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Covid-stigmatizzati

La paura del contagio, che la società sta vivendo in seguito alla pandemia da Covid-19, crea terreno fertile per la stigmatizzazione di persone o gruppi sociali.

 

Si delinea così un’altra paura: la paura di essere l’oggetto dello stigma. Questo spiega perché risulta così complesso comunicare la propria positività al virus. Questa paura nella paura può essere spiegata alla luce dell’evoluzione della definizione dello stesso ‘stigma’ e delle conseguenti implicazioni psico-sociali.

Anche se diverse definizioni di ‘stigma’ possono essere ricondotte al sociologo Goffman (1922-1982), quella più comune nel panorama delle scienze sociali è quella di un ‘attributo che è profondamente screditante’ e che riduce lo stigmatizzato ‘da persona interna al contesto comunitario ad una esiliata’ (Goffman, 1961, p. 3). Successivamente, Goffman ha definito lo stigma come il rapporto tra un ‘attributo e uno stereotipo’ (Goffman, 1963, p. 4). Lavori più recenti, invece, hanno avuto l’obiettivo di ri-concettualizzare e misurare lo stigma, concentrandosi, ad esempio, sulla dimensione della ‘visibilità’ dello stigma (Jones et al. 1984) o sull’attenzione alla ‘segretezza’ come potenziale meccanismo di fronteggiamento per lo stigmatizzato (Schneider e Conrad 1980; Link et al. 1997). In particolare, la dimensione della segretezza può spiegare perché, in caso di positività al virus, non comunicare di essere affetti da coronavirus diventa un meccanismo di autoprotezione piuttosto che un comportamento irrispettoso.

Seguendo le intuizioni di Goffman, un secondo quadro concettuale è stato sviluppato da Jones e collaboratori (1984). A differenza del sociologo, Jones e colleghi utilizzano il termine ‘marchio’ come un attributo che comprende una vasta gamma di condizioni considerate ‘devianti’ da una società. Ottenendo questo marchio, perciò, la comunità potrebbe avviare il processo di stigmatizzazione della persona marchiata, poiché considerata deviante. Gli autori, però, identificano come elemento indispensabile per lo stigma il valore di ‘scredito’. In più, identificano sei dimensioni dello stigma:

  • l’occultabilità: varia a seconda della ‘natura’ del marchio stigmatizzante. Ad esempio, le persone che vivono una condizione socialmente riconosciuta come stigmatizzante, saranno più portate ad occultarla;
  • la contrapposizione tra condizione reversibile o irreversibile. Le condizioni irreversibili tendono a suscitare atteggiamenti negativi da parte degli altri;
  • la perturbazione, che indica la misura in cui un marchio può creare delle tensioni nelle relazioni interpersonali;
  • l’estetica, che riflette ciò che è attraente o gradito; se collegata allo stigma, questa dimensione riguarda la misura in cui un marchio suscita una reazione istintiva e affettiva di disgusto;
  • l’origine, che si riferisce a come la condizione di stigmatizzazione è stata creata dalla comunità. In particolare, è la responsabilità percepita per la condizione di stigmatizzazione che esercita una grande influenza sul fatto che gli altri rispondano con opinioni sfavorevoli e/o punizioni nei confronti della persona ‘marchiata’;
  • la dimensione di pericolo, che si riferisce a sentimenti di minaccia che il marchio induce in altri. In questo senso, un esempio attuale di minaccia è la paura di un pericolo fisico effettivo, come una malattia contagiosa e/o l’esposizione a sensazioni di vulnerabilità.

Quindi, quali possono essere le conseguenze dello stigma nell’attuale scenario pandemico? Il vissuto del contagio da covid19 come uno stigma, porta la persona ‘colpita’ ad autodifendersi mettendo in atto strategie come l’occultamento della sua positività al virus. La conseguenza di questa strategia di difesa può ricadere proprio sulla condizione di contenimento della pandemia, soprattutto nella fase di ricostruzione della catena di contatti. In tale situazione di stigmatizzazione, importante è l’intervento dello psicologo e psicoterapeuta sociale/comunitario, che andrebbe a decostruire il significato del vissuto del ‘contagio da covid19’ come oggetto di stigma e, quindi, di un’emotività accordata alla vergogna.

 

Dexter: perché nonostante la nostra moralità a volte tifiamo per il cattivo?

Dexter è uno show televisivo che pone complesse questioni morali sulla giustizia, sulla moralità e su cosa sia il bene e il male. Perché questo show è così popolare se le azioni del protagonista sono in conflitto con il codice morale dello spettatore? Perché arriviamo al punto di tifare per lui?

 

Dexter è una serie TV americana di genere thriller e poliziesca che ha un protagonista insolito: egli lavora per il dipartimento di polizia di Miami come tecnico forense nell’analisi delle tracce ematiche, tuttavia è un efferato serial killer. Il padre adottivo Harry ha riconosciuto precocemente i segnali di psicopatia in Dexter, anticipando quello che sarebbe diventato da adulto, per questo gli ha insegnato un “codice morale”: Dexter Morgan, infatti, sceglie esclusivamente vittime che hanno a loro volta commesso omicidi, ma che sono riusciti a eludere il sistema giuridico. E’ un antieroe che, sebbene uccida esclusivamente per soddisfare i propri impulsi, viene percepito dal pubblico come una sorta di “vendicatore oscuro” o di giustiziere. È evidente che tale show televisivo, pone certamente complesse questioni morali sulla giustizia, sulla moralità e su cosa sia il bene e il male.

Un recente studio ha l’obiettivo di esplorare come il pubblico ha accolto tale narrazione e ciò che ne deriva. Gli autori si basano sulle teorie del ragionamento morale (Bandura, 1999; Haidt, 2001; Zillmann 2000) e su come il pubblico legge personaggi moralmente ambigui, utilizzando il Composite Multidimensional Model Of Audience Reception (Michelle, 2007). Michelle (2007) ha descritto quattro diverse modalità di ricezione da parte del pubblico: (1) modalità di ricezione trasparente, in cui l’individuo può sospendere la propria incredulità e perdersi nel mondo immaginario del testo, sperimentando una forte emozione verso i personaggi e i temi; (2) modalità referenziale, in cui l’individuo confronta il testo con la propria vita reale per l’interpretazione; (3) modalità mediata, in cui l’individuo interpreta il testo in base alla propria cultura di produzione mediatica ed è meno coinvolto con i temi e i messaggi del testo; infine, (4) modalità discorsiva, in cui l’individuo analizza il significato del testo, assumendo una posizione ideologica rispetto al messaggio. Inoltre, gli autori hanno voluto indagare come i messaggi dei media influenzano i comportamenti del pubblico, specialmente nel caso di contenuti relativi a comportamenti considerati moralmente riprovevoli.

Bandura aveva evidenziato come il pubblico si relaziona a personaggi moralmente ambigui nella sua teoria del disimpegno morale (Bandura, 1999): gli spettatori usano la razionalità per giustificare un comportamento immorale o per ridefinirlo come morale. Ad esempio, una persona che ruba del cibo può essere vista come immorale, ma se compie tale atto per sfamare la propria famiglia, allora può essere ridefinito come morale. Al contrario, Haidt (2001) ha sviluppato la teoria dell’intuizione sociale, secondo cui i giudizi sulla moralità di basano sull’emozione provata in risposta alle “violazioni morali”. Questa teoria spiega inoltre il concetto di “ammutolimento morale”: ad esempio l’incesto consensuale è universalmente condannato, anche nel caso di assenza di vittime o danni, tuttavia il fatto di essere consensuale, ritarda nello spettatore la percezione che sia un atto deplorevole. Il modello dell’intuizione sociale è quindi “un modello a doppio processo di moralità basato sia sull’intuizione morale [emozione] sia sulla cognizione morale [ragionamento]”. Ciò è importante per capire come le persone danno giudizi che sono controintuitivi rispetto alle risposte razionali (Greene & Haidt, 2002). Zillman con la teoria della disposizione affettiva afferma che gli spettatori si identificano soltanto con quei personaggi che agiscono in accordo con il proprio codice morale (Zillman, 2000). Quindi, la moralità di un individuo funge da filtro per tutte le esperienze di intrattenimento. Haidt e Joseph (2007) hanno scoperto che esistono cinque domini morali universali: (1) danno/cura, (2) equità/reciprocità, (3) libertà/oppressione, (4) autorità/sottomissione e (5) purezza/sanità. All’interno di una cultura, gli individui che agiscono contro uno qualsiasi di questi domini universali sono giudicati come malvagi.

Il personaggio principale è in evidente conflitto con il concetto di protagonista “moralmente puro” che combatte contro un antagonista malvagio. Pertanto sorgono spontanee le seguenti domande: “Perché questo show è così popolare se le azioni del protagonista sono in conflitto con il codice morale dello spettatore?”, “Perché arriviamo al punto di tifare per lui?”.

Zenor e Granelli (2016) si propongono di esaminare come gli spettatori di Dexter danno un senso ai concetti di moralità e giustizia, chiedendo:

  1. In che modo il pubblico riesce a conciliare le norme contrastanti della morale all’interno del testo di Dexter?
  2. Le interpretazioni di Dexter da parte del pubblico rientrano in una specifica modalità di coinvolgimento?
  3. Le interpretazioni di Dexter da parte del pubblico rientrano in una teoria di impegno morale?
  4. C’è una connessione tra il modo di coinvolgimento del pubblico e il suo impegno morale con il testo?

La metodologia Q è un approccio appropriato per studiare il modo in cui i consumatori (N=54) interpretano i messaggi dei media, perché è una metodologia che studia la soggettività (Brown, 1980): è usato per discernere i punti di vista soggettivi condivisi delle persone (Michelle et al., 2012). Si tratta di uno strumento proiettivo che permette di svolgere un’analisi sia qualitativa che quantitativa, ed è destinato a studiare la “soggettività operante” o “pensieri interiori” del soggetto (Stephenson, 1953).

Dalle analisi effettuate sono emersi quattro fattori che rappresentano le posizioni del campione su Dexter:

  • Vigilante Giustificato: Dexter Morgan è visto come un eroe che utilizza i propri impulsi per fare del bene e perseguire la giustizia. Gli individui che rientrano in questa prospettiva provano ammirazione per il protagonista e ritengono che l’omicidio non è accettabile, ma che il dominio universale della giustizia è più importante del dominio universale del non danno (Haidt e Joseph 2007). Il 65% di essi ha riferito di essere vittima di un crimine, pertanto acclamano Dexter per aver fatto ciò che non possono fare nella vita reale. Questo fattore rientra nella modalità di ricezione trasparente (Michelle, 2007).

Dexter sta compiendo una buona azione per la società…. Non uccide gli innocenti

Dexter è affascinante perché usa il suo Oscuro Passeggero per uccidere quelli come lui

  • Puzzle Psicologico. Questa prospettiva assume che il fulcro della serie TV sia la complessità degli esseri umani: Dexter racconta di come il protagonista nasconda il suo alter ego, rafforzando l’idea che “non potremo mai conoscere le persone realmente”. Non condannano, né giustificano il comportamento di Dexter, ma lo vedono come una sorta di difesa dalla follia: entrano in empatia con il personaggio, anche se non lo ritengono affascinante, divertente e degno di ammirazione. Soltanto il 18% di questi soggetti ha riferito di essere vittima di un crimine. Anche se credono che le azioni del protagonista siano sbagliate, trovano divertente guardare lo spettacolo. Rientra nella modalità di ricezione referenziale.

La moralità non è semplicemente bianca o nera

Ci sono molte ragioni per cui non dovrebbe uccidere

Sono affascinato dagli assassini… e da come lo giustificano.

  • Violenza Gratuita: questi individui credono che si tratti di una gratuita celebrazione dell’omicidio, hanno descritto lo spettacolo come grottesco, contorto, raccapricciante e difficile da guardare. Le azioni del protagonista sono assolutamente condannate, non lo ammirano e lo definiscono uno psicopatico. Per loro il pensiero non può essere separato dall’azione: le sue azioni hanno violato il dominio morale universale di non nuocere. Rientra nella modalità di ricezione discorsiva.

Due torti non fanno una ragione

Sta commettendo gli stessi crimini che commettono i criminali

Dexter non avrebbe bisogno di uccidere la gente se la polizia di Miami non fosse così inetta.

  • Evasione Deviata: questa parte del campione riferisce di essere affascinata dal serial killer. Sono consapevoli che le sue azioni siano sbagliate, ma gli piace e non hanno avuto difficoltà a guardare lo show, al contrario lo ritengono emozionante. Affermano che questa serie TV rappresenta la natura primitiva dell’uomo: non si sa mai di cosa siano capaci le persone. Inoltre, credono che, quella di Dexter sia un’etica situazionale: non usa i suoi impulsi per il bene, piuttosto abusa della vendetta per giustificare l’omicidio. Questa prospettiva è moralmente distaccata e non esprime giudizi sul personaggio. Rientra nella modalità di ricezione mediata.

Posso distinguere tra intrattenimento e partecipazione effettiva. Non credo che la visione dello spettacolo si rifletta sullo spettatore

Se non avesse ucciso, non sarebbe stato un bello spettacolo.

Naturalmente, in questo studio, tre delle quattro prospettive includevano spettatori che erano fan dello show, per questo avevano una lettura positiva dei contenuti, indipendentemente dalla modalità con cui erano coinvolti. Probabilmente, se Dexter Morgan non fosse stato moralmente ambiguo, ma soltanto un vero e proprio assassino, la maggior parte della gente avrebbe respinto lo show.

 

Distorsioni cognitive e gambling: gli effetti del trattamento residenziale sui pazienti affetti da gioco d’azzardo patologico

Le distorsioni cognitive implicate nel gioco d’azzardo sembrano essere correlate alla gravità del comportamento; difatti, all’aumentare di quest’ultima, aumenta l’intensità delle distorsioni legate al gioco.

 

Le distorsioni cognitive sono modalità disfunzionali di elaborazione che determinano e/o sostengono comportamenti problematici (Goodie & Fortune, 2013). Le distorsioni cognitive legate al gioco d’azzardo possono essere concettualizzate come convinzioni errate, apprese, che facilitano il coinvolgimento ripetuto nel gioco nonostante le perdite (Raylu & Oei, 2004). In quanto tali, esse hanno un ruolo cruciale nello sviluppo e nel mantenimento di comportamenti di gioco problematici (Raylu et al., 2016).

In letteratura sono presenti differenti classificazioni delle distorsioni cognitive legate al gioco d’azzardo. Ad esempio, Toneatto et al. (1997) ne hanno proposto tre tipologie: l’illusione di controllo, che implica la convinzione di poter controllare i risultati attraverso la messa in atto di rituali o il possesso di oggetti fortunati; per controllo predittivo, invece, si intende la credenza di poter prevedere gli esiti del gioco sulla base di modelli precedenti; infine, i pregiudizi interpretativi, determinano una riformulazione delle proprie esperienze, che causa un ricordo selettivo delle vittorie, a discapito delle perdite, che vengono dunque dimenticate. Nel 2004, Raylu e Oei hanno proposto due ulteriori distorsioni: le aspettative legate al gioco, che implicano la convinzione che il gioco determinerà una sensazione di benessere, e l’incapacità di smettere di giocare, che si riferisce all’impotenza di poter controllare e/o modificare il proprio comportamento problematico.

Le distorsioni appena descritte sono state “formalizzate” in uno strumento di autovalutazione e costituiscono le sotto-scale della Gambling Related Cognition Scale (GRCS; Raylu & Oei, 2004)

Le distorsioni cognitive implicate nel gioco d’azzardo sembrano essere correlate alla gravità del comportamento; difatti, all’aumentare di quest’ultima, aumenta l’intensità delle distorsioni legate al gioco (Romo et al., 2016).

Il trattamento del gioco d’azzardo e le distorsioni legate a questa tipologia di disturbo possono essere complicati da ulteriori disturbi psichiatrici e, all’oggi, alcuni studi hanno esplorato la misura in cui i disturbi psichiatrici concomitanti possono influenzare i risultati del trattamento. Ad esempio, si è visto come i disturbi d’ansia sono associati all’abbandono del programma (Echeburua & Fernandez-Montalvo, 2005). Pochi studi però si sono proposti di indagare in che misura i disturbi concomitanti influenzino le distorsioni cognitive legate al gioco d’azzardo e ciò è dovuto al fatto che la maggior parte della ricerca su questa tipologia di disturbo è stata condotta su campioni appartenenti alla popolazione generale o su pazienti ambulatoriali, dove vi è una minor possibilità di valutare le condizioni concomitanti, e non su pazienti affetti da un disturbo da gioco d’azzardo in assistenza residenziale, che potrebbero sperimentare un pensiero distorto correlato al gioco più significativo.

Gli studi che si sono proposti di indagare gli effetti del trattamento sulle distorsioni cognitive legate al gioco d’azzardo, hanno portato a risultati discordanti, suggerendo che alcuni individui possano trarne maggior beneficio rispetto ad altri (Breen et al., 2001; Michalczuck et al., 2011).

In uno studio svolto nel 2019, alcuni autori si sono proposti di colmare alcune lacune presenti in letteratura, indagando nello specifico se, all’inizio del trattamento, vi fossero fattori demografici e clinici associati a livelli più alti di distorsioni cognitive; ulteriormente, hanno deciso di accertare se le distorsioni cognitive legate al gioco d’azzardo cambiassero entro la fine del percorso terapeutico e se esse fossero predittive dei miglioramenti e/o dell’abbandono del trattamento. Gli autori hanno inoltre ipotizzato che la concomitanza di altri problemi di salute mentale sarebbero stati associati ad alti livelli di distorsioni cognitive.

L’indagine è stata condotta su un campione di 125 soggetti affetti da un disturbo da gioco d’azzardo patologico, di differente severità, che avevano preso parte ad un percorso residenziale all’interno di una struttura in Canada.

Al fine di valutare le distorsioni cognitive specifiche del gioco d’azzardo è stata utilizzata la Gambling Related Cognitions Scale (GRCS; Raylu & Oei, 2004), mentre la Behavior and Symptom Identification Scale (BASIS-32; Eisen et al., 1999) è stata impiegata al fine di valutare lo stato psichico e le sue modificazioni durante il trattamento, tenendo conto del punto di vista del paziente. Essa valuta differenti elementi, dai rapporti interpersonali al rischio suicidario, l’impulsività e le capacità della vita quotidiana. Infine, gli autori hanno valutato il numero di giorni in cui i pazienti avevano seguito il trattamento. È bene specificare che il programma residenziale in questione prevedeva che i soggetti seguissero un trattamento della durata di 19 giorni.

Le correlazioni effettuate hanno mostrato che la giovane età e la gravità del disturbo da gioco d’azzardo, erano associati a livelli più elevati del bias interpretativo e di distorsione del controllo, mentre, all’aumentare dei sintomi caratterizzanti il disturbo da gioco d’azzardo, aumentavano anche i livelli di incapacità di smettere di giocare. Inoltre, coerentemente con quanto ipotizzato, nel confronto tra il pre e post trattamento sono state osservate riduzioni clinicamente e statisticamente significative in tutte le sotto-scale GRCS. Gli autori hanno dunque concluso che il trattamento residenziale ha determinato delle considerevoli riduzioni nelle distorsioni cognitive dei pazienti. Nello specifico, coloro i quali avevano ottenuto punteggi più alti nel BASIS-32 e che mostravano una maggior gravità del disturbo da gioco d’azzardo, avevano mostrato maggiori riduzioni.

Ulteriormente, alcuni fattori, tra cui la giovane età, l’impulsività e il bias di controllo predittivo, si sono rivelati predittivi del fallimento del trattamento.

La credenza di poter prevedere gli esiti del gioco sulla base di modelli precedenti è dunque potenzialmente associata a risultati peggiori del trattamento.

Gli autori hanno dunque concluso, nonostante i limiti dello studio, che i giocatori d’azzardo problematici si presentano nelle strutture residenziali con un pensiero distorto sul gioco e gli individui che presentano difficoltà psichiatriche concomitanti mostrano una maggior tendenza alla distorsione. Insieme, questi risultati rivelano l’importanza delle distorsioni cognitive sia per la comprensione del ruolo di questo meccanismo nel disturbo del gioco d’azzardo, sia per identificare le distorsioni come potenziali bersagli del trattamento del gioco d’azzardo.

