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Maladaptive daydreaming: essere prigionieri dei propri sogni ad occhi aperti

Fantasticare è una normale attività della mente, che assume solitamente carattere necessario e stimolante per l’uomo nella vita di tutti i giorni, ma non è così nel caso del Maladaptive Daydreaming (MD), che finisce col diventare una condizione profondamente invalidante.

 

Eli Somer ha individuato e definito per la prima volta questo disturbo nel 2002; la traduzione letterale è proprio ‘sognare ad occhi aperti disadattivo’ ed è definito come ‘un’estesa attività della fantasia che sostituisce l’interazione umana e/o interferisce con il funzionamento scolastico, interpersonale  o professionale‘ (p. 197, trad. dell’autore).

Tale definizione si distacca completamente dal semplice concetto di fantasticare, diventando una condizione grave proprio in considerazione del tempo speso, dei contenuti e della mancanza di controllo delle fantasie e dell’esperienza stessa, traducendosi dunque in una condizione di sofferenza che interferisce con il naturale e corretto funzionamento quotidiano (Gervasi et al, 2019).

Questa condizione è più sviluppata di quanto si possa pensare. Infatti, attualmente esistono centinaia di pagine, siti web, blog personali e testimonianze su canali youtube in cui individui provenienti da tutto il mondo condividono le proprie esperienze e angosce, riguardo la presenza di questi sintomi e dell’enorme mole di tempo legata proprio alla creazione di vividi e strutturati sogni ad occhi aperti. Questi individui si definiscono ‘Maladaptivedaydreamers’ (MDers) ed espongono anche tutta una serie di comportamenti ripetitivi e rituali, associati a questa condizione, come il camminare avanti e indietro, comportamenti che si traducono appunto in ulteriore tempo sottratto alle normali faccende quotidiane. Questi individui tuttavia trovano in questi gruppi e/o comunque punti di raccolta di informazioni, degli strumenti fondamentali per confrontarsi, in quanto prima di scoprire questi siti credevano di essere i soli a soffrire di questo insolito comportamento (Somer, Somer e Jopp, 2016a).

Inoltre si dimostrano molto sorpresi e sollevati per il fatto di scoprire di non essere gli unici ad avere tali abitudini e comportamenti, unitamente alla presenza di informazioni su tali siti e il fatto che gli venga fornita la definizione di Maladaptive Daydreaming. Questo gli permette di interagire con gli altri MDers, chiedendo consigli su come smettere o a loro volta dandoli (Gervasi et al, 2019).

Molti MDers affermano di aver cercato in precedenza una cura o un aiuto dai professionisti della salute mentale ma da alcuni di questi il loro MD era stato minimizzato, etichettato come clinicamente insignificante oppure mal diagnosticato e attribuito a qualche altro disturbo (Somer, Somer, &Jopp, 2016b).

In cosa consiste?

Il Maladaptive Daydreaming porta il soggetto a creare fantasie strutturate e complesse che prevedono una vera e propria trama e dei personaggi, proprio come in un film; ad innescare tali processi creativi sono dei veri e propri rituali, come uno specifico suono, la musica o la tv, ovvero i cosiddetti triggers mentre ad accompagnarle è la cosiddetta attività cinestetica, che comprende il passeggiare avanti e indietro o la messa in atto di vere e proprie espressioni facciali connessi alle emozioni sperimentate durante le fantasia come la felicità o la tristezza (Gervasi et al, 2019).

Il Maladaptive Daydreaming può essere concepito sia come una forma di dissociazione dalla realtà circostante, in quanto ci si immerge in una realtà illusoria (Somer et al., 2016a) attraverso una disconnessione dagli stimoli reali (Ross, Joshi, &Currie, 1990,1991) sia una forma di dipendenza in quanto l’individuo non può più fare a meno dei propri sogni ad occhi aperti ( ollander, 1993).

A differenza dei sogni notturni (Freud, 1899, Rizzuto, 1991), che hanno a che vedere con il meccanismo di difesa della rimozione, avendo come scopo quello di soddisfare un desiderio infantile represso, la finalità delle fantasie è quella di ridurre dei sentimenti di vergogna patologica, e hanno a che vedere con il meccanismo della dissociazione (Winnicott, 1990).

Il ruolo della vergogna

Un ruolo fondamentale nella generazione di queste fantasie potrebbe ricoprirlo la presenza di traumi pregressi (Somer,2002), per cui il soggetto potrebbe immergersi in questa realtà alternativa illusoria, proprio per sottrarsi al sopravvento delle emozioni negative associate al riemergere di questi traumi, finendo però col restare intrappolati in queste fantasie (Bigelsen et al, 2016). La vergogna associata a queste emozioni traumatiche spinge con forza l’individuo a rifugiarsi nel suo mondo immaginario (Gabbard, 2007), e l’attività cinestetica assume una valenza fondamentale proprio per allontanarsi da tutti e non essere scoperti (Bigelsen&Schupack, 2011).

Ad avallare il fatto che la vergogna e il distacco possano giocare un ruolo fondamentale è stato anche lo studio condotto da Schimmenti e collaboratori del 2019, effettuato su un gruppo di 135 MDers confrontati con un gruppo di controllo. Dai risultati di questo studio si evince che molto spesso nel Maladaptive Daydreaming non solo siano presenti disturbi dissociativi, ma anche altri percorsi e sintomi patologici di varia natura fino a disturbi di personalità disadattivi e sentimenti di vergogna. Proprio partendo da queste evidenze, gli autori hanno ipotizzato diverse teorie: innanzitutto che il bisogno di percepire la grandiosità del proprio sé sia soddisfatto proprio da tali fantasie, e che quindi l’individuo che attua questo distacco dalla realtà e dalle relazioni reali, possa provare piacere solo immergendosi in questi mondi di fantasia o che la loro presenza disadattiva potrebbe essere associata ad una vulnerabilità narcisistica. Quindi il Maladaptive Daydreaming potrebbe addirittura essere un mezzo efficace che porta l’individuo a dedicarsi con maggiore sicurezza alle attività della vita quotidiana, proprio perché riesce ad allontanarsi e distrarsi da questi sentimenti di vergogna. E inoltre è stato anche ipotizzato che tali sentimenti di vergogna esperiti dal soggetto potrebbero essere proprio considerati come una conseguenza del Maladaptive Daydreaming (Gervasi et al, 2019).

Il confine tra normalità e patologia

Riguardo alle caratteristiche che differenziano il daydreaming adattivo da quello patologico, in primis vi potrebbe essere proprio l’interpretazione che il soggetto stesso dà del proprio fantasticare. Infatti, i soggetti che ricorrono alla fantasia in maniera adattiva, la utilizzano nel migliore dei modi, tanto da incrementare i sentimenti positivi su se stessi e figurarla come una vera e propria risorsa, mentre i MDers, interpretano tale attività solo come un’evidente prova della loro vergogna, debolezza ed inadeguatezza (Somer,2002).

Dagli studi di Bigelsen e Schupak (2011) su individui che soffrono di Maladaptive Daydreaming, in relazione all’interferenza con il funzionamento quotidiano e la quantità, vengono riportate medie del tempo speso a fantasticare che vanno da 1 fino a 10 ore.

Si evidenzia la differenza tra le attività mentali di rievocazione considerate normali (come il pensare a eventi passati o immaginare i futuri), dove i soggetti tornano alle loro attività e alla realtà senza alcuno sforzo, e le fantasie che invece generano una vera e propria sofferenza, impedendo un’adeguata concentrazione e sottraendoli al ritorno alla realtà concreta (Gervasi et al,2019).

Altro elemento chiave è la difficoltà di limitare il daydreaming: la generazione di tali sogni ad occhi aperti avviene in maniera consapevole e senza particolare sforzo da parte dell’individuo ma ciò che non riesce a controllare è proprio l’impulso a creare tali fantasie (Bigelsen&Schupak, 2011).

Anche se l’individuo che ne soffre continua ad avere la capacità di sottrarsi a queste fantasie quando richiesto dal mondo esterno e in presenza di relazioni reali esterne, tuttavia talvolta la possibilità di limitare il daydreaming sembra non avere successo e comunque anche quando viene interrotto permane nell’individuo un irrefrenabile impulso di tornare al mondo generato dalla propria fantasia (Bigelsen et al, 2016).

Nel daydreaming, il soggetto possiede straordinarie qualità e soprattutto l’approvazione degli altri personaggi, cosa che non avviene nel mondo reale, diventando così una realtà alternativa ben più stimolante di quella circostante (ibidem).

L’ultima differenza significativa può essere assunta dalla presenza nel MD dell’attività cinestetica, (Bigelsen et al, 2016). Differentemente dal daydreaming normativo, i soggetti affetti da tale disturbo riescono ad immergersi quasi completamente nelle loro fantasie, tanto da esperire stimoli uditivi, visivi o sensoriali sempre più forti e coinvolgenti (Bigelsen et al, 2016).

 

 

La gestione delle problematiche alimentari: “Il rapporto con il cibo durante le festività: come regolare abbuffate e restrizioni” – Report e video dell’evento tenuto dal CIPda Milano

Si propongono il report ed il video del webinar organizzato dal CIPda Milano il 19 dicembre 2020 incentrato sui Disturbi Alimentari e le festività, dal titolo Il rapporto con il cibo durante le festività: come regolare abbuffate e restrizioni.

 

Report del webinar mensile tenuto dall’équipe multidisciplinare del Centro Disturbi dell’Alimentazione di Milano (CIPda): un ciclo d’incontri finalizzato alla gestione delle problematiche alimentari, indirizzato alla popolazione generale e nato per garantire supporto a chi si interfaccia con individui con Disturbi Alimentari, o più in generale, con chi mostra criticità verso l’alimentazione e la forma fisica.

L’impostazione dell’incontro si è articolata in 2 momenti: il primo dando voce ai quattro differenti specialisti dell’équipe multidisciplinare del CIPda; il secondo dando spazio al pubblico, tramite domande libere scritte in chat.

Il primo momento è iniziato con una breve introduzione della Dott.ssa Rosaria Nocita (direttrice operativa), che ha introdotto i quattro specialisti e stimolato il loro intervento, tripartito nelle principali sotto-categorie diagnostiche del disturbo alimentare: anoressia nervosa (AN), bulimia nervosa (BN) e disturbo da alimentazione incontrollata (DAI).

Indicazioni su come agire con pazienti con anoressia nervosa

Prende la parola il Dott. Schiena (psichiatra), il quale ribadisce l’importanza di non sottovalutare e sminuire mai un disturbo psichico invalidante come l’anoressia nervosa, specialmente in un contesto di abbondanza alimentare come quello dei pasti natalizi, in quanto, per questa categoria di pazienti, la perdita di peso costituisce un obiettivo prioritario e costante. Lo specialista sottolinea che le festività si configurano come un momento critico non solo per la sovrabbondanza di cibo, ma anche per possibili commenti inopportuni da parte dei commensali sull’alimentazione e sulla forma fisica del paziente (es: ‘Ti vedo molto sciupata, mangia come si deve! L’anno scorso eri un po’ in carne, sei dimagrita, ti vedo bene!’). Per limitare il rischio di questi scenari, lo psichiatra invita a cercare di non invitare amici o parenti che non si incontrano da molto tempo, favorendo, invece, intime riunioni con persone che prima dell’incontro vengano informate dai genitori della problematica del proprio figlio/a, senza fingere che il disturbo sia inesistente o irrilevante.

Lo psichiatra ha concluso il suo intervento proponendo un vademecum riassuntivo, articolato nei seguenti punti:

  • Ridurre il più possibile la numerosità dei commensali
  • Avvisare tempestivamente i commensali della problematica alimentare della persona
  • Ridurre al minimo le portate e la presenza di cibo in vista sulla tavola
  • Non indurre il paziente a forzare l’alimentazione
  • Accettare che potrebbero presentarsi momenti di difficoltà, nonostante vengano rispettate pedissequamente tutte le indicazioni
  • Proporre attività distraenti post-pasto (es: gli iconici giochi da tavolo)

Indicazioni utili per pazienti che soffrono di bulimia nervosa

L’incontro è proseguito con l’intervento della Dott.ssa Tramontano (psicologa-psicoterapeuta), la quale spiega quanto il periodo delle feste natalizie possa acuire il circolo restrizione-abbuffata: il nucleo psicopatologico iatrogeno che sostiene la sintomatologia dei pazienti con bulimia nervosa.

La Dott.ssa ha presentato una lista di accortezze da seguire con questa sotto-categoria di problema alimentare:

  • Cercare di non tenere troppo cibo in casa, evitando di mettere in vista le scorte, in quanto potrebbero assumere la valenza di stimolo trigger, elicitando il meccanismo restrizione-abbuffata
  • Comunicare al paziente il menù del pasto con dovuto anticipo
  • Sviluppare strategie per far sentire il paziente il meno stigmatizzato possibile
  • Evitare che i piatti di portata permangano sulla tavola

La psicoterapeuta ribadisce quanto, tendenzialmente, il momento più critico per questi individui sia quello post-pasto, in quanto spesso subentra la tendenza a rimuginare sul grado di controllo alimentare attuato, sulla percezione che sia stato allentato il grado controllo sull’alimentazione, a focalizzarsi eccessivamente sulle sensazioni interne di pienezza e gonfiore.

