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Depressione o Bipolarismo? Precauzioni per una diagnosi accurata di disturbo bipolare e trattamenti specifici

Diagnosticare un disturbo depressivo può non essere così semplice perché sembra che tra il 50% e l’80% delle volte il disturbo bipolare inizia proprio con un episodio depressivo. A rendere ardua la distinzione tra le due patologie è quindi una variabile che delinea il decorso del disturbo bipolare: l’intervallo tra il primo episodio depressivo e la mania/ipomania.

 

Il disturbo bipolare è caratterizzato da alternanza di stati d’umore eccessivamente alti, mania / ipomania, e patologicamente bassi, depressione (American Psychiatric Association [APA], 2013). Questa alternanza di stati determina nello specifico tre tipi di disturbi: disturbo bipolare di tipo I, la cui diagnosi è possibile con la presenza di almeno un episodio maniacale, disturbo bipolare di tipo 2, caratterizzato da almeno un episodio di depressione maggiore (recente o passato) e almeno un episodio ipomaniacale (recente o passato), e disturbo ciclotimico, caratterizzato dall’alternanza di episodi di depressione e ipomaniacali di lieve intensità ma con elevata frequenza (APA, 2013).

Poiché queste classificazioni di disturbi sottintendono la presenza di episodi depressivi e, nello specifico, alcuni studi dimostrano che tra il 50% e l’80% delle volte il disturbo bipolare inizia proprio con un episodio depressivo (Duffy et al., 2007, Mesman et al., 2013, Axelson et al., 2015), è importante non confondere la diagnosi di disturbo bipolare con quella di depressione maggiore o unipolare. Pertanto, quando il clinico si accingerà a diagnosticare un episodio depressivo maggiore, presterà attenzione nel verificare che non si stia invece trattando di disturbo bipolare. Come illustrato nell’articolo di O’Donovan e Alda, una parte delle persone a cui è diagnosticata la depressione unipolare potrebbe in realtà soffrire di depressione di tipo bipolare, e questo è dovuto a diversi motivi:

  • spesso il disturbo bipolare ha inizio con sintomi depressivi e la prima ipomania / mania può non comparire fino ad anni dopo;
  • alcune forme di depressione sono plausibilmente varianti del disturbo bipolare;
  • ci si può non essere accorti di precedenti episodi ipomaniacali/maniacali. (O’Donovan &Alda, 2020).

A rendere ardua la distinzione tra le due patologie è quindi una variabile che delinea il decorso del disturbo bipolare: l’intervallo tra il primo episodio depressivo e la mania/ipomania. Berk e colleghi hanno riportato una media di 7,6 ± 8,7 anni, e Cha et al. di 5,6 ± 6,1 anni (Berk et al., 2007, Cha et al., 2009). In entrambi i casi l’intervallo non è solo lungo, ma anche molto variabile tra gli individui, e ciò potrebbe causare il mancato riconoscimento degli episodi maniacali/ ipomaniacali associati al disturbo che possono verificarsi anni dopo il primo episodio depressivo.

La diagnosi di disturbo bipolare è resa ancora più complessa dal fatto che non tutte le persone affette da depressione bipolare sviluppano necessariamente un episodio maniacale. In questi casi, una storia familiare in cui compare il disturbo può indicare che l’episodio depressivo è compreso in una più ampia diagnosi bipolare. Blacker e Tsuang hanno stimato che circa i due terzi dei parenti unipolari di probandi bipolari in realtà presentava una depressione bipolare, coerentemente con la storia familiare (Blacker & Tsuang, 1993). Nelle linee guida non sono presenti criteri definitivi o biomarcatori per identificare l’episodio depressivo che precede la mania/ipomania all’esordio, pertanto è possibile confonderlo con una depressione unipolare fino a quando non si convertirà presentando l’episodio maniacale (O’Donovan &Alda, 2020). L’obiettivo del clinico è quindi quello di identificare al meglio il probabile disturbo bipolare sin dall’esordio, prestando particolare attenzione alle famiglie ad alto rischio di insorgenza. Infatti, il predittore più robusto per questa patologia è una storia familiare di disturbo bipolare, specialmente nei giovani ad esordio precoce (O’Donovan &Alda, 2020). Altri preziosi predittori sono recidiva e prima età di insorgenza dei sintomi depressivi, nonché sintomi ipo/maniacali subsindromici e labilità dell’umore (Vieta et al., 2018). Lo studio di singoli membri della famiglia con interviste strutturate resta il metodo più accurato per la ricerca; in alternativa si possono utilizzare questionari come il Family History Research Diagnostic Criteria (FH-RDC) (Andreasen et al., 1977).

Non esistono ancora trattamenti specifici per i casi in cui il paziente ha sintomi depressivi e storia familiare di disturbo bipolare. È consigliabile per il clinico avere una buona conoscenza delle linee guida unipolari e bipolari per tutte le età e modificare il percorso terapeutico-farmacologico in base alla risposta al trattamento (O’Donovan & Alda, 2020). Un approccio alla depressione potenzialmente risolutivo in gioventù potrebbe essere quello di non assegnare alcuna polarità (unipolare o bipolare) fino a quando non si saranno verificati diversi episodi, anche se questa modalità non renderebbe giustizia a coloro che si convertiranno in ritardo o non si convertiranno affatto (O’Donovan & Alda, 2020).

Nel complesso le misure che risultano maggiormente efficaci per il trattamento di questo disturbo sono psicofarmaci e psicoterapia. Eseguire una diagnosi errata può comportare anche una scelta di farmaci non corretta, e spesso dannosa: gli antidepressivi sono fortemente indicati per il trattamento farmacologico della depressione, ma controindicati per il disturbo bipolare. Una reazione opposta agli antidepressivi può rivelare la vera natura bipolare della patologia nel paziente (O’Donovan & Alda, 2020).

Per quanto riguarda invece il percorso psicoterapeutico, le linee guida indicano le psicoterapie cognitivo-comportamentali ed interpersonali come maggiormente indicate. La psicoterapia familiare può essere un’ulteriore alternativa nei casi di disturbo bipolare ad esordio precoce (APA, 2013).

Nel campo delle tecniche di neuroimaging, la stimolazione magnetica transcranica ripetitiva ha evidenze sia nella depressione unipolare che in quella bipolare (Rachid et al., 2017). Dal punto di vista genetico, sono disponibili grandi set di dati per analizzare le differenze genetiche tra i due tipi di disturbi; un esempio ne è la recente analisi su larga scala di Coleman e colleghi (Coleman et al., n.d.). Resta da verificare quanto sarà pratico un simile approccio.

In conclusione, le caratteristiche salienti utili nella differenziazione tra i due disturbi includono: esordio precoce, storia familiare di disturbo bipolare, ma anche risposta avversa agli antidepressivi. Si spera che in futuro le tecnologie di laboratorio o di imaging cerebrale possano contribuire ulteriormente a una diagnosi più accurata, facilitando i trattamenti farmacologici e psicoterapeutici.

 

Funzionamento interpersonale nei disturbi di personalità: un confronto tra DEP e DOCP

Il disturbo evitante di personalità (DEP) e il disturbo ossessivo compulsivo di personalità (DOCP) condividono alcuni aspetti del funzionamento interpersonale.

 

In entrambi i casi i pazienti si mostrano poco assertivi, sottomessi ed evitano le relazioni con gli altri. Proprio per questo Steenkamp et al., (2015) parla di “sottotipo evitante” di DOCP. Eppure a volte le reazioni di alcuni pazienti agli eventi sono tutt’altro che pacifiche e distaccate e questo ha spinto ad approfondire la conoscenza dei profili interni del DOCP. Spulciando la letteratura ritroviamo studi in cui gli autori hanno distinto i pazienti DOCP in due categorie: “aggressivo-rigido” e “depressivo-perfezionista” (Ansell et al., 2010) o “dominanti-ostili” e “sottomessi” (Cain et al., 2015).

Notiamo, poi, un lavoro recentissimo di Solomonov et al., (2020) nel quale sono stati confrontati 64 pazienti con disturbo evitante di personalità (DEP) e 43 con disturbo ossessivo compulsivo di personalità (DOCP). Scopo dello studio è stato quello di comprendere meglio il profilo interpersonale dei pazienti. I partecipanti hanno compilato l’inventario dei problemi interpersonali (IIP-64), un questionario autovalutativo che misura l’intensità delle difficoltà relazionali che, si sa, in queste due categorie diagnostiche, essere stabili nel tempo (Skodol, 2018). I risultati mostrano che tutti i pazienti provano maggiore disagio interpersonale rispetto al gruppo di controllo e questo è in linea con studi precedenti che sostengono la centralità delle difficoltà nella relazione con gli altri in entrambi questi disturbi (Frandsen et al., 2019; Girard et al., 2017). Per quanto riguarda l’analisi dei profili interpersonali specifici, i pazienti con DEP sono risultati contraddistinti da un unico profilo, ben chiaro e identificabile, caratterizzato dalla sottomissione, dall’evitamento delle relazioni, da emozioni di ansia e vergogna nei contesti sociali e dalla paura del rifiuto, sempre percepito come dietro l’angolo. A differenza della stabilità e omogeneità degli evitanti, i pazienti con DOCP funzionano in modo più variabile ed eterogeno e sono più complessi. Da un lato risultano distaccati e introversi, hanno la tendenza all’isolamento, si deprimono, accondiscendendo e compiacendo passivamente, dall’altro provano forti emozioni negative accompagnati da comportamenti aggressivi, punitivi, vendicativi e di controllo relazionale, diventando prepotenti, ostili, dominanti.

Riflettendo in modo più ampio, sappiamo bene che la principale ricaduta dei disturbi di personalità è nelle relazioni interpersonali e che queste ultime sono a loro volta collegate alla presenza di sintomi psichiatrici, ad un generale disagio psicologico e, non per ultimo, alla scarsa aderenza al trattamento (Wilson, Stroud, & Durbin, 2017). Per questo motivo diventa importante conoscere le caratteristiche di uno specifico funzionamento per tenerne in considerazione nell’ inquadramento del caso e per pianificare un trattamento efficace.

La terapia e la relazione che si crea tra paziente e psicoterapeuta sono un terreno fertile per notare il funzionamento interpersonale dei pazienti. Portiamo, allora, l’attenzione alla reazione di un paziente con DEP e di due pazienti con DOCP, appartenenti, quindi, alle stesse categorie diagnostiche dello studio appena citato, ad uno stesso evento. Un mercoledì di luglio per una di noi (VV), infatti, c’è stata la necessità di rimodellare gli appuntamenti della giornata.

Davide, con diagnosi di DEP, ha poche relazioni, si dedica solo ad attività solitarie e, proprio per questo, si abbatte di frequente sentendosi depresso. Racconta che quando prova ad interagire con i colleghi d’ufficio, tende ad avere un atteggiamento accondiscendente e remissivo che gli garantisce di restare sempre nell’ombra. Anche con la terapeuta si comporta allo stesso modo e di fronte alla richiesta di spostare una seduta, Davide non batte ciglio e accetta l’alternativa di giorno e orario. A Marco, invece, è toccato venire due ore prima del solito orario. Per Marco è importante che le cose vadano in un certo modo, ha un giudice interno molto rigoroso e teme gli imprevisti che possano stravolgere le sue minuziose programmazioni. Arriva, alle sedute, sempre con notevole anticipo e manda spesso messaggi di conferma per essere certo dell’appuntamento. Non a caso, ha una diagnosi di DOCP. Marco accetta il nuovo orario con un messaggio stringato e non appena entra nella stanza chiede spiegazioni con fare pacato. Eppure, si legge un velo di rabbia in volto e la postura è decisamente rigida ma riferisce che non ha niente a che vedere con la seduta anticipata. Di fronte alla richiesta di capire meglio come si stava sentendo si irrigidisce ancor di più e ammette che, effettivamente, era stato difficile dover accettare quello spostamento, che si è sentito trattato ingiustamente.

Sandra, anch’essa con DOCP, mostra, proprio in quella occasione, un aspetto fino a quel momento mai venuto a galla: risponde al messaggio della terapeuta con parole aggressive ed umilianti, accusandola di essere poco attenta, poco organizzata e, infine, poco professionale. Inoltre, l’attacca, sottolineando che avrebbe dovuto sapere quanto per lei fosse “davvero troppo difficile” rivoluzionare la sua agenda. Alla fine, non accetta e disdice la seduta settimanale.

Cosa ha osservato la terapeuta? Reazioni diverse di Davide, Marco e Sandra. Grazie a queste si è potuta raffinare la concettualizzazione condivisa del funzionamento che nella terapia metacognitiva interpersonale (Dimaggio et al., 2013; 2019) è fondamentale per la pianificazione del trattamento. Di fianco all’identificazione dello schema si sono potute rintracciare le strategie di coping (Dimaggio et al., 2013; 2019) che i pazienti hanno imparato a mettere in atto in risposta a determinati eventi e all’attivazione dell’immagine del sé negativa, sofferente, dolorosa, vulnerabile.

Infatti Davide a fronte del wish di attaccamento si è sentito di scarso valore, ha percepito la terapeuta distante ma, per paura dell’abbandono, ha agito la sottomissione, in linea con il profilo tipico dei pazienti evitanti. Marco, in pieno sistema motivazionale di inclusione, ha letto la terapeuta lontana e disinteressata, si è attivata l’immagine negativa in cui si vede invisibile per l’altro e non ha potuto fare a meno di rispondere con la sua strategia di fronteggiamento preferita, oscillando tra uno stato di rivalsa ed uno di sottomissione. Infine, Sandra, mossa dal desiderio di apprezzamento ma sentendosi poco interessante, ha inglobato la terapeuta nel suo schema, percependola tirannica e manipolativa ed ha agito l’aggressività e la vendicatività. Marco e Sandra rappresentano a pieno i due tipi di DOCP descritti nello studio di Solomonov et al., (2020).

La terapeuta, quindi, in modi diversi a seconda del paziente, ha: riconosciuto la frattura che la richiesta dello spostamento della seduta ha generato nella relazione; ha attuato delle operazioni di disciplina interiore per regolare il suo stato interno e ha metacomunicato con i pazienti; ha riparato l’alleanza aiutando i pazienti ad allontanarsi dalla visione del terapeuta schema-dipendente e ha apportato ulteriori informazioni nelle formulazioni del caso. Certamente tutte queste operazioni hanno fatto sì che i pazienti accedessero ad una più ampia consapevolezza del proprio funzionamento interpersonale e proseguissero la terapia senza subire l’impatto delle loro strategie di fronteggiamento sulla relazione, aderendo così meglio al trattamento.

 

Disturbi alimentari maschili: differenze di genere e caratteristiche psicologiche

Nel caso dei disturbi alimentari maschili spesso la richiesta arriva tardivamente perché gli uomini affetti da DA tendono a non chiedere un aiuto tempestivo perché non riconoscono il proprio comportamento alimentare come problematico e per non voler ammettere di avere un disturbo tipicamente femminile.

 

Il mio problema non è che sono grasso…. mi vedo flaccido e vorrei essere più muscoloso… per questo ho iniziato a fare esercizio fisico! Lo faccio tutti i giorni, il weekend arrivo anche a due allenamenti nella stessa giornata! No… non mi sono mai autoindotto il vomito, quella è una cosa da donne…. No no … se mi sento troppo gonfio piuttosto non mangio! Digiuno uno o due giorni e così ripristino l’equilibrio dopo una cena un po’ più calorica… Si ci penso a questa cosa durante la giornata, ci penso spesso… anche perché ho paura che mi venga il diabete come mio padre… così facendo mi prendo anche cura della mia salute! Si… mi rendo conto che ultimamente ho perso peso…. Lo vedo dai vestiti…. No… non sono ossessionato dalla bilancia…. Non mi interessano tanto quelle cose… Mi rendo conto che ultimamente faccio molta attenzione a quello che mangio… prediligo cibi poco calorici… ci sto attento! Dottoressa… secondo lei… ho un disturbo alimentare?’

Mario (nome di fantasia) si presenta così alla nostra prima seduta.

Decido di raccogliere dati per fare una corretta diagnosi, ma presto apprendo che il BMI (Body Mass Index) non è un indicatore valido per gli uomini ma solo per le donne, infatti il normopeso non è indicatore per escludere un DA (Disturbo Alimentare) maschile, manca ovviamente anche un altro campanello d’allarme: l’amenorrea.

Questi due indicatori sono stati in parte la causa di mancati riconoscimenti di Disturbi Alimentari maschili, oltre alla tardiva richiesta di aiuto da parte dei pazienti. Gli uomini affetti da DA, infatti, tendono a non chiedere un aiuto tempestivo perché non riconoscono il proprio comportamento alimentare come problematico e per non voler ammettere di avere un disturbo tipicamente femminile.

Decido allora di cercare in letteratura: trovo, come previsto, tantissimo materiale, ma mi rendo conto che fino a un decennio fa si è approfondito il disturbo specialmente sulle donne, dando poca rilevanza al genere maschile. Perché? La risposta è nelle percentuali di incidenza dei disturbi alimentari negli uomini: uno studio riporta un rapporto di 1 a 11, questo significa che su 11 pazienti che soffrono di DA 1 solo è un uomo. (Hudson JI, et al. 2007).

I dati risalgono agli inizi del nuovo millennio. Cosa è successo dopo? Come sono le percentuali oggi?

Gli uomini che soffrono di Disturbi Alimentari sono aumentati. Diversi studiosi hanno cominciato ad approfondire questo disturbo nell’ottica maschile ma ancora non si ha letteratura sufficiente per avere strumenti specifici di trattamento.

Nel DSM-5 sono state introdotte delle importanti modifiche che favoriscono una diagnosi di Disturbi Alimentari più accurata per il genere maschile: le categorie di classificazione sono meno rigide e quindi i sintomi di DA possono essere individuati anche negli uomini (Raevuori A., 2014).

Differenze tra uomini vs donne

Alcuni aspetti sintomatici accomunano tutte le persone che soffrono di Disturbi Alimentari, come ad esempio le preoccupazioni rispetto al peso, le restrizioni dietetiche e le convinzioni distorte rispetto all’alimentazione, ma ci sono delle differenze sostanziali tra uomo e donna.

Mario, così come molti uomini con Disturbi Alimentari, utilizza in forma minore rispetto alle donne (25% vs 50%) le condotte eliminatorie come ad esempio il vomito autoindotto, l’uso di lassativi e farmaci diuretici. Adotta invece strategie quali l’eccessivo esercizio fisico e periodi di digiuno. (Striegel-Moore RH, et al. 2009).

