expand_lessAPRI WIDGET

Il paziente con disturbo di personalità antisociale – Video dal Webinar tenuto da Psicoterapia Cognitiva e Ricerca di Mestre

Il 9 novembre, la Scuola di Specializzazione “Psicoterapia Cognitiva e Ricerca” di Mestre ha tenuto un incontro sul disturbo antisociale di personalità. Pubblichiamo per i nostri lettori, il video dell’evento.

 

Il Disturbo di Personalità Antisociale si caratterizza per un atteggiamento di disprezzo, inosservanza e violazione dei diritti delle altre persone e si manifesta con comportamenti di ostilità e/o aggressioni fisiche. L’inganno e la manipolazione sono le modalità comportamentali privilegiate di questo tipo di personalità. In molti casi, i comportamenti ostili e aggressivi possono comparire già durante l’infanzia e l’adolescenza. Nella maggior parte dei casi arrivano in terapia perché obbligati o per problematiche connesse ad altri disturbi spesso in comorbilità come l’abuso di sostanze o alcol.

Il seminario, tenuto dalla Dott.ssa Antonella Gemelli, ha illustrato le caratteristiche del disturbo, la concettualizzazione del caso e il trattamento secondo l’approccio cognitivo-comportamentale. A seguire, Sandra Sassaroli ha presentato la Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva e Ricerca.

 

Il paziente con disturbo di personalità antisociale – GUARDA IL VIDEO

 

SCOPRI I PROSSIMI EVENTI IN PROGRAMMA >> CLICCA QUI

PSICOTERAPIA COGNITIVA E RICERCA MESTRE >> SCOPRI DI PIU’

Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale di Mestre - PTCR

 

Il ruolo dell’ambiente terapeutico nel trattamento dei disturbi alimentari maschili

La ricerca ha mostrato come gli uomini con un disturbo alimentare siano reticenti a chiedere aiuto, tuttavia luoghi di cura più adeguati alla dimensione maschile potrebbero favorire il loro ingaggio nel trattamento.

 

Introduzione

I disturbi del comportamento alimentare sono patologie che coinvolgono quasi esclusivamente la popolazione femminile, mentre l’incidenza nei maschi rimane sottostimata e difficilmente accedono ai percorsi di cura. Tale disparità di genere è da rimandare a diversi fattori, tra i quali una maggior reticenza degli uomini a chiedere aiuto per una patologia ritenuta “femminile” (Hay &Philpott, 2005, Greenberg & Schoen, 2008), la mancanza di strumenti diagnostici adeguati (Carey, Saules & Carr 2017) e la forte presenza di stereotipi di genere che ha portato all’ esclusione dei maschi dalla ricerca sui disturbi alimentari e dai programmi di prevenzione (Cohn et al., 2016).

Tuttavia, seppur rimane di estrema importanza identificare strumenti adatti alla diagnosi e al trattamento dei disturbi alimentari maschili, potrebbe risultare rilevante anche la “cornice” entro la quale vengono svolti questi trattamenti, ovvero quei fattori ambientali che caratterizzano i luoghi di cura e che favorirebbero l’ingaggio dei pazienti nel trattamento.

Adattare i trattamenti

Kinnaird e collaboratori (2018) in un recente studio qualitativo hanno intervistato 10 specialisti nel trattamento dei disturbi del comportamento alimentare, impegnati presso un ambulatorio del Servizio Sanitario Nazionale a Londra e dove, in quel momento, erano presi in carico 491 pazienti di cui 58 erano maschi. Il fine della ricerca era quello di indagare quale fosse il punto di vista degli operatori sul fatto che gli uomini potessero avere esigenze di trattamento specifiche e in che modo tali esigenze richiedessero eventuali adattamenti dei percorsi di cura svolti presso il loro centro. Gli operatori intervistati hanno riportato come sostanzialmente non ci fossero particolari differenze nell’espressione clinica dei pazienti maschi rispetto alle femmine, se non per il fatto che a volte i maschi riportavano una maggior preoccupazione riguardante la muscolarità del proprio corpo piuttosto che la magrezza. Inoltre dalle interviste era emerso che i terapeuti non si approcciavano al trattamento degli uomini in modo diverso rispetto alle donne, ma che fondamentalmente le terapie seguivano il medesimo decorso. Quindi seppur venivano riscontrate differenze di genere su alcune questioni legate alla mascolinità, queste venivano integrate all’interno dei trattamenti standard. L’esperienza riportata dai clinici inglesi all’interno di queste interviste sembra confermare alcuni dati provenienti dalla ricerca sul trattamento dei disturbi alimentari negli uomini: infatti, seppur non validati sulla popolazione maschile, i protocolli FBT e CBT-E potrebbero essere applicati, non senza alcuni adattamenti, in modo efficace anche per i pazienti maschi (Murray et al., 2013; Dakanalis et al., 2014; Murray & Griffiths, 2015).

D’altra parte, un aspetto su cui la maggior parte degli operatori intervistati si è particolarmente concentrato riguardava l’ambiente entro il quale si svolgevano i trattamenti, ovvero quegli elementi di sfondo che caratterizzavano l’ambulatorio dove lavoravano. I terapeuti hanno sottolineato come i disturbi del comportamento alimentare e il loro trattamento fossero percepiti dai pazienti uomini come qualcosa di “anti-mascolino” e che la natura del Servizio stesso potesse rinforzare questa idea, come testimoniato da una delle terapeute:

“Credo che possa essere davvero dura per un uomo che varca questa porta ritrovarsi in una sala d’aspetto piena di donne […] Inoltre nel nostro ambulatorio non ci sono terapeuti maschi e sono sicura che tutte queste cose possano rappresentare delle difficoltà per i pazienti”.

Pertanto, per favorire l’ingaggio dei pazienti uomini nel trattamento, risulterebbe importante normalizzare l’esperienza di malattia all’interno della cornice culturale maschile e per fare ciò potrebbe risultare utile adeguare l’ambiente terapeutico. Più nello specifico gli operatori coinvolti hanno suggerito che venissero appesi alle pareti poster riguardanti i disturbi alimentari maschili, con infografiche specifiche riguardanti il corpo dell’uomo, che fossero incluse all’interno del materiale informativo foto sia di ragazzi che di ragazze e inoltre hanno espresso la necessità di assumere terapeuti maschi. Infine alcuni intervistati hanno espresso la necessità di creare gruppi terapeutici per soli uomini, in modo da favorire la discussione di temi prettamente maschili.

L’esperienza dei pazienti

Un successivo studio di Kinnaird e collaboratori (2019) ha questa volta analizzato l’esperienza di pazienti maschi in cura per un disturbo del comportamento alimentare. Sono stati intervistati 14 pazienti con l’obbiettivo di fornire pareri e opinioni riguardo il loro trattamento e se quest’ultimo necessitasse di qualche adattamento, in modo analogo allo studio precedente. I risultati delle due ricerche sono in parte sovrapponibili. Infatti anche i pazienti hanno costatato che l’approccio terapeutico non necessitasse di particolari adattamenti, se non per alcune questioni legate all’immagine corporea, come la preoccupazione riguardante la muscolatura, e in ogni caso hanno riportato un’esperienza di trattamento positiva. La maggior parte dei suggerimenti dei partecipanti, anche in questo caso, riguardava miglioramenti nell’ambiente entro il quale si svolgeva il trattamento. I soggetti hanno riportato di essersi sentiti particolarmente a disagio in quanto la presenza esclusivamente femminile, tra pazienti e staff, rafforzava l’idea di essere “strano” in quanto soggetto di genere maschile portatore di un disturbo alimentare.

Un altro aspetto particolarmente sentito che è emerso dalle interviste riguardava la specificità di genere del materiale informativo. I pazienti hanno infatti riferito che le brochure del centro erano rivolte prevalentemente alle pazienti di genere femminile, con poche informazioni riguardanti argomenti maschili, come ad esempio le diverse preoccupazioni per il corpo e le differenti esigenze nutrizionali. Inoltre i soggetti coinvolti hanno fornito opinioni diverse riguardo all’utilità di gruppi terapeutici separati per genere, esprimendo comunque la necessità di fornire questa alternativa. Infine, la maggior parte dei partecipanti allo studio ha sottolineato come il sesso dell’operatore non avesse influenzato la relazione terapeutica, tuttavia alcuni pazienti hanno considerato vantaggioso fornire la possibilità di accedere a un terapeuta maschio e che, data l’ampia presenza femminile, “sarebbe stato utile avere più uomini intorno”.

Considerazioni finali

I due studi appena illustrati rappresentano un interessante spunto di riflessione per la creazione di programmi di prevenzione e trattamento dei disturbi alimentari rivolti ai maschi. Se è vero che i pazienti che hanno un rapporto problematico con il cibo e la forma del corpo rappresentano una categoria difficile da ingaggiare nei percorsi di cura, ciò risulta ancora più evidente per i pazienti di genere maschile perché ancora stigmatizzati in quanto affetti da una patologia considerata esclusivamente “femminile” e per via della scarsa reperibilità di informazioni adeguate sui disturbi alimentari maschili (Cohn et al, 2016). Quindi, seppur rimane di grande importanza la ricerca di protocolli terapeutici e test diagnostici adattati alla sfera maschile, uno degli aspetti chiave nell’ingaggio al trattamento potrebbe essere quello di creare spazi di cura più gender-neutral e la possibilità di reperire informazioni adeguate, come suggerito da questi due studi.

Si evidenzia pertanto la necessità per i centri che trattano i disturbi alimentari di adeguare anche alla dimensione maschile gli ambienti di cura, adattare il materiale informativo e favorire una maggior presenza di uomini tra lo staff, in modo da normalizzare l’esperienza della malattia e favorire l’ingaggio nei percorsi terapeutici.

 


 

The Haunting of Hill House: come le conseguenze della negazione dei propri fantasmi interiori possono incidere sul nucleo familiare – Recensione

Il presente articolo si propone di dare una lettura della prima stagione del telefilm The Haunting che integri la prospettiva psicodinamica e quella sistemico-relazionale. È consigliato leggerlo solo dopo aver visto The Haunting of Hill House.

 

Attenzione! L’articolo contiene spoiler

I fantasmi non esistono, li abbiamo creati noi. Siamo noi i fantasmi‘ dice il personaggio di Pasquale Lojacono nella commedia Questi fantasmi scritta dal noto drammaturgo Eduardo De Filippo nel 1945. Un messaggio molto simile sembra mandarlo la serie tv Netflix The Haunting.

In particolar modo, la prima stagione The Haunting of Hill House mette in luce il legame profondo che unisce tutti gli elementi della famiglia. I tagli emotivi, le alleanze e il mito di una casa spettrale sono aspetti che tengono legati i componenti della famiglia anche a chilometri di distanza.

Il comune denominatore che appartiene ad ogni membro è il timore di restare col proprio vuoto interiore. I sentimenti materni della madre Liv in particolar modo hanno effetto a cascata sui figli.

Liv si presenta come una donna con uno spaventoso timore del vuoto che regna dentro di sé. Questo la rende molto dipendente dai figli che, identificandosi come riempitori di quel vuoto, non riescono a vedere la versione più autentica di sé stessi. Il sogno di Liv relativo alla perdita dei due figli sembra nascere dalla possibilità di non essere più ‘piena’ di loro.

La donna infatti esterna consapevolmente la malinconia dovuta alla crescita dei due gemelli, i più piccoli della famiglia. Con molta minore consapevolezza sogna che il figlio maschio morirà di overdose e la figlia femmina morirà impiccandosi. I fantasmi che guidano le paure di Liv non sono appartenenti alla casa, ma al suo vissuto intrapsichico e come ogni famiglia indifferenziata che si rispetti questi spettri vivono anche in tutti gli altri membri della famiglia.

Nelly, la più sacrificale, sin da piccola non ha avuto le basi dalla madre per rimanere con l’angoscia del proprio vuoto interiore. Sentendo troppo lacerante prima il vuoto materno, poi quello lasciato dall’amato marito, auto-avvera la profezia della madre. La ‘donna dal collo storto’ presente ogni notte accanto a lei non è altro che la visione che la madre ha di lei nel momento in cui dovessero separarsi. Impossibilitata a mantenere la costanza dell’oggetto, quando l’oggetto amato non è più davanti a sé, Nelly non può fare altro che cadere nella più atroce disperazione. Con la fantasia di riavvicinarsi all’oggetto d’amore si uccide, divenendo lo spettro di cui aveva tanta paura.

Luke, poco meno sacrificale di Nelly, può salvarsi solo nel momento in cui gli altri fratelli incontrano gli spettri che aleggiano nell’indifferenziato intrapischico familiare.

In particolar modo questo processo si completa quando Steven, il fratello maggiore che aveva tagliato emotivamente i rapporti con il resto della famiglia, sceglie di vedere i fantasmi familiari.

