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TikTok: quali usi e gratificazioni ricercate dagli utenti adolescenti e preadolescenti?

TikTok, uno dei social network più popolare degli ultimi tempi, vanta di 500 milioni di iscritti tra preadolescenti e adolescenti. In questa piattaforma, gli utenti possono produrre, modificare e condividere video di 15 secondi di loro stessi intenti a ballare, cantare e mostrare altre abilità. 

 

Sin dal suo esordio nel 2017, diversi professionisti dell’industria musicale hanno dichiarato TikTok  come determinante nella promozione e nel lancio di nuovi talenti, permettendo a ciascuno di “diventare qualcuno” (Leight, 2019).

L’uso di Tiktok di tipo passivo, partecipativo e contributivo alla creazione di contenuti (Shao, 2009), può essere letto attraverso il quadro delle teorie psicologiche dell’autorealizzazione e della creazione dell’identità (Goffman, 1959) e della teoria degli usi e delle gratificazioni (Katz, 1959). Quest’ultima indaga le motivazioni sociali e psicologiche alla base dell’utilizzo del social network, presupponendo che siano differenti in base agli usi più o meno attivi.

Studi precedenti sottolineano che una fruizione passiva (sorveglianza, rilassamento, ricerca di informazioni e intrattenimento senza partecipazione), infonde gratificazione immediata (Sheldon & Bryant, 2016) ed è incrementata tra i giovani utenti di TikTok per la presenza di contenuti di intrattenimento sempre accessibili (Whiting & Williams, 2013).

I social permettono di sfuggire dalla realtà e dalla noia, distogliendo l’attenzione dalle responsabilità (Quan-Haase & Young, 2010); inoltre, semplicemente osservando la vita dei propri coetanei, si può essere informati sui cambiamenti in atto senza alcun impegno nel dialogo (Shao, 2009).

L’uso dei social network permette di dimostrare un know-how sociale tra gli adolescenti (Quan-Haase & Young, 2010), che possono soddisfare il bisogno di interazione con il proprio gruppo e con persone aventi interessi simili tramite i comportamenti partecipativi (McKenna et al., 2002), di interazione utente-utente e utente-contenuto (Shao, 2009).

I social, avvantaggiando coloro che sono socialmente inibiti (Quan-Haase & Young, 2010), danno conforto grazie ad un ambiente interpersonale al riparo dai rifiuti e dagli imbarazzi della vita reale (Dunne et al., 2010).

Gli utenti di TikTok possono cimentarsi nel ruolo di produttori di contenuti personali; particolarmente favorevole per l’adolescente che, assolvendo al compito evolutivo di sviluppo della propria identità sociale, si trova a sperimentare sé stesso (Yau & Reich, 2019) in un mondo online vasto e impersonale.

Tra i giovani, i bisogni di espressione del sé, di riconoscimento sociale e ricerca di popolarità, sono i motivi più citati alla base della produzione di contenuti online (Dunne et al., 2010). Mettendo in mostra il propri talenti su TikTok, si viene a creare un’immagine di sé talvolta fittizia, che attira l’attenzione del pubblico (Trammell & Keshelashvili, 2005), con il fine di intraprendere relazioni nuove e supportive (Walker, 2000).

Gli adolescenti preferiscono esprimersi in piattaforme che consentono di costruire identità più visive, nelle quali il riconoscimento sociale ricevuto dal numero di mi piace e di seguaci è indicativo del loro successo (Mascheroni et al., 2015). TikTok offre il potenziale per raggiungere una certa popolarità grazie al pubblico virtuale, dando la possibilità di creare pagine di profilo simili a quelle delle celebrità, imitandone il loro stile di vita.

Bossen & Kottasz (2020) hanno condotto uno studio in Danimarca esaminando le modalità di interazione su TikTok da parte di adolescenti e preadolescenti (11-16 anni); scoprendo gli usi e le gratificazioni chiave ricercati in questo social network, oltre alle motivazioni che ne guidavano l’utilizzo.

Dall’indagine emerge come sia gli adolescenti che i preadolescenti adottavano prevalentemente comportamenti passivi di consumo su TikTok per ricercare una forma di intrattenimento e divertimento. Inoltre, questo motivo era il motore principale anche tra coloro che partecipavano e contribuivano ai contenuti.

Le gratificazioni ricercate dal consumo passivo di Tiktok erano associate a bisogni affettivi, di evasione, cognitivi (ricercare informazioni) oltre che di sorveglianza degli altri, senza distinzione per genere o età.

La motivazione primaria dell’uso partecipativo di TikTok nel campione era espandere la rete di conoscenze, sentirsi riconosciuti a livello sociale e più in generale strutturare una propria identità.

Un terzo di coloro che hanno usato TikTok contribuendo nei contenuti avevano come motivazione l’espressione della creatività, l’autoespressione e la volontà di sperimentare la propria identità.

La produzione di contenuti e la possibilità che possano divenire virali conferiscono sicurezza identitaria ai giovani, rafforzando la loro posizione sociale. Infatti, la motivazione primaria tra gli utilizzatori frequenti era il desiderio di diventare famosi.

Le esigenze relazionali di riconoscimento e di fama, emerse dagli adolescenti impegnati nella produzione di duetti e video collaborativi, venivano confermate in modo esplicito dal campione.

Mentre i preadolescenti erano gratificati nel seguire profili di loro amici coetanei e nel produrre contenuti, gli adolescenti più grandi d’età soddisfacevano i loro bisogni visitando passivamente i post pubblicati da altri famosi (influencer, celebrità e idoli). Tra loro, un uso meno partecipativo di TikTok derivava probabilmente dall’autoconsapevolezza e dalla volontà di tutelare la propria privacy.

Sebbene TikTok sia considerato una forma di intrattenimento che concede un divertimento spensierato può essere motivo di preoccupazione sapere che i consumatori, oltre alla loro precoce età, ricercano attivamente nuovi legami sociali con lo scopo di divenire più popolari.

Al fine di tutelare i ragazzi, è importante entrare in contatto con il loro mondo, comprendere quali sono le figure influenti seguite su TikTok e a quali contenuti espongono gli utenti.

E’ chiaro che i social network non vengono monitorati come ci si aspetterebbe dal contesto sociale e che i bambini stessi che si interfacciano con il social, nonostante adultizzati in modo precoce, non hanno gli strumenti per capire e affrontare i pericoli insiti nel mondo online.

Per questo, è necessario agire in ottica preventiva, educando ad un uso consapevole di internet e del mondo social in un’età sempre più precoce, intervenendo non solo sulle questioni legate alla privacy e al pericolo dell’approccio ad estranei; ma nella gestione delle aspettative dei ragazzi, come quella del divenire famosi.

 

Dopo Trump, tornare alla razionalità

In questi giorni, gli strani e inquietanti eventi che accompagnano la fine della presidenza di Donald Trump ci dicono molte cose, tra le quali ce ne è una che interessa a noi che lavoriamo nel campo psicoterapeutico: che è tempo di tornare a riconoscere il ruolo significativo che la razionalità gioca nel benessere emotivo oltre che in quello sociale.

È tempo di tornare a dare un suo ruolo alla razionalità forse anche in psicoterapia perché troppo di emotivo e irrazionale vi è nei fatti accaduti a Washington. È vero: rischia di essere strumentale discorrere di razionalità o razionalismo in psicoterapia in questo momento in cui ben altro accade: la solidità della democrazia americana, tra le più antiche al mondo, ha mostrato una crepa. La razionalità è un valore importante ma non si può non riconoscere che in psicoterapia questa parola ha un significato preciso: “razionalità” e “razionalismo” sono due termini legati a determinati orientamenti psicoterapeutici, così noti che è inutile indicarli. Additare gli scricchiolii della politica americana per fare la propaganda a una psicoterapia non suona elegante.

Eppure, distaccandoci dalle singole psicoterapie e parlando di “razionalità” e “razionalismo” in maniera più ampia, come atteggiamenti clinici e orientamenti scientifici e non come brand di una determinata psicoterapia, i fatti di Washington possono essere un monito a riconsiderare i meriti delle funzioni razionali nel processo psicoterapeutico. Proveniamo da alcuni decenni di riscoperta, a volte benemerita e altre volte meno, dell’emotività in psicologia e in psicoterapia. Tra i tanti libri, uno dei più mainstream e pop è stato “Emotional Intelligence” pubblicato nel 1995 dal giornalista scientifico Daniel Goleman. Accanto a questa opera, altre ne sono state pubblicate più rigorose e profonde e molto ci hanno insegnato.

Tutti questi contributi ci hanno fatto capire quanto sia complesso il rapporto tra gli stati emotivi e le nostre decisioni più ponderate, calcolate e fondate su i principi più impersonali e astratti della razionalità. Un rapporto complesso in cui non possiamo pretendere che l’emozione sia meccanicamente asservita alla ragione. Abbiamo capito che i nostri stati esecutivi e consapevoli, la cosiddetta ragione, possono svolgere una funzione regolativa che arriva sempre dopo la percezione emotiva ma non può sostituirla: come scriveva Jonathan Haidt (2001) la buona ragione è la coda del cane, una metacognizione e non una cognizione primaria. Abbiamo imparato che la razionalità è una funzione acquisita tardivamente nell’evoluzione e da questa provenienza derivata dipendono i suoi limiti nel controllo degli stati mentali. Sappiamo ormai che la razionalità, lasciata a sè stessa, genera anch’essa i suoi mostri: il rimuginio e i pensieri ossessivi ad esempio. Abbiamo infine appreso che gli stati mentali, compresi quelli più razionali e impersonali, non sopravvivono al di fuori delle relazioni emotive con le altre persone e che quindi in ogni ragionamento vi è un affetto per o contro qualcuno. Da ultimo, abbiamo imparato che la mente è incarnata e che gli algoritmi e i concetti della ragione non vivono al di fuori di stati corporei che coinvolgono nervi, muscoli, pelle e visceri.

Insomma, abbiamo imparato di tutto ma abbiamo iniziato a trascurare la ragione rischiando così di dimenticare quella che è una delle principali virtù del pensiero razionale, la sua capacità di distaccarsi, di disincarnarsi, di decontestualizzarsi e di valutare freddamente e astrattamente i pro e i contro di una situazione e poi stabilire il da farsi (anche) al di fuori di ogni istinto. Che poi ci riusciamo ad attivarlo questo da farsi è un altro paio di maniche, ma intanto possiamo immaginarlo, sapere cos’è e sapere che prima o poi faremmo bene a fare quel che si deve fare. Insomma, abbiamo dimenticato che la razionalità è connessa con la funzione esecutiva consapevole, quella funzione che ci consente di prendere decisioni che sono certamente condizionate dalle percezioni affettive, emotive, relazionali, interpersonali e corporee ma che poi posseggono sempre un margine, un margine sottile ma presente in cui per un attimo e in maniera del tutto astratta, decontestualizzata e impersonale possiamo dire “si, faccio questo” o “no, non voglio farlo”.

Questa funzione è stata a volte svalutata, trascurata, definita illusoria e irrilevante. E questo pensiero si è diffuso sia a livello popolare che scientifico, in un movimento che ha coinvolto vari ambiti. Un movimento, ripeto, che ha i suoi grandi meriti scientifici ma che è solo una possibile linea di sviluppo nella storia umana, non l’unica e nemmeno sempre la più promettente. È anche una direzione che spesso ha mostrato delle corrispondenze con movimenti culturali di tipo irrazionalistico e romantico che periodicamente hanno conquistato l’egemonia o almeno la prevalenza sulla scena della storia, accanto ad altri periodi in cui l’orientamento prevalente era quello razionalistico.

Non si può ignorare che l’ondata neoromantica in psicoterapia, che dura da un po’, mostri le sue risonanze armoniche con le ondate populistiche e anti-elitarie che da alcuni anni hanno acquistato forza. Mi pare sia più diffusa di un tempo la convinzione che un ragionamento astratto non abbia alcun valore sociale, culturale e personale se non è accompagnato da una convinzione emotiva, da una sensazione viscerale e se non è vissuto in una relazione affettiva che fornisca un significato sentimentale al tutto. È un pensiero popolare indubbiamente, e che ha i suoi meriti. Si pensa che una musica debba avere il suo “hook” immediato, il suo appiglio melodico altrimenti non vale nulla ed è sospettata di snobismo. E così per mille altre manifestazioni della vita culturale, sociale e mentale. La conseguenza è che però decresce la fiducia nella possibilità di poter effettuare uno sforzo volontario non sentito ma razionale, lo sforzo di educarsi a imparare a fare qualcosa che spontaneamente e visceralmente non ci piace. Questa conseguenza vale non solo per la psicoterapia, in cui decresce la fiducia nel poter trasmettere al paziente la possibilità di un suo impegno razionale a mettere in atto comportamenti e pensieri funzionali, ma anche per la società, sempre più preda di idee populistiche, irrazionalistiche, percepite ma non elaborate, di grande impatto emotivo ma non pensate e, se permettete, non razionalizzate razionalisticamente.

I cicli interpersonali in terapia

L’obiettivo che permane durante tutto l’arco della terapia è quello di creare e mantenere la relazione terapeutica stabile e sicura al fine di modificare i pattern di attaccamento disfunzionali con alcuni più adattivi e funzionali.

Michela Cavallaro, Giorgia Cipriano – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Milano

 

Il primo autore a parlare di alleanza terapeutica è Bordin (1979) che definisce i fattori che la costituiscono. Secondo l’autore, l’alleanza terapeutica, è connotata da: obiettivi condivisi, compiti reciproci durante il trattamento e un legame affettivo caratterizzato da fiducia e rispetto.

Nonostante si possa credere e/o immaginare che creare ed ottenere tutto ciò sia semplice e di facile intuizione in realtà non lo è. Il terapeuta, a volte, potrebbe sentire la sensazione di essere in una fase di stand by della terapia in cui si sente di non riuscire a dare il proprio contributo al paziente o non si procedono e/o si ottengono i risultati sperati o addirittura che la persona che sta fruendo di questo servizio ci attivi emozioni di rabbia o ansia. In questo caso è possibile che il terapeuta e il paziente siano dentro ad un ciclo interpersonale.

Due autori che hanno definito il ciclo interpersonale sono Safran e Segal. Per loro esso è ‘il modo in cui la relazione con l’altro attiva circuiti che rinforzano la patologia a causa dei segnali – in prevalenza non verbali, automatici ed emozionali – che i pazienti scambiano con i loro partner in interazione’ (Safran e Segal; 1990).

Dalla loro esposizione intuiamo che essi sono meccanismi e strategie che il paziente utilizza per non accedere a stati emotivi che per lui sono dolorosi e faticosi da tollerare. Ciò però suscita nell’altro proprio le sensazioni e gli stati emotivi temuti che avvalorano le credenze centrali e attivano una modalità che mina la relazione in generale e quelle significative e terapeutica in particolare.

I cicli interpersonali non sono volontari e frutto di un atto deliberato intenzionale a livello conscio ma avvengono su un piano automatico inconscio, emotivo ma esplicito e si autoperpetuano. L’autoperpetuazione è la tendenza di un soggetto a relazionarsi con gli altri attuando ruoli complementari che cristallizzano lo schema relazionale.

Affinché si crei l’alleanza terapeutica è necessario che la relazione proceda nella direzione sperata ed è importante che il terapeuta si monitori e ponga attenzione ai suoi stati emotivi, ai suoi pensieri e alle sensazioni che il soggetto gli trasmette. E’ importante che il terapeuta noti anche se ci sono delle conferme tra le narrazioni del soggetto (e quindi sulle relazioni significative che la persona riporta) e ciò che accade nel setting terapeutico.

Esistono diversi cicli interpersonali e gli autori Muran & Safran (2000) li esplicitano in 3 grandi tipologie mostrando ciò che gli attori della terapia attuano a livello comportamentale e quindi fisico, verbale e comunicativo. Essi sono:

  • Ciclo interpersonale del ritiro. In questo ciclo il paziente attua comportamenti di: intellettualizzazione, iperdettaglio, riduzione della comunicazione, shifting argomentativo, comunicazione laconica. Allo stesso tempo il terapeuta sente il desiderio di non presentarsi in terapia perchè non vorrà vedere il paziente; inoltre durante il colloquio sentirà del torpore e in seguito potrebbero esserci amnesie su ciò che essi si sono detti.
  • Ciclo interpersonale del confronto. In questa relazione il paziente critica la terapia e il suo andamento, sarà allusivo e porrà test al terapeuta e verificherà la sua disponibilità e l’autorevolezza nonché la sua preparazione. Il terapeuta sentendosi minacciato proverà fastidio ed irritazione.
  • Ciclo interpersonale dell’ipercoinvolgimento. In questo ciclo il paziente è in fase di allarme e richiedente di attenzione ed aiuto. Egli idealizza il terapeuta ma è anche preoccupato. Ciò crea nel teraputa ansia, paura e fantasie di catastrofi.

Oltre a questa suddivisione, i cicli interpersonali possono essere distinti secondo Di Maggio in due macro categorie: acuti o cronici.

I cicli acuti si caratterizzano per l’intensità delle emozioni, per la potenza della spinta all’azione e per la durata relativamente breve che, quando non porta alla rottura della relazione, raramente supera le due sedute. I cicli cronici, invece, sono caratterizzati da sentimenti di minore intensità, da spinte all’azione più facilmente contenibili, ma da una durata che, specie all’inizio della terapia, tende a prolungarsi per diverse sedute. Pertanto, mentre nei cicli acuti effettivamente il terapeuta incontra serie difficoltà a contenere la spinta emotiva e mettere in atto azioni anti terapeutiche, nei cicli cronici si segnala una tendenza all’azione grazie alla minore intensità. Tuttavia il terapeuta si trova a dovere gestire per un periodo più lungo una spinta verso interventi legati più al proprio stato emotivo che al ragionamento clinico. Il fatto che l’insorgenza dei cicli problematici sia profondamente legata alla patologia interpersonale dei Disturbi di Personalità fa sì che lo stesso tipo di ciclo tenda a ripetersi quando è presente un certo tipo di patologia, indipendente delle caratteristiche personali del terapeuta. In altre parole, pazienti simili tendono a creare cicli simili e ciò permette di tentare una sia pur parziale classificazione dei cicli e soprattutto un apprendimento a riconoscerli e gestirli (per una descrizione di diversi cicli: Carcione, Nicolò e Semerari, 2016; Dimaggio e Semerari, 2003; Semerari, 1999).

I cicli interpersonali possono verificarsi sia con i cosiddetti pazienti semplici che con i pazienti che hanno disturbi della personalità. Essi ricoprono una categoria molto sensibile a questo tema: è infatti più probabile che i cicli interpersonali si verifichino in terapie con pazienti con disturbo di personalità. In questi pazienti i cicli sono un vero e proprio elemento clinico che deve essere avvertito e gestito ancora più tempestivamente che con gli altri pazienti. Essi faticano a riflettere e ragionare sui propri e altrui stati mentali (deficit metacognitivo). Nelle terapie con questa tipologia di utenza i cicli interpersonali hanno un’attivazione più rapida, di maggiore intensità e sono rafforzati dai deficit metacognitivi che creano un sistema di auto-mantenimento. Queste relazioni disfunzionali sono state studiate da diversi autori che hanno evidenziato come a seconda del disturbo, essi abbiano caratteristiche diverse. Quindi non sono tanto le differenze individuali del paziente e del terapeuta a crearli e mantenerli quanto le caratteristiche del disturbo di personalità di cui soffre il paziente (Clarkin et al. 1999). L’autore fa l’esempio di un paziente paranoico che attua reazioni di di paura o rabbia o il narcisista che mostra reazioni di sfida, distacco o di adulazione. Essi sono inoltre indicatori del tipo di disturbo di personalità cui soffre il paziente e possono fornire indicazioni sul funzionamento del paziente.

Ma l’accorgersi del ciclo interpersonale, oltre a fornire indicazioni sulle caratteristiche del paziente aiuta il terapeuta sull’orientamento della terapia. Egli, pertanto dovrà dare importanza ai suoi vissuti emotivi durante il colloquio con il paziente e una volta identificato lo stato emotivo, potrà domandarsi se questo sia simile a ciò che prova il paziente o le persone che sono in relazione con lui. ‘L’obiettivo è di riuscire a collocarsi mentalmente in modo contrario alla tendenza spontanea che emerge dall’interazione con il paziente‘ (Dimaggio, Semerari, 2007). Dimaggio e Semerari con questa affermazione sottolineano l’importanza di riconoscere i cicli interpersonali e condividerli e discuterne quando è possibile con l’utente al fine di favorire il processo empatico e migliorare l’alleanza terapeutica creando schemi relazionali più funzionali. Non è semplice riconoscersi dentro ad un ciclo interpersonale proprio perchè si è uno degli attori coinvolti e questo denota quanto sia importante aver fatto terapia personale e quindi essere a conoscenza dei propri temi dolorosi e delle strategie che noi stessi mettiamo in atto, sia di essere supervisionati da esterni sui nostri casi. Costruire o ricostruire insieme al paziente una relazione solida e di cura è parte stessa del percorso terapeutico.

Non tutte le sensazioni che il terapeuta ha però devono necessariamente essere associate a cicli interpersonali: i pensieri, le emozioni e i comportamenti che un paziente ci suscita possono essere altresì correlati alle caratteristiche del terapeuta (Clarkin, Kernberg e Yeomans, 1999). Potrebbero infatti essere dovuti a stati mentali che sono condizionati dalla quotidianità e dal vissuto privato del terapeuta come una condizione faticosa in famiglia, stanchezza generale, bournout, malessere o ancora a suoi aspetti caratteriali come insicurezza, arroganza e freddezza. Ciò che però occorre approfondire è che durante tutto il percorso terapeutico il terapeuta si osservi e riconosca i propri vissuti e stati mentali e si chieda quanto siano dovuti alle proprie caratteristiche personali e quanto alla relazione e al paziente. Osservarsi e monitorare l’andamento del colloquio terapeutico ha a che fare con la cura e fornisce spunti di narrazione con i pazienti disfunzionali sul piano relazionale. Se non adeguatamente osservato e compreso, questo aspetto, può compromettere gravemente la terapia.

La terapia metacognitiva interpersonale

Per conoscere e curare un disturbo mentale è necessario capire in che modo i diversi elementi che lo caratterizzano interagiscono tra loro creando un funzionamento patologico stabile nel tempo. La terapia metacognitiva interpersonale è indicata per i pazienti che presentano disturbi di personalità perchè, in questo approccio, il terapeuta li suddivide in aree e processi di funzionamento mentale e agisce su di essi cercando di bloccare i loro circuiti di rinforzo. Essi prendono in considerazione soprattutto gli stati mentali problematici, le disfunzioni cognitive, gli schemi ed i cicli interpersonali disfunzionali.