La giustificazione dei comportamenti restrittivi spesso punta alla prevenzione di malattie mediche, poco presente nelle giustificazioni utilizzate dalle donne. (Grabhorn R, et al. 2003).

Caratteristiche psicologiche nei Disturbi Alimentari maschili

Continuo nella mia ricerca e trovo molto interessante un articolo di Dakanalis risalente al 2015, nel quale vengono approfondite le caratteristiche psicologiche presenti nei pazienti uomini con Disturbi Alimentari.

La tendenza al perfezionismo è uno degli indicatori presenti in molte forme di DA (sia uomini che donne) in quanto induce i pazienti a cercare incessantemente di raggiungere la forma del corpo ideale. La differenza è che gli uomini con questa caratteristica tendono al digiuno, le donne a condotte eliminatorie. Si nota anche la presenza di una chiara tendenza al controllo.

L’insoddisfazione corporea è una seconda variabile che incide sullo sviluppo di Disturbi Alimentari. Gli uomini, spesso con bassa autostima, ansia sociale e depressione, tendono a ricercare ed acquisire una buona muscolarità ‘Drive for masculinity’, le donne invece ricercano la magrezza ‘drive for thinness’.

Questa differenza apre alla conoscenza di due disturbi tipicamente maschili: la Vigoressia e la Ortoressia.

La Vigoressia è un disturbo legato alla percezione errata di avere un corpo gracile e con poca massa muscolare (Pope,1993). La distorsione dell’immagine corporea si riverbera anche nei rapporti sociali, ci si sente inadeguati e quindi si tende all’isolamento sociale. Gli uomini che soffrono di vigoressia tendono ad accrescere la loro massa muscolare con estenuanti allenamenti fisici, ma neanche il raggiungimento di un corpo muscoloso li rende soddisfatti. Spesso associano allo sport anche l’assunzione di integratori alimentari e cibi iperproteici e ipocalorici.

L’Ortoressia è un disturbo che induce gli uomini con DA a sviluppare una vera e propria ossessione per il cibo sano, le regole alimentari e le modalità di cottura più dietetiche. Seguono ruminazioni ossessive circa il tempo impiegato a pensare al cibo, la ricerca di alimenti adatti e la cura nella preparazione. La volta in cui non possono cucinare e consumare cibi dietetici provano senso di colpa e percezione di perdita di controllo (Brytek-Matera, A. 2012). Inutile sottolineare quanto tutto questo porta a un’inevitabile ripercussione negativa sulla sfera sociale, ad esempio il non voler frequentare posti di ritrovo dove sia incluso un pasto o la difficoltà di condividere con altri queste pratiche alimentari così severe e limitanti.

Un’ultima caratteristica psicologica a mio avviso rilevante è l’orientamento sessuale. Gli uomini omosessuali tendono a sviluppare maggiormente un disturbo alimentare rispetto agli uomini eterosessuali. (Dakanalis at al., 2012). Secondo Dakanalis questo accade perché si ha una maggiore ansia legata all’accettazione nelle comunità omosessuali di riferimento e perché la perdita di peso è funzionale a sopprimere petto e fianchi e ad accentuare le caratteristiche del genere desiderato.

Trattamento e conclusioni

La terapia cognitivo-comportamentale ad oggi sembra offrire la tipologia di trattamento migliore. Si lavora sulle credenze disfunzionali e sulla messa in atto di comportamenti maggiormente adattivi per contenere le ruminazioni e migliorare la qualità della vita.

Molto ancora si deve indagare sulle aree relative alle differenze di genere a livello fenomenologico, sull’esordio, sulle manifestazioni sintomatologiche e sull’esito del trattamento. Di certo andremo incontro ad un aumento di uomini con DA che chiederanno un aiuto psicologico, anche se ad oggi si sente ancora forte lo stigma culturale di una malattia considerata al femminile.

 


 

Monogamia e tradimenti: la fine degli amori – Una serie di Roberto Lorenzini

Oggi pubblichiamo il decimo lavoro della serie di Roberto Lorenzini, dedicata al tema della monogamia e delle sue implicazioni psicologiche, affettive, relazionali e, perché no, sessuali. Lorenzini propone una tesi forte: la monogamia non funziona. E prosegue il suo racconto esplorando lo sviluppo della vicenda amorosa e in particolare la fine dell’amore.

MONOGAMIA E TRADIMENTI – (Nr. 10) La fine degli amori

10. La fine degli amori

“Panta rei”, “tutto scorre”, ciò che ha un inizio è destinato ad avere una fine e paradossalmente proprio la sua limitatezza, la sua finitezza gli dà valore, lo rende prezioso (Baroni 2020). Come insegnano le leggi di mercato una risorsa illimitata ha scarso o nullo valore. Tra le cose più preziose c’è la vita che sappiamo essere finita. Anche le storie affettive dunque hanno necessariamente una fine. Non è il fatto in sé che finiscano a renderle brutte o fallimentari, quanto piuttosto come ciò avviene. La chiusura è importante quanto l’inizio e prima di catalogare una storia affettiva e archiviarla in memoria nello scaffale delle meraviglie da ricordare o in quello dei fallimenti da dimenticare dovremmo prima aspettarne la chiusura che peraltro è ciò che ci influenza di più nel bilancio complessivo. I trenta anni di positiva vita in comune possono scomparire a fronte di una chiusura violenta di soli pochi mesi.

La chiusura di un matrimonio o una convivenza soprattutto se lunga comporta una enormità di problemi di ordine pratico organizzativo, economico e soprattutto emotivo ed è considerata insieme al lutto, peraltro molto simile, come uno degli eventi massimamente stressanti della vita seppure il suo effetto dipenda dalla personalità dei due partner che possono risentirne in modo molto diverso, dal tipo del legame in termini di qualità e durata e dalle modalità stesse con cui la chiusura avviene.

I prodromi più comuni della fine di una storia sono il fatto che la presenza del partner da motivo di gioia e dunque ricercata diventi motivo di fastidio e dunque evitata inizialmente nel desiderio e successivamente nei fatti; la riduzione della comunicazione e l’ampliarsi di aree di non condivisione; la mancanza di una progettualità futura e l’estinzione progressiva della vita sessuale; il coinvolgimento in storie affettive con altri partner che può diventare il motivo scatenante della rottura ma è a sua volta la conseguenza della fine della storia stessa.

L’emozione prevalente che accompagna la fine di un amore è la tristezza da considerare assolutamente normale. A questa tristezza per la perdita dell’altro e del progetto condiviso si può aggiungere un’ulteriore tristezza a carattere autosvalutativo per non essere stati all’altezza del compito che ci si era prefissi e si può pensare di non valere solo perché l’altro non ci vuole più. In questo modo ci si carica di tutta la colpa per la fine della storia. Al contrario per evitare questo vissuto molto penoso si può ritenere l’altro completamente responsabile trasformando la tristezza in rabbia nei suoi confronti e iniziando comportamenti violenti di stalking fino all’uccisione del partner, drammaticamente attuali.

Una posizione più equilibrata si fonda sulla consapevolezza che l’esito di una relazione dipende da entrambi, quali che siano i comportamenti finali che hanno suscitato la rottura definitiva, e anche del fatto che non essere più il partner scelto in questa fase di vita dall’altro, seppure motivo di dispiacere, non indica un proprio scarso valore, evitando così la depressione. I neuroscienziati hanno spiegato come esperienze di sana tristezza da perdita possano scivolare in soggetti con un particolare assetto recettoriale (ipersensibilità dei recettori serotoninergici presinaptici inibitori) in un circolo vizioso automantenentesi di depressione vera e propria, è dunque importante elaborare la tristezza per non esserne sopraffatti.

Si può essere insoddisfatti e tristi per due diversi ordini di motivi. Il primo riguarda il gap tra lo stato reale delle cose e lo stato desiderato ovvero quanto siamo lontani dal raggiungimento dei nostri scopi e se essi sono o meno perduti per sempre. Il secondo riguarda quanto il soggetto stesso è lontano dal suo ideale del sé. In questo caso si è insoddisfatti per come non si è stati in grado di modificare favorevolmente l’andamento delle cose. La prima è una insoddisfazione sull’oggetto che ne attiva una più profonda sul soggetto stesso che genera ulteriori effetti secondari di mantenimento come la rinuncia e il disimpegno. Non solo ho fallito ma “sono un fallito”. Nel fare bilanci, incredibilmente non teniamo conto del fatto che il tempo passa e sia noi che il nostro partner siamo cambiati e per giudicare della bontà o meno di una scelta bisogna riassumere la prospettiva di quando la si è fatta e non valutarne la correttezza dagli esiti cadendo nel cosiddetto “bias del senno di poi” di cui si sa essere piene le fosse.

Molto probabilmente rimessi nella stessa situazione, con l’assetto motivazionale e i dati a disposizione in quel momento, rifaremmo esattamente la stessa scelta. L’errore che comporta una inutile autocritica deriva dalla fallace impressione di essere sempre stati come siamo ora e la certezza che saremo sempre così. Non vediamo i cambiamenti avvenuti e non ce ne aspettiamo di futuri. Addirittura, quando cambiamo idea non ci ricordiamo davvero come la pensavamo in passato, ricordiamo i fatti magari ma non i nostri giudizi su essi. Ci sembra di averla sempre pensata allo stesso modo anche quando ciò è contraddetto da specifici ricordi e testimonianze (Kanheman, 2011; Taleb, 2007). Dobbiamo invece immaginare i vari periodi di vita come blocchi transitori di coerenza. Un procedere dell’esistenza attraverso crisi di cambiamento, una sorta di rivoluzioni kuhniane e lunghi periodi di stabilità (Kuhn, 1962).

Se è vero che si nasce rivoluzionari, si diventa riformisti e si muore conservatori, l’aspetto più interessante è che si è convinti di essere sempre stati identici a se stessi. Rispetto a questa cecità al cambiamento che ci porta a credere che le cose saranno sempre come ora, il che certamente è sgradevole in momenti neri e costituisce proprio “l’errore del suicida”, credo sia utile frugare nella storia della coppia alla ricerca di periodi diversi e ricostruire come era la vita, le emozioni e le attività anche con l’ausilio di foto, interviste a testimoni, film o musiche d’epoca. Abbiamo visto come l’insoddisfazione dipenda dal confronto tra uno stato reale e uno stato desiderato.

In effetti come i recettori sensoriali anche nella valutazione degli stati (a esempio, ricchezza o felicità) siamo molto sensibili alle variazioni e ai confronti, insomma non stati di ricchezza, ma guadagni e/o perdite. Per questo l’esito dipenderà molto dalla baseline scelta come riferimento che sia esterna o un altro periodo della propria vita. Se confronto la relazione con il mio partner con il momento iniziale dell’innamoramento, il mio stato di salute con la prestanza dei diciott’anni o il mio reddito con quello di un top manager, sono evidentemente alla ricerca di secchiate di insoddisfazione. È sperimentalmente dimostrato che gli esseri umani hanno una naturale avversione alle perdite sperimentate come minacce e anche che ciò sia un meccanismo salvavita evolutivamente vantaggioso sebbene possa non migliorare l’umore (Kahneman 2011).

Nel modello biopsicologico prevale la negatività e la fuga su positività e approccio. Il negativo vince sul positivo. Un solo scarafaggio rende disgustoso un intero piatto di ciliegie ma una ciliegia non rende gradevole un cesto di scarafaggi. Ancora, un solo cattivo gesto rovina una amicizia ma non viceversa. In natura e anche in molti sport sono in vantaggio i difensori sugli attaccanti.

Il tempo classico dell’insoddisfazione e della fine della maggior parte delle storie affettive è quello della tarda maturità quando si iniziano a fare i bilanci della propria esistenza nei vari campi in cui la si è spesa. Nel farli siamo vittime di un bias interessantissimo che Kanheman descrive con decine di affascinanti esperimenti definendolo “il valore edonico di un esperienza”. Quanto ne godiamo e/o quanto ne soffriamo risulta molto diverso se viene valutato in diretta, da quello che chiama il Sé esperienziale, o nel ricordo da quello che chiama il Sé mnemonico. Quest’ultimo che è quello attivo quando facciamo i bilanci o quando decidiamo se ripetere o meno una certa esperienza commette una serie di errori grossolani. Il primo è che conta molto più della media ponderata, che sarebbe il calcolo corretto (l’area logaritmica sotto la curva tempo/ piacere o dolore), l’intensità di picco e quella finale.

Il secondo gravissimo errore è la assoluta disattenzione per la durata. Così si può giudicare negativa un’esperienza affettiva o lavorativa di grande soddisfazione per trent’anni perché ha avuto un momento acuto di crisi oppure è finita male, mentre si giudica migliore una esperienza di pochi mesi senza infamia né lode ma conclusasi bene. Kanheman sottolinea la differenza tra Sé esperienziale che vive in diretta e il Sé mnemonico che valuta le esperienze secondo il bias “picco-fine” e la cecità per la durata, portando a confondere l’esperienza con il ricordo di essa. Quando dunque vogliamo valutare una storia affettiva non dobbiamo soffermarci soltanto sul periodo conclusivo certamente difficile e doloroso, ma ampliare il campo e tener conto dei periodi positivi, delle gioie, dei risultati ottenuti.

Sarebbe utile poter scrivere una lettera al partner in cui lo si ringrazia di tutte le cose buone che ci ha dato oppure scrivere una lettera congiunta in cui si elenchino tutti i successi e le gioie passate. Un piccolo accorgimento del genere renderebbe forse meno lacerante la chiusura e sarebbe controcorrente rispetto a tutte le spinte provenienti, spesso, dalle famiglie d’origine e, sempre, dagli avvocati che guadagnano dalla conflittualità, miranti a rinfocolare il conflitto per motivi di interesse o, come si dice “di principio”.

Un altro errore in cui siamo sistematicamente indotti quando pensiamo ad una relazione con un’altra persona (non soltanto il partner, ma fratelli, parenti, amici e colleghi) è di aver dato di più di quanto si è ricevuto (se sarete costretti a sbarcare il lunario leggendo la mano esordite sempre con l’affermazione “vedo che lei ha dato più di quanto ha ricevuto” e avrete il successo assicurato). Questo errore dipende di nuovo dal fatto che quello che diamo essendo una perdita ha una rilevanza emotiva esattamente doppia di quello che riceviamo, un guadagno. Per lo stesso motivo chi vende qualcosa ha l’impressione di ricevere troppo poco e chi compra di pagare troppo.

Inoltre, quando facciamo bilanci che ci generano insoddisfazioni abbiamo l’impressione che ci manchi qualcosa per essere felici. Kanheman chiama “miswanting” questo credere che certe cose ci renderanno felici (un partner, una casa, una macchina, un lavoro, un figlio) mentre al massimo lo fanno nella fase iniziale, poi diventano normali e non contano più (disattenzione per il tempo). Rispetto a questo bias sarà importante ridimensionare l’aspettativa di felicità rispetto ad un oggetto esterno e quindi la sofferenza per non averlo e lo si può fare ricordando periodi della propria vita in cui la cosa c’era ma non la felicità e osservando se davvero coloro che la possiedono sono felici.

Stando attenti ai bias elencati precedentemente è utile, per chiudere bene una storia, ricercare e ricordare, nonché valorizzare tutto quanto di buono c’è stato ed ha prodotto. È un errore, infatti, ritenere che per chiudere una esperienza occorra valutarla completamente negativa, tra l’altro così facendo si finisce per giudicare negativamente anche se stessi per il tempo e le risorse che ci si sono investite. Allo stesso modo è più facile risolvere il lutto di una persona con cui si aveva un buon rapporto, che di una persona con cui si aveva una cattiva relazione.

 

The Social Dilemma: terrorismo mediatico o pericolosa realtà?

‘Nulla che sia grande entra nella vita dei mortali senza una maledizione’. Inizia con questa citazione del drammaturgo greco Sofocle il documentario dal titolo The Social Dilemma, diretto dal regista Jeff Orlowski e trasmesso su Netflix.

 

The Social Dilemma ci mostra la vita di Ben – l’attore Skyler Gisondo – che vive una dipendenza da Social Network: costretto dalla madre a non utilizzare il telefono cellulare per una settimana, entra in uno stato di profonda crisi trascorsi appena due giorni.

I sintomi correlati ad una dipendenza da Internet riguardano: la tolleranza, ossia l’assuefazione, legata alla necessità di stare sempre più connessi per raggiungere uno stato di temporaneo appagamento; l’astinenza, ovvero la sensazione di intenso disagio psicofisico quando non ci si collega al web per un certo periodo di tempo; il craving, caratterizzato dall’aumento di pensieri fissi e da forti impulsi inerenti il come e quando connettersi. Il protagonista sembra sperimentare ognuno dei sintomi legati ad una condizione di vera e propria dipendenza. Il documentario ci mostra, parallelamente, le vicende di un ipotetico team di esperti che manipola un Avatar corrispondente all’utente: in questo modo, Ben viene continuamente sottoposto a stimoli a cui non riesce a sottrarsi, informazioni personalizzate allo scopo di colpire la sua emotività e di catturare la sua attenzione. Immagini inquietanti se pensiamo a quanto si cela dietro ognuno dei nostri profili social.

The Social Dilemma mostra inoltre numerose interviste, domande poste ad alcuni tra i più noti dipendenti di Google, Facebook, Instagram, Twitter, Pinterest ed altre famose piattaforme, impiegati della Silicon Valley. I professionisti intervistati, tra cui l’inventore del tasto ‘like’ di Facebook, riconoscono ad oggi le importanti implicazioni psicologiche che si celano dietro le loro scoperte, novità che in alcuni casi stanno provocando gravi conseguenze per la salute mentale dei cittadini di tutto il mondo. Molti di essi attualmente hanno addirittura deciso di licenziarsi: riconoscono di aver contribuito alla nascita di strumenti, sicuramente utili e meravigliosi, ma non senza gravi rischi per l’equilibrio psichico dell’essere umano.