Il padre risulta l’ultimo elemento impossibilitato a salvarsi e si uccide, proprio come la moglie, per l’incapacità di stare col vuoto incontenibile, lasciato dalla perdita dell’amore della figlia Nelly.

La stanza rossa è il luogo metaforico dove è possibile l’incontro emotivo tra i diversi membri della famiglia. Questa rappresenta anche l’unico spazio di autenticità e spontaneità, dove desideri, paure ed emozioni personali possono emergere in un sistema che tende a sacrificare l’individualità.

L’indistruttibilità della casa rappresenta proprio l’innegabilità degli spettri presenti in questa famiglia, come in ogni altra. La coraggiosa capacità dei fratelli di accettare i fantasmi come parte di sé li fa andare avanti, rendendo più spontaneo e saldo il legame fraterno e liberando le parti più autentiche di loro stessi.

Il messaggio più forte di The Haunting of Hill House sembra essere questo: ognuno di noi in quanto appartenente ad una famiglia ha i propri spettri e il primo passaggio per non permettere che ci danneggino è accettarli come parte di noi.

 

‘In direzione opposta’, romanzo di Alessandro Venuto – Una storia di speranza e di riscatto, di rinascita e di lotta, in cui sul ring si trovano due avversari inediti: paziente e malattia

Un intreccio di realtà e vicende frutto di immaginazione dell’autore, Alessandro Venuto, che svolge la sua attività professionale in un centro per il recupero delle tossicodipendenze, danno vita a un romanzo avvincente, crudo e vero che racconta il dramma della dipendenza patologica dal titolo In direzione opposta. Un’opera autentica e senza filtri che riesce a dare voce a un fenomeno sempre più attuale: quello delle addictions. 

 

Mi trovavo seduta in un ampio salone finestrato, pieno di suoni e di movimento. L’orologio a muro segnava le 12.30 il che alla Dionisio, comunità terapeutica per il recupero delle tossicodipendenze, significava solo una cosa: l’ora del pranzo. Quello che si fa alla Dionisio è scandire ogni momento della giornata attraverso le lancette dell’orologio, nell’intento di riabituare gli ospiti a vivere secondo i consueti ritmi circadiani, rieducandoli a sentire il proprio corpo e i propri bisogni, per troppo tempo messi a tacere dalla sostanza, alcol, cocaina, eroina o thc, divenuta il primo, e spesso mero ed unico, carburante della vita.

Con la forchetta giocavo con il cibo nel piatto, lo stomaco era troppo chiuso per mangiare. Sentivo addosso gli sguardi dei pazienti, trenta faretti neon che mi osservavano, studiandomi, alla ricerca di una fragilità, reale o presunta, da utilizzare come arma contro di me alla prima occasione. All’improvviso mi venne in mente quando entrai per la prima volta in uno scanner di risonanza magnetica, per fare una fotografia del mio cervello. La sensazione di essere inerme, priva di difese, fu la medesima. Questa è la tipica reazione che il paziente affetto da tossicodipendenza innesca nel suo interlocutore, che cerca di approcciarsi alla patologia per la prima volta. Quella mattina era il mio primo giorno di lavoro come operatrice di comunità alla Dionisio, e ad accogliermi trovai Alessandro Venuto. Il collega sembrava aver superato da molto tempo l’impasse in cui mi trovavo, si muoveva sicuro tra gli ospiti padrone di quel luogo. Dispensava consigli ed intratteneva gli ospiti in brillanti conversazioni. Che abile oratore, pensai. Quale sarà il suo segreto? Sbirciai nel suo piatto, e ci trovai solo dell’insalata. Forse la sua dieta ipocalorica era la chiave di tanta maestria, pertanto decisi di rinunciare al mio pasto affidandomi a questa sorta di pensiero magico. Con il tempo capii che la chiave del successo di Alessandro era un mix di dedizione, sacrificio e passione per il suo lavoro.

Professione che Alessandro ha saputo sapientemente raccontare nel suo romanzo In direzione opposta, dando voce alla storia di due amanti che, caduti nel baratro della tossicodipendenza, decidono di intraprendere un percorso di cura. Come spesso accade nel contesto delle addictions, è solo dopo aver toccato il fondo e sfiorato la morte che Stephen e Sharon decidono di scegliere la vita affidandosi alla cure della Dionisio. Nelle pagine di questo romanzo il lettore si troverà catapultato nelle vicende e nei drammi dei due protagonisti che, con la mente e il corpo stremati da anni di abuso di droga, cercano con le unghie di aggrapparsi alla vita. E’ una storia di speranza e di riscatto, di rinascita e di lotta, in cui sul ring troviamo i due protagonisti e l’équipe professionale della Dionisio contro il peggiore di tutti i possibili sfidanti: la tossicodipendenza.

Malattia infima e subdola, la dipendenza si trova ben presto a prendere il timone della vita di chi ne è affetto, determinando perdita di motivazione e interesse per tutto ciò che esuli da alcol e droga. Come esito, la persona ‘addicted’ inizia a perdersi. Le sue azioni e i suoi pensieri non saranno più guidati dal libero arbitrio, bensì dalla sostanza. La vita e i rapporti si comprometteranno gradualmente, talvolta irrimediabilmente se non si opta per un intervento guidato da una cerchia di professionisti. Nel romanzo In direzione opposta di Alessandro Venuto sarà solo grazie a un certosino lavoro di squadra tra paziente e curanti che la malattia verrà messa al tappeto. Alessandro, guidato da una grande devozione per la sua professione e da anni di esperienza come educatore, con estrema naturalezza riesce a dar voce a un fenomeno, quello della tossicodipendenza, ad oggi ancora troppo stigmatizzato. Un romanzo adatto a divulgare, informare ed intrattenere anche il lettore meno esperto sul tema delle dipendenze patologiche. Chiunque si approcci a quest’opera si stupirà di trovarsi velocemente perso nelle vicende dei personaggi, che nonostante la fatica riusciranno a trovare una nuova alba, uscendo così da quel tunnel popolato da sole ombre chiamato tossicodipendenza.

 

SLA: è Maria Lavezzi il nuovo coordinatore del GipSLA di AISLA – Comunicato Stampa

Comunicato Stampa

Maria Lavezzi è il nuovo coordinatore del GipSLA di AISLA: l’emergenza Coronavirus non ferma l’Associazione Italiana Sclerosi Laterale Amiotrofica e il Gruppo Italiano Psicologi SLA

 

Milano, 11 gennaio 2021

È Maria Lavezzi, dirigente psicologo presso la Rete di Cure Palliative del Distretto Valli Taro e Ceno dell’Azienda Unità Sanitaria Locale di Parma, il nuovo coordinatore nazionale del Gruppo Italiano Psicologi SLA (GIP-SLA), gruppo di lavoro nato nel 2012 all’interno di AISLA con l’obiettivo di offrire il miglior sostegno psicologico alle famiglie colpite dalla malattia.

Professionista esperta, da anni membro dei gruppi di lavoro di AISLA e docente del Polo Formativo SLA, la dr.ssa Lavezzi ha tra i suoi primi obiettivi quello di continuare ad investire sulla partecipazione attiva degli psicologi, promuovendo per il 2021 percorsi di formazione, naturalmente in remoto nel pieno rispetto delle misure di contenimento dettate dall’emergenza sanitaria.

Se è vero che siamo diventati tutti più fragili di fronte a questa pandemia che ha inginocchiato l’intera umanità, diventa forse più facile comprendere quanto sia critico dover affrontare la SLA. Una malattia che colpisce, di fatto, l’intera famiglia che si trova costretta non solo a riorganizzarsi, ma anche a riadattarsi a cambiamenti radicali pratici, affettivi e esistenziali. È una lotta, ma anche una conquista quotidiana possibile. (Massimo Mauro, presidente AISLA)

AISLA da sempre sostiene l’importanza dell’ascolto, dell’accompagnamento e del sostegno alle persone con SLA e alle loro famiglie, attraverso “percorsi” psicologici strutturati e gestiti da professionisti, che devono conoscere a fondo l’esperienza di chi convive con questa patologia.

Gli obiettivi di un intervento psicologico sono in prima battuta quelli di contenere il disagio emozionale dovuto alle limitazioni funzionali della persona con SLA, ma anche quello del familiare che se ne prende cura, come i caregiver, che a sua volta si sente spesso impreparato e sopraffatto dall’impatto della malattia.

La SLA, infatti, comporta un quotidiano scontro tra forti emozioni, drastici cambiamenti delle relazioni sociali e familiari e, non ultimo, un impegno fisico notevole per il consistente carico assistenziale. Per questo, da oltre un decennio, grazie all’impegno quotidiano delle 64 sedi presenti su tutto il territorio nazionale, AISLA supporta oltre 250 famiglie SLA con incontri periodici di Gruppo di Aiuto e percorsi individuali.

L’impatto traumatico che la SLA comporta e la sofferenza fisica, psicologica e talvolta esistenziale che ne deriva conferma l’importanza di un approccio psicologico competente e che viene spesso integrato con l’intervento multidisciplinare del nostro Centro di Ascolto e Consulenza sulla SLA mirato a costruire insieme alle nostre sezioni, ai Centri ospedalieri di riferimento, ai servizi di Assistenza Domiciliare Integrata (ADI) e a quelli di Cure Palliative Domiciliari, una rete per una corretta presa in carico del paziente. (dott.ssa Stefania Bastianello, direttore tecnico di AISLA)

Oggi sono oltre 100 i professionisti che partecipano al GIP-SLA per formarsi, aggiornarsi, discutere e riflettere sulle modalità di approccio alle diverse fasi di malattia e nei diversi contesti di cura.

Dal confronto plenario e dall’analisi della letteratura scientifica, sono stati elaborati diversi documenti, come quello delle “buone prassi” per l’assistenza psicologica nei diversi contesti di cura: in ospedale, al domicilio e nel gruppo di aiuto. Il documento, pubblicato nel 2017 (scaricabile cliccando QUI).

Pur nella piena consapevolezza che non è possibile comprendere fino in fondo i vissuti e la sofferenza dei malati e dei loro familiari, il gruppo di studio proseguirà il confronto delle nostre esperienze professionali con l’obiettivo di offrire a noi operatori nuove indicazioni, suggerimenti e percorsi innovativi. (dr.ssa Maria Lavezzi, nuovo coordinatore del GipSLA).

 

Per maggiori informazioni i professionisti possono scrivere a: [email protected]

Le famiglie, invece, possono scrivere a: [email protected]

Per altre delucidazioni sulle attività dell’associazione si può visitare il sito internet www.aisla.it.

 

Gli effetti della realtà virtuale sull’empatia

Nel 2015, la realtà virtuale (VR) è stata descritta come la “macchina dell’empatia” poiché consente alle persone di sperimentare visceralmente qualsiasi cosa dal punto di vista dell’altro. Le diverse esperienze collocano gli utenti in ambienti nuovi, mostrando loro come sarebbe vivere una situazione specifica dal punto di vista di qualcun altro.

 

L’empatia è la capacità di comprendere e condividere le emozioni altrui (Hoffman, 2001). È stato dimostrato come l’empatia motivi i comportamenti prosociali (Batson & Ahmad, 2009) ed è proprio sulla base di questo presupposto che ricercatori ed aziende tecnologiche si stanno cimentando al fine di trovare nuovi metodi che consentano di incrementare tale capacità. 

Nel 2015, la realtà virtuale (VR) è stata descritta come la “macchina dell’empatia” poiché consente alle persone di sperimentare visceralmente qualsiasi cosa dal punto di vista dell’altro (Milk, 2015). Gli ambienti virtuali immersivi sostituiscono l’input percettivo dell’utente del mondo reale con l’input percettivo di un mondo virtuale e questo fa sì che i fruitori si sentano parte di quest’ultimo. Queste esperienze collocano gli utenti in ambienti nuovi, mostrando loro come sarebbe vivere una situazione specifica dal punto di vista di qualcun altro.

Differenti ricerche mostrano che assumere la prospettiva dell’altro (cioè immaginare come sarebbe essere al suo posto) può essere un metodo efficace per promuovere l’empatia e motivare comportamenti prosociali (Bateson et al.,1981).

