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L’alleanza terapeutica è il fattore aspecifico che renderebbe efficace qualunque psicoterapia? Non ci sono ragioni per supporlo

Il verdetto del Dodo, nonostante il suo fondamento dubbio, ha avuto il merito di stimolare un dibattito in letteratura che ha indotto lo spostamento dalla questione da se le psicoterapie sono efficaci al perché lo sono.

 

Nel nostro precedente post (Il verdetto del Dodo ha un adeguato fondamento empirico? Non sembra), abbiamo discusso della solidità delle evidenze che sottendono il verdetto del Dodo in psicoterapia secondo il quale tutte le terapie sarebbero ugualmente efficaci per tutti i disturbi. Abbiamo concluso che il ragionamento teorico e la qualità delle evidenze empiriche permettono di mettere fortemente in discussione questo verdetto, che spesso viene presentato come conclusione indiscutibile del filone di ricerca sull’efficacia della psicoterapia. Va notato che il verdetto del Dodo, nonostante il suo fondamento dubbio, ha avuto il merito di stimolare un dibattito in letteratura che ha indotto lo spostamento dalla questione da se le psicoterapie sono efficaci al perché lo sono, mettendo in luce l’importanza di identificare i fattori del cambiamento in psicoterapia.

In merito a questo argomento, appare fin da subito necessario differenziare i diversi elementi che sono stati oggetto di dibattito teorico e indagine empirica. In effetti, come ben sistematizzato da Kazdin (2007), la ricerca in psicoterapia dovrebbe avvalersi di una chiara distinzione tra le procedure terapeutiche che sono all’origine del cambiamento (per esempio sintomatologico del paziente) e i meccanismi di azione che spiegano perché un determinato intervento induce un cambiamento nell’outcome misurato. Oltre alla consapevolezza di questa distinzione, va segnalato che l’esito di una psicoterapia non è ragionevolmente da ascrivere soltanto all’attuazione di procedure psicoterapeutiche o a variabili che emergono dall’applicazione di tali procedure ma può anche essere in parte attribuibile a variabili che esulano dal contesto terapeutico come ad esempio il presentarsi di determinati eventi nella vita del paziente. Inoltre, precisa Kazdin (2007), va considerato il ruolo delle variabili moderatrici che possono potenziare, o al contrario ridurre, il nesso che intercorre tra procedura terapeutica e processo di cambiamento (come ad esempio le caratteristiche del paziente).

Forti di queste considerazioni, è possibile meglio comprendere l’impatto che il verdetto del Dodo ha avuto, e ha tutt’ora, sulla teoria della cura delle psicoterapie. In effetti, partendo dall’assunto (ripetiamo comunque discutibile) che il verdetto del Dodo sia vero, in altre parole che tutte le psicoterapie sono ugualmente efficaci per tutti i disturbi, sorge spontanea la domanda di quali siano i fattori responsabili di questa ipotetica efficacia indiscriminata. Ciò rappresenta una domanda fondamentale in quanto ciascuna delle psicoterapie bona fide asserisce il ruolo di fattori specifici che possono rendere conto del cambiamento del paziente. A titolo esemplificativo, la terapia cognitiva ipotizza che procedure come ad esempio il disputing inducono la modifica dei pensieri patogeni (meccanismo d’azione) che, a sua volta, è responsabile della riduzione dei sintomi del paziente. I partigiani del verdetto del Dodo hanno ben presto asserito che le evidenze scientifiche da loro promosse fossero un indizio circa la presenza di fattori di cambiamento comuni a tutte le psicoterapie. In altre parole, si è effettuato un salto logico dall’idea che le terapie fossero tutte efficaci all’idea che fossero tutte efficaci perché tutte fondate sullo stesso meccanismo di cambiamento. Il lettore può notare come questo salto logico sia in sua essenza discutibile. In effetti, è possibile pensare che diverse terapie provocano effetti simili ma percorrendo strade diverse. Il che, notiamo, è tra l’altro proprio quello che succede ai concorrenti protagonisti del libro di Lewis Carroll.

Ad ogni modo, volendo seguire il ragionamento di chi asserisce la veridicità del verdetto del Dodo e lo presenta come prova che le psicoterapie agiscano efficacemente in virtù di identici meccanismi di azione, diversi autori hanno sviluppato ipotesi circa la natura dei fattori comuni del cambiamento in psicoterapia (Frank, 1961; Wampold, 2015; per una panoramica vedere Lambert & Ogles, 2004). Tra essi, il modello di Wampold (2015) è probabilmente quello che ha riscosso maggiore successo e risulta tutt’ora quello maggiormente influente nella comunità clinica odierna. Per dettagli relativi al modello si rimanda al post pubblicato qui (Cambiamento in psicoterapia: il modello dei fattori aspecifici). Tra i diversi fattori individuati da Wampold, quello che ha avuto maggiore risonanza è quello dell’alleanza terapeutica. In effetti, ben presto, diversi gruppi di ricercatori hanno svolto studi e portato evidenze scientifiche a supporto dell’ipotesi che il fattore di cambiamento centrale comune a tutte le psicoterapie fosse riconducibile alla qualità dell’alleanza terapeutica (Zilcha-Mano, 2017). Tuttavia, è doveroso evidenziare la presenza di importanti limiti insiti nella tesi che l’alleanza terapeuta sia il fattore di cambiamento centrale e comune a tutte le psicoterapie.

Innanzitutto, possiamo interrogarci sullo status stesso attribuito al fattore “alleanza terapeutica” come meccanismo di cambiamento chiedendoci se non sarebbe piuttosto meglio concettualizzato come una condizione necessaria, ma non sufficiente, di alcuni fattori di cambiamento maggiormente specifici. In effetti, manchiamo di una teoria articolata e solida di perché avere una buona relazione terapeutica dovrebbe ridurre, ad esempio, la sintomatologia del paziente. In assenza di fondamenti teorici solidi, risulta arduo asserire il ruolo di una determinata variabile come motore di cambiamento (Kazdin, 2007). L’ipotesi forse che sembra meglio spiegare questo meccanismo è l’idea che una buona relazione terapeutica fornisca in qualche modo al paziente un’esperienza emozionale correttiva (Alexander, 1950). Tuttavia, tale ipotesi è stata fortemente ridimensionata e considerata una semplificazione ingenua delle complesse dinamiche che intercorrono tra paziente e terapeuta (Safran & Hunter, 2020). Piuttosto, sembra maggiormente ragionevole presuppore che la relazione terapeutica sia una condizione necessaria, e ciò in tutte le psicoterapie, all’esplicarsi di specifici fattori di cambiamento. In maniera simile, risulterebbe difficile asserire che sebbene aprire la bocca dal dentista sia una condizione necessaria alla cura, risulti anche essere il meccanismo di cambiamento fondamentale del trattamento (che ragionevolmente consiste piuttosto nella sanificazione operata dal dentista dopo il soddisfacimento di questa condizione). In questo senso, sottolineiamo che l’alleanza terapeutica è molto vicino a quello che è stato identificato come un fattore centrale di predizione del successo del trattamento, ovvero la compliance del paziente (e.g. Mausbach, Moore, Roesch, Cardenas, & Patterson, 2010). Questa concettualizzazione del ruolo svolto dall’alleanza terapeutica come condizione al cambiamento, piuttosto che come meccanismo di cambiamento, appare ulteriormente sollecitata dalla natura delle prove empiriche che spesso vengono citate a supporto dell’idea che l’alleanza terapeutica sia un meccanismo di cambiamento (Zilcha-Mano, 2017). Come notato in una rassegna recente e dettagliata di Cuijpers et al. (Cuijpers, Reijnders, & Marcus, 2019), la natura delle ricerche sul tema è essenzialmente di natura correlazionale. Ciò significa che abbiamo prove che la qualità dell’alleanza terapeutica predice il successo terapeutico (positivamente) ma ciò non costituisce una prova che sia un meccanismo di cambiamento. Per esempio, non verrebbe in mente a nessuno asserire, sulla base dell’osservazione di una correlazione tra il numero di sedute fatte e il successo del trattamento, che recarsi allo studio dello psicoterapeuta sia un meccanismo d’azione comune a tutte le psicoterapie e non una semplice pre-condizione. In effetti, come notato da Kazdin (2007), al fine di poter asserire che una determinata variabile sia motore del cambiamento, necessitiamo di ottenere evidenze longitudinali in cui osserviamo il nesso temporale tra un determinato intervento, il fattore di cambiamento e l’esito. Ciò rimane estremamente difficile da identificare nella ricerca in psicoterapia per via della complessità insita dei fattori coinvolti e dei loro probabili nessi retroattivi. Ad esempio, la qualità dell’alleanza terapeutica predice probabilmente un esito positivo della psicoterapia ma, a sua volta, la riduzione dei sintomi può probabilmente incrementare il senso di fiducia tra paziente e terapeuta.

In aggiunta, una limitazione concettuale relativa agli studi che hanno preso spunto dal Dodo e che hanno tentato di identificare – e teorizzare – la presenza dei fattori aspecifici protagonisti del cambiamento in psicoterapia consiste nell’affermazione che la dicotomia tra fattori specifici e fattori aspecifici sia poco congruente con la natura complessa dell’oggetto di studio della ricerca in psicoterapia (de Felice et al., 2019). In particolare, la maggioranza di questi studi utilizza tecniche di analisi dei dati che presuppongono l’ortogonalità, cioè l’indipendenza, tra fattori specifici e aspecifici. Questo presupposto non è realistico, infatti, i fattori aspecifici, ad esempio l’alleanza terapeutica, non sono per niente indipendenti da fattori specifici come ad esempio l’interpretazione nella psicoterapia psicoanalitica o l’esposizione e prevenzione della risposta in quella comportamentale. È evidente che uno psicoanalista pondera la proposta di una interpretazione al paziente in base a come valuta lo stato della relazione terapeutica. Similmente accade alla psicoterapeuta comportamentale che dosa gli esercizi di esposizione e prevenzione della risposta in conseguenza dello stato dell’alleanza terapeutica. L’utilizzo di analisi che danno per scontata l’assenza di associazione tra fattori specifici e aspecifici, pertanto, non risulta adeguato a come si svolge la psicoterapia. Alla luce di questa riflessione, appare poco sensato comprendere l’assenza di differenze in termini di efficacia tra diverse psicoterapie come un’assenza di ruolo svolto dai fattori specifici. Piuttosto, argomentano de Felice et al. (2019), dovremo porre attenzione ai trend di cambiamento delle relazioni tra fattori specifici (e.g. procedure terapeutiche) e fattori aspecifici (e.g. alleanza terapeutica) il cui intreccio è in grado di agire come motore di cambiamento terapeutico.

Accanto alla consapevolezza della natura debole delle prove empiriche e del ragionamento concettuale alla base dell’istituzione dell’alleanza terapeutica al rango di meccanismo di azione primario comune a tutte le psicoterapie, un ulteriore elemento di riflessione ci permette di mettere in prospettiva questa tesi. Ciò consiste nella costatazione dell’esistenza di valide spiegazioni alternative della natura dei meccanismi d’azione comuni in psicoterapia. In effetti, vi sono diverse proposte che hanno sviluppato teorie circa l’esistenza di fattori psicopatologici transdiagnostici ai diversi disturbi (rigidità cognitiva, disregolazione emotiva, mentalizzazione, carenza di flessibilità psicologica…) la cui modifica costituirebbe un meccanismo d’azione comune alle diverse psicoterapie. Va notato come, al contrario di quanto sottende la tesi della centralità dell’alleanza terapeutica, questi contributi hanno spesso messo a punto articolati modelli del funzionamento psicopatologico che serve da ancora allo sviluppo di una teoria della cura, presupposto epistemologico fondamentale all’identificazione di meccanismi di azione (Kazdin, 2007).

Per esempio, Peter Fonagy e i suoi collaboratori hanno sviluppato una teoria delle psicopatologie che mette al centro di esse un fondamentale deficit nella capacità di mentalizzazione. Tale capacità si svilupperebbe in età precoce nell’ambito delle relazioni di attaccamento insoddisfacenti (Fonagy, Gergely, Jurist, & Target, 2002). Secondo questa prospettiva, l’intervento di mentalizzazione reciproca tra terapeuta e paziente sarebbe all’origine di un accrescimento della “fiducia epistemica” del paziente che, a sua volta, sarebbe all’origine della riattivazione di meccanismi di apprendimento sociale, cambiamento centrale per l’apprendimento di nuove competenze, conoscenza sul sé e la ristrutturazione dei suoi modelli operativi interni (Luyten, Campbell, Allison, & Fonagy, 2020). Un altro esempio di contributo particolarmente articolato che asserisce la presenza di un fattore transteorico e transdiagnostico è stato fornito da Lane et al. (Lane, Ryan, Nadel, & Greenberg, 2015). Gli autori hanno sviluppato l’idea che un fattore comune di cambiamento sia costituito dalla rivisitazione di memorie emotive precoci attraverso un processo di riconsolidamento che incorpora nuove esperienze emotive. In particolare, il cambiamento terapeutico sarebbe il frutto di tre specifici ingredienti quali la riattivazione di vecchie memorie, il coinvolgimento in nuove esperienze emotive che sarebbero quindi incorporate alle vecchie memorie mediante un processo di riconsolidamento e infine il rinforzo di tale nuova struttura mnestica mediante l’esercizio di questa nuova esperienza soggettiva in un’ampia gamma di contesti. È degno di nota il fatto che entrambe queste proposte forniscono, mediante un’analisi accurata e dettagliata della letteratura, un modello transteorico forte che asserisce la presenza di elementi transdiagnostici e che quindi risultano valide alternative all’identificazione del primato dell’alleanza terapeutica come meccanismo di azione universale delle psicoterapie.

La breve presentazione di queste proposte mette quindi in luce che, ammesso che vi siano fattori comuni che sottostanno a tutte le procedure psicoterapeutiche, siamo ben lontani dall’aver raggiunto una certezza sul fatto che l’alleanza terapeutica possa essere considerata un fattore comune di cambiamento cardine delle psicoterapie. Piuttosto, sembra più ragionevole pensare che ne sia una precondizione e che altri elementi, che godono di solide concettualizzazioni teoriche, possano essere meglio considerati come fattori di cambiamento universali delle psicoterapie. In conclusione, sebbene il verdetto del Dodo e la sua derivazione nella teoria dei fattori comuni rimangono fondamentalmente discutibili dal punto di vista dei riscontri scientifici finora ottenuti, hanno senza dubbio aperto un interessante dibattito che tutt’ora stimola i tentativi dei teorici, clinici e ricercatori del mondo intero di identificare meccanismi di azione comuni e specifici delle singole psicoterapie permettendo, in ultima analisi, di accrescere le conoscenze utili allo sviluppo della psicoterapia.

 


Per saperne di più, leggi gli altri articoli pubblicati da State of Mind:

  1. Una psicoterapia vale l’altra? Non chiedetelo al dodo – Di Valentina Davi
  2. Una psicoterapia vale l’altra? Hanno ammazzato dodo, dodo è vivo! – Di Giuseppe Magistrale
  3. Dal verdetto del dodo alla strategia del cuculo: l’efficacia della terapia è dovuta a fattori specifici o alla relazione? – La risposta di Giovanni Maria Ruggiero
  4.  Il verdetto del Dodo: perché il Dodo deve o non deve morire – Antefatto e Primo quadro – Di Angelo Maria Inverso
  5. Il verdetto del Dodo: perché il Dodo deve o non deve morire – Secondo quadro – Di Angelo Maria Inverso
  6. Il verdetto del Dodo: perché il Dodo deve o non deve morire – Terzo quadro, Epilogo e penultimo verdetto – Di Angelo Maria Inverso
  7. Il verdetto del Dodo ha un adeguato fondamento empirico? Non sembra – Di di Francesco Mancini e Guyonne Rogier
  8. L’alleanza terapeutica è il fattore aspecifico che renderebbe efficace qualunque psicoterapia? Non ci sono ragioni per supporlo – di Francesco Mancini e Guyonne Rogier

 

 

Il piacere dell’assenza di dolore … Non fatto della stessa sostanza del padre

Il piacere e la dipendenza sono due concetti fortemente correlati tra loro, sebbene la differenza cruciale tra una persona dipendente da sostanze e non sia la manifestazione della crisi di astinenza.

 

Capacità e, spesso, bisogno di dividere e contrapporre idee e percezioni, nessuna esperienza umana può avanzare queste peculiarità quanto il piacere.

Nel tempo si è assistito al conflitto tra quanti lo definivano un male da evitare (soprattutto secondo la matrice cristiana), e quanti vedevano nello stesso il centro dell’azione, il fondamento dell’esistenza ideale (Lorenzo Valla nel Rinascimento, Hobbes, Leibniz, Kant).

Le differenti prospettive, riviste e ampliate, hanno continuato a contrapporsi attraverso la storia dell’uomo, sino ad arrivare alle più recenti enunciazioni della psicoanalisi di Sigmund Freud, per il quale è l’inconscio il luogo dei desideri e delle pulsioni ostacolato, solo parzialmente, dalla rimozione che il principio di piacere vorrebbe vedere appagati.

Anche un gesto semplice e banale può essere espressione del piacere, purché determini contentezza, benessere, piacevolezza nell’individuo. Lo stesso agisce a livello psicologico con evidenti ricadute fisiche: pertanto siamo in grado di distinguere ciò che è bello e gratificante, da ogni cosa che provoca dolore e sofferenza.

Non a caso si tende a ripetere esperienze piacevoli, piuttosto che esperienze noiose e insignificanti, ma quando la ricerca del piacere diventa ossessiva, l’uomo finisce per diventarne dipendente.

A tal proposito, pur non essendoci una piena condivisione di significato, per dipendenza si intende un’alterazione del comportamento che da semplice e comune abitudine diventa una ricerca patologica attraverso mezzi, sostanze e comportamenti che sfociano in una malattia. Tale condizione non fa riferimento soltanto all’abuso di alcool e di sostanze stupefacenti. Si può sviluppare una dipendenza patologica legata anche ad un comportamento.

Il piacere e la dipendenza sono due concetti fortemente correlati tra loro, sebbene la differenza cruciale tra una persona dipendente e non, sia la manifestazione della crisi di astinenza.

Se chiedessimo alla persona dipendente la motivazione (e la reiterazione) dell’assunzione o dello specifico comportamento, la risposta più sincera sarebbe legata al piacere (da intendersi anche come assenza di dolore o malessere).

Tutte le società hanno cercato di imporre un confine tra il piacere e la sua degenerazione, al fine di limitarne la caduta nel vizio, per usare un’espressione datata, o nella dipendenza patologica, preferendo un linguaggio più scientifico.

In verità, le moderne tecniche d’indagine sul funzionamento del nostro cervello ci dicono che molti comportamenti che consideriamo virtuosi (ad es. meditare o fare beneficenza), attivano lo stesso circuito neurale su cui agiscono le sostanze stupefacenti legali o illegali e che i confini tra il socialmente accettabile e il moralmente deplorevole non sono poi così netti, chiamando in causa fattori cari alle neuroscienze ma anche e soprattutto aspetti culturali, morali e giuridici che danno forma al nostro essere e alla nostra identità all’interno della società (Linden, 2012).

Non meno dirimenti sono i fattori soggettivi, strettamente connessi alla storia e all’immaginario personale (Abraham, 2002).

Dall’organizzazione narcisistica delle strutture infantili in grado di indebolire fino, in alcuni casi, ad eliminare la parte adulta della personalità dal controllo del comportamento di Meltzer, alla persona affetta da sindrome maniaco depressivo di Rosenfeld, dal concetto di attaccamento ansioso o immaturo di Bowlby alla sostituzione dell’oggetto d’amore con la sostanza di Kohut, dalla ricerca del piacere su base nevrotica di Adler e sino all’impossibilità di addivenire ad una precisa struttura di personalità del tossicomane di Bergeret, in molti hanno cercato di definire, catalogare, sintetizzare uno dei legami (consumatore-sostanza) più problematici e complessi.

Alcuni studiosi hanno individuato associazioni specifiche tra sostanza e dolore mentale. È stato ipotizzato che il consumo di cocaina possa essere associato a problemi depressivi e ipomaniacali, mentre i narcotici sarebbero utilizzati per difendersi dai sentimenti di rabbia, dal desiderio di una relazione simbiotica con la madre, spesso per alleviare la depressione (Blatt, 2006; Bowlby, 1980).

L’uso di sostanza può essere interpretato anche come automedicazione in chiave difensiva e adattativa e non esclusivamente regressiva come suggerito dal paradigma psicodinamico (Wieder, 1969; Kaplan, 1978; Milkman e Frosch, 1973).

Considerata la contestuale presenza di fattori genetici, fisiologici, neurochimici, psicopatologici, ambientali, socio-culturali è difficile e fuorviante rispetto alla possibilità di decodificare la tossicodipendenza rinunciare ad un approccio multidisciplinare e multiparadigmatico. Non cogliere la complessità dell’eziopatogenesi del fenomeno significherebbe essersi avvicinati, aver pensato, studiato, teorizzato ma certamente non aver davvero conosciuto l’area articolata e complessa delle dipendenze patologiche.

Il piacere come assenza di dolore. La nuova (vecchia) eroina

Inevitabilmente, si assiste come per qualsiasi altro mercato ad un’evoluzione dei consumi e delle sostanze. Se la cannabis oggi raggiunge una percentuale di THC al 20-25% a fronte di una presenza del 5-8% di qualche decennio fa, l’eroina ha visto un forte ritorno sulla scena del consumo sebbene con modalità di lavorazione, tagli e potenza differenti rispetto alla prima grande diffusione dei primi anni ’80.

Secondo il Dipartimento alla salute degli Stati Uniti, tre quarti dei tossicodipendenti del Nord America ha iniziato assumendo farmaci antidolorifici regolarmente prescritti dai medici.

Hydrocodone (vicodin®), oxycodone (oxycontin®, percocet®, percodan®, tylox®) e il potentissimo fentanyl (assunto per via orale, ma anche sniffato, iniettato o fumato) sono tutti farmaci antidolorifici che determinano nel tempo pervicaci dipendenze. Quando, poi, diventa complicato riuscire ad avere le regolari prescrizioni mediche il passaggio agli oppiacei di strada è pressoché inevitabile.