Durante la scorsa decade l’avvento dei Social Network ha causato profondi mutamenti nel modo in cui le persone comunicano ed interagiscono tra loro. Non è ancora perfettamente chiaro se e come alcuni di questi cambiamenti possono influenzare determinati aspetti del comportamento umano e causare disturbi psichiatrici o psicologici specifici. Studi scientifici hanno indicato come l’utilizzo prolungato dei ‘Siti di Social Networking’ (SNS) – come Facebook o Instagram – potrebbero essere collegati in maniera diretta con alcuni sintomi della depressione. Inoltre, alcuni autori indicano che determinate attività compiute all’interno dei SNS potrebbero essere correlate con una bassa autostima, specialmente in bambini e adolescenti; altri studi, invece, presentano risultati opposti: i Social Network potrebbero anche avere un impatto positivo sulla stima di sé. La relazione tra l’uso dei SNS ed il disagio mentale ad oggi rimane dunque un aspetto controverso (Pantic, 2014).

Ma come mai i Social Network, con il passare del tempo, sono diventati così importanti per noi? Numerosi studi scientifici hanno indagato le motivazioni psicologiche che spingono ad utilizzarli in maniera massiccia, in differenti stadi della vita quali l’adolescenza, l’età adulta e l’anzianità. I cambiamenti sociali, infatti, hanno in generale un’importante influenza rispetto alla salute individuale di ognuno di noi e, in particolare, l’avvento dei Social Media può essere considerato significativo rispetto al benessere psicologico in ciascuno dei diversi stadi della vita. Nello specifico, è stato scientificamente riscontrato come per gli adolescenti l’aspetto di maggior impatto nell’uso dei social riguarda l’isolamento sociale, seguito dalla percezione di essere connessi agli altri e dalla fiducia interpersonale. Per gli adulti, così come nella vecchiaia, tra questi tre differenti fattori implicati nell’utilizzo dei Social resta comunque l’emarginazione ad avere maggiore importanza (Levula et al., 2016). L’isolamento sociale gioca dunque il ruolo più significativo in tutte le fasi della vita nell’uso dei Social Network: tale scoperta dovrebbe avere importanti implicazioni pratiche, soprattutto nella progettazione di interventi sulla salute mentale dei giovani e dei meno giovani. Ma come mai la percezione di essere emarginati è così temuta, in ognuna delle fasi della vita? Il timore di essere esclusi, tagliati fuori, di non vivere la vita a pieno così come fanno gli altri, in inglese denominato Fear of Missing Out, è una delle maggiori cause che si celano dietro un utilizzo disfunzionale dei Social Network: chi sperimenta la Fomo è infatti spinto a partecipare in maniera attiva e costante alla vita sociale altrui, attraverso l’accesso continuo ai canali Social.

Un recente studio ha indagato la correlazione tra i tratti personologici, le variabili implicate nella salute mentale e l’utilizzo dei Social Media, in alcuni giovani studenti (Brailovskaia et al., 2018). I risultati indicano una importante associazione tra l’uso generico di Internet e l’accesso ai Social Network ed importanti fattori psicologici quali: l’autostima, l’estroversione, il narcisismo, la soddisfazione in merito alla propria vita, il supporto sociale e la resilienza. Lo studio ipotizza che l’utilizzo di piattaforme Internet incentrate maggiormente sull’interazione di tipo scritto, come Twitter, possa essere associato negativamente a variabili implicate nella salute mentale, in quanto legate a sintomi quali depressione, ansia e stress. Al contrario, l’uso di Social Network come Instagram, che si concentra maggiormente sulla condivisione di foto e immagini, sarebbe collegato a variabili positive come l’autostima. Tale ipotesi rimane ancora un aspetto controverso. Studi recenti dimostrano come in America sintomi quali depressione e ansia sono aumentati in maniera esponenziale tra il 2011 e il 2013: il numero dei ricoveri in ospedale per disagi di tipo psicologico è salito del 62% nei giovani adulti e del 189% nei pre-adolescenti. Aumentati inoltre i gesti autolesivi e il numero dei suicidi tra i più giovani proprio dal 2009, anno dell’avvento dei Social Network; nello specifico, il tasso di suicidio è aumentato del 70% tra 15 e 19 anni e del 151% tra i 10 e i 14. Dati spaventosi per quella che viene definita la ‘generazione Z’, che approda sui Social Network già a partire dalle scuole medie: un’intera fascia di età più ansiosa e depressa.

Fenomeno recentissimo quello di Jonathan Galindo, un utente misterioso, simboleggiato da un viso mascherato, che contatta i giovani e li spinge ad uccidersi attraverso la partecipazione ad un ‘gioco’ online, in cui si è obbligati a superare step sempre più difficili, fino a togliersi la vita. Tra i più giovani in aumento anche gli interventi di chirurgia plastica, allo scopo di assomigliare ai filtri utilizzati nei Social Network, al punto da ipotizzare una ‘dismorfia da Snapchat’: il dismorfismo corporeo è una condizione psicologica in cui ci si fissa su una caratteristica o su più caratteristiche del proprio aspetto esteriore, notando imperfezioni o difetti che per altre persone appaiono minimi o inesistenti; tale disagio è legato ad una continua ricerca di approvazione sociale, per avvicinarsi ad una utopica idea di perfezione. I Social Network quindi cambiano il comportamento, manipolano in maniera subdola la psiche attraverso l’inconscio di chi li utilizza, agendo su pilastri dell’identità e della autostima.

Un’altra importante riflessione che The Social Dilemma ci invita a fare riguarda l’ascolto di notizie provenienti dal web: usare Internet in maniera disfunzionale significa anche non sottoporre ad un vaglio critico la continua sovrapproduzione di informazioni con cui veniamo a contatto, con forti implicazioni a livello etico e sociale. Le quotidiane fake news, infatti, hanno negli ultimi anni contribuito ad una cultura della disinformazione, con cambiamenti nelle ideologie di milioni di persone spesso basati su dati non scientifici e provenienti da fonti non attendibili.

Il documentario spinge ad una doverosa riflessione sui Social Media e su come questi manipolano la mente dei cittadini per trarre profitto economico. Essere continuamente monitorati da software che sono programmati da esperti di psicologia umana, essere esposti a professionisti che sembrano conoscere ogni aspetto della nostra personalità, è questa la sensazione che traspare dopo aver visto il documentario Netflix, in cui risuona lo slogan: ‘Il prodotto sei tu’. Un esempio altamente significativo riguarda il tempo di attesa per ricevere una risposta su Facebook – latenza in cui appaiono nello schermo tre puntini di sospensione – che coincide con l’essere bersagli di pubblicità mirate ad ottenere la maggiore attenzione possibile da parte dell’utente che è in attesa e, di conseguenza, molto attento. Le tecniche utilizzate dai professionisti che programmano i Social Network si basano sui principi delle neuroscienze: ogni informazione prodotta viene tracciata e di seguito utilizzata per spostare l’attenzione di quel determinato utente in direzioni scelte dall’esperto, con lo scopo di modificare le sue opinioni, introdurre nuove teorie… controllare la sua mente. ‘Pensi di essere libero e di poter trovare qualsiasi informazione, in realtà stai perdendo la tua libertà’: navigando sul web assistiamo dunque inermi ad un graduale e subdolo cambiamento interiore, rispetto alla nostra identità, ai nostri pensieri e alle nostre emozioni. Sembra venir meno il concetto di libero arbitrio! I programmatori utilizzano il principio psicologico del ‘rinforzo positivo intermittente’: come nel gioco delle slot machines, si innesta nella mente dell’utente una abitudine – inconscia – che lo spinge a continuare determinate attività. Il modello è quello dell’apprendimento automatico, basato su specifici algoritmi, che permettono alle aziende di proporre pubblicità strettamente collegate agli interessi dell’utente, riconosciuti tramite l’analisi delle ricerche effettuate da lui stesso e a cui non ci si può sottrarre, come in una trappola. Dal documentario traspare come attraverso l’illusione di poter conoscere qualsiasi informazione semplicemente chiedendola a Google, in una condizione di apparente libertà totale di scelta, non abbiamo affatto la possibilità di cogliere la vera realtà che ci circonda, ma soltanto ciò che vogliono farci sapere.

The Social Dilemma rappresenta lo specchio di una pericolosa realtà oppure trasmette dei messaggi esagerati allo scopo di infondere terrorismo mediatico?

A mio avviso le conseguenze dell’utilizzo dei Social Network non colpiscono tutti gli utenti allo stesso modo, ma esistono delle categorie maggiormente a rischio. Le vulnerabilità personologiche di ognuno, infatti, hanno un ruolo determinante nell’impatto che l’utilizzo dei canali Social provoca nella psiche e vanno riconosciute. Coloro che vivono stati emotivi interni legati a temi quali inadeguatezza ed insicurezza, in cui si teme l’abbandono più di ogni altra cosa, si tende a voler evitare l’esclusione, ci si sente profondamente emarginati, deboli e fragili, sono le vittime più comuni di disagio psichico provocato dai Social. ‘Usare ciò che sei contro di te’. Le vulnerabilità individuali, attraverso il continuo accesso ai SSN, vengono esposte ad un elevato rischio di sofferenza emotiva, aumentando la percezione interna di vuoto, ovvero una delle sensazioni maggiormente temute dall’essere umano, che spinge paradossalmente a connettersi di nuovo in un circolo vizioso altamente disfunzionale. Il rischio è quello di creare nei più giovani l’idea che in condizioni di isolamento sociale non esisterebbe più la loro intera identità: lontani da Internet i giovani non si percepiscono in un ruolo definito e non si identificano con null’altro ad eccezione del proprio profilo, nell’unica alternativa di vivere una vita social. ‘Stiamo addestrando e condizionando un’intera generazione a pensare che quando siamo a disagio, o ci sentiamo soli, incerti o spaventati abbiamo a disposizione un ciuccio digitale e questo sta atrofizzando la nostra capacità di affrontare le cose’, si ascolta nel documentario.

Non è la tecnologia quindi ad essere una minaccia esistenziale di per sé, ma è come essa viene utilizzata. La ricerca scientifica può fornire anche un aiuto prezioso nello studio del disagio psichico. La malattia mentale è diventata negli anni il più grave problema per la salute pubblica mondiale e i Social Network – piattaforme dove gli utenti esprimono emozioni, sensazioni e pensieri – sono una fonte inesauribile di dati per la ricerca sulla salute mentale, seppur emergono numerosi limiti: assemblare un quantitativo enorme di dati sugli utenti dei Social Media affetti da disturbi mentali è difficile, non solo a causa di pregiudizi associati ai metodi di raccolta, ma anche per quanto riguarda la gestione del consenso e la selezione di tecniche di analisi appropriate (Wongkoblap et al., 2017). La tecnologia digitale può dunque essere destinata a trasformare anche la fornitura di assistenza sanitaria. La rivoluzione digitale sta evolvendo ad un ritmo inarrestabile e, accanto all’esplosione senza precedenti della tecnologia, l’attenzione verso il benessere psicologico sta aumentando. Considerando l’impatto della comunicazione digitale nelle interazioni umane e, di conseguenza, l’influenza di essa negli stati mentali, come l’umore e il benessere, si può trasformare il modo di aiutare le persone affette da disagio psichico attraverso la tecnologia (Bucci et al., 2019); ciò si vede già negli interventi psicoterapeutici ormai sperimentati anche attraverso modalità online e quindi accessibili potenzialmente a moltissime persone. Un nuovo modo di utilizzare il progresso tecnologico per fini benefici.

Esistono dunque modi per contrastare i rischi che emergono dal documentario The Social Dilemma. Sarebbe fondamentale promuovere una educazione sociale all’interno delle scuole, nell’ottica di prevenzione: formare i cittadini più giovani sui potenziali rischi psicologici derivati dall’abuso di Internet, renderli capaci di uno sguardo critico nell’utilizzo degli importantissimi strumenti che il web ci fornisce. Comprendere in maniera precoce quando può nascere una dipendenza, percependo il bisogno di trascorrere sempre più tempo online, rinunciando alla vita reale per restare connessi o perdendo relazioni importanti per la necessità di stare al telefono: nei casi in cui ciò dovesse verificarsi, è fondamentale poter stabilire un tempo preciso per restare connessi, riabituarsi a stare senza tecnologia per qualche ora e prendere contatto con sensazioni reali e piacevoli. Fine ultimo, usare i Social Network in modo produttivo e costruttivo, per trarne i benefici ormai divenuti imprescindibili nella nostra quotidianità, ma lontani dai potenziali rischi per il benessere e l’equilibrio mentale dei cittadini.

I codici sociali irrompono nel lavoro clinico: gli isomorfismi variabili. Una possibile griglia per comparare i fenomeni sociali e individuali

È uscito per Alpes l’interessante volume La funzione sociale dello psicoterapeuta di Luigi D’Elia. Pubblichiamo qui una presentazione che lo stesso D’Elia fa del suo libro, in cui introduce la sua riflessione sociale sul nostro mestiere. Sicuramente una lettura interessante per tutti noi.

 

Il vecchio mondo sta morendo. Quello nuovo tarda a comparire. E in questo chiaroscuro nascono i mostri. (Antonio Gramsci)

Difficile, se non impossibile, demarcare con nettezza il confine che separa contesti e domini differenti nel lavoro clinico di uno psicoterapeuta. Quando uno psicoterapeuta incontra il sistema-paziente, incontra sempre un intreccio di voci indistinto. Le distinzioni le facciamo noi, post hoc, per ragioni descrittive e operative. Probabilmente le distinzioni sono semplici prevalenze fenomenologiche legate al contesto osservativo e all’impronta teorica che evoca un aspetto parziale anziché un altro, un ventaglio di fenomeni all’interno di una matrice osservativa/operativa, anziché un altro.

I fenomeni nuovi entrano assai silenziosamente nei nostri presidi (ambulatoriali e istituzionali) ed occupano già tutto lo spazio, sono cioè già parte dell’aria che respiriamo. Dunque, accade che ciò che è visibile sotto gli occhi di tutti non sia osservabile, ma neanche raccontabile attraverso sintesi non banali e riduttive.

Dobbiamo perciò fare i conti con l’insufficienza dei modelli di comprensione dei saperi e dei paradigmi psicologici e medici nel comprendere la progressiva opacizzazione dell’uomo contemporaneo. Questo determina, come intuibile, l’automatismo di vecchie griglie di comprensione e di vecchie procedure che rischiano in tal modo, sovrapponendosi forzosamente a nuovi fenomeni sfuggenti, di diventare iatrogene ed intrinsecamente invalidanti o, se tutto va bene, inutili.

Ciò che manca nel lavoro dello psicoterapeuta è spesso una visione organica dell’incidenza dei codici socioculturali sul lavoro clinico e soprattutto un’idea ordinata di come lavorarci in terapia.

Se volessimo fare una rassegna esaustiva e puntiforme di come il funzionamento sociale ricade in ogni forma nella vita psichica individuale e quindi conseguentemente nel lavoro dello psicoterapeuta, sarebbe operazione talmente pervasiva che probabilmente ci perderemmo in meandri di particolari e rischieremmo forse di inciampare in facili riduzionismi psicologici o sociologici.

Tutte le fenomenologie psicopatologiche del presente: dall’ansia alla depressione, dai disturbi somatoformi a quelli alimentari, passando dai disturbi del sonno, della sfera sessuale, del comportamento dipendente, ludopatico, compulsivo, impulsivo, tossicofilico, per giungere a tutte le possibili variazioni e sfumature dei disturbi della personalità nella modernità, etc., prendono forma in un medium socioculturale. Non molti di noi viceversa si sono posti la domanda di come avviene il passaggio dal piano sociale a quello individuale. Una delle ragioni di fondo che è alla radice di questo mio lavoro è esattamente tentare di rispondere, almeno approssimativamente, a questa domanda.

Sono piuttosto distante dall’attuale tendenza a mescolare piani e domini nella direzione di un approccio cosiddetto ‘olistico’, ciò che viene fuori è il più delle volte un minestrone denso e dolciastro, epistemologicamente immangiabile, una melassa buona per tutte le stagioni dove nel nome di un approccio integrato o naturale, o in nome del pensiero di qualche grande maestro, si sovrappongono, o meglio ancora, si giustappongono, strati di conoscenza come se si parlasse un unico linguaggio, come se tutti i piani, poiché giustapposti, seguissero gli stessi codici, lo stesso lessico, le stesse regole sintattiche e grammaticali, le stesse logiche. Ed ecco assistere all’uso sempre più disinvolto di terminologie frutto di giustapposizioni di fisica quantistica, fitoterapia, antropologia, omeopatia, amore per la natura e l’ambiente, tradizioni spiritualistico-religiose, mitologia, e così via, in un minestrone indigesto, un millefoglie caotico privo di ogni fondamento epistemologico, o semplicemente privo di ogni ragionevolezza.

Quando parliamo dell’irruzione dei codici sociali nel lavoro clinico di uno psicoterapeuta, dobbiamo fare lo sforzo di includere una posizione epistemologicamente paradossale secondo la quale tutti i domini fenomenologici (dall’intrapsichico al sociale, o se vogliamo usare la dicitura un po’ consunta, biopsicosociale) sono al tempo stesso uniti e separati. Uniti in quanto necessariamente connessi e concatenati e talora utilizzatori di medesimi codici sorgenti comuni. Separati in quanto ogni dominio si comporta in maniera autonoma e utilizza regole proprie e non comuni agli altri domini subordinati o sovraordinati.

Per esplorare, senza alcuna pretesa di esaustività (vista la vastità del tema), la dinamica che presiede l’irruzione dei codici sociali nella vita di ognuno di noi, nel nostro modo di pensare, agire, soffrire, e dunque nel lavoro dello psicoterapeuta di formazione sociale che incontra tale complessità nel proprio quotidiano lavoro a contatto con i propri pazienti, occorre perciò abbandonare il prima possibile l‘illusione che la complessità dei fenomeni psico-sociali possa funzionare per isomorfismi rigidi e perfettamente replicabili.

In altri termini, il rapporto tra fenomeni apparentemente simili o in connessione ma collocati su domini diversi non corrisponde necessariamente ad un replicarsi strutturale ed invariante di leggi e regole di un dominio su un altro, al ripetersi delle stesse logiche dei codici sociali nei meccanismi della psiche. Pensare in questi termini è operazione più che altro di ingenuo riduzionismo: si osservano delle analogie e delle correlazioni tra psiche e codici culturali prevalenti e si assimilano le leggi dei diversi piani attraverso una sorta di universalismo matematico. Niente di più semplicistico e inutile dell’applicazione concettuale di un isomorfismo rigido che appiattisca la variabilità dei fenomeni.