L’intervento metacognitivo interpersonale si basa su quelle che sono le capacità metacognitive, ovvero l’abilità di comprendere, riconoscere e monitorare le proprie emozioni e i propri bisogni e quelli degli altri. In altre parole è sinonimo di conoscere la nostra mente e comprendere quella dell’altro. Molto spesso i pazienti che presentano dei cicli interpersonali hanno anche dei deficit metacognitivi e, di conseguenza, l’intervento deve prima essere mirato sullo sviluppo delle abilità metacognitive e, solo in un momento successivo sui cicli interpersonali.

Per uscire dal ciclo interpersonale è necessario innanzitutto riconoscerlo e ricondurlo anche ad altri episodi della vita del paziente, non soltanto alla relazione terapeutica, esplicitarlo al paziente e ragionare con lui sulle motivazioni e l’utilità di tale schema relazionale. E’ importante effettuare tale intervento monitorando il timing terapeutico poichè può essere successivo solo a un precedente intervento metacognitivo. Se l’intervento viene svolto in modo eccessivamente precoce potrebbe portare alla creazione di un ciclo competitivo non funzionale alla terapia. L’obiettivo finale è quello di permettere all’utente di instaurare relazioni più funzionali e, in altre parole, l’attivarsi di cicli interpersonali problematici tra terapeuta e paziente rappresenta, oltre a un rischio, un’occasione per la cura, perché permette al terapeuta una comprensione più completa e terapeuticamente vantaggiosa di come il suo paziente vive le relazioni interpersonali (Di Maggio, Semerari, 2007)

 

La disposizione dei posti a sedere può influenzare i processi cognitivi di studenti della scuola primaria?

Lo studio condotto da Tobia et al. (2020) ha indagato nella scuola primaria, l’effetto del cambiamento della disposizione dei posti a sedere, sul ragionamento logico, sulla creatività e sulla teoria della mente.

 

Le caratteristiche strutturali dell’ambiente scolastico influiscono sul rendimento, l’impegno, lo stato emotivo ed il benessere generale di coloro che lo frequentano (Higgins et al., 2005); condizionando le interazioni sociali tra pari e tra insegnanti e studenti (Byers et al., 2018).

Ad esempio, il posizionamento dei banchi nelle scuole primarie, sembra impattare notevolmente sul comportamento tenuto in classe dagli studenti, come alzare la mano per fare domande o essere fuori posto senza permesso (Wannarka & Ruhl, 2008).

La tradizionale disposizione dei banchi incentrata sull’insegnante, è costituita dalla collocazione degli studenti su file e colonne, con il docente posto di fronte a loro. Diversamente, l’organizzazione dei banchi in cluster che permette con facilità il lavoro in gruppi favorendo la cooperazione, è divenuta la più utilizzata dagli insegnanti negli ultimi anni (Gremmen et al., 2016). Tuttavia, in questa fase storica, la riapertura delle scuole durante il COVID-19, è stata effettuata a condizione del rispetto di misure volte a favorire il distanziamento sociale, intraprese cambiando la disposizione spaziale dei posti a sedere nelle aule, in file e colonne.

La distanza interpersonale tra gli studenti condiziona sia i processi relazionali che quelli cognitivi (Amit et al., 2013), influenza l’attenzione spaziale e favorisce la concentrazione al compito solo quando entrambi i partecipanti ne stanno eseguendo uno identico (Szpak et al., 2016).

La vicinanza con un compagno influisce negativamente nel ragionamento logico (Nagar & Pandey, 1987), nella creatività  (Lamm & Trommsdorff, 1973) e nei compiti di cognizione sociale (Strayer & Roberts, 1997), portando ad un rendimento scolastico peggiore soprattutto per le ragazze (Maxwell, 2003). Mentre la prossimità potrebbe promuovere la creatività di squadra (Milliken et al., 2010); la creatività nei compiti individuali è favorita dalla privacy (Dul & Ceylan, 2014), in assenza di vincoli fisici e sociali.

La distanza interpersonale non agisce sulla prestazione similmente per tutti gli individui, ma in modo variabile a seconda delle caratteristiche personali di ognuno (ad esempio, percepire la vicinanza come invasione dello spazio personale; Kaitz et al., 2004), in base al genere (ovvero le femmine tendono a stare più vicine tra loro rispetto ai maschi; Costa, 2010) e per la presenza di relazioni esistenti tra gli individui (Mehrabian, 1968).

Minore distanza interpersonale, influenza negativamente la performance per l’insorgenza del disagio sociale, una risposta allo stress determinata dall’invasione da parte dell’altro, nel nostro spazio personale. Fronteggiarlo richiede risorse cognitive, che possono essere sottratte a quelle necessarie alla risoluzione del compito (Helton et al., 2009).

Lo scopo dello studio, condotto da Tobia et al. (2020), era indagare sperimentalmente su 77 bambini della scuola primaria, l’effetto del cambiamento della disposizione dei posti a sedere (gruppi vs file e colonne), sul ragionamento logico (pensiero convergente), sulla creatività (pensiero divergente) e sulla teoria della mente (cognizione sociale).

Inoltre essendo plausibile che specifici fattori individuali, insieme alle caratteristiche del compito, possano influenzare i processi cognitivi; l’effetto della disposizione dei posti a sedere è stato analizzato in relazione ad alcune caratteristiche, come genere e grado di solitudine valutato dai compagni di classe.

I partecipanti seduti in file e colonne, dunque ben distanziati, hanno riportato un punteggio nel ragionamento logico globalmente più alto, insieme ad un miglioramento qualitativo e quantitativo del lavoro stesso; coerentemente col fatto che l’essere seduti separati dai coetanei facilita lo svolgimento di compiti individuali, aumentando la produttività (Bennett & Blundell, 1983).

Nonostante per gli altri processi cognitivi esaminati non siano emersi effetti significativi in relazione della disposizione dei banchi, per le variabili individuali sono emersi risultati rilevanti.

Nel dettaglio, le bambine riportavano prestazioni migliori nella teoria della mente quando sedute distanziate, avendo migliori competenze sociali e capacità di riconoscimento emotivo rispetto ai loro coetanei maschi. Durante i compiti di cognizione sociale, un compagno nelle vicinanze potrebbe agire come stimolo ambientale che le distrae e che entra in competizione con le richieste del compito, comportando un carico cognitivo maggiore e prestazioni peggiori (Choi et al., 2014).

I bambini più isolati, avevano prestazioni migliori nel compito di cognizione sociale ed in quello creativo quando seduti in file e colonne, avendo riportato idee più originali.

Coerentemente con il modello della solitudine di Hawkley e Cacioppo (2010), individui tendenzialmente soli ma costretti alla vicinanza con i loro coetanei, si ritrovano in sovraccarico cognitivo per un’ipervigilanza verso le minacce sociali; pongono attenzione alle informazioni negative dell’ambiente sociale e hanno minori risorse disponibili per il compito.

Tuttavia, i bambini che tendevano a circondarsi da coetanei, hanno beneficiato della loro vicinanza fisica promossa dalla disposizione dei banchi a grappolo durante il compito di creatività, avendo riportato un maggior numero di idee.

Concludendo, il posizionamento delle sedute nelle aule delle scuole primarie, andrebbe concordato con la natura del compito, favorendo posti distanziati per attività individuali che implicano il pensiero convergente, come nei compiti di ragionamento, e sedute più ravvicinate per i compiti creativi; non senza prima considerare le caratteristiche individuali dei singoli studenti.

Inoltre, sarebbe utile favorire politiche scolastiche volte a consolidare il gruppo classe, portando alla coesione e integrazione di tutti i membri, cosicché le prestazioni cognitive dei bambini tendenzialmente soli ma costretti a lavorare in gruppo, possano trarne beneficio.

Le linee guida imposte dal COVID-19 che impongono banchi disposti in file e colonne, pur avendo un impatto positivo per alcuni tipi di compiti e per alcuni studenti, dovrebbero essere limitate a questo momento di emergenza sanitaria.

Privilegiare un ambiente di apprendimento flessibile, significa riorientarlo a beneficio del fruitore primario, in modo tale da creare per il raggiungimento degli obiettivi scolastici, uno spazio di crescita incentrato sullo studente e per lo studente.

 

Covid-19, ansia, stress ed immagine corporea (Body Image), trovata una relazione

Oltre alle conseguenze sulla salute fisica, il COVID-19 ha portato a diversi problemi psicologici. La letteratura scientifica sulle pandemie passate ha mostrato il ruolo della paura, ansia, stress e depressione e le sue conseguenze psicosociali negative sulla qualità della vita della popolazione.

 

Nell’ultimo mese del 2019 e nel primo trimestre del 2020, una nuova malattia infettiva ha causato un’emergenza mondiale, al punto da dover dichiarare una pandemia globale da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità l’11 marzo 2020 (WHO, 2020). I sintomi di questa malattia (COVID-19), causata dal virus SARS-CoV-2, includono febbre, affaticamento, tosse secca, dolori, mal di gola, diarrea, congiuntivite, mal di testa, perdita del gusto o dell’olfatto, eruzione cutanea, difficoltà respiratorie, dolore toracico, perdita della parola o del movimento (WHO, 2020). Oltre alle conseguenze sulla salute fisica, il virus ha portato a diversi problemi psicologici (Santini et al, 2020). La letteratura scientifica sulle pandemie passate ha mostrato il ruolo della paura, ansia, stress e depressione e le sue conseguenze psicosociali negative sulla qualità della vita della popolazione (ad esempio Pappas et al., 2009).

L’immagine corporea è la percezione che gli individui hanno del proprio aspetto fisico e dei pensieri e dei sentimenti che derivano da tale percezione (Cash e Puzinsky, 2002). Più nello specifico

l’immagine che abbiamo nella nostra mente della forma, dimensione, taglia del nostro corpo e i sentimenti che proviamo rispetto a queste caratteristiche e rispetto alle singole parti del nostro corpo. (Slade, 1994)

Sempre secondo Slade (1994), la percezione della propria immagine corporea è composta da diversi elementi: (i) percezione (che fa riferimento a come una persona percepisce il proprio corpo tramite i sensi) ii) attitudinale (che fa riferimento alla cognizione del proprio corpo), iii) affettiva (che fa riferimento ai sentimenti verso il proprio corpo), iv) comportamentale (che fa riferimento alle attività fisiche, alimenzione etc.). Tutti questi elementi tra loro, possono dunque essere riferiti a diversi aspetti della personalità dell’individuo e ci fa comprendere come l’immagine che ogni persona possiede del proprio corpo è complessa e non riferibile solo ad elementi singoli (Nerini et al., 2008). L’insoddisfazione corporea consiste in una valutazione soggettiva negativa del proprio fisico (Troisi, 2020). Questo avviene quando vi è una differenza importante tra l’immagine ideale che vorremmo avere e la percezione reale che abbiamo del nostro corpo (Halliwell e Dittmar, 2006). Questa differenza (o discrepanza) può portare ad attuare dei sentimenti e dei comportamenti negativi verso sé stessi e verso il proprio corpo, arrivando anche, in alcuni casi, a mettere in atto dei comportamenti nocivi verso la propria salute fisica e mentale (Cash e Pruzinsky, 2002). Una conseguenza molto comune di questa discrepanza è la distorsione della propria immagine corporea (Garner e Garfinkel, 1981) che, se portata a livelli patologici, può sfociare in disturbi alimentari di varia natura (come ad esempio bulimia o anoressia, Garner e Garfinkel, 1981). Come riportato da Nerini et al. (2008, p.3):

L’enfasi data allo studio dell’insoddisfazione verso la propria immagine corporea quindi è dovuta principalmente al fatto che tale insoddisfazione risulta uno dei fattori di rischio per l’insorgenza di disturbi del comportamento alimentare (…) binge eating (…) o comportamenti alimentari disturbati come, per esempio, la tendenza a sottoporsi a ripetute diete dimagranti (…).

Inoltre, moltissimi studi (Granner, Black e Abood, 2002; Stice e Shaw, 2002), hanno messo in correlazione l’insoddisfazione della propria immagine corporea e la sua distorsione con altre variabili, come ad esempio bassa autostima, ansia, stress, depressione, uso di tabacco etc.

Inoltre, l’insoddisfazione per il proprio corpo, può essere ricondotta anche alla sovraesposizione ad immagini contenute in riviste, film e pubblicità, che ritraggono corpi ideali muscolosi per gli uomini, e di magrezza per le donne (ad esempio Leit, Pope e Gray, 2001; Cahill e Mussap, 2007).

Nella popolazione generale, si è visto che l’esposizione ai modelli ideali proposti dai media influisca sull’insoddisfazione corporea attraverso i processi di confronto sociale (relativo al proprio aspetto fisico) (Neriti et al., 2008; p. 3)

e questo porta a confrontare il proprio corpo, sia con i modelli di riferimento, sia con la famiglia, sia con i propri pari in modo più frequente ed ossessivo, alimentando la propria insoddisfazione (Van der Berg et al., 2007). Nello specifico

i pari e le immagini mediatiche risultano essere i più frequenti e importanti modelli estetici per il confronto dell’aspetto e del corpo sia fra gli adolescenti che i giovani adulti di entrambi i sessi (…) Anche la percezione delle pressioni dei media, dei genitori e dei pari a perdere peso risulta predire il livello di insoddisfazione corporea negli adolescenti. (Nerini et al., 2008; p. 8).

Fatte queste premesse, nella situazione che la popolazione generale sta vivendo, ansia, stress correlati alla situazione di emergenza, generata dal COVID-19, sembrano essere inoltre, la causa di una serie di problemi di immagine corporea sia negli uomini che nelle donne (Anglia Ruskin University, 2020). A scoprire questa relazione (tra ansia, stress e situazione dovuta al COVID-19) è una recente ricerca, effettuata da Viren Swami, professore dell’Anglia Ruskin University (ARU). La ricerca, guidata dal professor Viren Swami, è stata condotta su 506 adulti del Regno Unito e pubblicata sulla rivista Personality and Individual Differences (Viren Swami et al., 2020). In particolare, nello studio condotto dal professore Viren Swami e collaboratori si è visto che: le donne avevano i sentimenti di ansia e stress causati da COVID-19 associati a un maggiore desiderio di magrezza (Anglia Ruskin University, 2020; Viren Swami et al., 2020) e che l’ansia era significativamente associata all’insoddisfazione del proprio corpo. Negli uomini, invece, l’ansia e lo stress correlati a COVID-19 erano associati a un maggiore desiderio di avere un tono muscolare elevato, con l’ansia associata anche all’insoddisfazione della quantità di grasso corporeo.

Una percezione negativa del proprio corpo è una delle cause principali che possono sfociare in disturbi alimentari, come ad esempio bulimia e anoressia (vedi ad esempio Cash, T. F., & Deagle III, E. A., 1997). Questo studio conferma come, in situazione particolarmente stressanti ed ansiogene, come quella dovuta alle restrizioni per fronteggiare il COVID-19, possono alimentare ansia e stress che influenzano, in negativo, lo stato psicofisico dell’individuo, e causare diversi disturbi alimentari nella persona (Fernández-Aranda F, Casas M, Claes L, et al., 2020).  Viren Swami (2020), ha inoltre dichiarato che:

Oltre all’impatto del virus stesso, i nostri risultati suggeriscono che la pandemia potrebbe anche portare a un aumento dei problemi di immagine corporea. In alcuni casi, questi problemi possono avere ripercussioni molto gravi, inclusa l’attivazione di disturbi alimentari (…) Certamente durante il periodo iniziale di blocco primaverile, il nostro tempo davanti allo schermo è aumentato, il che significa che era più probabile che fossimo esposti a ideali magri o atletici attraverso i media, mentre una diminuzione dell’attività fisica potrebbe aver acuito pensieri negativi sul peso o sulla forma. Allo stesso tempo, è possibile che l’ansia e lo stress aggiuntivi causati da COVID-19 possano aver diminuito i meccanismi di coping che tipicamente utilizziamo per aiutare a gestire i pensieri negativi. (…) Il nostro studio ha anche scoperto che, quando stressati o ansiosi, le nostre occupazioni tendono a seguire le linee tipiche del genere. Durante il blocco, le donne possono essersi sentite sotto maggiore pressione per conformarsi ai ruoli e alle norme tradizionalmente femminili, e il messaggio sull’auto-miglioramento può avere portato le donne a sentirsi insoddisfatte del proprio corpo e ad avere un maggiore desiderio di magrezza. (…) Allo stesso modo, i nostri risultati riflettono il modo in cui lo stress e l’ansia influenzano le relazioni degli uomini con i loro corpi, in particolare in termini di ideali corporei maschili. Dato che la mascolinità enfatizza tipicamente il valore della forza, dell’autosufficienza e della ricerca dello status, Lo stress e l’ansia correlati al COVID-19 possono indurre gli uomini a dare maggior valore all’importanza di essere muscolosi. (Anglia Ruskin University, 2020)

Cosa dovrebbero fare le persone, dunque, in situazioni di stress, ansia dovuti alla quarantena? Un articolo del Prof. Riccardo Dalle Grave, M.D. (2020), dice che:

(…) Le persone con disturbi alimentari hanno un alto rischio di ricadere o di peggiorare la gravità del loro disturbo, a causa dei timori di infezione e dell’effetto della quarantena, e per la mancanza di adeguati trattamenti psicologici e psichiatrici dovuti alla pandemia. Le paure infettive tendono ad aumentare la sensazione di non avere il controllo che, nelle persone con disturbi alimentari, è spesso gestita con un aumento delle restrizioni alimentari o altri comportamenti estremi di controllo del peso o con binge-eatingepisodes (…) Non esistono soluzioni facili ai problemi di cui sopra. Tuttavia, è possibile mantenere l’erogazione di trattamenti psicologici ambulatoriali utilizzando la tecnologia online con alcuni adattamenti. Inoltre, alcuni centri clinici hanno già implementato servizi ambulatoriali intensivi virtuali (…) Tuttavia, alcuni pazienti con disturbi alimentari non rispondono al trattamento ambulatoriale o non possono essere gestiti in modo sicuro o praticabile in ambulatorio. La maggior parte di questi pazienti soffre di anoressia nervosa. In questi casi, anche nel periodo COVID-19, è necessario un trattamento intensivo, ma dovrebbe essere adattato per includere tutte le precauzioni per mantenere la sicurezza sia dei pazienti che del personale sanitario. Ciò richiede, ad esempio, di dover educare i pazienti a ridurre al minimo il rischio (ad esempio, lavarsi spesso le mani con acqua e sapone per almeno 20 secondi, evitare di toccare gli occhi, il naso o la bocca con mani non lavate, mantenere diversi metri di distanza tra loro e gli altri pazienti), aumentare i lavori di pulizia con disinfettanti, limitare tutti i visitatori, sospendere i pass terapeutici esterni, usare mascherine chirurgiche, condurre tutte le sessioni familiari in modo virtuale e mantenere la possibilità che i pazienti possano connettersi online con gli altri. Inoltre, dovrebbe essere ideato e implementato un protocollo specifico per gestire un paziente risultato positivo al coronavirus.

Tutti noi dobbiamo navigare in questo periodo difficile, ma coloro che soffrono di disturbi alimentari devono affrontare ulteriori sfide legate all’interazione della loro psicopatologia con le minacce associate alla pandemia COVID-19. Ciò richiede la progettazione di un nuovo modo di fornire trattamenti e di integrare strategie e procedure standard per affrontare sia il disturbo alimentare che le paure legate all’infezione e all’isolamento sociale (…).

Oltre ad ansia e stress però, ci sono altre variabili che possono essere concausa dei disturbi alimentari, come si evince da una recente ricerca di Abbiati F. et al. (2020, p.3):

La pandemia potrebbe anche aver avuto un impatto significativo sui pazienti con disturbo alimentare (…) Per quanto riguarda le abitudini alimentari, l’assenza di abitudini chiare e riferimenti temporali o spaziali, come le pause pranzo nelle mense aziendali, potrebbe essere annoverata tra i fattori che hanno peggiorato la qualità della vita dei pazienti con disturbi alimentari. Ad esempio, l’assenza di strutture che normalmente supportavano i piani alimentari della persona avrebbe potuto portare a un aumento del consumo di cibo al di fuori dei pasti prestabiliti, fomentando l’insorgenza di episodi di abbuffate (…) Inoltre, la raccomandazione del governo di limitare l’attività di acquisto non essenziale, con la percezione della scarsità di alcuni prodotti alimentari, potrebbe aver aumentato l’attenzione sul cibo e indirettamente incoraggiato le persone ad acquistare determinate forniture come snack e alimenti a lunga conservazione (…).Oltre ai suddetti fattori di rischio, la paura di contrarre l’infezione da COVID-19 ha probabilmente portato le persone a sperimentare maggiori preoccupazioni per quanto riguarda la qualità del cibo o la possibilità che possa essere un veicolo di contagio (…).

I futuri studi e ricerche, dovrebbero concentrarsi su come ansia, stress e COVID-19 siano legati tra loro per avere una visione più chiara di questo legame.

Inoltre, altre variabili da prendere in considerazione (oltre ansia e stress), che possono influire sull’immagine negativa del proprio corpo e condurre a disturbi alimentari (ad esempio bulimia o anoressia), nella situazione di emergenza da COVID-19 : (i) Preoccupazione estrema per il peso e la forma del corpo (Lydecker et al., 2017) dovuta all’incremento delle attività via webcam, come la didattica a distanza e quindi apparire sempre in forma (Ghosh et al., 2020),  (ii) depressione, che in situazione di crisi può essere presente in maniera patologica nell’individuo (Salari, N. et al., 2020) (iii) umore negativo che in situazione difficili può portare ad una valutazione ridotta della propria piacevolezza fisica (Bessenoff,  2006).

 


 

 

Prima il piacere e il dovere assieme: imprescindibilità di una moderata attività fisica per il benessere dell’individuo

Una corposa quantità di ricerca determina che l’attività fisica è assolutamente necessaria per il benessere e l’omeostasi dell’essere umano. L’articolo descrive questo bisogno psicofisico dell’uomo, contestualizzandolo nella attuale pandemia globale.

 

Il recente incremento dei casi di Sars-Cov-2 ha portato il governo italiano ad inserire nel nuovo DPCM un coprifuoco e la chiusura momentanea di attività, come i teatri e le palestre, di solito abilitate a luoghi di raggruppamento di un considerevole numero di clienti (Forgnone, Vitale. 2020).

Sebbene lo Stato abbia approvato un decreto con il quale le filiere più a rischio avranno un rimborso a fondo perduto, come indicato da Il Sole 24 Ore (2020), membri delle filiere stesse e le Regioni hanno contestato questa nuovo provvedimento (La Repubblica, 2020), considerandolo approssimativo e causa di effettivi fallimenti economici a catena.