A tal proposito, risulta opportuno proporre attività distraenti che distolgano l’attenzione dai temi dell’alimentazione e della forma fisica: in questo contesto i famigliari potrebbero diventare una risorsa funzionale e significativa per il paziente.

Raccomandazioni per chi soffre di disturbo da alimentazione incontrollata

Al termine dei due interventi, segue quello della Dott.ssa Ranzini (psicologa-psicoterapeuta). Quest’ultima ribadisce che, a tratti, le raccomandazioni da seguire con questa sotto-categoria diagnostica si sovrappongono a quelle precedentemente esposte per AN e BN.

La Dott.ssa ha fornito le seguenti indicazioni per i momenti pre e post-pasto:

  • Pre-pasto:
    Lasciare aperta la possibilità di rifiutare certi inviti (importanza della libertà di scelta)
  • Attuare una pianificazione in anticipo, senza attenersi a regole estremamente rigide
  • Aumentare la consapevolezza su ciò che si sta mangiando (tecnica dell’alimentazione consapevole): ingerire piccoli bocconi di cibo, masticare lentamente e focalizzarsi sul gusto degli alimenti, in quanto l’aumento della consapevolezza alimentare è determinante nel ridurre la sensazione di perdita di controllo.

Post-pasto:

  • Proporre attività distraenti, preferibilmente cambiando stanza
  • Diminuire la quantità di cibo disponibile e mettere in tavola unicamente le porzioni che verranno servite

Accorgimenti dal punto di vista nutrizionale, per evitare perdite di controllo alimentare

L’incontro è proseguito con un contributo della dietista della clinica: la Dott.ssa Ramponi, la quale ha ribadito l’importanza di attuare dei piccoli accorgimenti, che possono, però, assumere una rilevanza nucleare nella riduzione del carico ansiogeno di questi pazienti durante le feste natalizie:

  • Procedere per piccoli passi pianificando il pasto e inserendo nella pianificazione alimenti gestibili senza particolari difficoltà
  • Non affidarsi eccessivamente agli stimoli interni: l’invito è di rivolgere l’attenzione sulle conversazioni e non sulle sensazioni di pienezza e gonfiore
  • Cercare di evitare restrizioni alimentari nei giorni precedenti e seguenti alle feste
  • Potrebbe essere utile condividere il cibo che avanza con gli altri commensali, senza però sentirsi obbligati ad accettare
  • Cercare di trovare metodi di scambio dei regali alternativi a doni che contemplino la centralità del cibo e impegnarsi in attività distraenti alternative a quelle che coinvolgono il cibo (es. andare a visitare una città, al museo o al cinema: proposte purtroppo inattuabili in questo momento storico, che possono essere, però, sostituite dalla modalità virtuale)

Infine il pubblico è stato informato di seguire le video-risposte sulla pagina Facebook del CIPda, spazio in cui i curanti risponderanno a tutte le domande restanti emerse dalla chat dell’incontro. Il webinar si è concluso con un augurio di buone feste da parte di tutta l’équipe.

 

IL RAPPORTO CON IL CIBO DURANTE LE FESTIVITA’ – Guarda il video integrale del webinar:

 

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Il fenomeno dei phantom phone signals

Il fenomeno denominato Phantom Phone Signals (Segnali Telefonici Fantasma) consiste nella percezione errata di un segnale telefonico, ad esempio una chiamata in arrivo, un messaggio o una notifica, senza che questo si stia realmente verificando.

 

Lo smartphone è uno degli strumenti tecnologici a cui l’uomo del ventunesimo secolo dedica la maggior parte del suo tempo che sia per lavoro o per intrattenimento. Ciò ha prodotto un grande cambiamento nella vita quotidiana delle persone oltre che l’insorgere di fenomeni psicologici nuovi, presto diventati oggetto di interesse di ricercatori e studiosi.

Tra questi si inserisce il fenomeno denominato Phantom Phone Signals o, in italiano, Segnali Telefonici Fantasma (Tanis, 2015). Esso consiste nella percezione errata di un segnale telefonico (ad esempio una chiamata in arrivo, un messaggio o una notifica) senza che questo si stia realmente verificando (Tanis et al., 2015). In altre parole, si potrebbe definire come quella allucinazione per cui si avverte il telefono squillare o vibrare.

Il primo studio in questo ambito risale al 2007, quando David Laramie, nella sua tesi di dottorato sugli aspetti emotivi e comportamentali connessi all’uso del cellulare, verificò che circa due terzi dei soggetti coinvolti nello studio avevano sperimentato questo fenomeno. Laramie coniò così il termine “Ringxiety”, dall’unione delle rispettive parole inglesi (ring, anxiety). Il suo studio venne poi pubblicato e i dati emersi iniziarono ad essere discussi in ambito scientifico fino a generare un movimento di ricerca. Uno degli autori che si è interessato maggiormente al tema è Tanis (2015), il quale ha proposto una definizione nuova e più generale del fenomeno, appunto, quella dei Segnali Telefonici Fantasma (Phantom Phone Signals) che possono manifestarsi o nella forma di “Phantom Vibration” (falsa percezione di una vibrazione del telefono) o di “Phantom Ringing” (falsa percezione della suoneria del telefono).

Sin dalle prime ricerche, è stata riscontrata un’ampia prevalenza del fenomeno nella popolazione con una percentuale che varia tra il  27.4% al 89% (Kruger & Djerf, 2016). Lo studio di Tanis (2015), in particolare, dimostrò che l’82% dei soggetti del suo campione aveva sperimentato almeno una volta una delle tipologie di Segnali Telefonici Fantasma e di questi circa il 50% dichiarava che ciò accadesse con la frequenza di almeno una volta a settimana. Successivamente, Kruger (2016) rilevò che la falsa percezione di una vibrazione fosse l’esperienza più comune nei soggetti (82%), mentre la meno condivisa fosse quella relativa alla falsa percezione della suoneria del telefono (45%).

Gli studi sulla diffusione del fenomeno sono stati accompagnati da alcune ipotesi interpretative relative ai possibili meccanismi sottostanti e da ulteriori ricerche sulle potenziali variabili associate. Rothberg (2010), in particolare, descrisse il fenomeno delle vibrazioni fantasma come un’allucinazione sensoriale per cui il cervello è portato ad interpretare erroneamente un input sensoriale (proveniente dal telefono) o percepisce una sensazione che non è reale. Ciò, secondo l’autore, potrebbe avere luogo nella corteccia cerebrale che, applicando filtri o schemi conosciuti in base a ciò che si aspetta di recepire, compirebbe interpretazioni errate dei segnali sensoriali in entrata (come contrazioni muscolari, pressione dai vestiti, rumore ambientale). Secondo Rothberg e colleghi (2010), inoltre, sebbene la presenza di allucinazioni potrebbe far pensare ad un assetto psicopatologico, in realtà si potrebbe trattare di una conseguenza della plasticità cerebrale, con un potenziale valore adattivo. Gli studi sui possibili predittori dei Phantom Phone Signals hanno individuato e poi analizzato alcuni fattori tra i quali fattori demografici, di personalità, tratti di ansia e depressione e altri correlati all’uso stesso dei telefoni cellulari. Dagli studi sono stati riscontrati numerosi dati significativi. In particolare, è emerso come l’intensità d’uso del telefono sia un importante predittore del fenomeno (Rothberg et al., 2010, Subba et al., 2013). Questo risultato contribuisce a delineare le caratteristiche di un fenomeno nuovo ed altamente diffuso nella popolazione. Tuttavia, data la sua recente scoperta, risulta ancora parzialmente sconosciuto ai ricercatori ed indubbiamente necessita di ulteriori approfondimenti.

 


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Contatto, profumo di tenerezza – Rubrica Psico-canzoni

Il presente articolo, riflettendo sull’ultimo brano dei Negramaro “Contatto”, mette in luce il bisogno di contatto fisico appartenente, come a tutti i mammiferi, anche all’essere umano.

Psico-canzoni – (Nr.5) Contatto

 

Contatto dei Negramaro è la descrizione di come nell’essenzialità l’essere umano possa trovare la strada per essere felice. Il consumismo attuale trae erroneamente nell’inganno che possedere qualcosa abbia il potere di colmare il vuoto che ci portiamo dentro. Questo tipo di vuoto però è sinonimo di solitudine.

In un mondo dove illusoriamente le relazioni vengono coltivate attraverso lo smartphone e negli ultimi tempi le emozioni si mimetizzano dietro ad una mascherina, Giuliano Sangiorgi e il suo gruppo propongono un brano che punta il faro sul reale bisogno dell’essere umano: il contatto con le persone amate.

Negli anni ’50 lo psicologo statunitense Harry Harlow, docente all’Università del Wisconsin, avviò uno studio sull’attaccamento e l’affettività. Egli trattenne delle scimmie Rhesus in una gabbia con due finte mamme: una metallica rappresentata da un impianto di fil di ferro a cui era associata la tettarella di un biberon, l’altra morbida e calda, che però non apportava alcuna forma di nutrimento.

Le scimmie preferivano la mamma morbida e calda, pur se da essa non potevano sostentarsi. La conclusione dello studio fu che il bisogno di contatto fisico nei mammiferi ha un peso maggiore rispetto a quello di cibo.

Circa 70 anni dopo questi studi, il brano dei Negramaro, uscito il 9 Ottobre 2020 ed edito dall’etichetta Sugar, cita

ho cercato il contatto per sfiorarti ogni tanto, per capire che in fondo nel mondo non sono così solo.

Giuliano Sangiorgi sembra dare voce alla scimmietta che sceglieva la mamma morbida a quella “nutriente”. La stessa voce spesso rimbomba nel nostro corpo, ma non le diamo ascolto.

Ognuno di noi nel momento in cui ha bisogno dell’abbraccio, della carezza, del bacio o di qualunque altra sensazione tattile simile, dipende da un altro essere umano. Sentimenti come la rabbia, la paura, l’invidia spesso sono correlati non tanto all’impossibilità di avere tale contatto quanto alla difficoltà di ammetterne il bisogno e di arrendersi dunque alla dipendenza nei confronti delle persone che si ama.

Sì la vita che volevo è tutta qui, gli amici che sognavo proprio così, fatti di carne ed ossa e di un bel film

riprende a cantare più avanti Sangiorgi, mostrando come nella semplicità della vicinanza e della tenerezza si possa trovare il soddisfacimento delle proprie necessità. La “mamma morbida” di Harlow nella cultura attuale sembra essere sostituibile con macchine, alcool, droga, sigarette, beni di lusso. Quante volte, invece, delle persone possono rappresentare tutto ciò che ci occorre, perché nel loro abbraccio troviamo la “casa” di cui abbiamo bisogno?

La caducità dei beni materiali aiuta per brevi momenti a riempire il vuoto che stagna nel nostro stomaco, ma l’unica via per colmarlo davvero è arrendersi al bisogno di contatto con l’altro. Dentro di noi infatti resta sempre il bambino che ha bisogno delle coccole materne, ma che talvolta ha difficoltà ad ammetterlo a se stesso. E in ogni tipo di affetto possiamo darci l’opportunità di sperimentare nuovamente quella tenerezza che profuma di casa. Del resto come diceva il poeta John Donne:

Nessun uomo è un’isola.

 

CONTATTO – Guarda il video del brano:

 

Dispercezioni ed esperienze allucinatorie tra i corridori ad alta quota: uno studio Italiano

La combinazione tra altitudine, stress estremo, affaticamento, deprivazione prolungata del sonno e uso di psicostimolanti in quantità elevate funge da fattore di rischio per fenomeni allucinatori e dispercezioni.

 

L’esposizione dell’essere umano ad elevati livelli di altitudine, può influenzare aspetti psichici e neuro-comportamentali; provocando talvolta fenomeni di dispercezione sensoriale (Alonso et al., 2004; Bolmont et al., 2000; Dong et al., 2013; Fagenholz et al., 2007). Molti atleti, che praticano attività a media ed alta quota, manifestano sovente disturbi somatici legati alle difficoltà di adattamento e alla ridotta pressione parziale dell’ossigeno nell’atmosfera, accompagnati da un incremento dei livelli di ansia (Cheng, 2010; Huber et al., 2014; Sracic et al., 2014). Tra i sintomi insoliti, possono sperimentare ritardi nella risposta a compiti cognitivi, allucinazioni visive (Hurdiel et al., 2015) o sensazioni di galleggiamento non associate ad alcun deficit neurologico o psichiatrico (Dietz & McKiel, 2000).

Lo studio di Carbone et al. (2020), ha indagato le conseguenze neuro-comportamentali e psichiche legate all’adattamento umano in condizioni ambientali estreme, in soggetti che svolgevano attività agonistica in montagna. Gli ultra-trail runners praticano uno sport che combina corsa ed escursionismo in forte pendenza, compiendo gare in condizioni psico-fisiche caratterizzate da deprivazione del sonno e stress (Millet et al., 2011; Saugy et al., 2013).

Gli autori, durante le interviste hanno riscontrato un elevato tasso di esperienze allucinatorie temporanee riportate dai 21 atleti, perfino tra coloro che gareggiavano ad altitudini relativamente basse.

La maggioranza dei soggetti che riportavano anomalie percettive, avevano rielaborato in modo fantasioso aspetti come nuvole, rocce, cespugli o alberi; interpretandoli come bestie fantastiche (draghi, goblin o gremlis). Queste illusioni, responsabili di forte disagio emotivo, sono state considerate fenomeni para-fisiologici legati alle condizioni avverse (Smailes et al., 2020).

