque sensi, sulle emozioni, sui pensieri, imparando a disattivare il ‘pilota automatico’ e coltivando accettazione, auto-compassione e perdono.

Insegna a coltivare fiducia nei confronti del nostro corpo e ad esservi sensibili, riscoprendo la saggezza interiore connaturata nell’infanzia. I bambini sono, infatti, puri esseri mindful, che sperimentano il mondo interamente con i sensi, by-passando le metacredenze e i giudizi. Poi, intorno ai tre anni, si sviluppa la teoria della mente (ToM) che ci rende sensibili alle opinioni altrui, alle aspettative sociali e ai condizionamenti che incessantemente ci vengono ripetuti nell’infanzia (ad esempio, ‘Mangia tutto che ci sono bambini che muoiono di fame’, ‘Se mangi la verdura, avrai il dolce’, ‘Finisci quello che hai nel piatto così fai felice la mamma’). Prestando attenzione a quello che ci viene detto dall’esterno, finiamo gradualmente col disconnetterci dal nostro corpo, da quella che in mindfulness viene definita ‘saggezza interiore’. E la saggezza interiore non è altro che il nostro ipotalamo che sa perfettamente cosa e quanto mangiare per sentirsi bene. Un esperimento degli anni Trenta (Davis, 1939) ha messo in evidenza che i bambini con età compresa tra i 6 gli 11 mesi osservati per una settimana ai quali veniva offerta una varietà di cibo sul vassoio, mangiavano un appropriato numero di calorie con una distribuzione adeguata fra i vari nutrienti, come se fossero guidati da un nutrizionista interiore. La mindful eating dà voce a quel nutrizionista interiore, in piena connessione con il proprio corpo e la propria mente.

Con la MB-EAT si scopre quando si è davvero affamati e quale fame si attiva (fame degli occhi, fame della bocca, fame del naso, fame delle orecchie, fame del tatto, fame cellulare, fame dello stomaco, fame del cuore, fame della mente), si impara a scindere la sazietà dalla pienezza gastrica, conduce a scelte alimentari più consapevoli (a partire dall’acquisto del cibo).

La mindful eating è in grado di amplificare la godibilità del cibo: ogni morso diventa un’esperienza unica che amplifica l’esperienza del momento presente. Le diete (intese in senso restrittivo- e non etimologicamente come ‘stile di vita’) non solo ci disconnettono dal nostro corpo, ma violano anche il principio di piacere associato al cibo. La soddisfazione legata al cibo può assumere configurazioni diverse: godere del cibo che sto mangiando, sentirmi piacevolmente pieno, una situazione conviviale che riunisce amici e/o familiari. Le diete rimuovono il senso di soddisfazione legato al cibo: non mangi perché ‘è buono’, ma mangi perché ‘devi’. L’idea di controllo, limitazione, sacrificio interferiscono pesantemente con la sensazione fondamentale su cui si basa il nostro rapporto con il cibo: il piacere. Questo rappresenta un paradosso. La soluzione è rappresentata dalla mindfulness che enfatizza la soddisfazione del cibo non nella quantità, ma nella qualità: grazie a esercizi guidati, si scopre di essere in grado di trarre piacere da piccole quantità di cibo. E la soddisfazione legata al cibo non verrà poi seguita da sensi di colpa – come accade spesso negli emotional eaters: si coltiva l’astensione da posizioni giudicanti e rigide rispetto a sensazioni, pensieri, emozioni e comportamenti che riguardano il nostro modo di nutrirci. Questo aspetto è fondamentale per imparare a sviluppare un atteggiamento di amorevole gentilezza in contrasto con quegli atteggiamenti colpevolizzanti che spesso esistono nei confronti del cibo. Questa esperienza consente di coltivare l’arte del lasciare andare e dell’essere più accettanti.

Da anni, la ricerca scientifica documenta i benefici della mindful eating, anche nella popolazione clinica. Nello specifico, risulta utile nel trattamento della bulimia nervosa (Proulx, 2007), efficace nel ridurre i comportamenti di binge eating ed emotional eating (Godsey, 2013; Katterman et. al. 2014; Godfrey et. al., 2015). Trattamenti basati sulla mindful eating aiutano il mantenimento della perdita del peso in soggetti obesi o sovrappeso (Mantzios et al., 2015) e dopo interventi di chirurgia bariatrica (Chacko, 2016). Ci sono studi in merito all’efficacia della mindfulness in soggetti diabetici (Medina et al., 2009) e nel mantenimento del peso nei soggetti con sindrome di Prader-Willi (Singh et al., 2011). Discordanti sono i dati in merito all’impiego della consapevolezza alimentare nell’anoressia nervosa (Rodriguez et al., 2013): alcuni studi riportano dati incoraggianti (Albers, 2011) ma sono da verificare con ulteriori ricerche che coinvolgano un maggior campione: il rischio è che con l’aumento dei tempi di latenza tra stimolo e risposta, il controllo (in questo caso alimentare) aumenti, determinando un peggioramento delle condizioni cliniche.

In uno dei primi studi (1999), Kristeller et al. dimostrarono le potenzialità di un trattamento basato sulla mindfulness con soggetti con binge eating. Lo studio coinvolse 18 donne di età compresa tra i 25 e i 62 anni, con problemi di alimentazione compulsiva e di peso corporeo. Nessuna di loro aveva mai fatto meditazione in precedenza. I risultati di questo piccolo studio furono entusiasmanti: la frequenza e l’entità delle abbuffate si riduceva a più della metà (da 4.02 a settimana a 1.57 a settimana) in sei settimane e i partecipanti avevano nettamente ridotto i problemi generali con l’alimentazione; anche l’ansia e la depressione erano diminuite. In aggiunta, più queste donne applicavano le pratiche mindfulness all’alimentazione, più forti erano i miglioramenti riscontrati. Questi risultati furono incoraggianti per l’implementazione del programma MB-EAT.

L’efficacia del programma MB-EAT è stata poi testata con uno studio controllato e randomizzato eseguito in due centri, comparandolo con un programma psicoeducazionale basato sulla TCC e una lista di attesa come gruppo di controllo (Kristeller, 2013) in un campione con diversi gruppi etnici di donne e uomini obesi con BED o con BED subclinico. Un’analisi intent-to-treat ha mostrato una diminuzione delle abbuffate oggettive, della loro gravità e dei sintomi depressivi in entrambi i gruppi in trattamento. Tuttavia, soltanto le persone assegnate al gruppo MB-EAT mostravano un minore livello di locus of control rispetto al cibo, suggerendo una maggiore interiorizzazione del cambiamento. I risultati mostravano che, inoltre, dopo 4 mesi dalla fine dell’intervento, il 95% di chi era stato sottoposto a trattamento MB-EAT usciva dalla diagnosi di BED contro il 76% di chi era stato trattato con TCC.

Viviamo in una società opulenta, dove i comportamenti alimentari disfunzionali sono spesso il sintomo di problematiche emotive e relazionali più ampie. Uno strumento come la mindful eating e, più nello specifico, la MB-EAT può rivelarsi vincente nel combattere questi disagi che arrecano tale sofferenza. Come terapeuti formati, avere nella ‘borsa degli attrezzi’ uno strumento di tale potenza, sostenuto dalle evidenze scientifiche, può sicuramente aiutarci nel lavoro con i nostri pazienti.

