expand_lessAPRI WIDGET

Born To Surf 2.020 (2020) di Flavio Nascimbene- Recensione del libro

Con grande capacità di evoluzione e adattamento i servizi digitali ci hanno consentito di introdurre nel nostro quotidiano smart-working, sedute on-line, lezioni di fitness su zoom, dirette Instagram e intrattenimenti di ogni genere.

 

Le nostre vite oggi sono cambiate. È un affermazione che ormai inizia quasi a diventare vecchia.

Nel corso della nostra evoluzione diverse invenzioni sono state in grado di dare una forte accelerazione a questo processo che l’essere umano percorre da sempre. In questo momento storico assistiamo ai cambiamenti che si ascrivono a quella che possiamo definire “l’era digitale” e ”l’Homo Digitans”, come definisce Michele Spaccarotella (Il Piacere Digitale, 2020), ne è il suo indiscusso abitante.

Oggi più che mai, nel pieno corso di una crisi sociale senza precedenti, il digitale è stato tra le risorse più usate e abusate assieme all’amuchina e al lievito di birra, permettendoci di assaporarne sempre più vantaggi, limiti e anche pericoli. Con grande capacità di evoluzione e adattamento, i servizi digitali hanno soddisfatto esigenze dell’utenza quasi in tempo reale consentendoci di introdurre nel nostro quotidiano smart-working, sedute on-line (o teleterapia), lezioni di fitness su zoom, dirette Instagram e intrattenimenti di ogni genere riuscendo ad ammortizzare un colpo che la nostra società non era preparata a ricevere.

Questo cambiamento sta da tempo coinvolgendo inevitabilmente la nostra professione di psicologo ed è assolutamente opportuno e necessario fermarsi a riflettere sulle conseguenze che ne derivano sia sulle nostre vite che nel nostro contesto lavorativo.

Flavio Nascimbene è uno di quei colleghi che lo sta facendo da tempo e lo fa anche con molta cura e competenza e ora ha voluto condividere il suo interessante impegno e il suo utile punto di vista con il suo libro Born to Surf.

Se avessi letto la prima parte di questo libro negli anni 90, dalle prime righe avrei pensato di aver iniziato quasi un racconto di Asimov. Questo perché l’autore introduce l’argomento proiettando il lettore da subito in una realtà di vita intrisa di abitudini digitali. Ho letto le pagine sul mio portatile in giro per la città, per restare attaccato a questa sensazione e trattenere il senso fluido e veloce delle infinite opportunità che il mondo digitale è solito farci provare; liberi da vincoli strutturali, ogni posto poteva essere una sala di lettura metropolitana. La sensazione personale che ho sviluppato però andando avanti è divenuta presto ambivalente. Da una parte il senso di arricchimento, quella possibilità tendente all’infinito dove il digitale è una risorsa senza limiti, dall’altra la mia dimensione analogica di pre-millennial ha iniziato a provare un senso di invadenza, di costrizione.

È proprio questo uno dei punti fermi del libro, tutta questa facilitazione di vita e ricchezza di opportunità offerta dal mondo digitale viene descritta raccontando anche l’altra faccia della medaglia, quella che impegna in modo significativo le nostre facoltà cognitive di pre-millennials che assistono ad un mondo che cambia e si evolve, ma non sempre in modo semplice e intuitivo. Con delle sue regole che nascono e si sviluppano tra necessità di gestirlo e di nutrirlo, come se avesse vita propria.

Un mondo che a volte tende a divenire marcatamente diviso dall’esistenza di differenti generazioni che lo abitano e lo utilizzano in modo differente.

Parte della realtà è cambiata, siamo in un contesto dove ormai i parametri che definivano le nostre abitudini quotidiane prettamente analogiche, non sono più gli stessi, ci sono nuove modalità e nuove regole.

Flavio Nascimbene lo descrive dal punto di vista di chi c’era prima e cerca di capirne il senso con curiosità e riflessioni che non risparmiano un sano spirito critico e a volte anche preoccupato. Tempi, distanze e altri aspetti che poco tempo fa costituivano dei limiti, ora assumono un valore diverso attraverso infinite possibilità che chiamiamo applicazioni. Il problema? Dobbiamo scegliere costantemente tra tutte le possibilità che offrono queste applicazioni con un ipertrofico senso di responsabilità al quale prima non eravamo abituati.

Possiamo restare in collegamento continuo con i colleghi e amici, accedere a tante modalità di spostamento nella nostra città e ordinare cibo on line con una facilità incredibile. Ciò che cambia è il modo di definire noi stessi e anche quello di rapportarsi alle altre persone. Gli spazi personali sono concepiti con confini più fluidi e meno formali.

Le nostre dimensioni sociale, organizzativa, interpersonale e personale, hanno nuovi confini e meno limiti rendendoci a volte disorientati attraverso queste nuove infinite possibilità. Il percorso evolutivo intrapreso sembra irrimediabilmente tracciato e incontrovertibile mentre diviene sempre più faticoso farne una sintesi per utilizzarlo al meglio rispetto le nostre necessità.

Cavalchiamo un cambiamento in itinere che sembra impossibile da arrestare e ancora più difficile da sintetizzare in modo semplice. Insomma non si torna certo indietro e quindi non ci resta che cercare di comprendere come le cose cambiano e quindi come adattarci al meglio possibile.

Quali sono quindi le implicazioni di tutto questo nelle nostre vite? Cosa accade tra le varie generazioni coinvolte? Sembrerebbe che qualcosa con tanto potere di collegarci e metterci in comunicazione gli uni agli altri, paradossalmente stia creando enormi distanze tra le generazioni.

Ed è proprio in questa cornice che in Born to Surf l’autore prova a cercare di comprendere come la generazione Millennials (nota anche come generazione X e Y) sia differente rispetto a quella dei giovani di venti anni or sono. Lo fa studiando una sotto categoria ben precisa: la generazione dei giovani sportivi.

Un tentativo di costruire un ponte tra le generazioni pre e post Millennials

questo rappresenta infatti questo libro per il Flavio Nascimbene.

Ma chi sono i Millennials e sopratutto chi è il millennials sportivo?

Questo è ciò che cerca di descrivere l’autore nella prima delle due parti del libro.

Circa il 40% della popolazione mondiale è rappresentato dai Millennials. Questa generazione, rispetto alla precedente, vive diversamente le relazioni, immagina la carriera lavorativa con modalità adattive meno rigide e acquisisce continuamente nuove capacità al fine di adattarsi a un mondo mutevole, interattivo e sempre meno prevedibile.

In tutto questo il Millennials è esposto a un processo di costruzione della propria identità differente dal nostro. Ognuno di noi, di norma, mette in atto un processo costante di integrazione tra realtà interna e realtà esterna. Quest’ultima è fatta di informazioni ed esperienze e viene percepita ed elaborata al fine di essere utilizzata in un’importante processo di categorizzazione che ci aiuta a dare senso e ordine alle cose. Lo sviluppo di questo processo per ognuno di noi è essenziale al fine di definirci e orientarci nell’assumere una posizione nel mondo e nella società con un identità e un ruolo definito al suo interno.

Il Millennials diversamente si interfaccia con una realtà on-line di cui ne è contemporaneamente cittadino e fautore. Una realtà che egli alimenta e arricchisce attraverso immagini di Sé selezionate attraverso un processo di impression management con lo scopo di confezionare identità più desiderabili e piacevoli attraverso il quale contemporaneamente si definisce e rappresenta («La personalità online – Tracce digitali dell’identità», Villani e Triberti 2018).

L’Interrealtà è il nome con cui può essere definito il nuovo spazio sociale (V. Van Kokswijk, 2003; Riva, 2009) dove il Millennials costruisce la propria identità che viene affidata a cangianti algoritmi ideati da ben altri scopi come racconta il documentario The social dilemma (2020).

Tale contesto del tutto inedito è fonte di  preoccupazione del clinico che cerca di comprenderne i vantaggi e gli svantaggi.

Tanto da arrivare a domandarsi se il Web 2.0 si un vantaggio reale o una regressione di massa.

Nel libro si sceglie di concentrare l’attenzione di questa indagine principalmente su una categoria ben specifica di millennials, quella degli sportivi attraverso 62 casi studio.

Questa scelta, sviluppata nella seconda parte del libro, riesce a mettere a confronto due dimensioni apparentemente in contrasto: l’analogico del corpo che si esprime e si relaziona attraverso lo sport e la dimensione “online” che abita il virtuale attraverso il quale questi ragazzi si relazionano e sviluppano la propria identità.

La vulnerabilità caratterizzante della fase evolutiva dell’adolescenza  espone lo sportivo millennials ad una dimensione comunicativa molto potente attraverso i social, da qui il processo di definizione del proprio Sè in corso può essere significativamente influenzato. Fuori da questo pericolo, sottolinea Nascimbene, non lo sono naturalmente neanche tutti coloro che vivono in condizioni di fragilità psicologia e socio economica.

Negli studi presentati vengono individuate quattro aree problematiche:

  1. (Is) Iperrealtà e sogno
  2. (Di) Demotivazione e instabilità motivazionale
  3. (Ai) Ansia e instabilità emotiva
  4. (Rs) Relazionalità e solitudine

Questa parte del libro è sicuramente più operativa e l’autore propone degli “Strumenti di lavoro per sportivi millennials” molto utili per gli addetti ai lavori e per chi volesse conoscere ed essere di aiuto a questa generazione.

Attingendo alla sua esperienza di psicologo sportivo, Nascimbene condivide importanti e mirate riflessioni assolutamente orientate su un versante pratico tenendo presente tre aspetti importanti da considerare: la consapevolezza del Sé, benessere-relazionale e ottimizzazione delle abilità utili alla performance.

Il setting terapeutico si è arricchito di una possibilità, la comunicazione a distanza, ma questa modifica attraverso svariati strumenti che operano on-line, ha sottoposto il professionista a nuove sfide. La prima è il tentativo di mantenere efficace un setting che diviene inevitabilmente più aperto, più fluido e a rischio di facile invasione e contaminazione. Ci si chiede se è possibile mantenere quell’intimità fondamentale per ogni buona relazione terapeutica. Ancor più ci si domanda: funziona la Web Therapy?

L’autore prova a dare una risposta attraverso un’accurata rassegna di studi di efficacia e meta-analisi sull’efficacia delle terapie on line rispetto a quelle vis à vis.

Le riflessioni condivise, dato il nostro periodo storico dove la necessità di molti di operare on-line è divenuta sempre più incalzate, sono assolutamente preziose.

Ogni riflessione sulle quattro aree critiche è ben descritta offrendo al lettore una visione tecnica della problematica, dettagliando i dati statistici si apre la possibilità di dare vita a profonde riflessioni che vengono attivate pagina dopo pagina e che sarebbe giusto continuare anche una volta terminato il libro.

Born to surf si mostra una risorsa utile non solo per coloro che lavorano in ambito sportivo, ma per tutti i professionisti che si occupano di adolescenza e che hanno bisogno di acquisire spunti di riflessioni utili al fine di ammodernare la loro impronta metodologica.

 

L’impulsività: deficit nel controllo inibitorio motorio e cognitivo

L’impulsività è definita come la ‘mancanza di riflessione prima di fare o dire qualcosa‘, la ‘tendenza a seguire i propri impulsi‘ (Cattana e Nesci, 2003, pp. 366-367).

 

Il DSM-5 (APA, 2013) definisce l’impulsività, o un comportamento impulsivo, come un’azione non lungimirante espressa prematuramente, inappropriata per la situazione, rischiosa e associata a esiti indesiderabili piuttosto che desiderabili.

Questa tendenza è considerata una caratteristica transdiagnostica di molti disturbi mentali, un tratto associato alla psicopatologia (Moeller et al., 2001; Stanford et al., 2009). I primi studi misurarono l’impulsività attraverso la somministrazione di questionari auto-valutativi. Inoltre, l’eterogeneità di questo costrutto ha limitato la traduzione dei risultati ottenuti e la sua definizione specifica all’interno della pratica clinica.

Le neuroscienze hanno delineato un modello dell’impulsività che comprende due costrutti separati e sovrapposti. Il controllo inibitorio include un deficit nell’inibizione motoria (‘inibizione della risposta’): quest’ultima è la capacità di inibire le risposte agli stimoli e coinvolge la corteccia frontale interna (IFC) e l’area motoria supplementare (SMA) (Aron, 2011). In secondo luogo, l’inibizione cognitiva – cioè ‘l’arresto o l’annullamento di un processo mentale, in tutto o in parte, con o senza intenzione’ (Aron, 2007) – coinvolge la corteccia frontale inferiore (McHugh e Balaratnasingam, 2018).

Recenti ricerche sulla personalità – che passano da un campo categorico ad una panoramica dimensionale dei disturbi di personalità (Newton-Howes et al., 2015) – evidenziano come i tratti possano essere maggiormente plastici e come la loro espressione rischi di essere peggiorata da fattori stressanti di carattere psicosociale. Tale attenzione alle dimensioni trans-diagnostiche della psicopatologia ha portato a un rinnovato interesse per l’impulsività, costrutto ad oggi studiato anche mediante le tecniche di neuroimaging e metodi di misurazione comportamentali e neurocognitivi (McHugh e Balaratnasingam, 2018).

McHugh e Balaratnasingam (2018) hanno fornito una panoramica del fenomeno dell’impulsività attraverso una revisione, per spiegare come sia associata ai disturbi di personalità e quali siano delle implicazioni funzionali per il suo trattamento (McHugh e Balaratnasingam, 2018).

Kable e Glimcher (2007) evidenziano stretti collegamenti e una sovrapposizione tra le varie reti coinvolte sia in aspetti del controllo inibitorio che nella valutazione della ricompensa, riguardante la tendenza a scegliere ricompense più piccole ottenute nell’immediato rispetto a ricompense più sostanziose fornite in un secondo tempo (Kable e Glimcher, 2007).

Steinberg (2007) ha descritto un sistema duale riguardante il modello di controllo cognitivo e il processo decisionale socio emotivo legato ai sistemi di ricompensa: ci sono prove che il controllo inibitorio aumenti costantemente dall’infanzia all’età adulta. Al contrario, sembra che il processo decisionale legato all’impulsività segua una traiettoria differente durante la fase adolescenziale: durante questa fase infatti tale processo non garantisce certezze predittive (Scheres et al., 2014; Tymula et al., 2012).

Dai risultati della review sopra citata emerge che il controllo inibitorio e la valutazione della ricompensa sono costrutti correlati.

La revisione di McHugh (2018) evidenzia come l’impulsività sia una caratteristica diagnostica del disturbo borderline (BPD) e di altri disturbi di personalità, come il disturbo antisociale (ASPD). È possibile che l’impulsività sia una mediatrice dell’associazione tra diversi disturbi di personalità e possibili esiti, inclusi comportamenti suicidari, la dipendenza da sostanze, una disfunzione interpersonale o di altri indicatori sociali come l’occupazione (McHugh e Balaratnasingam, 2018). La tendenza a cercare di ottenere ricompense immediate è una caratteristica del disturbo borderline di personalità (BPD) indipendentemente dalle condizioni di stress percepite dal soggetto (McHugh e Balaratnasingam, 2018). Per quanto riguarda i deficit legati all’inibizione della risposta, anch’essi sono risultati associati al BPD e peggiorano in condizioni di stress elevato. I risultati indicano come l’impulsività di stato abbia un ruolo chiave nell’espressione e nella manifestazione di un comportamento impulsivo (McHugh e Balaratnasingam, 2018). Comprendere l’impulsività in termini di meccanismi comportamentali e di processo decisionale di un individuo offre l’opportunità di avere nuovi obiettivi utili per la diagnosi e il trattamento dei disturbi di personalità. Studi esplorativi hanno confermato che tali informazioni potrebbero essere utilizzate per misurare la risposta al trattamento (McHugh e Balaratnasingam, 2018).

 

Teledidattica e riabilitazione online: amici o nemici?

Il Coronavirus, dai più noto col nome della malattia da questo derivante ovvero COVID-19 (CO-rona VI-rus D-isease), è un virus respiratorio che, in questi mesi, sta tenendo in scacco il mondo intero, minacciando il nostro benessere, sia fisico che psichico, che l’economia mondiale e, in una visione più ridotta, il nostro lavoro.

Ilaria Cester e Paola Destro – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Mestre

 

 Le prime notizie certe (e allarmanti) che abbiamo di questo virus qui in Italia, risalgono alla fine di febbraio (noi precisamente ci trovavamo a Milano per seguire il corso di perfezionamento in età evolutiva e seguivamo con molta attenzione e apprensione l’aumento di casi nella provincia di Lodi, a Codogno).

Ad inizio Marzo, l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), ha proclamato lo stato di pandemia, essendosi oramai il virus propagato nella maggior parte dei Paesi nel mondo.

Sin dall’inizio sono rimbalzati alla tv, sul web, alle radio e attraverso tutti i canali di comunicazione, consigli e indicazioni su cosa fare e cosa non fare. Anche il Governo si è mosso in tal senso predisponendo una serie di Decreti Legislativi e ordinanze che man mano hanno ristretto sempre di più la libertà personale dei singoli, a tutela di tutti.

Ed eccoci arrivati ad oggi, dove ognuno di noi (ad eccezione dei lavoratori che svolgono mansioni di prima necessità in questo infausto periodo) è rimasto chiuso in casa, chi in famiglia e circondato dagli affetti più cari e chi, invece, ha dovuto affrontare questa situazione di emergenza lontano da casa.

Ed è proprio in queste occasioni che la nostra professione, che nella maggior parte dei casi si basa sull’interazione umana vis a vis, sullo scambio comunicativo verbale, ma anche non verbale, è stata chiamata a riorganizzarsi ed a reinventarsi in tutti i modi possibili, senza però perdere di vista l’importanza di un intervento efficiente ma, soprattutto, efficace.