Un soggetto ha riportato allucinazioni visive più elaborate, ovvero l’apparizione dei suoi familiari durante la corsa per sostenerlo nella fatica, che lo hanno accompagnato per diversi chilometri. Mentre un altro atleta ha riportato la percezione vivida della presenza di un compagno che lo ha aiutato e incoraggiato a concludere la gara, un altro ha sperimentato la sensazione di fluttuare.

Le percezioni illusorie del campione, sono coerenti con quelle riportate nella letteratura clinica e alpina (Dinges et al., 1994; Goel et al., 2013; Lucas et al., 2009); mentre la maggioranza riportava dispercezioni visive di oggetti reali, o percezioni del tutto errate in assenza di oggetto, sono pochi coloro che hanno avuto allucinazioni complesse e fenomenologicamente simili a quelle causate da danno cerebrale o da psicosi maggiori (come disturbo bipolare e schizofrenia).

L’assenza di un disturbo medico o psichiatrico alla base delle esperienze illusorie e allucinatorie, permette di ipotizzare che l’origine dei fenomeni sia ricondotta alla peculiarità della condizione.

I partecipanti, oltre a subire lo stress legato allo sforzo fisico, facevano uso eccessivo di sostanze psicostimolanti come caffeina e teina, trovandosi in condizioni di deprivazione del sonno.

Secondo alcuni autori, la carenza di sonno, tollerato fino a 72 ore, compare come causa comune dei fenomeni allucinatori; coerentemente con il fatto che i corridori dello studio hanno iniziato a sperimentare allucinazioni visive a partire dal terzo giorno di gara (Belenky et al., 2003; Goel et al., 2013)

Sebbene non siano presenti dati più specifici a supporto del legame causale tra attività fisica intensa in contesto montuoso ed esperienze allucinatorie; emergono osservazioni cliniche che coinvolgono l’ipossiemia acuta (ridotta quantità di ossigeno disponibile nel sangue), l’ipocapnia (ridotta concentrazione di anidride carbonica nel sangue), alterazioni dell’emodinamica cerebrale e la privazione del sonno (Brugger et al., 1997; Hurdiel et al., 2015). L’esercizio fisico intenso e l’iperventilazione in ambienti ipossici, ovvero privi di ossigeno, producono ridotta concentrazione di anidride carbonica e ossigeno nel sangue con il rischio della comparsa di allucinazioni.

Probabilmente, anche aspetti secondari sono coinvolti nel processo; come disfunzioni specifiche di alcune aree del cervello conseguenti alle altitudini estreme. La corteccia temporo-parietale è responsabile delle sensazioni di caduta, delle illusioni parossistiche riferite dalla percezione di una presenza accanto, delle esperienze extracorporee, delle sensazioni di fluttuazione e distorsioni corporee (Penfield & Perot, 1963). Queste aree cerebrali sono sensibili alla riduzione di ossigeno, in quanto in condizioni ipossiche l’afflusso di sangue diviene inadeguato, compromettendo anche l’integrazione senso-moria.

In accordo con la psicopatologia classica, le dispercezioni sensoriali riportate dagli atleti dello studio, sono state raggruppate in tre diversi cluster.

Al primo gruppo appartengono coloro che hanno riportato fenomeni di alterazione dello stato di coscienza; soprattutto variazioni dell’esperienza percettiva come derealizzazione (percezione di irrealtà) e depersonalizzazione (percezione di distacco dal proprio corpo). Questi soggetti avevano in comune tratti ansiosi, soffrivano di panico e agorafobia; tutti aspetti di vulnerabilità che concomitanti alla condizione di stress avrebbero potuto causare tali anomalie percettive.

Le illusioni percettive sperimentate dagli atleti appartenenti al secondo cluster, ricondotte alle condizioni avverse della gara; sono emerse sotto forma di semplici pareidolie (tendenza istintiva a strutturare gli stimoli sensoriali secondo forme ordinate e familiari) o distorsioni delle immagini.

Le illusioni vengono sperimentate quando stimoli esterni si fondono con elementi psichici soggettivi, formando un insieme percettivo non corrispondente alla realtà. Esse non implicano la perdita del senso di realtà, ma sono favorite da un particolare stato emotivo o un abbassamento della soglia attentiva, causato da fatica, stress ed abuso di stimolanti.

Nel terzo cluster sono stati collocati soggetti che riportavano vere e proprie allucinazioni sensoriali; ovvero false percezioni soggettivamente percepite come reali, ma insorte senza la presenza dell’oggetto. Gli atleti che le hanno sperimentate, avevano in comune tratti specifici dello spettro psicotico, esacerbati dalle condizioni di stress e dall’uso di psicostimolanti.

Complessivamente, questa indagine preliminare, rileva come l’altitudine, concomitante ad uno stress estremo, affaticamento, deprivazione prolungata del sonno e uso di psicostimolanti in quantità elevate; sia una combinazione che funge da fattore di rischio per fenomeni allucinatori. Inoltre, tratti temperamentali e personologici possono essere fattori predisponenti all’insorgenza di determinati fenomeni dispercettivi, ad esempio la derealizzazione e depersonalizzazione riscontrate tra coloro tendenzialmente ansiosi.

Infine, l’elevata prevalenza e la natura ben definita delle allucinazioni visive valutate in questo campione privo di disturbi psichiatrici o neurologici, danno spunto alla ricerca futura per un’indagine più approfondita del fenomeno in un contesto para-fisiologico.

 

Il paziente con disturbo di personalità antisociale – Video dal Webinar tenuto da Psicoterapia Cognitiva e Ricerca di Mestre

Il 9 novembre, la Scuola di Specializzazione “Psicoterapia Cognitiva e Ricerca” di Mestre ha tenuto un incontro sul disturbo antisociale di personalità. Pubblichiamo per i nostri lettori, il video dell’evento.

 

Il Disturbo di Personalità Antisociale si caratterizza per un atteggiamento di disprezzo, inosservanza e violazione dei diritti delle altre persone e si manifesta con comportamenti di ostilità e/o aggressioni fisiche. L’inganno e la manipolazione sono le modalità comportamentali privilegiate di questo tipo di personalità. In molti casi, i comportamenti ostili e aggressivi possono comparire già durante l’infanzia e l’adolescenza. Nella maggior parte dei casi arrivano in terapia perché obbligati o per problematiche connesse ad altri disturbi spesso in comorbilità come l’abuso di sostanze o alcol.

Il seminario, tenuto dalla Dott.ssa Antonella Gemelli, ha illustrato le caratteristiche del disturbo, la concettualizzazione del caso e il trattamento secondo l’approccio cognitivo-comportamentale. A seguire, Sandra Sassaroli ha presentato la Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva e Ricerca.

 

Il paziente con disturbo di personalità antisociale – GUARDA IL VIDEO

 

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Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale di Mestre - PTCR

 

Il ruolo dell’ambiente terapeutico nel trattamento dei disturbi alimentari maschili

La ricerca ha mostrato come gli uomini con un disturbo alimentare siano reticenti a chiedere aiuto, tuttavia luoghi di cura più adeguati alla dimensione maschile potrebbero favorire il loro ingaggio nel trattamento.

 

Introduzione

I disturbi del comportamento alimentare sono patologie che coinvolgono quasi esclusivamente la popolazione femminile, mentre l’incidenza nei maschi rimane sottostimata e difficilmente accedono ai percorsi di cura. Tale disparità di genere è da rimandare a diversi fattori, tra i quali una maggior reticenza degli uomini a chiedere aiuto per una patologia ritenuta “femminile” (Hay &Philpott, 2005, Greenberg & Schoen, 2008), la mancanza di strumenti diagnostici adeguati (Carey, Saules & Carr 2017) e la forte presenza di stereotipi di genere che ha portato all’ esclusione dei maschi dalla ricerca sui disturbi alimentari e dai programmi di prevenzione (Cohn et al., 2016).

Tuttavia, seppur rimane di estrema importanza identificare strumenti adatti alla diagnosi e al trattamento dei disturbi alimentari maschili, potrebbe risultare rilevante anche la “cornice” entro la quale vengono svolti questi trattamenti, ovvero quei fattori ambientali che caratterizzano i luoghi di cura e che favorirebbero l’ingaggio dei pazienti nel trattamento.

Adattare i trattamenti

Kinnaird e collaboratori (2018) in un recente studio qualitativo hanno intervistato 10 specialisti nel trattamento dei disturbi del comportamento alimentare, impegnati presso un ambulatorio del Servizio Sanitario Nazionale a Londra e dove, in quel momento, erano presi in carico 491 pazienti di cui 58 erano maschi. Il fine della ricerca era quello di indagare quale fosse il punto di vista degli operatori sul fatto che gli uomini potessero avere esigenze di trattamento specifiche e in che modo tali esigenze richiedessero eventuali adattamenti dei percorsi di cura svolti presso il loro centro. Gli operatori intervistati hanno riportato come sostanzialmente non ci fossero particolari differenze nell’espressione clinica dei pazienti maschi rispetto alle femmine, se non per il fatto che a volte i maschi riportavano una maggior preoccupazione riguardante la muscolarità del proprio corpo piuttosto che la magrezza. Inoltre dalle interviste era emerso che i terapeuti non si approcciavano al trattamento degli uomini in modo diverso rispetto alle donne, ma che fondamentalmente le terapie seguivano il medesimo decorso. Quindi seppur venivano riscontrate differenze di genere su alcune questioni legate alla mascolinità, queste venivano integrate all’interno dei trattamenti standard. L’esperienza riportata dai clinici inglesi all’interno di queste interviste sembra confermare alcuni dati provenienti dalla ricerca sul trattamento dei disturbi alimentari negli uomini: infatti, seppur non validati sulla popolazione maschile, i protocolli FBT e CBT-E potrebbero essere applicati, non senza alcuni adattamenti, in modo efficace anche per i pazienti maschi (Murray et al., 2013; Dakanalis et al., 2014; Murray & Griffiths, 2015).

D’altra parte, un aspetto su cui la maggior parte degli operatori intervistati si è particolarmente concentrato riguardava l’ambiente entro il quale si svolgevano i trattamenti, ovvero quegli elementi di sfondo che caratterizzavano l’ambulatorio dove lavoravano. I terapeuti hanno sottolineato come i disturbi del comportamento alimentare e il loro trattamento fossero percepiti dai pazienti uomini come qualcosa di “anti-mascolino” e che la natura del Servizio stesso potesse rinforzare questa idea, come testimoniato da una delle terapeute:

“Credo che possa essere davvero dura per un uomo che varca questa porta ritrovarsi in una sala d’aspetto piena di donne […] Inoltre nel nostro ambulatorio non ci sono terapeuti maschi e sono sicura che tutte queste cose possano rappresentare delle difficoltà per i pazienti”.

Pertanto, per favorire l’ingaggio dei pazienti uomini nel trattamento, risulterebbe importante normalizzare l’esperienza di malattia all’interno della cornice culturale maschile e per fare ciò potrebbe risultare utile adeguare l’ambiente terapeutico. Più nello specifico gli operatori coinvolti hanno suggerito che venissero appesi alle pareti poster riguardanti i disturbi alimentari maschili, con infografiche specifiche riguardanti il corpo dell’uomo, che fossero incluse all’interno del materiale informativo foto sia di ragazzi che di ragazze e inoltre hanno espresso la necessità di assumere terapeuti maschi. Infine alcuni intervistati hanno espresso la necessità di creare gruppi terapeutici per soli uomini, in modo da favorire la discussione di temi prettamente maschili.

L’esperienza dei pazienti

Un successivo studio di Kinnaird e collaboratori (2019) ha questa volta analizzato l’esperienza di pazienti maschi in cura per un disturbo del comportamento alimentare. Sono stati intervistati 14 pazienti con l’obbiettivo di fornire pareri e opinioni riguardo il loro trattamento e se quest’ultimo necessitasse di qualche adattamento, in modo analogo allo studio precedente. I risultati delle due ricerche sono in parte sovrapponibili. Infatti anche i pazienti hanno costatato che l’approccio terapeutico non necessitasse di particolari adattamenti, se non per alcune questioni legate all’immagine corporea, come la preoccupazione riguardante la muscolatura, e in ogni caso hanno riportato un’esperienza di trattamento positiva. La maggior parte dei suggerimenti dei partecipanti, anche in questo caso, riguardava miglioramenti nell’ambiente entro il quale si svolgeva il trattamento. I soggetti hanno riportato di essersi sentiti particolarmente a disagio in quanto la presenza esclusivamente femminile, tra pazienti e staff, rafforzava l’idea di essere “strano” in quanto soggetto di genere maschile portatore di un disturbo alimentare.

Un altro aspetto particolarmente sentito che è emerso dalle interviste riguardava la specificità di genere del materiale informativo. I pazienti hanno infatti riferito che le brochure del centro erano rivolte prevalentemente alle pazienti di genere femminile, con poche informazioni riguardanti argomenti maschili, come ad esempio le diverse preoccupazioni per il corpo e le differenti esigenze nutrizionali. Inoltre i soggetti coinvolti hanno fornito opinioni diverse riguardo all’utilità di gruppi terapeutici separati per genere, esprimendo comunque la necessità di fornire questa alternativa. Infine, la maggior parte dei partecipanti allo studio ha sottolineato come il sesso dell’operatore non avesse influenzato la relazione terapeutica, tuttavia alcuni pazienti hanno considerato vantaggioso fornire la possibilità di accedere a un terapeuta maschio e che, data l’ampia presenza femminile, “sarebbe stato utile avere più uomini intorno”.