 

Invecchiamento cerebrale, Disturbo da Stress Post Traumatico e gene Klotho

Un recente studio ha evidenziato che il disturbo da stress post traumatico (PTSD) è spesso associato ad una variante del gene Klotho e ciò favorisce la comparsa di un invecchiamento celebrale precoce.

 

Nel ventesimo secolo l’aspettativa di vita si è notevolmente allungata passando, nei paesi occidentali, da circa 50 ad oltre 80 anni. Questo ha generato un’emergenza medico-sociale legata all’aumento della comparsa di malattie neurodegenerative conosciuta come age-related neurological disease and dysfunction (Christiane Reitz and Richard Mayeux 2010). Uno dei temi che, negli ultimi anni, ha catturato l’attenzione della comunità scientifica è quello dell’invecchiamento, tuttavia i processi della senescenza sono ancora in parte sconosciuti.

L’invecchiamento è un fenomeno complesso e non limitato semplicemente all’età cronologica (Giumelli 1998). L’inizio dell’invecchiamento biologico nell’uomo coincide con la fine della fase dell’accrescimento. Esistono diversi fattori di ordine organico, sociale e psicologico, che concorrono al processo d’invecchiamento sia fisiologico che patologico. Per quel che riguarda i fattori biologici, sono molti i meccanismi biochimici alla base dell’invecchiamento (Johnson FB, Sinclair DA, Guarente L 1999), tra questi i processi ossidativi che alterano le macromolecole organiche e una serie di modificazioni di DNA, RNA e proteine che nel corso degli anni si accumulano nelle cellule (Carrieri G., Marzi E., Olivieri Fetal 2004). Attualmente anche i meccanismi e i fattori dell’infiammazione sono ritenuti importanti nell’influenzare e accelerare il processo d’invecchiamento cellulare (Grammas P et al. 2001).

L’invecchiamento cerebrale consiste in una serie di alterazioni che si possono così sintetizzare (Bozzao A., Cifani A., Guglielmo A. 1993):

  • diminuzione irreversibile del numero dei neuroni
  • rallentamento progressivo nella produzione di neurotrasmettitori
  • funzionamento sempre meno efficace dei meccanismi di regolazione omeostatica
  • aumento progressivo delle cellule gliali che si sostituiscono ai neuroni
  • comparsa di “placche” dette senili perché ritenute esclusive dell’età avanzata
  • riduzione del metabolismo e del flusso cerebrale

Queste alterazioni corrispondono sul piano sintomatologico ad un decadimento cognitivo caratterizato da deficit della memoria, difficoltà nell’apprendere nuove informazioni e calo di prestazione nell’elaborare più attività contemporaneamente.

Nella maggior parte dei casi la senescenza si accompagna al declino di una serie di abilità funzionali, cognitive e comportamentali, tuttavia l’invecchiamento cognitivo presenta una grande variabilità inter individuale, rispetto ai cambiamenti, dipendenti dall’età, a livello chimico, strutturale e funzionale del cervello (Cadar D, Pihkart H, Mishra G, Stephen A, Kuh D, Richards M. 2012). Questa variabilità è legata non solo a fattori biologici ma anche a componenti ambientali e culturali, come afferma Vittorino Andreoli (15 aprile 2015, Incontro con gli assistenti sociali): ‘la vecchiaia è espressione di una biologia in un ambiente, inteso come un intreccio di interazioni psicologiche, politiche, sociali, culturali’.

Rispetto ai fattori biologici, negli ultimi anni, molti studi si sono concentrati su una proteina, prodotta da reni e cervello, denominata Klotho e codificata dal gene FGF23-Sialidai detto anche gene Klotho (Erben RG, Andrukhova O, 2017). Alterazioni di questo gene sono associate, almeno nel topo, ad un invecchiamento precoce. In particolare, l’alterazione del gene FGF23 determina una modificazione della morfologia neuronale e della densità sinaptica a livello cerebrale (Yokoyama JS. Strum VE., Bonham LW. Et al. 2015)

Un gruppo di ricercatori del National Center for PTSD del VA Boston Healthcare System e della Boston University School of Medicine ha recentemente condotto una ricerca che ha portato a concludere che il disturbo da stress post traumatico può interagire con una variante del gene Klotho favorendo una prematura neurodegenerazione (Erika J. Wolf, Ci-Di Chen, Xiang Zhao, Zhenwei Zhou,et al. 2020 PTSD Interacts with Klotho Gene, May Cause Premature Aging in the Brain )

Utilizzando i dati di individui che hanno donato il loro cervello alla VA National PTSD Brain Bank, i ricercatori hanno esaminato come la variazione genetica e lo stato di PTSD interagivano tra loro per prevedere l’età biologica e l’espressione genica. Hanno scoperto che gli anziani con disturbo da stress post-traumatico che presentavano un invecchiamento epigenetico accelerato nel tessuto cerebrale possedevano una particolare variante del gene klotho. Esperimenti molecolari di follow-up hanno dimostrato che questa variante genera conseguenze funzionali.

Sia il disturbo da stress post-traumatico che il klotho influenzano l’infiammazione.

Lo stress di basso livello ed acuto è accompagnato da un aumento della funzione immunitaria, mentre un elevato periodo di stress è legato alla immunosoppressione. Questa ipotesi trova il suo razionale negli effetti negativi sulla formazione di nuovi neuroni e sul trofismo dendritico indotti dall’incremento plasmatico dei livelli di cortisolo e di alcune interleuchine pro-infiammatorie che si ritrovano tipicamente aumentati nello stress cronico e anche nella depressione e nel disturbo da stress post-traumatico (G. Biggio, M.C. Mostallino 2013).

Secondo Erika Wolf, psicologa del Centro nazionale per il disturbo da stress post-traumatico di Boston, l’interazione tra PTSD e gene Klotopermette di disporre di ulteriori strumenti per individuare i soggetti che sono a maggior rischio di un invecchiamento cellulare accelerato, con possibile conseguente insorgenza prematura di alcune patologie, come le malattie neurodegenerative. Inoltre, i risultati indicano potenziali bersagli terapeutici (klotho) nello sviluppo di approcci farmacologici per rallentare il ritmo dell’invecchiamento cellulare‘.

 

Gli effetti del rimuginio e della ruminazione nel sonno

Rimuginio, ruminazione e sonno: studi con PET ed EEG dimostrano come in soggetti affetti da disturbi del sonno sia presente una maggior attivazione cognitiva che rimane tale anche durante il sonno.

Antonella Danesi – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

A chiunque sarà capitato di pensare ripetutamente ad un evento del passato o alle conseguenze di una scelta presa, al fine di trovare nella riflessione la possibilità di compiere azioni migliori. Allo stesso modo, in vista di un evento importante, sarà capitato a tutti di essere particolarmente preoccupati e di aver riflettuto attraverso pensieri e previsioni negative, spesso smentite dall’effettivo esito.

Il pensiero ripetitivo, tipico di questi momenti di riflessione, non rappresenta di per sé un processo disfunzionale o patogeno, poiché risulta essere necessario ed atto a trovare soluzioni ad un problema o a prendere una decisione.

Questi processi, comunemente chiamati rimuginio e ruminazione, sono strategie di regolazione emotiva definibile come la capacità di operare volontariamente sui propri processi mentali, ed che è tesa al raggiungimento degli scopi e al miglioramento dell’adattamento alla realtà.

Tuttavia, tali processi perdono la loro funzionalità quando il soggetto rimane bloccato in pensieri che si ripetono ininterrottamente e che ostacolano sempre di più il raggiungimento della soluzione desiderata.

Il rimuginio

Il rimuginio o worry, studiato per la prima volta da Tom Borkovec nelle sue ricerche sull’insonnia (Borkovec, Ray, Stober, 1998), è definito come una forma di pensiero ripetitivo, negativo e analitico. Il rimuginio può esser definito come un’attività mentale che implica una costruzione ripetuta di ipotetici scenari futuri negativi (Caselli, Ruggiero, Sassaroli, 2017). È un fenomeno clinico presente in un ampio spettro di disturbi psicologici ma è strettamente legato all’ansia pertanto è piuttosto presente nel Disturbo d’Ansia Generalizzata.

Ciò che caratterizza tale fenomeno mentale, in cui prevalgono valutazioni di natura verbale e astratta, è la presenza di pensieri ripetitivi, pervasivi, negativi se non catastrofici, riferiti ad eventi futuri che sono vissuti come incontrollabili e intrusivi.

Il rimuginatore, avendo un elevato timore delle conseguenze negative degli eventi, tende a tenere tutto estremamente sotto controllo, con l’obiettivo che si evitino le previsioni temute. Il soggetto pertanto, tende a ripetere mentalmente con dialogo interno – caratterizzato per lo più da frasi mentali – gli elementi della situazione problematica, con predizioni catastrofiche relative alla sua evoluzione. Ciò porta ad un’incapacità di scegliere una soluzione e una risposta funzionale al pericolo sul piano operativo, poiché ogni risoluzione viene giudicata dal soggetto come inadeguata e non risolutiva. In tal modo, questa modalità ripetitiva di pensiero risulta essere priva di concretezza ed è caratterizzata da una scarsa elaborazione di piani di coping funzionali.

Alla base di questo processo vi è la convinzione, da parte del soggetto rimuginatore, che questa attività mentale sia una efficace strategia da adottare per fronteggiare situazioni considerate minacciose e, pertanto, complesse da gestire. Attraverso questa modalità di pensiero ripetitivo l’individuo, infatti, crede invano di poter risolvere il problema o di poter ridurre la probabilità che si verifichi.

Alla lunga questa strategia si può cronicizzare, divenendo maladattiva e inducendo in chi rimugina una percezione di sé come debole, fragile, incapace di affrontare i problemi, accompagnata dalla costante sensazione di essere soggiogato da un futuro pericoloso e ingestibile (Clark & Beck, 2010).

Nonostante vi siano, da parte del soggetto, delle credenze relative all’utilità del rimuginio, esistono evidenze sulle ripercussioni negative di questa modalità che vanno ad inficiare la qualità ed il benessere dell’individuo. Dal punto di vista cognitivo il rimuginio riduce le risorse associate alla working memory e, di conseguenza, provocherà difficoltà legate alla concentrazione e attenzione. Risulta inoltre inficiata la capacità di problem solving, dal momento in cui si adotta il rimuginio come strategia elettiva. Il rimuginio cronico, implicando uno stato continuo di allerta verso una possibile minaccia, può provocare tensione muscolare, alterazioni del ritmo-sonno veglia, irritabilità, nausea, dolore cronico e danni alle coronarie in soggetti anziani.

La ruminazione

La ruminazione è un processo cognitivo molto simile al rimuginio, in quanto condivide con esso la ripetitività e la natura negativa ed astratta. Entrambi i processi rappresentano strategie di pensiero ritenute utili da adottare nelle situazioni difficili da gestire e finalizzate all’evitamento delle esperienze interne negative.

La differenza tra le due modalità risiede nel fatto che il rimuginio è rivolto ad eventuali minacce future e riguarda l’evitamento o la prevenzione del pericolo; la ruminazione si focalizza, invece, su eventi passati o stati emotivi presenti, configurandosi come un’attività analitica, volta alla comprensione o attribuzione di significato spesso rintracciabile nel proprio vissuto o nel proprio comportamento. Si configura, in sintesi, come un costante riesame di situazioni passate (Caselli, Ruggiero, Sassaroli, 2017).

La ruminazione, per le sue caratteristiche, tende a generare e mantenere l’emozione di tristezza ed è strettamente connessa con temi di fallimento e perdita, per esempio la fine di una relazione sentimentale, una perdita sul lavoro, un lutto. In tal senso, appare piuttosto inevitabile che la ruminazione rappresenti un processo associato tipicamente a disturbi depressivi (Clark, Beck, Brown, 1989), ma anche a sintomi da stress post-traumatico (Nolem-Hoeksema, Morrow, 1991) e recentemente è stato indagato il suo ruolo anche nel disturbo borderline.

Come il rimuginio, anche la ruminazione può essere considerata una strategia di evitamento cognitivo, poiché alla base di questa attività mentale vi è la credenza positiva che ruminare aiuti a risolvere i propri problemi, a trovare un significato alla propria vita grazie alla comprensione del passato, a conoscere le motivazioni per cui avvengono determinate cose.

Tuttavia questi benefici e credenze positive riferiti, sono stati disconfermati dai dati relativi all’elaborazione dell’amigdala. E’ stato infatti osservato che quando ai ruminatori sono presentati stimoli emozionali negativi, l’amigdala mostra un’attivazione sostenuta, rispetto a quanto accade invece nei non ruminatori (Ray et al. 2005), che contribuisce all’aggravamento e al mantenimento della disforia.

In aggiunta, la mancata risoluzione del problema andrà a rinforzare l’idea di sé come inadeguato e incapace e l’utilizzo prolungato di questa modalità di gestione, peggiora lo stato d’animo negativo provocando un abbassamento del tono dell’umore e una distorsione negativa relativa alla percezione di sé e dell’ambiente (Wells, 2009).

La ruminazione, al pari del rimuginio, può avere implicazioni clinicamente significative sul piano cognitivo, in quanto richiede ed esaurisce le risorse cognitive che potrebbero essere utilizzate per risolvere problemi, raggiungere i propri obiettivi o semplicemente svolgere le normali attività quotidiane.

Gli effetti dei pensieri ripetitivi sul sonno

Le evidenze suggeriscono che i processi cognitivi ripetitivi e metacognitivi, legati al sonno e alla preoccupazione di non riuscire a dormire, svolgono un ruolo centrale nell’eziologia e nel mantenimento dei disturbi del sonno e ciò, nel tempo, ha favorito maggiori approfondimenti nello studio dei meccanismi cognitivi legati a tali disturbi. Studi con PET ed EEG dimostrano, infatti, che in soggetti affetti da disturbi del sonno sia presente una maggior attivazione cognitiva la quale rimane tale anche durante il sonno. Le alte frequenze dell’attività dell’elettroencefalogramma (EEG) sono connesse a processi del pensiero che appaiono maggiormente presenti in soggetti che soffrono di insonnia al momento di iniziare a dormire o di mantenere il sonno. Molti individui che soffrono d’insonnia psicofisiologica, appunto, riportano che gli eventi mentali ostacolano il raggiungimento e mantenimento del proprio sonno.

Studi correlazionali hanno evidenziato, tuttavia, difficoltà del sonno anche in soggetti che non avevano un vero e proprio disturbo. A questo proposito, è stato dimostrato che studenti universitari che manifestano alti livelli di rimuginio, segnalano periodi di sonno più brevi (Kelly, 2002) e che le preoccupazioni legate al lavoro sono associate ad una scarsa qualità del sonno (Rodríguez-Muñoz, Notelaers e Moreno-Jiménez, 2011).

I meccanismi relativi ai pensieri e il modo con cui essi condizionano il sonno sono stati oggetto di grande interesse da parte di studiosi. I primi studi, risalenti agli anni 60 e 70 erano principalmente rivolti ad evidenziare il ruolo dei pensieri ripetitivi relativi al non riuscire a dormire e a constatare quanto le aspettative influenzassero la manifestazione dei sintomi dell’insonnia.

Nel corso degli studi è stata presa in considerazione anche la percezione del proprio sonno che ha permesso di dimostrare come i soggetti con tale disturbo tendano a sovrastimare il tempo di latenza necessario per addormentarsi, e a sottostimare il tempo totale di sonno. Studi recenti, poi, hanno confermato l’importanza della percezione soggettiva di come sia trascorsa la notte nel mantenimento del disturbo.

Lo studio di Lichstein e Rosenthal (Lichstein & Rosenthal 1980) sui pensieri intrusivi ha evidenziato come i soggetti attribuissero a fattori cognitivi quali rimuginio, mancato controllo sui pensieri, ruminazioni, le cause dei disturbi del sonno piuttosto che a fattori somatici. Questo studio ha portato a successive indagini finalizzate a cogliere la relazione tra attivazione cognitiva e misurazione del sonno e a considerare l’insonnia come un disturbo dettato dall’incapacità di interrompere immagini e pensieri intrusivi prima di addormentarsi.

Al fine di confermare tali studi basati su resoconti personali, sono state condotte ricerche sperimentali sul tema, che hanno constatato l’importanza delle preoccupazioni e dell’incapacità di distrarsi nelle persone con difficoltà nel sonno (Haynes et al. 1981; Gross & Borkovec 1982).

Esistono recenti evidenze sulla relazione tra aumento di stress e scarsa qualità del sonno che rappresenta un fattore di rischio per lo sviluppo di malattie mentali e fisiche. Tale relazione è supportata dalla cognizione: un aumento di stress percepito e uno scarso sonno possono aumentare la percezione di un cattivo funzionamento, che a sua volta può contribuire alla percezione di un maggiore stress e di conseguenza di una scarsa qualità del sonno.

Un fattore che media la relazione disadattiva tra stress e qualità del sonno è l’attivazione pre-sonno che si verifica durante il periodo di insorgenza del sonno. Tale attivazione può essere cognitiva, cioè dovuta alla presenza di processi quali ruminazioni, rimuginio, e/o somatica, cioè esperita attraverso manifestazioni fisiologiche quali, ad esempio, elevata frequenza cardiaca o sudorazione. I risultati di questo studio indicano che l’attivazione cognitiva ha un effetto maggiore sulla relazione stress-sonno, rispetto all’attivazione somatica. Questi risultati sono coerenti con il modello cognitivo proposto da Harvey (Harvey, 2002; 2005; Espie et al. 2006) secondo cui l’insonnia sarebbe provocata da una ‘cascata’ di processi cognitivi presenti sia di notte che di giorno. Tale modello sostiene che i soggetti con insonnia soffrono di pensieri intrusivi negativi ed eccessiva paura durante il periodo di pre- addormentamento. Tali paure e ruminazioni provocano un’attivazione fisiologico/emotiva e stress, uno stato ansioso che determina un restringimento del focus attentivo che, a sua volta, porta a monitorare stimoli esterni o stimoli interni che minacciano il sonno. Essendo alto il livello di attenzione e di attivazione, le probabilità di percepire stimoli minacciosi, aumentano. Gli individui, in tal modo, sono portati a sovrastimare l’entità del disturbo e delle conseguenze diurne ma, tuttavia, credono che preoccuparsi prima di addormentarsi porti a dei risultati positivi  Questi processi di sovrastima e sovra attenzione incrementano lo stato di paura iniziale e preoccupazione. In tal modo, tutto ciò va a tradursi come un processo di auto-rinforzo che ritarda l’insorgenza del sonno e che, di conseguenza, mantiene il disturbo. In definitiva, l’attivazione somatica, sebbene abbia un minor impatto rispetto a quella cognitiva, rappresenta tuttavia una parte sostanziale nella relazione stress-sonno, come ulteriormente dimostrato dal modello di Harvey.

Dal momento che la maggior parte dei soggetti insonni ritengono che l’incapacità di gestire i loro pensieri indesiderati sia la causa del problema, spesso mostrano tentativi di fermarli, modificarli o sopprimerli che, oltre ad essere vani, non fanno altro che mantenere l’attivazione cognitiva.

Conoscere approfonditamente questi modelli ha permesso di verificare come i processi ripetitivi del pensiero siano fondamentali nello sviluppo e mantenimento di disturbi legati al sonno. Questi studi, inoltre, permettono di pianificare piani di trattamento e l’adozione di tecniche specifiche ed efficaci per far fronte a queste difficoltà. L’American Academy of Sleep Medicine’s Practice Parameters ha indicato la Terapia cognitivo comportamentale, come il trattamento di prima scelta per l’insonnia primaria (Smith & Perlis 2006).

 

Il dialogo strategico nella terapia breve

Il colloquio clinico in terapia, secondo l’approccio della terapia breve strategica, ha l’obiettivo di indurre cambiamenti radicali nella percezione della realtà soggettiva disfunzionale del paziente.

 

Il dialogo strategico (Nardone, G.; Salvini, S. 2004) è una tecnica sofisticata di conduzione di colloquio che ci permette di portare il paziente alla scoperta di nuove prospettive che a lui erano prima invisibili, attraverso specifiche domande e alternative di risposte. Nel corso degli anni il dialogo strategico applicato non solo all’ambito terapeutico ma anche manageriale e al problem solving è stato validato come uno strumento molto efficace per produrre il cambiamento poiché si tratta di una tecnica rigorosa ma flessibile. Nel contesto clinico, ma non solo, il fine è quello di portare alla rottura della percezione e conseguente reazione disfunzionale del paziente.

