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Autismo in età adulta. L’esperienza dell’Associazione di Promozione Sociale “Il Tortellante” per la creazione di un Progetto di Vita

L’Associazione di Promozione Sociale ‘Il Tortellante’ di Modena è nata nel 2018 e si pone nello specifico settore di intervento per adolescenti e giovani adulti con Disturbi dello Spettro Autistico.

Alessandro Rebuttini e Martina Rossetti – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

 

Autismo

I Disturbi dello Spettro Autistico sono disturbi del neurosviluppo e si originano da una compromissione nel corso dello sviluppo che coinvolge le abilità comunicative, di socializzazione, e sono in generale associati a comportamenti insoliti (ad esempio comportamenti ripetitivi o stereotipati) e a un’alterata capacità di astrazione e di generalizzazione (ISS, 2011). Nel corso degli anni si sono susseguiti numerosi sistemi di classificazione al fine di garantire una migliore nosografia dell’Autismo. Quello più utilizzato negli ultimi anni è il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali nella sua quinta edizione (DSM-5); un ulteriore sistema di classificazione è l’ICD (dall’inglese International Classification of Diseases) nella sua decima edizione, l’undicesima di prossima pubblicazione in Italia. La principale novità di questo sistema nosografico è rappresentata dalla creazione di un’unica grande categoria diagnostica denominata ‘Disturbi dello Spettro Autistico’ entro cui si trovano tutti i quadri sintomatologici e patologici che precedentemente venivano differenziati (APA, 2013). Le principali difficoltà nell’Autismo sono riscontrabili da una parte nell’interazione e nella comunicazione sociale e dall’altra nella presenza di interessi molto ristretti e ripetitivi e di comportamenti stereotipati. In generale viene spesso utilizzato il termine ‘spettro’ per mostrare l’enorme variabilità di quadri sintomatologici che si possono presentare all’interno di questa categoria diagnostica. Troviamo, infatti, alcune forme con individui con maggiori difficoltà cognitive e intellettive, e forme più ad alto funzionamento con capacità intellettive nella norma e superiori, ma ugualmente con grandi difficoltà sociali (Keller, Bari, Aresi, Notaro, Bianco & Pirfo, 2015).

Autismo in età adulta

Negli ultimi 15 anni l’interesse degli studiosi e della società si è rivolto sempre di più verso i Disturbi dello Spettro Autistico negli adolescenti, nei giovani adulti e negli adulti. Sin dall’introduzione del termine ‘Autismo’ (Kanner, 1978) si è pensata a questa come una patologia presente e diagnosticabile principalmente nei bambini. Gli studiosi ora sono concordi che circa il 90% dei bambini con un Disturbo dello Spettro Autistico diventano adulti autistici (Barale et al., 2009). Altri studiosi hanno definito l’Autismo una ‘almost always a lifelong disabling condition’ (Volkmar, Lord, Bailey, Schultz & Klin, 2004) ovvero una condizione di vita che perdura negli anni. Precedentemente il destino delle persone con un Disturbo dello Spettro Autistico in età adulta erano quello dei ‘reparti frenastenici e psicotici’ degli Ospedali Psichiatrici. Attualmente, invece, il rischio per questi individui, è quello di trovarsi con numerosissime altre forme di disabilità in grandi strutture pubbliche o private, dove gli interventi appositamente centrati su questa condizione di vita sono pochi o rarissimi (Barale et al., 2009). Altre persone con un Disturbo dello Spettro Autistico rimangono, invece, nelle proprie famiglie le quali sono ben consapevoli che prima o poi, per difficoltà dei genitori che inevitabilmente invecchiano o per altre questioni, non riusciranno a seguire i figli così come vorrebbero (Mazzone, 2015). Da un punto di vista psicopatologico si evidenzia che dall’adolescenza in poi alcuni comportamenti messi in atto dai soggetti con Autismo possono migliorare in maniera evidente, altri, invece, peggiorare. È importante, infatti, riconoscere che, come le persone a sviluppo tipico, i soggetti autistici incontrano difficoltà nell’adattamento del corpo che cresce, nella sessualità e nelle capacità di comprendere il mondo circostante e di esprimersi (ISS, 2011). Vi può essere contemporaneamente un aumento di situazioni non chiare e che creano tensione che accompagnano la pubertà, e che possono sfociare nella messa in atto di altri e nuovi comportamenti ripetitivi, auto-aggressivi o etero-aggressivi. Diversi studiosi hanno cercato di riassumere i cambiamenti che avvengono in persone con Disturbo dello Spettro Autistico che stanno diventando adulte, e possono essere così riassunti:

  • nonostante l’aumentare dell’età la persona con Autismo conserva le caratteristiche tipiche della propria sindrome soprattutto per tutto ciò che riguarda la sfera sociale;
  • per la conquista delle autonomie personali gli esiti possono risultare abbastanza limitati;
  • la sintomatologia può sembrarsi leggermente attenuare rispetto all’età evolutiva e a quella adolescenziale e si possono evidenziare alcuni elementi che possono condizionare l’evoluzione e che possono essere interpretati come fattori prognostici (Cottini, 2009).

Tutti questi comportamenti messi in atto da persone che hanno un Disturbo dello Spettro Autistico portano inevitabilmente alla creazione di un vuoto sociale attorno a loro e alle loro famiglie (ISS, 2011). Al fine di diminuire queste difficoltà numerosi studiosi sono concordi nel sottolineare l’importanza di interventi mirati e centrati sulle abilità di queste persone (Cottini, Fedeli & Zorzi, 2016). Gli interventi differenziati si rendono necessari a causa dell’enorme eterogeneità dei sintomi dei diversi individui. Vi è, quindi, centralità sia all’interno del dibattito scientifico sia tra le riflessioni più prettamente operative di portare alla predisposizione e alla creazione di sempre più adeguati servizi di supporto (Nardocci, Della Betta & Marchi, 2003). Sempre a causa della vasta varietà della sintomatologia presente si sta sempre più rivelando necessario lo svolgimento di colloqui di gruppo o individuali di tipo psicoeducativo e psicologico per lavorare sulla sintomatologia ansiosa, depressiva o ossessiva compulsiva che si presenta spesso negli individui adulti con maggiori capacità cognitive (Ferri, Candria, & Mezzaluna, 2020). Un esempio recente è rappresentato dallo studio di Nimmo-Smith et al. (2020) nel quale è stato svolto un confronto tra le diagnosi di disturbo d’ansia effettuate in un gruppo (n=4049) di adulti con Autismo con o senza Disabilità Intellettiva e in gruppo di soggetti di controllo (n = 217.645). I ricercatori hanno potuto vedere che nel gruppo sperimentale con soggetti autistici i disturbi d’ansia erano diagnosticati nel 20.1% dei casi mentre nel gruppo di controllo lo erano nel solo 8.7%. I ricercatori sono concordi nell’affermare che i risultati dovranno essere approfonditi nei prossimi studi, ma che si tratti sicuramente di un dato molto interessante per la creazione di percorsi sempre più adeguati per persone con Autismo (Nimmo-Smith et al., 2020).

In Italia come in tutta Europa negli ultimi anni è accresciuta notevolmente l’attenzione e la sensibilità verso le persone con Disturbo dello Spettro Autistico. Questo anche grazie all’operato di numerose associazioni di genitori che si sono riuniti per fare rete e trovare nuove possibilità per i propri figli. Attualmente i percorsi Istituzionali sono molto differenziati da territorio a territorio e mirati maggiormente alla fascia dei bambini o al massimo degli adolescenti. Tuttavia anche dal punto di vista legislativo sono stati fatti tantissimi passi avanti. Ad esempio con la Legge n. 134 del 18 agosto 2015 conosciuta anche come ‘legge sull’Autismo’ che incentiva la creazione di progetti dedicati alla formazione e al sostegno delle famiglie che hanno in carico persone con Disturbo dello Spettro Autistico. Anche la Legge n.112 del 22 giugno 2016, conosciuta come ‘Legge del Dopo di noi’, si concentra sulla disabilità in individui adulti al fine di attivare prese in carico in strutture appositamente attrezzate in vista del venire a meno del sostegno famigliare a causa dell’età e dell’impossibilità dei genitori. L’Istituto Superiore di Sanità nel 2019 ha riunito numerosi esperti di Autismo per la creazione delle nuove Linee Guida Nazionali e, per la prima volta, è stato creato un apposito gruppo di lavoro per l’età adulta.

La Qualità della Vita nei Disturbi dello Spettro Autistico

Il concetto di Qualità della Vita (QdV) è stato definito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) come la percezione che l’individuo ha della sua vita nel contesto culturale e nel sistema di valori in cui è inserito, in relazione ai propri bisogni, alle aspettative, agli standard e agli interessi individuali (World Health Organization, 1998).

Quello che emerge dalla letteratura è l’importanza di collegare la Qualità della Vita ai bisogni e alle aspettative individuali, e quindi la necessità di non trascurare la dimensione di percezione soggettiva. Occorre quindi prendere sempre in considerazione l’individuo, e le sue abilità necessarie al mantenimento e al miglioramento della propria QdV e anche l’ambiente sociale e culturale in cui è inserito (Cottini, 2009). Data la grande importanza che questo costrutto riveste, in quanto prende in considerazione la persona nella sua interezza, appare di fondamentale importanza considerare il concetto di QdV per la determinazione di politiche pubbliche, la valutazione dei servizi e lo sviluppo di programmi innovativi locali, nazionali e internazionali, volti all’identificazione e realizzazione dei supporti necessari al raggiungimento di bisogni, aspettative, interessi individuali (Schalock et al., 2002). Raggiungere un buon livello di Qualità della Vita è un obiettivo fondamentale e necessario per la vita di tutte le persone, e questo dovrebbe valere anche per chi ha una disabilità, e per le persone con Disturbo dello Spettro Autistico.

L’analisi del costrutto di Qualità della Vita ha fornito una nuova prospettiva nel campo della salute mentale, permettendo di guardare ai problemi delle persone con disabilità, identificando, valutando e sviluppando una serie di servizi e politiche sociali specifiche per queste persone. In questo modo è possibile produrre un cambiamento non soltanto a livello individuale, ma anche sociale con un miglioramento del loro benessere e della loro inclusione nella società.

Tutti, con o senza disabilità, hanno il diritto di raggiungere un buon livello di Qualità della Vita all’interno dell’ambiente in cui sono inseriti (Schalock et al., 2002), ed è questo principio cardine che può guidare la realizzazione di progetti di vita individualizzati per persone con Disturbo dello Spettro Autistico. Per poter arrivare a ciò è necessario riuscire a misurare la QdV della persona con autismo, andando a osservare se alcuni aspetti della loro vita non sono sufficientemente conformi ai bisogni e alle aspettative individuali e, in alcuni casi, anche famigliari. La misurazione diventa elemento indispensabile per l’individuazione di servizi adeguati alle persone con Autismo e la progettazione di specifici interventi. Si possono individuare in letteratura otto domini di Qualità della Vita (Schalock et al., 2002); per ciascuno sono stati poi selezionati una serie di indicatori (percezioni, comportamenti, condizioni) che consentono di definirli dal punto di vista operativo (Croce, Lombardi, & Di Cosimo, 2014). Il benessere fisico consiste nella condizione di buona salute di cui ciascuno gode, grazie a uno stile di vita sano, alla possibilità di ricevere cure e riposarsi in maniera adeguata. Il benessere emozionale si riferisce alla possibilità di sentirsi soddisfatti di sé stessi e della propria vita. Per benessere materiale si fa riferimento alla possibilità di disporre di risorse materiali (quali ad esempio denaro, vestiti, ecc…) e di un proprio spazio all’interno della casa e della comunità in cui si è inseriti. Per Qualità della Vita dell’ambito della autodeterminazione si intende possibilità di compiere scelte, di esprimere i propri bisogni e preferenze ed esserne soddisfatti, usufruendo anche delle opportunità che l’ambiente in cui viviamo ci offre. Lo sviluppo personale consiste nella possibilità di raggiungere una propria personale autonomia in tutti i contesti e per l’intero arco di vita. Per quanto riguarda le relazioni interpersonali ci si riferisce alla possibilità di incontrare e avere momenti di scambio con familiari, amici, e in generale persone che si conoscono. Nell’ambito dell’inclusione sociale si intende la possibilità di sentirsi membro di un gruppo e di una comunità, di non sentirsi esclusi e di essere soddisfatti della possibilità di vivere in pieno il proprio ambiente di vita, sfruttandone ogni elemento. Infine per Qualità della Vita nell’ambito dei diritti si intende la possibilità di sentire tutelati i propri diritti e le proprie necessità grazie anche all’esistenza e al rispetto di norme e leggi adeguate.

Tra le misure del costrutto di Qualità della Vita si può nominare la Personal Outcomes Scale (POS), una scala realizzata da Jos Van Loon, Geert Van Hove, Robert Schalock e Claudia Claes nel 2008 per la misurazione, in adulti con disabilità, degli otto domini (Van Loon, Van Hove, Schalock, & Claes, 2017). Di ciascuno di questi la POS fornisce, dove possibile, due valutazioni: una eterodiretta, attraverso un’intervista rivolta a un caregiver che conosce in maniera approfondita la persona con disabilità, e una autodiretta, rivolgendo le stesse domande direttamente alla persona con disabilità. È una misura degli esiti personali, ovvero del momento di vita attuale della persona con disabilità alla luce dei diversi sostegni che sono stati erogati per il suo progetto di vita. Data la sua peculiare caratteristica nell’individuare aspetti misurabili della qualità della vita di una persona la POS può essere utilizzata anche per la realizzazione di progetti di vita per persone con Disturbo dello Spettro Autistico. Come sottolineato da Roberto Cavagnola, psicologo che lavora presso la Fondazione Sospiro, è importante per l’età adulta progettare specifici percorsi indirizzati al raggiungimento di obiettivi personali e al miglioramento della propria Qualità della Vita (Cavagnola, 2018). Come sottolineato anche dalle Linee Guida 21 dell’Istituto Superiore di Sanità nell’intervento per la persona con Autismo è necessario che ci sia una continuità assistenziale tra i servizi di infanzia/adolescenza ed età adulta al fine di garantire un’assistenza articolata per tutto l’arco di vita (Ferri, Candria, & Mezzaluna, 2020).

Nel progettare interventi volti a un miglioramento della Qualità della Vita di persone adulte con Disturbo dello Spettro Autistico occorre prendere in considerazione anche l’aspetto lavorativo, in quanto elemento che può andare a migliorare molti domini di Qualità della Vita, e aiutare la persona a raggiungere i propri obiettivi di occupazione, integrazione e socializzazione (Montobbio & Navone, 2003). Per mezzo dell’occupazione la persona si realizza, acquista una sua personale identità e migliora anche la propria autostima. Questo percorso può risultare difficoltoso per la persona adulta con Autismo a causa delle caratteristiche psicopatologiche che tale condizione comporta, tuttavia, grazie anche all’aiuto di un personale di riferimento e a un buon progetto individualizzato, possono raggiungere adeguati livelli di autonomia lavorativa ed esecuzione di procedure.

L’esperienza della Associazione ‘Il Tortellante’ di Modena

L’Associazione di Promozione Sociale ‘Il Tortellante’ di Modena è nata nel 2018 e si pone nello specifico settore di intervento per adolescenti e giovani adulti con Autismo, con progetti volti a contrastare e superare le carenze che si manifestano al termine della scuola dell’obbligo, prefiggendosi diversi obiettivi quali: l’avviare percorsi formativi individualizzati per un inserimento lavorativo; il migliorare l’attività in team, anche con persone non formate nell’Autismo; migliorare e arricchire la condizione delle persone con Autismo nella vita adulta e in vista del ‘Dopo di Noi’ ; sostenere le famiglie nella transizione all’età adulta; incentivare e agevolare l’integrazione e l’inclusione delle persone autistiche nella comunità di riferimento; sensibilizzare la comunità sul tema dell’Autismo. ‘Il Tortellante’ coinvolge 25 ragazzi con un’età compresa tra i 15 e i 27 anni ed è prima di tutto un laboratorio terapeutico abilitativo che insegna a giovani e adulti con Disturbi dello Spettro Autistico a stare all’interno di un contesto lavorativo, collaborando con diverse persone, socializzando e producendo pasta fresca fatta a mano. In questo un ruolo fondamentale e cardine è svolto dalle nonne volontarie che sono le vere detentrici della tradizione emiliana del tortellino. L’Associazione unisce propriamente la disabilità e le persone anziane e sole che si riscoprono parte di un gruppo e in grado di dare ancora tanto ai nipoti e agli altri ragazzi. Accanto a questo per ogni ragazzo facente parte dell’Associazione viene realizzato un Progetto di Vita da un’équipe scientifica altamente formata nel campo dell’autismo, supervisionata dal neuropsichiatra e psichiatra Franco Nardocci e guidata dagli psicologi Alessandro Rebuttini e Martina Rossetti. L’Associazione ritiene di fondamentale importanza mettere in piedi programmi di intervento individualizzati con team interdisciplinari di professionisti esperti (psicologi, terapisti occupazionali, tecnici della riabilitazione psichiatrica, educatori) con il coinvolgimento della famiglia.

Il Progetto di Vita si sviluppa a partire da un’intervista rivolta a genitori e/o agli utenti stessi utilizzando la scala POS con lo scopo di andare a indagare il livello di Qualità della Vita in tutti i suoi otto domini, e stilare una serie di obiettivi specifici e individuali che tengano conto dei bisogni e delle aspettative personali. Una parte consistente viene riservata all’inserimento lavorativo; a partire dalle competenze specifiche di ciascun utente vengono individuate dall’équipe differenti mansioni e obiettivi che vengono svolti e raggiunti attraverso programmi cognitivo comportamentali direttamente orientati dalle strategie della Applied Behavioral Analysis (ABA), strategie di educazione strutturata e di organizzazione dello spazio di derivazione del programma Treatment and Education of Autistic and Communication Handicapped Children  (TEACCH) (Schopler & Mesibov, 1995) specifiche per l’età adolescenziale ed adulta.

Il lavoro all’interno del laboratorio viene organizzato con diverse mansioni in base alle capacità di ogni utente per essere svolto in autonomia, o comunque con poco controllo da parte dell’operatore che dovrà andare via via scemando (fading). Il compito dovrebbe essere già conosciuto dal ragazzo, nel caso invece si tratti di una novità vengono predisposti dal personale training di insegnamento di questo attraverso tecniche cognitivo-comportamentali. Dalle prime valutazioni qualitative realizzate si è ricavato che i ragazzi hanno potenziato la propria immagine di sé, aumentato l’autonomia e incrementato diversi aspetti fino ad allora critici (lavorare in team, rispettare le regole, gestire i tempi di attesa, ecc), e anche i riscontri da parte delle famiglie sono stati positivi. Oltre alla POS sono somministrati in maniera periodica le Vineland Adaptive Behavior Scales-II (Sparrow, Cicchetti & Balla, 2005) per la valutazione del comportamento adattivo, la Social Responsiveness Scale (Costantino e Gruber, 2012) per ottenere informazioni sul comportamento sociale reciproco, la comunicazione e i comportamenti ripetitivi e stereotipati caratteristici dei Disturbi dello Spettro Autistico, il Social Communication Questionnaire (Rutter, Bailey, Lord, 2007) per avere dati circa le capacità comunicative, sociali e relazionali, la Childhood Autism Rating Scale Second Edition Standard Version (Schopler, Van Bourgondien, Wellman e Love, 2010) per valutare l’andamento della sintomatologia tipica delle persone con Autismo e, infine, alcuni strumenti per la valutazione dello stress percepito da genitori e famigliari. Se la sede della Associazione al piano terra prevede il laboratorio di pasta fresca, al primo piano è possibile trovare quella che viene definita ‘casa delle autonomie’. La ‘casa’ costituisce un ambiente fisico e affettivo in cui, in una relazione di scambio e con finalità specificamente abilitative e riabilitative, vengono garantite ai ragazzi con autismo opportunità di confronto sul piano comportamentale ed emotivo con percorsi di graduale ‘distacco’ dal nucleo familiare. Questa sarà in una prospettiva futura, una ‘residenza affettiva’ in vista del ‘venire meno del sostegno familiare’. ‘Casa’ anche come luogo di sperimentazione delle autonomie per l’acquisizione delle abilità di vita sociale, in cui cominciare (inizialmente per tempi limitati a weekend prolungati) a prepararsi ad una vita il più possibile autonoma, in cui le attività domestiche (la cura personale, la preparazione dei pasti, la pulizia e la cura degli spazi di vita comune) possano diventare routine insieme con attività ludiche, sportive, del tempo libero, ma anche con responsabilità dirette per l’acquisto dei cibi, degli strumenti e del materiale per la quotidianità della vita della ‘casa’. Si tratta di attività non solo per acquisire competenze ma anche per migliorare quelle capacità comunicative necessarie per esprimere i propri desideri, le proprie preferenze, le proprie scelte.

 

Hewitt e Flett: il Perfezionismo di tratto come costrutto multidimensionale

Hewitt e Flett (1991b) descrivono tre dimensioni che costituiscono il costrutto del perfezionismo di tratto: Self- Oriented (Autodiretto), Other-Oriented (Orientato verso l’altro) e Socially Prescribed (Socialmente Prescritto).

 

Il perfezionismo può essere definito come una caratteristica personale che si presenta composta da varie dimensioni osservabili tramite differenti comportamenti, pensieri ed emozioni, coinvolgendo, quindi, le varie sfere dell’esperienza cognitiva, affettiva, relazionale e sociale (Chang, 2006; Frost, Marten, Lahart, & Rosenblate, 1990; Hewitt & Flett, 1991a).

Tale costrutto multidimensionale è caratterizzato da standard personali eccessivamente elevati, idee rigide che stabiliscono quali comportamenti devono essere attuati e la relativa pena in caso di avvenuto fallimento. Inoltre, si evidenzia un’elevata critica riguardo la propria performance, poiché deve essere sempre all’altezza della situazione, ottenere risultati eccellenti e socialmente apprezzati, ed essere eseguita con attenzione minuziosa alle regole e ai dettagli, al fine di controllare ogni possibile errore e prevenire l’incertezza (Burns, 1980; Chang, 2006; Hamachek, 1978; Frost et al., 1990; Hewitt & Flett, 1991b).

I primi teorici del perfezionismo furono Hamacheck e Burns, seguiti poi da altri autori come Frost, Hewitt e Flett che tentarono di comprendere meglio la natura multidimensionale di tale costrutto, arrivando ad includervi non soltanto gli aspetti auto-riferiti ma anche quelli interpersonali (Hewitt et al., 1991b; Lundh, 2004; Stoeber & Otto, 2006). Hewitt e Flett (1991b) descrivono tre dimensioni che costituiscono il costrutto del perfezionismo di tratto: Self- Oriented (Autodiretto), Other-Oriented (Orientato verso l’altro) e Socially Prescribed (Socialmente Prescritto). La differenza principale tra queste dimensioni non è il modello di comportamento di per sé, ma l’oggetto a cui è diretto il comportamento perfezionista (e.g. orientato verso sé stessi o verso l’altro) o a chi è attribuito il comportamento perfezionista (e.g. perfezionismo socialmente prescritto). Ognuna di queste dimensioni va a costituire il comportamento perfezionista globale.

