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Due identità sociali così lontanamente vicine – Uno sguardo pedagogico verso educatori e soggetti ‘difficili’

Con questo elaborato ci si propone di illustrare i motivi e le modalità attraverso cui il legame tra educatori e ‘pazienti’ continua ad esistere e a consolidarsi anche dopo il termine del processo educativo.

 

Introduzione

La ricerca verrà suddivisa in 3 sezioni: nella prima verrà delineata la figura dell’educatore-pedagogista, messa a confronto con i ‘soggetti difficili’ con i quali è chiamata ad interagire, nella seconda sezione verranno evidenziate le difficoltà che gli educatori stessi trovano nel rapportarsi con tali soggetti e la terza sezione sarà dedicata al rapporto che l’educatore instaura con il ‘ragazzo (o adulto) difficile’ (Bertolini, Caronia, Barone, 1993) e ai fattori che permettono di mantenerlo vivo o, addirittura, rafforzarlo.

La pedagogia sociale è costituita da un fitta e specifica articolazione interna. La cura è uno dei paradigmi centrali di essa. È uno strumento di dialogo e di scoperta e si propone di individuare le procedure terapeutiche per sostenere e aiutare i soggetti. (Cambi, Certini, Nesti, 2010). Risulta dunque evidente come la cura sia una premessa pedagogica per affrontare il tema dei legami sociali e interpersonali dei soggetti devianti e emarginati.

L’educatore: ruolo, carattere e responsabilità

Essere educatore nel XXI secolo

Negli ultimi decenni la nostra società è stata caratterizzata a livello mondiale da una sempre maggiore propensione all’individualismo e alla distruzione dell’identità collettiva a causa del multiculturalismo.

In questo contesto, quindi, figure professionali come pedagogisti, psicologi e formatori risultano di fondamentale importanza per poter dare un concreto aiuto ai soggetti che non si sentono parte integrante della società a cui appartengono.

L’educatore, infatti, è chiamato ad affrontare quotidiane sfide volte a soddisfare le esigenze della società odierna. La schematica applicazione della teoria, oggi non basta più. I soggetti si rivolgono agli educatori certi di trovare in essi figure salvatrici.

Sebbene sia evidente l’utopia di tale richiesta, i professionisti ascoltano e accolgono i bisogni degli individui, cercando di elaborare nuove strategie di applicazione dei processi educativi.

Esiste un rischio di banalizzazione del lavoro educativo che va contrastato realizzando un profilo professionale originale in complementarietà con altri, sottolineando il ruolo dell’educatore come agente di promozione umana, individuale e collettiva. […].

L’educatore ‘ideale’ non esiste. Esiste, però, chi cerca di comprendere la realtà, facendo valere in egual modo i tre profili o modelli di educatori: religioso, tecnico e politico. E la sua vera efficacia sta nella capacità di interpretare, osservare, criticare, traendone un’elaborazione critica e approfondita (Santerini, Triani, 2007).

Responsabilità:

La vita ci pone in continuazione delle domande alle quali siamo chiamati a rispondere talvolta usando le parole, talvolta i gesti. Vivere, dunque, significa assumersi la grande responsabilità di rispondere adeguatamente a tali domande anche se spesso, una risposta non la si trova. La responsabilità è il fulcro dell’esperienza di ciascuno e ha il dovere di valorizzare il processo di consapevolezza di sé.

L’educatore, infatti, è chiamato a tenere una particolare coscienziosità in relazione a diversi fattori: la professione, la società, il soggetto ‘difficile’, le famiglie e l’équipe alla quale fa riferimento. Ha il diritto e il dovere di aggiornarsi e confrontarsi professionalmente al fine di arricchire le proprie conoscenze e di programmare nuove tecniche ed efficaci processi educativi. Consapevoli del loro ruolo, devono attenersi ai principi della società e ai servizi che la stessa offre, mantenendo un fermo riferimento alle decisioni elaborate dall’équipe della quale fanno parte.

La responsabilità principale che hanno da formatori, è quella nei confronti del soggetto: il rispetto della sua personalità e dignità e la presa in considerazione di tutti i loro diritti e libertà, obbligano gli educatori professionali ad instaurare un legame che non tenda verso una dipendenza affettiva.

Incontro-scontro tra due identità: quando le esperienze passate diventano ostacoli

Instaurare un ‘legame indipendente’ con i soggetti ‘difficili’ (Bertolini, 1993).

L’incontro tra educatori e soggetti difficili è un’azione che richiede tempo e attenzioni. Come diceva Bertolini (1993), c’è bisogno di un riconoscimento reciproco. Bisogna oltrepassare i formalismi ed eliminare i pregiudizi esistenti. Inoltre, sebbene il fine che emerge dall’approccio dell’educatore nei confronti del soggetto sembrerebbe quello di conoscerlo, il vero scopo è quello di comprendere la sua persona, il suo vissuto e la sua visione del mondo. Questo processo è ostacolato dall’evidente presenza di una relazione asimmetrica all’interno della quale il soggetto si sente debole, inferiore e vulnerabile rispetto alla figura dell’educatore e ciò può provocare in lui uno status di ansia e inadeguatezza. Proprio per questo motivo quindi, il formatore dev’essere in grado di non farsi influenzare da ciò che già sa riguardo al soggetto, cercando di metterlo a suo agio al fine di instaurare un legame che possa aiutare entrambi a fidarsi reciprocamente. Un legame che dev’essere al tempo stesso simbolo di libertà di espressione e di rispetto. Nessuno, in tale relazione, deve dare più di quanto non dia l’altro così da evitare che qualcuno ne approfitti o si prenda gioco della disponibilità o fiducia dell’altra persona. Sia l’educatore che il ragazzo difficile hanno bisogno di conferme da parte dell’interlocutore e ciò è possibile solo con un costante e permanente impegno, sia nel rapporto intra e inter personale che in quello impersonale, fatto di formalità e regole.

La pedagogia come prima medicina sociale

La pedagogia come completamento della medicina

Negli ultimi anni, l’educazione viene associata a connotazioni sempre più mediche e sempre meno psico-pedagogiche. Questa situazione, però, sta mettendo in seria difficoltà le figure professionali che si occupano di pazienti ‘malati’ o vulnerabili poiché si trovano completamente competenti e istruite nei saperi del loro campo d’intervento ma privi di qualità umane utili ad instaurare incontri e confronti efficaci con i soggetti con i quali si relazionano. In accordo con il pensiero di Micaela Castiglioni (2016), tra due scienze (medicina e pedagogia) che si occupano dell’uomo in quanto essere nel e in relazione con il mondo, deve per forza esistere un punto d’incontro. Ogni disciplina, empirica, pratica o razionale essa sia, pone necessariamente le sue basi su aspetti legati alla propria unicità, profondità e veridicità. Il medico che viene indottrinato e accompagnato verso un percorso di apprensione di determinati processi e di regole prefissate si trova impreparato nell’esatto momento in cui deve relazionarsi con i suoi pazienti. Questi ultimi chiedono una consulenza completa, che comprenda sia gli aspetti tecnici e teorici che quelli emotivi e spesso, proprio a causa di questa richiesta, la relazione medico-paziente risulta tormentata o anche inesistente.

Le medical humanities come nuova educazione alle cure

La cultura dell’educazione medica ha il dovere di formare le figure mediche future. Inoltre, viene spesso identificato come una delle principali cause del fallimento della cultura democratica medica poiché viene mostrata esclusivamente traverso canali tecnici e schematici, privi di sensibilità o empatia. Tale situazione evidenzia parecchi aspetti negativi tra i quali gli interessi politico-economici e l’orientamento esclusivo ai risultati.

Un tempo, i Romani avrebbero definito così un buon medico: ‘vir bonus, sanando peritus’, una persona buona ed esperta nel curare. Oggi, però, un medico competente è tutt’altro: sa associare alla scienza, la coscienza, agendo in principio di efficacia delle cure nel rispetto dell’autonomia della persona […] (Codice deontologico, art. 6).

Risulta dunque di fondamentale importanza promuovere il rapporto tra la pratica medica e l’ambito socio-pedagogico. Una soluzione è stata trovata alla fine degli anni ’60 del Novecento, con l’introduzione delle Medical humanities. Esse sono nate con il compito di ricondurre le pratiche delle sanità alle loro finalità originarie: essere la ‘cura’ per gli uomini. Attraverso la loro multidisciplinarietà, intendono proporre processi e tecniche utili a comprendere e interiorizzare al massimo sia la cultura medica che quella pedagogica all’interno di uno stesso contesto di cura degli individui.

Conclusione

Questo breve elaborato, tra le sue trattazioni, ha cercato di inquadrare quali sono i principali ostacoli e le principali differenze che talvolta non permettono un’efficace relazione tra medico-educatore e il paziente, sia esso in età giovanile che adulta. La diversità del proprio vissuto, le scelte di vita e la posizione sociale sono fattori che influenzano in maniera importante i processi educativi. Ciononostante, se gli educatori professionali si pongono al soggetto con il quale interloquiscono in maniera empatica e comprensiva, risulterà molto più semplice ed immediata la nascita e lo sviluppo di un legame inter-personale tra loro. Sarà, certamente, un rapporto basato su un equilibrio tra tecnicismi ed emozioni ma porterà, gradualmente, il soggetto ‘difficile’ a relazionarsi con l’educatore in maniera sempre più sincera e completa, ponendo crescente fiducia nella figura professionale.

Come già accennato nell’introduzione, la pedagogia sociale pone le sue radici nella pedagogia di cura. Al termine dell’analisi condotta in questo elaborato, si può oggettivamente dedurre che l’aspetto sociale all’interno di qualsiasi pratica educativo- riabilitativa risulta necessario al fine di ottenere un processo di cambiamento e miglioramento efficace.

Partendo dalla prevenzione, la pedagogia di cura si impegna ad evidenziare ogni bisogno o fattore limitante per il soggetto ‘difficile’ e attua un lavoro di protezione, aiuto e promozione del benessere intra- e inter- personale.

L’interazione tra due individui, qualsiasi sia la loro posizione sociale, non deve basarsi solo su un rapporto di aiuto-intervento bensì deve poter essere, per tutta la sua durata, momento di scambio, condivisione e fiducia reciproca.

È doveroso considerare l’impronta prettamente sociale dell’analisi condotta, in quanto ogni campo formativo porta con sé fattori esterni derivanti da culture, tempi e comunità diverse.

 

Le personalità dipendenti

Data la stabilità dei tratti di personalità e la loro influenza sui processi decisionali e motivazionali, la ricerca ha ipotizzato che molti dei comportamenti problematici legati alla dipendenza siano originati dalla personalità stessa e per questo si è indirizzata verso l’identificazione delle cosiddette personalità dipendenti.

 

Il riconoscimento da parte della comunità di ricerca del fatto che le dipendenze includono anche comportamenti che non comportano l’assunzione di sostanze stupefacenti ha portato alla nascita si studi sulle dipendenze comportamentali: la dipendenza da internet, il gioco d’azzardo, il comportamento sessuale compulsivo, l’acquisto compulsivo, la dipendenza da esercizio fisico, la dipendenza dal cibo e la dipendenza dal lavoro (Griffiths, 1996; Karim & Chaudhri, 2012). Data la stabilità dei tratti di personalità e la loro influenza sui processi decisionali e motivazionali (Kornør & Nordvik, 2007), la ricerca ha assunto l’ipotesi che molti dei comportamenti problematici legati alla dipendenza siano originati dalla personalità stessa e per questo si è indirizzata sull’identificazione delle cosiddette “personalità dipendenti”.

Secondo Kjome et al. (Kjome et al., 2010), l’impulsività comporta una mancanza di pianificazione che è associata a guadagni a breve termine a scapito delle perdite a lungo termine. Questa tendenza è molto comune tra gli individui dipendenti, sia per le dipendenze legate alla sostanza che per le dipendenze comportamentali, in quanto spesso agiscono in modi che garantiscono loro un immediato rafforzamento, ma sono dannosi (per se stessi o per gli altri) a lungo termine (Grant, Potenza, Weinstein, & Gorelick, 2010; Widiger & Smith, 2012).

Un altro modello che è stato proposto per classificare gli individui con dipendenze è stato il modello a cinque fattori della personalità (McCrae & John, 1992). Questo descrive cinque dimensioni fondamentali della stessa: nevroticismo, coscienziosità, estroversione, gradevolezza e apertura all’esperienza (McCrae & John, 1992). L’estroversione comprende tratti come l’energia, le emozioni positive, l’assertività, la socievolezza, la loquacità e infine la tendenza a cercare stimoli e sensazioni nuove (McCrae & Costa, 1997). L’apertura all’esperienza implica la curiosità intellettuale, il pensiero indipendente, la creatività e la preferenza per la novità e la varietà. La coscienziosità combina caratteristiche come la tendenza a mostrare autodisciplina, ad agire con rispetto e a concentrarsi sul raggiungimento di risultati. Le persone coscienziose tendono a pianificare, piuttosto che ad essere spontanee, e sono organizzate e affidabili (Day, Hudson, Dobies, & Waris, 2011). Le persone con elevato grado di gradevolezza sono simpatiche, amichevoli e affidabili (McCrae & Costa, 1997). Infine, le persone nevrotiche tendono ad avere scarse capacità di controllo degli impulsi e una precaria stabilità emotiva (McCrae & Costa, 1997).

Un recente studio mette a confronto i profili di personalità di diverse dipendenze, ossia quelle da sostanze (droghe e alcol) e quelle comportamentali (gioco d’azzardo e sesso). Il campione studiato è composto da 78 controlli e 221 individui dipendenti, fra cui 58 da droghe, 50 da alcol, 48 da gioco d’azzardo e 65 da sesso.

In primo luogo, i partecipanti hanno compilato un questionario volto a raccogliere informazioni demografiche, quali età, genere, livello di istruzione e status socioeconomico. Il disturbo da uso di sostanze (Drug Use Disorders, DUD) è stato misurato per mezzo del Abuse Screening Test (DAST; Skinner, 1982), i cui punteggi possono variare da 0 a 28 e dove un punteggio di 6 è utilizzato per indicare la presenza di abuso o dipendenza da droghe (Yudko, Lozhkina, & Fouts, 2007). Il disturbo da uso di alcol è stato misurato per mezzo del Michigan Alcoholism Screening Test (MAST; Selzer, 1971), in cui un punteggio pari a 5 indica la presenza di alcolismo. Il South Oaks Gambling Screen (SOGS; Lesieur & Blume, 1987) ha permesso di valutare il disturbo da gioco d’azzardo, mentre il Individual-Based Compulsive Sexual Behavior (I-CSB), composto da 24 items, è stato utilizzato per valutare i comportamenti sessuali compulsivi (CSB): i punteggi possono variare da 24 a 168, e un punteggio più alto segnala ipersessualità elevata. Per quanto riguarda, invece, la valutazione dei profili di personalità, sono stati somministrati due questionari self-report. Uno è il Barratt Impulsiveness Scale Version 11 (BIS-11), composto da 30 items che esplorano l’impulsività, mentre l’altro è il the Big Five Index (BFI), composto da 44 items che indagano i tratti di personalità concettualizzati nel Big Five Model. Infine, i partecipanti hanno risposto ad una serie di domande relative alla dipendenza e alla loro astinenza (es. età di inizio della dipendenza, anni della dipendenza e tempo di astinenza).