Già la fase della definizione del problema rappresenta un primo passo fondamentale per riuscire ad avere l’immagine più accurata possibile su quale sia la mappa rappresentazionale del paziente ovvero quale sia la sua esclusiva e del tutto soggettiva ‘realtà di secondo ordine’ per dirla alla Watzlawich oppure a quello che Bandler chiama struttura profonda (Bandler R., Grinder J. 1975). Il linguaggio è il nostro principale mezzo di rappresentazione della realtà ed al tempo stesso è lo strumento per la comunicazione della rappresentazione del mondo. La sequenza delle domande non è mai prestabilita ma si adatta sempre alla particolarità del paziente. La maestrìa del clinico si avvale di domande discriminanti che guidano alla comprensione del problema e all’obiettivo da perseguire, domande orientanti che aiutano il soggetto a ‘sentire’ come il problema si mantiene e come egli ne sia parte attiva del mantenimento attraverso le sue azioni e le sue ‘tentate soluzioni’, domande ad illusione di alternative (focalizzate sulle modalità ridondanti di percepire e reagire nei confronti di un dato problema o situazione) per far scoprire attivamente l’esigenza di modificare il proprio comportamento.

Ingredienti fondamentali del dialogo strategico sono le parafrasi ristrutturanti e l’uso di un linguaggio fortemente evocativo.

Il linguaggio ed in particolare le parafrasi creano ‘relazione con il paziente’ e abbassano le resistenze al cambiamento

Le parafrasi creano ‘compliance’ terapeutica poiché provano al paziente che abbiamo compreso ciò che ci viene espresso ed allo stesso tempo confermano al terapeuta che sta andando nella strada giusta; il linguaggio analogico può essere usato dal terapeuta per far ‘sentire’ al paziente come uno specifico problema funziona e può creare avversione piuttosto che desiderio rispetto ad un determinato comportamento. L’uso di metafore e analogie, sapientemente seguito da ristrutturazioni più logiche, rappresenta un ottimo strumento per abbassare le inevitabili resistenze al cambiamento che ogni paziente porta con sé.

Con le parole di Haley: ‘…la tecnica analogica o metaforica è particolarmente efficace con soggetti resistenti, dato che è difficile che una persona si opponga ad una suggestione che non è consapevole di ricevere‘ (Haley, 1976).

La parte finale del dialogo fa riferimento al riassumere per ridefinire, in cui una ristrutturazione globale sarà finalizzata a consolidare l’inevitabile esigenza di mettere in atto comportamenti diversi in relazione al problema.

Tutto l’iter del dialogo strategico diviene un vero e proprio processo di scoperta congiunto fra paziente e terapeuta che ad ‘imbuto’ mira a scardinare le modalità percettive patogene e le reazioni patologiche relative ad un problema.

…il terapeuta, con sapienti manovre, guida il suo interlocutore ad essere l’attore protagonista della scena in modo tale che si persuada di ciò che egli stesso sente e scopre’ (Nardone G., Salvini, A. 2004, pag 6).

Il dialogo strategico, se ben strutturato, porta il paziente a sentire la necessità di cambiare, cioè, a partire da un processo persuasivo, si arriva a far si che il cambiamento sia spontaneo. Esso conduce l’interlocutore non a capire ma a sentire differentemente. Per questo motivo molto spesso il primo colloquio rappresenta già un’esperienza emozionale correttiva nei confronti del problema. L’ultima fase del dialogo strategico è il prescrivere ovvero il momento in cui si concorda ciò che dovrebbe essere messo in atto per il cambiamento oppure ciò che il terapeuta richiede sottoforma di indicazione terapeutica (stratagemma) poiché riconosce un certo tipo di ridondanza ascrivibile a quel determinato disturbo e/o sistema percettivo reattivo.

 

“Assetati di cibo” – La psicologia delle voglie alimentari

Tramite le informazioni provenienti principalmente dall’educazione familiare o reperite con strumenti tecnologici, dalle conoscenze o dal sapere dei professionisti ‘addomestichiamo’ le sinapsi legate al consumo alimentare e quindi la nostra alimentazione.

 

Il Desiderio è una tensione interiore in simbiosi con le opportunità che si possono ricavare dall’ambiente, dalle scelte che quest’ultimo è in grado di offrirci: bibite gassate, patatine in busta, biscotti, dolciumi… con l’intenzione di consumarli nell’intimo spazio di un armadio o del frigo di casa alla stregua della famosa scena del film Joker.

Isolarsi, nascondersi, rimanere nel buio… per non essere visti da una società che difende i sintomi bulimici e anoressici e concepisce la dieta come un montaggio di un film di epoca vittoriana.

Un collage variegato, e spesso disarmonico, dal sapore di nuovo e di antico: primordiale è l’istinto che si scontra con l’ambiente contemporaneo in cui le ‘scelte non si scelgono’. (Quante scelte abbiamo di resistere davanti ad un barattolo di Nutella?)

Così, veniamo scelti dal prodotto di turno in un vortice alimentare di facile attribuzione: è la definizione di addiction (‘dipendenza’).

L’aspetto multidimensionale del desiderio alimentare

Il desiderio di un cibo è multidimensionale e dipende da fattori cognitivi e associazioni condizionanti, l’educazione in primis: come mangiamo, con quale velocità consumiamo il pasto, quali cibi siamo stati educati a scegliere (educazione gustativa), etc.; biologici/genetici/epigenetici (predisposizioni individuali o, finanche, patologie); ambientali (stress, inquinamento, circostanze che limitano l’attività corporea); sociali… e via dicendo.

In tutti questi fattori emergono due aspetti fondamentali:

  • la causa delle voglie alimentari;
  • il senso che detiene l’attività dello stimolo, il suo ‘comportamento’, ovvero l’intensità e la durata di quella voglia che ci spinge a consumare determinati alimenti.

Fermandoci a discutere su quest’ultimo (dato che il primo punto necessita una trattazione a parte), possiamo concepire il desiderio, la voglia alimentare, come una risposta condizionata (un comportamento appreso nel tempo) che emerge quando i segnali interni o esterni (stati d’animo, emozioni, educazione, pressioni ambientali) sono stati precedentemente associati all’assunzione di determinati comportamenti alimentari (ricordiamo che i fenomeni di fame, sete e sazietà non sono solo innati ma emergono probabilisticamente in funzione dell’esperienza durante lo sviluppo individuale; Harshaw, 2008).

Sei un mangiatore sobrio o assetato?

Il nostro cervello si nutre – oltre che di energia proveniente dagli alimenti – di stimoli esterni. Un prigioniero in isolamento, dopo qualche settimana può andare incontro a vere e proprie allucinazioni. È la capacità del cervello di creare stimoli!

Alimenti sani e Stimoli (esterni e interni) equilibrati sono essenziali per il suo buon funzionamento psico-corporeo. Uno stimolo interno può essere ‘la voglia di un particolare cibo’; uno stimolo esterno ‘la sua estetica, oltre le qualità sensoriali, come il sapore’. Noi tutti siamo provvisti di stimoli/voglie interne variabili che generano peculiarità differenti nella realtà alimentare, dando vita ad esperienze altrettanto variabili e, quindi, a consumi alimentari differenti: veloci o lenti (come assaporare un boccone alla stregua di quel famoso spot pubblicitario sulla mozzarella); distratte o concentrate sui sensi (focusing); ‘calde’, intense ed emozionanti (come nella fame emotiva); fredde (come nella bigoressia) e via dicendo.

Con quali modalità consumerai il tuo prossimo pasto?

L’incontro tra questi due stimoli (interno ed esterno), ripetuto nel tempo, crea dei collegamenti stabili (sinapsi) tra le nostre cellule cerebrali, vere e proprie strade dove passa l’impulso nervoso. Per tale motivi ogni persona ha un modo diverso di consumare il proprio pasto. E questo dipende anche dalle informazioni incamerate capaci di modificare i nostri comportamenti. In altri termini tramite le informazioni – provenienti principalmente dall’educazione familiare o da quelle reperite con strumenti tecnologici; dalle conoscenze o sapere dei professionisti (nutrizionisti, dietologici, psicologici, ecc.) – ‘addomestichiamo’ le sinapsi legate al consumo alimentare.

Questo giustifica, in parte, il suddetto riferimento ai restrained eaters (‘mangiatori sobri’) e food cravers (‘assetati di cibo’). Ad esempio, ricompensare un bambino con del cibo dopo un comportamento ritenuto idoneo (stimolo)  – o spingerlo a consumare tutto quello che c’è nel piatto – svalutando la (sua) sazietà percepita come ‘bussola’ della quantità di cibo da introdurre, rappresenta, a luogo andare, un modo per renderlo incapace di gestire le proprie ‘tensioni’ interiori legate alla voglia di un determinato alimento.

Estinzione dello stimolo legata al sovrappeso

La restrizione calorica, seppur a volte quasi ridicolizzata da molte diete in voga, dal punto di vista psicologico, porta ad una diminuzione del desiderio di cibo, che può essere dovuta a processi di estinzione delle sinapsi legati al comportamento appreso, ovvero all’indebolimento di quei collegamenti cerebrali legati a risposte condizionate precedentemente acquisite.

In linea con questo principio, si pone in evidenza la ridotta frequenza (ma non la quantità) dei pasti consumati che si correla alla riduzione dell’appetito per specifici alimenti (Apolzan e colleghi, 2017). In altri termini, non mangiare determinati cibi per diverse settimane può ‘disaccoppiare’ le associazioni apprese (es., evitare di mangiare la sera il cioccolato, come da abitudine) in modo che determinati segnali (la sera) non attivino più una risposta condizionata (consumare il cioccolato).

La deprivazione edonica

La dieta, spesso basata sulla deprivazione edonica (vietare alcuni cibi e consentirne altri), nel breve periodo può generare voglie nei confronti dei cibi che proibisce. Tali voglie possono essere mediate principalmente da meccanismi fisiologici (e.g. deprivazione nutrizionale) o psicologici (e.g. soppressione della voglia alimentare).

Studi sperimentali suggeriscono che una privazione alimentare selettiva a breve termine sembra effettivamente aumentare il desiderio dei cibi evitati. Tuttavia, gli stessi studi (in calce) dimostrano che il desiderio di cibo può essere inteso come una risposta condizionata che può anche essere disimparata. Ciò è supportato da studi di intervento che indicano che la restrizione energetica a lungo termine si traduce in una riduzione del desiderio di cibo negli adulti in sovrappeso.

 

La strada (2006) Ding an sich – Recensione del libro

Il libro La strada è una finestra… Si apre su un mondo desolato, finito, fatto a pezzi.

 

Non si sanno i motivi di questa visione apocalittica. Dapprima la spinta che si prova, che almeno io ho provato, è di una curiosità a sapere i motivi per i quali si è arrivati a questo punto, a questa desolazione. Rari flashback della mente del protagonista ce ne danno un assaggio ma poco alla volta anche il lettore viene avvolto da questo mondo triste e desolato. Un mondo nel quale non è rimasto nulla, solo terra bruciata.

La finestra si apre su un pezzo di vita di un padre e di un bambino (suo figlio) che si ritrovano a vagare per le strade in cerca dei buoni. Il mondo è ridotto all’essenziale: i buoni da un lato, i cattivi dall’altro, la necessità di sopravvivere, di procacciarsi il cibo, un riparo e dei vestiti per il freddo e nulla di più… E una speranza, quella di raggiungere il sud, nel quale (forse), trovare una comune dove altre persone (i buoni) possano essersi radunati e con loro ricominciare. Un forse che è tutto ciò che è possibile ottenere dalle tenebre che hanno avvolto il mondo. Poco alla volta quelle tenebre avvolgono anche il lettore che smette di chiedersi i motivi per i quali il mondo è stato ridotto in cenere e vive, vive anche lui nella speranza che esista un ‘forse’, laggiù, in un futuro, nel sud.

Il mondo è stato spogliato di tutto e così anche le persone. Non hanno nome i protagonisti, in un mondo ormai caotico dove l’ordine è ridotto all’essenziale (buoni/cattivi – vivere/morire) anche le persone sono ridotte all’essenziale: e fisicamente e psichicamente.

Se ti sparo non sentirai il rumore… La pallottola viaggia più veloce della luce e ti entrerebbe dal lobo frontale dove distrugge tutte le strutture necessarie a sentire’, disse l’uomo. ‘Lei è un medico?‘ rispose l’altro (McCarthy, 2006, p.50) . Ma l’uomo non disse né di sì né di no… Ormai non contava più… Solo per necessità di scrittura si potevano distinguere l’uomo dal bambino… Ma erano distinzioni ormai inutili: la vita ridotta all’essenziale non necessita di nulla di ciò con cui la società (come noi la conosciamo) si è venuta a costruire. Non la professione, nemmeno il nome proprio. Tutto è stato spogliato di tutto. Il mondo è vuoto, cenere… Gli uomini sono nudi e messi a nudo assieme alla loro capacità distruttiva… Alla loro perfidia che non può essere biasimata: si deve vivere o morire.

Ma mentre si procede nella lettura, si rischia di perdersi in questo mondo ben costruito, che ti assorbe e per poco non credi che i personaggi siano qualcuno, salvo accorgersi che non hanno nulla, nemmeno un nome e, dunque, nemmeno una storia. E, infatti, non si sa chi siamo, come siano arrivati lì, non esiste senso… D’altronde il senso è possibile solo nella relazione. Il nome proprio raccoglie la nostra storia, storia fatta di relazioni con gli altri, in primis con chi quel nome ce lo ha attribuito con una particolare valenza, che solo egli sa e persa ormai nella notte dei tempi. Nessuna storia, nessun nome, nessuna relazione possibile.

In un mondo estremizzato, come quello apocalittico, come quello del libro, se si riesce a conservare un minimo di distacco con il quale osservare le scene che si affacciano alla finestra, emerge la possibilità di vedere il mondo nella sua essenza. Spogliato di tutto si vede il suo nucleo, il magma che accende la vita e che, nel libro, è forse stata spenta per sempre, da cosa non è dato saperlo e forse non è nemmeno importante.

Come si evince dal libro ‘Anatomy of minimum’ (Pawson, 2019) occorre ridurre le cose all’essenziale, spogliarle per vedere davvero. Come nella scultura occorre levare per vedere qualcosa apparire. Togliere per vedere, provare per far nascere. È la vita, la vita fatta di antinomie, di contrari che a fatica si equilibrano e il gioco della vita è questo: sostare su una fune, in bilico assaporando il gusto del brivido.

Così l’autrice spogliando il mondo e anche i suoi personaggi di tutto, della vita, del nome, della storia, della cultura, della società e conservando solo le forme primitive del vivere, fa emergere la struttura latente della vita, troppo spesso mascherata, troppo spesso data per scontata. E quella struttura latente è tutta contenuta nel ‘forse’ che all’uomo e al bambino fa percorrere la strada verso sud. ‘Tu sei coraggioso, papà?’ ‘Il coraggio è ciò che mi ha fatto alzare stamattina’ (McCarthy, 2006, p. 207).

Ma cosa nasconde questo ‘forse’ che fornisce coraggio? Una speranza, nasconde la fede. Una necessità: senza fede non si vive. Una fede che alle volte, nel libro, intercetta Dio ma che più in profondità nasconde la speranza, la fede, di trovare i buoni. Di trovare altri, altre persone… Forse solo allora si potrà, ancora, dire il proprio nome. In fondo, questo ha senso solo in relazione ad altri… Senza altri il nome non serve a nulla se non, non è scontato ma non basta, dare a sé stessi un senso. Ma per vivere al mondo occorre ci sia un altro, un qualsiasi altro da sé: che sia cibo per nutrirsi nel fisico o relazioni per nutrire la mente.

La speranza nel mondo, la fede nel mondo, è la possibilità che esistano i ‘buoni’: altre persone con cui intessere delle relazioni. Relazioni attraverso le quali dare un nome alle persone, alle cose, dare maggiore ordine al mondo oltre alla vita/morte. Far nascere maggiore complessità e, dunque, una cultura, una società. Questo è ciò che angoscia di più il lettore: se non trovassero nulla? Se non ci fossero altre persone, altri con cui intessere relazioni, di cui aver fede allora il mondo non avrebbe senso. La condanna dell’uomo e di poter dare senso, per sua mancanza, solo attraverso la figura dell’altro. Ma se questo manca? Rimane il reale di un mondo a pezzi, una vita destinata solo alla morte… La fatica di vivere giorno per giorno per poi morire. E seppure la vita vuole la vita, se al fondo di ogni corpo, di ogni organismo, del mondo stesso c’è una volontà di vivere, questa da sola non basta poiché, fortunatamente o sfortunatamente, siamo dotati di una psiche che è relazione. E se il corpo vuole la vita e vuole vivere, la psiche vuole dare senso e ordine, costruire e nutrirsi. Ma se il corpo si nutre di cibo fisico la psiche si nutre dei ‘buoni’, di persone (oggetti) da introdurre in essa che diano speranza, fiducia, gratitudine e, in una parola, amore.

L’unico barlume di speranza è un bambino, il bambino protagonista del libro, che non si lascia bruciare da una vita ingiusta. Rimane empatico davanti agli altri e, forse nella sua innocenza, forse per il suo proprio temperamento, ancora sente e vive dentro di lui la paura… Non la nega né la evita, la avverte in sé e, di conseguenza, anche negli altri. E forse è la paura della morte ciò che muove il mondo, la paura di morire nell’assenza, nella solitudine, senza aver dato senso alla propria vita, al mondo che fa nascere relazioni e da queste cultura e socialità. E il bisogno dell’uomo di mantenersi in vita, e fisicamente e psichicamente e di prendersi cura di sé e dell’altro e del mondo. La natura non genera mai a caso. Se è vero che la mente impara dal corpo, possiamo, allargando lo sguardo, affermare che siamo come piccoli centri concentrici: dunque la mente è specchio del corpo, la famiglia della società e così via. Dunque la coscienza, nell’uomo può essere solo un meccanismo che la natura ha trovato per salvaguardare sé stessa e la vita in sé. E noi da questo, inconsciamente, abbiamo imparato… Così come la mente impara dal corpo anche noi abbiamo imparato dalla natura. Così il corpo è diventato mente, la natura Dio e l’organizzazione della bio-diversità società. Abbiamo astratto dal fisico allo psichico. Imparando gli uni dagli altri e modificandoci a vicenda. Ma il tutto è Uno. Se guardiamo la società abbiamo creato organi che controllino altri organi e così via… Abbiamo creato internet, un network, cose che in natura, tra le piante per esempio, esistevano già. Le abbiamo copiate, o replicate, in mondo inconsapevole. Sono gli archetipi: esiste una certa ridondanza… Forse il detto ‘la mela non cade distante dall’albero’ può far capire meglio il concetto.

La vita si organizza attorno a delle strutture che si ripetono, a ridondanza… Nulla cade distante dal centro originario che è Uno, l’Uno da cui tutto origina.

La coscienza allora può essere capita solo allargando lo sguardo dall’uomo al mondo e alla natura. La coscienza, che dota l’uomo di libero arbitrio, permette alla natura di avere qualcosa (come gli organi di sorveglianza nella nostra società) che ne presieda il regolare funzionamento. Che si occupi di mantenerne l’equilibrio e, per farlo, era necessario che a differenza degli animali questo qualcosa fosse dotato di libero arbitrio, fosse cioè separato da essa. La natura ha trovato così il suo equilibrio, lo stesso equilibrio che poi l’uomo ha ricopiato (o ricalcato) per creare e strutturare la società. Allora occorre ritornare al reale, alla natura per comprendere alcune strutture e questo, chiaramente, impone di uscire dallo schema antropocentrico. Allora la coscienza è dell’uomo perché questo gli consente di sopravvivere e realizzare sé stesso (si vedano le sue funzioni per Bion in Grotstein, 2009) ma permette, sopravvivendo e realizzando sé stesso, di essere vigile nel mantenere un certo equilibrio nella natura. Certo la società consumistica e capitalista questo discorso lo nega e lo vuole negare perché contro le esigenze del capitale. In fondo, ogni sistema, seppur disfunzionale tende a mantenere il suo ordine e ad appiattire tutto ciò che vuole modificarlo, risucchiandolo al suo interno.