Self-Oriented Perfectionism

Il perfezionismo autodiretto o auto-orientato si riferisce alla tendenza degli individui a fissare standard elevati e irrealistici per sé stessi ed essere eccessivamente auto-critici quando tali standard non vengono soddisfatti. Tali individui sono così fortemente motivati dal bisogno di raggiungere standard elevati da percepire un totale fallimento se lo standard fissato non viene raggiunto. Secondo Hewitt e Flett (1991b), il perfezionismo autodiretto include anche una componente motivazionale che si riflette principalmente nell’impegno a raggiungere la perfezione ma anche nell’impegno di evitare fallimenti. Il perfezionismo autodiretto è stato associato a vari indici disadattivi, compresa ansia (e.g. Flett, Hewitt, & Dyck, 1989), Anoressia Nervosa (Cooper, Cooper, & Fairburn, 1985; Garner, Olmstead, & Polivy, 1983) e depressione subclinica (Hewitt & Dyck, 1986; Hewitt & Flett, 1990; Hewitt, Mittelstaedt, & Flett, 1990; Pirot, 1986). Ad esempio, è stato rilevato che una discrepanza tra il sé reale e il sé ideale possa produrre un effetto depressivo (Higgins, Bond, Klein e Strauman, 1986; Strauman, 1989) e bassa auto-stima (Hoge & McCarthy, 1983; Lazzari, Fioravanti, & Gough, 1978).

Other-Oriented Perfectionism

Un’altra dimensione importante del perfezionismo, definita perfezionismo orientato verso l’altro, è caratterizzata dalla tendenza a definire standard eccessivamente elevati e irrealistici per gli altri, accompagnata da valutazioni rigorose e critiche rivolte alle prestazioni altrui. Questo comportamento è essenzialmente lo stesso del perfezionismo autodiretto; tuttavia, questo comportamento perfezionista è diretto verso l’esterno. Mentre il perfezionismo autodiretto sembra generare autocritica e auto-punizione, il perfezionismo orientato verso l’altro porta a colpevolizzazione, mancanza di fiducia e sentimenti di ostilità verso gli altri. Inoltre, questa dimensione sembra essere correlata a frustrazioni interpersonali come il cinismo, solitudine e problemi coniugali o familiari (Burns, 1983; Hollender, 1965). Al contrario, gli aspetti più positivi del perfezionismo orientato verso l’altro possono essere associati ad attributi desiderabili come l’abilità di leadership o la facilitazione della motivazione altrui (Hewitt & Flett, 1991b).

Socially Prescribed Perfectionism

La terza dimensione di perfezionismo di tratto, il perfezionismo socialmente prescritto, esprime la tendenza degli individui a credere che le altre persone abbiano alte aspettative riguardo alle loro prestazioni e inoltre, tali individui prevedono elevati standard irrealistici da raggiungere, mostrando un atteggiamento fortemente critico per il fallimento. Questi individui spesso sentono che non potranno mai soddisfare le aspettative espresse dagli altri, vivendo una costante preoccupazione per una propria mancanza di perfezione. Il perfezionismo socialmente prescritto dovrebbe portare ad una varietà di conseguenze negative poiché gli standard imposti dagli altri significativi sono percepiti come eccessivi e incontrollabili, perciò le esperienze di fallimento e gli stati emotivi come rabbia, ansia e depressione dovrebbero essere relativamente comuni. Queste emozioni negative potrebbero derivare da un’impossibilità percepita del compiacimento degli altri, dalla convinzione che gli altri abbiano aspettative irrealistiche nei loro confronti, o entrambi. Quindi, le persone con alti livelli di perfezionismo socialmente prescritto sono interessate a rispettare gli standard imposti dagli altri, mostrando una paura elevata di una valutazione negativa e attribuendo una maggiore importanza all’ottenimento dell’attenzione ma evitando la disapprovazione degli altri (Hewitt & Flett, 1991b).

 

Finché ti va dei Tiromancino: l’innamoramento e la funzione salvifica dell’altro – Rubrica Psico Canzoni

Il presente articolo si propone di interpretare il brano Finché ti va dei Tiromancino, avvalendosi tanto del testo quanto del video. Viene descritto il momento in cui si sceglie di far entrare la persona di cui ci si innamora nella propria vita.

Psico-canzoni – (Nr.3) Finché ti va

 

Le parole di Federico Zampaglione in alcuni brani possono essere definite come la trasformazione in poesia di fotogrammi delle dinamiche di coppia. Finchè ti va è il singolo del gruppo Tiromancino che esce in Italia l’11 Settembre 2020.

Il video della canzone presenta un gruppo presumibilmente terapeutico che fa da sfondo all’incontro tra due ragazzi. Come avviene per ogni incontro, ognuno degli individui che vi partecipano ha un proprio vissuto interiore rispetto ad esso. In questo caso sembra che i Tiromancino scelgano di far passare colui che guarda, o anche solo ascolta, attraverso il percorso emozionale compiuto dal ragazzo. È questi infatti l’unico nel gruppo a cui sembra che la ragazza stia danzando nella stanza e che decide di seguirla, mentre gli altri proseguono a parlare. Per un attimo sembra che con gli occhi si dicano: “sei tu, proprio tu”. Così è il primo contatto che avviene tra due anime: tutti danzano a modo loro, ma ad ognuno colpisce un particolare modo di ballare, a cui poi sceglie se aggregarsi o meno.

Tanto il testo, quanto il video si soffermano sul momento in cui ci si accorge che qualcuno balla con una modalità simile alla propria e si sceglie di continuare insieme la danza. La conseguenza di questo intimo contatto è permettere all’altro di entrare nella nostra vita e a noi di entrare in quella dell’altro.

La danza è una metafora dell’incontro che avviene quando si sperimenta la possibiltà di essere compresi dall’altro, avendo un vissuto simile pur se non identico, che può essere finalmente contenuto e privato dal paralizzante giudizio.

Mi hai trovato prigioniero di una vita sempre uguale è l’intravedere nella persona amata la possibilità che possa tirarci fuori dalla cella in cui sentiamo di trovarci. Tienimi la mano, mentre la città scompare è il momento in cui la mano dell’altro diviene la chiave che aprirà le sbarre per condurci a danzare, dimenticandoci di quello che ci circonda. L’altro assume una funzione così tanto salvifica che i nostri guai si fanno piccoli e più piccoli che ora riusciamo a ridere di noi.

Mentre giri tra i miei dischi prendi pure tutto ciò che vuoi, puoi rimanere qui finchè ti va, riempire tutto dei vestiti tuoi anche se questo non lo dico mai è la scelta di non lasciarsi più  trascinare, ma di amalgamarsi con l’altro, permettendogli di entrare nel nostro cuore. Amare diventa così condividere dischi ed armadi, metafore delle parti più profonde e vulnerabili di sé. Chi si prende il rischio di amare facendo entrare l’altro nella propria vita, varca la soglia dell’incertezza dove il rischio di soffrire è più alto e può finalmente essere accettato.

Nella persona scelta si cela la speranza di trovare luce in mezzo al disordine e di non doverla lasciar perdere perché non portatrice di confusione e tanta polvere.

La relazione di coppia purtroppo, come emerge per chi sceglie di proseguire il viaggio a due, non salva, ma può aiutare a maturare insieme laddove ogni membro della coppia permette all’altro di far luce sui propri aspetti interni e di confrontarsi rispetto ad essi. La coppia diviene così il luogo metaforico dove ognuno ha l’opportunità di divenire capitano della propria anima e padrone del proprio destino, citando la famosa poesia Invictus di William Ernest Henley. Hai presente quando vuoi cambiare strada e decidi che ritorni tu alla guida?

 

FINCHÉ TI VA – Guarda il video del brano:

 

Da “The Social Dilemma” alla Consapevolezza

Le testimonianze riportate nel documentario The Social Dilemma mostrano chiaramente i limiti dei social network e i rischi legati al loro uso, ma sembra che neppure conoscere il funzionamento di tali meccanismi protegga dal subirne gli effetti.

 

To become different from what we are,
we must have some awareness of what we are. (Eric Hoffer)

Nell’odierna società informatica siamo sopraffatti da un’enorme mole di notizie, informazioni e contenuti digitali. In un tale contesto mantenere l’autonomia di giudizio può essere più complesso di quanto sembri. Non solo nei casi in cui siano ipotizzabili deliberati tentativi di manipolazioni dell’opinione pubblica (Tangocci, 2020), ma perfino in occasione del quotidiano uso dei cosiddetti “social media”, o “social network”. Il presente articolo intende esplorare, in una prima parte basata sul documentario The social Dilemma, le influenze che tali piattaforme hanno sui loro membri e, in una seconda parte, proporre la peculiare accezione di “consapevolezza”, che verrà delineata nel corso del testo, come antidoto a tali condizionamenti.

The Social Dilemma

The social Dilemma è il titolo di un recente film documentario (Orlowski, 2020) basato sulle dichiarazioni di esponenti di primo piano del mondo dei social media, come l’ethical designer Tristan Harris e Aza Raskin, fondatori del Center for Humane Technology e ex collaboratori, rispettivamente, Harris di Google e Raskin di Mozilla; Justin Rosenstein ideatore del pulsante “mi piace” di Facebook; l’ex presidente di Pinterest Tim Kendall; e esperti come Shoshana Zuboff, professoressa di psicologia sociale alla Harvard University, o la psichiatra Anna Lembke, specialista in dipendenze alla Stanford University. Le testimonianze riportate delineano un panorama che può sinteticamente essere riassunto nei seguenti punti:

  • Mentre nei primi decenni di vita le aziende dell’high tech vendevano i loro software agli utenti, da alcuni anni i giganti della Silicon Valley vendono l’attenzione dei loro utenti agli inserzionisti, che sono pertanto diventati i veri clienti di aziende come Facebook, Google, Twitter, o simili. Pertanto, poiché ad essere oggetto di vendita, e quindi fonte di guadagno, è il tempo trascorso dagli utenti sulle piattaforme, ogni azienda è in competizione per aumentarlo il più possibile, anche a costo del benessere dell’utilizzatore del servizio, non protetto da normative a riguardo.
  • Rispetto alla tradizionale vendita dell’attenzione dello spettatore all’inserzionista, tipica dei media convenzionali, le piattaforme social consentono la vendita di un’attenzione selezionata. Infatti tali aziende, oltre che dell’attenzione dell’utente, dispongono anche di enormi quantità di dati su di lui (i cosiddetti big data: preferenze, amicizie, opinioni, stati emotivi, tempo dedicato a ogni immagine, post, argomento, ecc…), utili a generare automaticamente degli accurati modelli predittivi su quale stimolo riceverà il suo interesse. La credenza che le aziende vendano i nostri dati non corrisponderebbe quindi a realtà, poiché è interesse delle aziende tenersi stretti i dati raccolti e utilizzarli per generare una profilazione dell’utente migliore di quella disponibile alla concorrenza, così da ottenere modelli predittivi più affidabili.
  • Il cosiddetto “capitalismo della sorveglianza” (Zuboff, 2019) offre all’utente dei servizi apparentemente gratuiti, visto che non è richiesto un pagamento in denaro, giacché il profitto per l’azienda deriva dal monitoraggio dei dati dell’utilizzatore, spesso di ciò inconsapevole. Infatti ogni singola attività online viene osservata, tracciata, misurata, monitorata e registrata. Incrociando elementi apparentemente innocui come l’orario di apertura di un sito, il tempo di osservazione di una foto, la permanenza sul profilo di una persona, per non parlare dei nostri stessi post e dei commenti a quelli altrui, è possibile tracciare profili ben più dettagliati di quanto sia mai stato storicamente possibile.
  • Disporre per ogni singolo utente di modelli predittivi altamente affidabili consente di mostrargli contenuti personalizzati, ad esempio, per ottimizzare la ricezione di un messaggio pubblicitario. Tuttavia la personalizzazione non si limita alla scelta di quali inserzioni mostrare, ma concerne l’intera selezione dell’esperienza social dell’utente, quali contenuti mostrare per primi o con maggiore frequenza, quali rendere invece difficilmente accessibili. In tal modo il meccanismo è in grado di alterare la percezione delle “realtà” dell’utente, permettendo, ad esempio, di rafforzare divergenze preesistenti tra opposte fazioni, ma anche di crearne di nuove. Un drammatico esempio è offerto dalle persecuzioni verso la minoranza Rohingya in Myanmar a seguito di notizie false postate su Facebook dai militari del regime birmano (Whitten-Woodring et al., 2020).
  • In luoghi come lo Stanford Persuasive Technology Lab (captology.stanford.edu), intere generazioni di tecnici sono formate a sfruttare le vulnerabilità della mente umana per sviluppare aspetti informatici, come specifici design, in grado di modificare il comportamento delle persone. Ad esempio, sfruttando tecniche di condizionamento tramite rinforzo intermittente, lo stesso principio sul quale si basa la dipendenza da slot machine. Esiste una disciplina, chiamata growth hacking, che si occupa di strategie per far crescere un’azienda, un sito, una piattaforma, aumentandone le iscrizioni, il coinvolgimento, la condivisione. Tra i suoi metodi più tipici vi sono i cosiddetti test A/B scientifici, ovvero dei test di preferenza eseguiti mostrando opzioni diverse a due gruppi di utenti e osservandone la reazione. Col sommarsi di miriadi di piccoli esperimenti è possibile sviluppare il modo ottimale per far fare ai soggetti quanto desiderato. Nel documentario, Shoshana Zuboff afferma che da simili esperimenti aziende come Facebook o Google hanno concluso di poter influenzare i comportamenti e le emozioni nel mondo reale senza mai allertare la consapevolezza degli utenti.
  • Queste piattaforme non sono strumenti, poiché uno strumento semplicemente attende di essere utilizzato, mentre in questo caso sono in campo sofisticatissime strategie per sviluppare dipendenza e indurre alle reazioni desiderate. Degli algoritmi calcolano cosa mostrare all’utente al fine di ottimizzare i tre principali obiettivi aziendali: massimizzare il coinvolgimento per aumentare la permanenza sulla piattaforma, coinvolgere più persone possibili, aumentare la vendita di pubblicità. Si tratta di programmi di intelligenza artificiale basati su apprendimento automatico che diventano sempre più abili nel raggiungere tali obiettivi. Sono in corso ampi dibattiti su quando l’IA diverrà più intelligente dell’uomo e, sostituendolo al lavoro controllerà il mondo; sfugge tuttavia che c’è un momento che arriva prima, quello in cui la tecnologia supera e sconfigge le debolezze umane, quel momento è già arrivato, l’intelligenza artificiale sta sta già controllando il mondo oggi. Perfino gli intervistati riportano che, pur conoscendo tali meccanismi, non sono stati capaci di sottrarvisi, poiché esattamente come delle droghe i social stimolano il rilascio della dopamina nel circuito di gratificazione.
  • Il sistema è talmente potente da giungere a intaccare lo stesso senso di identità e di autostima. Per i membri della nostra specie, in quanto animali sociali, è importante l’opinione degli altri, pertanto ci siamo evoluti per preoccuparcene, ma non siamo preparati a preoccuparci dell’opinione di migliaia di persone, né ad assumere una dose di approvazione sociale ogni pochi minuti, tramite “mi piace”, cuoricini o altro. Tali gratificazioni lasciano presto con un senso di vuoto che induce alla dipendenza, e favorisce depressioni, ansie e insicurezze. Esiste perfino una cosiddetta “dismorfia da Snapchat” che induce chi ne è affetto a richiedere operazioni di chirurgia estetica per assomigliare all’immagine di sé alterata dai filtri dei social media.
  • Inoltre, secondo uno studio del MIT (Vosoughi et al., 2018), le notizie false si diffondono più velocemente di quelle vere, aspetto che le renderebbe preferibili ai suddetti algoritmi volti a ottimizzare la visualizzazioni. Ma la questione non può essere meramente commerciale poiché abbiamo visto che tali visualizzazioni sono in grado di modificare la realtà sociale. Per questo il problema riguarda tutti, non solo chi utilizza i social media. Come già visto in Myanmar il sistema può essere impiegato da persone senza scrupoli per innescare i cambiamenti desiderati. Le stesse democrazie sono a rischio di svilirsi in dittature digitali non riconosciute come tali, ed è ingenuo pensare che degli organismi di controllo possano arginare tale rischio, poiché non si capisce cosa, e come, potrebbe essere in grado di preservare da analoga contaminazione i membri degli stessi organismi di controllo.Nelle parole di Tristan Harris

    Questa è l’ultima generazione di persone che sanno com’era prima che si verificasse questa illusione. Come fai a svegliarti da Matrix se non sai di starci dentro?

Cos’è la consapevolezza?

“Consapevolezza” è tra quei termini di uso comune, e pertanto apparentemente ben conosciuti, che si mostrano ricchi di accezioni di significato ben diverse tra loro non appena si tenta di definire il concetto con la precisione necessaria a una sua disamina. Lo stimato linguista Giacomo Devoto (1968) ci riporta che “consapevole”, da cui “consapevolezza”, deriva dall’unione del prefisso “con-”, con valore rafforzativo (diversamente da chi gli attribuisce valore di compagnia), “sapere” e il suffisso “-evole”, con valore attivo, ottenendo dunque la “qualità di colui che consà”, ovvero che “sa in modo rafforzato”, più profondo. Anche così definito tuttavia il termine si sovrappone in parte a alcuni dei significati propri del termine “coscienza” e i confini sono spesso lasciati alla sensibilità dei singoli autori.

Sul termine “coscienza” ho approfondito nella seconda parte di un mio articolo (Tangocci, 2019) i diversi significati che può assumere in psicologia. Un’analoga classificazione dei significati riferibili a “consapevolezza” sarebbe tuttavia complicata, sia dalla sovrapposizione in italiano con alcune delle accezioni di “coscienza” riportate nel suddetto articolo, sia dalla non diretta corrispondenza di “consapevolezza” e “coscienza” con  “consciousness” e “awareness”, confusione aggravata dal termine “mindfulness”, talvolta anche esso tradotto con “consapevolezza” senza riferirsi adeguatamente alle sfumature di significato derivabili dall’omonima tecnica. Inoltre non mi risulta che in psicologia esistano rigorose definizioni del concetto, talvolta utilizzato per indicare la consapevolezza percettiva, o la consapevolezza di una specifica situazione, talaltra mutuato tout court, e con tutte le ambivalenze del caso, da tradizioni esoteriche, filosofiche o religiose.

Un panorama quindi complesso, che non mi è qui possibile dipanare oltre. Nondimeno ritengo che questa rapida esplorazione sia stata necessaria a chiarire che il termine può evocare significati tra loro molto diversi, e distinguerli dalla specifica accezione di consapevolezza che attribuirò al termine nel proseguo del testo: la consapevolezza di non essere abitualmente presenti alle dinamiche in atto tra noi e gli altri, e in tal modo di essere facilmente condizionabili da eventuali tentativi di manipolazione, ivi compresi quelli dei social media.

La consapevolezza di non essere consapevoli

Come è noto, Socrate affermava di non sapere, e grazie a ciò l’Oracolo di Delfi lo proclamò il più saggio di tutti gli uomini. Similmente intendo delineare il concetto di “essere consapevoli di non essere consapevoli”, centrale in alcuni percorsi di lavoro su di sé, tra cui in special modo quello proposto dal mistico greco-armeno Georges Ivanovič Gurdjieff. Nella psicologia, concetti affini, sebbene per lo più espressi con termini diversi, sono riscontrabili soprattutto nel lavoro di Carl Gustav Jung, o in quello di Roberto Assagioli e, più recentemente, nelle opere di Ken Wilber. Non sono invece a conoscenza di alcun interesse scientifico alla definizione del costrutto e alla sua operazionalizzazione, né pertanto di studi a riguardo. Forse perché la moderna hybris non tollera l’ipotesi che in quanto homo sapiens sapiens potremmo non essere consapevoli, né ha pertanto interesse a un tale studio.

Nel lavoro di Gurdjieff invece, rendersi conto di non essere presenti a se stessi è la condicio sine qua non affinché chiunque possa lavorare per ottenere quello che lui chiama il “ricordo di sé”. Diversamente, chi mai si impegnerebbe in un lavoro lungo, faticoso e senza garanzie di successo, nella speranza di ottenere qualcosa che già ritiene di avere? Gurdjieff in distinti periodi della sua vita formula diversi percorsi, a suo stesso dire non suoi ma ripresi da insegnamenti tradizionali, così schematicamente riassumibili: l’osservazione di sé, l’esecuzione di specifiche danze, la lettura di libri appositamente scritti per suscitare determinate reazioni emotive. Questi metodi “esoterici” ci viene riferito fossero affiancati da insegnamenti esoterici che, in quanto tali, erano tramandati unicamente a determinati discepoli e non ci sono pertanto noti.

Ad ogni modo, ai fini di questo lavoro è di interesse il primo percorso, esposto nel diario della sua esperienza con Gurdjieff dal filosofo Pëtr Dem’janovič Ouspensky (1947), poiché presenta ipotesi psicologiche che, per quanto originali, hanno affinità sia con quelle di Jung che con riflessioni e ipotesi di altri autori. In estrema sintesi, l’uomo vivrebbe abitualmente in una sorta di sogno a occhi aperti, nel quale sarebbe guidato da automatismi dei quali non è consapevole, e avrebbe l’illusione di essere un tutt’uno, benché in realtà composto da più “io” che si alternano al controllo dei centri psichici (principalmente, il centro intellettuale, il centro emozionale e il centro fisico o motorio) che  per lo più lavorerebbero in modo improprio e disarmonico. Per prevenire l’angoscia derivante dalla consapevolezza di un’esistenza tanto misera, saremmo dotati di protezioni, da lui chiamate “respingenti” o “ammortizzatori”, che usualmente ci impedirebbero di vederci per come realmente siamo (se rimossi tutti insieme, secondo Gurdjieff, impazziremmo, motivo per cui è necessario un percorso di rimozione graduale).

L’esposizione del raffinato pensiero di Gurdjieff meriterebbe maggiore approfondimento, tuttavia, quantomeno a chi ha familiarità col pensiero di Jung, già questi pochi elementi possono suggerire delle analogie. Per Jung, gli antagonisti dell’io sono i cosiddetti “complessi a tonalità affettiva”, che elicitano risposte automatiche, sovente inconsapevoli e indesiderate; la nostra visione della realtà è filtrata dalla personale dimestichezza con ogni funzione psichica (pensiero, sentimento, intuizione, sensazione); e l’individuazione, ovvero il percorso che porta a diventare individui, passa dalla consapevole integrazione. Nelle sue parole:

La psicologia sa che si possono rendere innocue o perlomeno tenere in scacco certe pericolose forze inconsce, quando l’individuo riesca a renderle consce, cioè ad assimilarle mediante un processo di comprensione e a integrarle nella totalità della personalità. (Jung, 1945, p.52)

Mentre il concetto di “respingenti” trova una sua analogia nei “meccanismi di difesa”, trasversali a tutta la psicoanalisi. Ma per chi lo conosce il pensiero di Gurdjieff trova affinità anche in altri ambiti della psicologia, ogniqualvolta si occupa di azioni non consapevoli (Tangocci, 2019).