Una dei rami aziendali che più ha contestato le direttive del nuovo DPCM è quella legato alle palestre, all’attività fisica agonistica e ai centri benessere, non solo per le conseguenze sulla loro già aggravata situazione economica (Il Resto del Carlino, 2020), ma anche per il danno alla salute psicofisica del popolo italiano (Rota, 2020).

La necessità di svolgere attività fisica per la salute generale e mentale è da sempre sottolineata dalla ricerca (Chekroud, Sammi R., et al., 2018), una necessità che deve essere soddisfatta in maniera moderata per garantire una corretta omeostasi nell’individuo (Biddle, S.,1995).

Il bisogno vitale dell’essere umano di compiere dell’esercizio fisico è un lascito del suo passato ancestrale come cacciatore di persistenza nomade (Trabucchi, 2015), dove la buona costituzione fisica continuamente sottoposta ad esercizio è stata una variabile fondamentale per la sopravvivenza.

Essendo l’evoluzione della specie umana lenta (Welsh, 2011; Georgiou, 2019), ancora oggi la struttura fisica e mentale dell’essere umano necessita di base una moderata attività fisica (Diamond, A., 2015).

Infatti, il costante esercizio fisico è solitamente correlato ad una gestione ottimale dell’umore (Jarrett, 2018), delle capacità cognitive (Jarrett, 2018) e della gestione delle situazioni di stress (Feltz, Short, Sullivan, 2008).

Per questo motivo, lo psicologo Pietro Trabucchi determina come lo sport non solo sia un elemento necessario per una vita funzionale, ma sia una esperienza che all’uomo può portare insegnamenti e benefici duraturi nella vita, come la capacità di attuare adattamenti resilienti (2016), allenare maggiormente la capacità di attenzione (2016) e incrementare il proprio senso di controllo (2017).

Dello stesso parere è lo psichiatra e professore Vittorino Andreoli, che indica come la ginnastica costante sia una base fondamentale per l’equilibrio psicofisico dell’individuo, da lui contestualizzata con il neologismo di ‘bendessere’ (2016).

Con il fatto che l’attività fisica sia stata inserita come elemento prescrivibile nella ricetta medica (Corica, 2016) e che sia considerata un elemento fondamentale per la prevenzione naturale dei problemi cognitivi nell’avanzare dell’età (Kramer, Kirk, Stanley, 2006), l’ideale è che l’attività fisica sia regolamentata al meglio durante questa pandemia, sia per il bene della sua filiera economica che per la salute delle persone.

 

Tatuaggi e giudizio

In uno studio sperimentale sia le donne che gli uomini del campione tendevano a giudicare gli uomini tatuati come più mascolini, più dominanti e aggressivi. L’accezione negativa o positiva di tali caratteristiche dipende dal contesto in cui la persona vive.

 

Siccome la decorazione della pelle con tatuaggi permanenti sembra essere diventata una moda tutt’altro che passeggera (Armstrong, 1991; Hawkes, 2004), potremmo bene inferire che tale pratica sia sempre più accettata tanto da chi ne è interessato solo indirettamente, come i genitori, i parenti stretti, ma anche i datori di lavoro o gli insegnanti.

Se è quindi vero che di fronte ad un fenomeno in graduale aumento, il giudizio delle persone verso i tatuaggi sembra diventare via via più aperto con la loro diffusione, tale tolleranza nasconde ancora molti pregiudizi, alcuni dei quali verranno considerati nelle righe seguenti.

Le modifiche importanti sul corpo, come in questo caso i tatuaggi, sono delle pratiche con una lunga storia alle spalle in diverse culture (Krutak, 2015). Nel periodo preindustriale tale pratica metteva in seria minaccia di vita la persona che vi si sottoponeva, esponendola ad un’alta percentuale di infezione. La sua sopravvivenza dimostrava così un’importante ed evidente resistenza agli agenti patogeni, sinonimo quindi di forza e salute nel soggetto (Singh & Bronstad, 1997; Lynn, Dominguez, & Decaro, 2016).

Nella società moderna il discorso è molto diverso, ma alcuni di questi pensieri e giudizi sembrano essere resistiti al tempo e al cambiamento. Sebbene questa rimanga una pratica dolorosa e rischiosa, alcune accortezze a livello di igiene hanno sensibilmente diminuito la possibilità di infezioni o di altri effetti collaterali. Tuttavia, il soggetto tatuato sembra trasmettere ancora non solamente una resistenza al dolore, ma anche una buona salute a livello di immunocompetenza (Lynn, Dominguez, & Decaro, 2016).

Ma non solo: oltre ad influenzare il giudizio dell’altro in termini biologici, l’uomo tatuato impressiona l’altro condizionando la percezione che questi ha anche riguardo ai suoi tratti comportamentali.

L’esperimento di Galbarczyk e Ziomkiewicz (2017) ci apre all’interessante aspetto comportamentale appena nominato, mostrandoci come varia il giudizio degli uomini e delle donne partecipanti esposti ad immagini di uomini tatuati e di uomini non tatuati.

In tale occasione verranno anche osservati i due meccanismi insiti nella selezione sessuale, ovvero la scelta da parte del soggetto del sesso opposto e la competizione intrasessuale.

Come dimostrato anche dall’esperimento di Wohlrab (2009), nello studio di Galbarczyk e Ziomkiewicz (2017) le donne tendono a collegare ad un corpo maschile tatuato una migliore salute, considerandolo quindi una persona più sana; il giudizio appariva infatti molto più frequentemente durante l’esposizione a immagini di corpi maschili tatuati rispetto a quelli dello stesso genere non tatuati. Insieme a questo dato si è notato che sia le donne che gli uomini del campione tendevano a giudicare gli uomini tatuati nelle immagini esposte come più mascolini, più dominanti e aggressivi rispetto agli altri.

L’accezione negativa o positiva che si dà a tali caratteristiche dipende molto dal contesto in cui la persona vive. Come dimostra lo studio di Snyder, Fessler, Tiokhin, Frederick, Lee e Navarrete (2011), in un ambiente non sicuro in cui si viene esposti continuamente al pericolo, una donna è più motivata a ricercare nell’uomo qualità come l’aggressività e la dominanza intrasessuale, le quali possono garantire un maggior senso di protezione per se stessa e per la prole, oltre ad un migliore accesso alle risorse dell’ambiente.

Ma in una realtà socialmente stabile le cose potrebbero andare diversamente; l’uomo con un’elevata mascolinità è anche associato ad un alto livello di testosterone che, agli occhi della donna, si traduce contemporaneamente in aspetti sia positivi che negativi all’interno della relazione.

Una scelta prevede sempre la considerazione dei costi e dei benefici e, almeno razionalmente, propendiamo sempre verso la strada in cui i secondi ci sembrano superare i primi. Se, tornando all’esempio precedente, l’uomo mascolino sembra portare con sé caratteristiche che esprimono dominanza e aggressività, possiamo essere ben d’accordo con gli esperimenti sopra citati per cui l’idea che la rilevanza di tali caratteristiche può variare molto in base all’ambiente.

Caratteristiche come l’aggressività possono fungere da punto di forza nel primo ambiente descritto, ma al contrario possono essere un fattore di rischio nella relazione sentimentale e nell’educazione della prole in un contesto di vita più bilanciato o, comunque, in un ambiente percepito dalla donna come meno minaccioso. Continuando tale linea di pensiero, un alto livello di testosterone negli uomini è associato dalle donne, oltre che a una maggiore aggressività, anche ad una maggiore probabilità di incorrere in relazioni sessuali al di fuori della coppia (Booth & Dabbs, Jr., 1993). Uno studio di Kruger (2006) ha mostrato come le donne tendano a vedere gli uomini più mascolini come persone più impegnate nella ricerca di partner piuttosto che nella cura della famiglia; così le donne interessate ad una relazione stabile possono essere motivate a dare maggiore spazio ad altre caratteristiche che garantiscano loro maggiori benefici tanto nella relazione quanto nel ruolo di futuri genitori.

Una volta comprese tali dinamiche non dovremmo sorprenderci troppo del fatto che le donne nell’esperimento di Galbarczyk e Ziomkiewicz (2017) abbiano dichiarato di giudicare gli uomini tatuati nelle immagini come persone più sane, mascoline, dominanti e aggressive, ma non abbiano espresso verso questi un maggior grado di preferenza rispetto agli altri. Inoltre, è interessante notare come le donne del campione considerino i soggetti tatuati peggiori di quelli non tatuati nelle vesti di potenziali partner e genitori.

Questo dato sembra andare nella stessa direzione di studi meno recenti, come quello di DeBruine, Jones, Crawford, Welling, e Little (2010), i quali mostravano che le donne appartenenti a società più sicure e con livelli di sanità elevati hanno una debole tendenza nel preferire nell’uomo caratteristiche che riflettono una maggiore mascolinità. Non bisogna infatti sottovalutare l’influenza che l’ambiente ha giocato nel determinare i risultati dell’esperimento di Galbarczyk e Ziomkiewicz (2017). Questo è stato fatto in Polonia, un paese con bassi rischi sanitari e dove la competitività aggressiva tra gli uomini non è cruciale nel determinare il loro valore ed il loro status. Se è vero che un corpo tatuato viene giudicato come più mascolino e più sano, queste caratteristiche perdono la loro rilevanza tanto da non essere più associate ad una maggiore attraenza agli occhi delle donne, specialmente se entrano in gioco interessi volti a creare una famiglia.

Tuttavia, rimanendo su questo esperimento, anche le risposte degli uomini di fronte alle immagini di persone dello stesso sesso tatuate e non rivelano ottimi spunti di riflessione. Abbiamo già detto che gli uomini, come le donne, tendono a giudicare un soggetto tatuato come più mascolino. Tuttavia, a differenza del campione femminile, quello maschile considera queste persone più attraenti, rispetto agli uomini senza tatuaggi.

Tale giudizio potrebbe tuttavia essere guidato più da stereotipi culturali piuttosto che dalla percezione personale. Gli uomini potrebbero condividere infatti l’idea che l’uomo tatuato sia considerato dalla donna più forte e quindi più attraente e orientare in base a questa convinzione il loro giudizio.

Questo aspetto sembrerebbe confermato dal lavoro di Swami (2011), il quale mostra come gli uomini abbiano un più alto apprezzamento del proprio corpo oltre ad una maggiore autostima dopo aver fatto un tatuaggio.

In quest’ottica il tatuaggio sembra così affiancarsi a quei tratti personali che hanno la funzione sia di facilitare la scelta di un partner, almeno nell’idea che l’uomo ha della percezione o dei gusti della donna, sia di allontanare dalla competizione sessuale potenziali rivali dello stesso sesso.

Questo sembra essere confermato dal fatto che gli uomini dell’esperimento, nel giudicare le immagini, sembrano essersi focalizzati solo su aspetti che denotano la competizione intrasessuale, ignorando caratteristiche quali la salute e le capacità genitoriali, le quali non sembrano variare significativamente in base alla presenza o meno di tatuaggi nell’immagine.

 

Arte e tecnologia: un ponte chiamato intelligenza artificiale

La “quarta rivoluzione tecnologica” (Internet delle cose e avanzamenti nell’ambito dell’intelligenza artificiale – IA) è connotata da una capacità sempre più sofisticata di elaborare dati di natura sia quantitativa sia qualitativa ed è incardinata in un numero di campi sempre maggiore, arrivando fino all’arte.

 

Introduzione

Consolidata è la disciplina dell’Economia dell’arte e della cultura – tra i cui temi vi sono le politiche a favore della diffusione della conoscenza dei beni culturali, della loro tutela, valorizzazione e fruizione, ecc. Tale disciplina ha illustri antesignani, che vanno (per citarne appena alcuni) da Adam Smith, a John M. Keynes, Alfred Marshall e, fra i più recenti, William Baumol, George Stigler e Gary Backer.

L’Economia dell’arte ha rilevanti connessioni con l’Economia esperienziale, in quanto la qualità e le caratteristiche intrinseche del “bene artistico” possono essere valutate solo ex post, cioè dopo il suo consumo da parte di un soggetto.

Inoltre, sono forti i legami tra Economia dell’arte ed Economia della conoscenza: la conoscenza costituisce un bene economico che si accumula nel tempo in uno stock e si diffonde quale esternalità sulla collettività. Tali spillovers tendono a “democratizzare” l’arte: contrastando l’analfabetismo funzionale, avvicinando e sensibilizzando all’arte fette sempre più ampie della popolazione; aiutando a condividere il sapere che, diventando trasversale, concorre ad attenuare il divario fra classi sociali. Questi fenomeni sono stati sintetizzati nell’espressione “welfare socio-culturale” (cfr. il Rapporto 2019 “Io sono cultura – l’Italia della qualità e della bellezza sfida la crisi”, redatto dalla Fondazione Symbola, insieme ad altri partner).

Ampliando quindi la visione, l’Economia dell’arte si interseca con altre tematiche socio-economiche, ad esempio, con quelle dell’ambiente, del turismo, dell’innovazione tecnologia, con quella della crescita economica di aree locali (cfr., uno fra tutti, il Rapporto 2019 “Io sono cultura – l’Italia della qualità e della bellezza sfida la crisi”, redatto dalla Fondazione Symbola, insieme ad altri partner) e, ancora, si incrocia sul terreno dell’etica, su quelli dell’antropologia, della filosofia e della storia.

Nel presente contributo si intende allargare ulteriormente la prospettiva, per includere un nuovo innesto che gira intorno all’arte: quello dell’intelligenza artificiale (IA). La “quarta rivoluzione tecnologica” (Internet delle cose e avanzamenti nell’ambito della IA), è connotata da una capacità sempre più sofisticata di elaborare dati di natura sia quantitativa sia qualitativa ed è incardinata in un numero di campi sempre maggiore, arrivando fino all’arte.

Il collegamento tra arte e IA è multidimensionale. Dopo un breve excursus, ci si soffermerà su uno di questi in particolare, affascinante e innovativo, determinato dal sistema MosAIc.

Arte e intelligenza artificiale

Uno degli argomenti su cui insiste la letteratura è legato alle nuove doti di creatività di cui è munita la IA – “macchine creative” – nei settori dell’arte e della cultura, ritenuti sinora esclusivo appannaggio degli uomini: musica, arti visive, letteratura, fino ad arrivare all’elaborazione di una nuova lingua (per gli approfondimenti si cita, uno per tutti, il volume di Du Sautoy, 2019). Vale la pena richiamare la prospettiva estremamente radicale dell’artista tedesco Klingemann, pioniere – per così dire – dell’“arte IA”. Riconoscendo addirittura una maggiore originalità all’intelligenza artificiale che all’uomo, egli asserisce:

Humans are not original. […] We only reinvent, make connections between things we have seen. […] While humans can only build on what we have learned and what others have done before us, machines can create from scratch. (Miller, 2019)

Dunque, non solo la razionalità dell’essere umano è limitata (bounded rationality à la Herbert Simon), ma sembrerebbe, seguendo tale linea di pensiero, anche la sua creatività, ed entrambe vengono superate dalla IA.

Tale prospettiva trova anche importanti riconoscimenti in termini monetari – uno degli aspetti dell’Economia dell’arte: nel 2018, la casa d’asta Christie ha venduto un dipinto generato dall’IA per 432.500 dollari, guadagnando 40 volte il prezzo stimato (Miller, 2019). L’interesse della prestigiosa casa d’asta per l’opera (“Ritratto di Edmond de Belamy”), nonché il suo prezzo di aggiudicazione induce a riflettere, poiché è un importante segnale inviato dal lato della domanda di mercato per nuove espressioni d’arte, come appunto le creazioni che utilizzano algoritmi. Anche il diffondersi di questo fenomeno dovrebbe diventare un utile spunto per la tradizionale Economia dell’arte: la recente diade – rispetto a forme di arte canoniche – fra innovazione tecnologica e arte è destinata a diventare un’ulteriore sfaccettatura della prismatica policy dell’Economia dell’arte.

Al di là della sua creatività, l’IA viene utilizzata anche per alcuni servizi ancillari all’arte.

Nel 2016, un sofisticato sistema di IA ha aiutato alcuni artisti a ritrarre dei noti personaggi servendosi dei loro scritti privati e pubblici. Alla base c’è l’idea che lo stile del linguaggio rispecchia la personalità, il pensiero, le relazioni sociali e gli aspetti emotivi di ciascun individuo. Così, ad esempio, analizzando le scelte lessicali, i lemmi e le ricorrenze linguistiche dei testi di Marie Curie, il sistema di IA ha rilevato legami semantici fra bambini, gioia e famiglia, inducendo a rivedere la sua immagine cliché di illustre scienziata totalmente implosa nella ricerca, due volte insignita del Premio Nobel, per raffigurarla come una donna che nutriva una genuina attitudine verso la maternità. Tali informazioni hanno consentito agli artisti di tratteggiarne gli aspetti inediti di una madre premurosa e accogliente, traducendoli in espressione pittorica (Salvetti, 2020). Semplicemente affasciante!

L’IA viene utilizzata anche per l’attribuzione di paternità di un’opera. Pure in tale campo si assiste a prestazioni eccezionali, come quella realizzata dalla Rutgers University e dall’Atelier olandese per il restauro e la ricerca di dipinti (AA.VV., 2017). Il loro sistema di IA è capace di riconoscere l’autenticità di un’opera attraverso le pennellate usate per realizzare un dipinto. Si tratta di centinaia di migliaia di pennellate che l’IA deve gestire: da qui richiamiamo le note sinergie tra IA e big data, cioè le potenzialità e opportunità che si aprono grazie alla capacità dell’intelligenza artificiale di gestire i big data; ma non solo, anche di operare il loro eventuale riuso e la condivisione in altri settori (nel caso di open data) in una più ampia prospettiva di transizione da un’economia lineare a un’economia circolare.

Ulteriore utilizzo della IA nel campo dell’arte è l’“X Degrees of Separation” di Google, o teoria dei sei gradi di separazione (mutuata dalla psicologia), secondo cui le persone sono tra loro collegate da un massimo di sei intermediari. Applicata tale teoria al settore dell’arte, è stato osservato che

[…] esistono straordinarie somiglianze anche tra oggetti ed opere molto diversi tra loro, e il punto di forza del sistema consiste proprio nel creare nessi, relazioni e punti di contatto tra questi. Chi potrebbe mai pensare che un antico vaso cerimoniale e una bottiglia di Coca-Cola sono tra loro connessi? Oppure, riuscite a immaginare il collegamento tra una porcellana del ‘700 e un’opera di Damien Hirst? E tra una scarpa degli anni ’60 e un capolavoro di Lucian Freud? E ancora, cos’hanno in comune Shepard Fairey ed una maschera maya dedicata al potentissimo dio giaguaro? (AA.VV., 2020)

In altri termini, coniugando arte e IA – e limitandoci al campo della pittura – è possibile individuare la somiglianza tra dipinti appartenenti a epoche e movimenti artistici diversi. Tuttavia, con un forte limite: il sistema non riesce a spiegare la connessione tra le opere pittoriche.

Il sistema MosAIc

L’innovazione tecnologica applicata all’arte è ulteriormente progredita, per giungere dove l’uomo non arriverà mai: è impossibile anche per i critici d’arte più esperti prendere in considerazione milioni di dipinti in migliaia di anni ed essere in grado di trovare paralleli inaspettati in temi, motivi e stili visivi. Si allude, in particolare, all’avanzato algoritmo che trova connessioni nascoste tra dipinti: il MosAIc, creato da CSAIL (Computer Science and Artificial Intelligence Laboratory) del MIT e da Microsoft. Dalla rete generativa avversaria StyleGAN (Generative Adversarial Network – GAN), utilizzata nel campo delle deepfake, MosAIc ha mutuato la capacità di esaminare le immagini, ma con finalità affatto differenti. Quest’ultimo trova opere con parallelismi, sebbene appartenenti a culture, artisti, epoche differenti di tutto il mondo utilizzando reti profonde per capire quanto siano vicine due immagini. La varietà di analogie è molto ampia, vanno dal colore allo stile, dal tema al significato più profondo e recondito dell’opera fino allo scambio culturale sotteso. Le similitudini che MosAIc è in grado di rivelare, sia delineano il lungo percorso dell’uomo nel grande universo della creatività, sia evidenziano connessioni dovute per esempio agli scambi commerciali tra paesi, influenzatisi reciprocamente a seguito delle mescolanze culturali. Si tratta spesso di similitudini celate, che possono essere persino inconsapevoli da parte di chi ha creato il manufatto o dipinto l’opera in quanto sintesi di influenze provenienti dall’ambiente in cui si vive e di cui non si è neppure consapevoli appieno (Quadri, 2020). Ça va sans dire, perché sia efficace, l’algoritmo ha bisogno di una enorme banca dati (Quadri, 2020).

I ricercatori hanno messo a confronto i dipinti del Metropolitan Museum of Art – il Met – con quelli del Rijksmuseum di Amsterdam (Gordon, 2020). E hanno effettuato un abbinamento apparentemente improbabile per individuare analogie – per l’appunto nascoste – fra Il martirio di San Serapione di Francisco de Zurbarán e Il cigno minacciato di Jan Asselijn, due opere che, messe a fattor comune, esprimono un sentimento di profondo altruismo. Eppure non vi era stato mai alcun contatto tra i due autori.

La differenza tra l’“X Degrees of Separation” e il MosAIc si fonda sulla circostanza che, mentre il primo trova percorsi artistici che collegano due opere, a quest’ultimo basta una singola immagine per lavorare; inoltre, invece di limitarsi a trovare i percorsi, esso scopre connessioni in qualsiasi cultura cui il fruitore è interessato.

Conclusioni

Se la macchina sta mutuando progressivamente tutto da noi, in prospettiva, cosa rimarrà di genuino e inimitabile dell’essere umano?

L’inverno è fuori, ma non sembra toccare la IA.

 

L’effetto di disinibizione online e la violenza verbale in internet: siamo più “veri” online?

Molte persone si esprimono e agiscono più liberamente quando navigano in Internet rispetto a quanto farebbero di persona. Questo fenomeno è chiamato disinhibition effect online e porta le persone a mostrarsi più aperte verso l’altro.