Difatti, i compiti tradizionali di assunzione della prospettiva, sono stati ampiamente utilizzati al fine di promuovere l’empatia del singolo verso uno specifico target sociale. L’utilizzo di questi interventi, però, ha portato spesso a risultati contrastanti: se da un lato questi compiti si sono dimostrati efficaci nel ridurre i pregiudizi (Todd & Galinky, 2014), allo stesso tempo, in alcune circostanze, hanno determinato effetti opposti (Skorinko & Sinclair, 2013). È anche per tal motivo che i ricercatori, oltre al tradizionale punto di vista, hanno tentato di promuovere l’empatia attraverso una varietà di compiti di presa di prospettiva mediata, utilizzando videogiochi e narrazioni interattive che forniscono informazioni aggiuntive all’utente su una specifica situazione, invece di fare affidamento esclusivamente sull’immaginazione del singolo. Tuttavia, è importante notare che questa tipologia di supporti forniscono informazioni attraverso canali specifici e si basano dunque su uno o su una combinazione di sensi. Di contro, un maggior livello di “immersione” può fornire un’esperienza più coinvolgente e personalizzata (Hand & Varan, 2008) e ciò consente alla realtà virtuale di porsi come un mezzo di presa di prospettiva efficace. Alcuni studi hanno dimostrato che quando i partecipanti bianchi incarnano un avatar afroamericano e interagiscono in un ambiente virtuale, i pregiudizi impliciti nei confronti delle persone dalla pelle scura sono significativamente ridotti (Peck, Seinfeld, Aglioti & Slater, 2013). Nonostante questi risultati incoraggianti, questi studi sono limitati dalla dimensione ridotta del campione e ciò impedisce di giungere ad una generalizzazione dei suddetti.

Al fine di arginare questi limiti metodologici e giungere ad una comprensione più approfondita degli effetti dei differenti tipi di interventi necessari a promuovere la capacità empatica, alcuni ricercatori hanno deciso di condurre due studi in merito. Nel primo caso, è stata condotta un’indagine longitudinale che ha messo a confronto gli effetti a breve e a lungo termine di un compito di assunzione di prospettiva VR con un compito di assunzione di prospettiva tradizionale, basato sulla narrazione. Gli autori hanno ipotizzato che l’utilizzo della VR sarebbe stato più efficace nel promuovere l’empatia e i comportamenti prosociali dei partecipanti. I soggetti sono stati assegnati casualmente alle due condizioni ma, ad entrambi i gruppi, è stato chiesto di compilare un questionario prima dell’intervento, al fine di misurare le differenze empatiche individuali e di valutare la misura in cui i soggetti credano che l’empatia sia una variabile che possa essere controllata. In entrambe le condizioni, i partecipanti hanno svolto un compito di assunzione di prospettiva immaginativa, con la differenza che, nella condizione di narrativa, i partecipanti immaginavano come sarebbe stato se fossero diventati senzatetto; mentre nella seconda condizione, i partecipanti hanno sperimentato come fosse diventare senzatetto all’interno di un ambiente virtuale.

Al termine dell’intervento, ai soggetti è stato chiesto di completare un questionario che ha tenuto conto della misura in cui essi si fossero sentiti compassionevoli e del livello di disagio personale. Inoltre, è stato esaminato quale tipologia di compito potesse prevenire la disumanizzazione nei confronti dei senzatetto. Infine, ai partecipanti è stato chiesto di esprimere il proprio accordo o disaccordo rispetto alla possibilità di sostenere l’aumento di alloggi per gli homeless, se fossero o meno disposti a firmare una petizione a sostegno della proposta e se fossero disponibili ad effettuare una donazione per un eventuale rifugio. Queste misure comportamentali sono state aggiunte al fine di esaminare la portata dell’impegno civico di ciascun partecipante riguardo al problema dei senzatetto.

I partecipanti hanno effettuato tre follow-up nelle successive otto settimane.

Nel secondo studio, invece, gli autori hanno confrontato l’effetto di quattro tipi di interventi: un intervento informativo, un compito di assunzione di prospettiva tradizionale basato sulla narrativa, un compito di assunzione di prospettiva VR – identici al primo studio – e un’attività di assunzione della prospettiva mediata attraverso un computer, che ha permesso ai partecipanti di sperimentare cosa si prova a diventare senzatetto attraverso una narrazione interattiva 2D.

L’obiettivo era quello di valutare più accuratamente l’effetto della presa di prospettiva ed esaminare il ruolo che l’immersione gioca quando si tenta di promuovere l’empatia. Gli autori in questo caso hanno ipotizzato che qualsiasi tipo di assunzione di prospettiva sarebbe stata più efficace nel suscitare empatia, rispetto alla mera ricezione di informazioni riguardanti la vita dei senzatetto.

Le misure di autovalutazione sono state le medesime di quelle utilizzate nel primo studio.

Le indagini hanno rivelato che nel corso di otto settimane, i partecipanti che avevano completato un compito di assunzione della prospettiva VR avevano atteggiamenti più positivi e avevano firmato una petizione a sostegno di iniziative nei confronti dei senzatetto; avevano tassi significativamente più alti rispetto ai partecipanti che avevano solo immaginato come sarebbe stato diventare un senzatetto. L’indagine ha evidenziato che gli interventi di presa di prospettiva basati sulla narrativa e mediati, indipendentemente dal livello di immersione, sono più efficaci nell’aumentare l’empatia rispetto ad interventi che non implicano alcun compito di assunzione di prospettiva. I risultati di questa indagine suggeriscono che i compiti di assunzione della prospettiva VR possono essere più efficaci nel motivare comportamenti prosociali a sostegno di iniziative utili.

 

 


Si parlerà di Realtà Virtuale alla
FIRST EUROPEAN CONFERENCE ON DIGITAL PSYCHOLOGY

Le iscrizioni sono aperte:

ISCRIVITI ORA 9733

EUROPEAN CONFERENCE OF DIGITAL PSYCHOLOGY
Scoprine di più:

L’importanza della precocità nell’impianto cocleare: evidenze dei benefici cognitivi e per lo sviluppo del linguaggio

Gli impianti cocleari (IC) sono ora universalmente considerati come lo standard di cura per il trattamento medico di perdita dell’udito sensoriale e neurosensoriale da grave a profonda negli adulti e nei bambini (Pisoni et al., 2018).

Bresciani Giulia – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Mestre

 

Nell’articolo di Kronenberger e colleghi (2014) la perdita permanente dell’udito è una condizione comune della prima infanzia, con una prevalenza di circa 1,5 su 1000 nascite. La diagnosi precoce, l’intervento e il monitoraggio dei bambini con perdita dell’udito sono raccomandati per lo sviluppo di una comunicazione e un linguaggio ottimali ed inoltre per promuovere le capacità socio-emotive, cognitive e di sviluppo motorio.

L’impianto cocleare nell’infanzia comporta un miglioramento significativo delle competenze linguistiche parlate, in particolare quando l’impianto avviene precocemente (Kronenberger et al., 2020). In ogni caso, come riportato dagli autori, esiste ancora un’enorme variabilità nelle abilità di linguaggio parlato nei bambini che vengono sottoposti ad impianto cocleare.

Negli anni sono stati individuati diversi predittori di un miglior outcome linguistico (Geers, 2006; Ruffin et al., 2013; Kronenberger et al., 2020), tra cui: l’età più precoce al momento dell’impianto, migliori soglie di media dei toni puri (PTA) prima dell’impianto, minore durata della sordità, uso di strategie di comunicazione uditivo-orale, una famiglia di dimensioni più piccole, uno status socioeconomico familiare più elevato, una maggiore istruzione dei genitori e una maggiore sensibilità materna nell’interazione genitore-figlio. Gli studi riportano però, che bambini con impianto cocleare sono comunque a rischio per difficoltà di lettura e scrittura oltre che a difficoltà relative al linguaggio recettivo in ambienti ‘avversivi per l’ascolto’, come classi molto rumorose o ambienti rumorosi (Kronenberger et al., 2014)

Come riportato da Kronenberger e colleghi (2020) lo sviluppo di abilità neurocognitive che includono il linguaggio, la memoria, il ragionamento non verbale e il funzionamento esecutivo (EF) riflette la crescita di base dei sistemi cerebrali che dipendono dall’esperienza sensoriale, dall’attività neurale e dalla relativa stimolazione, nonché dalle esperienze di apprendimento all’interno dei sistemi familiari, educativi e clinici. Ed è per tale motivo che una deprivazione sensoriale, come quella uditiva, può incidere sullo sviluppo di tali abilità.

Le funzioni esecutive come l’inibizione, la memoria di lavoro, la flessibilità cognitiva, l’attenzione sono necessarie a valutare, monitorare, sviluppare e portare a termine piani ed obiettivi, e deficit in questi domini possono portare ad alcuni ritardi o disordini come il disturbo di attenzione ed iperattività.

Le funzioni esecutive si sviluppano molto precocemente e mostrano progressi molto rapidi, soprattutto durante l’età scolare ma, come accennato prima, sono diversi i fattori che influenzano la vita dei bambini, non solo con sordità, e che incidono anche sullo sviluppo di tali abilità, tra cui: la genetica, l’ambiente familiare, l’abilità di apprendimento sociale, l’educazione ed il linguaggio (Kronenberger et al., 2020). Il linguaggio determina lo sviluppo di abilità come l’attenzione, la memoria di lavoro e la pianificazione ma al contempo, queste determinano lo sviluppo del linguaggio. È per tale motivo che è necessario prestare attenzione e trovare le strategie più adatte a questi bambini, per permettere loro di poter acquisire tali abilità, necessarie per i processi di apprendimento ma anche per la conduzione della vita quotidiana. Studi come quello condotto da Niparko e colleghi (2010) dimostrano che bambini che vengono impiantati precocemente hanno miglioramenti maggiori nelle abilità di linguaggio dall’età scolare fino all’adolescenza. Lo studio di Kronenberger e colleghi (2020) ha indagato la traiettoria di sviluppo del linguaggio e delle funzioni esecutive confrontando gruppi di bambini di età pre-scolare con impianto cocleare e a normosviluppo. Gli autori hanno dimostrato che i bambini con impianto cocleare ottenevano punteggi inferiori ai test di vocabolario e linguaggio globale a tutti gli step di valutazione, ma mostravano un miglioramento statisticamente significativo, a differenza del gruppo di controllo. I bambini con impianto cocleare risultavano in media nei due test all’età di sette anni.

Oltre ai fattori predittivi identificati in precedenza, studi recenti, come citato da Park e colleghi (2015), hanno enfatizzato il ruolo della funzione cognitiva dei soggetti sul risultato dell’impianto cocleare. Per tale motivo, gli autori hanno indagato la correlazione tra il QI di performance e l’outcome postoperatorio in bambini che si sono sottoposti ad intervento chirurgico per impianto cocleare. I loro risultati hanno evidenziato che l’esito postoperatorio dell’impianto cocleare è legato alle funzioni cognitive, in particolare al QI di performance piuttosto che al QI verbale. Inoltre, il ‘completamento di immagini’ (al bambino vengono presentare una serie di immagini con una parte mancante; viene chiesto di identificare la parte mancante indicando e/o nominando) e il ‘ri-ordinamento di immagini’ (al bambino vengono presentare una serie di immagini in ordine errato; viene chiesto di mettere nell’ordine corretto per raccontare una storia di senso compiuto), che riflettono la cognizione sociale, risultano associati al risultato post-impianto cocleare. Ciò implica che non solo l’intelligenza ma anche l’adattamento sociale contribuisce alla riabilitazione uditiva dopo l’impianto cocleare.

Gli autori riportano che il QI verbale riflette un’intelligenza o una conoscenza cristallizzata che proviene dall’apprendimento precedente e dalle esperienze passate. Nello specifico, le situazioni che richiedono un’intelligenza cristallizzata includono la comprensione e le prove di vocabolario. Man mano che invecchiamo e accumuliamo nuova conoscenza e comprensione, l’intelligenza cristallizzata diventa più forte. I bambini sordi non attraversano queste fasi a causa della privazione uditiva precedente all’impianto cocleare e, di conseguenza, il loro QI verbale risulta più basso. Al contrario, il QI di performance riflette l’intelligenza fluida, ovvero la capacità di percepire relazioni indipendenti da precedenti esperienze specifiche o istruzioni. Pertanto, il QI di performance dei soggetti con impianto cocleare risultava paragonabile a quello dei loro coetanei con udito normale.

Gli autori hanno inoltre scoperto che la cognizione sociale, misurata con i subtest ‘completamento di immagini’ e ‘ri-ordinamento di immagini’, appare minore nei bambini con impianto cocleare. Inoltre, hanno osservato che le abilità di coordinamento visuo-motorio appaiono relativamente buone, utilizzando i subtest ‘disegno con i cubi’ (consiste in una serie di motivi geometrici stampati; viene chiesto al bambino di riprodurli utilizzando blocchi rossi e bianchi) e ‘ricostruzione di oggetti’ (consiste in una serie di pezzi di oggetti comuni; viene chiesto al bambino di assemblarli per formare l’oggetto) nei soggetti con impianto cocleare, coerentemente con quanto riportato dalla letteratura. Ciò è stato attribuito alla plasticità cerebrale ovvero la capacità di integrazione visuo-motoria migliora secondariamente alla privazione uditiva. In particolare, il punteggio medio al subtest ‘cifrario’ (consiste in una serie di forme semplici, ciascuna abbinata ad un codice; viene chiesto al bambino di disegnare la forma nel codice corrispondente) è risultato basso, anche se riflette la capacità di coordinazione visuo-motoria. Ciò può essere spiegato dal fatto che il ‘cifrario’ è l’unico subtest del QI di perfomance che utilizza lettere, numeri e simboli.

