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Un caso di Stalking condominiale. Una sentenza che fa giurispridenza.

Lo stalking, nella sua più comune accezione di atto persecutorio verso l’ex o un personaggio famoso, è entrato ormai a far parte delle conoscenze delle persone, lo stalking condominiale non ha ancora assunto lineamenti giuridici e psicologici ben precisi e dunque rimane ancora “terreno sconosciuto” per i più.

 

Con il termine stalking si intende l’insieme dei comportamenti molesti e persecutori posto in essere da un soggetto verso la sua vittima.

Nel caso specifico dello stalking condominiale, la vittima è un vicino di casa, estendendo, di fatto l’applicabilità dell’art. 612-bis c.p. al contesto condominiale.

Ronco Scrivia, 2015. L’incubo di una coppia di coniugi (e del loro bambino) inizia nel 2012: Stefano e Marina vivono nel loro appartamento di proprietà, al secondo piano. Al terzo piano vivono madre e figlio, gli stalker.

Come spesso succede, la miccia che scatena il tutto è abbastanza banale, motivo che, se non risolto, attiva un’escalation di reazioni emotive accompagnate da comportamenti intrisi d’odio messi in atto con il preciso e premeditato scopo di impaurire, intimidire, terrorizzare qualcuno.

“Dovete stare in casa“, “prima o poi me la pagherete“, “a pagare sarà tuo figlio“ e poi..rumori molesti sia in ore diurne che notturne, chiamate al 112 per denunciare falsi abusi nei confronti del figlioletto, chiamate ai veterinari della Asl per denunciare falsi maltrattamenti verso animali, spazzatura buttata davanti alla porta di ingresso, continue ed insistenti osservazioni, questi l’insieme delle azioni messe in atto per turbare la giovane coppia, atti che hanno concorso al sorgere di un perdurante e grave stato d’ansia o di paura da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di una persona legata da relazione affettiva da costringere la vittima ad alterare le proprie abitudini di vita (art. 612-bis c.p.). (Bastianello,2012)

Esattamente quello che si è verificato nel caso di Ronco Scrivia. Dopo anni di vessazioni, insulti, minacce, sguardi ossessivi e osservazioni costanti, le vittime sono state costrette a vivere nel seminterrato, a limitare la loro libertà, a non frequentare gli amici di sempre.

Nell’aprile del 2015, il Tribunale di Genova, con una sentenza storica, condanna gli stalker a 4 mesi di reclusione oltre al risarcimento del danno.

Come si può ben comprendere dal fatto appena citato, lo stalking condominiale assume precise connotazioni:

  • Gli atti persecutori sono rivolti specificatamente ad un vicino di casa;
  • L’inizio delle ossessioni da parte del carnefice avviene per motivi futili;
  • Si assiste ad una escalation di comportamenti distruttivi verso una vittima;
  • La vittima subisce passivamente le angherie del suo stalker generando, inevitabilmente, forte ansia e/o paura.
  • La “resa die conti“ avviene, nel migliore dei casi, in Tribunale o, nella peggiore delle ipotesi, con violenza aggravata verso la vittima.

Curci e coll. (2003) utilizzano l’espressione “sindrome delle molestie assillanti” per descrivere il fenomeno e classificano le condotte indesiderate in tre tipologie: comunicazioni indesiderate, contatti indesiderati e comportamenti associati. Le comunicazioni indesiderate di solito sono rivolte direttamente alla vittima di stalking e possono consistere in lettere e telefonate ma anche scritti non necessariamente inviati in modo diretto alla vittima, oppure sms ed e-mail. I contatti indesiderati comprendono i comportamenti dello stalker diretti ad avvicinare in qualche modo la vittima come i pedinamenti, il presentarsi alla porta dell’abitazione o gli appostamenti sotto casa, recarsi negli stessi luoghi frequentati dalla vittima o svolgere le stesse attività. Tra i comportamenti associati si collocano, per esempio, il far recapitare cibo o altri oggetti all’indirizzo della vittima anche a tarda notte, oppure la cancellazione di servizi quali l’elettricità o la carta di credito all’insaputa della vittima con lo scopo di intimidirla.

Seguendo il modello stimolo-risposta, (Skinner, 1938) baluardo del Comportamentismo, con molta probabilità, lo stalker, nel vedere reazioni di fastidio, di paura, di ansia, l’alterazione delle normali abitudini di vita della vittima, prova piacere e soddisfazione aumentando e prolungando, di conseguenze, le azioni moleste venendo così ad instaurarsi un ciclo di rinforzi positivi che contribuiscono ad aumentarne il comportamento problema. Con l’assenza di una risposta attesa (da parte della vittima) ed eliminando di conseguenza l’elemento rinforzante, si potrebbe assistere ad una diminuizione del comportamento molesto posto in essere dallo stalker.

Lo stalking condominiale, così come altre forme di stalking, si alimenta delle paure e della ansie altrui e solo l’eliminazione di quest’ultime può fungere da deterrente per dissuadere un individuo dal commettere atti penalmente perseguibili.

 

Sindrome Licantropica

La storia della licantropia sembra essere antica quanto l’uomo, a partire dai riti sciamanici della preistoria se ne trovano tracce praticamente in tutte le culture e nelle sfumature più variegate. Gli uomini-lupo esistono davvero o è solo leggenda? Può aiutarci la moderna scienza medica a darci una spiegazione?

 

Negli anni ’80 Micheal J Fox, noto attore statunitense, interpreta Scott (Marty nella versione italiana) un lupo mannaro che ballando sul tetto del proprio furgone mentre canta Surfing USA dei Beach Boys sfreccia in pieno giorno nella tranquilla cittadina americana di Jacksonville creando non poco stupor tra gli abitanti (Rod, 1985).

Teen Wolf (tradotto in italiano in Voglia di Vincere) era il nome del film grazie al quale noi, nati in quegli anni, siamo entrati in contatto con la licantropia: il film fu un successo strepitoso perdurato nel tempo tanto che oggi, a distanza di oltre trent’anni, se ne ripropone un serial, dal contenuto decisamente più dark, che ne porta il medesimo nome (Davia, 2011).

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Immagine 1 – Locandina del film “Teen wolf”

In realtà la storia della licantropia sembra essere antica quanto l’uomo, a partire dai riti sciamanici della preistoria se ne trovano tracce praticamente in tutte le culture e nelle sfumature più variegate. La letteratura di tutti i tempi ha usato l’immagine dell’uomo-lupo nelle salse più diverse, certo il fine è sempre stato il medesimo: unire l’uomo a qualcosa di magico, di misterioso, spesso di indomabile (Petoia, 1898).

Ma tornando con i piedi per terra, gli uomini-lupo esistono davvero? c’è qualcosa di vero o è solo leggenda se non fantascienza? Può aiutarci la moderna scienza medica a darci una spiegazione?

Sembrerebbe tutto possibile!

Il fatto è che l’eziologia del fenomeno uomo-lupo varia molto.

Da una parte fa riferimento ad una ben definita sindrome genetica, nota come ipertricosi, che giustificherebbe  la folta peluria di intere famiglie, dall’altra si pone l’accento più sugli aspetti comportamentali, talvolta gravemente psicopatologici, connotando una vera e propria malattia psichiatrica.

Vediamone maggiormente i dettagli.

Dalla parte degli innatisti, l’ipetricosi congenita generalizzata rappresenta una rara malattia caratterizzata da un’anormale presenza dei capelli su tutto il corpo, viso compreso, che può manifestarsi fin dalla nascita oppure insorgere nel corso della vita. La sindrome è conosciuta dalla letteratura medica come malattia di Abramas con riferimento alla descrizione che ne fece il naturalista italiano Ulisse Aldrovani nel 1648 quando la descrisse per la prima volta nella figura di Petrus Gonzales, uomo nobile che si trasferì in Francia dalle isole Canarie. Alla corte di Enrico II sposò la bella Catherina De’ Medici dalla quale ebbe sei figli, quattro affetti da ipertricosi.

La notorietà del caso si deve a Ferdinando II d’Austria che nel XVI secolo fece ritrarre tutti i componenti della famiglia di Abramas considerati bizzarrie naturalistiche. Le copie furono rinvenute presso la Camera dell’arte e delle curiosità nell’omonimo castello vicino ad Innsbruck. Fatto sta che la particolarità della storia sembrerebbe aver ispirato la fiaba de La Bella e la Bestia.

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Immagine 2 – Animalia Rationalia et Insecta (Ignis) – Plate I, from the Elementa Depicta, picturing Petrus Gonsalvus.

Ad oggi questa malattia è considerata rara, poco più di un centinaio di casi in tutto il mondo, e trova probabili spiegazioni in inserzioni cromosomiche a carico del cromosoma X (Pavone, 2015).

Dall’altra parte, la cosidetta licantropia clinica, una rara forma di grave psicopatologia che conduce al delirio di trasformazione somatica ovvero alla folle credenza dei pazienti di potersi trasformare in animale. Negli stadi più avanzati della malattia i pazienti, che imitano principalmente il comportamento gli animali in cui si sono immedesimati, sentono come reale la necessità di bere sangue se non addirittura di cibarsi di carne cruda. La sindrome fa capo alle teriantropie, psicopatie che trasformano l’essere umano facendolo comportare come un animale, di cui uno dei più gettonati è proprio il lupo (Chen, 2015).

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Immagine 3 – Un licantropo su un’incisione del XVIII secolo – Collezione Mansell, Londra

La letteratura ricorda numerosi assassini psicopatici che oltre a dilaniare il corpo delle proprie vittime con i denti, ne hanno addirittura mangiato gli organi come il cuore, tra questi Peter Stubbe è stato uno dei più noti.

Vissuto presso la cittadina tedesca di Bedburg, vicino Colonia in Germania nel XVI secolo, è stato uno dei primi serial-killer conosciuti nella storia. A lui sono stati attribuiti numerosi omicidi di donne e bambini di cui poi si cibava. Raccontava di aver ricevuto dal diavolo una cintura magica che gli permetteva di trasformarsi in lupo quando la indossava. Catturato fu poi torturato e condannato a morte tramite il supplizio della ruota. Stessa sorte per la moglie e la figlia che, considerate complici, furono arse vive (Blom, 2014).

Esposta la posizione della scienza racconterò di un caso di uomo-lupo del quale ho avuto esperienza diretta, tuttavia per questioni di privacy lo chiamerò Signor B, con riferimento al soprannome che gli amici del bar del paese gli avevano attribuito.

Questi, deceduto pochi anni fa, è vissuto in provincia di Pisa svolgendo l’attività prima di muratore e poi di imprenditore edile, ma la sua fama è giunta all’attenzione dei più per i suoi trascorsi giovanili in cui si narra girovagasse fino a tarda notte nei paesi del comune ululando alla luna e creando non poco scompiglio tra gli abitanti intimoriti dal pensiero che feroci lupi affamati potessero esser scesi giù dai monti pisani in cerca di cibo.

Gli episodi perdurarono per qualche tempo fino a quando venne scoperta l’identità del presunto lupo.

Il Signor B rimarrà negli anni a seguire un personaggio decisamente eccentrico con tratti istrionici-scaramantici che lo caratterizzeranno per tutta la vita, entrerà nel mondo del lavoro ad un’età piuttosto avanzata accompagnandosi ad una signora straniera dalla quale non avrà figli pur mantenendo per tutta la vita un buon adattamento psico-sociale.

Un’analisi globale della fenomenologia licantropica suggerisce dunque una genesi quanto mai varia che spazia dalla genetica alla malattia mentale in un continuum che va da forme attribuibili a disturbi della personalità fino alla psicosi maniaco-depressiva.

Un’ultima riflessione, doverosa, va al rapporto dell’uomo con la figura dell’animale lupo, ritenuto da sempre da una parte animale degno di venerazione, magico, con una grande capacità di lavorare in branco e di proteggere il gruppo, dall’altra appartenente ad una simbologia legata all’oscurità, alla ferocia e alla paura.

L’uomo ha cercato da sempre un compromesso tra questi due aspetti della natura magica ed animale del lupo e probabilmente li ha trovati nel parziale accudimento e naturalizzazione di questi animali. I cani-lupo rappresentano una sorta di compromesso, di dialogo tra le nostre pulsioni più profonde, talvolta feroci e violente, e la convivenza sociale, razionale, tipica della nostra società, un po’ come dire che, pur avendone conoscenza, alla fin fine riusciamo a domare ovvero a tenere al guinzaglio i nostri aspetti più irrazionali ed istintuali.

Chissà.. sarà questa la soluzione?

 

Adolescenti in crisi (2018) – Recensione del libro

Adolescenti in crisi fornisce una chiave di lettura psicoanalitica e accompagna il lettore verso una comprensione profonda di comportamenti disfunzionali adolescenziali che sottendono aspetti emotivi e psicologici.

 

Quando un bruco sta per diventare farfalla attraversa un periodo molto brutto

il volume Adolescenti in crisi si apre con questa frase che più di tutte descrive il delicato periodo dell’adolescenza. Il libro racchiude il pensiero di diversi autori internazionali di stampo psicoanalitico e entra a far parte di una collana dedicata ai genitori, diretta da Emanuela Quagliata.

Chi di noi almeno una volta durante la propria adolescenza non ha dovuto affrontare problemi con i coetanei, con il proprio aspetto che mutava, con la famiglia o con la scuola? E poi da genitori essere spettatori dei cambiamenti dei propri figli?

L’adolescenza è quel filo sottilissimo teso tra il senso di accudimento infantile provato fino a quel momento da una parte e la ricerca della propria autonomia e della propria identità dall’altra. La matassa poi è costituita da diversi fili: quello del sé, del proprio aspetto, della famiglia e dell’appartenenza al gruppo dei pari con le prime relazioni amorose. Quando e come i fili si intrecciano tra loro sancisce il modo in cui si attraversa il periodo adolescenziale, a ciò si aggiunge il vagone emotivo di questo periodo della vita che come un treno travolge chi lo sta affrontando. Ecco quindi che quando parliamo di adolescenza non possiamo esimerci dal pensare a momenti caratterizzati da disequilibrio emotivo.

Il volume fornisce una chiave di lettura psicoanalitica e accompagna il lettore verso una comprensione profonda di comportamenti disfunzionali che sottendono aspetti emotivi e psicologici. Un libro quindi scritto per comprendere l’intreccio dei nodi creato da questa fase della vita che, come dice il titolo, può essere attraversato da profonde crisi.

I capitoli presenti si possono organizzare in 3 grandi aree tematiche: il senso del Sè in adolescenza tra cambiamenti e nuove necessità di identità; considerazioni circa i comportamenti disfunzionali che possono innescarsi nei ragazzi adolescenti (agiti antisociali, suicidari e problematiche alimentari) e infine il grande tema della terapia familiare.

Il linguaggio è quello proprio della psicologia dinamica, in alcuni punti complesso con una forte connotazione clinica (il glossario in coda al volume aiuta a comprendere maggiormente alcuni termini). Sono presenti richiami ad autori della storia psicologica che rendono i concetti maggiormente esplicativi ma al tempo stesso richiedono alla base conoscenza della materia.

Il lettore è guidato nei capitoli attraverso domande che inducono alla riflessione, la scelta stilistica di narrazione rende la lettura scorrevole e introduce piacevolmente l’argomento del capitolo. I capitoli prevedono al loro interno la narrazione di alcuni casi esemplificativi che dal punto di vista narrativo permettono un cambio di registro, più colloquiale mentre dal punto di vista clinico traducono in storie di vita reali i costrutti teorici presentati.

Alcuni capitoli in particolare, come quello dedicato all’autolesionismo o quello riguardante il lavoro con i genitori, forniscono una spiegazione della metodologia d’approccio, evidenziando i punti principali da considerare per il terapeuta che affronta queste situazioni. Capitoli quindi che si configurano come maggiormente manualistici rispetto agli altri presenti nel volume ma che rappresentano una sintesi chiara delle possibili indicazioni tecniche.