Emanuela Taraschi – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Da una parte può essere un vantaggio, sia il condividere più facilmente informazioni su di sé, per esempio, durante un percorso di psicoterapia online, sia il mostrarsi collaborativi e solidali, scambiandosi materiali e offrendo supporto a perfetti sconosciuti. Dall’altro lato, questo effetto può portare a conseguenze disfunzionali e condotte devianti, per esempio, dipendenza da internet, revenge porn (immagini intime rese pubbliche per dileggiare l’altro), odio online (critiche, insulti e minacce) ecc. In particolare, quest’ultimo fenomeno, la violenza verbale online, sembra in continuo aumento e si ha la sensazione che i modi ostili e aggressivi si stiano trasferendo anche nelle interazioni faccia a faccia. Circa due anni fa mi colpì la notizia dell’aggressione alla giornalista Giorgia Rombolà, prima dagli astanti in metropolitana e poi sui social con insulti e minacce, perché aveva cercato di fermare il pestaggio di una nomade, accusata di aver tentato uno scippo (Rombolà, 07/12/2018 ansa.it). In quell’occasione mi domandai se quegli stessi astanti avrebbero reagito allo stesso modo qualche anno prima. Oggi la nostra tolleranza all’odio risulta molto alta, specie nei giovani. L’essere sottoposti quotidianamente, attraverso i media, a espressioni d’odio e scene di violenza, porta non solo le persone ad essere meno reattive per assuefazione, ma anche ad una sorta di apprendimento. La Teoria dell’Apprendimento Sociale (Bandura, 1972 in Aronson, 1997), basata su evidenze scientifiche, afferma che apprendiamo anche da ciò che vediamo, dunque, non stupisce che le espressioni di odio stiano aumentando a macchia d’olio.

Ma è l’effetto di disinibizione online a svelare la nostra vera natura? Siamo tutti un po’ odiatori sotto sotto? Studiosi di tutto il mondo hanno sancito già nella Dichiarazione di Siviglia sulla violenza (1989) che:

la biologia non condanna l’umanità alla guerra, poiché l’umanità può essere liberata dal vincolo del pessimismo biologico; la violenza non è nel nostro retaggio evoluzionistico, né nei nostri geni.

Anche Tomasello (2016) conferma che siamo esseri morali, giacché la capacità di essere altruisti e cooperativi, appare la scelta evolutiva selezionata filogeneticamente. Infatti, esiste anche il lato benigno della disinibizione online, che ci permette di creare più facilmente nuove amicizie e di essere altruisti e solidari. Essere consapevoli di come agisce l’effetto di disinibizione online, è un passo necessario per contrastare le conseguenze disfunzionali, come l’odio online.

Perché ci sentiamo più disinibiti online? Quando siamo sul web funzioniamo in modo diverso, rispetto a quando siamo offline. I primi studi su cervello e tecnologia mettono in evidenza, oltre all’iperstimolazione della corteccia visiva, uditiva e somato-sensoriale, anche un cambiamento del profilo cognitivo delle persone che usano quotidianamente la tecnologia digitale. Per esempio, cambiano modi e tempi di lettura degli ipertesti, emerge la tendenza a delegare i processi della propria memoria di lavoro alla tecnologia digitale ecc. e per quanto riguarda l’effetto di disinibizione online, è interessante sottolineare che appare diminuire la capacità di attendere e di mentalizzare le assenze, cioè di rappresentarsele internamente, mentre aumenta la tendenza ad agire compulsivamente, cioè in modo impulsivo, non controllato (cfr. Tonioni, 2013). Suler (2004) ha cercato di rispondere alla domanda, individuando sei fattori che, interagendo tra loro, potrebbero spiegare l’effetto della disinibizione online. Oggi, potrebbero sembrare fattori legati a modalità di stare online ormai del tutto o in parte superate, ma questi sei fattori potrebbero conservare alcuni aspetti, che sono centrali nella comunicazione umana e, pertanto, potrebbero ancora contribuire all’effetto di disinibizione quando siamo online. Vediamoli uno ad uno.

1. Anonimato dissociativo

Le persone quando nascondono la propria identità, costruiscono un sé online, cioè, sarebbero più facilmente portate a separare il sé online da quello in ambiente naturale. Di conseguenza, tutto ciò che si dice o si fa online, non verrebbe percepito come direttamente legato al resto della propria vita. Così, alla persona sembrerà di poter evitare la responsabilità di comportamenti aggressivi online, quasi come se il controllo esercitato normalmente dai propri processi cognitivi ed emotivi, siano stati temporaneamente sospesi dalla psiche online.

Aldilà del fatto che l’anonimato oggi possa essere reale o solo percepito, alcune ricerche mostrano che non sembra esserci una reale differenza tra odiatori che usano nikname e quelli che usano nomi propri, anzi in alcuni casi si è verificato il contrario. In parole povere, l’anonimato in senso stretto non sembra avere un maggiore effetto di disinibizione (vd Wallace, 2017). Per questo, vietare nikname non sembra essere utile per contrastare il fenomeno dell’odio online, anzi, a livello legale ha aperto un dibattito circa la libertà d’espressione e la privacy. Esiste, inoltre, un anonimato collettivo, cioè quello dato dal fatto che il proprio messaggio è in rete insieme a una quantità davvero enorme di messaggi e questo potrebbe corrispondere un po’ al confondersi tra la folla.

2. Invisibilità

In passato gli utenti condividevano informazioni anche molto personali senza vedersi mai, neanche per fotografia, sembrerebbe un fattore non più in voga, tanto più ora che, con l’emergenza Covid-19, si è utilizzata molto di più la webcam per comunicare e lavorare. Così molti di noi hanno potuto sperimentare quanto partecipare ad un webinar con la propria webcam spenta, essere non visibili, ci faccia sentire disinibiti, liberi di apparire come vogliamo, senza sentire la necessità di curare la nostra immagine. Comunque anche quando si comunica in videoconferenza, parte dell’effetto di disinibizione sembra mantenersi, perché il mezzo tecnologico fa perdere una parte della comunicazione non verbale, in special modo il contatto visivo, elemento essenziale per creare un contatto empatico con l’altro. Non a caso, lo sguardo gioca un ruolo cruciale nell’interazione sociale fin dalla nascita.

3. Asincronia

Asincronia, cioè comunicare per messaggi o post in asincrono, quando l’altro utente non è in linea. Inviare un messaggio senza avere subito una risposta dall’interlocutore, incoraggia le persone a “scaricarsi” più facilmente di un’emozione negativa molto forte. L’assenza di risposta immediata creerebbe l’impressione di poter evitare le conseguenze. Oggi, certo, l’asincronia sembra un fattore molto marginale rispetto al passato, quando si comunicava per lo più via mail.

Alcuni hanno studiato sul campo l’idea che internet possa fungere da valvola di sfogo, permettendo una sorta di catarsi dalle emozioni negative, una liberazione senza grandi effetti negativi. In realtà, è stato rilevato in molte situazioni un aumento della tendenza all’aggressività e non una diminuzione, sia per chi si sfoga sul web, che per chi legge l’invettiva, anche se non ne è destinatario (Wallace, 2017). Lo sfogo online appare, allora, una specie di acting out, in cui l’espressione delle proprie emozioni avviene attraverso un’azione impulsiva, piuttosto che con un’azione riflessiva, ragionata. Non credo ci sia bisogno di sottolineare che la parola è un atto linguistico che, come tale, ha delle conseguenze concrete sulla vita delle persone. Come recita il primo principio del manifesto delle Parole O_Stili “Virtuale è reale”.

La Teoria degli atti linguistici (Austin 1959; Searle 1969) afferma che con un enunciato – cioè l’espressione adeguata e razionale di un pensiero- si possa descrivere il contenuto o sostenerne la veridicità, ma che la maggior parte degli enunciati servano a compiere delle vere e proprie azioni in ambito comunicativo per esercitare un particolare effetto sul mondo circostante.

4. Introiezione solipsistica

E’ il quarto fattore, ovvero leggere il messaggio di un’altra persona, potrebbe farcelo introiettare nella nostra mente, creando una sorta di “personaggio”. Infatti, il significato di un messaggio viene attribuito non solo in funzione del contenuto del testo, ma anche in base alle proprie rappresentazioni interne, influenzate da credenze, aspettative, desideri e bisogni del ricevente. Sulla base di questo effetto tendiamo a sentirci più in sintonia con l’altro, quindi ci fidiamo più velocemente e siamo più disponibili a confidarci. Questo fattore gioca un ruolo importante nelle relazioni che nascono online, sui social e sulle piattaforme d’incontro.

Per quel che riguarda l’odio online aggiungerei, che ciascuno di noi è convinto della chiarezza della propria comunicazione scritta, invece, è stato dimostrato che, anche il più preciso e puntuale dei messaggi scritti, risulta ambiguo e facile da fraintendere, perché i contenuti sono necessariamente parziali, fanno riferimento a conoscenze implicite e personali, oltre che ad un’unica prospettiva: la propria. Nella comunicazione scritta, inoltre, mancano gli indici non verbali che aiutano a definire il significato semantico. Rifletterei, infine, sul contributo dei meccanismi che regolano la cognizione sociale sia nelle mistificazioni dei messaggi che nei giudizi sugli altri (ad esempio, gli schemi di Fiske, 1993, bias ed euristiche di Kahneman & Twersky, 1982; la teoria implicita della personalità di Ross, 1989; in Aronson e coll. 1997).

5. Immaginazione dissociativa

Pensiamo ai giochi di ruolo online, in cui la realtà virtuale, permettendo di creare un alter ego online, tende a far immergere così tanto il giocatore, che il soggetto è portato a sentirsi assorbito completamente, staccandosi sempre più dal proprio contesto di vita offline, tanto da poter confondere i due contesti e sentirsi svincolato da norme e obblighi in vigore nella realtà. Questo meccanismo dissociativo elicitato dalla modalità online, sembra avere un ruolo nello sviluppo di dipendenze da internet, in cui le compulsioni rappresentano forme di comportamento legate alla dissociazione, a sua volta legata alla tempesta sensoriale, capace di catturare l’attenzione dell’individuo, tanto da arrivare ad escludere le sensazioni sia dell’ambiente esterno reale, che di quelle interne (fame, sete…) (Tonioni, 2013).

6. Minimizzazione dell’autorità

E’ l’effetto per cui i ruoli in internet sbiadiscono e questo ci porta a non riconoscere autorità a chi la detiene legittimamente, sia per il fatto che vengono a essere percepiti meno gli indizi che qualificano una persona come autorevole, come avviene in un contesto fisico, sia perché internet si caratterizza come contesto “democratico” in cui è dato potere di parola a tutti.

Dunque, le caratteristiche del mezzo tecnologico ci offrono sensazioni, percezioni, semplificazioni e facilitazioni che rendendo, di fatto, la comunicazione molto rapida e immersiva. Ciò favorisce una certa propensione alla risposta di getto. A sostenere l’effetto disinibente dell’invisibilità potrebbe giocare un ruolo la percezione di essere dietro uno schermo, schermati, nascosti, protetti? In fondo la percezione è per tutti un dato oggettivo, proprio perché legato ai propri sensi, per cui il contenuto di una percezione ha carattere di certezza. Di certo l’effetto di disinibizione continua ancora oggi ad agire online. Così siamo maggiormente suscettibili a comportarci in modo poco riflessivo, senza pensare alle possibili conseguenze negative delle nostre azioni. Ovviamente, il grado dell’effetto di disinibizione online e la qualità dei comportamenti conseguenti, sono collegati a caratteristiche personali e situazionali. Sappiamo, ad esempio, che le persone che si mostrano empatiche e prosociali, posseggono un’alta capacità di autocontrollo, in particolare l’Effortful Control (capacità di regolare il comportamento sostituendo un comportamento dominante, qualora il contesto lo richieda, con uno non dominante), mentre quelle che mostrano scarsa empatia sono più suscettibili a condotte devianti.

Sviluppare empatia e una buona Teoria della mente è fondamentale per “sentire” le emozioni dell’altro e per comprendere il suo punto di vista, le sue ragioni. Secondo Davis (1994) l’empatia è il prodotto di quattro fattori che entrano in gioco quando assistiamo all’esperienza emotiva di qualcuno. Due di questi riguardano abilità cognitive: perspective taking, cioè adottare il punto di vista dell’altro e la fantasia, che permette di immaginarsi in situazioni fittizie. Due sono di tipo emotivo-affettivo, considerazione empatica, cioè orientarsi verso il vissuto emotivo dell’altro e disagio emotivo, orientarsi verso i propri stati d’ansia e di preoccupazione in situazioni relazionali. Possedere una Teoria della Mente significa essere in grado di attribuire stati mentali (cioè credenze, intenzioni, desideri, emozioni, conoscenze) a sé stessi e agli altri, di predire i propri e altrui comportamenti sulla base di tali stati, e quindi anche la capacità di comprendere che gli altri hanno stati mentali diversi dai nostri (Molinari, 2007). Tutti siamo suscettibili all’effetto di disinibizione in rete, ma chi ha sviluppato una buona capacità empatica, un pensiero critico e una buona teoria della mente, metterà in atto condotte più funzionali che disfunzionali in rete.

Dalle prime indagini sull’odio online emerge che quando leggiamo interventi ostili e aggressivi, tendiamo a non rispondere, magari pensando che sia meglio non dare attenzione per non rinforzare le condotte violente. Non è così, anzi, semmai è vero il contrario. Àlvarez e Winter (2018) hanno presentato un esperimento online che, seppur con dichiarati limiti circa la validità esterna e la generalizzabilità, in cui hanno provato a verificare tre condizioni, utilizzando un blog costruito apposta per indagare se le espressioni d’odio siano influenzate più da norme descrittive (cosa fanno normalmente gli altri) o da norme ingiuntive (cosa accade alle persone che violano la norma). Hanno così osservato gli effetti sulla diminuzione di espressioni d’odio in tre condizioni: censura estrema (venivano lasciati solo commenti positivi), censura moderata (commenti positivi e neutrali) commenti contrari (1amichevole, 1 neutrale, 2 sanzioni) e hanno trovato che è la censura moderata ad essere più efficace rispetto alla censura estrema, nel ridurre i commenti ostili, seguita da commenti contrari. Concludono dicendo che i risultati non sono da intendersi a favore del fatto che, censurare il contenuto di odio, sia necessariamente socialmente vantaggioso, perché la censura mette a rischio la libertà di parola. Ziccardi (2016) aveva già messo in evidenza che, legiferare per contenere il fenomeno dell’odio online, è un’operazione molto complessa, sia perché è una questione mondiale (non basterebbe legiferare nel proprio Paese), sia perché c’è il rischio di scadere nella censura o, viceversa, che la legge sia percepita dall’opinione pubblica come censura, vedendo l’odiatore censurato come una vittima. Teniamo conto che: “Obbedire all’autorità è una cosa, interessarsi agli altri e imparare a trattarli con rispetto ed equità, un’altra, e ciò può scaturire solo dalle interazioni con i propri pari”. In pratica obbedire all’autorità non è un comportamento morale, solo una forma di cautela, affinché i bambini sviluppino attitudini genuinamente morali occorre l’interazione con i pari (Tomasello, 2016 p 211).

Allora, cosa fare per contrastare l’odio online? Ziccardi suggerisce di intervenire con commenti contrari, esprimendo punti di vista alternativi, anche se si corre il rischio dell’odio sociale, cioè che alla persona che attacca si uniscano altri odiatori. Occorre tener presente che se gli odiatori si esprimono e i pacifisti restano in silenzio, si offre a tutti gli internauti astanti una falsa percezione delle proporzioni odiatori/pacifisti, mentre i messaggi di intolleranza e odio, in realtà, sono solo più visibili. Riassumendo, le persone con minori capacità empatiche e di teoria della mente, hanno meno effortfull control, quindi appaiono più esposte a scaricarsi online per effetto della disinibizione online, creando un circolo vizioso che alla lunga porta ad un’assuefazione ai discorsi d’odio nella popolazione generale e anche ad un apprendimento. In ultima analisi, il punto centrale è che, per quanto la tecnologia possa arrivare a simulare un contatto fisico, questa assenza ha effetti importanti nelle interazioni sociali. Da quanto fin qui detto, potremmo provare a contrastare l’odio online, utilizzando il controllo sociale tra internauti, tra cittadini del web, cercando di esprimere opinioni e sensibilità alternative iniziando dalle forme di ostilità più subdole e nascoste, cioè quelle espressioni aggressive che potrebbero sembrare innocue, uno scherzo. Si tratta, invece, di espressioni in cui il sarcasmo, la beffa, è usata per svalutare e offendere l’altro. Ricordiamoci, che al primo gradino della scala d’odio di Allport (1954), c’è proprio la burla con l’uso di stereotipi e aggettivi negativi, cioè prendere in giro per dileggiare e offendere. La scala dell’odio di Allport a partire dall’osservazione di fenomeni sociali ha individuato 5 livelli, dal più lieve al più grave, sottolineando la possibilità di salire anche molto facilmente da un livello al successivo: (1) burla con uso di stereotipi e aggettivi negativi – presa in giro per dileggiare, offendere; (2) isolamento del bersaglio – disprezzo, stigma sociale e pregiudizio con evitamento dell’altro; (3) discriminazione – dal pregiudizio si passa a divieti discriminatori e a subordinare l’altro; (4) violenza fisica; (5) uccisione, sterminio. Concludo citando Giovanna Axia (professore ordinario di psicologia dello sviluppo) che ha dedicato un libro alla cortesia, mettendola in antitesi all’arroganza e alla violenza di chi vuol imporsi per auto affermarsi, ritenendola un potente strumento di composizione dei conflitti.

Le operazioni mentali attuate dal cortese risolutore di problemi sociali sono la comprensione sociale, cui si uniscono le abilità linguistiche e la motivazione pro sociale[…]. La persona veramente cortese non usa la propria intelligenza in modo banale. Non si accontenta di esprimere deferenza e rispetto per l’altra persona, ma va un po’ più in là. Spinge la sua intelligenza ad esplorare cosa possono volere gli altri e, soprattutto cosa pensa l’altra persona a proposito dei reciproci pensieri e sentimenti […] Per gli esseri umani la cortesia e la gentilezza sono facili, facili come sorridere (Axia, 1997; p115 e 129).

Oggi, più che mai, la distanza di sicurezza migliore per la specie umana, credo sia proprio una distanza di cortesia.

 

I vissuti del bambino adottato nei confronti della madre biologica

Prima ancora che il cammino dell’adozione inizi, il bambino, anche nel caso in cui sia piccolissimo, ha già percorso un tratto della sua storia personale che non può essere ignorato né ritenuto poco significativo. Quali vissuti legati alla madre biologica si porta dentro il bambino adottato?

Maria Teresa Silvestri – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto Del Tronto

 

Il titolo di questo articolo ha l’intento di attirare l’attenzione su un argomento in merito al quale sembra non esistere bibliografia specifica.

Quello dell’adozione è un tema molto delicato riguardo al quale, negli ultimi anni, si è visto il proliferare di studi e trattazioni, nonché di nuove leggi (Legge 476/1998 e Legge 149/2001) a tutela dei minori abbandonati e, come tali, aventi diritto ad un risarcimento affettivo. A maggior ragione lascia stupiti constatare che, in tale contesto, nessuno abbia cercato di indagare con metodo e continuità su quali e quanti possano essere i vissuti più probabili e ricorrenti del bambino adottato nei confronti della madre biologica, giacché è intuitivo che essi non possano che avere un ruolo importante nella dinamica e, nella riuscita o meno, della adozione stessa.

L’adozione è quel percorso (Oliverio Ferraris, 2011) che comincia quando una coppia decide di offrirsi in modo riparativo come coppia genitoriale di un bambino abbandonato (Farri Monaco, 2008).

Ma prima ancora che questo cammino inizi e, anche nel caso che inizi quando il bambino è ancora piccolissimo, questi ha percorso già un tratto della sua storia personale che non può essere ignorato né, tantomeno, ritenuto poco significativo: perché, al contrario, in esso precocissimamente accadono cose, si realizzano esperienze, si stabiliscono relazioni, si stringono e si spezzano legami per sempre, in una serie di fondamentali passaggi:

  • il bambino è concepito (dal latino “cum–càpere”, cioè “accogliere in sé”) dalla madre biologica, nel cui utero è custodito per nove mesi; dopo il parto, per cause diverse, a volte persino valide e addirittura provvidenziali, ed in un momento variabile da caso a caso,
  • il bambino subisce l’abbandono (dal francese antico “abandonner”, cioè “lasciare volontariamente alla mercé”, o “definitivamente” o “senza protezione”: e questo significa che vive un trauma – dal greco τραῦμα, cioè “ferita”, ed una “ferita improvvisa, rapida e violenta” (Voc. Treccani). Subito dopo, o invece a distanza di tempo, più o meno lunga e, magari, dopo una aggravante esperienza di istituzionalizzazione o di affido fallimentare,
  • il bambino è adottato (dal latino “ad–optare”, cioè “desiderare”, “scegliere per sé”): e inizia il percorso con una coppia che ha appunto desiderato e scelto di prendere come proprio il figlio di altri.

Abbiamo così identificato le uniche tre esperienze comuni a tutti i figli adottivi:

  • tutti hanno “conosciuto” la madre biologica per aver vissuto in simbiosi con lei la vita intrauterina;
  • tutti hanno subito il trauma dell’abbandono;
  • tutti sono stati i destinatari di una scelta di adozione da parte di una coppia.

Ma se andiamo a considerarle più da vicino e, soprattutto, più in profondità, tali tre esperienze ci appaiono subito come tre “contenitori temporali”, tanto densi di situazioni sensoriali ed emotive quanto nessun’altra età della vita di nessun essere umano; e, per tale motivo, “fondanti” per ciascun bambino coinvolto: poiché sono tanto personali e, contemporaneamente, determinate anche dalla interazione con “l’ambiente” del momento e dalle relazioni in quello stesso momento possibili, tanto da orientare la sua storia in modo diverso, con tante sfumature differenti da renderlo alla fine “quell’essere umano, identico solo a se stesso” e a nessun altro che pure abbia vissuto quelle tre fasi temporali ed esperenziali.

Tutti i bambini adottati hanno conosciuto la madre biologica

Questa affermazione, ovvia ad una prima lettura, ha assunto nel tempo un ben più importante significato, dapprima solo intuito, poi confermato, precisato e ampliato grazie agli studi della Medicina Perinatale così come grazie a quelli delle Neuroscienze, che tutti riguardano anche la Psicologia perinatale e infantile (Imbasciati et al., 2007).

Ogni gravidanza presuppone la storia personale di una donna e si apre alla storia del piccolo concepito, cioè da lei “accolto in sé”, e, prima ancora che quella donna abbia il dubbio, e poi la certezza, di essere incinta, inizia un continuo e serrato colloquio biologico tra l’organismo della madre e quello del figlio, con scambio di segnali e addirittura con migrazione e scambio di cellule (“cross – talk” e “traffico cellulare”).