Noi psicologhe dello sviluppo e dell’età evolutiva, che interveniamo nell’ambito della psicopatologia dello sviluppo ed, in particolar modo, degli apprendimenti, ci siamo interrogate e confrontate su come poter mantenere un filo conduttore con i nostri piccoli e non più piccoli pazienti e con le loro famiglie, in particolar modo rispetto alla possibilità di continuare i percorsi di potenziamento delle abilità più fragili, precedentemente avviati e messi a dura prova dalla situazione sanitaria nazionale.

In questo momento di grandi cambiamenti, la tecnologia, che da qualche anno ci accompagna nel nostro lavoro, ci è venuta in aiuto, in quanto gli strumenti che già utilizzavamo per il potenziamento a livello domiciliare, ci hanno permesso di proseguire il nostro lavoro di potenziamento, aggirando l’ostacolo della distanza.

Quando parliamo di Disturbi Specifici dell’Apprendimento, ci riferiamo ad una categoria diagnostica che il DSM-5 (2013) include all’interno di una più ampia area, quella dei Disturbi del Neurosviluppo (ovvero Disabilità Intellettive, Disturbi della Comunicazione, Disturbi dello Spettro dell’Autismo, Disturbo da deficit di attenzione/iperattività, Disturbo specifico dell’apprendimento, Disturbi del movimento, altri disturbi del neurosviluppo).

Nello specifico, quando parliamo di DSA, facciamo riferimento ai disturbi che ‘coinvolgono uno specifico dominio di abilità, lasciando intatto il funzionamento intellettivo generale. Essi infatti interessano le competenze strumentali degli apprendimenti scolastici’; parliamo, quindi, di Dislessia, Disortografia, Discalculia e Disgrafia, come definito dalla Consensus Conference dell’Istituto Superiore di Sanità (CC-ISS, 2011).

A livello legislativo, i bambini e ragazzi con un profilo DSA sono tutelati dalla Legge n. 170 dell’8 ottobre 2010 e dalle linee guida per il Diritto Allo Studio degli alunni e degli studenti con DSA allegate al Decreto Ministeriale 12 luglio 2011, che prevedono l’introduzione di misure compensative e dispensative, attraverso la stesura di un Piano Didattico Personalizzato (PDP) in modo tale da evitare che le difficoltà specifiche penalizzino il ragazzino nell’acquisizione delle competenze scolastiche e vadano ad inficiare il benessere del ragazzino stesso, in termini di autostima, motivazione e senso di autoefficacia rispetto al contesto scolastico, ma non solo.

La personalizzazione della didattica è caldamente suggerita anche per tutti quei profili caratterizzati da altre tipologie di ‘fragilità’, al di là dei disturbi specifici dell’apprendimento, che rientrano nella categoria dei ‘Bisogni Educativi Speciali’ (BES), introdotta con la Direttiva Ministeriale del 27 Dicembre 2012 (Strumenti d’intervento per alunni con Bisogni Educativi Speciali e organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica), e successivamente specificata dalla Circolare Ministeriale n. 8 del 6 Marzo 2013 e dalle successive Note Ministeriali del 22 Novembre 2013 e del 17 Maggio 2018, secondo la quale ‘ogni alunno, con continuità o per determinati periodi, può manifestare Bisogni Educativi Speciali: o per motivi fisici, biologici, fisiologici o anche per motivi psicologici, sociali, rispetto ai quali è necessario che le scuole offrano adeguata e personalizzata risposta’.

Tale categoria comprende tre sotto-categorie, molto ampie: quella della disabilità (a sua volta tutelata dalla Legge 104/1992), quella dei disturbi evolutivi specifici (oltre ai DSA, per i quali, come sopra specificato il riferimento è la Legge 170/2010, ci si riferisce, ‘in particolare, ai disturbi con specifiche problematiche nell’area del linguaggio (disturbi specifici del linguaggio o, più in generale, presenza di bassa intelligenza verbale associata ad alta intelligenza non verbale) o, al contrario, nelle aree non verbali (come nel caso del disturbo della coordinazione motoria, della disprassia, del disturbo non-verbale o – più in generale – di bassa intelligenza non verbale associata ad alta intelligenza verbale, qualora però queste condizioni compromettano sostanzialmente la realizzazione delle potenzialità dell’alunno) o ad altre problematiche severe che possono compromettere il percorso scolastico’), passando per il Deficit di Attenzione/Iperattività (ADHD), fino alla categoria legata allo svantaggio socioeconomico, linguistico e culturale.

Questa piccola premessa ci aiuta a capire quanto è ampio il gruppo di bambini e ragazzini che, successivamente ad una valutazione psicodiagnostica degli apprendimenti e di tutti gli aspetti ad essi associati (intelligenza, funzioni esecutive, aspetti emotivi e comportamentali, autostima, motivazione…), dalla quale possono emergere profili ‘puri’ o che presentano più comorbilità, possano beneficiare di un percorso di potenziamento delle abilità risultate più in difficoltà.

Appare fondamentale la presa in carico non solo del piccolo paziente, ma il coinvolgimento attivo della famiglia e, soprattutto, della scuola (questo aspetto è ribadito e sottolineato anche nella Consensus Conference).

In periodi di ‘normalità’, tale lavoro di rete, pur non essendo sempre facile, risulta molto più semplice rispetto a questi ultimi mesi dove, pur mantenendo i contatti con la famiglia e con la scuola, telefonicamente e/o secondo qualche modalità ‘online’, il percorso di riabilitazione, solitamente erogato a livello ambulatoriale in associazione ad attività di consolidamento svolte a domicilio (gli homework tanto cari al nostro approccio CBT quanto efficaci) necessariamente è stato rimodellato.

Esistono diversi software/piattaforme, ad utilizzo clinico, che ci hanno permesso, in queste settimane, di continuare i nostri interventi riabilitativi, già avviati a livello ambulatoriale, in modalità ‘online’, così da proseguire con un continuo monitoraggio a distanza. Sono strumenti che spesso già vengono utilizzati per implementare a casa quanto trattato durante la seduta ambulatoriale ma che, durante i mesi appena trascorsi, si sono rivelati ancora più utili.

Tra questi, nominiamo, la piattaforma Ridinet della cooperativa Anastasis (www.anastasis.it) che propone una serie di percorsi personalizzabili in base alla diagnosi, che si presentano sotto forma di App (con un’interfaccia semplice, intuitiva e accattivante e che fornisce continui feedback, visivi e sonori, che da una parte alimentano la riflessione metacognitiva, dall’altra sostengono il senso di autoefficacia), dove l’utente, scelto il suo ‘avatar’, lavora tramite esercizi basati su specifici modelli riabilitativi su abilità diverse (lettura, linguaggio ed espressione, scrittura, comprensione del testo, scrittura, calcolo, funzioni esecutive). Gli esercizi vengono proposti sulla base di una serie di parametri tarati dal clinico, che può effettuare un monitoraggio a distanza, e modificabili sulla base dei progressi fatti dal bambino durante l’allenamento in modo tale da adattare continuamente le richieste ed incrementare i miglioramenti.

Uno studio condotto da Tucci et. al (2015), con 34 bambini con diagnosi di Dislessia a cui è stato proposto un potenziamento sublessicale e lessicale tramite Reading Trainer (App inserita nella piattaforma Ridinet), a distanza, ma monitorato dal terapeuta, ha mostrato valori di efficacia ed efficienza del trattamento applicato tramite Reading Trainer, con ricadute significative nel processo di lettura e sulla sua automatizzazione, dato anche il confronto con i risultati di altri studi italiani precedentemente pubblicati (Allamandri et. al., 2007; Tressoldi e Vio, 2011; Tressoldi et al., 2012).

Un ulteriore studio di Pecini et al., del 2019, che ha utilizzato alcune App della piattaforma Ridinet, ha dimostrato l’efficacia di percorsi di potenziamento anche attraverso l’utilizzo di altre app della piattaforma Ridinet (in questo caso Run The RaN).

Anastasis offre, inoltre, un’ampia gamma di strumenti che possono essere utilizzati sia a livello scolastico che domiciliare (es. sintesi vocale, programmi per costruire mappe, quaderni digitali…) usufruibili da famiglie ed insegnanti.

Un ulteriore strumento utilizzabile per la teleriabilitazione è la piattaforma Epro (Potenziamento e Riabilitazione Online) proposta dal Centro Studi Erickson, per la riabilitazione in studio e a distanza dei bambini con difficoltà di apprendimento, o con una diagnosi di Disturbo Specifico dell’Apprendimento, che permette di lavorare sulle abilità linguistiche, di lettura, scrittura, calcolo e comprensione (a partire dai prerequisiti). La piattaforma si configura come un sistema multimediale, modulabile ed innovativo che permette al clinico di pianificare, monitorare e adattare costantemente il programma riabilitativo attraverso la predisposizione di materiali appositamente studiati sulla base delle caratteristiche del bambino.

Grazie ad Epro si dispone di tre modelli di riabilitazione (ambulatoriale, integrata e a distanza) (Franceschi, 2013).

Anche il Centro Studi Erickson offre un ampio catalogo di strumenti e servizi che possono essere utilizzati sia a livello di supporto clinico che didattico.

Esistono molti altri strumenti che possono aiutare il potenziamento a distanza, a livello telematico, nati anche sulla base degli studi di efficacia proposti nel panorama italiano.

Questo ci porta a valutare pro e contro di questa modalità di potenziamento.

Tra i vantaggi possiamo considerare la possibilità di continuare ad erogare un percorso di potenziamento, nonostante la situazione di emergenza sanitaria, comunque basato su modelli di efficacia. Il professionista può gestire e monitorare, attraverso un feedback immediato, l’andamento del percorso di intervento e personalizzare le attività proposte. I bambini, a loro volta, possono continuare con il loro percorso di potenziamento da casa, attraverso l’utilizzo del PC, strumento che aiuta l’apprendimento e permette anche di divertirsi (in questo caso consideriamo l’interfaccia dei vari software, creata appositamente per essere accattivante e divertente).

Tra gli svantaggi, dobbiamo considerare come la teleriabilitazione a distanza possa inficiare il rapporto terapeutico, vis a vis, terapeuta-bambino, piuttosto che il confronto diretto da parte del clinico con la famiglia (che può comunque essere gestito telefonicamente, come tutti gli eventuali contatti con gli insegnanti).

Un altro aspetto di svantaggio può essere individuato nell’adeguatezza delle tecnologie a disposizione (Wi-fi o accesso ad internet, la presenza di un solo PC, magari utilizzato per lavoro dai famigliari, ecc), e delle risorse della famiglia anche a livello economico (considerando come alcuni supporti potrebbero essere a pagamento). Bisogna considerare, inoltre, le indicazioni date dall’OMS sulla fruizione degli schermi da parte dei bambini: sotto i 5 anni non deve superare i 60 minuti al giorno, mentre per i bambini dai 6 agli 11 anni il tempo totale di utilizzo di questi device aumenta a due ore.

La riabilitazione online è stata supportata anche dall’uso di tantissime piattaforme che hanno permesso a clinico e bambino di potersi ‘guardare’ negli occhi, dando una lieve parvenza di normalità ai contatti di questi ultimi mesi.

Queste piattaforme sono le stesse che sono state utilizzate dalle scuole per attivare la DAD, ‘Didattica a Distanza’, argomento su cui genitori, insegnanti, psicologi, ministri, hanno discusso molto; si è parlato dei vantaggi e degli svantaggi, delle varie e diverse modalità con cui le attività sono state proposte, dell’impegno richiesto agli insegnanti e ai ragazzi, del numero di ore trascorse davanti allo schermo del pc e così via…

Per quanto ci riguarda, per comprendere meglio il fenomeno della DAD, e le sue conseguenze, anche a livello sociale, abbiamo pensato di parlare con i diretti interessati, chiedendo a uno dei nostri ragazzi più grandi di rispondere ad alcune domande, per comprendere meglio il punto di vista degli studenti in questo delicato periodo di didattica a distanza. Di seguito troverete le risposte date da S., studente con diagnosi di Discalculia, frequentante la II classe della Scuola Secondaria di Secondo Grado. L’intervista, inoltre, è stata proposta a L., un bambino di 9 anni, frequentante la quarta classe della scuola Primaria con diagnosi di ADHD.

In questo modo, abbiamo voluto andare oltre il parere degli ‘esperti’ e dare voce a chi, questa nuova modalità di apprendimento (ma anche di relazione), l’ha vissuta, gestita e utilizzata.

 

APPENDICE: LE INTERVISTE AI BAMBINI – CLICCA QUI.

 

 

Sta squillando oppure no? Le false percezioni della sindrome da vibrazione fantasma

La sindrome da vibrazione fantasma o la sindrome da squillo fantasma: cos’è? Come nella sindrome dell’arto fantasma, anche gli smartphone possono causare sensazioni e percezioni inesistenti, come squilli o vibrazioni. Fenomeno ancora poco studiato che può portare a diversi sintomi.

PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr. 16) Sta squillando oppure no? Le false percezioni della sindrome da vibrazione fantasma

 

Da quando nel 1973 fu lanciato dalla Motorola il primo telefonino, la tecnologia ha fatto passi da gigante facendo evolvere i servizi del cellulare da ricevitore/trasmettitore di chiamate fino a farlo diventare lo smartphone che oggi conosciamo e che ha in sé opportunità di utilizzo innumerevoli. E’ uno strumento che ci accompagna tutto il giorno tutti i giorni perché non è più solo una commodity ma mezzo di intrattenimento, socializzazione, gioco, lavoro. Riteniamo impensabile stare senza anche solo per poche ore. Inevitabile che, come tutte le tecnologie, influenzi vita e comportamento in diversi modi e crei nuovi desideri, bisogni, domande, interrogativi.

Che cos’è la sindrome da vibrazione fantasma

La sindrome da vibrazione fantasma (phantom vibration syndrome, PVS) o la sindrome dello squillo fantasma (phantom ringing syndrome, PRS) è la percezione che il telefono stia vibrando o suonando in assenza di un reale stimolo. Altri termini rappresentano questi fenomeni: vibranxiety (da vibration e anxiety), ringxiety (da ring e anxiety), fauxcellarm (da faux e cellphone and alarm) e phonetom (da phone e phantom).

Analogamente alla sindrome dell’arto fantasma in cui si hanno vivide percezioni da arti rimossi o amputati, allo stesso modo in queste sindromi si ha la falsa sensazione che il telefono vibri o suoni, a tutti gli effetti al pari di una allucinazione.

Pur non essendo incluse in nessun manuale diagnostico, compresi ICD-10 e DSM-5, né prese in considerazione da organizzazioni internazionali come l’American Psychiatric Associazione (APA), alcuni autori se ne sono interessati e ne hanno descritto i sintomi: ansia, allucinazioni, sintomi depressivi, sintomi cognitivi (deficit di attenzione, ipervigilanza), disturbi dell’umore.

La prima comparsa del termine si deve al fumettista Scott Adams nel 1996: nella sua striscia di “Dilbert” uno dei personaggi parla di “phantom pager syndrome” (sindrome del cercapersone fantasma).

Alcuni anni dopo, siamo nel 2003, l’editorialista del New Pittsburgh Courier, Robert D. Jones, pubblica un articolo sulla “sindrome da vibrazione fantasma” riferendosi proprio ad immaginarie vibrazioni o suoni. Primi studi scientifici risalgono a una decina di anni fa e da allora la ricerca ha progredito poco, sebbene alcuni autori se ne siano occupati.

Fattori di rischio

In clinica tra i fattori predisponenti l’insorgere di un sintomo abbiamo la rigidità e la pervasività dell’adozione di determinati pensieri o comportamenti. Ed è proprio la frequenza di utilizzo degli smartphone uno dei fattori di rischio, così come il posto dove lo riponiamo abitualmente (per esempio in tasca, nella borsa, ecc.) e le modalità d’uso (squillo o vibrazione). I sintomi del fantasma poi sono direttamente proporzionali al numero di ore e a quanto spesso controlliamo il telefono.

Si ipotizza che anche caratteristiche di personalità siano coinvolte: persone estroverse che hanno un marcato bisogno di connessione sociale sono più inclini a usare frequentemente il telefono per sentirsi vicini agli altri; anche chi soffre di nomofobia, la paura di rimanere disconnessi dalla rete di telefonia mobile, è, come intuibile, più suscettibile alla sindrome; la dipendenza da smartphone è un altro significativo fattore di rischio per la sindrome fantasma (Pareek, 2017; Kruger, 2017).

Alla base del meccanismo

Ci sono diverse ipotesi sull’eziologia del fenomeno (Goyal, 2015; 2019). Secondo la teoria del rilevamento del segnale, la percezione di vibrazioni o suoni inesistenti è un falso positivo, una semplice rilevazione erronea. Secondo un’altra teoria, si tratta di ricordi di precedenti esperienze generate da stimoli sensoriali simili, per esempio da indumenti o contrazioni muscolari. 
Altre teorie chiamano in causa più direttamente aspetti biochimici: secondo la teoria della stimolazione elettrica transcutanea il fenomeno potrebbe essere dovuto alla sensazione interpretata dai nervi della pelle causati da una piccolissima scarica di energia elettrica emessa dal telefono. Infine, secondo la teoria della dopamina il sistema di notifiche provoca il rilascio di dopamina rafforzando il bisogno sempre maggiore di stimoli.

Sindrome da vibrazione fantasma: come evitarla

Le poche ricerche non danno modo di avere indicazioni validate, per il momento dobbiamo accontentarci del buon senso: diminuire la dipendenza e modificare i comportamenti legati all’uso degli smartphone. Per esempio, limitare la frequenza di utilizzo, variare frequentemente le modalità di notifica, portare il cellulare in diverse posizioni, evitare la modalità di vibrazione.