Concludendo, Adolescenti in crisi appare un testo che, nella sua definizione iniziale, si presenta come dedicato ai genitori ma che al suo interno trova ampio spazio per riflessioni professionali, configurandosi in alcuni punti come libro di settore con un chiaro indirizzo terapeutico.

Consigliato quindi ai professionisti che lavorano con gli adolescenti o che vogliono approcciarsi a una metodologia d’intervento psicoanalitica e a quei genitori che vogliono cimentarsi con un lessico specifico per comprendere le situazioni di crisi che potrebbero affrontare i loro figli.

 

Cosa fanno le persone prima di andare a dormire? Caratteristiche e implicazioni della procrastinazione del sonno

Il mantenimento di abitudini di sonno desiderabili è una delle chiavi per una vita sana, pertanto studi recenti hanno iniziato ad indagare sugli effetti della procrastinazione del sonno (in inglese Bedtime Procrastination, BP).

 

Con la dicitura “BP” (procrastinazione del sonno) si intende quel fenomeno per cui ci si va a coricare più tardi del previsto, senza che esistano ragioni esterne per farlo. Alcune ricerche sull’argomento hanno dimostrato che la procrastinazione del sonno è abbastanza diffusa nella società moderna: fino al 53,1% dei campioni di giovani adulti è coinvolto in questo fenomeno (Kroese et al., 2016). Secondo la letteratura esistente, gli individui che svolgono frequentemente la procrastinazione del sonno hanno maggiori probabilità di sperimentare sonno e stanchezza durante il giorno, ed hanno meno probabilità di essere soddisfatti del proprio sonno rispetto a coloro che non procrastinano (Kroese et al., 2014, Kroese et al., 2016). Questi risultati suggeriscono che il suddetto fenomeno può peggiorare la qualità del sonno e quindi della vita.

Generalmente la procrastinazione è associata a variabili correlate al tempo, infatti, chi posticipa azioni o compiti, sceglie di vivere concentrandosi sul momento presente (Ferrari et al., 2007), tende ad errare nella stima del tempo richiesto per svolgere compiti, e generalmente ha difficoltà nel gestire il tempo (Aitken et al., 1982; Lay, 1990; McCown et al., 1987). Ad ogni modo, si può incappare nella procrastinazione del sonno per differenti motivi, tra i quali mancanza di auto-controllo e avversione alla routine pre-sonno, argomenti finora più studiati. La metodologia di ricerca sull’impiego del tempo (ing. Time use surveys) è utilizzata per identificare sia ciò che un individuo svolge in un determinato periodo, sia la durata e le tempistiche di tali attività (Basner et al., 2007). Lo studio del 2020 di Chung e colleghi ha utilizzato questa tipologia di ricerca per osservare il tipo di attività che 108 soggetti svolgevano prima di andare a dormire (Chung et al., 2020). Chung e collaboratori hanno infatti osservato per 48 ore le caratteristiche comportamentali di persone che avevano riferito di procrastinare fortemente il sonno, analizzando il loro utilizzo del tempo rispetto a coloro che avevano dichiarato una più lieve procrastinazione. Sulla base di studi precedenti è stato ipotizzato che il gruppo con maggior BP si sarebbe impegnato in un uso maggiore dello smartphone prima di andare a dormire (Exelmans, 2016). Questo studio mirava anche ad indagare come la procrastinazione del sonno fosse correlata a caratteristiche psicologiche.

I principali risultati emersi indicano che nelle 3 ore precedenti al sonno il gruppo con maggior BP ha trascorso molto più tempo nello svago e nelle attività sociali rispetto al gruppo con bassa BP. Gran parte di questo tempo è stato impiegato nell’utilizzo dello smartphone, infatti è emerso che il gruppo con maggior procrastinazione del sonno spendeva in media circa il 451% di tempo in più sul proprio cellulare rispetto al gruppo con minor BP (Chung et al., 2020). Inoltre, gli individui che rimandavano maggiormente il momento del riposo hanno riportato maggiore depressione e ansia, sono andati a letto in media 50 minuti più tardi rispetto a quelli con minore BP, si sono svegliati in media 46 minuti dopo di loro e presentavano più tendenze a svolgere attività serali. La maggior parte dei soggetti con elevata procrastinazione del sonno ha inoltre riportato una maggiore gravità dell’insonnia, soddisfacendo i criteri per i sintomi clinici di questa patologia (Chung et al., 2020).

Per quanto riguarda le implicazioni cliniche, la procrastinazione prima di coricarsi è risultata quindi come significativamente associata a depressione e ansia e questi risultati sono generalmente coerenti con studi precedenti, che riportano che le persone che procrastinano esperiscono sentimenti negativi, riferiscono problemi con le relazioni interpersonali, hanno una bassa soddisfazione di vita, senso di colpa e autocritica e, in particolare, presentano depressione e ansia (Ferrari & Dovidio, 2000; Klingsieck et al., 2012; Uzun Ozer et al., 2012; Stead et al., 2010; Burka & Yuen, 1983). Inoltre, l’utilizzo dello smartphone prima di coricarsi può essere problematico: come hanno riportato studi precedenti, l’uso dei media è associato ad un effetto negativo sul sonno e sul benessere psicologico e può causare sintomi depressivi e talvolta tendenza al suicidio (Seo et al., 2017). La luce intensa emessa dai dispositivi elettronici, infatti, può influire sui neuroni del talamo che regolano i ritmi sonno-veglia, riducendo la sonnolenza e aumentando l’eccitazione.

In conclusione, i risultati suggeriscono che la procrastinazione del sonno può essere un importante obiettivo di trattamento in contesti clinici. La BP potrebbe essere dunque vista come un comportamento che interferisce con la salute, considerando le sue conseguenze negative (Chung et al., 2020). L’adozione di un approccio comportamentale potrebbe essere utile per ottenere informazioni sui motivi per cui gli individui incappano in queste abitudini (Epstein & Collins, 1977). L’approccio comportamentale, infatti, sottintende che queste condotte problematiche svolgono molteplici funzioni (Hanley et al.,2003): comprendere la relazione funzionale tra la procrastinazione del momento del sonno e oggetti contestuali presenti nell’ambiente potrebbe essere utile per guidare interventi futuri.

 

Un attimo prima di cadere. La rivoluzione in psicoterapia (2020) di G. Dimaggio – Recensione

Un attimo prima di cadere è l’equilibrio tra un romanzo, un’autobiografia e un saggio, una lettura dinamica, un continuo e veloce passaggio di piani, uno scontro con emozioni completamente diverse.

 

Cosa rende un mojito un perfetto mojito? Il bilanciamento tra lime e zucchero di canna, la giusta dose di rum bianco e soda. Un rametto di menta, sospeso tra il ghiaccio, che tocca appena il bordo del bicchiere. Cosa rende una delizia al limone una delizia perfetta? Sal De Riso risponderebbe: la crema al limone delicatamente unita alla panna e alla consistenza del pan di spagna che la contiene. Una cupola perfetta, gialla, con un ciuffetto bianco sulla punta. Cosa rende un libro un buon libro? L’eleganza, l’equilibrio e l’originalità.

Tutti elementi che ritroviamo in Un attimo prima di cadere. L’eleganza nel riportare aspetti che riguardano ogni essere umano, autore compreso, in modi delicati ma chiari nonostante trasudino dolore. L’equilibrio tra un romanzo, un’autobiografia e un saggio. L’originalità nell’aver pensato che una cosa del genere potesse funzionare. E funziona. Soprattutto a chi apprezza una lettura dinamica, un continuo e veloce passaggio di piani, uno scontro con emozioni completamente diverse. Ad ogni pagina, non si sa in quale di questi tre piani ci troviamo. Proprio come la figura dell’uomo di spalle disegnato sulla copertina, che tenta di restare in equilibrio su un filo, con le braccia aperte e un piede nel vuoto, anche noi giochiamo una partita diversa ad ogni pagina. Bisogna soltanto stare a vedere se la montagna russa, sulla quale saliamo a pagina 15, porta ad una curva parabolica a destra o ad una rovesciata a testa in giù. C’è, infatti, il marito, l’uomo innamorato e il suo dolore. Rappresentato in continui flashback nel passato di una relazione minata dalla malattia, nell’amara consapevolezza dell’impotenza. Ci sono le sue battute di arresto e i tentativi di ripartenze faticose. C’è il professionista, terapeuta e ricercatore che si interroga continuamente su quello che accade nello sviluppo della prassi terapeutica nel corso del tempo, senza lasciare spazi vuoti e senza la paura di mettersi continuamente in discussione o di provare con curiosità. E ci sono i pazienti, reali o inventati non lo sappiamo e che, con le loro narrazioni vivide, mettono sempre alla prova il mondo interno di ogni terapeuta conscio che questo rappresenta il terreno fertile di ogni buona seduta. Virginia, Martina e Roberto riportano episodi, o almeno ci provano, addentrandosi nelle relazioni interpersonali filtrate da idee, regole e convinzioni rigide. Infine, c’è il padre che, di fronte ai figli, gioca, sorride e si terrorizza, umanamente direi.

Ho adorato questo stile così serrato che toglie il fiato e fa dimenticare di essere interconnessa con il resto del mondo. Un po’ l’ho invidiato e un po’ l’ho subito. Quando mi sono ritrovata con la pelle d’oca e le lacrime negli occhi, l’ho dovuto per forza fare. Capite in che senso? Dovevo per forza chiedermi cosa stesse succedendo dentro di me mentre leggevo di tumore. Morte. Amore. Futuro. Perdita. Squarci. Speranza. Semafori verdi. E ci ho messo un po’ a mentalizzare tutte le emozioni che si sono avvicendate dentro di me. È un libro che costringe a farlo un giro, almeno per un attimo, nella propria storia, a girovagare nelle mente e fare più e più capovolte nel proprio passato. E accompagna ad abbracciare, con fiducia, la nostalgia e il dolore per le perdite, per tutto quello che c’è stato e non c’è più, accogliendo, poi, il nuovo e il cambiamento. E c’è soprattutto la sospensione, quello spazio di contatto non contatto con quello che c’è, momento per momento, dentro e intorno a noi.

Parallelamente, leggiamo dell’evoluzione della psicoterapia, della svolta esperienziale in cui siamo stati catapultati da qualche anno a questa parte, in cui rivedo la possibilità di cambiamento che dal corpo arriva fino alla mente. Una svolta portatrice di tecniche e strumenti che, nel tempo che trascorriamo a stretto contatto con i nostri pazienti, genera trasformazione, possibilità e fa da tappeto rosso a parti di noi stessi sempre bistrattate, messe in ombra, poco coltivate. Quelle parti sane nascoste da vulnerabilità, solitudine, inettitudine. E veniamo accompagnati per mano in questo percorso che sa un po’ di teoria e un po’ di pratica, con riflessioni condite da esperienza clinica che spiegano anche il senso che si nasconde dietro al titolo. Qui il terapeuta che c’è in ognuno di noi ne ha di materiale per interrogarsi, spronarsi e mettersi in discussione. È così rassicurante leggere che

…la psicoterapia…è un continuo avanti e indietro. Se funziona…la curva della salute è in ascesa sia pure con i suoi bravi picchi e fossati…

ed è così importante non dimenticare mai il ruolo centrale del corpo, nella sofferenza quanto nel benessere. Infatti, ho letto Un attimo prima di cadere in varie spiagge del Salento. Sugli scogli di Otranto e sulla sabbia bianca di Torre Lapillo. Un tipo di vacanza che mi ha vitalizzata e mi ha fatta sentire energica come non accadeva da un po’. In un attimo (scusate il gioco di parole) ho capito che stavo vivendo nel mio corpo quello che il libro stava spiegando: uno stato corporeo, ancor prima che mentale, e stavo ri-scrivendo il mio sé vulnerabile, fermo e bloccato, accedendo ad uno impavido e accattivante, almeno per me.

Tornata dalle vacanze incontro Dimaggio. Lo osservo per un po’ intanto che pranziamo e chiacchieriamo. Mentre lo ascolto, lo immagino al pc a scrivere. Sorride e poi si commuove. Si drizza con la schiena a poi si affloscia con le spalle. Lo vedo in mille modi diversi. Mille sfaccettature di umanità. Gli dico che ancora non trovo le parole per descrivere cosa mi ha lasciato il suo libro. In realtà solo ora lo metto a fuoco: la sua penna ha scalfito su queste pagine bianche parole che stillano amare verità. E l’epilogo lo lascia intendere. Alla fin dei conti tutta la partita la si gioca nell’attimo che precede scelte, comportamenti, azioni, parole. Ed una partita più veloce della rapidità della luce. Afferrare quel momento è la chiave di svolta. Lui, ne ha afferrati mille. Possiamo provarci anche noi?

 

L’impatto psicologico del COVID-19 sul paziente oncologico

Nella popolazione oncologica fattori quali il ritardo o l’interruzione nelle cure, le preoccupazioni circa la contrazione del COVID-19 e le sue ripercussioni sull’ambiente circostante, sono stati alla base di una maggior prevalenza di ansia e depressione.

 

La diagnosi di cancro ed il suo trattamento causano spesso difficoltà sulla sfera psicologica, sociale e relazionale. Rispetto alla popolazione, i pazienti oncologici sembrano essere più a rischio di sviluppare disturbi come ansia e depressione (Wang et al., 2020), laddove la percentuale delle stesse può arrivare rispettivamente al 23% e 17% (Linden et al., 2012).

Numerosi studi in letteratura hanno evidenziato come la presenza di disturbi psicologici in comorbilità influisca negativamente sull’aderenza al trattamento, sul tasso di sopravvivenza e sulla qualità di vita generale, sottolineando l’importanza di una presa in cura globale del paziente oncologico.

Recentemente, l’impatto del virus COVID-19 ha comportato numerose ripercussioni sull’area psicologica e sociale delle persone, causando alti livelli di stress e problemi legati alla salute mentale, oltre che fisica. La pandemia e le conseguenti misure restrittive hanno influito inevitabilmente sull’area lavorativa, sociale e sanitaria, comportando una riorganizzazione della stessa.

Nella popolazione oncologica fattori quali il ritardo o interruzione nelle cure, preoccupazioni circa la contrazione del COVID-19 e le sue ripercussioni sull’ambiente circostante, sono stati alla base di una maggior prevalenza di ansia e depressione in tali soggetti (Chen et al., 2020).

L’incertezza per il futuro, per la progressione della malattia e l’esito delle cure mediche, già presenti prima del coronavirus (Stamataki et al., 2014) si sono scontrate con l’incertezza data dalla pandemia e dal suo decorso, ed è auspicabile, oltre che clinicamente rilevante, studiare come l’evento pandemico abbia impattato sulla qualità di vita del paziente oncologico.

Lo studio di Schellekens e Van der Lee (2020) ha preso in esame l’impatto del COVID-19 sul paziente oncologico e sui familiari attraverso un’intervista semistrutturata condotta dopo sette settimane di lockdown. La ricerca ha avuto lo scopo di evidenziare i fattori di vulnerabilità e di protezione a seguito delle misure restrittive emanate per arginare l’impatto pandemico, sia nel paziente oncologico che nel familiare.

L’intervista di 12 item su scala Likert a 5 punti ha incluso domande riguardanti la solitudine, la paura per l’infezione e la paura di morire per coronavirus, mentre l’ultima domanda (che impatto ha avuto la crisi del coronavirus sulla tua vita?) era aperta ed è stata somministrata a 233 pazienti e 41 familiari.

Attraverso un’analisi tematica le risposte sono state collocate in due grandi gruppi:

  • Paura e solitudine;
  • Sentimenti di pace e appartenenza.

