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Dialoghi tra Neuroscienze e Psicoterapia: una tavola rotonda degli esperti sulle applicazioni della TMS – VIDEO

I professionisti del Centro TMS hanno tenuto un incontro all’interno della serie “Dialoghi tra Neuroscienze e Psicoterapia” sulla Stimolazione Magnetica Transcranica, illustrandone le caratteristiche e le applicazioni in campo psicoterapico. Pubblichiamo per i nostri lettori il video dell’evento.

 

Il team del Centro TMS, formato da terapeuti, psichiatri e neuroscienziati, si è trovato in una tavola rotonda virtuale per conversare dell’uso della Stimolazione Magnetica Transcranica (TMS) e della sua integrazione con la psicoterapia. In questa intervista a più voci, la dott.ssa Patrizia Vaccaro, oltre a spiegare come funziona il centro TMS di Milano, ha condotto gli esperti a spiegare le basi della TMS, i campi in cui risulta più efficace, come si integra con la psicoterapia e la farmacoterapia.

L’incontro è stato un’occasione per conoscere più da vicino una delle tecniche di neuromodulazione che si sta facendo sempre più spazio nel trattamento di molti disturbi, come ad esempio la depressione e le dipendenze.

 

DIALOGHI TRA NEUROSCIENZE E PSICOTERAPIA
Guarda il video integrale del webinar:

 

 

 

Quanto i pensieri influiscono nella sfera sessuale del Disturbo Ossessivo Compulsivo?

Le ossessioni possono avere diversi contenuti: in questo articolo ci soffermeremo sui pensieri sessuali tipici di una persona con Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC) e sui vissuti relativi alla sessualità.

Matteo Mercadante – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Il Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC)

Nel DSM 5 viene descritto il Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC) come caratterizzato dalla presenza di ossessioni e compulsioni: le prime implicano pensieri, immagini o impulsi ripetitivi e persistenti vissuti come spiacevoli e involontari, e sono vissute come intrusive e indesiderate causando disagio e ansia elevati; le seconde sono dei rituali, comportamenti ripetitivi (es. lavare, controllare) o azioni mentali (es. contare, ripetere parole mentalmente) che la persona si sente obbligata a mettere in atto in risposta a un’ossessione o secondo regole che devono essere applicate rigidamente (APA, 2013).

Le ossessioni possono avere diversi contenuti: in questo articolo ci soffermeremo sui pensieri sessuali tipici di una persona che presenta un DOC.

La sessualità è un aspetto fondamentale per il benessere psico-fisico della persona. Attraverso la sessualità, l’individuo entra maggiormente in relazione con se stesso, conoscendosi ulteriormente e accettando parti di sé. Prendendo consapevolezza della propria sessualità, può sperimentarla con l’altro e creare un’intimità.

La vita sessuale della persona con DOC risulta scarsamente soddisfatta: l’eccessiva ossessione, il controllo sulle emozioni e la rigidità non consentono a questi soggetti di vivere a pieno la loro sessualità, limitandosi in tante situazioni.

Tipologie di pensieri ossessivi riguardo la sessualità

I pensieri ossessivi con contenuti sessuali sono ritenuti inaccettabili dalla persona, vissuti come ego distonici e dolorosi. La loro prevalenza è compresa tra il 6% e il 24% nei soggetti con DOC (Grant et al., 2006).

I contenuti di tali ossessioni sono di vario tipo:

  • Possono presentarsi sottoforma di dubbi, impulsi relativi al proprio orientamento sessuale. Le preoccupazioni relative all’orientamento sessuale rientrano nella più ampia categoria di ossessioni sessuali. Le ossessioni per l’orientamento sessuale includono ricorrenti dubbi sul fatto che si possa essere omosessuali o eterosessuali, la paura di diventare omosessuali o la paura che altri possano pensare di essere omosessuali. Una persona può avere solo una di queste preoccupazioni o una combinazione. Un paziente con ossessioni sull’orientamento sessuale potrebbe avere pensieri del tipo: ‘Come posso essere attratto dagli uomini se ho sempre amato le donne? Ho frequentato molte donne prima e non ho mai pensato a una relazione con un uomo. Pensare di fare atti sessuali con un membro dello stesso sesso mi respinge. Non posso essere gay. Ma perché penso sempre agli uomini? Questo significa che sono gay.’ (Williams e Farris, 2011);
  • Ossessioni sulla possibilità di mettere in atto comportamenti devianti nella sfera sessuale (es: poter essere aggressivi con il partner, avere impulsi di tipo pedofilico);
  • Paure inerenti lo sporco e la contaminazione;
  • Dubbi ossessivi sulla relazione e sul partner (es. pensare a delle relazioni extraconiugali implica, per il soggetto con DOC, averle avute e quindi tradire il partner);
  • Impulsi inaccettabili nei confronti della famiglia o di figure religiose (es. immagini sessuali nei confronti di un parente o di una figura religiosa).

I pensieri ossessivi con contenuto sessuale possono far emergere diversi vissuti come disgusto, ansia, colpa, paura e vergogna a causa delle loro implicazioni morali, sociali e interpersonali.

Tendenzialmente, la persona con DOC non tollera queste emozioni e cerca di attenuarle attraverso comportamenti compulsivi di vario tipo come, ad esempio, la ricerca di rassicurazione negli altri, oppure trovare informazioni riguardo al tema temuto o, ancora, controlli ripetuti del proprio grado di eccitazione sessuale di fronte agli stimoli temuti. Il DOC con dubbi sulla propria omosessualità potrebbe cercare di auto-rassicurarsi ripercorrendo mentalmente le situazioni attivanti per cercare delle prove del proprio timore come, ad esempio, analizzare mentalmente nel dettaglio tutti i gesti appena effettuati di fronte a una persona dello stesso sesso. Tali comportamenti di auto-analisi possono essere visti anche in soggetti con altri tipi di ossessioni sessuali riguardanti bambini, familiari, ecc.

In uno studio di Siev e colleghi (2011) sono state esaminate le caratteristiche cognitive e cliniche associate alle ossessioni sessuali e hanno evidenziato la loro correlazione con le credenze riguardo l’importanza e il controllo dei pensieri e valutazioni immediatamente dopo specifiche intrusioni mentali indesiderate. Tali risultati dimostrano che gli individui con pensieri ossessivi di tipo sessuale sono angosciati dalla presenza e dal significato dei pensieri in sé.

Credenze circa i pensieri sessuali e ai comportamenti

Per quanto riguarda le credenze riguardo ai pensieri e alle intrusioni, sono presenti delle ‘credenze di fusione’ denominate da Wells, il quale determina tre domini di tali meta credenze (Wells, 2018):

  • Fusione Pensiero-Evento (Thought-event fusion, TEF) ossia credere che avere un pensiero intrusivo significhi che un evento si sia verificato o si verificherà. Ad esempio, se è presente il pensiero intrusivo di baciare una persona dello stesso sesso, può portare a credere che il solo pensarlo potrebbe significare di essere omosessuale o di poterlo diventare;
  • Fusione Pensiero-Azione (Thought-action fusion, TAF) cioè credere che i pensieri intrusivi, le sensazioni e gli impulsi abbiano il potere di far fare al soggetto qualcosa di non desiderato o sgradevole. Per esempio, avere l’immagine mentale di essere aggressivi con il proprio partner durante un rapporto sessuale può essere interpretato come qualcosa che accadrà e quindi il soggetto crede che compierà quell’azione;
  • Fusione Pensiero-Oggetto (Thought-object fusion, TOF) ossia credere che i pensieri e gli impulsi negativi possono essere trasferiti sugli oggetti, diventando più ‘reali’ e dannosi, oppure capaci di trasferirsi da un oggetto all’altro. Ad esempio, un individuo che pensa di poter essere un pedofilo mentre utilizza un rasoio, è convinto che tale pensiero possa trasferirsi sul rasoio stesso e quindi, in futuro, usarlo potrebbe aumentare il rischio di diventarlo per davvero.

Le credenze riguardo il bisogno di mettere in atto i rituali e i comportamenti neutralizzanti, riflettono solitamente l’importanza di controllare pensieri, impulsi e sensazioni come l’ansia (es. ‘Devo controllare la mia eccitazione, altrimenti l’ansia non diminuirà mai!’). Inoltre, sono presenti quando l’individuo ha bisogno di autoregolarsi mentalmente e fisicamente (es. ‘Devo mantenere uno stato mentale di calma per non avere quelle immagini violente mentre faccio sesso con la mia ragazza’).

Le credenze inerenti ai rituali rappresentano un livello metacognitivo che guida le risposte di coping con lo scopo di raggiungere uno stato ‘desiderato’, identificato con la ‘giusta’ messa in atto di comportamenti neutralizzanti.

I pensieri intrusivi diventano pericolosi per la persona con DOC a causa delle metacredenze legate a essi: l’individuo, quindi, cerca di valutare la pericolosità o meno della situazione senza dei fatti concreti e affidandosi a dei segnali interni, definiti ‘segnali di arresto’, che servono per interrompere i rituali: ad esempio, un soggetto con dubbi ossessivi sul suo orientamento sessuale, potrebbe smettere di controllare i gesti effettuati davanti a un’altra persona dello stesso sesso quando per cinque minuti non ha avuto pensieri intrusivi sulla sua sessualità. Tali segnali, tuttavia, sono difficili da soddisfare e ciò implica nuove intrusioni mantenendo attivo lo stress (Ibidem, 2018).

Vivendo in uno stato di ansia, il soggetto tenderà a interpretare erroneamente le proprie sensazioni fisiologiche e le attribuirà non al fatto che possa sentirsi ansioso, ma al fatto che possa essersi attivata una certa eccitazione sessuale, confermando ulteriormente i propri dubbi ossessivi. L’ansia, se prolungata nel tempo, può diventare molto invalidante per la persona, arrivando anche ad evitare tutta una serie di situazioni o stimoli attivanti: persone, luoghi, i pensieri stessi, ecc. Tali limiti influiscono significativamente compromettendo il funzionamento dell’individuo in diversi ambiti, tra cui quello legato alla sfera sessuale, provocandone un notevole disagio.

Alcuni autori (Albert et al., 2019) hanno esaminato vari studi in cui sono stati rilevati i fattori associati al rischio di suicidio nel DOC per identificare i predittori di suicidalità: tra quelli più significativi vi sono la gravità del DOC e la dimensione sintomatica dei pensieri inaccettabili (come aggressioni sessuali, religiose, ecc.).

In terapia è fondamentale intervenire sulle credenze metacognitive relative alle intrusioni e alle credenze inerenti i rituali e segnali di arresto (Wells, 2018): modificando tali credenze e rinforzando nuovi piani metacognitivi di elaborazione, la persona non percepirebbe più come pericolosi e inaccettabili i pensieri intrusivi e, di conseguenza, potrebbe permettersi di vivere più serenamente la sua vita sessuale.

 

Psicologia del tradimento: la natura dell’infedeltà

Viviamo in un periodo storico ipocrita e paradossale: da un lato la società ci propone e ci indirizza verso una sessualità svincolata da ogni tabù, dall’altro ci mortifica e fa vergognare del tradimento, anzi se solo osiamo ‘pensare’ di tradire.

 

Come si definisce quella situazione in cui una persona giura amore ad un’altra persona, garantendole fedeltà per tutta la vita?

Monotonia.

Scusate, piccolo lapsus freudiano: volevo dire monogamia.

Quando ho comunicato a mia moglie che avrei scritto un articolo sul tradimento, mi ha risposto sorridendo: «Ti verrà facile! Per natura tu sei infedele!».

Nella speranza si riferisse alla mia mania di abbandonare operatori telefonici a cui fino ad un attimo prima spergiuravo amore eterno per poi puntualmente tradirli con la più giovane e nuova compagnia che fa irruzione sul mercato, ho istintivamente (o forse sarebbe meglio dire difensivamente?) elaborato il seguente pensiero:

Ma in fondo, per natura, non siamo tutti un po’ infedeli?

L’uomo, infatti, è alla costante ricerca di piacere, di bellezza, di sensualità, di attrazione, di fantasia, di pulsione, di voglie, di novità.

Sono sensazioni che proviamo tutti, ma poiché siamo impegnati nella nostra salda e duratura relazione sentimentale, crediamo di non poter desiderare altro essere umano al di fuori del partner e le volte in cui riusciamo ad ammettere l’attrazione verso il nuovo collega appena assunto, dobbiamo aggrapparci ad una plausibile giustificazione per la nostra castigata e bigotta coscienza che molto spesso è di questo tenore:

Se ho voglia di lui/lei, significa che qualcosa non va nel mio attuale rapporto‘.

Sigmund Freud sottolineava come tutte le fissazioni, dopo un po’ di tempo, diventino inevitabilmente un disturbo della psiche; in pratica se desidero qualcosa e la mia natura istintivamente mi sprona a conquistarla, sono frenato dalla (dannata) mente che mi ricorda quanto sia riprovevole questo mio istinto, quanto queste pulsioni non siano socialmente accettabili e inoltre mi ricorda quanto dolore infliggerei a mia madre se venisse a sapere che, nonostante tutti i suoi sforzi, ha cresciuto un figlio fedifrago e lussurioso.

Nel film appena descritto, i protagonisti siamo noi ma il copione l’ha redatto integralmente la nostra mente.

Se così non fosse perché nonostante tutti i tentativi di reprimerla, questa strana ‘voglia’ la continuiamo a provare?

Viviamo in un periodo storico ipocrita e paradossale: da un lato la società ci propone e ci indirizza verso una sessualità svincolata da ogni tabù, dall’altro ci mortifica e fa vergognare se osiamo tradire, anzi se solo osiamo ‘pensare’ di tradire.