 

L’influenza dell’intelligenza emotiva sulla qualità delle performance lavorative

La dicotomia tra razionalità ed emotività caratterizza da sempre l’essere umano. Alcune persone estremizzano l’uso della razionalità per reprimere e governare le proprie emozioni, mentre altri faticano a modularle, rimanendo in balìa di esse. Al contrario, imparare a gestire e sfruttare questa ambivalenza, secondo un’ottica integrativa, è una risorsa preziosa per poter migliorare la qualità della nostra vita nei suoi ambiti principali, come quello lavorativo.

 

Per comprendere come sia possibile fare ciò, bisogna focalizzarsi sul concetto di “intelligenza emotiva”, definita da Goleman (1996) attraverso cinque caratteristiche: autoconsapevolezza, gestione del sé, empatia, motivazione, abilità sociali (per ulteriori approfondimenti suggerisco la lettura del seguente articolo Intelligenza emotiva pubblicato da State of Mind). Essa è un’abilità che ereditiamo dall’iniziale sviluppo della Teoria della Mente: la capacità di attribuire gli stati mentali (ovvero bisogni, credenze, desideri, punti di vista, emozioni) propri e altrui (Premack &Woodruff, 1978). Tale capacità si sviluppa intorno ai 4 anni, quando il bambino inizia a condividere la sua attenzione con un adulto significativo, come la madre, interagendo con lei in maniera diretta, ad esempio attraverso sguardi e interazioni faccia a faccia. Sulla base della teoria della mente è possibile, nel corso del tempo, affinare e arricchire il nostro bagaglio emotivo, sviluppando doti come la capacità di provare empatia, di saper accettare il pensiero dell’altro e di creare relazioni autentiche e profonde, decentrandosi e abbandonando una prospettiva egocentrica e individualistica.

L’intelligenza emotiva è una nostra grande alleata, soprattutto in particolari contesti, dove si presentano situazioni in cui è richiesta collaborazione, ad esempio all’interno del contesto lavorativo.

Studi condotti sul campo da Kelley e Caplan (1993) hanno dimostrato che, a parità di competenze, la differenza relativa alla qualità della performance è data dal Qi emozionale piuttosto che dal Qi riferito all’intelligenza o dal talento accademico. Una delle peculiarità di questi “eccellenti lavoratori” esaminati era la capacità di instaurare buoni rapporti con gli altri, così da formare una sorta di squadra, una rete di sostegno informale, utile per affrontare problemi e crisi. Ma è importante che tale rete venga creata prima che si presenti realmente il problema da gestire. Questo è possibile quando l’empatia e la collaborazione contribuiscono a mantenere un clima positivo tra i colleghi. Questo clima è essenziale per sviluppare, esprimere e sperimentare al meglio le proprie capacità personali, integrandole con i talenti degli altri (Goleman, 1996).

Quali caratteristiche ci possono aiutare a migliorare la nostra performance lavorativa?

Persone competenti e di talento, ma che non riescono a collaborare e interagire in maniera positiva con gli altri, vengono spesso escluse dalle reti collaborative che si instaurano tra i colleghi, compromettendo così i risultati della propria performance. È possibile sfruttare al meglio la propria intelligenza emotiva per ottenere risultati migliori, potenziando tali caratteristiche:

  • la capacità di coordinazione tra i propri sforzi e quelli altrui;
  • la capacità di persuasione e di collaborazione;
  • una gestione adeguata dei conflitti;
  • una gestione adeguata delle proprie risorse, del tempo e degli impegni lavorativi;
  • la comprensione e accettazione delle prospettive dei clienti e dei colleghi e le rispettive diversità;
  • la capacità di lavorare in gruppo (Goleman, 1996).

In una società caratterizzata sempre di più da un crescente individualismo, indifferenza e competitività, che ci spingono spesso a sperimentare stati di solitudine e difficoltà, l’intelligenza emotiva permette invece di farci distinguere e di trasformare anche l’ambito lavorativo in un’opportunità di crescita personale e di collaborazione con gli altri. Il contesto lavorativo, afferma Goleman (2000), è un contesto in cui non basta avvalersi di una logica fredda e rigida: occorre sapersi rapportare con gli altri in maniera flessibile, con spirito ottimistico e di adattamento. Questo clima di fiducia e alleanza non solo ci permette di affrontare con maggior positività i nostri compiti, ma anche di ottimizzare tempi e processi esecutivi, arricchendo i nostri talenti con quelli altrui, grazie all’aiuto reciproco. Non a caso, infatti, l’intelligenza emotiva è considerata una delle 10 soft skills più richieste ai candidati durante i colloqui di lavoro (Robles, 2012).

 

“Tutto è difficile prima di diventare facile” e “La paura che diventa coraggio” (2020) di Luca Mazzucchelli e Giulia Telli – Recensione dei libri

Freschi di pubblicazione, Tutto è difficile prima di diventare facile e La paura che diventa coraggio, sono due simpatici libri per bambini che nascono da un nuovo progetto SerenaMente di Luca Mazzucchelli, famoso psicologo e psicoterapeuta, e la moglie Giulia Telli, illustratrice e nota sul web per i suoi consigli circa le letture per bambini.

 

Nati da SerenaMente, una collana che ha come finalità quella di aiutare genitori e bambini a familiarizzare con alcuni concetti tratti dal mondo della psicologia e della crescita personale, i due libri ce ne parlano attraverso le esperienze di animaletti che faranno da protagonisti all’interno dei racconti.

La paura che diventa coraggio

In La paura che diventa coraggio, la protagonista è una Volpe che tanto desidera liberarsi dalla paura ma tanto nella prima parte del racconto la subisce; sarà grazie ai suggerimenti dell’amico Tasso e gli aneddoti del saggio nonno dello stesso che Volpe riuscirà gradualmente ad affrontare e superare la sua paura, riuscendola a trasformare in coraggio.

Tutto è difficile prima di diventare facile

In Tutto è difficile prima di diventare facile, il protagonista è un cane lupo dal nome Simba che desidererebbe tanto diventare un acrobata del circo, ma siccome molto timido e scoraggiato dagli altri, era pronto a rinunciare al suo sogno. Anche in questo caso sarà la saggezza del gatto Orazio che lo spronerà a non abbandonare il suo desiderio ed impegnarsi per questo, riuscendo a tollerare le frustrazioni che potranno presentarsi ed utilizzare la grinta, la costanza e determinazione che lo accompagnerà a raggiungere il suo obiettivo.

Due libretti, dedicati ai piccoli lettori e ai loro genitori, che in maniera leggera affrontano grandi temi di cui ne è comprovato l’aspetto utile per il nostro benessere psicologico ed il loro, che sintetizzerei con il termine resilienza. Oggi, sappiamo infatti, grazie anche agli studi delle neuroscienze, che la resilienza ha un carattere di normalità e non di straordinarietà e dunque caratteristica potenzialmente comune a tutti gli esseri umani. Ma va anche detto che la probabilità di sviluppare risposte resilienti sarebbe correlato a diversi fattori ambientali, come le relazioni affettive e di supporto, le relazioni esterne, fattori individuali come l’autostima, il sentimento di efficacia personale, la capacità di sperimentare sentimenti come la gratitudine e la compassione, la grinta, la flessibilità psicologica, competenze sociali, strategie di coping, uniti ad impegno, controllo e senso di sfida. Dunque può essere allenata, sviluppata e potenziata e chi ben incomincia è a metà dell’opera.