Sin dai primissimi istanti di vita, quindi, si instaura – tra madre e figlio concepito – un silenzioso dialogo fatto di amorevole reciprocità. L’embrione e la mamma si scambiano cellule, messaggi ormonali e fattori di crescita (Prof. Giuseppe Noia)

Il bambino fa così “esperienza di sua madre”, la “conosce” intimamente: di lei imparerà a sentire il calore, l’odore ed il sapore, attraverso i canali dei suoi sensi in sviluppo. Ma imparerà anche a percepirne la serenità e la gioia o, viceversa, la malinconia e il dolore, ed ogni variazione del suo umore: e ne sentirà – ormai è dimostrato – l’accoglienza o il rifiuto condizionati dalla sua storia personale, familiare e di coppia, o da una sua solitudine non desiderata.

La simbiosi materno – fetale è talmente straordinaria ed importante che si può, a buon diritto, considerare la diade madre – figlio una unità; e riferire l’espressione “attaccamento intrauterino” non soltanto al legame fisico tra due organismi ma, piuttosto, al legame profondo, totale ed esclusivo tra due persone di cui l’una ha accolto l’altra, che l’ha riconosciuta come fonte di accudimento e di sicurezza.

D’altra parte, è sempre attraverso il canale – mamma che il bambino “si connette” con il mondo esterno: e fa perciò esperienze sensoriali, ma anche emotive ed affettive, riguardanti l’ambiente extra – uterino che poi lo accoglierà, e comincerà a “conoscere” anche suo padre attraverso la mediazione della madre.

Tutto quanto detto ci dà ragione, a questo punto, di due considerazioni di primaria importanza riguardo all’assunto della nostra tesi, che sia cioè necessario dar voce ai vissuti del bambino nei confronti della madre biologica:

  • il bambino adottato conserva comunque la memoria, sia pure inconsapevole (ed è realtà scientificamente provata) della vita intrauterina intesa non già come periodo di segregazione e solitudine in un utero materno “cassaforte”, esclusivamente ai fini di una sicura custodia; ma della vita intrauterina intesa come cumulo di esperienze sensoriali, emotive ed affettive condivise con la mamma, il cui utero ne è stato la “cassa di risonanza”…: egli ha cioè un “vissuto” precoce e, già diversificato da quello di chiunque altro, nei confronti della madre biologica, vissuto che andrà a sommarsi con i vissuti post – natali: e già questo basterebbe a riaffermare la necessità di indagarli nella totalità! (Farri Monaco e Peila Castellani, 1994; De Bono)

Questa storia presensoriale, già impressa nel codice fetale, si dispiega attraverso la nascita in una continuità ambientale, mentale ed affettiva rappresentata dai genitori. (Farri Monaco e Peila Castellani, 1994, p.144)

  • non sembra altrettanto indispensabile indagare invece sui vissuti del bambino nei confronti del padre biologico, l’attaccamento verso il quale è più tardivo e, comunque, come già detto, mediato dalla madre, che è l’unica a poterlo favorire o ostacolare fin dai tempi dell’attesa: se il padre accarezza il ventre della madre, se parla con dolcezza a lei e al bambino, tutti i giorni restando loro vicino, anche la sua voce e la sua presenza verranno riconosciute dopo la nascita; se assente o volontariamente tenuto lontano o, addirittura, nell’ignoranza dell’evento gravidanza, alla nascita egli non farà parte delle esperienze già fatte, delle emozioni già vissute dal figlio.

Tutti i bambini adottati sono stati abbandonati

Tutti hanno cioè subito il trauma della interruzione di quella che sembrava potesse essere una lunga storia d’amore con la mamma…E “trauma” ed “abbandono” sono due termini talmente forti che insieme risuonano con effetto amplificato: l’essere lasciati volontariamente e definitivamente alla mercè, senza protezione è una “ferita improvvisa, rapida, violenta, inelaborabile”.

Nei videogiochi si usa il termine “combo” per indicare una combinazione di azioni compiute in una specifica sequenza, solitamente in stretti limiti di tempo, che porta un significativo vantaggio (o svantaggio, a seconda dei casi) al giocatore: il trauma dell’abbandono è una combo che porta significativi svantaggi al bambino; è una ferita grave, con esiti cicatriziali permanenti…

Già nel 1997 Giaconia e Racalbuto (Giaconia e Racalbuto, 1997) evidenziano come il trauma produca “un evento non traducibile in parole”.

Più recentemente Laplanche e Pontalis lo descrivono come “un evento nella vita del soggetto, caratterizzato dalla sua intensità, dalla incapacità del soggetto a rispondervi adeguatamente, dagli effetti patogeni durevoli che esso provoca nell’organizzazione psichica” (Laplanche e Pontalis, 2006).

E Dupont, in un articolo su Ferenczi (Dupont, 1999), riferendosi alla teoria classica del trauma secondo Freud e Ferenczi, afferma che esso si rende evidente come tale in due tempi:

  • nel momento dell’avvenimento determinante e
  • diventando patogeno quando è disconosciuto dall’ambiente circostante.

Dunque, ciò che nell’adozione può rendere questa partita a due tempi cruciale è proprio il voler ignorare, in maniera più o meno conscia e determinata, l’avvenimento abbandono e tutto ciò che ne ha costituito il presupposto e il passato; il voler disconoscere l’origine “diversa” del bambino: è ciò che probabilmente accade quando la coppia adottiva o, anche solo uno dei genitori adottivi, gli si pone davanti come se fosse nato nel momento dell’adozione stessa; addirittura, perché questo sia “reale”, gli cambia persino il nome!

Come se quanto di vero può esserci nell’espressione “genitori si diventa”, oppure “genitore è chi cresce un figlio e non chi lo mette soltanto al mondo”, significasse la necessità di cancellare nella mente, nel cuore e nell’esistenza del bambino ogni traccia dei genitori biologici e, soprattutto, della madre: che significa privarlo della possibilità di mantenere o costruire l’immagine mentale della propria origine, elemento fondamentale del suo senso di identità (Fornasir).

Tutti i figli adottivi sono stati i destinatari di una scelta da parte di una coppia

Tutti i figli adottivi sono stati i destinatari di una scelta da parte di una coppia, che li ha voluti per sé pur se figli di altri.

L’evento abbandono può essersi verificato presto rispetto all’evento nascita; oppure tardi, o molto tardi… e così, l’evento adozione può essersi verificato presto rispetto all’evento abbandono, nei casi più fortunati; o, viceversa, tardi o molto tardi…Può verificarsi dunque, che il bimbo debba vivere in modo molto differente da un caso all’altro tanto il distacco fisico dalla madre quanto la inevitabile necessità di ricercarla e riconoscerla come “prima figura di riferimento” nel nuovo ambiente in cui viene a trovarsi.

Se ciò non può avvenire normalmente tramite la ricerca e il riconoscimento del calore, dell’odore e del sapore che di lei gli erano noti in utero, ma avviene tramite una “sostituzione” immediata della fonte di accudimento e sicurezza, si realizzerà comunque presto un “attaccamento extrauterino” rispetto a una nuova figura di riferimento permanente e la storia del bambino potrà prendere una strada più favorevole e fortunata, quantomeno non troppo oscura.

Se il bambino resta con la madre che poi lo abbandonerà e vi resta per un tempo più o meno lungo, ma sufficiente a sviluppare l’attaccamento post–natale proprio nei suoi confronti, la ferita dell’abbandono sarà più “improvvisa, rapida, violenta e quindi inelaborabile…”; e l’andamento e l’esito positivo dell’adozione incontreranno più ostacoli, più difficili da superare se ci sarà stata anche un’esperienza di istituzionalizzazione o di affido non riuscito.

E’ allora che” L’abbandono diventa un “dolore primario”, una lente con cui il bambino può trasformare e ridefinire per sempre tutte le sue future relazioni”(Fornasir)

La complessità di avere a che fare con bambini adottati oltre il primo anno di età risiede dunque in una serie di circostanze diverse, probabilmente tutte indagabili e conoscibili: – verosimilmente, proprio l’aver avuto un tempo “oltre” quello della gravidanza per dare un volto, un profumo e un sapore a “quella” madre biologica, “tana” sicura per nove lunghi mesi; – sicuramente nella possibilità di una maggiore consapevolezza della perdita fisica, improvvisa e definitiva, di tutto ciò; – ed altrettanto sicuramente nella impossibilità di avere una risposta chiara ad una domanda inizialmente latente, poi sempre più esplicita ma, comunque, sempre presente nei bambini adottati: perché? “Perché sono stato adottato?” e poi “Perché sono stato abbandonato?”.

Ad una domanda del genere, che provoca disagio, incertezza e poi franca sofferenza, difficilmente si potrà rispondere e, laddove si riuscisse a dare una risposta storicamente esatta, comunque questa non si dimostrerebbe sufficiente. Rispondere da soli non può che essere impossibile e trova probabilmente, un ostacolo non da poco nel silenzio di tutti nei confronti di ciò che il bambino pensa e prova nei confronti della vita precedente all’abbandono e nei confronti di chi lo ha abbandonato: tranne che in casi particolari, infatti, di solito, i genitori adottivi non danno spazio all’esigenza di chiarezza che i figli adottivi, ormai ragazzi, spesso manifestano mettendo in atto comportamenti “anomali” sottesi dal desiderio frustrato di conoscere le proprie origini. Quei genitori giustificano il loro silenzio, più o meno consciamente, non riconoscendo proprie difficoltà personali e di coppia, con l’esigenza di non alimentare eventuali risentimenti del figlio verso i genitori naturali, in qualche modo svalorizzandone le figure.

E, al contrario, probabilmente proprio questo silenzio, di per sé allusivo a qualcosa di negativo che in passato l’ha riguardato, fa sì che, come l’esperienza clinica dimostra, il bambino e, più ancora, il preadolescente o l’adolescente che è diventato, risponda comunque, ma non correttamente, a quei perché, per esempio, svalutando se stessi: “Sono stato adottato perché sono stato abbandonato, perché qualcuno non mi ha voluto con sé”; e, successivamente: “Non mi hanno voluto perché non mi amavano” e, alla fine: “Non ero amato perché non valgo niente, non c’è niente di amabile in me”.

L’esperienza clinica dimostra quantomeno che, in molti casi, arrivati all’osservazione per difficoltà di integrazione e compimento del percorso adozione, i ragazzi adottati si confrontano con delle difficoltà di identificazione, e maturano in sé sentimenti contraddittori e, perciò, ancor più laceranti: disistima per se stessi, ma anche rabbia nei confronti di chi li ha abbandonati; desiderio di star meglio e riconoscimento, se pur non espresso, di quanto di positivo il nuovo stato di “figlio adottivo, e cioè scelto”, ha portato loro, ma anche senso di colpa verso chi li ha abbandonati…o che invece loro stessi hanno traditi e abbandonati alle loro difficoltà, quando hanno accettato e addirittura imparato ad amare i nuovi genitori?

Considerando che, come anche la cronaca suggerisce (ad esempio, i programmi televisivi Così lontano così vicini e Chi l’ha visto? o il gruppo Facebook Figli adottivi cercano genitori biologici), tutto è condizionato dal desiderio – necessità di conoscere il passato e le figure che l’hanno popolato, prima tra tutte quella della mamma biologica; e considerato che tale desiderio non viene mai meno, resta vivo anche dopo tanti anni; e che anche dopo questi tanti anni i figli adottivi cercano di soddisfarlo, forse non è una idea peregrina quella enunciata all’inizio di questa disamina:

  • indagare con metodo scientifico su ciò che sottende i disagi dei figli adottivi nei confronti del loro stato;
  • raccogliere dati su ciò che avviene nella loro mente sospesa tra ricordi e rifiuto dei ricordi, nel loro cuore combattuto tra antichi legami di cui poco o niente sanno e su cui rimuginano o favoleggiano in solitudine, e nuovi legami che li attirano e respingono;
  • puntare insomma un riflettore su vissuti troppo nascosti e ignorati potrebbe significare avere a disposizione modalità nuove di comunicare, in modo sincero e sereno, verità scomode ma indispensabili da affrontare nel percorso di integrazione e formazione del nuovo nucleo familiare tramite adozione, finalmente agevolandolo.

D’altra parte, costruire un legame forte tra genitori e figli adottivi significa fare i conti con le ferite lasciate dall’abbandono e dai traumi (Nicastr, 2019).

Gli esseri umani hanno bisogno di possedere la propria storia, di conoscere la propria origine, di assomigliare a qualcuno, non solo nell’aspetto fisico, ma nelle caratteristiche caratteriali, nelle abilità e attitudini…

I figli adottivi possono dover vivere tutta la vita nella nuova famiglia senza potersi riconoscere negli occhi del papà o nelle fossette della mamma, o finanche, nel caratteraccio solitario del nonno: ma, così aiutati nella ricerca di risposte alle loro domande, possono finire per riconoscere di essere comunque simili a coloro che li hanno amati per scelta e di poterli a loro volta amare senza togliere niente a chi appartiene al passato e che in qualche modo hanno “ritrovato”, “conosciuto” e finalmente “accolto”.

 

Caregiver & Covid-19

Durante le fasi della pandemia, i caregiver hanno continuato a prendersi cura dei propri cari. Le difficili situazioni delle RSA, la chiusura dei centri diurni, i rapporti lavorativi interrotti con le badanti, hanno contribuito a rendere ancora più complessa una situazione paludosa già esistente prima della pandemia. 

 

Il termine caregiver tradotto significa “qualcuno che dà cura”, indica proprio il prendersi cura dell’altro; l’altro che non è autosufficiente, l’altro che è affetto da una patologia cronica e invalidante, l’altro con il quale, di solito, si ha uno stretto rapporto familiare.

Sono due le tipologie di caregiver che vengono distinte:

  • Caregiver formale: tutte quelle figure professionali che svolgono questo per lavoro e che quindi vengono retribuite.
  • Caregiver informale: colui che si prende cura in maniera continuativa e non retribuita.

Spesso, a monte della scelta del caregiver informale, vi è l’affetto rivolto ad una madre, ad un figlio, ad un marito. L’affetto, il legame di parentela, le condizioni socio-economiche, le condizioni di vita conducono alla scelta di abbandonare o di mettere temporaneamente in stand-by la propria vita: gli obiettivi di studio, la vita lavorativa, la vita sentimentale; “la vita costruita o in via di costruzione.”

Il lavoro del caregiver è un lavoro a tempo pieno, non solo pratico ma soprattutto psicologico ed emotivo. Il voler dare un aiuto all’altro, a volte anche il “sentirsi in dovere” di farlo, fa indirizzare tutte le proprie energie verso l’altro, credendo erroneamente che quelle stesse energie non servano più al proprio sé, al proprio benessere.

I dati Istat del 2018 riportano che

2 milioni e 827 mila persona , sul territorio italiano, curano familiari di 15 anni e più non autosufficienti e 646 mila persone curano contemporaneamente figli con meno di 15 anni e altri familiari di 15 anni e più non autosufficienti.

Migliaia di caregiver italiani quindi fronteggiano ogni giorno le problematiche relative al prendersi cura dell’altro che necessita di assistenza, di vigilanza, di attenzioni. Una situazione che facilmente è associabile ad una condizione di stress in cui il proprio vissuto personale, lavorativo, emotivo si sovrappongono e si intrecciano ai bisogni del familiare di cui ci si prende cura.

Ma anche il caregiver ha i propri bisogni.

Se già per antonomasia, la situazione del caregiver è una situazione che necessita di aiuti sia istituzionali che di professionisti specializzati, risulta semplice immaginare il duplicarsi dei problemi durante la pandemia e, soprattutto, durante il lockdown: i caregiver hanno avuto poche possibilità di scelta.

Come mostrato dal report di ricerca (Maggio 2020), condotto nell’ambito del progetto Time to Care, che ha coinvolto quasi 100 caregiver nel territorio nazionale, la situazione dei caregiver italiani necessita di essere attenzionata:

  • l’85% dei caregiver sono donne con un’età media di 57 anni. Le risposte dei partecipanti sono pervenute per la maggior parte dalle città del Nord Italia;
  • il 6% ha perso definitivamente l’attività lavorativa mentre un caregiver su quattro ha ridotto le ore di lavoro o ha temporaneamente sospeso l’attività professionale;
  • per il 45% dei caregiver l’emergenza Covid-19 ha aumentato il carico di aiuto e per il 52% il bisogno di compagnia, è un bisogno primario;
  • nel 27% dei casi, il rapporto con la badante è stato interrotto;
  • al primo posto, l’88% dei caregiver chiedono informazioni riguardanti l’assistenza alla persona in stato di necessità;
  • il 73% chiede servizi di assistenza domiciliare;
  • il 51% richiede un sostegno psicologico, aiuti per sé e nella propria casa.

Riassumendo, i caregiver durante il periodo di lockdown necessitavano di più assistenza e di più aiuti. Il motivo appare chiaro: in un contesto come quello che vivono i caregiver, la difficoltà è risultata doppia: oltre ad esperire il proprio disagio, il caregiver ha dovuto badare al bisogno dell’altro, vertendo in una situazione in cui il carico percepito aumentava giorno dopo giorno.

In termini scientifici, il “caregiver burden” si riferisce proprio al “carico” del caregiver, a quello che si potrebbe definire “lavoro”; chi si prende cura dell’altro si fa sempre “carico” di quest’ultimo e di situazioni ad esso connesse. Il contesto in cui opera il caregiver spesso è un contesto familiare e il lavoro richiesto è h24. La percezione del “carico del caregiver” dipende e comprende i seguenti fattori:

  • La durata dell’aiuto: per quanto tempo durante l’intera giornata, il familiare necessita di cure e assistenze. Quali autonomie ha perso, quali ha conservato, in quanti aspetti della vita quotidiana necessita di aiuto; co-residenza e situazione socio-economica.
  • Il proprio benessere: quanto tempo il caregiver dedica a se stesso; se e in che misura la vita sociale ne ha risentito; qual è la percezione del proprio benessere psico-fisico; qual è il proprio stato emotivo.
  • Sviluppo di sintomatologie: disturbi del sonno, disturbi gastrointestinali, salute a rischio, fatica, fiacchezza.
  • Essere riconosciuti: quanto gli sforzi quotidiani vengono riconosciuti dagli altri familiari, dagli amici, dai coniugi.

La letteratura scientifica ci indica i possibili effetti del “caregiving” (dare cura) sulla salute psico-fisica, individuando le patologie a cui potrebbero andare incontro i caregiver quando il loro “prendersi cura” diventa un impegno a lungo termine:

  • Stress cronico
  • Ansia
  • Depressione
  • Sindrome del colon irritabile, disturbi gastro-intestinali
  • Malattie cardiovascolari
  • Disturbi del sonno
  • Isolamento sociale

Lo  stress cronico, ad esempio, è definito come il fattore di rischio per altre condizioni: esso è associato ad un’iperattività dell’asse ipotalamo- ipofisi- surrene (HPI), il maggiore responsabile del rilascio di glucocorticoidi o più comunemente “ormoni dello stress”. Maggiore è lo stress a cui ci esponiamo, maggiore sarà anche l’attività infiammatoria: i processi infiammatori riguardano il nostro sistema immunitario e, a cascata, lo sviluppo di una varia sintomatologia che può ricondurre alle patologie di cui sopra.

Questi effetti che potremmo definire “collaterali” rispecchiano la condizione gravosa in cui vive il caregiver. Maggiore sarà il carico a lungo termine, peggiore sarà la percezione della qualità di vita. In accordo ai bisogni esplicitati nel contesto del report nazionale, in un periodo di intenso stress, come quello che stiamo attraversando, dovrebbero essere più proficue le attività territoriali per il supporto ai caregiver, figura che oltretutto non è ancora riconosciuta legalmente nel nostro Paese.

Quali suggerimenti dare allora ad un target di popolazione così a rischio? L’istituzionalizzazione del paziente malato, potrebbe essere davvero l’unica soluzione?

Per cercare di ridurre il carico sociale, emotivo, personale bisognerebbe, innanzitutto, che il caregiver si rivolga ai sostegni locali presenti nel territorio per un aiuto nelle attività quotidiane: assistenza domiciliare come fare la spesa, accompagnamento alle visite mediche, compagnia per passeggiate; il caregiver dovrebbe attenzionare il proprio benessere psico-fisico, con un sana alimentazione e associando, ove possibile, l’attività fisica. Il caregiver necessita l’accettazione e la condivisione dei propri momenti di rabbia, di disperazione escludendo che i sensi di colpa, per il proprio vissuto emotivo, prendano il sopravvento. Proprio per questo, è utile  riconoscere ed apprezzare il suo ruolo, aiutando lo stesso caregiver a comprendere la singolarità della sua posizione e il suo impegno, ricordando in maniera costante che sta già facendo tutto ciò che rientra nelle sue possibilità.

 

Vincenzo Pipino. Analisi dei processi evolutivi nella carriera deviante del “ladro più onesto d’Italia”

In questo lavoro rivolgiamo la nostra attenzione ad un personaggio molto particolare del panorama criminale del ‘900 italiano: Vincenzo Pipino. La sua carriera criminale inizia molto presto e con reati di criminalità diffusa.

 

In questo lavoro rivolgiamo la nostra attenzione ad un personaggio molto particolare del panorama criminale del ‘900 italiano: Vincenzo Pipino.

Pipino è un famoso ladro veneziano che nel corso della sua carriera criminale si è distinto per l’imponente quantità di furti messi a segno (oltre 3000) e per la loro diversità, che ha seguito la sua evoluzione personale. Pipino è passato infatti dal rubare il latte quando era bambino per sfamare la sua ed altre famiglie indigenti del quartiere nel quale viveva, a gioielli e lingotti d’oro quando era ragazzo fino ad inestimabili opere d’arte nei palazzi storici veneziani in età adulta.

Pipino è però molto noto anche e soprattutto per le modalità con le quali ha costruito e condotto la propria carriera deviante, modalità che gli sono valse i soprannomi di ‘ladro gentiluomo’ e ‘ladro più onesto d’Italia’.

Vincenzo Pipino è un ‘ladro gentiluomo’ in quanto da sempre fedele ad un ferreo codice di non violenza che gli imponeva di non portare mai con sé un’arma e di non infierire mai contro le sue vittime, tanto che tali caratteristiche gli sono state riconosciute dalle stesse forze dell’ordine. Pipino è un ‘ladro gentiluomo’ anche perché, come ha più volte dichiarato ai media nazionali che nel corso degli anni gli hanno dedicato molta attenzione, avrebbe scelto le proprie vittime solo tra i più ricchi, ‘non lasciando mai in miseria’ nessuno a causa dei suoi furti.

Pipino è anche un ladro ‘onesto’, in quanto a suo dire è sempre stato legatissimo alla sua città, Venezia, mai privandola davvero delle opere d’arte che rubava: nessuna delle molte opere d’arte che ha rubato in città è stata infatti mai fatta oggetto di ricettazione rivendendola a terzi: egli le ha infatti sempre restituite (sebbene dietro il pagamento di un riscatto) ai musei e ai palazzi dai quali le ha sottratte.