In realtà, credo che la questione sia abbastanza semplice anche se dura da accettare: siamo tutti destinati ad annoiarci delle cose e delle persone che abbiamo accanto, e il vero dramma è che la noia subentra a prescindere dalla bellezza o dal valore che diamo a ciò che possediamo.

È lo stesso principio che ha permesso all’umanità di evolversi perché l’infinito desiderio dell’uomo di spingersi oltre ogni suo limite e lottare per conquistare un mondo nuovo esiste solo perché quello vecchio… lo conosce già.

Noi trattiamo così male il nostro pianeta perché ci siamo abituati e, diciamolo, anche un po’ stufati della sua bellezza che diamo ogni giorno per scontata.

Sapete che cosa hanno in comune Uma Thurman, Victoria Beckham, Siena Miller, Jennifer Garner e la top model Jarry Hall, oltre ad essere state nominate tra le donne più belle dell’universo?

Sono state tutte tradite dal rispettivo compagno con la babysitter di turno che, mentre si occupava dei loro figli, contemporaneamente si occupava anche dei loro mariti.

Quello che voglio dire è che non ha importanza se stai frequentando Scarlett Johansson; tra un po’ di tempo, lei non ti ecciterà più come il primo giorno e lo so che adesso lo ritieni impossibile ma è solamente perché non la stai frequentando per davvero, Scarlett Johansson.

Eccola quindi la realtà, in tutta la sua crudeltà: è la nostra natura, è il nostro istinto primordiale che a volte riusciamo a non ascoltare fino a non renderci nemmeno conto che proviamo nuove pulsioni, che a volte riusciamo a reprimere anche se il nostro caro inconscio prima o poi le farà riemergere sotto qualche altra forma, e che a volte predominano in tutta la loro travolgente spiazzante naturalezza.

Non possiamo, perciò, decidere autonomamente di provare attrazione verso un’altra persona.

Possiamo, però, scegliere di non farlo diventare un problema.

Siamo più di 7 miliardi su questo pianeta, non è un po’ esagerato tormentarsi moralmente, riempirsi di sensi di colpa, avere rimorsi di coscienza, mettere in discussione la nostra relazione e in alcuni casi addirittura tutta la vita, solo perché proviamo una qualche forma di desiderio spesso non ancora ben definibile nei confronti di un altro essere umano?

Come sostiene la geniale psicoterapeuta Esther Perel nel libro Così fan tutti, le storie clandestine che sopravvivono una volta uscite allo scoperto, sono statisticamente pochissime.

Ma come? Da una relazione per la quale è stato messo a rischio così tanto, ci si aspetterebbe una maggiore resistenza e invece quando arriva la separazione o il divorzio, quando cioè il sublime si mescola con l’ordinario e il rapporto entra nel mondo reale fatto del ‘tocca a te fare i piatti’ e dell”abbassa la tavoletta’, tutto finisce per magia.

L’incantesimo svanisce perché troppo spesso ricercando lo sguardo altrui non è solo dal nostro partner che ci stiamo allontanando, ma anche dalla persona che siamo diventati.

Non è solo un altro essere umano che ci provoca pulsioni, ma è anche il nuovo contesto fatto di segretezza, di trasgressione, di incertezza, di indeterminazione, di fisicità che ancora non conosciamo a memoria e del fatto di non sapere se e quando avverrà il prossimo clandestino incontro.

Noi cerchiamo un altro amante quanto un’altra versione di noi stessi, perché questo ci consentirebbe di poter dare giusto una ‘piccola occhiata’ alla parte sconosciuta che è dentro di noi, che ci spaventa e affascina allo stesso tempo.

Freud rimarcherebbe il nostro eterno essere bambini: non possiamo avere l’amante perché sappiamo che è sbagliato… ed è proprio per questo che lo vogliamo ancora di più!

Dal punto di vista biologico, quando siamo attratti da qualcuno, il nostro cervello genera degli ormoni responsabili dell’aumento della pulsazione, della pressione sanguigna e della voglia sessuale. Questi ormoni, oltre a danzare come Nureyev liberamente per tutto il nostro corpo, stimolano l’ipofisi che a sua volta produce ossitocina e fa venire voglia alle persone che si piacciono di fare sesso.

Anzi, spesso la voglia viene solo ad una parte (generalmente l’uomo), se l’altra parte non corrisponde la pulsione (generalmente la donna).

In questa adrenalinica situazione il nostro corpo è alterato, per cui è naturale che dopo un po’ i livelli fisiologici siano destinati a calare e a stabilizzarsi ma non è altro che una reazione del nostro organismo che, per tutelarci, ci riequilibra a valori ordinari.

Noi, però, che commettiamo da sempre il madornale errore di equiparare la quotidianità alla banalità, lo consideriamo un primo preoccupante calo dell’innamoramento.

Nel libro Matrimonio e morale del 1929, il filosofo Bertrand Russell, sottolinea come «la Psicologia dell’adulterio è falsata dalla morale convenzionale che nei paesi monogami, l’attrazione per una persona non possa coesistere con il serio affetto per un’altra. Tutto questo è falso».

Non erano nemmeno gli anni ‘30 e già il concetto di monogamia vacillava.

A pensarci bene, però, in fondo il dogma della monogamia è presente nella nostra natura.

Forse abbiamo sempre dato per scontato che dovesse essere quella fisica, mentre in realtà concetti di unicità e fedeltà si sposano molto meglio con la monogamia… sentimentale.

Per amore della rosa, si sopportano anche le corna recita un famoso proverbio in cui si respira tutta la saggezza popolare.

Ah no, scusate. Si sopportano anche le spine, non le corna.

Maledetti lapsus freudiani!

L’arte di riparare un cuore (2020) di Duccio Baroni – Recensione

L’arte di riparare un cuore risulta un libro intelligente e agile, nel quale l’autore, racconta e supporta il processo di elaborazione del lutto relativo alla perdita di una relazione significativa..

 

Può accadere lentamente, come una candela che si spegne, o inaspettatamente, come un’esplosione. In entrambi i casi ciò che resta sono ceneri e macerie.

La fine di una relazione è un’esperienza umana dolorosa, che può causare una sofferenza acuta, totalizzante, difficile da fronteggiare. Baroni, ne L’arte di riparare un cuore, conduce con gentilezza il lettore lungo un percorso di accettazione delle emozioni sgradevoli connaturate alla fine di un amore, normalizzandole e contestualizzandole in una cornice funzionale: quel dolore ha un senso, un significato che, se accolto ed elaborato, può permetterci di rifiorire con ritrovata vitalità. E, se rialzarsi ‘tra le macerie’ di ciò che è stato è uno sforzo simile a quello di attraversare un bosco oscuro (in assenza di energie e senza alcuna indicazione sulle strade da prendere), ‘l’arte di riparare un cuore’ può fungere da guida per orientare il proprio cammino verso l’uscita.

Lo diviene offrendo una serie di strumenti utili a ‘puntellare’ il percorso di risalita, tra i quali le tecniche di grounding, l’acceptance degli stati emotivi, la respirazione diaframmatica, la self compassion, la mindfulness, il rilassamento muscolare progressivo. Tra le pagine, il lettore è piacevolmente stimolato da attività ed esercizi, adatti per praticare con immediatezza la teoria.

Nel complesso, L’arte di riparare un cuore risulta un libro intelligente e agile, nel quale l’autore, pur utilizzando un linguaggio che risulta familiare ai terapeuti cognitivo-comportamentali, racconta e supporta, con leggerezza e semplicità, il processo di elaborazione del lutto relativo alla perdita di una relazione significativa.

A partire dal superamento della fase iniziale, la negazione, il percorso tracciato da Baroni è ricco di spunti, strategie ed indicazioni: far saltare i ponti col passato, prendersi amorevolmente cura di sé, creare una valida rete di supporto, fronteggiare le tempeste emotive, comprendere e dare significato alla rottura della relazione, riconoscere i propri schemi disfunzionali per imparare a costruire relazioni più soddisfacenti.

 

L’arte dell’influenza: quando e perché gli artisti che deviano dalle regole hanno un impatto maggiore

Mentre alcuni artisti raggiungono la fama, altri cadono nell’oblio (Stamkou et al., 2018). Che cosa determina l’impatto che un artista e la sua arte possono avere?

 

Gli uomini che vengono ricordati secoli dopo la loro morte, in gran parte sono artisti. Pittori come Monet sono considerati dei geni al giorno d’oggi, eppure furono criticati duramente dai loro contemporanei per aver violato norme legate alla bellezza (Stamkou et al., 2018). Prendendo in considerazione un punto di vista psicologico, le deviazioni dalle norme prevalenti rappresentano una vera e propria sfida per lo spettatore perché rendono più difficile la comprensione del significato di un’opera d’arte, smorzando così la sua fluidità a livello visivo (Koffa, 1935; Landau et al., 2006; Schwarz et al., 2004; Reber et al., 1998; Rosch, 1975). Sia nel settore sociale che in quello artistico, ci si aspetta che le persone preferiscano modelli che si conformino maggiormente alle norme e alle aspettative implicite culturali. Di conseguenza, le idee che violano le aspettative culturali e le persone che violano le norme sono trattate con sospetto e vengono scoraggiate (Mueller et al., 2012; Okimoto e Brescoll, 2010) in quanto rappresentano una minaccia per gruppi e società ben funzionanti (Heerdink et al., 2013; Jetten e Hornsey, 2014; Jonas et al., 2014; Proulx et al., 2010; Van Kleef et al., 2015).

Per devianza artistica si intende una compromissione dell’impatto visivo di un’opera, dovuta a stimoli inaspettati che sono più difficili da elaborare e da comprendere (Koffka, 1935; Landau et al., 2006; Reber et al., 1998, 2004; Rosch, 1975). Nelle teorie di percezione visiva, il mantenimento della percezione di stimoli previsti richiede meno risorse cognitive, di conseguenza genera un effetto maggiormente positivo (de-Wit, Machilsen e Putzeys, 2010). Artisti che si discostano dalle norme culturali hanno maggiori probabilità di evocare emozioni negative come colpa e rabbia (Helweg-Larsen e LoMonaco, 2008; Kam e Bond, 2009; Ohbuchi et al., 2004), rischiando di perdere la loro posizione nell’ambito artistico (Yukl, 2010).

Nel campo artistico, le preferenze predicibili erano legate a stimoli riguardanti colori (Martindale e Moore, 1988), mobili (Whitfield e Slatter, 1979), dipinti (Farkas, 2002) ed esempi di categorie semantiche (Martindale et al., 1988).

Al di fuori del dominio artistico, la ricerca sulla devianza può contribuire all’influenza in circostanze particolari (Stamkou et al., 2018): deviare dalla norma indica lo sperimentare il ‘margine di manovra per agire secondo il proprio, nonostante i vincoli e le potenziali ripercussioni’ (Stamkou e Van Kleef, 2014). Dato che il potere sociale è associato alla mancanza di vincoli (Galinsky et al., 2003; Keltner et al., 2003), individui che assumono un comportamento apparentemente non vincolato da pressioni normative può essere percepito come potente (Stamkou et al., 2018). I nuovi movimenti artistici non emergono dal vuoto: ad esempio la teoria di Hollander, 1958 spiega come all’interno di un gruppo un individuo possa deviare dalle vecchie pratiche dopo aver acquisito fiducia nel gruppo sociale, cioè dopo aver dimostrato di essere in grado di seguire le norme già in essere per sviluppare in seguito nuove norme (Bray et al., 1982; Stone e Cooper, 2009). Nello specifico, si parla di devianza intrapersonale quando ci si riferisce alla tendenza evolutiva umana che spinge il singolo individuo a volersi distinguere dagli altri (Burris e Rempel, 2004).

Differenti ricerche dimostrano come le informazioni vengono memorizzate in un modo migliore quando sono distinte da altre (Leyens et al., 1997), mentre sentimenti di estrema somiglianza sono associati a effetti negativi in termini mnestici (Fromkin, 1972). La somiglianza può portare ad una valutazione positiva delle esperienze scarse e ad una maggiore identificazione con i gruppi distintivi (Brewer e Pickett, 1999; Stamkou et al., 2018).

Stamkou e colleghi (2018) svilupparono un modello teorico cercando di spiegare come gli artisti che si discostano dalle norme guadagnano un impatto maggiore a livello sociale, cercando di rispondere a 1) perché le opere artistiche visive spesso deviano dalle norme artistiche prevalenti della loro epoca, e 2) in che modo gli artisti devianti ottengono un riconoscimento e hanno un impatto duraturo (Stamkou et al., 2018).

Gli autori hanno presentato a dei soggetti differenti immagini: nel primo studio è stato dimostrato come nelle culture occidentali sono considerati maggiormente progressivi gli stili non realistici rispetto a quelli realistici. Altri 5 studi, svolti su due stili differenti di devianza artistica, forniscono prove dei vari effetti a livello di impatto (ad esempio, l’influenza percepita dell’artista, la valutazione dell’opera d’arte e l’attenzione visiva all’opera d’arte).

Nel secondo studio di Stamkou e colleghi (2018) emerge come gli individui consideravano gli artisti che si discostavano dal loro stile precedente in modo diverso rispetto agli artisti che seguivano costantemente un unico stile. Tali effetti sono evidenti anche nel terzo studio dove un impatto più forte si verifica quando gli artisti passavano da uno stile retrogressivo a uno progressivo. Gli artisti che deviavano dallo stile dei loro contemporanei erano considerati di maggiore impatto rispetto agli artisti che seguivano il filone predominante, inoltre l’impatto era maggiore se gli artisti abbandonavano uno stile regressivo attraverso l’utilizzo di strumenti progressivi (Stamkou et al., 2018). Infine, quando il contesto storico ha impedito agli osservatori di dedurre lo sviluppo dei mezzi espressivi utilizzati dagli artisti, la devianza artistica ha aumentato l’impatto percepito indipendentemente dai mezzi utilizzati con cui gli artisti hanno deviato le norme culturali.