Paura e solitudine

L’impatto della pandemia ha creato incertezza e uno spartiacque tra un prima e un dopo, riverberandosi su vari aspetti della vita quotidiana, sia sociali, lavorativi, psicologici che burocratici, dovendo pertanto assistere ad una riorganizzazione delle visite ospedaliere e terapie mediche.

L’analisi delle domande ha portato il 50.5% del campione in esame a sperimentare preoccupazioni riguardanti la possibilità di contrarre il virus e la paura di essere ricoverati successivamente in terapia intensiva (45.6%), mentre il 44.5% ha riportato la paura di non essere stati in grado di “dire addio” ai congiunti in caso di morte per COVID-19.

Per quanto riguarda i familiari dei pazienti oncologici, circa il 66% ha riportato la paura principale di infettare il parente malato, essendo più a rischio di conseguenti complicazioni per immunocompromissione a causa del cancro e dalle terapie mediche.

Rispetto a prima della pandemia, circa il 36% dei pazienti e il 41.4% dei familiari hanno riportato di sentirsi soli e isolati, di essere mancati contatti fisici con i congiunti e amici, non potendo essere replicati tali contatti a distanza (videochiamata o telefono).

I sentimenti di solitudine e isolamento si sono riverberati sulle paure legate al cancro, mancando, a causa delle restrizioni sociali, attività ludiche e distrazioni; a tal proposito un familiare ha riportato che l’essere stato “isolato” in casa con il partner malato, in assenza di socializzazioni con familiari e amici, ha impedito di distrarsi dall’evento cancro rimanendo questo totalizzante nella quotidianità. Sono stati inoltre riportati anche contatti più limitati con i medici di riferimento.

Nel presente studio, l’impossibilità di condurre la stessa vita antecedente la pandemia ha inciso, sia sul paziente che sul congiunto, sul sentimento di solitudine spesso lasciando poche possibilità di investimento su altre attività e relegando il supporto ed i contatti sociali in via telematica.

Sensazioni di pace ed appartenenza

Un ampio gruppo di di pazienti (45.5%) e familiari (41.5%) ha riferito di essersi sentito a proprio agio durante il periodo di lockdown nella propria casa con i congiunti, essendo diminuiti gli stimoli esterni e dilazionato i tempo passato con i propri cari. Gli autori riferiscono che la diminuzione degli impegni lavorativi o del monte di ore dedicato ad aspetti esterni ha comportato un maggiore senso di pace e di tranquillità rispetto alle preoccupazioni dei soggetti intervistati.

A tal proposito, circa il 40% dei pazienti e il 36.6% dei familiari ha riportato di essere riuscito, a seguito della pandemia e degli effetti di questa sulla quotidianità, a focalizzarsi maggiormente sulle cose importanti.

Diversi pazienti hanno riportato che essendo abituati a stare molto tempo in casa, a seguito delle restrizioni sociali e all’obbligo di passare più tempo in casa per tutti, si sono sentiti più compresi e ciò ha influito sul sentimento di appartenenza alla comunità; come riporta una paziente

Currently, also all of my colleagues are working from home. Now I am not the only one anymore who dials in (per phone/video) at meetings, and I see that as an advantage (Schellekens & Van der Lee, 2020).

Riassumendo, per alcune persone la solitudine provata durante il lockdown ha aumentato le loro paure legate al contesto oncologico, soprattutto in coloro che erano a rischio di sviluppare ansia e depressione; per altri la possibilità di passare più tempo in casa o in contatto con i familiari ha costituito un momento di pace e di rivalutazione degli aspetti importanti della propria vita.

Gli autori concludono sottolineando come, al fine di mantenere una qualità di vita soddisfacente, possa essere utile ricercare forme di contatto sociale sicure, ad esempio mantenere i contatti (fisici) con familiari o amici con le dovute precauzioni e mantenere un supporto psicologico online al fine di accompagnare la persona e sostenerla nelle difficoltà dell’iter oncologico, con le dovute attenzioni alle vulnerabilità personali e familiari.

 

Erectile Disorder giovanile e l’uso di materiale pornografico

Il disturbo erettile sembra aver subito un notevole aumento nelle fasce di età più basse che hanno mostrato una crescita esponenziale di problemi erettili e calo della libido e della soddisfazione sessuale nei rapporti sessuali tra i giovani. Che ruolo ha la pornografia?

 

Nell’affrontare le disfunzioni sessuali in generale non possiamo prescindere dal modello della risposta sessuale di Kaplan. Questo modello si organizza in quattro fasi che rappresentano insieme la normale risposta sessuale: il primo stadio è l’interesse sessuale o desiderio; il secondo è lo stadio dell’attivazione o eccitazione sessuale; il terzo è quello dell’orgasmo; il quarto è quello della risoluzione.

Ogni disfunzione sessuale riflette un problema persistente del soggetto in uno di questi stadi, ad eccezione dell’ultimo per cui non esisterebbe un corrispettivo patologico.

È nel secondo stadio del modello di Kaplan che ritroviamo il disturbo erettile. Nella fase dell’eccitazione sessuale avvengono diversi cambiamenti fisici che accompagnano la sensazione soggettiva di eccitazione. Nell’uomo tali cambiamenti si manifestano visivamente attraverso l’erezione del pene (Hansell e Damour, 2007).

L’Erectile Disorder (ED) è tradotta come Disturbo Erettile, ovvero la marcata difficoltà nell’ottenere o mantenere un’erezione durante l’attività sessuale in più del 75% dei suoi rapporti sessuali. Molte ricerche, come quelle fatte da Prins, Blanker, Bohnen, Thomas e Bosch (2002) e da De Boer, Bots, Lycklama, Nijeholt, Moors, Pieters e Verheij (2004), almeno fino alla decade scorsa, hanno dimostrato come tale disturbo sia strettamente correlato all’età, ovvero che la percentuale di persone sotto i 40 anni affette da tale difficoltà era molto più bassa della percentuale delle persone più adulte.

La connessione tra età e ED era spiegata da diversi fattori, non ultimo lo stile di vita dei soggetti affetti; l’obesità, l’abuso di sostanze e l’abitudine di fumare sono stati correlati con il disturbo organico dell’erezione (Park, 2016).

Il disturbo dell’erezione è classificato o come organico o come psicogeno: nel primo caso è attribuito a determinate condizioni fisiche, come variabili neurologiche, ormonali, anatomiche, o all’effetto di un farmaco. Nel secondo caso invece si fa riferimento a condizioni psichiche che possono compromettere l’erezione del soggetto, quali quadri depressivi, esposizione a forti stress o una condizione di ansia da performance o generalizzata.

Tuttavia, tale disturbo sembra aver subito un’impennata nelle fasce di età più basse. È infatti sugli uomini sotto i 40 anni che andremo ora a focalizzarci, in quanto ricerche più recenti (Landripet e Štulhofer, 2015) hanno mostrato una crescita esponenziale di problemi erettili e calo della libido e della soddisfazione sessuale nei rapporti sessuali tra i giovani.

Parallelamente a questi dati c’è stata una crescita esponenziale dei siti pornografici e della disponibilità di contenuti pornografici dal 2006 in poi. È in quell’anno infatti che nascono le prime piattaforme online che mettono a disposizione dei propri utenti film e video pornografici di ogni genere, visibili senza la necessità di scaricarli.

A partire da queste due variabili si sta diffondendo un quesito: può il materiale pornografico modificare le nostre abitudini sessuali nella vita reale ed il modo in cui fisicamente le viviamo?

Nel 2007 il Kinsey Institute è il primo a collegare la pornografia con la crescita delle disfunzioni erettili e con il calo del desiderio sessuale tra i giovani. Inoltre l’istituto evidenzia come l’esposizione alla pornografia, se continua, porterebbe ad una rapida abitudine del soggetto ai contenuti sessuali espliciti, la quale spingerebbe lo stesso verso la ricerca di materiale sempre nuovo e progressivamente più deviante per mantenere un’alta eccitazione: nel soggetto avverrebbe quindi una sorta di specializzazione sui contenuti sessuali online che difficilmente riesce poi a ritrovare nel rapporto sessuale nella vita reale.

Avviene dunque quello che Park (2016) chiama iperattività neurologica durante l’esposizione a materiale pornografico online e contemporaneamente un’ipoattività neurologica di fronte a stimoli sessuali naturali provenienti dalla vita reale. Il soggetto in quest’ultimo caso fatica a ricavare dal rapporto sessuale con il proprio partner quei livelli di eccitazione che raggiunge quando, davanti allo schermo, sceglie autonomamente il contenuto sessuale cui prestare la sua attenzione (Park, 2016).

Uno studio del 2015 condotto in Italia, che ha coinvolto 1565 studenti all’ultimo anno della scuola secondaria di secondo grado, ha evidenziato una correlazione tra disturbi della sfera sessuale e uso di materiale pornografico online. Del totale del campione di riferimento 1492 hanno accettato di partecipare alla ricerca in forma anonima. I restanti non sono stati quindi considerati nell’elaborazione dei dati. Di 1492, 1163 studenti hanno dichiarato di consumare materiale pornografico online: il 10% di questi ha dichiarato che l’uso di questo materiale ha fatto diminuire il loro interesse sessuale nella vita reale. Andando a suddividere questi 1163 studenti in base alla frequenza di accesso ai siti web vediamo che il 43% vi accede una volta a settimana, mentre il 49% meno di una volta a settimana: in quest’ultimo gruppo il 14% ha dichiarato un’anormale risposta sessuale, mentre la percentuale arriva al 25% in studenti che accedono a questi contenuti più di una volta a settimana. Le anormalità di risposta sessuale riscontrate sono: problemi di erezione, di orgasmo prematuro e diminuzione del desiderio sessuale (Pizzol, Bertoldo, Foresta, 2016).

In un altro esperimento del 2015 su uomini sotto trattamento per ipersessualità, i quali facevano un frequente uso di materiale pornografico ed i quali dichiaravano di dedicare 7 ore o più alla settimana per masturbarsi, emerse che il 71% aveva disfunzioni sessuali e di questi il 33% riportava difficoltà di eiaculazione (Sutton, Stratton, Pytyck, Kolla, Cantor, 2015).

Caratteristiche dello stimolo: abbiamo già accennato a come lo stimolo pornografico, grazie ai siti pornografici disponibili dal 2006, sia flessibile alle scelte dei propri utenti. Abbiamo già parlato di come i soggetti siano con il tempo e con il continuo uso spinti a indirizzare le loro ricerche verso materiale sempre nuovo. Abbiamo quindi accennato a come vi sia una possibile escalation della devianza del materiale pornografico e come tutte queste caratteristiche dello stimolo siano difficili da riscontrare poi nella vita reale in una relazione sessuale con un’altra persona. In altre parole la realtà non riesce a tenere testa alla fantasia del soggetto, al suo bisogno di novità, e così delude puntualmente le sue aspettative. Ma cosa succede a livello cerebrale?

Gli stimoli sessuali online vengono rinforzati dal piacere che proviamo nell’esperienza sessuale della masturbazione. Ma come nell’uso e abuso di una sostanza che dona piacere, il nostro cervello si abitua ad un determinato stimolo quanto ad una determinata dose della sostanza. Ciò obbliga il soggetto a ricercare materiale diverso nella quantità o nella qualità per poter ritrovare sempre lo stesso grado di piacere. Questo porta il soggetto ad addentrarsi in un circolo che si autoalimenta. Attenzione però a considerare il soggetto in questione entro un vicolo cieco: la plasticità del nostro cervello ci permette, anche se con un sostanziale sforzo, di uscire da questo circuito disfunzionale. Come Norman Doidge illustra nel suo libro The Brain That Changes Itself (2007), nella stessa direzione di pensiero Bronner e Ben-Zion (2014) mostrarono come una rieducazione sulla masturbazione e sulle sue implicazioni nella vita sessuale delle persone affette da problemi di erezione e di diminuzione della libido possa giovare sul loro desiderio nonché la loro relazione sessuale. Questi due ricercatori mostrarono come dopo otto mesi di interruzione totale dell’esposizione di questi soggetti a contenuti pornografici, i loro problemi di erezione, di eiaculazione ed il loro desiderio sessuale fossero significativamente migliorati.

 

Nonni e fili invisibili – Moms, una rubrica su maternità e genitorialità

Il presente articolo si propone di dare una lettura sistemico-relazionale delle relazioni nel transgenerazionale. Vengono messe in luce alcune dinamiche interpersonali difficili da percepire tra nonni, genitori e figli.

Moms – (Nr.4) Nonni e fili invisibili

 

Il quarto episodio della prima stagione di Workin’ Moms si apre con una riunione del gruppo per la maternità dove le mamme che lo frequentano affrontano l’argomento baby-sitter. La protagonista Kate Foster suggerisce:

Non ingaggiare tua madre: si prende molto spazio molto in fretta.

I nonni a volte sono più costosi di un aiuto esterno alla famiglia come può essere quello di una baby-sitter, poiché l’aiuto che danno può essere collegato a dei fili talmente sottili che sono difficili da notare. Tali fili sono uniti a delle sacchette con l’etichetta “debito” che ogni figlio di questi nonni, ovvero ogni genitore, si porta dentro.

Il debito ha origine da lontano per alcuni sin dalla nascita, quando gli è stato fatto credere che il genitore, ora divenuto nonno, ha dato la propria vita affinché il figlio venisse al mondo o per garantirne la crescita. Il potere del debito a volte è tanto forte che alcune persone scelgono di dare alla luce i figli per “donarli” al proprio genitore oppure si sacrificano nel facendoglieli crescere pur di essere emotivamente liberi.

Più semplicemente a volte capita ad alcune mamme, come anche ad alcuni papà, che essendo ancora indifferenziati dai genitori lascino loro la porta spalancata per farli entrare nella nuova famiglia che si sono costruiti. Questo può dare origine ad una serie di motivi di sofferenza per la mamma e di disfunzionamento nella relazione che ha con il figlio ed il marito.

In primo luogo viene compromessa la relazione con il figlio e l’educazione di questi, che non potrà giovare del marchio autentico della mamma, ma avrà lo stampo del nonno. Un altro aspetto che verrà messo a repentaglio è la relazione di coppia, dove possono crearsi delle triangolazioni che vedono il nonno e il genitore vicini tra loro e l’altro genitore più distante.

Ciò che viene danneggiata maggiormente sono l’autostima e l’autoefficacia. Dietro alla richiesta di una madre al nonno o alla nonna di prendersi cura del proprio figlio può esservi a volte un’insicurezza rispetto al proprio ruolo genitoriale. Tale insicurezza può derivare da un Super-Io molto severo introiettato nelle interazioni con il proprio genitore. Se un nonno o una nonna accettano di sovrapporsi al ruolo materno, la donna potrebbe confermare dentro di sé la credenza di non saper fare la madre.

I nonni possono assolvere alla loro funzione reale solo nel momento in cui i loro figli mettono loro un limite e non permettono loro di prendersi tutto lo spazio di cui parlava Kate Foster all’inizio del quarto episodio. Purtroppo non per tutti i genitori è possibile mettere un freno ai nonni, poiché i fili che li legano al debito originario sono davvero difficili da vedere, ma non impossibili da riconoscere se si ricorre ad un aiuto esterno quando il peso di questo legame diventa eccessivo.

 

Due identità sociali così lontanamente vicine – Uno sguardo pedagogico verso educatori e soggetti ‘difficili’

Con questo elaborato ci si propone di illustrare i motivi e le modalità attraverso cui il legame tra educatori e ‘pazienti’ continua ad esistere e a consolidarsi anche dopo il termine del processo educativo.

 

Introduzione

La ricerca verrà suddivisa in 3 sezioni: nella prima verrà delineata la figura dell’educatore-pedagogista, messa a confronto con i ‘soggetti difficili’ con i quali è chiamata ad interagire, nella seconda sezione verranno evidenziate le difficoltà che gli educatori stessi trovano nel rapportarsi con tali soggetti e la terza sezione sarà dedicata al rapporto che l’educatore instaura con il ‘ragazzo (o adulto) difficile’ (Bertolini, Caronia, Barone, 1993) e ai fattori che permettono di mantenerlo vivo o, addirittura, rafforzarlo.

