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L’effetto di disinibizione online e la violenza verbale in internet: siamo più “veri” online?

Molte persone si esprimono e agiscono più liberamente quando navigano in Internet rispetto a quanto farebbero di persona. Questo fenomeno è chiamato disinhibition effect online e porta le persone a mostrarsi più aperte verso l’altro.

Emanuela Taraschi – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Da una parte può essere un vantaggio, sia il condividere più facilmente informazioni su di sé, per esempio, durante un percorso di psicoterapia online, sia il mostrarsi collaborativi e solidali, scambiandosi materiali e offrendo supporto a perfetti sconosciuti. Dall’altro lato, questo effetto può portare a conseguenze disfunzionali e condotte devianti, per esempio, dipendenza da internet, revenge porn (immagini intime rese pubbliche per dileggiare l’altro), odio online (critiche, insulti e minacce) ecc. In particolare, quest’ultimo fenomeno, la violenza verbale online, sembra in continuo aumento e si ha la sensazione che i modi ostili e aggressivi si stiano trasferendo anche nelle interazioni faccia a faccia. Circa due anni fa mi colpì la notizia dell’aggressione alla giornalista Giorgia Rombolà, prima dagli astanti in metropolitana e poi sui social con insulti e minacce, perché aveva cercato di fermare il pestaggio di una nomade, accusata di aver tentato uno scippo (Rombolà, 07/12/2018 ansa.it). In quell’occasione mi domandai se quegli stessi astanti avrebbero reagito allo stesso modo qualche anno prima. Oggi la nostra tolleranza all’odio risulta molto alta, specie nei giovani. L’essere sottoposti quotidianamente, attraverso i media, a espressioni d’odio e scene di violenza, porta non solo le persone ad essere meno reattive per assuefazione, ma anche ad una sorta di apprendimento. La Teoria dell’Apprendimento Sociale (Bandura, 1972 in Aronson, 1997), basata su evidenze scientifiche, afferma che apprendiamo anche da ciò che vediamo, dunque, non stupisce che le espressioni di odio stiano aumentando a macchia d’olio.

Ma è l’effetto di disinibizione online a svelare la nostra vera natura? Siamo tutti un po’ odiatori sotto sotto? Studiosi di tutto il mondo hanno sancito già nella Dichiarazione di Siviglia sulla violenza (1989) che:

la biologia non condanna l’umanità alla guerra, poiché l’umanità può essere liberata dal vincolo del pessimismo biologico; la violenza non è nel nostro retaggio evoluzionistico, né nei nostri geni.

Anche Tomasello (2016) conferma che siamo esseri morali, giacché la capacità di essere altruisti e cooperativi, appare la scelta evolutiva selezionata filogeneticamente. Infatti, esiste anche il lato benigno della disinibizione online, che ci permette di creare più facilmente nuove amicizie e di essere altruisti e solidari. Essere consapevoli di come agisce l’effetto di disinibizione online, è un passo necessario per contrastare le conseguenze disfunzionali, come l’odio online.

Perché ci sentiamo più disinibiti online? Quando siamo sul web funzioniamo in modo diverso, rispetto a quando siamo offline. I primi studi su cervello e tecnologia mettono in evidenza, oltre all’iperstimolazione della corteccia visiva, uditiva e somato-sensoriale, anche un cambiamento del profilo cognitivo delle persone che usano quotidianamente la tecnologia digitale. Per esempio, cambiano modi e tempi di lettura degli ipertesti, emerge la tendenza a delegare i processi della propria memoria di lavoro alla tecnologia digitale ecc. e per quanto riguarda l’effetto di disinibizione online, è interessante sottolineare che appare diminuire la capacità di attendere e di mentalizzare le assenze, cioè di rappresentarsele internamente, mentre aumenta la tendenza ad agire compulsivamente, cioè in modo impulsivo, non controllato (cfr. Tonioni, 2013). Suler (2004) ha cercato di rispondere alla domanda, individuando sei fattori che, interagendo tra loro, potrebbero spiegare l’effetto della disinibizione online. Oggi, potrebbero sembrare fattori legati a modalità di stare online ormai del tutto o in parte superate, ma questi sei fattori potrebbero conservare alcuni aspetti, che sono centrali nella comunicazione umana e, pertanto, potrebbero ancora contribuire all’effetto di disinibizione quando siamo online. Vediamoli uno ad uno.

1. Anonimato dissociativo

Le persone quando nascondono la propria identità, costruiscono un sé online, cioè, sarebbero più facilmente portate a separare il sé online da quello in ambiente naturale. Di conseguenza, tutto ciò che si dice o si fa online, non verrebbe percepito come direttamente legato al resto della propria vita. Così, alla persona sembrerà di poter evitare la responsabilità di comportamenti aggressivi online, quasi come se il controllo esercitato normalmente dai propri processi cognitivi ed emotivi, siano stati temporaneamente sospesi dalla psiche online.

Aldilà del fatto che l’anonimato oggi possa essere reale o solo percepito, alcune ricerche mostrano che non sembra esserci una reale differenza tra odiatori che usano nikname e quelli che usano nomi propri, anzi in alcuni casi si è verificato il contrario. In parole povere, l’anonimato in senso stretto non sembra avere un maggiore effetto di disinibizione (vd Wallace, 2017). Per questo, vietare nikname non sembra essere utile per contrastare il fenomeno dell’odio online, anzi, a livello legale ha aperto un dibattito circa la libertà d’espressione e la privacy. Esiste, inoltre, un anonimato collettivo, cioè quello dato dal fatto che il proprio messaggio è in rete insieme a una quantità davvero enorme di messaggi e questo potrebbe corrispondere un po’ al confondersi tra la folla.