Ecco allora che bisogna ridurre la vita al suo essenziale, porsi al di là della finestra ed osservare il mondo come agenti passivi che guardano qualcosa che subiscono e cercando, nell’essenzialità, di vedere il loro ruolo in quel tutto, il loro ruolo… Come un’ape impollina, come esistono gli animali ‘spazzini’, come in un acquario o in una voliera occorre mettere determinati pesci o uccelli e non altri per mantenere l’equilibrio, così l’uomo ha una funzione nell’equilibrio delle cose. Anche l’ape ha una funzione e la sua funzione dipende dalla sua propria struttura che, entrambe, la fanno essere ciò che propriamente è. Così la struttura dell’uomo che lo distingue è la coscienza, la sua possibilità di libero arbitrio e di agire a favore o contro sé stesso. La sua libertà, che ha l’importante funzione di presiedere alla natura. Questo è anche il messaggio che la psiche dell’uomo ha da sempre capito. Se si guarda alla Bibbia, per il pensiero cristiano, all’uomo è stato dato il mondo… L’errore è stato quello successivo di valutare questo in chiave antropocentrica. Se all’uomo è stato dato il mondo è stato dato non in quanto creatura superiore, ma in quanto avente funzione di sorveglianza, che è sì funzione alta perché è dall’alto che è possibile osservare ed intervenire se qualcosa non funziona. Ecco la funzione di Dio come limite ultimo: attento! Uomo… Che anche se puoi agire contro natura e contro la natura non lo devi fare, era necessario che tu possedessi la libertà di scegliere per poter essere distaccato dalla natura e quindi tutelarla, e questo ha implicato che tu potessi agire anche contro di essa ma attento! Non lo devi fare.

Forse questo è il senso dell’esistenza della coscienza e di Dio. Tutto è uno ed è più reale di quanto si creda.

 

Depressione o Bipolarismo? Precauzioni per una diagnosi accurata di disturbo bipolare e trattamenti specifici

Diagnosticare un disturbo depressivo può non essere così semplice perché sembra che tra il 50% e l’80% delle volte il disturbo bipolare inizia proprio con un episodio depressivo. A rendere ardua la distinzione tra le due patologie è quindi una variabile che delinea il decorso del disturbo bipolare: l’intervallo tra il primo episodio depressivo e la mania/ipomania.

 

Il disturbo bipolare è caratterizzato da alternanza di stati d’umore eccessivamente alti, mania / ipomania, e patologicamente bassi, depressione (American Psychiatric Association [APA], 2013). Questa alternanza di stati determina nello specifico tre tipi di disturbi: disturbo bipolare di tipo I, la cui diagnosi è possibile con la presenza di almeno un episodio maniacale, disturbo bipolare di tipo 2, caratterizzato da almeno un episodio di depressione maggiore (recente o passato) e almeno un episodio ipomaniacale (recente o passato), e disturbo ciclotimico, caratterizzato dall’alternanza di episodi di depressione e ipomaniacali di lieve intensità ma con elevata frequenza (APA, 2013).

Poiché queste classificazioni di disturbi sottintendono la presenza di episodi depressivi e, nello specifico, alcuni studi dimostrano che tra il 50% e l’80% delle volte il disturbo bipolare inizia proprio con un episodio depressivo (Duffy et al., 2007, Mesman et al., 2013, Axelson et al., 2015), è importante non confondere la diagnosi di disturbo bipolare con quella di depressione maggiore o unipolare. Pertanto, quando il clinico si accingerà a diagnosticare un episodio depressivo maggiore, presterà attenzione nel verificare che non si stia invece trattando di disturbo bipolare. Come illustrato nell’articolo di O’Donovan e Alda, una parte delle persone a cui è diagnosticata la depressione unipolare potrebbe in realtà soffrire di depressione di tipo bipolare, e questo è dovuto a diversi motivi:

  • spesso il disturbo bipolare ha inizio con sintomi depressivi e la prima ipomania / mania può non comparire fino ad anni dopo;
  • alcune forme di depressione sono plausibilmente varianti del disturbo bipolare;
  • ci si può non essere accorti di precedenti episodi ipomaniacali/maniacali. (O’Donovan &Alda, 2020).

A rendere ardua la distinzione tra le due patologie è quindi una variabile che delinea il decorso del disturbo bipolare: l’intervallo tra il primo episodio depressivo e la mania/ipomania. Berk e colleghi hanno riportato una media di 7,6 ± 8,7 anni, e Cha et al. di 5,6 ± 6,1 anni (Berk et al., 2007, Cha et al., 2009). In entrambi i casi l’intervallo non è solo lungo, ma anche molto variabile tra gli individui, e ciò potrebbe causare il mancato riconoscimento degli episodi maniacali/ ipomaniacali associati al disturbo che possono verificarsi anni dopo il primo episodio depressivo.

La diagnosi di disturbo bipolare è resa ancora più complessa dal fatto che non tutte le persone affette da depressione bipolare sviluppano necessariamente un episodio maniacale. In questi casi, una storia familiare in cui compare il disturbo può indicare che l’episodio depressivo è compreso in una più ampia diagnosi bipolare. Blacker e Tsuang hanno stimato che circa i due terzi dei parenti unipolari di probandi bipolari in realtà presentava una depressione bipolare, coerentemente con la storia familiare (Blacker & Tsuang, 1993). Nelle linee guida non sono presenti criteri definitivi o biomarcatori per identificare l’episodio depressivo che precede la mania/ipomania all’esordio, pertanto è possibile confonderlo con una depressione unipolare fino a quando non si convertirà presentando l’episodio maniacale (O’Donovan &Alda, 2020). L’obiettivo del clinico è quindi quello di identificare al meglio il probabile disturbo bipolare sin dall’esordio, prestando particolare attenzione alle famiglie ad alto rischio di insorgenza. Infatti, il predittore più robusto per questa patologia è una storia familiare di disturbo bipolare, specialmente nei giovani ad esordio precoce (O’Donovan &Alda, 2020). Altri preziosi predittori sono recidiva e prima età di insorgenza dei sintomi depressivi, nonché sintomi ipo/maniacali subsindromici e labilità dell’umore (Vieta et al., 2018). Lo studio di singoli membri della famiglia con interviste strutturate resta il metodo più accurato per la ricerca; in alternativa si possono utilizzare questionari come il Family History Research Diagnostic Criteria (FH-RDC) (Andreasen et al., 1977).

Non esistono ancora trattamenti specifici per i casi in cui il paziente ha sintomi depressivi e storia familiare di disturbo bipolare. È consigliabile per il clinico avere una buona conoscenza delle linee guida unipolari e bipolari per tutte le età e modificare il percorso terapeutico-farmacologico in base alla risposta al trattamento (O’Donovan & Alda, 2020). Un approccio alla depressione potenzialmente risolutivo in gioventù potrebbe essere quello di non assegnare alcuna polarità (unipolare o bipolare) fino a quando non si saranno verificati diversi episodi, anche se questa modalità non renderebbe giustizia a coloro che si convertiranno in ritardo o non si convertiranno affatto (O’Donovan & Alda, 2020).

Nel complesso le misure che risultano maggiormente efficaci per il trattamento di questo disturbo sono psicofarmaci e psicoterapia. Eseguire una diagnosi errata può comportare anche una scelta di farmaci non corretta, e spesso dannosa: gli antidepressivi sono fortemente indicati per il trattamento farmacologico della depressione, ma controindicati per il disturbo bipolare. Una reazione opposta agli antidepressivi può rivelare la vera natura bipolare della patologia nel paziente (O’Donovan & Alda, 2020).

Per quanto riguarda invece il percorso psicoterapeutico, le linee guida indicano le psicoterapie cognitivo-comportamentali ed interpersonali come maggiormente indicate. La psicoterapia familiare può essere un’ulteriore alternativa nei casi di disturbo bipolare ad esordio precoce (APA, 2013).

Nel campo delle tecniche di neuroimaging, la stimolazione magnetica transcranica ripetitiva ha evidenze sia nella depressione unipolare che in quella bipolare (Rachid et al., 2017). Dal punto di vista genetico, sono disponibili grandi set di dati per analizzare le differenze genetiche tra i due tipi di disturbi; un esempio ne è la recente analisi su larga scala di Coleman e colleghi (Coleman et al., n.d.). Resta da verificare quanto sarà pratico un simile approccio.

In conclusione, le caratteristiche salienti utili nella differenziazione tra i due disturbi includono: esordio precoce, storia familiare di disturbo bipolare, ma anche risposta avversa agli antidepressivi. Si spera che in futuro le tecnologie di laboratorio o di imaging cerebrale possano contribuire ulteriormente a una diagnosi più accurata, facilitando i trattamenti farmacologici e psicoterapeutici.

 

Funzionamento interpersonale nei disturbi di personalità: un confronto tra DEP e DOCP

Il disturbo evitante di personalità (DEP) e il disturbo ossessivo compulsivo di personalità (DOCP) condividono alcuni aspetti del funzionamento interpersonale.

 

In entrambi i casi i pazienti si mostrano poco assertivi, sottomessi ed evitano le relazioni con gli altri. Proprio per questo Steenkamp et al., (2015) parla di “sottotipo evitante” di DOCP. Eppure a volte le reazioni di alcuni pazienti agli eventi sono tutt’altro che pacifiche e distaccate e questo ha spinto ad approfondire la conoscenza dei profili interni del DOCP. Spulciando la letteratura ritroviamo studi in cui gli autori hanno distinto i pazienti DOCP in due categorie: “aggressivo-rigido” e “depressivo-perfezionista” (Ansell et al., 2010) o “dominanti-ostili” e “sottomessi” (Cain et al., 2015).

Notiamo, poi, un lavoro recentissimo di Solomonov et al., (2020) nel quale sono stati confrontati 64 pazienti con disturbo evitante di personalità (DEP) e 43 con disturbo ossessivo compulsivo di personalità (DOCP). Scopo dello studio è stato quello di comprendere meglio il profilo interpersonale dei pazienti. I partecipanti hanno compilato l’inventario dei problemi interpersonali (IIP-64), un questionario autovalutativo che misura l’intensità delle difficoltà relazionali che, si sa, in queste due categorie diagnostiche, essere stabili nel tempo (Skodol, 2018). I risultati mostrano che tutti i pazienti provano maggiore disagio interpersonale rispetto al gruppo di controllo e questo è in linea con studi precedenti che sostengono la centralità delle difficoltà nella relazione con gli altri in entrambi questi disturbi (Frandsen et al., 2019; Girard et al., 2017). Per quanto riguarda l’analisi dei profili interpersonali specifici, i pazienti con DEP sono risultati contraddistinti da un unico profilo, ben chiaro e identificabile, caratterizzato dalla sottomissione, dall’evitamento delle relazioni, da emozioni di ansia e vergogna nei contesti sociali e dalla paura del rifiuto, sempre percepito come dietro l’angolo. A differenza della stabilità e omogeneità degli evitanti, i pazienti con DOCP funzionano in modo più variabile ed eterogeno e sono più complessi. Da un lato risultano distaccati e introversi, hanno la tendenza all’isolamento, si deprimono, accondiscendendo e compiacendo passivamente, dall’altro provano forti emozioni negative accompagnati da comportamenti aggressivi, punitivi, vendicativi e di controllo relazionale, diventando prepotenti, ostili, dominanti.

Riflettendo in modo più ampio, sappiamo bene che la principale ricaduta dei disturbi di personalità è nelle relazioni interpersonali e che queste ultime sono a loro volta collegate alla presenza di sintomi psichiatrici, ad un generale disagio psicologico e, non per ultimo, alla scarsa aderenza al trattamento (Wilson, Stroud, & Durbin, 2017). Per questo motivo diventa importante conoscere le caratteristiche di uno specifico funzionamento per tenerne in considerazione nell’ inquadramento del caso e per pianificare un trattamento efficace.

La terapia e la relazione che si crea tra paziente e psicoterapeuta sono un terreno fertile per notare il funzionamento interpersonale dei pazienti. Portiamo, allora, l’attenzione alla reazione di un paziente con DEP e di due pazienti con DOCP, appartenenti, quindi, alle stesse categorie diagnostiche dello studio appena citato, ad uno stesso evento. Un mercoledì di luglio per una di noi (VV), infatti, c’è stata la necessità di rimodellare gli appuntamenti della giornata.

Davide, con diagnosi di DEP, ha poche relazioni, si dedica solo ad attività solitarie e, proprio per questo, si abbatte di frequente sentendosi depresso. Racconta che quando prova ad interagire con i colleghi d’ufficio, tende ad avere un atteggiamento accondiscendente e remissivo che gli garantisce di restare sempre nell’ombra. Anche con la terapeuta si comporta allo stesso modo e di fronte alla richiesta di spostare una seduta, Davide non batte ciglio e accetta l’alternativa di giorno e orario. A Marco, invece, è toccato venire due ore prima del solito orario. Per Marco è importante che le cose vadano in un certo modo, ha un giudice interno molto rigoroso e teme gli imprevisti che possano stravolgere le sue minuziose programmazioni. Arriva, alle sedute, sempre con notevole anticipo e manda spesso messaggi di conferma per essere certo dell’appuntamento. Non a caso, ha una diagnosi di DOCP. Marco accetta il nuovo orario con un messaggio stringato e non appena entra nella stanza chiede spiegazioni con fare pacato. Eppure, si legge un velo di rabbia in volto e la postura è decisamente rigida ma riferisce che non ha niente a che vedere con la seduta anticipata. Di fronte alla richiesta di capire meglio come si stava sentendo si irrigidisce ancor di più e ammette che, effettivamente, era stato difficile dover accettare quello spostamento, che si è sentito trattato ingiustamente.

Sandra, anch’essa con DOCP, mostra, proprio in quella occasione, un aspetto fino a quel momento mai venuto a galla: risponde al messaggio della terapeuta con parole aggressive ed umilianti, accusandola di essere poco attenta, poco organizzata e, infine, poco professionale. Inoltre, l’attacca, sottolineando che avrebbe dovuto sapere quanto per lei fosse “davvero troppo difficile” rivoluzionare la sua agenda. Alla fine, non accetta e disdice la seduta settimanale.

Cosa ha osservato la terapeuta? Reazioni diverse di Davide, Marco e Sandra. Grazie a queste si è potuta raffinare la concettualizzazione condivisa del funzionamento che nella terapia metacognitiva interpersonale (Dimaggio et al., 2013; 2019) è fondamentale per la pianificazione del trattamento. Di fianco all’identificazione dello schema si sono potute rintracciare le strategie di coping (Dimaggio et al., 2013; 2019) che i pazienti hanno imparato a mettere in atto in risposta a determinati eventi e all’attivazione dell’immagine del sé negativa, sofferente, dolorosa, vulnerabile.

Infatti Davide a fronte del wish di attaccamento si è sentito di scarso valore, ha percepito la terapeuta distante ma, per paura dell’abbandono, ha agito la sottomissione, in linea con il profilo tipico dei pazienti evitanti. Marco, in pieno sistema motivazionale di inclusione, ha letto la terapeuta lontana e disinteressata, si è attivata l’immagine negativa in cui si vede invisibile per l’altro e non ha potuto fare a meno di rispondere con la sua strategia di fronteggiamento preferita, oscillando tra uno stato di rivalsa ed uno di sottomissione. Infine, Sandra, mossa dal desiderio di apprezzamento ma sentendosi poco interessante, ha inglobato la terapeuta nel suo schema, percependola tirannica e manipolativa ed ha agito l’aggressività e la vendicatività. Marco e Sandra rappresentano a pieno i due tipi di DOCP descritti nello studio di Solomonov et al., (2020).

La terapeuta, quindi, in modi diversi a seconda del paziente, ha: riconosciuto la frattura che la richiesta dello spostamento della seduta ha generato nella relazione; ha attuato delle operazioni di disciplina interiore per regolare il suo stato interno e ha metacomunicato con i pazienti; ha riparato l’alleanza aiutando i pazienti ad allontanarsi dalla visione del terapeuta schema-dipendente e ha apportato ulteriori informazioni nelle formulazioni del caso. Certamente tutte queste operazioni hanno fatto sì che i pazienti accedessero ad una più ampia consapevolezza del proprio funzionamento interpersonale e proseguissero la terapia senza subire l’impatto delle loro strategie di fronteggiamento sulla relazione, aderendo così meglio al trattamento.

 

Disturbi alimentari maschili: differenze di genere e caratteristiche psicologiche

Nel caso dei disturbi alimentari maschili spesso la richiesta arriva tardivamente perché gli uomini affetti da DA tendono a non chiedere un aiuto tempestivo perché non riconoscono il proprio comportamento alimentare come problematico e per non voler ammettere di avere un disturbo tipicamente femminile.

 

Il mio problema non è che sono grasso…. mi vedo flaccido e vorrei essere più muscoloso… per questo ho iniziato a fare esercizio fisico! Lo faccio tutti i giorni, il weekend arrivo anche a due allenamenti nella stessa giornata! No… non mi sono mai autoindotto il vomito, quella è una cosa da donne…. No no … se mi sento troppo gonfio piuttosto non mangio! Digiuno uno o due giorni e così ripristino l’equilibrio dopo una cena un po’ più calorica… Si ci penso a questa cosa durante la giornata, ci penso spesso… anche perché ho paura che mi venga il diabete come mio padre… così facendo mi prendo anche cura della mia salute! Si… mi rendo conto che ultimamente ho perso peso…. Lo vedo dai vestiti…. No… non sono ossessionato dalla bilancia…. Non mi interessano tanto quelle cose… Mi rendo conto che ultimamente faccio molta attenzione a quello che mangio… prediligo cibi poco calorici… ci sto attento! Dottoressa… secondo lei… ho un disturbo alimentare?’

Mario (nome di fantasia) si presenta così alla nostra prima seduta.

Decido di raccogliere dati per fare una corretta diagnosi, ma presto apprendo che il BMI (Body Mass Index) non è un indicatore valido per gli uomini ma solo per le donne, infatti il normopeso non è indicatore per escludere un DA (Disturbo Alimentare) maschile, manca ovviamente anche un altro campanello d’allarme: l’amenorrea.

Questi due indicatori sono stati in parte la causa di mancati riconoscimenti di Disturbi Alimentari maschili, oltre alla tardiva richiesta di aiuto da parte dei pazienti. Gli uomini affetti da DA, infatti, tendono a non chiedere un aiuto tempestivo perché non riconoscono il proprio comportamento alimentare come problematico e per non voler ammettere di avere un disturbo tipicamente femminile.

Decido allora di cercare in letteratura: trovo, come previsto, tantissimo materiale, ma mi rendo conto che fino a un decennio fa si è approfondito il disturbo specialmente sulle donne, dando poca rilevanza al genere maschile. Perché? La risposta è nelle percentuali di incidenza dei disturbi alimentari negli uomini: uno studio riporta un rapporto di 1 a 11, questo significa che su 11 pazienti che soffrono di DA 1 solo è un uomo. (Hudson JI, et al. 2007).

I dati risalgono agli inizi del nuovo millennio. Cosa è successo dopo? Come sono le percentuali oggi?

Gli uomini che soffrono di Disturbi Alimentari sono aumentati. Diversi studiosi hanno cominciato ad approfondire questo disturbo nell’ottica maschile ma ancora non si ha letteratura sufficiente per avere strumenti specifici di trattamento.

Nel DSM-5 sono state introdotte delle importanti modifiche che favoriscono una diagnosi di Disturbi Alimentari più accurata per il genere maschile: le categorie di classificazione sono meno rigide e quindi i sintomi di DA possono essere individuati anche negli uomini (Raevuori A., 2014).

Differenze tra uomini vs donne

Alcuni aspetti sintomatici accomunano tutte le persone che soffrono di Disturbi Alimentari, come ad esempio le preoccupazioni rispetto al peso, le restrizioni dietetiche e le convinzioni distorte rispetto all’alimentazione, ma ci sono delle differenze sostanziali tra uomo e donna.

Mario, così come molti uomini con Disturbi Alimentari, utilizza in forma minore rispetto alle donne (25% vs 50%) le condotte eliminatorie come ad esempio il vomito autoindotto, l’uso di lassativi e farmaci diuretici. Adotta invece strategie quali l’eccessivo esercizio fisico e periodi di digiuno. (Striegel-Moore RH, et al. 2009).

La giustificazione dei comportamenti restrittivi spesso punta alla prevenzione di malattie mediche, poco presente nelle giustificazioni utilizzate dalle donne. (Grabhorn R, et al. 2003).

Caratteristiche psicologiche nei Disturbi Alimentari maschili

Continuo nella mia ricerca e trovo molto interessante un articolo di Dakanalis risalente al 2015, nel quale vengono approfondite le caratteristiche psicologiche presenti nei pazienti uomini con Disturbi Alimentari.