Tutti questi “ingredienti” che dal mio punto di vista sono presenti all’interno di questi due racconti e narrati con un linguaggio piacevole e scorrevole, ritengo possano essere apprezzati da grandi e piccini.

 

Violenza sulle donne: quando le credenze sessiste influenzano il concetto di responsabilità e cambiamento

Spesso si viene a conoscenza di aggressioni fisiche e sessuali contro le donne. Questa tipologia di eventi suscita due possibili risposte: le donne dovrebbero evitare determinate situazioni, proteggendosi dalla violenza degli uomini, e gli uomini dovrebbero adottare misure per non essere violenti nei confronti delle donne.

 

Nell’arco di 7 mesi a cavallo tra 2018 e 2019, due donne, Eurydice Dixon e Aiia Maasarwe, sono state aggredite fisicamente e sessualmente e poi assassinate da sconosciuti maschi a Melbourne, Australia (Cuthbertson 2019). In entrambi i casi, le donne stavano tornando a casa, a piedi da sole di sera, e avevano usato i loro telefoni per comunicare a una persona cara dove si trovavano poco prima degli attacchi. In risposta alla morte della Dixon, un funzionario di polizia ha rilasciato una dichiarazione pubblica in cui sembrava attribuire alle donne la responsabilità di evitare i possibili attacchi violenti degli uomini (Davey 2018). Al contrario, il premier dello Stato ha risposto suggerendo che le donne hanno il diritto di svolgere le proprie attività quotidiane e che sono gli uomini a dover cambiare il proprio comportamento per evitare di compiere atti di violenza nei confronti delle stesse. E’ evidente che questa tipologia di eventi suscita due possibili risposte: le donne dovrebbero evitare determinate situazioni e proteggersi dalla violenza degli uomini, e gli uomini dovrebbero adottare misure per non essere violenti nei confronti delle donne. Queste risposte non si escludono necessariamente a vicenda, ma il bersaglio di intervento è diverso in ciascuna di esse: una si rivolge alle donne come meccanismo di cambiamento, mentre l’altra si rivolge agli uomini come meccanismo di cambiamento.

In un recente studio, condotto da Brownhalls e colleghi (2020) in Nuova Zelanda su un campione di 21.937 partecipanti (tra i 18 e i 97 anni), si è voluto esplorare i ruoli svolti dal genere, dal sessismo e dai due approcci sopraelencati per ridurre la violenza sulle donne: l’obiettivo è lo stesso, ma variano nei mezzi specifici con cui viene raggiunto. Nello specifico, i termini “uomini” e “donne” sono usati principalmente per riferirsi a soggetti cisgender, ovvero uomini e donne la cui identità di genere corrisponde al proprio sesso biologico o al sesso assegnato alla nascita; inoltre gli autori si sono concentrati sulla violenza fisica e sessuale degli uomini nei confronti delle donne, vista come manifestazioni di disuguaglianza di genere che perpetuano lo status quo di una società patriarcale (Turquet et al. 2011). Studi precedenti condotti in Nuova Zelanda hanno rivelato che tra il 12% e il 17% delle donne sia vittima di violenza sessuale e/o fisica da parte di uno sconosciuto o di un conoscente, almeno una volta nella vita, e che il 39% delle donne sia vittima di abusi sessuali e/o fisici da parte di un partner intimo maschile (Fanslow e Robinson 2004). In Nord America, circa il 25% degli uomini giovani adulti (dai 18 ai 35 anni) si autodenunciano per aver consapevolmente costretto una donna a intraprendere una qualche forma di attività sessuale contro la sua volontà, o mentre non era in grado di farlo (Jacques-Tiura et al. 2015). Sebbene la violenza degli uomini nei confronti delle donne sia una questione pervasiva e duratura a livello individuale e sociale, l’esplorazione delle soluzioni che la gente considera appropriate è poco studiata.

Intervenire sugli uomini per ridurre la violenza verso le donne, vuol dire considerarli come meccanismo di cambiamento. Ciò non implica che tutti gli uomini siano violenti verso le donne o che tutti gli uomini siano responsabili, piuttosto colloca la violenza all’interno di una struttura sociale più ampia: ad esempio, gli autori di sesso maschile di violenza sessuale riferiscono la pressione percepita dai coetanei per fare sesso “con qualsiasi mezzo”, e riferiscono un linguaggio che oggettivizza le donne, all’interno del gruppo di amici maschi (Jacques-Tiura et al. 2015). Al contrario, intervenire sulle donne implica un cambio di prospettiva basato sull’assunto che “la violenza è evitabile”, pertanto le donne si assumono la responsabilità di garantire la propria sicurezza: le donne sono incoraggiate ad assumere comportamenti di evitamento (ad esempio, non camminare da sole di notte) o a proteggersi (ad esempio, portare lo spray al peperoncino o imparare tecniche di autodifesa). La letteratura esplora le differenze nelle credenze e nelle risposte di uomini e donne alla violenza degli uomini nei confronti delle donne. Radke et al. (2018) hanno etichettato i comportamenti associati alle risposte alla disuguaglianza di genere come azione femminista (azione di sfida verso il sessismo: le donne devono imparare a evitare e proteggersi) e azione protettiva (cioè azioni che intendono proteggere le donne dall’inevitabile violenza degli uomini: ruolo passivo della donna, interventi sugli uomini), e con i loro studi hanno rilevato che le donne sono più propense degli uomini a impegnarsi in azioni di tipo femministiche, dimostrando una volontà di essere educate alla sicurezza personale.

Nella ricerca, è stato inoltre considerato il costrutto del “sessismo ambivalente”, ovvero composto da valutazioni negative e positive relative alle donne, che perpetuano il concetto della dominanza maschile (Glick e Fiske 1996). Tale costrutto è formato, a sua volta, da due concetti: (1) Il sessismo ostile, basato sugli stereotipi di genere, afferma che “le donne che si discostano dai valori tradizionali devono essere punite” (Glick e Fiske 2000). In questo caso, le motivazioni e il comportamento sono interpretati nell’ottica di minimizzare i danni della vittima e al contempo la responsabilità del colpevole (Koepke et al. 2014), così da attribuire alla stessa vittima la responsabilità di non aver prevenuto la violenza. (2) Il sessismo benevolo fa riferimento ad una valutazione paternalistica e si basa sull’assunto che “le donne che abbracciano i ruoli di genere tradizionali, sostenendo il dominio maschile, dovrebbero essere ricompensate con protezione e cura da parte degli uomini” (Glick e Fiske 2000). Da questo punto di vista, una donna che si rende vulnerabile allo stupro viola il suo ruolo di castità e purezza (Viki et al. 2004), pertanto è bene che si autoprotegga, magari attraverso corsi di autodifesa. E’ bene sottolineare che, non solo gli uomini, ma anche le donne possono assumere atteggiamenti sessisti nei confronti delle donne.