Considerazioni finali

I due studi appena illustrati rappresentano un interessante spunto di riflessione per la creazione di programmi di prevenzione e trattamento dei disturbi alimentari rivolti ai maschi. Se è vero che i pazienti che hanno un rapporto problematico con il cibo e la forma del corpo rappresentano una categoria difficile da ingaggiare nei percorsi di cura, ciò risulta ancora più evidente per i pazienti di genere maschile perché ancora stigmatizzati in quanto affetti da una patologia considerata esclusivamente “femminile” e per via della scarsa reperibilità di informazioni adeguate sui disturbi alimentari maschili (Cohn et al, 2016). Quindi, seppur rimane di grande importanza la ricerca di protocolli terapeutici e test diagnostici adattati alla sfera maschile, uno degli aspetti chiave nell’ingaggio al trattamento potrebbe essere quello di creare spazi di cura più gender-neutral e la possibilità di reperire informazioni adeguate, come suggerito da questi due studi.

Si evidenzia pertanto la necessità per i centri che trattano i disturbi alimentari di adeguare anche alla dimensione maschile gli ambienti di cura, adattare il materiale informativo e favorire una maggior presenza di uomini tra lo staff, in modo da normalizzare l’esperienza della malattia e favorire l’ingaggio nei percorsi terapeutici.

 


 

The Haunting of Hill House: come le conseguenze della negazione dei propri fantasmi interiori possono incidere sul nucleo familiare – Recensione

Il presente articolo si propone di dare una lettura della prima stagione del telefilm The Haunting che integri la prospettiva psicodinamica e quella sistemico-relazionale. È consigliato leggerlo solo dopo aver visto The Haunting of Hill House.

 

Attenzione! L’articolo contiene spoiler

I fantasmi non esistono, li abbiamo creati noi. Siamo noi i fantasmi‘ dice il personaggio di Pasquale Lojacono nella commedia Questi fantasmi scritta dal noto drammaturgo Eduardo De Filippo nel 1945. Un messaggio molto simile sembra mandarlo la serie tv Netflix The Haunting.

In particolar modo, la prima stagione The Haunting of Hill House mette in luce il legame profondo che unisce tutti gli elementi della famiglia. I tagli emotivi, le alleanze e il mito di una casa spettrale sono aspetti che tengono legati i componenti della famiglia anche a chilometri di distanza.

Il comune denominatore che appartiene ad ogni membro è il timore di restare col proprio vuoto interiore. I sentimenti materni della madre Liv in particolar modo hanno effetto a cascata sui figli.

Liv si presenta come una donna con uno spaventoso timore del vuoto che regna dentro di sé. Questo la rende molto dipendente dai figli che, identificandosi come riempitori di quel vuoto, non riescono a vedere la versione più autentica di sé stessi. Il sogno di Liv relativo alla perdita dei due figli sembra nascere dalla possibilità di non essere più ‘piena’ di loro.

La donna infatti esterna consapevolmente la malinconia dovuta alla crescita dei due gemelli, i più piccoli della famiglia. Con molta minore consapevolezza sogna che il figlio maschio morirà di overdose e la figlia femmina morirà impiccandosi. I fantasmi che guidano le paure di Liv non sono appartenenti alla casa, ma al suo vissuto intrapsichico e come ogni famiglia indifferenziata che si rispetti questi spettri vivono anche in tutti gli altri membri della famiglia.

Nelly, la più sacrificale, sin da piccola non ha avuto le basi dalla madre per rimanere con l’angoscia del proprio vuoto interiore. Sentendo troppo lacerante prima il vuoto materno, poi quello lasciato dall’amato marito, auto-avvera la profezia della madre. La ‘donna dal collo storto’ presente ogni notte accanto a lei non è altro che la visione che la madre ha di lei nel momento in cui dovessero separarsi. Impossibilitata a mantenere la costanza dell’oggetto, quando l’oggetto amato non è più davanti a sé, Nelly non può fare altro che cadere nella più atroce disperazione. Con la fantasia di riavvicinarsi all’oggetto d’amore si uccide, divenendo lo spettro di cui aveva tanta paura.

Luke, poco meno sacrificale di Nelly, può salvarsi solo nel momento in cui gli altri fratelli incontrano gli spettri che aleggiano nell’indifferenziato intrapischico familiare.

In particolar modo questo processo si completa quando Steven, il fratello maggiore che aveva tagliato emotivamente i rapporti con il resto della famiglia, sceglie di vedere i fantasmi familiari.

Il padre risulta l’ultimo elemento impossibilitato a salvarsi e si uccide, proprio come la moglie, per l’incapacità di stare col vuoto incontenibile, lasciato dalla perdita dell’amore della figlia Nelly.

La stanza rossa è il luogo metaforico dove è possibile l’incontro emotivo tra i diversi membri della famiglia. Questa rappresenta anche l’unico spazio di autenticità e spontaneità, dove desideri, paure ed emozioni personali possono emergere in un sistema che tende a sacrificare l’individualità.

L’indistruttibilità della casa rappresenta proprio l’innegabilità degli spettri presenti in questa famiglia, come in ogni altra. La coraggiosa capacità dei fratelli di accettare i fantasmi come parte di sé li fa andare avanti, rendendo più spontaneo e saldo il legame fraterno e liberando le parti più autentiche di loro stessi.

Il messaggio più forte di The Haunting of Hill House sembra essere questo: ognuno di noi in quanto appartenente ad una famiglia ha i propri spettri e il primo passaggio per non permettere che ci danneggino è accettarli come parte di noi.

 

‘In direzione opposta’, romanzo di Alessandro Venuto – Una storia di speranza e di riscatto, di rinascita e di lotta, in cui sul ring si trovano due avversari inediti: paziente e malattia

Un intreccio di realtà e vicende frutto di immaginazione dell’autore, Alessandro Venuto, che svolge la sua attività professionale in un centro per il recupero delle tossicodipendenze, danno vita a un romanzo avvincente, crudo e vero che racconta il dramma della dipendenza patologica dal titolo In direzione opposta. Un’opera autentica e senza filtri che riesce a dare voce a un fenomeno sempre più attuale: quello delle addictions. 

 

Mi trovavo seduta in un ampio salone finestrato, pieno di suoni e di movimento. L’orologio a muro segnava le 12.30 il che alla Dionisio, comunità terapeutica per il recupero delle tossicodipendenze, significava solo una cosa: l’ora del pranzo. Quello che si fa alla Dionisio è scandire ogni momento della giornata attraverso le lancette dell’orologio, nell’intento di riabituare gli ospiti a vivere secondo i consueti ritmi circadiani, rieducandoli a sentire il proprio corpo e i propri bisogni, per troppo tempo messi a tacere dalla sostanza, alcol, cocaina, eroina o thc, divenuta il primo, e spesso mero ed unico, carburante della vita.

Con la forchetta giocavo con il cibo nel piatto, lo stomaco era troppo chiuso per mangiare. Sentivo addosso gli sguardi dei pazienti, trenta faretti neon che mi osservavano, studiandomi, alla ricerca di una fragilità, reale o presunta, da utilizzare come arma contro di me alla prima occasione. All’improvviso mi venne in mente quando entrai per la prima volta in uno scanner di risonanza magnetica, per fare una fotografia del mio cervello. La sensazione di essere inerme, priva di difese, fu la medesima. Questa è la tipica reazione che il paziente affetto da tossicodipendenza innesca nel suo interlocutore, che cerca di approcciarsi alla patologia per la prima volta. Quella mattina era il mio primo giorno di lavoro come operatrice di comunità alla Dionisio, e ad accogliermi trovai Alessandro Venuto. Il collega sembrava aver superato da molto tempo l’impasse in cui mi trovavo, si muoveva sicuro tra gli ospiti padrone di quel luogo. Dispensava consigli ed intratteneva gli ospiti in brillanti conversazioni. Che abile oratore, pensai. Quale sarà il suo segreto? Sbirciai nel suo piatto, e ci trovai solo dell’insalata. Forse la sua dieta ipocalorica era la chiave di tanta maestria, pertanto decisi di rinunciare al mio pasto affidandomi a questa sorta di pensiero magico. Con il tempo capii che la chiave del successo di Alessandro era un mix di dedizione, sacrificio e passione per il suo lavoro.

Professione che Alessandro ha saputo sapientemente raccontare nel suo romanzo In direzione opposta, dando voce alla storia di due amanti che, caduti nel baratro della tossicodipendenza, decidono di intraprendere un percorso di cura. Come spesso accade nel contesto delle addictions, è solo dopo aver toccato il fondo e sfiorato la morte che Stephen e Sharon decidono di scegliere la vita affidandosi alla cure della Dionisio. Nelle pagine di questo romanzo il lettore si troverà catapultato nelle vicende e nei drammi dei due protagonisti che, con la mente e il corpo stremati da anni di abuso di droga, cercano con le unghie di aggrapparsi alla vita. E’ una storia di speranza e di riscatto, di rinascita e di lotta, in cui sul ring troviamo i due protagonisti e l’équipe professionale della Dionisio contro il peggiore di tutti i possibili sfidanti: la tossicodipendenza.

Malattia infima e subdola, la dipendenza si trova ben presto a prendere il timone della vita di chi ne è affetto, determinando perdita di motivazione e interesse per tutto ciò che esuli da alcol e droga. Come esito, la persona ‘addicted’ inizia a perdersi. Le sue azioni e i suoi pensieri non saranno più guidati dal libero arbitrio, bensì dalla sostanza. La vita e i rapporti si comprometteranno gradualmente, talvolta irrimediabilmente se non si opta per un intervento guidato da una cerchia di professionisti. Nel romanzo In direzione opposta di Alessandro Venuto sarà solo grazie a un certosino lavoro di squadra tra paziente e curanti che la malattia verrà messa al tappeto. Alessandro, guidato da una grande devozione per la sua professione e da anni di esperienza come educatore, con estrema naturalezza riesce a dar voce a un fenomeno, quello della tossicodipendenza, ad oggi ancora troppo stigmatizzato. Un romanzo adatto a divulgare, informare ed intrattenere anche il lettore meno esperto sul tema delle dipendenze patologiche. Chiunque si approcci a quest’opera si stupirà di trovarsi velocemente perso nelle vicende dei personaggi, che nonostante la fatica riusciranno a trovare una nuova alba, uscendo così da quel tunnel popolato da sole ombre chiamato tossicodipendenza.

 

SLA: è Maria Lavezzi il nuovo coordinatore del GipSLA di AISLA – Comunicato Stampa

Comunicato Stampa

Maria Lavezzi è il nuovo coordinatore del GipSLA di AISLA: l’emergenza Coronavirus non ferma l’Associazione Italiana Sclerosi Laterale Amiotrofica e il Gruppo Italiano Psicologi SLA

 

Milano, 11 gennaio 2021

È Maria Lavezzi, dirigente psicologo presso la Rete di Cure Palliative del Distretto Valli Taro e Ceno dell’Azienda Unità Sanitaria Locale di Parma, il nuovo coordinatore nazionale del Gruppo Italiano Psicologi SLA (GIP-SLA), gruppo di lavoro nato nel 2012 all’interno di AISLA con l’obiettivo di offrire il miglior sostegno psicologico alle famiglie colpite dalla malattia.

Professionista esperta, da anni membro dei gruppi di lavoro di AISLA e docente del Polo Formativo SLA, la dr.ssa Lavezzi ha tra i suoi primi obiettivi quello di continuare ad investire sulla partecipazione attiva degli psicologi, promuovendo per il 2021 percorsi di formazione, naturalmente in remoto nel pieno rispetto delle misure di contenimento dettate dall’emergenza sanitaria.

Se è vero che siamo diventati tutti più fragili di fronte a questa pandemia che ha inginocchiato l’intera umanità, diventa forse più facile comprendere quanto sia critico dover affrontare la SLA. Una malattia che colpisce, di fatto, l’intera famiglia che si trova costretta non solo a riorganizzarsi, ma anche a riadattarsi a cambiamenti radicali pratici, affettivi e esistenziali. È una lotta, ma anche una conquista quotidiana possibile. (Massimo Mauro, presidente AISLA)

AISLA da sempre sostiene l’importanza dell’ascolto, dell’accompagnamento e del sostegno alle persone con SLA e alle loro famiglie, attraverso “percorsi” psicologici strutturati e gestiti da professionisti, che devono conoscere a fondo l’esperienza di chi convive con questa patologia.

Gli obiettivi di un intervento psicologico sono in prima battuta quelli di contenere il disagio emozionale dovuto alle limitazioni funzionali della persona con SLA, ma anche quello del familiare che se ne prende cura, come i caregiver, che a sua volta si sente spesso impreparato e sopraffatto dall’impatto della malattia.

La SLA, infatti, comporta un quotidiano scontro tra forti emozioni, drastici cambiamenti delle relazioni sociali e familiari e, non ultimo, un impegno fisico notevole per il consistente carico assistenziale. Per questo, da oltre un decennio, grazie all’impegno quotidiano delle 64 sedi presenti su tutto il territorio nazionale, AISLA supporta oltre 250 famiglie SLA con incontri periodici di Gruppo di Aiuto e percorsi individuali.