La tendenza al perfezionismo è uno degli indicatori presenti in molte forme di DA (sia uomini che donne) in quanto induce i pazienti a cercare incessantemente di raggiungere la forma del corpo ideale. La differenza è che gli uomini con questa caratteristica tendono al digiuno, le donne a condotte eliminatorie. Si nota anche la presenza di una chiara tendenza al controllo.

L’insoddisfazione corporea è una seconda variabile che incide sullo sviluppo di Disturbi Alimentari. Gli uomini, spesso con bassa autostima, ansia sociale e depressione, tendono a ricercare ed acquisire una buona muscolarità ‘Drive for masculinity’, le donne invece ricercano la magrezza ‘drive for thinness’.

Questa differenza apre alla conoscenza di due disturbi tipicamente maschili: la Vigoressia e la Ortoressia.

La Vigoressia è un disturbo legato alla percezione errata di avere un corpo gracile e con poca massa muscolare (Pope,1993). La distorsione dell’immagine corporea si riverbera anche nei rapporti sociali, ci si sente inadeguati e quindi si tende all’isolamento sociale. Gli uomini che soffrono di vigoressia tendono ad accrescere la loro massa muscolare con estenuanti allenamenti fisici, ma neanche il raggiungimento di un corpo muscoloso li rende soddisfatti. Spesso associano allo sport anche l’assunzione di integratori alimentari e cibi iperproteici e ipocalorici.

L’Ortoressia è un disturbo che induce gli uomini con DA a sviluppare una vera e propria ossessione per il cibo sano, le regole alimentari e le modalità di cottura più dietetiche. Seguono ruminazioni ossessive circa il tempo impiegato a pensare al cibo, la ricerca di alimenti adatti e la cura nella preparazione. La volta in cui non possono cucinare e consumare cibi dietetici provano senso di colpa e percezione di perdita di controllo (Brytek-Matera, A. 2012). Inutile sottolineare quanto tutto questo porta a un’inevitabile ripercussione negativa sulla sfera sociale, ad esempio il non voler frequentare posti di ritrovo dove sia incluso un pasto o la difficoltà di condividere con altri queste pratiche alimentari così severe e limitanti.

Un’ultima caratteristica psicologica a mio avviso rilevante è l’orientamento sessuale. Gli uomini omosessuali tendono a sviluppare maggiormente un disturbo alimentare rispetto agli uomini eterosessuali. (Dakanalis at al., 2012). Secondo Dakanalis questo accade perché si ha una maggiore ansia legata all’accettazione nelle comunità omosessuali di riferimento e perché la perdita di peso è funzionale a sopprimere petto e fianchi e ad accentuare le caratteristiche del genere desiderato.

Trattamento e conclusioni

La terapia cognitivo-comportamentale ad oggi sembra offrire la tipologia di trattamento migliore. Si lavora sulle credenze disfunzionali e sulla messa in atto di comportamenti maggiormente adattivi per contenere le ruminazioni e migliorare la qualità della vita.

Molto ancora si deve indagare sulle aree relative alle differenze di genere a livello fenomenologico, sull’esordio, sulle manifestazioni sintomatologiche e sull’esito del trattamento. Di certo andremo incontro ad un aumento di uomini con DA che chiederanno un aiuto psicologico, anche se ad oggi si sente ancora forte lo stigma culturale di una malattia considerata al femminile.

 


 

Monogamia e tradimenti: la fine degli amori – Una serie di Roberto Lorenzini

Oggi pubblichiamo il decimo lavoro della serie di Roberto Lorenzini, dedicata al tema della monogamia e delle sue implicazioni psicologiche, affettive, relazionali e, perché no, sessuali. Lorenzini propone una tesi forte: la monogamia non funziona. E prosegue il suo racconto esplorando lo sviluppo della vicenda amorosa e in particolare la fine dell’amore.

MONOGAMIA E TRADIMENTI – (Nr. 10) La fine degli amori

10. La fine degli amori

“Panta rei”, “tutto scorre”, ciò che ha un inizio è destinato ad avere una fine e paradossalmente proprio la sua limitatezza, la sua finitezza gli dà valore, lo rende prezioso (Baroni 2020). Come insegnano le leggi di mercato una risorsa illimitata ha scarso o nullo valore. Tra le cose più preziose c’è la vita che sappiamo essere finita. Anche le storie affettive dunque hanno necessariamente una fine. Non è il fatto in sé che finiscano a renderle brutte o fallimentari, quanto piuttosto come ciò avviene. La chiusura è importante quanto l’inizio e prima di catalogare una storia affettiva e archiviarla in memoria nello scaffale delle meraviglie da ricordare o in quello dei fallimenti da dimenticare dovremmo prima aspettarne la chiusura che peraltro è ciò che ci influenza di più nel bilancio complessivo. I trenta anni di positiva vita in comune possono scomparire a fronte di una chiusura violenta di soli pochi mesi.

La chiusura di un matrimonio o una convivenza soprattutto se lunga comporta una enormità di problemi di ordine pratico organizzativo, economico e soprattutto emotivo ed è considerata insieme al lutto, peraltro molto simile, come uno degli eventi massimamente stressanti della vita seppure il suo effetto dipenda dalla personalità dei due partner che possono risentirne in modo molto diverso, dal tipo del legame in termini di qualità e durata e dalle modalità stesse con cui la chiusura avviene.

I prodromi più comuni della fine di una storia sono il fatto che la presenza del partner da motivo di gioia e dunque ricercata diventi motivo di fastidio e dunque evitata inizialmente nel desiderio e successivamente nei fatti; la riduzione della comunicazione e l’ampliarsi di aree di non condivisione; la mancanza di una progettualità futura e l’estinzione progressiva della vita sessuale; il coinvolgimento in storie affettive con altri partner che può diventare il motivo scatenante della rottura ma è a sua volta la conseguenza della fine della storia stessa.

L’emozione prevalente che accompagna la fine di un amore è la tristezza da considerare assolutamente normale. A questa tristezza per la perdita dell’altro e del progetto condiviso si può aggiungere un’ulteriore tristezza a carattere autosvalutativo per non essere stati all’altezza del compito che ci si era prefissi e si può pensare di non valere solo perché l’altro non ci vuole più. In questo modo ci si carica di tutta la colpa per la fine della storia. Al contrario per evitare questo vissuto molto penoso si può ritenere l’altro completamente responsabile trasformando la tristezza in rabbia nei suoi confronti e iniziando comportamenti violenti di stalking fino all’uccisione del partner, drammaticamente attuali.

Una posizione più equilibrata si fonda sulla consapevolezza che l’esito di una relazione dipende da entrambi, quali che siano i comportamenti finali che hanno suscitato la rottura definitiva, e anche del fatto che non essere più il partner scelto in questa fase di vita dall’altro, seppure motivo di dispiacere, non indica un proprio scarso valore, evitando così la depressione. I neuroscienziati hanno spiegato come esperienze di sana tristezza da perdita possano scivolare in soggetti con un particolare assetto recettoriale (ipersensibilità dei recettori serotoninergici presinaptici inibitori) in un circolo vizioso automantenentesi di depressione vera e propria, è dunque importante elaborare la tristezza per non esserne sopraffatti.

Si può essere insoddisfatti e tristi per due diversi ordini di motivi. Il primo riguarda il gap tra lo stato reale delle cose e lo stato desiderato ovvero quanto siamo lontani dal raggiungimento dei nostri scopi e se essi sono o meno perduti per sempre. Il secondo riguarda quanto il soggetto stesso è lontano dal suo ideale del sé. In questo caso si è insoddisfatti per come non si è stati in grado di modificare favorevolmente l’andamento delle cose. La prima è una insoddisfazione sull’oggetto che ne attiva una più profonda sul soggetto stesso che genera ulteriori effetti secondari di mantenimento come la rinuncia e il disimpegno. Non solo ho fallito ma “sono un fallito”. Nel fare bilanci, incredibilmente non teniamo conto del fatto che il tempo passa e sia noi che il nostro partner siamo cambiati e per giudicare della bontà o meno di una scelta bisogna riassumere la prospettiva di quando la si è fatta e non valutarne la correttezza dagli esiti cadendo nel cosiddetto “bias del senno di poi” di cui si sa essere piene le fosse.

Molto probabilmente rimessi nella stessa situazione, con l’assetto motivazionale e i dati a disposizione in quel momento, rifaremmo esattamente la stessa scelta. L’errore che comporta una inutile autocritica deriva dalla fallace impressione di essere sempre stati come siamo ora e la certezza che saremo sempre così. Non vediamo i cambiamenti avvenuti e non ce ne aspettiamo di futuri. Addirittura, quando cambiamo idea non ci ricordiamo davvero come la pensavamo in passato, ricordiamo i fatti magari ma non i nostri giudizi su essi. Ci sembra di averla sempre pensata allo stesso modo anche quando ciò è contraddetto da specifici ricordi e testimonianze (Kanheman, 2011; Taleb, 2007). Dobbiamo invece immaginare i vari periodi di vita come blocchi transitori di coerenza. Un procedere dell’esistenza attraverso crisi di cambiamento, una sorta di rivoluzioni kuhniane e lunghi periodi di stabilità (Kuhn, 1962).

Se è vero che si nasce rivoluzionari, si diventa riformisti e si muore conservatori, l’aspetto più interessante è che si è convinti di essere sempre stati identici a se stessi. Rispetto a questa cecità al cambiamento che ci porta a credere che le cose saranno sempre come ora, il che certamente è sgradevole in momenti neri e costituisce proprio “l’errore del suicida”, credo sia utile frugare nella storia della coppia alla ricerca di periodi diversi e ricostruire come era la vita, le emozioni e le attività anche con l’ausilio di foto, interviste a testimoni, film o musiche d’epoca. Abbiamo visto come l’insoddisfazione dipenda dal confronto tra uno stato reale e uno stato desiderato.

In effetti come i recettori sensoriali anche nella valutazione degli stati (a esempio, ricchezza o felicità) siamo molto sensibili alle variazioni e ai confronti, insomma non stati di ricchezza, ma guadagni e/o perdite. Per questo l’esito dipenderà molto dalla baseline scelta come riferimento che sia esterna o un altro periodo della propria vita. Se confronto la relazione con il mio partner con il momento iniziale dell’innamoramento, il mio stato di salute con la prestanza dei diciott’anni o il mio reddito con quello di un top manager, sono evidentemente alla ricerca di secchiate di insoddisfazione. È sperimentalmente dimostrato che gli esseri umani hanno una naturale avversione alle perdite sperimentate come minacce e anche che ciò sia un meccanismo salvavita evolutivamente vantaggioso sebbene possa non migliorare l’umore (Kahneman 2011).

Nel modello biopsicologico prevale la negatività e la fuga su positività e approccio. Il negativo vince sul positivo. Un solo scarafaggio rende disgustoso un intero piatto di ciliegie ma una ciliegia non rende gradevole un cesto di scarafaggi. Ancora, un solo cattivo gesto rovina una amicizia ma non viceversa. In natura e anche in molti sport sono in vantaggio i difensori sugli attaccanti.

Il tempo classico dell’insoddisfazione e della fine della maggior parte delle storie affettive è quello della tarda maturità quando si iniziano a fare i bilanci della propria esistenza nei vari campi in cui la si è spesa. Nel farli siamo vittime di un bias interessantissimo che Kanheman descrive con decine di affascinanti esperimenti definendolo “il valore edonico di un esperienza”. Quanto ne godiamo e/o quanto ne soffriamo risulta molto diverso se viene valutato in diretta, da quello che chiama il Sé esperienziale, o nel ricordo da quello che chiama il Sé mnemonico. Quest’ultimo che è quello attivo quando facciamo i bilanci o quando decidiamo se ripetere o meno una certa esperienza commette una serie di errori grossolani. Il primo è che conta molto più della media ponderata, che sarebbe il calcolo corretto (l’area logaritmica sotto la curva tempo/ piacere o dolore), l’intensità di picco e quella finale.

Il secondo gravissimo errore è la assoluta disattenzione per la durata. Così si può giudicare negativa un’esperienza affettiva o lavorativa di grande soddisfazione per trent’anni perché ha avuto un momento acuto di crisi oppure è finita male, mentre si giudica migliore una esperienza di pochi mesi senza infamia né lode ma conclusasi bene. Kanheman sottolinea la differenza tra Sé esperienziale che vive in diretta e il Sé mnemonico che valuta le esperienze secondo il bias “picco-fine” e la cecità per la durata, portando a confondere l’esperienza con il ricordo di essa. Quando dunque vogliamo valutare una storia affettiva non dobbiamo soffermarci soltanto sul periodo conclusivo certamente difficile e doloroso, ma ampliare il campo e tener conto dei periodi positivi, delle gioie, dei risultati ottenuti.

Sarebbe utile poter scrivere una lettera al partner in cui lo si ringrazia di tutte le cose buone che ci ha dato oppure scrivere una lettera congiunta in cui si elenchino tutti i successi e le gioie passate. Un piccolo accorgimento del genere renderebbe forse meno lacerante la chiusura e sarebbe controcorrente rispetto a tutte le spinte provenienti, spesso, dalle famiglie d’origine e, sempre, dagli avvocati che guadagnano dalla conflittualità, miranti a rinfocolare il conflitto per motivi di interesse o, come si dice “di principio”.

Un altro errore in cui siamo sistematicamente indotti quando pensiamo ad una relazione con un’altra persona (non soltanto il partner, ma fratelli, parenti, amici e colleghi) è di aver dato di più di quanto si è ricevuto (se sarete costretti a sbarcare il lunario leggendo la mano esordite sempre con l’affermazione “vedo che lei ha dato più di quanto ha ricevuto” e avrete il successo assicurato). Questo errore dipende di nuovo dal fatto che quello che diamo essendo una perdita ha una rilevanza emotiva esattamente doppia di quello che riceviamo, un guadagno. Per lo stesso motivo chi vende qualcosa ha l’impressione di ricevere troppo poco e chi compra di pagare troppo.

Inoltre, quando facciamo bilanci che ci generano insoddisfazioni abbiamo l’impressione che ci manchi qualcosa per essere felici. Kanheman chiama “miswanting” questo credere che certe cose ci renderanno felici (un partner, una casa, una macchina, un lavoro, un figlio) mentre al massimo lo fanno nella fase iniziale, poi diventano normali e non contano più (disattenzione per il tempo). Rispetto a questo bias sarà importante ridimensionare l’aspettativa di felicità rispetto ad un oggetto esterno e quindi la sofferenza per non averlo e lo si può fare ricordando periodi della propria vita in cui la cosa c’era ma non la felicità e osservando se davvero coloro che la possiedono sono felici.

Stando attenti ai bias elencati precedentemente è utile, per chiudere bene una storia, ricercare e ricordare, nonché valorizzare tutto quanto di buono c’è stato ed ha prodotto. È un errore, infatti, ritenere che per chiudere una esperienza occorra valutarla completamente negativa, tra l’altro così facendo si finisce per giudicare negativamente anche se stessi per il tempo e le risorse che ci si sono investite. Allo stesso modo è più facile risolvere il lutto di una persona con cui si aveva un buon rapporto, che di una persona con cui si aveva una cattiva relazione.

 

The Social Dilemma: terrorismo mediatico o pericolosa realtà?

‘Nulla che sia grande entra nella vita dei mortali senza una maledizione’. Inizia con questa citazione del drammaturgo greco Sofocle il documentario dal titolo The Social Dilemma, diretto dal regista Jeff Orlowski e trasmesso su Netflix.

 

The Social Dilemma ci mostra la vita di Ben – l’attore Skyler Gisondo – che vive una dipendenza da Social Network: costretto dalla madre a non utilizzare il telefono cellulare per una settimana, entra in uno stato di profonda crisi trascorsi appena due giorni.

I sintomi correlati ad una dipendenza da Internet riguardano: la tolleranza, ossia l’assuefazione, legata alla necessità di stare sempre più connessi per raggiungere uno stato di temporaneo appagamento; l’astinenza, ovvero la sensazione di intenso disagio psicofisico quando non ci si collega al web per un certo periodo di tempo; il craving, caratterizzato dall’aumento di pensieri fissi e da forti impulsi inerenti il come e quando connettersi. Il protagonista sembra sperimentare ognuno dei sintomi legati ad una condizione di vera e propria dipendenza. Il documentario ci mostra, parallelamente, le vicende di un ipotetico team di esperti che manipola un Avatar corrispondente all’utente: in questo modo, Ben viene continuamente sottoposto a stimoli a cui non riesce a sottrarsi, informazioni personalizzate allo scopo di colpire la sua emotività e di catturare la sua attenzione. Immagini inquietanti se pensiamo a quanto si cela dietro ognuno dei nostri profili social.

The Social Dilemma mostra inoltre numerose interviste, domande poste ad alcuni tra i più noti dipendenti di Google, Facebook, Instagram, Twitter, Pinterest ed altre famose piattaforme, impiegati della Silicon Valley. I professionisti intervistati, tra cui l’inventore del tasto ‘like’ di Facebook, riconoscono ad oggi le importanti implicazioni psicologiche che si celano dietro le loro scoperte, novità che in alcuni casi stanno provocando gravi conseguenze per la salute mentale dei cittadini di tutto il mondo. Molti di essi attualmente hanno addirittura deciso di licenziarsi: riconoscono di aver contribuito alla nascita di strumenti, sicuramente utili e meravigliosi, ma non senza gravi rischi per l’equilibrio psichico dell’essere umano.

Durante la scorsa decade l’avvento dei Social Network ha causato profondi mutamenti nel modo in cui le persone comunicano ed interagiscono tra loro. Non è ancora perfettamente chiaro se e come alcuni di questi cambiamenti possono influenzare determinati aspetti del comportamento umano e causare disturbi psichiatrici o psicologici specifici. Studi scientifici hanno indicato come l’utilizzo prolungato dei ‘Siti di Social Networking’ (SNS) – come Facebook o Instagram – potrebbero essere collegati in maniera diretta con alcuni sintomi della depressione. Inoltre, alcuni autori indicano che determinate attività compiute all’interno dei SNS potrebbero essere correlate con una bassa autostima, specialmente in bambini e adolescenti; altri studi, invece, presentano risultati opposti: i Social Network potrebbero anche avere un impatto positivo sulla stima di sé. La relazione tra l’uso dei SNS ed il disagio mentale ad oggi rimane dunque un aspetto controverso (Pantic, 2014).

Ma come mai i Social Network, con il passare del tempo, sono diventati così importanti per noi? Numerosi studi scientifici hanno indagato le motivazioni psicologiche che spingono ad utilizzarli in maniera massiccia, in differenti stadi della vita quali l’adolescenza, l’età adulta e l’anzianità. I cambiamenti sociali, infatti, hanno in generale un’importante influenza rispetto alla salute individuale di ognuno di noi e, in particolare, l’avvento dei Social Media può essere considerato significativo rispetto al benessere psicologico in ciascuno dei diversi stadi della vita. Nello specifico, è stato scientificamente riscontrato come per gli adolescenti l’aspetto di maggior impatto nell’uso dei social riguarda l’isolamento sociale, seguito dalla percezione di essere connessi agli altri e dalla fiducia interpersonale. Per gli adulti, così come nella vecchiaia, tra questi tre differenti fattori implicati nell’utilizzo dei Social resta comunque l’emarginazione ad avere maggiore importanza (Levula et al., 2016). L’isolamento sociale gioca dunque il ruolo più significativo in tutte le fasi della vita nell’uso dei Social Network: tale scoperta dovrebbe avere importanti implicazioni pratiche, soprattutto nella progettazione di interventi sulla salute mentale dei giovani e dei meno giovani. Ma come mai la percezione di essere emarginati è così temuta, in ognuna delle fasi della vita? Il timore di essere esclusi, tagliati fuori, di non vivere la vita a pieno così come fanno gli altri, in inglese denominato Fear of Missing Out, è una delle maggiori cause che si celano dietro un utilizzo disfunzionale dei Social Network: chi sperimenta la Fomo è infatti spinto a partecipare in maniera attiva e costante alla vita sociale altrui, attraverso l’accesso continuo ai canali Social.