Il dolore può accompagnarsi al piacere: ma quanto l’uomo nella storia abbia cercato di evitarlo, al di là della sua utilità filosofico-morale, resta evidente.

Le persone non assumono droghe per ragioni inspiegabili, senza una motivazione più o meno consapevole o per mere questioni di immoralità: con l’uso di sostanze le persone cercano di procurarsi piacere.

Dissimulare, mistificare questa visione, non provare a comprendere ciò che sottende il ricorso a queste pratiche, non cercare di tradurre il fascino che le stesse esercitano significa precludersi la possibilità di comprendere in maniera più ampia, continuando a promuovere politiche inefficaci.

Forse non è casuale che oggi le droghe più diffuse negli Stati Uniti, peraltro avendo già varcato i confini degli stessi spingendosi sino al Canada e all’Europa, siano gli antidolorifici a base di oppiacei. Si stima che nel 2016 circa 11,5 milioni di americani abbiano fatto uso di prodotti di questo tipo, mentre nello stesso anno i casi di morte per overdose dovuti a eroina o oppioidi siano stati 42.249 a fronte dei 33.091 dell’anno precedente.

Tre aziende negli Stati Uniti hanno prodotto l’88% degli oppiacei: Mallinckrodt, Actavis Pharma e Par Pharmaceutical. Purdue Pharma è la quarta, e viene considerata responsabile di aver avviato la produzione di massa (Molinari, 2019).

Nell’opera autobiografica Confessioni di un oppiomane (1821), Thomas De Quincey definisce l’effetto prodotto come «l’abisso del divino godimento» (De Quincey, 1973, p. 48), una sorta di insperata felicità in grado di allontanare ogni affanno e tormento della vita quotidiana.

L’oppio non è la sostanza della prestazione, del desiderio sessuale, del desiderio di stare con gli altri, così come scrive Jean Cocteau (2006, p. 27): «fumare l’oppio è abbandonare il treno in marcia, e occuparsi d’altro che della vita, è occuparsi della morte».

Se questo è ciò che caratterizza l’effetto, in merito ai rischi e alle conseguenze, molto potrebbe dirsi a cominciare dalle stesse parole dell’autore francese che definisce l’astinenza come «un silenzio simile al pianto di mille bambini le cui madri non tornano ad allattarli» (ibid.).

Made in China sold in USA

Se l’industrializzazione della seconda metà del XIX secolo può essere vista come causa del primo grande boom degli oppiodi, quanto la società sta vivendo oggi in termini di deindustrializzazione, delocalizzazione, globalizzazione non sembra foriero di minore sperdimento.

Negli Stati Uniti la diffusione non è omogenea, preferendo la periferia al centro, le aree multietniche deprivate culturalmente e socialmente, le zone dove più forte si è avvertita la contingenza economica negativa degli ultimi anni con tutte le implicazioni che questa ha comportato in termini di occupazione e investimenti. Dopo l’11 settembre 2001, con il declino dei tre pilastri – Dio, patria e famiglia – del mito americano, la condizione umana sembra essersi ridisegnata radicalmente; e in Europa lo scenario sembra molto simile.

La contrazione delle spese per lo stato sociale, operata in termini di previdenza fino alla vera e propria sostituzione della stessa con una sorta di assegno d’invalidità con il quale coprire anche i costi per l’uso di oppiodi contro il dolore, a partire dagli anni Ottanta, ha aperto ad una forma anomala di ammortizzatore sociale. Acquisire farmaci per poi rivederli per strada è diventato così un modo per ottenere guadagni e possibilità di sopravvivenza. È un po’ ciò che accade nel nostro paese con la vendita di metadone di strada, che ha finito per determinare l’espansione del sommerso e la determinazione per la dipendenza di un suo nuovo status sociale. Se il lavoro manca, se le prospettive occupazionali non sono incoraggianti, chissà che per il sistema la vendita tra consumatori non sia preferibile ai furti, agli scippi, ai piccoli crimini predatori operati a danno della comunità? In altri casi non si spiegherebbe come in molte città le piazze e i luoghi di spaccio, pur noti a tutti, continuino ad operare quasi del tutto indisturbati.

L’interesse di chi vende è quello di potenziare il prodotto per soddisfare le aspettative del cliente, il guadagno è legato all’affidabilità e alla forza della merce. La regola aurea del proibizionismo, formulata nel 1986 dall’attivista americano Richard Cowan, è chiara: «più cresce la repressione contro le droghe ‘più le droghe diventano potenti’» (Sullivan, 2018, p. 59). Più sono rilevanti i rischi che i produttori corrono, più salgono i prezzi che i consumatori sono disposti a pagare chiedendo prodotti piccoli, maneggevoli e potenti e soprattutto che possano offrire garanzie rispetto a sostanze a basso costo e ad alta pericolosità (soprattutto dovuta al taglio). Forse è anche per questo che dalle amfetamine si è passati alle metamfetamine, dalla cannabis con thc al 10-12% si è arrivati a quella con una percentuale al 22-25%, sino al fentanyl, oppioide concentrato, cinquanta volte più potente dell’eroina. Un chilo di eroina può fruttare sino a 500.000 dollari, un chilo di fentanyl ne vale 1,2 milioni.

Il problema del fentanyl, per i trafficanti, è che è quasi impossibile da dosare correttamente. A causa della sua composizione microscopica bisogna tagliarlo con altre sostanze per poterlo iniettare, e tagliarlo significa giocare con il fuoco. Basta l’equivalente di pochi granelli di sale per toccare il cielo con un dito, ma qualche granello in più può uccidere (Sullivan, 2018, p. 59).

Il fentanyl è fabbricato in Cina e facilmente reperibile nel dark web.

Dal 2013 le morti per overdose unitamente a quelle da altri oppiodi sintetici sono aumentate di sei volte, superando quelle dovute a ogni altra droga. Per quanto riguarda l’Italia, secondo fonti ministeriali, nell’ultimo anno sono aumentati i sequestri del farmaco così come gli episodi di overdose.

Negli Stati Uniti, su richiesta del Center for Disease Control and Prevention, nel 2017, i medici hanno cominciato a diminuire le prescrizioni, precedentemente favorite da tutta una politica di incentivazioni operata da alcune case farmaceutiche, nonostante solo nel 2015 il governo americano abbia speso 504 miliardi di dollari per gestire l’epidemia da oppioidi. Scarseggiando l’offerta, si assiste ora all’inondazione sul mercato illegale di eroina e prodotti simili ad opera dei cartelli messicani della droga: dieci dollari a dose a fronte degli ottanta necessari per la pillola di oxycontin®. L’aumento delle prescrizioni, dunque, ha creato la domanda con una risposta del mercato immediata e massiccia fuori dalle prescrizioni stesse.

Per quanto riguarda il Vecchio Continente, lo scenario non sembra così differente. Se le droghe sono sempre più pure, ci sarebbe da chiedersi come mai i prezzi rimangono stabili. Alla domanda, Andrew Cunningham, alla guida dell’Unità sulle nuove sostanze dell’Osservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendenze (emcdda), ha risposto:

«È vero. Ma questo avviene per un semplice motivo di convenienza. Per quanto riguarda la vendita al dettaglio, la transazione si verifica solitamente per strada. Quindi è necessario fissare un prezzo tale che i soldi vengano scambiati in fretta. Da quanto ricordi, una dose di eroina viene venduta per 10 euro. Il prezzo rimane fisso, anche se la purezza aumenta o diminuisce. Non fanno salire il prezzo di pochi euro, perché se uno paga con una banconota da 20, si perde tempo per cercare il resto esatto attirando l’attenzione.» (Civillini, 2016).

È altra la strategia del mercato per fidelizzare il cliente e ampliare la platea dei clienti. Il consumatore non è il centro. È talmente ampio il possibile bacino di acquirenti che il consumatore è solo un numero. La partita (è il caso di dirlo) si gioca sulla sostanza. La sostanza è il centro dell’interesse del mercato.

A tal proposito vanno fatte delle debite precisazioni: negli ultimi mesi sui media nazionali si è letto e parlato di eroina gialla.

«L’eroina gialla, molto semplicemente, è cloridrato di eroina (o di grado 4 o eroina bianca) che presenta una sfumatura giallina, a causa della scarsità di solventi chimici in Afghanistan, che non consente di lavarla bene. È solo eroina bianca leggermente colorata perché un po’ più sporca.

Alla luce di ciò, non ha alcun senso insistere sul colore perché questo distrae dal vero problema: nocciola, bianca o giallina che sia, si tratta sempre di eroina e su questo occorre attirare l’attenzione, senza alcuna enfasi sul colore. Non è il colore a determinare la possibile pericolosità dell’eroina ed insistere sulla pericolosità dell’eroina gialla conduce, immancabilmente, a banalizzare tutte le altre forme di eroina.

La stessa enfasi, purtroppo, viene posta sull’aumentata percentuale di principio attivo, che è un dato costante in tutto il mondo da circa un ventennio. Nei primi anni del secolo, quando la mortalità per overdose da eroina era enormemente più alta, la percentuale media di principio attivo nell’eroina sequestrata era di gran lunga inferiore a quella odierna.» (Giancane, 2018).

È il caso di aggiungere che: «il grado di purezza dell’eroina è importante, ma non è il fattore più importante a condizionare il numero di decessi, in un’ottica di salute pubblica e quindi di grandi numeri; tanto è vero che in passato si sono raggiunti picchi di mortalità da overdose di circa 6 volte maggiori rispetto ad oggi (1566 eventi nel 1996) pur in presenza di eroina a concentrazione media intorno alla metà di quella odierna.

Ci sono dunque almeno altri due fattori di maggiore importanza nel modulare il rischio di morte.

Uno è legato a disponibilità e costo dell’eroina in una data area, ritenuto nella Letteratura scientifica il fattore di maggior peso, perché a maggiore accessibilità, dipendente da presenza e prezzo della sostanza, ovviamente corrisponde maggiore diffusione e quindi maggiore probabilità di incontro tra la sostanza e il soggetto che non ne ha tolleranza.

Questo dà senso all’attività di studio dei traffici, dei mercati e dei modelli di spaccio, così come al sequestro delle partite importate dovunque sia effettuata, e non solo dove si riscontrano concentrazioni più elevate del principio attivo.

Il secondo è la disponibilità, l’accessibilità e l’efficienza degli interventi evidence-based di terapia e di riduzione del danno (o del rischio, come qualcuno preferisce dire): diffusione di trattamenti oppioidi agonisti (ancor più se anche a bassa soglia), e prevenzione selettiva e indicata (es. drug checking anche autogestito delle sostanze, promozione di stili di consumo a minor rischio per esempio mai da soli, mai contemporaneamente, mai senza naloxone, mai somministrando tutto in una volta).

Questi interventi riducono la domanda di eroina e mitigano i comportamenti più rischiosi, come descritto da innumerevoli studi in tutto il mondo.» (De Bernardis, 2018).

La paura di ciò che non si conosce, la miopia con cui la politica si rivolge al fenomeno, unitamente al continuo richiamo alla pena e alla sua certezza, al risarcimento che il reo deve alla società, alla paura quotidianamente alimentata dai media, all’atteggiamento maturato in controtendenza all’espandersi dei crismi della globalizzazione rispetto a tutto ciò che è ‘altro’, sono elementi fondanti e condizionanti rispetto alle politiche sociali.

Ancora lontani dal comprendere che non è verso il dipendente patologico che deve orientarsi la ‘guerra’ alle droghe ma al non perdere mai di vista i quattro pilastri indicati per le politiche sulle droghe sanciti dai documenti dell’Unione Europea (vedi Strategia dell’UE in materia di droga 2013-2020), ossia: Contrasto al narcotraffico, Prevenzione, Cura e Riduzione del Danno.

Siamo tutti fisiologicamente alla ricerca del piacere così com’è nella natura dell’essere vivente, e per la nostra sopravvivenza non ci stanchiamo di inseguirlo ma siamo anche (chi più, chi meno) addolorati, neo-traumatizzati economici, alla ricerca di accoglienza e ascolto, ostaggi dei consumi e del narcisismo, in cerca di sollievo e, dunque, tutti potenzialmente a rischio.

Filosofi, letterati, teologi, sociologi (ben più importanti di chi scrive) si sono chiesti se il dolore potesse avere una sua utilità per l’uomo. A mio modesto parere potrebbe averlo purché il rimedio non sia così facilmente reperibile e sempre più a costo contenuto.

Conclusioni

«Fratello Gallione, tutti vogliono vivere felici, ma quando si tratta di veder chiaro cos’è che rende felice la vita sono avvolti dall’oscurità». Così si esprimeva Seneca (4 a.C.- 65 d.C.) nell’incipit del suo celebre dialogo De vita beata.

La dipendenza patologica è il desiderio che fa dell’assenza la spinta verso la ricerca della felicità.

È il desiderio che impone all’uomo il dolore. Il piacere che ne consegue è cessazione della pena, una sorta di non-dolore leggibile come piacere negativo. La sostanza (compreso il farmaco) mette inizialmente l’essere umano nella condizione di provare piacere e di desiderarne ancora, ma ciò che segue non è più piacere come nelle prime fasi dell’uso: ma il ricordo dello stesso e, con lo stabilirsi della dipendenza, il bisogno. A quel punto l’uso non è più piacere ma evitamento del dolore e più ancora della caduta nella sofferenza.

Sembra delinearsi la dialettica hegeliana del servo e del padrone, del pendio heideggeriano, del concetto lacaniano di manque, ossia della mancanza come propellente della ricerca, del desiderio.

Lo stesso Freud aveva sottolineato il fascino del piacere narcotico, ossia del doppio negativo: cessazione del dolore e sedativo al male di vivere.

Sia per Platone che per il padre della psicoanalisi, per interrompere questo circolo di esperienze cosiddette impure, di azioni anestetizzanti rispetto alla cura del mondo e degli altri, è necessario passare attraverso la realtà, sganciare il piacere dall’idea infantile dello stesso per entrare in una dimensione estetica, dal sensibile al bello, il pensiero e il ritorno al mondo.

Appetito insaziabile e piacere inaccessibile sono le dirette conseguenze di un meccanismo che non conosce fine né limiti.

Gli altri, le persone, la bellezza, l’impegno, il differimento, il sacrificio, la realtà sono questi i suggerimenti che filosofia, psicanalisi, e letteratura propongono come antidoto a quel vuoto incolmabile che può prendere tutti, ma soprattutto coloro che sono più esposti, portando con sé un bagaglio povero, una cassettina degli attrezzi (esperienze, percezioni, emozioni, interessi ecc.) scarna, un vuoto interiore che è assenza di senso e più ancora dell’ascolto del proprio autentico sé.

Chi accoglie e riconosce lacanianamente il proprio autentico e profondo desiderio (unico come ogni essere umano) può sperimentare degli insuccessi o delle privazioni, può doversi scontrare con frustrazioni, ma nel profondo è vivo, creativo, recettivo rispetto all’imprevedibilità della vita e alle sue possibilità.

Perché un soggetto si rende schiavo di un padrone folle (la sostanza) che lo distrugge? […] perché anziché sottrarci al male lo perseguiamo con accanimento? […] Si tratta di una sorta di intemperanza febbrile, di un’attivazione verso l’eccesso, di un rifiuto dell’equilibrio e della moderazione del piacere. L’essere umano non è un essere aristotelico, non si accontenta della via mediana, non è un ‘animale razionale’ ma come afferma Lacan, ‘un essere di godimento’, un essere che tende a oltrepassare il limite, a preferire il godimento alla difesa della propria vita. L’ideale del bene non è ciò che orienta la vita umana (Recalcati, 2012, pp. 97-8).

Dunque, il fine ultimo dell’azione umana è il perseguimento del piacere. Un piacere che non regala quasi mai soddisfazione. È possibile rintracciare questa constatazione anche nelle parole di Paolo di Tarso nella Lettera ai Romani (7,14-15): «La legge viene dallo Spirito, ma io sono nella carne, venduto al peccato […] non faccio quello che voglio ma quello che odio».

Di fatto, l’essere umano desidera il piacere, e non un piacere specifico. Sembra quasi di poter concludere, parafrasando Leopardi, che una certa povertà di stimoli, di strumenti, di occasioni, di capacità, aprano al piacere facilmente reperibile e di immediata fruizione delle sostanze psicotrope.

Eppure, anche nel momento di maggiore godimento, l’individuo continuerà a sentire l’assillo del desiderio non colmato. Questo assillo è di per sé fonte di dolore cosicché, anche quando non soffre di mali fisici, l’essere umano è in stato di sofferenza per la sua stessa richiesta inappagata. L’infelicità, dunque, non come momento occasionale, ma come condizione umana. La natura, dice Leopardi, ci ha creati così, la responsabilità dell’uomo non può che essere limitata.

Citando Goethe, Schopenhauer (1788-1860) nell’opera L’arte di essere felice intravede nella personalità la possibilità della felicità più alta. Assecondarla è ciò che l’uomo può mettere in pratica per garantirsela. Per fare questo è però necessario avere coscienza di sé, sapere con certezza ciò che si vuole ed evitare, in ragione delle esperienze fatte, di tentare ciò in cui non riusciamo, vuoi per inclinazione vuoi per limiti nostri. La conclusione è che «se abbiamo una volta per tutte conosciuto chiaramente le nostre forze e buone qualità, come pure i nostri difetti e debolezze […] sfuggiremo al più amaro di tutti i dolori, alla scontentezza di noi stessi, che è l’immancabile conseguenza di non conoscere la propria individualità» (Schopenhauer, 1997).

La fine del dolore è nel piacere o il piacere è esso stesso anelito del dolore per trovare possibilità di rinnovarsi in una eterna alternanza, in una sequenza senza soluzione di continuità.

Dolore e sofferenza. Il dolore fa parte del mondo fisico, la sofferenza di quello psichico. Due sfere diverse ma collegate tra loro e interagenti l’una sull’altra. Il dolore può venire localizzato in un punto, mentre la sofferenza tormenta tutto il nostro essere, ci logora, ci indebolisce, spesso ci degrada. […] Al dolore si perdona. Non così alla sofferenza. La sofferenza ci appare un’ingiustizia, una disgrazia, un torto immeritato: la nostra prima reazione alla sofferenza è di ribellione, di protesta. La sofferenza ci offende, anzi ci degrada (Kapuscinski, 2009).

Il piacere delle sostanze, spesso, dovrebbe essere letto alla luce di questa possibilità e più ancora come panacea a dolori cui non sempre si riesce a dare un nome. Le sostanze ben si prestano all’offerta di sollievo, che non è soluzione, se non temporanea e fittizia. In assenza di altre possibilità adattive, conosciute e praticate, restano il rifugio più facile e immediatamente praticabile. Nel tempo, però, anche la causa di nuovi e più pervicaci dolori, il tutto consumato tra ridondanti atti d’accusa nei confronti dell’uso di sostanze e continue sollecitazioni ad uno stile di vita totalmente orientato all’autoaffermazione, alla prestazione e all’ostentazione del benessere (finto o reale che sia) al dolore si oppone il piacere, alla sofferenza la possibilità di fuggire dalla memoria di sé.

L’imperativo dominante dei nostri giorni è quello riportato dalla voce del marchese De Sade: «Devi godere!». Secondo il pensiero di Georges Bataille in merito all’economia del dispendio, il corpo dell’uomo della contemporaneità è un corpo saturo, invaso dal godimento, accecato da un desiderio costante, incapace di piacere proprio perché schiavo del suo diktat e di una continua ripetizione compulsiva della sua ricerca senza la quale sembra trovare posto solo il dolore.

Se ancora oggi si prescinde da questo accostandosi al dipendente patologico allora la comprensione di ciò che agisce al suo interno è lontana dall’essere anche solo sondata.

 

Il Covid-19 e il suo lutto

Quello per le morti da Covid è un lutto un po’ diverso dagli altri lutti: è particolare, più complesso e intricato, più facilmente esposto a patologie.

 

Per capire meglio, vi racconto la storia di Micaela.

Micaela ha quasi 17 anni e ha finito la terza liceo, scientifico. Vuole fare l’astronoma: fin da piccola le piace osservare le stelle, una passione che non si è mai attenuata. Durante il primo lockdown ha fatto didattica a distanza, ne ha sofferto molto ma ce l’ha messa tutta, e alla fine dell’anno scolastico è piuttosto soddisfatta di se stessa. Visti gli ottimi risultati i suoi genitori hanno acconsentito a mandarla qualche giorno in vacanza con due amiche, Chiara e Francesca: è la prima volta che va senza i genitori. Naturalmente le fanno mille raccomandazioni: mascherina, igiene, etc., ma sono raccomandazioni quasi superflue, visto che Micaela è una ragazza giudiziosa e non ha mai fatto sciocchezze. Del resto la breve vacanza non è certo sulla riviera romagnola: è in un paesino di montagna, dove Chiara ha una casa.

Le tre amiche arrivano nel piccolo paese, accompagnate dal padre di Chiara, che apre loro la casa, si assicura che tutto sia a posto e se ne va. Micaela si è portata anche il telescopio che i nonni le hanno regalato a Natale: è sicura che senza l’inquinamento luminoso della pianura le stelle saranno spettacolari.

Il paese è davvero piccolo ma bellissimo, l’ultimo della valle. Intorno solo boschi, montagne e torrenti. Qualche decina di vecchi abitanti, tetti di ardesia, molte seconde case, un negozio di alimentari e un bar piuttosto grande, ritrovo dei locali e di quelli delle seconde case. Micaela nota subito che nessuno porta la mascherina: pensa che evidentemente lì il virus non è arrivato. Lei però la tiene e la toglie solo quando è in casa con le amiche, che conosce dalle scuole elementari. Chiara e Francesca vanno al bar per un paio d’ore tutte le sere, dopo aver cenato con quello che hanno preparato ridendo. Al bar hanno conosciuto due ragazzi simpatici, che sono appena tornati dalla Spagna. Micaela ci va un paio di volte, ma per lo più preferisce stare a casa, con il suo telescopio e tutte le luci spente. Lei e le stelle. È felice. Le loro giornate sono piene di lunghe passeggiate nei boschi. Qualche incontro fortuito sui sentieri rompe la fatica e offre la scusa per fermarsi a parlare.