Sul piano criminologico Pipino viene considerato un criminale dalla elevata caratura e detiene dei primati: è stato infatti ad esempio il primo a riuscire a rubare a Palazzo Ducale in Venezia ed è inoltre l’autore del furto del celebre dipinto del Canaletto il Fonteghetto della farina, rubato da Palazzo Giustiniani a Venezia.

La vicenda criminale di Pipino ma anche la sua stessa vita hanno avuto e mantengono una significativa eco mediatica. La sua storia è molto suggestiva, ha il sapore d’altri tempi. La sua fama e l’attenzione a lui riservata dai media non sembrano calati nemmeno dopo il suo ritiro dalla scena criminale: è stato addirittura coinvolto in vari programmi televisivi nei quali la sua figura è stata alternativamente presentata come un ‘grande uomo che ha fatto del furto un’arte moralmente rispettabile’ e come esperto, ‘tecnico’ di furti, chiamato a commentarne altri.

L’intento di questo articolo è leggere il personaggio Pipino da un punto di vista psicologico a partire dalla grande disponibilità di materiale che le numerose interviste da lui rilasciate forniscono, individuando i momenti critici della costruzione della sua carriera deviante ma anche della sua personalità e provando a verificarne la compatibilità con alcune teorie sulla genesi del comportamento criminale. Ripercorreremo l’evoluzione della carriera criminale di Pipino partendo dalla sua storia personale, iniziando dalla sua infanzia. Tale, infatti, è il momento nel quale si iniziano a strutturare in lui quelle convinzioni che lo accompagneranno per tutta la vita facendone un ladro così particolare. Tra le convinzioni alle quali Pipino si dice più legato vi è l’idea di rubare solo ai ricchi e che sia giusto (o meglio, non sbagliato) farlo, l’evitare il ricorso alla violenza ed il rispetto per la povertà e la miseria economico-sociale.

Vincenzo Pipino nasce a Venezia nel 1943, primo di cinque fratelli, in una famiglia molto povera dove la madre era casalinga ed il padre un capitano di traghetti.

All’età di 6 anni avviene un fatto particolarmente traumatico per lui che segnerà tutta la sua vita: viene infatti cacciato da scuola per una lite con un coetaneo, ricco. Dopo aver tentato di fare piccoli lavoretti (aiutante alle pompe funebri, garzone di pasticceria ed aiutante fotografo) inizia a 8 anni a rubare, a suo dire per aiutare la sua famiglia. Nel furto, ma ancor prima nella vita di strada, Pipino sebbene piccolissimo racconta di aver trovato la propria appartenenza ‘…la strada è la mia maestra‘.

La sua carriera criminale inizia quindi molto presto e, come spesso accade a soggetti emarginati, con reati bagatellari, di criminalità diffusa. Nel giro di breve diviene autore di furti sempre più complessi, relativi a beni di valore crescente, fino ad arrivare alle grandi opere d’arte veneziane.

Parallelamente inizia presto anche il suo contatto con la carcerazione, già prima di 14 anni. Nella sua vita Pipino passerà moltissimi anni in carcere, senza mai pentirsi ed anzi considerando sempre di più la galera come una parte complementare alla sua attività criminale, dove trovare accoglimento e sviluppare socializzazione.

Pipino si sposa a 25 anni con Carla; non hanno figli per via dell’impossibilità di lei ad averne. L’uomo dice di aver molto sofferto la mancanza di un figlio anche perché viene da una famiglia numerosa; nonostante ciò la coppia resiste e Vincenzo sviluppa una propria generatività sociale: nelle interviste racconta di essersi sempre dedicato alla cura dei fratelli e dei nipoti, provvedendo alla loro ‘sistemazione’, presumibilmente economica. La relazione con la moglie è raccontata con tenerezza, affetto e calore.

Pipino vive ancora a Venezia, ha reinventato se stesso ed il proprio posizionamento sociale, da alcuni anni infatti dice di essere un ‘consulente per persone benestanti’: ‘gli insegno come proteggere le loro ville dai malviventi’.

Significati dell’evento-reato

È utile fornire alcuni elementi di comprensione delle dinamiche che si scatenano nel singolo e nella famiglia quando soprattutto un giovane (come era Pipino all’inizio) compie un reato.

La commissione di un reato è sempre un evento critico per il minore ma anche per la sua famiglia in quanto questo, forse più di altri, è uno di quegli eventi puntuali che ha il potere di trasformare l’identità stessa della famiglia sia in termini di autostima che di posizionamento sociale. Da quel momento, infatti, minore e famiglia si situano nella polarità semantica ‘onesto-disonesto’, ‘criminale-persona per bene’ e tutti devono fare i conti con il fatto che da un certo momento in avanti in famiglia c’è un delinquente ‘...tra di noi c’è chi ha infranto la legge e commesso un reato, questo cosa significa per noi e per le persone che interagiscono con noi? Che conseguenze può portare a me e ai miei cari?‘.

L’atto deviante si struttura su tre livelli posti in interazione circolare tra loro: il comportamento manifesto (cosa una persona fa concretamente), la cognizione (i pensieri ed i significati attribuiti dal soggetto al comportamento) ed il significato sociale (per il soggetto rispetto al suo posizionamento sociale ma anche per la società che deve com-porsi con l’atto deviante). Questa interazione crea un sistema che ‘… definisce lo scopo dell’azione [delinquenziale, n.d.r.] come un costrutto che propone continui rinvii di significati‘ (De Leo & Patrizi, 1999, p.113). Dunque il reo, specie se minorenne, attraverso l’agito deviante, pone la famiglia in un’interazione forzata con la società, che ha la caratteristica di essere sempre trasformativa: da questo confronto-scontro infatti il reo e la sua famiglia emergeranno comunque come socialmente diversi da prima. Ciò accade sempre in quanto l’azione criminale contiene in sé un’esplicita condanna da parte della società, non passibile di modificazioni di tipo culturale come invece può accadere per le separazioni coniugali, l’omosessualità, l’utilizzo di alcune droghe, le gravidanze precoci, etc. (Schneider, 2018).

Partendo dalla teoria dell’azione come costruzione sociale (Kelly, 1991), che vuole che il soggetto anticipi mentalmente gli effetti delle sue azioni ristrutturando di volta in volta il proprio comportamento in base alla reazione sociale, è possibile sostenere che il comportamento criminale, fatta eccezione forse per alcuni reati impulsivi, si caratterizza come un agito organizzato e pianificato, del quale vengono valutati in anticipo dal reo gli effetti, i possibili rischi e le conseguenze.

Su questa base De Leo e Patrizi (1999) si sono concentrati sullo studio della condotta deviante identificandone due specifici effetti: gli effetti strumentali e gli effetti espressivi. I primi fanno riferimento allo scopo manifesto (ovvero, quale tipo di risultato/vantaggio voglio ottenere con il reato?) mentre i secondi rimandano agli effetti propriamente comunicativi dell’azione (cosa voglio comunicare agli altri con il mio reato?). In relazione a quest’ultimi, secondo De Leo e Patrizi l’azione deviante è un forte strumento comunicativo e di attrazione, e l’atto criminale viene inteso come una modalità molto efficace per rendere evidenti i messaggi e gli effetti anticipatori (ivi, p.128).

Nel caso specifico di Pipino, gli effetti strumentali dei suoi primi furti sembrano connessi alle necessità di sostentamento della sua famiglia ed in generale al fornire a se stesso e alla famiglia condizioni di vita meno deprivate. Per quanto riguarda gli effetti espressivi, con i suoi furti diretti in particolare contro i ricchi della nobiltà veneziana Pipino sembra voler comunicare il disagio per le disuguaglianze sociali con essi e la superiorità di quest’ultimi ostentata verso la classe più povera. Non sembra prioritario nei suoi crimini l’intento di arricchirsi mentre al contrario i ricchi e la ricchezza sono vissuti come ‘nemici’ da punire e vincere, configurando quasi una lotta di classe.

Carriera deviante

Il passaggio da un singolo atto criminale ad una reiterazione dello stesso, prerequisito per De Leo e Patrizi per lo strutturarsi di una carriera deviante, viene spiegato dagli autori considerando un processo relativamente stabile di ristrutturazione cognitiva di significati diviso in fasi, ognuna delle quali rinforza il consolidamento dell’identità deviante. Il caso di Pipino appare in questo senso emblematico: è infatti possibile ritrovare una corrispondenza abbastanza precisa tra le varie fasi del processo evolutivo criminale proposte da De Leo e Patrizi ed i momenti critici della vita di Pipino.

Antecedenti storici. Rappresentano per De Leo e Patrizi le condizioni di disagio socio-economico e relazionale entro cui la prospettiva di una carriera deviante può trovare terreno fertile per svilupparsi. Per Pipino la condizione di partenza è la povertà e l’appartenenza ad un contesto caratterizzato da atteggiamenti disprezzanti agiti dai più ricchi verso i più poveri. Forte in questo caso è la percezione di ingiustizia sociale. Pipino dice ‘...noi che eravamo i poveri ci mettevano sempre negli ultimi banchi, e nei primi c’erano tutti i figli dei ricchi, dei signori, che facevano comodo ai maestri: portavano sempre qualcosa per i maestri che erano sempre molto più attenti a questi ragazzi qua e non a noi che eravamo poveri‘.

Crisi. Rappresenta la fase nella quale avvengono i primi contrasti tra le esigenze di sviluppo del soggetto e la considerazione della limitatezza degli strumenti concreti a sua disposizione. In Pipino l’evento critico avviene molto presto, a 6 anni, e coincide con lo scontro con un compagno ricco per un torsolo di mela (contrasto con la società). Pipino racconta: ‘…è successo che ho fatto una litigata per un torsolo di mela con uno il cui papà era un medico-farmacista. Aveva il cestino pieno di leccornìe e io gli ho chiesto il torsolo della mela. Questo a furia di morsicare è arrivato alla fine… e me lo ha gettata in faccia. Mi sono alzato e gli ho dato una spinta, è caduto per terra, si è morso la lingua, è uscito un flutto di sangue (…) Hanno chiamato mia madre, mio padre no perché lavorava, e le hanno detto: signora suo figlio bisogna metterlo in una scuola pedagogica, quelle chiuse, per i ritardati mentali. Da quel giorno lì non sono più andato a scuola‘.

Inizio. Riguarda le occasioni sporadiche nelle quali il soggetto sperimenta azioni devianti. Spesso l’intento è comunicare in modo disfunzionale il proprio disagio ma parallelamente inizia anche la percezione di poter trarre dall’atto deviante un qualche vantaggio (strumentale o comunicativo). Dagli 8 anni Pipino trova nel furto un modo per sopperire alla sua povertà sia concreta (fame) sia sociale (emarginazione). ‘…Una volta ho raccolto un frutto, mi sono pasciuto di questo frutto, e ho detto: questo frutto sarà la mia scuola e la strada la mia maestra. E così ho cominciato a cambiare completamente la mia vita. Il primo furto l’ho fatto a 8 anni. Rubavo un litro di latte tutti i giorni, lo portavo nel mio quartieretto, dove c’erano 15 famiglie, tutte morte di fame, e aspettavano me con il latte per dare il latte ai bambini‘.

Prosecuzione. Il soggetto percepisce positivamente gli effetti strumentali dell’azione deviante e l’acquisizione di uno status deviante riconosciuto dagli altri in modo favorevole. Dai 12 anni Pipino trova attraverso il furto l’approvazione del suo gruppo di riferimento (famiglia e poveri) e si gratifica nell’aiutarli. ‘…Poi piano piano, mi sono un po’ migliorato, ho cominciato dapprima con i tabaccai poi con le gioiellerie, sono diventato insomma, quello che sono‘.

Stabilizzazione. Il soggetto sente di non poter più ‘tornare indietro’ rispetto alla criminalità, per non tradire il suo gruppo di riferimento ma anche perché è sempre più capace nelle sue azioni delinquenziali; l’identità si struttura su queste competenze. Pipino continua la sua personale ‘battaglia’ contro i ricchi, giustificata e sostenuta dalla sempre maggiore appartenenza al proprio gruppo (i bersagliati e i vessati dai ricchi) e da un sempre maggiore riconoscimento in tale gruppo. Si sviluppa in lui una ‘morale’. ‘… io ho rubato per necessità, poi di necessità ho fatto una virtù quando mi sono accorto che c’erano ladri che rubavano molto, ma molto più di me, [ovvero, n.d.r.] i ricchi-ricchi. Non esiste una ricchezza che non provenga da un ladrocinio. Venezia è una città rubata. Ci sono quelli che nascono con la camicia e con lo smoking, noi invece siamo nati nudi, come Dio ci ha fatto‘.

Consolidamento. Questa per De Leo e Patrizi è la fase nella quale gli altri si aspettano che il soggetto continui a delinquere. Il soggetto si riconosce ormai come deviante e la devianza è percepita come un successo. Per Pipino è proprio così: si percepisce come deviante, la devianza è un successo e un riconoscimento personale. È fiero del suo operato e del riconoscimento che ottiene in quanto abile ladro con un proprio codice d’onore, che gli vale anche il rispetto della polizia. Sono presenti diversi elementi:

Successo nel poter aiutare i poveri a scapito dei ricchi ‘… Il mio era il modo onesto di poter sottrarre ai ricchi per poi dare qualcosa ai poveri (…) mi definisco una sorta di Robin Hood‘.

Il furto diventa un’occupazione stabile un ‘lavoro’. Pipino dimostra orgoglio per aver rubato in tutte le case dei nobili Veneziani: ‘li ho castigati (…) Ho visitato tutte le case dei nobili veneziani’.

Riconoscimento sempre più generalizzato, fascinazione degli avversari e degli interlocutori. Mosi, Ex Capo della Squadra Mobile di Venezia, dice: ‘… è difficile parlar male di lui nonostante i 30 anni che ha passato in carcere per una scelta di vita che indubbiamente non è da condividere, perché nel suo modo di pensare, nel suo stile di vita, nel suo essere fuorilegge, in qualche misura criminale, ha sempre avuto un codice di rispetto per quello che erano le persone. Non mi risulta mai che abbia usato violenza nei confronti di altri, neppure all’interno del suo gruppo, all’interno del suo mondo, dove è facile entrare in contrasti. Era un soggetto d’altri tempi, un soggetto che voleva la quiete all’interno del suo gruppo‘.

Meccanismi di difesa

Spesso l’azione deviante è accompagnata da una distorsione cognitiva ed emotiva che implica la giustificazione del proprio comportamento. Tali processi hanno la funzione di neutralizzazione della norma e sono messi in atto, secondo Bandura (1996), attraverso meccanismi di disimpegno morale.

Per Bandura i meccanismi di difesa attivi nella devianza e nella criminalità sono:

  • Giustificazione morale
  • Etichettamento eufemistico
  • Confronto vantaggioso
  • Dislocamento della responsabilità
  • Diffusione della responsabilità
  • Non considerazione e distorsione delle conseguenze
  • Attribuzione di colpa
  • Deumanizzazione della vittima

Dall’analisi delle interviste rilasciate da Pipino negli ultimi anni, emerge soprattutto l’utilizzo di due di questi meccanismi di difesa:

  • La giustificazione morale. Egli è certo di aver fatto la cosa giusta, di averla fatta in maniera etica, in nome di un ideale e di un valore superiore: contro i ricchi per il bene dei poveri. ‘… La soddisfazione era che non rubavi affatto ai proprietari delle carte di credito, ma alle banche (..). Un conto è rubare per quella mania di possesso del denaro, che fa schifo, il denaro è del diavolo, ma l’ho fatto per una sorta anche di sfida tra me e l’impossibile (…) Io ho rubato per necessità, poi di necessità ho fatto una virtù quando mi sono accorto che c’erano ladri che rubavano molto ma molto più di me, i ricchi-ricchi. Non esiste una ricchezza che non provenga da un ladrocinio. La mia etica: di non far dannare le persone. Rubare ma onestamente‘.
  • La non considerazione o distorsione delle conseguenze. Pipino dice esplicitamente che rubare ai ricchi ‘non è un peccato’ e non viene frenato nemmeno dalla possibilità di tornare in carcere per l’ennesima volta: ‘… quando mi arrestavano, ero tranquillo, pacifico, beato, avevo già preso questa consapevolezza‘. Il carcere per Pipino è infatti un ambiente nel quale si trova a proprio agio, circondato da persone che condividono storie di vita simili alla sua e che cerca sempre di aiutare: ‘… sono sempre stato un leader nelle carceri, mi chiamano ‘il sindacalista delle carceri’’.

Classificazione dell’evento-reato

La teoria dell’azione deviante di De Leo e Patrizi (1999) spiega, partendo da un’ottica costruttivista, non solo i processi personali ed interattivi che portano un soggetto a diventare un delinquente, ma anche gli aspetti specificamente comunicativi del gesto criminale. Questa teoria evidenzia come l’atto criminale sia uno strumento per il reo per amplificare i propri messaggi verso gli altri e per ottenere vantaggi simbolici che lo coinvolgono circolarmente all’interno della sua rete sociale di riferimento.

Su questo filone uno di noi ha proposto una classificazione dell’agire delinquenziale in adolescenza basata sulla motivazione prevalente (Schneider, 2018). Ne emergono quattro principali categorie:

  • Il reato come ‘sintomo’. Questa tipologia riguarda ragazzi ‘sofferenti’, che attraverso il reato esprimono un disagio emotivo e/o relazionale: in questi casi il reato è l’equivalente di un sintomo psicologico ed è leggibile come una richiesta di aiuto. De Leo a tal proposito diceva ‘… se vuoi che qualcuno si faccia carico della tua situazione, commetti reati‘ (citato in Biscione, Pingitore, 2015).
  • Il reato come ‘scelta di vita’. Questa tipologia di ragazzi commette reati per una sorta di scelta di vita deviante. Questi giovani, mettendo in atto comportamenti delinquenziali, non esprimono infatti primariamente un disagio quanto piuttosto confermano un’appartenenza a gruppi devianti accogliendo e facendo propri valori criminali. Sebbene in molti casi può essere presente un evento critico generatore di sofferenza psichica, ciò non è sempre detto: l’appartenenza a contesti devianti può infatti per molti di essi rappresentare la principale fonte di identificazione e la principale motivazione a delinquere. Questi ragazzi non manifestano un bisogno di aiuto seppur nascosto ma nemmeno una sofferenza riconoscibile e socializzabile; per essi al massimo è possibile dire che il reato rappresenta un sintomo ego sintonico.
  • Il reato come ‘necessità’. Alcuni ragazzi possono vivere situazioni di grave disagio socio-economico e non avere una rete sociale che possa sostenerli in un percorso di legalità e proteggerli. Molti di questi giovani, spesso stranieri ‘non accompagnati’ (ovvero senza adulti di riferimento nel nostro paese) finiscono per delinquere per bisogno e/o per costrizione (ad esempio quando, spesso loro malgrado, sono arruolati sotto minaccia dalla criminalità organizzata, magari legata al loro paese d’origine).
  • Il reato come ‘fatalità’. Vi è poi una tipologia di giovani che si trova ad incappare in un’azione deviante quasi per caso, ovvero senza riuscire a soddisfare nessuno dei precedenti criteri in modo significativo.

Il caso di Pipino rientra nella seconda tipologia, ovvero della scelta deviante come scelta di vita, nonostante l’iniziale motivazione sia legata ad una sofferenza: la storia del comportamento criminale di Vincenzo, infatti, nasce da una condizione favorente la criminalità (svantaggio socio-economico) ma anche da una significazione degli eventi di tipo culturale nella quale la contrapposizione tra ricchi e poveri diviene contenitore di azioni devianti, a più livelli logici giustificate o quanto meno rese plausibili.

In questo contesto Pipino si identifica in brevissimo tempo nel suo ruolo/status di criminale, non prova rimorso per i furti commessi che anzi giustifica in modo coerente secondo la propria morale ‘… rubare ai ricchi-ricchi non è peccato, perché chiunque sia ricco è stato a sua volta un ladro’.

Come detto, il contesto ha poi il suo peso. Rispetto alla famiglia di Pipino, essa dalle informazioni in nostro possesso sembra aver avuto reazioni confermanti i suoi crimini. Utilizzando la classificazione delle possibili reazioni di una famiglia al reato di un minorenne, classificazione che è parte di un modello interpretativo della criminalità giovanile più ampio, proposto da uno di noi (Schneider, 2018), la famiglia di Vincenzo rientra nel sottotipo ‘tollerante/istigante la commissione del reato’, ovvero tipo 2 – di ‘conferma’ (dell’identità e dei gesti devianti), sottotipo 4 – ‘manipolativo’. Secondo il modello di Schneider infatti le famiglie possono reagire ad un reato commesso da un minorenne in due modi: con ‘vergogna’ o con ‘conferma’. Nel primo caso vi è disagio da parte della famiglia, la quale (sottotipo 1) può reagire in modo ‘collaborativo’ oppure (sottotipo 2) in modo ‘ambivalente’. Nel secondo caso la famiglia non prova disagio per il reato del figlio, e ciò perché (sottotipo 3) condivide esplicitamente valori devianti o perché (sottotipo 4) accetta il reato, collude con esso e a volte lo istiga per interessi interni (conflitti, lotte di potere, ecc..).

Dal racconto di Pipino emerge l’immagine di una famiglia unita, con genitori affettivi e supportivi che però appaiono in conflitto con la società e nello specifico essi stessi per primi con ‘i ricchi’. Verosimilmente per tale conflitto con la società i genitori sostengono Pipino e ne coprono diversi comportamenti, al limite della collusione. In particolare la madre attua tale comportamento fin dall’infanzia del figlio. In un docufilm del 2019, lo stesso Pipino dirà raccontando di una lettera a lei indirizzata: ‘… mamma, quanto mi hai difeso. Per te io ero sempre innocente, nonostante avessero prove certe della mia responsabilità. Da bambino dicevi sempre che io ero innocente e mi coprivi anche, facevi un po’ da complice, e che lotte che facevi, guai a chi mi toccava‘.

Su questa linea, che si rifà all’ottica sistemico-relazionale che legge i comportamenti del singolo in relazione ai rapporti affettivi che egli intrattiene con il proprio contesto di riferimento, riteniamo ipotizzabile che Vincenzo Pipino fin dall’infanzia abbia agito ‘per conto’ dei genitori o più in generale del suo ambiente di provenienza portando avanti il desiderio di una redistribuzione della ricchezza dai più ricchi ai poveri, ricercando dunque in questo una forma, sebbene inappropriata, di giustizia sociale. Pipino pare essersi così profondamente identificato in quei valori da arrivare a farne una scelta di vita.