Un recente studio ha indagato la correlazione tra i tratti personologici, le variabili implicate nella salute mentale e l’utilizzo dei Social Media, in alcuni giovani studenti (Brailovskaia et al., 2018). I risultati indicano una importante associazione tra l’uso generico di Internet e l’accesso ai Social Network ed importanti fattori psicologici quali: l’autostima, l’estroversione, il narcisismo, la soddisfazione in merito alla propria vita, il supporto sociale e la resilienza. Lo studio ipotizza che l’utilizzo di piattaforme Internet incentrate maggiormente sull’interazione di tipo scritto, come Twitter, possa essere associato negativamente a variabili implicate nella salute mentale, in quanto legate a sintomi quali depressione, ansia e stress. Al contrario, l’uso di Social Network come Instagram, che si concentra maggiormente sulla condivisione di foto e immagini, sarebbe collegato a variabili positive come l’autostima. Tale ipotesi rimane ancora un aspetto controverso. Studi recenti dimostrano come in America sintomi quali depressione e ansia sono aumentati in maniera esponenziale tra il 2011 e il 2013: il numero dei ricoveri in ospedale per disagi di tipo psicologico è salito del 62% nei giovani adulti e del 189% nei pre-adolescenti. Aumentati inoltre i gesti autolesivi e il numero dei suicidi tra i più giovani proprio dal 2009, anno dell’avvento dei Social Network; nello specifico, il tasso di suicidio è aumentato del 70% tra 15 e 19 anni e del 151% tra i 10 e i 14. Dati spaventosi per quella che viene definita la ‘generazione Z’, che approda sui Social Network già a partire dalle scuole medie: un’intera fascia di età più ansiosa e depressa.

Fenomeno recentissimo quello di Jonathan Galindo, un utente misterioso, simboleggiato da un viso mascherato, che contatta i giovani e li spinge ad uccidersi attraverso la partecipazione ad un ‘gioco’ online, in cui si è obbligati a superare step sempre più difficili, fino a togliersi la vita. Tra i più giovani in aumento anche gli interventi di chirurgia plastica, allo scopo di assomigliare ai filtri utilizzati nei Social Network, al punto da ipotizzare una ‘dismorfia da Snapchat’: il dismorfismo corporeo è una condizione psicologica in cui ci si fissa su una caratteristica o su più caratteristiche del proprio aspetto esteriore, notando imperfezioni o difetti che per altre persone appaiono minimi o inesistenti; tale disagio è legato ad una continua ricerca di approvazione sociale, per avvicinarsi ad una utopica idea di perfezione. I Social Network quindi cambiano il comportamento, manipolano in maniera subdola la psiche attraverso l’inconscio di chi li utilizza, agendo su pilastri dell’identità e della autostima.

Un’altra importante riflessione che The Social Dilemma ci invita a fare riguarda l’ascolto di notizie provenienti dal web: usare Internet in maniera disfunzionale significa anche non sottoporre ad un vaglio critico la continua sovrapproduzione di informazioni con cui veniamo a contatto, con forti implicazioni a livello etico e sociale. Le quotidiane fake news, infatti, hanno negli ultimi anni contribuito ad una cultura della disinformazione, con cambiamenti nelle ideologie di milioni di persone spesso basati su dati non scientifici e provenienti da fonti non attendibili.

Il documentario spinge ad una doverosa riflessione sui Social Media e su come questi manipolano la mente dei cittadini per trarre profitto economico. Essere continuamente monitorati da software che sono programmati da esperti di psicologia umana, essere esposti a professionisti che sembrano conoscere ogni aspetto della nostra personalità, è questa la sensazione che traspare dopo aver visto il documentario Netflix, in cui risuona lo slogan: ‘Il prodotto sei tu’. Un esempio altamente significativo riguarda il tempo di attesa per ricevere una risposta su Facebook – latenza in cui appaiono nello schermo tre puntini di sospensione – che coincide con l’essere bersagli di pubblicità mirate ad ottenere la maggiore attenzione possibile da parte dell’utente che è in attesa e, di conseguenza, molto attento. Le tecniche utilizzate dai professionisti che programmano i Social Network si basano sui principi delle neuroscienze: ogni informazione prodotta viene tracciata e di seguito utilizzata per spostare l’attenzione di quel determinato utente in direzioni scelte dall’esperto, con lo scopo di modificare le sue opinioni, introdurre nuove teorie… controllare la sua mente. ‘Pensi di essere libero e di poter trovare qualsiasi informazione, in realtà stai perdendo la tua libertà’: navigando sul web assistiamo dunque inermi ad un graduale e subdolo cambiamento interiore, rispetto alla nostra identità, ai nostri pensieri e alle nostre emozioni. Sembra venir meno il concetto di libero arbitrio! I programmatori utilizzano il principio psicologico del ‘rinforzo positivo intermittente’: come nel gioco delle slot machines, si innesta nella mente dell’utente una abitudine – inconscia – che lo spinge a continuare determinate attività. Il modello è quello dell’apprendimento automatico, basato su specifici algoritmi, che permettono alle aziende di proporre pubblicità strettamente collegate agli interessi dell’utente, riconosciuti tramite l’analisi delle ricerche effettuate da lui stesso e a cui non ci si può sottrarre, come in una trappola. Dal documentario traspare come attraverso l’illusione di poter conoscere qualsiasi informazione semplicemente chiedendola a Google, in una condizione di apparente libertà totale di scelta, non abbiamo affatto la possibilità di cogliere la vera realtà che ci circonda, ma soltanto ciò che vogliono farci sapere.

The Social Dilemma rappresenta lo specchio di una pericolosa realtà oppure trasmette dei messaggi esagerati allo scopo di infondere terrorismo mediatico?

A mio avviso le conseguenze dell’utilizzo dei Social Network non colpiscono tutti gli utenti allo stesso modo, ma esistono delle categorie maggiormente a rischio. Le vulnerabilità personologiche di ognuno, infatti, hanno un ruolo determinante nell’impatto che l’utilizzo dei canali Social provoca nella psiche e vanno riconosciute. Coloro che vivono stati emotivi interni legati a temi quali inadeguatezza ed insicurezza, in cui si teme l’abbandono più di ogni altra cosa, si tende a voler evitare l’esclusione, ci si sente profondamente emarginati, deboli e fragili, sono le vittime più comuni di disagio psichico provocato dai Social. ‘Usare ciò che sei contro di te’. Le vulnerabilità individuali, attraverso il continuo accesso ai SSN, vengono esposte ad un elevato rischio di sofferenza emotiva, aumentando la percezione interna di vuoto, ovvero una delle sensazioni maggiormente temute dall’essere umano, che spinge paradossalmente a connettersi di nuovo in un circolo vizioso altamente disfunzionale. Il rischio è quello di creare nei più giovani l’idea che in condizioni di isolamento sociale non esisterebbe più la loro intera identità: lontani da Internet i giovani non si percepiscono in un ruolo definito e non si identificano con null’altro ad eccezione del proprio profilo, nell’unica alternativa di vivere una vita social. ‘Stiamo addestrando e condizionando un’intera generazione a pensare che quando siamo a disagio, o ci sentiamo soli, incerti o spaventati abbiamo a disposizione un ciuccio digitale e questo sta atrofizzando la nostra capacità di affrontare le cose’, si ascolta nel documentario.

Non è la tecnologia quindi ad essere una minaccia esistenziale di per sé, ma è come essa viene utilizzata. La ricerca scientifica può fornire anche un aiuto prezioso nello studio del disagio psichico. La malattia mentale è diventata negli anni il più grave problema per la salute pubblica mondiale e i Social Network – piattaforme dove gli utenti esprimono emozioni, sensazioni e pensieri – sono una fonte inesauribile di dati per la ricerca sulla salute mentale, seppur emergono numerosi limiti: assemblare un quantitativo enorme di dati sugli utenti dei Social Media affetti da disturbi mentali è difficile, non solo a causa di pregiudizi associati ai metodi di raccolta, ma anche per quanto riguarda la gestione del consenso e la selezione di tecniche di analisi appropriate (Wongkoblap et al., 2017). La tecnologia digitale può dunque essere destinata a trasformare anche la fornitura di assistenza sanitaria. La rivoluzione digitale sta evolvendo ad un ritmo inarrestabile e, accanto all’esplosione senza precedenti della tecnologia, l’attenzione verso il benessere psicologico sta aumentando. Considerando l’impatto della comunicazione digitale nelle interazioni umane e, di conseguenza, l’influenza di essa negli stati mentali, come l’umore e il benessere, si può trasformare il modo di aiutare le persone affette da disagio psichico attraverso la tecnologia (Bucci et al., 2019); ciò si vede già negli interventi psicoterapeutici ormai sperimentati anche attraverso modalità online e quindi accessibili potenzialmente a moltissime persone. Un nuovo modo di utilizzare il progresso tecnologico per fini benefici.

Esistono dunque modi per contrastare i rischi che emergono dal documentario The Social Dilemma. Sarebbe fondamentale promuovere una educazione sociale all’interno delle scuole, nell’ottica di prevenzione: formare i cittadini più giovani sui potenziali rischi psicologici derivati dall’abuso di Internet, renderli capaci di uno sguardo critico nell’utilizzo degli importantissimi strumenti che il web ci fornisce. Comprendere in maniera precoce quando può nascere una dipendenza, percependo il bisogno di trascorrere sempre più tempo online, rinunciando alla vita reale per restare connessi o perdendo relazioni importanti per la necessità di stare al telefono: nei casi in cui ciò dovesse verificarsi, è fondamentale poter stabilire un tempo preciso per restare connessi, riabituarsi a stare senza tecnologia per qualche ora e prendere contatto con sensazioni reali e piacevoli. Fine ultimo, usare i Social Network in modo produttivo e costruttivo, per trarne i benefici ormai divenuti imprescindibili nella nostra quotidianità, ma lontani dai potenziali rischi per il benessere e l’equilibrio mentale dei cittadini.

I codici sociali irrompono nel lavoro clinico: gli isomorfismi variabili. Una possibile griglia per comparare i fenomeni sociali e individuali

È uscito per Alpes l’interessante volume La funzione sociale dello psicoterapeuta di Luigi D’Elia. Pubblichiamo qui una presentazione che lo stesso D’Elia fa del suo libro, in cui introduce la sua riflessione sociale sul nostro mestiere. Sicuramente una lettura interessante per tutti noi.

 

Il vecchio mondo sta morendo. Quello nuovo tarda a comparire. E in questo chiaroscuro nascono i mostri. (Antonio Gramsci)

Difficile, se non impossibile, demarcare con nettezza il confine che separa contesti e domini differenti nel lavoro clinico di uno psicoterapeuta. Quando uno psicoterapeuta incontra il sistema-paziente, incontra sempre un intreccio di voci indistinto. Le distinzioni le facciamo noi, post hoc, per ragioni descrittive e operative. Probabilmente le distinzioni sono semplici prevalenze fenomenologiche legate al contesto osservativo e all’impronta teorica che evoca un aspetto parziale anziché un altro, un ventaglio di fenomeni all’interno di una matrice osservativa/operativa, anziché un altro.

I fenomeni nuovi entrano assai silenziosamente nei nostri presidi (ambulatoriali e istituzionali) ed occupano già tutto lo spazio, sono cioè già parte dell’aria che respiriamo. Dunque, accade che ciò che è visibile sotto gli occhi di tutti non sia osservabile, ma neanche raccontabile attraverso sintesi non banali e riduttive.

Dobbiamo perciò fare i conti con l’insufficienza dei modelli di comprensione dei saperi e dei paradigmi psicologici e medici nel comprendere la progressiva opacizzazione dell’uomo contemporaneo. Questo determina, come intuibile, l’automatismo di vecchie griglie di comprensione e di vecchie procedure che rischiano in tal modo, sovrapponendosi forzosamente a nuovi fenomeni sfuggenti, di diventare iatrogene ed intrinsecamente invalidanti o, se tutto va bene, inutili.

Ciò che manca nel lavoro dello psicoterapeuta è spesso una visione organica dell’incidenza dei codici socioculturali sul lavoro clinico e soprattutto un’idea ordinata di come lavorarci in terapia.

Se volessimo fare una rassegna esaustiva e puntiforme di come il funzionamento sociale ricade in ogni forma nella vita psichica individuale e quindi conseguentemente nel lavoro dello psicoterapeuta, sarebbe operazione talmente pervasiva che probabilmente ci perderemmo in meandri di particolari e rischieremmo forse di inciampare in facili riduzionismi psicologici o sociologici.

Tutte le fenomenologie psicopatologiche del presente: dall’ansia alla depressione, dai disturbi somatoformi a quelli alimentari, passando dai disturbi del sonno, della sfera sessuale, del comportamento dipendente, ludopatico, compulsivo, impulsivo, tossicofilico, per giungere a tutte le possibili variazioni e sfumature dei disturbi della personalità nella modernità, etc., prendono forma in un medium socioculturale. Non molti di noi viceversa si sono posti la domanda di come avviene il passaggio dal piano sociale a quello individuale. Una delle ragioni di fondo che è alla radice di questo mio lavoro è esattamente tentare di rispondere, almeno approssimativamente, a questa domanda.

Sono piuttosto distante dall’attuale tendenza a mescolare piani e domini nella direzione di un approccio cosiddetto ‘olistico’, ciò che viene fuori è il più delle volte un minestrone denso e dolciastro, epistemologicamente immangiabile, una melassa buona per tutte le stagioni dove nel nome di un approccio integrato o naturale, o in nome del pensiero di qualche grande maestro, si sovrappongono, o meglio ancora, si giustappongono, strati di conoscenza come se si parlasse un unico linguaggio, come se tutti i piani, poiché giustapposti, seguissero gli stessi codici, lo stesso lessico, le stesse regole sintattiche e grammaticali, le stesse logiche. Ed ecco assistere all’uso sempre più disinvolto di terminologie frutto di giustapposizioni di fisica quantistica, fitoterapia, antropologia, omeopatia, amore per la natura e l’ambiente, tradizioni spiritualistico-religiose, mitologia, e così via, in un minestrone indigesto, un millefoglie caotico privo di ogni fondamento epistemologico, o semplicemente privo di ogni ragionevolezza.

Quando parliamo dell’irruzione dei codici sociali nel lavoro clinico di uno psicoterapeuta, dobbiamo fare lo sforzo di includere una posizione epistemologicamente paradossale secondo la quale tutti i domini fenomenologici (dall’intrapsichico al sociale, o se vogliamo usare la dicitura un po’ consunta, biopsicosociale) sono al tempo stesso uniti e separati. Uniti in quanto necessariamente connessi e concatenati e talora utilizzatori di medesimi codici sorgenti comuni. Separati in quanto ogni dominio si comporta in maniera autonoma e utilizza regole proprie e non comuni agli altri domini subordinati o sovraordinati.

Per esplorare, senza alcuna pretesa di esaustività (vista la vastità del tema), la dinamica che presiede l’irruzione dei codici sociali nella vita di ognuno di noi, nel nostro modo di pensare, agire, soffrire, e dunque nel lavoro dello psicoterapeuta di formazione sociale che incontra tale complessità nel proprio quotidiano lavoro a contatto con i propri pazienti, occorre perciò abbandonare il prima possibile l‘illusione che la complessità dei fenomeni psico-sociali possa funzionare per isomorfismi rigidi e perfettamente replicabili.

In altri termini, il rapporto tra fenomeni apparentemente simili o in connessione ma collocati su domini diversi non corrisponde necessariamente ad un replicarsi strutturale ed invariante di leggi e regole di un dominio su un altro, al ripetersi delle stesse logiche dei codici sociali nei meccanismi della psiche. Pensare in questi termini è operazione più che altro di ingenuo riduzionismo: si osservano delle analogie e delle correlazioni tra psiche e codici culturali prevalenti e si assimilano le leggi dei diversi piani attraverso una sorta di universalismo matematico. Niente di più semplicistico e inutile dell’applicazione concettuale di un isomorfismo rigido che appiattisca la variabilità dei fenomeni.

Per evitare di cadere in facili riduzionismi, quando affrontiamo il delicato tema di come trattiamo epistemologicamente i codici sociali in psicoterapia, occorre innanzitutto comprendere che domini differenti (dall’individuo alla società, dalla natura alla cultura, dal micro al macro) possono essere informati da medesimi codici, ma non necessariamente utilizzare lo stesso linguaggio, le stesse regole sintattiche e grammaticali e lo stesso lessico.

Occorre perciò dotarsi di uno strumento teorico più adeguato alla complessità dei fenomeni che andiamo osservando ed immaginare piuttosto a isomorfismi variabili che non rimandano a nessuna legge universale, ma a correlazioni qualitative tra fenomeni collocati su piani differenti. Possiamo dunque descrivere un isomorfismo che si sposta su un range da debole a intermedio o forte a seconda della regolarità dei propri meccanismi, ma anche a seconda della omogeneità dei linguaggi che traducono gli stessi codici sociali in comportamenti individuali.

Come avviene, dunque, che un dato aspetto che collochiamo sul dominio socioculturale intervenga fin dentro la struttura di una personalità o di un sistema nervoso orientandone in qualche misura il funzionamento, le scelte, le modalità?

In un mio articolo di alcuni anni fa che riguardava i cambiamenti dei cicli vitali nella contemporaneità (D’Elia. L. La scomparsa dell’età adulta, 2012, su psicologoaurelio.it), argomentavo che uno degli aspetti più eclatanti che testimoniano esattamente l’irruzione della sfera sociale nel dominio dell’individuo e del suo aspetto fisico, quindi del suo corpo, è il fenomeno della giovanilizzazione delle più recenti generazioni.

In altri termini, in pochissimi decenni la percezione dell’età anagrafica si è sensibilmente sottostimata per la maggior parte di noi contemporanei facendoci quasi tutti apparire più giovani di quanto in realtà non siamo e soprattutto di quanto apparivano le generazioni immediatamente precedenti alle nostre.

Basta prendere una foto di nostro nonno o nostra nonna di quando aveva 25-30 anni e una analoga foto nostra alla medesima età e confrontarla per aver l’esatta percezione di quanto le trasformazioni dei codici sociali incidano profondamente non solo nella rappresentazione di sé e del ciclo vitale, ma persino nel volto, nel corpo, nell’aspetto, di generazioni praticamente limitrofe. Solo 50-80 anni fa un 25enne era un uomo fatto o una donna fatta, nell’aspetto e nella posizione sociale. Un 25enne contemporaneo è un ragazzo ancora largamente incompiuto come persona, diremmo oggi appena uscito dalla piena fase adolescenziale. Nell’arco di pochi decenni l’aspetto della maggior parte delle persone di ogni età si è ringiovanito di almeno un decennio.

Utilizzo spesso questo esempio del confronto fotografico in quanto è uno dei più visibili e tangibili casi in cui un fenomeno sociale e culturale, ovverosia la rapidissima trasformazione del mondo negli ultimi decenni, penetra nella pelle e nella mente delle persone cambiandone di fatto aspetto e aspettative.

Di fronte alla correlazione così intima e palese tra codici sociali e psicologici, siamo obbligati a pensare in maniera più complessa e ad immaginare una circolarità oltre che una stratificazione dei fenomeni. In termini di concatenazioni un fenomeno appartiene all’altro e ne condivide, possiamo dire così, il paradigma. Ne condivide cioè i codici sorgenti (D’Elia, 2012, ibidem).

I fenomeni socioculturali e psichici secondo questa prospettiva sarebbero tra loro dunque concatenati, stratificati e circolari, l’uno condividerebbe il codice sorgente dell’altro seppure collocandosi su domini differenti e utilizzando linguaggi non sempre comparabili tra di loro. Ciò, come detto, non corrisponde ad un isomorfismo rigido dei meccanismi e delle leggi che governano i diversi domini, né tanto meno ad una causalità lineare, tipo causa-effetto, tra i fenomeni appartenenti a tali domini, quanto invece ad una continuità/affinità tra codici ad una loro reciproca correlazione le cui regole non sono universali, definite una volta per tutte, ma ogni volta particolari e diverse e definibili di volta in volta.

Vediamo dunque più da vicino questo range che caratterizza la variabilità dell’isomorfismo tra fenomeni psicosociali. Facciamo alcuni casi esemplificativi per svelare ulteriormente la natura della contaminazione e condivisione dei codici tra domini differenti.