Conclusioni

Nei confronti delle moderne forme di manipolazione mediate dai social network, vista la deliberatamente induzione di dipendenza, ancor più che nel difendersi da ogni altra forma di manipolazione, il primo indispensabile passo è riconoscere l’esistenza del rischio e del non esserne immuni. Le testimonianze, riportate nel documentario The Social Dilemma, affermano chiaramente che neppure conoscere il funzionamento di tali meccanismi, al punto di averli personalmente progettati, protegge dal subirne gli effetti. Come nei confronti di una sostanza d’abuso, un conto è sapere che fa male (quale fumatore non sa che fumare fa male?), un altro è comprendere che fa male, e pertanto evitare, smettere, o quantomeno limitare l’uso. Credere che quanto esposto sia un’esagerazione, o che comunque non riguardi noi, ma solo altri più ingenui che si lasciano facilmente abbindolare da tali dinamiche, è la corsia preferenziale per diventare noi per primi facilmente manipolabili.

Ma questo non è che l’inizio del percorso, poiché diversamente da una sostanza di abuso che può essere più o meno facilmente evitata, la tecnologia oggigiorno è difficilmente evitabile, e spesso non lo sono neppure i social network, di cui alcuni abbisognano anche per uso professionale, oltre che per la gestione della vita sociale, che è tristemente sempre più spostata online. Tra i principali consigli che gli stessi operatori della Silicon Valley rispettano strettamente, come testimoniato anche dal documentario, c’è l’evitare che tali tecnologie siano accessibili ai bambini e limitarle agli adolescenti. Ma ciò non è certo possibile se gli adulti non prendono consapevolezza dei rischi e, per primi, riducono drasticamente il tempo trascorso su queste piattaforme. A tal fine è necessario che la permanenza stessa sia sempre attenta e critica, consapevole del desiderio di gratificazione e del conseguente rischio di modificare il proprio comportamento per ottenerla, e che, nei limiti del possibile, si sottoponga a verifica ogni contenuto, a prescindere da quanto la fonte sia o meno ritenuta affidabile e/o in linea con la propria visione del mondo.

Sull’importanza di sviluppare un pensiero autonomo, da qualunque fonte, vorrei concludere con le parole di Jung tratte dal suo saggio Commenti sulla storia contemporanea, nel quale esplora come sia stato possibile che

il popolo più industrioso, efficiente e intelligente d’Europa [sia caduto] in uno stato mentale delirante

ovvero nei crimini del Nazismo:

si resta talmente impressionati dalla forza di suggestione della retorica da megafono che si è inclini a ritenere di poter utilizzare anche per uno scopo buono questi mezzi cattivi, vale a dire l’ipnosi di massa mediante appelli ‘infuocati’, parole ‘energiche’, o sermoni capaci di toccare i cuori. […] devo tuttavia ribadire che la persuasione delle masse in vista di un fine che si considera un bene compromette il fine stesso, poiché in fondo non è altro che propaganda psicologica, la cui efficacia si affievolirà nuovamente alla prima occasione. Gli innumerevoli discorsi e articoli sul ‘rinnovamento’ sono inefficaci, si risolvono in un chiacchiericcio che non fa male a nessuno e che annoia tutti quanti. Affinché si muti l’intera realtà deve prima mutare l’individuo singolo. Il bene è un dono e un’acquisizione individuale; in quanto suggestione di massa è una mera ubriacatura che non ha mai avuto valore di virtù. Il bene può essere raggiunto solo dal singolo come sua prestazione individuale. Non c’è massa che possa farlo per lui. Il male invece richiede una massa per nascere e continuare a esistere. (Jung, 1945, pp. 52-53)

 

 

Cambiamenti nel consumo di cibo, di sostanze e dell’uso dei dispositivi digitali durante il COVID-19: uno studio francese

L’indagine nazionale basata su web di Rolland e dei suoi collaboratori ha valutato il benessere mentale e le condizioni di salute, oltre che i cambiamenti delle abitudini alimentari, dell’uso dei dispositivi digitali e del consumo di sostanze nella popolazione generale francese.

 

Con l’arrivo della pandemia di COVID-19, i governi dei paesi come Italia, Francia e Spagna, per limitare la diffusione del virus, hanno preso provvedimenti straordinari riducendo la mobilità e le interazioni sociali dei cittadini (Walensky & Del Rio, 2020).

In Francia, le misure di contenimento annunciate nel Marzo 2020, obbligavano gli abitanti a chiudersi tra le mura domestiche, consentendo l’apertura di attività definite “essenziali” come quelle mediche, quelle legate all’approvvigionamento alimentare insieme alla possibilità di acquistare alcol ed il libero accesso a tabaccai.

Certamente le restrizioni imposte sono state fonte di stress, avendo impattato sulla salute mentale e sul benessere generale della popolazione. La ricerca ha dimostrato che situazioni di compromissione dei legami sociali e di scarso benessere, si associavano ad un eccessivo consumo di cibo, al sovrappeso conseguente, ad un incremento del consumo di sostanze e del tempo trascorso di fronte ad uno schermo (Lemieux & al’Absi, 2016; Sinha, 2008; Stranges et al., 2014). Dunque anche l’epidemia di COVID-19 e le misure di contenimento adottate fin dalle prime fasi, hanno esacerbato i comportamenti relativi allo spettro della dipendenza.

L’indagine nazionale basata su web di Rolland et al. (2020), ha valutato il benessere mentale e le condizioni di salute, oltre che il cambiamento nelle abitudini alimentari, dell’uso dei dispositivi digitali e del consumo di sostanze nella popolazione generale francese. I partecipanti reclutati dal 25 marzo 2020, secondo i criteri di inclusione, dovevano essere francofoni e di età superiore ai 16 anni. Oltre ad una valutazione del livello di disagio psicologico, sono stati indagati aspetti sociodemografici e ambientali, come il numero di persone con cui i partecipanti condividevano l’abitazione durante la fase più restrittiva.

Durante il periodo di confinamento, è emerso un incremento moderato di tutte le abitudini indagate; in particolare nell’assunzione di cibo calorico/salato, uso degli schemi e di sostanze (alcol, tabacco e cannabis) tra i cittadini francesi. Per tutti i comportamenti è stato riferito, sebbene in una percentuale ridotta di casi, un aumento talmente significativo da comprometterne il controllo. Ad esempio, mentre 2/3 del campione ha incrementato l’uso dei dispositivi digitali, il 15% ha notato difficoltà nel controllarne l’uso.

I risultati possono essere interpretati alla luce di modelli animali, che hanno fornito supporto nel dimostrare come la riduzione della socialità possa incrementare i livelli di stress e quindi l’assunzione di sostanze (Cheeta et al., 2001; Thielen et al., 1993) ed il consumo di cibo che a sua volta conduce al sovrappeso (Schipper et al., 2018).

Per quanto concerne il confronto con indagini epidemiologiche su esseri umani, nonostante siano limitate per la rarità con la quale si verificano brusche riduzioni dell’interazione sociale; è possibile fare analogie con studi condotti su individui arruolati nelle forze armate durante periodi di conflitto. In tali condizioni estreme, i soldati sono costretti a drastiche riduzioni delle interazioni sociali, che inducono facilmente un incremento parallelo del consumo di sostanze. Lo studio di Lee Robins (2017) condotto su soldati statunitensi inviati in Vietnam, ha rilevato che in seguito ad un calo significativo delle interazioni sociali, erano aumentate le assunzioni di oppioidi durante la permanenza sul campo, del tutto ridotte con il ritorno a casa. Nonostante non si possa effettuare un paragone tra il COVID-19 e la guerra, in generale, una brusca riduzione dei contatti sociali può aumentare i livelli di stress, noia e comportamenti di dipendenza successivi.

Tra i partecipanti che hanno riportato un incremento dei comportamenti esaminati, si possono rilevare profili comuni oltre che caratteristiche peculiari.

Un ridotto benessere mentale ed un maggiore stress erano i fattori di rischio condivisi, sottostanti a tutti i comportamenti disadattivi. Nonostante si era ipotizzato una ricaduta nei comportamenti esaminati tra i partecipanti che erano stati in terapia per una storia di dipendenza (Marsden et al., 2020), questo fattore non impattava sui cambiamenti osservati nello studio.

Tra i fattori di rischio specifici per coloro che assumevano maggiormente cibi calorici/salati, era emerso l’essere giovani donne che abitavano in contesti di vita sfavorevoli (ad es. case piccole e in solitudine). Coerentemente con ricerche precedenti, la componente emotiva nelle problematiche alimentari è comune in donne che affrontano situazioni di vita stressanti (Camilleri et al., 2014; Péneau et al., 2013).

La maggior parte delle donne con meno di 30 anni, single e isolate in area urbana senza possibilità di lavorare aveva riferito un incremento dell’utilizzo di dispositivi elettronici. Tuttavia, studi precedenti rilevano come l’eccessivo utilizzo dei dispositivi digitali sia più comune tra gli uomini che affrontano situazioni di disagio (Khalili-Mahani et al., 2019).

Probabilmente, tra i giovani, vivere in aree urbane in condizioni stressanti incrementa l’uso di internet poiché ci si trova confinati in un ambiente ristretto. L’uso dei dispositivi digitali correlava con necessità lavorative, in quanto la maggioranza degli intervistati che lo utilizzavano erano in modalità smart-working.

I fattori di rischio associati in generale al consumo di tabacco, sono gli stessi riscontrati durante la pandemia di COVID-19, ovvero l’essere una donna con meno di 50 anni, con basso status socioeconomico e livello di istruzione (Bonevski et al., 2014).

Essendo l’alcol una dipendenza meno stigmatizzata rispetto al tabacco o alla cannabis, il suo consumo era comune tra gli intervistati di mezza età e con elevato livello di istruzione.

Il consumo di cannabis aumentava tra i giovani poco istruiti, confermando la fascia della popolazione fruitrice regolare della sostanza in Francia ed il fatto che l’uso della stessa sia inversamente correlato al livello di istruzione (Legleye et al., 2016).

I risultati evidenziano come lo stress derivante dalle fasi iniziali del COVID-19 in Francia, sia il fattore di rischio trasversale che conduce all’aumento di tutte le abitudini legate alla dipendenza.

Tra coloro che assumevano cibo salato/calorico usavano i dispositivi digitali, abusavano di alcol, tabacco e cannabis; sono emerse vulnerabilità specifiche che incrementavano tali abitudini dannose, evidenziando fattori di rischio selettivi per alcune fasce della popolazione francese.

Tenendo conto di tali specificità, sarebbe utile sviluppare messaggi di prevenzione mirati a ciascun sottogruppo di individui, al fine di renderli in grado di affrontare l’insorgenza di abitudini dannose, sia durante, che nelle fasi successive del periodo di restrizioni.

 

L’alleanza terapeutica è il fattore aspecifico che renderebbe efficace qualunque psicoterapia? Non ci sono ragioni per supporlo

Il verdetto del Dodo, nonostante il suo fondamento dubbio, ha avuto il merito di stimolare un dibattito in letteratura che ha indotto lo spostamento dalla questione da se le psicoterapie sono efficaci al perché lo sono.

 

Nel nostro precedente post (Il verdetto del Dodo ha un adeguato fondamento empirico? Non sembra), abbiamo discusso della solidità delle evidenze che sottendono il verdetto del Dodo in psicoterapia secondo il quale tutte le terapie sarebbero ugualmente efficaci per tutti i disturbi. Abbiamo concluso che il ragionamento teorico e la qualità delle evidenze empiriche permettono di mettere fortemente in discussione questo verdetto, che spesso viene presentato come conclusione indiscutibile del filone di ricerca sull’efficacia della psicoterapia. Va notato che il verdetto del Dodo, nonostante il suo fondamento dubbio, ha avuto il merito di stimolare un dibattito in letteratura che ha indotto lo spostamento dalla questione da se le psicoterapie sono efficaci al perché lo sono, mettendo in luce l’importanza di identificare i fattori del cambiamento in psicoterapia.

In merito a questo argomento, appare fin da subito necessario differenziare i diversi elementi che sono stati oggetto di dibattito teorico e indagine empirica. In effetti, come ben sistematizzato da Kazdin (2007), la ricerca in psicoterapia dovrebbe avvalersi di una chiara distinzione tra le procedure terapeutiche che sono all’origine del cambiamento (per esempio sintomatologico del paziente) e i meccanismi di azione che spiegano perché un determinato intervento induce un cambiamento nell’outcome misurato. Oltre alla consapevolezza di questa distinzione, va segnalato che l’esito di una psicoterapia non è ragionevolmente da ascrivere soltanto all’attuazione di procedure psicoterapeutiche o a variabili che emergono dall’applicazione di tali procedure ma può anche essere in parte attribuibile a variabili che esulano dal contesto terapeutico come ad esempio il presentarsi di determinati eventi nella vita del paziente. Inoltre, precisa Kazdin (2007), va considerato il ruolo delle variabili moderatrici che possono potenziare, o al contrario ridurre, il nesso che intercorre tra procedura terapeutica e processo di cambiamento (come ad esempio le caratteristiche del paziente).

Forti di queste considerazioni, è possibile meglio comprendere l’impatto che il verdetto del Dodo ha avuto, e ha tutt’ora, sulla teoria della cura delle psicoterapie. In effetti, partendo dall’assunto (ripetiamo comunque discutibile) che il verdetto del Dodo sia vero, in altre parole che tutte le psicoterapie sono ugualmente efficaci per tutti i disturbi, sorge spontanea la domanda di quali siano i fattori responsabili di questa ipotetica efficacia indiscriminata. Ciò rappresenta una domanda fondamentale in quanto ciascuna delle psicoterapie bona fide asserisce il ruolo di fattori specifici che possono rendere conto del cambiamento del paziente. A titolo esemplificativo, la terapia cognitiva ipotizza che procedure come ad esempio il disputing inducono la modifica dei pensieri patogeni (meccanismo d’azione) che, a sua volta, è responsabile della riduzione dei sintomi del paziente. I partigiani del verdetto del Dodo hanno ben presto asserito che le evidenze scientifiche da loro promosse fossero un indizio circa la presenza di fattori di cambiamento comuni a tutte le psicoterapie. In altre parole, si è effettuato un salto logico dall’idea che le terapie fossero tutte efficaci all’idea che fossero tutte efficaci perché tutte fondate sullo stesso meccanismo di cambiamento. Il lettore può notare come questo salto logico sia in sua essenza discutibile. In effetti, è possibile pensare che diverse terapie provocano effetti simili ma percorrendo strade diverse. Il che, notiamo, è tra l’altro proprio quello che succede ai concorrenti protagonisti del libro di Lewis Carroll.

Ad ogni modo, volendo seguire il ragionamento di chi asserisce la veridicità del verdetto del Dodo e lo presenta come prova che le psicoterapie agiscano efficacemente in virtù di identici meccanismi di azione, diversi autori hanno sviluppato ipotesi circa la natura dei fattori comuni del cambiamento in psicoterapia (Frank, 1961; Wampold, 2015; per una panoramica vedere Lambert & Ogles, 2004). Tra essi, il modello di Wampold (2015) è probabilmente quello che ha riscosso maggiore successo e risulta tutt’ora quello maggiormente influente nella comunità clinica odierna. Per dettagli relativi al modello si rimanda al post pubblicato qui (Cambiamento in psicoterapia: il modello dei fattori aspecifici). Tra i diversi fattori individuati da Wampold, quello che ha avuto maggiore risonanza è quello dell’alleanza terapeutica. In effetti, ben presto, diversi gruppi di ricercatori hanno svolto studi e portato evidenze scientifiche a supporto dell’ipotesi che il fattore di cambiamento centrale comune a tutte le psicoterapie fosse riconducibile alla qualità dell’alleanza terapeutica (Zilcha-Mano, 2017). Tuttavia, è doveroso evidenziare la presenza di importanti limiti insiti nella tesi che l’alleanza terapeuta sia il fattore di cambiamento centrale e comune a tutte le psicoterapie.

Innanzitutto, possiamo interrogarci sullo status stesso attribuito al fattore “alleanza terapeutica” come meccanismo di cambiamento chiedendoci se non sarebbe piuttosto meglio concettualizzato come una condizione necessaria, ma non sufficiente, di alcuni fattori di cambiamento maggiormente specifici. In effetti, manchiamo di una teoria articolata e solida di perché avere una buona relazione terapeutica dovrebbe ridurre, ad esempio, la sintomatologia del paziente. In assenza di fondamenti teorici solidi, risulta arduo asserire il ruolo di una determinata variabile come motore di cambiamento (Kazdin, 2007). L’ipotesi forse che sembra meglio spiegare questo meccanismo è l’idea che una buona relazione terapeutica fornisca in qualche modo al paziente un’esperienza emozionale correttiva (Alexander, 1950). Tuttavia, tale ipotesi è stata fortemente ridimensionata e considerata una semplificazione ingenua delle complesse dinamiche che intercorrono tra paziente e terapeuta (Safran & Hunter, 2020). Piuttosto, sembra maggiormente ragionevole presuppore che la relazione terapeutica sia una condizione necessaria, e ciò in tutte le psicoterapie, all’esplicarsi di specifici fattori di cambiamento. In maniera simile, risulterebbe difficile asserire che sebbene aprire la bocca dal dentista sia una condizione necessaria alla cura, risulti anche essere il meccanismo di cambiamento fondamentale del trattamento (che ragionevolmente consiste piuttosto nella sanificazione operata dal dentista dopo il soddisfacimento di questa condizione). In questo senso, sottolineiamo che l’alleanza terapeutica è molto vicino a quello che è stato identificato come un fattore centrale di predizione del successo del trattamento, ovvero la compliance del paziente (e.g. Mausbach, Moore, Roesch, Cardenas, & Patterson, 2010). Questa concettualizzazione del ruolo svolto dall’alleanza terapeutica come condizione al cambiamento, piuttosto che come meccanismo di cambiamento, appare ulteriormente sollecitata dalla natura delle prove empiriche che spesso vengono citate a supporto dell’idea che l’alleanza terapeutica sia un meccanismo di cambiamento (Zilcha-Mano, 2017). Come notato in una rassegna recente e dettagliata di Cuijpers et al. (Cuijpers, Reijnders, & Marcus, 2019), la natura delle ricerche sul tema è essenzialmente di natura correlazionale. Ciò significa che abbiamo prove che la qualità dell’alleanza terapeutica predice il successo terapeutico (positivamente) ma ciò non costituisce una prova che sia un meccanismo di cambiamento. Per esempio, non verrebbe in mente a nessuno asserire, sulla base dell’osservazione di una correlazione tra il numero di sedute fatte e il successo del trattamento, che recarsi allo studio dello psicoterapeuta sia un meccanismo d’azione comune a tutte le psicoterapie e non una semplice pre-condizione. In effetti, come notato da Kazdin (2007), al fine di poter asserire che una determinata variabile sia motore del cambiamento, necessitiamo di ottenere evidenze longitudinali in cui osserviamo il nesso temporale tra un determinato intervento, il fattore di cambiamento e l’esito. Ciò rimane estremamente difficile da identificare nella ricerca in psicoterapia per via della complessità insita dei fattori coinvolti e dei loro probabili nessi retroattivi. Ad esempio, la qualità dell’alleanza terapeutica predice probabilmente un esito positivo della psicoterapia ma, a sua volta, la riduzione dei sintomi può probabilmente incrementare il senso di fiducia tra paziente e terapeuta.

In aggiunta, una limitazione concettuale relativa agli studi che hanno preso spunto dal Dodo e che hanno tentato di identificare – e teorizzare – la presenza dei fattori aspecifici protagonisti del cambiamento in psicoterapia consiste nell’affermazione che la dicotomia tra fattori specifici e fattori aspecifici sia poco congruente con la natura complessa dell’oggetto di studio della ricerca in psicoterapia (de Felice et al., 2019). In particolare, la maggioranza di questi studi utilizza tecniche di analisi dei dati che presuppongono l’ortogonalità, cioè l’indipendenza, tra fattori specifici e aspecifici. Questo presupposto non è realistico, infatti, i fattori aspecifici, ad esempio l’alleanza terapeutica, non sono per niente indipendenti da fattori specifici come ad esempio l’interpretazione nella psicoterapia psicoanalitica o l’esposizione e prevenzione della risposta in quella comportamentale. È evidente che uno psicoanalista pondera la proposta di una interpretazione al paziente in base a come valuta lo stato della relazione terapeutica. Similmente accade alla psicoterapeuta comportamentale che dosa gli esercizi di esposizione e prevenzione della risposta in conseguenza dello stato dell’alleanza terapeutica. L’utilizzo di analisi che danno per scontata l’assenza di associazione tra fattori specifici e aspecifici, pertanto, non risulta adeguato a come si svolge la psicoterapia. Alla luce di questa riflessione, appare poco sensato comprendere l’assenza di differenze in termini di efficacia tra diverse psicoterapie come un’assenza di ruolo svolto dai fattori specifici. Piuttosto, argomentano de Felice et al. (2019), dovremo porre attenzione ai trend di cambiamento delle relazioni tra fattori specifici (e.g. procedure terapeutiche) e fattori aspecifici (e.g. alleanza terapeutica) il cui intreccio è in grado di agire come motore di cambiamento terapeutico.

Accanto alla consapevolezza della natura debole delle prove empiriche e del ragionamento concettuale alla base dell’istituzione dell’alleanza terapeutica al rango di meccanismo di azione primario comune a tutte le psicoterapie, un ulteriore elemento di riflessione ci permette di mettere in prospettiva questa tesi. Ciò consiste nella costatazione dell’esistenza di valide spiegazioni alternative della natura dei meccanismi d’azione comuni in psicoterapia. In effetti, vi sono diverse proposte che hanno sviluppato teorie circa l’esistenza di fattori psicopatologici transdiagnostici ai diversi disturbi (rigidità cognitiva, disregolazione emotiva, mentalizzazione, carenza di flessibilità psicologica…) la cui modifica costituirebbe un meccanismo d’azione comune alle diverse psicoterapie. Va notato come, al contrario di quanto sottende la tesi della centralità dell’alleanza terapeutica, questi contributi hanno spesso messo a punto articolati modelli del funzionamento psicopatologico che serve da ancora allo sviluppo di una teoria della cura, presupposto epistemologico fondamentale all’identificazione di meccanismi di azione (Kazdin, 2007).

Per esempio, Peter Fonagy e i suoi collaboratori hanno sviluppato una teoria delle psicopatologie che mette al centro di esse un fondamentale deficit nella capacità di mentalizzazione. Tale capacità si svilupperebbe in età precoce nell’ambito delle relazioni di attaccamento insoddisfacenti (Fonagy, Gergely, Jurist, & Target, 2002). Secondo questa prospettiva, l’intervento di mentalizzazione reciproca tra terapeuta e paziente sarebbe all’origine di un accrescimento della “fiducia epistemica” del paziente che, a sua volta, sarebbe all’origine della riattivazione di meccanismi di apprendimento sociale, cambiamento centrale per l’apprendimento di nuove competenze, conoscenza sul sé e la ristrutturazione dei suoi modelli operativi interni (Luyten, Campbell, Allison, & Fonagy, 2020). Un altro esempio di contributo particolarmente articolato che asserisce la presenza di un fattore transteorico e transdiagnostico è stato fornito da Lane et al. (Lane, Ryan, Nadel, & Greenberg, 2015). Gli autori hanno sviluppato l’idea che un fattore comune di cambiamento sia costituito dalla rivisitazione di memorie emotive precoci attraverso un processo di riconsolidamento che incorpora nuove esperienze emotive. In particolare, il cambiamento terapeutico sarebbe il frutto di tre specifici ingredienti quali la riattivazione di vecchie memorie, il coinvolgimento in nuove esperienze emotive che sarebbero quindi incorporate alle vecchie memorie mediante un processo di riconsolidamento e infine il rinforzo di tale nuova struttura mnestica mediante l’esercizio di questa nuova esperienza soggettiva in un’ampia gamma di contesti. È degno di nota il fatto che entrambe queste proposte forniscono, mediante un’analisi accurata e dettagliata della letteratura, un modello transteorico forte che asserisce la presenza di elementi transdiagnostici e che quindi risultano valide alternative all’identificazione del primato dell’alleanza terapeutica come meccanismo di azione universale delle psicoterapie.