I risultati dello studio hanno rivelato che fra i soggetti con disturbo da uso di sostanze, il 93% ha fatto uso di marijuana almeno una volta nel corso della sua vita, il 79% di cocaina, il 60% di eroina, il 60% di anfetamine, il 70% di MDMA, il 63% di LSD, il 72% di sedativi, il 18% di PCP, il 49% di metadone e il 39% di inalanti. I fattori demografici, come età, sesso, status socioeconomico, hanno rivelato differenze significative tra i vari gruppi: il gruppo di controllo era più giovane, composto da partecipanti per la maggioranza femminili, viveva in zone più centrali e aveva il più alto livello di istruzione; gli individui con disturbo da uso di alcol erano più anziani, mentre i soggetti con comportamenti sessuali compulsivi erano più giovani e principalmente di sesso maschile. I soggetti con dipendenza da gioco d’azzardo hanno riferito un reddito elevato e un’insorgenza del disturbo pressoché tardiva, precisamente sui 20 anni, età che nella maggior parte dei casi coincide con la fuoriuscita dal nucleo familiare.

Per quanto riguarda i tratti di personalità, la ricerca ha individuato dei profili specifici: tutte le tipologie di dipendenze presentano livelli di nevroticismo e impulsività molto elevati. Questi soggetti tendono ad essere meno capaci di controllare i propri impulsi, oltre che ad avere una precaria stabilità emotiva. Tuttavia, gli alcolisti hanno livelli di estroversione, gradevolezza, coscienziosità e apertura all’esperienza più basse rispetto ai controlli. Nello specifico, le persone con bassa estroversione e apertura all’esperienza sono di solito più timide, riservate e silenziose (Arora & Rangnekar, 2016) e, probabilmente, utilizzano l’alcol per ridurre ansia e paura nelle situazioni sociali (Smail, Stockwell, Canter, & Hodgson, 1984). I soggetti con dipendenza da sostanze stupefacenti e comportamenti sessuali compulsivi hanno bassi livelli di gradevolezza e coscienziosità.

In conclusione, i risultati ottenuti suggeriscono che, sebbene diverse dipendenze possano avere alcune tendenze comportamentali in comune, esse riflettono in gran parte una costellazione unica di tratti di personalità e variabili demografiche. Questi risultati possono guidare lo sviluppo di programmi di prevenzione e di intervento più efficaci, che potrebbero essere adattati all’individuo e/o al tipo di dipendenza. Strategie preventive specifiche potrebbero concentrarsi sull’identificazione dei giovani a rischio sulla base dei tratti di personalità, così come le strategie trattamentali devono necessariamente affrontare le questioni ambientali.

 

La mente in musica – Presentazione del libro

Quante volte abbiamo ascoltato canzoni che ci hanno dato un senso di felicità? O ci hanno emozionato perché ci hanno riportato alla mente eventi o persone per noi importanti? E quante volte in un momento difficile ci siamo rifugiati nell’ascolto di una canzone che sembrava essere stata scritta apposta per noi?

 

Come reagisce il cervello all’ascolto della musica

La musica fa parte della nostra vita, accompagna le nostre giornate e sottolinea in modo solenne molti dei nostri momenti più importanti. Ci aiuta a rilassarci, ci fa divertire in compagnia, ci dà occasioni per fermarci a riflettere.

Eppure gli effetti che la musica produce su di noi sono ancora poco conosciuti, lo studio del rapporto che si crea tra l’ascolto di una melodia e la nostra mente è stato affrontato solo negli ultimi anni e molta strada rimane da fare per capire come e quanto una canzone o un brano musicale siano in grado di influenzare il nostro umore e addirittura incidere sul nostro benessere, oltre che raccontare molto di noi a chi ci circondai.

I contenuti del libro

Il mio libro La mente in musica nasce come un viaggio che si vuole compiere per scoprire qualcosa di più sul legame che esiste tra mente e musica. Vuole essere uno sguardo generale sull’effetto prodotto da una melodia, mettendo in luce le potenzialità dell’ascolto e le infinite possibilità che si aprono a chi utilizza la musica per veicolare un messaggio nonché a chi, da semplice ascoltatore, in essa trova uno specchio per scoprire qualcosa di sé, la possibilità di dare voce alle sue emozioni e un mezzo per esprimere i suoi stessi sentimenti.

Interessante notare come la musica assolva ad una funzione regolatoria degli stati d’animo nell’adolescenza, e dei benefici emozionali e fisici che l’ascolto porta con sé nella terza età.

Non solo si è cercato di dare delle risposte ad alcune domande ma anche, perché no, di farne nascere di nuove che magari faranno sentire l’esigenza di approfondire individualmente un determinato aspetto per iniziare un nuovo cammino che si deciderà di intraprendere.

Come si diceva, l’argomento è ancora poco studiato; motivo per cui, più che attraverso lavori già pubblicati, gli spunti per questo libro sono arrivati da ricerche universitarie, da pareri di esperti e di studiosi della materia.

Un viaggio che parte da lontano

La curiosità ci ha spinto a partire dall’inizio: ci siamo mai chiesti perché è nata la musica? Per quale motivo il nostro antenato della preistoria, impegnato come doveva essere tra battute di caccia, un ambiente naturale spesso ostile, lotte quotidiane per la sopravvivenza, avrà provato interesse per la musica? In quale modo gli sarà sembrata funzionale alle sue quotidiane necessità?

E noi, oggi, come reagiamo all’ascolto della musica? Proviamo a pensare alle centinaia di melodie o canzoni che ascoltiamo quotidianamente: com’è possibile che il nostro cervello sia in grado di memorizzarle e di riconoscerle in un attimo quando ci capita di riascoltarne anche solo alcune note? E che addirittura riusciamo a recuperare informazioni come titolo, testo o autore, in qualche secondo? A tutto c’è una risposta e come vedremo il nostro cervello utilizza dei trucchi. Una volta che li avremo scoperti ci apparirà tutto sotto una nuova luce!

Ma quello che ci attira di più verso la musica è la sua capacità di suscitare in noi delle emozioni. Di influenzare il nostro umore e la nostra autostima. Quante volte abbiamo ascoltato canzoni che ci hanno dato un senso di felicità? O ci hanno emozionato perché ci hanno riportato alla mente eventi o persone per noi importanti? E quante volte in un momento difficile ci siamo rifugiati nell’ascolto di una canzone che sembrava essere stata scritta apposta per noi da qualcuno che conosceva perfettamente il nostro stato d’animo?

Si vedrà come alcune caratteristiche presenti nella costruzione di una melodia abbiano un carattere universale e siano percepite in modo molto simile da tutti, indipendentemente dalle differenze individuali di tipo sociale e culturale. Contemporaneamente però, sul nostro modo di ricevere quello che la musica trasmette, intervengono fattori di tipo personale e sociale che rimescolano un po’ le carte. Infatti, per esempio, perché una canzone diventi la nostra preferita non basta che sia una bella canzone, che ci emozioni o che ci faccia sentire bene, in questa scelta entrano in gioco fattori personali quali esperienze precedenti e personalità.

La musica per veicolare un messaggio

La musica si è rivelata essere un potente mezzo di comunicazione non solo per chi la produce, compositori, musicisti e cantanti, ma anche per gli ascoltatori. L’avreste detto che i nostri gusti musicali sono in grado di dire molto anche sulla nostra personalità e su chi ci circonda? E che c’è uno stretto legame tra quello che ascoltiamo, i nostri idoli musicali e la nostra autostima? Anche in questo caso verrà analizzato uno studio che aiuterà a capire molte cose.

Il libro guiderà il lettore in un percorso alla scoperta degli elementi che caratterizzano un processo di comunicazione, in modo particolare quando questo si svolge in campo musicale. Come l’idea iniziale di un compositore si traduca in un messaggio e come questo venga condiviso, attraversando contesti che possono mantenerlo integro, modificarlo o distorcerlo una volta che noi, gli ascoltatori, avremo più o meno consapevolmente deciso come utilizzarlo.

L’utilizzo che decidiamo di farne dipende anche dallo scopo che ci prefiggiamo nel momento in cui decidiamo di ascoltare musica. A volte non è nemmeno una decisione nostra, ascoltiamo in modo passivo mentre beviamo un caffè al bar o mentre aspettiamo il nostro turno dal parrucchiere, mentre facciamo la spesa o ceniamo al ristorante. E’ a questo punto che entra in gioco il marketing sensoriale, capace di influenzare il nostro pensiero.

Altre volte siamo noi a sentire il bisogno di ascoltare musica, per rilassarci dopo una giornata di lavoro, per caricarci prima di una gara sportiva, per concentrarci in vista di un esame, per isolarci dal mondo esterno in un momento di riflessione.

Ci sono anche utilizzi della musica del tutto inaspettati, come vedremo da un recente studio che in tempo di Covid-19 ha portato la musica in campo scientifico con intenzioni assolutamente sorprendenti.

Un grazie a tutte le persone che parteciperanno a questo viaggio e a chi in questo viaggio ci ha accompagnato a svelare segreti e curiosità, ci ha aperto le porte sul suo lavoro, sui risultati ottenuti dalle sue ricerche e ci aiuterà a scoprire tanti aspetti ancora inesplorati del meraviglioso mondo della musica e della nostra mente.

La mente in musica sarà pubblicato ad inizio 2021, per tutti i lettori di State of Mind interessati all’argomento, il libro sarà disponibile in un’anteprima in versione pdf omaggio che può essere richiesta entro fine dicembre a: [email protected]

 

Il colloquio motivazionale e il prinicipio cognitivo-comportamentale del cambiamento clinico – VIDEO

Un incontro organizzato dalla scuola di specializzazione “Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Mestre” per parlare di colloquio motivazionale e di cambiamento clinico in ottica cognitivo-comportamentale. Pubblichiamo per i nostri lettori il video dell’evento.

 

Il colloquio motivazionale si è dimostrato uno strumento versatile e applicabile in diversi ambiti della salute e del benessere. Trattandosi di uno stile di comunicazione, si integra facilmente all’interno di un intervento di psicoterapia: lo “stile di guida” che lo contraddistingue rappresenta un punto di equilibrio tra la posizione centrale data al cliente di matrice rogersiana e l’orientamento al cambiamento tipico degli approcci cognitivo-comportamentali. La prima parte del seminario, tenuta dalla dott.ssa Valeria Valbusa, illustra le caratteristiche principali di questo metodo e alcune delle sue principali tecniche, con attenzione al fondamentale passaggio di motivazione al cambiamento come uno dei punti cardine del processo di condivisione e formulazione del caso clinico.

A seguire, nella seconda parte del seminario condotta dal dott. Giovanni Maria Ruggiero, si introduce il principio cognitivo-comportamentale del cambiamento clinico: l’ipotesi che la cognizione cosciente sia il cardine della sofferenza emotiva e il principale obiettivo dell’intervento terapeutico. Inoltre la presentazione tratta anche il tema della condivisione della formulazione dei casi come mossa iniziale, nonché il principale strumento operativo della terapia cognitivo comportamentale.

Pubblichiamo per i nostri lettori il video del webinar organizzato da “Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Mestre”.

 

COLLOQUIO MOTIVAZIONALE E CAMBIAMENTO CLINICO IN CBT
Guarda il video integrale del webinar:

 

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La reazione emotiva e comportamentale di fronte alla situazione di emergenza nello specifico caso del Covid-19

Quest’anno contemporaneamente in tutto il mondo si sono sperimentate le stesse emozioni per una situazione di emergenza comune. Cosa ci è successo psicologicamente e fisicamente durante l’emergenza della pandemia da Covid-19?

Adriana G. A. Catania – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Bolzano

 

‘Pandemia’ è stata per buona parte della prima metà del 2020 il termine che ha fatto capolino tra le principali notizie giornalistiche quotidiane. Parliamo di pandemia, così come da specificazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (2020), per indicare un’epidemia di rapida diffusione attraverso territori e continenti. Poco dopo l’inizio del 2020 il nostro Paese, più o meno contemporaneamente ad altri Stati del Pianeta, si è trovato, quindi, ad affrontare quella che è stata definita ‘La situazione di maggiore emergenza dal secondo dopo guerra’ (Conte, 2020), ovvero il SARS CoV-2.

Ma come abbiamo e stiamo reagendo? E cosa vuol dire trovarsi in uno stato di emergenza di questa portata?

Quello che possiamo evidenziare è che sicuramente una delle primissime conseguenze di questa situazione è stata una messa alla prova delle capacità di resilienza di tutta la popolazione mondiale. Molte persone hanno avuto risposte psicologiche che hanno visto un crescendo di paure, ansie e depressione (Wang et al. 2020). L’insorgere di questi stati psicologici è uno dei motivi per cui maggiormente si è parlato da parte del Ministero della Salute, dall’Ordine Nazionale degli Psicologi e dall’Organizzazione Mondiale della Sanità dell’importanza di poter fornire un supporto per garantire il benessere psicologico della popolazione, che tutta, in maniera più o meno diretta, è stata colpita dallo stravolgimento causato dal Covid-19.

Paura e Ansia

Sono state citate paura e ansia e queste sembrano assomigliarsi e per certi versi confondersi, va fatto quindi un chiarimento per definirle e differenziarle brevemente. La paura è innanzitutto un’emozione basilare e innata per l’uomo, permette un’attivazione al fine di tutelare la sopravvivenza stessa dell’organismo. Essa è diversa dall’ansia, nonostante possa sembrare simile per via dell’intenso stato di preoccupazione che caratterizza entrambi gli stati emotivi. Una delle caratteristiche principali per comprendere la differenza tra questi due stati emotivi è legata alla presenza del pericolo nel tempo presente. La paura è la preoccupazione rispetto ad un pericolo che è attualmente presente; se volessimo rendere la paura con una metafora, potremmo dire che essa è quell’emozione che abbiamo di fronte ad un leone. L’ansia è più legata ad uno stato preparatorio e/o prolungato nel tempo di preoccupazione per un possibile pericolo che potremmo dover affrontare, ma che ancora non si è palesato di fronte a noi (o che, invece, si è presentato in passato e che attiva un vissuto d’ansia per timore del suo possibile ripresentarsi). Se volessimo riprendere la metafora, l’ansia sarebbe la preoccupazione per l’arrivo di un leone. In un momento come quello che abbiamo attraversato, parti di popolazione hanno dovuto affrontare l’emergenza del virus in prima linea (come ad es. infermieri, medici, conducenti di ambulanze e altre figure), altri l’hanno affrontata comunque come minaccia, anche se non vivendo direttamente la malattia; possiamo ipotizzare un diverso coinvolgimento emotivo o comunque una diversa intensità di emozioni in base all’esposizione con il manifestarsi del Covid-19. Come indicato dalle varie indagini condotte sulla popolazione è stato dimostrato che, prima in Cina nel dicembre 2019 e poi in Europa nel febbraio 2020, ci sia stato un grande incremento della sensazione di paura percepita, (Asmundson, & Taylor,2020) tant’è che si è parlato anche di Coronaphobia. Dal momento in cui la minaccia si è rivelata incerta e continua, come nell’attuale pandemia di coronavirus (Covid-19), il vissuto di paura che è stato esperito più o meno da tutta la popolazione, ha finito per diventare pervasivo e si è manifestato in tante delle sue variabili di intensità. Esperire questa emozione è fondamentale per la nostra difesa e sopravvivenza, proprio in virtù del suo carattere adattivo e attivo per proteggerci, quanto d’altro canto la sua presenza prolungata può diventare cronica e gravosa.

Cos’è un’emergenza

Per parlare della reazione di paura di fronte all’emergenza Covid-19, dobbiamo anche far chiarezza su ciò che si definisce concretamente come uno stato di emergenza, e cosa si associ ad esso. La definizione più comune di ‘emergenza’, fa riferimento ad una situazione particolarmente critica. Emergenza è: una circostanza imprevista, accidente, e, sull’esempio dell’ingl. emergency, a particolare condizione di cose, un momento critico, che richiede un intervento immediato, soprattutto nella locuzione stato di emergenza (Enciclopedia Treccani).