Caso 1/A, Isomorfismo debole: moda-magrezza-anoressia

Se è certamente vero che la cultura e le consuetudini della moda incidono sull’immaginario di ciascuno di noi, su come un corpo accettabile debba essere esteticamente, dettando implicitamente ed esplicitamente i canoni e le coordinate di un certo gusto, di certe forme del corpo, nessuno potrebbe mai affermare che ciò sia la causa efficiente dell’anoressia di questa o quella persona. L’immaginario individuale si nutre di quello collettivo che a sua volta si nutre del materiale della moda, che a sua volta interpreta le tendenze sociali. Correlazioni, ma non causalità diretta. Tutti gli isomorfismi deboli, specie sul versante massmediatico, sono di questa natura.

Caso 1/B, Isomorfismo debole: Testi violenti di canzoni-comportamenti violenti

Esiste un nesso diretto tra testi violenti di canzoni popolari e azioni violente? Tale quesito, emerso in un recente dibattito circa i testi di un cantante rap con evidenti contenuti misogini, sessisti e violenti, è uno dei tanti esempi di influenza sociale dei mass media sui comportamenti reali delle persone. Questo tema è stato oggetto di numerosi studi della psicologia sociale e vede un certo riscontro, in molte ricerche, tra contenuti violenti (di un film, di un messaggio pubblicitario, di un videogioco, etc.) e atteggiamenti aggressivi, antisociali, o ideologicamente orientati alla violenza o semplicemente desensibilizzati ad essa, ma non troviamo l’unanimità degli esiti di altre ricerche simili che invece non dimostrano questa correlazione.

In casi come questo, nel quale l’uovo e la gallina si specchiano senza precedersi o causarsi, dovremmo abbandonare l’ingenuità per la quale i processi sociali di influenzamento seguano dinamiche lineari up-bottom, ma dobbiamo sforzarci di comprendere la circolarità dei fenomeni secondo cui nei mass media avviene più o meno ciò che sta avvenendo nella società e a volte alcune elaborazioni artistiche o pseudo-tali non sono altro che casse di risonanza di culture violente, altre volte possono diventare benzina sul fuoco di dinamiche francamente antisociali.

Anche qui, come in molti altri casi, assistiamo alla sovrapposizione e confusione tra correlato e causa. Il testo della canzone che fa risuonare la dinamica violenta ne diventa a sua volta causa oppure ne è mero correlato/specchio, magari anche con funzioni catartiche?

Pensiamo ad esempio al testo di una canzone del 1951 che tutti noi cantiamo sulle note soavi di una canzone di amore e di una musica dolce e che scambiamo tutti come canzone romantica. Sto parlando di Malafemmina (che in napoletano sta per, donna infida, puttana), scritta da Totò a seguito di una vicenda personale decisamente controversa e profondamente misogina, e che è spudoratamente, nella prima metà del testo, un invito al femminicidio o quanto meno l’accettazione di esso. Ebbene, siamo in grado di affermare che questa canzone abbia prodotto una cultura violenta e misogina? O si tratta piuttosto di un prodotto secondario di una cultura patriarcale violenta? O invece, ancora, si tratta a suo modo, e considerati i suoi tempi, di una canzone che tenta una conversione della violenza in pacificazione e dolcezza (anche musicalmente) e quindi svolge una funzione catartica?

Certamente non tutti i testi violenti sono catartici e ogni messaggio va contestualizzato, così come occorre tenere conto di come un messaggio viene ricevuto e decodificato e su quale situazione psicologica particolare e unica può agire. Ma in questo caso la correlazione tra messaggio violento di un testo di una canzone e comportamento reale rimane piuttosto debole, seppur presente.

Caso 2, Isomorfismo intermedio: società-liquida-individualista-crisi-della-coppia

Il rapporto tra trasformazioni sociali e cambiamenti delle relazioni amorose e della vita delle coppie è ben visibile semplicemente visionando le statistiche Istat degli ultimi 40 anni e i numeri crescenti di separazioni e divorzi, la diminuzione dei matrimoni e la diminuzione delle nascite. Tutte tendenze queste in stabile andamento, fatto questo che conferma trattarsi di cambiamenti strutturali a livello socioculturale. Le ragioni di questa vera e propria mutazione sono state egregiamente sviscerate nel noto saggio di Z. Bauman, Amore Liquido

Caso 3, Isomorfismo forte/A: società-consumistica-ludopatie-dipendenze

Questo è invece il caso di un sistema di regole e funzionamento che appare ancora più mimetico e quindi più invariante e forte rispetto ai domini differenti, sociale e individuale: l’attuale società/cultura consumistica si fonda sulla produzione e acquisto di oggetti di ogni tipo di rapida obsolescenza e continuo aggiornamento, lo stile di vita ad esso connesso struttura abitudini e rappresentazioni che sono piuttosto pervasive e richiedono la partecipazione attiva di ciascuno. Il consumismo è elemento identitario e determina criteri di inclusione ed esclusione sociale e quindi di adeguatezza personale e sociale. Se sei molto ricco vali molto, sei potente e puoi essere felice. Così recita il codice del consumismo. In questo caso l’isomorfismo appare particolarmente incisivo e penetrante dal momento che ci troviamo di fronte alla saldatura tra legalità di una pratica tossicomanica attraverso l’utilizzo di tecnologie e strategie di vendita del prodotto-ludopatico per il quale vengono implicitamente approvate e promosse la compulsività e la maniacalità, attraverso semplici meccanismi di rinforzo comportamentale (l’effetto ‘slot machine’, ovverosia i programmi di rinforzo comportamentale a rapporto variabile, sono stati ampiamente studiati in ambito comportamentista) e di risposte neuropsicologiche che attivano una vera e propria dipendenza. Tutto ciò sullo sfondo di una prospettiva/promessa di vincite milionarie che preludono a rivoluzionari cambiamenti di vita a partire da un improvviso arricchimento.

Caso 6, Isomorfismo forte/B: società-competitiva/precaria-neet-hikikomori

Il ritiro sociale nell’epoca dei social network e all’interno di una tecnosfera sempre più pervasivamente insolente e invadente, è uno dei fenomeni dilaganti della nostra contemporaneità.

Ogni epoca storica ha la sua narrazione e la sua cifra emotiva che la rende riconoscibile e che è l’esito di molte trasformazioni sociali. Negli anni ’60 e ’70, la società del benessere e dei consumi, della comunicazione di massa e della coltivazione televisiva, nata dall’ultimo dopoguerra, produsse il clima culturale ed emotivo della ribellione giovanile dall’oppressività, il mito della liberazione e della ricerca di sé e del mondo. Questa ‘romantica’ estroversa caratterizzò intere generazioni che ben presto, però, abbandonarono di lì a pochissimi anni questa narrazione per rientrare nei ranghi, come se nulla fosse successo.

La cifra emotiva dei nostri giorni inclusa nelle prevalenti narrazioni a carico delle ultime generazioni ha un sapore molto diverso ed è quella descritta dal profetico libro L’epoca della passioni tristi di Benasayag e Schmit del 2004, nel quale gli autori riescono in maniera lucida a comprendere lo stretto nesso realizzatosi tra le trasformazioni sociali e le nuove forme del disagio giovanile e infantile caratterizzato da un tono particolarmente pessimistico e passivo-rinunciatario.

Dopo alcuni anni da quel libro, tutto sembra essersi sviluppato esattamente in quella direzione, con l’aggiunta che le rapidissime trasformazioni tecnologiche e sociali hanno potuto fornire a questa enorme tentazione verso l’auto-esclusione dal mondo un supporto, una sorta di arredo completo per potersi sentire apparentemente comodi anche in una cella.

Veniamo dunque alle strane parole: NEET e Hikikomori.

  • NEET è un acronimo che proviene dal mondo della statistica e della demografia sociale e significa Not (engaged) in Education, Employment or Training, cioè ragazzi dai 16 ai 35 anni che non studiano, non lavorano e non sembrano granché interessati a fare nulla. In Italia si stima che circa un terzo dei giovani lo siano. (Per un approfondimento: D’Elia L. L’esistenza ferma: l’inaccessibilità all’autonomia dei venti-trentenni “neet” In Psychiatry online 20 settembre 2013).
  • Hikikomori (termine giapponese che significa ‘stare in disparte’) è un disagio psicologico-sociale rilevato in Giappone alcuni anni fa dove ha una grande diffusione tra i giovani (si stima circa 500.000) e che si sta rapidamente diffondendo anche in occidente e, non a caso, particolarmente in Italia dove si stima siano già circa 100.000. Si tratta in sostanza di un’autoreclusione volontaria e prolungata, una sorta di seppellimento nella propria stanza dalla quale non si esce più. (Sul sito di hikikomori Italia possiamo trovare ulteriori informazioni)

I due fenomeni, pur essendo estremamente differenti in qualità e quantità, hanno in comune lo stesso movimento: il ritiro dalla scena (sociale), e probabilmente l’uno appare come il serbatoio dell’altro.

Questi ragazzi sembrano dire: se non posso combattere – cambiare le regole, ribellarmi, competere, difendermi – o fuggire altrove (perché non c’è un altrove), perché il mondo mi chiede troppo o è una fonte costante di frustrazioni, riduco drasticamente la mia presenza nel mondo, utilizzo il mimetismo come forma di fuga passiva, diminuisco radicalmente le tracce che lascio intorno a me e mi rendo evanescente, mi rifugio nella mia confort zone, che nel caso dei NEET è la famiglia come unica fonte di sostentamento, nel caso degli Hikikomori è la cripta della mia stanza dalla quale continuo a interagire col mondo in forma incorporea e virtuale.

La narrazione e la cifra emotiva ad essa connessa parlano di un’impossibilità di esprimere alcuna forma di protesta in quanto ogni possibile dissenso è disinnescato alla fonte dal momento che non esiste più alcuna società manifestatamente oppressiva, non esiste più un mondo adulto persecutorio dal quale distinguersi ed emanciparsi, no, esiste solo l’immane fatica di catapultarsi in gruppalità anonime (scuola, lavoro) vissute come estranee, frustranti ed ostili.

NEET e Hikikomori ci raccontano una storia sulla nostra contemporaneità per la quale essere rinunciatari non è una scelta, ma una condizione di questo presente. Rappresentano un fenomeno fortemente sovraindividuale in quanto particolarmente mimetico del clima sociale legato all’attuale tecnosfera ed infosfera, e seppure si presenti in forme di disagio individualizzato, vede l’emersione in realtà sociopolitiche (Giappone e Italia) particolarmente esposte a specifiche vulnerabilità antropologiche (struttura protettiva della famiglia).

In questi pochi, ma paradigmatici, esempi, una breve carrellata relativa alla correlazione variabile tra alcuni macrofenomeni sociali: mito della magrezza, testi violenti, società liquida, consumismo, competitività, con alcune clamorose manifestazioni psicopatologiche: anoressia, violenza di genere e omofobica, coppia disfunzionale, ludopatia, ritiro sociale giovanile.

Abbiamo esaminato come queste coppie di fenomeni pur avendo ciascuna i medesimi codici culturali di origine possano essere decritti secondo isomorfismi variabili in funzione, cioè, della loro variabile omologazione linguistica e semantica, a seconda cioè delle differenti regole linguistiche con le quali si manifestano individualmente rispetto a come si manifestano socialmente.

Abbiamo quindi descritto per ogni coppia di fenomeno una progressione di tale isomorfismo, da debole a forte, a seconda della maggiore sovrapposizione del codice sociale con quello psicopatologico.

Mentre la correlazione tra fenomeni quali l’anoressia e il mito della magrezza o tra violenza razzista e di genere e testi violenti ci è sembrata di tipo circolare e non diretta, la correlazione tra semiotica consumista e ludopatia o tra società competitiva e ritiro sociale giovanile, ci è sembrata viceversa diretta e quindi sia sintatticamente che semanticamente più coerente e omologa.

Questa prospettiva, qui introdotta, relativa alla variabilità degli isomorfismi tra patologie sociali e individuali, può diventare (vedremo più avanti) griglia osservativa clinica per uno psicoterapeuta che diventa in grado in tal modo di riconoscere e valutare coordinate e caratteristiche di alcuni fenomeni clinici, ricollocandoli nella corretta prospettiva interpretativa. Si tratta, come già detto e approfondirò più avanti, di ‘allargare lo sguardo per centrare il bersaglio’, di revisionare la cornice ermeneutica dei fenomeni per poterli finalmente leggere nella loro reale matrice culturale.

Con il prossimo capitolo esamineremo più da vicino attraverso alcune vignette cliniche esemplificative come pensa clinicamente, operativamente, uno psicoterapeuta con formazione sociale.

 

Trauma e Psicopatologia. Prospettive teoriche e cliniche a confronto – Report dal congresso online

Lo scorso 28 novembre la Erickson ha organizzato una giornata di studio, in modalità telematica, nella quale esperti del settore hanno proposto prospettive di riflessione rispetto alle strategie e alle modalità di intervento più efficaci in ambito psicoterapeutico nel trattamento della psicopatologia e del trauma.

 

La giornata organizzata da Erickson è stata un’occasione di confronto tra i fautori di un approccio terapeutico basato sui modelli cognitivo-comportamentali e gli studiosi che propongono una prospettiva clinica fondata sull’elaborazione dei traumi; le relazioni che si sono avvicendate hanno, di conseguenza, messo a fuoco i temi della psicopatologia e del trauma nell’ottica di queste due prospettive.

Dopo una breve fase introduttiva, i lavori della sessione mattutina sono iniziati con l’intervento della dott.ssa Sandra Sassaroli che ha sottolineato come sia importante, nella teorizzazione di interventi mirati al trattamento della psicopatologia, non cadere in un approccio ‘pantraumatico’ incline a leggere come conseguenza di un trauma psichico anche forme di malessere psichico che possono essere caratterizzate da un’eziologia di natura differente.

La relazione successiva, tenuta dalla dott.ssa Isabel Fernadez, si è concentrata sul ruolo che il trauma può avere nella genesi dei disturbi mentali, illustrando le modalità di intervento offerte, in tal senso, dall’EMDR, tecnica che permette di intervenire non solo sui significati disfunzionali, ma anche sul bagaglio emozionale e sul vissuto corporeo esperito dal paziente.

L’intervento a seguire del dott. Francesco Mancini ha riportato il focus in ambito cognitivo-comportamentale focalizzandosi, nello specifico, sul ruolo esercitato nella genesi e nel mantenimento di condotte ossessivo-compulsive dagli eventi relazionali avversi (situazioni in cui la persona avverte che determinati propri pensieri, emozioni e comportamenti non possono essere riconosciuti ed esplicitati perché, se ciò avvenisse, la tenuta di relazioni importanti per il soggetto potrebbe essere messa a rischio).

La relazione del dott. Giovanni Tagliavini si è concentrata, invece, sulle fratture del sé determinate da esperienze di natura notevolmente traumatica; si tratta di esperienze che generano ‘parti fantasmatiche’ del sé, che rimangono legate ad un vissuto doloroso e difficile da elaborare, mentre il resto del sé tenta di ricomporsi per far fronte al quotidiano e al presente del soggetto. La psicotraumatologia, quindi, è il campo di studio non degli eventi avversi ma di quelli impossibili da sopportare.

L’ultima relazione della mattinata, tenuta dalla dott.ssa Antonella Montano, illustra un oggetto di studio, ricerca ed intervento molto specifico: le conseguenze di esperienze relazionali infantili avverse osservate nell’ambito della popolazione LGBT.

Dopo gli interventi della sessione mattutina i lavori riprendono con una sessione pomeridiana di confronto, moderata dal dott. Gabriele Melli, in cui i relatori intervenuti, ai quali si unisce il dott. Antonio Onofri, hanno modo di confrontarsi e di rispondere alle domande poste dai partecipanti.

Nell’ambito della discussione che segue si delinea nuovamente il tema del trauma, inteso come evento emotivamente intollerabile e di difficile elaborazione, tale da determinare una frattura del sé, cui fa da contraltare il concetto di esperienza avversa, che rappresenta un vissuto emotivamente doloroso per il soggetto, ma non tale da determinare una frattura del sé.

Emerge, dalle domande e dalle riflessioni dei partecipanti, la difficoltà di operare una distinzione netta tra queste due concettualizzazioni, dato che ciò che è intollerabile per un soggetto può non esserlo per un individuo differente in virtù dello stile di vita, della presenza di eventuali fattori protettivi o della presenza di ulteriori specifiche.

In ultima analisi si tratta di un oggetto di studio di grande complessità che si presta ad essere interpretato alla luce di concettualizzazioni differenti, che sono a fondamento di distinte tecniche di intervento e trattamento.

Occasioni come quella offerta da questa giornata di studio si pongono proprio nell’ottica dichiarata di ‘favorire un’occasione di confronto aperto e arricchente, sia sul piano personale che professionale, volto a promuovere l’utilizzo di strategie e strumenti clinici integrati che massimizzino l’efficacia nella cura dei pazienti’ per arrivare ad un’integrazione sul campo nell’ambito dei trattamenti psicoterapeutici.

 

Gossip: verità e bugie

Peters e Fonseca (2020) hanno riepilogato i risultati di uno studio preregistrato, appositamente strutturato per esaminare le bugie spontanee che vengono condivise tra i membri che spettegolano.

 

Una bugia può essere definita come una ‘cosa non vera detta per imbrogliare o per far credere qualcosa di falso a qualcuno’ (Cattana e Nesci, 2002, p. 105). Peters, Kashima (2015, p.1) e Smith (2014) hanno invece definito il gossip come la ‘classe di contenuti comunicati che trasmettono delle informazioni su comportamenti e caratteristiche di attori sociali’. La cooperazione in grandi gruppi (ad esempio, comunità, quartieri e organizzazioni) può essere sostenuta dalla reciprocità indiretta dei pettegolezzi (Alexander, 1987; Nowak e Sigmund, 2005). Ma bugie e pettegolezzi da cosa sono motivati? Nell’articolo di Peter e Fonseca (2020) si presume che le persone condividano pettegolezzi in modo impreciso e per scopi egoistici, ad esempio per minare i nemici o per promuovere gli alleati (Hess e Hagen, 2006; Mace et al., 2018; McAndrew & Milenkovic, 2002). Se questa ipotesi è vera, rappresenta una sfida crescente per coloro i quali ipotizzano che il gossip sia al contrario una fonte di accurata reputazione, nello specifico per i ricercatori come Dunbar (1993) che vedono i pettegolezzi come funzionali al rafforzamento dei livelli di cooperazione.

Peters e Fonseca (2020) hanno riepilogato i risultati di uno studio preregistrato, appositamente strutturato per esaminare le bugie spontanee che vengono condivise tra i membri che spettegolano: il campione era composto da 320 soggetti che hanno partecipato a una serie di giochi di fiducia one-shot. Basandosi sulla teoria dei giochi di Crawford e Sobel (1982), i ricercatori hanno testato se la competizione tra chi spettegola possa aumentare la frequenza delle menzogne e se tale aumento possa portare ad una minore discriminazione basata sul gossip, ad una bassa fiducia tra i soggetti e ad una scarsa affidabilità dell’informazione (Peters e Fonseca, 2020). I soggetti sono stati divisi in 16 gruppi che hanno giocato 20 round del gioco: alla metà dei partecipanti è stato assegnato il ruolo di investitore, all’altra metà il ruolo di agente. Gli investitori decidevano quanti gettoni inviare all’agente allocato e, per suscitare i pettegolezzi, i ricercatori hanno richiesto agli investitori di inviare un messaggio (indicando il numero di gettoni forniti) all’investitore che avrebbe giocato con il loro agente nel round successivo (Peters e Fonseca, 2020). Qualsiasi messaggio contenente errori era considerato una bugia. Nonostante gli investitori abbiano detto la verità per la maggior parte del tempo, una consistente minoranza dei messaggi era composta da bugie (25,88%): nei turni di fiducia, i partecipanti hanno detto bugie positive (171 soggetti) e negative (341). Dai risultati è emerso come le bugie siano state due volte più frequenti sotto nella situazione di concorrenza, quando cioè i soggetti hanno comunicato con gruppi esterni in competizione (Peters e Fonseca, 2020).