Per evitare di cadere in facili riduzionismi, quando affrontiamo il delicato tema di come trattiamo epistemologicamente i codici sociali in psicoterapia, occorre innanzitutto comprendere che domini differenti (dall’individuo alla società, dalla natura alla cultura, dal micro al macro) possono essere informati da medesimi codici, ma non necessariamente utilizzare lo stesso linguaggio, le stesse regole sintattiche e grammaticali e lo stesso lessico.

Occorre perciò dotarsi di uno strumento teorico più adeguato alla complessità dei fenomeni che andiamo osservando ed immaginare piuttosto a isomorfismi variabili che non rimandano a nessuna legge universale, ma a correlazioni qualitative tra fenomeni collocati su piani differenti. Possiamo dunque descrivere un isomorfismo che si sposta su un range da debole a intermedio o forte a seconda della regolarità dei propri meccanismi, ma anche a seconda della omogeneità dei linguaggi che traducono gli stessi codici sociali in comportamenti individuali.

Come avviene, dunque, che un dato aspetto che collochiamo sul dominio socioculturale intervenga fin dentro la struttura di una personalità o di un sistema nervoso orientandone in qualche misura il funzionamento, le scelte, le modalità?

In un mio articolo di alcuni anni fa che riguardava i cambiamenti dei cicli vitali nella contemporaneità (D’Elia. L. La scomparsa dell’età adulta, 2012, su psicologoaurelio.it), argomentavo che uno degli aspetti più eclatanti che testimoniano esattamente l’irruzione della sfera sociale nel dominio dell’individuo e del suo aspetto fisico, quindi del suo corpo, è il fenomeno della giovanilizzazione delle più recenti generazioni.

In altri termini, in pochissimi decenni la percezione dell’età anagrafica si è sensibilmente sottostimata per la maggior parte di noi contemporanei facendoci quasi tutti apparire più giovani di quanto in realtà non siamo e soprattutto di quanto apparivano le generazioni immediatamente precedenti alle nostre.

Basta prendere una foto di nostro nonno o nostra nonna di quando aveva 25-30 anni e una analoga foto nostra alla medesima età e confrontarla per aver l’esatta percezione di quanto le trasformazioni dei codici sociali incidano profondamente non solo nella rappresentazione di sé e del ciclo vitale, ma persino nel volto, nel corpo, nell’aspetto, di generazioni praticamente limitrofe. Solo 50-80 anni fa un 25enne era un uomo fatto o una donna fatta, nell’aspetto e nella posizione sociale. Un 25enne contemporaneo è un ragazzo ancora largamente incompiuto come persona, diremmo oggi appena uscito dalla piena fase adolescenziale. Nell’arco di pochi decenni l’aspetto della maggior parte delle persone di ogni età si è ringiovanito di almeno un decennio.

Utilizzo spesso questo esempio del confronto fotografico in quanto è uno dei più visibili e tangibili casi in cui un fenomeno sociale e culturale, ovverosia la rapidissima trasformazione del mondo negli ultimi decenni, penetra nella pelle e nella mente delle persone cambiandone di fatto aspetto e aspettative.

Di fronte alla correlazione così intima e palese tra codici sociali e psicologici, siamo obbligati a pensare in maniera più complessa e ad immaginare una circolarità oltre che una stratificazione dei fenomeni. In termini di concatenazioni un fenomeno appartiene all’altro e ne condivide, possiamo dire così, il paradigma. Ne condivide cioè i codici sorgenti (D’Elia, 2012, ibidem).

I fenomeni socioculturali e psichici secondo questa prospettiva sarebbero tra loro dunque concatenati, stratificati e circolari, l’uno condividerebbe il codice sorgente dell’altro seppure collocandosi su domini differenti e utilizzando linguaggi non sempre comparabili tra di loro. Ciò, come detto, non corrisponde ad un isomorfismo rigido dei meccanismi e delle leggi che governano i diversi domini, né tanto meno ad una causalità lineare, tipo causa-effetto, tra i fenomeni appartenenti a tali domini, quanto invece ad una continuità/affinità tra codici ad una loro reciproca correlazione le cui regole non sono universali, definite una volta per tutte, ma ogni volta particolari e diverse e definibili di volta in volta.

Vediamo dunque più da vicino questo range che caratterizza la variabilità dell’isomorfismo tra fenomeni psicosociali. Facciamo alcuni casi esemplificativi per svelare ulteriormente la natura della contaminazione e condivisione dei codici tra domini differenti.

Caso 1/A, Isomorfismo debole: moda-magrezza-anoressia

Se è certamente vero che la cultura e le consuetudini della moda incidono sull’immaginario di ciascuno di noi, su come un corpo accettabile debba essere esteticamente, dettando implicitamente ed esplicitamente i canoni e le coordinate di un certo gusto, di certe forme del corpo, nessuno potrebbe mai affermare che ciò sia la causa efficiente dell’anoressia di questa o quella persona. L’immaginario individuale si nutre di quello collettivo che a sua volta si nutre del materiale della moda, che a sua volta interpreta le tendenze sociali. Correlazioni, ma non causalità diretta. Tutti gli isomorfismi deboli, specie sul versante massmediatico, sono di questa natura.

Caso 1/B, Isomorfismo debole: Testi violenti di canzoni-comportamenti violenti

Esiste un nesso diretto tra testi violenti di canzoni popolari e azioni violente? Tale quesito, emerso in un recente dibattito circa i testi di un cantante rap con evidenti contenuti misogini, sessisti e violenti, è uno dei tanti esempi di influenza sociale dei mass media sui comportamenti reali delle persone. Questo tema è stato oggetto di numerosi studi della psicologia sociale e vede un certo riscontro, in molte ricerche, tra contenuti violenti (di un film, di un messaggio pubblicitario, di un videogioco, etc.) e atteggiamenti aggressivi, antisociali, o ideologicamente orientati alla violenza o semplicemente desensibilizzati ad essa, ma non troviamo l’unanimità degli esiti di altre ricerche simili che invece non dimostrano questa correlazione.

In casi come questo, nel quale l’uovo e la gallina si specchiano senza precedersi o causarsi, dovremmo abbandonare l’ingenuità per la quale i processi sociali di influenzamento seguano dinamiche lineari up-bottom, ma dobbiamo sforzarci di comprendere la circolarità dei fenomeni secondo cui nei mass media avviene più o meno ciò che sta avvenendo nella società e a volte alcune elaborazioni artistiche o pseudo-tali non sono altro che casse di risonanza di culture violente, altre volte possono diventare benzina sul fuoco di dinamiche francamente antisociali.

Anche qui, come in molti altri casi, assistiamo alla sovrapposizione e confusione tra correlato e causa. Il testo della canzone che fa risuonare la dinamica violenta ne diventa a sua volta causa oppure ne è mero correlato/specchio, magari anche con funzioni catartiche?

Pensiamo ad esempio al testo di una canzone del 1951 che tutti noi cantiamo sulle note soavi di una canzone di amore e di una musica dolce e che scambiamo tutti come canzone romantica. Sto parlando di Malafemmina (che in napoletano sta per, donna infida, puttana), scritta da Totò a seguito di una vicenda personale decisamente controversa e profondamente misogina, e che è spudoratamente, nella prima metà del testo, un invito al femminicidio o quanto meno l’accettazione di esso. Ebbene, siamo in grado di affermare che questa canzone abbia prodotto una cultura violenta e misogina? O si tratta piuttosto di un prodotto secondario di una cultura patriarcale violenta? O invece, ancora, si tratta a suo modo, e considerati i suoi tempi, di una canzone che tenta una conversione della violenza in pacificazione e dolcezza (anche musicalmente) e quindi svolge una funzione catartica?

Certamente non tutti i testi violenti sono catartici e ogni messaggio va contestualizzato, così come occorre tenere conto di come un messaggio viene ricevuto e decodificato e su quale situazione psicologica particolare e unica può agire. Ma in questo caso la correlazione tra messaggio violento di un testo di una canzone e comportamento reale rimane piuttosto debole, seppur presente.

Caso 2, Isomorfismo intermedio: società-liquida-individualista-crisi-della-coppia

Il rapporto tra trasformazioni sociali e cambiamenti delle relazioni amorose e della vita delle coppie è ben visibile semplicemente visionando le statistiche Istat degli ultimi 40 anni e i numeri crescenti di separazioni e divorzi, la diminuzione dei matrimoni e la diminuzione delle nascite. Tutte tendenze queste in stabile andamento, fatto questo che conferma trattarsi di cambiamenti strutturali a livello socioculturale. Le ragioni di questa vera e propria mutazione sono state egregiamente sviscerate nel noto saggio di Z. Bauman, Amore Liquido

Caso 3, Isomorfismo forte/A: società-consumistica-ludopatie-dipendenze

Questo è invece il caso di un sistema di regole e funzionamento che appare ancora più mimetico e quindi più invariante e forte rispetto ai domini differenti, sociale e individuale: l’attuale società/cultura consumistica si fonda sulla produzione e acquisto di oggetti di ogni tipo di rapida obsolescenza e continuo aggiornamento, lo stile di vita ad esso connesso struttura abitudini e rappresentazioni che sono piuttosto pervasive e richiedono la partecipazione attiva di ciascuno. Il consumismo è elemento identitario e determina criteri di inclusione ed esclusione sociale e quindi di adeguatezza personale e sociale. Se sei molto ricco vali molto, sei potente e puoi essere felice. Così recita il codice del consumismo. In questo caso l’isomorfismo appare particolarmente incisivo e penetrante dal momento che ci troviamo di fronte alla saldatura tra legalità di una pratica tossicomanica attraverso l’utilizzo di tecnologie e strategie di vendita del prodotto-ludopatico per il quale vengono implicitamente approvate e promosse la compulsività e la maniacalità, attraverso semplici meccanismi di rinforzo comportamentale (l’effetto ‘slot machine’, ovverosia i programmi di rinforzo comportamentale a rapporto variabile, sono stati ampiamente studiati in ambito comportamentista) e di risposte neuropsicologiche che attivano una vera e propria dipendenza. Tutto ciò sullo sfondo di una prospettiva/promessa di vincite milionarie che preludono a rivoluzionari cambiamenti di vita a partire da un improvviso arricchimento.

Caso 6, Isomorfismo forte/B: società-competitiva/precaria-neet-hikikomori

Il ritiro sociale nell’epoca dei social network e all’interno di una tecnosfera sempre più pervasivamente insolente e invadente, è uno dei fenomeni dilaganti della nostra contemporaneità.

Ogni epoca storica ha la sua narrazione e la sua cifra emotiva che la rende riconoscibile e che è l’esito di molte trasformazioni sociali. Negli anni ’60 e ’70, la società del benessere e dei consumi, della comunicazione di massa e della coltivazione televisiva, nata dall’ultimo dopoguerra, produsse il clima culturale ed emotivo della ribellione giovanile dall’oppressività, il mito della liberazione e della ricerca di sé e del mondo. Questa ‘romantica’ estroversa caratterizzò intere generazioni che ben presto, però, abbandonarono di lì a pochissimi anni questa narrazione per rientrare nei ranghi, come se nulla fosse successo.

La cifra emotiva dei nostri giorni inclusa nelle prevalenti narrazioni a carico delle ultime generazioni ha un sapore molto diverso ed è quella descritta dal profetico libro L’epoca della passioni tristi di Benasayag e Schmit del 2004, nel quale gli autori riescono in maniera lucida a comprendere lo stretto nesso realizzatosi tra le trasformazioni sociali e le nuove forme del disagio giovanile e infantile caratterizzato da un tono particolarmente pessimistico e passivo-rinunciatario.

Dopo alcuni anni da quel libro, tutto sembra essersi sviluppato esattamente in quella direzione, con l’aggiunta che le rapidissime trasformazioni tecnologiche e sociali hanno potuto fornire a questa enorme tentazione verso l’auto-esclusione dal mondo un supporto, una sorta di arredo completo per potersi sentire apparentemente comodi anche in una cella.

Veniamo dunque alle strane parole: NEET e Hikikomori.

  • NEET è un acronimo che proviene dal mondo della statistica e della demografia sociale e significa Not (engaged) in Education, Employment or Training, cioè ragazzi dai 16 ai 35 anni che non studiano, non lavorano e non sembrano granché interessati a fare nulla. In Italia si stima che circa un terzo dei giovani lo siano. (Per un approfondimento: D’Elia L. L’esistenza ferma: l’inaccessibilità all’autonomia dei venti-trentenni “neet” In Psychiatry online 20 settembre 2013).
  • Hikikomori (termine giapponese che significa ‘stare in disparte’) è un disagio psicologico-sociale rilevato in Giappone alcuni anni fa dove ha una grande diffusione tra i giovani (si stima circa 500.000) e che si sta rapidamente diffondendo anche in occidente e, non a caso, particolarmente in Italia dove si stima siano già circa 100.000. Si tratta in sostanza di un’autoreclusione volontaria e prolungata, una sorta di seppellimento nella propria stanza dalla quale non si esce più. (Sul sito di hikikomori Italia possiamo trovare ulteriori informazioni)

I due fenomeni, pur essendo estremamente differenti in qualità e quantità, hanno in comune lo stesso movimento: il ritiro dalla scena (sociale), e probabilmente l’uno appare come il serbatoio dell’altro.

Questi ragazzi sembrano dire: se non posso combattere – cambiare le regole, ribellarmi, competere, difendermi – o fuggire altrove (perché non c’è un altrove), perché il mondo mi chiede troppo o è una fonte costante di frustrazioni, riduco drasticamente la mia presenza nel mondo, utilizzo il mimetismo come forma di fuga passiva, diminuisco radicalmente le tracce che lascio intorno a me e mi rendo evanescente, mi rifugio nella mia confort zone, che nel caso dei NEET è la famiglia come unica fonte di sostentamento, nel caso degli Hikikomori è la cripta della mia stanza dalla quale continuo a interagire col mondo in forma incorporea e virtuale.

La narrazione e la cifra emotiva ad essa connessa parlano di un’impossibilità di esprimere alcuna forma di protesta in quanto ogni possibile dissenso è disinnescato alla fonte dal momento che non esiste più alcuna società manifestatamente oppressiva, non esiste più un mondo adulto persecutorio dal quale distinguersi ed emanciparsi, no, esiste solo l’immane fatica di catapultarsi in gruppalità anonime (scuola, lavoro) vissute come estranee, frustranti ed ostili.

NEET e Hikikomori ci raccontano una storia sulla nostra contemporaneità per la quale essere rinunciatari non è una scelta, ma una condizione di questo presente. Rappresentano un fenomeno fortemente sovraindividuale in quanto particolarmente mimetico del clima sociale legato all’attuale tecnosfera ed infosfera, e seppure si presenti in forme di disagio individualizzato, vede l’emersione in realtà sociopolitiche (Giappone e Italia) particolarmente esposte a specifiche vulnerabilità antropologiche (struttura protettiva della famiglia).

In questi pochi, ma paradigmatici, esempi, una breve carrellata relativa alla correlazione variabile tra alcuni macrofenomeni sociali: mito della magrezza, testi violenti, società liquida, consumismo, competitività, con alcune clamorose manifestazioni psicopatologiche: anoressia, violenza di genere e omofobica, coppia disfunzionale, ludopatia, ritiro sociale giovanile.

Abbiamo esaminato come queste coppie di fenomeni pur avendo ciascuna i medesimi codici culturali di origine possano essere decritti secondo isomorfismi variabili in funzione, cioè, della loro variabile omologazione linguistica e semantica, a seconda cioè delle differenti regole linguistiche con le quali si manifestano individualmente rispetto a come si manifestano socialmente.

Abbiamo quindi descritto per ogni coppia di fenomeno una progressione di tale isomorfismo, da debole a forte, a seconda della maggiore sovrapposizione del codice sociale con quello psicopatologico.

Mentre la correlazione tra fenomeni quali l’anoressia e il mito della magrezza o tra violenza razzista e di genere e testi violenti ci è sembrata di tipo circolare e non diretta, la correlazione tra semiotica consumista e ludopatia o tra società competitiva e ritiro sociale giovanile, ci è sembrata viceversa diretta e quindi sia sintatticamente che semanticamente più coerente e omologa.

Questa prospettiva, qui introdotta, relativa alla variabilità degli isomorfismi tra patologie sociali e individuali, può diventare (vedremo più avanti) griglia osservativa clinica per uno psicoterapeuta che diventa in grado in tal modo di riconoscere e valutare coordinate e caratteristiche di alcuni fenomeni clinici, ricollocandoli nella corretta prospettiva interpretativa. Si tratta, come già detto e approfondirò più avanti, di ‘allargare lo sguardo per centrare il bersaglio’, di revisionare la cornice ermeneutica dei fenomeni per poterli finalmente leggere nella loro reale matrice culturale.

Con il prossimo capitolo esamineremo più da vicino attraverso alcune vignette cliniche esemplificative come pensa clinicamente, operativamente, uno psicoterapeuta con formazione sociale.

 

Trauma e Psicopatologia. Prospettive teoriche e cliniche a confronto – Report dal congresso online

Lo scorso 28 novembre la Erickson ha organizzato una giornata di studio, in modalità telematica, nella quale esperti del settore hanno proposto prospettive di riflessione rispetto alle strategie e alle modalità di intervento più efficaci in ambito psicoterapeutico nel trattamento della psicopatologia e del trauma.

 

La giornata organizzata da Erickson è stata un’occasione di confronto tra i fautori di un approccio terapeutico basato sui modelli cognitivo-comportamentali e gli studiosi che propongono una prospettiva clinica fondata sull’elaborazione dei traumi; le relazioni che si sono avvicendate hanno, di conseguenza, messo a fuoco i temi della psicopatologia e del trauma nell’ottica di queste due prospettive.

Dopo una breve fase introduttiva, i lavori della sessione mattutina sono iniziati con l’intervento della dott.ssa Sandra Sassaroli che ha sottolineato come sia importante, nella teorizzazione di interventi mirati al trattamento della psicopatologia, non cadere in un approccio ‘pantraumatico’ incline a leggere come conseguenza di un trauma psichico anche forme di malessere psichico che possono essere caratterizzate da un’eziologia di natura differente.

La relazione successiva, tenuta dalla dott.ssa Isabel Fernadez, si è concentrata sul ruolo che il trauma può avere nella genesi dei disturbi mentali, illustrando le modalità di intervento offerte, in tal senso, dall’EMDR, tecnica che permette di intervenire non solo sui significati disfunzionali, ma anche sul bagaglio emozionale e sul vissuto corporeo esperito dal paziente.