Al concetto di emergenza si associa, quindi, strettamente quello di rischio definito come eventualità di subire un danno connessa a circostanze più o meno prevedibili. Vivere un’emergenza ci pone direttamente nella condizione di sentire su di noi l’eventualità di essere a rischio. Le emergenze possono avere un impatto psicologico importante poiché attivano un vissuto di rischio percepito che può essere vissuto in maniera distorta e amplificata, sino ad arrivare a vissuti di panico, si associa a comportamenti sempre meno razionali, e con sé attiva la catena di risposte biologiche dell’organismo con conseguenze sul corpo e sulla salute psicologica. Vivere eventi emergenziali, nel breve termine, produce effetti transitori e che non comportano danni permanenti, mentre un’emergenza prolungata provoca degli effetti anche permanenti e dannosi sul benessere psicofisico. Questo accade perché l’evento critico è di per sé molto attivante, porta ad un drastico cambiamento rispetto alla situazione precedente all’emergenza e possiamo definirlo con il termine stressor: un elemento del mondo esterno che altera l’equilibrio interno dell’uomo. Inoltre, le persone in un momento di emergenza vedono uno sconvolgimento delle proprie abitudini e sviluppano un senso di impotenza verso tutto ciò che le circonda, che appare come pervaso da forze distruttive e non controllabili. Le domande del mondo esterno in un momento di crisi arrivano con una velocità maggiore rispetto alla capacità di elaborazione degli stimoli esterni che ci è necessaria per produrre una risposta. Attorno all’emergenza si concentrano anche ansie per il futuro, paure per ciò che è percepito come un pericolo nel presente ed emerge un’idea di insicurezza.

E cosa succede al nostro corpo?

Il nostro cervello ricerca sempre l’omeostasi e uno stressor come un evento straordinario emergenziale di questo calibro ci fa perdere l’equilibrio omeostatico e il corpo reagisce con una risposta a questo stress. Durante le emergenze, o quelle che riteniamo emergenze, nel corpo umano si attiva il sistema simpatico (Salpolsky, 2004), questo si trova in prima linea in quegli stati quale vigilanza, eccitazione, attivazione, mobilitazione. Le terminazioni nervose di questo sistema rilasciano l’adrenalina e la noradrenalina, sostanze che possiamo definire messaggeri chimici, che in rapidità mettono in moto i vari organi del nostro corpo. L’adrenalina nello specifico ci pone nella condizione che Cannon definisce flight o fight, ovvero lotta o fuga, quindi ci permette di attivare uno stato fisico e mentale che ci prepara all’azione. È Seyle che ci spiega nel dettaglio le 3 fasi della risposta allo stress:

  • Abbiamo uno stadio iniziale di allarme che si innesca nel momento in cui percepiamo lo stressor;
  • Un secondo stadio di adattamento o resistenza che cerca di ripristinare lo stato allostatico del nostro organismo;
  • Infine, se lo stress si percepisce prolungato nel tempo si entra nel terzo stadio detto di esaurimento.

La situazione Covid-19 si è protratta nel tempo rappresentando uno stato di allarme prolungato e, come abbiamo accennato, un eccessivo prolungamento di uno stato di allarme si traduce poi in conseguenze di malessere per il corpo e per la salute psicologica. Parallelamente all’attivazione fisiologica segue l’attivazione emozionale. Tra le emozioni che si attivano, troviamo la paura che salvaguarda la nostra sopravvivenza ponendoci in uno stato di preparazione all’azione per affrontare la minaccia.

La paura nel caso del Covid-19 si è presentata in diverse sfumature, rivolta al sé, alla propria salute e quindi alla propria sopravvivenza, o a quella di chi ci stava vicino, la paura di perdere qualcuno di caro; il tutto esperito in intensità molto variabili sino ad arrivare a mettere in atto anche comportamenti fobici per evitare il contagio per paura della malattia; vi è stato chi ha sentito la paura di rimanere solo ed isolato a causa della malattia o per via del contatto con persone malate; la paura è stata anche riconducibile alle conseguenze sul piano economico e personale causato dalle misure di chiusura e contenimento che sono state adottate per porre un freno ai contagi; infine, la paura è stata vissuta fortemente da persone che presentavano anche una predisposizione a sviluppare sintomi fobici da prima del Coronavirus. Ad esacerbare questa emozione ha giocato un ruolo fondamentale anche la continua esposizione a notizie preoccupanti e allarmanti, a volte contraddittorie, che ci hanno ripetutamente accompagnati in questi mesi, senza che vi fosse la scelta consapevole di ridimensionare la quantità di tempo passato ad informarsi costantemente e da diverse fonti.

Concentrati a trovare una soluzione

I cambiamenti psicologici dovuti alla paura, inoltre, spesso si traducono nell’iper-focalizzazione sul problema. Tale focalizzazione ci porta a trovarci in un continuo stato di problem solving. Quindi uno stato di perenne ricerca di soluzioni. Legato a questo concetto di attivazione e spinta a trovare una soluzione per la situazione vissuta, è molto interessante l’articolo di MarwaAzab, ripreso dalla dottoressa Francesca Pisacreta, sulle 10 reazioni comuni che si sono presentate durante l’emergenza del Coronavirus. Questo elenco di 10 reazioni sembra spiegare bene tutti quei comportamenti che più o meno abbiamo visto accadere in noi o attorno a noi. Tra queste alcune possono farci comprende come ognuno di noi si è attivato con uno schema comune.

Tra questa rassegna di reazioni si citano di seguito alcune delle più interessanti e comuni.

Abbiamo sperimentato una totale mancanza di controllo, e questo è stato dimostrato essere uno dei fattori che aumentano maggiormente lo stress percepito. Avere la sensazione di avere un controllo inappropriato di fronte a situazioni che consideriamo ‘terribili’ (e il Covid-19 possiamo supporre lo sia stato) ci fa sentire fortemente impotenti e privi di risorse.

Abbiamo iniziato ad abbuffarci. Lo stress può alterare l’appetito. Alcuni sviluppando iperfagia altri ipofagia. Il tipo di stressor che ci troviamo ad affrontare può essere un fattore importante per capire quale delle due risposte si manifesterà in noi, e ovviamente la risposta singola che ogni corpo ha di fronte all’evento stressante. Trovarsi in emergenza può significare trovarsi prima o poi nella difficile condizione di poter non avere un pasto a disposizione, motivo per cui mettiamo nel nostro corpo le riserve necessarie per sopravvivere a tale evenienza. Tuttavia, la sensazione che la minaccia sia già qui fa attivare il nostro corpo con l’idea che i nostri muscoli dovranno muoversi, o almeno questo è quello che la nostra risposta allo stress mette in atto. Quindi abbiamo bisogno di energia e che questa sia disponibile nel modo più veloce possibile, quindi non funge da riferimento quella immagazzinata, bensì quella che ci possiamo procurare nell’immediato e che rifornisce subito i muscoli: parliamo del glucosio e delle forme semplici di proteine e grassi. Sarà per questo che siamo diventati tutti cuochi provetti e siamo andati ad assaltare i supermercati?

Ci è stato praticamente impossibile ripensare ad eventi disastrosi del passato e alla capacità già mostrata di poter far fronte a tali situazioni. Questa sarebbe stata una delle soluzioni ideali se non fosse che gli ormoni dello stress influiscono sulla memoria e quindi il passato non diventa una fonte di informazioni affidabile.

Abbiamo dato credito a fake news. Durante un’emergenza è la nostra amigdala a prendere il sopravvento, come conseguenza si attiva uno stato di iper-prudenza da parte del nostro cervello che tende a cadere in errore e a considerare credibili anche notizie verosimili e un po’ improbabili. Spesso ciò che si fa durante un forte stressor è andare a cercare il maggior numero di informazioni accurate possibili e soprattutto andiamo alla ricerca di quelle informazioni che ci sembrano prevedibili. Tuttavia, tutte queste informazioni, se giungono troppo presto o troppo tardi non sono più utili, anzi diventano stressanti esse stesse.

Alla luce di queste considerazioni, possiamo sottolineare come, i vissuti che questa particolare emergenza ha acceso sono stati come detto all’inizio una messa alla prova per la resilienza di ognuno di noi. Ma va detto anche che nonostante si siano esperiti per la maggior parte delle persone dei momenti di forte stress, preoccupazione e paura, altre persone hanno potuto avere delle esperienze, invece, non del tutto negative. Un vissuto positivo in questa situazione, per quanto possa suonare dissonante, è stato possibile in coloro che hanno potuto trovare un modo per rendersi conto della propria resilienza e delle strategie che hanno permesso loro di affrontare la situazione e poter dare anche un contributo alla comunità, donando a queste persone, quindi, un senso di efficacia che ha permesso loro di rispondere proattivamente a questa situazione.

Le considerazioni che ad oggi, in una fase successiva a quella dell’emergenza iniziale, possiamo fare sono innanzitutto quelle di avere cura e attenzione per i propri pensieri e per le proprie emozioni. Può essere fondamentale per chi ha sperimentato forti vissuti di sofferenza psicologica in questo periodo o per chi teme di svilupparli, potersi affidare ad un percorso di sostegno psicologico che, come accennato all’inizio, è una delle raccomandazioni degli Ordini degli Psicologi, così come degli altri enti della salute. Un percorso Cognitivo – Comportamentale può essere particolarmente adatto data la sua comprovata efficacia scientifica per la cura dell’ansia, del panico, dei disturbi dell’adattamento e altre patologie psicologiche. È necessario mirare ad un supporto che permetta di eliminare i fattori di mantenimento della sofferenza psicologica e di lavorare sui pensieri e sui comportamenti che sono alla base del vissuto di minaccia e sofferenza percepiti. Possiamo porre la nostra attenzione su una serie di considerazioni semplici e immediate per risollevarci da uno stato di paura pervasiva dovuta allo stress, come il circondarsi di una rete sociale che permetta un contatto emotivo e di supporto, trovare quindi fonti di affiliazione e supporto psico-sociale.

Il geropsicologo: ruolo e competenze

L’American Psychological Association (APA) ha pubblicato nel 2003, con una revisione nel 2014, le ‘linee guida per la pratica psicologica con gli anziani’ e riconosciuto nel 2010 la figura del geropsicologo professionale.

 

Il progresso medico e scientifico, le migliori condizioni igienico-sanitarie e il diffondersi di stili di vita sani hanno portato indubbiamente una migliore qualità di vita, con conseguente aumento dell’aspettativa di vita e progressivo invecchiamento della popolazione. D’altra parte, però, si assiste a un aumento dei tassi di prevalenza dei disturbi neurocognitivi (DNC, APA 2013): secondo quanto riporta il più recente World Alzheimer Report (Patterson, 2018), attualmente nel mondo ci sono circa 50 milioni di persone con questa patologia e si prevede che entro il 2050 i casi saliranno a 152 milioni, con stima di una diagnosi di DNC ogni tre secondi. Tali numeri, ovviamente, comportano rilevanti implicazioni economiche con un costo attuale della patologia di circa un trilione di dollari l’anno, rendendo il DNC “priorità mondiale di salute pubblica” (World Alzheimer Report, 2012).

Al momento vengono impiegati farmaci sintomatici per attenuare le manifestazioni cliniche nelle fasi lievi-moderate di malattia. A ciò si aggiungono interventi psicosociali volti a rallentare l’evoluzione del DNC e a garantire migliore qualità di vita a chi ne è affetto, tra cui i protocolli di stimolazione cognitiva, in particolare la Cognitive Stimulation Therapy (CST; Spector et al., 2006), raccomandata dalle linee guida internazionali NICE (2018). Interventi farmacologici e psicosociali non sono in contrasto, anzi, i risultati migliori si ottengono dalla loro interazione (Ballard et al., 2011). Risulta, dunque, evidente la necessità di psicologi formati sui processi di invecchiamento che intervengano a livello domiciliare, semiresidenziale e residenziale al fine di garantire una migliore qualità di vita alle persone affette da DNC e ai loro caregivers.

La figura del geropsicologo

L’American Psychological Association (APA) ha pubblicato nel 2003, con una revisione nel 2014, le “linee guida per la pratica psicologica con gli anziani” e riconosciuto nel 2010 la figura del geropsicologo professionale. Egli è un professionista che indaga stabilità e cambiamenti psicologici della persona che invecchia, rallenta il decorso della demenza tramite interventi di stimolazione cognitiva, adotta strategie gestionali per ridurre i disturbi del comportamento nelle fasi avanzate di malattia e forma e sostiene i caregivers formali e informali, col principale fine di garantire una migliore qualità di vita all’intero sistema. Inoltre, non si occupa solo di invecchiamento patologico, ma anche di invecchiamento sano e attivo, promuovendo una cultura dell’anzianità e arginando forme di ageismo.

Le linee guida APA sopra citate sono delle raccomandazioni per i professionisti, seguite negli Stati Uniti ma che possono essere adattate anche ad altri paesi, offrendo così un quadro di riferimento per il lavoro clinico con gli anziani. Gli aspetti da esse approfonditi sono sei: la consapevolezza da parte del professionista dei propri atteggiamenti e credenze sull’invecchiamento; l’acquisizione di conoscenze circa gli aspetti biologici e sanitari connessi all’invecchiamento e le dinamiche sociali e psicologiche associate; le conoscenze circa la psicopatologia e i cambiamenti cognitivi; la conoscenza dei metodi di valutazione appropriati da un punto di vista psicometrico e culturale; i metodi di intervento, counseling e altri servizi; la necessità di una formazione continua.

Il geropsicologo in Italia

In Italia la figura del geropsicologo non è ancora riconosciuta ufficialmente, infatti la sua presenza nelle strutture per anziani varia di regione in regione. Il Veneto per esempio è una delle regioni che più riconosce l’importanza dell’intervento psicologico in questa fascia di popolazione, infatti gli standard regionali prevedono la presenza di uno psicologo ogni 120 utenti nelle strutture assistenziali in questione. Inoltre, l’Ordine degli Psicologi del Veneto ha pubblicato nel 2013 le linee guida “Ruolo e attività dello psicologo nell’area anziani” al fine di definire le prestazioni, i ruoli, le attività psicologiche e le buone prassi del professionista che si occupa dell’anziano, sia sano che patologico. Si tratta di una guida ateorica che valorizza la competenza multidisciplinare e che delinea le possibili funzioni del geropsicologo, individuando sei aree di intervento: residenzialità e semiresidenzialità, area ospedaliera, area domiciliare, università e centri di ricerca, terzo settore e comunità locale.

Per concludere, essendo la popolazione anziana in crescita, la pratica psicologica professionale con questo tipo di utenza e le pubblicazioni scientifiche a riguardo sono in forte aumento e, senza dubbio, nel futuro prossimo la presenza di figure professionali adeguatamente formate su questo settore saranno determinanti per una migliore qualità assistenziale.

I negazionisti: esempio di una società sempre più psicotica

L’elemento che hanno in comune i negazionisti è l’uso prevalente di un meccanismo di difesa teorizzato e ben studiato dai teorici dinamici: il diniego.

 

Abstract

L’autore intende evidenziare il ruolo della psicoanalisi nel fronteggiare nuove forme di disagio psichico collettivo. Durante la pandemia da COVID-19 diverse persone si sono riunite in gruppi sociali caratterizzate dall’uso del diniego come meccanismo di difesa per contrastare l’angoscia causata dalla pandemia. Tali gruppi sono per l’autore l’esempio di una società sempre più psicotica.

Abstract

The author intends to highlight the role of psychoanalysis in dealing with new forms of collective mental distress. During the COVID-19, several people gathered in social groups characterized by the use of denial as a defense mechanism to counter the anguish caused by the pandemic. For the author, these groups are an example of an increasingly psychotic society.