Il sessismo ambivalente è stato misurato per mezzo della Ambivalent Sexism Inventory (ASI; Glick and Fiske 1996), composta da 10 items, di cui 5 valutano il sessismo ostile (es. “Le donne si offendono troppo facilmente”) e 5 valutano il sessismo benevolo (es. “Molte donne hanno una qualità di purezza che pochi uomini possiedono”). Inoltre, gli uomini del campione hanno risposto a una serie di domande volte ad indagare il consenso per interventi sugli uomini (es. “Dovremmo investire di più nell’educazione a non essere fisicamente/sessualmente violenti nei confronti delle donne”) o interventi sulle donne (es. “Dovremmo investire di più nell’educazione delle donne su come evitare la violenza fisica/sessuale da parte delle donne”). In ogni caso, dovevano esprimere il proprio grado di accordo o disaccordo per ogni item. Tutte le variabili demografiche, incluse l’età, sono state tenute sotto controllo.

Dai risultati è emerso che vi è un’associazione positiva tra gli interventi rivolti agli uomini e la riduzione della violenza da loro agita nei confronti delle donne. Inoltre, il sessismo ostile si associa negativamente con il sostegno a interventi rivolti agli uomini e positivamente con il supporto a interventi rivolti alle donne. Il sessismo benevolo, invece, si associa positivamente ad entrambe le tipologie di intervento. Le donne sono risultate leggermente più favorevoli degli uomini ad affrontare la violenza contro le donne intervenendo sulle donne stesse, così da educarle all’evitamento e all’autodifesa, ma sia gli uomini che le donne erano ugualmente favorevoli a intervenire sugli uomini.

Sicuramente l’attuale studio ha come limite quello di non aver esplorato esplicitamente la violenza o il sessismo all’interno della comunità LGBTQ.

 

Dormire bene aiuta ad allontanare i brutti pensieri

Un nuovo studio sul sonno dimostra come dormire poco ci renda più vulnerabili all’azione intrusiva di pensieri e ricordi spiacevoli, soprattutto se soffriamo di specifici disturbi.

 

Da anni, gli scienziati si interrogano sull’impatto che il sonno ha sul nostro benessere psicofisico.

È ormai chiaro che il sonno svolga un ruolo fondamentale nel consolidamento della memoria, nella regolazione dell’umore e fa sì che le nostre funzioni cognitive siano al massimo della loro potenzialità (Wild et al., 2018).

Un recente studio ha fatto luce su un ulteriore aspetto benefico del riposo notturno, ovvero la sua correlazione con la nostra capacità di sopprimere i pensieri indesiderati.

Tutti abbiamo provato, almeno una volta nella vita, la presenza di ricordi o pensieri spiacevoli con carattere intrusivo, ossia immagini mentali che fanno capolino e che più cerchiamo di scacciare, più si ripresentano.

In alcune condizioni psichiatriche, come il PTSD (disturbo da stress post-traumatico) e la depressione, questi pensieri si presentano spesso in maniera più insistente che nelle altre persone, con una maggiore difficoltà da parte dell’individuo di limitarne la durata e la frequenza.

Tanto negli individui affetti da tali disturbi psicologici, quanto nella popolazione generale, l’abilità di tenere sotto controllo i pensieri intrusivi è correlata al mantenimento del benessere psicologico (Gagnepain et al., 2017) e alla regolazione dell’umore (Payne et al., 2019).

Partendo da questo presupposto, i ricercatori si sono chiesti se suddetta abilità possa essere una delle numerose funzioni influenzate dal sonno. E così sembra.

I 60 partecipanti a questo studio pubblicato su Clinical Psychological Science (Harrington et al., 2020) sono stati divisi in due gruppi: il primo è stato sottoposto a deprivazione di sonno per una notte e all’altro è stato concesso di dormire normalmente.

È stato osservato che il gruppo che non aveva dormito riusciva a sopprimere con più difficoltà i pensieri negativi rispetto al gruppo di controllo: la capacità di controllare ricordi e pensieri indesiderati si riduceva di circa il 50%.

Il meccanismo fisiopatologico alla base di questo deficit di controllo dopo una notte insonne non è ancora chiaro. Gli autori suggeriscono due possibili spiegazioni:

  • la corteccia prefrontale dorso laterale, che ha una funzione inibitoria sul recupero dei ricordi, è particolarmente sensibile alla deprivazione di sonno (Mazur et al., 2002).
  • il deficit di sonno diminuisce le abilità dell’area prefrontale di svolgere compiti legati all’attenzione e alla memoria di lavoro (Frenda & Fenn, 2016).

Indipendentemente dalle aree cerebrali coinvolte, questa ricerca può avere un grosso impatto in tutti i disturbi nei quali ricordi intrusivi spiacevoli e pensieri con carattere di rimuginazione sono particolarmente presenti. Fino al 90% dei soggetti con PTSD e depressione mostra, inoltre, disturbi del sonno (Maker et al., 2006; Riemann et al., 2001).

Alla luce di ciò, risulta probabile che si instauri un circolo vizioso per il quale le persone che non riescono a tenere a freno i pensieri che causano sofferenza mostrano più problemi a dormire (Talamini et al., 2013) e, viceversa, la carenza di sonno peggiora la capacità di tenere a freno tali pensieri.

I risultati di questo studio suggeriscono quindi che la durata e la qualità del sonno migliorano il benessere psicofisico anche rendendoci maggiormente in grado di prendere le distanze dai pensieri negativi. Ciò è particolarmente vero per quelle condizioni psichiatriche in cui i sintomi intrusivi svolgono un ruolo centrale: dormire bene, trattando eventuali disturbi del sonno, risulta quindi fondamentale.

Le galline di Aniello, ovvero le debolezze della memoria

E’ probabile che, come le galline di mio padre, riusciremo presto a muoverci nei nostri ambienti con un ridotto timore e con maggiore desiderio esplorativo. Ma quanto tempo ci metteremo a dimenticare tutto? In quanto tempo metteremo in atto un meccanismo di rimozione collettiva?

 

Questo articolo è stato scritto alla fine del lockdown dovuto al Covid-19 e pubblicato nel libro Bello F., Caroppo E. (a cura di), Ci salveremo insieme. Alpes, Roma 2020.

Dinanzi a te c’era un baratro. Così largo, così fondo, così vuoto che il solo percepirlo ti dava la nausea, la voglia di vomitare. E questo baratro era lo spazio, lo spazio aperto. […] Chiudesti gli occhi per non accecare, allungasti le braccia per non cadere. E subito il pensiero della tua cella ti afferrò insieme a una nostalgia irresistibile, un desiderio irrefrenabile di tornarci, rifugiarti nel suo buio, nel suo ventre angusto e sicuro. La mia cella, ridatemi la mia cella. […] Però a poco a poco, mentre la nausea cresceva, e l’incertezza, e la paura, mentre tutto si allargava e ruotava e si rovesciava per farti ripetere la-mia-cella-ridatemi-la-mia-cella, ritrovasti te stesso.
(Oriana Fallaci – Un Uomo).