Secondo i dati dello State of Mobile Internet Connectivity Report del 2020 nel 2021 almeno 3.8 miliardi di persone, pari a circa metà della popolazione mondiale, avranno uno smartphone. Difficile pensare che nei prossimi anni questi fenomeni non riceveranno sempre maggiore attenzione nella ricerca e in clinica (Pareek, 2017).

 

 


EUROPEAN CONFERENCE OF DIGITAL PSYCHOLOGY

ISCRIZIONI APERTE >> Clicca qui per scoprirne di più

ECDP 2021 Virtual Forum - Banner 1600x900

 

 

Il lato “Medea” – Moms, una rubrica su maternità e genitorialità

Il presente articolo si propone di legittimare emozioni quali l’aggressività e la rabbia di ogni donna e madre in quanto essere umano. La consapevolezza e l’elaborazione di questi vissuti vengono suggeriti come via alternativa alla dannosa negazione. 

Moms – (Nr.5) Il lato “Medea”

 

Una madre può avere un lato da Medea? Il quinto episodio di Workin’ Moms sembra rispondere di sì. Durante la riunione del gruppo post-partum Jenny Matthews, una delle partecipanti, comunica alle altre la difficoltà di connettersi emotivamente con sua figlia. Così per supportarla la protagonista Kate Foster replica sinceramente: “Charlie lo amo da morire, è il mio bambino, ma a volte vorrei essere nello show Svaniti nel nulla. Hai presente? Tirarlo fuori dal seggiolino e poi tornare a casa e pensare: ‘So di essere andata a fare la spesa, ma dov’è mio figlio?’ E poi sono libera…”.

Molte donne si sentono in colpa quando provano dei moti di rabbia e aggressività nei confronti dei propri figli. Eppure, pur se nelle parole di Kate non viene ammesso esplicitamente, la rabbia e l’aggressività sono due parti di ogni essere umano strettamente correlate e poiché ogni madre è una donna, e dunque un essere umano, è presente anche in lei.

Euripide ha incarnato in Medea, nell’omonima tragedia, la madre apparentemente più perfida del creato che uccide i figli come rivalsa sul marito, di cui non sentiva ricambiato l’amore. Dal punto di vista intrapsichico è possibile vedere gli eventi sotto un’altra prospettiva. Sembra che l’azione della donna non fosse un atto di pura cattiveria, ma il prodotto di un accumulo di rabbia e aggressività, trasformatesi in un atto violento perché non accettabili e dunque impossibili da portare alla coscienza.

Da tempo vi è una tendenza a fare erroneamente una sovrapposizione tra rabbia, aggressività e violenza, ma sono tre concetti differenti.

La rabbia e l’aggressività sono due componenti innate tanto nell’uomo quanto nella donna, che presentano l’utilità di proteggere se stessi e coloro che si ama. I grandi predatori un tempo non venivano sconfitti dagli uomini primitivi solo con l’astuzia, ma anche con un tocco di sana aggressività. Queste due emozioni sono strettamente correlate tra loro, ma possono avere differenti funzioni ed entrambe non equivalgono alla violenza. La trasformazione in atto violento avviene attraverso due passaggi: la negazione di quello che si prova e la conseguente impossibilità di elaborazione.

Negare emozioni come rabbia e aggressività presume un giudizio rispetto ad esse, dunque vederle aprioristicamente come qualcosa di dannoso, che non può essere neanche portato alla coscienza. Individuare la causa di un eventuale moto aggressivo è il primo passo per poter elaborare il vissuto ed evitare che scada nella violenza.

Nel momento in cui si può portare alla consapevolezza e rendere esprimibili a parole sentimenti meno piacevoli nei confronti del proprio figlio e delle persone che influiscono indirettamente o direttamente nel rapporto con lui, il senso di colpa, che acuisce la violenza, non avrebbe modo di esistere. La rabbia e l’aggressività se pensate e legittimate possono essere elaborate. In questo modo non verranno agite o fuggite e verranno meno anche le possibili conseguenze dannose per la madre, per il bambino e per la loro relazione.

 

“Ambra era nuda”, il lutto del cambiamento – Rubrica Psico-canzoni

Il presente articolo dà una possibile interpretazione della canzone Ambra era nuda dell’autore toscano Postino, prendendo in considerazione sia il testo sia il videoclip. Il tema che emerge è la riproposizione del vuoto lasciato da una separazione già sperimentato nel passaggio dall’infanzia all’età adulta.

Psico-canzoni – (Nr.4) Ambra era nuda

 

Ambra era nuda, io ero vestito, il riflesso negli occhi di chi ha capito che alla fine vince sempre chi si spoglia per primo

sono le prime parole della canzone di Samuele Torrigiani, in arte Postino, edita nel 2018. Tra il brano e il videoclip sembra esserci una discrepanza, perché le parole del testo raccontano la fine di una relazione, mentre il video è incentrato sull’infanzia dell’autore.

In realtà c’è un legame molto forte tra testo e video perché entrambi parlano di un lutto. Nel primo caso la perdita appartiene ai momenti vissuti e a quelli che ancora avrebbe potuto vivere con Ambra, protagonista della canzone. Nel secondo caso si percepisce il dolore della perdita del periodo infantile e dei momenti vissuti con la famiglia d’origine che non potranno più tornare in quella modalità.

Il passaggio dall’età dell’infanzia all’età adulta è molto più doloroso di quanto la naturalezza del tempo trascorso possa far credere. Attraverso la rapida e delicata fase dell’adolescenza siamo costretti a salutare i bambini che eravamo per accogliere l’adulto che volenti o nolenti dobbiamo diventare. Possiamo anche fingere che

questa estate sono solo perché ho la libertà di costruire una spiaggia in mezzo al centro città, di fare il bagno nei tombini col costume in Chiesa, ma poi tutto finirà quando la Vodka è scesa

dove la Vodka è la metafora che rispecchia la fantasia di poter essere ancora il bambino senza la responsabilità di se stesso, ma la realtà è che quel bambino ora deve scontrarsi con il proprio assetto mentale e fisico da persona adulta.

Il bambino che eravamo si trasforma continuamente e per farlo deve morire ogni volta, con il conseguente dolore che comporta. Così le relazioni non terminano mai, anche quando ci si lascia, ma cambiano trasformando le persone che ne fanno parte. Dentro ognuno di noi in quanto esseri umani resta il bisogno di tenerezza e coccole, ma non è lo stesso di quando eravamo piccoli, perchè quei bambini non esistono più.

Brano e videoclip si incontrano nella frase

e tu, tu non ci sei qui con me, però vabè, qualcuno mi terrà compagnia: saremo io e la mia malinconia.

In questa frase emerge il delicato tema del vuoto lasciato dall’irrepetibilità di qualcosa, di qualcuno o di alcuni momenti.

L’autore capisce che può spogliarsi metaforicamente solo quando Ambra sceglie di andarsene, mostrando la parte più intima di sé, ovvero quella appartenente al periodo infantile. Per quanto nascano nuove necessità in età adulta, il bisogno di tenerezza, di coccole e di contatto fisico restano, pur se talvolta celati e difficili da esternare. Dalla canzone sembra che Ambra si sia già spogliata ed abbia vinto su se stessa perché non ha avuto paura di mostrare gli angoli più nascosti di sé. Ambra non vede i suoi bisogni come punti deboli. Ambra non pensa di poter perdere presentandosi così com’è. Ed è questa l’amara consapevolezza a cui arriva Postino quando scrive:

Ambra è vestita, io sono nudo, le valigie in mano di chi ha detto “chiudo”, che alla fine perde sempre chi si spoglia dopo.

 

AMBRA ERA NUDA – Guarda il video del brano:

 

Autolesionismo, evitamento e regolazione emotiva

L’autolesionismo è definito come una strategia di coping maladattiva associata spesso ad una “regolazione emotiva deficitaria”. Esso è descritto attraverso molti termini, definibili come “lesioni intenzionali verso se stessi senza intenti suicidari” o NSSI

 

Le strategie di coping sono un insieme di strategie che vengono messe in atto per fronteggiare i problemi. Non tutte le strategie di coping sono funzionali, in quanto una regolazione emotiva inefficace può portare il soggetto a crearne alcune maladattive (Brereton e McGlinchey, 2019). L’autolesionismo è definito come una strategia di coping maladattiva associata spesso ad una “regolazione emotiva povera” (Sim et al., 2009; Brereton e McGlinchey, 2019) e a comportamenti autolesionistici come bruciature, tagli, testate o pugni (Mikolajczak, Petrides e Hurry, 2009; Brereton e McGlinchey, 2019). L’autolesionismo è descritto attraverso molti termini, definibili come “lesioni intenzionali verso se stessi senza intenti suicidari” – o NSSI (Klonsky, Oltmanns e Turkheimer, 2003, p. 1501; American Psychiatric Association, 2013).

Le prime forme di autolesionismo si osservano nella prima adolescenza (Jacobson e Gould, 2007)  – dove circa l’80% dei soggetti mette in atto forme di autolesionismo per regolare le emozioni (Brereton e McGlinchey, 2019) e con una frequenza maggiore in alcuni disturbi, come il disturbo borderline di personalità (BPD; American Psychiatric Association, 2013; Nock, 2009; Suyemoto, 1998). I tassi di prevalenza nell’arco della vita si stima che vadano dal 13.0% al 23,2% (Jacobson e Gould, 2007). Dato che il disturbo borderline di personalità è raramente diagnosticato negli adolescenti, è importante trovare altri marcatori legati a comportamenti autolesionistici (McKenzie e Gross, 2014; Suyemoto, 1998). I fattori correlati sono molti, come il cercare di evitare un’esperienza emotiva come “l’elusione esperienziale” (Chapman, Gratz e Brown, 2006) o per regolare quelle negative attraverso il dolore (Mikolajczak et al., 2009; Brereton e McGlinchey, 2019). La regolazione emotiva è stata definita da Cole e colleghi (2004) come “cambiamenti associati alle emozioni attivate” (p. 320). Gli stessi autori hanno osservato come tale regolazione dipenda da emozioni come regolamentazione (si riferiscono così a cambiamenti che si sviluppano da emozioni attivate) o da emozioni come regolate (per indicare la trasformazione delle emozioni stesse) (Brereton e McGlinchey, 2019). Per dare una definizione migliore, Eisenberg e Spinrad (2004, p. 338) spiegano la regolazione emotiva come un:

processo di avvio, prevenzione, mantenimento, inibizione o modulazione di forma, intensità e durata degli stati di sentimento interni, inclusi gli stati fisiologici, dei processi di attenzione, di stati motivazionali e/o comportamentali concomitanti alle emozioni con lo scopo di realizzare affetti biologici, l’adattamento sociale o il raggiungimento di obiettivi individuali (Brereton e McGlinchey, 2019, p.6).

L’evitamento esperienziale fa riferimento ad un’ampia gamma di comportamenti di elusione: il termine viene utilizzato per descrivere quando un individuo:

non è disposto a rimanere in contatto con particolari esperienze private come sensazioni corporee, pensieri, memoria, emozioni e predisposizioni comportamentali, di conseguenza agisce prendendo provvedimenti per alterare la forma e la frequenza di questi eventi, nonché i contesti correlati (Hayes et al., 1996, p. 1154; Brereton e McGlinchey, 2019).

Il modello esperienziale dell’autolesionismo spiega come un individuo metta in atto un autolesionismo intenzionale per sfuggire o per evitare determinati fattori: in questo caso l’autolesionismo è mantenuto attraverso il rinforzo negativo nella fuga da emozioni indesiderate (Chapman et al., 2006).

Brereton e McGlinchey (2019) hanno effettuato una revisione sistematica su 17 articoli riguardanti regolazione delle emozioni, evitamento esperienziale e autolesionismo. I risultati ottenuti indicano come il concetto di sopprimere o evitare pensieri, esperienze e contingenze indesiderate è legato a comportamenti autolesionisti (Armey e Crowther, 2008; Gratz et al., 2010; Jutengren et al., 2011, Nielsen et al., 2016). L’autolesionismo è più frequente in soggetti con una difficoltà legata alla regolazione delle emozioni in quanto viene visto come una possibile strategia efficace (Anderson e Crowther, 2012; Armey e Crowther, 2008; Gratz et al., 2016; Nielsen et al., 2016). Tutti gli studi, tranne uno, hanno fornito un sostegno al concetto che la scarsa regolazione delle emozioni e l’evitamento esperienziale siano legati all’autolesionismo (Brereton e McGlinchey, 2019), inoltre gli autori si concentrano sul trattamento che potrebbe ridurre la frequenza di tali comportamenti nocivi. Trattamenti incentrati sul miglioramento delle capacità di regolazione emotiva (Gratz e Gunderson, 2006; Gratz e Tull, 2011) e sul miglioramento della regolazione di comportamenti elusivi (Gratz e Gunderson, 2006) si sono dimostrati utili per ridurre la frequenza di comportamenti autolesionistici.

 

Tinder: verso una dipendenza comportamentale?

Tinder è un’applicazione differente dai tradizionali siti di incontri: il facile accesso ai potenziali compagni e la natura “user-friendly” dell’applicazione possono incrementare le difficoltà nel controllo del suo utilizzo, dando origine ad un uso problematico che, a lungo andare, potrebbe sfociare in una dipendenza comportamentale.

 

Tinder è un’applicazione differente dai tradizionali siti di incontri, data la sua maggiore portabilità, nonché la sua capacità di geolocalizzazione (Schrock, 2015). Il facile accesso ai potenziali compagni e la natura “user-friendly” dell’applicazione, però, possono incrementare le difficoltà nel controllo del suo utilizzo, dando origine ad un uso problematico che, a lungo andare, potrebbe sfociare in una vera e propria dipendenza comportamentale (Orosz, To ́th-Király, Bo ̋the, & Melher, 2016). Sebbene alcuni studi abbiano esaminato alcune variabili associate all’uso adattivo di Tinder, manca ancora una chiara comprensione del suo uso “problematico”.

Rispetto alle motivazioni alla base dell’utilizzo di Tinder, è stato messo in luce come l’applicazione aiuti a soddisfare contestualmente molteplici bisogni, sia di natura fisica che di natura psicosociale (Sumter, Vandenbosch & Ligtenberg, 2017). Inoltre, è stato suggerito che il suo utilizzo possa costituire un meccanismo di coping, volto a regolare sintomi depressivi o, ancora, a migliorare l’autostima (Ranzini & Lutz, 2017). Rispetto a quest’ultima variabile, è stato osservato, nello specifico, come alti livelli di autostima siano connessi ad un’autentica rappresentazione di sé sulla piattaforma, mentre, la bassa autostima è stata associata al fenomeno del sexting (Ybarra & Mitchell, 2014).

Anche l’impulsività è stata considerata una caratteristica distintiva della psicologia “online” che dà origine ad un ampio spettro di comportamenti, seppur la sua relazione con l’uso problematico di Tinder non è ancora stata indagata.

Vi è poi l’attaccamento, un sistema innato il cui obiettivo è quello di stabilire legami di accudimento-attaccamento con figure significative (Ainsworth, 1989). Ad oggi non è ancora stata indagata se vi sia una relazione tra lo stile di attaccamento e l’utilizzo di Tinder.

Vi è un’ultima variabile che non è ancora stata presa in esame, ovvero il desiderio sessuale. Attraverso un’analisi dei cluster e, prendendo in considerazione le variabili psicologiche appena citate, alcuni autori si son proposti di individuare differenti tipologie di utenti di Tinder, in modo da indagare, successivamente, in che misura i diversi sottogruppi differissero tra loro.

All’indagine hanno preso parte 1159 utenti di Tinder, con un’età compresa tra i 18 e i 74 anni.

In primo luogo, è stato valutato l’utilizzo dell’applicazione, tenendo conto del numero di contatti, della ricerca di relazioni significative e di partner sessuali. Al fine di indagare l’utilizzo problematico dell’applicazione, è stato utilizzato il Problematic Tinder Use Scale (Orosz et al., 2016), mentre, con l’obiettivo di valutare i livelli di felicità e di depressione, è stata utilizzata la Short Happiness and Depression Scale (Joseph et al., 2004).

Inoltre, il Cybersex Motives Questionnaire (CMQ; Franc et al., 2018) è stato utilizzato per indagare le motivazioni che spingono gli individui al cybersex, mentre, il Sexual Desire Inventory (Spector, Carey & Steinberg, 1996), è stato impiegato per valutare il desiderio sessuale diadico, ovvero il desiderio di avere un rapporto sessuale con un’altra persona, e solitario, che implica di desiderio di impegnarsi in attività masturbatorie. Inoltre, è stato utilizzato l’Experiences in Close Relationship- Revised Questionnaire (Fraley, Waller & Brennan, 2000) al fine di valutare lo stile di attaccamento; infine, sono state utilizzate la Short UPPS-P Impulsivity Behavior Scale (Billieux et al., 2012) e la Single-Item Self-Esteem Scale, per valutare, rispettivamente, l’impulsività e l’autostima.

Le analisi hanno identificato quattro sottogruppi.

Il primo era caratterizzato da bassa impulsività, alta autostima, attaccamento sicuro, desiderio sessuale diadico medio-alto, tono dell’umore adeguato e basso uso problematico di Tinder. I soggetti hanno segnalato interesse sia per la ricerca di rapporti significativi che occasionali e hanno mostrato motivazioni differenti rispetto a quelle affrontate nel CMQ, come la curiosità e la distrazione (Timmermans & De Caluwé, 2017).

Il cluster 2 era caratterizzato da impulsività medio-bassa, bassa autostima, attaccamento ansioso, desiderio sessuale diadico e solitario molto basso, umore più depresso e basso uso problematico di Tinder. Questi soggetti hanno riportato un minore interesse per la ricerca di partner ed è stato dunque ipotizzato che, in questo caso, Tinder venga utilizzata come un mezzo per aumentare l’autostima o per appagare il senso di impotenza associato alla depressione.