La pedagogia sociale è costituita da un fitta e specifica articolazione interna. La cura è uno dei paradigmi centrali di essa. È uno strumento di dialogo e di scoperta e si propone di individuare le procedure terapeutiche per sostenere e aiutare i soggetti. (Cambi, Certini, Nesti, 2010). Risulta dunque evidente come la cura sia una premessa pedagogica per affrontare il tema dei legami sociali e interpersonali dei soggetti devianti e emarginati.

L’educatore: ruolo, carattere e responsabilità

Essere educatore nel XXI secolo

Negli ultimi decenni la nostra società è stata caratterizzata a livello mondiale da una sempre maggiore propensione all’individualismo e alla distruzione dell’identità collettiva a causa del multiculturalismo.

In questo contesto, quindi, figure professionali come pedagogisti, psicologi e formatori risultano di fondamentale importanza per poter dare un concreto aiuto ai soggetti che non si sentono parte integrante della società a cui appartengono.

L’educatore, infatti, è chiamato ad affrontare quotidiane sfide volte a soddisfare le esigenze della società odierna. La schematica applicazione della teoria, oggi non basta più. I soggetti si rivolgono agli educatori certi di trovare in essi figure salvatrici.

Sebbene sia evidente l’utopia di tale richiesta, i professionisti ascoltano e accolgono i bisogni degli individui, cercando di elaborare nuove strategie di applicazione dei processi educativi.

Esiste un rischio di banalizzazione del lavoro educativo che va contrastato realizzando un profilo professionale originale in complementarietà con altri, sottolineando il ruolo dell’educatore come agente di promozione umana, individuale e collettiva. […].

L’educatore ‘ideale’ non esiste. Esiste, però, chi cerca di comprendere la realtà, facendo valere in egual modo i tre profili o modelli di educatori: religioso, tecnico e politico. E la sua vera efficacia sta nella capacità di interpretare, osservare, criticare, traendone un’elaborazione critica e approfondita (Santerini, Triani, 2007).

Responsabilità:

La vita ci pone in continuazione delle domande alle quali siamo chiamati a rispondere talvolta usando le parole, talvolta i gesti. Vivere, dunque, significa assumersi la grande responsabilità di rispondere adeguatamente a tali domande anche se spesso, una risposta non la si trova. La responsabilità è il fulcro dell’esperienza di ciascuno e ha il dovere di valorizzare il processo di consapevolezza di sé.

L’educatore, infatti, è chiamato a tenere una particolare coscienziosità in relazione a diversi fattori: la professione, la società, il soggetto ‘difficile’, le famiglie e l’équipe alla quale fa riferimento. Ha il diritto e il dovere di aggiornarsi e confrontarsi professionalmente al fine di arricchire le proprie conoscenze e di programmare nuove tecniche ed efficaci processi educativi. Consapevoli del loro ruolo, devono attenersi ai principi della società e ai servizi che la stessa offre, mantenendo un fermo riferimento alle decisioni elaborate dall’équipe della quale fanno parte.

La responsabilità principale che hanno da formatori, è quella nei confronti del soggetto: il rispetto della sua personalità e dignità e la presa in considerazione di tutti i loro diritti e libertà, obbligano gli educatori professionali ad instaurare un legame che non tenda verso una dipendenza affettiva.

Incontro-scontro tra due identità: quando le esperienze passate diventano ostacoli

Instaurare un ‘legame indipendente’ con i soggetti ‘difficili’ (Bertolini, 1993).

L’incontro tra educatori e soggetti difficili è un’azione che richiede tempo e attenzioni. Come diceva Bertolini (1993), c’è bisogno di un riconoscimento reciproco. Bisogna oltrepassare i formalismi ed eliminare i pregiudizi esistenti. Inoltre, sebbene il fine che emerge dall’approccio dell’educatore nei confronti del soggetto sembrerebbe quello di conoscerlo, il vero scopo è quello di comprendere la sua persona, il suo vissuto e la sua visione del mondo. Questo processo è ostacolato dall’evidente presenza di una relazione asimmetrica all’interno della quale il soggetto si sente debole, inferiore e vulnerabile rispetto alla figura dell’educatore e ciò può provocare in lui uno status di ansia e inadeguatezza. Proprio per questo motivo quindi, il formatore dev’essere in grado di non farsi influenzare da ciò che già sa riguardo al soggetto, cercando di metterlo a suo agio al fine di instaurare un legame che possa aiutare entrambi a fidarsi reciprocamente. Un legame che dev’essere al tempo stesso simbolo di libertà di espressione e di rispetto. Nessuno, in tale relazione, deve dare più di quanto non dia l’altro così da evitare che qualcuno ne approfitti o si prenda gioco della disponibilità o fiducia dell’altra persona. Sia l’educatore che il ragazzo difficile hanno bisogno di conferme da parte dell’interlocutore e ciò è possibile solo con un costante e permanente impegno, sia nel rapporto intra e inter personale che in quello impersonale, fatto di formalità e regole.

La pedagogia come prima medicina sociale

La pedagogia come completamento della medicina

Negli ultimi anni, l’educazione viene associata a connotazioni sempre più mediche e sempre meno psico-pedagogiche. Questa situazione, però, sta mettendo in seria difficoltà le figure professionali che si occupano di pazienti ‘malati’ o vulnerabili poiché si trovano completamente competenti e istruite nei saperi del loro campo d’intervento ma privi di qualità umane utili ad instaurare incontri e confronti efficaci con i soggetti con i quali si relazionano. In accordo con il pensiero di Micaela Castiglioni (2016), tra due scienze (medicina e pedagogia) che si occupano dell’uomo in quanto essere nel e in relazione con il mondo, deve per forza esistere un punto d’incontro. Ogni disciplina, empirica, pratica o razionale essa sia, pone necessariamente le sue basi su aspetti legati alla propria unicità, profondità e veridicità. Il medico che viene indottrinato e accompagnato verso un percorso di apprensione di determinati processi e di regole prefissate si trova impreparato nell’esatto momento in cui deve relazionarsi con i suoi pazienti. Questi ultimi chiedono una consulenza completa, che comprenda sia gli aspetti tecnici e teorici che quelli emotivi e spesso, proprio a causa di questa richiesta, la relazione medico-paziente risulta tormentata o anche inesistente.

Le medical humanities come nuova educazione alle cure

La cultura dell’educazione medica ha il dovere di formare le figure mediche future. Inoltre, viene spesso identificato come una delle principali cause del fallimento della cultura democratica medica poiché viene mostrata esclusivamente traverso canali tecnici e schematici, privi di sensibilità o empatia. Tale situazione evidenzia parecchi aspetti negativi tra i quali gli interessi politico-economici e l’orientamento esclusivo ai risultati.

Un tempo, i Romani avrebbero definito così un buon medico: ‘vir bonus, sanando peritus’, una persona buona ed esperta nel curare. Oggi, però, un medico competente è tutt’altro: sa associare alla scienza, la coscienza, agendo in principio di efficacia delle cure nel rispetto dell’autonomia della persona […] (Codice deontologico, art. 6).

Risulta dunque di fondamentale importanza promuovere il rapporto tra la pratica medica e l’ambito socio-pedagogico. Una soluzione è stata trovata alla fine degli anni ’60 del Novecento, con l’introduzione delle Medical humanities. Esse sono nate con il compito di ricondurre le pratiche delle sanità alle loro finalità originarie: essere la ‘cura’ per gli uomini. Attraverso la loro multidisciplinarietà, intendono proporre processi e tecniche utili a comprendere e interiorizzare al massimo sia la cultura medica che quella pedagogica all’interno di uno stesso contesto di cura degli individui.

Conclusione

Questo breve elaborato, tra le sue trattazioni, ha cercato di inquadrare quali sono i principali ostacoli e le principali differenze che talvolta non permettono un’efficace relazione tra medico-educatore e il paziente, sia esso in età giovanile che adulta. La diversità del proprio vissuto, le scelte di vita e la posizione sociale sono fattori che influenzano in maniera importante i processi educativi. Ciononostante, se gli educatori professionali si pongono al soggetto con il quale interloquiscono in maniera empatica e comprensiva, risulterà molto più semplice ed immediata la nascita e lo sviluppo di un legame inter-personale tra loro. Sarà, certamente, un rapporto basato su un equilibrio tra tecnicismi ed emozioni ma porterà, gradualmente, il soggetto ‘difficile’ a relazionarsi con l’educatore in maniera sempre più sincera e completa, ponendo crescente fiducia nella figura professionale.

Come già accennato nell’introduzione, la pedagogia sociale pone le sue radici nella pedagogia di cura. Al termine dell’analisi condotta in questo elaborato, si può oggettivamente dedurre che l’aspetto sociale all’interno di qualsiasi pratica educativo- riabilitativa risulta necessario al fine di ottenere un processo di cambiamento e miglioramento efficace.

Partendo dalla prevenzione, la pedagogia di cura si impegna ad evidenziare ogni bisogno o fattore limitante per il soggetto ‘difficile’ e attua un lavoro di protezione, aiuto e promozione del benessere intra- e inter- personale.

L’interazione tra due individui, qualsiasi sia la loro posizione sociale, non deve basarsi solo su un rapporto di aiuto-intervento bensì deve poter essere, per tutta la sua durata, momento di scambio, condivisione e fiducia reciproca.

È doveroso considerare l’impronta prettamente sociale dell’analisi condotta, in quanto ogni campo formativo porta con sé fattori esterni derivanti da culture, tempi e comunità diverse.

 

Le personalità dipendenti

Data la stabilità dei tratti di personalità e la loro influenza sui processi decisionali e motivazionali, la ricerca ha ipotizzato che molti dei comportamenti problematici legati alla dipendenza siano originati dalla personalità stessa e per questo si è indirizzata verso l’identificazione delle cosiddette personalità dipendenti.

 

Il riconoscimento da parte della comunità di ricerca del fatto che le dipendenze includono anche comportamenti che non comportano l’assunzione di sostanze stupefacenti ha portato alla nascita si studi sulle dipendenze comportamentali: la dipendenza da internet, il gioco d’azzardo, il comportamento sessuale compulsivo, l’acquisto compulsivo, la dipendenza da esercizio fisico, la dipendenza dal cibo e la dipendenza dal lavoro (Griffiths, 1996; Karim & Chaudhri, 2012). Data la stabilità dei tratti di personalità e la loro influenza sui processi decisionali e motivazionali (Kornør & Nordvik, 2007), la ricerca ha assunto l’ipotesi che molti dei comportamenti problematici legati alla dipendenza siano originati dalla personalità stessa e per questo si è indirizzata sull’identificazione delle cosiddette “personalità dipendenti”.

Secondo Kjome et al. (Kjome et al., 2010), l’impulsività comporta una mancanza di pianificazione che è associata a guadagni a breve termine a scapito delle perdite a lungo termine. Questa tendenza è molto comune tra gli individui dipendenti, sia per le dipendenze legate alla sostanza che per le dipendenze comportamentali, in quanto spesso agiscono in modi che garantiscono loro un immediato rafforzamento, ma sono dannosi (per se stessi o per gli altri) a lungo termine (Grant, Potenza, Weinstein, & Gorelick, 2010; Widiger & Smith, 2012).

Un altro modello che è stato proposto per classificare gli individui con dipendenze è stato il modello a cinque fattori della personalità (McCrae & John, 1992). Questo descrive cinque dimensioni fondamentali della stessa: nevroticismo, coscienziosità, estroversione, gradevolezza e apertura all’esperienza (McCrae & John, 1992). L’estroversione comprende tratti come l’energia, le emozioni positive, l’assertività, la socievolezza, la loquacità e infine la tendenza a cercare stimoli e sensazioni nuove (McCrae & Costa, 1997). L’apertura all’esperienza implica la curiosità intellettuale, il pensiero indipendente, la creatività e la preferenza per la novità e la varietà. La coscienziosità combina caratteristiche come la tendenza a mostrare autodisciplina, ad agire con rispetto e a concentrarsi sul raggiungimento di risultati. Le persone coscienziose tendono a pianificare, piuttosto che ad essere spontanee, e sono organizzate e affidabili (Day, Hudson, Dobies, & Waris, 2011). Le persone con elevato grado di gradevolezza sono simpatiche, amichevoli e affidabili (McCrae & Costa, 1997). Infine, le persone nevrotiche tendono ad avere scarse capacità di controllo degli impulsi e una precaria stabilità emotiva (McCrae & Costa, 1997).

Un recente studio mette a confronto i profili di personalità di diverse dipendenze, ossia quelle da sostanze (droghe e alcol) e quelle comportamentali (gioco d’azzardo e sesso). Il campione studiato è composto da 78 controlli e 221 individui dipendenti, fra cui 58 da droghe, 50 da alcol, 48 da gioco d’azzardo e 65 da sesso.

In primo luogo, i partecipanti hanno compilato un questionario volto a raccogliere informazioni demografiche, quali età, genere, livello di istruzione e status socioeconomico. Il disturbo da uso di sostanze (Drug Use Disorders, DUD) è stato misurato per mezzo del Abuse Screening Test (DAST; Skinner, 1982), i cui punteggi possono variare da 0 a 28 e dove un punteggio di 6 è utilizzato per indicare la presenza di abuso o dipendenza da droghe (Yudko, Lozhkina, & Fouts, 2007). Il disturbo da uso di alcol è stato misurato per mezzo del Michigan Alcoholism Screening Test (MAST; Selzer, 1971), in cui un punteggio pari a 5 indica la presenza di alcolismo. Il South Oaks Gambling Screen (SOGS; Lesieur & Blume, 1987) ha permesso di valutare il disturbo da gioco d’azzardo, mentre il Individual-Based Compulsive Sexual Behavior (I-CSB), composto da 24 items, è stato utilizzato per valutare i comportamenti sessuali compulsivi (CSB): i punteggi possono variare da 24 a 168, e un punteggio più alto segnala ipersessualità elevata. Per quanto riguarda, invece, la valutazione dei profili di personalità, sono stati somministrati due questionari self-report. Uno è il Barratt Impulsiveness Scale Version 11 (BIS-11), composto da 30 items che esplorano l’impulsività, mentre l’altro è il the Big Five Index (BFI), composto da 44 items che indagano i tratti di personalità concettualizzati nel Big Five Model. Infine, i partecipanti hanno risposto ad una serie di domande relative alla dipendenza e alla loro astinenza (es. età di inizio della dipendenza, anni della dipendenza e tempo di astinenza).

I risultati dello studio hanno rivelato che fra i soggetti con disturbo da uso di sostanze, il 93% ha fatto uso di marijuana almeno una volta nel corso della sua vita, il 79% di cocaina, il 60% di eroina, il 60% di anfetamine, il 70% di MDMA, il 63% di LSD, il 72% di sedativi, il 18% di PCP, il 49% di metadone e il 39% di inalanti. I fattori demografici, come età, sesso, status socioeconomico, hanno rivelato differenze significative tra i vari gruppi: il gruppo di controllo era più giovane, composto da partecipanti per la maggioranza femminili, viveva in zone più centrali e aveva il più alto livello di istruzione; gli individui con disturbo da uso di alcol erano più anziani, mentre i soggetti con comportamenti sessuali compulsivi erano più giovani e principalmente di sesso maschile. I soggetti con dipendenza da gioco d’azzardo hanno riferito un reddito elevato e un’insorgenza del disturbo pressoché tardiva, precisamente sui 20 anni, età che nella maggior parte dei casi coincide con la fuoriuscita dal nucleo familiare.