Esattamente dopo 69 interminabili giorni di confinamento (lockdown) siamo stati autorizzati a muoverci senza autocertificazione nelle nostre città e nel territorio della regione di appartenenza. Domenica 17 maggio mi sono recato a Piazza Navona dove immaginavo di trovare una moltitudine di romani, ma non è stato così: il sole riscaldava pochi passanti e ciclisti e il clima non mi è sembrato affatto di gioia. Mentre vagliavo l’impressione che quasi tutti fossimo un po’ dimessi, rallentati e guardinghi, nella mia mente è riaffiorato un lontanissimo ricordo familiare. Anni fa, mio padre acquistò ad un prezzo simbolico venti galline da un’azienda che le allevava per la produzione delle uova a uso commerciale e le vendeva quando non erano più produttive. Mio padre era contento, nonostante l’aspetto delle galline non fosse molto incoraggiante: spennate, ferite sulla pelle, con la cresta piccola, rosa e floscia e oltretutto silenziose. Le portò a casa dove le attendeva un ricovero al riparo dalle intemperie, mangiatoie stracolme di granturco, abbeveratoi e un ampio spazio aperto dove razzolare. Le galline rimasero raggruppate, silenti, senza muoversi e senza alimentarsi e quando uno di noi si avvicinava, non emettevano alcun suono, si accovacciavano restando a lungo immobili. Feci notare tutto ciò a mio padre, affermando che forse non aveva fatto un buon affare. Lui mi rispose in modo serafico: ‘lasciale stare, hanno paura della libertà, forse una o due moriranno, ma il resto si abituerà e in pochi giorni le vedrai rinascere’. Aveva ragione lui. Dopo una decina di giorni le galline sembravano rinate e razzolavano curiose e felici nel nostro giardino!

Il timore di uscire di casa che molti di noi stanno sperimentando in questi giorni, caratterizzato da ansia, paura di allontanarsi e di riprendere i ritmi quotidiani dopo un lungo isolamento, è stato denominato ‘sindrome della capanna’ e potrebbe interessare un elevato numero di persone per le quali la casa è diventata un vero e proprio rifugio sicuro e protettivo, mentre l’esterno viene vissuto come minaccioso. D’altro canto pero, ‘Gli esseri umani sono animali sociali, non sono fatti per stare soli e l’isolamento solitario, percepito come una punizione, può avere ripercussioni dannose che vanno dal panico alla paranoia‘ (Loganathan et al., 2020).

E’ probabile che, come le galline di mio padre, riusciremo presto a muoverci nei nostri ambienti con un ridotto timore e con maggiore desiderio esplorativo, ma il punto che vorrei approfondire in questo articolo non è questo. Mi chiedo, invece, quanto tempo ci metteremo a dimenticare tutto, in quanto tempo metteremo in atto un meccanismo di rimozione collettiva, così come accadde con un’altra tremenda epidemia più di un secolo fa: l’influenza spagnola che, nel giro di pochi mesi e, a ridosso della fine della prima guerra mondiale, mieté milioni di vittime in ogni parte del mondo. In realtà, nonostante sentiamo continuamente dire, da Foscolo in poi, che è importante rispettare il culto della memoria, esiste una quantità infinita di eventi, storie e catastrofi rimosse e cancellate nella storia dell’umanità.

La memoria è la modalità che ci permette di conservare la conoscenza all’interno del nostro cervello. L’apprendimento è invece ciò che ci permette di accrescere conoscenza. Per questo siamo ciò che siamo in virtù di ciò che abbiamo imparato e che ricordiamo. Siamo ciò che ricordiamo, ma anche ciò che non sappiamo di ricordare. Dentro l’uomo ci sono molte cose che l’uomo non riesce a vedere. (Kandel, 2016).

Da un punto di vista prettamente neurofisiologico, sappiamo che la memoria viene codificata nel nostro cervello dal sistema limbico, alcune circonvoluzioni cerebrali della parte mediale di entrambi i lobi temporali. Tutte le componenti del sistema limbico regolano i comportamenti relativi ai bisogni primari per la sopravvivenza dell’individuo e della specie: il mangiare, il bere, il procurarsi cibo e le relazioni sessuali, nonché le interpretazioni dei segnali provenienti dagli altri e dall’ambiente. Ad una specifica struttura, l’ippocampo, è conferito un compito duplice: ‘⦋…⦌ trasformare la memoria a breve termine in memoria permanente e tenere le fila dei nostri ricordi‘. ⦋…⦌ Per conservare i ricordi nella mente in maniera efficace sembra necessario modellarli e rimodellarli in continuazione, a intervalli regolari, anche perché di ricordi se ne accumulano sempre di nuovi e occorre spostare i vecchi per lasciare il posto ai nuovi, cercando di non perderne tanti e di mantenere i più significativi’ (Maira, pp. 150-153). Edelman (1991), biologo statunitense e premio Nobel per la medicina nel 1972, ha dimostrato con le sue ricerche che la memoria non è un magazzino, non funziona come un archivio dal quale vengono ripescati all’occorrenza i ricordi codificati, bensì si configura come un processo dinamico in cui il ricordo viene ogni volta ricostruito in maniera attiva diventando quello che lui chiama il ‘presente ricordato’. Quindi, la memoria è labile e l’essere umano ‘dimentica’ alcuni eventi personali e collettivi affinché sia possibile un adattamento veloce all’ambiente, senza dover attendere il processo evoluzionistico (Dunbar et al., 2012). Quando però il cervello invecchia, si ammala o viene interessato da una lesione, le funzioni della memoria subiscono un’alterazione che comporta anche una ristrutturazione della coscienza. Sacks (1999) racconta in modo magistrale che cosa può succedere in tali condizioni. Scatcher (2001) individua sette debolezze ‘funzionali’ o ‘peccati’ della memoria:

  • Labilità (svanisce con il tempo);
  • Distrazione (dimenticarsi di fare qualcosa; l’attenzione sfugge);
  • Blocco temporaneo (dell’accesso al ricordo);
  • Errata attribuzione (false memorie);
  • Suggestionabilità;
  • Distorsione (per false credenze);
  • Persistenza (di memorie non volute);

Le memorie, nel cervello, vengono immagazzinate attraverso un complesso sistema di modificazione dell’attività e della morfologia delle sinapsi neuronali. A livello neurofisiologico, si opera una distinzione tra un processo di memorizzazione o di consolidamento e una successiva fase di riconsolidamento: entrambi questi processi insistono sugli stessi circuiti neuronali. Nella fase del consolidamento, le sinapsi devono modificarsi per immagazzinare nuovi ricordi, che, in quella di riconsolidamento (Nader & Hardt, 2009), si rendono nuovamente modificabili allo scopo di mantenere vivo il ricordo, risultando, quindi, anche più esposte a variazioni del ricordo stesso. Purtroppo, questa è anche la fase in cui la memoria è più vulnerabile: mentre viene ‘ricordato il ricordo’, eventi interni ed esterni all’individuo possono modificarlo dando vita al fenomeno del falso ricordo che ‘[…] è un’esperienza mentale erroneamente considerata come una rappresentazione veritiera di un evento appartenente al proprio passato personale.’ […] I falsi ricordi scaturiscono dagli stessi processi dei ricordi veri’ (Johnson, 2001, pag. 5254). In altre parole, i falsi ricordi sono eventi ricordati diversamente da come si sono verificati o, addirittura, si può trattare di esperienze che non si sono mai verificate; risultano essere assolutamente convincenti e indistinguibili rispetto ai ricordi reali.