Il terzo cluster era caratterizzato da un alto livello di impulsività, un’autostima moderata, un alto livello di attaccamento ansioso, un alto livello di desiderio sessuale diadico e solitario e, i partecipanti erano fortemente interessati alla ricerca di partner sia stabili che occasionali.

In questo gruppo è stato riscontrato un utilizzo problematico dell’applicazione, nonostante sia stato constatato un livello intermedio di umore depresso. L’uso di Tinder di questi soggetti sembra essere guidato da una combinazione di motivazioni e da un minore autocontrollo. Si è dunque ipotizzato che gli utenti con uno scarso autocontrollo sembrano essere maggiormente a rischio di sviluppare un uso problematico di Tinder, in quanto questa attività sembra costituire una strategia di coping, volta ad alleviare l’umore negativo. In questo contesto, l’uso dell’app può interagire con il disagio psicologico legato a livelli moderati di umore depressivo e attaccamento ansioso dei soggetti.

Infine, il quarto cluster era caratterizzato da un attaccamento evitante, un alto livello di desiderio sessuale solitario e bassa autostima. I soggetti hanno riportato alti livelli di umore depresso e alti livelli nell’ uso problematico dell’applicazione. Inoltre, sono risultati più inclini a ricercare relazioni stabili, piuttosto che partner occasionali. Questi soggetti potrebbero essere più predisposti ad utilizzare queste applicazioni perché potrebbero considerare gli ambienti online più sicuri per esprimersi. Rispetto al desiderio sessuale solitario, è stato ipotizzato che quest’ultimo, potenzialmente come l’uso di Tinder, sia una strategia di coping volta ad affrontare gli affetti depressivi o la frustrazione sessuale (Dosch et al., 2016).

Concludendo, i risultati appena esposti suggeriscono che l’uso problematico di Tinder potrebbe coinvolgere un’ampia gamma di fattori psicologici. Saranno dunque necessari ulteriori studi per districare il ruolo di queste variabili nello sviluppo, perpetuazione e ricorrenza dell’uso problematico di questa piattaforma.

 

Le nostre relazioni digitali

Oggi l’intelligenza artificiale, basandosi su un algoritmo addestrato, è in grado di tradurre una frase pensata da un soggetto in una frase realmente pronunciata attraverso una voce sintetizzata al computer.

Introduzione

In economia (e non solo), molto diffuso è il concetto di ‘bene relazionale’ all’interno di una collettività. Oggi, con gli avanzamenti dell’intelligenza artificiale (IA), questa nozione dovrebbe essere integrata da quella di ‘bene relazionale digitale’. Infatti, all’interno della collettività, le relazioni si arricchiscono mediante la possibilità di interagire anche con le macchine – in una realtà più articolata, aumentata, e ricca di opportunità – o, in una diversa ottica, si impoveriscono – per il depauperarsi e per il rarefarsi delle interazioni interpersonali dovuti alla sostituzione della macchina all’uomo. La prospettiva cambia soprattutto in ragione dei contesti applicativi e delle finalità. Contesti e fini alla cui formulazione concorrono inevitabilmente il pensiero, i valori del data scientist che vengono canalizzati nella macchina.

Nel presente lavoro si vogliono illustrare gli sviluppi della IA antropocentrica (cioè al sevizio dell’uomo, per studiare fenomeni complessi) ed etica (cioè che lo coadiuvi/sostituisca per il miglioramento delle sue condizioni di vita, nel rispetto della sua dignità e della privacy). Lo si farà in particolari campi dove la IA si sta sviluppando: quello sensoriale e quello relativo al pensiero.

Cominciamo da quest’ultimo. ‘Mi hai letto nel pensiero!’: questa espressione non è più appannaggio esclusivo di un rapporto fra persone, ma anche fra persone e macchina. Perché oggi l’intelligenza artificiale, basandosi su un algoritmo addestrato, è in grado di tradurre una frase pensata da un soggetto in una frase realmente pronunciata attraverso una voce sintetizzata al computer. Estrarre dalla mente per mezzo della IA non è puro divertissement tecno-scientifico o mera sfida di frontiera; i risvolti pratici, come si illustrerà più avanti, sono importantissimi ed ‘eticamente corretti’. Il ventaglio è ampio e va dal campo medico al fact-checking, che – se esperito come correzione di un certo personale e profondo convincimento – si scontra il più delle volte con grandi resistenze psicologiche. Prevale, ad esempio, un largo consenso sulla circostanza che una persona, una volta esposta alla disinformazione, è molto difficile che se ne liberi (Swire ed Ecker, 2018. E qui entriamo nell’area della psicologia della disinformazione).

Ma non solo: l’intelligenza artificiale ha scoperto i segreti dell’immaginazione e il meccanismo che lega questa funzione a quella della visione. Pure in questo caso, il risultato potrebbe avere importanti applicazioni soprattutto in campo medico.

Di più: un odore artificiale realizzato con il machine learning può essere trasmesso a un cervello. Le ricadute nel campo delle neuroscienze e della medicina non sono di poco momento.

Inoltre, nuovi studi hanno dimostrato la possibilità di sviluppare una robotica dotata di sensibilità tattile. Di nuovo, le implicazioni sono notevoli in tantissimi settori – da quello produttivo a quello medico.

I progressi

Entriamo più nel dettaglio di tali progressi in campo medico e di come la qualità della vita di un individuo possa migliorare grazie alla combinazione fra neuroscienze e intelligenza artificiale.

Consideriamo, in primo luogo, il pensiero dell’uomo espresso in parole dalla IA, attraverso un meccanismo costruito da un team di ricercatori della Columbia University (Akbari et al., 2019). Questa interfaccia cervello-computer (BCI – Brain-Computer Interface) monitora l’attività cerebrale dell’uomo e può ricostruire le parole con estrema chiarezza. In particolare, i ricercatori hanno combinato i più recenti progressi nel deep learning con le tecnologie più avanzate nel campo dei sintetizzatori vocali così da ricostruire discorsi nella maniera più intellegibile e fedele possibile prendendo in esame il meccanismo cerebrale che si attiva quando i soggetti ascoltano frasi pronunciate da diverse persone. Il deep learning, si afferma nello studio, costituisce il modello più diffuso e avanzato per processare i segnali audio. I risultati sperimentali ottenuti costituisco un importante passo avanti nell’implementazione delle generazioni future dello ‘speech BCI systems’, si prevede nello studio. Questa capacità di dialogare con il cervello umano aiuta persone che non riescono più a parlare come conseguenza di una varietà di patologie contratte, quali la sclerosi laterale amiotrofica e la sindrome ‘locked-in”'(cfr., fra i numerosi studi al riguardo, Iljina et al., 2017). I soggetti affetti dalla sindrome ‘locked-in’ sono in grado di interagire con gli altri, codificando la chiusura delle palpebre oppure muovendo gli occhi, grazie al fatto che i loro centri nervosi e le vie afferenti ai nervi ottici e oculo-motori non sono intaccati. Oppure riescono a comunicare utilizzando particolari dispositivi, che risultano però lenti in quanto consentono di digitare parole lettera per lettera producendo al massimo dieci parole al minuto (il parlato naturale ha una media di 150 parole al minuto. Cfr. Anumachiapalli, et al., 2019). Con questi metodi di frontiera basati sulla AI e sulla BCI, a persone diversamente abili si danno quindi nuove notevoli opportunità di interagire con il mondo esterno.

Attraverso la IA si sono inoltre individuati i segreti dell’immaginazione e il meccanismo che lega questa funzione a quella della visione. Il deep learning ha consentito di comprendere che il cervello usa aree simili per le immagini e per la visione mentale, cioè per l’immaginazione (Breedlove et al., 2020). Più specificamente, per individuare le differenze tra le aree visive del cervello, i neuroscienziati hanno addestrato una rete neurale a vedere le immagini e successivamente a ricrearle, vale a dire a immaginarle. In una ulteriore fase della sperimentazione, allo scopo di verificare se la rete neurale fosse in grado di riprodurre fedelmente le funzioni del cervello umano, il team ha sottoposto alla risonanza magnetica un gruppo di volontari. In tal modo è stato possibile individuare quali parti del cervello diventano attive quando si vede qualcosa e quando la si immagina. Mappate queste aree del cervello, i neuroscienziati hanno constatato che cervello e rete neurale lavorano in modo simile quando vedono qualcosa e quando la immaginano, e che in entrambe le attività entrano in funzione le stesse aree del cervello. Le applicazioni in campo medico riguardano, tra l’altro, la salute mentale. Ad esempio, la cura dei disturbi che influenzano l’immaginazione, come quelli da stress post-traumatici (PTSD), che portano a rivivere tale esperienza attraverso ricordi esiziali e incubi. Se si è in grado di capire meglio la funzione neurale alla base di questi ultimi, in prospettiva potrebbero verosimilmente essere sviluppati trattamenti clinici più avanzati per il PTSD (Corbo, 2020). Quanti spettri e fantasmi verrebbero allontanati e forse anche del tutto sconfitti!

Passiamo a considerare un odore artificiale prodotto tramite il deep learning (Paoletti, 2020). Si tratta del primo odore artificiale percepito dalle cellule del cervello, ed è frutto della collaborazione fra l’Istituto Italiano di Tecnologia e la New York University. Il rationale è elaborare per via matematica un odore virtuale e trasmetterlo a un cervello biologico per verificare se venga percepito come reale. Nel lavoro (riportato in Chong et al., 2020), l’addestramento di algoritmi ha consentito di produrre il segnale elettrico corrispondente all’odore artificiale. Successivamente, in laboratorio esso è stato tramesso alle cellule nervose del bulbo olfattivo di alcune cavie. I risultati ottenuti illustrano come l’algoritmo consenta di produrre caratteristiche neurali chiave che, una volta combinate, costituiscono una specie di codice di come il cervello trasformi gli input sensoriali in percezione di un odore. Anche in questo caso, le applicazioni in campo medico sono preziose. Basti considerare le persone che hanno perso il senso dell’olfatto in seguito al Covid-19.

Sempre nella sfera sensoriale, oggi la IA è dotata anche della sensibilità tattile, grazie ai risultati della sperimentazione condotta da ricercatori della National University of Singapore, che sono stati in grado di produrre una pelle artificiale. Essa riesce a percepire stimoli tattili con una velocità superiore più di mille volte rispetto al sistema nervoso umano e di identificare forma, consistenza e durezza di un oggetto dieci volte più rapidamente di un battito di ciglia (De Agostini, 2020). La capacità di sentire e percepire meglio l’ambiente circostante grazie a questa spiccatissima sensibilità tattile può agevolare un’interazione più affidabile fra robot e persone, anche a beneficio della salute umana, ad esempio mediante l’automatizzazione di alcune (o parte di) operazioni chirurgiche.

Conclusioni

Poter mettere nuovamente in relazione il proprio mondo interiore con il mondo esterno tramite funzionalità di base quali il dialogo e i sensi, rappresenta una sorta di rinascita e il rafforzamento della propria identità. Oggi questo sta diventando possibile grazie alla ricerca di frontiera dei neuroscienziati combinata con l’intelligenza artificiale antropocentrica in ambito sanitario. Le applicazioni volte al miglioramento della qualità della vita sono sempre più numerose e sofisticate: dall’imaging medico, che velocizza l’intervento terapeutico e ne accresce l’accuratezza, all’allontanamento degli spettri collegati a una esperienza traumatica, al poter riassaporare odori e profumi e alle possibili rievocazioni che ad essi si accompagnano, allo scambio più intenso con il prossimo grazie all’accresciuta capacità di comunicare.

I progressi in tali direzioni concorrono a liberare – o quanto meno ad alleggerire – l’individuo dalle proprie esperienze stranianti.

Chiedimi scusa (2019) di Eve Ensler (traduzione di Valeria Gorla) – Recensione del libro

Eve Ensler è una attivista statunitense famosa per le sue campagne contro la violenza sulle donne. Violenza in ogni sua forma. Mi sono ritrovata a leggere della sua storia e in particolare questo suo testo, Chiedimi Scusa, grazie ad una mia paziente.

 

T. ha una storia di abusi e trascuratezza emotiva che giustificano il suo disturbo borderline di personalità, il disturbo post traumatico complesso e una carrellata di sintomi tra cui il disturbo ossessivo compulsivo e la dissociazione. Nella sua vita T. ha dovuto, in mille modi, gestire una sofferenza poco nominabile attraverso uso eccessivo di farmaci e sostanze varie, regolando stati corporei con tagli e abbuffate e sovra-regolando le sue emozioni. Lo ha fatto talmente tanto bene che accede alla terapia con poca consapevolezza di cosa ci fosse nella sua mente. Una mente frammentata, contesa tra la vergogna, la rabbia, la paura e molto altro che lei identifica con una parola: ‘dolore’. Quando le chiedo dove lo sente mi risponde sempre ‘ovunque’. Ama anche un altro termine e anch’esso lo usa spesso: ‘vuoto’. T. a 8 mesi dall’inizio della terapia è decisamente molto più capace di toccare con mano le conseguenze che alcuni eventi hanno avuto nel suo funzionamento mentale e interpersonale e parla apertamente dei suoi abusi. Sessuali e non. Per aiutarsi a condividere con me la vergogna che si cela dietro un corpo che, sessualizzato precocemente, vive una faticosa altalena di piacere e disprezzo, arriva in seduta con la sua copia di Chiedimi Scusa. Me lo racconta, mi legge una piccola parte e lo vado a comprare pochi giorni dopo.

Come suggerisce il titolo, l’autrice scrive a sé stessa una lettera di scuse da parte del padre, suo abusante da quando lei aveva solo 5 anni. E gli abusi sono stati di vario ordine: sessuale e fisico in genere da un lato ed emotivo e psicologico dall’altro.

Il testo sembra avere una struttura interna in cui, inizialmente Eve racconta la storia del padre Arthur e descrive in modo finemente tecnico la costruzione di una personalità narcisista malvagia (i colleghi terapeuti apprezzeranno le specificazioni del suo vissuto interno) e poi parla di sé, sempre rivedendosi attraverso gli occhi del padre. Arthur si narra, come se stesse scrivendo in prima persona, riconoscendo quei meccanismi che l’hanno reso un mostro per la figlia (e probabilmente per tutte le persone che l’hanno incontrato anche solo per un istante): famiglia esigente e, contemporaneamente, disinteressata. Critiche ovunque. Richiesta di perfezionismo ed alti standard. Riflesso sterile e freddo negli occhi dei suoi genitori, incapaci di trasmettere il minimo affetto o la minima parola di conforto. Addirittura, Arthur ricorda come non gli fosse stata addolcita alcuna pillola: sapeva benissimo di essere stato un figlio indesiderato, un incidente di percorso divenuto un miracolo, un trofeo da sfoggiare, il figlio salvatore da idolatrare. Svalutazione e idealizzazione ad alta intensità spaccano la mente, frantumano l’identità, predispongono solitudine e patologia. Nella sua lettera di scuse, Eve immagina il padre fare i conti con la morte e con quello che ne segue, un qualcosa di sconosciuto e potente e a tratti lo immagina indifeso, debole, forse perfino rassegnato e spaventato. Stona un po’ tutto questo: dalla grandiosità, arroganza e presunzione alla paura. Innominabile, ovviamente. Lo immagina pensare …’perfino qui nel limbo mi sento costretto a dimostrare il mio valore, e qui non c’è nessuno. Dimostrare il mio valore a Dio, forse. Fargli vedere che non sarò sconfitto. Anche di fronte alla tortura eterna non abbandonerò questa vanità‘…

Arthur è stato incapace di creare una connessione calda e intima con la figlia. Provando per lei emozioni complesse di invidia e rabbia, non poteva fare altro (ne siamo davvero sicuri?, mi chiedo) che tiranneggiare la sua famiglia, punire tutti, condire ogni interazione di crudele manipolazione, agita attraverso violenza. Gravitavano, nel tempo che trascorreva con Eve, pensieri ed emozioni poco congrue con i ruoli sani di padre-figlia. E quando Eve inizia a mentalizzare e tradurre in parole ciò che accade, preparatevi a subire il suo dolore. Descrive in modo vivido ogni brandello di agonia e tormento, gestito in qualche modo. Descrive benissimo le sue strategie di dissociazione o di regolazione emotiva attraverso le relazioni che creerà da adolescente e adulta. Senza spoilerare gli eventi di vita dei nostri due protagonisti, credo che il momento finale, in cui la lettera si chiude nel suo epilogo, sia il momento più toccante. Eve regala un colpo di accettazione alla sua vita, fa pace (se così la si può chiamare) con il suo passato e sembra servirle da morire la chiusura di questa lettera. Sembra che così il ‘passato resti nel passato’ come ci insegna Shapiro nel suo testo del 2013.

Quando ho acquistato il libro mi son detta che 100 pagine le avrei lette in un paio d’ore. Invece, mi son servite tre settimane per far sedimentare dentro di me la densità di dettagli, di sofferenza, di dolore che conducono alla conclusione, così condita di un delicato velo di accettazione e di compassione.

Un merito di questo testo è l’accuratezza tecnica con cui sono stati descritti vissuti interni e conseguenze di eventi. Da psicoterapeuta, infatti, ritrovo i cicli interpersonali tra aggressore e vittima (Dimaggio et al., 2013; 2019) i sintomi del disturbo post traumatico complesso o, le caratteristiche di personalità narcisistiche (Dimaggio, 2016) e borderline e ritrovo il percorso verso la compassione e l’accettazione (Gilbert, 2014).