 

Recentemente Ratner e Gandhi (2020) hanno pubblicato, sulla prestigiosa rivista di medicina The Lancet, un articolo denuncia nei confronti di parte della popolazione statunitense che si rifiuta di eseguire le indicazioni mediche per poter contrastare la diffusione del COVID. Secondo alcuni cittadini U.S.A. il COVID-19 non esiste, per tale motivo è del tutto inutile rispettare le limitazioni imposte dal governo per poter fermare l’esponenziale diffusione del virus.

Un fenomeno analogo si è sviluppato anche nel nostro paese, in Italia i mass media hanno definito ‘negazionisti’ coloro che rifiutano di credere all’esistenza del virus. I negazionisti si sono recentemente radunati a Roma per poter protestare contro le misure adottate dal governo per contrastare l’avanzamento del coronavirus, manifestazione che si è caratterizzata da grida che urlavano no-mask.

Per i negazionisti il COVID-19 non esiste, a Bergamo non è morto nessuno, i video e le foto delle bare mostrate dai mass media erano dei fake, e secondo alcuni di loro i vaccini sono degli strumenti per poter ridurre il numero della popolazione mondiale. Per poter dare sostegno alle proprie tesi i negazionisti fanno uso delle più assurde teorie pseudoscientifiche, basate su aneddoti o elementi parziali di una verità scientifica.

Secondo Ratner e Gandhi vi è la necessità che la psicoanalisi si interroghi e cerchi di ‘curare’ queste nuove forme di disagio sociale. Ma perché proprio la psicoanalisi? L’elemento che hanno in comune i negazionisti italiani con quelli statunitensi è l’uso prevalente di un meccanismo di difesa teorizzato e ben studiato dai teorici dinamici: il diniego.

In accordo con Gabbard (2015) il diniego psichico è una forma primitiva di difesa che permette il disconoscimento di dati sensoriali provenienti dal mondo esterno fortemente destabilizzanti. La realtà esterna viene ritenuta eccessivamente minacciosa per la propria integrità psichica e per tali motivi viene rinnegata. Il diniego è un meccanismo di difesa riscontrato maggiormente nei pazienti psicotici o affetti da un grave disturbo di personalità. Il diniego permette di controllare l’angoscia causata da un evento esterno attraverso la completa negazione dell’evento stesso. I negazionisti mettendo in atto collettivamente il diniego negano l’esistenza all’interno della realtà di un elemento altamente minaccioso per la propria integrità psichica.

Solitamente meccanismi difensivi primitivi come il diniego vengono messi in atto da soggetti con una struttura precaria del proprio Io, struttura che può essere facilmente destabilizzata da eventi esterni catastrofici come il COVID-19.

I negazionisti sono il frutto di una società che promuove e incentiva sempre più l’uso di meccanismi difensivi primitivi come il diniego, una società che sembra essere sempre più psicotica. Il non riconoscimento di un dato oggettivo della realtà è l’elemento diagnostico che permette di individuare le personalità organizzate a un livello psicotico. Molte persone psicotiche possono anche essere ben integrate all’interno della società, non sempre essa è associata a una malattia fortemente invalidante come la schizofrenia. Infatti molti dei negazionisti non sembrano manifestare sintomi di una schizofrenia florida, eppure organizzano la loro identità collettiva attorno al diniego.

Il negazionismo non è limitato esclusivamente al COVID-19, ma coinvolge anche fatti storici come l’olocausto oppure temi sociali come il cambiamento climatico. In molti infatti negano la veridicità del genocidio degli ebrei da parte della Germania nazista, oppure negano l’esistenza di una crisi climatica. Tesi negazioniste molto spesso sono anche incentivate da scienziati associati a diverse lobby o dagli stessi esponenti politici.

Il negazionismo sembra quindi essere un sintomo di una società sempre più strutturata a livello psicotico, in cui si assiste al proliferarsi di impulsi aggressivi diretti nei confronti di coloro che seguono le tesi scientifiche. Affianco al diniego, tra i negazionisti si assiste anche alla manifestazione di alcune ideazioni paranoidi, riscontrate frequentemente nelle organizzazioni psicotiche. Aggressività, diniego e ideazioni paranoidi sono tre elementi che caratterizzano la società moderna e che sono esemplificati dallo strutturarsi di gruppi sociali come i negazionisti.

Come hanno affermato Ratner e Gandhi (2020) la psicoanalisi ha il dovere di interrogarsi sulle dinamiche psicotiche che stanno interessando la nostra società contemporanea. A differenza della società vittoriana vissuta da Freud che era caratterizzata dalla nevrosi e dalla rimozione come elemento strutturante, oggigiorno si viene a contatto con forme di disagio psichico sempre più ‘primitive’ e caratterizzate dal diniego o meccanismi di difesa simili. Il negazionismo è il sintomo gruppale di una psicosi sociale sempre più dilagante.

La psicoanalisi e anche le altre forme di psicoterapia focalizzate su dinamiche interne sia individuali che sociali, hanno l’obbligo di diventare strumenti di trasformazione sociale, andando oltre gli studi dei professionisti privati che da anni esercitano la pratica terapeutica. Già Freud aveva auspicato per la psicoanalisi un compito del genere, compito che diventa ancora più centrale in tempi di crisi come quella che il mondo si trova ad affrontare oggigiorno. La manifestazione di forme collettive patologiche come il negazionismo si combattono attraverso campagne educative sociali in cui la psicoanalisi o altre forme di psicoterapia diventano la base di trasformazioni socio-culturali indispensabili per una crescita generale dell’umanità. Il proliferarsi di dinamiche sempre più primitive all’interno della società deve preoccupare non poco tutti i professionisti impegnati nella salute mentale a un ripensamento delle strategie di cura e di prevenzione a livello sociale.

 

Usi e costumi nei siti di incontri online

E’ veramente il genere sessuale la variabile che meglio ci fa comprendere l’utente di siti e app di incontri online come Tinder e che ci fa prevedere i motivi che sono dietro il loro uso?

 

Internet sta con il tempo modificando le nostre abitudini. Molte cose che prima venivano fatte in luoghi fisici, come leggere il giornale, comprare un paio di scarpe o guardare la mappa di una nuova città, ora possono essere svolte davanti ad uno schermo, e in tempi più rapidi.

Ma per rendere ancora più evidente come internet abbia rivoluzionato il nostro modo di vivere basta pensare a come stanno cambiando le nostre abitudini relazionali. Internet ha infatti arricchito le possibilità che abbiamo di conoscere nuove persone, rendendo questa conoscenza indipendente dalla distanza che separa le persone. Non si sta affermando che oggi conosciamo necessariamente più persone di prima, ma che siamo sicuramente agevolati nel farlo.

In questo clima di maggiore ed indistinta connessione interpersonale, si sono diffusi nel tempo siti ed app di incontri: uno di questi e sicuramente il più popolare è Tinder, introdotto nel 2012.

L’esperimento di Botnen (2018) mostra come la maggior parte delle persone che usano questi siti per appuntamenti non siano interessati a cercare l’anima gemella, ma bensì a incontri occasionali, o ‘short term encounters’. Tuttavia la stessa ricerca, insieme a quella compiuta da Hallem (2018), mostra comunque un ampio ventaglio di motivazioni che, in alternativa, spingono ad usare questi siti: le persone possono infatti essere interessate a cercarvi individui con cui sviluppare una relazione duratura. Allo stesso modo invece possono decidere di usarli per assecondare i loro desideri sessuali con uno sconosciuto, per il semplice motivo che questi siti stanno diventando di tendenza, per la maggiore facilità della comunicazione, o semplicemente per noia.

Ma chi sono questi utenti e da cosa sono accomunati?

Il senso comune ed anche una consistente quantità di ricerche (Lippa, 2009; Schmitt, 2005; Peter and Valkenburg 2007; Tolman et al. 2003; Sumter, 2017) ci spingono a pensare agli uomini come più impegnati nella ricerca di nuove e brevi avventure sessuali. Le donne invece sembrerebbero vestire il ruolo più romantico, dell’utente più interessato a trovare un partner con cui creare una relazione.

Questa asimmetria sessuale legata al genere è in linea con il ruolo sessuale socialmente interiorizzato dell’uomo e della donna, che ha la sua base teorica sui precetti della Teoria dell’Investimento Parentale di Trivers (1972). L’universalità del differente, e se vogliamo complementare, comportamento sessuale dell’uomo e della donna sarebbe radicato nell’evoluzione della specie umana, che ha visto l’uomo impegnarsi in molteplici relazioni a breve termine per fare in modo di massimizzare la riproduzione. Le donne, invece, hanno meno da guadagnare dall’avere più partner sessuali e sono perciò biologicamente vincolate a ricercare ‘l’impegno’ con il proprio partner, in quanto si trovano ad operare all’interno dei limiti fisici imposti dalla maternità. Le donne saranno infatti motivate a stabilire una relazione che fornisca loro le risorse durante i mesi di gravidanza e nella crescita dei bambini.

Tale organizzazione segue perciò il diverso grado di ‘investimento’ compiuto dai due partner, che ha permesso l’evoluzione stessa della specie. Tale differenza biologica tra uomo e donna che si è protratta nel tempo, stabilendo ruoli di genere ben precisi, si traduce oggi nella diversa modalità di pensare gli incontri che l’uomo e la donna mettono in atto (Easton et al. 2015).

Ma è veramente il genere sessuale la variabile che meglio ci fa comprendere l’utente di questi siti e che ci fa prevedere i motivi che sono dietro il loro uso?

Rispondere con un no categorico significherebbe non considerare tutte le ricerche e le teorie menzionate sopra. Chiunque si introduca nel tema che stiamo trattando in questo articolo non può affatto ignorare le differenze di genere sul tema delle strategie sessuali. Tuttavia, la ricerca di Hallam (2018) e di Botnen (2018) ci invitano a prendere in considerazione un’altra variabile rispetto al genere: l’orientamento socio-sessuale.

L’orientamento socio-sessuale è la propensione e il comportamento del singolo individuo riguardo il sesso occasionale (Simpson and Gangestad 1991). Tale variabile non punta più sull’osservare il sesso, ma sull’osservare il singolo indipendentemente dal sesso.

Anche se tale concetto è stato esposto per la prima volta da Alfred Kinsey (Kinsey et al. 1948) nel 1948, è stato messo in pratica nel campo della ricerca solo negli anni ’90, dopo che Simpson e Gangestad hanno messo a punto il Sociosexual Orientation Inventory (SOI) nel 1991 (Hallam et. al, 2018). Tale inventario permette l’acquisizione delle misure self-report di comportamenti, desideri e propensioni dei soggetti, che vengono poi tradotti in un valore all’interno della polarità ‘ristretto/non-ristretto’ dell’orientamento socio-sessuale. Con ristretto si intende la tendenza del soggetto a volere rapporti sessuali esclusivamente all’interno di relazioni ad alto coinvolgimento emotivo e che richiedono impegno verso l’altro. L’estremità dell’orientamento non-ristretto indica invece la tendenza a preferire relazioni che richiedono basso impegno, scarsa intimità e minimo coinvolgimento emotivo (Simpson e Gangestad 1991).

Parliamo di orientamento socio-sessuale perché se è vero che le ricerche focalizzate sul genere ci mostrano come gli uomini siano più inclini a cercare relazioni sessuali occasionali rispetto alle donne, non possiamo ignorare che molti uomini non rientrano in questa casistica. Lo stesso vale per quelle donne che al contrario dimostrano di preferire relazioni sessuali più fugaci e meno impegnative.

L’esperimento di Hallam (2018) ha preso in considerazione un campione di 254 persone, tra i 18 ed i 65 anni. Il 57,9% era composto da donne, il resto da uomini. La ricerca iniziava con un questionario circa la loro esperienza di incontri online. Le persone che hanno dichiarato di non avere avuto precedenti esperienze di incontri online (n = 53) sono state scartate dall’esperimento, in quanto la loro partecipazione non era in linea con l’argomento in analisi. L’esperimento infatti voleva indagare la rilevanza della variabile di genere nel comportamento sessuale, e se l’orientamento socio-sessuale dei soggetti predicesse meglio del genere la strategia negli appuntamenti degli utenti dei siti di incontri online.

Ai partecipanti sono state somministrate una serie di domande che indagavano le motivazioni dietro l’uso di questi siti, la loro età, il loro sesso ed il loro orientamento socio-sessuale, mediante l’ultima versione del SOI. Quindi sono stati analizzati i risultati, dapprima non considerando l’orientamento socio-sessuale, per poi considerare anche tale variabile.

Nella prima fase dell’analisi è stato registrato un notevole effetto del genere sulla strategia adottata dai soggetti durante l’uso di questi siti: è stato infatti appurato che i partecipanti di sesso maschile erano quelli che più cercavano in questi siti relazioni occasionali. Tuttavia, la seconda analisi che prendeva in considerazione anche l’orientamento socio-sessuale dei partecipanti ha mostrato come gli individui con un orientamento ‘non-ristretto’, che quindi preferiscono relazioni sessuali meno intime ed impegnative dal punto di vista sentimentale, erano più motivati a usare i siti e app di incontri per cercare sesso occasionale, e che viceversa individui con un orientamento socio-sessuale ‘ristretto’ erano più motivati a usare gli stessi siti per ricercare relazioni più impegnative. Molto interessante è il fatto che in quest’ultima analisi l’effetto della variabile di ‘genere’ emerso precedentemente era completamente sparito, in quanto la variabile dell’orientamento socio-sessuale aveva fatto confluire le donne e gli uomini dell’esperimento dentro lo stesso gruppo. Con questo esperimento la tesi iniziale è stata confermata, dimostrando che la variabile dell’orientamento socio-sessuale, meglio di quella del genere sessuale, riesce a predire le strategie degli utenti che usano i siti e le app di incontri online.

Lungi dal sottovalutare il binomio genere-strategia sessuale, tale ricerca, insieme a quella svolta da Botnen (2018) invita i ricercatori a considerare la variabile dell’orientamento socio-sessuale nello studio dei comportamenti sociali entro la sfera sessuale.

Tale modo di pensare ci spinge a porre più attenzione all’unicità del singolo individuo, piuttosto che definire i suoi comportamenti in base alla categoria sociale a cui appartiene. Quando si mantiene una rappresentazione troppo generalizzata e, quindi, rigida del genere sessuale si rischia di sottovalutare la flessibilità delle sue caratteristiche, oltre alla plasticità che ognuno di noi dimostra nel far fronte alle molteplici richieste dell’ambiente. Questo è tanto più vero se pensiamo alla nostra società e a come questa stia vivendo una lenta ma progressiva rivoluzione dei ruoli sociali legati al genere.

 

L’effetto della ruminazione rabbiosa nei bambini affetti da un disturbo dello spettro autistico

Data l’elevata compresenza esistente tra il disturbo dello spettro autistico (ASD) e i comportamenti dirompenti, una miglior comprensione del ruolo della ruminazione rabbiosa nell’ASD potrebbe contribuire allo sviluppo di nuovi trattamenti terapeutici

 

La ruminazione rabbiosa è un processo cognitivo caratterizzato da una tendenza a focalizzarsi su esperienze passate frustranti che hanno suscitato rabbia (Sukhodolsky et al., 2001). Trattandosi di una forma disadattiva di elaborazione emotiva, la ruminazione può precludere l’utilizzo di strategie di regolazione, quali la ristrutturazione cognitiva e il problem solving (Connor-Smith et al., 2000; Nolen-Hoeksema et al., 2008), dando origine ad un ampio spettro di condotte, quali manifestazioni ansiose e depressive (Aldao et al., 2010) o, ancora, comportamenti dirompenti, come irritabilità e aggressività (Aldao et al., 2016).