Religione e Attaccamento a Dio tra i detenuti

Il presente studio si propone di indagare il rapporto tra religiosità (intrinseca ed estrinseca) e disimpegno morale nelle persone detenute e condannate. Mira inoltre a verificare se il tipo di attaccamento interpersonale è collegato al tipo di attaccamento a Dio e, infine, intende indagare se esiste una connessione tra la religiosità e l’attaccamento adulto.

 

In letteratura, molti studi hanno analizzato le credenze e gli atteggiamenti religiosi in gruppi di persone che vivono in contesti estesi o in istituzioni totalitarie (ad esempio, le carceri). In questi studi, la religione era a volte considerata dai detenuti come un utile strumento di adattamento, una forma di socializzazione e supporto (Eshuys & Smallbone, 2006).

La letteratura psicologica distingue tra l’attaccamento a Dio e religiosità (Pace, Zappulla, & Di Maggio, 2016). Il primo costrutto è legato al legame figurativo con il divino, a cui è richiesto sostegno e supporto (Kirkpatrick & Shaver, 1992); la religiosità è un costrutto che promuove l’azione sociale (Allport & Ross, 1967). Gli stili di attaccamento a Dio, vengono concettualizzati sulla base del modello proposto da Bowlby (1969, 1973): Dio può agire come base sicura, come figura in grado di fornire sostegno, rassicurazione, bisogno di protezione e fonte di aiuto in situazioni stressanti, può rappresentare un luogo sicuro per depositare speranze, paure, desideri e problemi con la sensazione di essere accolti, ascoltati e consolati (Kirkpatrick & Shaver, 1992; Pace, Cacioppo, & Schimmenti, 2011). Lo studio condotto da Kirkpatrick e Shaver (1992) ha mostrato come il rapporto di una persona con Dio possa assumere la forma di un rapporto di attaccamento simile a quello che si riscontra tra il bambino e la figura di accudimento primaria (sicuro, evitante o ambivalente). Per quanto riguarda la religiosità, Allport (1961), spiegando quei meccanismi che a volte sono giustificati dalla religione (ad esempio, il pregiudizio, la bontà, la tolleranza, ecc.), ha sottolineato l’esistenza di due dimensioni della religiosità: intrinseca e estrinseca. Una persona che ha una forte religiosità estrinseca si rivolge a Dio senza allontanarsi da se stesso, permette alle persone di usare la religione per i propri scopi e bisogni, migliorando la fiducia in se stessi. Tuttavia, le credenze religiose sono abbracciate selettivamente in maniera da essere coerenti con i propri bisogni personali. La religiosità intrinseca aiuta a soddisfare i bisogni di sicurezza, affermazione sociale e autostima (Passanisi, Craparo, & Pace, 2017). Questo tipo di religiosità, vissuta in profondità, considera la fede come un valore in sé, trascende gli interessi personali e implica impegno e sacrificio. La religiosità intrinseca motiva la persona a perseguire una vita religiosa coinvolta e impegnata, essa porta le persone a trovare nella fede una delle principali ragioni di vita (Fizzotti, 2008). Un importante studio condotto da Koenig (1995), condotto su gruppi di detenuti, ha inquadrato la religione intrinseca come un fattore rilevante per l’adattamento e di promozione dell’azione sociale. Al contrario, il disimpegno morale può essere collegato all’uso strumentale della religione. Il disimpegno morale, infatti, rappresenta un meccanismo di auto-regolazione volto ad allontanare il senso di colpa in seguito ad un’azione che viola i valori interni ed etici (Bandura, 1999). In particolare, per i trasgressori, è possibile che alcuni costrutti sociali (ad esempio, le credenze) possano essere considerati fattori di rischio per il disimpegno morale perché possono influenzare il pensiero secondo cui l’azione deviante può essere giustificata. Pertanto, in linea con Kirkpatrick (1997), che ha suggerito che la costruzione della religiosità dovrebbe includere anche credenze, valori ed esperienze spirituali, e in linea con la letteratura che ha considerato la religione come un agente di controllo sociale (Durkheim, 1951), il presente studio: (1) si propone di indagare il rapporto tra religiosità (intrinseca ed estrinseca) e disimpegno morale nelle persone detenute e condannate; (2) mira a verificare se il tipo di attaccamento interpersonale è collegato al tipo di attaccamento a Dio; infine, (3) mira a verificare se esiste una connessione tra la religiosità e l’attaccamento adulto.

I partecipanti allo studio sono stati 30 giovani adulti volontari reclutati negli istituti penitenziari italiani. La Moral Disengagement Scale (MDS; Caprara, Barbaranelli, Vicino, & Bandura, 1996), composta da 32 item divisi in 8 sottoscale, ha permesso di valutare gli 8 meccanismi di disimpegno morale individuati da Bandura (1986): giustificazione morale, etichettamento eufemistico, confronto vantaggioso, spostamento di responsabilità, diffusione di responsabilità, ignorare o distorcere le conseguenze, la disumanizzazione e l’attribuzione di colpe. La Attachment to God Inventory (AGI; Beck & McDonald, 2004), composta da 28 items ha permesso di valutare due dimensioni dell’attaccamento a Dio: l’ansia per l’abbandono (es. ‘Mi preoccupo molto del mio rapporto con Dio’) e evitamento dell’intimità (es. ‘Non sento un profondo bisogno di essere vicino a Dio’). La Revised Intrinsic/Extrinsic Religious Orientation Scale (ROS I-E/R; Gorsuch & McPherson, 1989), ha valutato la religiosità estrinseca (es. ‘Prego principalmente per l’aiuto e la protezione’) e quella intrinseca (es. ‘E’ importante per me trascorrere del tempo in meditazione e preghiera’) per mezzo di 14 items. Infine, l’Attachment Style Questionnaire (ASQ; Fossati et al., 2003), costituito da 40 items, ha permesso di valutare 5 dimensioni dell’attaccamento adulto, attraverso 5 scale: Fiducia/Fedeltà, Disagio per l’intimità, Necessità di approvazione, Preoccupazione della relazione, Secondarietà della relazione.

Dai risultati è emerso che bassi livelli di religiosità intrinseca spiegano alti livelli di disimpegno morale. In altre parole, le persone che hanno una fede autentica e profonda non sono abituate a usare meccanismi che le aiutano a liberarsi dalle regole sociali. Probabilmente, gli autori di crimini, che hanno avuto la possibilità di riflettere sulle loro azioni durante la prigionia, aiutati anche dalla loro religiosità, hanno capito che non era più necessario utilizzare meccanismi che giustificassero le loro azioni devianti. Inoltre, dai risultati è emerso che la scala ‘Preoccupazione della relazione’, che indica una tendenza all’attaccamento interpersonale ansioso e ambivalente, predice un attaccamento evitante a Dio. E’ possibile che questo stile di attaccamento possa portare una persona a sviluppare un timore di abbandono, così come sentimenti di sfiducia. Tuttavia, questi sentimenti possono portare una persona a sviluppare modelli operativi interni basati sull’evitamento e sulla diffidenza nei confronti di altre possibili figure di attaccamento. La Scala ‘Secondarietà per la relazione’, che indica una tendenza all’attaccamento disorganizzato, predice negativamente la religiosità intrinseca e positivamente la religiosità estrinseca. Queste persone hanno un’adeguata fiducia in se stessi, ma sono inclini a svalutare le relazioni, ad evitare l’intimità e sono disinteressate alle opinioni altrui; preferiscono sentirsi meno coinvolti perché non vogliono rimanere troppo invischiati nelle relazioni interpersonali. Infatti, le relazioni intime sono spesso carenti di vicinanza e di comunicazione. Pertanto, è possibile che una persona che già non è incline al coinvolgimento affettivo interpersonale non senta il bisogno di manifestare una forte religiosità e quindi un profondo legame con la fede (religiosità intrinseca). Tuttavia, l’autore del reato, per mantenere un’immagine positiva di se stesso, per cercare di mantenere un legame, e per sentirsi protetto e/o aiutato, può ricorrere alla religiosità estrinseca, che è ciò che la persona spesso ‘sfrutta’ per soddisfare la sua esigenza (Allport & Ross, 1967).

Il presente studio suggerisce che la religiosità, l’attaccamento a Dio e l’attaccamento interpersonale sono costrutti legati l’uno all’altro. Inoltre, questo studio sottolinea che è importante prestare attenzione all’autore del reato, che a volte viene dimenticato nelle carceri, per capire come il suo funzionamento mentale cambia nel corso della sua detenzione, così come i fattori protettivi a cui si aggrappa durante l’adattamento.

L’esperienza della malattia cronica nel paziente con Sclerosi Multipla: dall’accettazione della diagnosi all’impatto dell’emergenza sanitaria

In un recente studio (Motolese et al., 2020) che puntava ad esplorare l’impatto dell’epidemia da Covid-19 sulla salute mentale di un gruppo di pazienti italiani affetti da Sclerosi Multipla, è emersa una ricaduta significativa su questi pazienti rispetto ai controlli.

 

Che cosa significa convivere con una malattia neurodegenerativa? Che cosa mi aspetta? Quanto e come cambierà la mia vita? Queste e tante altre possono essere le domande che si pone una persona a cui viene diagnosticata la Sclerosi Multipla (SM), malattia sempre più diffusa che conta 2,8 milioni di persone affette nel mondo di cui 126.000 in Italia (www.aism.it). La malattia si manifesta spesso in giovane età esordendo in genere tra i venti e i quarant’anni, ed è la prima causa di disabilità non traumatica tra i giovani adulti (Bianconi et al., 2006) Questo implica, da parte dei pazienti, la necessità di riadattarsi alla vita con la consapevolezza di una nuova realtà fatta di limiti, ma anche di scoperte su se stessi e sulle proprie capacità di affrontare il cambiamento.

È una malattia fortemente caratterizzata dall’imprevedibilità, infatti, pur avendo dei sintomi comuni, ciascuno sperimenta la propria patologia con andamento ed esperienze diversi. Questo aspetto è legato alla natura stessa della Sclerosi Multipla in quanto malattia autoimmune. In altre parole, le cellule del sistema immunitario attaccano il Sistema Nervoso Centrale (SNC) causando un’infiammazione che porta alla demielinizzazione degli assoni con conseguente rallentamento nella conduzione degli impulsi nervosi (Bertolotto, Caricati, 2013). La perdita di mielina può verificarsi in diversi distretti del SNC – nervi ottici, cervelletto, midollo spinale, ecc.. – da qui l’eterogeneità della sintomatologia che può includere – tra gli altri – disturbi visivi, fatica cronica, alterazione della sensibilità, pesantezza o rigidità muscolare (spasticità), disturbi del movimento e della coordinazione, disturbi vescicali e cognitivi. In linea generale, sono state osservate alcune tipologie di decorso: nella forma recidivante-remittente si manifestano episodi di riacutizzazione dei sintomi seguiti da periodi di remissione parziale o completa; nelle forme progressive vi è un graduale peggioramento con accumulo di invalidità anche in assenza di ricadute (Bertolotto, Caricati, 2013). A tutto questo si aggiunge l’assenza di una cura definitiva. Ad oggi, le terapie esistenti hanno il solo scopo di rallentare la progressione della malattia, ma non di guarirla. Partendo da queste premesse si può immaginare quanto impegnative siano le sfide che chi riceve la diagnosi di SM si trova ad affrontare.

Nelle prime fasi dopo la diagnosi – che in alcuni casi si configura come un vero e proprio evento traumatico, uno shock che irrompe nella normalità della persona minacciandone la stabilità – molte sono le aspettative sulla malattia e su come cambierà la propria vita. La Sclerosi Multipla, sin dal suo esordio, ha quindi un forte impatto sul benessere psicologico – oltre che fisico – del paziente che si trova inaspettatamente a dover gestire una nuova condizione di vita, ben diversa da quella precedente alla diagnosi. Nel corso della malattia, la depressione si manifesta nel 50% dei pazienti con Sclerosi Multipla, ma è stata osservata anche la comparsa di un disturbo di adattamento associato alla diagnosi in quanto evento stressante. Nel tempo, possono manifestarsi reazioni ansiose e depressive e un sentimento di paura legato alla possibile perdita di funzioni motorie, sensoriali e cognitive, nonché della propria autonomia (Capone, 2019). Al suo esordio, la patologia si scontra inoltre con le priorità di un giovane nella fase più produttiva della vita, con conseguenze sulla sfera personale, relazionale, sociale, lavorativa. Cambiamenti rilevanti possono avvenire sul piano delle relazioni, in famiglia o con il proprio partner, dove possono emergere difficoltà nel comprendere a vicenda il rispettivo stato emotivo. Il paziente, così come i familiari, possono difendersi mettendo in atto una vera e propria negazione del problema, rifuggendo o minimizzando tutto ciò che riguarda la malattia. Un’ulteriore fonte di stress è rappresentata dal cambiamento dell’immagine di sé che la persona affronta nel momento in cui deve fare i conti con una condizione dalla prognosi imprevedibile che intacca la visione del proprio futuro nonché la percezione del proprio ruolo di adulto. Questo clima di incertezza può condizionare anche la pianificazione della vita lavorativa. Se per ogni giovane adulto costruire il proprio futuro nel mondo del lavoro è un compito arduo, per una persona con SM può essere doppiamente faticoso. Si deve tenere conto dei limiti oggettivi imposti dalla malattia, della fatica cronica, delle eventuali discriminazioni che – sfortunatamente – si possono incontrare ancora oggi in un contesto lavorativo.