2. Invisibilità

In passato gli utenti condividevano informazioni anche molto personali senza vedersi mai, neanche per fotografia, sembrerebbe un fattore non più in voga, tanto più ora che, con l’emergenza Covid-19, si è utilizzata molto di più la webcam per comunicare e lavorare. Così molti di noi hanno potuto sperimentare quanto partecipare ad un webinar con la propria webcam spenta, essere non visibili, ci faccia sentire disinibiti, liberi di apparire come vogliamo, senza sentire la necessità di curare la nostra immagine. Comunque anche quando si comunica in videoconferenza, parte dell’effetto di disinibizione sembra mantenersi, perché il mezzo tecnologico fa perdere una parte della comunicazione non verbale, in special modo il contatto visivo, elemento essenziale per creare un contatto empatico con l’altro. Non a caso, lo sguardo gioca un ruolo cruciale nell’interazione sociale fin dalla nascita.

3. Asincronia

Asincronia, cioè comunicare per messaggi o post in asincrono, quando l’altro utente non è in linea. Inviare un messaggio senza avere subito una risposta dall’interlocutore, incoraggia le persone a “scaricarsi” più facilmente di un’emozione negativa molto forte. L’assenza di risposta immediata creerebbe l’impressione di poter evitare le conseguenze. Oggi, certo, l’asincronia sembra un fattore molto marginale rispetto al passato, quando si comunicava per lo più via mail.

Alcuni hanno studiato sul campo l’idea che internet possa fungere da valvola di sfogo, permettendo una sorta di catarsi dalle emozioni negative, una liberazione senza grandi effetti negativi. In realtà, è stato rilevato in molte situazioni un aumento della tendenza all’aggressività e non una diminuzione, sia per chi si sfoga sul web, che per chi legge l’invettiva, anche se non ne è destinatario (Wallace, 2017). Lo sfogo online appare, allora, una specie di acting out, in cui l’espressione delle proprie emozioni avviene attraverso un’azione impulsiva, piuttosto che con un’azione riflessiva, ragionata. Non credo ci sia bisogno di sottolineare che la parola è un atto linguistico che, come tale, ha delle conseguenze concrete sulla vita delle persone. Come recita il primo principio del manifesto delle Parole O_Stili “Virtuale è reale”.

La Teoria degli atti linguistici (Austin 1959; Searle 1969) afferma che con un enunciato – cioè l’espressione adeguata e razionale di un pensiero- si possa descrivere il contenuto o sostenerne la veridicità, ma che la maggior parte degli enunciati servano a compiere delle vere e proprie azioni in ambito comunicativo per esercitare un particolare effetto sul mondo circostante.

4. Introiezione solipsistica

E’ il quarto fattore, ovvero leggere il messaggio di un’altra persona, potrebbe farcelo introiettare nella nostra mente, creando una sorta di “personaggio”. Infatti, il significato di un messaggio viene attribuito non solo in funzione del contenuto del testo, ma anche in base alle proprie rappresentazioni interne, influenzate da credenze, aspettative, desideri e bisogni del ricevente. Sulla base di questo effetto tendiamo a sentirci più in sintonia con l’altro, quindi ci fidiamo più velocemente e siamo più disponibili a confidarci. Questo fattore gioca un ruolo importante nelle relazioni che nascono online, sui social e sulle piattaforme d’incontro.

Per quel che riguarda l’odio online aggiungerei, che ciascuno di noi è convinto della chiarezza della propria comunicazione scritta, invece, è stato dimostrato che, anche il più preciso e puntuale dei messaggi scritti, risulta ambiguo e facile da fraintendere, perché i contenuti sono necessariamente parziali, fanno riferimento a conoscenze implicite e personali, oltre che ad un’unica prospettiva: la propria. Nella comunicazione scritta, inoltre, mancano gli indici non verbali che aiutano a definire il significato semantico. Rifletterei, infine, sul contributo dei meccanismi che regolano la cognizione sociale sia nelle mistificazioni dei messaggi che nei giudizi sugli altri (ad esempio, gli schemi di Fiske, 1993, bias ed euristiche di Kahneman & Twersky, 1982; la teoria implicita della personalità di Ross, 1989; in Aronson e coll. 1997).

5. Immaginazione dissociativa

Pensiamo ai giochi di ruolo online, in cui la realtà virtuale, permettendo di creare un alter ego online, tende a far immergere così tanto il giocatore, che il soggetto è portato a sentirsi assorbito completamente, staccandosi sempre più dal proprio contesto di vita offline, tanto da poter confondere i due contesti e sentirsi svincolato da norme e obblighi in vigore nella realtà. Questo meccanismo dissociativo elicitato dalla modalità online, sembra avere un ruolo nello sviluppo di dipendenze da internet, in cui le compulsioni rappresentano forme di comportamento legate alla dissociazione, a sua volta legata alla tempesta sensoriale, capace di catturare l’attenzione dell’individuo, tanto da arrivare ad escludere le sensazioni sia dell’ambiente esterno reale, che di quelle interne (fame, sete…) (Tonioni, 2013).

6. Minimizzazione dell’autorità

E’ l’effetto per cui i ruoli in internet sbiadiscono e questo ci porta a non riconoscere autorità a chi la detiene legittimamente, sia per il fatto che vengono a essere percepiti meno gli indizi che qualificano una persona come autorevole, come avviene in un contesto fisico, sia perché internet si caratterizza come contesto “democratico” in cui è dato potere di parola a tutti.

Dunque, le caratteristiche del mezzo tecnologico ci offrono sensazioni, percezioni, semplificazioni e facilitazioni che rendendo, di fatto, la comunicazione molto rapida e immersiva. Ciò favorisce una certa propensione alla risposta di getto. A sostenere l’effetto disinibente dell’invisibilità potrebbe giocare un ruolo la percezione di essere dietro uno schermo, schermati, nascosti, protetti? In fondo la percezione è per tutti un dato oggettivo, proprio perché legato ai propri sensi, per cui il contenuto di una percezione ha carattere di certezza. Di certo l’effetto di disinibizione continua ancora oggi ad agire online. Così siamo maggiormente suscettibili a comportarci in modo poco riflessivo, senza pensare alle possibili conseguenze negative delle nostre azioni. Ovviamente, il grado dell’effetto di disinibizione online e la qualità dei comportamenti conseguenti, sono collegati a caratteristiche personali e situazionali. Sappiamo, ad esempio, che le persone che si mostrano empatiche e prosociali, posseggono un’alta capacità di autocontrollo, in particolare l’Effortful Control (capacità di regolare il comportamento sostituendo un comportamento dominante, qualora il contesto lo richieda, con uno non dominante), mentre quelle che mostrano scarsa empatia sono più suscettibili a condotte devianti.