…’Avevi cinque anni. Io ne avevo cinquantadue. Non avevi sovranità. Ti ho sfruttata e abusata. Ho preso il tuo corpo. Non era più tuo. Ti ho resa passiva. L’hai dato compulsivamente a chiunque lo volesse perché ti ho insegnato io che dovevi farlo. Ti ho costretta a uscire dal tuo corpo e siccome eri disclocata e intorpidita, non eri in grado di proteggerti….ho svuotato i tuoi necessari confini in modo che non sapessi mai cos’era tuo e quando dire no e quando dire fermati. …ho distrutto la tua memoria facendoti desiderare di dimenticare tutto

Mi piace immaginare, ma credo che corrisponda molto alla verità, che Eve abbia lavorato su di sé nel corso del tempo e che sia giunta alla sua lettera di scuse, conciliante e risolutiva, solo dopo aver attraversato il mare di dolore che l’attanagliava e si manifestava sottoforma di mille sfaccettature di sofferenza.

Se avete bisogno di sperare, questo libro fa per voi. Se avete bisogno di sentirvi coraggiosi, questo libro fa per voi. Se avete paura, altrettanto.

Ricordo di Gianfranco Goldwurm

È mancato nei giorni scorsi Gianfranco Goldwurm, figura centrale della storia della psicoterapia comportamentale e poi cognitiva in Italia.

Gianfranco Goldwurm -Laureato in Medicina e Chirurgia e specializzato in Psichiatria, fin dagli anni ’60 condusse ricerche sui riflessi condizionati e poi sviluppò i suoi studi sul comportamentismo e sulle terapie comportamentali e cognitive presso l’Istituto di Farmacologia e poi presso la Clinica psichiatrica dell’Università di Milano. A quel tempo, e in seguito, lavorò anche in psichiatria professionale e riforma sanitaria.

Fondò il CIANS (Collegium International Activitatis Nervosae Superioris) di cui fu   principale organizzatore del suo Primo Congresso Internazionale (Milano 1968) e Presidente (1999-2001 e 2006-2008). Con Ettore Caracciolo promosse la formazione di un gruppo di interesse nell’istituto di Psicologia della Facoltà Medica di Milano per dell’analisi del comportamento teorica e applicata all’educazione normale e speciale.

Le due radici, quella psichiatrico-riflessologica che fa capo a Goldwurm e quella psicologico-operante di E. Caracciolo si fusero nella l’Associazione di Analisi e Modificazione del Comportamento (AIAMC) fondata nel 1977.

Nel 1984 insieme a Paolo Meazzini promosse la nascita della rivista Terapia del Comportamento. Nel 1989 organizzò a Roma i Latini Dies, I Congresso Internazionale di Psicoterapia Comportamentale e Cognitivo-Comportamentale dei Paesi di lingua latina.

Queste e altre, tante altre sono le opere e i contributi di Goldwurm allo sviluppo della psicoterapia cognitiva e comportamentale.

Monogamia e tradimenti: rassegna delle ricerche e conclusioni – Una serie di Roberto Lorenzini

Oggi pubblichiamo l’undicesimo lavoro della serie di Roberto Lorenzini, dedicata al tema della monogamia e delle sue implicazioni psicologiche, affettive, relazionali e, perché no, sessuali. Lorenzini propone una tesi forte: la monogamia non funziona. E qui chiude il suo racconto con la rassegna delle ricerca e una conclusione.

MONOGAMIA E TRADIMENTI – (Nr. 11) Ricerche e conclusioni

11. Rassegna delle ricerche

Il fatto che le relazioni amorose evolvano nel tempo non è certo una scoperta sensazionale ed è anzi sotto gli occhi di tutti. Mi limito in questa sede a riprendere il lavoro di rassegna complessiva dello stato dell’arte di Garcia (1998) perché nel descrivere le fasi cronologiche in modo non molto dissimile da quanto fatto nel corso degli episodi di questa rubrica, sottolinea come tali mutamenti siano ascrivibili al diverso dosaggio delle tre dimensioni che, secondo l’interessante teoria triangolare dell’amore di Stenberg (Morino et al., 2005) costituiscono l’amore romantico e che sono: la passione, l’intimità e l’impegno.

Gli psicologi hanno definito tre differenti fasi nelle relazioni d’amore (Garcia, 1998):

  1. Innamoramento;
  2. Amore passionale;
  3. “Companionate love” (che dà l’idea di equilibrio, complicità, armonia).

Fase 1: Innamoramento. Questa fase è caratterizzata da fortissima passione, intimità e impegno ed è una fase relativamente breve (dura circa per i primi 6 mesi); sono presenti eccitazione e, a causa dell’insicurezza, stress. Biologicamente i livelli di cortisolo sono alti, bassi quelli della serotonina.

Fase 2: Amore passionale. E’ una fase dominata da sensazioni di sicurezza e calma; la passione resta alta e l’intimità e l’impegno continuano ad aumentare costantemente. L’ossitocina e la vasopressina giocano un ruolo fondamentale, permettendo la formazione di legami saldi e un miglioramento della salute. Questa fase dura qualche anno prima di evolvere nel “companionate love”.

La fine di questa fase coincide con quella che Helen Fisher (2017) chiamava “4 years itch” ossia “prurito dei quattro anni”. La Fisher, studiando i dati sui divorzi nelle differenti culture, riportò un sostanziale aumento di divorzi nel quarto anno di matrimonio e sviluppò questa teoria ritenendo che i legami umani siano fatti per durare circa quattro anni, ossia il periodo in cui la prole è più vulnerabile. A prova di ciò trovò che questo periodo poteva essere esteso da quattro a sette anni nel caso in cui la coppia avesse più di un figlio. Ne risulta che il passaggio dalla seconda alla terza fase dell’amore è un periodo particolarmente fragile in una relazione.

Fase 3: “Companionate love”. Questa fase è caratterizzata da un decremento della passione, ma intimità e impegno restano elevati: la relazione d’amore è a tratti leggermente simile all’amicizia. L’ossitocina e la vasopressina sono sempre gli ormoni dominanti, assicurando il legame nella coppia. Non tutte le relazioni evolvono necessariamente in questa fase: molte finiscono prima! Quando l’intimità e la passione sono molto bassi e resta solo l’impegno, il risultato è quello che Stenberg definisce “amore vuoto”. Nonostante ciò molte coppie, se l’impegno è abbastanza forte, riescono a restare insieme.

Tuttavia, al di là di queste tendenze generali è pur vero che molte coppie sostengono di essere ancora appassionatamente innamorate anche dopo 20 anni di matrimonio! Ciò indica che alcune relazioni possono non evolvere mai nella terza fase, ma restare nelle fasi iniziali.

Il fatto che un terzo dei matrimoni finisca col divorzio e l’elevata frequenza di tradimenti ci fanno porre una domanda: ma gli uomini e le donne sono fatti per la monogamia?

De Boer, Buel & Ter Horst (2012) hanno riscontrato che ci sono molte indicazioni che farebbero optare per una non-monogamia dell’essere umano. Innanzitutto, ricerche psicologiche mostrano che la soddisfazione coniugale è inversamente correlata alla durata del matrimonio (Berscheid, 2010) e molti matrimoni sfociano nel divorzio (Kalmijin, 2007); ci sono momenti fragili in una relazione in cui la rottura è più che frequente (il “prurito dei 4 anni” della Fisher ne è un esempio).

Entrambe le osservazioni indicano che ci sono meccanismi che portano alla rottura delle relazioni, suggerendo che gli esseri umani non siano naturalmente inclini ad una forma di legame stabile “per tutta la vita” e che siano più simili alle specie non monogame rispetto a quelle monogame (Barash e Lipton, 2002).

Tuttavia, alla domanda se siano o meno monogami è difficile rispondere, poiché uomini e donne mostrano chiari tratti di monogamia sociale (legami durevoli, cooperazione nella crescita dei figli) ma sembra improbabile che siano naturalmente inclini alla monogamia sessuale. Sarebbe quindi più giusto parlare di “monogamia seriale” (tipicamente quando una coppia divorzia e i coniugi si risposano formando nuove coppie).

La monogamia umana è ancora un argomento delicato dove più che altrove è estremamente difficile separare l’effetto culturale dalla natura.

Conclusioni

Come terapeuti assistiamo frequentemente a grandi sofferenze determinate non direttamente da un proprio o altrui comportamento (in questo caso del partner) ma dal fatto che questo si discosti da quella che è la norma e che dunque spinga a condotte atte a ristabilirla. La norma in questione è appunto la monogamia che non ammette il tradimento e se esso si verifica impone la chiusura della relazione principale con separazione, divorzi, smembramento della famiglia e sofferenze dei figli, oppure la rinuncia all’altra relazione con la perdita dell’effetto vivificante e dell’arricchimento che comportava. In realtà abbiamo visto come la relazione principale di amore, una volta superata la fase iniziale dell’innamoramento è finalizzata al mantenimento dell’identità e alla realizzazione di progetti nel tempo come l’allevamento dei figli fino al loro svincolo e ad altri progetti esistenziali in linea con i valori della coppia. Non richiede invece quella esclusività propria del periodo dell’innamoramento per cui altri partner secondari e transitori potrebbero anche arricchire la coppia come nuove profonde amicizie con le quali in fondo sono in continuità e che nessuno percepirebbe come minaccia per la coppia stessa. Il conflitto si porrebbe solo durante la fase dell’innamoramento ma ciò in genere non accade perché ogni innamoramento si potenzia dall’innamoramento dell’altro (è difficile innamorarsi di chi non è interessato a noi). Quindi nella relazione tra due innamorati non ce n’è per nessun altro. In conclusione, mi sembra che l’ideale normativo della monogamia, ancorché costantemente disatteso nella pratica, comporti più sofferenze che vantaggi e non sia utile a garantire la certezza sulla paternità della prole per la quale probabilmente era nato. In compenso costringe alla segretezza e all’inganno vera devastante insidia per la coppia principale.

 

SPARX, un serious games per gli adolescenti che soffrono di depressione – Lo psicologo del futuro

SPARX è un serious games disegnato da un team di ricercatori e clinici dell’Università di Auckland: Prof. Sally Merry, Dr. Karolina Stasiak, Dr. Theresa Fleming, Dr. Matt Shepherd e Dr. Mathiks Lucassen.

LO PSICOLOGO DEL FUTURO – (Nr. 6) SPARX, un serious games per gli adolescenti che soffrono di depressione

 

SPARX è uno dei serious games più famosi esistenti nel mondo della psicologia clinica ed è stato progettato per gli adolescenti dai 12 ai 19 anni che soffrono di depressione. Gli autori specificano come tale gioco non sia da considerarsi un’alternativa alle cure psicologiche, psicoterapeutiche e psichiatriche. Viene piuttosto proposto come integrazione ad esse.

SPARX si serve di strategie di apprendimento attive e divertenti, basate sulla terapia cognitivo comportamentale (CBT).

Dai clinical trial effettuati (Merry et al., 2012; Fleming et al., 2012, 2019; Perry et al., 2017; Poppelaars et al., 2016; Yokomitsu, 2020) è emerso che SPARX è risultato essere efficace nel ridurre i sintomi depressivi, ansiosi ed i sentimenti di disperazione, oltre a migliorare la qualità della vita dei ragazzi tra i 12-19 anni. È risultato inoltre che tali risultati emergevano di fronte al completamento di almeno quattro livelli di gioco. I cambiamenti registrali sono stati mantenuti per una media di tre mesi. Ed il gioco è stato classificato come divertente da parte dei giocatori.

Il gioco è scaricabile su IOS e ANDROID, trovandosi su apple store e google play. All’inizio del gioco è presente un test composto da 9 domande (scala likert 0 “per niente” a 4 “quasi tutti i giorni”), in cui vengono indagati i sintomi dei possibili partecipanti nelle due settimane passate. Le domande poste riguardano la sensazione di irritabilità e depressione, il piacere nello svolgere le attività, la difficoltà nell’addormentarsi o il dormire troppo, la perdita di peso/appetito o il mangiare troppo, il livello di energia, la sensazione di essere un fallimento/delusione per sé o per la propria famiglia, la difficoltà di concentrazione, la lentezza nell’eloquio, l’agitazione e l’ideazione suicidaria.

In base ai risultati ottenuti, se sopra-soglia viene subito indicato di contattare un esperto, o il numero gratuito di SPARX per chiamate o invio di sms (lingua inglese).

In seguito, si possono iniziare i sette livelli, di cui si mostra una piccola demo esemplificativa:

Al termine di ogni livello (della durata di circa 30 minuti) vi è una guida che insegna al giocatore nuove abilità per aumentare il benessere, attivandosi nella vita esterna a SPARX.

Gli sviluppatori consigliano di svolgere al massimo uno o due livelli a settimana, anziché svolgerlo in una volta sola, così da poter sperimentare quanto appreso nella vita ‘reale’ prima di giocare al livello successivo.

Psicoterapia e SPARX

I terapeuti possono scegliere di consigliare l’utilizzo di SPARX ai propri pazienti, considerando che il gioco è in lingua inglese.

Li si può accompagnare, facendoli giocare durante la seduta, svolgendo un livello ad incontro e soffermandosi per il tempo rimanente e nella seduta successiva sulla generazione di compiti ad hoc e sulla loro fattibilità. Inoltre, è consigliabile svolgere anche del role playing esercitandosi sugli esercizi emersi.

A questo proposito gli autori sono aperti al confronto e a supportarne l’utilizzo nel migliore dei modi.

Inoltre, alla FIRST EUROPEAN CONFERENCE ON DIGITAL PSYCHOLOGY. DIGITAL PERSPECTIVES IN PSYCHOLOGY promossa dalla Sigmund Freud University diversi ricercatori e clinici, esperti di serious games e loro utilizzo nella pratica clinica terranno delle lezioni magistrali sul tema e vi saranno spazi di networking in cui poter fare loro domande sul tema.

 

Le iscrizioni alla prima Conferenza europea di Psicologia Digitale sono aperte:

ISCRIVITI ORA 9733

 


 

EUROPEAN CONFERENCE OF DIGITAL PSYCHOLOGY
Scoprine di più: 

Autismo in età adulta. L’esperienza dell’Associazione di Promozione Sociale “Il Tortellante” per la creazione di un Progetto di Vita

L’Associazione di Promozione Sociale ‘Il Tortellante’ di Modena è nata nel 2018 e si pone nello specifico settore di intervento per adolescenti e giovani adulti con Disturbi dello Spettro Autistico.

Alessandro Rebuttini e Martina Rossetti – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

 

Autismo

I Disturbi dello Spettro Autistico sono disturbi del neurosviluppo e si originano da una compromissione nel corso dello sviluppo che coinvolge le abilità comunicative, di socializzazione, e sono in generale associati a comportamenti insoliti (ad esempio comportamenti ripetitivi o stereotipati) e a un’alterata capacità di astrazione e di generalizzazione (ISS, 2011). Nel corso degli anni si sono susseguiti numerosi sistemi di classificazione al fine di garantire una migliore nosografia dell’Autismo. Quello più utilizzato negli ultimi anni è il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali nella sua quinta edizione (DSM-5); un ulteriore sistema di classificazione è l’ICD (dall’inglese International Classification of Diseases) nella sua decima edizione, l’undicesima di prossima pubblicazione in Italia. La principale novità di questo sistema nosografico è rappresentata dalla creazione di un’unica grande categoria diagnostica denominata ‘Disturbi dello Spettro Autistico’ entro cui si trovano tutti i quadri sintomatologici e patologici che precedentemente venivano differenziati (APA, 2013). Le principali difficoltà nell’Autismo sono riscontrabili da una parte nell’interazione e nella comunicazione sociale e dall’altra nella presenza di interessi molto ristretti e ripetitivi e di comportamenti stereotipati. In generale viene spesso utilizzato il termine ‘spettro’ per mostrare l’enorme variabilità di quadri sintomatologici che si possono presentare all’interno di questa categoria diagnostica. Troviamo, infatti, alcune forme con individui con maggiori difficoltà cognitive e intellettive, e forme più ad alto funzionamento con capacità intellettive nella norma e superiori, ma ugualmente con grandi difficoltà sociali (Keller, Bari, Aresi, Notaro, Bianco & Pirfo, 2015).

Autismo in età adulta

Negli ultimi 15 anni l’interesse degli studiosi e della società si è rivolto sempre di più verso i Disturbi dello Spettro Autistico negli adolescenti, nei giovani adulti e negli adulti. Sin dall’introduzione del termine ‘Autismo’ (Kanner, 1978) si è pensata a questa come una patologia presente e diagnosticabile principalmente nei bambini. Gli studiosi ora sono concordi che circa il 90% dei bambini con un Disturbo dello Spettro Autistico diventano adulti autistici (Barale et al., 2009). Altri studiosi hanno definito l’Autismo una ‘almost always a lifelong disabling condition’ (Volkmar, Lord, Bailey, Schultz & Klin, 2004) ovvero una condizione di vita che perdura negli anni. Precedentemente il destino delle persone con un Disturbo dello Spettro Autistico in età adulta erano quello dei ‘reparti frenastenici e psicotici’ degli Ospedali Psichiatrici. Attualmente, invece, il rischio per questi individui, è quello di trovarsi con numerosissime altre forme di disabilità in grandi strutture pubbliche o private, dove gli interventi appositamente centrati su questa condizione di vita sono pochi o rarissimi (Barale et al., 2009). Altre persone con un Disturbo dello Spettro Autistico rimangono, invece, nelle proprie famiglie le quali sono ben consapevoli che prima o poi, per difficoltà dei genitori che inevitabilmente invecchiano o per altre questioni, non riusciranno a seguire i figli così come vorrebbero (Mazzone, 2015). Da un punto di vista psicopatologico si evidenzia che dall’adolescenza in poi alcuni comportamenti messi in atto dai soggetti con Autismo possono migliorare in maniera evidente, altri, invece, peggiorare. È importante, infatti, riconoscere che, come le persone a sviluppo tipico, i soggetti autistici incontrano difficoltà nell’adattamento del corpo che cresce, nella sessualità e nelle capacità di comprendere il mondo circostante e di esprimersi (ISS, 2011). Vi può essere contemporaneamente un aumento di situazioni non chiare e che creano tensione che accompagnano la pubertà, e che possono sfociare nella messa in atto di altri e nuovi comportamenti ripetitivi, auto-aggressivi o etero-aggressivi. Diversi studiosi hanno cercato di riassumere i cambiamenti che avvengono in persone con Disturbo dello Spettro Autistico che stanno diventando adulte, e possono essere così riassunti:

  • nonostante l’aumentare dell’età la persona con Autismo conserva le caratteristiche tipiche della propria sindrome soprattutto per tutto ciò che riguarda la sfera sociale;
  • per la conquista delle autonomie personali gli esiti possono risultare abbastanza limitati;
  • la sintomatologia può sembrarsi leggermente attenuare rispetto all’età evolutiva e a quella adolescenziale e si possono evidenziare alcuni elementi che possono condizionare l’evoluzione e che possono essere interpretati come fattori prognostici (Cottini, 2009).