Nel tempo, con il giusto impegno e supporto, si impara a conoscere la malattia e le sue caratteristiche e, con un approccio centrato sul problema, si apprendono strategie utili alla gestione di questa nuova condizione. Ognuno di noi, infatti, è dotato di sottili meccanismi che hanno il compito di consentirci il miglior adattamento possibile ai cambiamenti che intervengono nella realtà. In situazioni impreviste e difficili ci avvaliamo di strategie cognitive e comportamentali, le cosiddette strategie di coping, in grado di aiutarci nel far fronte ad una situazione stressante. Il coping si rivela fondamentale nel determinare il tipo di risposta dell’individuo alla malattia cronica (Goretti, 2013). Le caratteristiche di personalità del soggetto e alcuni elementi della rappresentazione mentale della malattia contribuiscono a determinare l’utilizzo di una specifica strategia di coping piuttosto che di un’altra (Bianconi et al., 2006).

Alla luce di queste osservazioni, è possibile affermare che convivere con una malattia come la Sclerosi Multipla significa dover fare un continuo sforzo di adattamento ad una realtà in perenne mutazione. Non è possibile parlare di semplice accettazione della malattia, si deve tenere conto delle infinite sfumature della patologia che si mescolano con le altrettante sfaccettature che caratterizzano ogni persona rendendo unica la sua risposta al cambiamento. Il lavoro su se stesse che le persone con Sclerosi Multipla devono affrontare è un lavoro senza fine proprio perché la malattia, dopo il suo esordio, diventa una compagna fissa e pone continue richieste che si accompagnano spesso ad un considerevole carico emotivo.

Volgendo l’attenzione all’attualità, si può immaginare come la situazione di emergenza sanitaria in corso abbia avuto un impatto significativo sulle persone affette da Sclerosi Multipla e, più in generale, su tutti i pazienti con malattie croniche. L’avvento del Covid-19 ha avuto ricadute importanti su molti aspetti della vita di questi pazienti, a partire dalle limitazioni nell’accesso alle strutture ospedaliere e di cura – dove una persona con Sclerosi Multipla si reca con cadenza programmata per controlli, visite e terapie – alla crescente difficoltà nella fruizione dei servizi riabilitativi fondamentali nel garantire a molti una migliore qualità della vita. L’inattività può infatti contribuire ad aggravare la spasticità o comportare indebolimento muscolare, influendo negativamente sul benessere fisico della persona (Mendozzi, 2020). Anche sul piano emotivo e psicologico l’esperienza della pandemia ha portato con sé diversi vissuti. Nello specifico, in un recente studio (Motolese et al., 2020) che puntava ad esplorare l’impatto dell’epidemia da Covid-19 sulla salute mentale di un gruppo di pazienti italiani affetti da Sclerosi Multipla, comparati alla popolazione generale, è emerso come il diffondersi dell’epidemia da SARS-Cov-2 abbia avuto una ricaduta significativa su questi pazienti. Gli stessi riferivano infatti una maggiore presenza di sintomi depressivi, scarsa qualità del sonno e un’aumentata percezione dei livelli di fatica, sintomo della Sclerosi Multipla fortemente invalidante. In un altro studio, Stojanov et al. (2020) hanno indagato lo stato psicologico di un gruppo di soggetti con Sclerosi Multipla recidivante-remittente facendo emergere – tra gli altri risultati – una serie di preoccupazioni sulla malattia da parte dei pazienti; queste riguardavano la paura di contrarre l’infezione e che questa potesse peggiorare la propria condizione pre-esistente, il timore di non riuscire a reperire i farmaci o di non potersi recare in ospedale come da abitudine. Tali osservazioni rappresentano senz’altro un punto di partenza per una nuova sfida che coinvolge pazienti, personale sanitario e professionisti della salute mentale.

Tutte queste informazioni ci dicono anche che quello della malattia cronica è un quadro complesso; lo è sempre stato e lo diventa ancora di più in un tempo come quello che stiamo vivendo. Per questo motivo, in un’ottica più ampia, l’esperienza della malattia cronica apre importanti riflessioni. Essa ci pone davanti alle imperfezioni e ai limiti entro i quali si realizza la nostra esistenza, limiti che appartengono a tutti – ma spesso ignorati – che il malato cronico testimonia con le sue difficoltà quotidiane, facendoci riflettere sul modo in cui ci approcciamo al mondo, alla sofferenza e su come guardiamo al futuro; il malato cronico è colui che sperimenta quotidianamente i vincoli della condizione umana, ma al tempo stesso ci mostra come sia possibile vivere anche in presenza di importanti limitazioni e, perfino, trasformare i momenti di difficoltà in opportunità di sviluppo e realizzazione personale (Bonino, 2019).

 

Il nurturing touch come strumento di relazione nella demenza grave

Difficoltà comunicative e senso di impotenza sono ostacoli spesso lamentati dai caregivers di persone affette da demenza.

 

Ad uno stadio moderato-grave di malattia, infatti, la produzione e comprensione del linguaggio sono deficitarie ed emerge la necessità di affidarsi ad altri mezzi di comunicazione. La parola diviene per il malato un ulteriore stimolo indecifrabile all’interno di un contesto già di per sé di difficile comprensione. Occorre, dunque, affidarsi alla comunicazione non verbale ovvero a quell’insieme piuttosto eterogeneo di indizi perlopiù corporei e spaziali che accompagnano e danno significato all’atto linguistico. Nel caso della demenza, assumono particolare importanza la prossemica, ovvero l’utilizzo dello spazio e delle distanze relazionali (Hall, 1968), e l’aptica, ovvero il contatto corporeo.

È sempre bene tenere a mente che il contatto e la vicinanza fisica sono accettate solo se appropriati alla situazione, compresi dalla persona e se non impongono un’intimità maggiore di quella desiderata (Hollinger & Buschmann, 1993); in caso contrario essi causeranno agitazione e reazioni automatiche di attacco-fuga.

L’importanza del contatto fisico nel processo di cura

Il tatto è il primo senso che si sviluppa ed è fondamentale lungo tutto l’arco di vita (Montagu, 1978). La quantità di corteccia cerebrale dedicata all’interpretazione delle sensazioni provenienti dalle dita (dolore, temperatura, pressione) è maggiore rispetto a qualsiasi altra parte del corpo.

Come anticipato, il sistema aptico riguarda l’utilizzo del contatto corporeo come mezzo comunicativo. Il contatto può essere reciproco, come ad esempio la stretta di mano, o unidirezionale. Inoltre, è possibile individuare zone del corpo vulnerabili, toccate solo da professionisti o da persone molto intime, e non vulnerabili, il cui contatto è permesso anche ad estranei (ad esempio la mano). Il contatto fisico è un atto comunicativo ambiguo che dipende anche da fattori culturali, possiamo infatti distinguere culture del contatto (arabe, latine) e del non contatto (nordiche, giapponese, indiana).

Spesso nelle strutture di assistenza sanitaria le interazioni fisiche sono estremamente orientate agli aspetti sanitari (lavare, vestire, alimentare) ma mancano di significato emotivo.

Ciò potrebbe far ricordare gli studi di René Spitz condotti negli anni ’40 negli orfanotrofi su bambini precocemente separati dalle madri, specie durante il primo anno di vita. Con ospedalismo l’autore si riferiva a una sindrome caratterizzata da disturbi del comportamento, ritardo dello sviluppo cognitivo e affettivo e fragilità somatica, che nel peggiore dei casi portava al marasma e alla morte stessa. Essa si presentava quando, nonostante venissero fornite cure fisiche adeguate e soddisfatti i bisogni fisiologici, vi era una mancanza di stimolazione sensoriale e di scambi e comunicazioni di natura affettiva.

Da queste riflessioni emerge, dunque, la differenza tra un contatto quotidiano, meccanico, automatico, breve e orientato all’obiettivo, e uno terapeutico, consapevole, partecipato, prolungato e volto a procurare benessere (Goldschmidt & van Meines, 2011).

Nurturing touch: il tocco che nutre

Con massaggio si intende la semplice ‘manipolazione manuale dei tessuti molli per promuovere la salute e il benessere’ (Moyer, Rounds & Hannum, 2004).

Spesso il massaggio alla mano viene utilizzato nelle cure palliative (Osaka et al., 2009), nella demenza grave (Yang et al., 2007) e nel dolore post-operatorio (Wang & Keck, 2004), con l’obiettivo di fare compagnia al malato, offrire supporto emotivo, una presenza e momenti relazionali significativi. Chiamato più tecnicamente nurturing touch (‘il tocco che nutre’), tale massaggio è una tecnica sviluppata dalla massoterapista neozelandese Peggy Dawson che rientra nella medicina complementare e alternativa (CAM) o medicina integrativa, un approccio olistico che ovviamente non intende sostituire la medicina tradizionale ma accompagnarla.

La mano è una parte non vulnerabile del nostro corpo, facile da raggiungere e punto di contatto accettabile tra persone di diverso genere (Goldschmidt & van Meines, 2011).

Gli effetti riscontrati di questa pratica sono: riduzione di cortisolo, ormone dello stress (Field, 2000); liberazione di endorfine, analgesici naturali del corpo (Kaada & Torsteinbø, 1989); aumento di ossitocina, ormone peptide associato al rilassamento (Rapaport, Schettler & Bresee, 2010). Relativamente ai pazienti con demenza, dagli studi sembra che il nurturing touch riduca l’aggressività, l’agitazione e gli stati ansiosi (Harris & Richards, 2010; Wu, Wang & Wang, 2017).

Il massaggio alla mano sembrerebbe dunque un efficace strumento di relazione con la persona affetta da demenza, specie nelle fasi avanzate di malattia, contribuendo ad una migliore qualità di vita. A ciò si aggiungono anche effetti positivi per il caregiver, riferendo un aumento del tono dell’umore (Field, 2000).

Il nurturing touch è uno strumento che può essere insegnato a operatori e familiari per migliorare la qualità delle cure e per praticarlo è necessaria l’autorizzazione medica dal momento che in determinate patologie o condizioni sanitarie potrebbe essere controindicato.

 

Umorismo e differenze di genere: quali sono ed in quali ambiti?

L’umorismo è un fenomeno altamente complesso ed esistono differenze individuali in tutti i suoi aspetti.

 

Tali diversità riguardano, ad esempio, l’apprezzamento, la comprensione, la produzione e la comunicazione dell’umorismo (Martin 2010). Un aspetto che ha da sempre incuriosito i ricercatori di questo ambito è stato quello di definire se vi siano differenze stabili in base al genere.

Una prima revisione della letteratura fu condotta venti anni fa (Lampert & Ervin-Tipp, 1998). Questi primi risultati evidenziarono una maggior propensione degli uomini a creare stimoli umoristici, ad usare maggiormente l’umorismo nelle conversazioni, ad apprezzare in maniera maggiore l’umorismo aggressivo e sessuale rispetto alle donne.

Tuttavia, un aspetto saliente di questa revisione è data dal fatto che gli stessi autori evidenziarono limiti nella modalità di studio degli stimoli umoristici (ad es., in laboratorio rispetto ad una valutazione ecologica) nell’impostazione dei comportamenti studiati e dalla presenza di evidenti difetti metodologici (ad es., utilizzando autovalutazioni rispetto a giudizi di altri). Queste limiti metodologici possono quindi aver portato a risultati distorti, esagerando le effettive differenze di genere (Ergül, 2014).

Le differenze di genere: lo state dell’arte

Partendo dalle limitazioni presentate nelle precedenti revisioni, e con l’idea di fornire una panoramica omnicomprensiva delle differenze di genere, è stata recentemente pubblicata una revisione della letteratura che ha preso in considerazione 77 articoli pubblicati tra il 1977 ed il 2018 (Hofmann et al., 2020).

L’obiettivo principale è stato quello di identificare, presentare e discutere tutta la letteratura disponibile e pertinente incentrata sulle differenze di genere in tutti gli aspetti relativi all’umorismo, attraverso varie discipline, e includendo studi basati sia su un approccio quantitativo, sia qualitativo. Mentre alcuni aspetti dell’umorismo, come il senso dell’umorismo quale caratteristica di personalità, possono avere una radice temperamentale (quindi biologica), altri sono influenzati dall’interazione con l’ambiente e il contesto sociale. Inoltre, alcune diversità possono essere esplicitamente collegate a specifiche differenze culturali. Anche la questione dei limiti metodologici spesso acclamati nei primi studi (cioè, l’uso di materiali non rappresentativi, decontestualizzazione, uso di ‘barzellette fabbricate’), è stata affrontata in questo lavoro. Ad esempio, il contesto sociale è stato incluso per fornire una cornice del materiale umoristico presentato (i.e., l’umorismo utilizzato in Facebook; Strain et al., 2015). Inoltre, invece di usare barzellette, in alcuni studi è stato chiesto ai partecipanti raccontare eventi divertenti delle loro vite per ottenere stimoli umoristici ecologicamente validi (Abel & Flick 2012).

Generalmente parlando, l’analisi dei 77 articoli scientifici ha mostrato che si possono riscontrare differenze di genere in aspetti specifici.