Gli autori, riprendendo quanto affermato da Ostrom nel 1984, affermano che la cognizione sociale si concentra su come le persone elaborano, memorizzano e applicano le informazioni sulle altre persone e sulle situazioni sociali. Si concentra sul ruolo giocato dai processi cognitivi nelle nostre interazioni sociali. La competenza sociale è strettamente correlata alla cognizione sociale. Sulla base dei loro risultati, gli autori si allineano a studi precedenti che hanno riportato una forte correlazione positiva tra abilità linguistiche e competenza sociale.

Conclusioni

In conclusione, sono molteplici i fattori coinvolti e che vanno considerati per i bambini con impianto cocleare. Kronenberger e colleghi (2014) identificano i seguenti cambiamenti a seguito dell’impianto cocleare avvenuto precocemente e seguente ad un percorso di abilitazione: maggiore consapevolezza da parte dei genitori, educatori e operatori sanitari; è necessario lo sviluppo e l’uso di strumenti e protocolli di valutazione delle funzioni esecutive validi, poco costosi e facilmente e rapidamente amministrati da educatori e terapisti; è necessario lo sviluppo di interventi mirati che possono essere utilizzati durante il processo di abilitazione per migliorare le competenze nelle funzioni esecutive. Ad oggi, la riabilitazione post impianto cocleare si concentra sulle abilità di linguaggio e di comunicazione, ma i risultati degli studi presentati sottolineano l’importanza di un trattamento abilitativo e/o riabilitativo che riguardi le funzioni esecutive, essendo linguaggio e funzioni esecutive strettamente correlati. Inoltre, come riportato da Park e colleghi (2015) i risultati post-operatori dell’impianto cocleare sono associati alla riabilitazione sociale, ed è importante quindi che venga fatta insieme agli altri interventi di riabilitazione/abilitazione programmati.

Soul (2020): la scintilla è nel momento presente – Recensione del film

Dopo l’indiscutibile successo di Inside Out, Pixar torna a sorprendere il suo pubblico con Soul, il nuovo film di animazione che ci invita ad osservare il mondo e a trovare il senso della vita nelle piccole cose di tutti i giorni.

 

Il lungometraggio racconta di Joe, un insoddisfatto insegnante di musica jazz che sogna di potersi realizzare come artista sul palco di un club. A seguito di varie peripezie, tuttavia, egli si ritrova temporaneamente separato dal suo corpo nell’Ante-Mondo, un luogo dove le anime sono forgiate in vista della vita sulla Terra, accanto a Ventidue, un’anima impetuosa e incontenibile, che rivoluzionerà la sua esistenza.

‘Il tuo scopo non è la tua scintilla’. Con questa frase potremmo riassumere molto del contenuto di Soul, dichiarando che non sono gli obiettivi che ci diamo a definirci. Attraverso gli sforzi di Joe, infatti, il film ci mostra come la corsa ai traguardi della vita rischia di consumare le nostre energie, di esaurire lo slancio vitale sotteso alle passioni o di distrarci dalle preziosità del momento presente. Soul è un vero inno alla vita che a più riprese sprona lo spettatore a incuriosirsi della realtà che lo circonda e delle altre persone, troppo spesso inquadrate in modo stereotipato.

Le immagini del film che rappresentano tale auspicabile condizione di presenza sono potentissime e inducono un’esperienza incarnata nello spettatore: il morso alla primissima fetta di pizza, l’incantamento del pendolare che ascolta un artista di strada, un seme di acero che volteggiando cade sul palmo del protagonista (beh, non proprio…ma occorre guardare il film!).

Il jazz, che accompagna quasi ogni sequenza del film, ribadisce l’importanza del ‘gioco’, dell’espressione libera dai canoni e rappresenta benissimo il fluire del tempo e di quelle sensazioni che rischiamo di perderci se non prestiamo loro attenzione. Ma non solo. ‘La melodia è una scusa per far emergere il tuo vero Io‘ dichiara ad un certo punto il padre del protagonista. Con questa frase egli intende dire che improvvisare su un tema musicale che è sempre lo stesso finisce per definirci come individui. Il verbo ‘jazzare’ descrive quindi chi prende la vita e la colora secondo l’estro e il jazz club rappresenta semplicemente il luogo dove la nostra autenticità può esprimersi in modo irripetibile in armonia con quella degli altri.

Soul insomma ci invita a vivere adesso, senza condannarci ad aspettare il momento giusto per farlo, a jazzare liberamente, se ci piace, uscendo dalle ‘bolle’ – positive e negative – che ci allontanano dai momenti preziosi del presente. Ho apprezzato molto il passaggio del film dove chi rimugina è accostato a chi, ossessionato dalle sue passioni, si isola dal mondo, fino a diventare ‘un’anima perduta’. Preoccuparsi di ciò che accadrà, rimestare il passato o coinvolgersi in una attività al punto di estraniarsi dal mondo di fatto produce sempre l’effetto di allontanarci dall’unico tempo che possiamo veramente percepire: il presente. La bolla, nel bene o nel male, determina la costruzione di una realtà ben poco condivisibile con altri e spesso foriera di sofferenza.

Dopo aver visto Soul perciò rispolveriamo i volumi di Jon Kabat-Zinn e dell’ACT, proviamo a porre la nostra attenzione consapevole su un piccolo gesto oppure saltiamo in sella ad una vecchia bicicletta per comprendere se ci piace pedalare piuttosto che per raggiungere nuovi e ambiziosi traguardi.

 

Il vaccino contro la disinformazione

Uno dei modi per evitare che le persone cadano vittima di disinformazione è quello di vaccinarle contro la disinformazione, esporle, quindi, ad un esempio di disinformazione, in modo che possano sviluppare gli opportuni anticorpi alle false notizie.

 

In quest’epoca, che qualcuno ha chiamato della “post-verità” (Stephan Lewandosky, John Cook, Ullrich K. H. Ecker, 2017), le bufale o “fake news”, come talvolta denominate, possono diffondersi attraverso internet ad una velocità impressionante. Negli ultimi tempi si è assistito, peraltro, ad una maggiore attenzione anche alla terminologia utilizzata. Alcuni autori, infatti (Claire Wardle, Hossein Derakshan, 2017) hanno evidenziato come talvolta il termine “fake news” venga utilizzato anche come un trucco dialettico sporco, al fine di “bollare” in maniera negativa punti di vista differenti.

In inglese quindi, si utilizzano in genere due termini. Si parla quindi di “disinformation” quando vengono diffuse false notizie in maniera consapevole e con l’intento di danneggiare qualcuno (persone, gruppi od organizzazioni). Si usa, invece, il termine “misinformation” quando la diffusione delle false notizie è inconsapevole e quindi è fatta senza intento di danneggiare nessuno (Caroline Jack, 2017).

In italiano, peraltro, il termine “misinformazione” non risulta ancora entrato nell’uso comune, ragion per cui nel seguito verrà utilizzato il termine “disinformazione”, che risulta sicuramente più familiare, anche se meno preciso come definizione. Il termine, quindi, verrà utilizzato sia per indicare la “disinformation” che la “misinformation” secondo le definizioni prima evidenziate.

I perchè della disinformazione

Cosa porta una o più persone a diffondere false notizie?

Gli scopi possono essere i più vari. Come evidenziato da alcuni autori (Claire Wardle, Hossein Derakshan, 2017) (Stephan Lewandosky e altri, 2012) i soggetti che diffondono disinformazione possono farlo, ad esempio, per motivi politici o, più semplicemente, per motivi economici. Molti click sulle notizie (false) fanno traffico su internet e quindi spesso si ha monetizzazione dei click.

False informazioni su un determinato fenomeno o notizia possono portare l’autore a vendere contenuti, come accessi a siti internet o anche libri, riguardanti quel fenomeno o notizia. La spiegazione è quindi talvolta estremamente banale. Questo è vero per l’autore della falsa notizia, che ha in ogni modo interesse a far parlare della sua “creatura”. Ma cosa spinge un “comune cittadino” a diffondere disinformazione, magari condividendo contenuti sul web?

E’ stato evidenziato (Miriam J. Metzger, Andrew J. Flanagin, 2013) che ormai i contenuti sul web sono talmente tanti che risulta molto difficile distinguere l’attendibilità delle fonti. Quindi, coloro che cercano delle informazioni o che ricevono una notizia, ad esempio per una condivisione da parte di un amico, ricorrono a quelle che si chiamano “euristiche“, vale a dire delle scorciatoie mentali che permettono di prendere decisioni semplici e veloci.

Tra le varie euristiche possiamo quindi avere, ad esempio, la cosiddetta “self-confirmation heuristic” in base alla quale colui che cerca le informazioni tende a privilegiare quelle fonti che confermano i suoi punti di vista. Un’altra euristica è la cosiddetta “endorsement heuristic” per cui si tendono a validare le informazioni già ritenute affidabili da altri.

La vaccinazione contro le false notizie

Le euristiche, quindi, ci permettono di prendere decisioni semplici e veloci con poco o nessuno sforzo cognitivo. Peraltro, se talvolta portano a decisioni corrette, può anche capitare che le euristiche siano la causa di comportamenti errati. Ciò può accadere perché l’utilizzo di una di queste “scorciatoie mentali” ci può far ritenere come valide informazioni che in realtà non lo sono.

Ma come rimediare nel momento in cui ciò accade? E’ sufficiente che le persone “disinformate” vengano correttamente informate?

E’ stato visto (Stephan Lewandosky e altri, 2020) che non è sufficiente evidenziare le informazioni giuste. Anzi, può anche accadere che si abbia un “back-fire effect” (Stephan Lewandosky e altri, 2012) (Stephan Lewandosky e altri, 2020) per cui l’esposizione all’informazione corretta rinforza la convinzione in quella errata.

E’ evidente, però, che questo non può farci desistere dal combattere la disinformazione (Stephan Lewandosky e altri, 2020). E’ quindi importante, in primo luogo, tarare la comunicazione delle informazioni corrette a seconda dei destinatari del messaggio.

Un altro modo per evitare che le persone cadano vittima di disinformazione, peraltro, è quella di “vaccinarle” contro la disinformazione (John Cook, Stephan Lewandosky, Ullrich K. H. Ecker, 2017) (Stephan Lewandosky, Sander an der Linden, 2018) (Jon Roozenbeek, Thomas Nygren, Sander van der Linden, 2020). La vaccinazione, come tutti sappiamo, consiste nell’inoculazione di un virus o di un batterio debole nell’organismo di un paziente, in modo che il suo sistema immunitario sviluppi degli anticorpi contro quel virus o batterio. Il vaccino contro la disinformazione opera nella stessa maniera. Il “paziente” viene quindi esposto ad un esempio di disinformazione, in modo che possa sviluppare gli opportuni “anticorpi” alle false notizie.

Un esempio

Un esempio di vaccinazione valido è sicuramente quello che prende in esame l’utilizzo delle figure dei Premi Nobel. Spesso, infatti, i soggetti interessati a diffondere disinformazione

  1. strumentalizzano la figura dei Premi Nobel;
  2. diffondono notizie (false e non verificate né verificabili) su presunte “candidature” al Premio Nobel.

Ed è stato visto che spesso tali “trucchi” sono stati usati (ironia della sorte) dal movimento NO-VAX al fine di avvalorare le proprie posizioni (ma potrebbe usarli un qualunque altro soggetto che diffonde disinformazione). E’ stata ad esempio utilizzata la figura di Luc Montagnier, che è stato Premio Nobel per la Medicina nel 2008, ma che negli ultimi anni ha aderito alle posizioni NO-VAX. (Candice Basterfield e altri, 2020). E qua, evidentemente, ci cascherebbe chiunque. Ognuno di noi penserebbe: “Cavoli, se lo ha detto un Premio Nobel, sarà vero”.

La questione, che molti ignorano, è che la storia è piena di Premi Nobel che poi hanno “perso la retta via” aderendo a posizioni molto criticabili. Oltre a Luc Montagnier si può citare Linus Pauling, Premio Nobel per la Chimica nel 1954 e per la Pace nel 1962, il quale sostenne che massicce dosi di vitamina C fossero utili contro il tumore (Candice Basterfield e altri, 2020). Altri esempi, in tempi più remoti, ma comunque significativi, sono quelli di Philipp Van Lenard, vincitore del Premio Nobel in fisica nel 1905, e di Johannes Stark, che fu insignito del Premio Nobel in fisica nel 1919. Entrambi abbracciarono l’idea di una “fisica ariana” e  criticarono la “fisica ebraica” di Albert Einstein.

Per quello che riguarda invece le presunte “candidature” al Premio Nobel, in tempi recenti sempre i NO-VAX hanno cercato di mostrare come autorevole il Prof. Giulio Tarro in quanto “candidato al Nobel”. La questione, che molti ignorano, è che le candidature al Premio Nobel vengono rese pubbliche solo dopo 50 anni, quindi nessuno può avere notizia delle medesime se non dopo il predetto lasso di tempo.