Per quanto riguarda i tratti di personalità, la ricerca ha individuato dei profili specifici: tutte le tipologie di dipendenze presentano livelli di nevroticismo e impulsività molto elevati. Questi soggetti tendono ad essere meno capaci di controllare i propri impulsi, oltre che ad avere una precaria stabilità emotiva. Tuttavia, gli alcolisti hanno livelli di estroversione, gradevolezza, coscienziosità e apertura all’esperienza più basse rispetto ai controlli. Nello specifico, le persone con bassa estroversione e apertura all’esperienza sono di solito più timide, riservate e silenziose (Arora & Rangnekar, 2016) e, probabilmente, utilizzano l’alcol per ridurre ansia e paura nelle situazioni sociali (Smail, Stockwell, Canter, & Hodgson, 1984). I soggetti con dipendenza da sostanze stupefacenti e comportamenti sessuali compulsivi hanno bassi livelli di gradevolezza e coscienziosità.

In conclusione, i risultati ottenuti suggeriscono che, sebbene diverse dipendenze possano avere alcune tendenze comportamentali in comune, esse riflettono in gran parte una costellazione unica di tratti di personalità e variabili demografiche. Questi risultati possono guidare lo sviluppo di programmi di prevenzione e di intervento più efficaci, che potrebbero essere adattati all’individuo e/o al tipo di dipendenza. Strategie preventive specifiche potrebbero concentrarsi sull’identificazione dei giovani a rischio sulla base dei tratti di personalità, così come le strategie trattamentali devono necessariamente affrontare le questioni ambientali.

 

La mente in musica – Presentazione del libro

Quante volte abbiamo ascoltato canzoni che ci hanno dato un senso di felicità? O ci hanno emozionato perché ci hanno riportato alla mente eventi o persone per noi importanti? E quante volte in un momento difficile ci siamo rifugiati nell’ascolto di una canzone che sembrava essere stata scritta apposta per noi?

 

Come reagisce il cervello all’ascolto della musica

La musica fa parte della nostra vita, accompagna le nostre giornate e sottolinea in modo solenne molti dei nostri momenti più importanti. Ci aiuta a rilassarci, ci fa divertire in compagnia, ci dà occasioni per fermarci a riflettere.

Eppure gli effetti che la musica produce su di noi sono ancora poco conosciuti, lo studio del rapporto che si crea tra l’ascolto di una melodia e la nostra mente è stato affrontato solo negli ultimi anni e molta strada rimane da fare per capire come e quanto una canzone o un brano musicale siano in grado di influenzare il nostro umore e addirittura incidere sul nostro benessere, oltre che raccontare molto di noi a chi ci circondai.

I contenuti del libro

Il mio libro La mente in musica nasce come un viaggio che si vuole compiere per scoprire qualcosa di più sul legame che esiste tra mente e musica. Vuole essere uno sguardo generale sull’effetto prodotto da una melodia, mettendo in luce le potenzialità dell’ascolto e le infinite possibilità che si aprono a chi utilizza la musica per veicolare un messaggio nonché a chi, da semplice ascoltatore, in essa trova uno specchio per scoprire qualcosa di sé, la possibilità di dare voce alle sue emozioni e un mezzo per esprimere i suoi stessi sentimenti.

Interessante notare come la musica assolva ad una funzione regolatoria degli stati d’animo nell’adolescenza, e dei benefici emozionali e fisici che l’ascolto porta con sé nella terza età.

Non solo si è cercato di dare delle risposte ad alcune domande ma anche, perché no, di farne nascere di nuove che magari faranno sentire l’esigenza di approfondire individualmente un determinato aspetto per iniziare un nuovo cammino che si deciderà di intraprendere.

Come si diceva, l’argomento è ancora poco studiato; motivo per cui, più che attraverso lavori già pubblicati, gli spunti per questo libro sono arrivati da ricerche universitarie, da pareri di esperti e di studiosi della materia.

Un viaggio che parte da lontano

La curiosità ci ha spinto a partire dall’inizio: ci siamo mai chiesti perché è nata la musica? Per quale motivo il nostro antenato della preistoria, impegnato come doveva essere tra battute di caccia, un ambiente naturale spesso ostile, lotte quotidiane per la sopravvivenza, avrà provato interesse per la musica? In quale modo gli sarà sembrata funzionale alle sue quotidiane necessità?

E noi, oggi, come reagiamo all’ascolto della musica? Proviamo a pensare alle centinaia di melodie o canzoni che ascoltiamo quotidianamente: com’è possibile che il nostro cervello sia in grado di memorizzarle e di riconoscerle in un attimo quando ci capita di riascoltarne anche solo alcune note? E che addirittura riusciamo a recuperare informazioni come titolo, testo o autore, in qualche secondo? A tutto c’è una risposta e come vedremo il nostro cervello utilizza dei trucchi. Una volta che li avremo scoperti ci apparirà tutto sotto una nuova luce!

Ma quello che ci attira di più verso la musica è la sua capacità di suscitare in noi delle emozioni. Di influenzare il nostro umore e la nostra autostima. Quante volte abbiamo ascoltato canzoni che ci hanno dato un senso di felicità? O ci hanno emozionato perché ci hanno riportato alla mente eventi o persone per noi importanti? E quante volte in un momento difficile ci siamo rifugiati nell’ascolto di una canzone che sembrava essere stata scritta apposta per noi da qualcuno che conosceva perfettamente il nostro stato d’animo?

Si vedrà come alcune caratteristiche presenti nella costruzione di una melodia abbiano un carattere universale e siano percepite in modo molto simile da tutti, indipendentemente dalle differenze individuali di tipo sociale e culturale. Contemporaneamente però, sul nostro modo di ricevere quello che la musica trasmette, intervengono fattori di tipo personale e sociale che rimescolano un po’ le carte. Infatti, per esempio, perché una canzone diventi la nostra preferita non basta che sia una bella canzone, che ci emozioni o che ci faccia sentire bene, in questa scelta entrano in gioco fattori personali quali esperienze precedenti e personalità.

La musica per veicolare un messaggio

La musica si è rivelata essere un potente mezzo di comunicazione non solo per chi la produce, compositori, musicisti e cantanti, ma anche per gli ascoltatori. L’avreste detto che i nostri gusti musicali sono in grado di dire molto anche sulla nostra personalità e su chi ci circonda? E che c’è uno stretto legame tra quello che ascoltiamo, i nostri idoli musicali e la nostra autostima? Anche in questo caso verrà analizzato uno studio che aiuterà a capire molte cose.

Il libro guiderà il lettore in un percorso alla scoperta degli elementi che caratterizzano un processo di comunicazione, in modo particolare quando questo si svolge in campo musicale. Come l’idea iniziale di un compositore si traduca in un messaggio e come questo venga condiviso, attraversando contesti che possono mantenerlo integro, modificarlo o distorcerlo una volta che noi, gli ascoltatori, avremo più o meno consapevolmente deciso come utilizzarlo.

L’utilizzo che decidiamo di farne dipende anche dallo scopo che ci prefiggiamo nel momento in cui decidiamo di ascoltare musica. A volte non è nemmeno una decisione nostra, ascoltiamo in modo passivo mentre beviamo un caffè al bar o mentre aspettiamo il nostro turno dal parrucchiere, mentre facciamo la spesa o ceniamo al ristorante. E’ a questo punto che entra in gioco il marketing sensoriale, capace di influenzare il nostro pensiero.

Altre volte siamo noi a sentire il bisogno di ascoltare musica, per rilassarci dopo una giornata di lavoro, per caricarci prima di una gara sportiva, per concentrarci in vista di un esame, per isolarci dal mondo esterno in un momento di riflessione.

Ci sono anche utilizzi della musica del tutto inaspettati, come vedremo da un recente studio che in tempo di Covid-19 ha portato la musica in campo scientifico con intenzioni assolutamente sorprendenti.

Un grazie a tutte le persone che parteciperanno a questo viaggio e a chi in questo viaggio ci ha accompagnato a svelare segreti e curiosità, ci ha aperto le porte sul suo lavoro, sui risultati ottenuti dalle sue ricerche e ci aiuterà a scoprire tanti aspetti ancora inesplorati del meraviglioso mondo della musica e della nostra mente.

La mente in musica sarà pubblicato ad inizio 2021, per tutti i lettori di State of Mind interessati all’argomento, il libro sarà disponibile in un’anteprima in versione pdf omaggio che può essere richiesta entro fine dicembre a: [email protected]

 

Il colloquio motivazionale e il prinicipio cognitivo-comportamentale del cambiamento clinico – VIDEO

Un incontro organizzato dalla scuola di specializzazione “Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Mestre” per parlare di colloquio motivazionale e di cambiamento clinico in ottica cognitivo-comportamentale. Pubblichiamo per i nostri lettori il video dell’evento.

 

Il colloquio motivazionale si è dimostrato uno strumento versatile e applicabile in diversi ambiti della salute e del benessere. Trattandosi di uno stile di comunicazione, si integra facilmente all’interno di un intervento di psicoterapia: lo “stile di guida” che lo contraddistingue rappresenta un punto di equilibrio tra la posizione centrale data al cliente di matrice rogersiana e l’orientamento al cambiamento tipico degli approcci cognitivo-comportamentali. La prima parte del seminario, tenuta dalla dott.ssa Valeria Valbusa, illustra le caratteristiche principali di questo metodo e alcune delle sue principali tecniche, con attenzione al fondamentale passaggio di motivazione al cambiamento come uno dei punti cardine del processo di condivisione e formulazione del caso clinico.

A seguire, nella seconda parte del seminario condotta dal dott. Giovanni Maria Ruggiero, si introduce il principio cognitivo-comportamentale del cambiamento clinico: l’ipotesi che la cognizione cosciente sia il cardine della sofferenza emotiva e il principale obiettivo dell’intervento terapeutico. Inoltre la presentazione tratta anche il tema della condivisione della formulazione dei casi come mossa iniziale, nonché il principale strumento operativo della terapia cognitivo comportamentale.

Pubblichiamo per i nostri lettori il video del webinar organizzato da “Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Mestre”.

 

COLLOQUIO MOTIVAZIONALE E CAMBIAMENTO CLINICO IN CBT
Guarda il video integrale del webinar:

 

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La reazione emotiva e comportamentale di fronte alla situazione di emergenza nello specifico caso del Covid-19

Quest’anno contemporaneamente in tutto il mondo si sono sperimentate le stesse emozioni per una situazione di emergenza comune. Cosa ci è successo psicologicamente e fisicamente durante l’emergenza della pandemia da Covid-19?

Adriana G. A. Catania – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Bolzano

 

‘Pandemia’ è stata per buona parte della prima metà del 2020 il termine che ha fatto capolino tra le principali notizie giornalistiche quotidiane. Parliamo di pandemia, così come da specificazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (2020), per indicare un’epidemia di rapida diffusione attraverso territori e continenti. Poco dopo l’inizio del 2020 il nostro Paese, più o meno contemporaneamente ad altri Stati del Pianeta, si è trovato, quindi, ad affrontare quella che è stata definita ‘La situazione di maggiore emergenza dal secondo dopo guerra’ (Conte, 2020), ovvero il SARS CoV-2.

Ma come abbiamo e stiamo reagendo? E cosa vuol dire trovarsi in uno stato di emergenza di questa portata?

Quello che possiamo evidenziare è che sicuramente una delle primissime conseguenze di questa situazione è stata una messa alla prova delle capacità di resilienza di tutta la popolazione mondiale. Molte persone hanno avuto risposte psicologiche che hanno visto un crescendo di paure, ansie e depressione (Wang et al. 2020). L’insorgere di questi stati psicologici è uno dei motivi per cui maggiormente si è parlato da parte del Ministero della Salute, dall’Ordine Nazionale degli Psicologi e dall’Organizzazione Mondiale della Sanità dell’importanza di poter fornire un supporto per garantire il benessere psicologico della popolazione, che tutta, in maniera più o meno diretta, è stata colpita dallo stravolgimento causato dal Covid-19.

Paura e Ansia

Sono state citate paura e ansia e queste sembrano assomigliarsi e per certi versi confondersi, va fatto quindi un chiarimento per definirle e differenziarle brevemente. La paura è innanzitutto un’emozione basilare e innata per l’uomo, permette un’attivazione al fine di tutelare la sopravvivenza stessa dell’organismo. Essa è diversa dall’ansia, nonostante possa sembrare simile per via dell’intenso stato di preoccupazione che caratterizza entrambi gli stati emotivi. Una delle caratteristiche principali per comprendere la differenza tra questi due stati emotivi è legata alla presenza del pericolo nel tempo presente. La paura è la preoccupazione rispetto ad un pericolo che è attualmente presente; se volessimo rendere la paura con una metafora, potremmo dire che essa è quell’emozione che abbiamo di fronte ad un leone. L’ansia è più legata ad uno stato preparatorio e/o prolungato nel tempo di preoccupazione per un possibile pericolo che potremmo dover affrontare, ma che ancora non si è palesato di fronte a noi (o che, invece, si è presentato in passato e che attiva un vissuto d’ansia per timore del suo possibile ripresentarsi). Se volessimo riprendere la metafora, l’ansia sarebbe la preoccupazione per l’arrivo di un leone. In un momento come quello che abbiamo attraversato, parti di popolazione hanno dovuto affrontare l’emergenza del virus in prima linea (come ad es. infermieri, medici, conducenti di ambulanze e altre figure), altri l’hanno affrontata comunque come minaccia, anche se non vivendo direttamente la malattia; possiamo ipotizzare un diverso coinvolgimento emotivo o comunque una diversa intensità di emozioni in base all’esposizione con il manifestarsi del Covid-19. Come indicato dalle varie indagini condotte sulla popolazione è stato dimostrato che, prima in Cina nel dicembre 2019 e poi in Europa nel febbraio 2020, ci sia stato un grande incremento della sensazione di paura percepita, (Asmundson, & Taylor,2020) tant’è che si è parlato anche di Coronaphobia. Dal momento in cui la minaccia si è rivelata incerta e continua, come nell’attuale pandemia di coronavirus (Covid-19), il vissuto di paura che è stato esperito più o meno da tutta la popolazione, ha finito per diventare pervasivo e si è manifestato in tante delle sue variabili di intensità. Esperire questa emozione è fondamentale per la nostra difesa e sopravvivenza, proprio in virtù del suo carattere adattivo e attivo per proteggerci, quanto d’altro canto la sua presenza prolungata può diventare cronica e gravosa.

Cos’è un’emergenza

Per parlare della reazione di paura di fronte all’emergenza Covid-19, dobbiamo anche far chiarezza su ciò che si definisce concretamente come uno stato di emergenza, e cosa si associ ad esso. La definizione più comune di ‘emergenza’, fa riferimento ad una situazione particolarmente critica. Emergenza è: una circostanza imprevista, accidente, e, sull’esempio dell’ingl. emergency, a particolare condizione di cose, un momento critico, che richiede un intervento immediato, soprattutto nella locuzione stato di emergenza (Enciclopedia Treccani).

Al concetto di emergenza si associa, quindi, strettamente quello di rischio definito come eventualità di subire un danno connessa a circostanze più o meno prevedibili. Vivere un’emergenza ci pone direttamente nella condizione di sentire su di noi l’eventualità di essere a rischio. Le emergenze possono avere un impatto psicologico importante poiché attivano un vissuto di rischio percepito che può essere vissuto in maniera distorta e amplificata, sino ad arrivare a vissuti di panico, si associa a comportamenti sempre meno razionali, e con sé attiva la catena di risposte biologiche dell’organismo con conseguenze sul corpo e sulla salute psicologica. Vivere eventi emergenziali, nel breve termine, produce effetti transitori e che non comportano danni permanenti, mentre un’emergenza prolungata provoca degli effetti anche permanenti e dannosi sul benessere psicofisico. Questo accade perché l’evento critico è di per sé molto attivante, porta ad un drastico cambiamento rispetto alla situazione precedente all’emergenza e possiamo definirlo con il termine stressor: un elemento del mondo esterno che altera l’equilibrio interno dell’uomo. Inoltre, le persone in un momento di emergenza vedono uno sconvolgimento delle proprie abitudini e sviluppano un senso di impotenza verso tutto ciò che le circonda, che appare come pervaso da forze distruttive e non controllabili. Le domande del mondo esterno in un momento di crisi arrivano con una velocità maggiore rispetto alla capacità di elaborazione degli stimoli esterni che ci è necessaria per produrre una risposta. Attorno all’emergenza si concentrano anche ansie per il futuro, paure per ciò che è percepito come un pericolo nel presente ed emerge un’idea di insicurezza.