L’impatto traumatico che la SLA comporta e la sofferenza fisica, psicologica e talvolta esistenziale che ne deriva conferma l’importanza di un approccio psicologico competente e che viene spesso integrato con l’intervento multidisciplinare del nostro Centro di Ascolto e Consulenza sulla SLA mirato a costruire insieme alle nostre sezioni, ai Centri ospedalieri di riferimento, ai servizi di Assistenza Domiciliare Integrata (ADI) e a quelli di Cure Palliative Domiciliari, una rete per una corretta presa in carico del paziente. (dott.ssa Stefania Bastianello, direttore tecnico di AISLA)

Oggi sono oltre 100 i professionisti che partecipano al GIP-SLA per formarsi, aggiornarsi, discutere e riflettere sulle modalità di approccio alle diverse fasi di malattia e nei diversi contesti di cura.

Dal confronto plenario e dall’analisi della letteratura scientifica, sono stati elaborati diversi documenti, come quello delle “buone prassi” per l’assistenza psicologica nei diversi contesti di cura: in ospedale, al domicilio e nel gruppo di aiuto. Il documento, pubblicato nel 2017 (scaricabile cliccando QUI).

Pur nella piena consapevolezza che non è possibile comprendere fino in fondo i vissuti e la sofferenza dei malati e dei loro familiari, il gruppo di studio proseguirà il confronto delle nostre esperienze professionali con l’obiettivo di offrire a noi operatori nuove indicazioni, suggerimenti e percorsi innovativi. (dr.ssa Maria Lavezzi, nuovo coordinatore del GipSLA).

 

Per maggiori informazioni i professionisti possono scrivere a: [email protected]

Le famiglie, invece, possono scrivere a: [email protected]

Per altre delucidazioni sulle attività dell’associazione si può visitare il sito internet www.aisla.it.

 

Gli effetti della realtà virtuale sull’empatia

Nel 2015, la realtà virtuale (VR) è stata descritta come la “macchina dell’empatia” poiché consente alle persone di sperimentare visceralmente qualsiasi cosa dal punto di vista dell’altro. Le diverse esperienze collocano gli utenti in ambienti nuovi, mostrando loro come sarebbe vivere una situazione specifica dal punto di vista di qualcun altro.

 

L’empatia è la capacità di comprendere e condividere le emozioni altrui (Hoffman, 2001). È stato dimostrato come l’empatia motivi i comportamenti prosociali (Batson & Ahmad, 2009) ed è proprio sulla base di questo presupposto che ricercatori ed aziende tecnologiche si stanno cimentando al fine di trovare nuovi metodi che consentano di incrementare tale capacità. 

Nel 2015, la realtà virtuale (VR) è stata descritta come la “macchina dell’empatia” poiché consente alle persone di sperimentare visceralmente qualsiasi cosa dal punto di vista dell’altro (Milk, 2015). Gli ambienti virtuali immersivi sostituiscono l’input percettivo dell’utente del mondo reale con l’input percettivo di un mondo virtuale e questo fa sì che i fruitori si sentano parte di quest’ultimo. Queste esperienze collocano gli utenti in ambienti nuovi, mostrando loro come sarebbe vivere una situazione specifica dal punto di vista di qualcun altro.

Differenti ricerche mostrano che assumere la prospettiva dell’altro (cioè immaginare come sarebbe essere al suo posto) può essere un metodo efficace per promuovere l’empatia e motivare comportamenti prosociali (Bateson et al.,1981).

Difatti, i compiti tradizionali di assunzione della prospettiva, sono stati ampiamente utilizzati al fine di promuovere l’empatia del singolo verso uno specifico target sociale. L’utilizzo di questi interventi, però, ha portato spesso a risultati contrastanti: se da un lato questi compiti si sono dimostrati efficaci nel ridurre i pregiudizi (Todd & Galinky, 2014), allo stesso tempo, in alcune circostanze, hanno determinato effetti opposti (Skorinko & Sinclair, 2013). È anche per tal motivo che i ricercatori, oltre al tradizionale punto di vista, hanno tentato di promuovere l’empatia attraverso una varietà di compiti di presa di prospettiva mediata, utilizzando videogiochi e narrazioni interattive che forniscono informazioni aggiuntive all’utente su una specifica situazione, invece di fare affidamento esclusivamente sull’immaginazione del singolo. Tuttavia, è importante notare che questa tipologia di supporti forniscono informazioni attraverso canali specifici e si basano dunque su uno o su una combinazione di sensi. Di contro, un maggior livello di “immersione” può fornire un’esperienza più coinvolgente e personalizzata (Hand & Varan, 2008) e ciò consente alla realtà virtuale di porsi come un mezzo di presa di prospettiva efficace. Alcuni studi hanno dimostrato che quando i partecipanti bianchi incarnano un avatar afroamericano e interagiscono in un ambiente virtuale, i pregiudizi impliciti nei confronti delle persone dalla pelle scura sono significativamente ridotti (Peck, Seinfeld, Aglioti & Slater, 2013). Nonostante questi risultati incoraggianti, questi studi sono limitati dalla dimensione ridotta del campione e ciò impedisce di giungere ad una generalizzazione dei suddetti.

Al fine di arginare questi limiti metodologici e giungere ad una comprensione più approfondita degli effetti dei differenti tipi di interventi necessari a promuovere la capacità empatica, alcuni ricercatori hanno deciso di condurre due studi in merito. Nel primo caso, è stata condotta un’indagine longitudinale che ha messo a confronto gli effetti a breve e a lungo termine di un compito di assunzione di prospettiva VR con un compito di assunzione di prospettiva tradizionale, basato sulla narrazione. Gli autori hanno ipotizzato che l’utilizzo della VR sarebbe stato più efficace nel promuovere l’empatia e i comportamenti prosociali dei partecipanti. I soggetti sono stati assegnati casualmente alle due condizioni ma, ad entrambi i gruppi, è stato chiesto di compilare un questionario prima dell’intervento, al fine di misurare le differenze empatiche individuali e di valutare la misura in cui i soggetti credano che l’empatia sia una variabile che possa essere controllata. In entrambe le condizioni, i partecipanti hanno svolto un compito di assunzione di prospettiva immaginativa, con la differenza che, nella condizione di narrativa, i partecipanti immaginavano come sarebbe stato se fossero diventati senzatetto; mentre nella seconda condizione, i partecipanti hanno sperimentato come fosse diventare senzatetto all’interno di un ambiente virtuale.

Al termine dell’intervento, ai soggetti è stato chiesto di completare un questionario che ha tenuto conto della misura in cui essi si fossero sentiti compassionevoli e del livello di disagio personale. Inoltre, è stato esaminato quale tipologia di compito potesse prevenire la disumanizzazione nei confronti dei senzatetto. Infine, ai partecipanti è stato chiesto di esprimere il proprio accordo o disaccordo rispetto alla possibilità di sostenere l’aumento di alloggi per gli homeless, se fossero o meno disposti a firmare una petizione a sostegno della proposta e se fossero disponibili ad effettuare una donazione per un eventuale rifugio. Queste misure comportamentali sono state aggiunte al fine di esaminare la portata dell’impegno civico di ciascun partecipante riguardo al problema dei senzatetto.

I partecipanti hanno effettuato tre follow-up nelle successive otto settimane.

Nel secondo studio, invece, gli autori hanno confrontato l’effetto di quattro tipi di interventi: un intervento informativo, un compito di assunzione di prospettiva tradizionale basato sulla narrativa, un compito di assunzione di prospettiva VR – identici al primo studio – e un’attività di assunzione della prospettiva mediata attraverso un computer, che ha permesso ai partecipanti di sperimentare cosa si prova a diventare senzatetto attraverso una narrazione interattiva 2D.

L’obiettivo era quello di valutare più accuratamente l’effetto della presa di prospettiva ed esaminare il ruolo che l’immersione gioca quando si tenta di promuovere l’empatia. Gli autori in questo caso hanno ipotizzato che qualsiasi tipo di assunzione di prospettiva sarebbe stata più efficace nel suscitare empatia, rispetto alla mera ricezione di informazioni riguardanti la vita dei senzatetto.

Le misure di autovalutazione sono state le medesime di quelle utilizzate nel primo studio.

Le indagini hanno rivelato che nel corso di otto settimane, i partecipanti che avevano completato un compito di assunzione della prospettiva VR avevano atteggiamenti più positivi e avevano firmato una petizione a sostegno di iniziative nei confronti dei senzatetto; avevano tassi significativamente più alti rispetto ai partecipanti che avevano solo immaginato come sarebbe stato diventare un senzatetto. L’indagine ha evidenziato che gli interventi di presa di prospettiva basati sulla narrativa e mediati, indipendentemente dal livello di immersione, sono più efficaci nell’aumentare l’empatia rispetto ad interventi che non implicano alcun compito di assunzione di prospettiva. I risultati di questa indagine suggeriscono che i compiti di assunzione della prospettiva VR possono essere più efficaci nel motivare comportamenti prosociali a sostegno di iniziative utili.

 

 


Si parlerà di Realtà Virtuale alla
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L’importanza della precocità nell’impianto cocleare: evidenze dei benefici cognitivi e per lo sviluppo del linguaggio

Gli impianti cocleari (IC) sono ora universalmente considerati come lo standard di cura per il trattamento medico di perdita dell’udito sensoriale e neurosensoriale da grave a profonda negli adulti e nei bambini (Pisoni et al., 2018).

Bresciani Giulia – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Mestre

 

Nell’articolo di Kronenberger e colleghi (2014) la perdita permanente dell’udito è una condizione comune della prima infanzia, con una prevalenza di circa 1,5 su 1000 nascite. La diagnosi precoce, l’intervento e il monitoraggio dei bambini con perdita dell’udito sono raccomandati per lo sviluppo di una comunicazione e un linguaggio ottimali ed inoltre per promuovere le capacità socio-emotive, cognitive e di sviluppo motorio.

L’impianto cocleare nell’infanzia comporta un miglioramento significativo delle competenze linguistiche parlate, in particolare quando l’impianto avviene precocemente (Kronenberger et al., 2020). In ogni caso, come riportato dagli autori, esiste ancora un’enorme variabilità nelle abilità di linguaggio parlato nei bambini che vengono sottoposti ad impianto cocleare.

Negli anni sono stati individuati diversi predittori di un miglior outcome linguistico (Geers, 2006; Ruffin et al., 2013; Kronenberger et al., 2020), tra cui: l’età più precoce al momento dell’impianto, migliori soglie di media dei toni puri (PTA) prima dell’impianto, minore durata della sordità, uso di strategie di comunicazione uditivo-orale, una famiglia di dimensioni più piccole, uno status socioeconomico familiare più elevato, una maggiore istruzione dei genitori e una maggiore sensibilità materna nell’interazione genitore-figlio. Gli studi riportano però, che bambini con impianto cocleare sono comunque a rischio per difficoltà di lettura e scrittura oltre che a difficoltà relative al linguaggio recettivo in ambienti ‘avversivi per l’ascolto’, come classi molto rumorose o ambienti rumorosi (Kronenberger et al., 2014)

Come riportato da Kronenberger e colleghi (2020) lo sviluppo di abilità neurocognitive che includono il linguaggio, la memoria, il ragionamento non verbale e il funzionamento esecutivo (EF) riflette la crescita di base dei sistemi cerebrali che dipendono dall’esperienza sensoriale, dall’attività neurale e dalla relativa stimolazione, nonché dalle esperienze di apprendimento all’interno dei sistemi familiari, educativi e clinici. Ed è per tale motivo che una deprivazione sensoriale, come quella uditiva, può incidere sullo sviluppo di tali abilità.

Le funzioni esecutive come l’inibizione, la memoria di lavoro, la flessibilità cognitiva, l’attenzione sono necessarie a valutare, monitorare, sviluppare e portare a termine piani ed obiettivi, e deficit in questi domini possono portare ad alcuni ritardi o disordini come il disturbo di attenzione ed iperattività.

Le funzioni esecutive si sviluppano molto precocemente e mostrano progressi molto rapidi, soprattutto durante l’età scolare ma, come accennato prima, sono diversi i fattori che influenzano la vita dei bambini, non solo con sordità, e che incidono anche sullo sviluppo di tali abilità, tra cui: la genetica, l’ambiente familiare, l’abilità di apprendimento sociale, l’educazione ed il linguaggio (Kronenberger et al., 2020). Il linguaggio determina lo sviluppo di abilità come l’attenzione, la memoria di lavoro e la pianificazione ma al contempo, queste determinano lo sviluppo del linguaggio. È per tale motivo che è necessario prestare attenzione e trovare le strategie più adatte a questi bambini, per permettere loro di poter acquisire tali abilità, necessarie per i processi di apprendimento ma anche per la conduzione della vita quotidiana. Studi come quello condotto da Niparko e colleghi (2010) dimostrano che bambini che vengono impiantati precocemente hanno miglioramenti maggiori nelle abilità di linguaggio dall’età scolare fino all’adolescenza. Lo studio di Kronenberger e colleghi (2020) ha indagato la traiettoria di sviluppo del linguaggio e delle funzioni esecutive confrontando gruppi di bambini di età pre-scolare con impianto cocleare e a normosviluppo. Gli autori hanno dimostrato che i bambini con impianto cocleare ottenevano punteggi inferiori ai test di vocabolario e linguaggio globale a tutti gli step di valutazione, ma mostravano un miglioramento statisticamente significativo, a differenza del gruppo di controllo. I bambini con impianto cocleare risultavano in media nei due test all’età di sette anni.