Differenze tratti di personalità legati all’umorismo

Relativamente alle differenze nei tratti di personalità legati all’umorismo il risultato più evidente è che uomini e donne differiscono costantemente nei tratti associati all’aggressività, in cui gli uomini ottengono punteggi sempre più alti. Allo stesso modo, gli uomini ottengono punteggi più elevati per ciò che concerne il katagelasticism (la gioia di ridere di altri; Proyer & Ruch,  2010). Queste differenze emergono anche prendendo in considerazione il modello degli stili umoristici, elaborato da Martin e colleghi (2003) in cui gli uomini mostrano punteggi più elevati nello stile aggressivo, rispetto alle donne.

In linea con gli studi precedenti (Lampert & Ervin-Tipp, 1998) tali risultati possono quindi definirsi come stabili e generalizzabili, anche a fronte di metodologie di ricerca più accurate svolte negli ultimi venti anni. Va sottolineato che non sono state trovate differenze negli altri tratti legati all’umorismo e quindi, uomini e donne descrivono il loro senso dell’umorismo in modo simile, con la sola eccezione dell’umorismo aggressivo. Quella emersa, inoltre, può essere vista come una differenza culturale: in varie culture, evitare un’aperta espressione di aggressività è indice di femminilità, mentre mostrare competitività verbale e fisica è sinonimo di mascolinità (Dionigi & Gremigni, 2010).

Differenze nell’apprezzamento dell’umorismo

L’argomento delle differenze di genere nell’apprezzamento dell’umorismo è il tema più studiato nel corso degli anni. La maggior parte degli studi condotti è stata svolta in laboratorio presentando a partecipanti di entrambi i sessi una gamma di stimoli umoristici preselezionati chiedendo loro di valutare i materiali secondo le dimensioni scelte. La maggioranza degli studi presi in esame nelle revisione (sette su otto) mostra come gli uomini preferiscano maggiormente l’umorismo sessuale rispetto alle donne. In un altro studio, emerge che le donne apprezzano maggiormente gli stimoli umoristici a tema sessuale se il bersaglio sono gli uomini più di quanto facciano gli uomini, mentre tendono ad apprezzare in maniera minore degli uomini le battute in cui sono loro il bersaglio (Herzog, 1999). In riferimento all’umorismo ostile, in maniera simile, ogni genere tende ad apprezzare maggiormente le battute che vedono come bersaglio l’altro genere (Abrams & Bippus, 2011). Ancora, le donne mostrano di preferire l’umorismo utilizzato in maniera affiliativa maggiormente rispetto ad un uso ostile e aggressivo, mentre gli uomini hanno valutato positivamente entrambi gli stili. Non sono emerse differenze significative nell’apprezzamento del nonsense humor (Kohler & Ruch, 1996), battute neutrali (Ferstl et al., 2017) e nell’apprezzamento riguardante aneddoti divertenti di vita vissuta, in cui non erano presenti contenuti ostili o sessuali.

Differenze nella produzione dell’umorismo

Diversi studi presi in considerazione nella revisione della letteratura hanno mostrato come la produzione di contenuti umoristici da parte degli uomini (ad esempio, chiedendo ad entrambi i sessi di inventare didascalie per dei fumetti), era in media più divertente rispetto a didascalie inventate dalle donne (Greengross & Miller, 2011; Mickes et al. 2012). Inoltre, gli uomini hanno prodotto un numero maggiore di didascalie rispetto alle donne. Tuttavia, in un simile compito di produzione di umorismo, Kellner e Benedek (2017) non hanno trovato differenze di genere nella capacità di produzione di umorismo, intelligenza e creatività. Infine, Hooper et al. (2016) non hanno trovato differenze di genere in due dei tre campioni presi in esame, mentre nel terzo campione le donne sono state giudicate più divertenti degli uomini.

È interessante notare anche che nel giudicare l’umorismo prodotto da uomini e donne sono emersi risultati diversi quando si confrontano gruppi di valutatori di diverse nazioni (ma della stessa lingua). Quindi, se uomini e donne si trovano ad essere inegualmente divertenti, questo effetto potrebbe essere riferito a specifici gruppi culturali. Inoltre, diversi studi mostrano come l’auto percezione di essere divertenti è maggiore per gli uomini, rispetto alle donne (Mickes et al., 2012; Hooper et al., 2016). Quindi, gli uomini si autovalutano come più divertenti (il bias di attribuzione è stato replicato in diversi studi) ma rimane da verificare se lo siano effettivamente.

Un aspetto saliente che è emerge è che l’umorismo femminile è generalmente volto a produrre intimità e familiarità. Le donne, infatti, scherzano maggiormente su esperienze condivise di delusione ed eventi negativi accaduti loro, mentre gli uomini utilizzano l’umorismo per attrarre l’attenzione (Dionigi & Gremigni, 2010). Le donne, inoltre, tendono a mostrare le proprie imperfezioni in maniera umoristica, come autoaffermazione: se cose simili accadono anche ad altre persone significa che si rientra nella normalità. In più, l’assurdità non danneggia nessuno (Crawford, 2003).

L’utilizzo dell’umorismo nelle interazioni

Per ciò che concerne la comunicazione umoristica, uno dei maggiori limiti è dato dal fatto che quando si prendono in considerazione gli studi esistenti, spesso sono stati condotti su valutazioni autoriferite e non su osservazioni reali. Gli studi metodologicamente più convincenti utilizzano metodologie qualitative quali l’Analisi Conversazionale (AC) ed i risultati suggeriscono differenze di genere, ma non sono unidirezionali (ad esempio Dunbar et al. 2012). Nelle diadi sessuali miste, gli uomini esprimono umorismo più frequentemente delle donne. Nelle diadi dello stesso sesso, le donne tendono a produrre più commenti umoristici degli uomini. Pertanto, non ci sono differenze di genere generali, ma le differenze dipendono dai diversi contesti sociali, con chi gli individui stanno parlando e in quale situazione si trovano (romanticismo, lavoro). Sebbene emerga chiaramente che gli uomini producano maggiori commenti umoristici delle donne nelle relazioni sentimentali e nei momenti di corteggiamento, questo risultato non è generalizzabile a tutte le situazioni (Bressler et al., 2006, Greengross & Miller, 2011; Tornquist & Chiappe, 2015). In alcuni contesti, ad esempio, le donne che tendevano a raccontare in modo divertente i propri aneddoti di vita venivano ritenute maggiormente attraenti dagli uomini (Greengross & Miller, 2011). Questo aspetto, tematicamente ampio e con un crescente corpo di letteratura, necessita di ulteriori approfondimenti, anche utilizzando la suddivisione in specifici sottotemi.

Conclusione

Questa recente revisione della letteratura ha mostrato che esistono delle differenze di genere in alcune aree specifiche quali la produzione, l’apprezzamento, le risposte all’umorismo e la tipologia di comunicazione umoristica maggiormente utilizzata. Tuttavia, la dimensione di questi risultati può essere fortemente influenzata dal metodo di valutazione e dal contesto, in linea con quanto emerso già più di venti anni fa (Lampert & Ervin-Tipp, 1998). Gli studi futuri dovrebbero porre maggiore attenzioni su alcuni fattori che possono influenzare i risultati, quali il ruolo che ha il genere sulle autovalutazioni. Inoltre, le modalità di valutazione degli stimoli condotti in laboratorio deve essere esplorata in modo più dettagliato in studi futuri (Ergül 2014).

 

Earworm: quella melodia che si ripete nella testa

Vi è mai capitato di sentire nella testa la stessa melodia ascoltata in radio o in tv che continua a ripetersi più e più volte? Il termine earworm (ita. tarlo nell’orecchio) si riferisce proprio alle musiche orecchiabili che scorrono ripetutamente nella mente di una persona (Reuman, Buchholz & Abramowitz, 2020).

 

Tali esperienze sono state documentate per oltre un secolo (Ebbinghaus, 1885; Kraepelin, 1915), e sono state definite anche come ‘ripetizione di immagini musicali’, ‘musica appiccicosa’, ‘sindrome della canzone bloccata’ o fenomeno delle Immagini Musicali Intrusive (Intrusive Musical Imagery, IMI), (Levitin, 2006; Sacks, 2007). Nel 2007, il medico e scrittore britannico Oliver Sacks notò che gli earworms possono durare per ore o giorni prima di dissolversi. Sacks ha sottolineato che i tarli dell’orecchio possono presentare parole (p. es., una pubblicità) oppure no (p. es., la Quinta sinfonia di Beethoven), e che le persone che lo sperimentano possono sentirsi ‘intrappolate’ nella canzone al punto che questa potrebbe perdere il suo significato, nonché interferire con attività quotidiane e sonno (Sacks, 2007).

Per quanto riguarda la prevalenza, i sondaggi indicano che più dell’85% delle persone sperimenta l’IMI almeno settimanalmente (Bailes, 2007; Liikkanen, 2012). La frequenza di questa esperienza è positivamente associata alla quantità di coinvolgimento musicale (p. es. regolarità dell’ascolto di musica) e all’importanza percepita della musica (Beaman & Williams, 2010; Liikkanen, 2012). Sacks ha paragonato il ‘processo coercitivo’ patologico a un tic, e ha tracciato parallelismi con autismo, sindrome di Tourette e disturbo ossessivo-compulsivo (DOC), osservando che gli individui coinvolti nell’IMI possono essere agganciati da suoni automatici e ripetitivi che li portano a ripetere involontariamente le melodie nella mente. Sacks ha ipotizzato che l’earworm sia un fenomeno moderno, poiché le nuove tecnologie, come lettori musicali portatili e cuffie, hanno reso la musica prontamente disponibile, e ciò è confermato dagli studi di Beaman e Williams (Sacks, 2007; Beaman & Williams, 2010).

La letteratura empirica sugli earworms è scarsa; tuttavia, alcuni ricercatori hanno concettualizzato il fenomeno come un’intrusione indesiderata che rientra nel contesto del disturbo ossessivo-compulsivo.

Ad oggi, il modello cognitivo-comportamentale è l’approccio concettuale più supportato empiricamente per comprendere il DOC (Salkovskis, 1999). Secondo questa prospettiva, le ossessioni derivano da cognizioni disfunzionali e disadattive che si ritiene conducano a interpretazioni errate di pensieri intrusivi ricorrenti come altamente preoccupanti (ad esempio, ‘Durerà per sempre’, ‘Non riesco a farcela con questa canzone nella mia testa’). Tre dei domini delle convinzioni ossessive includono:

  • la tendenza a sovrastimare la minaccia e la responsabilità;
  • la tendenza a credere che i propri pensieri siano significativi e necessitino di essere controllati;
  • il bisogno di certezza e perfezione (Reuman, 2020).

Si ritiene che questi tipi di credenze siano alla base della preoccupazione ossessiva che porta ad eseguire comportamenti per distrarsi o bloccare i pensieri intrusivi e altri fenomeni come l’earworm. In questa circostanza, quando si presta una maggiore attenzione al tarlo dell’orecchio aumenta la propria preoccupazione. Lo studio di Reuman e collaboratori ha esaminato il ruolo dei pensieri ossessivi nell’earworm, ipotizzando che la tendenza a controllare i pensieri intrusivi, il bisogno di perfezionismo, e l’errata interpretazione di queste credenze sarebbero fortemente associati all’esperienza dell’earworm (Reuman, 2020).

Reuman e colleghi hanno pertanto selezionato 240 partecipanti i quali hanno completato un sondaggio online sull’esperienza delle ossessioni musicali e dei relativi costrutti teorici di interesse (Reuman, 2020). Coerentemente con le ricerche precedenti, quasi tutti i partecipanti hanno riferito di aver sperimentato un earworm nell’ultimo mese, e più di un quinto dei partecipanti ha riferito di aver sperimentato questo fenomeno più di una volta al giorno. L’angoscia e le interferenze associate all’earworm erano in media da lievi a moderate e, sebbene la durata di questa esperienza fosse in media di 10-30 minuti, diversi partecipanti hanno riferito una durata di più di 3 ore. La maggior parte dei partecipanti al presente studio ha riportato tentativi di controllare il proprio earworm. Coerentemente con i risultati di Beaman e Williams, le tecniche di distrazione, come parlare con un amico o ascoltare un’altra canzone, erano gli interventi più comuni per porre fine alla ‘canzone bloccata’. Le evidenze ottenute hanno rivelato che l’evitamento esperienziale (p.es. ‘Voglio smettere di pensare a questa melodia’) è un predittore dell’angoscia e dell’interferenza con le attività quotidiane (Reuman, 2020). I risultati suggeriscono quindi che l’angoscia e l’interferenza con la quotidianità dovute agli earworms possono essere correlati ai tentativi di sopprimerli.

Leggere tante notizie sul COVID-19 tranquillizza le persone o peggiora lo stress psicologico?

Come sappiamo, l’impatto del Covid-19 è stato importante sotto tanti punti di vista, incluso quello psicologico

 

Il COVID-19 è una malattia che si è diffusa rapidamente in tutto il mondo a partire dalla fine del 2019. Come sappiamo, l’impatto è stato importante sotto tanti punti di vista, incluso quello psicologico: gli individui di tutto il mondo hanno riferito sintomi elevati di ansia e depressione (Wen et al., 2020; Slovic, 1987). L’esposizione ai social media (SME), e di conseguenza, alle informazioni relative al COVID-19, può essere un fattore che contribuisce al disagio psicologico (Zhen & Zhou, 2020; Gao, Zheng & Jia, 2020) diventando il punto di partenza di pensieri ruminativi. Al contrario, la consapevolezza, intesa come tratto che implica un’attenzione neutrale rispetto a quanto sta accadendo (Brown & Ryan, 2003), è considerata come un fattore protettivo di fronte all’insorgenza di sintomi psicologici (Basharpoor et al., 2015; Ciesla et al., 2012).