L’intervento a seguire del dott. Francesco Mancini ha riportato il focus in ambito cognitivo-comportamentale focalizzandosi, nello specifico, sul ruolo esercitato nella genesi e nel mantenimento di condotte ossessivo-compulsive dagli eventi relazionali avversi (situazioni in cui la persona avverte che determinati propri pensieri, emozioni e comportamenti non possono essere riconosciuti ed esplicitati perché, se ciò avvenisse, la tenuta di relazioni importanti per il soggetto potrebbe essere messa a rischio).

La relazione del dott. Giovanni Tagliavini si è concentrata, invece, sulle fratture del sé determinate da esperienze di natura notevolmente traumatica; si tratta di esperienze che generano ‘parti fantasmatiche’ del sé, che rimangono legate ad un vissuto doloroso e difficile da elaborare, mentre il resto del sé tenta di ricomporsi per far fronte al quotidiano e al presente del soggetto. La psicotraumatologia, quindi, è il campo di studio non degli eventi avversi ma di quelli impossibili da sopportare.

L’ultima relazione della mattinata, tenuta dalla dott.ssa Antonella Montano, illustra un oggetto di studio, ricerca ed intervento molto specifico: le conseguenze di esperienze relazionali infantili avverse osservate nell’ambito della popolazione LGBT.

Dopo gli interventi della sessione mattutina i lavori riprendono con una sessione pomeridiana di confronto, moderata dal dott. Gabriele Melli, in cui i relatori intervenuti, ai quali si unisce il dott. Antonio Onofri, hanno modo di confrontarsi e di rispondere alle domande poste dai partecipanti.

Nell’ambito della discussione che segue si delinea nuovamente il tema del trauma, inteso come evento emotivamente intollerabile e di difficile elaborazione, tale da determinare una frattura del sé, cui fa da contraltare il concetto di esperienza avversa, che rappresenta un vissuto emotivamente doloroso per il soggetto, ma non tale da determinare una frattura del sé.

Emerge, dalle domande e dalle riflessioni dei partecipanti, la difficoltà di operare una distinzione netta tra queste due concettualizzazioni, dato che ciò che è intollerabile per un soggetto può non esserlo per un individuo differente in virtù dello stile di vita, della presenza di eventuali fattori protettivi o della presenza di ulteriori specifiche.

In ultima analisi si tratta di un oggetto di studio di grande complessità che si presta ad essere interpretato alla luce di concettualizzazioni differenti, che sono a fondamento di distinte tecniche di intervento e trattamento.

Occasioni come quella offerta da questa giornata di studio si pongono proprio nell’ottica dichiarata di ‘favorire un’occasione di confronto aperto e arricchente, sia sul piano personale che professionale, volto a promuovere l’utilizzo di strategie e strumenti clinici integrati che massimizzino l’efficacia nella cura dei pazienti’ per arrivare ad un’integrazione sul campo nell’ambito dei trattamenti psicoterapeutici.

 

Gossip: verità e bugie

Peters e Fonseca (2020) hanno riepilogato i risultati di uno studio preregistrato, appositamente strutturato per esaminare le bugie spontanee che vengono condivise tra i membri che spettegolano.

 

Una bugia può essere definita come una ‘cosa non vera detta per imbrogliare o per far credere qualcosa di falso a qualcuno’ (Cattana e Nesci, 2002, p. 105). Peters, Kashima (2015, p.1) e Smith (2014) hanno invece definito il gossip come la ‘classe di contenuti comunicati che trasmettono delle informazioni su comportamenti e caratteristiche di attori sociali’. La cooperazione in grandi gruppi (ad esempio, comunità, quartieri e organizzazioni) può essere sostenuta dalla reciprocità indiretta dei pettegolezzi (Alexander, 1987; Nowak e Sigmund, 2005). Ma bugie e pettegolezzi da cosa sono motivati? Nell’articolo di Peter e Fonseca (2020) si presume che le persone condividano pettegolezzi in modo impreciso e per scopi egoistici, ad esempio per minare i nemici o per promuovere gli alleati (Hess e Hagen, 2006; Mace et al., 2018; McAndrew & Milenkovic, 2002). Se questa ipotesi è vera, rappresenta una sfida crescente per coloro i quali ipotizzano che il gossip sia al contrario una fonte di accurata reputazione, nello specifico per i ricercatori come Dunbar (1993) che vedono i pettegolezzi come funzionali al rafforzamento dei livelli di cooperazione.

Peters e Fonseca (2020) hanno riepilogato i risultati di uno studio preregistrato, appositamente strutturato per esaminare le bugie spontanee che vengono condivise tra i membri che spettegolano: il campione era composto da 320 soggetti che hanno partecipato a una serie di giochi di fiducia one-shot. Basandosi sulla teoria dei giochi di Crawford e Sobel (1982), i ricercatori hanno testato se la competizione tra chi spettegola possa aumentare la frequenza delle menzogne e se tale aumento possa portare ad una minore discriminazione basata sul gossip, ad una bassa fiducia tra i soggetti e ad una scarsa affidabilità dell’informazione (Peters e Fonseca, 2020). I soggetti sono stati divisi in 16 gruppi che hanno giocato 20 round del gioco: alla metà dei partecipanti è stato assegnato il ruolo di investitore, all’altra metà il ruolo di agente. Gli investitori decidevano quanti gettoni inviare all’agente allocato e, per suscitare i pettegolezzi, i ricercatori hanno richiesto agli investitori di inviare un messaggio (indicando il numero di gettoni forniti) all’investitore che avrebbe giocato con il loro agente nel round successivo (Peters e Fonseca, 2020). Qualsiasi messaggio contenente errori era considerato una bugia. Nonostante gli investitori abbiano detto la verità per la maggior parte del tempo, una consistente minoranza dei messaggi era composta da bugie (25,88%): nei turni di fiducia, i partecipanti hanno detto bugie positive (171 soggetti) e negative (341). Dai risultati è emerso come le bugie siano state due volte più frequenti sotto nella situazione di concorrenza, quando cioè i soggetti hanno comunicato con gruppi esterni in competizione (Peters e Fonseca, 2020).

I ricercatori hanno identificato quattro forme principali di menzogna: bugie di rappresentazione positiva errata, bugie di travisamento negativo, bugie di esagerazione positiva e bugie di esagerazione negativa (Peters e Fonseca, 2020). Le menzogne di travisamento sono giustificate dal desiderio di danneggiare (attraverso l’incoraggiamento di comportamenti suscettibili per diminuire i guadagni del pubblico), al contrario le menzogne esagerate sono giustificate dal desiderio di aiutare il pubblico o di raggiungere la reciprocità con l’agente. Questi risultati suggeriscono che, in condizioni di competizione, l’aumento delle bugie è sostenuto da un aumento delle false dichiarazioni che mira a danneggiare il pubblico concorrente (Peters e Fonseca, 2020). I ricercatori hanno scoperto una correlazione positiva tra l’affidabilità degli agenti e la fiducia: quando gli investitori esagerano l’affidabilità dell’agente, tale correlazione è significativamente più forte. I ricercatori hanno quindi concluso sostenendo che 1) gli obiettivi dei gossip sono insensibili alle bugie e come 2) alcune bugie sono attribuite al miglioramento del benessere, di conseguenza i risultati suggeriscono come le bugie non impediscano, bensì aiutino a creare delle reputazioni funzionali attraverso i pettegolezzi.

 

Covid-19 e Suicidio – Tra Psicoanalisi e Analisi Transazionale

Alla fine del 2019, in Cina si è diffuso il COronaVIrus Disease 2019 che successivamente a livello globale ha contagiato milioni di persone, causandone la morte di centinaia di migliaia.

 

Dal 31 Dicembre 2019 al 6 Novembre 2020 sono stati riportati 48.763.203 casi di COVID-19 inclusi 1.234.371 morti. Tale situazione drammatica ha fatto in modo che l’OMS dichiarasse, già l’11 marzo 2020, lo stato di Pandemia: questa è la prima Pandemia causata da un Coronavirus. Le pandemie sono diverse dagli altri disastri in quanto la risposta ad esse richiede una pianificazione specializzata e interventi di mitigazione volti a prevenire la diffusione dell’infezione. A differenza anche di altri disastri, come incendi, inondazioni o terremoti, i rischi associati alla pandemia aumentano dopo l’evento iniziale e questa minaccia è in gran parte invisibile a coloro che sono a rischio di infezione. Insufficienza respiratoria, sepsi, shock settico e sindromi da disfunzione d’organo multipla sono tipiche manifestazioni cliniche gravi del COVID-19 quando la forma non è asintomatica. Ben più complessi da individuare e prevenire sono i sintomi psichici legati alla pandemia, infatti molteplici evidenze scientifiche e ricerche indicano che la pandemia COVID-19 ha avuto ed ha tuttora, profondi effetti psicologici e sociali sulla popolazione. La quarantena, l’allontanamento sociale e l’autoisolamento impattano negativamente sulla salute mentale poiché sia la solitudine che la riduzione delle interazioni sociali, sono causa di fattori di rischio per molti disturbi mentali come la schizofrenia e la depressione maggiore. Congiuntamente a questo, l’incertezza sul futuro e le preoccupazioni su sé stessi ed i propri familiari aumentano il rischio di disturbi ansiosi, panico, disturbi ossessivo compulsivi, stress, disturbi correlati al trauma nella popolazione adulta, sia negli uomini che nelle donne. L’isolamento sociale, la solitudine è paragonabile ad una sensazione angosciante derivante da carenze percepite nelle proprie relazione sociali e questo contribuisce fortemente al rischio di suicidio. Di seguito vedremo la tematica del suicidio, sotto due prospettive, quella dell’Analisi Transasionale e quella Psicoanalitica.

Il suicidio nella prospettiva teorica Psicoanalitica

Ci sono molteplici approcci per comprendere la natura e il significato del suicidio. Nella prospettiva psicoanalitica, Freud, S. (1917) propone di considerare il suicidio come un omicidio mancato, perché l’Io può uccidersi solo quando riesce a trattare se stesso come un oggetto, dirigendo contro il sé l’ostilità che non può essere scaricata sull’oggetto relazionale con il quale è avvenuta un’identificazione. Fenichel, O. (1945), in un’ottica intrapsichica, legge il suicidio come il risultato di una relazione tra l’Io e il Super-Io sadico, capace di scatenare o un bisogno di perdono e riconciliazione nei confronti degli aspetti più protettivi dell’istanza superegoica, oppure una profonda ribellione e rabbia nei confronti delle sue coercizioni con il conseguente desiderio di distruggerlo. L’aggressione al sé potrebbe avere anche un’altra valenza, quella di ristabilire una relazione attraverso l’auto-punizione e rappresenterebbe un atto di rivolta nei confronti dell’abbandono subito da parte dell’oggetto perduto o che minaccia un possibile abbandono. Kohut, H. (1977) amplia questa prospettiva, evidenziando come una risposta aggressiva possa emergere da un crollo dell’integrazione del Sé a seguito di questa ferita narcisistica. Il suicidio rifletterebbe la risposta a sentimenti come la rabbia narcisistica e la vergogna. Altre prospettive psicodinamiche enfatizzano il ruolo della libido e dei sentimenti affettivi legati all’oggetto, vedendo la depressione e il suicidio come una fantasia narcisistica di riunione e ri-fusione con l’oggetto d’amore perduto con lo scopo di evitare la separazione.

La teoria delle relazioni oggettuali si focalizza sul suicidio come fantasia di distruggere gli oggetti interni ‘cattivi’ o aspetti indesiderati del Sé. Per esempio, Winnicott, D. W. (1958) descriveva il suicidio come una fantasia di distruzione degli aspetti negativi del sé unitamente a ciò che ad essi sopravvive, cioè come distruzione dell’intero sé quando questo è minacciato di annientamento. E, in effetti, secondo la teoria delle relazioni oggettuali, gli individui che tentano il suicidio si caratterizzano per la difficoltà di integrare le introiezioni ostili, e per i pochi introietti positivi. In estrema sintesi, l’emozione aggressiva rimane una reazione adattiva in difesa della sopravvivenza o al servizio di importanti bisogni vitali: il suicidio risolve un conflitto occasionale e apporta una soluzione alla vita stessa dell’individuo, generando una rottura interiore che libera dal mondo e dal dolore attraverso l’annullamento dell’oggetto e l’annientamento del soggetto. Ma cos’è che minaccia il Sé, al tempo della pandemia da Covid-19? Fattori come l’instabilità, la precarietà, la paura, la perdita di ruoli professionali e routine quotidiane, nonché la crisi dei rapporti relazionali, vissuti come potenzialmente pericolosi e mortali, ci ha fatto sentire estranei a noi stessi, fragili, non più onnipotenti. L’identificazione con il self made man che non conosce limite e può sconfiggere malattia, deformità, vecchiaia e morte, imponendo il suo potere su se stesso, sul proprio corpo, sull’altro e sulla natura, con cieca fiducia nella scienza e nel progresso, soccombe a un’estrema impotenza: siamo tutti mortali, tutti potenzialmente malati, tutti in pericolo, nessuno escluso.

Il suicidio nella prospettiva teorica dell’Analisi Transazionale

Sviluppata intorno agli anni ‘50 dallo psichiatra canadese Eric Berne (1910-1970), l’Analisi Transazionale ‘è una teoria della personalità e del rapporto sociale, e un metodo clinico di psicoterapia’ (Berne, 1972, pag.30). Tale approccio affronta i diversi processi psicologici dal punto di vista intrapsichico e interpersonale. Il termine ‘analisi transazionale’ (AT) viene utilizzato genericamente per indicare un sistema che ha i seguenti passaggi: analisi strutturale, analisi transazionale vera e propria, analisi dei giochi e analisi del copione (Berne, 1966).
Il cuore dell’AT è il modello degli Stati dell’Io, che sono oggetto dell’analisi strutturale e vengono definiti da Berne (1972) come coerenti sistemi di pensiero e di sensazione che si manifestano con determinati comportamenti. Ogni individuo presenta tre stati dell’Io: Genitore (che ripropone comportamenti, pensieri ed emozioni dei propri genitori o delle proprie figure significative); Adulto (il quale giudica obiettivamente il proprio ambiente, valutando le proprie possibilità di riuscita in base all’esperienza passata); Bambino (che indica il vero bambino che l’individuo è stato un tempo, di conseguenza agisce con comportamenti infantili legati a una determinata età).

Per una personalità sana ed equilibrata è necessaria la presenza e l’interazione di tutti e tre gli stati: l’Adulto consente di affrontare il qui e ora, il Genitore offre un ampio bagaglio di regole per stare nella società e il Bambino dà l’accesso alla parte più spontanea e creativa della persona.

Nei casi di patologia si possono manifestare invece due processi: contaminazione, in cui i confini degli stati dell’Io si sovrappongono e l’Adulto contaminato elebora la realtà sulla base dei contenuti del Genitore e/o del Bambino; esclusione, in cui uno stato dell’Io non è attivato e funzionano gli altri due stati restanti, oppure vengono esclusi due stati dell’Io e opera in maniera costante un solo sottosistema (Berne, 1966).

Contaminazione e/o esclusione sono alla base di differenti quadri patologici in cui il rischio di suicidio è molto elevato.

Nel corso della vita, a seconda delle esperienze e relazioni vissute, dei messaggi verbali e non verbali ricevuti, la persona acquisisce una posizione esistenziale dominante, con cui esprime il valore essenziale che percepisce in se stessa e negli altri. Delle quattro posizioni esistenziali ipotizzate, Berne (1972) considera la più proficua Io sono ok tu sei ok, dove ogni persona è riconosciuta per la sua essenza, valore e dignità. L’individuo che commette il suicidio, come soluzione estrema di liberazione dal proprio dolore, assume una posizione esistenziale predominante che in Analisi Transazionale è espressa nella forma: Io non sono ok, tu non sei ok. Le convinzioni centrali di questa posizione ruotano attorno al sentimento di inutilità di se stessi e degli altri, i quali non possono offrire un valido aiuto (Stewart, Joines, 1987). Le svalutazioni rivolte a se stessi e agli altri allora giustificano la scena finale tragica prevista nel tornaconto di copione.

Il copione è ‘un piano di vita inconscio’ (Berne, 1966 pag. 175), una storia autobiografica che ogni bambino inizia a scrivere dalla nascita e completa all’età di 7 anni, ma che continua ad arricchire di dettagli con una revisione più aggiornata e aderente alla realtà in adolescenza. Il bambino decide il suo copione di vita, intendendo per decisioni non le capacità riflessive adulte di attuare delle scelte, ma capacità prelogiche che trovano fondamento nell’assetto emozionale. Queste decisioni rappresentano la migliore strategia che il bambino ha a disposizione per sopravvivere in un mondo che può apparire ostile e minaccioso. Pur avendo l’individuo un ruolo attivo sulle scelte decisionali, i genitori e l’ambiente esercitano una forte influenza trasmettendo dei messaggi verbali e non verbali, sulla base dei quali si giunge a conclusioni su se stessi, gli altri e il mondo (Stewart, Joines, 1987). L’ingiunzione centrale nel paziente suicida è ‘Non esistere’, un messaggio copionale che diviene parte dello stato dell’Io Bambino (Novellino, 1998). Solitamente la persona che presenta questa ingiunzione ha recepito in tenera età, a volte anche in modo erroneo, una minaccia di morte nei comportamenti genitoriali o in eventi esterni, per cui ha sviluppato la credenza di essere una persona senza valore e indegna d’amore. La presenza di tale ingiunzione non determina in tutti i casi una scena finale di suicidio, la persona, infatti, può difendersi prendendo delle decisioni miste che evitino questo esito (ad es.’posso continuare ad esistere fintanto che lavoro sodo’). Secondo i Goulding, il paziente suicidale in risposta all’ingiunzione ‘Non esistere’ può produrre sette possibili decisioni: ‘Se le cose dovessero andare troppo male, mi ucciderò’, ‘Se tu non cambi, mi uccido’, ‘Mi ucciderò e allora soffrirai’, ‘Ti porterò a uccidermi’, ‘Arriverò quasi a morire allora tu soffrirai’,’Ti farò vedere io anche se questo mi porterà a morire’, ‘Ti avrò anche se ciò mi ucciderà’ (Novellino, 1998, pag 204). Ognuna di queste decisioni presenta una serie di comportamenti, sentimenti e pensieri che riconducono ad un quadro patologico depressivo (ibidem) e porta avanti un copione perdente, che nei casi più tragici, come la morte, viene definito ‘amartico’ (dal greco ‘amartia’ che vuol dire ‘catastrofe’) (Berne, 1972).