Sviluppare empatia e una buona Teoria della mente è fondamentale per “sentire” le emozioni dell’altro e per comprendere il suo punto di vista, le sue ragioni. Secondo Davis (1994) l’empatia è il prodotto di quattro fattori che entrano in gioco quando assistiamo all’esperienza emotiva di qualcuno. Due di questi riguardano abilità cognitive: perspective taking, cioè adottare il punto di vista dell’altro e la fantasia, che permette di immaginarsi in situazioni fittizie. Due sono di tipo emotivo-affettivo, considerazione empatica, cioè orientarsi verso il vissuto emotivo dell’altro e disagio emotivo, orientarsi verso i propri stati d’ansia e di preoccupazione in situazioni relazionali. Possedere una Teoria della Mente significa essere in grado di attribuire stati mentali (cioè credenze, intenzioni, desideri, emozioni, conoscenze) a sé stessi e agli altri, di predire i propri e altrui comportamenti sulla base di tali stati, e quindi anche la capacità di comprendere che gli altri hanno stati mentali diversi dai nostri (Molinari, 2007). Tutti siamo suscettibili all’effetto di disinibizione in rete, ma chi ha sviluppato una buona capacità empatica, un pensiero critico e una buona teoria della mente, metterà in atto condotte più funzionali che disfunzionali in rete.

Dalle prime indagini sull’odio online emerge che quando leggiamo interventi ostili e aggressivi, tendiamo a non rispondere, magari pensando che sia meglio non dare attenzione per non rinforzare le condotte violente. Non è così, anzi, semmai è vero il contrario. Àlvarez e Winter (2018) hanno presentato un esperimento online che, seppur con dichiarati limiti circa la validità esterna e la generalizzabilità, in cui hanno provato a verificare tre condizioni, utilizzando un blog costruito apposta per indagare se le espressioni d’odio siano influenzate più da norme descrittive (cosa fanno normalmente gli altri) o da norme ingiuntive (cosa accade alle persone che violano la norma). Hanno così osservato gli effetti sulla diminuzione di espressioni d’odio in tre condizioni: censura estrema (venivano lasciati solo commenti positivi), censura moderata (commenti positivi e neutrali) commenti contrari (1amichevole, 1 neutrale, 2 sanzioni) e hanno trovato che è la censura moderata ad essere più efficace rispetto alla censura estrema, nel ridurre i commenti ostili, seguita da commenti contrari. Concludono dicendo che i risultati non sono da intendersi a favore del fatto che, censurare il contenuto di odio, sia necessariamente socialmente vantaggioso, perché la censura mette a rischio la libertà di parola. Ziccardi (2016) aveva già messo in evidenza che, legiferare per contenere il fenomeno dell’odio online, è un’operazione molto complessa, sia perché è una questione mondiale (non basterebbe legiferare nel proprio Paese), sia perché c’è il rischio di scadere nella censura o, viceversa, che la legge sia percepita dall’opinione pubblica come censura, vedendo l’odiatore censurato come una vittima. Teniamo conto che: “Obbedire all’autorità è una cosa, interessarsi agli altri e imparare a trattarli con rispetto ed equità, un’altra, e ciò può scaturire solo dalle interazioni con i propri pari”. In pratica obbedire all’autorità non è un comportamento morale, solo una forma di cautela, affinché i bambini sviluppino attitudini genuinamente morali occorre l’interazione con i pari (Tomasello, 2016 p 211).

Allora, cosa fare per contrastare l’odio online? Ziccardi suggerisce di intervenire con commenti contrari, esprimendo punti di vista alternativi, anche se si corre il rischio dell’odio sociale, cioè che alla persona che attacca si uniscano altri odiatori. Occorre tener presente che se gli odiatori si esprimono e i pacifisti restano in silenzio, si offre a tutti gli internauti astanti una falsa percezione delle proporzioni odiatori/pacifisti, mentre i messaggi di intolleranza e odio, in realtà, sono solo più visibili. Riassumendo, le persone con minori capacità empatiche e di teoria della mente, hanno meno effortfull control, quindi appaiono più esposte a scaricarsi online per effetto della disinibizione online, creando un circolo vizioso che alla lunga porta ad un’assuefazione ai discorsi d’odio nella popolazione generale e anche ad un apprendimento. In ultima analisi, il punto centrale è che, per quanto la tecnologia possa arrivare a simulare un contatto fisico, questa assenza ha effetti importanti nelle interazioni sociali. Da quanto fin qui detto, potremmo provare a contrastare l’odio online, utilizzando il controllo sociale tra internauti, tra cittadini del web, cercando di esprimere opinioni e sensibilità alternative iniziando dalle forme di ostilità più subdole e nascoste, cioè quelle espressioni aggressive che potrebbero sembrare innocue, uno scherzo. Si tratta, invece, di espressioni in cui il sarcasmo, la beffa, è usata per svalutare e offendere l’altro. Ricordiamoci, che al primo gradino della scala d’odio di Allport (1954), c’è proprio la burla con l’uso di stereotipi e aggettivi negativi, cioè prendere in giro per dileggiare e offendere. La scala dell’odio di Allport a partire dall’osservazione di fenomeni sociali ha individuato 5 livelli, dal più lieve al più grave, sottolineando la possibilità di salire anche molto facilmente da un livello al successivo: (1) burla con uso di stereotipi e aggettivi negativi – presa in giro per dileggiare, offendere; (2) isolamento del bersaglio – disprezzo, stigma sociale e pregiudizio con evitamento dell’altro; (3) discriminazione – dal pregiudizio si passa a divieti discriminatori e a subordinare l’altro; (4) violenza fisica; (5) uccisione, sterminio. Concludo citando Giovanna Axia (professore ordinario di psicologia dello sviluppo) che ha dedicato un libro alla cortesia, mettendola in antitesi all’arroganza e alla violenza di chi vuol imporsi per auto affermarsi, ritenendola un potente strumento di composizione dei conflitti.