Il fenomeno dei falsi ricordi è molto comune e ci sono alcuni fattori che possono aumentarne la frequenza, come, ad esempio, il forte interesse verso un particolare argomento (O’Connell & Greene, 2016). Alcune esperienze traumatiche, inoltre, sono, almeno in parte, sottoposte a un processo di rielaborazione spontanea da parte della persona, attraverso l’uso dell’immaginazione e del raffronto con le risorse mnemoniche della persona stessa. E’ noto che le emozioni giochino un ruolo fondamentale nei processi della memoria, soprattutto quelle negative prodotte da un certo evento. Interessanti sono le ipotesi proposte da Porter (2007), il quale sostiene che le emozioni negative facilitino la memoria in generale, ma, allo stesso tempo, la rendano più fragile e soggetta a distorsioni. Le informazioni negative saranno quindi ben ricordate, ma facilmente influenzabili. Ciò è probabilmente dovuto al ruolo che gli eventi emotivi hanno dal punto di vista evoluzionistico: ricordare un evento negativo o ‘pericoloso’ è più funzionale alla sopravvivenza rispetto al ricordare un evento emotivamente neutro. La prospettiva evoluzionistica spiega anche il motivo della maggior suscettibilità dei falsi ricordi: proprio per il loro carattere adattivo, infatti, gli eventi a valenza emotiva negativa vengono integrati maggiormente con una maggior quantità di informazioni provenienti da varie fonti (ritenute affidabili), al fine di prevenire ulteriori pericoli.

Questo in estrema sintesi è il funzionamento della memoria individuale, ma che cos’è e come funziona la memoria collettiva? Tale concetto è stato introdotto nelle scienze sociali da Maurice Halbwachs (2001). L’autore fa riferimento a una costruzione dei ricordi di tipo collettivo e sovraindividuale, attraverso la quale la rappresentazione del passato viene condivisa dai membri di un gruppo e trasmessa alle generazioni successive. Secondo Halbwachs, il passato non si conserva, ma si ricostruisce, per cui la memoria collettiva sarebbe essenzialmente una ricostruzione (parziale e selettiva) in funzione del presente e avrebbe il compito, insieme alle storie che la compongono, di dare continuità all’identità del gruppo sociale e ai valori e credenze che fondano una comunità. Il pensiero di Halbwachs può essere sintetizzato in tre punti generali: ‘[…] 1) la memoria individuale è sempre anche memoria collettiva […]; 2) la memoria (individuale e collettiva) rappresenta la continuità del passato nel presente solo a condizione di sottoporre le immagini del passato ad un’opera costante di selezione, sintesi e ricostruzione che muove dagli interessi del presente; 3) la memoria è un fattore dell’identità – tanto a livello individuale che collettivo – ma ne è anche l’espressione: l’identità presente, in altre parole, si esprime in determinate interpretazioni del passato, ad essa tendenzialmente congruenti, da cui ritrae forza’ (Jedlowski, 2002, pag. 52).

Quindi, le dimensioni – individuale e collettiva – del ricordo s’influenzano reciprocamente poiché i valori e le credenze della collettività e dei gruppi a cui apparteniamo condizionano l’interpretazione che forniamo agli eventi e alla nostra stessa identità. Data l’interazione tra le nostre esperienze e quelle altrui, attraverso uno scambio dialogico costante e sottinteso, che non prevede sempre una volontà esplicita e cosciente, possiamo affermare che la memoria individuale dipenda da quella collettiva. In conclusione, la memoria (individuale e collettiva) assume sempre una connotazione dialogica come ricostruzione interpretativa di avvenimenti relazionali, tra l’individuo e i gruppi di appartenenza o tra il gruppo sociale nel suo insieme e gli altri gruppi con cui si interfaccia (Leo, 2010). Qualsiasi ‘⦋…⦌ gruppo seleziona e riorganizza incessantemente le immagini del passato, in relazione agli interessi e ai progetti che predominano nel presente. Nelle società moderne, dotate di particolare complessità, tali processi di selezione e riorganizzazione determinano ricorrenti conflitti e compromessi tra le esigenze contrastanti dei diversi gruppi che le compongono. E’ possibile distinguere di conseguenza la memoria collettiva dei singoli gruppi dalla memoria sociale, da intendersi come l’intersezione o il prodotto delle dinamiche reciproche delle diverse memorie collettive presenti in una società, o come l’insieme delle tracce del passato virtualmente disponibili (Namer, 1987)’ (Auguglia et al., 2014, pag. 184).

Il tema della memoria collettiva obbliga quindi a ‘⦋…⦌ misurarsi anche con il problema dell’uso che un certo gruppo, detentore di un potere economico, può fare di quella memoria‘ (Leo, 2010, pag. 21).

Oltre all’incessante produzione quotidiana di informazioni su eventi passati e presenti da parte dei mass-media, anche i politici spesso interpretano i dati di realtà per raggiungere scopi di parte, come, ad esempio, è accaduto durante le manifestazioni politiche di piazza in molte città italiane il 2 giugno. In quella di Roma, mentre le alte cariche dello Stato facevano visita all’altare della patria nell’esercizio e nel rispetto della memoria storica del Paese e delle regole di comportamento imposte dal Covid-19, si è visto ‘Un assembramento che viola ogni regola di sicurezza. Che abbatte qualsiasi soglia di rischio. Che gioca d’azzardo con la sorte. Distanze azzerate. Alla fine, sono in migliaia’ (Lopapa, 2 giugno 2020). Nel pomeriggio della stessa giornata, a piazza del Popolo, alcune centinaia di persone si riuniscono senza alcun rispetto del distanziamento fisico, poche indossano le mascherine, inneggiando alla libertà e attaccando duramente il Presidente della Repubblica e il Presidente del Consiglio in pieno stile complottista e negazionista.

Per alcune delle tragedie che hanno sconvolto l’umanità, ad esempio quella della Shoah, nonostante migliaia di testimonianze dirette e riprese dal vivo, alcuni (purtroppo ci sono di mezzo perfino dei sedicenti storici!) hanno perfino sviluppato un vero e proprio negazionismo. Con questo temine ‘[…] viene indicata una corrente antistorica e antiscientifica del revisionismo la quale, attraverso l’uso spregiudicato e ideologizzato di uno scetticismo storiografico portato all’estremo, non si limita a reinterpretare determinati fenomeni della storia contemporanea ma, specialmente con riferimento ad alcuni avvenimenti connessi al fascismo e al nazismo (per es., l’istituzione dei campi di sterminio nella Germania nazista), si spinge fino a negarne l’esistenza‘ (Treccani). Nell’ordinamento giuridico dell’antica Roma esisteva la damnatio memoriae, espressione che faceva riferimento ad una pena severa che aveva lo scopo di cancellare tutti i riferimenti (scritti, iscrizioni, ritratti, statue) di coloro che venivano considerati ostili a Roma e al Senato, diventati tali in quanto traditori o comunque dopo essere finiti in disgrazia dopo la perdita del loro potere politico.