 

Isolamento sociale da Covid-19, depressione e rischio suicidio nell’anziano: prospettive d’intervento

In questo periodo di tensione causato dagli effetti della pandemia, la terapia CBT è un’opportunità che identifica approcci validi a promuovere la regolazione emotiva, la consapevolezza cognitiva, la gestione dello stress fisico e mentale e rappresenta un supporto anche per i soggetti anziani.

 

I problemi di salute più comuni nelle persone anziane sono rappresentati da ipertensione, diabete, malattie cardiovascolari, malattie respiratorie e malattie psichiatriche che possono contribuire al rischio di morte in caso di infezione da Covid-19 (Zheng et al., 2020, Park & Unützer, 2011).

A questo quadro clinico si aggiunge l’isolamento sociale condizionato dal Covid-19, sia per gli anziani residenti negli istituti di cura sia per quelli che vivono soli, consigliato se non a volte imposto come prevenzione del rischio di contagio.

Questa condizione implica per gli anziani l’allontanamento dai luoghi più comuni vissuti come momenti di socialità, nonché la disconnessione dalla rete familiare. Uno scenario in cui il tempo per una persona anziana si tramuta spesso in senso di inutilità, solitudine e perdita di appartenenza. Uno studio recente mostra conseguenze importanti sulla salute e la morte prematura negli anziani derivanti da condizioni di isolamento sociale prolungato come disagio emotivo, deterioramento cognitivo e sensomotorio. (Plagg, Engl, Piccoliori, & Eisendle, 2020).

Per i soggetti in età avanzata, uno stile di vita stressante determina difficoltà di adattamento e si associa a una serie di esiti psichiatrici avversi come ansia, depressione, disturbi del sonno nonché frequenti atti suicidari (Conejero, Olié, Courtet, & Calati, 2018).

Un recente studio americano pubblicato su The American Journal of Geriatric Psychiatry ha sottolineato l’importanza per gli anziani di mantenere le relazioni sociali durante le restrizioni dovute alla pandemia. Gli autori di questo studio (Van Orden et al., 2020), descrivono la tragedia pandemica mondiale in atto attraverso una lettura sociologica, dove il concetto di comunità sociale, in genere percepito come germe di solidarietà e fratellanza che inspira senso di appartenenza alla collettività, viene associato a effetti di distruzione delle comunità e mette a rischio categorie più deboli come gli anziani.

Intervento cognitivo-comportamentale per ridurre i rischi dell’isolamento sociale nel soggetto anziano

Van Orden e colleghi hanno applicano un Piano di strategie di carattere cognitivo comportamentale (CBT) come prevenzione al disturbo dell’umore e agli atti suicidari comprensivo di brevi sessioni telefoniche/video (30 minuti) e l’invio di e-mail contenenti materiale informativo, al fine di mantenere il contatto con gli anziani soli e promuovere la salute sociale.

Secondo il modello CBT, in un primo momento il soggetto è stato accompagnato a individuare i pensieri negativi che molto spesso giudicano, svalutano e si accompagnano a sentimenti di scarso valore e inutilità, in una prospettiva che consentiva di individuare i bias cognitivi e sostituirli con immagini più positive.

Inoltre, i soggetti anziani coinvolti nello studio sono stati motivati a cambiare le azioni quotidiane con nuove attività sociali, ad esempio: connessioni in remoto o con la comunicazione scritta.

Sono state aggiunte le strategie derivanti dalla terapia dialettica comportamentale (DBT) rivolte al riconoscimento delle emozioni, dei pensieri e delle sensazioni corporee utili a tollerare il disagio e regolare lo stato emotivo.

Queste tecniche prevedono l’orientamento al “qui e ora” rispetto al passato e al futuro, contribuiscono ad alleviare la solitudine e migliorare l’appartenenza nonché la consapevolezza e l’accettazione della sofferenza condivisa dovuta al Covid-19.

In aggiunta, il piano di strategie messo in atto per garantire la sicurezza dei soggetti anziani soli chiama in causa la “mente saggia” (compresa nello sfondo DBT) atta a favorire la consapevolezza e la partecipazione alla connessione con l’universo, in una prospettiva contemplativa, spirituale e mistica.

In questo quadro, l’esercizio della “gentilezza amorevole” calma le emozioni di estrema intensità e lo stress, fino a che una sensazione di connessione, percezione di amore e accudimento consente di affrontare la somatizzazione ansiosa, l’irrequietezza e migliorare l’umore.

Le strategie cognitivo-comportamentali possono aiutare i soggetti a rischio a mantenere i collegamenti sociali e limitare le conseguenze dell’isolamento e della solitudine durante la pandemia COVID-19.

Considerazioni generali e prospettive future

È bene considerare che tutta la popolazione mondiale al momento attuale sta vivendo una limitazione dei confini sociali dovuta alla pandemia. Isolamento e distanza fisica, non solo nei contesti sociali, ma anche nello spazio privato e familiare, sono la speranza di sfuggire all’infezione da Coronavirus.

Sul piano psicologico la distanza interpersonale mette a dura prova la salute mentale, in particolare per le categorie più vulnerabili come bambini e anziani.

È noto che le dinamiche sociali sono alla base della salute mentale a tutte le età, basti pensare alle teorie sullo sviluppo socio-emotivo del bambino (Pattwell & Bath, 2017), nonché al benessere derivante dalle relazioni sociali in età avanzata (Charles & Carstensen, 2010). Comunemente, il mondo mediatico ha paragonato la pandemia ad una guerra.

Questa metafora ha condotto la popolazione mondiale a una risposta sociale di allerta e difesa per di più, alla consapevolezza che il nemico vive in forza del proprio agire, alimentato la fragilità, l’impotenza, la solitudine, fino alla percezione di abbandono e perdita (Battistelli, 2020).

Dall’esigenza di fronteggiare la paura di un’incombente distruzione della propria salute, della sfera personale e affettiva, fino al rischio della perdita della vita, ne deriva un importante sindrome da stress sul piano biologico, psicologico, sociale ed economico (Taylor et al., 2020).

In questo periodo di tensione causato dagli effetti della pandemia, la terapia CBT è un’opportunità che identifica approcci validi a promuovere la regolazione emotiva, la consapevolezza cognitiva, la gestione dello stress fisico e mentale e rappresenta un supporto anche per i soggetti in età avanzata.

 

Born To Surf 2.020 (2020) di Flavio Nascimbene- Recensione del libro

Con grande capacità di evoluzione e adattamento i servizi digitali ci hanno consentito di introdurre nel nostro quotidiano smart-working, sedute on-line, lezioni di fitness su zoom, dirette Instagram e intrattenimenti di ogni genere.

 

Le nostre vite oggi sono cambiate. È un affermazione che ormai inizia quasi a diventare vecchia.

Nel corso della nostra evoluzione diverse invenzioni sono state in grado di dare una forte accelerazione a questo processo che l’essere umano percorre da sempre. In questo momento storico assistiamo ai cambiamenti che si ascrivono a quella che possiamo definire “l’era digitale” e ”l’Homo Digitans”, come definisce Michele Spaccarotella (Il Piacere Digitale, 2020), ne è il suo indiscusso abitante.

Oggi più che mai, nel pieno corso di una crisi sociale senza precedenti, il digitale è stato tra le risorse più usate e abusate assieme all’amuchina e al lievito di birra, permettendoci di assaporarne sempre più vantaggi, limiti e anche pericoli. Con grande capacità di evoluzione e adattamento, i servizi digitali hanno soddisfatto esigenze dell’utenza quasi in tempo reale consentendoci di introdurre nel nostro quotidiano smart-working, sedute on-line (o teleterapia), lezioni di fitness su zoom, dirette Instagram e intrattenimenti di ogni genere riuscendo ad ammortizzare un colpo che la nostra società non era preparata a ricevere.

Questo cambiamento sta da tempo coinvolgendo inevitabilmente la nostra professione di psicologo ed è assolutamente opportuno e necessario fermarsi a riflettere sulle conseguenze che ne derivano sia sulle nostre vite che nel nostro contesto lavorativo.

Flavio Nascimbene è uno di quei colleghi che lo sta facendo da tempo e lo fa anche con molta cura e competenza e ora ha voluto condividere il suo interessante impegno e il suo utile punto di vista con il suo libro Born to Surf.

Se avessi letto la prima parte di questo libro negli anni 90, dalle prime righe avrei pensato di aver iniziato quasi un racconto di Asimov. Questo perché l’autore introduce l’argomento proiettando il lettore da subito in una realtà di vita intrisa di abitudini digitali. Ho letto le pagine sul mio portatile in giro per la città, per restare attaccato a questa sensazione e trattenere il senso fluido e veloce delle infinite opportunità che il mondo digitale è solito farci provare; liberi da vincoli strutturali, ogni posto poteva essere una sala di lettura metropolitana. La sensazione personale che ho sviluppato però andando avanti è divenuta presto ambivalente. Da una parte il senso di arricchimento, quella possibilità tendente all’infinito dove il digitale è una risorsa senza limiti, dall’altra la mia dimensione analogica di pre-millennial ha iniziato a provare un senso di invadenza, di costrizione.

È proprio questo uno dei punti fermi del libro, tutta questa facilitazione di vita e ricchezza di opportunità offerta dal mondo digitale viene descritta raccontando anche l’altra faccia della medaglia, quella che impegna in modo significativo le nostre facoltà cognitive di pre-millennials che assistono ad un mondo che cambia e si evolve, ma non sempre in modo semplice e intuitivo. Con delle sue regole che nascono e si sviluppano tra necessità di gestirlo e di nutrirlo, come se avesse vita propria.

Un mondo che a volte tende a divenire marcatamente diviso dall’esistenza di differenti generazioni che lo abitano e lo utilizzano in modo differente.

Parte della realtà è cambiata, siamo in un contesto dove ormai i parametri che definivano le nostre abitudini quotidiane prettamente analogiche, non sono più gli stessi, ci sono nuove modalità e nuove regole.

Flavio Nascimbene lo descrive dal punto di vista di chi c’era prima e cerca di capirne il senso con curiosità e riflessioni che non risparmiano un sano spirito critico e a volte anche preoccupato. Tempi, distanze e altri aspetti che poco tempo fa costituivano dei limiti, ora assumono un valore diverso attraverso infinite possibilità che chiamiamo applicazioni. Il problema? Dobbiamo scegliere costantemente tra tutte le possibilità che offrono queste applicazioni con un ipertrofico senso di responsabilità al quale prima non eravamo abituati.

Possiamo restare in collegamento continuo con i colleghi e amici, accedere a tante modalità di spostamento nella nostra città e ordinare cibo on line con una facilità incredibile. Ciò che cambia è il modo di definire noi stessi e anche quello di rapportarsi alle altre persone. Gli spazi personali sono concepiti con confini più fluidi e meno formali.

Le nostre dimensioni sociale, organizzativa, interpersonale e personale, hanno nuovi confini e meno limiti rendendoci a volte disorientati attraverso queste nuove infinite possibilità. Il percorso evolutivo intrapreso sembra irrimediabilmente tracciato e incontrovertibile mentre diviene sempre più faticoso farne una sintesi per utilizzarlo al meglio rispetto le nostre necessità.

Cavalchiamo un cambiamento in itinere che sembra impossibile da arrestare e ancora più difficile da sintetizzare in modo semplice. Insomma non si torna certo indietro e quindi non ci resta che cercare di comprendere come le cose cambiano e quindi come adattarci al meglio possibile.

Quali sono quindi le implicazioni di tutto questo nelle nostre vite? Cosa accade tra le varie generazioni coinvolte? Sembrerebbe che qualcosa con tanto potere di collegarci e metterci in comunicazione gli uni agli altri, paradossalmente stia creando enormi distanze tra le generazioni.

Ed è proprio in questa cornice che in Born to Surf l’autore prova a cercare di comprendere come la generazione Millennials (nota anche come generazione X e Y) sia differente rispetto a quella dei giovani di venti anni or sono. Lo fa studiando una sotto categoria ben precisa: la generazione dei giovani sportivi.

Un tentativo di costruire un ponte tra le generazioni pre e post Millennials

questo rappresenta infatti questo libro per il Flavio Nascimbene.

Ma chi sono i Millennials e sopratutto chi è il millennials sportivo?

Questo è ciò che cerca di descrivere l’autore nella prima delle due parti del libro.

Circa il 40% della popolazione mondiale è rappresentato dai Millennials. Questa generazione, rispetto alla precedente, vive diversamente le relazioni, immagina la carriera lavorativa con modalità adattive meno rigide e acquisisce continuamente nuove capacità al fine di adattarsi a un mondo mutevole, interattivo e sempre meno prevedibile.

In tutto questo il Millennials è esposto a un processo di costruzione della propria identità differente dal nostro. Ognuno di noi, di norma, mette in atto un processo costante di integrazione tra realtà interna e realtà esterna. Quest’ultima è fatta di informazioni ed esperienze e viene percepita ed elaborata al fine di essere utilizzata in un’importante processo di categorizzazione che ci aiuta a dare senso e ordine alle cose. Lo sviluppo di questo processo per ognuno di noi è essenziale al fine di definirci e orientarci nell’assumere una posizione nel mondo e nella società con un identità e un ruolo definito al suo interno.

Il Millennials diversamente si interfaccia con una realtà on-line di cui ne è contemporaneamente cittadino e fautore. Una realtà che egli alimenta e arricchisce attraverso immagini di Sé selezionate attraverso un processo di impression management con lo scopo di confezionare identità più desiderabili e piacevoli attraverso il quale contemporaneamente si definisce e rappresenta («La personalità online – Tracce digitali dell’identità», Villani e Triberti 2018).

L’Interrealtà è il nome con cui può essere definito il nuovo spazio sociale (V. Van Kokswijk, 2003; Riva, 2009) dove il Millennials costruisce la propria identità che viene affidata a cangianti algoritmi ideati da ben altri scopi come racconta il documentario The social dilemma (2020).

Tale contesto del tutto inedito è fonte di  preoccupazione del clinico che cerca di comprenderne i vantaggi e gli svantaggi.

Tanto da arrivare a domandarsi se il Web 2.0 si un vantaggio reale o una regressione di massa.

Nel libro si sceglie di concentrare l’attenzione di questa indagine principalmente su una categoria ben specifica di millennials, quella degli sportivi attraverso 62 casi studio.

Questa scelta, sviluppata nella seconda parte del libro, riesce a mettere a confronto due dimensioni apparentemente in contrasto: l’analogico del corpo che si esprime e si relaziona attraverso lo sport e la dimensione “online” che abita il virtuale attraverso il quale questi ragazzi si relazionano e sviluppano la propria identità.

La vulnerabilità caratterizzante della fase evolutiva dell’adolescenza  espone lo sportivo millennials ad una dimensione comunicativa molto potente attraverso i social, da qui il processo di definizione del proprio Sè in corso può essere significativamente influenzato. Fuori da questo pericolo, sottolinea Nascimbene, non lo sono naturalmente neanche tutti coloro che vivono in condizioni di fragilità psicologia e socio economica.

Negli studi presentati vengono individuate quattro aree problematiche:

  1. (Is) Iperrealtà e sogno
  2. (Di) Demotivazione e instabilità motivazionale
  3. (Ai) Ansia e instabilità emotiva
  4. (Rs) Relazionalità e solitudine

Questa parte del libro è sicuramente più operativa e l’autore propone degli “Strumenti di lavoro per sportivi millennials” molto utili per gli addetti ai lavori e per chi volesse conoscere ed essere di aiuto a questa generazione.

Attingendo alla sua esperienza di psicologo sportivo, Nascimbene condivide importanti e mirate riflessioni assolutamente orientate su un versante pratico tenendo presente tre aspetti importanti da considerare: la consapevolezza del Sé, benessere-relazionale e ottimizzazione delle abilità utili alla performance.

Il setting terapeutico si è arricchito di una possibilità, la comunicazione a distanza, ma questa modifica attraverso svariati strumenti che operano on-line, ha sottoposto il professionista a nuove sfide. La prima è il tentativo di mantenere efficace un setting che diviene inevitabilmente più aperto, più fluido e a rischio di facile invasione e contaminazione. Ci si chiede se è possibile mantenere quell’intimità fondamentale per ogni buona relazione terapeutica. Ancor più ci si domanda: funziona la Web Therapy?

L’autore prova a dare una risposta attraverso un’accurata rassegna di studi di efficacia e meta-analisi sull’efficacia delle terapie on line rispetto a quelle vis à vis.

Le riflessioni condivise, dato il nostro periodo storico dove la necessità di molti di operare on-line è divenuta sempre più incalzate, sono assolutamente preziose.

Ogni riflessione sulle quattro aree critiche è ben descritta offrendo al lettore una visione tecnica della problematica, dettagliando i dati statistici si apre la possibilità di dare vita a profonde riflessioni che vengono attivate pagina dopo pagina e che sarebbe giusto continuare anche una volta terminato il libro.

Born to surf si mostra una risorsa utile non solo per coloro che lavorano in ambito sportivo, ma per tutti i professionisti che si occupano di adolescenza e che hanno bisogno di acquisire spunti di riflessioni utili al fine di ammodernare la loro impronta metodologica.

 

L’impulsività: deficit nel controllo inibitorio motorio e cognitivo

L’impulsività è definita come la ‘mancanza di riflessione prima di fare o dire qualcosa‘, la ‘tendenza a seguire i propri impulsi‘ (Cattana e Nesci, 2003, pp. 366-367).

 

Il DSM-5 (APA, 2013) definisce l’impulsività, o un comportamento impulsivo, come un’azione non lungimirante espressa prematuramente, inappropriata per la situazione, rischiosa e associata a esiti indesiderabili piuttosto che desiderabili.

Questa tendenza è considerata una caratteristica transdiagnostica di molti disturbi mentali, un tratto associato alla psicopatologia (Moeller et al., 2001; Stanford et al., 2009). I primi studi misurarono l’impulsività attraverso la somministrazione di questionari auto-valutativi. Inoltre, l’eterogeneità di questo costrutto ha limitato la traduzione dei risultati ottenuti e la sua definizione specifica all’interno della pratica clinica.

Le neuroscienze hanno delineato un modello dell’impulsività che comprende due costrutti separati e sovrapposti. Il controllo inibitorio include un deficit nell’inibizione motoria (‘inibizione della risposta’): quest’ultima è la capacità di inibire le risposte agli stimoli e coinvolge la corteccia frontale interna (IFC) e l’area motoria supplementare (SMA) (Aron, 2011). In secondo luogo, l’inibizione cognitiva – cioè ‘l’arresto o l’annullamento di un processo mentale, in tutto o in parte, con o senza intenzione’ (Aron, 2007) – coinvolge la corteccia frontale inferiore (McHugh e Balaratnasingam, 2018).

Recenti ricerche sulla personalità – che passano da un campo categorico ad una panoramica dimensionale dei disturbi di personalità (Newton-Howes et al., 2015) – evidenziano come i tratti possano essere maggiormente plastici e come la loro espressione rischi di essere peggiorata da fattori stressanti di carattere psicosociale. Tale attenzione alle dimensioni trans-diagnostiche della psicopatologia ha portato a un rinnovato interesse per l’impulsività, costrutto ad oggi studiato anche mediante le tecniche di neuroimaging e metodi di misurazione comportamentali e neurocognitivi (McHugh e Balaratnasingam, 2018).

McHugh e Balaratnasingam (2018) hanno fornito una panoramica del fenomeno dell’impulsività attraverso una revisione, per spiegare come sia associata ai disturbi di personalità e quali siano delle implicazioni funzionali per il suo trattamento (McHugh e Balaratnasingam, 2018).

Kable e Glimcher (2007) evidenziano stretti collegamenti e una sovrapposizione tra le varie reti coinvolte sia in aspetti del controllo inibitorio che nella valutazione della ricompensa, riguardante la tendenza a scegliere ricompense più piccole ottenute nell’immediato rispetto a ricompense più sostanziose fornite in un secondo tempo (Kable e Glimcher, 2007).

Steinberg (2007) ha descritto un sistema duale riguardante il modello di controllo cognitivo e il processo decisionale socio emotivo legato ai sistemi di ricompensa: ci sono prove che il controllo inibitorio aumenti costantemente dall’infanzia all’età adulta. Al contrario, sembra che il processo decisionale legato all’impulsività segua una traiettoria differente durante la fase adolescenziale: durante questa fase infatti tale processo non garantisce certezze predittive (Scheres et al., 2014; Tymula et al., 2012).

Dai risultati della review sopra citata emerge che il controllo inibitorio e la valutazione della ricompensa sono costrutti correlati.

La revisione di McHugh (2018) evidenzia come l’impulsività sia una caratteristica diagnostica del disturbo borderline (BPD) e di altri disturbi di personalità, come il disturbo antisociale (ASPD). È possibile che l’impulsività sia una mediatrice dell’associazione tra diversi disturbi di personalità e possibili esiti, inclusi comportamenti suicidari, la dipendenza da sostanze, una disfunzione interpersonale o di altri indicatori sociali come l’occupazione (McHugh e Balaratnasingam, 2018). La tendenza a cercare di ottenere ricompense immediate è una caratteristica del disturbo borderline di personalità (BPD) indipendentemente dalle condizioni di stress percepite dal soggetto (McHugh e Balaratnasingam, 2018). Per quanto riguarda i deficit legati all’inibizione della risposta, anch’essi sono risultati associati al BPD e peggiorano in condizioni di stress elevato. I risultati indicano come l’impulsività di stato abbia un ruolo chiave nell’espressione e nella manifestazione di un comportamento impulsivo (McHugh e Balaratnasingam, 2018). Comprendere l’impulsività in termini di meccanismi comportamentali e di processo decisionale di un individuo offre l’opportunità di avere nuovi obiettivi utili per la diagnosi e il trattamento dei disturbi di personalità. Studi esplorativi hanno confermato che tali informazioni potrebbero essere utilizzate per misurare la risposta al trattamento (McHugh e Balaratnasingam, 2018).

 

Teledidattica e riabilitazione online: amici o nemici?

Il Coronavirus, dai più noto col nome della malattia da questo derivante ovvero COVID-19 (CO-rona VI-rus D-isease), è un virus respiratorio che, in questi mesi, sta tenendo in scacco il mondo intero, minacciando il nostro benessere, sia fisico che psichico, che l’economia mondiale e, in una visione più ridotta, il nostro lavoro.

Ilaria Cester e Paola Destro – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Mestre

 

 Le prime notizie certe (e allarmanti) che abbiamo di questo virus qui in Italia, risalgono alla fine di febbraio (noi precisamente ci trovavamo a Milano per seguire il corso di perfezionamento in età evolutiva e seguivamo con molta attenzione e apprensione l’aumento di casi nella provincia di Lodi, a Codogno).