E cosa succede al nostro corpo?

Il nostro cervello ricerca sempre l’omeostasi e uno stressor come un evento straordinario emergenziale di questo calibro ci fa perdere l’equilibrio omeostatico e il corpo reagisce con una risposta a questo stress. Durante le emergenze, o quelle che riteniamo emergenze, nel corpo umano si attiva il sistema simpatico (Salpolsky, 2004), questo si trova in prima linea in quegli stati quale vigilanza, eccitazione, attivazione, mobilitazione. Le terminazioni nervose di questo sistema rilasciano l’adrenalina e la noradrenalina, sostanze che possiamo definire messaggeri chimici, che in rapidità mettono in moto i vari organi del nostro corpo. L’adrenalina nello specifico ci pone nella condizione che Cannon definisce flight o fight, ovvero lotta o fuga, quindi ci permette di attivare uno stato fisico e mentale che ci prepara all’azione. È Seyle che ci spiega nel dettaglio le 3 fasi della risposta allo stress:

  • Abbiamo uno stadio iniziale di allarme che si innesca nel momento in cui percepiamo lo stressor;
  • Un secondo stadio di adattamento o resistenza che cerca di ripristinare lo stato allostatico del nostro organismo;
  • Infine, se lo stress si percepisce prolungato nel tempo si entra nel terzo stadio detto di esaurimento.

La situazione Covid-19 si è protratta nel tempo rappresentando uno stato di allarme prolungato e, come abbiamo accennato, un eccessivo prolungamento di uno stato di allarme si traduce poi in conseguenze di malessere per il corpo e per la salute psicologica. Parallelamente all’attivazione fisiologica segue l’attivazione emozionale. Tra le emozioni che si attivano, troviamo la paura che salvaguarda la nostra sopravvivenza ponendoci in uno stato di preparazione all’azione per affrontare la minaccia.

La paura nel caso del Covid-19 si è presentata in diverse sfumature, rivolta al sé, alla propria salute e quindi alla propria sopravvivenza, o a quella di chi ci stava vicino, la paura di perdere qualcuno di caro; il tutto esperito in intensità molto variabili sino ad arrivare a mettere in atto anche comportamenti fobici per evitare il contagio per paura della malattia; vi è stato chi ha sentito la paura di rimanere solo ed isolato a causa della malattia o per via del contatto con persone malate; la paura è stata anche riconducibile alle conseguenze sul piano economico e personale causato dalle misure di chiusura e contenimento che sono state adottate per porre un freno ai contagi; infine, la paura è stata vissuta fortemente da persone che presentavano anche una predisposizione a sviluppare sintomi fobici da prima del Coronavirus. Ad esacerbare questa emozione ha giocato un ruolo fondamentale anche la continua esposizione a notizie preoccupanti e allarmanti, a volte contraddittorie, che ci hanno ripetutamente accompagnati in questi mesi, senza che vi fosse la scelta consapevole di ridimensionare la quantità di tempo passato ad informarsi costantemente e da diverse fonti.

Concentrati a trovare una soluzione

I cambiamenti psicologici dovuti alla paura, inoltre, spesso si traducono nell’iper-focalizzazione sul problema. Tale focalizzazione ci porta a trovarci in un continuo stato di problem solving. Quindi uno stato di perenne ricerca di soluzioni. Legato a questo concetto di attivazione e spinta a trovare una soluzione per la situazione vissuta, è molto interessante l’articolo di MarwaAzab, ripreso dalla dottoressa Francesca Pisacreta, sulle 10 reazioni comuni che si sono presentate durante l’emergenza del Coronavirus. Questo elenco di 10 reazioni sembra spiegare bene tutti quei comportamenti che più o meno abbiamo visto accadere in noi o attorno a noi. Tra queste alcune possono farci comprende come ognuno di noi si è attivato con uno schema comune.

Tra questa rassegna di reazioni si citano di seguito alcune delle più interessanti e comuni.

Abbiamo sperimentato una totale mancanza di controllo, e questo è stato dimostrato essere uno dei fattori che aumentano maggiormente lo stress percepito. Avere la sensazione di avere un controllo inappropriato di fronte a situazioni che consideriamo ‘terribili’ (e il Covid-19 possiamo supporre lo sia stato) ci fa sentire fortemente impotenti e privi di risorse.

Abbiamo iniziato ad abbuffarci. Lo stress può alterare l’appetito. Alcuni sviluppando iperfagia altri ipofagia. Il tipo di stressor che ci troviamo ad affrontare può essere un fattore importante per capire quale delle due risposte si manifesterà in noi, e ovviamente la risposta singola che ogni corpo ha di fronte all’evento stressante. Trovarsi in emergenza può significare trovarsi prima o poi nella difficile condizione di poter non avere un pasto a disposizione, motivo per cui mettiamo nel nostro corpo le riserve necessarie per sopravvivere a tale evenienza. Tuttavia, la sensazione che la minaccia sia già qui fa attivare il nostro corpo con l’idea che i nostri muscoli dovranno muoversi, o almeno questo è quello che la nostra risposta allo stress mette in atto. Quindi abbiamo bisogno di energia e che questa sia disponibile nel modo più veloce possibile, quindi non funge da riferimento quella immagazzinata, bensì quella che ci possiamo procurare nell’immediato e che rifornisce subito i muscoli: parliamo del glucosio e delle forme semplici di proteine e grassi. Sarà per questo che siamo diventati tutti cuochi provetti e siamo andati ad assaltare i supermercati?

Ci è stato praticamente impossibile ripensare ad eventi disastrosi del passato e alla capacità già mostrata di poter far fronte a tali situazioni. Questa sarebbe stata una delle soluzioni ideali se non fosse che gli ormoni dello stress influiscono sulla memoria e quindi il passato non diventa una fonte di informazioni affidabile.

Abbiamo dato credito a fake news. Durante un’emergenza è la nostra amigdala a prendere il sopravvento, come conseguenza si attiva uno stato di iper-prudenza da parte del nostro cervello che tende a cadere in errore e a considerare credibili anche notizie verosimili e un po’ improbabili. Spesso ciò che si fa durante un forte stressor è andare a cercare il maggior numero di informazioni accurate possibili e soprattutto andiamo alla ricerca di quelle informazioni che ci sembrano prevedibili. Tuttavia, tutte queste informazioni, se giungono troppo presto o troppo tardi non sono più utili, anzi diventano stressanti esse stesse.

Alla luce di queste considerazioni, possiamo sottolineare come, i vissuti che questa particolare emergenza ha acceso sono stati come detto all’inizio una messa alla prova per la resilienza di ognuno di noi. Ma va detto anche che nonostante si siano esperiti per la maggior parte delle persone dei momenti di forte stress, preoccupazione e paura, altre persone hanno potuto avere delle esperienze, invece, non del tutto negative. Un vissuto positivo in questa situazione, per quanto possa suonare dissonante, è stato possibile in coloro che hanno potuto trovare un modo per rendersi conto della propria resilienza e delle strategie che hanno permesso loro di affrontare la situazione e poter dare anche un contributo alla comunità, donando a queste persone, quindi, un senso di efficacia che ha permesso loro di rispondere proattivamente a questa situazione.

Le considerazioni che ad oggi, in una fase successiva a quella dell’emergenza iniziale, possiamo fare sono innanzitutto quelle di avere cura e attenzione per i propri pensieri e per le proprie emozioni. Può essere fondamentale per chi ha sperimentato forti vissuti di sofferenza psicologica in questo periodo o per chi teme di svilupparli, potersi affidare ad un percorso di sostegno psicologico che, come accennato all’inizio, è una delle raccomandazioni degli Ordini degli Psicologi, così come degli altri enti della salute. Un percorso Cognitivo – Comportamentale può essere particolarmente adatto data la sua comprovata efficacia scientifica per la cura dell’ansia, del panico, dei disturbi dell’adattamento e altre patologie psicologiche. È necessario mirare ad un supporto che permetta di eliminare i fattori di mantenimento della sofferenza psicologica e di lavorare sui pensieri e sui comportamenti che sono alla base del vissuto di minaccia e sofferenza percepiti. Possiamo porre la nostra attenzione su una serie di considerazioni semplici e immediate per risollevarci da uno stato di paura pervasiva dovuta allo stress, come il circondarsi di una rete sociale che permetta un contatto emotivo e di supporto, trovare quindi fonti di affiliazione e supporto psico-sociale.

Il geropsicologo: ruolo e competenze

L’American Psychological Association (APA) ha pubblicato nel 2003, con una revisione nel 2014, le ‘linee guida per la pratica psicologica con gli anziani’ e riconosciuto nel 2010 la figura del geropsicologo professionale.

 

Il progresso medico e scientifico, le migliori condizioni igienico-sanitarie e il diffondersi di stili di vita sani hanno portato indubbiamente una migliore qualità di vita, con conseguente aumento dell’aspettativa di vita e progressivo invecchiamento della popolazione. D’altra parte, però, si assiste a un aumento dei tassi di prevalenza dei disturbi neurocognitivi (DNC, APA 2013): secondo quanto riporta il più recente World Alzheimer Report (Patterson, 2018), attualmente nel mondo ci sono circa 50 milioni di persone con questa patologia e si prevede che entro il 2050 i casi saliranno a 152 milioni, con stima di una diagnosi di DNC ogni tre secondi. Tali numeri, ovviamente, comportano rilevanti implicazioni economiche con un costo attuale della patologia di circa un trilione di dollari l’anno, rendendo il DNC “priorità mondiale di salute pubblica” (World Alzheimer Report, 2012).

Al momento vengono impiegati farmaci sintomatici per attenuare le manifestazioni cliniche nelle fasi lievi-moderate di malattia. A ciò si aggiungono interventi psicosociali volti a rallentare l’evoluzione del DNC e a garantire migliore qualità di vita a chi ne è affetto, tra cui i protocolli di stimolazione cognitiva, in particolare la Cognitive Stimulation Therapy (CST; Spector et al., 2006), raccomandata dalle linee guida internazionali NICE (2018). Interventi farmacologici e psicosociali non sono in contrasto, anzi, i risultati migliori si ottengono dalla loro interazione (Ballard et al., 2011). Risulta, dunque, evidente la necessità di psicologi formati sui processi di invecchiamento che intervengano a livello domiciliare, semiresidenziale e residenziale al fine di garantire una migliore qualità di vita alle persone affette da DNC e ai loro caregivers.

La figura del geropsicologo

L’American Psychological Association (APA) ha pubblicato nel 2003, con una revisione nel 2014, le “linee guida per la pratica psicologica con gli anziani” e riconosciuto nel 2010 la figura del geropsicologo professionale. Egli è un professionista che indaga stabilità e cambiamenti psicologici della persona che invecchia, rallenta il decorso della demenza tramite interventi di stimolazione cognitiva, adotta strategie gestionali per ridurre i disturbi del comportamento nelle fasi avanzate di malattia e forma e sostiene i caregivers formali e informali, col principale fine di garantire una migliore qualità di vita all’intero sistema. Inoltre, non si occupa solo di invecchiamento patologico, ma anche di invecchiamento sano e attivo, promuovendo una cultura dell’anzianità e arginando forme di ageismo.

Le linee guida APA sopra citate sono delle raccomandazioni per i professionisti, seguite negli Stati Uniti ma che possono essere adattate anche ad altri paesi, offrendo così un quadro di riferimento per il lavoro clinico con gli anziani. Gli aspetti da esse approfonditi sono sei: la consapevolezza da parte del professionista dei propri atteggiamenti e credenze sull’invecchiamento; l’acquisizione di conoscenze circa gli aspetti biologici e sanitari connessi all’invecchiamento e le dinamiche sociali e psicologiche associate; le conoscenze circa la psicopatologia e i cambiamenti cognitivi; la conoscenza dei metodi di valutazione appropriati da un punto di vista psicometrico e culturale; i metodi di intervento, counseling e altri servizi; la necessità di una formazione continua.

Il geropsicologo in Italia

In Italia la figura del geropsicologo non è ancora riconosciuta ufficialmente, infatti la sua presenza nelle strutture per anziani varia di regione in regione. Il Veneto per esempio è una delle regioni che più riconosce l’importanza dell’intervento psicologico in questa fascia di popolazione, infatti gli standard regionali prevedono la presenza di uno psicologo ogni 120 utenti nelle strutture assistenziali in questione. Inoltre, l’Ordine degli Psicologi del Veneto ha pubblicato nel 2013 le linee guida “Ruolo e attività dello psicologo nell’area anziani” al fine di definire le prestazioni, i ruoli, le attività psicologiche e le buone prassi del professionista che si occupa dell’anziano, sia sano che patologico. Si tratta di una guida ateorica che valorizza la competenza multidisciplinare e che delinea le possibili funzioni del geropsicologo, individuando sei aree di intervento: residenzialità e semiresidenzialità, area ospedaliera, area domiciliare, università e centri di ricerca, terzo settore e comunità locale.

Per concludere, essendo la popolazione anziana in crescita, la pratica psicologica professionale con questo tipo di utenza e le pubblicazioni scientifiche a riguardo sono in forte aumento e, senza dubbio, nel futuro prossimo la presenza di figure professionali adeguatamente formate su questo settore saranno determinanti per una migliore qualità assistenziale.

I negazionisti: esempio di una società sempre più psicotica

L’elemento che hanno in comune i negazionisti è l’uso prevalente di un meccanismo di difesa teorizzato e ben studiato dai teorici dinamici: il diniego.

 

Abstract

L’autore intende evidenziare il ruolo della psicoanalisi nel fronteggiare nuove forme di disagio psichico collettivo. Durante la pandemia da COVID-19 diverse persone si sono riunite in gruppi sociali caratterizzate dall’uso del diniego come meccanismo di difesa per contrastare l’angoscia causata dalla pandemia. Tali gruppi sono per l’autore l’esempio di una società sempre più psicotica.

Abstract

The author intends to highlight the role of psychoanalysis in dealing with new forms of collective mental distress. During the COVID-19, several people gathered in social groups characterized by the use of denial as a defense mechanism to counter the anguish caused by the pandemic. For the author, these groups are an example of an increasingly psychotic society.

 

Recentemente Ratner e Gandhi (2020) hanno pubblicato, sulla prestigiosa rivista di medicina The Lancet, un articolo denuncia nei confronti di parte della popolazione statunitense che si rifiuta di eseguire le indicazioni mediche per poter contrastare la diffusione del COVID. Secondo alcuni cittadini U.S.A. il COVID-19 non esiste, per tale motivo è del tutto inutile rispettare le limitazioni imposte dal governo per poter fermare l’esponenziale diffusione del virus.

Un fenomeno analogo si è sviluppato anche nel nostro paese, in Italia i mass media hanno definito ‘negazionisti’ coloro che rifiutano di credere all’esistenza del virus. I negazionisti si sono recentemente radunati a Roma per poter protestare contro le misure adottate dal governo per contrastare l’avanzamento del coronavirus, manifestazione che si è caratterizzata da grida che urlavano no-mask.