Tutti questi comportamenti messi in atto da persone che hanno un Disturbo dello Spettro Autistico portano inevitabilmente alla creazione di un vuoto sociale attorno a loro e alle loro famiglie (ISS, 2011). Al fine di diminuire queste difficoltà numerosi studiosi sono concordi nel sottolineare l’importanza di interventi mirati e centrati sulle abilità di queste persone (Cottini, Fedeli & Zorzi, 2016). Gli interventi differenziati si rendono necessari a causa dell’enorme eterogeneità dei sintomi dei diversi individui. Vi è, quindi, centralità sia all’interno del dibattito scientifico sia tra le riflessioni più prettamente operative di portare alla predisposizione e alla creazione di sempre più adeguati servizi di supporto (Nardocci, Della Betta & Marchi, 2003). Sempre a causa della vasta varietà della sintomatologia presente si sta sempre più rivelando necessario lo svolgimento di colloqui di gruppo o individuali di tipo psicoeducativo e psicologico per lavorare sulla sintomatologia ansiosa, depressiva o ossessiva compulsiva che si presenta spesso negli individui adulti con maggiori capacità cognitive (Ferri, Candria, & Mezzaluna, 2020). Un esempio recente è rappresentato dallo studio di Nimmo-Smith et al. (2020) nel quale è stato svolto un confronto tra le diagnosi di disturbo d’ansia effettuate in un gruppo (n=4049) di adulti con Autismo con o senza Disabilità Intellettiva e in gruppo di soggetti di controllo (n = 217.645). I ricercatori hanno potuto vedere che nel gruppo sperimentale con soggetti autistici i disturbi d’ansia erano diagnosticati nel 20.1% dei casi mentre nel gruppo di controllo lo erano nel solo 8.7%. I ricercatori sono concordi nell’affermare che i risultati dovranno essere approfonditi nei prossimi studi, ma che si tratti sicuramente di un dato molto interessante per la creazione di percorsi sempre più adeguati per persone con Autismo (Nimmo-Smith et al., 2020).

In Italia come in tutta Europa negli ultimi anni è accresciuta notevolmente l’attenzione e la sensibilità verso le persone con Disturbo dello Spettro Autistico. Questo anche grazie all’operato di numerose associazioni di genitori che si sono riuniti per fare rete e trovare nuove possibilità per i propri figli. Attualmente i percorsi Istituzionali sono molto differenziati da territorio a territorio e mirati maggiormente alla fascia dei bambini o al massimo degli adolescenti. Tuttavia anche dal punto di vista legislativo sono stati fatti tantissimi passi avanti. Ad esempio con la Legge n. 134 del 18 agosto 2015 conosciuta anche come ‘legge sull’Autismo’ che incentiva la creazione di progetti dedicati alla formazione e al sostegno delle famiglie che hanno in carico persone con Disturbo dello Spettro Autistico. Anche la Legge n.112 del 22 giugno 2016, conosciuta come ‘Legge del Dopo di noi’, si concentra sulla disabilità in individui adulti al fine di attivare prese in carico in strutture appositamente attrezzate in vista del venire a meno del sostegno famigliare a causa dell’età e dell’impossibilità dei genitori. L’Istituto Superiore di Sanità nel 2019 ha riunito numerosi esperti di Autismo per la creazione delle nuove Linee Guida Nazionali e, per la prima volta, è stato creato un apposito gruppo di lavoro per l’età adulta.

La Qualità della Vita nei Disturbi dello Spettro Autistico

Il concetto di Qualità della Vita (QdV) è stato definito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) come la percezione che l’individuo ha della sua vita nel contesto culturale e nel sistema di valori in cui è inserito, in relazione ai propri bisogni, alle aspettative, agli standard e agli interessi individuali (World Health Organization, 1998).

Quello che emerge dalla letteratura è l’importanza di collegare la Qualità della Vita ai bisogni e alle aspettative individuali, e quindi la necessità di non trascurare la dimensione di percezione soggettiva. Occorre quindi prendere sempre in considerazione l’individuo, e le sue abilità necessarie al mantenimento e al miglioramento della propria QdV e anche l’ambiente sociale e culturale in cui è inserito (Cottini, 2009). Data la grande importanza che questo costrutto riveste, in quanto prende in considerazione la persona nella sua interezza, appare di fondamentale importanza considerare il concetto di QdV per la determinazione di politiche pubbliche, la valutazione dei servizi e lo sviluppo di programmi innovativi locali, nazionali e internazionali, volti all’identificazione e realizzazione dei supporti necessari al raggiungimento di bisogni, aspettative, interessi individuali (Schalock et al., 2002). Raggiungere un buon livello di Qualità della Vita è un obiettivo fondamentale e necessario per la vita di tutte le persone, e questo dovrebbe valere anche per chi ha una disabilità, e per le persone con Disturbo dello Spettro Autistico.

L’analisi del costrutto di Qualità della Vita ha fornito una nuova prospettiva nel campo della salute mentale, permettendo di guardare ai problemi delle persone con disabilità, identificando, valutando e sviluppando una serie di servizi e politiche sociali specifiche per queste persone. In questo modo è possibile produrre un cambiamento non soltanto a livello individuale, ma anche sociale con un miglioramento del loro benessere e della loro inclusione nella società.

Tutti, con o senza disabilità, hanno il diritto di raggiungere un buon livello di Qualità della Vita all’interno dell’ambiente in cui sono inseriti (Schalock et al., 2002), ed è questo principio cardine che può guidare la realizzazione di progetti di vita individualizzati per persone con Disturbo dello Spettro Autistico. Per poter arrivare a ciò è necessario riuscire a misurare la QdV della persona con autismo, andando a osservare se alcuni aspetti della loro vita non sono sufficientemente conformi ai bisogni e alle aspettative individuali e, in alcuni casi, anche famigliari. La misurazione diventa elemento indispensabile per l’individuazione di servizi adeguati alle persone con Autismo e la progettazione di specifici interventi. Si possono individuare in letteratura otto domini di Qualità della Vita (Schalock et al., 2002); per ciascuno sono stati poi selezionati una serie di indicatori (percezioni, comportamenti, condizioni) che consentono di definirli dal punto di vista operativo (Croce, Lombardi, & Di Cosimo, 2014). Il benessere fisico consiste nella condizione di buona salute di cui ciascuno gode, grazie a uno stile di vita sano, alla possibilità di ricevere cure e riposarsi in maniera adeguata. Il benessere emozionale si riferisce alla possibilità di sentirsi soddisfatti di sé stessi e della propria vita. Per benessere materiale si fa riferimento alla possibilità di disporre di risorse materiali (quali ad esempio denaro, vestiti, ecc…) e di un proprio spazio all’interno della casa e della comunità in cui si è inseriti. Per Qualità della Vita dell’ambito della autodeterminazione si intende possibilità di compiere scelte, di esprimere i propri bisogni e preferenze ed esserne soddisfatti, usufruendo anche delle opportunità che l’ambiente in cui viviamo ci offre. Lo sviluppo personale consiste nella possibilità di raggiungere una propria personale autonomia in tutti i contesti e per l’intero arco di vita. Per quanto riguarda le relazioni interpersonali ci si riferisce alla possibilità di incontrare e avere momenti di scambio con familiari, amici, e in generale persone che si conoscono. Nell’ambito dell’inclusione sociale si intende la possibilità di sentirsi membro di un gruppo e di una comunità, di non sentirsi esclusi e di essere soddisfatti della possibilità di vivere in pieno il proprio ambiente di vita, sfruttandone ogni elemento. Infine per Qualità della Vita nell’ambito dei diritti si intende la possibilità di sentire tutelati i propri diritti e le proprie necessità grazie anche all’esistenza e al rispetto di norme e leggi adeguate.

Tra le misure del costrutto di Qualità della Vita si può nominare la Personal Outcomes Scale (POS), una scala realizzata da Jos Van Loon, Geert Van Hove, Robert Schalock e Claudia Claes nel 2008 per la misurazione, in adulti con disabilità, degli otto domini (Van Loon, Van Hove, Schalock, & Claes, 2017). Di ciascuno di questi la POS fornisce, dove possibile, due valutazioni: una eterodiretta, attraverso un’intervista rivolta a un caregiver che conosce in maniera approfondita la persona con disabilità, e una autodiretta, rivolgendo le stesse domande direttamente alla persona con disabilità. È una misura degli esiti personali, ovvero del momento di vita attuale della persona con disabilità alla luce dei diversi sostegni che sono stati erogati per il suo progetto di vita. Data la sua peculiare caratteristica nell’individuare aspetti misurabili della qualità della vita di una persona la POS può essere utilizzata anche per la realizzazione di progetti di vita per persone con Disturbo dello Spettro Autistico. Come sottolineato da Roberto Cavagnola, psicologo che lavora presso la Fondazione Sospiro, è importante per l’età adulta progettare specifici percorsi indirizzati al raggiungimento di obiettivi personali e al miglioramento della propria Qualità della Vita (Cavagnola, 2018). Come sottolineato anche dalle Linee Guida 21 dell’Istituto Superiore di Sanità nell’intervento per la persona con Autismo è necessario che ci sia una continuità assistenziale tra i servizi di infanzia/adolescenza ed età adulta al fine di garantire un’assistenza articolata per tutto l’arco di vita (Ferri, Candria, & Mezzaluna, 2020).

Nel progettare interventi volti a un miglioramento della Qualità della Vita di persone adulte con Disturbo dello Spettro Autistico occorre prendere in considerazione anche l’aspetto lavorativo, in quanto elemento che può andare a migliorare molti domini di Qualità della Vita, e aiutare la persona a raggiungere i propri obiettivi di occupazione, integrazione e socializzazione (Montobbio & Navone, 2003). Per mezzo dell’occupazione la persona si realizza, acquista una sua personale identità e migliora anche la propria autostima. Questo percorso può risultare difficoltoso per la persona adulta con Autismo a causa delle caratteristiche psicopatologiche che tale condizione comporta, tuttavia, grazie anche all’aiuto di un personale di riferimento e a un buon progetto individualizzato, possono raggiungere adeguati livelli di autonomia lavorativa ed esecuzione di procedure.

L’esperienza della Associazione ‘Il Tortellante’ di Modena

L’Associazione di Promozione Sociale ‘Il Tortellante’ di Modena è nata nel 2018 e si pone nello specifico settore di intervento per adolescenti e giovani adulti con Autismo, con progetti volti a contrastare e superare le carenze che si manifestano al termine della scuola dell’obbligo, prefiggendosi diversi obiettivi quali: l’avviare percorsi formativi individualizzati per un inserimento lavorativo; il migliorare l’attività in team, anche con persone non formate nell’Autismo; migliorare e arricchire la condizione delle persone con Autismo nella vita adulta e in vista del ‘Dopo di Noi’ ; sostenere le famiglie nella transizione all’età adulta; incentivare e agevolare l’integrazione e l’inclusione delle persone autistiche nella comunità di riferimento; sensibilizzare la comunità sul tema dell’Autismo. ‘Il Tortellante’ coinvolge 25 ragazzi con un’età compresa tra i 15 e i 27 anni ed è prima di tutto un laboratorio terapeutico abilitativo che insegna a giovani e adulti con Disturbi dello Spettro Autistico a stare all’interno di un contesto lavorativo, collaborando con diverse persone, socializzando e producendo pasta fresca fatta a mano. In questo un ruolo fondamentale e cardine è svolto dalle nonne volontarie che sono le vere detentrici della tradizione emiliana del tortellino. L’Associazione unisce propriamente la disabilità e le persone anziane e sole che si riscoprono parte di un gruppo e in grado di dare ancora tanto ai nipoti e agli altri ragazzi. Accanto a questo per ogni ragazzo facente parte dell’Associazione viene realizzato un Progetto di Vita da un’équipe scientifica altamente formata nel campo dell’autismo, supervisionata dal neuropsichiatra e psichiatra Franco Nardocci e guidata dagli psicologi Alessandro Rebuttini e Martina Rossetti. L’Associazione ritiene di fondamentale importanza mettere in piedi programmi di intervento individualizzati con team interdisciplinari di professionisti esperti (psicologi, terapisti occupazionali, tecnici della riabilitazione psichiatrica, educatori) con il coinvolgimento della famiglia.

Il Progetto di Vita si sviluppa a partire da un’intervista rivolta a genitori e/o agli utenti stessi utilizzando la scala POS con lo scopo di andare a indagare il livello di Qualità della Vita in tutti i suoi otto domini, e stilare una serie di obiettivi specifici e individuali che tengano conto dei bisogni e delle aspettative personali. Una parte consistente viene riservata all’inserimento lavorativo; a partire dalle competenze specifiche di ciascun utente vengono individuate dall’équipe differenti mansioni e obiettivi che vengono svolti e raggiunti attraverso programmi cognitivo comportamentali direttamente orientati dalle strategie della Applied Behavioral Analysis (ABA), strategie di educazione strutturata e di organizzazione dello spazio di derivazione del programma Treatment and Education of Autistic and Communication Handicapped Children  (TEACCH) (Schopler & Mesibov, 1995) specifiche per l’età adolescenziale ed adulta.

Il lavoro all’interno del laboratorio viene organizzato con diverse mansioni in base alle capacità di ogni utente per essere svolto in autonomia, o comunque con poco controllo da parte dell’operatore che dovrà andare via via scemando (fading). Il compito dovrebbe essere già conosciuto dal ragazzo, nel caso invece si tratti di una novità vengono predisposti dal personale training di insegnamento di questo attraverso tecniche cognitivo-comportamentali. Dalle prime valutazioni qualitative realizzate si è ricavato che i ragazzi hanno potenziato la propria immagine di sé, aumentato l’autonomia e incrementato diversi aspetti fino ad allora critici (lavorare in team, rispettare le regole, gestire i tempi di attesa, ecc), e anche i riscontri da parte delle famiglie sono stati positivi. Oltre alla POS sono somministrati in maniera periodica le Vineland Adaptive Behavior Scales-II (Sparrow, Cicchetti & Balla, 2005) per la valutazione del comportamento adattivo, la Social Responsiveness Scale (Costantino e Gruber, 2012) per ottenere informazioni sul comportamento sociale reciproco, la comunicazione e i comportamenti ripetitivi e stereotipati caratteristici dei Disturbi dello Spettro Autistico, il Social Communication Questionnaire (Rutter, Bailey, Lord, 2007) per avere dati circa le capacità comunicative, sociali e relazionali, la Childhood Autism Rating Scale Second Edition Standard Version (Schopler, Van Bourgondien, Wellman e Love, 2010) per valutare l’andamento della sintomatologia tipica delle persone con Autismo e, infine, alcuni strumenti per la valutazione dello stress percepito da genitori e famigliari. Se la sede della Associazione al piano terra prevede il laboratorio di pasta fresca, al primo piano è possibile trovare quella che viene definita ‘casa delle autonomie’. La ‘casa’ costituisce un ambiente fisico e affettivo in cui, in una relazione di scambio e con finalità specificamente abilitative e riabilitative, vengono garantite ai ragazzi con autismo opportunità di confronto sul piano comportamentale ed emotivo con percorsi di graduale ‘distacco’ dal nucleo familiare. Questa sarà in una prospettiva futura, una ‘residenza affettiva’ in vista del ‘venire meno del sostegno familiare’. ‘Casa’ anche come luogo di sperimentazione delle autonomie per l’acquisizione delle abilità di vita sociale, in cui cominciare (inizialmente per tempi limitati a weekend prolungati) a prepararsi ad una vita il più possibile autonoma, in cui le attività domestiche (la cura personale, la preparazione dei pasti, la pulizia e la cura degli spazi di vita comune) possano diventare routine insieme con attività ludiche, sportive, del tempo libero, ma anche con responsabilità dirette per l’acquisto dei cibi, degli strumenti e del materiale per la quotidianità della vita della ‘casa’. Si tratta di attività non solo per acquisire competenze ma anche per migliorare quelle capacità comunicative necessarie per esprimere i propri desideri, le proprie preferenze, le proprie scelte.

 

Hewitt e Flett: il Perfezionismo di tratto come costrutto multidimensionale

Hewitt e Flett (1991b) descrivono tre dimensioni che costituiscono il costrutto del perfezionismo di tratto: Self- Oriented (Autodiretto), Other-Oriented (Orientato verso l’altro) e Socially Prescribed (Socialmente Prescritto).

 

Il perfezionismo può essere definito come una caratteristica personale che si presenta composta da varie dimensioni osservabili tramite differenti comportamenti, pensieri ed emozioni, coinvolgendo, quindi, le varie sfere dell’esperienza cognitiva, affettiva, relazionale e sociale (Chang, 2006; Frost, Marten, Lahart, & Rosenblate, 1990; Hewitt & Flett, 1991a).