Essere vaccinati contro uno dei (tanti) metodi di disinformazione ci può quindi fornire uno strumento che può aiutare a distinguere le informazioni corrette dalle false notizie.

 

L’Umanesimo e l’Umano: le componenti di stampo cattolico nel pensiero di Vittorino Andreoli

Vittorino Andreoli è uno dei più noti accademici e psichiatri nella cultura italiana. Sebbene si identifichi nella visione umanistica di stampo laico, molte componenti del suo Pensiero sono riconducibili ad una matrice cattolica.

 

Vittorino Andreoli, che nel 2020 ha raggiunto le 80 primavere, è uno dei più noti accademici e psichiatri italiani. E’ noto sia per il suo lavoro accademico (Andreoli et al, 2002) che per il suo lavoro come scrittore di saggistica e di romanzi (Moncalero, 2018), oltre che esser stato l’esperto convocato in alcuni dei casi di cronaca nera più noti della cultura italiana, come quello di Pietro Maso (Scorranese, 2018).

Il professor Andreoli, nella sua lunga carriera, si è distinto principalmente per la lotta per la rivalutazione e umanizzazione del malato mentale (Huffpost, 2018), per la sua attenzione verso il mondo giovanile e le sue problematiche (Varlese, 2020), per la sua critica verso i sistemi educativi e scolastici italiani (Andreoli, 2015) e per la sua analisi critica della professione psichiatrica (Andreoli, 2017).

Uno degli aspetti più interessanti e a volte controversi è la matrice di stampo religioso degli elementi del suo pensiero.

Come descrive Andreoli, egli è cresciuto in un contesto cattolico al quale egli è stato molto legato vista anche la sua partecipazione nell’Azione Cattolica (Andreoli, 2000): tuttavia, l’incontro con il pensiero Marxista e il ruolo dell’Uomo dentro il pensiero comunista lo hanno allontanano dalla religione (Andreoli, ibidem).

Anche se continua a identificarsi in un pensiero Umanistico dove l’Uomo e le sue disposizioni è il soggetto rispetto ad una visione teocentrica, Vittorino Andreoli, nel suo pensiero, affronta alcune tematiche con un’ottica molto influenzata dalla Religione. Come indica l’accademica Emma Young (2020), le persone che perdono l’interesse o la fede nella propria religione sono tuttavia influenzate in maniera perenne, anche nelle questioni marginali, dal loro Credo passato.

Per questo certe visioni di Andreoli presentano caratteristiche che hanno similitudini con la visione cristiana.

Un esempio principale è la sua avversione verso la spiegazione di tutti i Misteri: per Andreoli, il Credere è un bisogno imprescindibile per l’essere umano, perché è un meccanismo di difesa dalla conoscenza della Morte, che deve essere tenuto entro confini sani e che non deve essere intaccato dallo scientismo (Andreoli, 2015).

Un altro esempio è l’importanza dell’essere umano di stare con i suoi simili, di stare in una Comunità: di fatti, Andreoli è critico nei confronti dell’idea della Libertà, poiché essa allontana l’essere umano dal suo bisogno biologico e fisiologico di animale sociale (Andreoli, 2018).

Per concludere, un’altra sua visione che può essere letta attraverso un’ottica cattolica è la sua contestualizzazione della figura Madre – Figlio: il professore Andreoli è contrario all’aborto e identifica nella figura della Madre un elemento legato in maniera inossidabile alla crescita sana della struttura psicofisica umana, tanto da proteggere la visione della Madre dalla svalutazione della società economica (Andreoli, 2016)

 

La percezione della donna tatuata

Molti ricercatori si sono così chiesti come venissero giudicate le donne tatuate, quali caratteristiche venissero loro attribuite da persone esterne o non conosciute direttamente e se il loro grado di bellezza ne fosse in qualche modo intaccato o condizionato.

 

Il tatuaggio nelle donne ha compiuto un viaggio lungo più di un secolo. Gli anni hanno scandito l’uso e il senso dietro questa pratica, passando dall’essere nella nostra società un segno distintivo della classe sociale cui si apparteneva, diventando poi con il tempo un strumento di ribellione verso le caratteristiche ed il ruolo che le norme sociali impongono alla donna, fino a giungere ai giorni nostri sotto forma di ornamento che attraversa le barriere di genere, cultura e classe sociale, diffondendosi indipendentemente dall’età e dalla professione delle persone (Hawkes, 2004).

Tale pratica si è imposta col tempo tra le fila dei più giovani sotto forma di moda, così che i numeri riportano una quadruplicazione dagli anni ’70 agli anni ’90 (Armstrong, 1991), aumento che sembra ancora lontano dall’arrestarsi.

Una grossa quantità di ricerche scientifiche mostra però come nonostante tale diffusione, che coinvolge entrambi i sessi, vi siano ancora importanti pregiudizi che influenzano tanto la percezione quanto il comportamento delle persone.

Molti ricercatori si sono così chiesti come venissero giudicate le donne tatuate, quali caratteristiche venissero loro attribuite da persone esterne o non conosciute direttamente e se il loro grado di bellezza ne fosse in qualche modo intaccato o condizionato.

Nello studio di Daina Hawkes (2004) che ha preso in considerazione un campione composto interamente da studenti universitari canadesi, di entrambi i sessi, tatuati e non, è emersa un’attitudine generalmente negativa verso le donne che avevano un tatuaggio visibile. I soggetti che non avevano alcun tatuaggio e non erano interessati ad averne hanno espresso i giudizi più duri a riguardo.

Tuttavia, i partecipanti che avevano anch’essi un tatuaggio tendevano a considerare le donne tatuate come più forti e attive rispetto alle donne non tatuate. Molto interessante è il fatto che tali caratteristiche sembravano condivise anche dalle donne che non avevano tatuaggi. A tal proposito occorre contestualizzare tali accezioni. In una società in cui vengono considerate la debolezza e la bassa intraprendenza della donna come tratti distintivi, se non addirittura desiderabili, è opportuno chiedersi come vengano valutati atteggiamenti che vanno nella direzione opposta. Parimenti, in una sottocultura che al contrario idealizza la forza e il ruolo attivo della donna all’interno della società, le caratteristiche prima descritte possono essere considerate come potenzialità. Occorre quindi scorgere quale visione della realtà sociale viene condivisa dai partecipanti per comprendere adeguatamente il senso che essi vogliono dare ai loro giudizi.

Se consideriamo come lo studio di Sanders (1988) mostri che le donne siano ben consapevoli dello stigma che un tatuaggio visibile può arrecare loro, non deve sorprenderci che le stesse tendano a decorare parti del corpo meno visibili, in modo da mantenere un’identità sociale non contaminata dai pregiudizi sui tatuaggi delle persone che incontrano. Della stessa idea sembra essere Atkinson (2002), quando afferma che le donne riflettano su tali pregiudizi e che, in base a questi, scelgano la posizione giusta per il loro tatuaggio. Così le donne con un tatuaggio visibile sembrano scegliere di vestire l’handicap insito in una tale decorazione, lanciando una sfida alla società e ai suoi pregiudizi, che nonostante il giudizio negativo, sembra riconoscere loro il carattere e la forza di questa scelta.

Ma la trasgressione provoca reazioni diverse negli uomini e nelle donne non tatuati: mentre le donne sembrano più sensibili degli uomini alla dimensione del tatuaggio che la donna sceglie di sfoggiare, gli uomini non ne sembrano particolarmente influenzati quando giudicano la donna tatuata. Il loro giudizio è negativo a priori, come se non venisse valutata tanto la dimensione della trasgressione quanto la trasgressione in sé.

Non solo: anche gli uomini e le donne tatuati non reagiscono allo stesso modo di fronte a un tatuaggio grande esposto da una donna. Mentre le seconde non esprimono un giudizio negativo, i primi mostrano di condividere la stessa opinione negativa espressa dagli uomini non tatuati. Sembra avvenire, come affermano Hawkes e collaboratori, uno scontro tra un movimento di affiliazione ed una tendenza sessista di vivere la percezione dello stimolo. La dimensione del tatuaggio sembra non cambiare il giudizio delle donne che condividono il fatto di avere anch’esse un tatuaggio, mentre nel caso degli uomini il senso di condivisione viene spezzato, travolto dal modo della donna di vivere il tatuaggio in modo più evidente (Hawkes, 2004).

Lo stesso Douglas (2002) nel suo lavoro mostra come i giudizi verso le donne tatuate tendano ad essere sempre più negativi rispetto a quelli attribuiti alle donne non tatuate: la modifica dell’immagine di una ragazza alla quale è stato aggiunto un drago nero come tatuaggio sulla parte alta del braccio è bastata per farle attribuire dal campione di riferimento determinati aggettivi piuttosto che altri.

Lo stimolo modificato, una ragazza di 24 anni tatuata, veniva immaginato dai partecipanti come una donna meno sportiva, meno motivata, meno onesta, meno generosa e intelligente, meno religiosa e, non ultimo, veniva giudicata come meno attraente rispetto alla stessa ragazza che veniva vista da un altro campione di riferimento senza tatuaggio (Douglas, 2002).

Anche l’esperimento di Seiter (2005) sembra andare nella stessa direzione dei precedenti. Qui i rispondenti giudicavano le ragazze tatuate delle immagini che venivano loro presentate, come meno competenti e meno socievoli rispetto alle donne non tatuate.

Ma i pregiudizi sembrano toccare anche il comportamento sessuale delle persone tatuate.

L’esperimento di Swami (2007) combinava due variabili diverse, quali il colore dei capelli e la presenza o meno di tatuaggi, nei disegni di donne che venivano presentati ad un pubblico maschile, in modo da scoprirne i pregiudizi. In base alle combinazioni proposte i rispondenti dovevano definirne il livello di attraenza fisica, l’attitudine verso la promiscuità e la quantità di alcool che le donne degli stimoli usavano consumare in una serata tipica: è emerso che alle donne tatuate venivano associate maggiori tendenze verso la promiscuità, un maggior uso di alcool e venivano giudicate meno attraenti. Tali giudizi diventavano via via più negativi se il numero di tatuaggi dello stimolo aumentava. Inoltre, alle ragazze illustrate con i capelli biondi venivano attribuiti giudizi più negativi rispetto alle ragazze brune (Swami, 2007).

Il giudizio negativo riguardo la bellezza delle donne tatuate non è stato confermato dall’esperimento di Guéguen (2013), il quale ha invece rinforzato l’evidenza sul pregiudizio della promiscuità. L’esperimento di Guéguen ha mostrato che tale pregiudizio sembrava condiviso dagli uomini fino ad incentivarli in maniera maggiore nel conoscere le ragazze tatuate. L’esperimento si è svolto in alcune spiagge francesi durante l’estate. Sono state scelte delle ragazze senza tatuaggi e, in maniera casuale, è stato applicato ad alcune di queste un tatuaggio provvisorio che rappresentava una farfalla nella zona bassa della schiena. Sia alle ragazze tatuate sia a quelle non tatuate è stato richiesto di sdraiarsi in spiaggia, fingendo di leggere un libro. Ripetendo l’esperimento numerose volte in spiagge diverse è stato notato un più rapido approccio degli uomini verso le ragazze con il tatuaggio rispetto a quelle senza. Conseguentemente è stata rilevata negli uomini che si erano avvicinati alle donne con il tatuaggio la convinzione di godere di una maggiore probabilità di ottenere un appuntamento e di avere un rapporto sessuale al primo incontro, rispetto agli uomini che si erano avvicinati alle ragazze senza tatuaggio. Tale convinzione, legata al pregiudizio che le donne tatuate siano più spregiudicate a livello sessuale, ha messo in moto un determinato comportamento negli uomini.

Tuttavia, la scelta e il modo dell’uomo di approcciare una donna sono guidati da un insieme complesso di componenti: cercando di immaginarne alcune possiamo pensare che l’uomo dia attenzione a molti elementi con i quali la donna comunica la propria personalità e le proprie attitudini, come ad esempio i prodotti cosmetici (Cash et al., 1989; Jacob et al., 2009), i vestiti (Abbey, 1987; Abbey et al., 1987; Guéguen, 2011b; Koukounas & Letch, 2001; Shotland & Craig, 1988), il colore dei capelli (Guéguen & Lamy, 2009; Swami & Barrett, 2011) e persino i tatuaggi. Tutti questi e molti altri rappresentano degli indizi che l’uomo capta e utilizza nel generare il proprio giudizio riguardo a una donna. Giudizio che influenzerà a sua volta, come già sottolineato, il suo comportamento, selezionando in base al proprio orientamento socio-sessuale una donna che egli immagina possedere determinate caratteristiche piuttosto che altre.