Nella Bibbia è contenuta un’autentica normatività della memoria che rende la cultura ebraica una vera e propria cultura del ricordo molto più di quella cristiana. Per il popolo ebraico, osserva Yerushalmi (2011), la memoria storica è una mizvà, un vero e proprio dovere religioso, perché la storia non nasce dall’agire umano, ma dalla dialettica uomo/Dio. Per questo motivo, ‘Se Erodoto è stato il padre della storia, i primi a dare un significato alla storia sono stati gli stessi ebrei‘ (Yerushalmi, ibidem, pag. 42). E per questo stesso motivo il senso della storia può essere considerato una scoperta tutta ebraica. Eppure la memoria ebraica è fortemente selettiva: un paradosso? Forse, ma è un paradosso più apparente che sostanziale: ciò che deve essere ricordato è il rapporto tra Dio e l’uomo. Per il resto, vale bene ciò che Nietzsche (2020) definiva ‘la potenza dell’oblio’, la stessa che l’uomo invidia al gregge che pascola indisturbato, che ‘non sa che cosa sia ieri, che cosa sia domani’, godendo di ciò che fa perché ‘poco legato al suo piacere e alla sua svogliatezza, cioè al paletto dell’istante, e perciò né malinconico né annoiato’. E per l’uomo, così tronfio ‘della sua umanità di fronte all’animale’, è estremamente doloroso e frustrante constatare tanta innocente felicità, perché in fondo ‘questo solo egli desidera: vivere come l’animale né annoiato né soggetto al dolore, e lo desidera vanamente’, dal momento che sa bene ‘di non poter imparare a dimenticare e di rimanere attaccato al passato. Allora l’uomo dice: ‘Mi ricordo’ e invidia l’animale che dimentica immediatamente e che vede davvero ogni attimo morire, sprofondare nella nebbia e nella notte, estinguersi per sempre’ (Nietzsche, ibidem).

La memoria è un remoto quando
(quando ti conobbi, quando te ne andasti)
o imperfetto (quando eravamo piccoli,
quando eri con me). Nel desiderio siamo ancora più quando (quando tornerai,
quando sarà il momento, quando arriverà),
siamo subordinati e senza protezione…
Soltanto quando dormo il quando s’addormenta.

Così il poeta spagnolo Juan Vicente Piqueras (2003).

Eppure questo ‘quando’ è un’ossessione che inchioda al ‘sentire in modo storico’ anche i nostri attimi interiori. Sarà forse per la difficoltà di misurare il tempo in maniera oggettiva (‘Né futuro né passato esistono. È inesatto dire che i tempi sono tre: passato, presente e futuro’, scriveva S. Agostino, in Le Confessioni, L. XI); sarà perché il tempo più vero, più nostro, è quello che ci appare nella sua dimensione interiore, come ‘distensione dell’anima’. Sarà per il nostro persistente bisogno di sottrarre le cose all’oblio, ‘serbandole nella memoria, ricordandole e riconoscendole come parte della propria storia’, che la memoria diventa ‘il presente del passato’ (S. Agostino, ibidem).

O forse, come sosteneva Plotino, perché la memoria è l’orizzonte tra il tempo della storia e il tempo dell’eternità, che custodisce nell’anima (Plotino, Enneade IV, 6). D’altronde, non era stato forse Platone il primo ad affermare che ‘conoscere è ricordare’? (Platone, Menone).

Eppure questo tempo interiore, tempo che ‘è come un gomitolo di filo o una valanga, che continuamente mutano e crescono su se medesimi’ (Bergson, 2012) non sembra imprimersi indelebilmente nel nostro vissuto interiore: ‘La memoria non è la facoltà di classificar ricordi in un cassetto o di scriverli su di un registro.’ Non c’è registro, non c’è cassetto, nella nostra memoria, è piuttosto il passato che ‘si conserva da se stesso, automaticamente. Esso ci segue, tutt’intero, in ogni momento: ciò che abbiamo sentito, pensato, voluto sin dalla prima infanzia è là, chino sul presente che esso sta per assorbire in sé, incalzante alla porta della coscienza, che vorrebbe lasciarlo fuori’ (Bergson, 1959, pag. 59). Già, proprio così: la coscienza vorrebbe lasciarlo fuori: ‘La funzione del meccanismo cerebrale è appunto quella di ricacciare la massima parte del passato nell’incosciente per introdurre nella coscienza solo ciò che può illuminare la situazione attuale, agevolare l’azione che si prepara, compiere un lavoro utile. Talvolta qualche ricordo non necessario riesce a passar di contrabbando per la porta socchiusa; e questi messaggeri dell’inconscio ci avvertono del carico che trasciniamo dietro a noi senza averne consapevolezza’ (Bergson, 1959). Ma di questo carico dobbiamo essere intelligenti e sagaci magazzinieri e saper scegliere soltanto ciò che può aiutarci a disegnare un futuro migliore.

‘Ciò che è non storico e ciò che è storico sono ugualmente necessari per la salute di un individuo, di un popolo e di una civiltà’: il ‘non storico’ è quell’oblio ‘dal quale la vita può generarsi per sparire di nuovo con la distruzione di quell’atmosfera’; la conoscenza storica è ‘la forza di usare il passato per la vita e di trasformare la storia passata in storia presente’, perché solo in tal modo ‘l’uomo diventa uomo’. Per la vita di ogni essere occorrono ‘non soltanto luce, ma anche oscurità’, non soltanto ricordo, ma anche oblio (Nietzsche, ibidem).

Oblio e memoria servono affinché possiamo riuscire a costruirci un’identità collettiva: “La memoria collettiva è come una locomotiva, che ha bisogno di essere alimentata continuamente, con il carbone, delle forme ufficiali di ricordare. […] Si può dire che l’oblio sia una sottoalimentazione della memoria ufficiale o una perdita di alimentazione. […] Noi non possiamo ricordare tutto e non possiamo dimenticare tutto. L’identità collettiva di un popolo si forma anche attraverso il dimenticare’ (Bodei, 1998).

La memoria è un campo di battaglia, anche se non viene scritta sempre e soltanto dai vincitori e per questo è sempre divisa, oltre che ‘condivisa’; ma è anche ‘un’eredità contesa’, soggetta a continue, ossessive reinterpretazioni. ‘Probabilmente è necessario, ogni tanto, che ci sia una tregua della memoria, nel senso che c’è anche un accanimento della memoria, un accanimento identitario. Cioè il tipo di memoria che probabilmente è più auspicabile è quello di una memoria ospitale, capace di ascoltare le ragioni degli altri’ (Bodei, ibidem). La memoria, osserva Bodei, è ‘un palinsesto – sapete, quella pergamena che, siccome costava troppo, veniva raschiata e ci si trovava scritto più volte con diversi testi’ (Bodei, ibidem).

Forse questa volta il nostro palinsesto non è più scritto in un tempo verticale – dal passato al presente – ma in un tempo orizzontale, con una pergamena fornita dalla pandemia, sulla quale ognuno di noi ha segnato la sua storia ed alla quale ha affidato la sua personale memoria. Non possiamo che augurarci che questo nostro collettivo palinsesto sia capace di disegnare, una volta per tutte, una ‘memoria ospitale’. E che, come le galline di Aniello, dopo un periodo di fisiologico riadattamento, ci si possa reincontrare in un ‘giardino’ rinnovato.

Ringo Starr dei Pinguini Tattici Nucleari: l’accettazione di sé e delle proprie ambivalenze – Rubrica Psico Canzoni

L’articolo si propone di dare un’interpretazione psicologica della canzone “Ringo Starr” dei Pinguini Tattici Nucleari. I concetti chiave che verranno menzionati sono l’identificazione proiettiva come meccanismo di difesa e l’accettazione di sé e delle proprie ambivalenze.

Psico canzoni – (Nr.2) Ringo Starr

 

Un brano all’apparenza molto semplice, a volte può sorprendere per la ricchezza dei contenuti.

Il 6 Febbraio 2020 esce in Italia il singolo Ringo Starr del gruppo Pinguini Tattici Nucleari edito da Sony Music. Il brano si classifica al terzo posto al Festival di Sanremo.