Tale costrutto multidimensionale è caratterizzato da standard personali eccessivamente elevati, idee rigide che stabiliscono quali comportamenti devono essere attuati e la relativa pena in caso di avvenuto fallimento. Inoltre, si evidenzia un’elevata critica riguardo la propria performance, poiché deve essere sempre all’altezza della situazione, ottenere risultati eccellenti e socialmente apprezzati, ed essere eseguita con attenzione minuziosa alle regole e ai dettagli, al fine di controllare ogni possibile errore e prevenire l’incertezza (Burns, 1980; Chang, 2006; Hamachek, 1978; Frost et al., 1990; Hewitt & Flett, 1991b).

I primi teorici del perfezionismo furono Hamacheck e Burns, seguiti poi da altri autori come Frost, Hewitt e Flett che tentarono di comprendere meglio la natura multidimensionale di tale costrutto, arrivando ad includervi non soltanto gli aspetti auto-riferiti ma anche quelli interpersonali (Hewitt et al., 1991b; Lundh, 2004; Stoeber & Otto, 2006). Hewitt e Flett (1991b) descrivono tre dimensioni che costituiscono il costrutto del perfezionismo di tratto: Self- Oriented (Autodiretto), Other-Oriented (Orientato verso l’altro) e Socially Prescribed (Socialmente Prescritto). La differenza principale tra queste dimensioni non è il modello di comportamento di per sé, ma l’oggetto a cui è diretto il comportamento perfezionista (e.g. orientato verso sé stessi o verso l’altro) o a chi è attribuito il comportamento perfezionista (e.g. perfezionismo socialmente prescritto). Ognuna di queste dimensioni va a costituire il comportamento perfezionista globale.

Self-Oriented Perfectionism

Il perfezionismo autodiretto o auto-orientato si riferisce alla tendenza degli individui a fissare standard elevati e irrealistici per sé stessi ed essere eccessivamente auto-critici quando tali standard non vengono soddisfatti. Tali individui sono così fortemente motivati dal bisogno di raggiungere standard elevati da percepire un totale fallimento se lo standard fissato non viene raggiunto. Secondo Hewitt e Flett (1991b), il perfezionismo autodiretto include anche una componente motivazionale che si riflette principalmente nell’impegno a raggiungere la perfezione ma anche nell’impegno di evitare fallimenti. Il perfezionismo autodiretto è stato associato a vari indici disadattivi, compresa ansia (e.g. Flett, Hewitt, & Dyck, 1989), Anoressia Nervosa (Cooper, Cooper, & Fairburn, 1985; Garner, Olmstead, & Polivy, 1983) e depressione subclinica (Hewitt & Dyck, 1986; Hewitt & Flett, 1990; Hewitt, Mittelstaedt, & Flett, 1990; Pirot, 1986). Ad esempio, è stato rilevato che una discrepanza tra il sé reale e il sé ideale possa produrre un effetto depressivo (Higgins, Bond, Klein e Strauman, 1986; Strauman, 1989) e bassa auto-stima (Hoge & McCarthy, 1983; Lazzari, Fioravanti, & Gough, 1978).

Other-Oriented Perfectionism

Un’altra dimensione importante del perfezionismo, definita perfezionismo orientato verso l’altro, è caratterizzata dalla tendenza a definire standard eccessivamente elevati e irrealistici per gli altri, accompagnata da valutazioni rigorose e critiche rivolte alle prestazioni altrui. Questo comportamento è essenzialmente lo stesso del perfezionismo autodiretto; tuttavia, questo comportamento perfezionista è diretto verso l’esterno. Mentre il perfezionismo autodiretto sembra generare autocritica e auto-punizione, il perfezionismo orientato verso l’altro porta a colpevolizzazione, mancanza di fiducia e sentimenti di ostilità verso gli altri. Inoltre, questa dimensione sembra essere correlata a frustrazioni interpersonali come il cinismo, solitudine e problemi coniugali o familiari (Burns, 1983; Hollender, 1965). Al contrario, gli aspetti più positivi del perfezionismo orientato verso l’altro possono essere associati ad attributi desiderabili come l’abilità di leadership o la facilitazione della motivazione altrui (Hewitt & Flett, 1991b).

Socially Prescribed Perfectionism

La terza dimensione di perfezionismo di tratto, il perfezionismo socialmente prescritto, esprime la tendenza degli individui a credere che le altre persone abbiano alte aspettative riguardo alle loro prestazioni e inoltre, tali individui prevedono elevati standard irrealistici da raggiungere, mostrando un atteggiamento fortemente critico per il fallimento. Questi individui spesso sentono che non potranno mai soddisfare le aspettative espresse dagli altri, vivendo una costante preoccupazione per una propria mancanza di perfezione. Il perfezionismo socialmente prescritto dovrebbe portare ad una varietà di conseguenze negative poiché gli standard imposti dagli altri significativi sono percepiti come eccessivi e incontrollabili, perciò le esperienze di fallimento e gli stati emotivi come rabbia, ansia e depressione dovrebbero essere relativamente comuni. Queste emozioni negative potrebbero derivare da un’impossibilità percepita del compiacimento degli altri, dalla convinzione che gli altri abbiano aspettative irrealistiche nei loro confronti, o entrambi. Quindi, le persone con alti livelli di perfezionismo socialmente prescritto sono interessate a rispettare gli standard imposti dagli altri, mostrando una paura elevata di una valutazione negativa e attribuendo una maggiore importanza all’ottenimento dell’attenzione ma evitando la disapprovazione degli altri (Hewitt & Flett, 1991b).

 

Finché ti va dei Tiromancino: l’innamoramento e la funzione salvifica dell’altro – Rubrica Psico Canzoni

Il presente articolo si propone di interpretare il brano Finché ti va dei Tiromancino, avvalendosi tanto del testo quanto del video. Viene descritto il momento in cui si sceglie di far entrare la persona di cui ci si innamora nella propria vita.

Psico-canzoni – (Nr.3) Finché ti va

 

Le parole di Federico Zampaglione in alcuni brani possono essere definite come la trasformazione in poesia di fotogrammi delle dinamiche di coppia. Finchè ti va è il singolo del gruppo Tiromancino che esce in Italia l’11 Settembre 2020.

Il video della canzone presenta un gruppo presumibilmente terapeutico che fa da sfondo all’incontro tra due ragazzi. Come avviene per ogni incontro, ognuno degli individui che vi partecipano ha un proprio vissuto interiore rispetto ad esso. In questo caso sembra che i Tiromancino scelgano di far passare colui che guarda, o anche solo ascolta, attraverso il percorso emozionale compiuto dal ragazzo. È questi infatti l’unico nel gruppo a cui sembra che la ragazza stia danzando nella stanza e che decide di seguirla, mentre gli altri proseguono a parlare. Per un attimo sembra che con gli occhi si dicano: “sei tu, proprio tu”. Così è il primo contatto che avviene tra due anime: tutti danzano a modo loro, ma ad ognuno colpisce un particolare modo di ballare, a cui poi sceglie se aggregarsi o meno.

Tanto il testo, quanto il video si soffermano sul momento in cui ci si accorge che qualcuno balla con una modalità simile alla propria e si sceglie di continuare insieme la danza. La conseguenza di questo intimo contatto è permettere all’altro di entrare nella nostra vita e a noi di entrare in quella dell’altro.

La danza è una metafora dell’incontro che avviene quando si sperimenta la possibiltà di essere compresi dall’altro, avendo un vissuto simile pur se non identico, che può essere finalmente contenuto e privato dal paralizzante giudizio.

Mi hai trovato prigioniero di una vita sempre uguale è l’intravedere nella persona amata la possibilità che possa tirarci fuori dalla cella in cui sentiamo di trovarci. Tienimi la mano, mentre la città scompare è il momento in cui la mano dell’altro diviene la chiave che aprirà le sbarre per condurci a danzare, dimenticandoci di quello che ci circonda. L’altro assume una funzione così tanto salvifica che i nostri guai si fanno piccoli e più piccoli che ora riusciamo a ridere di noi.

Mentre giri tra i miei dischi prendi pure tutto ciò che vuoi, puoi rimanere qui finchè ti va, riempire tutto dei vestiti tuoi anche se questo non lo dico mai è la scelta di non lasciarsi più  trascinare, ma di amalgamarsi con l’altro, permettendogli di entrare nel nostro cuore. Amare diventa così condividere dischi ed armadi, metafore delle parti più profonde e vulnerabili di sé. Chi si prende il rischio di amare facendo entrare l’altro nella propria vita, varca la soglia dell’incertezza dove il rischio di soffrire è più alto e può finalmente essere accettato.

Nella persona scelta si cela la speranza di trovare luce in mezzo al disordine e di non doverla lasciar perdere perché non portatrice di confusione e tanta polvere.

La relazione di coppia purtroppo, come emerge per chi sceglie di proseguire il viaggio a due, non salva, ma può aiutare a maturare insieme laddove ogni membro della coppia permette all’altro di far luce sui propri aspetti interni e di confrontarsi rispetto ad essi. La coppia diviene così il luogo metaforico dove ognuno ha l’opportunità di divenire capitano della propria anima e padrone del proprio destino, citando la famosa poesia Invictus di William Ernest Henley. Hai presente quando vuoi cambiare strada e decidi che ritorni tu alla guida?

 

FINCHÉ TI VA – Guarda il video del brano:

 

Da “The Social Dilemma” alla Consapevolezza

Le testimonianze riportate nel documentario The Social Dilemma mostrano chiaramente i limiti dei social network e i rischi legati al loro uso, ma sembra che neppure conoscere il funzionamento di tali meccanismi protegga dal subirne gli effetti.

 

To become different from what we are,
we must have some awareness of what we are. (Eric Hoffer)

Nell’odierna società informatica siamo sopraffatti da un’enorme mole di notizie, informazioni e contenuti digitali. In un tale contesto mantenere l’autonomia di giudizio può essere più complesso di quanto sembri. Non solo nei casi in cui siano ipotizzabili deliberati tentativi di manipolazioni dell’opinione pubblica (Tangocci, 2020), ma perfino in occasione del quotidiano uso dei cosiddetti “social media”, o “social network”. Il presente articolo intende esplorare, in una prima parte basata sul documentario The social Dilemma, le influenze che tali piattaforme hanno sui loro membri e, in una seconda parte, proporre la peculiare accezione di “consapevolezza”, che verrà delineata nel corso del testo, come antidoto a tali condizionamenti.

The Social Dilemma

The social Dilemma è il titolo di un recente film documentario (Orlowski, 2020) basato sulle dichiarazioni di esponenti di primo piano del mondo dei social media, come l’ethical designer Tristan Harris e Aza Raskin, fondatori del Center for Humane Technology e ex collaboratori, rispettivamente, Harris di Google e Raskin di Mozilla; Justin Rosenstein ideatore del pulsante “mi piace” di Facebook; l’ex presidente di Pinterest Tim Kendall; e esperti come Shoshana Zuboff, professoressa di psicologia sociale alla Harvard University, o la psichiatra Anna Lembke, specialista in dipendenze alla Stanford University. Le testimonianze riportate delineano un panorama che può sinteticamente essere riassunto nei seguenti punti:

  • Mentre nei primi decenni di vita le aziende dell’high tech vendevano i loro software agli utenti, da alcuni anni i giganti della Silicon Valley vendono l’attenzione dei loro utenti agli inserzionisti, che sono pertanto diventati i veri clienti di aziende come Facebook, Google, Twitter, o simili. Pertanto, poiché ad essere oggetto di vendita, e quindi fonte di guadagno, è il tempo trascorso dagli utenti sulle piattaforme, ogni azienda è in competizione per aumentarlo il più possibile, anche a costo del benessere dell’utilizzatore del servizio, non protetto da normative a riguardo.
  • Rispetto alla tradizionale vendita dell’attenzione dello spettatore all’inserzionista, tipica dei media convenzionali, le piattaforme social consentono la vendita di un’attenzione selezionata. Infatti tali aziende, oltre che dell’attenzione dell’utente, dispongono anche di enormi quantità di dati su di lui (i cosiddetti big data: preferenze, amicizie, opinioni, stati emotivi, tempo dedicato a ogni immagine, post, argomento, ecc…), utili a generare automaticamente degli accurati modelli predittivi su quale stimolo riceverà il suo interesse. La credenza che le aziende vendano i nostri dati non corrisponderebbe quindi a realtà, poiché è interesse delle aziende tenersi stretti i dati raccolti e utilizzarli per generare una profilazione dell’utente migliore di quella disponibile alla concorrenza, così da ottenere modelli predittivi più affidabili.
  • Il cosiddetto “capitalismo della sorveglianza” (Zuboff, 2019) offre all’utente dei servizi apparentemente gratuiti, visto che non è richiesto un pagamento in denaro, giacché il profitto per l’azienda deriva dal monitoraggio dei dati dell’utilizzatore, spesso di ciò inconsapevole. Infatti ogni singola attività online viene osservata, tracciata, misurata, monitorata e registrata. Incrociando elementi apparentemente innocui come l’orario di apertura di un sito, il tempo di osservazione di una foto, la permanenza sul profilo di una persona, per non parlare dei nostri stessi post e dei commenti a quelli altrui, è possibile tracciare profili ben più dettagliati di quanto sia mai stato storicamente possibile.
  • Disporre per ogni singolo utente di modelli predittivi altamente affidabili consente di mostrargli contenuti personalizzati, ad esempio, per ottimizzare la ricezione di un messaggio pubblicitario. Tuttavia la personalizzazione non si limita alla scelta di quali inserzioni mostrare, ma concerne l’intera selezione dell’esperienza social dell’utente, quali contenuti mostrare per primi o con maggiore frequenza, quali rendere invece difficilmente accessibili. In tal modo il meccanismo è in grado di alterare la percezione delle “realtà” dell’utente, permettendo, ad esempio, di rafforzare divergenze preesistenti tra opposte fazioni, ma anche di crearne di nuove. Un drammatico esempio è offerto dalle persecuzioni verso la minoranza Rohingya in Myanmar a seguito di notizie false postate su Facebook dai militari del regime birmano (Whitten-Woodring et al., 2020).
  • In luoghi come lo Stanford Persuasive Technology Lab (captology.stanford.edu), intere generazioni di tecnici sono formate a sfruttare le vulnerabilità della mente umana per sviluppare aspetti informatici, come specifici design, in grado di modificare il comportamento delle persone. Ad esempio, sfruttando tecniche di condizionamento tramite rinforzo intermittente, lo stesso principio sul quale si basa la dipendenza da slot machine. Esiste una disciplina, chiamata growth hacking, che si occupa di strategie per far crescere un’azienda, un sito, una piattaforma, aumentandone le iscrizioni, il coinvolgimento, la condivisione. Tra i suoi metodi più tipici vi sono i cosiddetti test A/B scientifici, ovvero dei test di preferenza eseguiti mostrando opzioni diverse a due gruppi di utenti e osservandone la reazione. Col sommarsi di miriadi di piccoli esperimenti è possibile sviluppare il modo ottimale per far fare ai soggetti quanto desiderato. Nel documentario, Shoshana Zuboff afferma che da simili esperimenti aziende come Facebook o Google hanno concluso di poter influenzare i comportamenti e le emozioni nel mondo reale senza mai allertare la consapevolezza degli utenti.
  • Queste piattaforme non sono strumenti, poiché uno strumento semplicemente attende di essere utilizzato, mentre in questo caso sono in campo sofisticatissime strategie per sviluppare dipendenza e indurre alle reazioni desiderate. Degli algoritmi calcolano cosa mostrare all’utente al fine di ottimizzare i tre principali obiettivi aziendali: massimizzare il coinvolgimento per aumentare la permanenza sulla piattaforma, coinvolgere più persone possibili, aumentare la vendita di pubblicità. Si tratta di programmi di intelligenza artificiale basati su apprendimento automatico che diventano sempre più abili nel raggiungere tali obiettivi. Sono in corso ampi dibattiti su quando l’IA diverrà più intelligente dell’uomo e, sostituendolo al lavoro controllerà il mondo; sfugge tuttavia che c’è un momento che arriva prima, quello in cui la tecnologia supera e sconfigge le debolezze umane, quel momento è già arrivato, l’intelligenza artificiale sta sta già controllando il mondo oggi. Perfino gli intervistati riportano che, pur conoscendo tali meccanismi, non sono stati capaci di sottrarvisi, poiché esattamente come delle droghe i social stimolano il rilascio della dopamina nel circuito di gratificazione.
  • Il sistema è talmente potente da giungere a intaccare lo stesso senso di identità e di autostima. Per i membri della nostra specie, in quanto animali sociali, è importante l’opinione degli altri, pertanto ci siamo evoluti per preoccuparcene, ma non siamo preparati a preoccuparci dell’opinione di migliaia di persone, né ad assumere una dose di approvazione sociale ogni pochi minuti, tramite “mi piace”, cuoricini o altro. Tali gratificazioni lasciano presto con un senso di vuoto che induce alla dipendenza, e favorisce depressioni, ansie e insicurezze. Esiste perfino una cosiddetta “dismorfia da Snapchat” che induce chi ne è affetto a richiedere operazioni di chirurgia estetica per assomigliare all’immagine di sé alterata dai filtri dei social media.
  • Inoltre, secondo uno studio del MIT (Vosoughi et al., 2018), le notizie false si diffondono più velocemente di quelle vere, aspetto che le renderebbe preferibili ai suddetti algoritmi volti a ottimizzare la visualizzazioni. Ma la questione non può essere meramente commerciale poiché abbiamo visto che tali visualizzazioni sono in grado di modificare la realtà sociale. Per questo il problema riguarda tutti, non solo chi utilizza i social media. Come già visto in Myanmar il sistema può essere impiegato da persone senza scrupoli per innescare i cambiamenti desiderati. Le stesse democrazie sono a rischio di svilirsi in dittature digitali non riconosciute come tali, ed è ingenuo pensare che degli organismi di controllo possano arginare tale rischio, poiché non si capisce cosa, e come, potrebbe essere in grado di preservare da analoga contaminazione i membri degli stessi organismi di controllo.Nelle parole di Tristan Harris

    Questa è l’ultima generazione di persone che sanno com’era prima che si verificasse questa illusione. Come fai a svegliarti da Matrix se non sai di starci dentro?