I ricercatori hanno identificato quattro forme principali di menzogna: bugie di rappresentazione positiva errata, bugie di travisamento negativo, bugie di esagerazione positiva e bugie di esagerazione negativa (Peters e Fonseca, 2020). Le menzogne di travisamento sono giustificate dal desiderio di danneggiare (attraverso l’incoraggiamento di comportamenti suscettibili per diminuire i guadagni del pubblico), al contrario le menzogne esagerate sono giustificate dal desiderio di aiutare il pubblico o di raggiungere la reciprocità con l’agente. Questi risultati suggeriscono che, in condizioni di competizione, l’aumento delle bugie è sostenuto da un aumento delle false dichiarazioni che mira a danneggiare il pubblico concorrente (Peters e Fonseca, 2020). I ricercatori hanno scoperto una correlazione positiva tra l’affidabilità degli agenti e la fiducia: quando gli investitori esagerano l’affidabilità dell’agente, tale correlazione è significativamente più forte. I ricercatori hanno quindi concluso sostenendo che 1) gli obiettivi dei gossip sono insensibili alle bugie e come 2) alcune bugie sono attribuite al miglioramento del benessere, di conseguenza i risultati suggeriscono come le bugie non impediscano, bensì aiutino a creare delle reputazioni funzionali attraverso i pettegolezzi.

 

Covid-19 e Suicidio – Tra Psicoanalisi e Analisi Transazionale

Alla fine del 2019, in Cina si è diffuso il COronaVIrus Disease 2019 che successivamente a livello globale ha contagiato milioni di persone, causandone la morte di centinaia di migliaia.

 

Dal 31 Dicembre 2019 al 6 Novembre 2020 sono stati riportati 48.763.203 casi di COVID-19 inclusi 1.234.371 morti. Tale situazione drammatica ha fatto in modo che l’OMS dichiarasse, già l’11 marzo 2020, lo stato di Pandemia: questa è la prima Pandemia causata da un Coronavirus. Le pandemie sono diverse dagli altri disastri in quanto la risposta ad esse richiede una pianificazione specializzata e interventi di mitigazione volti a prevenire la diffusione dell’infezione. A differenza anche di altri disastri, come incendi, inondazioni o terremoti, i rischi associati alla pandemia aumentano dopo l’evento iniziale e questa minaccia è in gran parte invisibile a coloro che sono a rischio di infezione. Insufficienza respiratoria, sepsi, shock settico e sindromi da disfunzione d’organo multipla sono tipiche manifestazioni cliniche gravi del COVID-19 quando la forma non è asintomatica. Ben più complessi da individuare e prevenire sono i sintomi psichici legati alla pandemia, infatti molteplici evidenze scientifiche e ricerche indicano che la pandemia COVID-19 ha avuto ed ha tuttora, profondi effetti psicologici e sociali sulla popolazione. La quarantena, l’allontanamento sociale e l’autoisolamento impattano negativamente sulla salute mentale poiché sia la solitudine che la riduzione delle interazioni sociali, sono causa di fattori di rischio per molti disturbi mentali come la schizofrenia e la depressione maggiore. Congiuntamente a questo, l’incertezza sul futuro e le preoccupazioni su sé stessi ed i propri familiari aumentano il rischio di disturbi ansiosi, panico, disturbi ossessivo compulsivi, stress, disturbi correlati al trauma nella popolazione adulta, sia negli uomini che nelle donne. L’isolamento sociale, la solitudine è paragonabile ad una sensazione angosciante derivante da carenze percepite nelle proprie relazione sociali e questo contribuisce fortemente al rischio di suicidio. Di seguito vedremo la tematica del suicidio, sotto due prospettive, quella dell’Analisi Transasionale e quella Psicoanalitica.

Il suicidio nella prospettiva teorica Psicoanalitica

Ci sono molteplici approcci per comprendere la natura e il significato del suicidio. Nella prospettiva psicoanalitica, Freud, S. (1917) propone di considerare il suicidio come un omicidio mancato, perché l’Io può uccidersi solo quando riesce a trattare se stesso come un oggetto, dirigendo contro il sé l’ostilità che non può essere scaricata sull’oggetto relazionale con il quale è avvenuta un’identificazione. Fenichel, O. (1945), in un’ottica intrapsichica, legge il suicidio come il risultato di una relazione tra l’Io e il Super-Io sadico, capace di scatenare o un bisogno di perdono e riconciliazione nei confronti degli aspetti più protettivi dell’istanza superegoica, oppure una profonda ribellione e rabbia nei confronti delle sue coercizioni con il conseguente desiderio di distruggerlo. L’aggressione al sé potrebbe avere anche un’altra valenza, quella di ristabilire una relazione attraverso l’auto-punizione e rappresenterebbe un atto di rivolta nei confronti dell’abbandono subito da parte dell’oggetto perduto o che minaccia un possibile abbandono. Kohut, H. (1977) amplia questa prospettiva, evidenziando come una risposta aggressiva possa emergere da un crollo dell’integrazione del Sé a seguito di questa ferita narcisistica. Il suicidio rifletterebbe la risposta a sentimenti come la rabbia narcisistica e la vergogna. Altre prospettive psicodinamiche enfatizzano il ruolo della libido e dei sentimenti affettivi legati all’oggetto, vedendo la depressione e il suicidio come una fantasia narcisistica di riunione e ri-fusione con l’oggetto d’amore perduto con lo scopo di evitare la separazione.

La teoria delle relazioni oggettuali si focalizza sul suicidio come fantasia di distruggere gli oggetti interni ‘cattivi’ o aspetti indesiderati del Sé. Per esempio, Winnicott, D. W. (1958) descriveva il suicidio come una fantasia di distruzione degli aspetti negativi del sé unitamente a ciò che ad essi sopravvive, cioè come distruzione dell’intero sé quando questo è minacciato di annientamento. E, in effetti, secondo la teoria delle relazioni oggettuali, gli individui che tentano il suicidio si caratterizzano per la difficoltà di integrare le introiezioni ostili, e per i pochi introietti positivi. In estrema sintesi, l’emozione aggressiva rimane una reazione adattiva in difesa della sopravvivenza o al servizio di importanti bisogni vitali: il suicidio risolve un conflitto occasionale e apporta una soluzione alla vita stessa dell’individuo, generando una rottura interiore che libera dal mondo e dal dolore attraverso l’annullamento dell’oggetto e l’annientamento del soggetto. Ma cos’è che minaccia il Sé, al tempo della pandemia da Covid-19? Fattori come l’instabilità, la precarietà, la paura, la perdita di ruoli professionali e routine quotidiane, nonché la crisi dei rapporti relazionali, vissuti come potenzialmente pericolosi e mortali, ci ha fatto sentire estranei a noi stessi, fragili, non più onnipotenti. L’identificazione con il self made man che non conosce limite e può sconfiggere malattia, deformità, vecchiaia e morte, imponendo il suo potere su se stesso, sul proprio corpo, sull’altro e sulla natura, con cieca fiducia nella scienza e nel progresso, soccombe a un’estrema impotenza: siamo tutti mortali, tutti potenzialmente malati, tutti in pericolo, nessuno escluso.

Il suicidio nella prospettiva teorica dell’Analisi Transazionale

Sviluppata intorno agli anni ‘50 dallo psichiatra canadese Eric Berne (1910-1970), l’Analisi Transazionale ‘è una teoria della personalità e del rapporto sociale, e un metodo clinico di psicoterapia’ (Berne, 1972, pag.30). Tale approccio affronta i diversi processi psicologici dal punto di vista intrapsichico e interpersonale. Il termine ‘analisi transazionale’ (AT) viene utilizzato genericamente per indicare un sistema che ha i seguenti passaggi: analisi strutturale, analisi transazionale vera e propria, analisi dei giochi e analisi del copione (Berne, 1966).
Il cuore dell’AT è il modello degli Stati dell’Io, che sono oggetto dell’analisi strutturale e vengono definiti da Berne (1972) come coerenti sistemi di pensiero e di sensazione che si manifestano con determinati comportamenti. Ogni individuo presenta tre stati dell’Io: Genitore (che ripropone comportamenti, pensieri ed emozioni dei propri genitori o delle proprie figure significative); Adulto (il quale giudica obiettivamente il proprio ambiente, valutando le proprie possibilità di riuscita in base all’esperienza passata); Bambino (che indica il vero bambino che l’individuo è stato un tempo, di conseguenza agisce con comportamenti infantili legati a una determinata età).

Per una personalità sana ed equilibrata è necessaria la presenza e l’interazione di tutti e tre gli stati: l’Adulto consente di affrontare il qui e ora, il Genitore offre un ampio bagaglio di regole per stare nella società e il Bambino dà l’accesso alla parte più spontanea e creativa della persona.

Nei casi di patologia si possono manifestare invece due processi: contaminazione, in cui i confini degli stati dell’Io si sovrappongono e l’Adulto contaminato elebora la realtà sulla base dei contenuti del Genitore e/o del Bambino; esclusione, in cui uno stato dell’Io non è attivato e funzionano gli altri due stati restanti, oppure vengono esclusi due stati dell’Io e opera in maniera costante un solo sottosistema (Berne, 1966).

Contaminazione e/o esclusione sono alla base di differenti quadri patologici in cui il rischio di suicidio è molto elevato.

Nel corso della vita, a seconda delle esperienze e relazioni vissute, dei messaggi verbali e non verbali ricevuti, la persona acquisisce una posizione esistenziale dominante, con cui esprime il valore essenziale che percepisce in se stessa e negli altri. Delle quattro posizioni esistenziali ipotizzate, Berne (1972) considera la più proficua Io sono ok tu sei ok, dove ogni persona è riconosciuta per la sua essenza, valore e dignità. L’individuo che commette il suicidio, come soluzione estrema di liberazione dal proprio dolore, assume una posizione esistenziale predominante che in Analisi Transazionale è espressa nella forma: Io non sono ok, tu non sei ok. Le convinzioni centrali di questa posizione ruotano attorno al sentimento di inutilità di se stessi e degli altri, i quali non possono offrire un valido aiuto (Stewart, Joines, 1987). Le svalutazioni rivolte a se stessi e agli altri allora giustificano la scena finale tragica prevista nel tornaconto di copione.

Il copione è ‘un piano di vita inconscio’ (Berne, 1966 pag. 175), una storia autobiografica che ogni bambino inizia a scrivere dalla nascita e completa all’età di 7 anni, ma che continua ad arricchire di dettagli con una revisione più aggiornata e aderente alla realtà in adolescenza. Il bambino decide il suo copione di vita, intendendo per decisioni non le capacità riflessive adulte di attuare delle scelte, ma capacità prelogiche che trovano fondamento nell’assetto emozionale. Queste decisioni rappresentano la migliore strategia che il bambino ha a disposizione per sopravvivere in un mondo che può apparire ostile e minaccioso. Pur avendo l’individuo un ruolo attivo sulle scelte decisionali, i genitori e l’ambiente esercitano una forte influenza trasmettendo dei messaggi verbali e non verbali, sulla base dei quali si giunge a conclusioni su se stessi, gli altri e il mondo (Stewart, Joines, 1987). L’ingiunzione centrale nel paziente suicida è ‘Non esistere’, un messaggio copionale che diviene parte dello stato dell’Io Bambino (Novellino, 1998). Solitamente la persona che presenta questa ingiunzione ha recepito in tenera età, a volte anche in modo erroneo, una minaccia di morte nei comportamenti genitoriali o in eventi esterni, per cui ha sviluppato la credenza di essere una persona senza valore e indegna d’amore. La presenza di tale ingiunzione non determina in tutti i casi una scena finale di suicidio, la persona, infatti, può difendersi prendendo delle decisioni miste che evitino questo esito (ad es.’posso continuare ad esistere fintanto che lavoro sodo’). Secondo i Goulding, il paziente suicidale in risposta all’ingiunzione ‘Non esistere’ può produrre sette possibili decisioni: ‘Se le cose dovessero andare troppo male, mi ucciderò’, ‘Se tu non cambi, mi uccido’, ‘Mi ucciderò e allora soffrirai’, ‘Ti porterò a uccidermi’, ‘Arriverò quasi a morire allora tu soffrirai’,’Ti farò vedere io anche se questo mi porterà a morire’, ‘Ti avrò anche se ciò mi ucciderà’ (Novellino, 1998, pag 204). Ognuna di queste decisioni presenta una serie di comportamenti, sentimenti e pensieri che riconducono ad un quadro patologico depressivo (ibidem) e porta avanti un copione perdente, che nei casi più tragici, come la morte, viene definito ‘amartico’ (dal greco ‘amartia’ che vuol dire ‘catastrofe’) (Berne, 1972).

La terapia in Analisi Transazionale promuove l’uscita da un copione perdente, stimolando la persona a soddisfare i bisogni dello stato dell’Io Bambino, che non sono stati esauditi nell’infanzia, con le risorse più adeguate dello stato dell’Io Adulto decontaminato. In AT decontaminare l’Adulto significa consentire a questo stato dell’Io di rivalutare le decisioni prese dal Bambino e ridimensionare il Genitore. La metodologia offre degli strumenti per lavorare a livello di tutti e tre gli stati dell’Io, favorendo l’integrazione di questi.

Quale prevenzione per il suicidio?

Secondo Maurizio Pompili (2020): ‘A causa della pandemia covid-19, l’Italia ha registrato un numero incredibilmente alto di decessi legati al virus. L’epidemia nelle regioni settentrionali del paese ha avuto un impatto maggiore di quanto si pensasse in precedenza e, a causa del numero di vite perse ogni giorno a causa del covid-19, a marzo è stato imposto un blocco nazionale nel tentativo di contenere la diffusione della malattia. Il paese ha vissuto il suo primo cambiamento radicale nello stile di vita dalla seconda guerra mondiale, con l’intera popolazione confinata nelle proprie case. Durante questo periodo difficile, caratterizzato da emergenze somatiche e mancanza di ventilatori e letti di terapia intensiva, parlare di prevenzione del suicidio può essere sembrato di scarsa rilevanza. Tuttavia, le misure di quarantena collettiva sono state collegate a un aumento del rischio di suicidio e la quarantena è stata associata a effetti negativi sulla salute mentale (…) La pandemia di coronavirus porterà anche a un approccio rivoluzionario ai pazienti. Data la necessità di restare separati per evitare il contagio, le consuete consultazioni faccia a faccia per la valutazione dei pazienti sono state sostituite da consulti digitali. Ai medici è richiesto di adottare un tale approccio anche con individui suicidi e di organizzare soluzioni valide per risposte attive e sensibili utilizzando l’innovazione tecnologica. Per quanto impegnativo possa essere, le strategie di prevenzione del suicidio dovrebbero far parte del pacchetto di intervento per le popolazioni vulnerabili. Dobbiamo ancora comprendere appieno gli impatti in corso sulla salute mentale della pandemia. Dobbiamo garantire che sia disponibile un supporto adeguato per coloro che ne hanno bisogno’.

 

Le differenze di genere nel campo della gelosia

Il sentimento della gelosia all’interno di una coppia è legato all’idea, al timore più o meno legittimo che l’altro possa tradire. Questa paura viene corroborata tanto dalle caratteristiche personali dell’altro, quali il carattere e l’atteggiamento, oltre alle caratteristiche estetiche, quanto dall’ambiente in cui il partner vede l’altro operare.

 

Negli ultimi anni la diffusione dei social network e l’uso che facciamo di queste piattaforme online sembrano aver influenzato le nostre relazioni intime, o meglio la nostra percezione e, quindi, il nostro atteggiamento riguardo ad esse. L’introduzione dei social network nelle nostre abitudini quotidiane è stata associata ad un graduale peggioramento delle relazioni sentimentali, il quale sembra essere generato da una sorta di insoddisfazione sia sessuale sia sentimentale verso la vita reale (Clayton et al. 2013).

Siamo infatti così stimolati dalle molteplici potenzialità relazionali che una tale piattaforma ci mette a disposizione in ogni momento, che la nostra curiosità è sempre più spinta nella ricerca di altro.

Tale tendenza sembra corrispondere ad una crescita dell’infedeltà, mediante relazioni che nascono e si sviluppano online, dietro ad uno schermo (Childers and Wysocki, 2011).

Ma se questo è vero, non possiamo sorprenderci che all’interno della vita di coppia, al crescere della probabilità di infedeltà dell’altro crescano anche le azioni volte a neutralizzare tale comportamento. Queste reazioni sono mosse dal timore di cui parlavamo poc’anzi, dalla paranoia del partner, che sarà quindi più incline a mettere in atto meccanismi di difesa di sé e della coppia, assecondando la sua crescente diffidenza, o addirittura sfiducia nell’altro (Beukeboom and Utz, 2011).

Una di queste azioni riflesse si può riassumere in tutte quelle strategie volte a spiare le attività, i movimenti e le relazioni dell’altro. Queste strategie vengono sintetizzate con il termine inglese snooping.

Lo snooping, in una realtà mediata dall’uso dei social network, corrisponde all’azione di controllare di nascosto il profilo e le conversazioni che il proprio partner sviluppa in queste piattaforme online. L’atto di spiare il proprio partner in questo modo sembra esser diventato il più frequente metodo per scoprire l’infedeltà dell’altro nelle relazioni moderne (Waterlow, 2015). Se molte ricerche si sono focalizzate nello studiare il fenomeno dello snooping che riguarda il controllo del cellulare, delle chiamate e dei messaggi inviati e ricevuti dal proprio partner (Dunn and McLean, 2015; Harris, 2002; Klette et al., 2014), altrettante sembrano volgere l’attenzione verso il controllo che viene perpetuato online dal partner geloso (Dunn & Billett, 2017)

Ma c’è un diverso modo di vivere la gelosia tra l’uomo e la donna?

Molte ricerche si sono mosse da questo interrogativo, andando ad indagare se il genere sia o meno una variabile significativa nel modo in cui viene interpretato o percepito un atto di infedeltà all’interno della coppia. Sono così emerse differenze interessanti che fanno riflettere sul modo in cui le persone reagiscono e pesano in maniera diversa le stesse azioni.

Se andiamo a vedere le ricerche di Buss (1992), Easton (2007), Pietrzak (2002), Sagarin (2003), Schutzwohl (2005), Weiderman e Kendall (1999), e la più recente svolta da Dunn e Billett (2017) emerge che gli uomini tendono ad essere più attivati emotivamente da un tradimento sessuale, piuttosto che da un tradimento sentimentale che non sia sfociato in relazione fisica.

La ricerca di Dunn e Billett ha riutilizzato nel proprio esperimento la grafica della piattaforma di Facebook per simulare una situazione in cui i partecipanti, vedendo la pagina del profilo del proprio partner, immaginavano di trovare dei messaggi mandati o ricevuti che riportavano frasi che lasciassero intendere un tradimento sentimentale o sessuale. Misurando i livelli di risposta emotiva ad una situazione piuttosto che ad un’altra, tra gli sperimentatori maschi si registrava un maggiore livello di distress quando i messaggi riportati nella chat facevano immaginare un tradimento sessuale del proprio partner, rispetto ad un coinvolgimento sentimentale dello stesso con un’altra persona.

Se ci focalizziamo su questo esperimento vediamo un atteggiamento diverso da parte delle donne: in loro, infatti, non sembrava emergere un cambiamento significativo rispetto al tipo di stimolo, ovvero il loro livello di distress rimaneva alto allo stesso modo sia nel caso in cui erano esposte ad un messaggio che lasciava intendere una relazione sessuale, sia di fronte ad un messaggio che riportava un tradimento emotivo.

Ma le differenze delle risposte emotive tra uomo e donna non si esauriscono nelle caratteristiche del tradimento. Un altro aspetto che emerge tanto da questa ricerca quando dagli altri studi è il fatto che la reazione della vittima può dipendere anche dalla direzione del messaggio che viene letto: così le persone possono rispondere in maniera diversa nel caso in cui il messaggio trovato nella chat del proprio partner sia stato mandato ad una terza persona, oppure ricevuto.

Su questo punto le donne sembrano molto più sensibili degli uomini, in quanto tendono a reagire con un maggior livello di distress verso i messaggi ricevuti dal proprio partner, rispetto a quelli inviati dallo stesso. In tal caso, nel sentimento di gelosia provato sembrano entrare in gioco meccanismi che mettono in primo piano non il partner in sé quanto la terza persona del triangolo amoroso, la quale condivide lo stesso sesso della vittima e che, quindi, vestirebbe i panni della rivale. Negli uomini questa tendenza non sembra dominare nelle reazioni, tanto che gli studi di Buss (1992) e di Sagarin (2003; 2012) mostrano come l’uomo sia più orientato verso il proprio partner, pesando in maniera maggiore i messaggi mandati piuttosto che quelli ricevuti: anche l’esperimento di Dunn e Billett (2017) sembra andare in questa direzione, mostrando una maggiore differenza, anche se lieve, nei livelli di distress in risposta ad un messaggio inviato rispetto ad uno ricevuto dal proprio partner donna.

 

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