La terapia in Analisi Transazionale promuove l’uscita da un copione perdente, stimolando la persona a soddisfare i bisogni dello stato dell’Io Bambino, che non sono stati esauditi nell’infanzia, con le risorse più adeguate dello stato dell’Io Adulto decontaminato. In AT decontaminare l’Adulto significa consentire a questo stato dell’Io di rivalutare le decisioni prese dal Bambino e ridimensionare il Genitore. La metodologia offre degli strumenti per lavorare a livello di tutti e tre gli stati dell’Io, favorendo l’integrazione di questi.

Quale prevenzione per il suicidio?

Secondo Maurizio Pompili (2020): ‘A causa della pandemia covid-19, l’Italia ha registrato un numero incredibilmente alto di decessi legati al virus. L’epidemia nelle regioni settentrionali del paese ha avuto un impatto maggiore di quanto si pensasse in precedenza e, a causa del numero di vite perse ogni giorno a causa del covid-19, a marzo è stato imposto un blocco nazionale nel tentativo di contenere la diffusione della malattia. Il paese ha vissuto il suo primo cambiamento radicale nello stile di vita dalla seconda guerra mondiale, con l’intera popolazione confinata nelle proprie case. Durante questo periodo difficile, caratterizzato da emergenze somatiche e mancanza di ventilatori e letti di terapia intensiva, parlare di prevenzione del suicidio può essere sembrato di scarsa rilevanza. Tuttavia, le misure di quarantena collettiva sono state collegate a un aumento del rischio di suicidio e la quarantena è stata associata a effetti negativi sulla salute mentale (…) La pandemia di coronavirus porterà anche a un approccio rivoluzionario ai pazienti. Data la necessità di restare separati per evitare il contagio, le consuete consultazioni faccia a faccia per la valutazione dei pazienti sono state sostituite da consulti digitali. Ai medici è richiesto di adottare un tale approccio anche con individui suicidi e di organizzare soluzioni valide per risposte attive e sensibili utilizzando l’innovazione tecnologica. Per quanto impegnativo possa essere, le strategie di prevenzione del suicidio dovrebbero far parte del pacchetto di intervento per le popolazioni vulnerabili. Dobbiamo ancora comprendere appieno gli impatti in corso sulla salute mentale della pandemia. Dobbiamo garantire che sia disponibile un supporto adeguato per coloro che ne hanno bisogno’.

 

Le differenze di genere nel campo della gelosia

Il sentimento della gelosia all’interno di una coppia è legato all’idea, al timore più o meno legittimo che l’altro possa tradire. Questa paura viene corroborata tanto dalle caratteristiche personali dell’altro, quali il carattere e l’atteggiamento, oltre alle caratteristiche estetiche, quanto dall’ambiente in cui il partner vede l’altro operare.

 

Negli ultimi anni la diffusione dei social network e l’uso che facciamo di queste piattaforme online sembrano aver influenzato le nostre relazioni intime, o meglio la nostra percezione e, quindi, il nostro atteggiamento riguardo ad esse. L’introduzione dei social network nelle nostre abitudini quotidiane è stata associata ad un graduale peggioramento delle relazioni sentimentali, il quale sembra essere generato da una sorta di insoddisfazione sia sessuale sia sentimentale verso la vita reale (Clayton et al. 2013).

Siamo infatti così stimolati dalle molteplici potenzialità relazionali che una tale piattaforma ci mette a disposizione in ogni momento, che la nostra curiosità è sempre più spinta nella ricerca di altro.

Tale tendenza sembra corrispondere ad una crescita dell’infedeltà, mediante relazioni che nascono e si sviluppano online, dietro ad uno schermo (Childers and Wysocki, 2011).

Ma se questo è vero, non possiamo sorprenderci che all’interno della vita di coppia, al crescere della probabilità di infedeltà dell’altro crescano anche le azioni volte a neutralizzare tale comportamento. Queste reazioni sono mosse dal timore di cui parlavamo poc’anzi, dalla paranoia del partner, che sarà quindi più incline a mettere in atto meccanismi di difesa di sé e della coppia, assecondando la sua crescente diffidenza, o addirittura sfiducia nell’altro (Beukeboom and Utz, 2011).

Una di queste azioni riflesse si può riassumere in tutte quelle strategie volte a spiare le attività, i movimenti e le relazioni dell’altro. Queste strategie vengono sintetizzate con il termine inglese snooping.

Lo snooping, in una realtà mediata dall’uso dei social network, corrisponde all’azione di controllare di nascosto il profilo e le conversazioni che il proprio partner sviluppa in queste piattaforme online. L’atto di spiare il proprio partner in questo modo sembra esser diventato il più frequente metodo per scoprire l’infedeltà dell’altro nelle relazioni moderne (Waterlow, 2015). Se molte ricerche si sono focalizzate nello studiare il fenomeno dello snooping che riguarda il controllo del cellulare, delle chiamate e dei messaggi inviati e ricevuti dal proprio partner (Dunn and McLean, 2015; Harris, 2002; Klette et al., 2014), altrettante sembrano volgere l’attenzione verso il controllo che viene perpetuato online dal partner geloso (Dunn & Billett, 2017)

Ma c’è un diverso modo di vivere la gelosia tra l’uomo e la donna?

Molte ricerche si sono mosse da questo interrogativo, andando ad indagare se il genere sia o meno una variabile significativa nel modo in cui viene interpretato o percepito un atto di infedeltà all’interno della coppia. Sono così emerse differenze interessanti che fanno riflettere sul modo in cui le persone reagiscono e pesano in maniera diversa le stesse azioni.

Se andiamo a vedere le ricerche di Buss (1992), Easton (2007), Pietrzak (2002), Sagarin (2003), Schutzwohl (2005), Weiderman e Kendall (1999), e la più recente svolta da Dunn e Billett (2017) emerge che gli uomini tendono ad essere più attivati emotivamente da un tradimento sessuale, piuttosto che da un tradimento sentimentale che non sia sfociato in relazione fisica.

La ricerca di Dunn e Billett ha riutilizzato nel proprio esperimento la grafica della piattaforma di Facebook per simulare una situazione in cui i partecipanti, vedendo la pagina del profilo del proprio partner, immaginavano di trovare dei messaggi mandati o ricevuti che riportavano frasi che lasciassero intendere un tradimento sentimentale o sessuale. Misurando i livelli di risposta emotiva ad una situazione piuttosto che ad un’altra, tra gli sperimentatori maschi si registrava un maggiore livello di distress quando i messaggi riportati nella chat facevano immaginare un tradimento sessuale del proprio partner, rispetto ad un coinvolgimento sentimentale dello stesso con un’altra persona.

Se ci focalizziamo su questo esperimento vediamo un atteggiamento diverso da parte delle donne: in loro, infatti, non sembrava emergere un cambiamento significativo rispetto al tipo di stimolo, ovvero il loro livello di distress rimaneva alto allo stesso modo sia nel caso in cui erano esposte ad un messaggio che lasciava intendere una relazione sessuale, sia di fronte ad un messaggio che riportava un tradimento emotivo.

Ma le differenze delle risposte emotive tra uomo e donna non si esauriscono nelle caratteristiche del tradimento. Un altro aspetto che emerge tanto da questa ricerca quando dagli altri studi è il fatto che la reazione della vittima può dipendere anche dalla direzione del messaggio che viene letto: così le persone possono rispondere in maniera diversa nel caso in cui il messaggio trovato nella chat del proprio partner sia stato mandato ad una terza persona, oppure ricevuto.

Su questo punto le donne sembrano molto più sensibili degli uomini, in quanto tendono a reagire con un maggior livello di distress verso i messaggi ricevuti dal proprio partner, rispetto a quelli inviati dallo stesso. In tal caso, nel sentimento di gelosia provato sembrano entrare in gioco meccanismi che mettono in primo piano non il partner in sé quanto la terza persona del triangolo amoroso, la quale condivide lo stesso sesso della vittima e che, quindi, vestirebbe i panni della rivale. Negli uomini questa tendenza non sembra dominare nelle reazioni, tanto che gli studi di Buss (1992) e di Sagarin (2003; 2012) mostrano come l’uomo sia più orientato verso il proprio partner, pesando in maniera maggiore i messaggi mandati piuttosto che quelli ricevuti: anche l’esperimento di Dunn e Billett (2017) sembra andare in questa direzione, mostrando una maggiore differenza, anche se lieve, nei livelli di distress in risposta ad un messaggio inviato rispetto ad uno ricevuto dal proprio partner donna.

 

Un caso di Stalking condominiale. Una sentenza che fa giurispridenza.

Lo stalking, nella sua più comune accezione di atto persecutorio verso l’ex o un personaggio famoso, è entrato ormai a far parte delle conoscenze delle persone, lo stalking condominiale non ha ancora assunto lineamenti giuridici e psicologici ben precisi e dunque rimane ancora “terreno sconosciuto” per i più.

 

Con il termine stalking si intende l’insieme dei comportamenti molesti e persecutori posto in essere da un soggetto verso la sua vittima.

Nel caso specifico dello stalking condominiale, la vittima è un vicino di casa, estendendo, di fatto l’applicabilità dell’art. 612-bis c.p. al contesto condominiale.

Ronco Scrivia, 2015. L’incubo di una coppia di coniugi (e del loro bambino) inizia nel 2012: Stefano e Marina vivono nel loro appartamento di proprietà, al secondo piano. Al terzo piano vivono madre e figlio, gli stalker.

Come spesso succede, la miccia che scatena il tutto è abbastanza banale, motivo che, se non risolto, attiva un’escalation di reazioni emotive accompagnate da comportamenti intrisi d’odio messi in atto con il preciso e premeditato scopo di impaurire, intimidire, terrorizzare qualcuno.

“Dovete stare in casa“, “prima o poi me la pagherete“, “a pagare sarà tuo figlio“ e poi..rumori molesti sia in ore diurne che notturne, chiamate al 112 per denunciare falsi abusi nei confronti del figlioletto, chiamate ai veterinari della Asl per denunciare falsi maltrattamenti verso animali, spazzatura buttata davanti alla porta di ingresso, continue ed insistenti osservazioni, questi l’insieme delle azioni messe in atto per turbare la giovane coppia, atti che hanno concorso al sorgere di un perdurante e grave stato d’ansia o di paura da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di una persona legata da relazione affettiva da costringere la vittima ad alterare le proprie abitudini di vita (art. 612-bis c.p.). (Bastianello,2012)

Esattamente quello che si è verificato nel caso di Ronco Scrivia. Dopo anni di vessazioni, insulti, minacce, sguardi ossessivi e osservazioni costanti, le vittime sono state costrette a vivere nel seminterrato, a limitare la loro libertà, a non frequentare gli amici di sempre.

Nell’aprile del 2015, il Tribunale di Genova, con una sentenza storica, condanna gli stalker a 4 mesi di reclusione oltre al risarcimento del danno.

Come si può ben comprendere dal fatto appena citato, lo stalking condominiale assume precise connotazioni:

  • Gli atti persecutori sono rivolti specificatamente ad un vicino di casa;
  • L’inizio delle ossessioni da parte del carnefice avviene per motivi futili;
  • Si assiste ad una escalation di comportamenti distruttivi verso una vittima;
  • La vittima subisce passivamente le angherie del suo stalker generando, inevitabilmente, forte ansia e/o paura.
  • La “resa die conti“ avviene, nel migliore dei casi, in Tribunale o, nella peggiore delle ipotesi, con violenza aggravata verso la vittima.

Curci e coll. (2003) utilizzano l’espressione “sindrome delle molestie assillanti” per descrivere il fenomeno e classificano le condotte indesiderate in tre tipologie: comunicazioni indesiderate, contatti indesiderati e comportamenti associati. Le comunicazioni indesiderate di solito sono rivolte direttamente alla vittima di stalking e possono consistere in lettere e telefonate ma anche scritti non necessariamente inviati in modo diretto alla vittima, oppure sms ed e-mail. I contatti indesiderati comprendono i comportamenti dello stalker diretti ad avvicinare in qualche modo la vittima come i pedinamenti, il presentarsi alla porta dell’abitazione o gli appostamenti sotto casa, recarsi negli stessi luoghi frequentati dalla vittima o svolgere le stesse attività. Tra i comportamenti associati si collocano, per esempio, il far recapitare cibo o altri oggetti all’indirizzo della vittima anche a tarda notte, oppure la cancellazione di servizi quali l’elettricità o la carta di credito all’insaputa della vittima con lo scopo di intimidirla.

Seguendo il modello stimolo-risposta, (Skinner, 1938) baluardo del Comportamentismo, con molta probabilità, lo stalker, nel vedere reazioni di fastidio, di paura, di ansia, l’alterazione delle normali abitudini di vita della vittima, prova piacere e soddisfazione aumentando e prolungando, di conseguenze, le azioni moleste venendo così ad instaurarsi un ciclo di rinforzi positivi che contribuiscono ad aumentarne il comportamento problema. Con l’assenza di una risposta attesa (da parte della vittima) ed eliminando di conseguenza l’elemento rinforzante, si potrebbe assistere ad una diminuizione del comportamento molesto posto in essere dallo stalker.

Lo stalking condominiale, così come altre forme di stalking, si alimenta delle paure e della ansie altrui e solo l’eliminazione di quest’ultime può fungere da deterrente per dissuadere un individuo dal commettere atti penalmente perseguibili.

 

Sindrome Licantropica

La storia della licantropia sembra essere antica quanto l’uomo, a partire dai riti sciamanici della preistoria se ne trovano tracce praticamente in tutte le culture e nelle sfumature più variegate. Gli uomini-lupo esistono davvero o è solo leggenda? Può aiutarci la moderna scienza medica a darci una spiegazione?

 

Negli anni ’80 Micheal J Fox, noto attore statunitense, interpreta Scott (Marty nella versione italiana) un lupo mannaro che ballando sul tetto del proprio furgone mentre canta Surfing USA dei Beach Boys sfreccia in pieno giorno nella tranquilla cittadina americana di Jacksonville creando non poco stupor tra gli abitanti (Rod, 1985).

Teen Wolf (tradotto in italiano in Voglia di Vincere) era il nome del film grazie al quale noi, nati in quegli anni, siamo entrati in contatto con la licantropia: il film fu un successo strepitoso perdurato nel tempo tanto che oggi, a distanza di oltre trent’anni, se ne ripropone un serial, dal contenuto decisamente più dark, che ne porta il medesimo nome (Davia, 2011).

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Immagine 1 – Locandina del film “Teen wolf”

In realtà la storia della licantropia sembra essere antica quanto l’uomo, a partire dai riti sciamanici della preistoria se ne trovano tracce praticamente in tutte le culture e nelle sfumature più variegate. La letteratura di tutti i tempi ha usato l’immagine dell’uomo-lupo nelle salse più diverse, certo il fine è sempre stato il medesimo: unire l’uomo a qualcosa di magico, di misterioso, spesso di indomabile (Petoia, 1898).

Ma tornando con i piedi per terra, gli uomini-lupo esistono davvero? c’è qualcosa di vero o è solo leggenda se non fantascienza? Può aiutarci la moderna scienza medica a darci una spiegazione?

Sembrerebbe tutto possibile!

Il fatto è che l’eziologia del fenomeno uomo-lupo varia molto.

Da una parte fa riferimento ad una ben definita sindrome genetica, nota come ipertricosi, che giustificherebbe  la folta peluria di intere famiglie, dall’altra si pone l’accento più sugli aspetti comportamentali, talvolta gravemente psicopatologici, connotando una vera e propria malattia psichiatrica.

Vediamone maggiormente i dettagli.

Dalla parte degli innatisti, l’ipetricosi congenita generalizzata rappresenta una rara malattia caratterizzata da un’anormale presenza dei capelli su tutto il corpo, viso compreso, che può manifestarsi fin dalla nascita oppure insorgere nel corso della vita. La sindrome è conosciuta dalla letteratura medica come malattia di Abramas con riferimento alla descrizione che ne fece il naturalista italiano Ulisse Aldrovani nel 1648 quando la descrisse per la prima volta nella figura di Petrus Gonzales, uomo nobile che si trasferì in Francia dalle isole Canarie. Alla corte di Enrico II sposò la bella Catherina De’ Medici dalla quale ebbe sei figli, quattro affetti da ipertricosi.

La notorietà del caso si deve a Ferdinando II d’Austria che nel XVI secolo fece ritrarre tutti i componenti della famiglia di Abramas considerati bizzarrie naturalistiche. Le copie furono rinvenute presso la Camera dell’arte e delle curiosità nell’omonimo castello vicino ad Innsbruck. Fatto sta che la particolarità della storia sembrerebbe aver ispirato la fiaba de La Bella e la Bestia.

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Immagine 2 – Animalia Rationalia et Insecta (Ignis) – Plate I, from the Elementa Depicta, picturing Petrus Gonsalvus.

Ad oggi questa malattia è considerata rara, poco più di un centinaio di casi in tutto il mondo, e trova probabili spiegazioni in inserzioni cromosomiche a carico del cromosoma X (Pavone, 2015).

Dall’altra parte, la cosidetta licantropia clinica, una rara forma di grave psicopatologia che conduce al delirio di trasformazione somatica ovvero alla folle credenza dei pazienti di potersi trasformare in animale. Negli stadi più avanzati della malattia i pazienti, che imitano principalmente il comportamento gli animali in cui si sono immedesimati, sentono come reale la necessità di bere sangue se non addirittura di cibarsi di carne cruda. La sindrome fa capo alle teriantropie, psicopatie che trasformano l’essere umano facendolo comportare come un animale, di cui uno dei più gettonati è proprio il lupo (Chen, 2015).

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Immagine 3 – Un licantropo su un’incisione del XVIII secolo – Collezione Mansell, Londra

La letteratura ricorda numerosi assassini psicopatici che oltre a dilaniare il corpo delle proprie vittime con i denti, ne hanno addirittura mangiato gli organi come il cuore, tra questi Peter Stubbe è stato uno dei più noti.

Vissuto presso la cittadina tedesca di Bedburg, vicino Colonia in Germania nel XVI secolo, è stato uno dei primi serial-killer conosciuti nella storia. A lui sono stati attribuiti numerosi omicidi di donne e bambini di cui poi si cibava. Raccontava di aver ricevuto dal diavolo una cintura magica che gli permetteva di trasformarsi in lupo quando la indossava. Catturato fu poi torturato e condannato a morte tramite il supplizio della ruota. Stessa sorte per la moglie e la figlia che, considerate complici, furono arse vive (Blom, 2014).