Il disturbo dello spettro autistico (ASD) è caratterizzato da deficit persistenti nella comunicazione e nell’interazione sociale, nonché dalla messa in atto di comportamenti ristretti e ripetitivi (American Psychiatric Association, 2013). Inoltre, è stato osservato che oltre il 50% dei bambini affetti da un disturbo dello spettro autistico presenta, al contempo, un disturbo del comportamento dirompente (DB) e/o disturbi internalizzanti (Lecavalier et al., 2019) che compromettono il funzionamento globale dei singoli.

In letteratura sono presenti numerosi studi che si sono proposti di indagare gli effetti della ruminazione rabbiosa nei bambini, ma si sa ancora poco rispetto all’influenza esercitata dalla ruminazione rabbiosa in infanti affetti da un disturbo dello spettro autistico. Difatti, solo due studi (Patel et al., 2017; Pugliese et al., 2015) hanno fornito una prova preliminare che in soggetti affetti da un disturbo dello spettro autistico, vi sia una maggior tendenza ad impegnarsi in un meccanismo di ruminazione focalizzato sulla rabbia e di una sua possibile associazione con i principali sintomi che caratterizzano il disturbo sopracitato.

Data l’elevata compresenza esistente tra l’ASD e i comportamenti dirompenti, una miglior comprensione del ruolo della ruminazione rabbiosa nell’ASD potrebbe contribuire allo sviluppo di nuovi trattamenti terapeutici (Mazefsky & White, 2014), motivo per cui un gruppo di ricercatori si è posto l’obiettivo di indagare le eventuali differenze esistenti nei meccanismi di ruminazione rabbiosa in un campione di bambini con ASD rispetto a bambini affetti da un disturbo del comportamento dirompente ed un gruppo di controllo. In secondo luogo, gli autori hanno ipotizzato che i meccanismi di ruminazione rabbiosa sarebbero stati associati a comportamenti aggressivi, nonché ai comportamenti ristretti e ripetitivi, tipici dei soggetti affetti da ASD.

Lo studio ha visto dunque la partecipazione di soggetti con un’età compresa tra gli 8 e i 16 anni; di questi, 63 erano affetti da un disturbo dello spettro autistico, 79 avevano ricevuto una diagnosi di disturbo del comportamento dirompente e 44 costituivano il gruppo di controllo. Inoltre, trattandosi di uno studio focalizzato sull’analisi della ruminazione rabbiosa nel disturbo dello spettro autistico, il gruppo composto da bambini con ASD è stato ulteriormente diviso in due sottogruppi, al fine di effettuare delle analisi post hoc che consentissero di esaminare le differenze nella ruminazione rabbiosa nei bambini con ASD con e senza comportamenti dirompenti concomitanti, definiti rispettivamente ASD/DB+ e ASD/DB-. Gli autori hanno dunque ulteriormente ipotizzato che i bambini ASD con disturbo del comportamento dirompente avrebbero mostrato livelli maggiori di ruminazione rabbiosa rispetto all’altro sotto-gruppo.

Per quanto concerne gli strumenti impiegati, è stata utilizzata l’Anger Rumination Scale (ARS; Sukhodolsky et al., 2001), al fine di misurare la tendenza dei partecipanti a soffermarsi su episodi che hanno suscitato rabbia, mentre, la seconda edizione della Social Responsiveness Scale (SRS-2; Constantino, 2005) è stata somministrata al fine di valutare i sintomi associati al disturbo dello spettro autistico, come i comportamenti ripetitivi e stereotipati. In questo caso, è stato chiesto ai genitori di compilare la suddetta scala. Ulteriormente, mediante la seconda edizione dell’Autism Diagnostic Observation Schedule (ADOS-2; Lord et al. 2012) è stata valutata la comunicazione, l’interazione sociale ed i comportamenti ristretti. Infine, con l’obiettivo di analizzare l’aggressività dei partecipanti, è stato chiesto ai genitori di compilare il Reactive-Proactive Agression Questionnaire (RPQ; Raine et al., 2006).

Coerentemente con le aspettative e con gli studi precedenti (Patel et al., 2017), i bambini affetti da un disturbo dello spettro autistico e i bambini con un disturbo del comportamento dirompente hanno mostrato livelli più elevati di ruminazione rabbiosa rispetto ai controlli sani, lasciando intendere la tendenza di questi soggetti ad impegnarsi in modelli disadattivi di regolazione (Mazefsky et al., 2014). I livelli di ruminazione rabbiosa erano però simili tra i gruppi ASD e DB, il che potrebbe suggerire che i due disturbi condividano un meccanismo sottostante di compromissione emotiva. Inoltre, questi risultati supportano l’ipotesi che la ruminazione sia un processo transdiagnostico comune a tutti i disturbi (Aldao et al., 2016). È interessante notare che il sottogruppo ASD/ DB+ ha mostrato maggiori livelli di ruminazione rabbiosa rispetto al sottogruppo ASD/DB-, il che è coerente con gli studi condotti su popolazioni con sviluppo tipico, che indicano che vi sia una maggior tendenza alla ruminazione rabbiosa nei giovani con disturbi del comportamento dirompente (Harmon et al., 2017). Infine, i risultati hanno mostrato che alti livelli di ruminazione rabbiosa erano associati a maggiori comportamenti ristretti e ripetitivi nei bambini affetti da un disturbo dello spettro autistico, rispetto agli infanti con sviluppo tipico. Anche in questo caso, i risultati si sono dimostrati coerenti con gli studi precedenti che avevano riportato una prova preliminare dell’associazione tra la ruminazione rabbiosa e i sintomi tipici del disturbo dello spettro autistico, come la perseveranza o l’eccessiva aderenza alla ripetitività (Pugliese et al., 2015). Queste scoperte sono degne di nota in quanto lasciano intendere che i comportamenti stereotipati e la rigidità del pensiero che caratterizzano i soggetti affetti da un disturbo dello spettro autistico potrebbero predisporli al meccanismo della ruminazione, determinando una maggiore difficoltà a disimpegnarsi da questa tipologia di pensieri perseveranti (Mazefsky et al., 2012). Purtroppo, data la natura correlazionale dello studio in questione, direzionalità e causalità non possono essere dedotte da queste associazioni. Pertanto, studi futuri dovranno fornire una migliore comprensione circa l’effetto della ruminazione nel disturbo dello spettro autistico, affinché si possano sviluppare nuovi interventi clinici che consentano di migliorare il funzionamento globale di questi pazienti.

 

La Musica in Gravidanza

In che modo l’ascolto della musica e della voce o del canto materno durante la gravidanza possono influenzare la relazione di attaccamento tra madre e bambino? E come la musica agisce sugli aspetti psicologici, quali ansia, depressione e stress?

Mariasilvia Rossetti e Giulia Balerci – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

La musica è un linguaggio universale ed è una disciplina che viene utilizzata in molti ambiti e con varie finalità: educative, di rilassamento, riabilitative, formative, narrative, espressive, rappresentative, artistiche e ludiche.

Sin da bambini, siamo esposti alla musica, alle canzoni e alle filastrocche recitate e cantate in modo divertente, che hanno il potere di far sorridere e rilassare. La musica permette al bambino anche di esperire la propria emotività e affettività, di apprendere, giocare, comunicare e trarre beneficio da essa.

Attraverso l’intervento musicoterapico, che per sua natura è multidisciplinare, è possibile indurre modificazioni a vari livelli: intrapsichico e interpersonale, ma anche cambiamenti a livello comportamentale e fisiologico (Raglio, 2008).

Tale articolo intende illustrare in che modo l’ascolto della musica e della voce o del canto materno durante la gravidanza possano influenzare la relazione di attaccamento tra madre e bambino e in che modo la musica agisca sugli aspetti psicologici, quali ansia, depressione e stress. Gli interventi musicali agiscono prevenendo l’incremento e il peggioramento di tali fattori di rischio ed evitando ripercussioni sia sulla mamma che sul nascituro, quali ad esempio depressione post-parto, ansia cronica, problematiche nello sviluppo cognitivo-motorio del bambino e autismo (Barlow & Glover, 2014).

Già nel periodo gestazionale l’orecchio è predisposto all’ascolto ed è sollecitato dal suono e dal tono di voce dalla mamma, dalle sue parole, dal continuo sottofondo del ritmo del battito cardiaco e dal suono prodotto dal flusso del liquido amniotico.

Vari studi hanno esaminato gli effetti benefici dell’ascolto di musica, in modo costante, sullo stress, sull’ansia e sulla depressione nelle donne durante il periodo della gravidanza.

Questa fase potrebbe essere caratterizzata da una prevalenza di stress psicologico dovuto ai cambiamenti che la coppia deve affrontare. Cambiamenti che riguardano una modifica dei ruoli interpersonali, ma anche gli stessi cambiamenti fisici e corporei che la gravidanza comporta per la donna. Non sono da tralasciare anche le preoccupazioni dovute ad eventuali e possibili complicazioni relative sia alla gestante che al feto. Tali problematiche andrebbero ulteriormente ad incrementare lo stress e l’ansia, predisponendo la mamma allo sviluppo di psicopatologie.

Gli studi mostrano che gli interventi basati sull’ascolto di musica, specialmente se in gruppo, riducono significativamente il livello di ansia materno (van Willenswaard et al., 2017). Relativamente allo stress, le evidenze mostrano che l’efficacia dell’intervento dipende dalla scelta della musica a partire dalle preferenze delle gestanti (Jiang, Zhou, Rickson & Jiang, 2013).

L’ansia nel periodo gestazionale, nei mesi prima del parto, potrebbe avere effetti negativi anche sul nascituro, oltre che sul benessere della mamma, perché potrebbe causare la nascita pretermine, alti rischi di depressione post-parto e problemi cognitivi ed emotivi nel bambino (Lin et al., 2019). La ricerca mostra che, l’intervento musicale, preferibilmente durante il terzo trimestre di gravidanza, piuttosto che durante il travaglio, si è rilevato efficace nel ridurre il livello d’ansia e può essere utilizzato come valida alternativa ai farmaci ansiolitici, i quali, a loro volta, aumentano le nascite pretermine e il basso peso del bambino alla nascita. Inoltre, tale intervento è molto praticabile, poco costoso, accessibile a tutti e senza effetti collaterali, al contrario del trattamento farmacologico.

Durante la gravidanza le puerpere presentano spesso i sintomi caratteristici della depressione: stanchezza, insonnia, irritabilità e anedonia.

Come già precedentemente detto, tale fase della vita è un periodo che prevede una transizione da un ruolo ad un altro, che include un adattamento emotivo e cambiamenti fisici. È stato visto che l’ascolto regolare della musica supporta la salute mentale della mamma, andando a ridurre i sintomi della depressione, riducendo il livello di cortisolo e di ansia (Fancourt & Perkins, 2018).

Così come l’ansia, anche la depressione durante la gravidanza può causare effetti avversi nel feto e, di conseguenza, sul bambino. I comportamenti e gli stati psico-emotivi esperiti dalla mamma vengono percepiti dal feto e contribuiscono al suo benessere.

Anche lo studio condotto da Nwebube, Glover e Stewart (2017) suggerisce di utilizzare l’intervento musicale come mezzo efficace non farmacologico per ridurre l’ansia e la depressione prenatali. In particolare, l’ascolto regolare di musica rilassante può ridurre i sintomi di ansia e depressione nelle donne incinte. Per 12 settimane le partecipanti hanno ascoltato musica giornalmente e attraverso dei questionari si sono indagati gli andamenti dell’ansia e della depressione. I risultati mostrano una diminuzione dell’ansia di stato, dell’ansia di tratto e della depressione.

L’ascolto della musica, inoltre, può alterare lo stato di eccitazione e modificare l’umore. Uno studio (Ventura, Gomes, & Carreira, 2012) condotto con donne in stato di gravidanza ha mostrato che se veniva fatta ascoltare loro la musica, prima di sottoporsi all’amniocentesi, questo riduceva sia l’ansia di stato che i livelli di cortisolo. Ha effetti benefici anche se utilizzata prima e durante la preparazione al parto cesareo, poiché va a ridurre i livelli di stress e permette, in questo modo, di somministrare alla donna un dosaggio minore di anestetico (Sidorenko, 2000).

Un altro intervento musicale, invece, ha insegnato a cantare ‘ninna nanne’ alle mamme durante la gravidanza (Carolan, Barry, Gamble, Turner, & Mascareñas, 2012) ed è stato rilevato che questo le ha aiutate ad esprimersi emotivamente, a ridurre il livello di ansia e a vivere un’esperienza positiva durante il periodo antecedente al parto.

Gli effetti benefici dell’ascolto di musica sulle emozioni della mamma si riflettono, a loro volta, sugli stati comportamentali del bambino appena nato, sulle sue prestazioni motorie, che risultano migliori rispetto al gruppo dei bambini di controllo, e sulla sua plasticità neurale (Arya, Chansoria, Konanki & Tiwari, 2012). Il feto, già a 28-32 settimane di gestazione, risponde con un aumento o una diminuzione della frequenza cardiaca a seconda dell’intensità del suono che gli viene fatto ascoltare, e questo potrebbe indicare un’attenzione selettiva allo stimolo sonoro proposto. Dalla trentatreesima settimana si rilevano un aumento più sostenuto della frequenza cardiaca e un cambiamento nei movimenti del corpo (Kisilevsky, Hains, Jacquet, Granier‐Deferre & Lecanuet, 2004). Questi effetti sono probabilmente mediati dai cambiamenti endocrini prodotti nella mamma, tra i quali un aumento degli ormoni della crescita, un incremento nella secrezione di steroidi e nei livelli di cortisolo e di testosterone. Anche altri studi mostrano che, nel terzo trimestre di gravidanza, durante l’ascolto di musica, si rilevano un aumento di movimenti del feto e una diminuzione delle contrazioni dell’utero, abbassando così il rischio di nascita pretermine. Anche l’ascolto della voce materna produce, in risposta, un aumento del battito cardiaco e dei movimenti del feto (Noura, 2005; Gebuza, Zaleska, Kaźmierczak, Mieczkowska, & Gierszewska, 2018).

Le interazioni tra gestante e feto durante la gravidanza vanno ad influenzare, oltre che la salute mentale della mamma prima e dopo il parto, anche la relazione di attaccamento: poiché aumentano le interazioni e la responsività della mamma ai comportamenti e alle richieste del bambino, di riflesso si riduce il rischio dello sviluppo di una depressione post parto (Mahmoudi, Elyasi, Nadi & Shirvani, 2020). Anche in questo caso, l’ascolto della musica apporta miglioramenti, incrementando la relazione di attaccamento tra la madre e il feto (Lee, 2010; Yang & Kim, 2010).

Jurgens, Levy-Rueff, Goffinet, Golse e Beauquier-Macotta (2010) hanno mostrato che l’origine del legame tra madre e bambino si colloca in gravidanza, precisamente nel momento in cui la madre inizia a percepire i movimenti fetali. È proprio in questo momento che comincia ad instaurarsi una relazione affettiva e interattiva con il bambino che cresce al suo interno, definita da Jurgens ‘attaccamento materno-fetale’.

Già nel ventre materno il bambino è immerso in stimoli sensoriali; la sua pelle è molto ricca di recettori specifici per le vibrazioni sonore, che permettono la percezione uditiva (Soldera, 2005). Il feto è stimolato dal battito cardiaco, dal respiro materno, dai ritmi sonno-veglia, dalla voce materna e percepisce questi ‘suoni’ attraverso le vibrazioni del flusso amniotico (Gualtieri, 2006).

Questi contatti sonori, primo tra tutti, la voce materna, oltre a stimolare l’attività delle cellule, delle vie uditive cerebrali e a favorire lo sviluppo delle abilità intellettive, sono una modalità per creare un vincolo affettivo tra adulto e neonato. Già alla nascita, se durante la gravidanza sono stati effettuati interventi di stimolazione uditiva, il bambino è in grado di discriminare la voce materna tra le altre e da quella del padre (Carnicer & Garrido, 2006).