Ad inizio Marzo, l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), ha proclamato lo stato di pandemia, essendosi oramai il virus propagato nella maggior parte dei Paesi nel mondo.

Sin dall’inizio sono rimbalzati alla tv, sul web, alle radio e attraverso tutti i canali di comunicazione, consigli e indicazioni su cosa fare e cosa non fare. Anche il Governo si è mosso in tal senso predisponendo una serie di Decreti Legislativi e ordinanze che man mano hanno ristretto sempre di più la libertà personale dei singoli, a tutela di tutti.

Ed eccoci arrivati ad oggi, dove ognuno di noi (ad eccezione dei lavoratori che svolgono mansioni di prima necessità in questo infausto periodo) è rimasto chiuso in casa, chi in famiglia e circondato dagli affetti più cari e chi, invece, ha dovuto affrontare questa situazione di emergenza lontano da casa.

Ed è proprio in queste occasioni che la nostra professione, che nella maggior parte dei casi si basa sull’interazione umana vis a vis, sullo scambio comunicativo verbale, ma anche non verbale, è stata chiamata a riorganizzarsi ed a reinventarsi in tutti i modi possibili, senza però perdere di vista l’importanza di un intervento efficiente ma, soprattutto, efficace.

Noi psicologhe dello sviluppo e dell’età evolutiva, che interveniamo nell’ambito della psicopatologia dello sviluppo ed, in particolar modo, degli apprendimenti, ci siamo interrogate e confrontate su come poter mantenere un filo conduttore con i nostri piccoli e non più piccoli pazienti e con le loro famiglie, in particolar modo rispetto alla possibilità di continuare i percorsi di potenziamento delle abilità più fragili, precedentemente avviati e messi a dura prova dalla situazione sanitaria nazionale.

In questo momento di grandi cambiamenti, la tecnologia, che da qualche anno ci accompagna nel nostro lavoro, ci è venuta in aiuto, in quanto gli strumenti che già utilizzavamo per il potenziamento a livello domiciliare, ci hanno permesso di proseguire il nostro lavoro di potenziamento, aggirando l’ostacolo della distanza.

Quando parliamo di Disturbi Specifici dell’Apprendimento, ci riferiamo ad una categoria diagnostica che il DSM-5 (2013) include all’interno di una più ampia area, quella dei Disturbi del Neurosviluppo (ovvero Disabilità Intellettive, Disturbi della Comunicazione, Disturbi dello Spettro dell’Autismo, Disturbo da deficit di attenzione/iperattività, Disturbo specifico dell’apprendimento, Disturbi del movimento, altri disturbi del neurosviluppo).

Nello specifico, quando parliamo di DSA, facciamo riferimento ai disturbi che ‘coinvolgono uno specifico dominio di abilità, lasciando intatto il funzionamento intellettivo generale. Essi infatti interessano le competenze strumentali degli apprendimenti scolastici’; parliamo, quindi, di Dislessia, Disortografia, Discalculia e Disgrafia, come definito dalla Consensus Conference dell’Istituto Superiore di Sanità (CC-ISS, 2011).

A livello legislativo, i bambini e ragazzi con un profilo DSA sono tutelati dalla Legge n. 170 dell’8 ottobre 2010 e dalle linee guida per il Diritto Allo Studio degli alunni e degli studenti con DSA allegate al Decreto Ministeriale 12 luglio 2011, che prevedono l’introduzione di misure compensative e dispensative, attraverso la stesura di un Piano Didattico Personalizzato (PDP) in modo tale da evitare che le difficoltà specifiche penalizzino il ragazzino nell’acquisizione delle competenze scolastiche e vadano ad inficiare il benessere del ragazzino stesso, in termini di autostima, motivazione e senso di autoefficacia rispetto al contesto scolastico, ma non solo.

La personalizzazione della didattica è caldamente suggerita anche per tutti quei profili caratterizzati da altre tipologie di ‘fragilità’, al di là dei disturbi specifici dell’apprendimento, che rientrano nella categoria dei ‘Bisogni Educativi Speciali’ (BES), introdotta con la Direttiva Ministeriale del 27 Dicembre 2012 (Strumenti d’intervento per alunni con Bisogni Educativi Speciali e organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica), e successivamente specificata dalla Circolare Ministeriale n. 8 del 6 Marzo 2013 e dalle successive Note Ministeriali del 22 Novembre 2013 e del 17 Maggio 2018, secondo la quale ‘ogni alunno, con continuità o per determinati periodi, può manifestare Bisogni Educativi Speciali: o per motivi fisici, biologici, fisiologici o anche per motivi psicologici, sociali, rispetto ai quali è necessario che le scuole offrano adeguata e personalizzata risposta’.

Tale categoria comprende tre sotto-categorie, molto ampie: quella della disabilità (a sua volta tutelata dalla Legge 104/1992), quella dei disturbi evolutivi specifici (oltre ai DSA, per i quali, come sopra specificato il riferimento è la Legge 170/2010, ci si riferisce, ‘in particolare, ai disturbi con specifiche problematiche nell’area del linguaggio (disturbi specifici del linguaggio o, più in generale, presenza di bassa intelligenza verbale associata ad alta intelligenza non verbale) o, al contrario, nelle aree non verbali (come nel caso del disturbo della coordinazione motoria, della disprassia, del disturbo non-verbale o – più in generale – di bassa intelligenza non verbale associata ad alta intelligenza verbale, qualora però queste condizioni compromettano sostanzialmente la realizzazione delle potenzialità dell’alunno) o ad altre problematiche severe che possono compromettere il percorso scolastico’), passando per il Deficit di Attenzione/Iperattività (ADHD), fino alla categoria legata allo svantaggio socioeconomico, linguistico e culturale.

Questa piccola premessa ci aiuta a capire quanto è ampio il gruppo di bambini e ragazzini che, successivamente ad una valutazione psicodiagnostica degli apprendimenti e di tutti gli aspetti ad essi associati (intelligenza, funzioni esecutive, aspetti emotivi e comportamentali, autostima, motivazione…), dalla quale possono emergere profili ‘puri’ o che presentano più comorbilità, possano beneficiare di un percorso di potenziamento delle abilità risultate più in difficoltà.

Appare fondamentale la presa in carico non solo del piccolo paziente, ma il coinvolgimento attivo della famiglia e, soprattutto, della scuola (questo aspetto è ribadito e sottolineato anche nella Consensus Conference).

In periodi di ‘normalità’, tale lavoro di rete, pur non essendo sempre facile, risulta molto più semplice rispetto a questi ultimi mesi dove, pur mantenendo i contatti con la famiglia e con la scuola, telefonicamente e/o secondo qualche modalità ‘online’, il percorso di riabilitazione, solitamente erogato a livello ambulatoriale in associazione ad attività di consolidamento svolte a domicilio (gli homework tanto cari al nostro approccio CBT quanto efficaci) necessariamente è stato rimodellato.

Esistono diversi software/piattaforme, ad utilizzo clinico, che ci hanno permesso, in queste settimane, di continuare i nostri interventi riabilitativi, già avviati a livello ambulatoriale, in modalità ‘online’, così da proseguire con un continuo monitoraggio a distanza. Sono strumenti che spesso già vengono utilizzati per implementare a casa quanto trattato durante la seduta ambulatoriale ma che, durante i mesi appena trascorsi, si sono rivelati ancora più utili.

Tra questi, nominiamo, la piattaforma Ridinet della cooperativa Anastasis (www.anastasis.it) che propone una serie di percorsi personalizzabili in base alla diagnosi, che si presentano sotto forma di App (con un’interfaccia semplice, intuitiva e accattivante e che fornisce continui feedback, visivi e sonori, che da una parte alimentano la riflessione metacognitiva, dall’altra sostengono il senso di autoefficacia), dove l’utente, scelto il suo ‘avatar’, lavora tramite esercizi basati su specifici modelli riabilitativi su abilità diverse (lettura, linguaggio ed espressione, scrittura, comprensione del testo, scrittura, calcolo, funzioni esecutive). Gli esercizi vengono proposti sulla base di una serie di parametri tarati dal clinico, che può effettuare un monitoraggio a distanza, e modificabili sulla base dei progressi fatti dal bambino durante l’allenamento in modo tale da adattare continuamente le richieste ed incrementare i miglioramenti.

Uno studio condotto da Tucci et. al (2015), con 34 bambini con diagnosi di Dislessia a cui è stato proposto un potenziamento sublessicale e lessicale tramite Reading Trainer (App inserita nella piattaforma Ridinet), a distanza, ma monitorato dal terapeuta, ha mostrato valori di efficacia ed efficienza del trattamento applicato tramite Reading Trainer, con ricadute significative nel processo di lettura e sulla sua automatizzazione, dato anche il confronto con i risultati di altri studi italiani precedentemente pubblicati (Allamandri et. al., 2007; Tressoldi e Vio, 2011; Tressoldi et al., 2012).

Un ulteriore studio di Pecini et al., del 2019, che ha utilizzato alcune App della piattaforma Ridinet, ha dimostrato l’efficacia di percorsi di potenziamento anche attraverso l’utilizzo di altre app della piattaforma Ridinet (in questo caso Run The RaN).

Anastasis offre, inoltre, un’ampia gamma di strumenti che possono essere utilizzati sia a livello scolastico che domiciliare (es. sintesi vocale, programmi per costruire mappe, quaderni digitali…) usufruibili da famiglie ed insegnanti.

Un ulteriore strumento utilizzabile per la teleriabilitazione è la piattaforma Epro (Potenziamento e Riabilitazione Online) proposta dal Centro Studi Erickson, per la riabilitazione in studio e a distanza dei bambini con difficoltà di apprendimento, o con una diagnosi di Disturbo Specifico dell’Apprendimento, che permette di lavorare sulle abilità linguistiche, di lettura, scrittura, calcolo e comprensione (a partire dai prerequisiti). La piattaforma si configura come un sistema multimediale, modulabile ed innovativo che permette al clinico di pianificare, monitorare e adattare costantemente il programma riabilitativo attraverso la predisposizione di materiali appositamente studiati sulla base delle caratteristiche del bambino.

Grazie ad Epro si dispone di tre modelli di riabilitazione (ambulatoriale, integrata e a distanza) (Franceschi, 2013).

Anche il Centro Studi Erickson offre un ampio catalogo di strumenti e servizi che possono essere utilizzati sia a livello di supporto clinico che didattico.

Esistono molti altri strumenti che possono aiutare il potenziamento a distanza, a livello telematico, nati anche sulla base degli studi di efficacia proposti nel panorama italiano.

Questo ci porta a valutare pro e contro di questa modalità di potenziamento.

Tra i vantaggi possiamo considerare la possibilità di continuare ad erogare un percorso di potenziamento, nonostante la situazione di emergenza sanitaria, comunque basato su modelli di efficacia. Il professionista può gestire e monitorare, attraverso un feedback immediato, l’andamento del percorso di intervento e personalizzare le attività proposte. I bambini, a loro volta, possono continuare con il loro percorso di potenziamento da casa, attraverso l’utilizzo del PC, strumento che aiuta l’apprendimento e permette anche di divertirsi (in questo caso consideriamo l’interfaccia dei vari software, creata appositamente per essere accattivante e divertente).

Tra gli svantaggi, dobbiamo considerare come la teleriabilitazione a distanza possa inficiare il rapporto terapeutico, vis a vis, terapeuta-bambino, piuttosto che il confronto diretto da parte del clinico con la famiglia (che può comunque essere gestito telefonicamente, come tutti gli eventuali contatti con gli insegnanti).

Un altro aspetto di svantaggio può essere individuato nell’adeguatezza delle tecnologie a disposizione (Wi-fi o accesso ad internet, la presenza di un solo PC, magari utilizzato per lavoro dai famigliari, ecc), e delle risorse della famiglia anche a livello economico (considerando come alcuni supporti potrebbero essere a pagamento). Bisogna considerare, inoltre, le indicazioni date dall’OMS sulla fruizione degli schermi da parte dei bambini: sotto i 5 anni non deve superare i 60 minuti al giorno, mentre per i bambini dai 6 agli 11 anni il tempo totale di utilizzo di questi device aumenta a due ore.

La riabilitazione online è stata supportata anche dall’uso di tantissime piattaforme che hanno permesso a clinico e bambino di potersi ‘guardare’ negli occhi, dando una lieve parvenza di normalità ai contatti di questi ultimi mesi.

Queste piattaforme sono le stesse che sono state utilizzate dalle scuole per attivare la DAD, ‘Didattica a Distanza’, argomento su cui genitori, insegnanti, psicologi, ministri, hanno discusso molto; si è parlato dei vantaggi e degli svantaggi, delle varie e diverse modalità con cui le attività sono state proposte, dell’impegno richiesto agli insegnanti e ai ragazzi, del numero di ore trascorse davanti allo schermo del pc e così via…

Per quanto ci riguarda, per comprendere meglio il fenomeno della DAD, e le sue conseguenze, anche a livello sociale, abbiamo pensato di parlare con i diretti interessati, chiedendo a uno dei nostri ragazzi più grandi di rispondere ad alcune domande, per comprendere meglio il punto di vista degli studenti in questo delicato periodo di didattica a distanza. Di seguito troverete le risposte date da S., studente con diagnosi di Discalculia, frequentante la II classe della Scuola Secondaria di Secondo Grado. L’intervista, inoltre, è stata proposta a L., un bambino di 9 anni, frequentante la quarta classe della scuola Primaria con diagnosi di ADHD.

In questo modo, abbiamo voluto andare oltre il parere degli ‘esperti’ e dare voce a chi, questa nuova modalità di apprendimento (ma anche di relazione), l’ha vissuta, gestita e utilizzata.

 

APPENDICE: LE INTERVISTE AI BAMBINI – CLICCA QUI.

 

 

Sta squillando oppure no? Le false percezioni della sindrome da vibrazione fantasma

La sindrome da vibrazione fantasma o la sindrome da squillo fantasma: cos’è? Come nella sindrome dell’arto fantasma, anche gli smartphone possono causare sensazioni e percezioni inesistenti, come squilli o vibrazioni. Fenomeno ancora poco studiato che può portare a diversi sintomi.

PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr. 16) Sta squillando oppure no? Le false percezioni della sindrome da vibrazione fantasma

 

Da quando nel 1973 fu lanciato dalla Motorola il primo telefonino, la tecnologia ha fatto passi da gigante facendo evolvere i servizi del cellulare da ricevitore/trasmettitore di chiamate fino a farlo diventare lo smartphone che oggi conosciamo e che ha in sé opportunità di utilizzo innumerevoli. E’ uno strumento che ci accompagna tutto il giorno tutti i giorni perché non è più solo una commodity ma mezzo di intrattenimento, socializzazione, gioco, lavoro. Riteniamo impensabile stare senza anche solo per poche ore. Inevitabile che, come tutte le tecnologie, influenzi vita e comportamento in diversi modi e crei nuovi desideri, bisogni, domande, interrogativi.

Che cos’è la sindrome da vibrazione fantasma

La sindrome da vibrazione fantasma (phantom vibration syndrome, PVS) o la sindrome dello squillo fantasma (phantom ringing syndrome, PRS) è la percezione che il telefono stia vibrando o suonando in assenza di un reale stimolo. Altri termini rappresentano questi fenomeni: vibranxiety (da vibration e anxiety), ringxiety (da ring e anxiety), fauxcellarm (da faux e cellphone and alarm) e phonetom (da phone e phantom).

Analogamente alla sindrome dell’arto fantasma in cui si hanno vivide percezioni da arti rimossi o amputati, allo stesso modo in queste sindromi si ha la falsa sensazione che il telefono vibri o suoni, a tutti gli effetti al pari di una allucinazione.

Pur non essendo incluse in nessun manuale diagnostico, compresi ICD-10 e DSM-5, né prese in considerazione da organizzazioni internazionali come l’American Psychiatric Associazione (APA), alcuni autori se ne sono interessati e ne hanno descritto i sintomi: ansia, allucinazioni, sintomi depressivi, sintomi cognitivi (deficit di attenzione, ipervigilanza), disturbi dell’umore.

La prima comparsa del termine si deve al fumettista Scott Adams nel 1996: nella sua striscia di “Dilbert” uno dei personaggi parla di “phantom pager syndrome” (sindrome del cercapersone fantasma).

Alcuni anni dopo, siamo nel 2003, l’editorialista del New Pittsburgh Courier, Robert D. Jones, pubblica un articolo sulla “sindrome da vibrazione fantasma” riferendosi proprio ad immaginarie vibrazioni o suoni. Primi studi scientifici risalgono a una decina di anni fa e da allora la ricerca ha progredito poco, sebbene alcuni autori se ne siano occupati.

Fattori di rischio

In clinica tra i fattori predisponenti l’insorgere di un sintomo abbiamo la rigidità e la pervasività dell’adozione di determinati pensieri o comportamenti. Ed è proprio la frequenza di utilizzo degli smartphone uno dei fattori di rischio, così come il posto dove lo riponiamo abitualmente (per esempio in tasca, nella borsa, ecc.) e le modalità d’uso (squillo o vibrazione). I sintomi del fantasma poi sono direttamente proporzionali al numero di ore e a quanto spesso controlliamo il telefono.

Si ipotizza che anche caratteristiche di personalità siano coinvolte: persone estroverse che hanno un marcato bisogno di connessione sociale sono più inclini a usare frequentemente il telefono per sentirsi vicini agli altri; anche chi soffre di nomofobia, la paura di rimanere disconnessi dalla rete di telefonia mobile, è, come intuibile, più suscettibile alla sindrome; la dipendenza da smartphone è un altro significativo fattore di rischio per la sindrome fantasma (Pareek, 2017; Kruger, 2017).

Alla base del meccanismo

Ci sono diverse ipotesi sull’eziologia del fenomeno (Goyal, 2015; 2019). Secondo la teoria del rilevamento del segnale, la percezione di vibrazioni o suoni inesistenti è un falso positivo, una semplice rilevazione erronea. Secondo un’altra teoria, si tratta di ricordi di precedenti esperienze generate da stimoli sensoriali simili, per esempio da indumenti o contrazioni muscolari. 
Altre teorie chiamano in causa più direttamente aspetti biochimici: secondo la teoria della stimolazione elettrica transcutanea il fenomeno potrebbe essere dovuto alla sensazione interpretata dai nervi della pelle causati da una piccolissima scarica di energia elettrica emessa dal telefono. Infine, secondo la teoria della dopamina il sistema di notifiche provoca il rilascio di dopamina rafforzando il bisogno sempre maggiore di stimoli.

Sindrome da vibrazione fantasma: come evitarla

Le poche ricerche non danno modo di avere indicazioni validate, per il momento dobbiamo accontentarci del buon senso: diminuire la dipendenza e modificare i comportamenti legati all’uso degli smartphone. Per esempio, limitare la frequenza di utilizzo, variare frequentemente le modalità di notifica, portare il cellulare in diverse posizioni, evitare la modalità di vibrazione.

Secondo i dati dello State of Mobile Internet Connectivity Report del 2020 nel 2021 almeno 3.8 miliardi di persone, pari a circa metà della popolazione mondiale, avranno uno smartphone. Difficile pensare che nei prossimi anni questi fenomeni non riceveranno sempre maggiore attenzione nella ricerca e in clinica (Pareek, 2017).

 

 


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Il lato “Medea” – Moms, una rubrica su maternità e genitorialità

Il presente articolo si propone di legittimare emozioni quali l’aggressività e la rabbia di ogni donna e madre in quanto essere umano. La consapevolezza e l’elaborazione di questi vissuti vengono suggeriti come via alternativa alla dannosa negazione. 

Moms – (Nr.5) Il lato “Medea”

 

Una madre può avere un lato da Medea? Il quinto episodio di Workin’ Moms sembra rispondere di sì. Durante la riunione del gruppo post-partum Jenny Matthews, una delle partecipanti, comunica alle altre la difficoltà di connettersi emotivamente con sua figlia. Così per supportarla la protagonista Kate Foster replica sinceramente: “Charlie lo amo da morire, è il mio bambino, ma a volte vorrei essere nello show Svaniti nel nulla. Hai presente? Tirarlo fuori dal seggiolino e poi tornare a casa e pensare: ‘So di essere andata a fare la spesa, ma dov’è mio figlio?’ E poi sono libera…”.

Molte donne si sentono in colpa quando provano dei moti di rabbia e aggressività nei confronti dei propri figli. Eppure, pur se nelle parole di Kate non viene ammesso esplicitamente, la rabbia e l’aggressività sono due parti di ogni essere umano strettamente correlate e poiché ogni madre è una donna, e dunque un essere umano, è presente anche in lei.

Euripide ha incarnato in Medea, nell’omonima tragedia, la madre apparentemente più perfida del creato che uccide i figli come rivalsa sul marito, di cui non sentiva ricambiato l’amore. Dal punto di vista intrapsichico è possibile vedere gli eventi sotto un’altra prospettiva. Sembra che l’azione della donna non fosse un atto di pura cattiveria, ma il prodotto di un accumulo di rabbia e aggressività, trasformatesi in un atto violento perché non accettabili e dunque impossibili da portare alla coscienza.

Da tempo vi è una tendenza a fare erroneamente una sovrapposizione tra rabbia, aggressività e violenza, ma sono tre concetti differenti.

La rabbia e l’aggressività sono due componenti innate tanto nell’uomo quanto nella donna, che presentano l’utilità di proteggere se stessi e coloro che si ama. I grandi predatori un tempo non venivano sconfitti dagli uomini primitivi solo con l’astuzia, ma anche con un tocco di sana aggressività. Queste due emozioni sono strettamente correlate tra loro, ma possono avere differenti funzioni ed entrambe non equivalgono alla violenza. La trasformazione in atto violento avviene attraverso due passaggi: la negazione di quello che si prova e la conseguente impossibilità di elaborazione.

Negare emozioni come rabbia e aggressività presume un giudizio rispetto ad esse, dunque vederle aprioristicamente come qualcosa di dannoso, che non può essere neanche portato alla coscienza. Individuare la causa di un eventuale moto aggressivo è il primo passo per poter elaborare il vissuto ed evitare che scada nella violenza.

Nel momento in cui si può portare alla consapevolezza e rendere esprimibili a parole sentimenti meno piacevoli nei confronti del proprio figlio e delle persone che influiscono indirettamente o direttamente nel rapporto con lui, il senso di colpa, che acuisce la violenza, non avrebbe modo di esistere. La rabbia e l’aggressività se pensate e legittimate possono essere elaborate. In questo modo non verranno agite o fuggite e verranno meno anche le possibili conseguenze dannose per la madre, per il bambino e per la loro relazione.

 

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