Esposta la posizione della scienza racconterò di un caso di uomo-lupo del quale ho avuto esperienza diretta, tuttavia per questioni di privacy lo chiamerò Signor B, con riferimento al soprannome che gli amici del bar del paese gli avevano attribuito.

Questi, deceduto pochi anni fa, è vissuto in provincia di Pisa svolgendo l’attività prima di muratore e poi di imprenditore edile, ma la sua fama è giunta all’attenzione dei più per i suoi trascorsi giovanili in cui si narra girovagasse fino a tarda notte nei paesi del comune ululando alla luna e creando non poco scompiglio tra gli abitanti intimoriti dal pensiero che feroci lupi affamati potessero esser scesi giù dai monti pisani in cerca di cibo.

Gli episodi perdurarono per qualche tempo fino a quando venne scoperta l’identità del presunto lupo.

Il Signor B rimarrà negli anni a seguire un personaggio decisamente eccentrico con tratti istrionici-scaramantici che lo caratterizzeranno per tutta la vita, entrerà nel mondo del lavoro ad un’età piuttosto avanzata accompagnandosi ad una signora straniera dalla quale non avrà figli pur mantenendo per tutta la vita un buon adattamento psico-sociale.

Un’analisi globale della fenomenologia licantropica suggerisce dunque una genesi quanto mai varia che spazia dalla genetica alla malattia mentale in un continuum che va da forme attribuibili a disturbi della personalità fino alla psicosi maniaco-depressiva.

Un’ultima riflessione, doverosa, va al rapporto dell’uomo con la figura dell’animale lupo, ritenuto da sempre da una parte animale degno di venerazione, magico, con una grande capacità di lavorare in branco e di proteggere il gruppo, dall’altra appartenente ad una simbologia legata all’oscurità, alla ferocia e alla paura.

L’uomo ha cercato da sempre un compromesso tra questi due aspetti della natura magica ed animale del lupo e probabilmente li ha trovati nel parziale accudimento e naturalizzazione di questi animali. I cani-lupo rappresentano una sorta di compromesso, di dialogo tra le nostre pulsioni più profonde, talvolta feroci e violente, e la convivenza sociale, razionale, tipica della nostra società, un po’ come dire che, pur avendone conoscenza, alla fin fine riusciamo a domare ovvero a tenere al guinzaglio i nostri aspetti più irrazionali ed istintuali.

Chissà.. sarà questa la soluzione?

 

Adolescenti in crisi (2018) – Recensione del libro

Adolescenti in crisi fornisce una chiave di lettura psicoanalitica e accompagna il lettore verso una comprensione profonda di comportamenti disfunzionali adolescenziali che sottendono aspetti emotivi e psicologici.

 

Quando un bruco sta per diventare farfalla attraversa un periodo molto brutto

il volume Adolescenti in crisi si apre con questa frase che più di tutte descrive il delicato periodo dell’adolescenza. Il libro racchiude il pensiero di diversi autori internazionali di stampo psicoanalitico e entra a far parte di una collana dedicata ai genitori, diretta da Emanuela Quagliata.

Chi di noi almeno una volta durante la propria adolescenza non ha dovuto affrontare problemi con i coetanei, con il proprio aspetto che mutava, con la famiglia o con la scuola? E poi da genitori essere spettatori dei cambiamenti dei propri figli?

L’adolescenza è quel filo sottilissimo teso tra il senso di accudimento infantile provato fino a quel momento da una parte e la ricerca della propria autonomia e della propria identità dall’altra. La matassa poi è costituita da diversi fili: quello del sé, del proprio aspetto, della famiglia e dell’appartenenza al gruppo dei pari con le prime relazioni amorose. Quando e come i fili si intrecciano tra loro sancisce il modo in cui si attraversa il periodo adolescenziale, a ciò si aggiunge il vagone emotivo di questo periodo della vita che come un treno travolge chi lo sta affrontando. Ecco quindi che quando parliamo di adolescenza non possiamo esimerci dal pensare a momenti caratterizzati da disequilibrio emotivo.

Il volume fornisce una chiave di lettura psicoanalitica e accompagna il lettore verso una comprensione profonda di comportamenti disfunzionali che sottendono aspetti emotivi e psicologici. Un libro quindi scritto per comprendere l’intreccio dei nodi creato da questa fase della vita che, come dice il titolo, può essere attraversato da profonde crisi.

I capitoli presenti si possono organizzare in 3 grandi aree tematiche: il senso del Sè in adolescenza tra cambiamenti e nuove necessità di identità; considerazioni circa i comportamenti disfunzionali che possono innescarsi nei ragazzi adolescenti (agiti antisociali, suicidari e problematiche alimentari) e infine il grande tema della terapia familiare.

Il linguaggio è quello proprio della psicologia dinamica, in alcuni punti complesso con una forte connotazione clinica (il glossario in coda al volume aiuta a comprendere maggiormente alcuni termini). Sono presenti richiami ad autori della storia psicologica che rendono i concetti maggiormente esplicativi ma al tempo stesso richiedono alla base conoscenza della materia.

Il lettore è guidato nei capitoli attraverso domande che inducono alla riflessione, la scelta stilistica di narrazione rende la lettura scorrevole e introduce piacevolmente l’argomento del capitolo. I capitoli prevedono al loro interno la narrazione di alcuni casi esemplificativi che dal punto di vista narrativo permettono un cambio di registro, più colloquiale mentre dal punto di vista clinico traducono in storie di vita reali i costrutti teorici presentati.

Alcuni capitoli in particolare, come quello dedicato all’autolesionismo o quello riguardante il lavoro con i genitori, forniscono una spiegazione della metodologia d’approccio, evidenziando i punti principali da considerare per il terapeuta che affronta queste situazioni. Capitoli quindi che si configurano come maggiormente manualistici rispetto agli altri presenti nel volume ma che rappresentano una sintesi chiara delle possibili indicazioni tecniche.

Concludendo, Adolescenti in crisi appare un testo che, nella sua definizione iniziale, si presenta come dedicato ai genitori ma che al suo interno trova ampio spazio per riflessioni professionali, configurandosi in alcuni punti come libro di settore con un chiaro indirizzo terapeutico.

Consigliato quindi ai professionisti che lavorano con gli adolescenti o che vogliono approcciarsi a una metodologia d’intervento psicoanalitica e a quei genitori che vogliono cimentarsi con un lessico specifico per comprendere le situazioni di crisi che potrebbero affrontare i loro figli.

 

Cosa fanno le persone prima di andare a dormire? Caratteristiche e implicazioni della procrastinazione del sonno

Il mantenimento di abitudini di sonno desiderabili è una delle chiavi per una vita sana, pertanto studi recenti hanno iniziato ad indagare sugli effetti della procrastinazione del sonno (in inglese Bedtime Procrastination, BP).

 

Con la dicitura “BP” (procrastinazione del sonno) si intende quel fenomeno per cui ci si va a coricare più tardi del previsto, senza che esistano ragioni esterne per farlo. Alcune ricerche sull’argomento hanno dimostrato che la procrastinazione del sonno è abbastanza diffusa nella società moderna: fino al 53,1% dei campioni di giovani adulti è coinvolto in questo fenomeno (Kroese et al., 2016). Secondo la letteratura esistente, gli individui che svolgono frequentemente la procrastinazione del sonno hanno maggiori probabilità di sperimentare sonno e stanchezza durante il giorno, ed hanno meno probabilità di essere soddisfatti del proprio sonno rispetto a coloro che non procrastinano (Kroese et al., 2014, Kroese et al., 2016). Questi risultati suggeriscono che il suddetto fenomeno può peggiorare la qualità del sonno e quindi della vita.

Generalmente la procrastinazione è associata a variabili correlate al tempo, infatti, chi posticipa azioni o compiti, sceglie di vivere concentrandosi sul momento presente (Ferrari et al., 2007), tende ad errare nella stima del tempo richiesto per svolgere compiti, e generalmente ha difficoltà nel gestire il tempo (Aitken et al., 1982; Lay, 1990; McCown et al., 1987). Ad ogni modo, si può incappare nella procrastinazione del sonno per differenti motivi, tra i quali mancanza di auto-controllo e avversione alla routine pre-sonno, argomenti finora più studiati. La metodologia di ricerca sull’impiego del tempo (ing. Time use surveys) è utilizzata per identificare sia ciò che un individuo svolge in un determinato periodo, sia la durata e le tempistiche di tali attività (Basner et al., 2007). Lo studio del 2020 di Chung e colleghi ha utilizzato questa tipologia di ricerca per osservare il tipo di attività che 108 soggetti svolgevano prima di andare a dormire (Chung et al., 2020). Chung e collaboratori hanno infatti osservato per 48 ore le caratteristiche comportamentali di persone che avevano riferito di procrastinare fortemente il sonno, analizzando il loro utilizzo del tempo rispetto a coloro che avevano dichiarato una più lieve procrastinazione. Sulla base di studi precedenti è stato ipotizzato che il gruppo con maggior BP si sarebbe impegnato in un uso maggiore dello smartphone prima di andare a dormire (Exelmans, 2016). Questo studio mirava anche ad indagare come la procrastinazione del sonno fosse correlata a caratteristiche psicologiche.

I principali risultati emersi indicano che nelle 3 ore precedenti al sonno il gruppo con maggior BP ha trascorso molto più tempo nello svago e nelle attività sociali rispetto al gruppo con bassa BP. Gran parte di questo tempo è stato impiegato nell’utilizzo dello smartphone, infatti è emerso che il gruppo con maggior procrastinazione del sonno spendeva in media circa il 451% di tempo in più sul proprio cellulare rispetto al gruppo con minor BP (Chung et al., 2020). Inoltre, gli individui che rimandavano maggiormente il momento del riposo hanno riportato maggiore depressione e ansia, sono andati a letto in media 50 minuti più tardi rispetto a quelli con minore BP, si sono svegliati in media 46 minuti dopo di loro e presentavano più tendenze a svolgere attività serali. La maggior parte dei soggetti con elevata procrastinazione del sonno ha inoltre riportato una maggiore gravità dell’insonnia, soddisfacendo i criteri per i sintomi clinici di questa patologia (Chung et al., 2020).

Per quanto riguarda le implicazioni cliniche, la procrastinazione prima di coricarsi è risultata quindi come significativamente associata a depressione e ansia e questi risultati sono generalmente coerenti con studi precedenti, che riportano che le persone che procrastinano esperiscono sentimenti negativi, riferiscono problemi con le relazioni interpersonali, hanno una bassa soddisfazione di vita, senso di colpa e autocritica e, in particolare, presentano depressione e ansia (Ferrari & Dovidio, 2000; Klingsieck et al., 2012; Uzun Ozer et al., 2012; Stead et al., 2010; Burka & Yuen, 1983). Inoltre, l’utilizzo dello smartphone prima di coricarsi può essere problematico: come hanno riportato studi precedenti, l’uso dei media è associato ad un effetto negativo sul sonno e sul benessere psicologico e può causare sintomi depressivi e talvolta tendenza al suicidio (Seo et al., 2017). La luce intensa emessa dai dispositivi elettronici, infatti, può influire sui neuroni del talamo che regolano i ritmi sonno-veglia, riducendo la sonnolenza e aumentando l’eccitazione.

In conclusione, i risultati suggeriscono che la procrastinazione del sonno può essere un importante obiettivo di trattamento in contesti clinici. La BP potrebbe essere dunque vista come un comportamento che interferisce con la salute, considerando le sue conseguenze negative (Chung et al., 2020). L’adozione di un approccio comportamentale potrebbe essere utile per ottenere informazioni sui motivi per cui gli individui incappano in queste abitudini (Epstein & Collins, 1977). L’approccio comportamentale, infatti, sottintende che queste condotte problematiche svolgono molteplici funzioni (Hanley et al.,2003): comprendere la relazione funzionale tra la procrastinazione del momento del sonno e oggetti contestuali presenti nell’ambiente potrebbe essere utile per guidare interventi futuri.

 

Un attimo prima di cadere. La rivoluzione in psicoterapia (2020) di G. Dimaggio – Recensione

Un attimo prima di cadere è l’equilibrio tra un romanzo, un’autobiografia e un saggio, una lettura dinamica, un continuo e veloce passaggio di piani, uno scontro con emozioni completamente diverse.

 

Cosa rende un mojito un perfetto mojito? Il bilanciamento tra lime e zucchero di canna, la giusta dose di rum bianco e soda. Un rametto di menta, sospeso tra il ghiaccio, che tocca appena il bordo del bicchiere. Cosa rende una delizia al limone una delizia perfetta? Sal De Riso risponderebbe: la crema al limone delicatamente unita alla panna e alla consistenza del pan di spagna che la contiene. Una cupola perfetta, gialla, con un ciuffetto bianco sulla punta. Cosa rende un libro un buon libro? L’eleganza, l’equilibrio e l’originalità.

Tutti elementi che ritroviamo in Un attimo prima di cadere. L’eleganza nel riportare aspetti che riguardano ogni essere umano, autore compreso, in modi delicati ma chiari nonostante trasudino dolore. L’equilibrio tra un romanzo, un’autobiografia e un saggio. L’originalità nell’aver pensato che una cosa del genere potesse funzionare. E funziona. Soprattutto a chi apprezza una lettura dinamica, un continuo e veloce passaggio di piani, uno scontro con emozioni completamente diverse. Ad ogni pagina, non si sa in quale di questi tre piani ci troviamo. Proprio come la figura dell’uomo di spalle disegnato sulla copertina, che tenta di restare in equilibrio su un filo, con le braccia aperte e un piede nel vuoto, anche noi giochiamo una partita diversa ad ogni pagina. Bisogna soltanto stare a vedere se la montagna russa, sulla quale saliamo a pagina 15, porta ad una curva parabolica a destra o ad una rovesciata a testa in giù. C’è, infatti, il marito, l’uomo innamorato e il suo dolore. Rappresentato in continui flashback nel passato di una relazione minata dalla malattia, nell’amara consapevolezza dell’impotenza. Ci sono le sue battute di arresto e i tentativi di ripartenze faticose. C’è il professionista, terapeuta e ricercatore che si interroga continuamente su quello che accade nello sviluppo della prassi terapeutica nel corso del tempo, senza lasciare spazi vuoti e senza la paura di mettersi continuamente in discussione o di provare con curiosità. E ci sono i pazienti, reali o inventati non lo sappiamo e che, con le loro narrazioni vivide, mettono sempre alla prova il mondo interno di ogni terapeuta conscio che questo rappresenta il terreno fertile di ogni buona seduta. Virginia, Martina e Roberto riportano episodi, o almeno ci provano, addentrandosi nelle relazioni interpersonali filtrate da idee, regole e convinzioni rigide. Infine, c’è il padre che, di fronte ai figli, gioca, sorride e si terrorizza, umanamente direi.

Ho adorato questo stile così serrato che toglie il fiato e fa dimenticare di essere interconnessa con il resto del mondo. Un po’ l’ho invidiato e un po’ l’ho subito. Quando mi sono ritrovata con la pelle d’oca e le lacrime negli occhi, l’ho dovuto per forza fare. Capite in che senso? Dovevo per forza chiedermi cosa stesse succedendo dentro di me mentre leggevo di tumore. Morte. Amore. Futuro. Perdita. Squarci. Speranza. Semafori verdi. E ci ho messo un po’ a mentalizzare tutte le emozioni che si sono avvicendate dentro di me. È un libro che costringe a farlo un giro, almeno per un attimo, nella propria storia, a girovagare nelle mente e fare più e più capovolte nel proprio passato. E accompagna ad abbracciare, con fiducia, la nostalgia e il dolore per le perdite, per tutto quello che c’è stato e non c’è più, accogliendo, poi, il nuovo e il cambiamento. E c’è soprattutto la sospensione, quello spazio di contatto non contatto con quello che c’è, momento per momento, dentro e intorno a noi.

Parallelamente, leggiamo dell’evoluzione della psicoterapia, della svolta esperienziale in cui siamo stati catapultati da qualche anno a questa parte, in cui rivedo la possibilità di cambiamento che dal corpo arriva fino alla mente. Una svolta portatrice di tecniche e strumenti che, nel tempo che trascorriamo a stretto contatto con i nostri pazienti, genera trasformazione, possibilità e fa da tappeto rosso a parti di noi stessi sempre bistrattate, messe in ombra, poco coltivate. Quelle parti sane nascoste da vulnerabilità, solitudine, inettitudine. E veniamo accompagnati per mano in questo percorso che sa un po’ di teoria e un po’ di pratica, con riflessioni condite da esperienza clinica che spiegano anche il senso che si nasconde dietro al titolo. Qui il terapeuta che c’è in ognuno di noi ne ha di materiale per interrogarsi, spronarsi e mettersi in discussione. È così rassicurante leggere che

…la psicoterapia…è un continuo avanti e indietro. Se funziona…la curva della salute è in ascesa sia pure con i suoi bravi picchi e fossati…

ed è così importante non dimenticare mai il ruolo centrale del corpo, nella sofferenza quanto nel benessere. Infatti, ho letto Un attimo prima di cadere in varie spiagge del Salento. Sugli scogli di Otranto e sulla sabbia bianca di Torre Lapillo. Un tipo di vacanza che mi ha vitalizzata e mi ha fatta sentire energica come non accadeva da un po’. In un attimo (scusate il gioco di parole) ho capito che stavo vivendo nel mio corpo quello che il libro stava spiegando: uno stato corporeo, ancor prima che mentale, e stavo ri-scrivendo il mio sé vulnerabile, fermo e bloccato, accedendo ad uno impavido e accattivante, almeno per me.

Tornata dalle vacanze incontro Dimaggio. Lo osservo per un po’ intanto che pranziamo e chiacchieriamo. Mentre lo ascolto, lo immagino al pc a scrivere. Sorride e poi si commuove. Si drizza con la schiena a poi si affloscia con le spalle. Lo vedo in mille modi diversi. Mille sfaccettature di umanità. Gli dico che ancora non trovo le parole per descrivere cosa mi ha lasciato il suo libro. In realtà solo ora lo metto a fuoco: la sua penna ha scalfito su queste pagine bianche parole che stillano amare verità. E l’epilogo lo lascia intendere. Alla fin dei conti tutta la partita la si gioca nell’attimo che precede scelte, comportamenti, azioni, parole. Ed una partita più veloce della rapidità della luce. Afferrare quel momento è la chiave di svolta. Lui, ne ha afferrati mille. Possiamo provarci anche noi?