Per i negazionisti il COVID-19 non esiste, a Bergamo non è morto nessuno, i video e le foto delle bare mostrate dai mass media erano dei fake, e secondo alcuni di loro i vaccini sono degli strumenti per poter ridurre il numero della popolazione mondiale. Per poter dare sostegno alle proprie tesi i negazionisti fanno uso delle più assurde teorie pseudoscientifiche, basate su aneddoti o elementi parziali di una verità scientifica.

Secondo Ratner e Gandhi vi è la necessità che la psicoanalisi si interroghi e cerchi di ‘curare’ queste nuove forme di disagio sociale. Ma perché proprio la psicoanalisi? L’elemento che hanno in comune i negazionisti italiani con quelli statunitensi è l’uso prevalente di un meccanismo di difesa teorizzato e ben studiato dai teorici dinamici: il diniego.

In accordo con Gabbard (2015) il diniego psichico è una forma primitiva di difesa che permette il disconoscimento di dati sensoriali provenienti dal mondo esterno fortemente destabilizzanti. La realtà esterna viene ritenuta eccessivamente minacciosa per la propria integrità psichica e per tali motivi viene rinnegata. Il diniego è un meccanismo di difesa riscontrato maggiormente nei pazienti psicotici o affetti da un grave disturbo di personalità. Il diniego permette di controllare l’angoscia causata da un evento esterno attraverso la completa negazione dell’evento stesso. I negazionisti mettendo in atto collettivamente il diniego negano l’esistenza all’interno della realtà di un elemento altamente minaccioso per la propria integrità psichica.

Solitamente meccanismi difensivi primitivi come il diniego vengono messi in atto da soggetti con una struttura precaria del proprio Io, struttura che può essere facilmente destabilizzata da eventi esterni catastrofici come il COVID-19.

I negazionisti sono il frutto di una società che promuove e incentiva sempre più l’uso di meccanismi difensivi primitivi come il diniego, una società che sembra essere sempre più psicotica. Il non riconoscimento di un dato oggettivo della realtà è l’elemento diagnostico che permette di individuare le personalità organizzate a un livello psicotico. Molte persone psicotiche possono anche essere ben integrate all’interno della società, non sempre essa è associata a una malattia fortemente invalidante come la schizofrenia. Infatti molti dei negazionisti non sembrano manifestare sintomi di una schizofrenia florida, eppure organizzano la loro identità collettiva attorno al diniego.

Il negazionismo non è limitato esclusivamente al COVID-19, ma coinvolge anche fatti storici come l’olocausto oppure temi sociali come il cambiamento climatico. In molti infatti negano la veridicità del genocidio degli ebrei da parte della Germania nazista, oppure negano l’esistenza di una crisi climatica. Tesi negazioniste molto spesso sono anche incentivate da scienziati associati a diverse lobby o dagli stessi esponenti politici.

Il negazionismo sembra quindi essere un sintomo di una società sempre più strutturata a livello psicotico, in cui si assiste al proliferarsi di impulsi aggressivi diretti nei confronti di coloro che seguono le tesi scientifiche. Affianco al diniego, tra i negazionisti si assiste anche alla manifestazione di alcune ideazioni paranoidi, riscontrate frequentemente nelle organizzazioni psicotiche. Aggressività, diniego e ideazioni paranoidi sono tre elementi che caratterizzano la società moderna e che sono esemplificati dallo strutturarsi di gruppi sociali come i negazionisti.

Come hanno affermato Ratner e Gandhi (2020) la psicoanalisi ha il dovere di interrogarsi sulle dinamiche psicotiche che stanno interessando la nostra società contemporanea. A differenza della società vittoriana vissuta da Freud che era caratterizzata dalla nevrosi e dalla rimozione come elemento strutturante, oggigiorno si viene a contatto con forme di disagio psichico sempre più ‘primitive’ e caratterizzate dal diniego o meccanismi di difesa simili. Il negazionismo è il sintomo gruppale di una psicosi sociale sempre più dilagante.

La psicoanalisi e anche le altre forme di psicoterapia focalizzate su dinamiche interne sia individuali che sociali, hanno l’obbligo di diventare strumenti di trasformazione sociale, andando oltre gli studi dei professionisti privati che da anni esercitano la pratica terapeutica. Già Freud aveva auspicato per la psicoanalisi un compito del genere, compito che diventa ancora più centrale in tempi di crisi come quella che il mondo si trova ad affrontare oggigiorno. La manifestazione di forme collettive patologiche come il negazionismo si combattono attraverso campagne educative sociali in cui la psicoanalisi o altre forme di psicoterapia diventano la base di trasformazioni socio-culturali indispensabili per una crescita generale dell’umanità. Il proliferarsi di dinamiche sempre più primitive all’interno della società deve preoccupare non poco tutti i professionisti impegnati nella salute mentale a un ripensamento delle strategie di cura e di prevenzione a livello sociale.

 

Usi e costumi nei siti di incontri online

E’ veramente il genere sessuale la variabile che meglio ci fa comprendere l’utente di siti e app di incontri online come Tinder e che ci fa prevedere i motivi che sono dietro il loro uso?

 

Internet sta con il tempo modificando le nostre abitudini. Molte cose che prima venivano fatte in luoghi fisici, come leggere il giornale, comprare un paio di scarpe o guardare la mappa di una nuova città, ora possono essere svolte davanti ad uno schermo, e in tempi più rapidi.

Ma per rendere ancora più evidente come internet abbia rivoluzionato il nostro modo di vivere basta pensare a come stanno cambiando le nostre abitudini relazionali. Internet ha infatti arricchito le possibilità che abbiamo di conoscere nuove persone, rendendo questa conoscenza indipendente dalla distanza che separa le persone. Non si sta affermando che oggi conosciamo necessariamente più persone di prima, ma che siamo sicuramente agevolati nel farlo.

In questo clima di maggiore ed indistinta connessione interpersonale, si sono diffusi nel tempo siti ed app di incontri: uno di questi e sicuramente il più popolare è Tinder, introdotto nel 2012.

L’esperimento di Botnen (2018) mostra come la maggior parte delle persone che usano questi siti per appuntamenti non siano interessati a cercare l’anima gemella, ma bensì a incontri occasionali, o ‘short term encounters’. Tuttavia la stessa ricerca, insieme a quella compiuta da Hallem (2018), mostra comunque un ampio ventaglio di motivazioni che, in alternativa, spingono ad usare questi siti: le persone possono infatti essere interessate a cercarvi individui con cui sviluppare una relazione duratura. Allo stesso modo invece possono decidere di usarli per assecondare i loro desideri sessuali con uno sconosciuto, per il semplice motivo che questi siti stanno diventando di tendenza, per la maggiore facilità della comunicazione, o semplicemente per noia.

Ma chi sono questi utenti e da cosa sono accomunati?

Il senso comune ed anche una consistente quantità di ricerche (Lippa, 2009; Schmitt, 2005; Peter and Valkenburg 2007; Tolman et al. 2003; Sumter, 2017) ci spingono a pensare agli uomini come più impegnati nella ricerca di nuove e brevi avventure sessuali. Le donne invece sembrerebbero vestire il ruolo più romantico, dell’utente più interessato a trovare un partner con cui creare una relazione.

Questa asimmetria sessuale legata al genere è in linea con il ruolo sessuale socialmente interiorizzato dell’uomo e della donna, che ha la sua base teorica sui precetti della Teoria dell’Investimento Parentale di Trivers (1972). L’universalità del differente, e se vogliamo complementare, comportamento sessuale dell’uomo e della donna sarebbe radicato nell’evoluzione della specie umana, che ha visto l’uomo impegnarsi in molteplici relazioni a breve termine per fare in modo di massimizzare la riproduzione. Le donne, invece, hanno meno da guadagnare dall’avere più partner sessuali e sono perciò biologicamente vincolate a ricercare ‘l’impegno’ con il proprio partner, in quanto si trovano ad operare all’interno dei limiti fisici imposti dalla maternità. Le donne saranno infatti motivate a stabilire una relazione che fornisca loro le risorse durante i mesi di gravidanza e nella crescita dei bambini.

Tale organizzazione segue perciò il diverso grado di ‘investimento’ compiuto dai due partner, che ha permesso l’evoluzione stessa della specie. Tale differenza biologica tra uomo e donna che si è protratta nel tempo, stabilendo ruoli di genere ben precisi, si traduce oggi nella diversa modalità di pensare gli incontri che l’uomo e la donna mettono in atto (Easton et al. 2015).

Ma è veramente il genere sessuale la variabile che meglio ci fa comprendere l’utente di questi siti e che ci fa prevedere i motivi che sono dietro il loro uso?

Rispondere con un no categorico significherebbe non considerare tutte le ricerche e le teorie menzionate sopra. Chiunque si introduca nel tema che stiamo trattando in questo articolo non può affatto ignorare le differenze di genere sul tema delle strategie sessuali. Tuttavia, la ricerca di Hallam (2018) e di Botnen (2018) ci invitano a prendere in considerazione un’altra variabile rispetto al genere: l’orientamento socio-sessuale.

L’orientamento socio-sessuale è la propensione e il comportamento del singolo individuo riguardo il sesso occasionale (Simpson and Gangestad 1991). Tale variabile non punta più sull’osservare il sesso, ma sull’osservare il singolo indipendentemente dal sesso.

Anche se tale concetto è stato esposto per la prima volta da Alfred Kinsey (Kinsey et al. 1948) nel 1948, è stato messo in pratica nel campo della ricerca solo negli anni ’90, dopo che Simpson e Gangestad hanno messo a punto il Sociosexual Orientation Inventory (SOI) nel 1991 (Hallam et. al, 2018). Tale inventario permette l’acquisizione delle misure self-report di comportamenti, desideri e propensioni dei soggetti, che vengono poi tradotti in un valore all’interno della polarità ‘ristretto/non-ristretto’ dell’orientamento socio-sessuale. Con ristretto si intende la tendenza del soggetto a volere rapporti sessuali esclusivamente all’interno di relazioni ad alto coinvolgimento emotivo e che richiedono impegno verso l’altro. L’estremità dell’orientamento non-ristretto indica invece la tendenza a preferire relazioni che richiedono basso impegno, scarsa intimità e minimo coinvolgimento emotivo (Simpson e Gangestad 1991).

Parliamo di orientamento socio-sessuale perché se è vero che le ricerche focalizzate sul genere ci mostrano come gli uomini siano più inclini a cercare relazioni sessuali occasionali rispetto alle donne, non possiamo ignorare che molti uomini non rientrano in questa casistica. Lo stesso vale per quelle donne che al contrario dimostrano di preferire relazioni sessuali più fugaci e meno impegnative.

L’esperimento di Hallam (2018) ha preso in considerazione un campione di 254 persone, tra i 18 ed i 65 anni. Il 57,9% era composto da donne, il resto da uomini. La ricerca iniziava con un questionario circa la loro esperienza di incontri online. Le persone che hanno dichiarato di non avere avuto precedenti esperienze di incontri online (n = 53) sono state scartate dall’esperimento, in quanto la loro partecipazione non era in linea con l’argomento in analisi. L’esperimento infatti voleva indagare la rilevanza della variabile di genere nel comportamento sessuale, e se l’orientamento socio-sessuale dei soggetti predicesse meglio del genere la strategia negli appuntamenti degli utenti dei siti di incontri online.

Ai partecipanti sono state somministrate una serie di domande che indagavano le motivazioni dietro l’uso di questi siti, la loro età, il loro sesso ed il loro orientamento socio-sessuale, mediante l’ultima versione del SOI. Quindi sono stati analizzati i risultati, dapprima non considerando l’orientamento socio-sessuale, per poi considerare anche tale variabile.

Nella prima fase dell’analisi è stato registrato un notevole effetto del genere sulla strategia adottata dai soggetti durante l’uso di questi siti: è stato infatti appurato che i partecipanti di sesso maschile erano quelli che più cercavano in questi siti relazioni occasionali. Tuttavia, la seconda analisi che prendeva in considerazione anche l’orientamento socio-sessuale dei partecipanti ha mostrato come gli individui con un orientamento ‘non-ristretto’, che quindi preferiscono relazioni sessuali meno intime ed impegnative dal punto di vista sentimentale, erano più motivati a usare i siti e app di incontri per cercare sesso occasionale, e che viceversa individui con un orientamento socio-sessuale ‘ristretto’ erano più motivati a usare gli stessi siti per ricercare relazioni più impegnative. Molto interessante è il fatto che in quest’ultima analisi l’effetto della variabile di ‘genere’ emerso precedentemente era completamente sparito, in quanto la variabile dell’orientamento socio-sessuale aveva fatto confluire le donne e gli uomini dell’esperimento dentro lo stesso gruppo. Con questo esperimento la tesi iniziale è stata confermata, dimostrando che la variabile dell’orientamento socio-sessuale, meglio di quella del genere sessuale, riesce a predire le strategie degli utenti che usano i siti e le app di incontri online.

Lungi dal sottovalutare il binomio genere-strategia sessuale, tale ricerca, insieme a quella svolta da Botnen (2018) invita i ricercatori a considerare la variabile dell’orientamento socio-sessuale nello studio dei comportamenti sociali entro la sfera sessuale.

Tale modo di pensare ci spinge a porre più attenzione all’unicità del singolo individuo, piuttosto che definire i suoi comportamenti in base alla categoria sociale a cui appartiene. Quando si mantiene una rappresentazione troppo generalizzata e, quindi, rigida del genere sessuale si rischia di sottovalutare la flessibilità delle sue caratteristiche, oltre alla plasticità che ognuno di noi dimostra nel far fronte alle molteplici richieste dell’ambiente. Questo è tanto più vero se pensiamo alla nostra società e a come questa stia vivendo una lenta ma progressiva rivoluzione dei ruoli sociali legati al genere.

 

L’effetto della ruminazione rabbiosa nei bambini affetti da un disturbo dello spettro autistico

Data l’elevata compresenza esistente tra il disturbo dello spettro autistico (ASD) e i comportamenti dirompenti, una miglior comprensione del ruolo della ruminazione rabbiosa nell’ASD potrebbe contribuire allo sviluppo di nuovi trattamenti terapeutici

 

La ruminazione rabbiosa è un processo cognitivo caratterizzato da una tendenza a focalizzarsi su esperienze passate frustranti che hanno suscitato rabbia (Sukhodolsky et al., 2001). Trattandosi di una forma disadattiva di elaborazione emotiva, la ruminazione può precludere l’utilizzo di strategie di regolazione, quali la ristrutturazione cognitiva e il problem solving (Connor-Smith et al., 2000; Nolen-Hoeksema et al., 2008), dando origine ad un ampio spettro di condotte, quali manifestazioni ansiose e depressive (Aldao et al., 2010) o, ancora, comportamenti dirompenti, come irritabilità e aggressività (Aldao et al., 2016).

Il disturbo dello spettro autistico (ASD) è caratterizzato da deficit persistenti nella comunicazione e nell’interazione sociale, nonché dalla messa in atto di comportamenti ristretti e ripetitivi (American Psychiatric Association, 2013). Inoltre, è stato osservato che oltre il 50% dei bambini affetti da un disturbo dello spettro autistico presenta, al contempo, un disturbo del comportamento dirompente (DB) e/o disturbi internalizzanti (Lecavalier et al., 2019) che compromettono il funzionamento globale dei singoli.

In letteratura sono presenti numerosi studi che si sono proposti di indagare gli effetti della ruminazione rabbiosa nei bambini, ma si sa ancora poco rispetto all’influenza esercitata dalla ruminazione rabbiosa in infanti affetti da un disturbo dello spettro autistico. Difatti, solo due studi (Patel et al., 2017; Pugliese et al., 2015) hanno fornito una prova preliminare che in soggetti affetti da un disturbo dello spettro autistico, vi sia una maggior tendenza ad impegnarsi in un meccanismo di ruminazione focalizzato sulla rabbia e di una sua possibile associazione con i principali sintomi che caratterizzano il disturbo sopracitato.