È lunedì, e le brevi vacanze di Micaela e le sue amiche sono finite. A prenderle viene proprio il padre di Micaela, e in tre ore sono a casa. Micaela passa quasi tutti i pomeriggi a sistemare le osservazioni astronomiche che ha fatto in montagna. A mezzogiorno pranza sempre dai nonni, che abitano lì vicino e ai quali lei è molto affezionata. La sera a cena ascolta con i genitori le avventure di Alessandro, il fratello più grande, che per le vacanze è andato in barca a vela nel Mediterraneo.

E’ giovedì quando Micaela comincia ad avvertire qualche malessere: poco più di un prurito in gola, occhi arrossati e l’inizio di un raffreddore. Niente di preoccupante. Ma alla sera di giovedì viene la febbre al nonno e anche al papà. C’è anche la tosse. Si sente il medico di famiglia, il quale dice che non c’è tempo da perdere e bisogna fare il tampone. A tutta la famiglia. Dopo un giorno il responso: Micaela è positiva, così come i suoi genitori e il nonno, il quale dopo solo un giorno si aggrava e viene ricoverato d’urgenza. Già sofferente di cuore, morirà quattro giorni dopo. Micaela non lo ha più rivisto dal pranzo di giovedì; non lo ha salutato e non potrà partecipare al funerale, al quale peraltro non potrà andare nessuno dei familiari, tutti in quarantena. Anche il papà di Micaela viene ricoverato. Per fortuna dopo qualche settimana guarisce. Micaela sta fisicamente bene ma è psicologicamente distrutta ed è convinta di essere lei la causa di tutto: delle sue amiche anche Chiara è risultata positiva al virus, così come positivi sono risultati i due ragazzi conosciuti in montagna. A gettare ulteriore incertezza sulla catena del contagio, si è rivelato positivo anche un amico di suo padre, con il quale lui era uscito qualche sera prima per una partita a biliardo.

Mi sono un po’ dilungato nel racconto della storia di Micaela perché è una storia tutt’altro che rara ed è  paradigmatica di molte situazioni nelle quali si genera un lutto con una serie di caratteristiche che favoriranno la sua patologia.

Con la riapertura delle scuole, a settembre, queste situazioni si sono poi moltiplicate a dismisura: è vero che dentro le strutture scolastiche gli studenti sono stati efficacemente protetti dalla possibilità di contagiarsi, ma molto poco, o nulla, è stato fatto per approntare altrettanto efficaci garanzie fuori dalla scuola, a cominciare dai trasporti su mezzi sovraffollati, per finire agli assembramenti di adolescenti senza mascherine in attesa dell’inizio delle lezioni, per i quali nessuna efficace opera di sensibilizzazione è stata fatta.

Gli ingredienti che complicheranno il lutto di Micaela sono ora facili da individuare:

  • Il senso di colpa: anche se è sempre stata attenta, e indipendentemente da come siano andate veramente le cose, Micaela è convinta di essere colpevole e di aver portato il virus dentro la cerchia dei suoi cari, di aver quindi causato la morte del nonno e la malattia del padre. Il senso di colpa, che è una costante in qualsiasi lutto, in quello da Covid affonda i suoi dolorosi artigli nei dati di realtà: moltissimi contagi avvengono in famiglia, causati da uno dei membri che è portatore asintomatico e inconsapevole. Questa non-consapevolezza lo proteggerà però assai poco dalla convinzione di essere colpevole e sarà spesso necessario un lungo e doloroso lavoro terapeutico per riportare su un piano di realtà quello che è accaduto. Accanto al senso di colpa di chi ha veicolato il contagio, spesso vi è il rancore nei suoi confronti da parte degli altri familiari, rancore espresso più o meno duramente: ‘Ma dove sei andato…Cosa hai fatto…Sei stato disattento…Non hai messo la mascherina…E’ colpa tua… Etc.’, oppure inespresso ma comunque attivo dentro il tessuto relazionale. Questa variante del senso di colpa ed il più o meno muto rimprovero, sono due elementi caratteristici di questo lutto che non sono stati ancora adeguatamente esplorati.
  • Non vi è stata alcuna possibilità di salutare il nonno e nemmeno di abbracciarlo o fargli una carezza. Le fantasie di Micaela sulla solitudine del nonno e sulle modalità della sua morte sono strazianti. E così quelle di tutta la sua famiglia. Nessuno di loro ha potuto partecipare al funerale. Per loro nessun rito di commiato è stato possibile; le consuete ritualità connesse alla morte sono state completamente cancellate ed al loro posto sono rimaste solo incertezza e solitudine. Il campo sociale che usualmente si prende carico in modo simbolico del dolore individuale per stemperarlo in quello collettivo, non è più una realtà su cui contare: la collettività tende piuttosto a spingere il dolente ai margini della relazione, perché ne ha fisicamente paura.

Tre fattori sono particolarmente rilevanti per la successiva elaborazione del lutto:

  • La qualità del morire (cioè come è avvenuta la morte);
  • La qualità della presa in carico da parte del campo sociale e della collettività del dolore e della solitudine dei superstiti (i rituali);
  • La modalità della separazione finale da chi sta morendo.

Nei decessi da Covid 19 questi tre elementi hanno un indice drammaticamente negativo.

Chi muore si porta via una parte essenziale di noi: l’immagine, la rappresentazione, la narrazione che si è fatto di noi, e nella quale noi ci rispecchiamo e ci riconosciamo. E’ una narrazione unica, esclusiva e insostituibile, che è il risultato costruito in anni di relazione dialettica, di affetto, di amore (pur con le inevitabili ambivalenze). Quando muore uno dei partner, quella conversazione unica ed esclusiva si interrompe e non possiamo più rispecchiarci in essa: da qui la angosciante sensazione di perdita di significato che sperimentano quasi tutte le persone in lutto. La cosiddetta elaborazione del lutto consiste proprio nella necessità di completare quella narrazione dentro di sé, di modo che si possa chiudere un capitolo della storia, della vita. Chiudere non significa archiviare: per una buona elaborazione deve esserci la consapevolezza che quel capitolo, lungi dall’essere archiviato, è e resta indispensabile per il futuro svolgimento della narrazione.

Se la separazione è stata però repentina e traumatica, come quasi sempre nelle morti per Covid 19, se non è possibile nemmeno iniziare davvero il processo di elaborazione perché sono stati stravolti i rituali funebri (è infatti il rito che sancisce che il trapasso è avvenuto, è il rito che imprime la scansione temporale del lutto e ne ordina le fasi), allora il percorso di elaborazione risulta molto complicato. Sarà molto spesso necessario l’intervento del terapeuta, che dovrà quasi sempre coinvolgere il nucleo familiare.

In questo periodo emergenziale che è ormai diventato la nuova normalità, ci sorprendiamo spesso a scrutare con angoscia il nostro panorama affettivo e relazionale, come se stessimo guardando un campo di battaglia sul quale infuria ancora e ancora, più o meno virulento, il conflitto. Sì, facciamo ogni giorno la conta dei caduti, riconoscendo con orrore che la guerra, i cui rumori ci giungevano un tempo lontani, attutiti e quasi estranei, ora infuria tutta intorno a noi, e quelli che si ammalano, quelli che muoiono sono nostri familiari, amici, conoscenti, portati via in un baleno senza nemmeno il tempo di salutarli come si conviene. Stiamo chiusi in casa, solo rare e veloci uscite per l’indispensabile, combattuti tra il desiderio di telefonare agli amici e ai parenti e la paura di ricevere telefonate che ci annuncino la scomparsa di qualcuno. Ci domandiamo quale sia dentro di noi l’emozione dominante tra dolore, paura, senso di impotenza, rabbia.

Guardiamo che i nostri figli e i nostri nipoti, di solito esuberanti e pieni di iniziative, mentre rischiano di regredire in uno stato apatico, dominati dal senso di impotenza.

Ma la speranza prepotentemente richiede spazio, ed è assolutamente necessario concederglielo. Questa concessione non può essere passiva, dovrà essere invece attiva e promotrice di resilienza.

Ho scritto queste righe a metà novembre, nel pieno della cosiddetta seconda ondata. Sono certo che quando verranno pubblicate la situazione sarà in netto miglioramento, tanto da consentirci di guardare al futuro con realistico ottimismo.

Qual è la relazione del Natale con gli episodi depressivi e i tentativi di suicidio?

Tra le feste più importanti del mondo cristiano vi è sicuramente il Natale. Colpendo le sfere emotive di un gran numero di persone, il Natale assume significati diversi per ognuno.

 

Può significare tristezza e malinconia se si ricorda il passato, soprattutto se qualcuno manca all’appello nella nostra nuova foto del Natale in famiglia. Può significare anche rinascita se è il primo Natale di un nuovo percorso felice, se il calore delle feste è condiviso da chi abbiamo intorno.

Alcuni studi hanno sottolineato l’influenza delle festività su coloro che sono in una condizione di fragilità psichica. Le feste natalizie possono accompagnarsi ad un peggioramento dell’umore, che potrebbe diventare disforico, con un conseguente aumento dell’ideazione suicidaria o dei comportamenti autolesivi – sia dal punto di vista psicologico che fisico. Anche eventi particolari, collegati al proprio passato, detti ‘eventi trigger’, possono scatenare reazioni emotive intense. In questi casi, fare parola del proprio umore e di ciò che stiamo vivendo, è importantissimo. Affrontare questi periodi con il sostegno delle relazioni sociali più vicine, elaborando l’esperienza con l’aiuto di un professionista della salute mentale, può essere un’ottima strategia per vivere serenamente il periodo natalizio e non solo.

Depressione e comportamento autolesionistico: la relazione con le festività

Non sono molte le analisi riguardanti l’umore e il suo andamento durante le festività, ma alcune hanno preso in esame le dimensioni più rilevanti in alcuni disturbi psichiatrici: abuso di alcool, comportamenti autolesionistici, tentativi e completamenti di suicidio, depressione.

In uno studio condotto da Peretti (1980), sono stati considerati tre aspetti principali da monitorare nel disturbo depressivo maggiore: la solitudine, l’ansia, l’impotenza. È stato rilevato che, durante le feste, nelle persone depresse sia forte la convinzione di essere sole e non avere relazioni amorose e familiari soddisfacenti, con la percezione di inferiorità rispetto al resto delle persone che stanno trascorrendo le vacanze serenamente. Questo aspetto è stato verificato da un altro sperimentatore attraverso delle interviste. In 55 pazienti ricoverati in servizio di emergenza psichiatrico, sono emersi dei sentimenti riguardanti la sensazione di sentirsi soli e abbandonati, senza una famiglia. Essi descrivevano il loro umore durante le vacanze natalizie come ‘depresso’.

È importante considerare che la situazione varia a seconda del caso: molti individui possono percepire comprensione e calore se hanno la possibilità di essere accolti ed affiancati dalla loro famiglia. Grazie al sostegno morale si riescono ad affrontare meglio le proprie difficoltà.

Infatti, gli studi riguardanti i comportamenti autolesionistici, svolti su grandi campioni di individui, hanno rilevato una gran diminuzione degli atti autolesivi nel periodo delle vacanze natalizie, dovuta probabilmente ad una vicinanza sociale maggiore. In particolare, in un campione di 20.000 persone, si è osservata una diminuzione del 30-40% dell’autolesionismo non suicidario. Nelle fasce di età più giovani il decremento è ancora maggiore, in quanto è stato rilevato circa il 60% dei casi di autolesionismo in meno rispetto al resto dell’anno (Bergen & Hawton, 2007).

I suicidi ed il nuovo anno: come prevenirli

La disperazione, la depressione, l’alcolismo e le recidive suicidarie rappresentano dei fattori di rischio molto importanti da tenere in considerazione. Nel periodo del Natale, la vicinanza a dei legami sociali stabili e il senso di protezione percepito, possono essere fattori di protezione molto importanti per coloro che si sentono in una condizione di solitudine e fragilità. Infatti, questi fattori aiutano nel non sentirsi eccessivamente sopraffatti dalle emozioni negative, ricevendo appoggio e comprensione sociale.

Sono state svolte delle analisi su un gran numero di popolazioni per comprendere l’incidenza del suicidio in relazione alle festività natalizie. Nei campioni presi in esame, i tentativi di suicidio ed i suicidi completati sono risultati molto ridotti durante il Natale, probabilmente a causa dei fattori sopracitati. Nonostante ciò, è stato osservato un picco ed aumento dei casi di suicidio successivamente al capodanno.

Perché accade?

Le gioia e vicinanza provate durante le festività vengono a mancare, facendo precipitare le persone alla vita di tutti i giorni. Quindi la solitudine e la percezione di non aver più sostegno sociale e conforto, fanno breccia in coloro che vivono condizioni di fragilità psichica, spazzando via il velo di calore umano percepito durante i giorni di festa passati assieme ad altre persone. Questi pensieri diventano insormontabili, inducendo a credere che sia troppo difficile superare dei giorni o un nuovo anno in compagnia delle stesse sensazioni disperate, causando un aumento del rischio di commettere suicidio (Hofstra et al., 2018).

Alcune analisi svolte in Austria hanno confermato i dati relativi ai suicidi successivi al Capodanno. L’elevata incidenza di suicidi nella prima settimana del nuovo anno, considerati come periodo di controllo i 30 giorni precedenti al periodo dell’avvento ed i 30 giorni successivi alla prima settimana del nuovo anno, presenta un picco molto elevato.

Natale: quale relazione con episodi depressivi e tentativi di suicidio

Figura 1 Pannello in alto: suicidi in media accaduti ogni 5 giorni. Le linee nere tratteggiate verticali rappresentano le vacanze di Natale, le linee grigie prima e dopo rappresentano le settimane precedenti e successive. Pannello centrale: ingrandimento di una parte del pannello superiore. Pannello inferiore: probabilità a posteriori dell’analisi Bayesiana.

 

I casi di suicidio decrescono molto nel periodo natalizio, come evidenziato dal grafico, successivamente presentano il picco più alto dell’anno nel giorno di Capodanno e mediamente alto nella settimana immediatamente successiva.

Questi dati sono molto importanti da considerare in ambito clinico, in quanto possono rappresentare il bisogno e la necessità di intensificare gli interventi di prevenzione del suicidio. Fornire una consapevolezza al pubblico relativa le condizioni di chi è a rischio suicidario soprattutto nel periodo successivo alle vacanze natalizie, può essere d’aiuto nel fornire aiuto e supporto, inducendo anche coloro che si trovano in una condizione di disperazione a farne voce, in modo da prevenire successivi tentativi di suicidio.

Cosa possiamo fare?

  • Rimanere in contatto con le persone anche dopo le feste. Considerato il momento di solitudine, potrebbe essere più facile per qualcuno in una condizione di fragilità compiere scelte estreme.
  • Non aver paura di parlarne. Lasciar esprimere una persona può aiutare nel capire le sue intenzioni, quindi è bene comprendere come si senta liberandola dalle censure ed utilizzando un tipo di ascolto attivo.
  • Se percepisci un rischio, non è tuo compito salvare una persona. Contatta i numeri di emergenza del tuo Paese, incoraggiala a chiedere aiuto mediante i servizi a disposizione.

 

Terapia a Seduta Singola in Italia: cosa ci dice la ricerca?

L’Italian Center for Single Session Therapy ha condotto la prima ricerca italiana sulla Terapia a Seduta Singola allo scopo di verificare se il numero più frequente di sessioni in psicoterapia in Italia sia 1 e il numero di pazienti che ritengono una seduta di Terapia a Seduta Singola sufficiente e la loro soddisfazione rispetto alla risoluzione del proprio problema.

 

In Italia è acceso il dibattito riguardante la riduzione delle liste di attesa nei servizi di salute mentale.

Le ricerche dimostrano che tempi d’attesa lunghi possono essere correlate a un peggioramento dei sintomi (Reichert & Jacobs, 2018) e, parallelamente, si è scoperto che le persone traggono beneficio già dai primi momenti del trattamento psicologico.

Modelli di terapia breve, come la Terapia a Seduta Singola, possono aiutare a ridurre i tempi di attesa e a dare una risposta subitanea ai bisogni dei clienti. Nella Terapia a Seduta Singola il terapeuta cerca di trarre il massimo da ogni incontro con il paziente, “come se” quella fosse l’unica seduta, lavorando con l’assunto che altre sedute, sebbene possibili, potrebbero non essere necessarie.

La ricerca sulla Terapia a Seduta Singola nasce nel 1990 quando Talmon cominciò a investigare sul perché molti dei suoi pazienti usufruissero di una sola sessione di psicoterapia. Le sue scoperte hanno scardinato l’idea comune che i cambiamenti psicologici necessitino di lungo tempo per avvenire, con conseguente focalizzazione delle psicoterapie sul lungo termine. A partire da questi risultati, diverse ricerche condotte in varie parti del mondo si interessarono al fenomeno, arrivando tutte a dimostrare che le persone generalmente si ritengono soddisfatte dopo un incontro di Terapia a Seduta Singola, riportando miglioramenti nelle loro funzioni psicologiche.

Fino ad oggi in Italia non sono stati condotti studi sulla Terapia a Seduta Singola, probabilmente dovuto al fatto che questo modello è stato introdotto solo recentemente nel Paese (Cannistrà & Piccirilli, 2018).

La presente ricerca svolta dall’Italian Center for Single Session Therapy vuole porsi come test preliminare sull’effettiva praticabilità della Terapia a Seduta Singola in Italia.

Il numero più frequente di sedute di psicoterapia è 1 (uno)?

Il primo studio condotto dall’Italian Center for Single Session Therapy si è svolto tra gennaio 2014 e dicembre 2016 e ha voluto indagare se in Italia il numero più frequente di sedute di psicoterapia (Non Terapia a Seduta Singola) fosse 1 (uno).

Il campione era formato da 499 adulti che si sono rivolti autonomamente a: un servizio pubblico di salute mentale, a un centro familiare no profit e ad un libero professionista, tutti nei dintorni di Roma. Le terapie sono state condotte analizzando i dati di diversi professionisti della salute mentale (psicologi, psicoterapeuti e psichiatri). Nessuno dei professionisti era formato in Terapia a Seduta Singola.

Il 26% del campione ha beneficiato di un solo colloquio e questo dato ha confermato i dati delle precedenti ricerche che indicano che il numero più frequente (moda) di sedute in psicoterapia è 1. Il limite principale di questo studio, evidenziato nella ricerca, sta nell’essersi riferiti a un campione rappresentativo della sola Regione Lazio, sebbene sia ipotizzabile la generalizzazione dei risultati.

Quante persone che richiedono una Terapia a Seduta Singola fanno effettivamente un solo colloquio? Qual è il loro livello di soddisfazione?

Il secondo studio si è svolto da aprile 2018 ad aprile 2019, e ha coinvolto 85 pazienti che hanno richiesto una Terapia a Seduta Singola, condotte da 7 liberi professionisti della salute mentale dislocati in varie parti d’Italia, tutti formati in TSS dall’ICSST e con almeno un anno di esperienza nell’applicare il Modello Italiano descritto da Cannistrà e Piccirilli (2018).

Alla fine del colloquio ai pazienti veniva chiesto se ritenessero quella seduta sufficiente o se avessero bisogno di altri incontri. È stato poi somministrato un questionario di follow – up volto ad indagare la percezione dei pazienti rispetto al problema presentato in seduta, quanto questa percezione era attribuita all’andamento della seduta, se avessero richiesto un ulteriore colloquio e una domanda aperta in cui spiegare il perché della loro scelta.

Nel questionario, oltre al genere, all’età e il tipo di problema per il quale avevano richiesto la consultazione, veniva chiesto come si sentivano rispetto al problema, se avessero richiesto un ulteriore colloquio e una domanda aperta in cui spiegare il perché della loro scelta.

I risultati mostrano che: dopo il primo colloquio, il 70.6% dei clienti ritiene di sentirsi meglio o molto meglio rispetto al problema portato in seduta; il 28% non ha riscontrato cambiamenti e una persona si è sentita peggio.

Il 90,7% dei clienti che sono migliorati ha attribuito il proprio miglioramento alla singola sessione, in diversa misura.

Il 45,9% dei clienti ha considerato quell’unica sessione come sufficiente, mentre il 54,1% ha richiesto un secondo incontro.

Tra chi ha ritenuto sufficiente un solo incontro, le motivazioni sono state “Mi sento meglio, non ho bisogno di altre consultazioni.”, “Ho bisogno di vedere come va”, “Motivi pratici indipendenti dalla terapia”, “Ho detto no, ma ora mi rendo conto di averne bisogno”, “La terapia non mi ha aiutato”.

Tra coloro che invece hanno scelto un ulteriore incontro, il 72% ha dichiarato di averne bisogno perché un solo incontro non era sufficiente, l’11% non ha fornito una ragione, mentre il 17% ha scelto di parlare di un altro problema: questo dato è interessante, perché significa che costoro tornano per una seconda seduta, ma gli è stato sufficiente un solo incontro per considerare risolto o gestibile autonomamente il problema precedente.

Questi risultati sono in linea con gli studi internazionali, che indicano che tra il 40 e il 60% di chi riceve una Terapia a Seduta Singola pianificata non chiede ulteriori consultazioni. Questo accade invece per il 20-40% di chi riceve un primo colloquio di terapia tradizionale che non utilizza i principi e le tecniche della TSS.

Per concludere, l’implementazione della Terapia a Seduta Singola può migliorare l’accessibilità ai servizi di salute mentale per chi è alla ricerca di un aiuto professionale. Questo può rivelarsi particolarmente utile in un Paese come l’Italia, dove gli accessi ai servizi di salute mentale sono molto bassi a causa di un’alta percentuale di bisogno inespresso legato a ragioni economiche e attitudini culturali.

Diminuendo il numero di sessioni per cliente, la TSS può ridurre le liste di attesa e rendere i servizi più accessibili oltre che evitare il deterioramento delle condizioni dei clienti. I professionisti, inoltre, sarebbero in grado di aiutare un maggior numero di persone.

 

Covid-stigmatizzati

La paura del contagio, che la società sta vivendo in seguito alla pandemia da Covid-19, crea terreno fertile per la stigmatizzazione di persone o gruppi sociali.