 

L’impatto psicologico del COVID-19 sul paziente oncologico

Nella popolazione oncologica fattori quali il ritardo o l’interruzione nelle cure, le preoccupazioni circa la contrazione del COVID-19 e le sue ripercussioni sull’ambiente circostante, sono stati alla base di una maggior prevalenza di ansia e depressione.

 

La diagnosi di cancro ed il suo trattamento causano spesso difficoltà sulla sfera psicologica, sociale e relazionale. Rispetto alla popolazione, i pazienti oncologici sembrano essere più a rischio di sviluppare disturbi come ansia e depressione (Wang et al., 2020), laddove la percentuale delle stesse può arrivare rispettivamente al 23% e 17% (Linden et al., 2012).

Numerosi studi in letteratura hanno evidenziato come la presenza di disturbi psicologici in comorbilità influisca negativamente sull’aderenza al trattamento, sul tasso di sopravvivenza e sulla qualità di vita generale, sottolineando l’importanza di una presa in cura globale del paziente oncologico.

Recentemente, l’impatto del virus COVID-19 ha comportato numerose ripercussioni sull’area psicologica e sociale delle persone, causando alti livelli di stress e problemi legati alla salute mentale, oltre che fisica. La pandemia e le conseguenti misure restrittive hanno influito inevitabilmente sull’area lavorativa, sociale e sanitaria, comportando una riorganizzazione della stessa.

Nella popolazione oncologica fattori quali il ritardo o interruzione nelle cure, preoccupazioni circa la contrazione del COVID-19 e le sue ripercussioni sull’ambiente circostante, sono stati alla base di una maggior prevalenza di ansia e depressione in tali soggetti (Chen et al., 2020).

L’incertezza per il futuro, per la progressione della malattia e l’esito delle cure mediche, già presenti prima del coronavirus (Stamataki et al., 2014) si sono scontrate con l’incertezza data dalla pandemia e dal suo decorso, ed è auspicabile, oltre che clinicamente rilevante, studiare come l’evento pandemico abbia impattato sulla qualità di vita del paziente oncologico.

Lo studio di Schellekens e Van der Lee (2020) ha preso in esame l’impatto del COVID-19 sul paziente oncologico e sui familiari attraverso un’intervista semistrutturata condotta dopo sette settimane di lockdown. La ricerca ha avuto lo scopo di evidenziare i fattori di vulnerabilità e di protezione a seguito delle misure restrittive emanate per arginare l’impatto pandemico, sia nel paziente oncologico che nel familiare.

L’intervista di 12 item su scala Likert a 5 punti ha incluso domande riguardanti la solitudine, la paura per l’infezione e la paura di morire per coronavirus, mentre l’ultima domanda (che impatto ha avuto la crisi del coronavirus sulla tua vita?) era aperta ed è stata somministrata a 233 pazienti e 41 familiari.

Attraverso un’analisi tematica le risposte sono state collocate in due grandi gruppi:

  • Paura e solitudine;
  • Sentimenti di pace e appartenenza.

Paura e solitudine

L’impatto della pandemia ha creato incertezza e uno spartiacque tra un prima e un dopo, riverberandosi su vari aspetti della vita quotidiana, sia sociali, lavorativi, psicologici che burocratici, dovendo pertanto assistere ad una riorganizzazione delle visite ospedaliere e terapie mediche.

L’analisi delle domande ha portato il 50.5% del campione in esame a sperimentare preoccupazioni riguardanti la possibilità di contrarre il virus e la paura di essere ricoverati successivamente in terapia intensiva (45.6%), mentre il 44.5% ha riportato la paura di non essere stati in grado di “dire addio” ai congiunti in caso di morte per COVID-19.

Per quanto riguarda i familiari dei pazienti oncologici, circa il 66% ha riportato la paura principale di infettare il parente malato, essendo più a rischio di conseguenti complicazioni per immunocompromissione a causa del cancro e dalle terapie mediche.

Rispetto a prima della pandemia, circa il 36% dei pazienti e il 41.4% dei familiari hanno riportato di sentirsi soli e isolati, di essere mancati contatti fisici con i congiunti e amici, non potendo essere replicati tali contatti a distanza (videochiamata o telefono).

I sentimenti di solitudine e isolamento si sono riverberati sulle paure legate al cancro, mancando, a causa delle restrizioni sociali, attività ludiche e distrazioni; a tal proposito un familiare ha riportato che l’essere stato “isolato” in casa con il partner malato, in assenza di socializzazioni con familiari e amici, ha impedito di distrarsi dall’evento cancro rimanendo questo totalizzante nella quotidianità. Sono stati inoltre riportati anche contatti più limitati con i medici di riferimento.

Nel presente studio, l’impossibilità di condurre la stessa vita antecedente la pandemia ha inciso, sia sul paziente che sul congiunto, sul sentimento di solitudine spesso lasciando poche possibilità di investimento su altre attività e relegando il supporto ed i contatti sociali in via telematica.

Sensazioni di pace ed appartenenza

Un ampio gruppo di di pazienti (45.5%) e familiari (41.5%) ha riferito di essersi sentito a proprio agio durante il periodo di lockdown nella propria casa con i congiunti, essendo diminuiti gli stimoli esterni e dilazionato i tempo passato con i propri cari. Gli autori riferiscono che la diminuzione degli impegni lavorativi o del monte di ore dedicato ad aspetti esterni ha comportato un maggiore senso di pace e di tranquillità rispetto alle preoccupazioni dei soggetti intervistati.

A tal proposito, circa il 40% dei pazienti e il 36.6% dei familiari ha riportato di essere riuscito, a seguito della pandemia e degli effetti di questa sulla quotidianità, a focalizzarsi maggiormente sulle cose importanti.

Diversi pazienti hanno riportato che essendo abituati a stare molto tempo in casa, a seguito delle restrizioni sociali e all’obbligo di passare più tempo in casa per tutti, si sono sentiti più compresi e ciò ha influito sul sentimento di appartenenza alla comunità; come riporta una paziente

Currently, also all of my colleagues are working from home. Now I am not the only one anymore who dials in (per phone/video) at meetings, and I see that as an advantage (Schellekens & Van der Lee, 2020).

Riassumendo, per alcune persone la solitudine provata durante il lockdown ha aumentato le loro paure legate al contesto oncologico, soprattutto in coloro che erano a rischio di sviluppare ansia e depressione; per altri la possibilità di passare più tempo in casa o in contatto con i familiari ha costituito un momento di pace e di rivalutazione degli aspetti importanti della propria vita.

Gli autori concludono sottolineando come, al fine di mantenere una qualità di vita soddisfacente, possa essere utile ricercare forme di contatto sociale sicure, ad esempio mantenere i contatti (fisici) con familiari o amici con le dovute precauzioni e mantenere un supporto psicologico online al fine di accompagnare la persona e sostenerla nelle difficoltà dell’iter oncologico, con le dovute attenzioni alle vulnerabilità personali e familiari.

 

Erectile Disorder giovanile e l’uso di materiale pornografico

Il disturbo erettile sembra aver subito un notevole aumento nelle fasce di età più basse che hanno mostrato una crescita esponenziale di problemi erettili e calo della libido e della soddisfazione sessuale nei rapporti sessuali tra i giovani. Che ruolo ha la pornografia?

 

Nell’affrontare le disfunzioni sessuali in generale non possiamo prescindere dal modello della risposta sessuale di Kaplan. Questo modello si organizza in quattro fasi che rappresentano insieme la normale risposta sessuale: il primo stadio è l’interesse sessuale o desiderio; il secondo è lo stadio dell’attivazione o eccitazione sessuale; il terzo è quello dell’orgasmo; il quarto è quello della risoluzione.

Ogni disfunzione sessuale riflette un problema persistente del soggetto in uno di questi stadi, ad eccezione dell’ultimo per cui non esisterebbe un corrispettivo patologico.

È nel secondo stadio del modello di Kaplan che ritroviamo il disturbo erettile. Nella fase dell’eccitazione sessuale avvengono diversi cambiamenti fisici che accompagnano la sensazione soggettiva di eccitazione. Nell’uomo tali cambiamenti si manifestano visivamente attraverso l’erezione del pene (Hansell e Damour, 2007).

L’Erectile Disorder (ED) è tradotta come Disturbo Erettile, ovvero la marcata difficoltà nell’ottenere o mantenere un’erezione durante l’attività sessuale in più del 75% dei suoi rapporti sessuali. Molte ricerche, come quelle fatte da Prins, Blanker, Bohnen, Thomas e Bosch (2002) e da De Boer, Bots, Lycklama, Nijeholt, Moors, Pieters e Verheij (2004), almeno fino alla decade scorsa, hanno dimostrato come tale disturbo sia strettamente correlato all’età, ovvero che la percentuale di persone sotto i 40 anni affette da tale difficoltà era molto più bassa della percentuale delle persone più adulte.

La connessione tra età e ED era spiegata da diversi fattori, non ultimo lo stile di vita dei soggetti affetti; l’obesità, l’abuso di sostanze e l’abitudine di fumare sono stati correlati con il disturbo organico dell’erezione (Park, 2016).

Il disturbo dell’erezione è classificato o come organico o come psicogeno: nel primo caso è attribuito a determinate condizioni fisiche, come variabili neurologiche, ormonali, anatomiche, o all’effetto di un farmaco. Nel secondo caso invece si fa riferimento a condizioni psichiche che possono compromettere l’erezione del soggetto, quali quadri depressivi, esposizione a forti stress o una condizione di ansia da performance o generalizzata.

Tuttavia, tale disturbo sembra aver subito un’impennata nelle fasce di età più basse. È infatti sugli uomini sotto i 40 anni che andremo ora a focalizzarci, in quanto ricerche più recenti (Landripet e Štulhofer, 2015) hanno mostrato una crescita esponenziale di problemi erettili e calo della libido e della soddisfazione sessuale nei rapporti sessuali tra i giovani.

Parallelamente a questi dati c’è stata una crescita esponenziale dei siti pornografici e della disponibilità di contenuti pornografici dal 2006 in poi. È in quell’anno infatti che nascono le prime piattaforme online che mettono a disposizione dei propri utenti film e video pornografici di ogni genere, visibili senza la necessità di scaricarli.

A partire da queste due variabili si sta diffondendo un quesito: può il materiale pornografico modificare le nostre abitudini sessuali nella vita reale ed il modo in cui fisicamente le viviamo?

Nel 2007 il Kinsey Institute è il primo a collegare la pornografia con la crescita delle disfunzioni erettili e con il calo del desiderio sessuale tra i giovani. Inoltre l’istituto evidenzia come l’esposizione alla pornografia, se continua, porterebbe ad una rapida abitudine del soggetto ai contenuti sessuali espliciti, la quale spingerebbe lo stesso verso la ricerca di materiale sempre nuovo e progressivamente più deviante per mantenere un’alta eccitazione: nel soggetto avverrebbe quindi una sorta di specializzazione sui contenuti sessuali online che difficilmente riesce poi a ritrovare nel rapporto sessuale nella vita reale.

Avviene dunque quello che Park (2016) chiama iperattività neurologica durante l’esposizione a materiale pornografico online e contemporaneamente un’ipoattività neurologica di fronte a stimoli sessuali naturali provenienti dalla vita reale. Il soggetto in quest’ultimo caso fatica a ricavare dal rapporto sessuale con il proprio partner quei livelli di eccitazione che raggiunge quando, davanti allo schermo, sceglie autonomamente il contenuto sessuale cui prestare la sua attenzione (Park, 2016).

Uno studio del 2015 condotto in Italia, che ha coinvolto 1565 studenti all’ultimo anno della scuola secondaria di secondo grado, ha evidenziato una correlazione tra disturbi della sfera sessuale e uso di materiale pornografico online. Del totale del campione di riferimento 1492 hanno accettato di partecipare alla ricerca in forma anonima. I restanti non sono stati quindi considerati nell’elaborazione dei dati. Di 1492, 1163 studenti hanno dichiarato di consumare materiale pornografico online: il 10% di questi ha dichiarato che l’uso di questo materiale ha fatto diminuire il loro interesse sessuale nella vita reale. Andando a suddividere questi 1163 studenti in base alla frequenza di accesso ai siti web vediamo che il 43% vi accede una volta a settimana, mentre il 49% meno di una volta a settimana: in quest’ultimo gruppo il 14% ha dichiarato un’anormale risposta sessuale, mentre la percentuale arriva al 25% in studenti che accedono a questi contenuti più di una volta a settimana. Le anormalità di risposta sessuale riscontrate sono: problemi di erezione, di orgasmo prematuro e diminuzione del desiderio sessuale (Pizzol, Bertoldo, Foresta, 2016).

In un altro esperimento del 2015 su uomini sotto trattamento per ipersessualità, i quali facevano un frequente uso di materiale pornografico ed i quali dichiaravano di dedicare 7 ore o più alla settimana per masturbarsi, emerse che il 71% aveva disfunzioni sessuali e di questi il 33% riportava difficoltà di eiaculazione (Sutton, Stratton, Pytyck, Kolla, Cantor, 2015).

Caratteristiche dello stimolo: abbiamo già accennato a come lo stimolo pornografico, grazie ai siti pornografici disponibili dal 2006, sia flessibile alle scelte dei propri utenti. Abbiamo già parlato di come i soggetti siano con il tempo e con il continuo uso spinti a indirizzare le loro ricerche verso materiale sempre nuovo. Abbiamo quindi accennato a come vi sia una possibile escalation della devianza del materiale pornografico e come tutte queste caratteristiche dello stimolo siano difficili da riscontrare poi nella vita reale in una relazione sessuale con un’altra persona. In altre parole la realtà non riesce a tenere testa alla fantasia del soggetto, al suo bisogno di novità, e così delude puntualmente le sue aspettative. Ma cosa succede a livello cerebrale?

Gli stimoli sessuali online vengono rinforzati dal piacere che proviamo nell’esperienza sessuale della masturbazione. Ma come nell’uso e abuso di una sostanza che dona piacere, il nostro cervello si abitua ad un determinato stimolo quanto ad una determinata dose della sostanza. Ciò obbliga il soggetto a ricercare materiale diverso nella quantità o nella qualità per poter ritrovare sempre lo stesso grado di piacere. Questo porta il soggetto ad addentrarsi in un circolo che si autoalimenta. Attenzione però a considerare il soggetto in questione entro un vicolo cieco: la plasticità del nostro cervello ci permette, anche se con un sostanziale sforzo, di uscire da questo circuito disfunzionale. Come Norman Doidge illustra nel suo libro The Brain That Changes Itself (2007), nella stessa direzione di pensiero Bronner e Ben-Zion (2014) mostrarono come una rieducazione sulla masturbazione e sulle sue implicazioni nella vita sessuale delle persone affette da problemi di erezione e di diminuzione della libido possa giovare sul loro desiderio nonché la loro relazione sessuale. Questi due ricercatori mostrarono come dopo otto mesi di interruzione totale dell’esposizione di questi soggetti a contenuti pornografici, i loro problemi di erezione, di eiaculazione ed il loro desiderio sessuale fossero significativamente migliorati.

 

Nonni e fili invisibili – Moms, una rubrica su maternità e genitorialità

Il presente articolo si propone di dare una lettura sistemico-relazionale delle relazioni nel transgenerazionale. Vengono messe in luce alcune dinamiche interpersonali difficili da percepire tra nonni, genitori e figli.

Moms – (Nr.4) Nonni e fili invisibili

 

Il quarto episodio della prima stagione di Workin’ Moms si apre con una riunione del gruppo per la maternità dove le mamme che lo frequentano affrontano l’argomento baby-sitter. La protagonista Kate Foster suggerisce:

Non ingaggiare tua madre: si prende molto spazio molto in fretta.

I nonni a volte sono più costosi di un aiuto esterno alla famiglia come può essere quello di una baby-sitter, poiché l’aiuto che danno può essere collegato a dei fili talmente sottili che sono difficili da notare. Tali fili sono uniti a delle sacchette con l’etichetta “debito” che ogni figlio di questi nonni, ovvero ogni genitore, si porta dentro.

Il debito ha origine da lontano per alcuni sin dalla nascita, quando gli è stato fatto credere che il genitore, ora divenuto nonno, ha dato la propria vita affinché il figlio venisse al mondo o per garantirne la crescita. Il potere del debito a volte è tanto forte che alcune persone scelgono di dare alla luce i figli per “donarli” al proprio genitore oppure si sacrificano nel facendoglieli crescere pur di essere emotivamente liberi.

Più semplicemente a volte capita ad alcune mamme, come anche ad alcuni papà, che essendo ancora indifferenziati dai genitori lascino loro la porta spalancata per farli entrare nella nuova famiglia che si sono costruiti. Questo può dare origine ad una serie di motivi di sofferenza per la mamma e di disfunzionamento nella relazione che ha con il figlio ed il marito.

In primo luogo viene compromessa la relazione con il figlio e l’educazione di questi, che non potrà giovare del marchio autentico della mamma, ma avrà lo stampo del nonno. Un altro aspetto che verrà messo a repentaglio è la relazione di coppia, dove possono crearsi delle triangolazioni che vedono il nonno e il genitore vicini tra loro e l’altro genitore più distante.

Ciò che viene danneggiata maggiormente sono l’autostima e l’autoefficacia. Dietro alla richiesta di una madre al nonno o alla nonna di prendersi cura del proprio figlio può esservi a volte un’insicurezza rispetto al proprio ruolo genitoriale. Tale insicurezza può derivare da un Super-Io molto severo introiettato nelle interazioni con il proprio genitore. Se un nonno o una nonna accettano di sovrapporsi al ruolo materno, la donna potrebbe confermare dentro di sé la credenza di non saper fare la madre.

I nonni possono assolvere alla loro funzione reale solo nel momento in cui i loro figli mettono loro un limite e non permettono loro di prendersi tutto lo spazio di cui parlava Kate Foster all’inizio del quarto episodio. Purtroppo non per tutti i genitori è possibile mettere un freno ai nonni, poiché i fili che li legano al debito originario sono davvero difficili da vedere, ma non impossibili da riconoscere se si ricorre ad un aiuto esterno quando il peso di questo legame diventa eccessivo.

 

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