Secondo il Modello della Credenza Sanitaria, le informazioni a cui siamo esposti, influenzano la percezione delle minacce per la salute (Janz & Becker, 1984): le notizie circa i contagi e i tassi di mortalità incrementano certamente la percezione di minaccia, ma anche la mera condivisione del proprio disagio emotivo sui social network, trasferisce consciamente o inconsciamente tali sentimenti agli altri (Modello del Contagio Emotivo, Kramer, Guillory & Hancock, 2014). Ciò implica che gli stati affettivi negativi sperimentati dalla popolazione mondiale durante la pandemia possono essere amplificati attraverso i social media, portando ad un maggior numero di persone che riferiscono sintomi ansiosi e/o depressivi (Zhen & Zhou, 2020;). La ruminazione si riferisce a una modalità di risposta al disagio sotto forma di pensiero ripetitivo e passivo sul sé e sulle esperienze (Watkins, 2008; Nolen-Hoeksema & Wisco, 2008). Sulla base del modello integrato dello stile di risposta ruminativa (Shaw, Hilt & Starr, 2019) gli ambienti stressanti suscitano pensieri ruminativi pertinenti, contribuendo ulteriormente ai sintomi psicologici. Di conseguenza, le informazioni relative al COVID-19 possono attivare processi cognitivi di tipo ruminativo associati alla pandemia, e inoltre diversi studi hanno hanno scoperto che la ruminazione predice positivamente i sintomi ansiosi e depressivi (Fang, Marchetti & Hoorelbeke, 2019). La consapevolezza, intesa come caratteristica simile a un tratto, implica l’essere consapevoli, in maniera non giudicante, delle proprie esperienze momento per momento, e per questo potrebbe moderare gli effetti della ruminazione sulla salute mentale (Branstrom et al., 2011). Studi precedenti hanno scoperto che la consapevolezza può assumere una funzione di cuscinetto contro l’effetto dello stress percepito sui sintomi psicologici (Branstrom et al., 2011). Dopo essere stati esposti alle informazioni relative al COVID-19, rispetto alle persone con bassi livelli di consapevolezza, quelle con alti livelli possono più facilmente disimpegnarsi dagli eventi negativi. Di conseguenza, queste persone possono aver diminuito i pensieri passivi e ripetitivi sulla pandemia e sperimentare livelli relativamente bassi di ansia e depressione.

Nonostante ciò, pochissimi studi hanno esaminato queste relazioni nel contesto della pandemia, pertanto Hong et al. (2020) si sono proposti di indagare, in soggetti giovani di Wuhan (N=439), la relazione esistente tra l’esposizione ai social media e il disagio psicologico legato al COVID-19, l’effetto mediatore della ruminazione e l’effetto moderatore della consapevolezza in questo processo.

L’esposizione ai social media è stata valutata per mezzo del Social Media Exposure Questionnaire (Gao, Zheng & Jia, 2020), composto da 6 items che chiedevano ai partecipanti di indicare in che misura sono stati esposti alle informazioni sul COVID-19 sulle sei piattaforme di social media più utilizzate in Cina (WeChat, QQ, Sina Weibo, Tik Tok, Zhihu e Baidu Tieba). La consapevolezza è stata valutata dalla versione cinese della Child and Adolescent Mindfulness Measure (Liu, X., et al., 2019), composta da 10 items, mentre la ruminazione è stata indagata per mezzo della Event-Related Rumination Inventory (Zhou et al., 2014), composta da 10 items. Infine, lo stress psicologico è stato valutato con la Kessler Psychological Distress Scale (Andrews & Slade, 2001), contenente 10 items.

Dai risultati della presente ricerca, è emersa una relazione tra consapevolezza, ruminazione e stress psicologio. Inoltre l’esposizione alle informazioni relative al COVID-19 non prevedevano direttamente il disagio psicologico dei giovani di Wuhan. Nello specifico, quando i partecipanti hanno riferito di aver letto una grande quantità di notizie dalle varie piattaforme mediatiche, percepivano il virus come una grave minaccia per la salute, riportando livelli più elevati di paura, ansia e depressione. Inoltre, l’esposizione ai social media influenza il disagio emotivo attraverso la funzione di mediazione della ruminazione: una maggiore esposizione, che in questo caso costituisce il fattore stressante, tende ad attivare processi cognitivi di tipo ruminativo, che a sua volta incrementano i livelli di ansia e depressione. Infine, è emerso che la consapevolezza modera l’effetto dell’esposizione alle informazioni relative al COVID-19 sul pensiero ruminativo: precisamente, alti livelli di consapevolezza implicano un’assenza di ruminazione in seguito all’esposizione ai social media, e di conseguenza minor stress psicologico.

 

Schemi interpersonali maladattivi, scarsa metacognizione e strategie di coping nel Disturbo Evitante di Personalità: il ruolo delle tecniche esperienziali nella terapia metacognitiva interpersonale

Il Disturbo Evitante di Personalità (DEP) è caratterizzato da un senso di sé inadeguato e dalla ipersensibilità al giudizio negativo.

 

Infatti, pur desiderando l’appartenenza al gruppo, i pazienti evitano attivamente l’incontro relazionale, confermando l’idea di essere esclusi e mai accettati. Ad oggi esistono molti studi sull’efficacia dei trattamenti del Disturbo Evitante di Personalità ma complessivamente i risultati sono parzialmente soddisfacenti e anche la terapia cognitiva comportamentale standard ha mostrato alti tassi di recidive (Seemüller et al. 2014). A nostro parere una terapia efficace deve considerare gli schemi maladattivi interpersonali, impliciti e automatici, le disfunzioni metacognitive che impediscono l’accesso a pensieri ed emozioni legate all’esperienza interna e allo schema interpersonale e le strategie di coping come l’evitamento. È importante valutare l’insieme di tutti questi elementi perché possono ostacolare l’aderenza alla terapia e ridurre le probabilità di una risposta completa e stabile nel tempo.

Gli schemi interpersonali maladattivi sono strutture stabili, implicite e automatiche, con cui l’individuo attribuisce significato agli eventi, prevede le risposte altrui ai propri bisogni e seleziona le informazioni disponibili. Nel Disturbo Evitante di Personalità gli schemi si generano a partire da diversi sistemi motivazionali (ad esempio attaccamento, rango sociale, autonomia, inclusione) e portano con sé rappresentazioni negative sé/altri (ad esempio io sono inetto e l’altro mi critica). Lo schema genera pensieri ma anche emozioni negative intense e stati corporei-viscerali fonte di sofferenza. A livello metacognitivo i pazienti evitanti sono alessitimici, hanno scarse capacità autoriflessive e non monitorano gli stati interni. Per gestire il dolore emotivo i pazienti attuano strategie di coping come l’inibizione emotiva (Popolo et al., 2014), la procrastinazione (Dimaggio et al., 2015), il perfezionismo (Dimaggio et al., 2018), l’evitamento di situazioni sociali (Arntz, 2012). I coping, però, non permettendo l’accesso ad esperienze diverse, favoriscono relazioni disfunzionali, rinforzano l’alessitimia e in generale mantengono la patologia.

Queste osservazioni, nell’insieme, ci hanno spinti a considerare la necessità di un trattamento per il Disturbo Evitante di Personalità in cui si contrasti precocemente l’evitamento per promuovere autoriflessività e per aiutare il paziente a notare prima e regolare poi gli aspetti incarnati e procedurali degli schemi. Le ultime formulazioni della Terapia Metacognitiva Interpersonale prevedono un modello di terapia semi strutturato arricchito da un set di tecniche esperienziali (ad esempio guided imagery con o senza rescripting, tecniche drammaturgiche e comportamentali), utilizzate in diversi momenti della terapia con vari scopi. Inizialmente il terapeuta raccoglie ed esplora episodi narrativi autobiografici per ricostruire lo schema. In parallelo lavora sull’interruzione dei coping e sulle disfunzioni metacognitive per sviluppare una maggiore autoriflessività e, successivamente il paziente comprende che le proprie idee non corrispondono necessariamente alla realtà. A questo punto si consolidano o costruiscono parti sane di sé, sperimentando nuovi comportamenti e nuovi modi di stare in relazione (Dimaggio et al., 2013; 2019).

La TMI ha già dato prova di efficacia nel trattamento dei pazienti con disturbi di personalità (Dimaggio et al., 2017; Gordon-King et al., 2018; 2019) e anche nel Disturbo Evitante di Personalità attraverso studi di casi singoli (Dimaggio et al., 2012; Dimaggio et al., 2017).

Nell’ultimo nostro lavoro (Valentino et al., 2020) abbiamo descritto la terapia di Gianluca, un paziente di 32 anni con diagnosi di Disturbo Evitante di Personalità, seguito da una di noi (V.V.). Gianluca ha avuto modo di comprendere il proprio funzionamento, il modo in cui l’evitamento rinforzava la patologia e ha iniziato a intrattenere relazioni sociali più soddisfacenti, accedendo ad una parte sana di sé che prima era in ombra. Pur rimandando alla lettura del lavoro per una descrizione più completa del trattamento, riportiamo uno stralcio di colloquio clinico in cui la terapeuta interviene attraverso l’immaginazione guidata con rescripting, sfidando l’automaticità delle strategie di coping (nel caso di Gianluca erano di evitamento e di resa).

La terapeuta, come se fosse una voce fuori campo, propone al paziente azioni e parole al fine di riscrivere il finale …

Pz: “Ciao ragazzi, che fate? State facendo merenda? (con voce bassa e tremolante)
T: “Cosa senti? Come senti il tuo corpo?
Pz: “Ho vergogna…sento che le mani mi sudano…parlo a bassa voce e non li guardo negli occhi…mi sento arrossire.”

La terapeuta incoraggia Gianluca nel sostenere lo sguardo alto, nel mantenere una voca più ferma, a dirigersi verso di loro con le spalle aperte e nota la variazione di espressione del corpo e del volto durante l’evoluzione della scena. A questo punto il paziente contatta l’immagine di sé positiva e agisce nella scena.

Pz: “Ciao ragazzi, posso unirmi a voi?
T: “Cosa noti? Come ti sente ora?
PZ: “Che ce la posso fare…posso stare con gli altri invece di isolarmi sempre.

La terapeuta termina l’esercizio ed esplora lo stato interno di Gianluca il quale si accorge che se contatta l’immagine positiva di sé interagisce diversamente con gli altri.

Nel caso clinico descritto le tecniche immaginative, drammaturgiche e comportamentali hanno generato un cambiamento radicale. Per fare questo la terapia deve, quindi, mirare specificatamente ai processi incarnati legati alle rappresentazioni negative sé/altri apprese nella propria storia di vita. Inoltre possiamo affermare che favorire fin dall’inizio della terapia l’interruzione dei coping disfunzionali aiuta ad accedere precocemente sia ai contenuti del funzionamento sia alle parti sane dei pazienti. Gianluca ne è, certamente, un buon esempio.

 

Verso una nuova identità

La tecnologia offre la possibilità di superare il confine che esiste tra fantasia e realtà, cioè tra virtuale e reale (Marsh, 2010). In questo modo, gli individui hanno l’opportunità di creare le proprie identità online, facendo riferimento alle loro aspettative e desideri (Kennedy, 2006).

 

Infatti, hanno la possibilità di costruirsi un’identità diversa, attraverso l’utilizzo di molteplici risorse messe a disposizione dalla rete (Clothier, 2005). Il mondo digitale permette agli utenti di mettere in atto due processi: la ri-definizione dell’identità e la ri-creazione del sé (Matviyenko, 2010).

Con l’avvento del mondo digitale, l’identità individuale è formata da un sé reale e uno virtuale, che rappresentano aspetti differenti della personalità di ciascuno (Jerry e Tavares-James, 2012). La creazione dell’identità virtuale, così come per quella individuale, è un processo ciclico e ripetitivo che tiene in considerazione aspetti sia soggettivi sia ambientali. Per questo motivo gli autori Peter Nagy e Bernadett Koles nel 2014 hanno provato a costruire un modello concettuale riguardante l’identità virtuale, che viene descritta come un costrutto multidimensionale formato da tre livelli: individuale, micro e macro. Ciascuno strato costituisce un elemento strutturale differente che porta alla costruzione dell’identità virtuale.

Il livello individuale è costituito dagli avatar che rappresentano il veicolo attraverso cui comunicare con gli altri e possono essere considerati l’incarnazione del sé nel mondo virtuale. Attraverso gli avatar vengono definiti lo spazio individuale e i confini tra le persone.

Il micro-livello include gli script narrativi, l’intimità virtuale, la comunità virtuale e la cultura. Queste componenti collegano gli individui all’ambiente digitale nel quale sono inseriti. La prima tipologia rappresenta le storie di vita virtuale delle persone, in cui vengono riportati gli obiettivi, i valori e le credenze proprie dei soggetti (Dickey, 2011). Questi script narrativi sono basati sulle esperienze individuali e vengono mostrati attraverso differenti attività virtuali (Bardzell e Odom, 2008). La seconda dimensione rappresenta i diversi significati che gli individui attribuiscono ai loro ruoli e relazioni. In particolare, si riferisce all’immedesimazione dei soggetti nei rapporti da loro instaurati ed è collegata all’estensione del concetto di sé in relazione ad un determinato ruolo (Sluss e Ashfort, 2007). I ruoli che riguardano gli ambienti sociali esercitano un forte potere nella creazione dell’identità virtuale (Spence, 2008). La terza componente implica l’appartenenza e l’identificazione dell’individuo ad un gruppo. La percezione di sentirsi parte di un gruppo all’interno del mondo virtuale rappresenta il primo passo per considerarsi un membro di una comunità online più estesa (Riberio, 2009). Le comunità virtuali forniscono agli individui che ne fanno parte dei feedback sociali, promuovendo il loro senso di adesione (Taylor, 2006). In questo modo vengono manifestati e conservati gli aspetti sociali dell’identità virtuale. L’ultima categoria include l’insieme degli oggetti significativi che rappresentano l’estensione dell’identità. I prodotti virtuali utilizzati possiedono un significato diverso per ciascun individuo ma allo stesso tempo il loro valore è in parte influenzato dalla comunità virtuale in cui le persone sono inserite e dalle caratteristiche proprie del mondo digitale.