 

Si delinea così un’altra paura: la paura di essere l’oggetto dello stigma. Questo spiega perché risulta così complesso comunicare la propria positività al virus. Questa paura nella paura può essere spiegata alla luce dell’evoluzione della definizione dello stesso ‘stigma’ e delle conseguenti implicazioni psico-sociali.

Anche se diverse definizioni di ‘stigma’ possono essere ricondotte al sociologo Goffman (1922-1982), quella più comune nel panorama delle scienze sociali è quella di un ‘attributo che è profondamente screditante’ e che riduce lo stigmatizzato ‘da persona interna al contesto comunitario ad una esiliata’ (Goffman, 1961, p. 3). Successivamente, Goffman ha definito lo stigma come il rapporto tra un ‘attributo e uno stereotipo’ (Goffman, 1963, p. 4). Lavori più recenti, invece, hanno avuto l’obiettivo di ri-concettualizzare e misurare lo stigma, concentrandosi, ad esempio, sulla dimensione della ‘visibilità’ dello stigma (Jones et al. 1984) o sull’attenzione alla ‘segretezza’ come potenziale meccanismo di fronteggiamento per lo stigmatizzato (Schneider e Conrad 1980; Link et al. 1997). In particolare, la dimensione della segretezza può spiegare perché, in caso di positività al virus, non comunicare di essere affetti da coronavirus diventa un meccanismo di autoprotezione piuttosto che un comportamento irrispettoso.

Seguendo le intuizioni di Goffman, un secondo quadro concettuale è stato sviluppato da Jones e collaboratori (1984). A differenza del sociologo, Jones e colleghi utilizzano il termine ‘marchio’ come un attributo che comprende una vasta gamma di condizioni considerate ‘devianti’ da una società. Ottenendo questo marchio, perciò, la comunità potrebbe avviare il processo di stigmatizzazione della persona marchiata, poiché considerata deviante. Gli autori, però, identificano come elemento indispensabile per lo stigma il valore di ‘scredito’. In più, identificano sei dimensioni dello stigma:

  • l’occultabilità: varia a seconda della ‘natura’ del marchio stigmatizzante. Ad esempio, le persone che vivono una condizione socialmente riconosciuta come stigmatizzante, saranno più portate ad occultarla;
  • la contrapposizione tra condizione reversibile o irreversibile. Le condizioni irreversibili tendono a suscitare atteggiamenti negativi da parte degli altri;
  • la perturbazione, che indica la misura in cui un marchio può creare delle tensioni nelle relazioni interpersonali;
  • l’estetica, che riflette ciò che è attraente o gradito; se collegata allo stigma, questa dimensione riguarda la misura in cui un marchio suscita una reazione istintiva e affettiva di disgusto;
  • l’origine, che si riferisce a come la condizione di stigmatizzazione è stata creata dalla comunità. In particolare, è la responsabilità percepita per la condizione di stigmatizzazione che esercita una grande influenza sul fatto che gli altri rispondano con opinioni sfavorevoli e/o punizioni nei confronti della persona ‘marchiata’;
  • la dimensione di pericolo, che si riferisce a sentimenti di minaccia che il marchio induce in altri. In questo senso, un esempio attuale di minaccia è la paura di un pericolo fisico effettivo, come una malattia contagiosa e/o l’esposizione a sensazioni di vulnerabilità.

Quindi, quali possono essere le conseguenze dello stigma nell’attuale scenario pandemico? Il vissuto del contagio da covid19 come uno stigma, porta la persona ‘colpita’ ad autodifendersi mettendo in atto strategie come l’occultamento della sua positività al virus. La conseguenza di questa strategia di difesa può ricadere proprio sulla condizione di contenimento della pandemia, soprattutto nella fase di ricostruzione della catena di contatti. In tale situazione di stigmatizzazione, importante è l’intervento dello psicologo e psicoterapeuta sociale/comunitario, che andrebbe a decostruire il significato del vissuto del ‘contagio da covid19’ come oggetto di stigma e, quindi, di un’emotività accordata alla vergogna.

 

Dexter: perché nonostante la nostra moralità a volte tifiamo per il cattivo?

Dexter è uno show televisivo che pone complesse questioni morali sulla giustizia, sulla moralità e su cosa sia il bene e il male. Perché questo show è così popolare se le azioni del protagonista sono in conflitto con il codice morale dello spettatore? Perché arriviamo al punto di tifare per lui?

 

Dexter è una serie TV americana di genere thriller e poliziesca che ha un protagonista insolito: egli lavora per il dipartimento di polizia di Miami come tecnico forense nell’analisi delle tracce ematiche, tuttavia è un efferato serial killer. Il padre adottivo Harry ha riconosciuto precocemente i segnali di psicopatia in Dexter, anticipando quello che sarebbe diventato da adulto, per questo gli ha insegnato un “codice morale”: Dexter Morgan, infatti, sceglie esclusivamente vittime che hanno a loro volta commesso omicidi, ma che sono riusciti a eludere il sistema giuridico. E’ un antieroe che, sebbene uccida esclusivamente per soddisfare i propri impulsi, viene percepito dal pubblico come una sorta di “vendicatore oscuro” o di giustiziere. È evidente che tale show televisivo, pone certamente complesse questioni morali sulla giustizia, sulla moralità e su cosa sia il bene e il male.

Un recente studio ha l’obiettivo di esplorare come il pubblico ha accolto tale narrazione e ciò che ne deriva. Gli autori si basano sulle teorie del ragionamento morale (Bandura, 1999; Haidt, 2001; Zillmann 2000) e su come il pubblico legge personaggi moralmente ambigui, utilizzando il Composite Multidimensional Model Of Audience Reception (Michelle, 2007). Michelle (2007) ha descritto quattro diverse modalità di ricezione da parte del pubblico: (1) modalità di ricezione trasparente, in cui l’individuo può sospendere la propria incredulità e perdersi nel mondo immaginario del testo, sperimentando una forte emozione verso i personaggi e i temi; (2) modalità referenziale, in cui l’individuo confronta il testo con la propria vita reale per l’interpretazione; (3) modalità mediata, in cui l’individuo interpreta il testo in base alla propria cultura di produzione mediatica ed è meno coinvolto con i temi e i messaggi del testo; infine, (4) modalità discorsiva, in cui l’individuo analizza il significato del testo, assumendo una posizione ideologica rispetto al messaggio. Inoltre, gli autori hanno voluto indagare come i messaggi dei media influenzano i comportamenti del pubblico, specialmente nel caso di contenuti relativi a comportamenti considerati moralmente riprovevoli.

Bandura aveva evidenziato come il pubblico si relaziona a personaggi moralmente ambigui nella sua teoria del disimpegno morale (Bandura, 1999): gli spettatori usano la razionalità per giustificare un comportamento immorale o per ridefinirlo come morale. Ad esempio, una persona che ruba del cibo può essere vista come immorale, ma se compie tale atto per sfamare la propria famiglia, allora può essere ridefinito come morale. Al contrario, Haidt (2001) ha sviluppato la teoria dell’intuizione sociale, secondo cui i giudizi sulla moralità di basano sull’emozione provata in risposta alle “violazioni morali”. Questa teoria spiega inoltre il concetto di “ammutolimento morale”: ad esempio l’incesto consensuale è universalmente condannato, anche nel caso di assenza di vittime o danni, tuttavia il fatto di essere consensuale, ritarda nello spettatore la percezione che sia un atto deplorevole. Il modello dell’intuizione sociale è quindi “un modello a doppio processo di moralità basato sia sull’intuizione morale [emozione] sia sulla cognizione morale [ragionamento]”. Ciò è importante per capire come le persone danno giudizi che sono controintuitivi rispetto alle risposte razionali (Greene & Haidt, 2002). Zillman con la teoria della disposizione affettiva afferma che gli spettatori si identificano soltanto con quei personaggi che agiscono in accordo con il proprio codice morale (Zillman, 2000). Quindi, la moralità di un individuo funge da filtro per tutte le esperienze di intrattenimento. Haidt e Joseph (2007) hanno scoperto che esistono cinque domini morali universali: (1) danno/cura, (2) equità/reciprocità, (3) libertà/oppressione, (4) autorità/sottomissione e (5) purezza/sanità. All’interno di una cultura, gli individui che agiscono contro uno qualsiasi di questi domini universali sono giudicati come malvagi.

Il personaggio principale è in evidente conflitto con il concetto di protagonista “moralmente puro” che combatte contro un antagonista malvagio. Pertanto sorgono spontanee le seguenti domande: “Perché questo show è così popolare se le azioni del protagonista sono in conflitto con il codice morale dello spettatore?”, “Perché arriviamo al punto di tifare per lui?”.

Zenor e Granelli (2016) si propongono di esaminare come gli spettatori di Dexter danno un senso ai concetti di moralità e giustizia, chiedendo:

  1. In che modo il pubblico riesce a conciliare le norme contrastanti della morale all’interno del testo di Dexter?
  2. Le interpretazioni di Dexter da parte del pubblico rientrano in una specifica modalità di coinvolgimento?
  3. Le interpretazioni di Dexter da parte del pubblico rientrano in una teoria di impegno morale?
  4. C’è una connessione tra il modo di coinvolgimento del pubblico e il suo impegno morale con il testo?

La metodologia Q è un approccio appropriato per studiare il modo in cui i consumatori (N=54) interpretano i messaggi dei media, perché è una metodologia che studia la soggettività (Brown, 1980): è usato per discernere i punti di vista soggettivi condivisi delle persone (Michelle et al., 2012). Si tratta di uno strumento proiettivo che permette di svolgere un’analisi sia qualitativa che quantitativa, ed è destinato a studiare la “soggettività operante” o “pensieri interiori” del soggetto (Stephenson, 1953).

Dalle analisi effettuate sono emersi quattro fattori che rappresentano le posizioni del campione su Dexter:

  • Vigilante Giustificato: Dexter Morgan è visto come un eroe che utilizza i propri impulsi per fare del bene e perseguire la giustizia. Gli individui che rientrano in questa prospettiva provano ammirazione per il protagonista e ritengono che l’omicidio non è accettabile, ma che il dominio universale della giustizia è più importante del dominio universale del non danno (Haidt e Joseph 2007). Il 65% di essi ha riferito di essere vittima di un crimine, pertanto acclamano Dexter per aver fatto ciò che non possono fare nella vita reale. Questo fattore rientra nella modalità di ricezione trasparente (Michelle, 2007).

Dexter sta compiendo una buona azione per la società…. Non uccide gli innocenti

Dexter è affascinante perché usa il suo Oscuro Passeggero per uccidere quelli come lui

  • Puzzle Psicologico. Questa prospettiva assume che il fulcro della serie TV sia la complessità degli esseri umani: Dexter racconta di come il protagonista nasconda il suo alter ego, rafforzando l’idea che “non potremo mai conoscere le persone realmente”. Non condannano, né giustificano il comportamento di Dexter, ma lo vedono come una sorta di difesa dalla follia: entrano in empatia con il personaggio, anche se non lo ritengono affascinante, divertente e degno di ammirazione. Soltanto il 18% di questi soggetti ha riferito di essere vittima di un crimine. Anche se credono che le azioni del protagonista siano sbagliate, trovano divertente guardare lo spettacolo. Rientra nella modalità di ricezione referenziale.

La moralità non è semplicemente bianca o nera

Ci sono molte ragioni per cui non dovrebbe uccidere

Sono affascinato dagli assassini… e da come lo giustificano.

  • Violenza Gratuita: questi individui credono che si tratti di una gratuita celebrazione dell’omicidio, hanno descritto lo spettacolo come grottesco, contorto, raccapricciante e difficile da guardare. Le azioni del protagonista sono assolutamente condannate, non lo ammirano e lo definiscono uno psicopatico. Per loro il pensiero non può essere separato dall’azione: le sue azioni hanno violato il dominio morale universale di non nuocere. Rientra nella modalità di ricezione discorsiva.

Due torti non fanno una ragione

Sta commettendo gli stessi crimini che commettono i criminali

Dexter non avrebbe bisogno di uccidere la gente se la polizia di Miami non fosse così inetta.

  • Evasione Deviata: questa parte del campione riferisce di essere affascinata dal serial killer. Sono consapevoli che le sue azioni siano sbagliate, ma gli piace e non hanno avuto difficoltà a guardare lo show, al contrario lo ritengono emozionante. Affermano che questa serie TV rappresenta la natura primitiva dell’uomo: non si sa mai di cosa siano capaci le persone. Inoltre, credono che, quella di Dexter sia un’etica situazionale: non usa i suoi impulsi per il bene, piuttosto abusa della vendetta per giustificare l’omicidio. Questa prospettiva è moralmente distaccata e non esprime giudizi sul personaggio. Rientra nella modalità di ricezione mediata.

Posso distinguere tra intrattenimento e partecipazione effettiva. Non credo che la visione dello spettacolo si rifletta sullo spettatore

Se non avesse ucciso, non sarebbe stato un bello spettacolo.

Naturalmente, in questo studio, tre delle quattro prospettive includevano spettatori che erano fan dello show, per questo avevano una lettura positiva dei contenuti, indipendentemente dalla modalità con cui erano coinvolti. Probabilmente, se Dexter Morgan non fosse stato moralmente ambiguo, ma soltanto un vero e proprio assassino, la maggior parte della gente avrebbe respinto lo show.

 

Distorsioni cognitive e gambling: gli effetti del trattamento residenziale sui pazienti affetti da gioco d’azzardo patologico

Le distorsioni cognitive implicate nel gioco d’azzardo sembrano essere correlate alla gravità del comportamento; difatti, all’aumentare di quest’ultima, aumenta l’intensità delle distorsioni legate al gioco.

 

Le distorsioni cognitive sono modalità disfunzionali di elaborazione che determinano e/o sostengono comportamenti problematici (Goodie & Fortune, 2013). Le distorsioni cognitive legate al gioco d’azzardo possono essere concettualizzate come convinzioni errate, apprese, che facilitano il coinvolgimento ripetuto nel gioco nonostante le perdite (Raylu & Oei, 2004). In quanto tali, esse hanno un ruolo cruciale nello sviluppo e nel mantenimento di comportamenti di gioco problematici (Raylu et al., 2016).

In letteratura sono presenti differenti classificazioni delle distorsioni cognitive legate al gioco d’azzardo. Ad esempio, Toneatto et al. (1997) ne hanno proposto tre tipologie: l’illusione di controllo, che implica la convinzione di poter controllare i risultati attraverso la messa in atto di rituali o il possesso di oggetti fortunati; per controllo predittivo, invece, si intende la credenza di poter prevedere gli esiti del gioco sulla base di modelli precedenti; infine, i pregiudizi interpretativi, determinano una riformulazione delle proprie esperienze, che causa un ricordo selettivo delle vittorie, a discapito delle perdite, che vengono dunque dimenticate. Nel 2004, Raylu e Oei hanno proposto due ulteriori distorsioni: le aspettative legate al gioco, che implicano la convinzione che il gioco determinerà una sensazione di benessere, e l’incapacità di smettere di giocare, che si riferisce all’impotenza di poter controllare e/o modificare il proprio comportamento problematico.

Le distorsioni appena descritte sono state “formalizzate” in uno strumento di autovalutazione e costituiscono le sotto-scale della Gambling Related Cognition Scale (GRCS; Raylu & Oei, 2004)

Le distorsioni cognitive implicate nel gioco d’azzardo sembrano essere correlate alla gravità del comportamento; difatti, all’aumentare di quest’ultima, aumenta l’intensità delle distorsioni legate al gioco (Romo et al., 2016).

Il trattamento del gioco d’azzardo e le distorsioni legate a questa tipologia di disturbo possono essere complicati da ulteriori disturbi psichiatrici e, all’oggi, alcuni studi hanno esplorato la misura in cui i disturbi psichiatrici concomitanti possono influenzare i risultati del trattamento. Ad esempio, si è visto come i disturbi d’ansia sono associati all’abbandono del programma (Echeburua & Fernandez-Montalvo, 2005). Pochi studi però si sono proposti di indagare in che misura i disturbi concomitanti influenzino le distorsioni cognitive legate al gioco d’azzardo e ciò è dovuto al fatto che la maggior parte della ricerca su questa tipologia di disturbo è stata condotta su campioni appartenenti alla popolazione generale o su pazienti ambulatoriali, dove vi è una minor possibilità di valutare le condizioni concomitanti, e non su pazienti affetti da un disturbo da gioco d’azzardo in assistenza residenziale, che potrebbero sperimentare un pensiero distorto correlato al gioco più significativo.

Gli studi che si sono proposti di indagare gli effetti del trattamento sulle distorsioni cognitive legate al gioco d’azzardo, hanno portato a risultati discordanti, suggerendo che alcuni individui possano trarne maggior beneficio rispetto ad altri (Breen et al., 2001; Michalczuck et al., 2011).

In uno studio svolto nel 2019, alcuni autori si sono proposti di colmare alcune lacune presenti in letteratura, indagando nello specifico se, all’inizio del trattamento, vi fossero fattori demografici e clinici associati a livelli più alti di distorsioni cognitive; ulteriormente, hanno deciso di accertare se le distorsioni cognitive legate al gioco d’azzardo cambiassero entro la fine del percorso terapeutico e se esse fossero predittive dei miglioramenti e/o dell’abbandono del trattamento. Gli autori hanno inoltre ipotizzato che la concomitanza di altri problemi di salute mentale sarebbero stati associati ad alti livelli di distorsioni cognitive.

L’indagine è stata condotta su un campione di 125 soggetti affetti da un disturbo da gioco d’azzardo patologico, di differente severità, che avevano preso parte ad un percorso residenziale all’interno di una struttura in Canada.

Al fine di valutare le distorsioni cognitive specifiche del gioco d’azzardo è stata utilizzata la Gambling Related Cognitions Scale (GRCS; Raylu & Oei, 2004), mentre la Behavior and Symptom Identification Scale (BASIS-32; Eisen et al., 1999) è stata impiegata al fine di valutare lo stato psichico e le sue modificazioni durante il trattamento, tenendo conto del punto di vista del paziente. Essa valuta differenti elementi, dai rapporti interpersonali al rischio suicidario, l’impulsività e le capacità della vita quotidiana. Infine, gli autori hanno valutato il numero di giorni in cui i pazienti avevano seguito il trattamento. È bene specificare che il programma residenziale in questione prevedeva che i soggetti seguissero un trattamento della durata di 19 giorni.

Le correlazioni effettuate hanno mostrato che la giovane età e la gravità del disturbo da gioco d’azzardo, erano associati a livelli più elevati del bias interpretativo e di distorsione del controllo, mentre, all’aumentare dei sintomi caratterizzanti il disturbo da gioco d’azzardo, aumentavano anche i livelli di incapacità di smettere di giocare. Inoltre, coerentemente con quanto ipotizzato, nel confronto tra il pre e post trattamento sono state osservate riduzioni clinicamente e statisticamente significative in tutte le sotto-scale GRCS. Gli autori hanno dunque concluso che il trattamento residenziale ha determinato delle considerevoli riduzioni nelle distorsioni cognitive dei pazienti. Nello specifico, coloro i quali avevano ottenuto punteggi più alti nel BASIS-32 e che mostravano una maggior gravità del disturbo da gioco d’azzardo, avevano mostrato maggiori riduzioni.

Ulteriormente, alcuni fattori, tra cui la giovane età, l’impulsività e il bias di controllo predittivo, si sono rivelati predittivi del fallimento del trattamento.

La credenza di poter prevedere gli esiti del gioco sulla base di modelli precedenti è dunque potenzialmente associata a risultati peggiori del trattamento.

Gli autori hanno dunque concluso, nonostante i limiti dello studio, che i giocatori d’azzardo problematici si presentano nelle strutture residenziali con un pensiero distorto sul gioco e gli individui che presentano difficoltà psichiatriche concomitanti mostrano una maggior tendenza alla distorsione. Insieme, questi risultati rivelano l’importanza delle distorsioni cognitive sia per la comprensione del ruolo di questo meccanismo nel disturbo del gioco d’azzardo, sia per identificare le distorsioni come potenziali bersagli del trattamento del gioco d’azzardo.

 

Invecchiamento cerebrale, Disturbo da Stress Post Traumatico e gene Klotho

Un recente studio ha evidenziato che il disturbo da stress post traumatico (PTSD) è spesso associato ad una variante del gene Klotho e ciò favorisce la comparsa di un invecchiamento celebrale precoce.

 

Nel ventesimo secolo l’aspettativa di vita si è notevolmente allungata passando, nei paesi occidentali, da circa 50 ad oltre 80 anni. Questo ha generato un’emergenza medico-sociale legata all’aumento della comparsa di malattie neurodegenerative conosciuta come age-related neurological disease and dysfunction (Christiane Reitz and Richard Mayeux 2010). Uno dei temi che, negli ultimi anni, ha catturato l’attenzione della comunità scientifica è quello dell’invecchiamento, tuttavia i processi della senescenza sono ancora in parte sconosciuti.

L’invecchiamento è un fenomeno complesso e non limitato semplicemente all’età cronologica (Giumelli 1998). L’inizio dell’invecchiamento biologico nell’uomo coincide con la fine della fase dell’accrescimento. Esistono diversi fattori di ordine organico, sociale e psicologico, che concorrono al processo d’invecchiamento sia fisiologico che patologico. Per quel che riguarda i fattori biologici, sono molti i meccanismi biochimici alla base dell’invecchiamento (Johnson FB, Sinclair DA, Guarente L 1999), tra questi i processi ossidativi che alterano le macromolecole organiche e una serie di modificazioni di DNA, RNA e proteine che nel corso degli anni si accumulano nelle cellule (Carrieri G., Marzi E., Olivieri Fetal 2004). Attualmente anche i meccanismi e i fattori dell’infiammazione sono ritenuti importanti nell’influenzare e accelerare il processo d’invecchiamento cellulare (Grammas P et al. 2001).

L’invecchiamento cerebrale consiste in una serie di alterazioni che si possono così sintetizzare (Bozzao A., Cifani A., Guglielmo A. 1993):

  • diminuzione irreversibile del numero dei neuroni
  • rallentamento progressivo nella produzione di neurotrasmettitori
  • funzionamento sempre meno efficace dei meccanismi di regolazione omeostatica
  • aumento progressivo delle cellule gliali che si sostituiscono ai neuroni
  • comparsa di “placche” dette senili perché ritenute esclusive dell’età avanzata
  • riduzione del metabolismo e del flusso cerebrale

Queste alterazioni corrispondono sul piano sintomatologico ad un decadimento cognitivo caratterizato da deficit della memoria, difficoltà nell’apprendere nuove informazioni e calo di prestazione nell’elaborare più attività contemporaneamente.