La breve presentazione di queste proposte mette quindi in luce che, ammesso che vi siano fattori comuni che sottostanno a tutte le procedure psicoterapeutiche, siamo ben lontani dall’aver raggiunto una certezza sul fatto che l’alleanza terapeutica possa essere considerata un fattore comune di cambiamento cardine delle psicoterapie. Piuttosto, sembra più ragionevole pensare che ne sia una precondizione e che altri elementi, che godono di solide concettualizzazioni teoriche, possano essere meglio considerati come fattori di cambiamento universali delle psicoterapie. In conclusione, sebbene il verdetto del Dodo e la sua derivazione nella teoria dei fattori comuni rimangono fondamentalmente discutibili dal punto di vista dei riscontri scientifici finora ottenuti, hanno senza dubbio aperto un interessante dibattito che tutt’ora stimola i tentativi dei teorici, clinici e ricercatori del mondo intero di identificare meccanismi di azione comuni e specifici delle singole psicoterapie permettendo, in ultima analisi, di accrescere le conoscenze utili allo sviluppo della psicoterapia.

 


Per saperne di più, leggi gli altri articoli pubblicati da State of Mind:

  1. Una psicoterapia vale l’altra? Non chiedetelo al dodo – Di Valentina Davi
  2. Una psicoterapia vale l’altra? Hanno ammazzato dodo, dodo è vivo! – Di Giuseppe Magistrale
  3. Dal verdetto del dodo alla strategia del cuculo: l’efficacia della terapia è dovuta a fattori specifici o alla relazione? – La risposta di Giovanni Maria Ruggiero
  4.  Il verdetto del Dodo: perché il Dodo deve o non deve morire – Antefatto e Primo quadro – Di Angelo Maria Inverso
  5. Il verdetto del Dodo: perché il Dodo deve o non deve morire – Secondo quadro – Di Angelo Maria Inverso
  6. Il verdetto del Dodo: perché il Dodo deve o non deve morire – Terzo quadro, Epilogo e penultimo verdetto – Di Angelo Maria Inverso
  7. Il verdetto del Dodo ha un adeguato fondamento empirico? Non sembra – Di di Francesco Mancini e Guyonne Rogier
  8. L’alleanza terapeutica è il fattore aspecifico che renderebbe efficace qualunque psicoterapia? Non ci sono ragioni per supporlo – di Francesco Mancini e Guyonne Rogier

 

 

Il piacere dell’assenza di dolore … Non fatto della stessa sostanza del padre

Il piacere e la dipendenza sono due concetti fortemente correlati tra loro, sebbene la differenza cruciale tra una persona dipendente da sostanze e non sia la manifestazione della crisi di astinenza.

 

Capacità e, spesso, bisogno di dividere e contrapporre idee e percezioni, nessuna esperienza umana può avanzare queste peculiarità quanto il piacere.

Nel tempo si è assistito al conflitto tra quanti lo definivano un male da evitare (soprattutto secondo la matrice cristiana), e quanti vedevano nello stesso il centro dell’azione, il fondamento dell’esistenza ideale (Lorenzo Valla nel Rinascimento, Hobbes, Leibniz, Kant).

Le differenti prospettive, riviste e ampliate, hanno continuato a contrapporsi attraverso la storia dell’uomo, sino ad arrivare alle più recenti enunciazioni della psicoanalisi di Sigmund Freud, per il quale è l’inconscio il luogo dei desideri e delle pulsioni ostacolato, solo parzialmente, dalla rimozione che il principio di piacere vorrebbe vedere appagati.

Anche un gesto semplice e banale può essere espressione del piacere, purché determini contentezza, benessere, piacevolezza nell’individuo. Lo stesso agisce a livello psicologico con evidenti ricadute fisiche: pertanto siamo in grado di distinguere ciò che è bello e gratificante, da ogni cosa che provoca dolore e sofferenza.

Non a caso si tende a ripetere esperienze piacevoli, piuttosto che esperienze noiose e insignificanti, ma quando la ricerca del piacere diventa ossessiva, l’uomo finisce per diventarne dipendente.

A tal proposito, pur non essendoci una piena condivisione di significato, per dipendenza si intende un’alterazione del comportamento che da semplice e comune abitudine diventa una ricerca patologica attraverso mezzi, sostanze e comportamenti che sfociano in una malattia. Tale condizione non fa riferimento soltanto all’abuso di alcool e di sostanze stupefacenti. Si può sviluppare una dipendenza patologica legata anche ad un comportamento.

Il piacere e la dipendenza sono due concetti fortemente correlati tra loro, sebbene la differenza cruciale tra una persona dipendente e non, sia la manifestazione della crisi di astinenza.

Se chiedessimo alla persona dipendente la motivazione (e la reiterazione) dell’assunzione o dello specifico comportamento, la risposta più sincera sarebbe legata al piacere (da intendersi anche come assenza di dolore o malessere).

Tutte le società hanno cercato di imporre un confine tra il piacere e la sua degenerazione, al fine di limitarne la caduta nel vizio, per usare un’espressione datata, o nella dipendenza patologica, preferendo un linguaggio più scientifico.

In verità, le moderne tecniche d’indagine sul funzionamento del nostro cervello ci dicono che molti comportamenti che consideriamo virtuosi (ad es. meditare o fare beneficenza), attivano lo stesso circuito neurale su cui agiscono le sostanze stupefacenti legali o illegali e che i confini tra il socialmente accettabile e il moralmente deplorevole non sono poi così netti, chiamando in causa fattori cari alle neuroscienze ma anche e soprattutto aspetti culturali, morali e giuridici che danno forma al nostro essere e alla nostra identità all’interno della società (Linden, 2012).

Non meno dirimenti sono i fattori soggettivi, strettamente connessi alla storia e all’immaginario personale (Abraham, 2002).

Dall’organizzazione narcisistica delle strutture infantili in grado di indebolire fino, in alcuni casi, ad eliminare la parte adulta della personalità dal controllo del comportamento di Meltzer, alla persona affetta da sindrome maniaco depressivo di Rosenfeld, dal concetto di attaccamento ansioso o immaturo di Bowlby alla sostituzione dell’oggetto d’amore con la sostanza di Kohut, dalla ricerca del piacere su base nevrotica di Adler e sino all’impossibilità di addivenire ad una precisa struttura di personalità del tossicomane di Bergeret, in molti hanno cercato di definire, catalogare, sintetizzare uno dei legami (consumatore-sostanza) più problematici e complessi.

Alcuni studiosi hanno individuato associazioni specifiche tra sostanza e dolore mentale. È stato ipotizzato che il consumo di cocaina possa essere associato a problemi depressivi e ipomaniacali, mentre i narcotici sarebbero utilizzati per difendersi dai sentimenti di rabbia, dal desiderio di una relazione simbiotica con la madre, spesso per alleviare la depressione (Blatt, 2006; Bowlby, 1980).

L’uso di sostanza può essere interpretato anche come automedicazione in chiave difensiva e adattativa e non esclusivamente regressiva come suggerito dal paradigma psicodinamico (Wieder, 1969; Kaplan, 1978; Milkman e Frosch, 1973).

Considerata la contestuale presenza di fattori genetici, fisiologici, neurochimici, psicopatologici, ambientali, socio-culturali è difficile e fuorviante rispetto alla possibilità di decodificare la tossicodipendenza rinunciare ad un approccio multidisciplinare e multiparadigmatico. Non cogliere la complessità dell’eziopatogenesi del fenomeno significherebbe essersi avvicinati, aver pensato, studiato, teorizzato ma certamente non aver davvero conosciuto l’area articolata e complessa delle dipendenze patologiche.

Il piacere come assenza di dolore. La nuova (vecchia) eroina

Inevitabilmente, si assiste come per qualsiasi altro mercato ad un’evoluzione dei consumi e delle sostanze. Se la cannabis oggi raggiunge una percentuale di THC al 20-25% a fronte di una presenza del 5-8% di qualche decennio fa, l’eroina ha visto un forte ritorno sulla scena del consumo sebbene con modalità di lavorazione, tagli e potenza differenti rispetto alla prima grande diffusione dei primi anni ’80.

Secondo il Dipartimento alla salute degli Stati Uniti, tre quarti dei tossicodipendenti del Nord America ha iniziato assumendo farmaci antidolorifici regolarmente prescritti dai medici.

Hydrocodone (vicodin®), oxycodone (oxycontin®, percocet®, percodan®, tylox®) e il potentissimo fentanyl (assunto per via orale, ma anche sniffato, iniettato o fumato) sono tutti farmaci antidolorifici che determinano nel tempo pervicaci dipendenze. Quando, poi, diventa complicato riuscire ad avere le regolari prescrizioni mediche il passaggio agli oppiacei di strada è pressoché inevitabile.

Il dolore può accompagnarsi al piacere: ma quanto l’uomo nella storia abbia cercato di evitarlo, al di là della sua utilità filosofico-morale, resta evidente.

Le persone non assumono droghe per ragioni inspiegabili, senza una motivazione più o meno consapevole o per mere questioni di immoralità: con l’uso di sostanze le persone cercano di procurarsi piacere.

Dissimulare, mistificare questa visione, non provare a comprendere ciò che sottende il ricorso a queste pratiche, non cercare di tradurre il fascino che le stesse esercitano significa precludersi la possibilità di comprendere in maniera più ampia, continuando a promuovere politiche inefficaci.

Forse non è casuale che oggi le droghe più diffuse negli Stati Uniti, peraltro avendo già varcato i confini degli stessi spingendosi sino al Canada e all’Europa, siano gli antidolorifici a base di oppiacei. Si stima che nel 2016 circa 11,5 milioni di americani abbiano fatto uso di prodotti di questo tipo, mentre nello stesso anno i casi di morte per overdose dovuti a eroina o oppioidi siano stati 42.249 a fronte dei 33.091 dell’anno precedente.

Tre aziende negli Stati Uniti hanno prodotto l’88% degli oppiacei: Mallinckrodt, Actavis Pharma e Par Pharmaceutical. Purdue Pharma è la quarta, e viene considerata responsabile di aver avviato la produzione di massa (Molinari, 2019).

Nell’opera autobiografica Confessioni di un oppiomane (1821), Thomas De Quincey definisce l’effetto prodotto come «l’abisso del divino godimento» (De Quincey, 1973, p. 48), una sorta di insperata felicità in grado di allontanare ogni affanno e tormento della vita quotidiana.

L’oppio non è la sostanza della prestazione, del desiderio sessuale, del desiderio di stare con gli altri, così come scrive Jean Cocteau (2006, p. 27): «fumare l’oppio è abbandonare il treno in marcia, e occuparsi d’altro che della vita, è occuparsi della morte».

Se questo è ciò che caratterizza l’effetto, in merito ai rischi e alle conseguenze, molto potrebbe dirsi a cominciare dalle stesse parole dell’autore francese che definisce l’astinenza come «un silenzio simile al pianto di mille bambini le cui madri non tornano ad allattarli» (ibid.).

Made in China sold in USA

Se l’industrializzazione della seconda metà del XIX secolo può essere vista come causa del primo grande boom degli oppiodi, quanto la società sta vivendo oggi in termini di deindustrializzazione, delocalizzazione, globalizzazione non sembra foriero di minore sperdimento.

Negli Stati Uniti la diffusione non è omogenea, preferendo la periferia al centro, le aree multietniche deprivate culturalmente e socialmente, le zone dove più forte si è avvertita la contingenza economica negativa degli ultimi anni con tutte le implicazioni che questa ha comportato in termini di occupazione e investimenti. Dopo l’11 settembre 2001, con il declino dei tre pilastri – Dio, patria e famiglia – del mito americano, la condizione umana sembra essersi ridisegnata radicalmente; e in Europa lo scenario sembra molto simile.

La contrazione delle spese per lo stato sociale, operata in termini di previdenza fino alla vera e propria sostituzione della stessa con una sorta di assegno d’invalidità con il quale coprire anche i costi per l’uso di oppiodi contro il dolore, a partire dagli anni Ottanta, ha aperto ad una forma anomala di ammortizzatore sociale. Acquisire farmaci per poi rivederli per strada è diventato così un modo per ottenere guadagni e possibilità di sopravvivenza. È un po’ ciò che accade nel nostro paese con la vendita di metadone di strada, che ha finito per determinare l’espansione del sommerso e la determinazione per la dipendenza di un suo nuovo status sociale. Se il lavoro manca, se le prospettive occupazionali non sono incoraggianti, chissà che per il sistema la vendita tra consumatori non sia preferibile ai furti, agli scippi, ai piccoli crimini predatori operati a danno della comunità? In altri casi non si spiegherebbe come in molte città le piazze e i luoghi di spaccio, pur noti a tutti, continuino ad operare quasi del tutto indisturbati.

L’interesse di chi vende è quello di potenziare il prodotto per soddisfare le aspettative del cliente, il guadagno è legato all’affidabilità e alla forza della merce. La regola aurea del proibizionismo, formulata nel 1986 dall’attivista americano Richard Cowan, è chiara: «più cresce la repressione contro le droghe ‘più le droghe diventano potenti’» (Sullivan, 2018, p. 59). Più sono rilevanti i rischi che i produttori corrono, più salgono i prezzi che i consumatori sono disposti a pagare chiedendo prodotti piccoli, maneggevoli e potenti e soprattutto che possano offrire garanzie rispetto a sostanze a basso costo e ad alta pericolosità (soprattutto dovuta al taglio). Forse è anche per questo che dalle amfetamine si è passati alle metamfetamine, dalla cannabis con thc al 10-12% si è arrivati a quella con una percentuale al 22-25%, sino al fentanyl, oppioide concentrato, cinquanta volte più potente dell’eroina. Un chilo di eroina può fruttare sino a 500.000 dollari, un chilo di fentanyl ne vale 1,2 milioni.

Il problema del fentanyl, per i trafficanti, è che è quasi impossibile da dosare correttamente. A causa della sua composizione microscopica bisogna tagliarlo con altre sostanze per poterlo iniettare, e tagliarlo significa giocare con il fuoco. Basta l’equivalente di pochi granelli di sale per toccare il cielo con un dito, ma qualche granello in più può uccidere (Sullivan, 2018, p. 59).

Il fentanyl è fabbricato in Cina e facilmente reperibile nel dark web.

Dal 2013 le morti per overdose unitamente a quelle da altri oppiodi sintetici sono aumentate di sei volte, superando quelle dovute a ogni altra droga. Per quanto riguarda l’Italia, secondo fonti ministeriali, nell’ultimo anno sono aumentati i sequestri del farmaco così come gli episodi di overdose.

Negli Stati Uniti, su richiesta del Center for Disease Control and Prevention, nel 2017, i medici hanno cominciato a diminuire le prescrizioni, precedentemente favorite da tutta una politica di incentivazioni operata da alcune case farmaceutiche, nonostante solo nel 2015 il governo americano abbia speso 504 miliardi di dollari per gestire l’epidemia da oppioidi. Scarseggiando l’offerta, si assiste ora all’inondazione sul mercato illegale di eroina e prodotti simili ad opera dei cartelli messicani della droga: dieci dollari a dose a fronte degli ottanta necessari per la pillola di oxycontin®. L’aumento delle prescrizioni, dunque, ha creato la domanda con una risposta del mercato immediata e massiccia fuori dalle prescrizioni stesse.

Per quanto riguarda il Vecchio Continente, lo scenario non sembra così differente. Se le droghe sono sempre più pure, ci sarebbe da chiedersi come mai i prezzi rimangono stabili. Alla domanda, Andrew Cunningham, alla guida dell’Unità sulle nuove sostanze dell’Osservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendenze (emcdda), ha risposto:

«È vero. Ma questo avviene per un semplice motivo di convenienza. Per quanto riguarda la vendita al dettaglio, la transazione si verifica solitamente per strada. Quindi è necessario fissare un prezzo tale che i soldi vengano scambiati in fretta. Da quanto ricordi, una dose di eroina viene venduta per 10 euro. Il prezzo rimane fisso, anche se la purezza aumenta o diminuisce. Non fanno salire il prezzo di pochi euro, perché se uno paga con una banconota da 20, si perde tempo per cercare il resto esatto attirando l’attenzione.» (Civillini, 2016).

È altra la strategia del mercato per fidelizzare il cliente e ampliare la platea dei clienti. Il consumatore non è il centro. È talmente ampio il possibile bacino di acquirenti che il consumatore è solo un numero. La partita (è il caso di dirlo) si gioca sulla sostanza. La sostanza è il centro dell’interesse del mercato.

A tal proposito vanno fatte delle debite precisazioni: negli ultimi mesi sui media nazionali si è letto e parlato di eroina gialla.

«L’eroina gialla, molto semplicemente, è cloridrato di eroina (o di grado 4 o eroina bianca) che presenta una sfumatura giallina, a causa della scarsità di solventi chimici in Afghanistan, che non consente di lavarla bene. È solo eroina bianca leggermente colorata perché un po’ più sporca.

Alla luce di ciò, non ha alcun senso insistere sul colore perché questo distrae dal vero problema: nocciola, bianca o giallina che sia, si tratta sempre di eroina e su questo occorre attirare l’attenzione, senza alcuna enfasi sul colore. Non è il colore a determinare la possibile pericolosità dell’eroina ed insistere sulla pericolosità dell’eroina gialla conduce, immancabilmente, a banalizzare tutte le altre forme di eroina.

La stessa enfasi, purtroppo, viene posta sull’aumentata percentuale di principio attivo, che è un dato costante in tutto il mondo da circa un ventennio. Nei primi anni del secolo, quando la mortalità per overdose da eroina era enormemente più alta, la percentuale media di principio attivo nell’eroina sequestrata era di gran lunga inferiore a quella odierna.» (Giancane, 2018).

È il caso di aggiungere che: «il grado di purezza dell’eroina è importante, ma non è il fattore più importante a condizionare il numero di decessi, in un’ottica di salute pubblica e quindi di grandi numeri; tanto è vero che in passato si sono raggiunti picchi di mortalità da overdose di circa 6 volte maggiori rispetto ad oggi (1566 eventi nel 1996) pur in presenza di eroina a concentrazione media intorno alla metà di quella odierna.

Ci sono dunque almeno altri due fattori di maggiore importanza nel modulare il rischio di morte.

Uno è legato a disponibilità e costo dell’eroina in una data area, ritenuto nella Letteratura scientifica il fattore di maggior peso, perché a maggiore accessibilità, dipendente da presenza e prezzo della sostanza, ovviamente corrisponde maggiore diffusione e quindi maggiore probabilità di incontro tra la sostanza e il soggetto che non ne ha tolleranza.

Questo dà senso all’attività di studio dei traffici, dei mercati e dei modelli di spaccio, così come al sequestro delle partite importate dovunque sia effettuata, e non solo dove si riscontrano concentrazioni più elevate del principio attivo.

Il secondo è la disponibilità, l’accessibilità e l’efficienza degli interventi evidence-based di terapia e di riduzione del danno (o del rischio, come qualcuno preferisce dire): diffusione di trattamenti oppioidi agonisti (ancor più se anche a bassa soglia), e prevenzione selettiva e indicata (es. drug checking anche autogestito delle sostanze, promozione di stili di consumo a minor rischio per esempio mai da soli, mai contemporaneamente, mai senza naloxone, mai somministrando tutto in una volta).

Questi interventi riducono la domanda di eroina e mitigano i comportamenti più rischiosi, come descritto da innumerevoli studi in tutto il mondo.» (De Bernardis, 2018).

La paura di ciò che non si conosce, la miopia con cui la politica si rivolge al fenomeno, unitamente al continuo richiamo alla pena e alla sua certezza, al risarcimento che il reo deve alla società, alla paura quotidianamente alimentata dai media, all’atteggiamento maturato in controtendenza all’espandersi dei crismi della globalizzazione rispetto a tutto ciò che è ‘altro’, sono elementi fondanti e condizionanti rispetto alle politiche sociali.

Ancora lontani dal comprendere che non è verso il dipendente patologico che deve orientarsi la ‘guerra’ alle droghe ma al non perdere mai di vista i quattro pilastri indicati per le politiche sulle droghe sanciti dai documenti dell’Unione Europea (vedi Strategia dell’UE in materia di droga 2013-2020), ossia: Contrasto al narcotraffico, Prevenzione, Cura e Riduzione del Danno.

Siamo tutti fisiologicamente alla ricerca del piacere così com’è nella natura dell’essere vivente, e per la nostra sopravvivenza non ci stanchiamo di inseguirlo ma siamo anche (chi più, chi meno) addolorati, neo-traumatizzati economici, alla ricerca di accoglienza e ascolto, ostaggi dei consumi e del narcisismo, in cerca di sollievo e, dunque, tutti potenzialmente a rischio.

Filosofi, letterati, teologi, sociologi (ben più importanti di chi scrive) si sono chiesti se il dolore potesse avere una sua utilità per l’uomo. A mio modesto parere potrebbe averlo purché il rimedio non sia così facilmente reperibile e sempre più a costo contenuto.

Conclusioni

«Fratello Gallione, tutti vogliono vivere felici, ma quando si tratta di veder chiaro cos’è che rende felice la vita sono avvolti dall’oscurità». Così si esprimeva Seneca (4 a.C.- 65 d.C.) nell’incipit del suo celebre dialogo De vita beata.

La dipendenza patologica è il desiderio che fa dell’assenza la spinta verso la ricerca della felicità.

È il desiderio che impone all’uomo il dolore. Il piacere che ne consegue è cessazione della pena, una sorta di non-dolore leggibile come piacere negativo. La sostanza (compreso il farmaco) mette inizialmente l’essere umano nella condizione di provare piacere e di desiderarne ancora, ma ciò che segue non è più piacere come nelle prime fasi dell’uso: ma il ricordo dello stesso e, con lo stabilirsi della dipendenza, il bisogno. A quel punto l’uso non è più piacere ma evitamento del dolore e più ancora della caduta nella sofferenza.

Sembra delinearsi la dialettica hegeliana del servo e del padrone, del pendio heideggeriano, del concetto lacaniano di manque, ossia della mancanza come propellente della ricerca, del desiderio.

Lo stesso Freud aveva sottolineato il fascino del piacere narcotico, ossia del doppio negativo: cessazione del dolore e sedativo al male di vivere.