Le operazioni mentali attuate dal cortese risolutore di problemi sociali sono la comprensione sociale, cui si uniscono le abilità linguistiche e la motivazione pro sociale[…]. La persona veramente cortese non usa la propria intelligenza in modo banale. Non si accontenta di esprimere deferenza e rispetto per l’altra persona, ma va un po’ più in là. Spinge la sua intelligenza ad esplorare cosa possono volere gli altri e, soprattutto cosa pensa l’altra persona a proposito dei reciproci pensieri e sentimenti […] Per gli esseri umani la cortesia e la gentilezza sono facili, facili come sorridere (Axia, 1997; p115 e 129).

Oggi, più che mai, la distanza di sicurezza migliore per la specie umana, credo sia proprio una distanza di cortesia.

 

I vissuti del bambino adottato nei confronti della madre biologica

Prima ancora che il cammino dell’adozione inizi, il bambino, anche nel caso in cui sia piccolissimo, ha già percorso un tratto della sua storia personale che non può essere ignorato né ritenuto poco significativo. Quali vissuti legati alla madre biologica si porta dentro il bambino adottato?

Maria Teresa Silvestri – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto Del Tronto

 

Il titolo di questo articolo ha l’intento di attirare l’attenzione su un argomento in merito al quale sembra non esistere bibliografia specifica.

Quello dell’adozione è un tema molto delicato riguardo al quale, negli ultimi anni, si è visto il proliferare di studi e trattazioni, nonché di nuove leggi (Legge 476/1998 e Legge 149/2001) a tutela dei minori abbandonati e, come tali, aventi diritto ad un risarcimento affettivo. A maggior ragione lascia stupiti constatare che, in tale contesto, nessuno abbia cercato di indagare con metodo e continuità su quali e quanti possano essere i vissuti più probabili e ricorrenti del bambino adottato nei confronti della madre biologica, giacché è intuitivo che essi non possano che avere un ruolo importante nella dinamica e, nella riuscita o meno, della adozione stessa.

L’adozione è quel percorso (Oliverio Ferraris, 2011) che comincia quando una coppia decide di offrirsi in modo riparativo come coppia genitoriale di un bambino abbandonato (Farri Monaco, 2008).

Ma prima ancora che questo cammino inizi e, anche nel caso che inizi quando il bambino è ancora piccolissimo, questi ha percorso già un tratto della sua storia personale che non può essere ignorato né, tantomeno, ritenuto poco significativo: perché, al contrario, in esso precocissimamente accadono cose, si realizzano esperienze, si stabiliscono relazioni, si stringono e si spezzano legami per sempre, in una serie di fondamentali passaggi:

  • il bambino è concepito (dal latino “cum–càpere”, cioè “accogliere in sé”) dalla madre biologica, nel cui utero è custodito per nove mesi; dopo il parto, per cause diverse, a volte persino valide e addirittura provvidenziali, ed in un momento variabile da caso a caso,
  • il bambino subisce l’abbandono (dal francese antico “abandonner”, cioè “lasciare volontariamente alla mercé”, o “definitivamente” o “senza protezione”: e questo significa che vive un trauma – dal greco τραῦμα, cioè “ferita”, ed una “ferita improvvisa, rapida e violenta” (Voc. Treccani). Subito dopo, o invece a distanza di tempo, più o meno lunga e, magari, dopo una aggravante esperienza di istituzionalizzazione o di affido fallimentare,
  • il bambino è adottato (dal latino “ad–optare”, cioè “desiderare”, “scegliere per sé”): e inizia il percorso con una coppia che ha appunto desiderato e scelto di prendere come proprio il figlio di altri.

Abbiamo così identificato le uniche tre esperienze comuni a tutti i figli adottivi:

  • tutti hanno “conosciuto” la madre biologica per aver vissuto in simbiosi con lei la vita intrauterina;
  • tutti hanno subito il trauma dell’abbandono;
  • tutti sono stati i destinatari di una scelta di adozione da parte di una coppia.

Ma se andiamo a considerarle più da vicino e, soprattutto, più in profondità, tali tre esperienze ci appaiono subito come tre “contenitori temporali”, tanto densi di situazioni sensoriali ed emotive quanto nessun’altra età della vita di nessun essere umano; e, per tale motivo, “fondanti” per ciascun bambino coinvolto: poiché sono tanto personali e, contemporaneamente, determinate anche dalla interazione con “l’ambiente” del momento e dalle relazioni in quello stesso momento possibili, tanto da orientare la sua storia in modo diverso, con tante sfumature differenti da renderlo alla fine “quell’essere umano, identico solo a se stesso” e a nessun altro che pure abbia vissuto quelle tre fasi temporali ed esperenziali.

Tutti i bambini adottati hanno conosciuto la madre biologica

Questa affermazione, ovvia ad una prima lettura, ha assunto nel tempo un ben più importante significato, dapprima solo intuito, poi confermato, precisato e ampliato grazie agli studi della Medicina Perinatale così come grazie a quelli delle Neuroscienze, che tutti riguardano anche la Psicologia perinatale e infantile (Imbasciati et al., 2007).

Ogni gravidanza presuppone la storia personale di una donna e si apre alla storia del piccolo concepito, cioè da lei “accolto in sé”, e, prima ancora che quella donna abbia il dubbio, e poi la certezza, di essere incinta, inizia un continuo e serrato colloquio biologico tra l’organismo della madre e quello del figlio, con scambio di segnali e addirittura con migrazione e scambio di cellule (“cross – talk” e “traffico cellulare”).