Nella maggior parte dei casi la senescenza si accompagna al declino di una serie di abilità funzionali, cognitive e comportamentali, tuttavia l’invecchiamento cognitivo presenta una grande variabilità inter individuale, rispetto ai cambiamenti, dipendenti dall’età, a livello chimico, strutturale e funzionale del cervello (Cadar D, Pihkart H, Mishra G, Stephen A, Kuh D, Richards M. 2012). Questa variabilità è legata non solo a fattori biologici ma anche a componenti ambientali e culturali, come afferma Vittorino Andreoli (15 aprile 2015, Incontro con gli assistenti sociali): ‘la vecchiaia è espressione di una biologia in un ambiente, inteso come un intreccio di interazioni psicologiche, politiche, sociali, culturali’.

Rispetto ai fattori biologici, negli ultimi anni, molti studi si sono concentrati su una proteina, prodotta da reni e cervello, denominata Klotho e codificata dal gene FGF23-Sialidai detto anche gene Klotho (Erben RG, Andrukhova O, 2017). Alterazioni di questo gene sono associate, almeno nel topo, ad un invecchiamento precoce. In particolare, l’alterazione del gene FGF23 determina una modificazione della morfologia neuronale e della densità sinaptica a livello cerebrale (Yokoyama JS. Strum VE., Bonham LW. Et al. 2015)

Un gruppo di ricercatori del National Center for PTSD del VA Boston Healthcare System e della Boston University School of Medicine ha recentemente condotto una ricerca che ha portato a concludere che il disturbo da stress post traumatico può interagire con una variante del gene Klotho favorendo una prematura neurodegenerazione (Erika J. Wolf, Ci-Di Chen, Xiang Zhao, Zhenwei Zhou,et al. 2020 PTSD Interacts with Klotho Gene, May Cause Premature Aging in the Brain )

Utilizzando i dati di individui che hanno donato il loro cervello alla VA National PTSD Brain Bank, i ricercatori hanno esaminato come la variazione genetica e lo stato di PTSD interagivano tra loro per prevedere l’età biologica e l’espressione genica. Hanno scoperto che gli anziani con disturbo da stress post-traumatico che presentavano un invecchiamento epigenetico accelerato nel tessuto cerebrale possedevano una particolare variante del gene klotho. Esperimenti molecolari di follow-up hanno dimostrato che questa variante genera conseguenze funzionali.

Sia il disturbo da stress post-traumatico che il klotho influenzano l’infiammazione.

Lo stress di basso livello ed acuto è accompagnato da un aumento della funzione immunitaria, mentre un elevato periodo di stress è legato alla immunosoppressione. Questa ipotesi trova il suo razionale negli effetti negativi sulla formazione di nuovi neuroni e sul trofismo dendritico indotti dall’incremento plasmatico dei livelli di cortisolo e di alcune interleuchine pro-infiammatorie che si ritrovano tipicamente aumentati nello stress cronico e anche nella depressione e nel disturbo da stress post-traumatico (G. Biggio, M.C. Mostallino 2013).

Secondo Erika Wolf, psicologa del Centro nazionale per il disturbo da stress post-traumatico di Boston, l’interazione tra PTSD e gene Klotopermette di disporre di ulteriori strumenti per individuare i soggetti che sono a maggior rischio di un invecchiamento cellulare accelerato, con possibile conseguente insorgenza prematura di alcune patologie, come le malattie neurodegenerative. Inoltre, i risultati indicano potenziali bersagli terapeutici (klotho) nello sviluppo di approcci farmacologici per rallentare il ritmo dell’invecchiamento cellulare‘.

 

Gli effetti del rimuginio e della ruminazione nel sonno

Rimuginio, ruminazione e sonno: studi con PET ed EEG dimostrano come in soggetti affetti da disturbi del sonno sia presente una maggior attivazione cognitiva che rimane tale anche durante il sonno.

Antonella Danesi – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

A chiunque sarà capitato di pensare ripetutamente ad un evento del passato o alle conseguenze di una scelta presa, al fine di trovare nella riflessione la possibilità di compiere azioni migliori. Allo stesso modo, in vista di un evento importante, sarà capitato a tutti di essere particolarmente preoccupati e di aver riflettuto attraverso pensieri e previsioni negative, spesso smentite dall’effettivo esito.

Il pensiero ripetitivo, tipico di questi momenti di riflessione, non rappresenta di per sé un processo disfunzionale o patogeno, poiché risulta essere necessario ed atto a trovare soluzioni ad un problema o a prendere una decisione.

Questi processi, comunemente chiamati rimuginio e ruminazione, sono strategie di regolazione emotiva definibile come la capacità di operare volontariamente sui propri processi mentali, ed che è tesa al raggiungimento degli scopi e al miglioramento dell’adattamento alla realtà.

Tuttavia, tali processi perdono la loro funzionalità quando il soggetto rimane bloccato in pensieri che si ripetono ininterrottamente e che ostacolano sempre di più il raggiungimento della soluzione desiderata.

Il rimuginio

Il rimuginio o worry, studiato per la prima volta da Tom Borkovec nelle sue ricerche sull’insonnia (Borkovec, Ray, Stober, 1998), è definito come una forma di pensiero ripetitivo, negativo e analitico. Il rimuginio può esser definito come un’attività mentale che implica una costruzione ripetuta di ipotetici scenari futuri negativi (Caselli, Ruggiero, Sassaroli, 2017). È un fenomeno clinico presente in un ampio spettro di disturbi psicologici ma è strettamente legato all’ansia pertanto è piuttosto presente nel Disturbo d’Ansia Generalizzata.

Ciò che caratterizza tale fenomeno mentale, in cui prevalgono valutazioni di natura verbale e astratta, è la presenza di pensieri ripetitivi, pervasivi, negativi se non catastrofici, riferiti ad eventi futuri che sono vissuti come incontrollabili e intrusivi.

Il rimuginatore, avendo un elevato timore delle conseguenze negative degli eventi, tende a tenere tutto estremamente sotto controllo, con l’obiettivo che si evitino le previsioni temute. Il soggetto pertanto, tende a ripetere mentalmente con dialogo interno – caratterizzato per lo più da frasi mentali – gli elementi della situazione problematica, con predizioni catastrofiche relative alla sua evoluzione. Ciò porta ad un’incapacità di scegliere una soluzione e una risposta funzionale al pericolo sul piano operativo, poiché ogni risoluzione viene giudicata dal soggetto come inadeguata e non risolutiva. In tal modo, questa modalità ripetitiva di pensiero risulta essere priva di concretezza ed è caratterizzata da una scarsa elaborazione di piani di coping funzionali.

Alla base di questo processo vi è la convinzione, da parte del soggetto rimuginatore, che questa attività mentale sia una efficace strategia da adottare per fronteggiare situazioni considerate minacciose e, pertanto, complesse da gestire. Attraverso questa modalità di pensiero ripetitivo l’individuo, infatti, crede invano di poter risolvere il problema o di poter ridurre la probabilità che si verifichi.

Alla lunga questa strategia si può cronicizzare, divenendo maladattiva e inducendo in chi rimugina una percezione di sé come debole, fragile, incapace di affrontare i problemi, accompagnata dalla costante sensazione di essere soggiogato da un futuro pericoloso e ingestibile (Clark & Beck, 2010).

Nonostante vi siano, da parte del soggetto, delle credenze relative all’utilità del rimuginio, esistono evidenze sulle ripercussioni negative di questa modalità che vanno ad inficiare la qualità ed il benessere dell’individuo. Dal punto di vista cognitivo il rimuginio riduce le risorse associate alla working memory e, di conseguenza, provocherà difficoltà legate alla concentrazione e attenzione. Risulta inoltre inficiata la capacità di problem solving, dal momento in cui si adotta il rimuginio come strategia elettiva. Il rimuginio cronico, implicando uno stato continuo di allerta verso una possibile minaccia, può provocare tensione muscolare, alterazioni del ritmo-sonno veglia, irritabilità, nausea, dolore cronico e danni alle coronarie in soggetti anziani.

La ruminazione

La ruminazione è un processo cognitivo molto simile al rimuginio, in quanto condivide con esso la ripetitività e la natura negativa ed astratta. Entrambi i processi rappresentano strategie di pensiero ritenute utili da adottare nelle situazioni difficili da gestire e finalizzate all’evitamento delle esperienze interne negative.

La differenza tra le due modalità risiede nel fatto che il rimuginio è rivolto ad eventuali minacce future e riguarda l’evitamento o la prevenzione del pericolo; la ruminazione si focalizza, invece, su eventi passati o stati emotivi presenti, configurandosi come un’attività analitica, volta alla comprensione o attribuzione di significato spesso rintracciabile nel proprio vissuto o nel proprio comportamento. Si configura, in sintesi, come un costante riesame di situazioni passate (Caselli, Ruggiero, Sassaroli, 2017).

La ruminazione, per le sue caratteristiche, tende a generare e mantenere l’emozione di tristezza ed è strettamente connessa con temi di fallimento e perdita, per esempio la fine di una relazione sentimentale, una perdita sul lavoro, un lutto. In tal senso, appare piuttosto inevitabile che la ruminazione rappresenti un processo associato tipicamente a disturbi depressivi (Clark, Beck, Brown, 1989), ma anche a sintomi da stress post-traumatico (Nolem-Hoeksema, Morrow, 1991) e recentemente è stato indagato il suo ruolo anche nel disturbo borderline.

Come il rimuginio, anche la ruminazione può essere considerata una strategia di evitamento cognitivo, poiché alla base di questa attività mentale vi è la credenza positiva che ruminare aiuti a risolvere i propri problemi, a trovare un significato alla propria vita grazie alla comprensione del passato, a conoscere le motivazioni per cui avvengono determinate cose.

Tuttavia questi benefici e credenze positive riferiti, sono stati disconfermati dai dati relativi all’elaborazione dell’amigdala. E’ stato infatti osservato che quando ai ruminatori sono presentati stimoli emozionali negativi, l’amigdala mostra un’attivazione sostenuta, rispetto a quanto accade invece nei non ruminatori (Ray et al. 2005), che contribuisce all’aggravamento e al mantenimento della disforia.

In aggiunta, la mancata risoluzione del problema andrà a rinforzare l’idea di sé come inadeguato e incapace e l’utilizzo prolungato di questa modalità di gestione, peggiora lo stato d’animo negativo provocando un abbassamento del tono dell’umore e una distorsione negativa relativa alla percezione di sé e dell’ambiente (Wells, 2009).

La ruminazione, al pari del rimuginio, può avere implicazioni clinicamente significative sul piano cognitivo, in quanto richiede ed esaurisce le risorse cognitive che potrebbero essere utilizzate per risolvere problemi, raggiungere i propri obiettivi o semplicemente svolgere le normali attività quotidiane.

Gli effetti dei pensieri ripetitivi sul sonno

Le evidenze suggeriscono che i processi cognitivi ripetitivi e metacognitivi, legati al sonno e alla preoccupazione di non riuscire a dormire, svolgono un ruolo centrale nell’eziologia e nel mantenimento dei disturbi del sonno e ciò, nel tempo, ha favorito maggiori approfondimenti nello studio dei meccanismi cognitivi legati a tali disturbi. Studi con PET ed EEG dimostrano, infatti, che in soggetti affetti da disturbi del sonno sia presente una maggior attivazione cognitiva la quale rimane tale anche durante il sonno. Le alte frequenze dell’attività dell’elettroencefalogramma (EEG) sono connesse a processi del pensiero che appaiono maggiormente presenti in soggetti che soffrono di insonnia al momento di iniziare a dormire o di mantenere il sonno. Molti individui che soffrono d’insonnia psicofisiologica, appunto, riportano che gli eventi mentali ostacolano il raggiungimento e mantenimento del proprio sonno.

Studi correlazionali hanno evidenziato, tuttavia, difficoltà del sonno anche in soggetti che non avevano un vero e proprio disturbo. A questo proposito, è stato dimostrato che studenti universitari che manifestano alti livelli di rimuginio, segnalano periodi di sonno più brevi (Kelly, 2002) e che le preoccupazioni legate al lavoro sono associate ad una scarsa qualità del sonno (Rodríguez-Muñoz, Notelaers e Moreno-Jiménez, 2011).

I meccanismi relativi ai pensieri e il modo con cui essi condizionano il sonno sono stati oggetto di grande interesse da parte di studiosi. I primi studi, risalenti agli anni 60 e 70 erano principalmente rivolti ad evidenziare il ruolo dei pensieri ripetitivi relativi al non riuscire a dormire e a constatare quanto le aspettative influenzassero la manifestazione dei sintomi dell’insonnia.

Nel corso degli studi è stata presa in considerazione anche la percezione del proprio sonno che ha permesso di dimostrare come i soggetti con tale disturbo tendano a sovrastimare il tempo di latenza necessario per addormentarsi, e a sottostimare il tempo totale di sonno. Studi recenti, poi, hanno confermato l’importanza della percezione soggettiva di come sia trascorsa la notte nel mantenimento del disturbo.

Lo studio di Lichstein e Rosenthal (Lichstein & Rosenthal 1980) sui pensieri intrusivi ha evidenziato come i soggetti attribuissero a fattori cognitivi quali rimuginio, mancato controllo sui pensieri, ruminazioni, le cause dei disturbi del sonno piuttosto che a fattori somatici. Questo studio ha portato a successive indagini finalizzate a cogliere la relazione tra attivazione cognitiva e misurazione del sonno e a considerare l’insonnia come un disturbo dettato dall’incapacità di interrompere immagini e pensieri intrusivi prima di addormentarsi.

Al fine di confermare tali studi basati su resoconti personali, sono state condotte ricerche sperimentali sul tema, che hanno constatato l’importanza delle preoccupazioni e dell’incapacità di distrarsi nelle persone con difficoltà nel sonno (Haynes et al. 1981; Gross & Borkovec 1982).

Esistono recenti evidenze sulla relazione tra aumento di stress e scarsa qualità del sonno che rappresenta un fattore di rischio per lo sviluppo di malattie mentali e fisiche. Tale relazione è supportata dalla cognizione: un aumento di stress percepito e uno scarso sonno possono aumentare la percezione di un cattivo funzionamento, che a sua volta può contribuire alla percezione di un maggiore stress e di conseguenza di una scarsa qualità del sonno.

Un fattore che media la relazione disadattiva tra stress e qualità del sonno è l’attivazione pre-sonno che si verifica durante il periodo di insorgenza del sonno. Tale attivazione può essere cognitiva, cioè dovuta alla presenza di processi quali ruminazioni, rimuginio, e/o somatica, cioè esperita attraverso manifestazioni fisiologiche quali, ad esempio, elevata frequenza cardiaca o sudorazione. I risultati di questo studio indicano che l’attivazione cognitiva ha un effetto maggiore sulla relazione stress-sonno, rispetto all’attivazione somatica. Questi risultati sono coerenti con il modello cognitivo proposto da Harvey (Harvey, 2002; 2005; Espie et al. 2006) secondo cui l’insonnia sarebbe provocata da una ‘cascata’ di processi cognitivi presenti sia di notte che di giorno. Tale modello sostiene che i soggetti con insonnia soffrono di pensieri intrusivi negativi ed eccessiva paura durante il periodo di pre- addormentamento. Tali paure e ruminazioni provocano un’attivazione fisiologico/emotiva e stress, uno stato ansioso che determina un restringimento del focus attentivo che, a sua volta, porta a monitorare stimoli esterni o stimoli interni che minacciano il sonno. Essendo alto il livello di attenzione e di attivazione, le probabilità di percepire stimoli minacciosi, aumentano. Gli individui, in tal modo, sono portati a sovrastimare l’entità del disturbo e delle conseguenze diurne ma, tuttavia, credono che preoccuparsi prima di addormentarsi porti a dei risultati positivi  Questi processi di sovrastima e sovra attenzione incrementano lo stato di paura iniziale e preoccupazione. In tal modo, tutto ciò va a tradursi come un processo di auto-rinforzo che ritarda l’insorgenza del sonno e che, di conseguenza, mantiene il disturbo. In definitiva, l’attivazione somatica, sebbene abbia un minor impatto rispetto a quella cognitiva, rappresenta tuttavia una parte sostanziale nella relazione stress-sonno, come ulteriormente dimostrato dal modello di Harvey.

Dal momento che la maggior parte dei soggetti insonni ritengono che l’incapacità di gestire i loro pensieri indesiderati sia la causa del problema, spesso mostrano tentativi di fermarli, modificarli o sopprimerli che, oltre ad essere vani, non fanno altro che mantenere l’attivazione cognitiva.

Conoscere approfonditamente questi modelli ha permesso di verificare come i processi ripetitivi del pensiero siano fondamentali nello sviluppo e mantenimento di disturbi legati al sonno. Questi studi, inoltre, permettono di pianificare piani di trattamento e l’adozione di tecniche specifiche ed efficaci per far fronte a queste difficoltà. L’American Academy of Sleep Medicine’s Practice Parameters ha indicato la Terapia cognitivo comportamentale, come il trattamento di prima scelta per l’insonnia primaria (Smith & Perlis 2006).

 

Il dialogo strategico nella terapia breve

Il colloquio clinico in terapia, secondo l’approccio della terapia breve strategica, ha l’obiettivo di indurre cambiamenti radicali nella percezione della realtà soggettiva disfunzionale del paziente.

 

Il dialogo strategico (Nardone, G.; Salvini, S. 2004) è una tecnica sofisticata di conduzione di colloquio che ci permette di portare il paziente alla scoperta di nuove prospettive che a lui erano prima invisibili, attraverso specifiche domande e alternative di risposte. Nel corso degli anni il dialogo strategico applicato non solo all’ambito terapeutico ma anche manageriale e al problem solving è stato validato come uno strumento molto efficace per produrre il cambiamento poiché si tratta di una tecnica rigorosa ma flessibile. Nel contesto clinico, ma non solo, il fine è quello di portare alla rottura della percezione e conseguente reazione disfunzionale del paziente.

Già la fase della definizione del problema rappresenta un primo passo fondamentale per riuscire ad avere l’immagine più accurata possibile su quale sia la mappa rappresentazionale del paziente ovvero quale sia la sua esclusiva e del tutto soggettiva ‘realtà di secondo ordine’ per dirla alla Watzlawich oppure a quello che Bandler chiama struttura profonda (Bandler R., Grinder J. 1975). Il linguaggio è il nostro principale mezzo di rappresentazione della realtà ed al tempo stesso è lo strumento per la comunicazione della rappresentazione del mondo. La sequenza delle domande non è mai prestabilita ma si adatta sempre alla particolarità del paziente. La maestrìa del clinico si avvale di domande discriminanti che guidano alla comprensione del problema e all’obiettivo da perseguire, domande orientanti che aiutano il soggetto a ‘sentire’ come il problema si mantiene e come egli ne sia parte attiva del mantenimento attraverso le sue azioni e le sue ‘tentate soluzioni’, domande ad illusione di alternative (focalizzate sulle modalità ridondanti di percepire e reagire nei confronti di un dato problema o situazione) per far scoprire attivamente l’esigenza di modificare il proprio comportamento.

Ingredienti fondamentali del dialogo strategico sono le parafrasi ristrutturanti e l’uso di un linguaggio fortemente evocativo.

Il linguaggio ed in particolare le parafrasi creano ‘relazione con il paziente’ e abbassano le resistenze al cambiamento

Le parafrasi creano ‘compliance’ terapeutica poiché provano al paziente che abbiamo compreso ciò che ci viene espresso ed allo stesso tempo confermano al terapeuta che sta andando nella strada giusta; il linguaggio analogico può essere usato dal terapeuta per far ‘sentire’ al paziente come uno specifico problema funziona e può creare avversione piuttosto che desiderio rispetto ad un determinato comportamento. L’uso di metafore e analogie, sapientemente seguito da ristrutturazioni più logiche, rappresenta un ottimo strumento per abbassare le inevitabili resistenze al cambiamento che ogni paziente porta con sé.

Con le parole di Haley: ‘…la tecnica analogica o metaforica è particolarmente efficace con soggetti resistenti, dato che è difficile che una persona si opponga ad una suggestione che non è consapevole di ricevere‘ (Haley, 1976).

La parte finale del dialogo fa riferimento al riassumere per ridefinire, in cui una ristrutturazione globale sarà finalizzata a consolidare l’inevitabile esigenza di mettere in atto comportamenti diversi in relazione al problema.

Tutto l’iter del dialogo strategico diviene un vero e proprio processo di scoperta congiunto fra paziente e terapeuta che ad ‘imbuto’ mira a scardinare le modalità percettive patogene e le reazioni patologiche relative ad un problema.

…il terapeuta, con sapienti manovre, guida il suo interlocutore ad essere l’attore protagonista della scena in modo tale che si persuada di ciò che egli stesso sente e scopre’ (Nardone G., Salvini, A. 2004, pag 6).

Il dialogo strategico, se ben strutturato, porta il paziente a sentire la necessità di cambiare, cioè, a partire da un processo persuasivo, si arriva a far si che il cambiamento sia spontaneo. Esso conduce l’interlocutore non a capire ma a sentire differentemente. Per questo motivo molto spesso il primo colloquio rappresenta già un’esperienza emozionale correttiva nei confronti del problema. L’ultima fase del dialogo strategico è il prescrivere ovvero il momento in cui si concorda ciò che dovrebbe essere messo in atto per il cambiamento oppure ciò che il terapeuta richiede sottoforma di indicazione terapeutica (stratagemma) poiché riconosce un certo tipo di ridondanza ascrivibile a quel determinato disturbo e/o sistema percettivo reattivo.

 

“Assetati di cibo” – La psicologia delle voglie alimentari

Tramite le informazioni provenienti principalmente dall’educazione familiare o reperite con strumenti tecnologici, dalle conoscenze o dal sapere dei professionisti ‘addomestichiamo’ le sinapsi legate al consumo alimentare e quindi la nostra alimentazione.