Se durante la gestazione la mamma ha stabilito una relazione affettiva con il bambino, continuerà in modo più facile a mantenerla anche dopo la nascita: si crea così un ponte, un continuum del legame di attaccamento tra gravidanza e post-nascita.

Per quanto riguarda la relazione genitoriale, non è da trascurare l’apporto della voce paterna, caratterizzata da un timbro e una tonalità diversi. Viene suggerito anche a lui di parlare con il feto e, se possibile, cantare al bambino, in modo da entrare in sintonia e in relazione con i vissuti materni e fetali. In questo modo, inizierà anche lui ad instaurare una relazione con il figlio e a contribuire alla maturazione sensoriale del feto (Manfredi & Imbasciati, 2004).

Possiamo concludere che le esperienze sonore tra madre e bambino, a partire dalla gravidanza, e l’ascolto della musica in alcune fasi della gestazione, influenzano positivamente sia il benessere e lo sviluppo del feto, che il benessere della gestante prima e dopo il parto.

La Functional Analytic Psychotherapy – FAP

La Functional Analytic Psychotherapy (FAP; Kohlenberg & Tsai, 1991) è una delle terapie comportamentali definite da Hayes di terza generazione (Hayes, 2004).

 

Si presenta come un approccio idiografico appartenente alla tradizione comportamentale contestualista (Vilardaga, Hayes, Levin, & Muto, 2009). In questo modello terapeutico, lo strumento primario per una psicoterapia è la creazione di una relazione intensa e genuina tra terapeuta e cliente. Durante la sessione, il terapeuta rinforza in maniera naturale e contingente i comportamenti funzionali del cliente ed estingue quelli disfunzionali (Horvath, 2005; Kohlenberg & Tsai, 1994; Kohlenberg, Yeater e Kohlenberg, 1998; Tsai, Kohlenberg e Kanter, 2010).

I principi teorici della FAP

La FAP è stata concettualizzata negli anni ’90 da Robert Kohlenberg e Mavis Tsai che, dopo aver notato un’associazione clinicamente significativa tra i risultati raggiunti dal cliente in sessione e la qualità della relazione terapeutica, hanno iniziato a creare un modello teorico basato sui principi dell’analisi del comportamento contestualista nella relazione terapeutica. Le sue fondamenta fanno riferimento al comportamentismo radicale (ad es. Skinner, 1974), oggi situato nel quadro più ampio del funzionalismo contestuale (Hayes, Barnes-Holmes e Wilson, 2012; Hayes, Barnes-Holmes e Biglan, 2016).

Nel 1991, con l’uscita dell’omonimo manuale scritto da Robert Kohlenberg e Mavis Tsai, la FAP entra così a far parte delle terapie del comportamento di terza generazione (Hayes, 2004).

La FAP parte dall’assunto che tra i comportamenti del cliente che emergono durante la sessione e nella relazione con il terapeuta, e quelli che avvengono fuori dalla sessione ci sia un parallelismo; in altre parole, si parte dal presupposto che nella relazione terapeutica il cliente metterà in atto comportamenti funzionalmente simili a quelli che agisce nella sua vita di tutti i giorni. Quindi una delle prime osservazioni che un terapeuta FAP può mettere in atto è quella di individuare e distinguere, tra i comportamenti che il cliente emette in sessione e nella relazione terapeutica, quelli che potrebbero essere i comportamenti disfunzionali (CRB1- comportamento clinicamente rilevante di tipo 1) e quelli che potrebbero essere i comportamenti funzionali (CRB2 – comportamento clinicamente rilevante di tipo 2).

Nello specifico, l’enfasi viene posta sulla descrizione del comportamento in termini di funzione piuttosto che di topografia (Hayes & Follette, 1992). La descrizione funzionale serve a scoprire quali sono gli elementi del contesto che accrescono, diminuiscono o creano l’occasione per l’emissione di un certo comportamento.

Infatti, i comportamenti clinicamente rilevanti sono raggruppabili in classi funzionali di risposte. Una ‘classe funzionale’ viene definita come un insieme di comportamenti che hanno in comune gli stessi antecedenti e medesime conseguenze. Basandosi su questo principio, l’analisi del comportamento presuppone che alcuni comportamenti disfunzionali, che si verificano in sessione, siano basati sugli stessi antecedenti e conseguenze che sono comuni a quelli che si verificano nella vita quotidiana del cliente (Kuczynski et al., 2020).

Tre principi della FAP

Alla base del contesto clinico terapeutico della FAP, Mavis Tsai (2009) descrive tre principi che emergono, guidano la relazione terapeutica, possono essere evocati e favoriscono il cambiamento terapeutico: consapevolezza, coraggio e amore terapeutico (Awarness, Courage, Love).

Consapevolezza

Tsai et al. (2009) hanno definito la consapevolezza in termini di attenzione piena e consapevole alle proprie reazioni emotive, ai propri comportamenti e obiettivi terapeutici ma anche alle emozioni e al comportamento dell’altro individuo all’interno dell’interazione. Secondo la FAP la consapevolezza consente di prestare attenzione ai comportamenti dell’altro individuo, aumentando la probabilità di successo della relazione terapeutica (Kuczynski et al., 2020).

Coraggio

Tsai et al. (2009), descrivono una vasta gamma di comportamenti interpersonali coraggiosi come quei comportamenti che sono importanti perché coerenti con i valori, l’identità e i punti di vista del cliente. Per agire questi comportamenti, terapeuta e cliente scelgono di andare oltre i propri limiti, uscendo dalla propria zona di comfort e assumendosi il rischio di emettere comportamenti relazionali non in ‘automatico’ per valutarne poi il possibile effetto positivo, resistendo alla paura ed alle difficoltà.

Amore (terapeutico)

Il termine ‘Love’, che tradotto in italiano è ‘amore’, in questo modello terapeutico viene utilizzato per descrivere le qualità della propria risposta al comportamento emesso dal cliente. Il terapeuta utilizza il rinforzo verso i CRB2 che il cliente manifesta in sessione al fine di promuovere la generalizzazione del comportamento funzionale emerso nei contesti di vita rilevanti per il cliente. Tale rinforzo avviene in modo contingente, naturale e autentico con espressioni di empatia e rispetto (Tsai et al., 2009). L’amore terapeutico è etico, è sempre nell’interesse dei clienti ed è genuino. Essere terapeuticamente amorevoli implica cura e vicinanza relazionale verso il cliente (Kohlenberg &Tsai, 2012; Tsai et al., 2012).

Le cinque regole della FAP

Kohlenberg e Tsai (1991) hanno formulato cinque regole che guidano il terapeuta durante la sessione clinica con il cliente.

Regola 1: Osservare ed identificare i CRB

È fondamentale che il terapeuta sia attento al momento in cui si verifica un CRB (comportamento clinicamente rilevante) nel cliente poiché ciò avrà effetti significativi sulla concettualizzazione del caso, sulla natura e sul focus dell’intervento (Tsai, Kohlenberg et al., 2009).

Riconoscere i CRB consente al terapeuta di avviare un intervento individualizzato e orientato sul cliente.

Regola 2: Evocare i CRB

La regola n. 2 presuppone l’importanza di evocare i comportamenti relazionali e non solo verbali del cliente che avvengono in sessione. Questa osservazione è in costante aggiornamento per promuovere il rinforzo dei comportamenti funzionali, i CRB2. In questa fase il terapeuta, gradualmente più consapevole dei CRB 1 e 2 del cliente, può evocare nella relazione l’emissione dei CRB. L’atteggiamento del terapeuta quindi presuppone che anche per egli stesso sia importante emettere comportamenti funzionali a tale emissione.

Regola 3: Rinforzare naturalmente i CRB2

Il terapeuta rinforza in modo naturale e contingente i comportamenti funzionali del cliente (CRB2). Ciò, al fine di aumentare la probabilità che questi nuovi comportamenti siano maggiormente emessi in sessione e generalizzati fuori dal contesto terapeutico. Rinforzare in modo naturale significa esprimere amore, coraggio e consapevolezza verso il cliente, contemporaneamente all’attenzione al ‘timing’ ovvero la contingenza di questo rinforzo, per massimizzarne l’efficacia.

Regola 4: Osservare gli effetti rinforzanti del comportamento del terapeuta sui CRB del cliente

Seguendo questa regola il terapeuta osserva l’effetto che il rinforzo emesso verso il CRB2 ha avuto sul comportamento del cliente. È importante che il terapeuta osservi scrupolosamente ed indaghi con curiosità quali conseguenze ha avuto la sua risposta rinforzante sul cliente, tenendo conto che alcune risposte, ‘ipoteticamente’ rinforzanti, possano essere rinforzanti per alcuni clienti e non per altri.

Regola 5:  Fornire correlazioni analitiche funzionali, ed osservare la generalizzazione

Durante una sessione FAP, il terapeuta fa riferimento più volte alle analogie fra ciò che avviene in sessione col cliente e ciò che il cliente vive nella sua quotidianità. Queste continue ed esplicite analogie fra la vita quotidiana e le sedute di terapia hanno un duplice scopo. Da una parte, consentono al terapeuta di notare se il cliente ha emesso anche in sessione un comportamento problematico tipico dei suoi contesti di vita (un CRB1); dall’altra parte, segnalano al cliente ed al terapeuta la possibilità di generalizzare in quegli stessi contesti i miglioramenti già avvenuti in sessione. Per fare ciò il terapeuta FAP presta attenzione alla funzione dei comportamenti, al fine di estinguere i CRB1 e rinforzare i CRB2 in seduta per massimizzare la probabilità che il cliente li possa emettere nei diversi contesti di vita. La generalizzazione costituisce l’obiettivo condiviso nella terapia stessa. Ciò è possibile attraverso l’utilizzo di una serie di strategie tra le quali l’invito al cliente di mettere in atto, al di fuori del contesto della terapia, un CRB2 che ha appena emesso in sessione.

L’applicazione delle regole FAP non è rigida. Quando si assiste ad una sessione FAP, quello che possiamo osservare sin da subito è un’intima, coraggiosa e autentica interazione di due persone che scelgono di mettersi in gioco e lavorano con amore, coraggio e consapevolezza per migliorare la qualità della vita e il benessere relazionale del cliente. Nello stesso tempo il terapeuta arricchisce la propria esperienza e soddisfazione professionale. Entrambi avvertono una sensazione di efficacia terapeutica.

 

L’ingannevole paura di non essere all’altezza (2020) di R. Milanese – Recensione del libro

Nel suo libro L’ingannevole paura di non essere all’altezza l’autrice offre una mappa dettagliata e analizza, in ottica strategica, le principali ‘tentate soluzioni’ dell’insicuro.

 

Cos’è l’insicurezza? Cos’è l’autostima? Quali sono le principali psicotrappole di chi si sente e si percepisce insicuro? Il giudice più severo è interno a noi stessi oppure esterno? Attraverso i casi raccontati in questo libro è possibile per il lettore identificarsi in qualche protagonista delle storie (chi non si è mai sentito almeno per una volta insicuro?).

L’insicurezza, se assecondata passivamente, può condurre a veri e propri quadri psicopatologici ma allo stesso tempo, se utilizzata come stimolo per il miglioramento, diventa leva per creare la tanto famosa autostima. Dalla paura di esporsi, alla ricerca della perfezione, dalla paura del conflitto a quella di essere rifiutato, dalla paura dell’inadeguatezza a quella del fallimento, l’autrice offre una mappa dettagliata e analizza, in ottica strategica, le principali ‘tentate soluzioni’ dell’insicuro.

Il tema dell’insicurezza in quanto costrutto trasversale, permette a Roberta Milanese di spaziare tra varie problematiche e psicopatologie invalidanti: dalle fobie, alla paranoia, dal problem solving aziendale alle più strutturate ossessioni in un viaggio tra vari sistemi percettivi reattivi (costrutto della Terapia Strategica che si riferisce a una modalità ridondante di percepire e reagire alla realtà).

  L’ingannevole paura di non essere all’altezza, di scorrevole lettura, offre un’idea dell’efficienza dell’approccio Breve Strategico poiché, senza scendere in dettagli troppo tecnici, permette di capirne il suo orientamento pragmatico volto all’estinzione del problema nel più breve tempo possibile con risultati permanenti; utile per il lettore comune per comprendere quali possano essere le strategie più efficaci (e quelle sicuramente da evitare) di fronte ad un’insicurezza costante e invalidante. Allo stesso tempo è uno scritto che offre spunti per il professionista poiché, senza scendere in aspetti tecnici, vengono esposti svariati scenari clinici applicativi.

Ricordando che l’autostima non può essere regalata ma solo creata attraverso il superamento degli ostacoli, il testo si conclude con la spiegazione del ‘decalogo’ per una sana stima di se stessi; ovvero una serie di regole guida per continuare a costruire e sviluppare le nostre risorse:

  1. Affronta le sfide che la vita ti propone
  2. Alza progressivamente l’asticella ma non obiettivi impossibili
  3. Nessuno può saltare al tuo posto
  4. La perfezione è nemica dell’eccellenza
  5. Non si può piacere a tutti
  6. Le relazioni sono come il tango
  7. Chi non cambia è perduto
  8. Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce
  9. Impiega il tuo tempo nel migliorare te stesso
  10. Si è sconfitti solo quando ci si arrende.

 

Invalidazione genitoriale e disturbi alimentari: il ruolo del narcisismo

Il narcisismo può essere un promettente mediatore condiviso tra problematiche alimentari e invalidazione genitoriale, in quanto, similmente ad un disturbo alimentare, può insorgere per difficoltà di autoregolazione in seguito all’esposizione infantile ad un ambiente invalidante.

 

Il disturbo di personalità narcisistico, può presentarsi secondo due modalità di funzionamento differenti: narcisismo grandioso e vulnerabile.

Il primo, è caratterizzato da un senso del sé inflazionato, sentimenti di superiorità e desiderio di essere al centro dell’attenzione, che si esprimono a livello comportamentale con sfruttamento interpersonale, invidia, scarsa empatia, aggressività ed esibizionismo (Pincus et al., 2009).

Il narcisismo vulnerabile implica l’esperienza cosciente di impotenza, vuoto, bassa autostima ed il ricorso massiccio all’evitamento sociale per fronteggiare i sentimenti di vergogna, quando la presentazione del sé ideale non è possibile, o il bisogno di ammirazione viene frustrato (Pincus et al., 2009).

In accordo con la ricerca, tratti narcisistici si associano a disturbi del comportamento alimentare. Mentre entrambe le declinazioni di narcisismo correlano con la tendenza alla dieta e comportamenti di controllo verso l’ingestione di cibo, il narcisismo vulnerabile si associa a comportamenti bulimici di abbuffate e restrizioni (Zerach, 2014).

Studi longitudinali hanno chiarito il legame causale, identificando il ruolo dei tratti di vulnerabilità, predittivo di comportamenti alimentari restrittivi; mentre quelli grandiosi predicevano futuri comportamenti bulimici (Dakanalis et al., 2016).

L’invalidazione genitoriale subita in infanzia è un fattore di rischio evolutivo che determina l’insorgenza di successive problematiche alimentari. Sebbene coloro con bulimia nervosa e anoressia nervosa riportano livelli simili di invalidazione materna percepita, i primi hanno riportato maggiore invalidazione subita dal padre (Haslam et al., 2008).

L’ambiente infantile invalidante è connotato da una negativa, o del tutto ignorata risposta del genitore alle comunicazioni del bambino. In tale contesto affettivo-relazionale, egli non svilupperà la tolleranza al disagio (Gordon & Dombeck, 2010) ed avrà difficoltà nella regolazione degli stati emotivi, imbattendosi in una ricerca estenuante di approvazione e validazione esterna (Cary, 1994; Monell et al., 2015).