Sia per Platone che per il padre della psicoanalisi, per interrompere questo circolo di esperienze cosiddette impure, di azioni anestetizzanti rispetto alla cura del mondo e degli altri, è necessario passare attraverso la realtà, sganciare il piacere dall’idea infantile dello stesso per entrare in una dimensione estetica, dal sensibile al bello, il pensiero e il ritorno al mondo.

Appetito insaziabile e piacere inaccessibile sono le dirette conseguenze di un meccanismo che non conosce fine né limiti.

Gli altri, le persone, la bellezza, l’impegno, il differimento, il sacrificio, la realtà sono questi i suggerimenti che filosofia, psicanalisi, e letteratura propongono come antidoto a quel vuoto incolmabile che può prendere tutti, ma soprattutto coloro che sono più esposti, portando con sé un bagaglio povero, una cassettina degli attrezzi (esperienze, percezioni, emozioni, interessi ecc.) scarna, un vuoto interiore che è assenza di senso e più ancora dell’ascolto del proprio autentico sé.

Chi accoglie e riconosce lacanianamente il proprio autentico e profondo desiderio (unico come ogni essere umano) può sperimentare degli insuccessi o delle privazioni, può doversi scontrare con frustrazioni, ma nel profondo è vivo, creativo, recettivo rispetto all’imprevedibilità della vita e alle sue possibilità.

Perché un soggetto si rende schiavo di un padrone folle (la sostanza) che lo distrugge? […] perché anziché sottrarci al male lo perseguiamo con accanimento? […] Si tratta di una sorta di intemperanza febbrile, di un’attivazione verso l’eccesso, di un rifiuto dell’equilibrio e della moderazione del piacere. L’essere umano non è un essere aristotelico, non si accontenta della via mediana, non è un ‘animale razionale’ ma come afferma Lacan, ‘un essere di godimento’, un essere che tende a oltrepassare il limite, a preferire il godimento alla difesa della propria vita. L’ideale del bene non è ciò che orienta la vita umana (Recalcati, 2012, pp. 97-8).

Dunque, il fine ultimo dell’azione umana è il perseguimento del piacere. Un piacere che non regala quasi mai soddisfazione. È possibile rintracciare questa constatazione anche nelle parole di Paolo di Tarso nella Lettera ai Romani (7,14-15): «La legge viene dallo Spirito, ma io sono nella carne, venduto al peccato […] non faccio quello che voglio ma quello che odio».

Di fatto, l’essere umano desidera il piacere, e non un piacere specifico. Sembra quasi di poter concludere, parafrasando Leopardi, che una certa povertà di stimoli, di strumenti, di occasioni, di capacità, aprano al piacere facilmente reperibile e di immediata fruizione delle sostanze psicotrope.

Eppure, anche nel momento di maggiore godimento, l’individuo continuerà a sentire l’assillo del desiderio non colmato. Questo assillo è di per sé fonte di dolore cosicché, anche quando non soffre di mali fisici, l’essere umano è in stato di sofferenza per la sua stessa richiesta inappagata. L’infelicità, dunque, non come momento occasionale, ma come condizione umana. La natura, dice Leopardi, ci ha creati così, la responsabilità dell’uomo non può che essere limitata.

Citando Goethe, Schopenhauer (1788-1860) nell’opera L’arte di essere felice intravede nella personalità la possibilità della felicità più alta. Assecondarla è ciò che l’uomo può mettere in pratica per garantirsela. Per fare questo è però necessario avere coscienza di sé, sapere con certezza ciò che si vuole ed evitare, in ragione delle esperienze fatte, di tentare ciò in cui non riusciamo, vuoi per inclinazione vuoi per limiti nostri. La conclusione è che «se abbiamo una volta per tutte conosciuto chiaramente le nostre forze e buone qualità, come pure i nostri difetti e debolezze […] sfuggiremo al più amaro di tutti i dolori, alla scontentezza di noi stessi, che è l’immancabile conseguenza di non conoscere la propria individualità» (Schopenhauer, 1997).

La fine del dolore è nel piacere o il piacere è esso stesso anelito del dolore per trovare possibilità di rinnovarsi in una eterna alternanza, in una sequenza senza soluzione di continuità.

Dolore e sofferenza. Il dolore fa parte del mondo fisico, la sofferenza di quello psichico. Due sfere diverse ma collegate tra loro e interagenti l’una sull’altra. Il dolore può venire localizzato in un punto, mentre la sofferenza tormenta tutto il nostro essere, ci logora, ci indebolisce, spesso ci degrada. […] Al dolore si perdona. Non così alla sofferenza. La sofferenza ci appare un’ingiustizia, una disgrazia, un torto immeritato: la nostra prima reazione alla sofferenza è di ribellione, di protesta. La sofferenza ci offende, anzi ci degrada (Kapuscinski, 2009).

Il piacere delle sostanze, spesso, dovrebbe essere letto alla luce di questa possibilità e più ancora come panacea a dolori cui non sempre si riesce a dare un nome. Le sostanze ben si prestano all’offerta di sollievo, che non è soluzione, se non temporanea e fittizia. In assenza di altre possibilità adattive, conosciute e praticate, restano il rifugio più facile e immediatamente praticabile. Nel tempo, però, anche la causa di nuovi e più pervicaci dolori, il tutto consumato tra ridondanti atti d’accusa nei confronti dell’uso di sostanze e continue sollecitazioni ad uno stile di vita totalmente orientato all’autoaffermazione, alla prestazione e all’ostentazione del benessere (finto o reale che sia) al dolore si oppone il piacere, alla sofferenza la possibilità di fuggire dalla memoria di sé.

L’imperativo dominante dei nostri giorni è quello riportato dalla voce del marchese De Sade: «Devi godere!». Secondo il pensiero di Georges Bataille in merito all’economia del dispendio, il corpo dell’uomo della contemporaneità è un corpo saturo, invaso dal godimento, accecato da un desiderio costante, incapace di piacere proprio perché schiavo del suo diktat e di una continua ripetizione compulsiva della sua ricerca senza la quale sembra trovare posto solo il dolore.

Se ancora oggi si prescinde da questo accostandosi al dipendente patologico allora la comprensione di ciò che agisce al suo interno è lontana dall’essere anche solo sondata.

 

Il Covid-19 e il suo lutto

Quello per le morti da Covid è un lutto un po’ diverso dagli altri lutti: è particolare, più complesso e intricato, più facilmente esposto a patologie.

 

Per capire meglio, vi racconto la storia di Micaela.

Micaela ha quasi 17 anni e ha finito la terza liceo, scientifico. Vuole fare l’astronoma: fin da piccola le piace osservare le stelle, una passione che non si è mai attenuata. Durante il primo lockdown ha fatto didattica a distanza, ne ha sofferto molto ma ce l’ha messa tutta, e alla fine dell’anno scolastico è piuttosto soddisfatta di se stessa. Visti gli ottimi risultati i suoi genitori hanno acconsentito a mandarla qualche giorno in vacanza con due amiche, Chiara e Francesca: è la prima volta che va senza i genitori. Naturalmente le fanno mille raccomandazioni: mascherina, igiene, etc., ma sono raccomandazioni quasi superflue, visto che Micaela è una ragazza giudiziosa e non ha mai fatto sciocchezze. Del resto la breve vacanza non è certo sulla riviera romagnola: è in un paesino di montagna, dove Chiara ha una casa.

Le tre amiche arrivano nel piccolo paese, accompagnate dal padre di Chiara, che apre loro la casa, si assicura che tutto sia a posto e se ne va. Micaela si è portata anche il telescopio che i nonni le hanno regalato a Natale: è sicura che senza l’inquinamento luminoso della pianura le stelle saranno spettacolari.

Il paese è davvero piccolo ma bellissimo, l’ultimo della valle. Intorno solo boschi, montagne e torrenti. Qualche decina di vecchi abitanti, tetti di ardesia, molte seconde case, un negozio di alimentari e un bar piuttosto grande, ritrovo dei locali e di quelli delle seconde case. Micaela nota subito che nessuno porta la mascherina: pensa che evidentemente lì il virus non è arrivato. Lei però la tiene e la toglie solo quando è in casa con le amiche, che conosce dalle scuole elementari. Chiara e Francesca vanno al bar per un paio d’ore tutte le sere, dopo aver cenato con quello che hanno preparato ridendo. Al bar hanno conosciuto due ragazzi simpatici, che sono appena tornati dalla Spagna. Micaela ci va un paio di volte, ma per lo più preferisce stare a casa, con il suo telescopio e tutte le luci spente. Lei e le stelle. È felice. Le loro giornate sono piene di lunghe passeggiate nei boschi. Qualche incontro fortuito sui sentieri rompe la fatica e offre la scusa per fermarsi a parlare.

È lunedì, e le brevi vacanze di Micaela e le sue amiche sono finite. A prenderle viene proprio il padre di Micaela, e in tre ore sono a casa. Micaela passa quasi tutti i pomeriggi a sistemare le osservazioni astronomiche che ha fatto in montagna. A mezzogiorno pranza sempre dai nonni, che abitano lì vicino e ai quali lei è molto affezionata. La sera a cena ascolta con i genitori le avventure di Alessandro, il fratello più grande, che per le vacanze è andato in barca a vela nel Mediterraneo.

E’ giovedì quando Micaela comincia ad avvertire qualche malessere: poco più di un prurito in gola, occhi arrossati e l’inizio di un raffreddore. Niente di preoccupante. Ma alla sera di giovedì viene la febbre al nonno e anche al papà. C’è anche la tosse. Si sente il medico di famiglia, il quale dice che non c’è tempo da perdere e bisogna fare il tampone. A tutta la famiglia. Dopo un giorno il responso: Micaela è positiva, così come i suoi genitori e il nonno, il quale dopo solo un giorno si aggrava e viene ricoverato d’urgenza. Già sofferente di cuore, morirà quattro giorni dopo. Micaela non lo ha più rivisto dal pranzo di giovedì; non lo ha salutato e non potrà partecipare al funerale, al quale peraltro non potrà andare nessuno dei familiari, tutti in quarantena. Anche il papà di Micaela viene ricoverato. Per fortuna dopo qualche settimana guarisce. Micaela sta fisicamente bene ma è psicologicamente distrutta ed è convinta di essere lei la causa di tutto: delle sue amiche anche Chiara è risultata positiva al virus, così come positivi sono risultati i due ragazzi conosciuti in montagna. A gettare ulteriore incertezza sulla catena del contagio, si è rivelato positivo anche un amico di suo padre, con il quale lui era uscito qualche sera prima per una partita a biliardo.

Mi sono un po’ dilungato nel racconto della storia di Micaela perché è una storia tutt’altro che rara ed è  paradigmatica di molte situazioni nelle quali si genera un lutto con una serie di caratteristiche che favoriranno la sua patologia.

Con la riapertura delle scuole, a settembre, queste situazioni si sono poi moltiplicate a dismisura: è vero che dentro le strutture scolastiche gli studenti sono stati efficacemente protetti dalla possibilità di contagiarsi, ma molto poco, o nulla, è stato fatto per approntare altrettanto efficaci garanzie fuori dalla scuola, a cominciare dai trasporti su mezzi sovraffollati, per finire agli assembramenti di adolescenti senza mascherine in attesa dell’inizio delle lezioni, per i quali nessuna efficace opera di sensibilizzazione è stata fatta.

Gli ingredienti che complicheranno il lutto di Micaela sono ora facili da individuare:

  • Il senso di colpa: anche se è sempre stata attenta, e indipendentemente da come siano andate veramente le cose, Micaela è convinta di essere colpevole e di aver portato il virus dentro la cerchia dei suoi cari, di aver quindi causato la morte del nonno e la malattia del padre. Il senso di colpa, che è una costante in qualsiasi lutto, in quello da Covid affonda i suoi dolorosi artigli nei dati di realtà: moltissimi contagi avvengono in famiglia, causati da uno dei membri che è portatore asintomatico e inconsapevole. Questa non-consapevolezza lo proteggerà però assai poco dalla convinzione di essere colpevole e sarà spesso necessario un lungo e doloroso lavoro terapeutico per riportare su un piano di realtà quello che è accaduto. Accanto al senso di colpa di chi ha veicolato il contagio, spesso vi è il rancore nei suoi confronti da parte degli altri familiari, rancore espresso più o meno duramente: ‘Ma dove sei andato…Cosa hai fatto…Sei stato disattento…Non hai messo la mascherina…E’ colpa tua… Etc.’, oppure inespresso ma comunque attivo dentro il tessuto relazionale. Questa variante del senso di colpa ed il più o meno muto rimprovero, sono due elementi caratteristici di questo lutto che non sono stati ancora adeguatamente esplorati.
  • Non vi è stata alcuna possibilità di salutare il nonno e nemmeno di abbracciarlo o fargli una carezza. Le fantasie di Micaela sulla solitudine del nonno e sulle modalità della sua morte sono strazianti. E così quelle di tutta la sua famiglia. Nessuno di loro ha potuto partecipare al funerale. Per loro nessun rito di commiato è stato possibile; le consuete ritualità connesse alla morte sono state completamente cancellate ed al loro posto sono rimaste solo incertezza e solitudine. Il campo sociale che usualmente si prende carico in modo simbolico del dolore individuale per stemperarlo in quello collettivo, non è più una realtà su cui contare: la collettività tende piuttosto a spingere il dolente ai margini della relazione, perché ne ha fisicamente paura.

Tre fattori sono particolarmente rilevanti per la successiva elaborazione del lutto:

  • La qualità del morire (cioè come è avvenuta la morte);
  • La qualità della presa in carico da parte del campo sociale e della collettività del dolore e della solitudine dei superstiti (i rituali);
  • La modalità della separazione finale da chi sta morendo.

Nei decessi da Covid 19 questi tre elementi hanno un indice drammaticamente negativo.

Chi muore si porta via una parte essenziale di noi: l’immagine, la rappresentazione, la narrazione che si è fatto di noi, e nella quale noi ci rispecchiamo e ci riconosciamo. E’ una narrazione unica, esclusiva e insostituibile, che è il risultato costruito in anni di relazione dialettica, di affetto, di amore (pur con le inevitabili ambivalenze). Quando muore uno dei partner, quella conversazione unica ed esclusiva si interrompe e non possiamo più rispecchiarci in essa: da qui la angosciante sensazione di perdita di significato che sperimentano quasi tutte le persone in lutto. La cosiddetta elaborazione del lutto consiste proprio nella necessità di completare quella narrazione dentro di sé, di modo che si possa chiudere un capitolo della storia, della vita. Chiudere non significa archiviare: per una buona elaborazione deve esserci la consapevolezza che quel capitolo, lungi dall’essere archiviato, è e resta indispensabile per il futuro svolgimento della narrazione.

Se la separazione è stata però repentina e traumatica, come quasi sempre nelle morti per Covid 19, se non è possibile nemmeno iniziare davvero il processo di elaborazione perché sono stati stravolti i rituali funebri (è infatti il rito che sancisce che il trapasso è avvenuto, è il rito che imprime la scansione temporale del lutto e ne ordina le fasi), allora il percorso di elaborazione risulta molto complicato. Sarà molto spesso necessario l’intervento del terapeuta, che dovrà quasi sempre coinvolgere il nucleo familiare.

In questo periodo emergenziale che è ormai diventato la nuova normalità, ci sorprendiamo spesso a scrutare con angoscia il nostro panorama affettivo e relazionale, come se stessimo guardando un campo di battaglia sul quale infuria ancora e ancora, più o meno virulento, il conflitto. Sì, facciamo ogni giorno la conta dei caduti, riconoscendo con orrore che la guerra, i cui rumori ci giungevano un tempo lontani, attutiti e quasi estranei, ora infuria tutta intorno a noi, e quelli che si ammalano, quelli che muoiono sono nostri familiari, amici, conoscenti, portati via in un baleno senza nemmeno il tempo di salutarli come si conviene. Stiamo chiusi in casa, solo rare e veloci uscite per l’indispensabile, combattuti tra il desiderio di telefonare agli amici e ai parenti e la paura di ricevere telefonate che ci annuncino la scomparsa di qualcuno. Ci domandiamo quale sia dentro di noi l’emozione dominante tra dolore, paura, senso di impotenza, rabbia.

Guardiamo che i nostri figli e i nostri nipoti, di solito esuberanti e pieni di iniziative, mentre rischiano di regredire in uno stato apatico, dominati dal senso di impotenza.

Ma la speranza prepotentemente richiede spazio, ed è assolutamente necessario concederglielo. Questa concessione non può essere passiva, dovrà essere invece attiva e promotrice di resilienza.

Ho scritto queste righe a metà novembre, nel pieno della cosiddetta seconda ondata. Sono certo che quando verranno pubblicate la situazione sarà in netto miglioramento, tanto da consentirci di guardare al futuro con realistico ottimismo.

Qual è la relazione del Natale con gli episodi depressivi e i tentativi di suicidio?

Tra le feste più importanti del mondo cristiano vi è sicuramente il Natale. Colpendo le sfere emotive di un gran numero di persone, il Natale assume significati diversi per ognuno.

 

Può significare tristezza e malinconia se si ricorda il passato, soprattutto se qualcuno manca all’appello nella nostra nuova foto del Natale in famiglia. Può significare anche rinascita se è il primo Natale di un nuovo percorso felice, se il calore delle feste è condiviso da chi abbiamo intorno.

Alcuni studi hanno sottolineato l’influenza delle festività su coloro che sono in una condizione di fragilità psichica. Le feste natalizie possono accompagnarsi ad un peggioramento dell’umore, che potrebbe diventare disforico, con un conseguente aumento dell’ideazione suicidaria o dei comportamenti autolesivi – sia dal punto di vista psicologico che fisico. Anche eventi particolari, collegati al proprio passato, detti ‘eventi trigger’, possono scatenare reazioni emotive intense. In questi casi, fare parola del proprio umore e di ciò che stiamo vivendo, è importantissimo. Affrontare questi periodi con il sostegno delle relazioni sociali più vicine, elaborando l’esperienza con l’aiuto di un professionista della salute mentale, può essere un’ottima strategia per vivere serenamente il periodo natalizio e non solo.

Depressione e comportamento autolesionistico: la relazione con le festività

Non sono molte le analisi riguardanti l’umore e il suo andamento durante le festività, ma alcune hanno preso in esame le dimensioni più rilevanti in alcuni disturbi psichiatrici: abuso di alcool, comportamenti autolesionistici, tentativi e completamenti di suicidio, depressione.

In uno studio condotto da Peretti (1980), sono stati considerati tre aspetti principali da monitorare nel disturbo depressivo maggiore: la solitudine, l’ansia, l’impotenza. È stato rilevato che, durante le feste, nelle persone depresse sia forte la convinzione di essere sole e non avere relazioni amorose e familiari soddisfacenti, con la percezione di inferiorità rispetto al resto delle persone che stanno trascorrendo le vacanze serenamente. Questo aspetto è stato verificato da un altro sperimentatore attraverso delle interviste. In 55 pazienti ricoverati in servizio di emergenza psichiatrico, sono emersi dei sentimenti riguardanti la sensazione di sentirsi soli e abbandonati, senza una famiglia. Essi descrivevano il loro umore durante le vacanze natalizie come ‘depresso’.

È importante considerare che la situazione varia a seconda del caso: molti individui possono percepire comprensione e calore se hanno la possibilità di essere accolti ed affiancati dalla loro famiglia. Grazie al sostegno morale si riescono ad affrontare meglio le proprie difficoltà.

Infatti, gli studi riguardanti i comportamenti autolesionistici, svolti su grandi campioni di individui, hanno rilevato una gran diminuzione degli atti autolesivi nel periodo delle vacanze natalizie, dovuta probabilmente ad una vicinanza sociale maggiore. In particolare, in un campione di 20.000 persone, si è osservata una diminuzione del 30-40% dell’autolesionismo non suicidario. Nelle fasce di età più giovani il decremento è ancora maggiore, in quanto è stato rilevato circa il 60% dei casi di autolesionismo in meno rispetto al resto dell’anno (Bergen & Hawton, 2007).

I suicidi ed il nuovo anno: come prevenirli

La disperazione, la depressione, l’alcolismo e le recidive suicidarie rappresentano dei fattori di rischio molto importanti da tenere in considerazione. Nel periodo del Natale, la vicinanza a dei legami sociali stabili e il senso di protezione percepito, possono essere fattori di protezione molto importanti per coloro che si sentono in una condizione di solitudine e fragilità. Infatti, questi fattori aiutano nel non sentirsi eccessivamente sopraffatti dalle emozioni negative, ricevendo appoggio e comprensione sociale.

Sono state svolte delle analisi su un gran numero di popolazioni per comprendere l’incidenza del suicidio in relazione alle festività natalizie. Nei campioni presi in esame, i tentativi di suicidio ed i suicidi completati sono risultati molto ridotti durante il Natale, probabilmente a causa dei fattori sopracitati. Nonostante ciò, è stato osservato un picco ed aumento dei casi di suicidio successivamente al capodanno.

Perché accade?

Le gioia e vicinanza provate durante le festività vengono a mancare, facendo precipitare le persone alla vita di tutti i giorni. Quindi la solitudine e la percezione di non aver più sostegno sociale e conforto, fanno breccia in coloro che vivono condizioni di fragilità psichica, spazzando via il velo di calore umano percepito durante i giorni di festa passati assieme ad altre persone. Questi pensieri diventano insormontabili, inducendo a credere che sia troppo difficile superare dei giorni o un nuovo anno in compagnia delle stesse sensazioni disperate, causando un aumento del rischio di commettere suicidio (Hofstra et al., 2018).

Alcune analisi svolte in Austria hanno confermato i dati relativi ai suicidi successivi al Capodanno. L’elevata incidenza di suicidi nella prima settimana del nuovo anno, considerati come periodo di controllo i 30 giorni precedenti al periodo dell’avvento ed i 30 giorni successivi alla prima settimana del nuovo anno, presenta un picco molto elevato.

Natale: quale relazione con episodi depressivi e tentativi di suicidio

Figura 1 Pannello in alto: suicidi in media accaduti ogni 5 giorni. Le linee nere tratteggiate verticali rappresentano le vacanze di Natale, le linee grigie prima e dopo rappresentano le settimane precedenti e successive. Pannello centrale: ingrandimento di una parte del pannello superiore. Pannello inferiore: probabilità a posteriori dell’analisi Bayesiana.

 

I casi di suicidio decrescono molto nel periodo natalizio, come evidenziato dal grafico, successivamente presentano il picco più alto dell’anno nel giorno di Capodanno e mediamente alto nella settimana immediatamente successiva.

Questi dati sono molto importanti da considerare in ambito clinico, in quanto possono rappresentare il bisogno e la necessità di intensificare gli interventi di prevenzione del suicidio. Fornire una consapevolezza al pubblico relativa le condizioni di chi è a rischio suicidario soprattutto nel periodo successivo alle vacanze natalizie, può essere d’aiuto nel fornire aiuto e supporto, inducendo anche coloro che si trovano in una condizione di disperazione a farne voce, in modo da prevenire successivi tentativi di suicidio.

Cosa possiamo fare?

  • Rimanere in contatto con le persone anche dopo le feste. Considerato il momento di solitudine, potrebbe essere più facile per qualcuno in una condizione di fragilità compiere scelte estreme.
  • Non aver paura di parlarne. Lasciar esprimere una persona può aiutare nel capire le sue intenzioni, quindi è bene comprendere come si senta liberandola dalle censure ed utilizzando un tipo di ascolto attivo.
  • Se percepisci un rischio, non è tuo compito salvare una persona. Contatta i numeri di emergenza del tuo Paese, incoraggiala a chiedere aiuto mediante i servizi a disposizione.