 

Il Desiderio è una tensione interiore in simbiosi con le opportunità che si possono ricavare dall’ambiente, dalle scelte che quest’ultimo è in grado di offrirci: bibite gassate, patatine in busta, biscotti, dolciumi… con l’intenzione di consumarli nell’intimo spazio di un armadio o del frigo di casa alla stregua della famosa scena del film Joker.

Isolarsi, nascondersi, rimanere nel buio… per non essere visti da una società che difende i sintomi bulimici e anoressici e concepisce la dieta come un montaggio di un film di epoca vittoriana.

Un collage variegato, e spesso disarmonico, dal sapore di nuovo e di antico: primordiale è l’istinto che si scontra con l’ambiente contemporaneo in cui le ‘scelte non si scelgono’. (Quante scelte abbiamo di resistere davanti ad un barattolo di Nutella?)

Così, veniamo scelti dal prodotto di turno in un vortice alimentare di facile attribuzione: è la definizione di addiction (‘dipendenza’).

L’aspetto multidimensionale del desiderio alimentare

Il desiderio di un cibo è multidimensionale e dipende da fattori cognitivi e associazioni condizionanti, l’educazione in primis: come mangiamo, con quale velocità consumiamo il pasto, quali cibi siamo stati educati a scegliere (educazione gustativa), etc.; biologici/genetici/epigenetici (predisposizioni individuali o, finanche, patologie); ambientali (stress, inquinamento, circostanze che limitano l’attività corporea); sociali… e via dicendo.

In tutti questi fattori emergono due aspetti fondamentali:

  • la causa delle voglie alimentari;
  • il senso che detiene l’attività dello stimolo, il suo ‘comportamento’, ovvero l’intensità e la durata di quella voglia che ci spinge a consumare determinati alimenti.

Fermandoci a discutere su quest’ultimo (dato che il primo punto necessita una trattazione a parte), possiamo concepire il desiderio, la voglia alimentare, come una risposta condizionata (un comportamento appreso nel tempo) che emerge quando i segnali interni o esterni (stati d’animo, emozioni, educazione, pressioni ambientali) sono stati precedentemente associati all’assunzione di determinati comportamenti alimentari (ricordiamo che i fenomeni di fame, sete e sazietà non sono solo innati ma emergono probabilisticamente in funzione dell’esperienza durante lo sviluppo individuale; Harshaw, 2008).

Sei un mangiatore sobrio o assetato?

Il nostro cervello si nutre – oltre che di energia proveniente dagli alimenti – di stimoli esterni. Un prigioniero in isolamento, dopo qualche settimana può andare incontro a vere e proprie allucinazioni. È la capacità del cervello di creare stimoli!

Alimenti sani e Stimoli (esterni e interni) equilibrati sono essenziali per il suo buon funzionamento psico-corporeo. Uno stimolo interno può essere ‘la voglia di un particolare cibo’; uno stimolo esterno ‘la sua estetica, oltre le qualità sensoriali, come il sapore’. Noi tutti siamo provvisti di stimoli/voglie interne variabili che generano peculiarità differenti nella realtà alimentare, dando vita ad esperienze altrettanto variabili e, quindi, a consumi alimentari differenti: veloci o lenti (come assaporare un boccone alla stregua di quel famoso spot pubblicitario sulla mozzarella); distratte o concentrate sui sensi (focusing); ‘calde’, intense ed emozionanti (come nella fame emotiva); fredde (come nella bigoressia) e via dicendo.

Con quali modalità consumerai il tuo prossimo pasto?

L’incontro tra questi due stimoli (interno ed esterno), ripetuto nel tempo, crea dei collegamenti stabili (sinapsi) tra le nostre cellule cerebrali, vere e proprie strade dove passa l’impulso nervoso. Per tale motivi ogni persona ha un modo diverso di consumare il proprio pasto. E questo dipende anche dalle informazioni incamerate capaci di modificare i nostri comportamenti. In altri termini tramite le informazioni – provenienti principalmente dall’educazione familiare o da quelle reperite con strumenti tecnologici; dalle conoscenze o sapere dei professionisti (nutrizionisti, dietologici, psicologici, ecc.) – ‘addomestichiamo’ le sinapsi legate al consumo alimentare.

Questo giustifica, in parte, il suddetto riferimento ai restrained eaters (‘mangiatori sobri’) e food cravers (‘assetati di cibo’). Ad esempio, ricompensare un bambino con del cibo dopo un comportamento ritenuto idoneo (stimolo)  – o spingerlo a consumare tutto quello che c’è nel piatto – svalutando la (sua) sazietà percepita come ‘bussola’ della quantità di cibo da introdurre, rappresenta, a luogo andare, un modo per renderlo incapace di gestire le proprie ‘tensioni’ interiori legate alla voglia di un determinato alimento.

Estinzione dello stimolo legata al sovrappeso

La restrizione calorica, seppur a volte quasi ridicolizzata da molte diete in voga, dal punto di vista psicologico, porta ad una diminuzione del desiderio di cibo, che può essere dovuta a processi di estinzione delle sinapsi legati al comportamento appreso, ovvero all’indebolimento di quei collegamenti cerebrali legati a risposte condizionate precedentemente acquisite.

In linea con questo principio, si pone in evidenza la ridotta frequenza (ma non la quantità) dei pasti consumati che si correla alla riduzione dell’appetito per specifici alimenti (Apolzan e colleghi, 2017). In altri termini, non mangiare determinati cibi per diverse settimane può ‘disaccoppiare’ le associazioni apprese (es., evitare di mangiare la sera il cioccolato, come da abitudine) in modo che determinati segnali (la sera) non attivino più una risposta condizionata (consumare il cioccolato).

La deprivazione edonica

La dieta, spesso basata sulla deprivazione edonica (vietare alcuni cibi e consentirne altri), nel breve periodo può generare voglie nei confronti dei cibi che proibisce. Tali voglie possono essere mediate principalmente da meccanismi fisiologici (e.g. deprivazione nutrizionale) o psicologici (e.g. soppressione della voglia alimentare).

Studi sperimentali suggeriscono che una privazione alimentare selettiva a breve termine sembra effettivamente aumentare il desiderio dei cibi evitati. Tuttavia, gli stessi studi (in calce) dimostrano che il desiderio di cibo può essere inteso come una risposta condizionata che può anche essere disimparata. Ciò è supportato da studi di intervento che indicano che la restrizione energetica a lungo termine si traduce in una riduzione del desiderio di cibo negli adulti in sovrappeso.

 

La strada (2006) Ding an sich – Recensione del libro

Il libro La strada è una finestra… Si apre su un mondo desolato, finito, fatto a pezzi.

 

Non si sanno i motivi di questa visione apocalittica. Dapprima la spinta che si prova, che almeno io ho provato, è di una curiosità a sapere i motivi per i quali si è arrivati a questo punto, a questa desolazione. Rari flashback della mente del protagonista ce ne danno un assaggio ma poco alla volta anche il lettore viene avvolto da questo mondo triste e desolato. Un mondo nel quale non è rimasto nulla, solo terra bruciata.

La finestra si apre su un pezzo di vita di un padre e di un bambino (suo figlio) che si ritrovano a vagare per le strade in cerca dei buoni. Il mondo è ridotto all’essenziale: i buoni da un lato, i cattivi dall’altro, la necessità di sopravvivere, di procacciarsi il cibo, un riparo e dei vestiti per il freddo e nulla di più… E una speranza, quella di raggiungere il sud, nel quale (forse), trovare una comune dove altre persone (i buoni) possano essersi radunati e con loro ricominciare. Un forse che è tutto ciò che è possibile ottenere dalle tenebre che hanno avvolto il mondo. Poco alla volta quelle tenebre avvolgono anche il lettore che smette di chiedersi i motivi per i quali il mondo è stato ridotto in cenere e vive, vive anche lui nella speranza che esista un ‘forse’, laggiù, in un futuro, nel sud.

Il mondo è stato spogliato di tutto e così anche le persone. Non hanno nome i protagonisti, in un mondo ormai caotico dove l’ordine è ridotto all’essenziale (buoni/cattivi – vivere/morire) anche le persone sono ridotte all’essenziale: e fisicamente e psichicamente.

Se ti sparo non sentirai il rumore… La pallottola viaggia più veloce della luce e ti entrerebbe dal lobo frontale dove distrugge tutte le strutture necessarie a sentire’, disse l’uomo. ‘Lei è un medico?‘ rispose l’altro (McCarthy, 2006, p.50) . Ma l’uomo non disse né di sì né di no… Ormai non contava più… Solo per necessità di scrittura si potevano distinguere l’uomo dal bambino… Ma erano distinzioni ormai inutili: la vita ridotta all’essenziale non necessita di nulla di ciò con cui la società (come noi la conosciamo) si è venuta a costruire. Non la professione, nemmeno il nome proprio. Tutto è stato spogliato di tutto. Il mondo è vuoto, cenere… Gli uomini sono nudi e messi a nudo assieme alla loro capacità distruttiva… Alla loro perfidia che non può essere biasimata: si deve vivere o morire.

Ma mentre si procede nella lettura, si rischia di perdersi in questo mondo ben costruito, che ti assorbe e per poco non credi che i personaggi siano qualcuno, salvo accorgersi che non hanno nulla, nemmeno un nome e, dunque, nemmeno una storia. E, infatti, non si sa chi siamo, come siano arrivati lì, non esiste senso… D’altronde il senso è possibile solo nella relazione. Il nome proprio raccoglie la nostra storia, storia fatta di relazioni con gli altri, in primis con chi quel nome ce lo ha attribuito con una particolare valenza, che solo egli sa e persa ormai nella notte dei tempi. Nessuna storia, nessun nome, nessuna relazione possibile.

In un mondo estremizzato, come quello apocalittico, come quello del libro, se si riesce a conservare un minimo di distacco con il quale osservare le scene che si affacciano alla finestra, emerge la possibilità di vedere il mondo nella sua essenza. Spogliato di tutto si vede il suo nucleo, il magma che accende la vita e che, nel libro, è forse stata spenta per sempre, da cosa non è dato saperlo e forse non è nemmeno importante.

Come si evince dal libro ‘Anatomy of minimum’ (Pawson, 2019) occorre ridurre le cose all’essenziale, spogliarle per vedere davvero. Come nella scultura occorre levare per vedere qualcosa apparire. Togliere per vedere, provare per far nascere. È la vita, la vita fatta di antinomie, di contrari che a fatica si equilibrano e il gioco della vita è questo: sostare su una fune, in bilico assaporando il gusto del brivido.

Così l’autrice spogliando il mondo e anche i suoi personaggi di tutto, della vita, del nome, della storia, della cultura, della società e conservando solo le forme primitive del vivere, fa emergere la struttura latente della vita, troppo spesso mascherata, troppo spesso data per scontata. E quella struttura latente è tutta contenuta nel ‘forse’ che all’uomo e al bambino fa percorrere la strada verso sud. ‘Tu sei coraggioso, papà?’ ‘Il coraggio è ciò che mi ha fatto alzare stamattina’ (McCarthy, 2006, p. 207).

Ma cosa nasconde questo ‘forse’ che fornisce coraggio? Una speranza, nasconde la fede. Una necessità: senza fede non si vive. Una fede che alle volte, nel libro, intercetta Dio ma che più in profondità nasconde la speranza, la fede, di trovare i buoni. Di trovare altri, altre persone… Forse solo allora si potrà, ancora, dire il proprio nome. In fondo, questo ha senso solo in relazione ad altri… Senza altri il nome non serve a nulla se non, non è scontato ma non basta, dare a sé stessi un senso. Ma per vivere al mondo occorre ci sia un altro, un qualsiasi altro da sé: che sia cibo per nutrirsi nel fisico o relazioni per nutrire la mente.

La speranza nel mondo, la fede nel mondo, è la possibilità che esistano i ‘buoni’: altre persone con cui intessere delle relazioni. Relazioni attraverso le quali dare un nome alle persone, alle cose, dare maggiore ordine al mondo oltre alla vita/morte. Far nascere maggiore complessità e, dunque, una cultura, una società. Questo è ciò che angoscia di più il lettore: se non trovassero nulla? Se non ci fossero altre persone, altri con cui intessere relazioni, di cui aver fede allora il mondo non avrebbe senso. La condanna dell’uomo e di poter dare senso, per sua mancanza, solo attraverso la figura dell’altro. Ma se questo manca? Rimane il reale di un mondo a pezzi, una vita destinata solo alla morte… La fatica di vivere giorno per giorno per poi morire. E seppure la vita vuole la vita, se al fondo di ogni corpo, di ogni organismo, del mondo stesso c’è una volontà di vivere, questa da sola non basta poiché, fortunatamente o sfortunatamente, siamo dotati di una psiche che è relazione. E se il corpo vuole la vita e vuole vivere, la psiche vuole dare senso e ordine, costruire e nutrirsi. Ma se il corpo si nutre di cibo fisico la psiche si nutre dei ‘buoni’, di persone (oggetti) da introdurre in essa che diano speranza, fiducia, gratitudine e, in una parola, amore.

L’unico barlume di speranza è un bambino, il bambino protagonista del libro, che non si lascia bruciare da una vita ingiusta. Rimane empatico davanti agli altri e, forse nella sua innocenza, forse per il suo proprio temperamento, ancora sente e vive dentro di lui la paura… Non la nega né la evita, la avverte in sé e, di conseguenza, anche negli altri. E forse è la paura della morte ciò che muove il mondo, la paura di morire nell’assenza, nella solitudine, senza aver dato senso alla propria vita, al mondo che fa nascere relazioni e da queste cultura e socialità. E il bisogno dell’uomo di mantenersi in vita, e fisicamente e psichicamente e di prendersi cura di sé e dell’altro e del mondo. La natura non genera mai a caso. Se è vero che la mente impara dal corpo, possiamo, allargando lo sguardo, affermare che siamo come piccoli centri concentrici: dunque la mente è specchio del corpo, la famiglia della società e così via. Dunque la coscienza, nell’uomo può essere solo un meccanismo che la natura ha trovato per salvaguardare sé stessa e la vita in sé. E noi da questo, inconsciamente, abbiamo imparato… Così come la mente impara dal corpo anche noi abbiamo imparato dalla natura. Così il corpo è diventato mente, la natura Dio e l’organizzazione della bio-diversità società. Abbiamo astratto dal fisico allo psichico. Imparando gli uni dagli altri e modificandoci a vicenda. Ma il tutto è Uno. Se guardiamo la società abbiamo creato organi che controllino altri organi e così via… Abbiamo creato internet, un network, cose che in natura, tra le piante per esempio, esistevano già. Le abbiamo copiate, o replicate, in mondo inconsapevole. Sono gli archetipi: esiste una certa ridondanza… Forse il detto ‘la mela non cade distante dall’albero’ può far capire meglio il concetto.

La vita si organizza attorno a delle strutture che si ripetono, a ridondanza… Nulla cade distante dal centro originario che è Uno, l’Uno da cui tutto origina.

La coscienza allora può essere capita solo allargando lo sguardo dall’uomo al mondo e alla natura. La coscienza, che dota l’uomo di libero arbitrio, permette alla natura di avere qualcosa (come gli organi di sorveglianza nella nostra società) che ne presieda il regolare funzionamento. Che si occupi di mantenerne l’equilibrio e, per farlo, era necessario che a differenza degli animali questo qualcosa fosse dotato di libero arbitrio, fosse cioè separato da essa. La natura ha trovato così il suo equilibrio, lo stesso equilibrio che poi l’uomo ha ricopiato (o ricalcato) per creare e strutturare la società. Allora occorre ritornare al reale, alla natura per comprendere alcune strutture e questo, chiaramente, impone di uscire dallo schema antropocentrico. Allora la coscienza è dell’uomo perché questo gli consente di sopravvivere e realizzare sé stesso (si vedano le sue funzioni per Bion in Grotstein, 2009) ma permette, sopravvivendo e realizzando sé stesso, di essere vigile nel mantenere un certo equilibrio nella natura. Certo la società consumistica e capitalista questo discorso lo nega e lo vuole negare perché contro le esigenze del capitale. In fondo, ogni sistema, seppur disfunzionale tende a mantenere il suo ordine e ad appiattire tutto ciò che vuole modificarlo, risucchiandolo al suo interno.

Ecco allora che bisogna ridurre la vita al suo essenziale, porsi al di là della finestra ed osservare il mondo come agenti passivi che guardano qualcosa che subiscono e cercando, nell’essenzialità, di vedere il loro ruolo in quel tutto, il loro ruolo… Come un’ape impollina, come esistono gli animali ‘spazzini’, come in un acquario o in una voliera occorre mettere determinati pesci o uccelli e non altri per mantenere l’equilibrio, così l’uomo ha una funzione nell’equilibrio delle cose. Anche l’ape ha una funzione e la sua funzione dipende dalla sua propria struttura che, entrambe, la fanno essere ciò che propriamente è. Così la struttura dell’uomo che lo distingue è la coscienza, la sua possibilità di libero arbitrio e di agire a favore o contro sé stesso. La sua libertà, che ha l’importante funzione di presiedere alla natura. Questo è anche il messaggio che la psiche dell’uomo ha da sempre capito. Se si guarda alla Bibbia, per il pensiero cristiano, all’uomo è stato dato il mondo… L’errore è stato quello successivo di valutare questo in chiave antropocentrica. Se all’uomo è stato dato il mondo è stato dato non in quanto creatura superiore, ma in quanto avente funzione di sorveglianza, che è sì funzione alta perché è dall’alto che è possibile osservare ed intervenire se qualcosa non funziona. Ecco la funzione di Dio come limite ultimo: attento! Uomo… Che anche se puoi agire contro natura e contro la natura non lo devi fare, era necessario che tu possedessi la libertà di scegliere per poter essere distaccato dalla natura e quindi tutelarla, e questo ha implicato che tu potessi agire anche contro di essa ma attento! Non lo devi fare.

Forse questo è il senso dell’esistenza della coscienza e di Dio. Tutto è uno ed è più reale di quanto si creda.

 

Depressione o Bipolarismo? Precauzioni per una diagnosi accurata di disturbo bipolare e trattamenti specifici

Diagnosticare un disturbo depressivo può non essere così semplice perché sembra che tra il 50% e l’80% delle volte il disturbo bipolare inizia proprio con un episodio depressivo. A rendere ardua la distinzione tra le due patologie è quindi una variabile che delinea il decorso del disturbo bipolare: l’intervallo tra il primo episodio depressivo e la mania/ipomania.

 

Il disturbo bipolare è caratterizzato da alternanza di stati d’umore eccessivamente alti, mania / ipomania, e patologicamente bassi, depressione (American Psychiatric Association [APA], 2013). Questa alternanza di stati determina nello specifico tre tipi di disturbi: disturbo bipolare di tipo I, la cui diagnosi è possibile con la presenza di almeno un episodio maniacale, disturbo bipolare di tipo 2, caratterizzato da almeno un episodio di depressione maggiore (recente o passato) e almeno un episodio ipomaniacale (recente o passato), e disturbo ciclotimico, caratterizzato dall’alternanza di episodi di depressione e ipomaniacali di lieve intensità ma con elevata frequenza (APA, 2013).

Poiché queste classificazioni di disturbi sottintendono la presenza di episodi depressivi e, nello specifico, alcuni studi dimostrano che tra il 50% e l’80% delle volte il disturbo bipolare inizia proprio con un episodio depressivo (Duffy et al., 2007, Mesman et al., 2013, Axelson et al., 2015), è importante non confondere la diagnosi di disturbo bipolare con quella di depressione maggiore o unipolare. Pertanto, quando il clinico si accingerà a diagnosticare un episodio depressivo maggiore, presterà attenzione nel verificare che non si stia invece trattando di disturbo bipolare. Come illustrato nell’articolo di O’Donovan e Alda, una parte delle persone a cui è diagnosticata la depressione unipolare potrebbe in realtà soffrire di depressione di tipo bipolare, e questo è dovuto a diversi motivi:

  • spesso il disturbo bipolare ha inizio con sintomi depressivi e la prima ipomania / mania può non comparire fino ad anni dopo;
  • alcune forme di depressione sono plausibilmente varianti del disturbo bipolare;
  • ci si può non essere accorti di precedenti episodi ipomaniacali/maniacali. (O’Donovan &Alda, 2020).

A rendere ardua la distinzione tra le due patologie è quindi una variabile che delinea il decorso del disturbo bipolare: l’intervallo tra il primo episodio depressivo e la mania/ipomania. Berk e colleghi hanno riportato una media di 7,6 ± 8,7 anni, e Cha et al. di 5,6 ± 6,1 anni (Berk et al., 2007, Cha et al., 2009). In entrambi i casi l’intervallo non è solo lungo, ma anche molto variabile tra gli individui, e ciò potrebbe causare il mancato riconoscimento degli episodi maniacali/ ipomaniacali associati al disturbo che possono verificarsi anni dopo il primo episodio depressivo.

La diagnosi di disturbo bipolare è resa ancora più complessa dal fatto che non tutte le persone affette da depressione bipolare sviluppano necessariamente un episodio maniacale. In questi casi, una storia familiare in cui compare il disturbo può indicare che l’episodio depressivo è compreso in una più ampia diagnosi bipolare. Blacker e Tsuang hanno stimato che circa i due terzi dei parenti unipolari di probandi bipolari in realtà presentava una depressione bipolare, coerentemente con la storia familiare (Blacker & Tsuang, 1993). Nelle linee guida non sono presenti criteri definitivi o biomarcatori per identificare l’episodio depressivo che precede la mania/ipomania all’esordio, pertanto è possibile confonderlo con una depressione unipolare fino a quando non si convertirà presentando l’episodio maniacale (O’Donovan &Alda, 2020). L’obiettivo del clinico è quindi quello di identificare al meglio il probabile disturbo bipolare sin dall’esordio, prestando particolare attenzione alle famiglie ad alto rischio di insorgenza. Infatti, il predittore più robusto per questa patologia è una storia familiare di disturbo bipolare, specialmente nei giovani ad esordio precoce (O’Donovan &Alda, 2020). Altri preziosi predittori sono recidiva e prima età di insorgenza dei sintomi depressivi, nonché sintomi ipo/maniacali subsindromici e labilità dell’umore (Vieta et al., 2018). Lo studio di singoli membri della famiglia con interviste strutturate resta il metodo più accurato per la ricerca; in alternativa si possono utilizzare questionari come il Family History Research Diagnostic Criteria (FH-RDC) (Andreasen et al., 1977).