La ricerca non ha individuato un fattore condiviso tra invalidazione materna e paterna che potrebbe condurre alla genesi di problematiche alimentari successive. Mentre considerare l’espressione emotiva come segno di debolezza, sembrerebbe influire nella relazione tra invalidazione materna e preoccupazioni legate all’alimentazione (Haslam et al., 2012); l’evitamento degli affetti è emerso come mediatore esclusivo della relazione tra invalidazione paterna e disturbo alimentare (Mountford et al., 2007).

Il narcisismo può essere un promettente mediatore condiviso, in quanto, similmente ad un disturbo alimentare, può insorgere per difficoltà di autoregolazione in seguito all’esposizione infantile ad un ambiente invalidante. La ricerca ha evidenziato che l’invalidazione genitoriale prediceva in modo significativo entrambe le forme di narcisismo (Huxley & Bizumic, 2017), ma era soprattutto quello vulnerabile che si associava a problematiche alimentari. A differenza dei grandiosi, i narcisisti vulnerabili non sono in grado di mantenere un elevato senso del sé a causa di uno stile interpersonale evitante e non assertivo, che impedisce di richiedere una validazione esterna (Dickinson & Pincus, 2003; Hartmann et al., 2010). L’assenza di un riscontro positivo dall’altro, può determinare bassa autostima e affettività negativa, che a loro volta inducono problematiche nell’alimentazione. A differenza dei vulnerabili, i narcisisti grandiosi sono in grado di utilizzare efficacemente l’altro per regolare gli affetti e mantenere una concezione elevata del proprio senso del sé (Dickinson & Pincus, 2003).

Lo studio di Sivanathan et al. (2019) si è occupato di indagare se il narcisismo grandioso e quello vulnerabile si associavano in modo differente ai disturbi alimentari e, nel dettaglio, se quello vulnerabile poteva mediare la relazione tra invalidazione genitoriale e disturbo alimentare. Sono stati reclutati 352 partecipanti: donne di età compresa tra i 18 e i 30 anni che hanno completato un questionario online.

Gli autori hanno riscontrato che la vulnerabilità narcisistica si associava a problematiche alimentari, agendo come fattore di mediazione comune tra invalidazione genitoriale e disturbi del comportamento alimentare.

Sebbene entrambe le forme di narcisismo correlino tra loro condividendo alcuni aspetti di base, come senso di diritto e necessità di una validazione esterna finalizzata a mantenere un solido senso del sé (Krizan & Herlache, 2017), le caratteristiche uniche della componente grandiosa, come la tendenza a distorcere i feedback esterni per mantenere la propria superiorità e la mancanza di empatia, sono protettive rispetto l’insorgenza di una patologia alimentare. Avendo uno stile assertivo, non mostrano affettività negativa e bassa autostima in seguito alle interazioni sociali (Dickinson & Pincus, 2003).

I narcisisti vulnerabili, a causa dell’invalidazione genitoriale subita, hanno problematiche di regolazione emotiva e tendono a dipendere da fonti esterne per mantenere una buona immagine di sé. Tuttavia, avendo uno stile interpersonale evitante, non riescono ad ottenere un conforto dall’altro. L’affettività negativa conseguente e la fragilità del proprio sé si riversano in condotte alimentari problematiche, insorte anche per feedback sociali negativi e con la finalità di regolare stati emotivi spiacevoli.

I disturbi alimentari in comorbilità con tratti di vulnerabilità narcisistica assumono i connotati di restrizioni, volte alla ricerca di una magrezza che si pensa erroneamente possa incrementare i livelli di autostima, o episodi di abbuffate per regolare affetti spiacevoli, caratterizzanti il binge-eating disorder (Rieger et al., 2010).

Il narcisismo vulnerabile e l’invalidazione genitoriale hanno un ruolo fondamentale nell’eziologia dei disturbi alimentari; tuttavia per comprendere la natura causale di queste relazioni e l’andamento nel tempo delle variabili, la ricerca futura dovrebbe orientarsi verso indagini longitudinali.

Sia il narcisismo che i disturbi del comportamento alimentare comportano difficoltà nella loro gestione terapeutica (Campbell et al., 2009; Pincus et al., 2014); cambiamenti di pensiero o comportamento, indotti da un intervento di terapia cognitivo-comportamentale, vengono facilmente percepiti dall’individuo come minacce all’autostima.

I pazienti con tratti narcisistici e disturbi alimentari, si percepiscono privi di valore, per cui sentono di non meritare il trattamento; ma allo stesso tempo reagiscono con risentimento di fronte alle richieste di una terapia strutturata. Questo comporta l’abbandono precoce della cura, rafforzando la convinzione che non sia pertinente ai loro bisogni (Campbell et al., 2009).

Alla luce di ciò, è utile imparare a riconoscere la fenomenologia clinica delle manifestazioni di narcisismo e le loro associazioni con la patologia alimentare, al fine di migliorare la presa in carico e il trattamento.

 

Che fatica le relazioni! Analizziamo i meccanismi della dipendenza relazionale – VIDEO

CIP Modena ha presentato un ciclo di incontri online con lo scopo di informare sui Disturbi di Personalità. Uno di questi, tenutosi il 24 agosto, ha affrontato il tema della dipendenza relazionale. Pubblichiamo per i nostri lettori il video dell’evento.

 

Alcune persone hanno difficoltà a descrivere e comprendere cosa abbia scatenato un’emozione e parallelamente a comprendere cosa gli altri pensano e sentono e ad utilizzare tale conoscenza per migliorare la loro vita di relazione e formare legami stabili. Siamo spesso guidati nella vita di relazione da un insieme di aspettative, consapevoli, su come gli altri risponderanno ai loro desideri, speranze, piani, bisogni e ambizioni.

Durante l’incontro organizzato dal CIP Modena e tenuto dalla Dott.ssa Simona Giuri, sono state discusse alcune modalità relazionali disfunzionali e sono state date delle indicazioni per una maggiore gestione di alcune dinamiche sociali complicate. Pubblichiamo per i nostri lettori il video dell’evento.

 

CHE FATICA LE RELAZIONI! ANALIZZIAMO I MECCANISMI DELLA DIPENDENZA RELAZIONALE

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Monogamia e tradimenti: la gelosia – Una serie di Roberto Lorenzini

Oggi pubblichiamo il nono lavoro della serie di Roberto Lorenzini, dedicata al tema della monogamia e delle sue implicazioni psicologiche, affettive, relazionali e, perché no, sessuali. Lorenzini propone una tesi forte: la monogamia non funziona. E prosegue il suo racconto esplorando lo sviluppo della vicenda amorosa e in particolare la gelosia.

MONOGAMIA E TRADIMENTI – (Nr. 9) La gelosia

 

9. La gelosia

La gelosia è una emozione che probabilmente si è sviluppata a protezione della certezza riproduttiva. Con la gelosia (controlli, minacce al partner e al rivale) i maschi cercano di evitare di investire tempo e risorse per allevare un figlio non proprio, le femmine che il proprio partner dirotti altrove le risorse destinate a loro e al figlio. Naturalmente come sempre avviene nel corso dell’evoluzione un organo, una funzione o un comportamento inizialmente sviluppato per un certo scopo viene poi ad essere utilizzato per altri e più sofisticati obiettivi, per cui occorre diffidare di un semplice riduzionismo che vede nell’uomo soltanto il mammifero che è in lui. Così la gelosia è ormai al servizio di aspetti psicologici sofisticati quali la difesa dell’autostima ed in parte dell’immagine sociale.

Rispetto alla gelosia primordiale, quella che non si preoccupa tanto della ferita alla propria immagine dovuta al fatto che il mio partner preferisca un altro, ma di cose molto più concrete come il fatto che io, maschio, non sia costretto a sgobbare tutto il giorno per allevare un bastardo o io, femmina, non veda mio figlio e me stessa a rischio di sopravvivenza perché il mio partner porta le prede migliori alla vicina di grotta, tra maschi e femmine esiste un’altra differenza decisiva.

In tutti i mammiferi la fecondazione avviene dentro il corpo della femmina e fuori dalla vista del maschio. Per questo la femmina è sempre certa che il figlio che porta in grembo sia il suo ma, al contrario, il maschio non lo è mai, non può esserlo. Le statistiche possibili grazie al test del DNA ci dicono che attualmente un figlio su 5 non è del padre legittimo che ritiene di esserlo.

Solo il maschio corre un alto rischio di investire risorse per favorire il diffondersi di geni non suoi ma di un rivale. È nella natura delle cose che la femmina per salvaguardare la sua prole, qualora non appartenga al partner ufficiale e ben sapendo che quest’ultimo non investirebbe su figli non suoi, debba fare di tutto per nasconderglielo; si pensi alla Filomena Maturano di Eduardo De Filippo e ai suoi tre figli che per lei sono tutti “pezzi ‘e core”, mentre per il suo compagno l’unico a cui dare tutto il suo aiuto e la sua ricchezza sarebbe il suo legittimo figlio, se riuscisse a sapere quale sia dei tre.

Questa diversità nella certezza rispetto alla prole, unità alla diversità dell’investimento e del ruolo che i due sessi giocano nella vicenda riproduttiva fa sì che uomini e donne siano piuttosto diversi anche nello sperimentare la gelosia.

Per gli uomini il tradimento più temuto è proprio quello squisitamente sessuale: ciò che temono è che la loro compagna faccia sesso con un altro e che questo sottragga loro la possibilità di generare un proprio figlio perché la loro compagna è impegnata a riprodurre i geni di un rivale; peggio ancora se ciò avviene a loro insaputa e così oltre al danno, e cioè perdere la loro possibilità riproduttiva, sussiste anche la beffa di tirar su il figlio di un altro. Per gli uomini il tradimento semplicemente affettivo, cioè che la compagna si innamori di un altro è molto meno grave del vero e proprio tradimento sessuale (Buss, Larsen e Western, 1996); e quando comunque lo si considera grave è perché si teme che l’innamoramento sia la premessa per un tradimento sessuale. In effetti per le donne il sesso è più associato all’innamoramento di quanto non lo sia negli uomini. L’ossessione del maschio geloso è l’immagine ripetitiva della sua compagna che sta facendo sesso con il rivale.

Per le donne le cose stanno in maniera un po’ diversa. Il pericolo principale che vedono nel tradimento è che il proprio compagno dirotti attenzioni e risorse verso una nuova compagna e altri figli; quello che non tollerano è che sia sottratto loro il tempo, le attenzioni, l’affetto. In effetti le lamentele che i partner si rivolgono più frequentemente riguardano per i maschi la mancanza di sesso e passionalità erotica, per le donne la trascuratezza e la mancanza di attenzione verso i bisogni emotivi.

Questa diversità nello sperimentare il tradimento e della diversa posta in palio per i due sessi è rispecchiata nelle leggi che condannano l’adulterio in ogni parte del mondo. Dovunque c’è una severità estremamente maggiore nel punire l’adulterio femminile rispetto a quello maschile (si pensi addirittura al delitto d’onore che lasciava impunito il femminicidio, in vigore in Italia fino alla metà del secolo scorso). Ovviamente ciò è dovuto in parte alla connotazione maschilista della maggior parte delle attuali società per cui essendo l’uomo al potere è lui che fa le leggi e quindi è benevolo con i propri errori e drastico con quelli della controparte femminile, ma non è tutto qui. La differenza fondamentale è che l’uomo adultero non impone alla moglie di allevare dei figli non suoi.

 

Un viaggio all’interno dell’ ACT per adolescenti – Video intervista a Sheri Turrell

Intervista a Sheri Turrell, famosa psicologa di Toronto e trainer riconosciuto di Acceptance and Commitment Therapy (ACT), che lavora principalmente con gli adolescenti e le loro famiglie in setting individuali e di gruppo.

 

La competente e simpatica Sheri Turrell, ha accettato di fare con me una video intervista con riferimento al lavoro con i giovani  mediante i principi dell’ACT. Sheri Turrell è una famosa psicologa di Toronto (Canada), trainer riconosciuto di Acceptance and Commitment Therapy (ACT), lavora principalmente con gli adolescenti e le loro famiglie in setting individuali e di gruppo, è impegnata in attività di ricerca e formazione e autrice insieme a Mary Bell nel 2016 del manuale ACT per adolescenti. Trattare teenager e adolescenti in terapia individuale e di gruppo (titolo originale: ACT for Adolescents. Treating Teens and Adolescents in Individual and Group Therapy), tradotto in Italia nel 2019 da Emanuele Rossi ed edito dalla casa editrice Giovanni Fioriti Editori

Per rendere più dinamica questa intervista, ho pensato di mostrare a Sheri delle immagini ed oggetti, lasciando a lei la scelta e l’ordine da dare alla sua argomentazione.

Tra gli oggetti da me selezionati: il foglio rappresentante l’Exaflex, la Matrice (MATRIX), un cartoncino riportante l’acronimo STOP (lingua originale D.O.T.S), un simpatico cartoncino rappresentante un lama (richiamante l’acronimo LLAMA) ed alcuni oggetti come una corda, una trappola per dita cinese ed un riccio in gomma.

La scelta non è stata casuale, infatti l’esagono che all’interno dell’ACT prende il nome di Exaflex, rappresenta i sei cardini del processo per sviluppare una flessibilità psicologica, quali contatto con il momento presente; individuare i valori; azione impegnata verso ciò che conta per noi; sé come contesto che ci ricorda che, anche se i pensieri fanno parte di noi, noi non siamo i nostri pensieri; defusione e accettazione.

Figura 1 – Exaflex

Abbiamo visto e approfondito insieme a Sheri la Matrice, strumento molto utilizzato che consente di rappresentare graficamente su una griglia a quattro quadranti e ponendo noi al centro, ciò che conta per noi o chi vorremmo essere (in basso a destra), cosa potremmo fare per avvicinarci a chi o cosa conta per noi (in alto a destra), quali sono i pensieri e le emozioni che ci allontanano da ciò che conta per noi (in basso a sinistra) e quali sono le strategie di evitamento che mettiamo in atto e che magari possono funzionare a breve termine, per allontanarci da emozioni o pensieri dolorosi (in alto a sinistra).

Figura 2 – La Matrice (MATRIX)

 La compilazione di quest’ultimo quadrante (in alto a sinistra), introduce l’acronimo *STOP corrispondente a:

  • S: sabotarsi, auto lesionarsi (self-harm);
  • T: tranquillizzarsi, distrarsi (distraction);
  • O: optare per la fuga (opting out);
  • P: perdersi il presente, viaggiare nel tempo (time travel).

Figura 3 – Il cartoncino riportante l’acronimo STOP (lingua originale D.O.T.S)

La traduzione tra parentesi fa riferimento alla lingua originale adattata per la traduzione italiana dei lavori di Russ Harris (2009), ma l’acronimo in lingua originale sarebbe DOTS (Distraction; Opting out; Thinking strategies; Substances e other Strategies).

Gli STOP sarebbero un modo intuitivo utilizzato soprattutto con gli adolescenti per renderli consapevoli, ci spiegherà Sheri, di cosa stanno attualmente facendo per fuggire da pensieri, sensazioni, emozioni che non vogliono e se tali strategie funzionino a lungo termine.

Un altro protagonista della nostra intervista è stato il LLAMA.

Figura 4 – Il cartoncino rappresentante un lama (richiamante l’acronimo LLAMA)

Con tale acronimo entriamo nel vivo del lavoro terapeutico ispirato all’ACT. L’acronimo infatti corrisponderebbe a:

  • L: l’etichettare (labeling);
  • L: lasciare andare (letting go);
  • A: autorizzare, accettare ciò che si presenta (allow);
  • M: mindfulness
  • A: approcciare chi/cosa è importante per noi ed agire (approaching what matters).