Data l’elevata compresenza esistente tra l’ASD e i comportamenti dirompenti, una miglior comprensione del ruolo della ruminazione rabbiosa nell’ASD potrebbe contribuire allo sviluppo di nuovi trattamenti terapeutici (Mazefsky & White, 2014), motivo per cui un gruppo di ricercatori si è posto l’obiettivo di indagare le eventuali differenze esistenti nei meccanismi di ruminazione rabbiosa in un campione di bambini con ASD rispetto a bambini affetti da un disturbo del comportamento dirompente ed un gruppo di controllo. In secondo luogo, gli autori hanno ipotizzato che i meccanismi di ruminazione rabbiosa sarebbero stati associati a comportamenti aggressivi, nonché ai comportamenti ristretti e ripetitivi, tipici dei soggetti affetti da ASD.

Lo studio ha visto dunque la partecipazione di soggetti con un’età compresa tra gli 8 e i 16 anni; di questi, 63 erano affetti da un disturbo dello spettro autistico, 79 avevano ricevuto una diagnosi di disturbo del comportamento dirompente e 44 costituivano il gruppo di controllo. Inoltre, trattandosi di uno studio focalizzato sull’analisi della ruminazione rabbiosa nel disturbo dello spettro autistico, il gruppo composto da bambini con ASD è stato ulteriormente diviso in due sottogruppi, al fine di effettuare delle analisi post hoc che consentissero di esaminare le differenze nella ruminazione rabbiosa nei bambini con ASD con e senza comportamenti dirompenti concomitanti, definiti rispettivamente ASD/DB+ e ASD/DB-. Gli autori hanno dunque ulteriormente ipotizzato che i bambini ASD con disturbo del comportamento dirompente avrebbero mostrato livelli maggiori di ruminazione rabbiosa rispetto all’altro sotto-gruppo.

Per quanto concerne gli strumenti impiegati, è stata utilizzata l’Anger Rumination Scale (ARS; Sukhodolsky et al., 2001), al fine di misurare la tendenza dei partecipanti a soffermarsi su episodi che hanno suscitato rabbia, mentre, la seconda edizione della Social Responsiveness Scale (SRS-2; Constantino, 2005) è stata somministrata al fine di valutare i sintomi associati al disturbo dello spettro autistico, come i comportamenti ripetitivi e stereotipati. In questo caso, è stato chiesto ai genitori di compilare la suddetta scala. Ulteriormente, mediante la seconda edizione dell’Autism Diagnostic Observation Schedule (ADOS-2; Lord et al. 2012) è stata valutata la comunicazione, l’interazione sociale ed i comportamenti ristretti. Infine, con l’obiettivo di analizzare l’aggressività dei partecipanti, è stato chiesto ai genitori di compilare il Reactive-Proactive Agression Questionnaire (RPQ; Raine et al., 2006).

Coerentemente con le aspettative e con gli studi precedenti (Patel et al., 2017), i bambini affetti da un disturbo dello spettro autistico e i bambini con un disturbo del comportamento dirompente hanno mostrato livelli più elevati di ruminazione rabbiosa rispetto ai controlli sani, lasciando intendere la tendenza di questi soggetti ad impegnarsi in modelli disadattivi di regolazione (Mazefsky et al., 2014). I livelli di ruminazione rabbiosa erano però simili tra i gruppi ASD e DB, il che potrebbe suggerire che i due disturbi condividano un meccanismo sottostante di compromissione emotiva. Inoltre, questi risultati supportano l’ipotesi che la ruminazione sia un processo transdiagnostico comune a tutti i disturbi (Aldao et al., 2016). È interessante notare che il sottogruppo ASD/ DB+ ha mostrato maggiori livelli di ruminazione rabbiosa rispetto al sottogruppo ASD/DB-, il che è coerente con gli studi condotti su popolazioni con sviluppo tipico, che indicano che vi sia una maggior tendenza alla ruminazione rabbiosa nei giovani con disturbi del comportamento dirompente (Harmon et al., 2017). Infine, i risultati hanno mostrato che alti livelli di ruminazione rabbiosa erano associati a maggiori comportamenti ristretti e ripetitivi nei bambini affetti da un disturbo dello spettro autistico, rispetto agli infanti con sviluppo tipico. Anche in questo caso, i risultati si sono dimostrati coerenti con gli studi precedenti che avevano riportato una prova preliminare dell’associazione tra la ruminazione rabbiosa e i sintomi tipici del disturbo dello spettro autistico, come la perseveranza o l’eccessiva aderenza alla ripetitività (Pugliese et al., 2015). Queste scoperte sono degne di nota in quanto lasciano intendere che i comportamenti stereotipati e la rigidità del pensiero che caratterizzano i soggetti affetti da un disturbo dello spettro autistico potrebbero predisporli al meccanismo della ruminazione, determinando una maggiore difficoltà a disimpegnarsi da questa tipologia di pensieri perseveranti (Mazefsky et al., 2012). Purtroppo, data la natura correlazionale dello studio in questione, direzionalità e causalità non possono essere dedotte da queste associazioni. Pertanto, studi futuri dovranno fornire una migliore comprensione circa l’effetto della ruminazione nel disturbo dello spettro autistico, affinché si possano sviluppare nuovi interventi clinici che consentano di migliorare il funzionamento globale di questi pazienti.

 

La Musica in Gravidanza

In che modo l’ascolto della musica e della voce o del canto materno durante la gravidanza possono influenzare la relazione di attaccamento tra madre e bambino? E come la musica agisce sugli aspetti psicologici, quali ansia, depressione e stress?

Mariasilvia Rossetti e Giulia Balerci – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

La musica è un linguaggio universale ed è una disciplina che viene utilizzata in molti ambiti e con varie finalità: educative, di rilassamento, riabilitative, formative, narrative, espressive, rappresentative, artistiche e ludiche.

Sin da bambini, siamo esposti alla musica, alle canzoni e alle filastrocche recitate e cantate in modo divertente, che hanno il potere di far sorridere e rilassare. La musica permette al bambino anche di esperire la propria emotività e affettività, di apprendere, giocare, comunicare e trarre beneficio da essa.

Attraverso l’intervento musicoterapico, che per sua natura è multidisciplinare, è possibile indurre modificazioni a vari livelli: intrapsichico e interpersonale, ma anche cambiamenti a livello comportamentale e fisiologico (Raglio, 2008).

Tale articolo intende illustrare in che modo l’ascolto della musica e della voce o del canto materno durante la gravidanza possano influenzare la relazione di attaccamento tra madre e bambino e in che modo la musica agisca sugli aspetti psicologici, quali ansia, depressione e stress. Gli interventi musicali agiscono prevenendo l’incremento e il peggioramento di tali fattori di rischio ed evitando ripercussioni sia sulla mamma che sul nascituro, quali ad esempio depressione post-parto, ansia cronica, problematiche nello sviluppo cognitivo-motorio del bambino e autismo (Barlow & Glover, 2014).

Già nel periodo gestazionale l’orecchio è predisposto all’ascolto ed è sollecitato dal suono e dal tono di voce dalla mamma, dalle sue parole, dal continuo sottofondo del ritmo del battito cardiaco e dal suono prodotto dal flusso del liquido amniotico.

Vari studi hanno esaminato gli effetti benefici dell’ascolto di musica, in modo costante, sullo stress, sull’ansia e sulla depressione nelle donne durante il periodo della gravidanza.

Questa fase potrebbe essere caratterizzata da una prevalenza di stress psicologico dovuto ai cambiamenti che la coppia deve affrontare. Cambiamenti che riguardano una modifica dei ruoli interpersonali, ma anche gli stessi cambiamenti fisici e corporei che la gravidanza comporta per la donna. Non sono da tralasciare anche le preoccupazioni dovute ad eventuali e possibili complicazioni relative sia alla gestante che al feto. Tali problematiche andrebbero ulteriormente ad incrementare lo stress e l’ansia, predisponendo la mamma allo sviluppo di psicopatologie.

Gli studi mostrano che gli interventi basati sull’ascolto di musica, specialmente se in gruppo, riducono significativamente il livello di ansia materno (van Willenswaard et al., 2017). Relativamente allo stress, le evidenze mostrano che l’efficacia dell’intervento dipende dalla scelta della musica a partire dalle preferenze delle gestanti (Jiang, Zhou, Rickson & Jiang, 2013).

L’ansia nel periodo gestazionale, nei mesi prima del parto, potrebbe avere effetti negativi anche sul nascituro, oltre che sul benessere della mamma, perché potrebbe causare la nascita pretermine, alti rischi di depressione post-parto e problemi cognitivi ed emotivi nel bambino (Lin et al., 2019). La ricerca mostra che, l’intervento musicale, preferibilmente durante il terzo trimestre di gravidanza, piuttosto che durante il travaglio, si è rilevato efficace nel ridurre il livello d’ansia e può essere utilizzato come valida alternativa ai farmaci ansiolitici, i quali, a loro volta, aumentano le nascite pretermine e il basso peso del bambino alla nascita. Inoltre, tale intervento è molto praticabile, poco costoso, accessibile a tutti e senza effetti collaterali, al contrario del trattamento farmacologico.

Durante la gravidanza le puerpere presentano spesso i sintomi caratteristici della depressione: stanchezza, insonnia, irritabilità e anedonia.

Come già precedentemente detto, tale fase della vita è un periodo che prevede una transizione da un ruolo ad un altro, che include un adattamento emotivo e cambiamenti fisici. È stato visto che l’ascolto regolare della musica supporta la salute mentale della mamma, andando a ridurre i sintomi della depressione, riducendo il livello di cortisolo e di ansia (Fancourt & Perkins, 2018).

Così come l’ansia, anche la depressione durante la gravidanza può causare effetti avversi nel feto e, di conseguenza, sul bambino. I comportamenti e gli stati psico-emotivi esperiti dalla mamma vengono percepiti dal feto e contribuiscono al suo benessere.

Anche lo studio condotto da Nwebube, Glover e Stewart (2017) suggerisce di utilizzare l’intervento musicale come mezzo efficace non farmacologico per ridurre l’ansia e la depressione prenatali. In particolare, l’ascolto regolare di musica rilassante può ridurre i sintomi di ansia e depressione nelle donne incinte. Per 12 settimane le partecipanti hanno ascoltato musica giornalmente e attraverso dei questionari si sono indagati gli andamenti dell’ansia e della depressione. I risultati mostrano una diminuzione dell’ansia di stato, dell’ansia di tratto e della depressione.

L’ascolto della musica, inoltre, può alterare lo stato di eccitazione e modificare l’umore. Uno studio (Ventura, Gomes, & Carreira, 2012) condotto con donne in stato di gravidanza ha mostrato che se veniva fatta ascoltare loro la musica, prima di sottoporsi all’amniocentesi, questo riduceva sia l’ansia di stato che i livelli di cortisolo. Ha effetti benefici anche se utilizzata prima e durante la preparazione al parto cesareo, poiché va a ridurre i livelli di stress e permette, in questo modo, di somministrare alla donna un dosaggio minore di anestetico (Sidorenko, 2000).

Un altro intervento musicale, invece, ha insegnato a cantare ‘ninna nanne’ alle mamme durante la gravidanza (Carolan, Barry, Gamble, Turner, & Mascareñas, 2012) ed è stato rilevato che questo le ha aiutate ad esprimersi emotivamente, a ridurre il livello di ansia e a vivere un’esperienza positiva durante il periodo antecedente al parto.

Gli effetti benefici dell’ascolto di musica sulle emozioni della mamma si riflettono, a loro volta, sugli stati comportamentali del bambino appena nato, sulle sue prestazioni motorie, che risultano migliori rispetto al gruppo dei bambini di controllo, e sulla sua plasticità neurale (Arya, Chansoria, Konanki & Tiwari, 2012). Il feto, già a 28-32 settimane di gestazione, risponde con un aumento o una diminuzione della frequenza cardiaca a seconda dell’intensità del suono che gli viene fatto ascoltare, e questo potrebbe indicare un’attenzione selettiva allo stimolo sonoro proposto. Dalla trentatreesima settimana si rilevano un aumento più sostenuto della frequenza cardiaca e un cambiamento nei movimenti del corpo (Kisilevsky, Hains, Jacquet, Granier‐Deferre & Lecanuet, 2004). Questi effetti sono probabilmente mediati dai cambiamenti endocrini prodotti nella mamma, tra i quali un aumento degli ormoni della crescita, un incremento nella secrezione di steroidi e nei livelli di cortisolo e di testosterone. Anche altri studi mostrano che, nel terzo trimestre di gravidanza, durante l’ascolto di musica, si rilevano un aumento di movimenti del feto e una diminuzione delle contrazioni dell’utero, abbassando così il rischio di nascita pretermine. Anche l’ascolto della voce materna produce, in risposta, un aumento del battito cardiaco e dei movimenti del feto (Noura, 2005; Gebuza, Zaleska, Kaźmierczak, Mieczkowska, & Gierszewska, 2018).

Le interazioni tra gestante e feto durante la gravidanza vanno ad influenzare, oltre che la salute mentale della mamma prima e dopo il parto, anche la relazione di attaccamento: poiché aumentano le interazioni e la responsività della mamma ai comportamenti e alle richieste del bambino, di riflesso si riduce il rischio dello sviluppo di una depressione post parto (Mahmoudi, Elyasi, Nadi & Shirvani, 2020). Anche in questo caso, l’ascolto della musica apporta miglioramenti, incrementando la relazione di attaccamento tra la madre e il feto (Lee, 2010; Yang & Kim, 2010).

Jurgens, Levy-Rueff, Goffinet, Golse e Beauquier-Macotta (2010) hanno mostrato che l’origine del legame tra madre e bambino si colloca in gravidanza, precisamente nel momento in cui la madre inizia a percepire i movimenti fetali. È proprio in questo momento che comincia ad instaurarsi una relazione affettiva e interattiva con il bambino che cresce al suo interno, definita da Jurgens ‘attaccamento materno-fetale’.

Già nel ventre materno il bambino è immerso in stimoli sensoriali; la sua pelle è molto ricca di recettori specifici per le vibrazioni sonore, che permettono la percezione uditiva (Soldera, 2005). Il feto è stimolato dal battito cardiaco, dal respiro materno, dai ritmi sonno-veglia, dalla voce materna e percepisce questi ‘suoni’ attraverso le vibrazioni del flusso amniotico (Gualtieri, 2006).

Questi contatti sonori, primo tra tutti, la voce materna, oltre a stimolare l’attività delle cellule, delle vie uditive cerebrali e a favorire lo sviluppo delle abilità intellettive, sono una modalità per creare un vincolo affettivo tra adulto e neonato. Già alla nascita, se durante la gravidanza sono stati effettuati interventi di stimolazione uditiva, il bambino è in grado di discriminare la voce materna tra le altre e da quella del padre (Carnicer & Garrido, 2006).

Se durante la gestazione la mamma ha stabilito una relazione affettiva con il bambino, continuerà in modo più facile a mantenerla anche dopo la nascita: si crea così un ponte, un continuum del legame di attaccamento tra gravidanza e post-nascita.

Per quanto riguarda la relazione genitoriale, non è da trascurare l’apporto della voce paterna, caratterizzata da un timbro e una tonalità diversi. Viene suggerito anche a lui di parlare con il feto e, se possibile, cantare al bambino, in modo da entrare in sintonia e in relazione con i vissuti materni e fetali. In questo modo, inizierà anche lui ad instaurare una relazione con il figlio e a contribuire alla maturazione sensoriale del feto (Manfredi & Imbasciati, 2004).

Possiamo concludere che le esperienze sonore tra madre e bambino, a partire dalla gravidanza, e l’ascolto della musica in alcune fasi della gestazione, influenzano positivamente sia il benessere e lo sviluppo del feto, che il benessere della gestante prima e dopo il parto.

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