Non esistono ancora trattamenti specifici per i casi in cui il paziente ha sintomi depressivi e storia familiare di disturbo bipolare. È consigliabile per il clinico avere una buona conoscenza delle linee guida unipolari e bipolari per tutte le età e modificare il percorso terapeutico-farmacologico in base alla risposta al trattamento (O’Donovan & Alda, 2020). Un approccio alla depressione potenzialmente risolutivo in gioventù potrebbe essere quello di non assegnare alcuna polarità (unipolare o bipolare) fino a quando non si saranno verificati diversi episodi, anche se questa modalità non renderebbe giustizia a coloro che si convertiranno in ritardo o non si convertiranno affatto (O’Donovan & Alda, 2020).

Nel complesso le misure che risultano maggiormente efficaci per il trattamento di questo disturbo sono psicofarmaci e psicoterapia. Eseguire una diagnosi errata può comportare anche una scelta di farmaci non corretta, e spesso dannosa: gli antidepressivi sono fortemente indicati per il trattamento farmacologico della depressione, ma controindicati per il disturbo bipolare. Una reazione opposta agli antidepressivi può rivelare la vera natura bipolare della patologia nel paziente (O’Donovan & Alda, 2020).

Per quanto riguarda invece il percorso psicoterapeutico, le linee guida indicano le psicoterapie cognitivo-comportamentali ed interpersonali come maggiormente indicate. La psicoterapia familiare può essere un’ulteriore alternativa nei casi di disturbo bipolare ad esordio precoce (APA, 2013).

Nel campo delle tecniche di neuroimaging, la stimolazione magnetica transcranica ripetitiva ha evidenze sia nella depressione unipolare che in quella bipolare (Rachid et al., 2017). Dal punto di vista genetico, sono disponibili grandi set di dati per analizzare le differenze genetiche tra i due tipi di disturbi; un esempio ne è la recente analisi su larga scala di Coleman e colleghi (Coleman et al., n.d.). Resta da verificare quanto sarà pratico un simile approccio.

In conclusione, le caratteristiche salienti utili nella differenziazione tra i due disturbi includono: esordio precoce, storia familiare di disturbo bipolare, ma anche risposta avversa agli antidepressivi. Si spera che in futuro le tecnologie di laboratorio o di imaging cerebrale possano contribuire ulteriormente a una diagnosi più accurata, facilitando i trattamenti farmacologici e psicoterapeutici.

 

Funzionamento interpersonale nei disturbi di personalità: un confronto tra DEP e DOCP

Il disturbo evitante di personalità (DEP) e il disturbo ossessivo compulsivo di personalità (DOCP) condividono alcuni aspetti del funzionamento interpersonale.

 

In entrambi i casi i pazienti si mostrano poco assertivi, sottomessi ed evitano le relazioni con gli altri. Proprio per questo Steenkamp et al., (2015) parla di “sottotipo evitante” di DOCP. Eppure a volte le reazioni di alcuni pazienti agli eventi sono tutt’altro che pacifiche e distaccate e questo ha spinto ad approfondire la conoscenza dei profili interni del DOCP. Spulciando la letteratura ritroviamo studi in cui gli autori hanno distinto i pazienti DOCP in due categorie: “aggressivo-rigido” e “depressivo-perfezionista” (Ansell et al., 2010) o “dominanti-ostili” e “sottomessi” (Cain et al., 2015).

Notiamo, poi, un lavoro recentissimo di Solomonov et al., (2020) nel quale sono stati confrontati 64 pazienti con disturbo evitante di personalità (DEP) e 43 con disturbo ossessivo compulsivo di personalità (DOCP). Scopo dello studio è stato quello di comprendere meglio il profilo interpersonale dei pazienti. I partecipanti hanno compilato l’inventario dei problemi interpersonali (IIP-64), un questionario autovalutativo che misura l’intensità delle difficoltà relazionali che, si sa, in queste due categorie diagnostiche, essere stabili nel tempo (Skodol, 2018). I risultati mostrano che tutti i pazienti provano maggiore disagio interpersonale rispetto al gruppo di controllo e questo è in linea con studi precedenti che sostengono la centralità delle difficoltà nella relazione con gli altri in entrambi questi disturbi (Frandsen et al., 2019; Girard et al., 2017). Per quanto riguarda l’analisi dei profili interpersonali specifici, i pazienti con DEP sono risultati contraddistinti da un unico profilo, ben chiaro e identificabile, caratterizzato dalla sottomissione, dall’evitamento delle relazioni, da emozioni di ansia e vergogna nei contesti sociali e dalla paura del rifiuto, sempre percepito come dietro l’angolo. A differenza della stabilità e omogeneità degli evitanti, i pazienti con DOCP funzionano in modo più variabile ed eterogeno e sono più complessi. Da un lato risultano distaccati e introversi, hanno la tendenza all’isolamento, si deprimono, accondiscendendo e compiacendo passivamente, dall’altro provano forti emozioni negative accompagnati da comportamenti aggressivi, punitivi, vendicativi e di controllo relazionale, diventando prepotenti, ostili, dominanti.

Riflettendo in modo più ampio, sappiamo bene che la principale ricaduta dei disturbi di personalità è nelle relazioni interpersonali e che queste ultime sono a loro volta collegate alla presenza di sintomi psichiatrici, ad un generale disagio psicologico e, non per ultimo, alla scarsa aderenza al trattamento (Wilson, Stroud, & Durbin, 2017). Per questo motivo diventa importante conoscere le caratteristiche di uno specifico funzionamento per tenerne in considerazione nell’ inquadramento del caso e per pianificare un trattamento efficace.

La terapia e la relazione che si crea tra paziente e psicoterapeuta sono un terreno fertile per notare il funzionamento interpersonale dei pazienti. Portiamo, allora, l’attenzione alla reazione di un paziente con DEP e di due pazienti con DOCP, appartenenti, quindi, alle stesse categorie diagnostiche dello studio appena citato, ad uno stesso evento. Un mercoledì di luglio per una di noi (VV), infatti, c’è stata la necessità di rimodellare gli appuntamenti della giornata.

Davide, con diagnosi di DEP, ha poche relazioni, si dedica solo ad attività solitarie e, proprio per questo, si abbatte di frequente sentendosi depresso. Racconta che quando prova ad interagire con i colleghi d’ufficio, tende ad avere un atteggiamento accondiscendente e remissivo che gli garantisce di restare sempre nell’ombra. Anche con la terapeuta si comporta allo stesso modo e di fronte alla richiesta di spostare una seduta, Davide non batte ciglio e accetta l’alternativa di giorno e orario. A Marco, invece, è toccato venire due ore prima del solito orario. Per Marco è importante che le cose vadano in un certo modo, ha un giudice interno molto rigoroso e teme gli imprevisti che possano stravolgere le sue minuziose programmazioni. Arriva, alle sedute, sempre con notevole anticipo e manda spesso messaggi di conferma per essere certo dell’appuntamento. Non a caso, ha una diagnosi di DOCP. Marco accetta il nuovo orario con un messaggio stringato e non appena entra nella stanza chiede spiegazioni con fare pacato. Eppure, si legge un velo di rabbia in volto e la postura è decisamente rigida ma riferisce che non ha niente a che vedere con la seduta anticipata. Di fronte alla richiesta di capire meglio come si stava sentendo si irrigidisce ancor di più e ammette che, effettivamente, era stato difficile dover accettare quello spostamento, che si è sentito trattato ingiustamente.

Sandra, anch’essa con DOCP, mostra, proprio in quella occasione, un aspetto fino a quel momento mai venuto a galla: risponde al messaggio della terapeuta con parole aggressive ed umilianti, accusandola di essere poco attenta, poco organizzata e, infine, poco professionale. Inoltre, l’attacca, sottolineando che avrebbe dovuto sapere quanto per lei fosse “davvero troppo difficile” rivoluzionare la sua agenda. Alla fine, non accetta e disdice la seduta settimanale.

Cosa ha osservato la terapeuta? Reazioni diverse di Davide, Marco e Sandra. Grazie a queste si è potuta raffinare la concettualizzazione condivisa del funzionamento che nella terapia metacognitiva interpersonale (Dimaggio et al., 2013; 2019) è fondamentale per la pianificazione del trattamento. Di fianco all’identificazione dello schema si sono potute rintracciare le strategie di coping (Dimaggio et al., 2013; 2019) che i pazienti hanno imparato a mettere in atto in risposta a determinati eventi e all’attivazione dell’immagine del sé negativa, sofferente, dolorosa, vulnerabile.

Infatti Davide a fronte del wish di attaccamento si è sentito di scarso valore, ha percepito la terapeuta distante ma, per paura dell’abbandono, ha agito la sottomissione, in linea con il profilo tipico dei pazienti evitanti. Marco, in pieno sistema motivazionale di inclusione, ha letto la terapeuta lontana e disinteressata, si è attivata l’immagine negativa in cui si vede invisibile per l’altro e non ha potuto fare a meno di rispondere con la sua strategia di fronteggiamento preferita, oscillando tra uno stato di rivalsa ed uno di sottomissione. Infine, Sandra, mossa dal desiderio di apprezzamento ma sentendosi poco interessante, ha inglobato la terapeuta nel suo schema, percependola tirannica e manipolativa ed ha agito l’aggressività e la vendicatività. Marco e Sandra rappresentano a pieno i due tipi di DOCP descritti nello studio di Solomonov et al., (2020).

La terapeuta, quindi, in modi diversi a seconda del paziente, ha: riconosciuto la frattura che la richiesta dello spostamento della seduta ha generato nella relazione; ha attuato delle operazioni di disciplina interiore per regolare il suo stato interno e ha metacomunicato con i pazienti; ha riparato l’alleanza aiutando i pazienti ad allontanarsi dalla visione del terapeuta schema-dipendente e ha apportato ulteriori informazioni nelle formulazioni del caso. Certamente tutte queste operazioni hanno fatto sì che i pazienti accedessero ad una più ampia consapevolezza del proprio funzionamento interpersonale e proseguissero la terapia senza subire l’impatto delle loro strategie di fronteggiamento sulla relazione, aderendo così meglio al trattamento.

 

Disturbi alimentari maschili: differenze di genere e caratteristiche psicologiche

Nel caso dei disturbi alimentari maschili spesso la richiesta arriva tardivamente perché gli uomini affetti da DA tendono a non chiedere un aiuto tempestivo perché non riconoscono il proprio comportamento alimentare come problematico e per non voler ammettere di avere un disturbo tipicamente femminile.

 

Il mio problema non è che sono grasso…. mi vedo flaccido e vorrei essere più muscoloso… per questo ho iniziato a fare esercizio fisico! Lo faccio tutti i giorni, il weekend arrivo anche a due allenamenti nella stessa giornata! No… non mi sono mai autoindotto il vomito, quella è una cosa da donne…. No no … se mi sento troppo gonfio piuttosto non mangio! Digiuno uno o due giorni e così ripristino l’equilibrio dopo una cena un po’ più calorica… Si ci penso a questa cosa durante la giornata, ci penso spesso… anche perché ho paura che mi venga il diabete come mio padre… così facendo mi prendo anche cura della mia salute! Si… mi rendo conto che ultimamente ho perso peso…. Lo vedo dai vestiti…. No… non sono ossessionato dalla bilancia…. Non mi interessano tanto quelle cose… Mi rendo conto che ultimamente faccio molta attenzione a quello che mangio… prediligo cibi poco calorici… ci sto attento! Dottoressa… secondo lei… ho un disturbo alimentare?’

Mario (nome di fantasia) si presenta così alla nostra prima seduta.

Decido di raccogliere dati per fare una corretta diagnosi, ma presto apprendo che il BMI (Body Mass Index) non è un indicatore valido per gli uomini ma solo per le donne, infatti il normopeso non è indicatore per escludere un DA (Disturbo Alimentare) maschile, manca ovviamente anche un altro campanello d’allarme: l’amenorrea.

Questi due indicatori sono stati in parte la causa di mancati riconoscimenti di Disturbi Alimentari maschili, oltre alla tardiva richiesta di aiuto da parte dei pazienti. Gli uomini affetti da DA, infatti, tendono a non chiedere un aiuto tempestivo perché non riconoscono il proprio comportamento alimentare come problematico e per non voler ammettere di avere un disturbo tipicamente femminile.

Decido allora di cercare in letteratura: trovo, come previsto, tantissimo materiale, ma mi rendo conto che fino a un decennio fa si è approfondito il disturbo specialmente sulle donne, dando poca rilevanza al genere maschile. Perché? La risposta è nelle percentuali di incidenza dei disturbi alimentari negli uomini: uno studio riporta un rapporto di 1 a 11, questo significa che su 11 pazienti che soffrono di DA 1 solo è un uomo. (Hudson JI, et al. 2007).

I dati risalgono agli inizi del nuovo millennio. Cosa è successo dopo? Come sono le percentuali oggi?

Gli uomini che soffrono di Disturbi Alimentari sono aumentati. Diversi studiosi hanno cominciato ad approfondire questo disturbo nell’ottica maschile ma ancora non si ha letteratura sufficiente per avere strumenti specifici di trattamento.

Nel DSM-5 sono state introdotte delle importanti modifiche che favoriscono una diagnosi di Disturbi Alimentari più accurata per il genere maschile: le categorie di classificazione sono meno rigide e quindi i sintomi di DA possono essere individuati anche negli uomini (Raevuori A., 2014).

Differenze tra uomini vs donne

Alcuni aspetti sintomatici accomunano tutte le persone che soffrono di Disturbi Alimentari, come ad esempio le preoccupazioni rispetto al peso, le restrizioni dietetiche e le convinzioni distorte rispetto all’alimentazione, ma ci sono delle differenze sostanziali tra uomo e donna.

Mario, così come molti uomini con Disturbi Alimentari, utilizza in forma minore rispetto alle donne (25% vs 50%) le condotte eliminatorie come ad esempio il vomito autoindotto, l’uso di lassativi e farmaci diuretici. Adotta invece strategie quali l’eccessivo esercizio fisico e periodi di digiuno. (Striegel-Moore RH, et al. 2009).

La giustificazione dei comportamenti restrittivi spesso punta alla prevenzione di malattie mediche, poco presente nelle giustificazioni utilizzate dalle donne. (Grabhorn R, et al. 2003).

Caratteristiche psicologiche nei Disturbi Alimentari maschili

Continuo nella mia ricerca e trovo molto interessante un articolo di Dakanalis risalente al 2015, nel quale vengono approfondite le caratteristiche psicologiche presenti nei pazienti uomini con Disturbi Alimentari.

La tendenza al perfezionismo è uno degli indicatori presenti in molte forme di DA (sia uomini che donne) in quanto induce i pazienti a cercare incessantemente di raggiungere la forma del corpo ideale. La differenza è che gli uomini con questa caratteristica tendono al digiuno, le donne a condotte eliminatorie. Si nota anche la presenza di una chiara tendenza al controllo.

L’insoddisfazione corporea è una seconda variabile che incide sullo sviluppo di Disturbi Alimentari. Gli uomini, spesso con bassa autostima, ansia sociale e depressione, tendono a ricercare ed acquisire una buona muscolarità ‘Drive for masculinity’, le donne invece ricercano la magrezza ‘drive for thinness’.

Questa differenza apre alla conoscenza di due disturbi tipicamente maschili: la Vigoressia e la Ortoressia.

La Vigoressia è un disturbo legato alla percezione errata di avere un corpo gracile e con poca massa muscolare (Pope,1993). La distorsione dell’immagine corporea si riverbera anche nei rapporti sociali, ci si sente inadeguati e quindi si tende all’isolamento sociale. Gli uomini che soffrono di vigoressia tendono ad accrescere la loro massa muscolare con estenuanti allenamenti fisici, ma neanche il raggiungimento di un corpo muscoloso li rende soddisfatti. Spesso associano allo sport anche l’assunzione di integratori alimentari e cibi iperproteici e ipocalorici.

L’Ortoressia è un disturbo che induce gli uomini con DA a sviluppare una vera e propria ossessione per il cibo sano, le regole alimentari e le modalità di cottura più dietetiche. Seguono ruminazioni ossessive circa il tempo impiegato a pensare al cibo, la ricerca di alimenti adatti e la cura nella preparazione. La volta in cui non possono cucinare e consumare cibi dietetici provano senso di colpa e percezione di perdita di controllo (Brytek-Matera, A. 2012). Inutile sottolineare quanto tutto questo porta a un’inevitabile ripercussione negativa sulla sfera sociale, ad esempio il non voler frequentare posti di ritrovo dove sia incluso un pasto o la difficoltà di condividere con altri queste pratiche alimentari così severe e limitanti.

Un’ultima caratteristica psicologica a mio avviso rilevante è l’orientamento sessuale. Gli uomini omosessuali tendono a sviluppare maggiormente un disturbo alimentare rispetto agli uomini eterosessuali. (Dakanalis at al., 2012). Secondo Dakanalis questo accade perché si ha una maggiore ansia legata all’accettazione nelle comunità omosessuali di riferimento e perché la perdita di peso è funzionale a sopprimere petto e fianchi e ad accentuare le caratteristiche del genere desiderato.

Trattamento e conclusioni

La terapia cognitivo-comportamentale ad oggi sembra offrire la tipologia di trattamento migliore. Si lavora sulle credenze disfunzionali e sulla messa in atto di comportamenti maggiormente adattivi per contenere le ruminazioni e migliorare la qualità della vita.

Molto ancora si deve indagare sulle aree relative alle differenze di genere a livello fenomenologico, sull’esordio, sulle manifestazioni sintomatologiche e sull’esito del trattamento. Di certo andremo incontro ad un aumento di uomini con DA che chiederanno un aiuto psicologico, anche se ad oggi si sente ancora forte lo stigma culturale di una malattia considerata al femminile.

 


 

Monogamia e tradimenti: la fine degli amori – Una serie di Roberto Lorenzini

Oggi pubblichiamo il decimo lavoro della serie di Roberto Lorenzini, dedicata al tema della monogamia e delle sue implicazioni psicologiche, affettive, relazionali e, perché no, sessuali. Lorenzini propone una tesi forte: la monogamia non funziona. E prosegue il suo racconto esplorando lo sviluppo della vicenda amorosa e in particolare la fine dell’amore.

MONOGAMIA E TRADIMENTI – (Nr. 10) La fine degli amori

10. La fine degli amori

“Panta rei”, “tutto scorre”, ciò che ha un inizio è destinato ad avere una fine e paradossalmente proprio la sua limitatezza, la sua finitezza gli dà valore, lo rende prezioso (Baroni 2020). Come insegnano le leggi di mercato una risorsa illimitata ha scarso o nullo valore. Tra le cose più preziose c’è la vita che sappiamo essere finita. Anche le storie affettive dunque hanno necessariamente una fine. Non è il fatto in sé che finiscano a renderle brutte o fallimentari, quanto piuttosto come ciò avviene. La chiusura è importante quanto l’inizio e prima di catalogare una storia affettiva e archiviarla in memoria nello scaffale delle meraviglie da ricordare o in quello dei fallimenti da dimenticare dovremmo prima aspettarne la chiusura che peraltro è ciò che ci influenza di più nel bilancio complessivo. I trenta anni di positiva vita in comune possono scomparire a fronte di una chiusura violenta di soli pochi mesi.

La chiusura di un matrimonio o una convivenza soprattutto se lunga comporta una enormità di problemi di ordine pratico organizzativo, economico e soprattutto emotivo ed è considerata insieme al lutto, peraltro molto simile, come uno degli eventi massimamente stressanti della vita seppure il suo effetto dipenda dalla personalità dei due partner che possono risentirne in modo molto diverso, dal tipo del legame in termini di qualità e durata e dalle modalità stesse con cui la chiusura avviene.

I prodromi più comuni della fine di una storia sono il fatto che la presenza del partner da motivo di gioia e dunque ricercata diventi motivo di fastidio e dunque evitata inizialmente nel desiderio e successivamente nei fatti; la riduzione della comunicazione e l’ampliarsi di aree di non condivisione; la mancanza di una progettualità futura e l’estinzione progressiva della vita sessuale; il coinvolgimento in storie affettive con altri partner che può diventare il motivo scatenante della rottura ma è a sua volta la conseguenza della fine della storia stessa.

L’emozione prevalente che accompagna la fine di un amore è la tristezza da considerare assolutamente normale. A questa tristezza per la perdita dell’altro e del progetto condiviso si può aggiungere un’ulteriore tristezza a carattere autosvalutativo per non essere stati all’altezza del compito che ci si era prefissi e si può pensare di non valere solo perché l’altro non ci vuole più. In questo modo ci si carica di tutta la colpa per la fine della storia. Al contrario per evitare questo vissuto molto penoso si può ritenere l’altro completamente responsabile trasformando la tristezza in rabbia nei suoi confronti e iniziando comportamenti violenti di stalking fino all’uccisione del partner, drammaticamente attuali.

Una posizione più equilibrata si fonda sulla consapevolezza che l’esito di una relazione dipende da entrambi, quali che siano i comportamenti finali che hanno suscitato la rottura definitiva, e anche del fatto che non essere più il partner scelto in questa fase di vita dall’altro, seppure motivo di dispiacere, non indica un proprio scarso valore, evitando così la depressione. I neuroscienziati hanno spiegato come esperienze di sana tristezza da perdita possano scivolare in soggetti con un particolare assetto recettoriale (ipersensibilità dei recettori serotoninergici presinaptici inibitori) in un circolo vizioso automantenentesi di depressione vera e propria, è dunque importante elaborare la tristezza per non esserne sopraffatti.

Si può essere insoddisfatti e tristi per due diversi ordini di motivi. Il primo riguarda il gap tra lo stato reale delle cose e lo stato desiderato ovvero quanto siamo lontani dal raggiungimento dei nostri scopi e se essi sono o meno perduti per sempre. Il secondo riguarda quanto il soggetto stesso è lontano dal suo ideale del sé. In questo caso si è insoddisfatti per come non si è stati in grado di modificare favorevolmente l’andamento delle cose. La prima è una insoddisfazione sull’oggetto che ne attiva una più profonda sul soggetto stesso che genera ulteriori effetti secondari di mantenimento come la rinuncia e il disimpegno. Non solo ho fallito ma “sono un fallito”. Nel fare bilanci, incredibilmente non teniamo conto del fatto che il tempo passa e sia noi che il nostro partner siamo cambiati e per giudicare della bontà o meno di una scelta bisogna riassumere la prospettiva di quando la si è fatta e non valutarne la correttezza dagli esiti cadendo nel cosiddetto “bias del senno di poi” di cui si sa essere piene le fosse.