Oltre ai fattori predittivi identificati in precedenza, studi recenti, come citato da Park e colleghi (2015), hanno enfatizzato il ruolo della funzione cognitiva dei soggetti sul risultato dell’impianto cocleare. Per tale motivo, gli autori hanno indagato la correlazione tra il QI di performance e l’outcome postoperatorio in bambini che si sono sottoposti ad intervento chirurgico per impianto cocleare. I loro risultati hanno evidenziato che l’esito postoperatorio dell’impianto cocleare è legato alle funzioni cognitive, in particolare al QI di performance piuttosto che al QI verbale. Inoltre, il ‘completamento di immagini’ (al bambino vengono presentare una serie di immagini con una parte mancante; viene chiesto di identificare la parte mancante indicando e/o nominando) e il ‘ri-ordinamento di immagini’ (al bambino vengono presentare una serie di immagini in ordine errato; viene chiesto di mettere nell’ordine corretto per raccontare una storia di senso compiuto), che riflettono la cognizione sociale, risultano associati al risultato post-impianto cocleare. Ciò implica che non solo l’intelligenza ma anche l’adattamento sociale contribuisce alla riabilitazione uditiva dopo l’impianto cocleare.

Gli autori riportano che il QI verbale riflette un’intelligenza o una conoscenza cristallizzata che proviene dall’apprendimento precedente e dalle esperienze passate. Nello specifico, le situazioni che richiedono un’intelligenza cristallizzata includono la comprensione e le prove di vocabolario. Man mano che invecchiamo e accumuliamo nuova conoscenza e comprensione, l’intelligenza cristallizzata diventa più forte. I bambini sordi non attraversano queste fasi a causa della privazione uditiva precedente all’impianto cocleare e, di conseguenza, il loro QI verbale risulta più basso. Al contrario, il QI di performance riflette l’intelligenza fluida, ovvero la capacità di percepire relazioni indipendenti da precedenti esperienze specifiche o istruzioni. Pertanto, il QI di performance dei soggetti con impianto cocleare risultava paragonabile a quello dei loro coetanei con udito normale.

Gli autori hanno inoltre scoperto che la cognizione sociale, misurata con i subtest ‘completamento di immagini’ e ‘ri-ordinamento di immagini’, appare minore nei bambini con impianto cocleare. Inoltre, hanno osservato che le abilità di coordinamento visuo-motorio appaiono relativamente buone, utilizzando i subtest ‘disegno con i cubi’ (consiste in una serie di motivi geometrici stampati; viene chiesto al bambino di riprodurli utilizzando blocchi rossi e bianchi) e ‘ricostruzione di oggetti’ (consiste in una serie di pezzi di oggetti comuni; viene chiesto al bambino di assemblarli per formare l’oggetto) nei soggetti con impianto cocleare, coerentemente con quanto riportato dalla letteratura. Ciò è stato attribuito alla plasticità cerebrale ovvero la capacità di integrazione visuo-motoria migliora secondariamente alla privazione uditiva. In particolare, il punteggio medio al subtest ‘cifrario’ (consiste in una serie di forme semplici, ciascuna abbinata ad un codice; viene chiesto al bambino di disegnare la forma nel codice corrispondente) è risultato basso, anche se riflette la capacità di coordinazione visuo-motoria. Ciò può essere spiegato dal fatto che il ‘cifrario’ è l’unico subtest del QI di perfomance che utilizza lettere, numeri e simboli.

Gli autori, riprendendo quanto affermato da Ostrom nel 1984, affermano che la cognizione sociale si concentra su come le persone elaborano, memorizzano e applicano le informazioni sulle altre persone e sulle situazioni sociali. Si concentra sul ruolo giocato dai processi cognitivi nelle nostre interazioni sociali. La competenza sociale è strettamente correlata alla cognizione sociale. Sulla base dei loro risultati, gli autori si allineano a studi precedenti che hanno riportato una forte correlazione positiva tra abilità linguistiche e competenza sociale.

Conclusioni

In conclusione, sono molteplici i fattori coinvolti e che vanno considerati per i bambini con impianto cocleare. Kronenberger e colleghi (2014) identificano i seguenti cambiamenti a seguito dell’impianto cocleare avvenuto precocemente e seguente ad un percorso di abilitazione: maggiore consapevolezza da parte dei genitori, educatori e operatori sanitari; è necessario lo sviluppo e l’uso di strumenti e protocolli di valutazione delle funzioni esecutive validi, poco costosi e facilmente e rapidamente amministrati da educatori e terapisti; è necessario lo sviluppo di interventi mirati che possono essere utilizzati durante il processo di abilitazione per migliorare le competenze nelle funzioni esecutive. Ad oggi, la riabilitazione post impianto cocleare si concentra sulle abilità di linguaggio e di comunicazione, ma i risultati degli studi presentati sottolineano l’importanza di un trattamento abilitativo e/o riabilitativo che riguardi le funzioni esecutive, essendo linguaggio e funzioni esecutive strettamente correlati. Inoltre, come riportato da Park e colleghi (2015) i risultati post-operatori dell’impianto cocleare sono associati alla riabilitazione sociale, ed è importante quindi che venga fatta insieme agli altri interventi di riabilitazione/abilitazione programmati.

Soul (2020): la scintilla è nel momento presente – Recensione del film

Dopo l’indiscutibile successo di Inside Out, Pixar torna a sorprendere il suo pubblico con Soul, il nuovo film di animazione che ci invita ad osservare il mondo e a trovare il senso della vita nelle piccole cose di tutti i giorni.

 

Il lungometraggio racconta di Joe, un insoddisfatto insegnante di musica jazz che sogna di potersi realizzare come artista sul palco di un club. A seguito di varie peripezie, tuttavia, egli si ritrova temporaneamente separato dal suo corpo nell’Ante-Mondo, un luogo dove le anime sono forgiate in vista della vita sulla Terra, accanto a Ventidue, un’anima impetuosa e incontenibile, che rivoluzionerà la sua esistenza.

‘Il tuo scopo non è la tua scintilla’. Con questa frase potremmo riassumere molto del contenuto di Soul, dichiarando che non sono gli obiettivi che ci diamo a definirci. Attraverso gli sforzi di Joe, infatti, il film ci mostra come la corsa ai traguardi della vita rischia di consumare le nostre energie, di esaurire lo slancio vitale sotteso alle passioni o di distrarci dalle preziosità del momento presente. Soul è un vero inno alla vita che a più riprese sprona lo spettatore a incuriosirsi della realtà che lo circonda e delle altre persone, troppo spesso inquadrate in modo stereotipato.

Le immagini del film che rappresentano tale auspicabile condizione di presenza sono potentissime e inducono un’esperienza incarnata nello spettatore: il morso alla primissima fetta di pizza, l’incantamento del pendolare che ascolta un artista di strada, un seme di acero che volteggiando cade sul palmo del protagonista (beh, non proprio…ma occorre guardare il film!).

Il jazz, che accompagna quasi ogni sequenza del film, ribadisce l’importanza del ‘gioco’, dell’espressione libera dai canoni e rappresenta benissimo il fluire del tempo e di quelle sensazioni che rischiamo di perderci se non prestiamo loro attenzione. Ma non solo. ‘La melodia è una scusa per far emergere il tuo vero Io‘ dichiara ad un certo punto il padre del protagonista. Con questa frase egli intende dire che improvvisare su un tema musicale che è sempre lo stesso finisce per definirci come individui. Il verbo ‘jazzare’ descrive quindi chi prende la vita e la colora secondo l’estro e il jazz club rappresenta semplicemente il luogo dove la nostra autenticità può esprimersi in modo irripetibile in armonia con quella degli altri.

Soul insomma ci invita a vivere adesso, senza condannarci ad aspettare il momento giusto per farlo, a jazzare liberamente, se ci piace, uscendo dalle ‘bolle’ – positive e negative – che ci allontanano dai momenti preziosi del presente. Ho apprezzato molto il passaggio del film dove chi rimugina è accostato a chi, ossessionato dalle sue passioni, si isola dal mondo, fino a diventare ‘un’anima perduta’. Preoccuparsi di ciò che accadrà, rimestare il passato o coinvolgersi in una attività al punto di estraniarsi dal mondo di fatto produce sempre l’effetto di allontanarci dall’unico tempo che possiamo veramente percepire: il presente. La bolla, nel bene o nel male, determina la costruzione di una realtà ben poco condivisibile con altri e spesso foriera di sofferenza.

Dopo aver visto Soul perciò rispolveriamo i volumi di Jon Kabat-Zinn e dell’ACT, proviamo a porre la nostra attenzione consapevole su un piccolo gesto oppure saltiamo in sella ad una vecchia bicicletta per comprendere se ci piace pedalare piuttosto che per raggiungere nuovi e ambiziosi traguardi.

 

Il vaccino contro la disinformazione

Uno dei modi per evitare che le persone cadano vittima di disinformazione è quello di vaccinarle contro la disinformazione, esporle, quindi, ad un esempio di disinformazione, in modo che possano sviluppare gli opportuni anticorpi alle false notizie.

 

In quest’epoca, che qualcuno ha chiamato della “post-verità” (Stephan Lewandosky, John Cook, Ullrich K. H. Ecker, 2017), le bufale o “fake news”, come talvolta denominate, possono diffondersi attraverso internet ad una velocità impressionante. Negli ultimi tempi si è assistito, peraltro, ad una maggiore attenzione anche alla terminologia utilizzata. Alcuni autori, infatti (Claire Wardle, Hossein Derakshan, 2017) hanno evidenziato come talvolta il termine “fake news” venga utilizzato anche come un trucco dialettico sporco, al fine di “bollare” in maniera negativa punti di vista differenti.

In inglese quindi, si utilizzano in genere due termini. Si parla quindi di “disinformation” quando vengono diffuse false notizie in maniera consapevole e con l’intento di danneggiare qualcuno (persone, gruppi od organizzazioni). Si usa, invece, il termine “misinformation” quando la diffusione delle false notizie è inconsapevole e quindi è fatta senza intento di danneggiare nessuno (Caroline Jack, 2017).

In italiano, peraltro, il termine “misinformazione” non risulta ancora entrato nell’uso comune, ragion per cui nel seguito verrà utilizzato il termine “disinformazione”, che risulta sicuramente più familiare, anche se meno preciso come definizione. Il termine, quindi, verrà utilizzato sia per indicare la “disinformation” che la “misinformation” secondo le definizioni prima evidenziate.

I perchè della disinformazione

Cosa porta una o più persone a diffondere false notizie?

Gli scopi possono essere i più vari. Come evidenziato da alcuni autori (Claire Wardle, Hossein Derakshan, 2017) (Stephan Lewandosky e altri, 2012) i soggetti che diffondono disinformazione possono farlo, ad esempio, per motivi politici o, più semplicemente, per motivi economici. Molti click sulle notizie (false) fanno traffico su internet e quindi spesso si ha monetizzazione dei click.

False informazioni su un determinato fenomeno o notizia possono portare l’autore a vendere contenuti, come accessi a siti internet o anche libri, riguardanti quel fenomeno o notizia. La spiegazione è quindi talvolta estremamente banale. Questo è vero per l’autore della falsa notizia, che ha in ogni modo interesse a far parlare della sua “creatura”. Ma cosa spinge un “comune cittadino” a diffondere disinformazione, magari condividendo contenuti sul web?

E’ stato evidenziato (Miriam J. Metzger, Andrew J. Flanagin, 2013) che ormai i contenuti sul web sono talmente tanti che risulta molto difficile distinguere l’attendibilità delle fonti. Quindi, coloro che cercano delle informazioni o che ricevono una notizia, ad esempio per una condivisione da parte di un amico, ricorrono a quelle che si chiamano “euristiche“, vale a dire delle scorciatoie mentali che permettono di prendere decisioni semplici e veloci.

Tra le varie euristiche possiamo quindi avere, ad esempio, la cosiddetta “self-confirmation heuristic” in base alla quale colui che cerca le informazioni tende a privilegiare quelle fonti che confermano i suoi punti di vista. Un’altra euristica è la cosiddetta “endorsement heuristic” per cui si tendono a validare le informazioni già ritenute affidabili da altri.

La vaccinazione contro le false notizie

Le euristiche, quindi, ci permettono di prendere decisioni semplici e veloci con poco o nessuno sforzo cognitivo. Peraltro, se talvolta portano a decisioni corrette, può anche capitare che le euristiche siano la causa di comportamenti errati. Ciò può accadere perché l’utilizzo di una di queste “scorciatoie mentali” ci può far ritenere come valide informazioni che in realtà non lo sono.

Ma come rimediare nel momento in cui ciò accade? E’ sufficiente che le persone “disinformate” vengano correttamente informate?

E’ stato visto (Stephan Lewandosky e altri, 2020) che non è sufficiente evidenziare le informazioni giuste. Anzi, può anche accadere che si abbia un “back-fire effect” (Stephan Lewandosky e altri, 2012) (Stephan Lewandosky e altri, 2020) per cui l’esposizione all’informazione corretta rinforza la convinzione in quella errata.