 

Terapia a Seduta Singola in Italia: cosa ci dice la ricerca?

L’Italian Center for Single Session Therapy ha condotto la prima ricerca italiana sulla Terapia a Seduta Singola allo scopo di verificare se il numero più frequente di sessioni in psicoterapia in Italia sia 1 e il numero di pazienti che ritengono una seduta di Terapia a Seduta Singola sufficiente e la loro soddisfazione rispetto alla risoluzione del proprio problema.

 

In Italia è acceso il dibattito riguardante la riduzione delle liste di attesa nei servizi di salute mentale.

Le ricerche dimostrano che tempi d’attesa lunghi possono essere correlate a un peggioramento dei sintomi (Reichert & Jacobs, 2018) e, parallelamente, si è scoperto che le persone traggono beneficio già dai primi momenti del trattamento psicologico.

Modelli di terapia breve, come la Terapia a Seduta Singola, possono aiutare a ridurre i tempi di attesa e a dare una risposta subitanea ai bisogni dei clienti. Nella Terapia a Seduta Singola il terapeuta cerca di trarre il massimo da ogni incontro con il paziente, “come se” quella fosse l’unica seduta, lavorando con l’assunto che altre sedute, sebbene possibili, potrebbero non essere necessarie.

La ricerca sulla Terapia a Seduta Singola nasce nel 1990 quando Talmon cominciò a investigare sul perché molti dei suoi pazienti usufruissero di una sola sessione di psicoterapia. Le sue scoperte hanno scardinato l’idea comune che i cambiamenti psicologici necessitino di lungo tempo per avvenire, con conseguente focalizzazione delle psicoterapie sul lungo termine. A partire da questi risultati, diverse ricerche condotte in varie parti del mondo si interessarono al fenomeno, arrivando tutte a dimostrare che le persone generalmente si ritengono soddisfatte dopo un incontro di Terapia a Seduta Singola, riportando miglioramenti nelle loro funzioni psicologiche.

Fino ad oggi in Italia non sono stati condotti studi sulla Terapia a Seduta Singola, probabilmente dovuto al fatto che questo modello è stato introdotto solo recentemente nel Paese (Cannistrà & Piccirilli, 2018).

La presente ricerca svolta dall’Italian Center for Single Session Therapy vuole porsi come test preliminare sull’effettiva praticabilità della Terapia a Seduta Singola in Italia.

Il numero più frequente di sedute di psicoterapia è 1 (uno)?

Il primo studio condotto dall’Italian Center for Single Session Therapy si è svolto tra gennaio 2014 e dicembre 2016 e ha voluto indagare se in Italia il numero più frequente di sedute di psicoterapia (Non Terapia a Seduta Singola) fosse 1 (uno).

Il campione era formato da 499 adulti che si sono rivolti autonomamente a: un servizio pubblico di salute mentale, a un centro familiare no profit e ad un libero professionista, tutti nei dintorni di Roma. Le terapie sono state condotte analizzando i dati di diversi professionisti della salute mentale (psicologi, psicoterapeuti e psichiatri). Nessuno dei professionisti era formato in Terapia a Seduta Singola.

Il 26% del campione ha beneficiato di un solo colloquio e questo dato ha confermato i dati delle precedenti ricerche che indicano che il numero più frequente (moda) di sedute in psicoterapia è 1. Il limite principale di questo studio, evidenziato nella ricerca, sta nell’essersi riferiti a un campione rappresentativo della sola Regione Lazio, sebbene sia ipotizzabile la generalizzazione dei risultati.

Quante persone che richiedono una Terapia a Seduta Singola fanno effettivamente un solo colloquio? Qual è il loro livello di soddisfazione?

Il secondo studio si è svolto da aprile 2018 ad aprile 2019, e ha coinvolto 85 pazienti che hanno richiesto una Terapia a Seduta Singola, condotte da 7 liberi professionisti della salute mentale dislocati in varie parti d’Italia, tutti formati in TSS dall’ICSST e con almeno un anno di esperienza nell’applicare il Modello Italiano descritto da Cannistrà e Piccirilli (2018).

Alla fine del colloquio ai pazienti veniva chiesto se ritenessero quella seduta sufficiente o se avessero bisogno di altri incontri. È stato poi somministrato un questionario di follow – up volto ad indagare la percezione dei pazienti rispetto al problema presentato in seduta, quanto questa percezione era attribuita all’andamento della seduta, se avessero richiesto un ulteriore colloquio e una domanda aperta in cui spiegare il perché della loro scelta.

Nel questionario, oltre al genere, all’età e il tipo di problema per il quale avevano richiesto la consultazione, veniva chiesto come si sentivano rispetto al problema, se avessero richiesto un ulteriore colloquio e una domanda aperta in cui spiegare il perché della loro scelta.

I risultati mostrano che: dopo il primo colloquio, il 70.6% dei clienti ritiene di sentirsi meglio o molto meglio rispetto al problema portato in seduta; il 28% non ha riscontrato cambiamenti e una persona si è sentita peggio.

Il 90,7% dei clienti che sono migliorati ha attribuito il proprio miglioramento alla singola sessione, in diversa misura.

Il 45,9% dei clienti ha considerato quell’unica sessione come sufficiente, mentre il 54,1% ha richiesto un secondo incontro.

Tra chi ha ritenuto sufficiente un solo incontro, le motivazioni sono state “Mi sento meglio, non ho bisogno di altre consultazioni.”, “Ho bisogno di vedere come va”, “Motivi pratici indipendenti dalla terapia”, “Ho detto no, ma ora mi rendo conto di averne bisogno”, “La terapia non mi ha aiutato”.

Tra coloro che invece hanno scelto un ulteriore incontro, il 72% ha dichiarato di averne bisogno perché un solo incontro non era sufficiente, l’11% non ha fornito una ragione, mentre il 17% ha scelto di parlare di un altro problema: questo dato è interessante, perché significa che costoro tornano per una seconda seduta, ma gli è stato sufficiente un solo incontro per considerare risolto o gestibile autonomamente il problema precedente.

Questi risultati sono in linea con gli studi internazionali, che indicano che tra il 40 e il 60% di chi riceve una Terapia a Seduta Singola pianificata non chiede ulteriori consultazioni. Questo accade invece per il 20-40% di chi riceve un primo colloquio di terapia tradizionale che non utilizza i principi e le tecniche della TSS.

Per concludere, l’implementazione della Terapia a Seduta Singola può migliorare l’accessibilità ai servizi di salute mentale per chi è alla ricerca di un aiuto professionale. Questo può rivelarsi particolarmente utile in un Paese come l’Italia, dove gli accessi ai servizi di salute mentale sono molto bassi a causa di un’alta percentuale di bisogno inespresso legato a ragioni economiche e attitudini culturali.

Diminuendo il numero di sessioni per cliente, la TSS può ridurre le liste di attesa e rendere i servizi più accessibili oltre che evitare il deterioramento delle condizioni dei clienti. I professionisti, inoltre, sarebbero in grado di aiutare un maggior numero di persone.

 

Covid-stigmatizzati

La paura del contagio, che la società sta vivendo in seguito alla pandemia da Covid-19, crea terreno fertile per la stigmatizzazione di persone o gruppi sociali.

 

Si delinea così un’altra paura: la paura di essere l’oggetto dello stigma. Questo spiega perché risulta così complesso comunicare la propria positività al virus. Questa paura nella paura può essere spiegata alla luce dell’evoluzione della definizione dello stesso ‘stigma’ e delle conseguenti implicazioni psico-sociali.

Anche se diverse definizioni di ‘stigma’ possono essere ricondotte al sociologo Goffman (1922-1982), quella più comune nel panorama delle scienze sociali è quella di un ‘attributo che è profondamente screditante’ e che riduce lo stigmatizzato ‘da persona interna al contesto comunitario ad una esiliata’ (Goffman, 1961, p. 3). Successivamente, Goffman ha definito lo stigma come il rapporto tra un ‘attributo e uno stereotipo’ (Goffman, 1963, p. 4). Lavori più recenti, invece, hanno avuto l’obiettivo di ri-concettualizzare e misurare lo stigma, concentrandosi, ad esempio, sulla dimensione della ‘visibilità’ dello stigma (Jones et al. 1984) o sull’attenzione alla ‘segretezza’ come potenziale meccanismo di fronteggiamento per lo stigmatizzato (Schneider e Conrad 1980; Link et al. 1997). In particolare, la dimensione della segretezza può spiegare perché, in caso di positività al virus, non comunicare di essere affetti da coronavirus diventa un meccanismo di autoprotezione piuttosto che un comportamento irrispettoso.

Seguendo le intuizioni di Goffman, un secondo quadro concettuale è stato sviluppato da Jones e collaboratori (1984). A differenza del sociologo, Jones e colleghi utilizzano il termine ‘marchio’ come un attributo che comprende una vasta gamma di condizioni considerate ‘devianti’ da una società. Ottenendo questo marchio, perciò, la comunità potrebbe avviare il processo di stigmatizzazione della persona marchiata, poiché considerata deviante. Gli autori, però, identificano come elemento indispensabile per lo stigma il valore di ‘scredito’. In più, identificano sei dimensioni dello stigma:

  • l’occultabilità: varia a seconda della ‘natura’ del marchio stigmatizzante. Ad esempio, le persone che vivono una condizione socialmente riconosciuta come stigmatizzante, saranno più portate ad occultarla;
  • la contrapposizione tra condizione reversibile o irreversibile. Le condizioni irreversibili tendono a suscitare atteggiamenti negativi da parte degli altri;
  • la perturbazione, che indica la misura in cui un marchio può creare delle tensioni nelle relazioni interpersonali;
  • l’estetica, che riflette ciò che è attraente o gradito; se collegata allo stigma, questa dimensione riguarda la misura in cui un marchio suscita una reazione istintiva e affettiva di disgusto;
  • l’origine, che si riferisce a come la condizione di stigmatizzazione è stata creata dalla comunità. In particolare, è la responsabilità percepita per la condizione di stigmatizzazione che esercita una grande influenza sul fatto che gli altri rispondano con opinioni sfavorevoli e/o punizioni nei confronti della persona ‘marchiata’;
  • la dimensione di pericolo, che si riferisce a sentimenti di minaccia che il marchio induce in altri. In questo senso, un esempio attuale di minaccia è la paura di un pericolo fisico effettivo, come una malattia contagiosa e/o l’esposizione a sensazioni di vulnerabilità.

Quindi, quali possono essere le conseguenze dello stigma nell’attuale scenario pandemico? Il vissuto del contagio da covid19 come uno stigma, porta la persona ‘colpita’ ad autodifendersi mettendo in atto strategie come l’occultamento della sua positività al virus. La conseguenza di questa strategia di difesa può ricadere proprio sulla condizione di contenimento della pandemia, soprattutto nella fase di ricostruzione della catena di contatti. In tale situazione di stigmatizzazione, importante è l’intervento dello psicologo e psicoterapeuta sociale/comunitario, che andrebbe a decostruire il significato del vissuto del ‘contagio da covid19’ come oggetto di stigma e, quindi, di un’emotività accordata alla vergogna.

 

Dexter: perché nonostante la nostra moralità a volte tifiamo per il cattivo?

Dexter è uno show televisivo che pone complesse questioni morali sulla giustizia, sulla moralità e su cosa sia il bene e il male. Perché questo show è così popolare se le azioni del protagonista sono in conflitto con il codice morale dello spettatore? Perché arriviamo al punto di tifare per lui?

 

Dexter è una serie TV americana di genere thriller e poliziesca che ha un protagonista insolito: egli lavora per il dipartimento di polizia di Miami come tecnico forense nell’analisi delle tracce ematiche, tuttavia è un efferato serial killer. Il padre adottivo Harry ha riconosciuto precocemente i segnali di psicopatia in Dexter, anticipando quello che sarebbe diventato da adulto, per questo gli ha insegnato un “codice morale”: Dexter Morgan, infatti, sceglie esclusivamente vittime che hanno a loro volta commesso omicidi, ma che sono riusciti a eludere il sistema giuridico. E’ un antieroe che, sebbene uccida esclusivamente per soddisfare i propri impulsi, viene percepito dal pubblico come una sorta di “vendicatore oscuro” o di giustiziere. È evidente che tale show televisivo, pone certamente complesse questioni morali sulla giustizia, sulla moralità e su cosa sia il bene e il male.

Un recente studio ha l’obiettivo di esplorare come il pubblico ha accolto tale narrazione e ciò che ne deriva. Gli autori si basano sulle teorie del ragionamento morale (Bandura, 1999; Haidt, 2001; Zillmann 2000) e su come il pubblico legge personaggi moralmente ambigui, utilizzando il Composite Multidimensional Model Of Audience Reception (Michelle, 2007). Michelle (2007) ha descritto quattro diverse modalità di ricezione da parte del pubblico: (1) modalità di ricezione trasparente, in cui l’individuo può sospendere la propria incredulità e perdersi nel mondo immaginario del testo, sperimentando una forte emozione verso i personaggi e i temi; (2) modalità referenziale, in cui l’individuo confronta il testo con la propria vita reale per l’interpretazione; (3) modalità mediata, in cui l’individuo interpreta il testo in base alla propria cultura di produzione mediatica ed è meno coinvolto con i temi e i messaggi del testo; infine, (4) modalità discorsiva, in cui l’individuo analizza il significato del testo, assumendo una posizione ideologica rispetto al messaggio. Inoltre, gli autori hanno voluto indagare come i messaggi dei media influenzano i comportamenti del pubblico, specialmente nel caso di contenuti relativi a comportamenti considerati moralmente riprovevoli.

Bandura aveva evidenziato come il pubblico si relaziona a personaggi moralmente ambigui nella sua teoria del disimpegno morale (Bandura, 1999): gli spettatori usano la razionalità per giustificare un comportamento immorale o per ridefinirlo come morale. Ad esempio, una persona che ruba del cibo può essere vista come immorale, ma se compie tale atto per sfamare la propria famiglia, allora può essere ridefinito come morale. Al contrario, Haidt (2001) ha sviluppato la teoria dell’intuizione sociale, secondo cui i giudizi sulla moralità di basano sull’emozione provata in risposta alle “violazioni morali”. Questa teoria spiega inoltre il concetto di “ammutolimento morale”: ad esempio l’incesto consensuale è universalmente condannato, anche nel caso di assenza di vittime o danni, tuttavia il fatto di essere consensuale, ritarda nello spettatore la percezione che sia un atto deplorevole. Il modello dell’intuizione sociale è quindi “un modello a doppio processo di moralità basato sia sull’intuizione morale [emozione] sia sulla cognizione morale [ragionamento]”. Ciò è importante per capire come le persone danno giudizi che sono controintuitivi rispetto alle risposte razionali (Greene & Haidt, 2002). Zillman con la teoria della disposizione affettiva afferma che gli spettatori si identificano soltanto con quei personaggi che agiscono in accordo con il proprio codice morale (Zillman, 2000). Quindi, la moralità di un individuo funge da filtro per tutte le esperienze di intrattenimento. Haidt e Joseph (2007) hanno scoperto che esistono cinque domini morali universali: (1) danno/cura, (2) equità/reciprocità, (3) libertà/oppressione, (4) autorità/sottomissione e (5) purezza/sanità. All’interno di una cultura, gli individui che agiscono contro uno qualsiasi di questi domini universali sono giudicati come malvagi.

Il personaggio principale è in evidente conflitto con il concetto di protagonista “moralmente puro” che combatte contro un antagonista malvagio. Pertanto sorgono spontanee le seguenti domande: “Perché questo show è così popolare se le azioni del protagonista sono in conflitto con il codice morale dello spettatore?”, “Perché arriviamo al punto di tifare per lui?”.

Zenor e Granelli (2016) si propongono di esaminare come gli spettatori di Dexter danno un senso ai concetti di moralità e giustizia, chiedendo:

  1. In che modo il pubblico riesce a conciliare le norme contrastanti della morale all’interno del testo di Dexter?
  2. Le interpretazioni di Dexter da parte del pubblico rientrano in una specifica modalità di coinvolgimento?
  3. Le interpretazioni di Dexter da parte del pubblico rientrano in una teoria di impegno morale?
  4. C’è una connessione tra il modo di coinvolgimento del pubblico e il suo impegno morale con il testo?

La metodologia Q è un approccio appropriato per studiare il modo in cui i consumatori (N=54) interpretano i messaggi dei media, perché è una metodologia che studia la soggettività (Brown, 1980): è usato per discernere i punti di vista soggettivi condivisi delle persone (Michelle et al., 2012). Si tratta di uno strumento proiettivo che permette di svolgere un’analisi sia qualitativa che quantitativa, ed è destinato a studiare la “soggettività operante” o “pensieri interiori” del soggetto (Stephenson, 1953).

Dalle analisi effettuate sono emersi quattro fattori che rappresentano le posizioni del campione su Dexter:

  • Vigilante Giustificato: Dexter Morgan è visto come un eroe che utilizza i propri impulsi per fare del bene e perseguire la giustizia. Gli individui che rientrano in questa prospettiva provano ammirazione per il protagonista e ritengono che l’omicidio non è accettabile, ma che il dominio universale della giustizia è più importante del dominio universale del non danno (Haidt e Joseph 2007). Il 65% di essi ha riferito di essere vittima di un crimine, pertanto acclamano Dexter per aver fatto ciò che non possono fare nella vita reale. Questo fattore rientra nella modalità di ricezione trasparente (Michelle, 2007).

Dexter sta compiendo una buona azione per la società…. Non uccide gli innocenti

Dexter è affascinante perché usa il suo Oscuro Passeggero per uccidere quelli come lui

  • Puzzle Psicologico. Questa prospettiva assume che il fulcro della serie TV sia la complessità degli esseri umani: Dexter racconta di come il protagonista nasconda il suo alter ego, rafforzando l’idea che “non potremo mai conoscere le persone realmente”. Non condannano, né giustificano il comportamento di Dexter, ma lo vedono come una sorta di difesa dalla follia: entrano in empatia con il personaggio, anche se non lo ritengono affascinante, divertente e degno di ammirazione. Soltanto il 18% di questi soggetti ha riferito di essere vittima di un crimine. Anche se credono che le azioni del protagonista siano sbagliate, trovano divertente guardare lo spettacolo. Rientra nella modalità di ricezione referenziale.

La moralità non è semplicemente bianca o nera

Ci sono molte ragioni per cui non dovrebbe uccidere

Sono affascinato dagli assassini… e da come lo giustificano.

  • Violenza Gratuita: questi individui credono che si tratti di una gratuita celebrazione dell’omicidio, hanno descritto lo spettacolo come grottesco, contorto, raccapricciante e difficile da guardare. Le azioni del protagonista sono assolutamente condannate, non lo ammirano e lo definiscono uno psicopatico. Per loro il pensiero non può essere separato dall’azione: le sue azioni hanno violato il dominio morale universale di non nuocere. Rientra nella modalità di ricezione discorsiva.

Due torti non fanno una ragione

Sta commettendo gli stessi crimini che commettono i criminali

Dexter non avrebbe bisogno di uccidere la gente se la polizia di Miami non fosse così inetta.

  • Evasione Deviata: questa parte del campione riferisce di essere affascinata dal serial killer. Sono consapevoli che le sue azioni siano sbagliate, ma gli piace e non hanno avuto difficoltà a guardare lo show, al contrario lo ritengono emozionante. Affermano che questa serie TV rappresenta la natura primitiva dell’uomo: non si sa mai di cosa siano capaci le persone. Inoltre, credono che, quella di Dexter sia un’etica situazionale: non usa i suoi impulsi per il bene, piuttosto abusa della vendetta per giustificare l’omicidio. Questa prospettiva è moralmente distaccata e non esprime giudizi sul personaggio. Rientra nella modalità di ricezione mediata.

Posso distinguere tra intrattenimento e partecipazione effettiva. Non credo che la visione dello spettacolo si rifletta sullo spettatore

Se non avesse ucciso, non sarebbe stato un bello spettacolo.

Naturalmente, in questo studio, tre delle quattro prospettive includevano spettatori che erano fan dello show, per questo avevano una lettura positiva dei contenuti, indipendentemente dalla modalità con cui erano coinvolti. Probabilmente, se Dexter Morgan non fosse stato moralmente ambiguo, ma soltanto un vero e proprio assassino, la maggior parte della gente avrebbe respinto lo show.

 

Distorsioni cognitive e gambling: gli effetti del trattamento residenziale sui pazienti affetti da gioco d’azzardo patologico

Le distorsioni cognitive implicate nel gioco d’azzardo sembrano essere correlate alla gravità del comportamento; difatti, all’aumentare di quest’ultima, aumenta l’intensità delle distorsioni legate al gioco.

 

Le distorsioni cognitive sono modalità disfunzionali di elaborazione che determinano e/o sostengono comportamenti problematici (Goodie & Fortune, 2013). Le distorsioni cognitive legate al gioco d’azzardo possono essere concettualizzate come convinzioni errate, apprese, che facilitano il coinvolgimento ripetuto nel gioco nonostante le perdite (Raylu & Oei, 2004). In quanto tali, esse hanno un ruolo cruciale nello sviluppo e nel mantenimento di comportamenti di gioco problematici (Raylu et al., 2016).

In letteratura sono presenti differenti classificazioni delle distorsioni cognitive legate al gioco d’azzardo. Ad esempio, Toneatto et al. (1997) ne hanno proposto tre tipologie: l’illusione di controllo, che implica la convinzione di poter controllare i risultati attraverso la messa in atto di rituali o il possesso di oggetti fortunati; per controllo predittivo, invece, si intende la credenza di poter prevedere gli esiti del gioco sulla base di modelli precedenti; infine, i pregiudizi interpretativi, determinano una riformulazione delle proprie esperienze, che causa un ricordo selettivo delle vittorie, a discapito delle perdite, che vengono dunque dimenticate. Nel 2004, Raylu e Oei hanno proposto due ulteriori distorsioni: le aspettative legate al gioco, che implicano la convinzione che il gioco determinerà una sensazione di benessere, e l’incapacità di smettere di giocare, che si riferisce all’impotenza di poter controllare e/o modificare il proprio comportamento problematico.

Le distorsioni appena descritte sono state “formalizzate” in uno strumento di autovalutazione e costituiscono le sotto-scale della Gambling Related Cognition Scale (GRCS; Raylu & Oei, 2004)

Le distorsioni cognitive implicate nel gioco d’azzardo sembrano essere correlate alla gravità del comportamento; difatti, all’aumentare di quest’ultima, aumenta l’intensità delle distorsioni legate al gioco (Romo et al., 2016).