Citando la psicologia evoluzionista, la donna consapevole dei pregiudizi che ruotano attorno a determinate caratteristiche, sceglierebbe di vestire il tatuaggio per attrarre un maggior numero di uomini così da avere la possibilità di scegliere il migliore tra i tanti (Greer & Buss, 1994). Parimenti, l’uomo punterebbe alle donne che egli crede essere più recettive a livello sessuale per aumentare la possibilità di disseminare i propri geni (Buss & Schmitt, 1993). La consapevolezza della donna su tali pregiudizi spingerebbe ancor di più gli uomini a focalizzarsi verso donne che esibiscono tali segnali.

Ma se consideriamo che la seduzione è un gioco a volte fine a sé stesso, e che gli obiettivi relazionali non sono scolpiti nella pietra ma cambiano anche in base alla persona che abbiamo di fronte, difficilmente possiamo immaginare una realtà così meccanica e automatica. Molto spesso tali pregiudizi fanno muovere le persone verso vicoli ciechi e solo l’essere giunte di fronte ad un muro le costringerà a capire che la persona che stavano seguendo era altro da come l’avevano immaginata e che realtà e apparenza non si sovrappongono quasi mai perfettamente.

 

Bilinguismo e sviluppo cerebrale: differenze tra apprendimento precoce e tardivo della seconda lingua

Studi sul bilinguismo mostrano come l’acquisizione di due lingue dalla nascita e quindi l’esposizione linguistica arricchita si traducano in una competenza equivalente in entrambe le lingue apprese e cambiamenti a livello di neuroplasticità.

 

Il cervello mostra una notevole capacità di subire cambiamenti strutturali e funzionali in risposta alle esperienze che caratterizzano la nostra vita. Le evidenze scientifiche suggeriscono che in molti domini dell’acquisizione di nuove abilità la manifestazione di questa neuroplasticità dipende dal periodo della vita in cui inizia l’apprendimento (Berken, Gracco & Klein, 2017). Il bilinguismo fornisce un modello ottimale per evidenziare le differenze esistenti tra l’acquisizione di una lingua dalla nascita, con la creazione del circuito cerebrale per il linguaggio, e l’apprendimento tardivo di una nuova lingua, quando i circuiti relativi alla prima lingua sono già ben sviluppati.

La review di Berken e colleghi esamina alcune delle conoscenze esistenti sui periodi ottimali nello sviluppo del linguaggio, prestando particolare attenzione al raggiungimento della fonologia di tipo nativo, o lingua madre. Berken e collaboratori si sono concentrati sulle differenze nella struttura e nella funzione del cervello tra bilingui simultanei, che hanno quindi appreso due lingue alla nascita, e bilingui sequenziali, che hanno invece imparato la seconda lingua quando la prima era già stata consolidata. Queste tipologie di ricerche possono essere svolte grazie al neuroimaging, in cui si utilizzano tecnologie che consentono di studiare la relazione tra l’attività di determinate aree cerebrali e specifiche funzioni. Tra i principali strumenti di neuroimaging impiegati nelle ricerche sul bilinguismo troviamo la tomografia a emissione di positroni (Positron Emission Tomography, PET), la risonanza magnetica funzionale (functional Magnetic resonance imaging, fMRI) e la risonanza magnetica strutturale (Magnetic Resonange Imaging, MRI).

Lenneberg (1967) rese popolare l’osservazione di Penfield e Roberts (1959), secondo cui l’acquisizione di una capacità linguistica di livello ‘madrelingua’ fosse limitata dall’età, diventando progressivamente più difficile da raggiungere dopo un periodo critico che si ritiene termini con la pubertà, riflettendo un grado significativo di sviluppo del cervello.

È noto che i neonati preferiscano ascoltare il parlato rispetto ad altri suoni (Vouloumanos & Werker, 2004; Moon, Cooper, & Fifer, 1993), e, a questo proposito, i bambini esposti ad un certo linguaggio dalla nascita dimostrano, in un primo momento, una capacità universale di percepire i fonemi di tutte le lingue (Kuhl, 2010; Werker e Tees, 1984). All’età di 6 mesi, tuttavia, la capacità del bambino di discriminare i contrasti fonemici non nativi inizia a diminuire, inizialmente per le vocali e successivamente per le consonanti (Kuhl, 2004; Kuhl et al., 1992). Dai 9 ai 10 mesi di età, le vocalizzazioni prelinguistiche del bambino somigliano molto alla fonetica della loro lingua madre (Poulin-Dubois & Goodz, 2001). Entro i 12 mesi, la capacità fonetica del bambino è sintonizzata per acquisire la lingua a cui è stato esposto (Kuhl & Rivera-Gaxiola, 2008; Werker & Lalonde, 1988), facendo sì che l’accento del bambino diventi indistinguibile da quello di un madrelingua (Simmonds et al., 2011a). Tali osservazioni supportano l’esistenza di un periodo sensibile nell’acquisizione del linguaggio da parte del bambino, specialmente per quanto riguarda lo sviluppo fonologico; esistono inoltre prove abbondanti per una correlazione tra l’età di acquisizione e la competenza linguistica finale (Newport, Bevelier, & Neville, 2001; Moyer, 1999).

Per quanto riguarda l’acquisizione di due lingue dalla nascita, sembra che l’esposizione linguistica arricchita si traduca in una competenza equivalente in entrambe le lingue apprese. A livello microscopico, un ambiente bilingue durante il periodo neonatale può provocare una cascata di eventi biochimici che aumentano la produzione dei substrati cellulari che regolano la neuroplasticità, nonché la durata della loro sintesi (Berken et al., 2017). Ciò a sua volta, potrebbe provocare cambiamenti macrostrutturali che si manifestano come un’attivazione efficiente durante il discorso, un aumento delle dimensioni di alcune aree cerebrali del linguaggio e delle connessioni più forti tra regioni cerebrali distribuite all’interno della rete linguistica. Tale neuroplasticità avviene al fine di gestire e monitorare ciascuna lingua e per prevenire interferenze tra le due (Berken et al., 2017).

I modelli di sviluppo del linguaggio hanno quindi rivelato che quando due lingue vengono acquisite contemporaneamente dalla nascita, la funzione e la struttura del cervello sembrano essere organizzate in modo più efficace. Tuttavia, quando l’apprendimento di una seconda lingua si sviluppa più tardi nella vita, la capacità di cambiamento neuroplastico sembra essere più limitata (Berken et al., 2017): un’efficace acquisizione della seconda lingua potrebbe necessitare di più tempo ed impegno.

 

I serious games e le loro applicazioni. Dagli esergame ai games basati sul biofeedback – Lo psicologo del futuro

Un serious games è un gioco programmato con espliciti obiettivi pedagogici e/o psicologici ben definiti dal principio ed il cui scopo non è puramente ludico. Ciò non implica la creazione di giochi non divertenti, anzi, proprio grazie alla forma coinvolgente che contraddistingue i videogiochi sarà più facile raggiungere gli obiettivi prefissati.

LO PSICOLOGO DEL FUTURO – (Nr. 7) I serious games e le loro applicazioni. Dagli esergame ai games basati sul biofeedback

 

Tra gli obiettivi più diffusi ad oggi troviamo lo sviluppo di nuove conoscenze (ad esempio scientifiche), la formazione di nuove competenze (ad esempio meccaniche, chirurgiche), la modificazione di comportamenti disfunzionali e lo sviluppo di abilità cognitive (ad esempio training attentivi).

Molti di questi giochi si basano sul presupposto del fallimento, creando sfide che spronano i soggetti a mettere in campo un maggiore impegno, stimolando l’apprendimento. Quando la sfida diventa troppo difficoltosa ed in seguito ad una serie ripetuta di fallimenti, per evitare al giocatore di sperimentare un senso di frustrazione non funzionale, l’assistenza fornirà indicazioni per poter progredire. Una volta ottenuti tali suggerimenti, il gioco rimetterà alla prova il partecipante con altre sfide senza fornire nuovamente le indicazioni.

Evitare di generare frustrazione nel partecipante, tanto potrebbe far tremare Albert Ellis (Ellis et al., 1985), quanto risulta essere alla base di molti serious games che hanno fatto della “zona di sviluppo prossimale” (Bruner, 1984) uno dei capisaldi del proprio operato, abbracciando anche le evidenze, seppur scarse, che dimostrano come le emozioni positive associate al gioco amplifichino le possibilità che le persone espandano le proprie risorse (Fredrickson, 2001).

Tornando alla tolleranza alla frustrazione e ad altri obiettivi di natura più propriamente psicoterapeutica, attualmente gli studi che si sono concentrati sui serious games a carattere psicoterapeutico sono ancora esigui. Ma dai dati a disposizione emerge che tali games sono risultati efficaci ed i pazienti hanno trovato piacevole l’esperienza di gioco ed inoltre è emerso che hanno avuto accesso alle cure anche persone che altrimenti, per diversi motivi, ne risultavano esclusi.

In particolare, in una review del 2017 (Fleming et al., 2017) sono state riportate nel dettaglio sei modalità di serious games per salute mentale:

  • Esergame: ovvero, i giochi basati sul movimento sono risultati efficaci nel trattamento di sintomi depressivi, soprattutto nel caso di pazienti appartenenti alle fasce di età più avanzate.
  • Realtà Virtuale e Realtà aumentata: sono serious games che si servono degli strumenti virtuali per garantire un’interattività immersiva, che può essere arricchita da vari stimoli sensoriali non solamente visivi e uditivi. L’impatto terapeutico risulta amplificato in questo tipo di videogiochi, capaci di immergere il paziente in un ambiente realistico. Si rimanda alla lettura dell’articolo Daniel Freeman e l’Oxford VR – gameChange: un nuovo progetto sull’uso delle nuove tecnologie.
  • Serious games per computer: in particolare la maggior parte dei giochi presenti in questa categoria si basano sulla riduzione di sintomi relativi a disturbi dell’umore.
  • Serious games basati sulla terapia cognitivo-comportamentale (CBT): tra i più famosi si ritrovano SPARX (per approfondimenti visitare la pagina) e SuperBetter (per approfondimenti visitare la pagina).
  • Biofeedback: in questo tipo di giochi i partecipanti possono provare esercizi di rilassamento, mentre ricevono messaggi sincroni relativi al proprio stato di attivazione fisiologica. Il feedback è dunque uno strumento che permette agli utenti di regolarsi più facilmente nell’attività svolta.
  • Giochi di allenamento cognitivo: tra i giochi più famosi all’interno di questa categoria si trovano giochi che allenano i pazienti depressi nel mantenimento cognitivo, per fronteggiare gli effetti del deterioramento. Negli studi relativi a tali giochi non sono però stati ancora testati gli effetti di tali giochi sull’umore, ma solamente sugli aspetti cognitivi, per i quali risultano essere efficaci.

 

Alla FIRST EUROPEAN CONFERENCE ON DIGITAL PSYCHOLOGY
ci sarà una sezione dedicata interamente ai videogiochi e serious games

Le iscrizioni sono aperte:

ISCRIVITI ORA 9733

 


 

EUROPEAN CONFERENCE OF DIGITAL PSYCHOLOGY
Scoprine di più: 

 

Dialoghi tra Neuroscienze e Psicoterapia: una tavola rotonda degli esperti sulle applicazioni della TMS – VIDEO

I professionisti del Centro TMS hanno tenuto un incontro all’interno della serie “Dialoghi tra Neuroscienze e Psicoterapia” sulla Stimolazione Magnetica Transcranica, illustrandone le caratteristiche e le applicazioni in campo psicoterapico. Pubblichiamo per i nostri lettori il video dell’evento.

 

Il team del Centro TMS, formato da terapeuti, psichiatri e neuroscienziati, si è trovato in una tavola rotonda virtuale per conversare dell’uso della Stimolazione Magnetica Transcranica (TMS) e della sua integrazione con la psicoterapia. In questa intervista a più voci, la dott.ssa Patrizia Vaccaro, oltre a spiegare come funziona il centro TMS di Milano, ha condotto gli esperti a spiegare le basi della TMS, i campi in cui risulta più efficace, come si integra con la psicoterapia e la farmacoterapia.

L’incontro è stato un’occasione per conoscere più da vicino una delle tecniche di neuromodulazione che si sta facendo sempre più spazio nel trattamento di molti disturbi, come ad esempio la depressione e le dipendenze.

 

DIALOGHI TRA NEUROSCIENZE E PSICOTERAPIA
Guarda il video integrale del webinar:

 

 

 

Quanto i pensieri influiscono nella sfera sessuale del Disturbo Ossessivo Compulsivo?

Le ossessioni possono avere diversi contenuti: in questo articolo ci soffermeremo sui pensieri sessuali tipici di una persona con Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC) e sui vissuti relativi alla sessualità.