Anche il macro-livello è costituito dagli script narrativi, dall’intimità virtuale, dalla comunità virtuale e dalla cultura. In questo caso la prima componente è costituita dalle informazioni che costituiscono l’identità virtuale e sono influenzate dal mondo digitale. Questi script narrativi rappresentano, quindi, la storia individuale che è in continua evoluzione, creata in modo che si possa riconoscere in essa un senso di unità (McAdams & Olson, 2010). La seconda dimensione implica il desiderio di intraprendere una relazione con un membro del mondo digitale. Solitamente le persone cercano di instaurare delle relazioni online nel momento in cui si rendono conto che i rapporti reali non sono soddisfacenti come vorrebbero (Scott et al., 2006). Tuttavia, gli individui considerano vere le nuove conoscenze nel mondo digitale (Gilbert et al., 2011). Gli utenti del mondo virtuale ritengono i partner conosciuti sul web più divertenti rispetto a quelli reali (Gilbert et al., 2011). Il terzo aspetto include l’insieme dei gruppi che rappresentano gli individui all’interno della società digitale. Queste comunità possono riferirsi a due tipi di ambienti online. Il primo riguarda i giochi dove la comunità ha la funzione di fornire un setting di fantasia. Il secondo si riferisce al settore sociale, dove le comunità rappresentano una componente fantastica o realistica. La cultura materiale virtuale corrisponde al rapporto instaurato tra gli artefatti digitali e le relazioni sociali. Il mondo online ha sviluppato una propria cultura materiale, attraverso la quale le persone si sono impadronite degli oggetti virtuali sia per la loro funzionalità sia per il loro valore simbolico (Lehdonvirta, 2010).

Alcuni studi hanno dimostrato che i beni consumati online siano uguali a quelli utilizzati nel mondo reale. Molti individui decidono di usare determinati oggetti virtuali per entrare a far parte di uno specifico gruppo online o per dimostrare alcuni aspetti rilevanti della propria identità (Lehdonvirta e al., 2009). Sul web le persone si dedicano a varie attività che necessariamente riflettono informazioni importanti riguardo alla propria identità.

 

Il massaggio neonatale come strumento che sostiene e favorisce il benessere del neonato, la genitorialità e il legame di attaccamento genitore-bambino

Il massaggio del bambino è un’antica tradizione di cura, tramandata di genitore in genitore per generazioni intere, presente nelle culture di molti paesi che recentemente è stata riscoperta e si sta espandendo anche nel mondo occidentale.

 

L’evidenza clinica e recenti ricerche hanno confermato l’effetto positivo del massaggio sullo sviluppo e sulla maturazione del bambino a diversi livelli.

Con il massaggio possiamo accompagnare, proteggere e stimolare la crescita e la salute del bambino:

  • favorisce uno stato di rilassamento sciogliendo le tensioni toniche e i piccoli malesseri;
  • la stimolazione tattile promuove ed accelera le connessioni neuronali, favorendo la crescita della guaina mielinica;
  • può avere effetti benefici sui dolori della crescita, su fastidi dovuti alla dentizione, previene ed attenua le coliche intestinali;
  • facilita nel bambino la conoscenza del suo schema corporeo, lo aiuta a correggere la sua posizione distendendo i muscoli ed aiutandolo a coordinare i movimenti, migliora la capacità di apprendimento e l’integrazione sensoriale.

Il massaggio non è una tecnica, ma è un modo di stare con il bambino, che favorisce il legame di attaccamento e rafforza la relazione genitore-bambino. È un mezzo privilegiato per comunicare ed essere in contatto con il proprio bambino, che sostiene e stimola le competenze e l’autostima dei genitori.

Qualunque sia la forma che assume la pratica, è importante sapere che non ci sono potenziali danni per il bambino. La sensibilità della pelle è una delle funzioni del corpo che si sviluppa per prima ed è particolarmente importante; la stimolazione dell’epidermide è, infatti, essenziale per uno sviluppo organico e psicologico adeguato sia per gli animali che per gli esseri umani. I famosi esperimenti sulle scimmie condotti da Harlow nel 1958, hanno per primi dimostrato che per i piccoli il benessere creato dal contatto è persino più importante del cibo. Harlow (1958) evidenziò che le scimmie, chiuse in gabbia con due sostituti materni (uno di peluche caldo e morbido che non forniva latte, e l’altro freddo e duro, fatto con fil di ferro, ma in grado di erogare latte), preferivano il surrogato di madre di peluche quando si sentivano minacciate e avevano bisogno di conforto, mentre ricorrevano alla madre di fil di ferro solo per soddisfare i bisogni alimentari per poi ritornare alla madre morbida e calda. Venne così dimostrato che la necessità di contatto fisico è un bisogno primario e indipendente da quello relativo al soddisfacimento dei bisogni fisiologici, e che il legame di attaccamento madre-figlio è qualcosa di più che l’esito di un rapporto strumentale finalizzato all’ottenimento di cibo. Alcuni bambini affetti da una deficienza nella crescita esibiscono lo stesso tipo di comportamento in quanto, poiché venga dato loro il cibo di cui necessitano, portano avanti un processo di deterioramento a meno che non intervenga un fattore che implichi un nutrimento emotivo, un contatto benefico e una cura costante (McClure, 2015).

Alcuni studi hanno considerato il massaggio infantile come un intervento per migliorare il rapporto madre-bambino, la salute mentale materna e il benessere del bambino. Ferber et al. (2005) hanno evidenziato che, dopo aver seguito un percorso di massaggio neonatale, le madri di neonati nati pretermine erano meno invadenti e i neonati trattati erano più socialmente coinvolti nella relazione rispetto ai neonati del gruppo di controllo. In un altro studio sono stati raccolti dati relativi ai sentimenti soggettivi di attaccamento di 117 madri (57 nel gruppo sperimentale, 60 nel gruppo di controllo) nei confronti dei propri bambini utilizzando il Maternal Attachment Inventory (MAI). Tutte le madri sono state valutate all’inizio e alla fine dello studio durato 38 giorni e nel gruppo sperimentale i neonati hanno ricevuto ogni giorno una seduta di massaggio di 15 minuti. Sebbene nel pre-test non siano state riscontrate differenze tra i due gruppi, i valori medi post-test del MAI delle madri del gruppo sperimentale erano significativamente più alti di quelli del gruppo di controllo, evidenziando il ruolo del massaggio infantile nel sostenere e incrementare il legame di attaccamento madre-bambino (S., Gurol, S., Polat, S., 2012).

Il massaggio neonatale ha diversi effetti positivi per i bambini in termini di: aumento di peso (soprattutto nei neonati prematuri), migliore ciclo sonno-veglia, migliore sviluppo neuromotorio, migliore relazione di attaccamento, maggiore diminuzione delle catecolamine/ormoni dello stress urinario (norepinefrina, epinefrina, cortisolo); inoltre, è evidente una riduzione delle infezioni e della mortalità nei neonati prematuri (Cooke, A., 2015; Field, T., et al., 1996; Hernandez-Reif, M., et al., 2007; Kulkarni, A., et al., 2010).

Diversi studi indicano l’esistenza di benefici del massaggio neonatale anche per le madri con depressione postnatale e i loro neonati (Fujita, et al., 2006; Feijo, et al., 2006); i meccanismi con cui si ottiene questo risultato possono includere l’imparare a comprendere gli stimoli dei loro bambini e il rilascio di ossitocina (Glover, et al., 2002). Altri studi hanno evidenziato che la maggior parte delle madri con depressione post-partum, che hanno praticato il massaggio neonatale, ha mostrato una riduzione clinica dei punteggi all’Edinburgh Postnatal Depression Scale (EPDS), tra il pre e il post esperimento, rispetto alle madri del gruppo di controllo, e un miglioramento significativo dell’interazione madre-bambino (O’Higgins, M., et al., 2008; Onozawa, K., et al., 2001). Herrera et al. (2004) hanno evidenziato che la depressione postnatale può influenzare anche il comportamento tattile oltre che il contenuto affettivo e informativo del linguaggio materno: le madri con un umore depresso, rispetto alle madri non depresse, toccano i loro neonati in modo più negativo e il loro linguaggio è meno ben regolato per quanto riguarda la quantità di contenuto emotivo e informativo, impedendo così alle madri depresse di rispondere efficacemente alle esigenze di sviluppo dei loro neonati. Altri risultati suggeriscono che neonati, figli di madri depresse, che sperimentano sessioni di massaggio di 15 minuti, piangono meno, permangono maggiormente in uno stato di veglia attiva, hanno livelli più bassi di cortisolo salivare e, dopo il massaggio, trascorrono meno tempo in uno stato di veglia attiva, suggerendo che il massaggio ha un effetto rilassante (induce facilmente il sonno).

Altri studi hanno cercato di determinare se un intervento di massaggio infantile possa aiutare i padri a ridurre lo stress percepito e ad aumentare il legame con i neonati durante il periodo post-partum. Darrell Cheng et al. (2011) hanno rilevato che istruire i padri al massaggio infantile diminuisce significativamente il loro stress. Un altro studio evidenzia che i padri che hanno massaggiato i propri bambini sono stati più espressivi, hanno mostrato più divertimento e più calore durante le interazioni di gioco con i loro neonati (Cullen, C., et al., 2000). Sembra, quindi, che il coinvolgimento dei padri durante un percorso di massaggio neonatale sia un importante elemento di sostegno al loro ruolo genitoriale.

 

Le conseguenze dell’apparente inesistenza di Medea – Moms, una rubrica su maternità e genitorialità

Il presente articolo continua il discorso proposto dal precedente nella rubrica. Il tema verte nuovamente sulla legittimità della rabbia e dell’aggressività materna, proponendo alcune possibili conseguenze della negazione di queste emozioni.

Moms – (Nr.6) Le conseguenze dell’apparente inesistenza di Medea

 

Il quinto episodio di Workin’ Moms oltre ad introdurre la Medea presente in ogni madre, come visto nell’articolo precendente, mostra cosa succede quando aggressività e rabbia non vengono elaborate. L’episodio è incentrato sull’iniziale intenzione di Kate Foster, la protagonista, di sopprimere il proprio cane perché ritenuto troppo aggressivo dalla madre Eleonor e dal marito. L’episodio termina con la sua scelta di lasciarlo crescere con l’assistente. Il cane in questo caso si fa portatore metaforico dell’aggressività di ognuno che in qualche modo deve essere celata e inibita.

Sentimenti meno piacevoli come la rabbia e l’aggressività non muoiono, ma possono avere un esito negativo, per le mamme e per i figli se non portate alla consapevolezza.

Il celebre antropologo Gregory Bateson ha studiato la genesi della schizofrenia nella sua opera Verso un’ecologia della mente. Egli notò che quando una madre non può ammettere a se stessa di provare sentimenti ambivalenti rispetto al proprio figlio, sono i messaggi che manda a divenire tali. Agli occhi del figlio risulterà incoerenza tra messaggio verbale, del tipo “ti voglio bene”, e non verbale, rispecchiante una madre fredda e distaccata fisicamente ed emotivamente. L’esito di questa negazione materna dei propri vissuti interiori porta consequenzialmente il figlio ad essere incerto sull’amore del genitore e, essendosi anch’esso vietato di provare sentimenti spiacevoli rispetto alla madre, sceglierà inconsciamente e protettivamente la via della follia.

Un’altra spiacevole conseguenza del rifiuto del proprio lato rabbioso e aggressivo è presentato nel romanzo Madame Bovary. Emma, la protagonista, sceglie di volgere su se stessa la rabbia e l’aggressività nutrita per la situazione in cui vive. Le proprie emozioni non portate alla consapevolezza e con impossibilità di elaborazione la uccidono e lasciano la figlia orfana con tutte le conseguenze delle circostanze.

Tra i fatti di cronaca recenti troviamo quello di Annamaria Franzoni, che tanto non ha potuto ammettere a se stessa sentimenti ambivalenti rispetto ai propri figli da dissociarsi intrapsichicamente ed ucciderne uno.

In tutti i casi citati è evidente un elemento: l’aggressività e la rabbia non sempre hanno come oggetto i propri figli, ma possono danneggiare madre, figli e relazioni finché restano indicibili. La stessa Medea, famoso personaggio della mitologia graca, uccide i propri figli non per astio nei loro confronti ma perché non può ammettere a se stessa la rabbia nei confronti del marito Giasone e dunque l’agisce su di loro. Il modo migliore per non arrivare a queste dolorose conseguenze è poter dire a se stesse che sentimenti come rabbia e aggressività possono essere legittimamente provate e aprire la strada per l’elaborazione.

 

Da componenti erotiche e comparse campy a campioni: l’aumento di parità delle lottatrici e dei lottatori LGBT nel mondo del wrestling professionistico

Sin dalla sua concettualizzazione, lo sport spettacolo del wrestling professionistico si è sempre distinto per essere un intrattenimento incentrato sulla figura maschile e spesso rappresentate narrazioni al limite del maschilismo. Tuttavia, attualmente si sta verificando un processo di parità nei confronti dei personaggi femminili ed appartenenti al mondo LGBT.