Molto probabilmente rimessi nella stessa situazione, con l’assetto motivazionale e i dati a disposizione in quel momento, rifaremmo esattamente la stessa scelta. L’errore che comporta una inutile autocritica deriva dalla fallace impressione di essere sempre stati come siamo ora e la certezza che saremo sempre così. Non vediamo i cambiamenti avvenuti e non ce ne aspettiamo di futuri. Addirittura, quando cambiamo idea non ci ricordiamo davvero come la pensavamo in passato, ricordiamo i fatti magari ma non i nostri giudizi su essi. Ci sembra di averla sempre pensata allo stesso modo anche quando ciò è contraddetto da specifici ricordi e testimonianze (Kanheman, 2011; Taleb, 2007). Dobbiamo invece immaginare i vari periodi di vita come blocchi transitori di coerenza. Un procedere dell’esistenza attraverso crisi di cambiamento, una sorta di rivoluzioni kuhniane e lunghi periodi di stabilità (Kuhn, 1962).

Se è vero che si nasce rivoluzionari, si diventa riformisti e si muore conservatori, l’aspetto più interessante è che si è convinti di essere sempre stati identici a se stessi. Rispetto a questa cecità al cambiamento che ci porta a credere che le cose saranno sempre come ora, il che certamente è sgradevole in momenti neri e costituisce proprio “l’errore del suicida”, credo sia utile frugare nella storia della coppia alla ricerca di periodi diversi e ricostruire come era la vita, le emozioni e le attività anche con l’ausilio di foto, interviste a testimoni, film o musiche d’epoca. Abbiamo visto come l’insoddisfazione dipenda dal confronto tra uno stato reale e uno stato desiderato.

In effetti come i recettori sensoriali anche nella valutazione degli stati (a esempio, ricchezza o felicità) siamo molto sensibili alle variazioni e ai confronti, insomma non stati di ricchezza, ma guadagni e/o perdite. Per questo l’esito dipenderà molto dalla baseline scelta come riferimento che sia esterna o un altro periodo della propria vita. Se confronto la relazione con il mio partner con il momento iniziale dell’innamoramento, il mio stato di salute con la prestanza dei diciott’anni o il mio reddito con quello di un top manager, sono evidentemente alla ricerca di secchiate di insoddisfazione. È sperimentalmente dimostrato che gli esseri umani hanno una naturale avversione alle perdite sperimentate come minacce e anche che ciò sia un meccanismo salvavita evolutivamente vantaggioso sebbene possa non migliorare l’umore (Kahneman 2011).

Nel modello biopsicologico prevale la negatività e la fuga su positività e approccio. Il negativo vince sul positivo. Un solo scarafaggio rende disgustoso un intero piatto di ciliegie ma una ciliegia non rende gradevole un cesto di scarafaggi. Ancora, un solo cattivo gesto rovina una amicizia ma non viceversa. In natura e anche in molti sport sono in vantaggio i difensori sugli attaccanti.

Il tempo classico dell’insoddisfazione e della fine della maggior parte delle storie affettive è quello della tarda maturità quando si iniziano a fare i bilanci della propria esistenza nei vari campi in cui la si è spesa. Nel farli siamo vittime di un bias interessantissimo che Kanheman descrive con decine di affascinanti esperimenti definendolo “il valore edonico di un esperienza”. Quanto ne godiamo e/o quanto ne soffriamo risulta molto diverso se viene valutato in diretta, da quello che chiama il Sé esperienziale, o nel ricordo da quello che chiama il Sé mnemonico. Quest’ultimo che è quello attivo quando facciamo i bilanci o quando decidiamo se ripetere o meno una certa esperienza commette una serie di errori grossolani. Il primo è che conta molto più della media ponderata, che sarebbe il calcolo corretto (l’area logaritmica sotto la curva tempo/ piacere o dolore), l’intensità di picco e quella finale.

Il secondo gravissimo errore è la assoluta disattenzione per la durata. Così si può giudicare negativa un’esperienza affettiva o lavorativa di grande soddisfazione per trent’anni perché ha avuto un momento acuto di crisi oppure è finita male, mentre si giudica migliore una esperienza di pochi mesi senza infamia né lode ma conclusasi bene. Kanheman sottolinea la differenza tra Sé esperienziale che vive in diretta e il Sé mnemonico che valuta le esperienze secondo il bias “picco-fine” e la cecità per la durata, portando a confondere l’esperienza con il ricordo di essa. Quando dunque vogliamo valutare una storia affettiva non dobbiamo soffermarci soltanto sul periodo conclusivo certamente difficile e doloroso, ma ampliare il campo e tener conto dei periodi positivi, delle gioie, dei risultati ottenuti.

Sarebbe utile poter scrivere una lettera al partner in cui lo si ringrazia di tutte le cose buone che ci ha dato oppure scrivere una lettera congiunta in cui si elenchino tutti i successi e le gioie passate. Un piccolo accorgimento del genere renderebbe forse meno lacerante la chiusura e sarebbe controcorrente rispetto a tutte le spinte provenienti, spesso, dalle famiglie d’origine e, sempre, dagli avvocati che guadagnano dalla conflittualità, miranti a rinfocolare il conflitto per motivi di interesse o, come si dice “di principio”.

Un altro errore in cui siamo sistematicamente indotti quando pensiamo ad una relazione con un’altra persona (non soltanto il partner, ma fratelli, parenti, amici e colleghi) è di aver dato di più di quanto si è ricevuto (se sarete costretti a sbarcare il lunario leggendo la mano esordite sempre con l’affermazione “vedo che lei ha dato più di quanto ha ricevuto” e avrete il successo assicurato). Questo errore dipende di nuovo dal fatto che quello che diamo essendo una perdita ha una rilevanza emotiva esattamente doppia di quello che riceviamo, un guadagno. Per lo stesso motivo chi vende qualcosa ha l’impressione di ricevere troppo poco e chi compra di pagare troppo.

Inoltre, quando facciamo bilanci che ci generano insoddisfazioni abbiamo l’impressione che ci manchi qualcosa per essere felici. Kanheman chiama “miswanting” questo credere che certe cose ci renderanno felici (un partner, una casa, una macchina, un lavoro, un figlio) mentre al massimo lo fanno nella fase iniziale, poi diventano normali e non contano più (disattenzione per il tempo). Rispetto a questo bias sarà importante ridimensionare l’aspettativa di felicità rispetto ad un oggetto esterno e quindi la sofferenza per non averlo e lo si può fare ricordando periodi della propria vita in cui la cosa c’era ma non la felicità e osservando se davvero coloro che la possiedono sono felici.

Stando attenti ai bias elencati precedentemente è utile, per chiudere bene una storia, ricercare e ricordare, nonché valorizzare tutto quanto di buono c’è stato ed ha prodotto. È un errore, infatti, ritenere che per chiudere una esperienza occorra valutarla completamente negativa, tra l’altro così facendo si finisce per giudicare negativamente anche se stessi per il tempo e le risorse che ci si sono investite. Allo stesso modo è più facile risolvere il lutto di una persona con cui si aveva un buon rapporto, che di una persona con cui si aveva una cattiva relazione.

 

The Social Dilemma: terrorismo mediatico o pericolosa realtà?

‘Nulla che sia grande entra nella vita dei mortali senza una maledizione’. Inizia con questa citazione del drammaturgo greco Sofocle il documentario dal titolo The Social Dilemma, diretto dal regista Jeff Orlowski e trasmesso su Netflix.

 

The Social Dilemma ci mostra la vita di Ben – l’attore Skyler Gisondo – che vive una dipendenza da Social Network: costretto dalla madre a non utilizzare il telefono cellulare per una settimana, entra in uno stato di profonda crisi trascorsi appena due giorni.

I sintomi correlati ad una dipendenza da Internet riguardano: la tolleranza, ossia l’assuefazione, legata alla necessità di stare sempre più connessi per raggiungere uno stato di temporaneo appagamento; l’astinenza, ovvero la sensazione di intenso disagio psicofisico quando non ci si collega al web per un certo periodo di tempo; il craving, caratterizzato dall’aumento di pensieri fissi e da forti impulsi inerenti il come e quando connettersi. Il protagonista sembra sperimentare ognuno dei sintomi legati ad una condizione di vera e propria dipendenza. Il documentario ci mostra, parallelamente, le vicende di un ipotetico team di esperti che manipola un Avatar corrispondente all’utente: in questo modo, Ben viene continuamente sottoposto a stimoli a cui non riesce a sottrarsi, informazioni personalizzate allo scopo di colpire la sua emotività e di catturare la sua attenzione. Immagini inquietanti se pensiamo a quanto si cela dietro ognuno dei nostri profili social.

The Social Dilemma mostra inoltre numerose interviste, domande poste ad alcuni tra i più noti dipendenti di Google, Facebook, Instagram, Twitter, Pinterest ed altre famose piattaforme, impiegati della Silicon Valley. I professionisti intervistati, tra cui l’inventore del tasto ‘like’ di Facebook, riconoscono ad oggi le importanti implicazioni psicologiche che si celano dietro le loro scoperte, novità che in alcuni casi stanno provocando gravi conseguenze per la salute mentale dei cittadini di tutto il mondo. Molti di essi attualmente hanno addirittura deciso di licenziarsi: riconoscono di aver contribuito alla nascita di strumenti, sicuramente utili e meravigliosi, ma non senza gravi rischi per l’equilibrio psichico dell’essere umano.

Durante la scorsa decade l’avvento dei Social Network ha causato profondi mutamenti nel modo in cui le persone comunicano ed interagiscono tra loro. Non è ancora perfettamente chiaro se e come alcuni di questi cambiamenti possono influenzare determinati aspetti del comportamento umano e causare disturbi psichiatrici o psicologici specifici. Studi scientifici hanno indicato come l’utilizzo prolungato dei ‘Siti di Social Networking’ (SNS) – come Facebook o Instagram – potrebbero essere collegati in maniera diretta con alcuni sintomi della depressione. Inoltre, alcuni autori indicano che determinate attività compiute all’interno dei SNS potrebbero essere correlate con una bassa autostima, specialmente in bambini e adolescenti; altri studi, invece, presentano risultati opposti: i Social Network potrebbero anche avere un impatto positivo sulla stima di sé. La relazione tra l’uso dei SNS ed il disagio mentale ad oggi rimane dunque un aspetto controverso (Pantic, 2014).

Ma come mai i Social Network, con il passare del tempo, sono diventati così importanti per noi? Numerosi studi scientifici hanno indagato le motivazioni psicologiche che spingono ad utilizzarli in maniera massiccia, in differenti stadi della vita quali l’adolescenza, l’età adulta e l’anzianità. I cambiamenti sociali, infatti, hanno in generale un’importante influenza rispetto alla salute individuale di ognuno di noi e, in particolare, l’avvento dei Social Media può essere considerato significativo rispetto al benessere psicologico in ciascuno dei diversi stadi della vita. Nello specifico, è stato scientificamente riscontrato come per gli adolescenti l’aspetto di maggior impatto nell’uso dei social riguarda l’isolamento sociale, seguito dalla percezione di essere connessi agli altri e dalla fiducia interpersonale. Per gli adulti, così come nella vecchiaia, tra questi tre differenti fattori implicati nell’utilizzo dei Social resta comunque l’emarginazione ad avere maggiore importanza (Levula et al., 2016). L’isolamento sociale gioca dunque il ruolo più significativo in tutte le fasi della vita nell’uso dei Social Network: tale scoperta dovrebbe avere importanti implicazioni pratiche, soprattutto nella progettazione di interventi sulla salute mentale dei giovani e dei meno giovani. Ma come mai la percezione di essere emarginati è così temuta, in ognuna delle fasi della vita? Il timore di essere esclusi, tagliati fuori, di non vivere la vita a pieno così come fanno gli altri, in inglese denominato Fear of Missing Out, è una delle maggiori cause che si celano dietro un utilizzo disfunzionale dei Social Network: chi sperimenta la Fomo è infatti spinto a partecipare in maniera attiva e costante alla vita sociale altrui, attraverso l’accesso continuo ai canali Social.

Un recente studio ha indagato la correlazione tra i tratti personologici, le variabili implicate nella salute mentale e l’utilizzo dei Social Media, in alcuni giovani studenti (Brailovskaia et al., 2018). I risultati indicano una importante associazione tra l’uso generico di Internet e l’accesso ai Social Network ed importanti fattori psicologici quali: l’autostima, l’estroversione, il narcisismo, la soddisfazione in merito alla propria vita, il supporto sociale e la resilienza. Lo studio ipotizza che l’utilizzo di piattaforme Internet incentrate maggiormente sull’interazione di tipo scritto, come Twitter, possa essere associato negativamente a variabili implicate nella salute mentale, in quanto legate a sintomi quali depressione, ansia e stress. Al contrario, l’uso di Social Network come Instagram, che si concentra maggiormente sulla condivisione di foto e immagini, sarebbe collegato a variabili positive come l’autostima. Tale ipotesi rimane ancora un aspetto controverso. Studi recenti dimostrano come in America sintomi quali depressione e ansia sono aumentati in maniera esponenziale tra il 2011 e il 2013: il numero dei ricoveri in ospedale per disagi di tipo psicologico è salito del 62% nei giovani adulti e del 189% nei pre-adolescenti. Aumentati inoltre i gesti autolesivi e il numero dei suicidi tra i più giovani proprio dal 2009, anno dell’avvento dei Social Network; nello specifico, il tasso di suicidio è aumentato del 70% tra 15 e 19 anni e del 151% tra i 10 e i 14. Dati spaventosi per quella che viene definita la ‘generazione Z’, che approda sui Social Network già a partire dalle scuole medie: un’intera fascia di età più ansiosa e depressa.

Fenomeno recentissimo quello di Jonathan Galindo, un utente misterioso, simboleggiato da un viso mascherato, che contatta i giovani e li spinge ad uccidersi attraverso la partecipazione ad un ‘gioco’ online, in cui si è obbligati a superare step sempre più difficili, fino a togliersi la vita. Tra i più giovani in aumento anche gli interventi di chirurgia plastica, allo scopo di assomigliare ai filtri utilizzati nei Social Network, al punto da ipotizzare una ‘dismorfia da Snapchat’: il dismorfismo corporeo è una condizione psicologica in cui ci si fissa su una caratteristica o su più caratteristiche del proprio aspetto esteriore, notando imperfezioni o difetti che per altre persone appaiono minimi o inesistenti; tale disagio è legato ad una continua ricerca di approvazione sociale, per avvicinarsi ad una utopica idea di perfezione. I Social Network quindi cambiano il comportamento, manipolano in maniera subdola la psiche attraverso l’inconscio di chi li utilizza, agendo su pilastri dell’identità e della autostima.

Un’altra importante riflessione che The Social Dilemma ci invita a fare riguarda l’ascolto di notizie provenienti dal web: usare Internet in maniera disfunzionale significa anche non sottoporre ad un vaglio critico la continua sovrapproduzione di informazioni con cui veniamo a contatto, con forti implicazioni a livello etico e sociale. Le quotidiane fake news, infatti, hanno negli ultimi anni contribuito ad una cultura della disinformazione, con cambiamenti nelle ideologie di milioni di persone spesso basati su dati non scientifici e provenienti da fonti non attendibili.

Il documentario spinge ad una doverosa riflessione sui Social Media e su come questi manipolano la mente dei cittadini per trarre profitto economico. Essere continuamente monitorati da software che sono programmati da esperti di psicologia umana, essere esposti a professionisti che sembrano conoscere ogni aspetto della nostra personalità, è questa la sensazione che traspare dopo aver visto il documentario Netflix, in cui risuona lo slogan: ‘Il prodotto sei tu’. Un esempio altamente significativo riguarda il tempo di attesa per ricevere una risposta su Facebook – latenza in cui appaiono nello schermo tre puntini di sospensione – che coincide con l’essere bersagli di pubblicità mirate ad ottenere la maggiore attenzione possibile da parte dell’utente che è in attesa e, di conseguenza, molto attento. Le tecniche utilizzate dai professionisti che programmano i Social Network si basano sui principi delle neuroscienze: ogni informazione prodotta viene tracciata e di seguito utilizzata per spostare l’attenzione di quel determinato utente in direzioni scelte dall’esperto, con lo scopo di modificare le sue opinioni, introdurre nuove teorie… controllare la sua mente. ‘Pensi di essere libero e di poter trovare qualsiasi informazione, in realtà stai perdendo la tua libertà’: navigando sul web assistiamo dunque inermi ad un graduale e subdolo cambiamento interiore, rispetto alla nostra identità, ai nostri pensieri e alle nostre emozioni. Sembra venir meno il concetto di libero arbitrio! I programmatori utilizzano il principio psicologico del ‘rinforzo positivo intermittente’: come nel gioco delle slot machines, si innesta nella mente dell’utente una abitudine – inconscia – che lo spinge a continuare determinate attività. Il modello è quello dell’apprendimento automatico, basato su specifici algoritmi, che permettono alle aziende di proporre pubblicità strettamente collegate agli interessi dell’utente, riconosciuti tramite l’analisi delle ricerche effettuate da lui stesso e a cui non ci si può sottrarre, come in una trappola. Dal documentario traspare come attraverso l’illusione di poter conoscere qualsiasi informazione semplicemente chiedendola a Google, in una condizione di apparente libertà totale di scelta, non abbiamo affatto la possibilità di cogliere la vera realtà che ci circonda, ma soltanto ciò che vogliono farci sapere.

The Social Dilemma rappresenta lo specchio di una pericolosa realtà oppure trasmette dei messaggi esagerati allo scopo di infondere terrorismo mediatico?

A mio avviso le conseguenze dell’utilizzo dei Social Network non colpiscono tutti gli utenti allo stesso modo, ma esistono delle categorie maggiormente a rischio. Le vulnerabilità personologiche di ognuno, infatti, hanno un ruolo determinante nell’impatto che l’utilizzo dei canali Social provoca nella psiche e vanno riconosciute. Coloro che vivono stati emotivi interni legati a temi quali inadeguatezza ed insicurezza, in cui si teme l’abbandono più di ogni altra cosa, si tende a voler evitare l’esclusione, ci si sente profondamente emarginati, deboli e fragili, sono le vittime più comuni di disagio psichico provocato dai Social. ‘Usare ciò che sei contro di te’. Le vulnerabilità individuali, attraverso il continuo accesso ai SSN, vengono esposte ad un elevato rischio di sofferenza emotiva, aumentando la percezione interna di vuoto, ovvero una delle sensazioni maggiormente temute dall’essere umano, che spinge paradossalmente a connettersi di nuovo in un circolo vizioso altamente disfunzionale. Il rischio è quello di creare nei più giovani l’idea che in condizioni di isolamento sociale non esisterebbe più la loro intera identità: lontani da Internet i giovani non si percepiscono in un ruolo definito e non si identificano con null’altro ad eccezione del proprio profilo, nell’unica alternativa di vivere una vita social. ‘Stiamo addestrando e condizionando un’intera generazione a pensare che quando siamo a disagio, o ci sentiamo soli, incerti o spaventati abbiamo a disposizione un ciuccio digitale e questo sta atrofizzando la nostra capacità di affrontare le cose’, si ascolta nel documentario.

Non è la tecnologia quindi ad essere una minaccia esistenziale di per sé, ma è come essa viene utilizzata. La ricerca scientifica può fornire anche un aiuto prezioso nello studio del disagio psichico. La malattia mentale è diventata negli anni il più grave problema per la salute pubblica mondiale e i Social Network – piattaforme dove gli utenti esprimono emozioni, sensazioni e pensieri – sono una fonte inesauribile di dati per la ricerca sulla salute mentale, seppur emergono numerosi limiti: assemblare un quantitativo enorme di dati sugli utenti dei Social Media affetti da disturbi mentali è difficile, non solo a causa di pregiudizi associati ai metodi di raccolta, ma anche per quanto riguarda la gestione del consenso e la selezione di tecniche di analisi appropriate (Wongkoblap et al., 2017). La tecnologia digitale può dunque essere destinata a trasformare anche la fornitura di assistenza sanitaria. La rivoluzione digitale sta evolvendo ad un ritmo inarrestabile e, accanto all’esplosione senza precedenti della tecnologia, l’attenzione verso il benessere psicologico sta aumentando. Considerando l’impatto della comunicazione digitale nelle interazioni umane e, di conseguenza, l’influenza di essa negli stati mentali, come l’umore e il benessere, si può trasformare il modo di aiutare le persone affette da disagio psichico attraverso la tecnologia (Bucci et al., 2019); ciò si vede già negli interventi psicoterapeutici ormai sperimentati anche attraverso modalità online e quindi accessibili potenzialmente a moltissime persone. Un nuovo modo di utilizzare il progresso tecnologico per fini benefici.

Esistono dunque modi per contrastare i rischi che emergono dal documentario The Social Dilemma. Sarebbe fondamentale promuovere una educazione sociale all’interno delle scuole, nell’ottica di prevenzione: formare i cittadini più giovani sui potenziali rischi psicologici derivati dall’abuso di Internet, renderli capaci di uno sguardo critico nell’utilizzo degli importantissimi strumenti che il web ci fornisce. Comprendere in maniera precoce quando può nascere una dipendenza, percependo il bisogno di trascorrere sempre più tempo online, rinunciando alla vita reale per restare connessi o perdendo relazioni importanti per la necessità di stare al telefono: nei casi in cui ciò dovesse verificarsi, è fondamentale poter stabilire un tempo preciso per restare connessi, riabituarsi a stare senza tecnologia per qualche ora e prendere contatto con sensazioni reali e piacevoli. Fine ultimo, usare i Social Network in modo produttivo e costruttivo, per trarne i benefici ormai divenuti imprescindibili nella nostra quotidianità, ma lontani dai potenziali rischi per il benessere e l’equilibrio mentale dei cittadini.

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