Matteo Mercadante – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Il Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC)

Nel DSM 5 viene descritto il Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC) come caratterizzato dalla presenza di ossessioni e compulsioni: le prime implicano pensieri, immagini o impulsi ripetitivi e persistenti vissuti come spiacevoli e involontari, e sono vissute come intrusive e indesiderate causando disagio e ansia elevati; le seconde sono dei rituali, comportamenti ripetitivi (es. lavare, controllare) o azioni mentali (es. contare, ripetere parole mentalmente) che la persona si sente obbligata a mettere in atto in risposta a un’ossessione o secondo regole che devono essere applicate rigidamente (APA, 2013).

Le ossessioni possono avere diversi contenuti: in questo articolo ci soffermeremo sui pensieri sessuali tipici di una persona che presenta un DOC.

La sessualità è un aspetto fondamentale per il benessere psico-fisico della persona. Attraverso la sessualità, l’individuo entra maggiormente in relazione con se stesso, conoscendosi ulteriormente e accettando parti di sé. Prendendo consapevolezza della propria sessualità, può sperimentarla con l’altro e creare un’intimità.

La vita sessuale della persona con DOC risulta scarsamente soddisfatta: l’eccessiva ossessione, il controllo sulle emozioni e la rigidità non consentono a questi soggetti di vivere a pieno la loro sessualità, limitandosi in tante situazioni.

Tipologie di pensieri ossessivi riguardo la sessualità

I pensieri ossessivi con contenuti sessuali sono ritenuti inaccettabili dalla persona, vissuti come ego distonici e dolorosi. La loro prevalenza è compresa tra il 6% e il 24% nei soggetti con DOC (Grant et al., 2006).

I contenuti di tali ossessioni sono di vario tipo:

  • Possono presentarsi sottoforma di dubbi, impulsi relativi al proprio orientamento sessuale. Le preoccupazioni relative all’orientamento sessuale rientrano nella più ampia categoria di ossessioni sessuali. Le ossessioni per l’orientamento sessuale includono ricorrenti dubbi sul fatto che si possa essere omosessuali o eterosessuali, la paura di diventare omosessuali o la paura che altri possano pensare di essere omosessuali. Una persona può avere solo una di queste preoccupazioni o una combinazione. Un paziente con ossessioni sull’orientamento sessuale potrebbe avere pensieri del tipo: ‘Come posso essere attratto dagli uomini se ho sempre amato le donne? Ho frequentato molte donne prima e non ho mai pensato a una relazione con un uomo. Pensare di fare atti sessuali con un membro dello stesso sesso mi respinge. Non posso essere gay. Ma perché penso sempre agli uomini? Questo significa che sono gay.’ (Williams e Farris, 2011);
  • Ossessioni sulla possibilità di mettere in atto comportamenti devianti nella sfera sessuale (es: poter essere aggressivi con il partner, avere impulsi di tipo pedofilico);
  • Paure inerenti lo sporco e la contaminazione;
  • Dubbi ossessivi sulla relazione e sul partner (es. pensare a delle relazioni extraconiugali implica, per il soggetto con DOC, averle avute e quindi tradire il partner);
  • Impulsi inaccettabili nei confronti della famiglia o di figure religiose (es. immagini sessuali nei confronti di un parente o di una figura religiosa).

I pensieri ossessivi con contenuto sessuale possono far emergere diversi vissuti come disgusto, ansia, colpa, paura e vergogna a causa delle loro implicazioni morali, sociali e interpersonali.

Tendenzialmente, la persona con DOC non tollera queste emozioni e cerca di attenuarle attraverso comportamenti compulsivi di vario tipo come, ad esempio, la ricerca di rassicurazione negli altri, oppure trovare informazioni riguardo al tema temuto o, ancora, controlli ripetuti del proprio grado di eccitazione sessuale di fronte agli stimoli temuti. Il DOC con dubbi sulla propria omosessualità potrebbe cercare di auto-rassicurarsi ripercorrendo mentalmente le situazioni attivanti per cercare delle prove del proprio timore come, ad esempio, analizzare mentalmente nel dettaglio tutti i gesti appena effettuati di fronte a una persona dello stesso sesso. Tali comportamenti di auto-analisi possono essere visti anche in soggetti con altri tipi di ossessioni sessuali riguardanti bambini, familiari, ecc.

In uno studio di Siev e colleghi (2011) sono state esaminate le caratteristiche cognitive e cliniche associate alle ossessioni sessuali e hanno evidenziato la loro correlazione con le credenze riguardo l’importanza e il controllo dei pensieri e valutazioni immediatamente dopo specifiche intrusioni mentali indesiderate. Tali risultati dimostrano che gli individui con pensieri ossessivi di tipo sessuale sono angosciati dalla presenza e dal significato dei pensieri in sé.

Credenze circa i pensieri sessuali e ai comportamenti

Per quanto riguarda le credenze riguardo ai pensieri e alle intrusioni, sono presenti delle ‘credenze di fusione’ denominate da Wells, il quale determina tre domini di tali meta credenze (Wells, 2018):

  • Fusione Pensiero-Evento (Thought-event fusion, TEF) ossia credere che avere un pensiero intrusivo significhi che un evento si sia verificato o si verificherà. Ad esempio, se è presente il pensiero intrusivo di baciare una persona dello stesso sesso, può portare a credere che il solo pensarlo potrebbe significare di essere omosessuale o di poterlo diventare;
  • Fusione Pensiero-Azione (Thought-action fusion, TAF) cioè credere che i pensieri intrusivi, le sensazioni e gli impulsi abbiano il potere di far fare al soggetto qualcosa di non desiderato o sgradevole. Per esempio, avere l’immagine mentale di essere aggressivi con il proprio partner durante un rapporto sessuale può essere interpretato come qualcosa che accadrà e quindi il soggetto crede che compierà quell’azione;
  • Fusione Pensiero-Oggetto (Thought-object fusion, TOF) ossia credere che i pensieri e gli impulsi negativi possono essere trasferiti sugli oggetti, diventando più ‘reali’ e dannosi, oppure capaci di trasferirsi da un oggetto all’altro. Ad esempio, un individuo che pensa di poter essere un pedofilo mentre utilizza un rasoio, è convinto che tale pensiero possa trasferirsi sul rasoio stesso e quindi, in futuro, usarlo potrebbe aumentare il rischio di diventarlo per davvero.

Le credenze riguardo il bisogno di mettere in atto i rituali e i comportamenti neutralizzanti, riflettono solitamente l’importanza di controllare pensieri, impulsi e sensazioni come l’ansia (es. ‘Devo controllare la mia eccitazione, altrimenti l’ansia non diminuirà mai!’). Inoltre, sono presenti quando l’individuo ha bisogno di autoregolarsi mentalmente e fisicamente (es. ‘Devo mantenere uno stato mentale di calma per non avere quelle immagini violente mentre faccio sesso con la mia ragazza’).

Le credenze inerenti ai rituali rappresentano un livello metacognitivo che guida le risposte di coping con lo scopo di raggiungere uno stato ‘desiderato’, identificato con la ‘giusta’ messa in atto di comportamenti neutralizzanti.

I pensieri intrusivi diventano pericolosi per la persona con DOC a causa delle metacredenze legate a essi: l’individuo, quindi, cerca di valutare la pericolosità o meno della situazione senza dei fatti concreti e affidandosi a dei segnali interni, definiti ‘segnali di arresto’, che servono per interrompere i rituali: ad esempio, un soggetto con dubbi ossessivi sul suo orientamento sessuale, potrebbe smettere di controllare i gesti effettuati davanti a un’altra persona dello stesso sesso quando per cinque minuti non ha avuto pensieri intrusivi sulla sua sessualità. Tali segnali, tuttavia, sono difficili da soddisfare e ciò implica nuove intrusioni mantenendo attivo lo stress (Ibidem, 2018).

Vivendo in uno stato di ansia, il soggetto tenderà a interpretare erroneamente le proprie sensazioni fisiologiche e le attribuirà non al fatto che possa sentirsi ansioso, ma al fatto che possa essersi attivata una certa eccitazione sessuale, confermando ulteriormente i propri dubbi ossessivi. L’ansia, se prolungata nel tempo, può diventare molto invalidante per la persona, arrivando anche ad evitare tutta una serie di situazioni o stimoli attivanti: persone, luoghi, i pensieri stessi, ecc. Tali limiti influiscono significativamente compromettendo il funzionamento dell’individuo in diversi ambiti, tra cui quello legato alla sfera sessuale, provocandone un notevole disagio.

Alcuni autori (Albert et al., 2019) hanno esaminato vari studi in cui sono stati rilevati i fattori associati al rischio di suicidio nel DOC per identificare i predittori di suicidalità: tra quelli più significativi vi sono la gravità del DOC e la dimensione sintomatica dei pensieri inaccettabili (come aggressioni sessuali, religiose, ecc.).

In terapia è fondamentale intervenire sulle credenze metacognitive relative alle intrusioni e alle credenze inerenti i rituali e segnali di arresto (Wells, 2018): modificando tali credenze e rinforzando nuovi piani metacognitivi di elaborazione, la persona non percepirebbe più come pericolosi e inaccettabili i pensieri intrusivi e, di conseguenza, potrebbe permettersi di vivere più serenamente la sua vita sessuale.

 

Psicologia del tradimento: la natura dell’infedeltà

Viviamo in un periodo storico ipocrita e paradossale: da un lato la società ci propone e ci indirizza verso una sessualità svincolata da ogni tabù, dall’altro ci mortifica e fa vergognare del tradimento, anzi se solo osiamo ‘pensare’ di tradire.

 

Come si definisce quella situazione in cui una persona giura amore ad un’altra persona, garantendole fedeltà per tutta la vita?

Monotonia.

Scusate, piccolo lapsus freudiano: volevo dire monogamia.

Quando ho comunicato a mia moglie che avrei scritto un articolo sul tradimento, mi ha risposto sorridendo: «Ti verrà facile! Per natura tu sei infedele!».

Nella speranza si riferisse alla mia mania di abbandonare operatori telefonici a cui fino ad un attimo prima spergiuravo amore eterno per poi puntualmente tradirli con la più giovane e nuova compagnia che fa irruzione sul mercato, ho istintivamente (o forse sarebbe meglio dire difensivamente?) elaborato il seguente pensiero:

Ma in fondo, per natura, non siamo tutti un po’ infedeli?

L’uomo, infatti, è alla costante ricerca di piacere, di bellezza, di sensualità, di attrazione, di fantasia, di pulsione, di voglie, di novità.

Sono sensazioni che proviamo tutti, ma poiché siamo impegnati nella nostra salda e duratura relazione sentimentale, crediamo di non poter desiderare altro essere umano al di fuori del partner e le volte in cui riusciamo ad ammettere l’attrazione verso il nuovo collega appena assunto, dobbiamo aggrapparci ad una plausibile giustificazione per la nostra castigata e bigotta coscienza che molto spesso è di questo tenore:

Se ho voglia di lui/lei, significa che qualcosa non va nel mio attuale rapporto‘.

Sigmund Freud sottolineava come tutte le fissazioni, dopo un po’ di tempo, diventino inevitabilmente un disturbo della psiche; in pratica se desidero qualcosa e la mia natura istintivamente mi sprona a conquistarla, sono frenato dalla (dannata) mente che mi ricorda quanto sia riprovevole questo mio istinto, quanto queste pulsioni non siano socialmente accettabili e inoltre mi ricorda quanto dolore infliggerei a mia madre se venisse a sapere che, nonostante tutti i suoi sforzi, ha cresciuto un figlio fedifrago e lussurioso.

Nel film appena descritto, i protagonisti siamo noi ma il copione l’ha redatto integralmente la nostra mente.

Se così non fosse perché nonostante tutti i tentativi di reprimerla, questa strana ‘voglia’ la continuiamo a provare?

Viviamo in un periodo storico ipocrita e paradossale: da un lato la società ci propone e ci indirizza verso una sessualità svincolata da ogni tabù, dall’altro ci mortifica e fa vergognare se osiamo tradire, anzi se solo osiamo ‘pensare’ di tradire.

In realtà, credo che la questione sia abbastanza semplice anche se dura da accettare: siamo tutti destinati ad annoiarci delle cose e delle persone che abbiamo accanto, e il vero dramma è che la noia subentra a prescindere dalla bellezza o dal valore che diamo a ciò che possediamo.

È lo stesso principio che ha permesso all’umanità di evolversi perché l’infinito desiderio dell’uomo di spingersi oltre ogni suo limite e lottare per conquistare un mondo nuovo esiste solo perché quello vecchio… lo conosce già.

Noi trattiamo così male il nostro pianeta perché ci siamo abituati e, diciamolo, anche un po’ stufati della sua bellezza che diamo ogni giorno per scontata.

Sapete che cosa hanno in comune Uma Thurman, Victoria Beckham, Siena Miller, Jennifer Garner e la top model Jarry Hall, oltre ad essere state nominate tra le donne più belle dell’universo?

Sono state tutte tradite dal rispettivo compagno con la babysitter di turno che, mentre si occupava dei loro figli, contemporaneamente si occupava anche dei loro mariti.