Sin dai primissimi istanti di vita, quindi, si instaura – tra madre e figlio concepito – un silenzioso dialogo fatto di amorevole reciprocità. L’embrione e la mamma si scambiano cellule, messaggi ormonali e fattori di crescita (Prof. Giuseppe Noia)

Il bambino fa così “esperienza di sua madre”, la “conosce” intimamente: di lei imparerà a sentire il calore, l’odore ed il sapore, attraverso i canali dei suoi sensi in sviluppo. Ma imparerà anche a percepirne la serenità e la gioia o, viceversa, la malinconia e il dolore, ed ogni variazione del suo umore: e ne sentirà – ormai è dimostrato – l’accoglienza o il rifiuto condizionati dalla sua storia personale, familiare e di coppia, o da una sua solitudine non desiderata.

La simbiosi materno – fetale è talmente straordinaria ed importante che si può, a buon diritto, considerare la diade madre – figlio una unità; e riferire l’espressione “attaccamento intrauterino” non soltanto al legame fisico tra due organismi ma, piuttosto, al legame profondo, totale ed esclusivo tra due persone di cui l’una ha accolto l’altra, che l’ha riconosciuta come fonte di accudimento e di sicurezza.

D’altra parte, è sempre attraverso il canale – mamma che il bambino “si connette” con il mondo esterno: e fa perciò esperienze sensoriali, ma anche emotive ed affettive, riguardanti l’ambiente extra – uterino che poi lo accoglierà, e comincerà a “conoscere” anche suo padre attraverso la mediazione della madre.

Tutto quanto detto ci dà ragione, a questo punto, di due considerazioni di primaria importanza riguardo all’assunto della nostra tesi, che sia cioè necessario dar voce ai vissuti del bambino nei confronti della madre biologica:

  • il bambino adottato conserva comunque la memoria, sia pure inconsapevole (ed è realtà scientificamente provata) della vita intrauterina intesa non già come periodo di segregazione e solitudine in un utero materno “cassaforte”, esclusivamente ai fini di una sicura custodia; ma della vita intrauterina intesa come cumulo di esperienze sensoriali, emotive ed affettive condivise con la mamma, il cui utero ne è stato la “cassa di risonanza”…: egli ha cioè un “vissuto” precoce e, già diversificato da quello di chiunque altro, nei confronti della madre biologica, vissuto che andrà a sommarsi con i vissuti post – natali: e già questo basterebbe a riaffermare la necessità di indagarli nella totalità! (Farri Monaco e Peila Castellani, 1994; De Bono)

Questa storia presensoriale, già impressa nel codice fetale, si dispiega attraverso la nascita in una continuità ambientale, mentale ed affettiva rappresentata dai genitori. (Farri Monaco e Peila Castellani, 1994, p.144)

  • non sembra altrettanto indispensabile indagare invece sui vissuti del bambino nei confronti del padre biologico, l’attaccamento verso il quale è più tardivo e, comunque, come già detto, mediato dalla madre, che è l’unica a poterlo favorire o ostacolare fin dai tempi dell’attesa: se il padre accarezza il ventre della madre, se parla con dolcezza a lei e al bambino, tutti i giorni restando loro vicino, anche la sua voce e la sua presenza verranno riconosciute dopo la nascita; se assente o volontariamente tenuto lontano o, addirittura, nell’ignoranza dell’evento gravidanza, alla nascita egli non farà parte delle esperienze già fatte, delle emozioni già vissute dal figlio.

Tutti i bambini adottati sono stati abbandonati

Tutti hanno cioè subito il trauma della interruzione di quella che sembrava potesse essere una lunga storia d’amore con la mamma…E “trauma” ed “abbandono” sono due termini talmente forti che insieme risuonano con effetto amplificato: l’essere lasciati volontariamente e definitivamente alla mercè, senza protezione è una “ferita improvvisa, rapida, violenta, inelaborabile”.

Nei videogiochi si usa il termine “combo” per indicare una combinazione di azioni compiute in una specifica sequenza, solitamente in stretti limiti di tempo, che porta un significativo vantaggio (o svantaggio, a seconda dei casi) al giocatore: il trauma dell’abbandono è una combo che porta significativi svantaggi al bambino; è una ferita grave, con esiti cicatriziali permanenti…

Già nel 1997 Giaconia e Racalbuto (Giaconia e Racalbuto, 1997) evidenziano come il trauma produca “un evento non traducibile in parole”.

Più recentemente Laplanche e Pontalis lo descrivono come “un evento nella vita del soggetto, caratterizzato dalla sua intensità, dalla incapacità del soggetto a rispondervi adeguatamente, dagli effetti patogeni durevoli che esso provoca nell’organizzazione psichica” (Laplanche e Pontalis, 2006).

E Dupont, in un articolo su Ferenczi (Dupont, 1999), riferendosi alla teoria classica del trauma secondo Freud e Ferenczi, afferma che esso si rende evidente come tale in due tempi:

  • nel momento dell’avvenimento determinante e
  • diventando patogeno quando è disconosciuto dall’ambiente circostante.

Dunque, ciò che nell’adozione può rendere questa partita a due tempi cruciale è proprio il voler ignorare, in maniera più o meno conscia e determinata, l’avvenimento abbandono e tutto ciò che ne ha costituito il presupposto e il passato; il voler disconoscere l’origine “diversa” del bambino: è ciò che probabilmente accade quando la coppia adottiva o, anche solo uno dei genitori adottivi, gli si pone davanti come se fosse nato nel momento dell’adozione stessa; addirittura, perché questo sia “reale”, gli cambia persino il nome!

Come se quanto di vero può esserci nell’espressione “genitori si diventa”, oppure “genitore è chi cresce un figlio e non chi lo mette soltanto al mondo”, significasse la necessità di cancellare nella mente, nel cuore e nell’esistenza del bambino ogni traccia dei genitori biologici e, soprattutto, della madre: che significa privarlo della possibilità di mantenere o costruire l’immagine mentale della propria origine, elemento fondamentale del suo senso di identità (Fornasir).

Tutti i figli adottivi sono stati i destinatari di una scelta da parte di una coppia

Tutti i figli adottivi sono stati i destinatari di una scelta da parte di una coppia, che li ha voluti per sé pur se figli di altri.