La canzone prende il nome da Richard Starkley, in arte Ringo Starr, colui che suonava il tamburello e le maracas in composizioni dei Beatles quali Love me do e P.S. I Love you, e solo dopo la batteria. Ciononostante Ringo veniva descritto dal collega Paul McCartney come una persona di brio e spirito, così è anche la canzone che porta il suo nome.

L’autore del testo si paragona a Ringo Starr perché sembra mettersi ed essere messo in secondo piano. Come si legge dal primo verso del testo, “a volte penso che a quelli come me il mondo non abbia mai voluto bene“, l’autore è convinto che il mondo non lo ami e probabilmente tra le motivazioni c’è quella che il “cerchio della vita impone che per un re leone vivano almeno tre iene“. Per quanto oggettivamente a volte si possa nascere o ci si possa trovare in contesti difficili, noi stessi possiamo cooperare nel metterci al margine, essendo troppo rigidi con noi stessi e di conseguenza con gli altri.

Dentro ognuno di noi coabitano re leoni e iene, ovvero parti che ci piacciono e altre meno. A lungo ha primeggiato la convinzione che ciò che è cattivo vada non visto, messo da parte o addirittura eliminato. Se invece prendiamo in considerazione autori come lo psichiatra Sheldon B. Kopp e le circolari teorie sistemico-relazionali possiamo più facilmente vedere e abbracciare ogni parte di noi. Il “mondo” di cui parla la canzone sembra più quello interiore dell’individuo che quello esteriore.

Genericamente l'”identificazione proiettiva”, intesa come meccanismo di difesa, rende dentro di noi l’altro portatore del nostro pensiero, indipendentemente da quello che egli realmente crede. Nel caso particolare, questa canzone evince come sia più facile prendersi tutta la parte del leone o tutta quella delle iene, chiamando “mondo” le proprie convinzioni. Chi non accetta l’ambivalenza di serbare tanto una parte da leone quanto una da iena ha difficoltà ad amarsi, rendendo l’altro, in questo caso il “mondo”, portatore di questa avversione lo allontana.

“La mia vita non è niente di speciale e forse alla fine c’hai ragione tu” diviene la plausibile conclusione di questo passaggio chiamato “identificazione proiettiva”.

Ringo Starr appare dunque un personaggio rifugio per sentirsi meno soli nel momento in cui “gli altri ormai si sposano alla mia età ed io mi incazzo se non indovino all’eredità“.

Il segreto per iniziare ad amarsi è accettare che dentro di sé possano convivere tanto Batman quanto Ted, inteso come il protagonista del telefilm How I Met Your Mother, ognuno con le sue parti buone e cattive, apprezzando così le proprie ambivalenze e smussando le rigidità.

 

RINGO STARR dei PINGUINI TATTICI NUCLEARI – Guarda il video del brano:

 

L’Intelligenza è condizione necessaria per avere senso dell’umorismo?

L’umorismo, espresso spesso sotto forma di battuta o di barzelletta, ha una presenza capillare nell’esistenza umana.

 

Il breve testo avente un finale spiazzante, struttura propria della barzelletta, è un significativo oggetto di ricerca in rappresentanza dell’umorismo stesso. In un preliminare studio italiano di Forabosco e colleghi è stato esaminato il rapporto tra due degli aspetti in gioco essenziali per l’umorismo, ovvero divertimento e comprensione (Forabosco et al., 2019). In particolare, da questo studio è emerso che può esistere comprensione senza divertimento, ma anche che possa esserci divertimento senza comprensione. Da queste evidenze preliminari, gli stessi autori hanno proseguito gli studi in un più ampio disegno sperimentale, ponendo al centro delle ricerche un quesito che inglobasse un’altra variabile importante nella sfera dell’umorismo: l’intelligenza. Nel definire l’umorismo come capacità di esprimere e rappresentare gli aspetti più divertenti della realtà che possono suscitare riso, si potrebbe presupporre una stretta connessione tra questo concetto e le facoltà intellettive (Treccani, 2020). Gli stessi Eyesenck e Cattell, personaggi di spicco nel campo di intelligenza e personalità, si sono occupati dello studio dell’umorismo in un lavoro pioneristico del 1970, in cui scoprirono che preadolescenti plus-dotati diedero un maggior numero di risposte umoristiche ai test di Wartegg e Rorschach rispetto al campione di controllo (Eysenck, 1942; Cattell & Luborski, 1947).

Nello studio del 2020 di Forabosco, è stata offerta un’interessante opportunità per indagare il rapporto umorismo-intelligenza da parte del Mensa Italia, associazione di cui fa parte chi supera il 98esimo percentile in un test di valutazione del Quoziente Intellettivo (QI) (Mensa Italia, n.d.). L’ente ha messo a disposizione i propri utenti per lo sviluppo della ricerca sperimentale. Scopo dello studio era quello di valutare se esistesse una differenza sia nella comprensione, sia nel divertimento percepito, fra soggetti provenienti dal Mensa e appartenenti alla popolazione generale (Forabosco et al., 2020). È stata quindi studiata la relazione tra intelligenza e umorismo in un totale di 305 soggetti, di cui 43 associati al Mensa e 262 provenienti dalla popolazione generale. Ai soggetti è stata presentata una lista di 20 barzellette, le quali presentavano quattro opzioni di possibili conclusioni tra cui scegliere. I partecipanti dovevano selezionare l’epilogo che meglio completava il testo iniziale e successivamente valutare il grado di divertimento complessivo percepito. I soggetti appartenenti al Mensa, e quindi spiccatamente intelligenti, hanno mostrato una maggiore comprensione delle barzellette ma, globalmente, un minor divertimento rispetto alla popolazione di controllo; inoltre, hanno considerato migliore la barzelletta cognitivamente più sofisticata, dimostrando come l’elemento di problem solving svolgesse un ruolo chiave (Forabosco et al., 2020). Inoltre, i soggetti con QI più elevato hanno mostrato maggior divertimento con battute di black humor rispetto ai soggetti di controllo, seppur i partecipanti Mensa non avessero espresso una specifica predilezione per l’umorismo nero, nonché fossero emerse relazioni fra black humor e intelligenza dalle analisi dei risultati (Forabosco et al., 2020).

La comprensione si è confermata condizione importante, ma, come confermato dai risultati della popolazione generale, non strettamente necessaria per il divertimento, favorendo forme personali e originali di rielaborazione del materiale stimolo (Forabosco et al., 2020). Nello studio preliminare, infatti, era stato descritto come questo possa essere legato a molti fattori. Tra questi, il più suggestivo riguardava la possibilità di elaborazioni umoristiche alternative e dotate di senso rispetto a quella intesa (Forabosco et al., 2019).

In conclusione, essere estremamente intelligenti può consentire una maggior comprensione di storielle umoristiche, ma, come osservato nello studio, potrebbe impedire l’accesso al divertimento, ponendo un limite al coinvolgimento nell’aspetto comico in questione. Allo stesso tempo, un umorismo più ricercato e cognitivamente coinvolgente come il black humor, pregno dell’ironia e del cinismo che lo caratterizzano, potrebbe generare una reazione più divertita negli individui con QI molto elevato. Per quanto riguarda i soggetti provenienti dalla popolazione generale, questi hanno tratto maggior divertimento dagli aneddoti umoristici seppur non cogliendone sempre il senso, confermando che per essere divertiti non è necessario comprendere appieno il significato di ciò che si ascolta.

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