Quello che voglio dire è che non ha importanza se stai frequentando Scarlett Johansson; tra un po’ di tempo, lei non ti ecciterà più come il primo giorno e lo so che adesso lo ritieni impossibile ma è solamente perché non la stai frequentando per davvero, Scarlett Johansson.

Eccola quindi la realtà, in tutta la sua crudeltà: è la nostra natura, è il nostro istinto primordiale che a volte riusciamo a non ascoltare fino a non renderci nemmeno conto che proviamo nuove pulsioni, che a volte riusciamo a reprimere anche se il nostro caro inconscio prima o poi le farà riemergere sotto qualche altra forma, e che a volte predominano in tutta la loro travolgente spiazzante naturalezza.

Non possiamo, perciò, decidere autonomamente di provare attrazione verso un’altra persona.

Possiamo, però, scegliere di non farlo diventare un problema.

Siamo più di 7 miliardi su questo pianeta, non è un po’ esagerato tormentarsi moralmente, riempirsi di sensi di colpa, avere rimorsi di coscienza, mettere in discussione la nostra relazione e in alcuni casi addirittura tutta la vita, solo perché proviamo una qualche forma di desiderio spesso non ancora ben definibile nei confronti di un altro essere umano?

Come sostiene la geniale psicoterapeuta Esther Perel nel libro Così fan tutti, le storie clandestine che sopravvivono una volta uscite allo scoperto, sono statisticamente pochissime.

Ma come? Da una relazione per la quale è stato messo a rischio così tanto, ci si aspetterebbe una maggiore resistenza e invece quando arriva la separazione o il divorzio, quando cioè il sublime si mescola con l’ordinario e il rapporto entra nel mondo reale fatto del ‘tocca a te fare i piatti’ e dell”abbassa la tavoletta’, tutto finisce per magia.

L’incantesimo svanisce perché troppo spesso ricercando lo sguardo altrui non è solo dal nostro partner che ci stiamo allontanando, ma anche dalla persona che siamo diventati.

Non è solo un altro essere umano che ci provoca pulsioni, ma è anche il nuovo contesto fatto di segretezza, di trasgressione, di incertezza, di indeterminazione, di fisicità che ancora non conosciamo a memoria e del fatto di non sapere se e quando avverrà il prossimo clandestino incontro.

Noi cerchiamo un altro amante quanto un’altra versione di noi stessi, perché questo ci consentirebbe di poter dare giusto una ‘piccola occhiata’ alla parte sconosciuta che è dentro di noi, che ci spaventa e affascina allo stesso tempo.

Freud rimarcherebbe il nostro eterno essere bambini: non possiamo avere l’amante perché sappiamo che è sbagliato… ed è proprio per questo che lo vogliamo ancora di più!

Dal punto di vista biologico, quando siamo attratti da qualcuno, il nostro cervello genera degli ormoni responsabili dell’aumento della pulsazione, della pressione sanguigna e della voglia sessuale. Questi ormoni, oltre a danzare come Nureyev liberamente per tutto il nostro corpo, stimolano l’ipofisi che a sua volta produce ossitocina e fa venire voglia alle persone che si piacciono di fare sesso.

Anzi, spesso la voglia viene solo ad una parte (generalmente l’uomo), se l’altra parte non corrisponde la pulsione (generalmente la donna).

In questa adrenalinica situazione il nostro corpo è alterato, per cui è naturale che dopo un po’ i livelli fisiologici siano destinati a calare e a stabilizzarsi ma non è altro che una reazione del nostro organismo che, per tutelarci, ci riequilibra a valori ordinari.

Noi, però, che commettiamo da sempre il madornale errore di equiparare la quotidianità alla banalità, lo consideriamo un primo preoccupante calo dell’innamoramento.

Nel libro Matrimonio e morale del 1929, il filosofo Bertrand Russell, sottolinea come «la Psicologia dell’adulterio è falsata dalla morale convenzionale che nei paesi monogami, l’attrazione per una persona non possa coesistere con il serio affetto per un’altra. Tutto questo è falso».

Non erano nemmeno gli anni ‘30 e già il concetto di monogamia vacillava.

A pensarci bene, però, in fondo il dogma della monogamia è presente nella nostra natura.

Forse abbiamo sempre dato per scontato che dovesse essere quella fisica, mentre in realtà concetti di unicità e fedeltà si sposano molto meglio con la monogamia… sentimentale.

Per amore della rosa, si sopportano anche le corna recita un famoso proverbio in cui si respira tutta la saggezza popolare.

Ah no, scusate. Si sopportano anche le spine, non le corna.

Maledetti lapsus freudiani!

L’arte di riparare un cuore (2020) di Duccio Baroni – Recensione

L’arte di riparare un cuore risulta un libro intelligente e agile, nel quale l’autore, racconta e supporta il processo di elaborazione del lutto relativo alla perdita di una relazione significativa..

 

Può accadere lentamente, come una candela che si spegne, o inaspettatamente, come un’esplosione. In entrambi i casi ciò che resta sono ceneri e macerie.

La fine di una relazione è un’esperienza umana dolorosa, che può causare una sofferenza acuta, totalizzante, difficile da fronteggiare. Baroni, ne L’arte di riparare un cuore, conduce con gentilezza il lettore lungo un percorso di accettazione delle emozioni sgradevoli connaturate alla fine di un amore, normalizzandole e contestualizzandole in una cornice funzionale: quel dolore ha un senso, un significato che, se accolto ed elaborato, può permetterci di rifiorire con ritrovata vitalità. E, se rialzarsi ‘tra le macerie’ di ciò che è stato è uno sforzo simile a quello di attraversare un bosco oscuro (in assenza di energie e senza alcuna indicazione sulle strade da prendere), ‘l’arte di riparare un cuore’ può fungere da guida per orientare il proprio cammino verso l’uscita.

Lo diviene offrendo una serie di strumenti utili a ‘puntellare’ il percorso di risalita, tra i quali le tecniche di grounding, l’acceptance degli stati emotivi, la respirazione diaframmatica, la self compassion, la mindfulness, il rilassamento muscolare progressivo. Tra le pagine, il lettore è piacevolmente stimolato da attività ed esercizi, adatti per praticare con immediatezza la teoria.

Nel complesso, L’arte di riparare un cuore risulta un libro intelligente e agile, nel quale l’autore, pur utilizzando un linguaggio che risulta familiare ai terapeuti cognitivo-comportamentali, racconta e supporta, con leggerezza e semplicità, il processo di elaborazione del lutto relativo alla perdita di una relazione significativa.

A partire dal superamento della fase iniziale, la negazione, il percorso tracciato da Baroni è ricco di spunti, strategie ed indicazioni: far saltare i ponti col passato, prendersi amorevolmente cura di sé, creare una valida rete di supporto, fronteggiare le tempeste emotive, comprendere e dare significato alla rottura della relazione, riconoscere i propri schemi disfunzionali per imparare a costruire relazioni più soddisfacenti.

 

L’arte dell’influenza: quando e perché gli artisti che deviano dalle regole hanno un impatto maggiore

Mentre alcuni artisti raggiungono la fama, altri cadono nell’oblio (Stamkou et al., 2018). Che cosa determina l’impatto che un artista e la sua arte possono avere?

 

Gli uomini che vengono ricordati secoli dopo la loro morte, in gran parte sono artisti. Pittori come Monet sono considerati dei geni al giorno d’oggi, eppure furono criticati duramente dai loro contemporanei per aver violato norme legate alla bellezza (Stamkou et al., 2018). Prendendo in considerazione un punto di vista psicologico, le deviazioni dalle norme prevalenti rappresentano una vera e propria sfida per lo spettatore perché rendono più difficile la comprensione del significato di un’opera d’arte, smorzando così la sua fluidità a livello visivo (Koffa, 1935; Landau et al., 2006; Schwarz et al., 2004; Reber et al., 1998; Rosch, 1975). Sia nel settore sociale che in quello artistico, ci si aspetta che le persone preferiscano modelli che si conformino maggiormente alle norme e alle aspettative implicite culturali. Di conseguenza, le idee che violano le aspettative culturali e le persone che violano le norme sono trattate con sospetto e vengono scoraggiate (Mueller et al., 2012; Okimoto e Brescoll, 2010) in quanto rappresentano una minaccia per gruppi e società ben funzionanti (Heerdink et al., 2013; Jetten e Hornsey, 2014; Jonas et al., 2014; Proulx et al., 2010; Van Kleef et al., 2015).

Per devianza artistica si intende una compromissione dell’impatto visivo di un’opera, dovuta a stimoli inaspettati che sono più difficili da elaborare e da comprendere (Koffka, 1935; Landau et al., 2006; Reber et al., 1998, 2004; Rosch, 1975). Nelle teorie di percezione visiva, il mantenimento della percezione di stimoli previsti richiede meno risorse cognitive, di conseguenza genera un effetto maggiormente positivo (de-Wit, Machilsen e Putzeys, 2010). Artisti che si discostano dalle norme culturali hanno maggiori probabilità di evocare emozioni negative come colpa e rabbia (Helweg-Larsen e LoMonaco, 2008; Kam e Bond, 2009; Ohbuchi et al., 2004), rischiando di perdere la loro posizione nell’ambito artistico (Yukl, 2010).

Nel campo artistico, le preferenze predicibili erano legate a stimoli riguardanti colori (Martindale e Moore, 1988), mobili (Whitfield e Slatter, 1979), dipinti (Farkas, 2002) ed esempi di categorie semantiche (Martindale et al., 1988).

Al di fuori del dominio artistico, la ricerca sulla devianza può contribuire all’influenza in circostanze particolari (Stamkou et al., 2018): deviare dalla norma indica lo sperimentare il ‘margine di manovra per agire secondo il proprio, nonostante i vincoli e le potenziali ripercussioni’ (Stamkou e Van Kleef, 2014). Dato che il potere sociale è associato alla mancanza di vincoli (Galinsky et al., 2003; Keltner et al., 2003), individui che assumono un comportamento apparentemente non vincolato da pressioni normative può essere percepito come potente (Stamkou et al., 2018). I nuovi movimenti artistici non emergono dal vuoto: ad esempio la teoria di Hollander, 1958 spiega come all’interno di un gruppo un individuo possa deviare dalle vecchie pratiche dopo aver acquisito fiducia nel gruppo sociale, cioè dopo aver dimostrato di essere in grado di seguire le norme già in essere per sviluppare in seguito nuove norme (Bray et al., 1982; Stone e Cooper, 2009). Nello specifico, si parla di devianza intrapersonale quando ci si riferisce alla tendenza evolutiva umana che spinge il singolo individuo a volersi distinguere dagli altri (Burris e Rempel, 2004).

Differenti ricerche dimostrano come le informazioni vengono memorizzate in un modo migliore quando sono distinte da altre (Leyens et al., 1997), mentre sentimenti di estrema somiglianza sono associati a effetti negativi in termini mnestici (Fromkin, 1972). La somiglianza può portare ad una valutazione positiva delle esperienze scarse e ad una maggiore identificazione con i gruppi distintivi (Brewer e Pickett, 1999; Stamkou et al., 2018).

Stamkou e colleghi (2018) svilupparono un modello teorico cercando di spiegare come gli artisti che si discostano dalle norme guadagnano un impatto maggiore a livello sociale, cercando di rispondere a 1) perché le opere artistiche visive spesso deviano dalle norme artistiche prevalenti della loro epoca, e 2) in che modo gli artisti devianti ottengono un riconoscimento e hanno un impatto duraturo (Stamkou et al., 2018).

Gli autori hanno presentato a dei soggetti differenti immagini: nel primo studio è stato dimostrato come nelle culture occidentali sono considerati maggiormente progressivi gli stili non realistici rispetto a quelli realistici. Altri 5 studi, svolti su due stili differenti di devianza artistica, forniscono prove dei vari effetti a livello di impatto (ad esempio, l’influenza percepita dell’artista, la valutazione dell’opera d’arte e l’attenzione visiva all’opera d’arte).

Nel secondo studio di Stamkou e colleghi (2018) emerge come gli individui consideravano gli artisti che si discostavano dal loro stile precedente in modo diverso rispetto agli artisti che seguivano costantemente un unico stile. Tali effetti sono evidenti anche nel terzo studio dove un impatto più forte si verifica quando gli artisti passavano da uno stile retrogressivo a uno progressivo. Gli artisti che deviavano dallo stile dei loro contemporanei erano considerati di maggiore impatto rispetto agli artisti che seguivano il filone predominante, inoltre l’impatto era maggiore se gli artisti abbandonavano uno stile regressivo attraverso l’utilizzo di strumenti progressivi (Stamkou et al., 2018). Infine, quando il contesto storico ha impedito agli osservatori di dedurre lo sviluppo dei mezzi espressivi utilizzati dagli artisti, la devianza artistica ha aumentato l’impatto percepito indipendentemente dai mezzi utilizzati con cui gli artisti hanno deviato le norme culturali.

cancel