L’evento abbandono può essersi verificato presto rispetto all’evento nascita; oppure tardi, o molto tardi… e così, l’evento adozione può essersi verificato presto rispetto all’evento abbandono, nei casi più fortunati; o, viceversa, tardi o molto tardi…Può verificarsi dunque, che il bimbo debba vivere in modo molto differente da un caso all’altro tanto il distacco fisico dalla madre quanto la inevitabile necessità di ricercarla e riconoscerla come “prima figura di riferimento” nel nuovo ambiente in cui viene a trovarsi.

Se ciò non può avvenire normalmente tramite la ricerca e il riconoscimento del calore, dell’odore e del sapore che di lei gli erano noti in utero, ma avviene tramite una “sostituzione” immediata della fonte di accudimento e sicurezza, si realizzerà comunque presto un “attaccamento extrauterino” rispetto a una nuova figura di riferimento permanente e la storia del bambino potrà prendere una strada più favorevole e fortunata, quantomeno non troppo oscura.

Se il bambino resta con la madre che poi lo abbandonerà e vi resta per un tempo più o meno lungo, ma sufficiente a sviluppare l’attaccamento post–natale proprio nei suoi confronti, la ferita dell’abbandono sarà più “improvvisa, rapida, violenta e quindi inelaborabile…”; e l’andamento e l’esito positivo dell’adozione incontreranno più ostacoli, più difficili da superare se ci sarà stata anche un’esperienza di istituzionalizzazione o di affido non riuscito.

E’ allora che” L’abbandono diventa un “dolore primario”, una lente con cui il bambino può trasformare e ridefinire per sempre tutte le sue future relazioni”(Fornasir)

La complessità di avere a che fare con bambini adottati oltre il primo anno di età risiede dunque in una serie di circostanze diverse, probabilmente tutte indagabili e conoscibili: – verosimilmente, proprio l’aver avuto un tempo “oltre” quello della gravidanza per dare un volto, un profumo e un sapore a “quella” madre biologica, “tana” sicura per nove lunghi mesi; – sicuramente nella possibilità di una maggiore consapevolezza della perdita fisica, improvvisa e definitiva, di tutto ciò; – ed altrettanto sicuramente nella impossibilità di avere una risposta chiara ad una domanda inizialmente latente, poi sempre più esplicita ma, comunque, sempre presente nei bambini adottati: perché? “Perché sono stato adottato?” e poi “Perché sono stato abbandonato?”.

Ad una domanda del genere, che provoca disagio, incertezza e poi franca sofferenza, difficilmente si potrà rispondere e, laddove si riuscisse a dare una risposta storicamente esatta, comunque questa non si dimostrerebbe sufficiente. Rispondere da soli non può che essere impossibile e trova probabilmente, un ostacolo non da poco nel silenzio di tutti nei confronti di ciò che il bambino pensa e prova nei confronti della vita precedente all’abbandono e nei confronti di chi lo ha abbandonato: tranne che in casi particolari, infatti, di solito, i genitori adottivi non danno spazio all’esigenza di chiarezza che i figli adottivi, ormai ragazzi, spesso manifestano mettendo in atto comportamenti “anomali” sottesi dal desiderio frustrato di conoscere le proprie origini. Quei genitori giustificano il loro silenzio, più o meno consciamente, non riconoscendo proprie difficoltà personali e di coppia, con l’esigenza di non alimentare eventuali risentimenti del figlio verso i genitori naturali, in qualche modo svalorizzandone le figure.

E, al contrario, probabilmente proprio questo silenzio, di per sé allusivo a qualcosa di negativo che in passato l’ha riguardato, fa sì che, come l’esperienza clinica dimostra, il bambino e, più ancora, il preadolescente o l’adolescente che è diventato, risponda comunque, ma non correttamente, a quei perché, per esempio, svalutando se stessi: “Sono stato adottato perché sono stato abbandonato, perché qualcuno non mi ha voluto con sé”; e, successivamente: “Non mi hanno voluto perché non mi amavano” e, alla fine: “Non ero amato perché non valgo niente, non c’è niente di amabile in me”.

L’esperienza clinica dimostra quantomeno che, in molti casi, arrivati all’osservazione per difficoltà di integrazione e compimento del percorso adozione, i ragazzi adottati si confrontano con delle difficoltà di identificazione, e maturano in sé sentimenti contraddittori e, perciò, ancor più laceranti: disistima per se stessi, ma anche rabbia nei confronti di chi li ha abbandonati; desiderio di star meglio e riconoscimento, se pur non espresso, di quanto di positivo il nuovo stato di “figlio adottivo, e cioè scelto”, ha portato loro, ma anche senso di colpa verso chi li ha abbandonati…o che invece loro stessi hanno traditi e abbandonati alle loro difficoltà, quando hanno accettato e addirittura imparato ad amare i nuovi genitori?

Considerando che, come anche la cronaca suggerisce (ad esempio, i programmi televisivi Così lontano così vicini e Chi l’ha visto? o il gruppo Facebook Figli adottivi cercano genitori biologici), tutto è condizionato dal desiderio – necessità di conoscere il passato e le figure che l’hanno popolato, prima tra tutte quella della mamma biologica; e considerato che tale desiderio non viene mai meno, resta vivo anche dopo tanti anni; e che anche dopo questi tanti anni i figli adottivi cercano di soddisfarlo, forse non è una idea peregrina quella enunciata all’inizio di questa disamina:

  • indagare con metodo scientifico su ciò che sottende i disagi dei figli adottivi nei confronti del loro stato;
  • raccogliere dati su ciò che avviene nella loro mente sospesa tra ricordi e rifiuto dei ricordi, nel loro cuore combattuto tra antichi legami di cui poco o niente sanno e su cui rimuginano o favoleggiano in solitudine, e nuovi legami che li attirano e respingono;
  • puntare insomma un riflettore su vissuti troppo nascosti e ignorati potrebbe significare avere a disposizione modalità nuove di comunicare, in modo sincero e sereno, verità scomode ma indispensabili da affrontare nel percorso di integrazione e formazione del nuovo nucleo familiare tramite adozione, finalmente agevolandolo.