Il trattamento del gioco d’azzardo e le distorsioni legate a questa tipologia di disturbo possono essere complicati da ulteriori disturbi psichiatrici e, all’oggi, alcuni studi hanno esplorato la misura in cui i disturbi psichiatrici concomitanti possono influenzare i risultati del trattamento. Ad esempio, si è visto come i disturbi d’ansia sono associati all’abbandono del programma (Echeburua & Fernandez-Montalvo, 2005). Pochi studi però si sono proposti di indagare in che misura i disturbi concomitanti influenzino le distorsioni cognitive legate al gioco d’azzardo e ciò è dovuto al fatto che la maggior parte della ricerca su questa tipologia di disturbo è stata condotta su campioni appartenenti alla popolazione generale o su pazienti ambulatoriali, dove vi è una minor possibilità di valutare le condizioni concomitanti, e non su pazienti affetti da un disturbo da gioco d’azzardo in assistenza residenziale, che potrebbero sperimentare un pensiero distorto correlato al gioco più significativo.

Gli studi che si sono proposti di indagare gli effetti del trattamento sulle distorsioni cognitive legate al gioco d’azzardo, hanno portato a risultati discordanti, suggerendo che alcuni individui possano trarne maggior beneficio rispetto ad altri (Breen et al., 2001; Michalczuck et al., 2011).

In uno studio svolto nel 2019, alcuni autori si sono proposti di colmare alcune lacune presenti in letteratura, indagando nello specifico se, all’inizio del trattamento, vi fossero fattori demografici e clinici associati a livelli più alti di distorsioni cognitive; ulteriormente, hanno deciso di accertare se le distorsioni cognitive legate al gioco d’azzardo cambiassero entro la fine del percorso terapeutico e se esse fossero predittive dei miglioramenti e/o dell’abbandono del trattamento. Gli autori hanno inoltre ipotizzato che la concomitanza di altri problemi di salute mentale sarebbero stati associati ad alti livelli di distorsioni cognitive.

L’indagine è stata condotta su un campione di 125 soggetti affetti da un disturbo da gioco d’azzardo patologico, di differente severità, che avevano preso parte ad un percorso residenziale all’interno di una struttura in Canada.

Al fine di valutare le distorsioni cognitive specifiche del gioco d’azzardo è stata utilizzata la Gambling Related Cognitions Scale (GRCS; Raylu & Oei, 2004), mentre la Behavior and Symptom Identification Scale (BASIS-32; Eisen et al., 1999) è stata impiegata al fine di valutare lo stato psichico e le sue modificazioni durante il trattamento, tenendo conto del punto di vista del paziente. Essa valuta differenti elementi, dai rapporti interpersonali al rischio suicidario, l’impulsività e le capacità della vita quotidiana. Infine, gli autori hanno valutato il numero di giorni in cui i pazienti avevano seguito il trattamento. È bene specificare che il programma residenziale in questione prevedeva che i soggetti seguissero un trattamento della durata di 19 giorni.

Le correlazioni effettuate hanno mostrato che la giovane età e la gravità del disturbo da gioco d’azzardo, erano associati a livelli più elevati del bias interpretativo e di distorsione del controllo, mentre, all’aumentare dei sintomi caratterizzanti il disturbo da gioco d’azzardo, aumentavano anche i livelli di incapacità di smettere di giocare. Inoltre, coerentemente con quanto ipotizzato, nel confronto tra il pre e post trattamento sono state osservate riduzioni clinicamente e statisticamente significative in tutte le sotto-scale GRCS. Gli autori hanno dunque concluso che il trattamento residenziale ha determinato delle considerevoli riduzioni nelle distorsioni cognitive dei pazienti. Nello specifico, coloro i quali avevano ottenuto punteggi più alti nel BASIS-32 e che mostravano una maggior gravità del disturbo da gioco d’azzardo, avevano mostrato maggiori riduzioni.

Ulteriormente, alcuni fattori, tra cui la giovane età, l’impulsività e il bias di controllo predittivo, si sono rivelati predittivi del fallimento del trattamento.

La credenza di poter prevedere gli esiti del gioco sulla base di modelli precedenti è dunque potenzialmente associata a risultati peggiori del trattamento.

Gli autori hanno dunque concluso, nonostante i limiti dello studio, che i giocatori d’azzardo problematici si presentano nelle strutture residenziali con un pensiero distorto sul gioco e gli individui che presentano difficoltà psichiatriche concomitanti mostrano una maggior tendenza alla distorsione. Insieme, questi risultati rivelano l’importanza delle distorsioni cognitive sia per la comprensione del ruolo di questo meccanismo nel disturbo del gioco d’azzardo, sia per identificare le distorsioni come potenziali bersagli del trattamento del gioco d’azzardo.

 

Invecchiamento cerebrale, Disturbo da Stress Post Traumatico e gene Klotho

Un recente studio ha evidenziato che il disturbo da stress post traumatico (PTSD) è spesso associato ad una variante del gene Klotho e ciò favorisce la comparsa di un invecchiamento celebrale precoce.

 

Nel ventesimo secolo l’aspettativa di vita si è notevolmente allungata passando, nei paesi occidentali, da circa 50 ad oltre 80 anni. Questo ha generato un’emergenza medico-sociale legata all’aumento della comparsa di malattie neurodegenerative conosciuta come age-related neurological disease and dysfunction (Christiane Reitz and Richard Mayeux 2010). Uno dei temi che, negli ultimi anni, ha catturato l’attenzione della comunità scientifica è quello dell’invecchiamento, tuttavia i processi della senescenza sono ancora in parte sconosciuti.

L’invecchiamento è un fenomeno complesso e non limitato semplicemente all’età cronologica (Giumelli 1998). L’inizio dell’invecchiamento biologico nell’uomo coincide con la fine della fase dell’accrescimento. Esistono diversi fattori di ordine organico, sociale e psicologico, che concorrono al processo d’invecchiamento sia fisiologico che patologico. Per quel che riguarda i fattori biologici, sono molti i meccanismi biochimici alla base dell’invecchiamento (Johnson FB, Sinclair DA, Guarente L 1999), tra questi i processi ossidativi che alterano le macromolecole organiche e una serie di modificazioni di DNA, RNA e proteine che nel corso degli anni si accumulano nelle cellule (Carrieri G., Marzi E., Olivieri Fetal 2004). Attualmente anche i meccanismi e i fattori dell’infiammazione sono ritenuti importanti nell’influenzare e accelerare il processo d’invecchiamento cellulare (Grammas P et al. 2001).

L’invecchiamento cerebrale consiste in una serie di alterazioni che si possono così sintetizzare (Bozzao A., Cifani A., Guglielmo A. 1993):

  • diminuzione irreversibile del numero dei neuroni
  • rallentamento progressivo nella produzione di neurotrasmettitori
  • funzionamento sempre meno efficace dei meccanismi di regolazione omeostatica
  • aumento progressivo delle cellule gliali che si sostituiscono ai neuroni
  • comparsa di “placche” dette senili perché ritenute esclusive dell’età avanzata
  • riduzione del metabolismo e del flusso cerebrale

Queste alterazioni corrispondono sul piano sintomatologico ad un decadimento cognitivo caratterizato da deficit della memoria, difficoltà nell’apprendere nuove informazioni e calo di prestazione nell’elaborare più attività contemporaneamente.

Nella maggior parte dei casi la senescenza si accompagna al declino di una serie di abilità funzionali, cognitive e comportamentali, tuttavia l’invecchiamento cognitivo presenta una grande variabilità inter individuale, rispetto ai cambiamenti, dipendenti dall’età, a livello chimico, strutturale e funzionale del cervello (Cadar D, Pihkart H, Mishra G, Stephen A, Kuh D, Richards M. 2012). Questa variabilità è legata non solo a fattori biologici ma anche a componenti ambientali e culturali, come afferma Vittorino Andreoli (15 aprile 2015, Incontro con gli assistenti sociali): ‘la vecchiaia è espressione di una biologia in un ambiente, inteso come un intreccio di interazioni psicologiche, politiche, sociali, culturali’.

Rispetto ai fattori biologici, negli ultimi anni, molti studi si sono concentrati su una proteina, prodotta da reni e cervello, denominata Klotho e codificata dal gene FGF23-Sialidai detto anche gene Klotho (Erben RG, Andrukhova O, 2017). Alterazioni di questo gene sono associate, almeno nel topo, ad un invecchiamento precoce. In particolare, l’alterazione del gene FGF23 determina una modificazione della morfologia neuronale e della densità sinaptica a livello cerebrale (Yokoyama JS. Strum VE., Bonham LW. Et al. 2015)

Un gruppo di ricercatori del National Center for PTSD del VA Boston Healthcare System e della Boston University School of Medicine ha recentemente condotto una ricerca che ha portato a concludere che il disturbo da stress post traumatico può interagire con una variante del gene Klotho favorendo una prematura neurodegenerazione (Erika J. Wolf, Ci-Di Chen, Xiang Zhao, Zhenwei Zhou,et al. 2020 PTSD Interacts with Klotho Gene, May Cause Premature Aging in the Brain )

Utilizzando i dati di individui che hanno donato il loro cervello alla VA National PTSD Brain Bank, i ricercatori hanno esaminato come la variazione genetica e lo stato di PTSD interagivano tra loro per prevedere l’età biologica e l’espressione genica. Hanno scoperto che gli anziani con disturbo da stress post-traumatico che presentavano un invecchiamento epigenetico accelerato nel tessuto cerebrale possedevano una particolare variante del gene klotho. Esperimenti molecolari di follow-up hanno dimostrato che questa variante genera conseguenze funzionali.

Sia il disturbo da stress post-traumatico che il klotho influenzano l’infiammazione.

Lo stress di basso livello ed acuto è accompagnato da un aumento della funzione immunitaria, mentre un elevato periodo di stress è legato alla immunosoppressione. Questa ipotesi trova il suo razionale negli effetti negativi sulla formazione di nuovi neuroni e sul trofismo dendritico indotti dall’incremento plasmatico dei livelli di cortisolo e di alcune interleuchine pro-infiammatorie che si ritrovano tipicamente aumentati nello stress cronico e anche nella depressione e nel disturbo da stress post-traumatico (G. Biggio, M.C. Mostallino 2013).

Secondo Erika Wolf, psicologa del Centro nazionale per il disturbo da stress post-traumatico di Boston, l’interazione tra PTSD e gene Klotopermette di disporre di ulteriori strumenti per individuare i soggetti che sono a maggior rischio di un invecchiamento cellulare accelerato, con possibile conseguente insorgenza prematura di alcune patologie, come le malattie neurodegenerative. Inoltre, i risultati indicano potenziali bersagli terapeutici (klotho) nello sviluppo di approcci farmacologici per rallentare il ritmo dell’invecchiamento cellulare‘.

 

Gli effetti del rimuginio e della ruminazione nel sonno

Rimuginio, ruminazione e sonno: studi con PET ed EEG dimostrano come in soggetti affetti da disturbi del sonno sia presente una maggior attivazione cognitiva che rimane tale anche durante il sonno.

Antonella Danesi – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

A chiunque sarà capitato di pensare ripetutamente ad un evento del passato o alle conseguenze di una scelta presa, al fine di trovare nella riflessione la possibilità di compiere azioni migliori. Allo stesso modo, in vista di un evento importante, sarà capitato a tutti di essere particolarmente preoccupati e di aver riflettuto attraverso pensieri e previsioni negative, spesso smentite dall’effettivo esito.

Il pensiero ripetitivo, tipico di questi momenti di riflessione, non rappresenta di per sé un processo disfunzionale o patogeno, poiché risulta essere necessario ed atto a trovare soluzioni ad un problema o a prendere una decisione.

Questi processi, comunemente chiamati rimuginio e ruminazione, sono strategie di regolazione emotiva definibile come la capacità di operare volontariamente sui propri processi mentali, ed che è tesa al raggiungimento degli scopi e al miglioramento dell’adattamento alla realtà.

Tuttavia, tali processi perdono la loro funzionalità quando il soggetto rimane bloccato in pensieri che si ripetono ininterrottamente e che ostacolano sempre di più il raggiungimento della soluzione desiderata.

Il rimuginio

Il rimuginio o worry, studiato per la prima volta da Tom Borkovec nelle sue ricerche sull’insonnia (Borkovec, Ray, Stober, 1998), è definito come una forma di pensiero ripetitivo, negativo e analitico. Il rimuginio può esser definito come un’attività mentale che implica una costruzione ripetuta di ipotetici scenari futuri negativi (Caselli, Ruggiero, Sassaroli, 2017). È un fenomeno clinico presente in un ampio spettro di disturbi psicologici ma è strettamente legato all’ansia pertanto è piuttosto presente nel Disturbo d’Ansia Generalizzata.

Ciò che caratterizza tale fenomeno mentale, in cui prevalgono valutazioni di natura verbale e astratta, è la presenza di pensieri ripetitivi, pervasivi, negativi se non catastrofici, riferiti ad eventi futuri che sono vissuti come incontrollabili e intrusivi.

Il rimuginatore, avendo un elevato timore delle conseguenze negative degli eventi, tende a tenere tutto estremamente sotto controllo, con l’obiettivo che si evitino le previsioni temute. Il soggetto pertanto, tende a ripetere mentalmente con dialogo interno – caratterizzato per lo più da frasi mentali – gli elementi della situazione problematica, con predizioni catastrofiche relative alla sua evoluzione. Ciò porta ad un’incapacità di scegliere una soluzione e una risposta funzionale al pericolo sul piano operativo, poiché ogni risoluzione viene giudicata dal soggetto come inadeguata e non risolutiva. In tal modo, questa modalità ripetitiva di pensiero risulta essere priva di concretezza ed è caratterizzata da una scarsa elaborazione di piani di coping funzionali.

Alla base di questo processo vi è la convinzione, da parte del soggetto rimuginatore, che questa attività mentale sia una efficace strategia da adottare per fronteggiare situazioni considerate minacciose e, pertanto, complesse da gestire. Attraverso questa modalità di pensiero ripetitivo l’individuo, infatti, crede invano di poter risolvere il problema o di poter ridurre la probabilità che si verifichi.

Alla lunga questa strategia si può cronicizzare, divenendo maladattiva e inducendo in chi rimugina una percezione di sé come debole, fragile, incapace di affrontare i problemi, accompagnata dalla costante sensazione di essere soggiogato da un futuro pericoloso e ingestibile (Clark & Beck, 2010).

Nonostante vi siano, da parte del soggetto, delle credenze relative all’utilità del rimuginio, esistono evidenze sulle ripercussioni negative di questa modalità che vanno ad inficiare la qualità ed il benessere dell’individuo. Dal punto di vista cognitivo il rimuginio riduce le risorse associate alla working memory e, di conseguenza, provocherà difficoltà legate alla concentrazione e attenzione. Risulta inoltre inficiata la capacità di problem solving, dal momento in cui si adotta il rimuginio come strategia elettiva. Il rimuginio cronico, implicando uno stato continuo di allerta verso una possibile minaccia, può provocare tensione muscolare, alterazioni del ritmo-sonno veglia, irritabilità, nausea, dolore cronico e danni alle coronarie in soggetti anziani.

La ruminazione

La ruminazione è un processo cognitivo molto simile al rimuginio, in quanto condivide con esso la ripetitività e la natura negativa ed astratta. Entrambi i processi rappresentano strategie di pensiero ritenute utili da adottare nelle situazioni difficili da gestire e finalizzate all’evitamento delle esperienze interne negative.

La differenza tra le due modalità risiede nel fatto che il rimuginio è rivolto ad eventuali minacce future e riguarda l’evitamento o la prevenzione del pericolo; la ruminazione si focalizza, invece, su eventi passati o stati emotivi presenti, configurandosi come un’attività analitica, volta alla comprensione o attribuzione di significato spesso rintracciabile nel proprio vissuto o nel proprio comportamento. Si configura, in sintesi, come un costante riesame di situazioni passate (Caselli, Ruggiero, Sassaroli, 2017).

La ruminazione, per le sue caratteristiche, tende a generare e mantenere l’emozione di tristezza ed è strettamente connessa con temi di fallimento e perdita, per esempio la fine di una relazione sentimentale, una perdita sul lavoro, un lutto. In tal senso, appare piuttosto inevitabile che la ruminazione rappresenti un processo associato tipicamente a disturbi depressivi (Clark, Beck, Brown, 1989), ma anche a sintomi da stress post-traumatico (Nolem-Hoeksema, Morrow, 1991) e recentemente è stato indagato il suo ruolo anche nel disturbo borderline.

Come il rimuginio, anche la ruminazione può essere considerata una strategia di evitamento cognitivo, poiché alla base di questa attività mentale vi è la credenza positiva che ruminare aiuti a risolvere i propri problemi, a trovare un significato alla propria vita grazie alla comprensione del passato, a conoscere le motivazioni per cui avvengono determinate cose.

Tuttavia questi benefici e credenze positive riferiti, sono stati disconfermati dai dati relativi all’elaborazione dell’amigdala. E’ stato infatti osservato che quando ai ruminatori sono presentati stimoli emozionali negativi, l’amigdala mostra un’attivazione sostenuta, rispetto a quanto accade invece nei non ruminatori (Ray et al. 2005), che contribuisce all’aggravamento e al mantenimento della disforia.

In aggiunta, la mancata risoluzione del problema andrà a rinforzare l’idea di sé come inadeguato e incapace e l’utilizzo prolungato di questa modalità di gestione, peggiora lo stato d’animo negativo provocando un abbassamento del tono dell’umore e una distorsione negativa relativa alla percezione di sé e dell’ambiente (Wells, 2009).

La ruminazione, al pari del rimuginio, può avere implicazioni clinicamente significative sul piano cognitivo, in quanto richiede ed esaurisce le risorse cognitive che potrebbero essere utilizzate per risolvere problemi, raggiungere i propri obiettivi o semplicemente svolgere le normali attività quotidiane.

Gli effetti dei pensieri ripetitivi sul sonno

Le evidenze suggeriscono che i processi cognitivi ripetitivi e metacognitivi, legati al sonno e alla preoccupazione di non riuscire a dormire, svolgono un ruolo centrale nell’eziologia e nel mantenimento dei disturbi del sonno e ciò, nel tempo, ha favorito maggiori approfondimenti nello studio dei meccanismi cognitivi legati a tali disturbi. Studi con PET ed EEG dimostrano, infatti, che in soggetti affetti da disturbi del sonno sia presente una maggior attivazione cognitiva la quale rimane tale anche durante il sonno. Le alte frequenze dell’attività dell’elettroencefalogramma (EEG) sono connesse a processi del pensiero che appaiono maggiormente presenti in soggetti che soffrono di insonnia al momento di iniziare a dormire o di mantenere il sonno. Molti individui che soffrono d’insonnia psicofisiologica, appunto, riportano che gli eventi mentali ostacolano il raggiungimento e mantenimento del proprio sonno.

Studi correlazionali hanno evidenziato, tuttavia, difficoltà del sonno anche in soggetti che non avevano un vero e proprio disturbo. A questo proposito, è stato dimostrato che studenti universitari che manifestano alti livelli di rimuginio, segnalano periodi di sonno più brevi (Kelly, 2002) e che le preoccupazioni legate al lavoro sono associate ad una scarsa qualità del sonno (Rodríguez-Muñoz, Notelaers e Moreno-Jiménez, 2011).

I meccanismi relativi ai pensieri e il modo con cui essi condizionano il sonno sono stati oggetto di grande interesse da parte di studiosi. I primi studi, risalenti agli anni 60 e 70 erano principalmente rivolti ad evidenziare il ruolo dei pensieri ripetitivi relativi al non riuscire a dormire e a constatare quanto le aspettative influenzassero la manifestazione dei sintomi dell’insonnia.

Nel corso degli studi è stata presa in considerazione anche la percezione del proprio sonno che ha permesso di dimostrare come i soggetti con tale disturbo tendano a sovrastimare il tempo di latenza necessario per addormentarsi, e a sottostimare il tempo totale di sonno. Studi recenti, poi, hanno confermato l’importanza della percezione soggettiva di come sia trascorsa la notte nel mantenimento del disturbo.

Lo studio di Lichstein e Rosenthal (Lichstein & Rosenthal 1980) sui pensieri intrusivi ha evidenziato come i soggetti attribuissero a fattori cognitivi quali rimuginio, mancato controllo sui pensieri, ruminazioni, le cause dei disturbi del sonno piuttosto che a fattori somatici. Questo studio ha portato a successive indagini finalizzate a cogliere la relazione tra attivazione cognitiva e misurazione del sonno e a considerare l’insonnia come un disturbo dettato dall’incapacità di interrompere immagini e pensieri intrusivi prima di addormentarsi.

Al fine di confermare tali studi basati su resoconti personali, sono state condotte ricerche sperimentali sul tema, che hanno constatato l’importanza delle preoccupazioni e dell’incapacità di distrarsi nelle persone con difficoltà nel sonno (Haynes et al. 1981; Gross & Borkovec 1982).

Esistono recenti evidenze sulla relazione tra aumento di stress e scarsa qualità del sonno che rappresenta un fattore di rischio per lo sviluppo di malattie mentali e fisiche. Tale relazione è supportata dalla cognizione: un aumento di stress percepito e uno scarso sonno possono aumentare la percezione di un cattivo funzionamento, che a sua volta può contribuire alla percezione di un maggiore stress e di conseguenza di una scarsa qualità del sonno.

Un fattore che media la relazione disadattiva tra stress e qualità del sonno è l’attivazione pre-sonno che si verifica durante il periodo di insorgenza del sonno. Tale attivazione può essere cognitiva, cioè dovuta alla presenza di processi quali ruminazioni, rimuginio, e/o somatica, cioè esperita attraverso manifestazioni fisiologiche quali, ad esempio, elevata frequenza cardiaca o sudorazione. I risultati di questo studio indicano che l’attivazione cognitiva ha un effetto maggiore sulla relazione stress-sonno, rispetto all’attivazione somatica. Questi risultati sono coerenti con il modello cognitivo proposto da Harvey (Harvey, 2002; 2005; Espie et al. 2006) secondo cui l’insonnia sarebbe provocata da una ‘cascata’ di processi cognitivi presenti sia di notte che di giorno. Tale modello sostiene che i soggetti con insonnia soffrono di pensieri intrusivi negativi ed eccessiva paura durante il periodo di pre- addormentamento. Tali paure e ruminazioni provocano un’attivazione fisiologico/emotiva e stress, uno stato ansioso che determina un restringimento del focus attentivo che, a sua volta, porta a monitorare stimoli esterni o stimoli interni che minacciano il sonno. Essendo alto il livello di attenzione e di attivazione, le probabilità di percepire stimoli minacciosi, aumentano. Gli individui, in tal modo, sono portati a sovrastimare l’entità del disturbo e delle conseguenze diurne ma, tuttavia, credono che preoccuparsi prima di addormentarsi porti a dei risultati positivi  Questi processi di sovrastima e sovra attenzione incrementano lo stato di paura iniziale e preoccupazione. In tal modo, tutto ciò va a tradursi come un processo di auto-rinforzo che ritarda l’insorgenza del sonno e che, di conseguenza, mantiene il disturbo. In definitiva, l’attivazione somatica, sebbene abbia un minor impatto rispetto a quella cognitiva, rappresenta tuttavia una parte sostanziale nella relazione stress-sonno, come ulteriormente dimostrato dal modello di Harvey.

Dal momento che la maggior parte dei soggetti insonni ritengono che l’incapacità di gestire i loro pensieri indesiderati sia la causa del problema, spesso mostrano tentativi di fermarli, modificarli o sopprimerli che, oltre ad essere vani, non fanno altro che mantenere l’attivazione cognitiva.