Cos’è la consapevolezza?

“Consapevolezza” è tra quei termini di uso comune, e pertanto apparentemente ben conosciuti, che si mostrano ricchi di accezioni di significato ben diverse tra loro non appena si tenta di definire il concetto con la precisione necessaria a una sua disamina. Lo stimato linguista Giacomo Devoto (1968) ci riporta che “consapevole”, da cui “consapevolezza”, deriva dall’unione del prefisso “con-”, con valore rafforzativo (diversamente da chi gli attribuisce valore di compagnia), “sapere” e il suffisso “-evole”, con valore attivo, ottenendo dunque la “qualità di colui che consà”, ovvero che “sa in modo rafforzato”, più profondo. Anche così definito tuttavia il termine si sovrappone in parte a alcuni dei significati propri del termine “coscienza” e i confini sono spesso lasciati alla sensibilità dei singoli autori.

Sul termine “coscienza” ho approfondito nella seconda parte di un mio articolo (Tangocci, 2019) i diversi significati che può assumere in psicologia. Un’analoga classificazione dei significati riferibili a “consapevolezza” sarebbe tuttavia complicata, sia dalla sovrapposizione in italiano con alcune delle accezioni di “coscienza” riportate nel suddetto articolo, sia dalla non diretta corrispondenza di “consapevolezza” e “coscienza” con  “consciousness” e “awareness”, confusione aggravata dal termine “mindfulness”, talvolta anche esso tradotto con “consapevolezza” senza riferirsi adeguatamente alle sfumature di significato derivabili dall’omonima tecnica. Inoltre non mi risulta che in psicologia esistano rigorose definizioni del concetto, talvolta utilizzato per indicare la consapevolezza percettiva, o la consapevolezza di una specifica situazione, talaltra mutuato tout court, e con tutte le ambivalenze del caso, da tradizioni esoteriche, filosofiche o religiose.

Un panorama quindi complesso, che non mi è qui possibile dipanare oltre. Nondimeno ritengo che questa rapida esplorazione sia stata necessaria a chiarire che il termine può evocare significati tra loro molto diversi, e distinguerli dalla specifica accezione di consapevolezza che attribuirò al termine nel proseguo del testo: la consapevolezza di non essere abitualmente presenti alle dinamiche in atto tra noi e gli altri, e in tal modo di essere facilmente condizionabili da eventuali tentativi di manipolazione, ivi compresi quelli dei social media.

La consapevolezza di non essere consapevoli

Come è noto, Socrate affermava di non sapere, e grazie a ciò l’Oracolo di Delfi lo proclamò il più saggio di tutti gli uomini. Similmente intendo delineare il concetto di “essere consapevoli di non essere consapevoli”, centrale in alcuni percorsi di lavoro su di sé, tra cui in special modo quello proposto dal mistico greco-armeno Georges Ivanovič Gurdjieff. Nella psicologia, concetti affini, sebbene per lo più espressi con termini diversi, sono riscontrabili soprattutto nel lavoro di Carl Gustav Jung, o in quello di Roberto Assagioli e, più recentemente, nelle opere di Ken Wilber. Non sono invece a conoscenza di alcun interesse scientifico alla definizione del costrutto e alla sua operazionalizzazione, né pertanto di studi a riguardo. Forse perché la moderna hybris non tollera l’ipotesi che in quanto homo sapiens sapiens potremmo non essere consapevoli, né ha pertanto interesse a un tale studio.

Nel lavoro di Gurdjieff invece, rendersi conto di non essere presenti a se stessi è la condicio sine qua non affinché chiunque possa lavorare per ottenere quello che lui chiama il “ricordo di sé”. Diversamente, chi mai si impegnerebbe in un lavoro lungo, faticoso e senza garanzie di successo, nella speranza di ottenere qualcosa che già ritiene di avere? Gurdjieff in distinti periodi della sua vita formula diversi percorsi, a suo stesso dire non suoi ma ripresi da insegnamenti tradizionali, così schematicamente riassumibili: l’osservazione di sé, l’esecuzione di specifiche danze, la lettura di libri appositamente scritti per suscitare determinate reazioni emotive. Questi metodi “esoterici” ci viene riferito fossero affiancati da insegnamenti esoterici che, in quanto tali, erano tramandati unicamente a determinati discepoli e non ci sono pertanto noti.

Ad ogni modo, ai fini di questo lavoro è di interesse il primo percorso, esposto nel diario della sua esperienza con Gurdjieff dal filosofo Pëtr Dem’janovič Ouspensky (1947), poiché presenta ipotesi psicologiche che, per quanto originali, hanno affinità sia con quelle di Jung che con riflessioni e ipotesi di altri autori. In estrema sintesi, l’uomo vivrebbe abitualmente in una sorta di sogno a occhi aperti, nel quale sarebbe guidato da automatismi dei quali non è consapevole, e avrebbe l’illusione di essere un tutt’uno, benché in realtà composto da più “io” che si alternano al controllo dei centri psichici (principalmente, il centro intellettuale, il centro emozionale e il centro fisico o motorio) che  per lo più lavorerebbero in modo improprio e disarmonico. Per prevenire l’angoscia derivante dalla consapevolezza di un’esistenza tanto misera, saremmo dotati di protezioni, da lui chiamate “respingenti” o “ammortizzatori”, che usualmente ci impedirebbero di vederci per come realmente siamo (se rimossi tutti insieme, secondo Gurdjieff, impazziremmo, motivo per cui è necessario un percorso di rimozione graduale).

L’esposizione del raffinato pensiero di Gurdjieff meriterebbe maggiore approfondimento, tuttavia, quantomeno a chi ha familiarità col pensiero di Jung, già questi pochi elementi possono suggerire delle analogie. Per Jung, gli antagonisti dell’io sono i cosiddetti “complessi a tonalità affettiva”, che elicitano risposte automatiche, sovente inconsapevoli e indesiderate; la nostra visione della realtà è filtrata dalla personale dimestichezza con ogni funzione psichica (pensiero, sentimento, intuizione, sensazione); e l’individuazione, ovvero il percorso che porta a diventare individui, passa dalla consapevole integrazione. Nelle sue parole:

La psicologia sa che si possono rendere innocue o perlomeno tenere in scacco certe pericolose forze inconsce, quando l’individuo riesca a renderle consce, cioè ad assimilarle mediante un processo di comprensione e a integrarle nella totalità della personalità. (Jung, 1945, p.52)

Mentre il concetto di “respingenti” trova una sua analogia nei “meccanismi di difesa”, trasversali a tutta la psicoanalisi. Ma per chi lo conosce il pensiero di Gurdjieff trova affinità anche in altri ambiti della psicologia, ogniqualvolta si occupa di azioni non consapevoli (Tangocci, 2019).

Conclusioni

Nei confronti delle moderne forme di manipolazione mediate dai social network, vista la deliberatamente induzione di dipendenza, ancor più che nel difendersi da ogni altra forma di manipolazione, il primo indispensabile passo è riconoscere l’esistenza del rischio e del non esserne immuni. Le testimonianze, riportate nel documentario The Social Dilemma, affermano chiaramente che neppure conoscere il funzionamento di tali meccanismi, al punto di averli personalmente progettati, protegge dal subirne gli effetti. Come nei confronti di una sostanza d’abuso, un conto è sapere che fa male (quale fumatore non sa che fumare fa male?), un altro è comprendere che fa male, e pertanto evitare, smettere, o quantomeno limitare l’uso. Credere che quanto esposto sia un’esagerazione, o che comunque non riguardi noi, ma solo altri più ingenui che si lasciano facilmente abbindolare da tali dinamiche, è la corsia preferenziale per diventare noi per primi facilmente manipolabili.

Ma questo non è che l’inizio del percorso, poiché diversamente da una sostanza di abuso che può essere più o meno facilmente evitata, la tecnologia oggigiorno è difficilmente evitabile, e spesso non lo sono neppure i social network, di cui alcuni abbisognano anche per uso professionale, oltre che per la gestione della vita sociale, che è tristemente sempre più spostata online. Tra i principali consigli che gli stessi operatori della Silicon Valley rispettano strettamente, come testimoniato anche dal documentario, c’è l’evitare che tali tecnologie siano accessibili ai bambini e limitarle agli adolescenti. Ma ciò non è certo possibile se gli adulti non prendono consapevolezza dei rischi e, per primi, riducono drasticamente il tempo trascorso su queste piattaforme. A tal fine è necessario che la permanenza stessa sia sempre attenta e critica, consapevole del desiderio di gratificazione e del conseguente rischio di modificare il proprio comportamento per ottenerla, e che, nei limiti del possibile, si sottoponga a verifica ogni contenuto, a prescindere da quanto la fonte sia o meno ritenuta affidabile e/o in linea con la propria visione del mondo.

Sull’importanza di sviluppare un pensiero autonomo, da qualunque fonte, vorrei concludere con le parole di Jung tratte dal suo saggio Commenti sulla storia contemporanea, nel quale esplora come sia stato possibile che

il popolo più industrioso, efficiente e intelligente d’Europa [sia caduto] in uno stato mentale delirante

ovvero nei crimini del Nazismo:

si resta talmente impressionati dalla forza di suggestione della retorica da megafono che si è inclini a ritenere di poter utilizzare anche per uno scopo buono questi mezzi cattivi, vale a dire l’ipnosi di massa mediante appelli ‘infuocati’, parole ‘energiche’, o sermoni capaci di toccare i cuori. […] devo tuttavia ribadire che la persuasione delle masse in vista di un fine che si considera un bene compromette il fine stesso, poiché in fondo non è altro che propaganda psicologica, la cui efficacia si affievolirà nuovamente alla prima occasione. Gli innumerevoli discorsi e articoli sul ‘rinnovamento’ sono inefficaci, si risolvono in un chiacchiericcio che non fa male a nessuno e che annoia tutti quanti. Affinché si muti l’intera realtà deve prima mutare l’individuo singolo. Il bene è un dono e un’acquisizione individuale; in quanto suggestione di massa è una mera ubriacatura che non ha mai avuto valore di virtù. Il bene può essere raggiunto solo dal singolo come sua prestazione individuale. Non c’è massa che possa farlo per lui. Il male invece richiede una massa per nascere e continuare a esistere. (Jung, 1945, pp. 52-53)

 

 

Cambiamenti nel consumo di cibo, di sostanze e dell’uso dei dispositivi digitali durante il COVID-19: uno studio francese

L’indagine nazionale basata su web di Rolland e dei suoi collaboratori ha valutato il benessere mentale e le condizioni di salute, oltre che i cambiamenti delle abitudini alimentari, dell’uso dei dispositivi digitali e del consumo di sostanze nella popolazione generale francese.

 

Con l’arrivo della pandemia di COVID-19, i governi dei paesi come Italia, Francia e Spagna, per limitare la diffusione del virus, hanno preso provvedimenti straordinari riducendo la mobilità e le interazioni sociali dei cittadini (Walensky & Del Rio, 2020).

In Francia, le misure di contenimento annunciate nel Marzo 2020, obbligavano gli abitanti a chiudersi tra le mura domestiche, consentendo l’apertura di attività definite “essenziali” come quelle mediche, quelle legate all’approvvigionamento alimentare insieme alla possibilità di acquistare alcol ed il libero accesso a tabaccai.

Certamente le restrizioni imposte sono state fonte di stress, avendo impattato sulla salute mentale e sul benessere generale della popolazione. La ricerca ha dimostrato che situazioni di compromissione dei legami sociali e di scarso benessere, si associavano ad un eccessivo consumo di cibo, al sovrappeso conseguente, ad un incremento del consumo di sostanze e del tempo trascorso di fronte ad uno schermo (Lemieux & al’Absi, 2016; Sinha, 2008; Stranges et al., 2014). Dunque anche l’epidemia di COVID-19 e le misure di contenimento adottate fin dalle prime fasi, hanno esacerbato i comportamenti relativi allo spettro della dipendenza.

L’indagine nazionale basata su web di Rolland et al. (2020), ha valutato il benessere mentale e le condizioni di salute, oltre che il cambiamento nelle abitudini alimentari, dell’uso dei dispositivi digitali e del consumo di sostanze nella popolazione generale francese. I partecipanti reclutati dal 25 marzo 2020, secondo i criteri di inclusione, dovevano essere francofoni e di età superiore ai 16 anni. Oltre ad una valutazione del livello di disagio psicologico, sono stati indagati aspetti sociodemografici e ambientali, come il numero di persone con cui i partecipanti condividevano l’abitazione durante la fase più restrittiva.

Durante il periodo di confinamento, è emerso un incremento moderato di tutte le abitudini indagate; in particolare nell’assunzione di cibo calorico/salato, uso degli schemi e di sostanze (alcol, tabacco e cannabis) tra i cittadini francesi. Per tutti i comportamenti è stato riferito, sebbene in una percentuale ridotta di casi, un aumento talmente significativo da comprometterne il controllo. Ad esempio, mentre 2/3 del campione ha incrementato l’uso dei dispositivi digitali, il 15% ha notato difficoltà nel controllarne l’uso.

I risultati possono essere interpretati alla luce di modelli animali, che hanno fornito supporto nel dimostrare come la riduzione della socialità possa incrementare i livelli di stress e quindi l’assunzione di sostanze (Cheeta et al., 2001; Thielen et al., 1993) ed il consumo di cibo che a sua volta conduce al sovrappeso (Schipper et al., 2018).

Per quanto concerne il confronto con indagini epidemiologiche su esseri umani, nonostante siano limitate per la rarità con la quale si verificano brusche riduzioni dell’interazione sociale; è possibile fare analogie con studi condotti su individui arruolati nelle forze armate durante periodi di conflitto. In tali condizioni estreme, i soldati sono costretti a drastiche riduzioni delle interazioni sociali, che inducono facilmente un incremento parallelo del consumo di sostanze. Lo studio di Lee Robins (2017) condotto su soldati statunitensi inviati in Vietnam, ha rilevato che in seguito ad un calo significativo delle interazioni sociali, erano aumentate le assunzioni di oppioidi durante la permanenza sul campo, del tutto ridotte con il ritorno a casa. Nonostante non si possa effettuare un paragone tra il COVID-19 e la guerra, in generale, una brusca riduzione dei contatti sociali può aumentare i livelli di stress, noia e comportamenti di dipendenza successivi.

Tra i partecipanti che hanno riportato un incremento dei comportamenti esaminati, si possono rilevare profili comuni oltre che caratteristiche peculiari.

Un ridotto benessere mentale ed un maggiore stress erano i fattori di rischio condivisi, sottostanti a tutti i comportamenti disadattivi. Nonostante si era ipotizzato una ricaduta nei comportamenti esaminati tra i partecipanti che erano stati in terapia per una storia di dipendenza (Marsden et al., 2020), questo fattore non impattava sui cambiamenti osservati nello studio.

Tra i fattori di rischio specifici per coloro che assumevano maggiormente cibi calorici/salati, era emerso l’essere giovani donne che abitavano in contesti di vita sfavorevoli (ad es. case piccole e in solitudine). Coerentemente con ricerche precedenti, la componente emotiva nelle problematiche alimentari è comune in donne che affrontano situazioni di vita stressanti (Camilleri et al., 2014; Péneau et al., 2013).

La maggior parte delle donne con meno di 30 anni, single e isolate in area urbana senza possibilità di lavorare aveva riferito un incremento dell’utilizzo di dispositivi elettronici. Tuttavia, studi precedenti rilevano come l’eccessivo utilizzo dei dispositivi digitali sia più comune tra gli uomini che affrontano situazioni di disagio (Khalili-Mahani et al., 2019).

Probabilmente, tra i giovani, vivere in aree urbane in condizioni stressanti incrementa l’uso di internet poiché ci si trova confinati in un ambiente ristretto. L’uso dei dispositivi digitali correlava con necessità lavorative, in quanto la maggioranza degli intervistati che lo utilizzavano erano in modalità smart-working.

I fattori di rischio associati in generale al consumo di tabacco, sono gli stessi riscontrati durante la pandemia di COVID-19, ovvero l’essere una donna con meno di 50 anni, con basso status socioeconomico e livello di istruzione (Bonevski et al., 2014).

Essendo l’alcol una dipendenza meno stigmatizzata rispetto al tabacco o alla cannabis, il suo consumo era comune tra gli intervistati di mezza età e con elevato livello di istruzione.

Il consumo di cannabis aumentava tra i giovani poco istruiti, confermando la fascia della popolazione fruitrice regolare della sostanza in Francia ed il fatto che l’uso della stessa sia inversamente correlato al livello di istruzione (Legleye et al., 2016).

I risultati evidenziano come lo stress derivante dalle fasi iniziali del COVID-19 in Francia, sia il fattore di rischio trasversale che conduce all’aumento di tutte le abitudini legate alla dipendenza.

Tra coloro che assumevano cibo salato/calorico usavano i dispositivi digitali, abusavano di alcol, tabacco e cannabis; sono emerse vulnerabilità specifiche che incrementavano tali abitudini dannose, evidenziando fattori di rischio selettivi per alcune fasce della popolazione francese.

Tenendo conto di tali specificità, sarebbe utile sviluppare messaggi di prevenzione mirati a ciascun sottogruppo di individui, al fine di renderli in grado di affrontare l’insorgenza di abitudini dannose, sia durante, che nelle fasi successive del periodo di restrizioni.

 

cancel