D’altra parte, costruire un legame forte tra genitori e figli adottivi significa fare i conti con le ferite lasciate dall’abbandono e dai traumi (Nicastr, 2019).

Gli esseri umani hanno bisogno di possedere la propria storia, di conoscere la propria origine, di assomigliare a qualcuno, non solo nell’aspetto fisico, ma nelle caratteristiche caratteriali, nelle abilità e attitudini…

I figli adottivi possono dover vivere tutta la vita nella nuova famiglia senza potersi riconoscere negli occhi del papà o nelle fossette della mamma, o finanche, nel caratteraccio solitario del nonno: ma, così aiutati nella ricerca di risposte alle loro domande, possono finire per riconoscere di essere comunque simili a coloro che li hanno amati per scelta e di poterli a loro volta amare senza togliere niente a chi appartiene al passato e che in qualche modo hanno “ritrovato”, “conosciuto” e finalmente “accolto”.

 

Caregiver & Covid-19

Durante le fasi della pandemia, i caregiver hanno continuato a prendersi cura dei propri cari. Le difficili situazioni delle RSA, la chiusura dei centri diurni, i rapporti lavorativi interrotti con le badanti, hanno contribuito a rendere ancora più complessa una situazione paludosa già esistente prima della pandemia. 

 

Il termine caregiver tradotto significa “qualcuno che dà cura”, indica proprio il prendersi cura dell’altro; l’altro che non è autosufficiente, l’altro che è affetto da una patologia cronica e invalidante, l’altro con il quale, di solito, si ha uno stretto rapporto familiare.

Sono due le tipologie di caregiver che vengono distinte:

  • Caregiver formale: tutte quelle figure professionali che svolgono questo per lavoro e che quindi vengono retribuite.
  • Caregiver informale: colui che si prende cura in maniera continuativa e non retribuita.

Spesso, a monte della scelta del caregiver informale, vi è l’affetto rivolto ad una madre, ad un figlio, ad un marito. L’affetto, il legame di parentela, le condizioni socio-economiche, le condizioni di vita conducono alla scelta di abbandonare o di mettere temporaneamente in stand-by la propria vita: gli obiettivi di studio, la vita lavorativa, la vita sentimentale; “la vita costruita o in via di costruzione.”

Il lavoro del caregiver è un lavoro a tempo pieno, non solo pratico ma soprattutto psicologico ed emotivo. Il voler dare un aiuto all’altro, a volte anche il “sentirsi in dovere” di farlo, fa indirizzare tutte le proprie energie verso l’altro, credendo erroneamente che quelle stesse energie non servano più al proprio sé, al proprio benessere.

I dati Istat del 2018 riportano che

2 milioni e 827 mila persona , sul territorio italiano, curano familiari di 15 anni e più non autosufficienti e 646 mila persone curano contemporaneamente figli con meno di 15 anni e altri familiari di 15 anni e più non autosufficienti.

Migliaia di caregiver italiani quindi fronteggiano ogni giorno le problematiche relative al prendersi cura dell’altro che necessita di assistenza, di vigilanza, di attenzioni. Una situazione che facilmente è associabile ad una condizione di stress in cui il proprio vissuto personale, lavorativo, emotivo si sovrappongono e si intrecciano ai bisogni del familiare di cui ci si prende cura.

Ma anche il caregiver ha i propri bisogni.

Se già per antonomasia, la situazione del caregiver è una situazione che necessita di aiuti sia istituzionali che di professionisti specializzati, risulta semplice immaginare il duplicarsi dei problemi durante la pandemia e, soprattutto, durante il lockdown: i caregiver hanno avuto poche possibilità di scelta.

Come mostrato dal report di ricerca (Maggio 2020), condotto nell’ambito del progetto Time to Care, che ha coinvolto quasi 100 caregiver nel territorio nazionale, la situazione dei caregiver italiani necessita di essere attenzionata:

  • l’85% dei caregiver sono donne con un’età media di 57 anni. Le risposte dei partecipanti sono pervenute per la maggior parte dalle città del Nord Italia;
  • il 6% ha perso definitivamente l’attività lavorativa mentre un caregiver su quattro ha ridotto le ore di lavoro o ha temporaneamente sospeso l’attività professionale;
  • per il 45% dei caregiver l’emergenza Covid-19 ha aumentato il carico di aiuto e per il 52% il bisogno di compagnia, è un bisogno primario;
  • nel 27% dei casi, il rapporto con la badante è stato interrotto;
  • al primo posto, l’88% dei caregiver chiedono informazioni riguardanti l’assistenza alla persona in stato di necessità;
  • il 73% chiede servizi di assistenza domiciliare;
  • il 51% richiede un sostegno psicologico, aiuti per sé e nella propria casa.

Riassumendo, i caregiver durante il periodo di lockdown necessitavano di più assistenza e di più aiuti. Il motivo appare chiaro: in un contesto come quello che vivono i caregiver, la difficoltà è risultata doppia: oltre ad esperire il proprio disagio, il caregiver ha dovuto badare al bisogno dell’altro, vertendo in una situazione in cui il carico percepito aumentava giorno dopo giorno.

In termini scientifici, il “caregiver burden” si riferisce proprio al “carico” del caregiver, a quello che si potrebbe definire “lavoro”; chi si prende cura dell’altro si fa sempre “carico” di quest’ultimo e di situazioni ad esso connesse. Il contesto in cui opera il caregiver spesso è un contesto familiare e il lavoro richiesto è h24. La percezione del “carico del caregiver” dipende e comprende i seguenti fattori:

  • La durata dell’aiuto: per quanto tempo durante l’intera giornata, il familiare necessita di cure e assistenze. Quali autonomie ha perso, quali ha conservato, in quanti aspetti della vita quotidiana necessita di aiuto; co-residenza e situazione socio-economica.
  • Il proprio benessere: quanto tempo il caregiver dedica a se stesso; se e in che misura la vita sociale ne ha risentito; qual è la percezione del proprio benessere psico-fisico; qual è il proprio stato emotivo.
  • Sviluppo di sintomatologie: disturbi del sonno, disturbi gastrointestinali, salute a rischio, fatica, fiacchezza.
  • Essere riconosciuti: quanto gli sforzi quotidiani vengono riconosciuti dagli altri familiari, dagli amici, dai coniugi.