E’ evidente, però, che questo non può farci desistere dal combattere la disinformazione (Stephan Lewandosky e altri, 2020). E’ quindi importante, in primo luogo, tarare la comunicazione delle informazioni corrette a seconda dei destinatari del messaggio.

Un altro modo per evitare che le persone cadano vittima di disinformazione, peraltro, è quella di “vaccinarle” contro la disinformazione (John Cook, Stephan Lewandosky, Ullrich K. H. Ecker, 2017) (Stephan Lewandosky, Sander an der Linden, 2018) (Jon Roozenbeek, Thomas Nygren, Sander van der Linden, 2020). La vaccinazione, come tutti sappiamo, consiste nell’inoculazione di un virus o di un batterio debole nell’organismo di un paziente, in modo che il suo sistema immunitario sviluppi degli anticorpi contro quel virus o batterio. Il vaccino contro la disinformazione opera nella stessa maniera. Il “paziente” viene quindi esposto ad un esempio di disinformazione, in modo che possa sviluppare gli opportuni “anticorpi” alle false notizie.

Un esempio

Un esempio di vaccinazione valido è sicuramente quello che prende in esame l’utilizzo delle figure dei Premi Nobel. Spesso, infatti, i soggetti interessati a diffondere disinformazione

  1. strumentalizzano la figura dei Premi Nobel;
  2. diffondono notizie (false e non verificate né verificabili) su presunte “candidature” al Premio Nobel.

Ed è stato visto che spesso tali “trucchi” sono stati usati (ironia della sorte) dal movimento NO-VAX al fine di avvalorare le proprie posizioni (ma potrebbe usarli un qualunque altro soggetto che diffonde disinformazione). E’ stata ad esempio utilizzata la figura di Luc Montagnier, che è stato Premio Nobel per la Medicina nel 2008, ma che negli ultimi anni ha aderito alle posizioni NO-VAX. (Candice Basterfield e altri, 2020). E qua, evidentemente, ci cascherebbe chiunque. Ognuno di noi penserebbe: “Cavoli, se lo ha detto un Premio Nobel, sarà vero”.

La questione, che molti ignorano, è che la storia è piena di Premi Nobel che poi hanno “perso la retta via” aderendo a posizioni molto criticabili. Oltre a Luc Montagnier si può citare Linus Pauling, Premio Nobel per la Chimica nel 1954 e per la Pace nel 1962, il quale sostenne che massicce dosi di vitamina C fossero utili contro il tumore (Candice Basterfield e altri, 2020). Altri esempi, in tempi più remoti, ma comunque significativi, sono quelli di Philipp Van Lenard, vincitore del Premio Nobel in fisica nel 1905, e di Johannes Stark, che fu insignito del Premio Nobel in fisica nel 1919. Entrambi abbracciarono l’idea di una “fisica ariana” e  criticarono la “fisica ebraica” di Albert Einstein.

Per quello che riguarda invece le presunte “candidature” al Premio Nobel, in tempi recenti sempre i NO-VAX hanno cercato di mostrare come autorevole il Prof. Giulio Tarro in quanto “candidato al Nobel”. La questione, che molti ignorano, è che le candidature al Premio Nobel vengono rese pubbliche solo dopo 50 anni, quindi nessuno può avere notizia delle medesime se non dopo il predetto lasso di tempo.

Essere vaccinati contro uno dei (tanti) metodi di disinformazione ci può quindi fornire uno strumento che può aiutare a distinguere le informazioni corrette dalle false notizie.

 

L’Umanesimo e l’Umano: le componenti di stampo cattolico nel pensiero di Vittorino Andreoli

Vittorino Andreoli è uno dei più noti accademici e psichiatri nella cultura italiana. Sebbene si identifichi nella visione umanistica di stampo laico, molte componenti del suo Pensiero sono riconducibili ad una matrice cattolica.

 

Vittorino Andreoli, che nel 2020 ha raggiunto le 80 primavere, è uno dei più noti accademici e psichiatri italiani. E’ noto sia per il suo lavoro accademico (Andreoli et al, 2002) che per il suo lavoro come scrittore di saggistica e di romanzi (Moncalero, 2018), oltre che esser stato l’esperto convocato in alcuni dei casi di cronaca nera più noti della cultura italiana, come quello di Pietro Maso (Scorranese, 2018).

Il professor Andreoli, nella sua lunga carriera, si è distinto principalmente per la lotta per la rivalutazione e umanizzazione del malato mentale (Huffpost, 2018), per la sua attenzione verso il mondo giovanile e le sue problematiche (Varlese, 2020), per la sua critica verso i sistemi educativi e scolastici italiani (Andreoli, 2015) e per la sua analisi critica della professione psichiatrica (Andreoli, 2017).

Uno degli aspetti più interessanti e a volte controversi è la matrice di stampo religioso degli elementi del suo pensiero.

Come descrive Andreoli, egli è cresciuto in un contesto cattolico al quale egli è stato molto legato vista anche la sua partecipazione nell’Azione Cattolica (Andreoli, 2000): tuttavia, l’incontro con il pensiero Marxista e il ruolo dell’Uomo dentro il pensiero comunista lo hanno allontanano dalla religione (Andreoli, ibidem).

Anche se continua a identificarsi in un pensiero Umanistico dove l’Uomo e le sue disposizioni è il soggetto rispetto ad una visione teocentrica, Vittorino Andreoli, nel suo pensiero, affronta alcune tematiche con un’ottica molto influenzata dalla Religione. Come indica l’accademica Emma Young (2020), le persone che perdono l’interesse o la fede nella propria religione sono tuttavia influenzate in maniera perenne, anche nelle questioni marginali, dal loro Credo passato.

Per questo certe visioni di Andreoli presentano caratteristiche che hanno similitudini con la visione cristiana.

Un esempio principale è la sua avversione verso la spiegazione di tutti i Misteri: per Andreoli, il Credere è un bisogno imprescindibile per l’essere umano, perché è un meccanismo di difesa dalla conoscenza della Morte, che deve essere tenuto entro confini sani e che non deve essere intaccato dallo scientismo (Andreoli, 2015).

Un altro esempio è l’importanza dell’essere umano di stare con i suoi simili, di stare in una Comunità: di fatti, Andreoli è critico nei confronti dell’idea della Libertà, poiché essa allontana l’essere umano dal suo bisogno biologico e fisiologico di animale sociale (Andreoli, 2018).

Per concludere, un’altra sua visione che può essere letta attraverso un’ottica cattolica è la sua contestualizzazione della figura Madre – Figlio: il professore Andreoli è contrario all’aborto e identifica nella figura della Madre un elemento legato in maniera inossidabile alla crescita sana della struttura psicofisica umana, tanto da proteggere la visione della Madre dalla svalutazione della società economica (Andreoli, 2016)

 

La percezione della donna tatuata

Molti ricercatori si sono così chiesti come venissero giudicate le donne tatuate, quali caratteristiche venissero loro attribuite da persone esterne o non conosciute direttamente e se il loro grado di bellezza ne fosse in qualche modo intaccato o condizionato.

 

Il tatuaggio nelle donne ha compiuto un viaggio lungo più di un secolo. Gli anni hanno scandito l’uso e il senso dietro questa pratica, passando dall’essere nella nostra società un segno distintivo della classe sociale cui si apparteneva, diventando poi con il tempo un strumento di ribellione verso le caratteristiche ed il ruolo che le norme sociali impongono alla donna, fino a giungere ai giorni nostri sotto forma di ornamento che attraversa le barriere di genere, cultura e classe sociale, diffondendosi indipendentemente dall’età e dalla professione delle persone (Hawkes, 2004).

Tale pratica si è imposta col tempo tra le fila dei più giovani sotto forma di moda, così che i numeri riportano una quadruplicazione dagli anni ’70 agli anni ’90 (Armstrong, 1991), aumento che sembra ancora lontano dall’arrestarsi.

Una grossa quantità di ricerche scientifiche mostra però come nonostante tale diffusione, che coinvolge entrambi i sessi, vi siano ancora importanti pregiudizi che influenzano tanto la percezione quanto il comportamento delle persone.

Molti ricercatori si sono così chiesti come venissero giudicate le donne tatuate, quali caratteristiche venissero loro attribuite da persone esterne o non conosciute direttamente e se il loro grado di bellezza ne fosse in qualche modo intaccato o condizionato.

Nello studio di Daina Hawkes (2004) che ha preso in considerazione un campione composto interamente da studenti universitari canadesi, di entrambi i sessi, tatuati e non, è emersa un’attitudine generalmente negativa verso le donne che avevano un tatuaggio visibile. I soggetti che non avevano alcun tatuaggio e non erano interessati ad averne hanno espresso i giudizi più duri a riguardo.

Tuttavia, i partecipanti che avevano anch’essi un tatuaggio tendevano a considerare le donne tatuate come più forti e attive rispetto alle donne non tatuate. Molto interessante è il fatto che tali caratteristiche sembravano condivise anche dalle donne che non avevano tatuaggi. A tal proposito occorre contestualizzare tali accezioni. In una società in cui vengono considerate la debolezza e la bassa intraprendenza della donna come tratti distintivi, se non addirittura desiderabili, è opportuno chiedersi come vengano valutati atteggiamenti che vanno nella direzione opposta. Parimenti, in una sottocultura che al contrario idealizza la forza e il ruolo attivo della donna all’interno della società, le caratteristiche prima descritte possono essere considerate come potenzialità. Occorre quindi scorgere quale visione della realtà sociale viene condivisa dai partecipanti per comprendere adeguatamente il senso che essi vogliono dare ai loro giudizi.

Se consideriamo come lo studio di Sanders (1988) mostri che le donne siano ben consapevoli dello stigma che un tatuaggio visibile può arrecare loro, non deve sorprenderci che le stesse tendano a decorare parti del corpo meno visibili, in modo da mantenere un’identità sociale non contaminata dai pregiudizi sui tatuaggi delle persone che incontrano. Della stessa idea sembra essere Atkinson (2002), quando afferma che le donne riflettano su tali pregiudizi e che, in base a questi, scelgano la posizione giusta per il loro tatuaggio. Così le donne con un tatuaggio visibile sembrano scegliere di vestire l’handicap insito in una tale decorazione, lanciando una sfida alla società e ai suoi pregiudizi, che nonostante il giudizio negativo, sembra riconoscere loro il carattere e la forza di questa scelta.

Ma la trasgressione provoca reazioni diverse negli uomini e nelle donne non tatuati: mentre le donne sembrano più sensibili degli uomini alla dimensione del tatuaggio che la donna sceglie di sfoggiare, gli uomini non ne sembrano particolarmente influenzati quando giudicano la donna tatuata. Il loro giudizio è negativo a priori, come se non venisse valutata tanto la dimensione della trasgressione quanto la trasgressione in sé.

Non solo: anche gli uomini e le donne tatuati non reagiscono allo stesso modo di fronte a un tatuaggio grande esposto da una donna. Mentre le seconde non esprimono un giudizio negativo, i primi mostrano di condividere la stessa opinione negativa espressa dagli uomini non tatuati. Sembra avvenire, come affermano Hawkes e collaboratori, uno scontro tra un movimento di affiliazione ed una tendenza sessista di vivere la percezione dello stimolo. La dimensione del tatuaggio sembra non cambiare il giudizio delle donne che condividono il fatto di avere anch’esse un tatuaggio, mentre nel caso degli uomini il senso di condivisione viene spezzato, travolto dal modo della donna di vivere il tatuaggio in modo più evidente (Hawkes, 2004).

Lo stesso Douglas (2002) nel suo lavoro mostra come i giudizi verso le donne tatuate tendano ad essere sempre più negativi rispetto a quelli attribuiti alle donne non tatuate: la modifica dell’immagine di una ragazza alla quale è stato aggiunto un drago nero come tatuaggio sulla parte alta del braccio è bastata per farle attribuire dal campione di riferimento determinati aggettivi piuttosto che altri.

Lo stimolo modificato, una ragazza di 24 anni tatuata, veniva immaginato dai partecipanti come una donna meno sportiva, meno motivata, meno onesta, meno generosa e intelligente, meno religiosa e, non ultimo, veniva giudicata come meno attraente rispetto alla stessa ragazza che veniva vista da un altro campione di riferimento senza tatuaggio (Douglas, 2002).

Anche l’esperimento di Seiter (2005) sembra andare nella stessa direzione dei precedenti. Qui i rispondenti giudicavano le ragazze tatuate delle immagini che venivano loro presentate, come meno competenti e meno socievoli rispetto alle donne non tatuate.

Ma i pregiudizi sembrano toccare anche il comportamento sessuale delle persone tatuate.

L’esperimento di Swami (2007) combinava due variabili diverse, quali il colore dei capelli e la presenza o meno di tatuaggi, nei disegni di donne che venivano presentati ad un pubblico maschile, in modo da scoprirne i pregiudizi. In base alle combinazioni proposte i rispondenti dovevano definirne il livello di attraenza fisica, l’attitudine verso la promiscuità e la quantità di alcool che le donne degli stimoli usavano consumare in una serata tipica: è emerso che alle donne tatuate venivano associate maggiori tendenze verso la promiscuità, un maggior uso di alcool e venivano giudicate meno attraenti. Tali giudizi diventavano via via più negativi se il numero di tatuaggi dello stimolo aumentava. Inoltre, alle ragazze illustrate con i capelli biondi venivano attribuiti giudizi più negativi rispetto alle ragazze brune (Swami, 2007).