Conoscere approfonditamente questi modelli ha permesso di verificare come i processi ripetitivi del pensiero siano fondamentali nello sviluppo e mantenimento di disturbi legati al sonno. Questi studi, inoltre, permettono di pianificare piani di trattamento e l’adozione di tecniche specifiche ed efficaci per far fronte a queste difficoltà. L’American Academy of Sleep Medicine’s Practice Parameters ha indicato la Terapia cognitivo comportamentale, come il trattamento di prima scelta per l’insonnia primaria (Smith & Perlis 2006).

 

Il dialogo strategico nella terapia breve

Il colloquio clinico in terapia, secondo l’approccio della terapia breve strategica, ha l’obiettivo di indurre cambiamenti radicali nella percezione della realtà soggettiva disfunzionale del paziente.

 

Il dialogo strategico (Nardone, G.; Salvini, S. 2004) è una tecnica sofisticata di conduzione di colloquio che ci permette di portare il paziente alla scoperta di nuove prospettive che a lui erano prima invisibili, attraverso specifiche domande e alternative di risposte. Nel corso degli anni il dialogo strategico applicato non solo all’ambito terapeutico ma anche manageriale e al problem solving è stato validato come uno strumento molto efficace per produrre il cambiamento poiché si tratta di una tecnica rigorosa ma flessibile. Nel contesto clinico, ma non solo, il fine è quello di portare alla rottura della percezione e conseguente reazione disfunzionale del paziente.

Già la fase della definizione del problema rappresenta un primo passo fondamentale per riuscire ad avere l’immagine più accurata possibile su quale sia la mappa rappresentazionale del paziente ovvero quale sia la sua esclusiva e del tutto soggettiva ‘realtà di secondo ordine’ per dirla alla Watzlawich oppure a quello che Bandler chiama struttura profonda (Bandler R., Grinder J. 1975). Il linguaggio è il nostro principale mezzo di rappresentazione della realtà ed al tempo stesso è lo strumento per la comunicazione della rappresentazione del mondo. La sequenza delle domande non è mai prestabilita ma si adatta sempre alla particolarità del paziente. La maestrìa del clinico si avvale di domande discriminanti che guidano alla comprensione del problema e all’obiettivo da perseguire, domande orientanti che aiutano il soggetto a ‘sentire’ come il problema si mantiene e come egli ne sia parte attiva del mantenimento attraverso le sue azioni e le sue ‘tentate soluzioni’, domande ad illusione di alternative (focalizzate sulle modalità ridondanti di percepire e reagire nei confronti di un dato problema o situazione) per far scoprire attivamente l’esigenza di modificare il proprio comportamento.

Ingredienti fondamentali del dialogo strategico sono le parafrasi ristrutturanti e l’uso di un linguaggio fortemente evocativo.

Il linguaggio ed in particolare le parafrasi creano ‘relazione con il paziente’ e abbassano le resistenze al cambiamento

Le parafrasi creano ‘compliance’ terapeutica poiché provano al paziente che abbiamo compreso ciò che ci viene espresso ed allo stesso tempo confermano al terapeuta che sta andando nella strada giusta; il linguaggio analogico può essere usato dal terapeuta per far ‘sentire’ al paziente come uno specifico problema funziona e può creare avversione piuttosto che desiderio rispetto ad un determinato comportamento. L’uso di metafore e analogie, sapientemente seguito da ristrutturazioni più logiche, rappresenta un ottimo strumento per abbassare le inevitabili resistenze al cambiamento che ogni paziente porta con sé.

Con le parole di Haley: ‘…la tecnica analogica o metaforica è particolarmente efficace con soggetti resistenti, dato che è difficile che una persona si opponga ad una suggestione che non è consapevole di ricevere‘ (Haley, 1976).

La parte finale del dialogo fa riferimento al riassumere per ridefinire, in cui una ristrutturazione globale sarà finalizzata a consolidare l’inevitabile esigenza di mettere in atto comportamenti diversi in relazione al problema.

Tutto l’iter del dialogo strategico diviene un vero e proprio processo di scoperta congiunto fra paziente e terapeuta che ad ‘imbuto’ mira a scardinare le modalità percettive patogene e le reazioni patologiche relative ad un problema.

…il terapeuta, con sapienti manovre, guida il suo interlocutore ad essere l’attore protagonista della scena in modo tale che si persuada di ciò che egli stesso sente e scopre’ (Nardone G., Salvini, A. 2004, pag 6).

Il dialogo strategico, se ben strutturato, porta il paziente a sentire la necessità di cambiare, cioè, a partire da un processo persuasivo, si arriva a far si che il cambiamento sia spontaneo. Esso conduce l’interlocutore non a capire ma a sentire differentemente. Per questo motivo molto spesso il primo colloquio rappresenta già un’esperienza emozionale correttiva nei confronti del problema. L’ultima fase del dialogo strategico è il prescrivere ovvero il momento in cui si concorda ciò che dovrebbe essere messo in atto per il cambiamento oppure ciò che il terapeuta richiede sottoforma di indicazione terapeutica (stratagemma) poiché riconosce un certo tipo di ridondanza ascrivibile a quel determinato disturbo e/o sistema percettivo reattivo.

 

“Assetati di cibo” – La psicologia delle voglie alimentari

Tramite le informazioni provenienti principalmente dall’educazione familiare o reperite con strumenti tecnologici, dalle conoscenze o dal sapere dei professionisti ‘addomestichiamo’ le sinapsi legate al consumo alimentare e quindi la nostra alimentazione.

 

Il Desiderio è una tensione interiore in simbiosi con le opportunità che si possono ricavare dall’ambiente, dalle scelte che quest’ultimo è in grado di offrirci: bibite gassate, patatine in busta, biscotti, dolciumi… con l’intenzione di consumarli nell’intimo spazio di un armadio o del frigo di casa alla stregua della famosa scena del film Joker.

Isolarsi, nascondersi, rimanere nel buio… per non essere visti da una società che difende i sintomi bulimici e anoressici e concepisce la dieta come un montaggio di un film di epoca vittoriana.

Un collage variegato, e spesso disarmonico, dal sapore di nuovo e di antico: primordiale è l’istinto che si scontra con l’ambiente contemporaneo in cui le ‘scelte non si scelgono’. (Quante scelte abbiamo di resistere davanti ad un barattolo di Nutella?)

Così, veniamo scelti dal prodotto di turno in un vortice alimentare di facile attribuzione: è la definizione di addiction (‘dipendenza’).

L’aspetto multidimensionale del desiderio alimentare

Il desiderio di un cibo è multidimensionale e dipende da fattori cognitivi e associazioni condizionanti, l’educazione in primis: come mangiamo, con quale velocità consumiamo il pasto, quali cibi siamo stati educati a scegliere (educazione gustativa), etc.; biologici/genetici/epigenetici (predisposizioni individuali o, finanche, patologie); ambientali (stress, inquinamento, circostanze che limitano l’attività corporea); sociali… e via dicendo.

In tutti questi fattori emergono due aspetti fondamentali:

  • la causa delle voglie alimentari;
  • il senso che detiene l’attività dello stimolo, il suo ‘comportamento’, ovvero l’intensità e la durata di quella voglia che ci spinge a consumare determinati alimenti.

Fermandoci a discutere su quest’ultimo (dato che il primo punto necessita una trattazione a parte), possiamo concepire il desiderio, la voglia alimentare, come una risposta condizionata (un comportamento appreso nel tempo) che emerge quando i segnali interni o esterni (stati d’animo, emozioni, educazione, pressioni ambientali) sono stati precedentemente associati all’assunzione di determinati comportamenti alimentari (ricordiamo che i fenomeni di fame, sete e sazietà non sono solo innati ma emergono probabilisticamente in funzione dell’esperienza durante lo sviluppo individuale; Harshaw, 2008).

Sei un mangiatore sobrio o assetato?

Il nostro cervello si nutre – oltre che di energia proveniente dagli alimenti – di stimoli esterni. Un prigioniero in isolamento, dopo qualche settimana può andare incontro a vere e proprie allucinazioni. È la capacità del cervello di creare stimoli!

Alimenti sani e Stimoli (esterni e interni) equilibrati sono essenziali per il suo buon funzionamento psico-corporeo. Uno stimolo interno può essere ‘la voglia di un particolare cibo’; uno stimolo esterno ‘la sua estetica, oltre le qualità sensoriali, come il sapore’. Noi tutti siamo provvisti di stimoli/voglie interne variabili che generano peculiarità differenti nella realtà alimentare, dando vita ad esperienze altrettanto variabili e, quindi, a consumi alimentari differenti: veloci o lenti (come assaporare un boccone alla stregua di quel famoso spot pubblicitario sulla mozzarella); distratte o concentrate sui sensi (focusing); ‘calde’, intense ed emozionanti (come nella fame emotiva); fredde (come nella bigoressia) e via dicendo.

Con quali modalità consumerai il tuo prossimo pasto?

L’incontro tra questi due stimoli (interno ed esterno), ripetuto nel tempo, crea dei collegamenti stabili (sinapsi) tra le nostre cellule cerebrali, vere e proprie strade dove passa l’impulso nervoso. Per tale motivi ogni persona ha un modo diverso di consumare il proprio pasto. E questo dipende anche dalle informazioni incamerate capaci di modificare i nostri comportamenti. In altri termini tramite le informazioni – provenienti principalmente dall’educazione familiare o da quelle reperite con strumenti tecnologici; dalle conoscenze o sapere dei professionisti (nutrizionisti, dietologici, psicologici, ecc.) – ‘addomestichiamo’ le sinapsi legate al consumo alimentare.

Questo giustifica, in parte, il suddetto riferimento ai restrained eaters (‘mangiatori sobri’) e food cravers (‘assetati di cibo’). Ad esempio, ricompensare un bambino con del cibo dopo un comportamento ritenuto idoneo (stimolo)  – o spingerlo a consumare tutto quello che c’è nel piatto – svalutando la (sua) sazietà percepita come ‘bussola’ della quantità di cibo da introdurre, rappresenta, a luogo andare, un modo per renderlo incapace di gestire le proprie ‘tensioni’ interiori legate alla voglia di un determinato alimento.

Estinzione dello stimolo legata al sovrappeso

La restrizione calorica, seppur a volte quasi ridicolizzata da molte diete in voga, dal punto di vista psicologico, porta ad una diminuzione del desiderio di cibo, che può essere dovuta a processi di estinzione delle sinapsi legati al comportamento appreso, ovvero all’indebolimento di quei collegamenti cerebrali legati a risposte condizionate precedentemente acquisite.

In linea con questo principio, si pone in evidenza la ridotta frequenza (ma non la quantità) dei pasti consumati che si correla alla riduzione dell’appetito per specifici alimenti (Apolzan e colleghi, 2017). In altri termini, non mangiare determinati cibi per diverse settimane può ‘disaccoppiare’ le associazioni apprese (es., evitare di mangiare la sera il cioccolato, come da abitudine) in modo che determinati segnali (la sera) non attivino più una risposta condizionata (consumare il cioccolato).

La deprivazione edonica

La dieta, spesso basata sulla deprivazione edonica (vietare alcuni cibi e consentirne altri), nel breve periodo può generare voglie nei confronti dei cibi che proibisce. Tali voglie possono essere mediate principalmente da meccanismi fisiologici (e.g. deprivazione nutrizionale) o psicologici (e.g. soppressione della voglia alimentare).

Studi sperimentali suggeriscono che una privazione alimentare selettiva a breve termine sembra effettivamente aumentare il desiderio dei cibi evitati. Tuttavia, gli stessi studi (in calce) dimostrano che il desiderio di cibo può essere inteso come una risposta condizionata che può anche essere disimparata. Ciò è supportato da studi di intervento che indicano che la restrizione energetica a lungo termine si traduce in una riduzione del desiderio di cibo negli adulti in sovrappeso.

 

La strada (2006) Ding an sich – Recensione del libro

Il libro La strada è una finestra… Si apre su un mondo desolato, finito, fatto a pezzi.

 

Non si sanno i motivi di questa visione apocalittica. Dapprima la spinta che si prova, che almeno io ho provato, è di una curiosità a sapere i motivi per i quali si è arrivati a questo punto, a questa desolazione. Rari flashback della mente del protagonista ce ne danno un assaggio ma poco alla volta anche il lettore viene avvolto da questo mondo triste e desolato. Un mondo nel quale non è rimasto nulla, solo terra bruciata.

La finestra si apre su un pezzo di vita di un padre e di un bambino (suo figlio) che si ritrovano a vagare per le strade in cerca dei buoni. Il mondo è ridotto all’essenziale: i buoni da un lato, i cattivi dall’altro, la necessità di sopravvivere, di procacciarsi il cibo, un riparo e dei vestiti per il freddo e nulla di più… E una speranza, quella di raggiungere il sud, nel quale (forse), trovare una comune dove altre persone (i buoni) possano essersi radunati e con loro ricominciare. Un forse che è tutto ciò che è possibile ottenere dalle tenebre che hanno avvolto il mondo. Poco alla volta quelle tenebre avvolgono anche il lettore che smette di chiedersi i motivi per i quali il mondo è stato ridotto in cenere e vive, vive anche lui nella speranza che esista un ‘forse’, laggiù, in un futuro, nel sud.

Il mondo è stato spogliato di tutto e così anche le persone. Non hanno nome i protagonisti, in un mondo ormai caotico dove l’ordine è ridotto all’essenziale (buoni/cattivi – vivere/morire) anche le persone sono ridotte all’essenziale: e fisicamente e psichicamente.

Se ti sparo non sentirai il rumore… La pallottola viaggia più veloce della luce e ti entrerebbe dal lobo frontale dove distrugge tutte le strutture necessarie a sentire’, disse l’uomo. ‘Lei è un medico?‘ rispose l’altro (McCarthy, 2006, p.50) . Ma l’uomo non disse né di sì né di no… Ormai non contava più… Solo per necessità di scrittura si potevano distinguere l’uomo dal bambino… Ma erano distinzioni ormai inutili: la vita ridotta all’essenziale non necessita di nulla di ciò con cui la società (come noi la conosciamo) si è venuta a costruire. Non la professione, nemmeno il nome proprio. Tutto è stato spogliato di tutto. Il mondo è vuoto, cenere… Gli uomini sono nudi e messi a nudo assieme alla loro capacità distruttiva… Alla loro perfidia che non può essere biasimata: si deve vivere o morire.

Ma mentre si procede nella lettura, si rischia di perdersi in questo mondo ben costruito, che ti assorbe e per poco non credi che i personaggi siano qualcuno, salvo accorgersi che non hanno nulla, nemmeno un nome e, dunque, nemmeno una storia. E, infatti, non si sa chi siamo, come siano arrivati lì, non esiste senso… D’altronde il senso è possibile solo nella relazione. Il nome proprio raccoglie la nostra storia, storia fatta di relazioni con gli altri, in primis con chi quel nome ce lo ha attribuito con una particolare valenza, che solo egli sa e persa ormai nella notte dei tempi. Nessuna storia, nessun nome, nessuna relazione possibile.

In un mondo estremizzato, come quello apocalittico, come quello del libro, se si riesce a conservare un minimo di distacco con il quale osservare le scene che si affacciano alla finestra, emerge la possibilità di vedere il mondo nella sua essenza. Spogliato di tutto si vede il suo nucleo, il magma che accende la vita e che, nel libro, è forse stata spenta per sempre, da cosa non è dato saperlo e forse non è nemmeno importante.

Come si evince dal libro ‘Anatomy of minimum’ (Pawson, 2019) occorre ridurre le cose all’essenziale, spogliarle per vedere davvero. Come nella scultura occorre levare per vedere qualcosa apparire. Togliere per vedere, provare per far nascere. È la vita, la vita fatta di antinomie, di contrari che a fatica si equilibrano e il gioco della vita è questo: sostare su una fune, in bilico assaporando il gusto del brivido.

Così l’autrice spogliando il mondo e anche i suoi personaggi di tutto, della vita, del nome, della storia, della cultura, della società e conservando solo le forme primitive del vivere, fa emergere la struttura latente della vita, troppo spesso mascherata, troppo spesso data per scontata. E quella struttura latente è tutta contenuta nel ‘forse’ che all’uomo e al bambino fa percorrere la strada verso sud. ‘Tu sei coraggioso, papà?’ ‘Il coraggio è ciò che mi ha fatto alzare stamattina’ (McCarthy, 2006, p. 207).

Ma cosa nasconde questo ‘forse’ che fornisce coraggio? Una speranza, nasconde la fede. Una necessità: senza fede non si vive. Una fede che alle volte, nel libro, intercetta Dio ma che più in profondità nasconde la speranza, la fede, di trovare i buoni. Di trovare altri, altre persone… Forse solo allora si potrà, ancora, dire il proprio nome. In fondo, questo ha senso solo in relazione ad altri… Senza altri il nome non serve a nulla se non, non è scontato ma non basta, dare a sé stessi un senso. Ma per vivere al mondo occorre ci sia un altro, un qualsiasi altro da sé: che sia cibo per nutrirsi nel fisico o relazioni per nutrire la mente.

La speranza nel mondo, la fede nel mondo, è la possibilità che esistano i ‘buoni’: altre persone con cui intessere delle relazioni. Relazioni attraverso le quali dare un nome alle persone, alle cose, dare maggiore ordine al mondo oltre alla vita/morte. Far nascere maggiore complessità e, dunque, una cultura, una società. Questo è ciò che angoscia di più il lettore: se non trovassero nulla? Se non ci fossero altre persone, altri con cui intessere relazioni, di cui aver fede allora il mondo non avrebbe senso. La condanna dell’uomo e di poter dare senso, per sua mancanza, solo attraverso la figura dell’altro. Ma se questo manca? Rimane il reale di un mondo a pezzi, una vita destinata solo alla morte… La fatica di vivere giorno per giorno per poi morire. E seppure la vita vuole la vita, se al fondo di ogni corpo, di ogni organismo, del mondo stesso c’è una volontà di vivere, questa da sola non basta poiché, fortunatamente o sfortunatamente, siamo dotati di una psiche che è relazione. E se il corpo vuole la vita e vuole vivere, la psiche vuole dare senso e ordine, costruire e nutrirsi. Ma se il corpo si nutre di cibo fisico la psiche si nutre dei ‘buoni’, di persone (oggetti) da introdurre in essa che diano speranza, fiducia, gratitudine e, in una parola, amore.

L’unico barlume di speranza è un bambino, il bambino protagonista del libro, che non si lascia bruciare da una vita ingiusta. Rimane empatico davanti agli altri e, forse nella sua innocenza, forse per il suo proprio temperamento, ancora sente e vive dentro di lui la paura… Non la nega né la evita, la avverte in sé e, di conseguenza, anche negli altri. E forse è la paura della morte ciò che muove il mondo, la paura di morire nell’assenza, nella solitudine, senza aver dato senso alla propria vita, al mondo che fa nascere relazioni e da queste cultura e socialità. E il bisogno dell’uomo di mantenersi in vita, e fisicamente e psichicamente e di prendersi cura di sé e dell’altro e del mondo. La natura non genera mai a caso. Se è vero che la mente impara dal corpo, possiamo, allargando lo sguardo, affermare che siamo come piccoli centri concentrici: dunque la mente è specchio del corpo, la famiglia della società e così via. Dunque la coscienza, nell’uomo può essere solo un meccanismo che la natura ha trovato per salvaguardare sé stessa e la vita in sé. E noi da questo, inconsciamente, abbiamo imparato… Così come la mente impara dal corpo anche noi abbiamo imparato dalla natura. Così il corpo è diventato mente, la natura Dio e l’organizzazione della bio-diversità società. Abbiamo astratto dal fisico allo psichico. Imparando gli uni dagli altri e modificandoci a vicenda. Ma il tutto è Uno. Se guardiamo la società abbiamo creato organi che controllino altri organi e così via… Abbiamo creato internet, un network, cose che in natura, tra le piante per esempio, esistevano già. Le abbiamo copiate, o replicate, in mondo inconsapevole. Sono gli archetipi: esiste una certa ridondanza… Forse il detto ‘la mela non cade distante dall’albero’ può far capire meglio il concetto.

La vita si organizza attorno a delle strutture che si ripetono, a ridondanza… Nulla cade distante dal centro originario che è Uno, l’Uno da cui tutto origina.

La coscienza allora può essere capita solo allargando lo sguardo dall’uomo al mondo e alla natura. La coscienza, che dota l’uomo di libero arbitrio, permette alla natura di avere qualcosa (come gli organi di sorveglianza nella nostra società) che ne presieda il regolare funzionamento. Che si occupi di mantenerne l’equilibrio e, per farlo, era necessario che a differenza degli animali questo qualcosa fosse dotato di libero arbitrio, fosse cioè separato da essa. La natura ha trovato così il suo equilibrio, lo stesso equilibrio che poi l’uomo ha ricopiato (o ricalcato) per creare e strutturare la società. Allora occorre ritornare al reale, alla natura per comprendere alcune strutture e questo, chiaramente, impone di uscire dallo schema antropocentrico. Allora la coscienza è dell’uomo perché questo gli consente di sopravvivere e realizzare sé stesso (si vedano le sue funzioni per Bion in Grotstein, 2009) ma permette, sopravvivendo e realizzando sé stesso, di essere vigile nel mantenere un certo equilibrio nella natura. Certo la società consumistica e capitalista questo discorso lo nega e lo vuole negare perché contro le esigenze del capitale. In fondo, ogni sistema, seppur disfunzionale tende a mantenere il suo ordine e ad appiattire tutto ciò che vuole modificarlo, risucchiandolo al suo interno.

Ecco allora che bisogna ridurre la vita al suo essenziale, porsi al di là della finestra ed osservare il mondo come agenti passivi che guardano qualcosa che subiscono e cercando, nell’essenzialità, di vedere il loro ruolo in quel tutto, il loro ruolo… Come un’ape impollina, come esistono gli animali ‘spazzini’, come in un acquario o in una voliera occorre mettere determinati pesci o uccelli e non altri per mantenere l’equilibrio, così l’uomo ha una funzione nell’equilibrio delle cose. Anche l’ape ha una funzione e la sua funzione dipende dalla sua propria struttura che, entrambe, la fanno essere ciò che propriamente è. Così la struttura dell’uomo che lo distingue è la coscienza, la sua possibilità di libero arbitrio e di agire a favore o contro sé stesso. La sua libertà, che ha l’importante funzione di presiedere alla natura. Questo è anche il messaggio che la psiche dell’uomo ha da sempre capito. Se si guarda alla Bibbia, per il pensiero cristiano, all’uomo è stato dato il mondo… L’errore è stato quello successivo di valutare questo in chiave antropocentrica. Se all’uomo è stato dato il mondo è stato dato non in quanto creatura superiore, ma in quanto avente funzione di sorveglianza, che è sì funzione alta perché è dall’alto che è possibile osservare ed intervenire se qualcosa non funziona. Ecco la funzione di Dio come limite ultimo: attento! Uomo… Che anche se puoi agire contro natura e contro la natura non lo devi fare, era necessario che tu possedessi la libertà di scegliere per poter essere distaccato dalla natura e quindi tutelarla, e questo ha implicato che tu potessi agire anche contro di essa ma attento! Non lo devi fare.

Forse questo è il senso dell’esistenza della coscienza e di Dio. Tutto è uno ed è più reale di quanto si creda.

 

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