Abbiamo inoltre, visto insieme dei comuni oggetti che possono essere utilizzati in seduta con i ragazzi sia in setting individuale che di gruppo, come una fune, bolle di sapone, trappola per dita, un riccio, dei palloncini.

Figura 5 – Alcuni oggetti come una corda, una trappola per dita cinese ed un riccio in gomma

Sarà Sheri a scegliere alcuni dei materiali sopra citati e descritti e raccontarci come da lei vengono utilizzati in seduta.

 

Guarda il contenuto dell’intervista completa a Sheri Turrell

 

Lo sviluppo della regolazione delle emozioni in adolescenza: basi neurocognitive

Studi di neuroimaging hanno suggerito la presenza di una relazione tra sviluppo anatomico, chimico, fisiologico del cervello e le manifestazioni comportamentali tipiche degli adolescenti.

Pamela Filiberto – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Mestre 

 

Introduzione

La regolazione delle emozioni a livello sia comportamentale che neurobiologico sta catturando l’interesse crescente degli studiosi nei settori disciplinari legati alle scienze psicologiche, anche in considerazione del legame tra i processi di disregolazione emotiva e l’insorgenza di forme di psicopatologia.

Sempre più numerose sono inoltre le ricerche che approfondiscono la relazione tra l’incremento dei disturbi di tipo internalizzante ed esternalizzante e una scarsa regolazione delle emozioni ad esempio durante il periodo dell’adolescenza.

Comprendere come la regolazione delle emozioni si sviluppa e matura e inserire queste conoscenze all’interno degli studi sul ritmo di maturazione del cervello dell’adolescente, potrebbe aiutare a fornire una cornice di riferimento per lo sviluppo di validi modelli di interpretazione e di intervento.

La regolazione delle emozioni

La regolazione delle emozioni è definita come il processo generazione, monitoraggio, valutazione e modifica delle reazioni emotive al fine del raggiungimento di un obiettivo (Thompson, 1994).

Una regolazione delle emozioni pienamente funzionale richiede la capacità di riconoscere il significato emotivo degli stimoli percepiti, di attivare un processo regolativo e di scegliere e attuare una strategia appropriata (Sheppes et al., 2015). Come tale, richiede il coordinamento di processi multipli ad alto livello, comprese le funzioni esecutive (Ahmed et al., 2015) e in alcuni casi anche le competenze cognitive sociali, come la capacità di comprendere e considerare il punto di vista dell’altro.

Nel considerare le strategie di regolazione delle risposte emotive, una distinzione importante esiste tra regolazione implicita ed esplicita.

La regolazione implicita delle emozioni è definita come ‘qualsiasi processo che opera senza la necessità di una supervisione consapevole o di intenzioni esplicite e mira a modificare la qualità, l’intensità o la durata di una risposta emotiva’ (Koole e Rothermund, 2011).

Gli stimoli emotivi catturano la nostra attenzione, in particolare attraverso l’attivazione di strutture del sistema limbico come l’amigdala, la quale avvia una risposta di allerta a tutto il sistema al fine di una rapida elaborazione della risposta appropriata al contesto (Gamer e Büchel, 2009).

Gli studi hanno mostrato che durante l’adolescenza il sistema di regolazione implicito delle emozioni è modificato rispetto all’adulto, con un aumento delle risposte limbiche agli stimoli emotivi (Hare et al., 2008), una riduzione del controllo prefrontale (Verude et al., 2013) e una connettività alterata o ridotta tra questi sistemi (Somerville et al., 2011). Inoltre, vi è evidenza che la capacità di filtrare gli stimoli emotivi che entrano nel flusso di elaborazione continua a maturare durante tutta l’adolescenza.

Le strategie esplicite di regolazione delle emozioni richiedono, al contrario, uno sforzo consapevole durante l’avvio e un certo livello di monitoraggio durante l’implementazione (Gyurak et al., 2011). Le strategie che hanno ricevuto la maggiore attenzione dal punto di vista degli studi sperimentali sono di due tipi: la rivalutazione cognitiva, ossia la reinterpretazione degli scenari scatenanti le emozioni sotto una luce più positiva; la soppressione espressiva, cioè la riduzione della manifestazione esteriore di una reazione emotiva.

Utilizzando un metodo di indagine self-report, alcuni ricercatori hanno scoperto che l’uso della soppressione espressiva tende a diminuire tra i 9 e i 15 anni e questo è in linea con l’ipotesi che durante la crescita si accumulano esperienze e si acquisiscono capacità cognitive e sociali che consentono lo sviluppo e l’adozione di strategie alternative di regolazione delle emozioni (John e Gross, 2004). La soppressione espressiva è generalmente considerata una strategia maladattiva e l’uso di questa soluzione è associata a una ridotta capacità di riparare gli stati d’animo negativi e a una minore esperienza di emozioni positive (Gross e John, 2003).

A livello cognitivo, i complessi processi esecutivi e sociali necessari per la regolazione delle emozioni, tra cui la memoria di lavoro, il controllo inibitorio, il pensiero astratto, il processo decisionale e l’assunzione di prospettive, sono quindi in fase di sviluppo durante l’adolescenza (ad esempio Blakemore and Robbins, 2012; Somerville e Casey, 2010).

Il miglioramento di questi processi cognitivi sembra essere sostenuto da un processo di maturazione del cervello, particolarmente a carico della corteccia prefrontale, e da un rimodellamento delle connessioni tra regioni prefrontali e regioni limbiche.

La maturazione del cervello dell’adolescente

Durante l’adolescenza, le regioni cerebrali coinvolte nella generazione e regolazione delle emozioni, come il sistema limbico e la corteccia prefrontale, subiscono un intenso e prolungato sviluppo strutturale e funzionale.

È stato ipotizzato che l’immaturità cerebrale renda gli adolescenti poveri delle necessarie abilità di regolare con successo le loro emozioni, mettendoli maggiormente a rischio di insorgenza di disturbi quali ansia e stress (Powers and Casey, 2015). In particolare, studi di neuroimaging hanno suggerito la presenza di una relazione tra sviluppo anatomico, chimico, fisiologico del cervello e le manifestazioni comportamentali tipiche degli adolescenti. L’evidenza suggerisce, ad esempio, che la corteccia prefrontale (PFC), centrale nella generazione e nel mantenimento delle strategie di regolazione delle emozioni (Ochsner e Gross, 2008), sia l’ultima area a raggiungere la piena maturazione, in un periodo che si avvicina ai 25-28 anni di età.

Al contrario, le regioni subcorticali e limbiche, che sono fortemente coinvolte nello sviluppo e nell’avvio delle reazioni emotive agli stimoli ambientali, terminano il processo di maturazione proprio durante l’adolescenza. Ad esempio, l’amigdala aumenta di volume tra i 7,5 e i 18,5 anni (Schumann et al., 2004). Questo ritardo della corteccia orbito-frontale (OFC) rispetto alle aree limbiche sottostanti, produce un disallineamento e uno squilibrio tra i sistemi neurali implicati della reattività emotiva e nella regolazione, con il risultato di aumentare la presenza di comportamenti impulsivi e di ricerca del rischio (Casey et al., 2008).

I modelli più recenti di regolazione delle emozioni

Più recentemente è stato sviluppato il ‘Modello triadico’ (Ernst, 2014) dei comportamenti. Questo modello propone uno squilibrio tra tre sistemi chiave: la corteccia prefrontale (PFC) coinvolta nel controllo normativo, lo striato ventrale (VS) coinvolto nei comportamenti di approccio e di ricompensa, e l’amigdala coinvolta nei processi di evitamento. Il modello presuppone che i tre sistemi maturino lungo linee temporali diverse e che questa asincronia, combinata con una connettività meno matura tra le regioni cerebrali, possa essere implicata nell’assunzione di rischi da parte degli adolescenti.

Sia il modello del developmental mismatch che il modello triadico sono stati accusati di ipersemplificazione nel loro tentativo di collegare la tipicità del comportamento dell’adolescente allo sviluppo del cervello (Pfeifer and Allen, 2012).

Negli anni recenti è stato proposto un nuovo ‘modello di processo esteso’ (Sheppes et al., 2015). Questo presuppone che la regolazione delle emozioni avvenga in tre fasi: (1) Identificazione, in cui uno stato emotivo è individuato e viene compiuta la decisione di regolare o meno l’attivazione; (2) Selezione, in cui si seleziona una strategia di regolamentazione appropriata e (3) Attuazione, in cui la strategia viene implementata. Per esempio, nella fase di Identificazione, un individuo potrebbe percepire l’esperienza di un’emozione negativa, valutare che questa superi una determinata soglia di influenza negativa tale da richiedere una necessaria regolamentazione, quindi decidere di agire per selezionare una strategia appropriata. Questo alimenta poi la fase di Selezione, in cui viene valutata l’intera gamma di strategie regolatorie che porta infine all’ingaggio di azioni appropriate al raggiungimento dello scopo.

Quando si cerca di adattare il modello di processo esteso al periodo dell’adolescenza, vengono sollevati una serie di interrogativi. Innanzitutto, il ciclo percezione-valutazione-azione si svolge nello stesso modo che negli adulti, o ci sono differenze legate alle traiettorie di sviluppo? Si potrebbe ipotizzare, ad esempio, che se il bisogno di approvazione sociale sia rilevante (Blakemore e Mills, 2014), uno stato edonico suscitato in presenza di coetanei potrebbe non far scattare la valutazione di una necessità di regolazione nella fase di Identificazione. Allo stesso modo si potrebbe ipotizzare una certa immaturità mostrata dagli adolescenti nella fase di Selezione, dovuta alla mancanza di accesso all’ampia gamma di strategie di regolamentazione possibili.

Gli adolescenti potrebbero infatti non essere a conoscenza di particolari strategie di regolazione, oppure non avere sufficiente pratica nell’utilizzarle, oppure potrebbero faticare per via dell’immaturità delle funzioni esecutive avanzate (Hofmann et al., 2012) e/o delle abilità di cognizione sociale (Gross, 2014) richieste per l’accesso alle strategie.

La maturità delle funzioni esecutive potrebbe anche influire sulla capacità di passare in modo flessibile da una strategia all’altra durante la Selezione, se la scelta originaria si dovesse dimostrare inefficace. Inoltre, le funzioni esecutive e le competenze di cognizione sociale potrebbero giocare un ruolo importante nella fase di Attuazione. Per esempio, la strategia di rivalutazione (ossia cambiare cognitivamente la propria interpretazione di una situazione emotiva) richiede che funzioni come la memoria di lavoro e la fluidità verbale siano presenti (Hofmann et al., 2012), ma forse ancora più importante è che gli individui siano in grado di assumere la prospettiva di un’altra persona (Gross, 2014).

Conclusione

Le ricerche sembrano suggerire che l’immaturità dei processi neurocognitivi e le abilità sociali possano contribuire a far sì che gli aspetti dell’elaborazione emotiva e dello sviluppo della regolazione seguano una traiettoria non lineare.

Al tempo stesso, è stato suggerito che l’adolescenza è anche un periodo di profondi apprendimenti e di una vivace attitudine alla scoperta e alla sperimentazione flessibile e che potrebbe quindi essere una fase critica per lo sviluppo di strategie di regolazione adattiva delle emozioni e, a sua volta, per l’attuazione di interventi di prevenzione o di educazione efficaci.

 

Il ruolo chiave dell’iper-responsabilità nel disturbo ossessivo compulsivo

Salkovskis osservò che nel disturbo ossessivo compulsivo i pensieri e le immagini automatiche provocate dalle ossessioni ruotano intorno ad una responsabilità personale. L’iper-responsabilità: un eccessivo senso di colpa che spinge a produrre pensieri negativi automatici con un conseguente disagio molto forte.

 

Negli ultimi anni sono stati svolti numerosi studi sulla sintomatologia ossessiva e compulsiva: Wells (2000) definisce ossessioni e compulsioni come fenomeni normali, Rachman (1978) e Salkovskis (1984) osservarono come il contenuto delle ossessioni “normali” è simile a quello delle ossessioni patologiche, come queste ultime si manifestino nell’80-88% delle persone e come arrechino un livello di sofferenza e di disagio maggiore nei soggetti con diagnosi di disturbo ossessivo compulsivo. Salkovskis (1985) osservò come i pensieri e le immagini automatiche provocate dalle ossessioni ruotano intorno ad una responsabilità personale: si parla di iper-responsabilità per indicare un eccessivo senso di colpa sperimentato dal soggetto, che lo spinge a produrre pensieri negativi automatici con un conseguente disagio molto forte (Ladouceur et al., 1996).

Nel 1999, Salkovskis coniò un modello del disturbo ossessivo compulsivo con il quale vengono spiegati gli esiti negativi interconnessi dovuti all’iper-responsabilità come 1) l’aumento del disagio, di ansia e depressione, 2) una maggiore attenzione alle intrusioni e/o a stimoli correlati, 3) l’accessibilità al pensiero originale e di idee correlate e, infine, 4) tentativi controproducenti messi in atto per ridurre i pensieri e diminuire l’iper-responsabilità (Salkovskis, 1999).

Mitchell e colleghi (2019) hanno testato il modello di Salkovskis (1999) del disturbo ossessivo compulsivo che enfatizza il ruolo dell’iper-responsabilità: le componenti individuali del modello sono state misurate utilizzando indicatori multipli in un campione composto da 170 studenti non laureati, inoltre le variabili incluse sono esperienze precoci, incidenti critici, assunzioni di responsabilità e credenze, valutazioni errate di intrusioni, cambiamenti di umore, strategie di sicurezza controproducenti e azioni di neutralizzazione. (Mitchell et al., 2019). I sintomi del disturbo ossessivo compulsivo e le azioni di neutralizzazione sono stati misurati con la Yale-Brown Obsessive Compulsive Scale (Y-BOCS; Baer et al., 1993) e Obsessive Compulsive Inventory Revised (OCI-R; Foa et al., 2002). Le assunzioni di responsabilità basate sulle credenze sono state misurate con Obsessive Beliefs Questionnaire Responsibility Subscale (OBQ-44; Obsessive Compulsive Cognitions Working Group, 2005) e con Responsibility Attitudes Scale (RAS, Salkovskis et al., 2000). L’interpretazione errata di pensieri intrusivi è stata misurata con Responsibility Interpretations Questionnaire (RIQ; Salkovskis et al., 2000) e con Revised Obsessional Intrusions Inventory (ROII; Purdon e Clark, 1994). I cambiamenti di umore sono stati misurati con la sottoscala Profile of Mood States – Short Form (POMS-SF; Curran et al., 1995). Le strategie di sicurezza controproducenti – che consistono in variabili latenti con forme di pensiero deleterie di soppressione e controllo – sono state misurate con White Bear Suppression Inventory (WBSI; Wegner e Zanakos, 1994) per valutare la motivazione del soggetto alla soppressione dei pensieri – e con il Thought Control Questionnaire (TCQ; Wells and Davies, 1994) per osservare differenti strategie di soppressione del pensiero come distrazione, controllo sociale, preoccupazione, punizione e rivalutazione. L’evitamento è stato misurato con Acceptance and Action Questionnaire (AAQ-2; Hayes et al., 2004) e, infine, le altre variabili come incidenti critici, esperienze precoci e bias attentivi sono state misurate con Parental Bonding Instrument (Parker et al., 1979), Life Experiences Survey (Sarason et al., 1978) e con il Trauma History Questionnaire (Green, 1996) associato a un test attentivo.

L’iper-responsabilità rispecchia i dati del campione e, come previsto dal modello, l’interpretazione errata di pensieri intrusivi (come indicato dalla responsabilità personale) è il mediatore tra le credenze alla base della responsabilità, le strategie di sicurezza controproducenti, azioni neutralizzanti e cambiamenti di umore (Mitchell et al., 2019).

 

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