 

Il wrestling professionistico è uno sport intrattenimento che attira ogni anno milioni di nuovi fan ed è oramai una componente stabile del mondo dello spettacolo e dell’atletica. Sebbene una iniziale reticenza, ora la lotta libera professionistica è un argomento frequentemente studiato dalla Scienza Umanistica (Smith, 2008). Il wrestling professionistico è principalmente analizzato per la sua componente di rilascio delle tensioni e delle emozioni (Smith, ibidem), per le sue vicinanze alle arti teatrali (Everard, 2003), per le sue componenti legate agli stereotipi etnici (Maguire, Wozniak, 1987) e per le sue tematiche legate alla sessualità (Oppliger, 2003).

Per quanto riguarda le tematiche legate alla sessualità, il mondo scientifico si è concentrato soprattutto sul rilevante ruolo della mascolinità nelle trame presentate e le limitazioni imposte ai personaggi di sesso femminile e i personaggi appartenenti alle categorie LGBT, solitamente rappresentati come stereotipati se non basati su pregiudizi (Mazer, 2020).

Come si può dedurre dal prodotto offerto dal wrestling professionistico, il concetto di mascolinità è una componente fondamentale delle trame della lotta d’intrattenimento (Soulliere, 2006). Come indicato dalla letteratura psicologica l’atteggiamento audace, una struttura fisica imponente e capacità di reazioni aggressive sono elementi considerati mascolini (Smith, 2014), elementi che sono alla base delle storie raccontate nei match di catch (Karasick, 2019).

Di fatto, molte lotte dei personaggi della lotta libera professionistica possono essere lette come una sfida per dimostrare chi dei lottatori possa essere reputato il vero uomo (Mazer, ibidem). Questa lotta per la dimostrazione di virilità viene attuata sia attraverso l’uso del corpo (Soulliere, Blair, 2006) che l’uso della comunicazione verbale (Tamborini, 2008).

Per aumentare ulteriormente l’importanza della mascolinità dei wrestler, sono state introdotte le figure femminili, prima principalmente come figure manageriali on-air e poi come lottatrici. Infatti, sebbene ci siano state sempre delle lottatrici femminili con qualità atletiche indiscutibili, il ruolo solitamente associato alle figure femminili anche attive sul ring è quello di essere un incentivo della mascolinità dei lottatori presenti agli stessi show e di essere principalmente un contenuto principalmente legato a contenuti sessuali (Leng et al, 2012).

Un trattamento simile è stato riservato ai personaggi legati alla comunità LGBT: spesso personaggi stereotipici e direttamente legati a pregiudizi sulle personalità omosessuali e lesbiche sono stati rappresentati nelle lotte del wrestling, sia nel ruolo di personaggi ambigui e minaccianti l’integrità della mascolinità degli avversari (Sammond,, 2005) sia di personaggi apprezzati per il loro essere caratteristici ed espansivi della loro reputata devianza, limitati però nei confini dello spettacolo in sé (Levi, 1998).

Attualmente sia i personaggi femminili e LGBT del mondo del wrestling stanno raggiungendo livelli atletici e di rilevanza quasi alla pari dei colleghi maschili, con la vincita di un titolo mondiale vinto da una lottatrice femminile (Konuwa, 2020) e il primo wrestler transgender a firmare per una federazione di alto livello (Schmidt, 2019). Questa rivoluzione socio-sportiva sta cominciando ad essere analizzata dalla Accademia Umanistica (Aiba, 2016).

 

Adolescenti in crisi (2018) a cura di E. Quagliata – Recensione

Il testo Adolescenti in crisi raccoglie testimonianze, approfondimenti e casi clinici di stampo psicoanalitico che ci spingono ancora una volta a metterci in discussione non solo come adulti, ma anche e soprattutto come terapeuti. 

 

I contributi degli autori, tutti accomunati da una visione dinamica del periodo adolescenziale, ci consentono non solo di confrontare la pratica clinica attuale con i grandi capisaldi della storia passata (es: il concetto di transfert o la visione che Winnicott, per esempio), ma anche di interrogarci rispetto alla nostra posizione all’interno di quel​ ​setting con quello​​ specifico paziente, che è “figlio del suo tempo”.

Il lavoro con gli adolescenti necessita di una modalità propria e specifica, che non può essere improvvisata e che per sua natura spinge a guardarsi molto allo specchio e quindi a fare i conti con tutto ciò che è ed è stata l’adolescenza del terapeuta.

Oggigiorno, però, “in seduta con noi” si presenta anche una nuova modalità di pensiero e di comunicazione, più frammentata, più fluida (per utilizzare un termine che da tempo ormai connota la nostra società), anche più precaria se vogliamo (specchio dei tempi e del contesto esterno) e anche molto meno riservata.

Mi colpisce, infatti, tra le tante osservazioni presenti nel primo capitolo, una in particolare: in un contesto sempre più “mediatico”, dove i riti di iniziazione all’età adulta sono ormai agiti e vissuti tramite lo schermo o i social network (e non più la piazza, o la scuola), forse la stanza d’analisi è l’ultimo baluardo della nostra privacy.

E’ importante, ad esempio, tener presente che gli adolescenti di oggi portano in seduta anche il cellulare, oltre ai loro pensieri. L’uso o il non uso di questo strumento è di per sé un dato clinico e il terapeuta non può chiamarsi fuori dai giochi: deve apprendere non solo un nuovo linguaggio, comune, condiviso e comprensibile, ma anche abituarsi ad essere parte di una dialettica comunicativa che passa attraverso gli schermi. Infine, è interessante chiedersi anche come si possa costruire una relazione terapeutica duale con la mente dell’adolescente, che è abituato ormai a “dissociarsi” tra mille compiti e canali comunicativi (es: scrivo un messaggio whatsapp mentre guardo un tutorial su YouTube e studio).

Non esiste forse una risposta univoca, ma quella che possiamo dare è: fornire un’esperienza di senso condivisa e diversa, che consenta all’adolescente di identificarsi e allo stesso tempo di differenziarsi senza paura di rompere il legame e con la certezza che il terapeuta sarà lì, come magari non è stato possibile per altre figure.

Un altro spunto rilevante che emerge dal testo ed è imprescindibile per il lavoro con gli adolescenti è il tener presente che si sta parlando di un processo evolutivo. Il sintomo (che sia circoscritto o un vero e proprio breakdown) va sempre letto come parte di un percorso che si è bloccato/ si sta bloccando/ o rischia di bloccarsi. Questa prospettiva consente agli addetti ai lavori di mettersi nella giusta posizione terapeutica per far ripartire il processo evolutivo o comprendere se e dove si sia arrestato.

Il corpo, in adolescenza, appare quasi come il nemico numero uno da attaccare e da distruggere. Sfugge al controllo (sta cambiando), è fonte di pressioni (sociali e non) e di sensazioni e desideri sconosciuti, che spaventano. E’ importante tenere presente che l’adolescente ha la sensazione che la minaccia arrivi da fuori e quindi rischia di ritrarsi dal mondo (es: si chiude in camera, abbandona la scuola, rifugge la famiglia), quando in realtà la pressione che sente è spesso interna. Il rischio, dunque, si presenta quando non si riesce ad integrare il rapporto con il nuovo corpo all’interno del proprio senso di realtà.

Anche le condotte antisociali o devianti in adolescenza sembrano essere lo specchio di un conflitto interiore spostato all’esterno, e come tali possono e devono non solo essere accolte e contenute, ma anche significate ​ ​in qualche modo, per poter essere infine sbrogliate.

In adolescenza i sentimenti insostenibili sono spesso seguiti dall’azione: il processo di provare un’emozione, assimilarla ed elaborarla è spesso sostituito da un passaggio all’atto. Anche i disturbi alimentari rispondono ad una difficoltà di mentalizzazione: attraverso il corpo parlo e agisco qualcosa, spesso il rifiuto di una dipendenza e di un legame affettivo.

Ecco perché, indipendentemente dalla ragione per cui un adolescente arriva in consultazione o trattamento, è imprescindibile il lavoro congiunto con i genitori e la famiglia. L’adolescenza è un insieme di legami e “scopo” di questa fase di vita è il cambiamento, sostenibile e sostenuto solo attraverso una buona alleanza terapeutica con i familiari, che giustamente sperimentano una gamma di emozioni e di vissuti che necessitano di trovare spazio e con i quali deve essere sempre chiaro e condiviso l’obiettivo dell’intervento.

 

Trattamenti per Internet Addiction, Acquisto Compulsivo e Dipendenza da Sesso: terapie indicate per le Dipendenze Comportamentali

Recenti ricerche hanno identificato somiglianze tra il Disturbo da Uso di Sostanze (ing. Substance Use Disorders, SUD) e le varie Dipendenze Comportamentali (ing. Behavioral Addictions, BA) (Grant et al., 2010).

 

Queste ultime differiscono dai SUD in quanto non caratterizzate dall’utilizzo di sostanze tossiche, seppur siano definite sulla base dei criteri utilizzati per la diagnosi di uso di sostanze, descritto nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM IV; American Psychiatric Association, 1994).

Le dipendenze comportamentali che questo articolo prenderà in esame sono tre: Dipendenza da Internet (ing. Internet Addiction, IA), Dipendenza dal Sesso (ing. Sex Addiction, SA) e Acquisto Compulsivo (ing. Compulsive Buying, CB). Sono state fatte molte ricerche su IA e Dipendenza da Gioco Online (ing. Internet Gaming Disorder, IGD), ponendo particolare attenzione alle misure neurobiologiche che suggeriscono parallelismi con il SUD (Kuss, Pontes, & Griffiths, 2018). Oltre alle somiglianze tra SUD e dipendenze comportamentali in termini di caratteristiche fenomenologiche e cliniche, comorbilità e storia familiare, i risultati della ricerca neuroscientifica sembrano essenziali per identificare gli indicatori di comportamenti di dipendenza (Grant et al., 2010).

In linea con questa considerazione, recentemente sono stati raggiunti alcuni progressi nell’esame dei punti neurobiologici in comune con il SUD nei domini della SA e del CB. Ciò è avvenuto analizzando fenomeni tradizionalmente indagati nelle SUD, come processi di condizionamento, reattività, bias attenzionale e relativa attivazione della rete neurale, e funzionamento esecutivo (Goslar et al., 2020). Questi studi hanno dimostrato che tra quelle condizioni che non sono state ancora ufficialmente riconosciute nel DSM-5 come dipendenze comportamentali, IA, SA e CB presentano indicatori neurobiologici molto simili a quelli del Disturbo da Uso di Sostanze. Queste tipologie di disturbi hanno rilevanza clinica giacché possono spesso avere conseguenze dannose (Pontes et al., 2015), per cui è necessario studiare opzioni di trattamento efficaci sulla base delle terapie indicate per il SUD (Grant et al., 2010).

La meta-analisi svolta nel 2020 da Goslar e colleghi aveva come obiettivo l’esame dell’efficacia dei trattamenti di tali dipendenze comportamentali e l’individuazione di parallelismi in termini di risposta al trattamento con i disturbi da uso di sostanze (Goslar et al., 2020). Per ciò che concerne i metodi utilizzati dai ricercatori, lo studio della letteratura ha individuato 91 documenti in grado di fornire una valutazione completa dell’efficacia a breve e lungo termine dei trattamenti psicologici, farmacologici e combinati per la dipendenza da Internet, la dipendenza dal sesso e l’acquisto compulsivo, per un totale di 3.531 partecipanti.

Le evidenze emerse dagli studi di Goslar e collaboratori mostrano robusti miglioramenti per quanto riguarda la dipendenza da Internet e la dipendenza dal sesso grazie alla combinazione di psicoterapia e farmaci. Per l’acquisto compulsivo, è emerso che terapie psicologiche e farmacologiche erano associate a una riduzione di ampia portata della gravità globale. Le analisi dei moderatori hanno suggerito che gli interventi psicologici erano efficaci nel ridurre i comportamenti compulsivi, specialmente se eseguiti faccia a faccia e condotti per lunghi periodi di tempo. Inoltre, combinazioni di farmaci e terapia cognitivo-comportamentale (ing. Cognitive-Behavioral Therapy, CBT) hanno mostrato un vantaggio rispetto alle monoterapie. I risultati suggeriscono anche che i suddetti trattamenti per le dipendenze comportamentali, simili a quelli implementati per il disturbo da uso di sostanze, sono efficaci a breve termine (Goslar et al., 2020). Sebbene la CBT fosse la terapia più utilizzata nelle tre categorie di dipendenza, vari approcci psicologici si sono dimostrati ugualmente efficaci per ridurre i comportamenti problematici, indipendentemente dalla modalità di trattamento e dal background culturale.

Tra questi, gli approcci più comunemente utilizzati includevano la terapia familiare, che considerando una varietà di condizioni familiari disfunzionali sembra benefica non solo per i giocatori problematici su Internet (Han et al., 2012), ma anche per adolescenti con SUD (Filges, Andersen, & Jørgensen, 2018), i programmi mindfulness, basati appunto sulla consapevolezza, utili per il miglioramento dei sintomi di IA (Li, et al., 2017) e CB (Armstrong, 2012), e la terapia di accettazione e impegno (ing. Acceptance and Commitment Therapy, ACT) efficace nel ridurre i sintomi di SA, IGD e SUD (Maynard et al., 2018). Ad ogni modo, i programmi integrativi, che per lo più contenevano elementi CBT, producevano dimensioni dell’effetto ugualmente grandi nelle tre categorie di dipendenza.

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