Il giudizio negativo riguardo la bellezza delle donne tatuate non è stato confermato dall’esperimento di Guéguen (2013), il quale ha invece rinforzato l’evidenza sul pregiudizio della promiscuità. L’esperimento di Guéguen ha mostrato che tale pregiudizio sembrava condiviso dagli uomini fino ad incentivarli in maniera maggiore nel conoscere le ragazze tatuate. L’esperimento si è svolto in alcune spiagge francesi durante l’estate. Sono state scelte delle ragazze senza tatuaggi e, in maniera casuale, è stato applicato ad alcune di queste un tatuaggio provvisorio che rappresentava una farfalla nella zona bassa della schiena. Sia alle ragazze tatuate sia a quelle non tatuate è stato richiesto di sdraiarsi in spiaggia, fingendo di leggere un libro. Ripetendo l’esperimento numerose volte in spiagge diverse è stato notato un più rapido approccio degli uomini verso le ragazze con il tatuaggio rispetto a quelle senza. Conseguentemente è stata rilevata negli uomini che si erano avvicinati alle donne con il tatuaggio la convinzione di godere di una maggiore probabilità di ottenere un appuntamento e di avere un rapporto sessuale al primo incontro, rispetto agli uomini che si erano avvicinati alle ragazze senza tatuaggio. Tale convinzione, legata al pregiudizio che le donne tatuate siano più spregiudicate a livello sessuale, ha messo in moto un determinato comportamento negli uomini.

Tuttavia, la scelta e il modo dell’uomo di approcciare una donna sono guidati da un insieme complesso di componenti: cercando di immaginarne alcune possiamo pensare che l’uomo dia attenzione a molti elementi con i quali la donna comunica la propria personalità e le proprie attitudini, come ad esempio i prodotti cosmetici (Cash et al., 1989; Jacob et al., 2009), i vestiti (Abbey, 1987; Abbey et al., 1987; Guéguen, 2011b; Koukounas & Letch, 2001; Shotland & Craig, 1988), il colore dei capelli (Guéguen & Lamy, 2009; Swami & Barrett, 2011) e persino i tatuaggi. Tutti questi e molti altri rappresentano degli indizi che l’uomo capta e utilizza nel generare il proprio giudizio riguardo a una donna. Giudizio che influenzerà a sua volta, come già sottolineato, il suo comportamento, selezionando in base al proprio orientamento socio-sessuale una donna che egli immagina possedere determinate caratteristiche piuttosto che altre.

Citando la psicologia evoluzionista, la donna consapevole dei pregiudizi che ruotano attorno a determinate caratteristiche, sceglierebbe di vestire il tatuaggio per attrarre un maggior numero di uomini così da avere la possibilità di scegliere il migliore tra i tanti (Greer & Buss, 1994). Parimenti, l’uomo punterebbe alle donne che egli crede essere più recettive a livello sessuale per aumentare la possibilità di disseminare i propri geni (Buss & Schmitt, 1993). La consapevolezza della donna su tali pregiudizi spingerebbe ancor di più gli uomini a focalizzarsi verso donne che esibiscono tali segnali.

Ma se consideriamo che la seduzione è un gioco a volte fine a sé stesso, e che gli obiettivi relazionali non sono scolpiti nella pietra ma cambiano anche in base alla persona che abbiamo di fronte, difficilmente possiamo immaginare una realtà così meccanica e automatica. Molto spesso tali pregiudizi fanno muovere le persone verso vicoli ciechi e solo l’essere giunte di fronte ad un muro le costringerà a capire che la persona che stavano seguendo era altro da come l’avevano immaginata e che realtà e apparenza non si sovrappongono quasi mai perfettamente.

 

Bilinguismo e sviluppo cerebrale: differenze tra apprendimento precoce e tardivo della seconda lingua

Studi sul bilinguismo mostrano come l’acquisizione di due lingue dalla nascita e quindi l’esposizione linguistica arricchita si traducano in una competenza equivalente in entrambe le lingue apprese e cambiamenti a livello di neuroplasticità.

 

Il cervello mostra una notevole capacità di subire cambiamenti strutturali e funzionali in risposta alle esperienze che caratterizzano la nostra vita. Le evidenze scientifiche suggeriscono che in molti domini dell’acquisizione di nuove abilità la manifestazione di questa neuroplasticità dipende dal periodo della vita in cui inizia l’apprendimento (Berken, Gracco & Klein, 2017). Il bilinguismo fornisce un modello ottimale per evidenziare le differenze esistenti tra l’acquisizione di una lingua dalla nascita, con la creazione del circuito cerebrale per il linguaggio, e l’apprendimento tardivo di una nuova lingua, quando i circuiti relativi alla prima lingua sono già ben sviluppati.

La review di Berken e colleghi esamina alcune delle conoscenze esistenti sui periodi ottimali nello sviluppo del linguaggio, prestando particolare attenzione al raggiungimento della fonologia di tipo nativo, o lingua madre. Berken e collaboratori si sono concentrati sulle differenze nella struttura e nella funzione del cervello tra bilingui simultanei, che hanno quindi appreso due lingue alla nascita, e bilingui sequenziali, che hanno invece imparato la seconda lingua quando la prima era già stata consolidata. Queste tipologie di ricerche possono essere svolte grazie al neuroimaging, in cui si utilizzano tecnologie che consentono di studiare la relazione tra l’attività di determinate aree cerebrali e specifiche funzioni. Tra i principali strumenti di neuroimaging impiegati nelle ricerche sul bilinguismo troviamo la tomografia a emissione di positroni (Positron Emission Tomography, PET), la risonanza magnetica funzionale (functional Magnetic resonance imaging, fMRI) e la risonanza magnetica strutturale (Magnetic Resonange Imaging, MRI).

Lenneberg (1967) rese popolare l’osservazione di Penfield e Roberts (1959), secondo cui l’acquisizione di una capacità linguistica di livello ‘madrelingua’ fosse limitata dall’età, diventando progressivamente più difficile da raggiungere dopo un periodo critico che si ritiene termini con la pubertà, riflettendo un grado significativo di sviluppo del cervello.

È noto che i neonati preferiscano ascoltare il parlato rispetto ad altri suoni (Vouloumanos & Werker, 2004; Moon, Cooper, & Fifer, 1993), e, a questo proposito, i bambini esposti ad un certo linguaggio dalla nascita dimostrano, in un primo momento, una capacità universale di percepire i fonemi di tutte le lingue (Kuhl, 2010; Werker e Tees, 1984). All’età di 6 mesi, tuttavia, la capacità del bambino di discriminare i contrasti fonemici non nativi inizia a diminuire, inizialmente per le vocali e successivamente per le consonanti (Kuhl, 2004; Kuhl et al., 1992). Dai 9 ai 10 mesi di età, le vocalizzazioni prelinguistiche del bambino somigliano molto alla fonetica della loro lingua madre (Poulin-Dubois & Goodz, 2001). Entro i 12 mesi, la capacità fonetica del bambino è sintonizzata per acquisire la lingua a cui è stato esposto (Kuhl & Rivera-Gaxiola, 2008; Werker & Lalonde, 1988), facendo sì che l’accento del bambino diventi indistinguibile da quello di un madrelingua (Simmonds et al., 2011a). Tali osservazioni supportano l’esistenza di un periodo sensibile nell’acquisizione del linguaggio da parte del bambino, specialmente per quanto riguarda lo sviluppo fonologico; esistono inoltre prove abbondanti per una correlazione tra l’età di acquisizione e la competenza linguistica finale (Newport, Bevelier, & Neville, 2001; Moyer, 1999).

Per quanto riguarda l’acquisizione di due lingue dalla nascita, sembra che l’esposizione linguistica arricchita si traduca in una competenza equivalente in entrambe le lingue apprese. A livello microscopico, un ambiente bilingue durante il periodo neonatale può provocare una cascata di eventi biochimici che aumentano la produzione dei substrati cellulari che regolano la neuroplasticità, nonché la durata della loro sintesi (Berken et al., 2017). Ciò a sua volta, potrebbe provocare cambiamenti macrostrutturali che si manifestano come un’attivazione efficiente durante il discorso, un aumento delle dimensioni di alcune aree cerebrali del linguaggio e delle connessioni più forti tra regioni cerebrali distribuite all’interno della rete linguistica. Tale neuroplasticità avviene al fine di gestire e monitorare ciascuna lingua e per prevenire interferenze tra le due (Berken et al., 2017).

I modelli di sviluppo del linguaggio hanno quindi rivelato che quando due lingue vengono acquisite contemporaneamente dalla nascita, la funzione e la struttura del cervello sembrano essere organizzate in modo più efficace. Tuttavia, quando l’apprendimento di una seconda lingua si sviluppa più tardi nella vita, la capacità di cambiamento neuroplastico sembra essere più limitata (Berken et al., 2017): un’efficace acquisizione della seconda lingua potrebbe necessitare di più tempo ed impegno.

 

I serious games e le loro applicazioni. Dagli esergame ai games basati sul biofeedback – Lo psicologo del futuro

Un serious games è un gioco programmato con espliciti obiettivi pedagogici e/o psicologici ben definiti dal principio ed il cui scopo non è puramente ludico. Ciò non implica la creazione di giochi non divertenti, anzi, proprio grazie alla forma coinvolgente che contraddistingue i videogiochi sarà più facile raggiungere gli obiettivi prefissati.

LO PSICOLOGO DEL FUTURO – (Nr. 7) I serious games e le loro applicazioni. Dagli esergame ai games basati sul biofeedback

 

Tra gli obiettivi più diffusi ad oggi troviamo lo sviluppo di nuove conoscenze (ad esempio scientifiche), la formazione di nuove competenze (ad esempio meccaniche, chirurgiche), la modificazione di comportamenti disfunzionali e lo sviluppo di abilità cognitive (ad esempio training attentivi).

Molti di questi giochi si basano sul presupposto del fallimento, creando sfide che spronano i soggetti a mettere in campo un maggiore impegno, stimolando l’apprendimento. Quando la sfida diventa troppo difficoltosa ed in seguito ad una serie ripetuta di fallimenti, per evitare al giocatore di sperimentare un senso di frustrazione non funzionale, l’assistenza fornirà indicazioni per poter progredire. Una volta ottenuti tali suggerimenti, il gioco rimetterà alla prova il partecipante con altre sfide senza fornire nuovamente le indicazioni.

Evitare di generare frustrazione nel partecipante, tanto potrebbe far tremare Albert Ellis (Ellis et al., 1985), quanto risulta essere alla base di molti serious games che hanno fatto della “zona di sviluppo prossimale” (Bruner, 1984) uno dei capisaldi del proprio operato, abbracciando anche le evidenze, seppur scarse, che dimostrano come le emozioni positive associate al gioco amplifichino le possibilità che le persone espandano le proprie risorse (Fredrickson, 2001).

Tornando alla tolleranza alla frustrazione e ad altri obiettivi di natura più propriamente psicoterapeutica, attualmente gli studi che si sono concentrati sui serious games a carattere psicoterapeutico sono ancora esigui. Ma dai dati a disposizione emerge che tali games sono risultati efficaci ed i pazienti hanno trovato piacevole l’esperienza di gioco ed inoltre è emerso che hanno avuto accesso alle cure anche persone che altrimenti, per diversi motivi, ne risultavano esclusi.

In particolare, in una review del 2017 (Fleming et al., 2017) sono state riportate nel dettaglio sei modalità di serious games per salute mentale:

  • Esergame: ovvero, i giochi basati sul movimento sono risultati efficaci nel trattamento di sintomi depressivi, soprattutto nel caso di pazienti appartenenti alle fasce di età più avanzate.
  • Realtà Virtuale e Realtà aumentata: sono serious games che si servono degli strumenti virtuali per garantire un’interattività immersiva, che può essere arricchita da vari stimoli sensoriali non solamente visivi e uditivi. L’impatto terapeutico risulta amplificato in questo tipo di videogiochi, capaci di immergere il paziente in un ambiente realistico. Si rimanda alla lettura dell’articolo Daniel Freeman e l’Oxford VR – gameChange: un nuovo progetto sull’uso delle nuove tecnologie.
  • Serious games per computer: in particolare la maggior parte dei giochi presenti in questa categoria si basano sulla riduzione di sintomi relativi a disturbi dell’umore.
  • Serious games basati sulla terapia cognitivo-comportamentale (CBT): tra i più famosi si ritrovano SPARX (per approfondimenti visitare la pagina) e SuperBetter (per approfondimenti visitare la pagina).
  • Biofeedback: in questo tipo di giochi i partecipanti possono provare esercizi di rilassamento, mentre ricevono messaggi sincroni relativi al proprio stato di attivazione fisiologica. Il feedback è dunque uno strumento che permette agli utenti di regolarsi più facilmente nell’attività svolta.
  • Giochi di allenamento cognitivo: tra i giochi più famosi all’interno di questa categoria si trovano giochi che allenano i pazienti depressi nel mantenimento cognitivo, per fronteggiare gli effetti del deterioramento. Negli studi relativi a tali giochi non sono però stati ancora testati gli effetti di tali giochi sull’umore, ma solamente sugli aspetti cognitivi, per i quali risultano essere efficaci.

 

Alla FIRST EUROPEAN CONFERENCE ON DIGITAL PSYCHOLOGY
ci sarà una sezione dedicata interamente ai videogiochi e serious games

Le iscrizioni sono aperte:

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