La letteratura scientifica ci indica i possibili effetti del “caregiving” (dare cura) sulla salute psico-fisica, individuando le patologie a cui potrebbero andare incontro i caregiver quando il loro “prendersi cura” diventa un impegno a lungo termine:

  • Stress cronico
  • Ansia
  • Depressione
  • Sindrome del colon irritabile, disturbi gastro-intestinali
  • Malattie cardiovascolari
  • Disturbi del sonno
  • Isolamento sociale

Lo  stress cronico, ad esempio, è definito come il fattore di rischio per altre condizioni: esso è associato ad un’iperattività dell’asse ipotalamo- ipofisi- surrene (HPI), il maggiore responsabile del rilascio di glucocorticoidi o più comunemente “ormoni dello stress”. Maggiore è lo stress a cui ci esponiamo, maggiore sarà anche l’attività infiammatoria: i processi infiammatori riguardano il nostro sistema immunitario e, a cascata, lo sviluppo di una varia sintomatologia che può ricondurre alle patologie di cui sopra.

Questi effetti che potremmo definire “collaterali” rispecchiano la condizione gravosa in cui vive il caregiver. Maggiore sarà il carico a lungo termine, peggiore sarà la percezione della qualità di vita. In accordo ai bisogni esplicitati nel contesto del report nazionale, in un periodo di intenso stress, come quello che stiamo attraversando, dovrebbero essere più proficue le attività territoriali per il supporto ai caregiver, figura che oltretutto non è ancora riconosciuta legalmente nel nostro Paese.

Quali suggerimenti dare allora ad un target di popolazione così a rischio? L’istituzionalizzazione del paziente malato, potrebbe essere davvero l’unica soluzione?

Per cercare di ridurre il carico sociale, emotivo, personale bisognerebbe, innanzitutto, che il caregiver si rivolga ai sostegni locali presenti nel territorio per un aiuto nelle attività quotidiane: assistenza domiciliare come fare la spesa, accompagnamento alle visite mediche, compagnia per passeggiate; il caregiver dovrebbe attenzionare il proprio benessere psico-fisico, con un sana alimentazione e associando, ove possibile, l’attività fisica. Il caregiver necessita l’accettazione e la condivisione dei propri momenti di rabbia, di disperazione escludendo che i sensi di colpa, per il proprio vissuto emotivo, prendano il sopravvento. Proprio per questo, è utile  riconoscere ed apprezzare il suo ruolo, aiutando lo stesso caregiver a comprendere la singolarità della sua posizione e il suo impegno, ricordando in maniera costante che sta già facendo tutto ciò che rientra nelle sue possibilità.

 

Vincenzo Pipino. Analisi dei processi evolutivi nella carriera deviante del “ladro più onesto d’Italia”

In questo lavoro rivolgiamo la nostra attenzione ad un personaggio molto particolare del panorama criminale del ‘900 italiano: Vincenzo Pipino. La sua carriera criminale inizia molto presto e con reati di criminalità diffusa.

 

In questo lavoro rivolgiamo la nostra attenzione ad un personaggio molto particolare del panorama criminale del ‘900 italiano: Vincenzo Pipino.

Pipino è un famoso ladro veneziano che nel corso della sua carriera criminale si è distinto per l’imponente quantità di furti messi a segno (oltre 3000) e per la loro diversità, che ha seguito la sua evoluzione personale. Pipino è passato infatti dal rubare il latte quando era bambino per sfamare la sua ed altre famiglie indigenti del quartiere nel quale viveva, a gioielli e lingotti d’oro quando era ragazzo fino ad inestimabili opere d’arte nei palazzi storici veneziani in età adulta.

Pipino è però molto noto anche e soprattutto per le modalità con le quali ha costruito e condotto la propria carriera deviante, modalità che gli sono valse i soprannomi di ‘ladro gentiluomo’ e ‘ladro più onesto d’Italia’.

Vincenzo Pipino è un ‘ladro gentiluomo’ in quanto da sempre fedele ad un ferreo codice di non violenza che gli imponeva di non portare mai con sé un’arma e di non infierire mai contro le sue vittime, tanto che tali caratteristiche gli sono state riconosciute dalle stesse forze dell’ordine. Pipino è un ‘ladro gentiluomo’ anche perché, come ha più volte dichiarato ai media nazionali che nel corso degli anni gli hanno dedicato molta attenzione, avrebbe scelto le proprie vittime solo tra i più ricchi, ‘non lasciando mai in miseria’ nessuno a causa dei suoi furti.

Pipino è anche un ladro ‘onesto’, in quanto a suo dire è sempre stato legatissimo alla sua città, Venezia, mai privandola davvero delle opere d’arte che rubava: nessuna delle molte opere d’arte che ha rubato in città è stata infatti mai fatta oggetto di ricettazione rivendendola a terzi: egli le ha infatti sempre restituite (sebbene dietro il pagamento di un riscatto) ai musei e ai palazzi dai quali le ha sottratte.

Sul piano criminologico Pipino viene considerato un criminale dalla elevata caratura e detiene dei primati: è stato infatti ad esempio il primo a riuscire a rubare a Palazzo Ducale in Venezia ed è inoltre l’autore del furto del celebre dipinto del Canaletto il Fonteghetto della farina, rubato da Palazzo Giustiniani a Venezia.

La vicenda criminale di Pipino ma anche la sua stessa vita hanno avuto e mantengono una significativa eco mediatica. La sua storia è molto suggestiva, ha il sapore d’altri tempi. La sua fama e l’attenzione a lui riservata dai media non sembrano calati nemmeno dopo il suo ritiro dalla scena criminale: è stato addirittura coinvolto in vari programmi televisivi nei quali la sua figura è stata alternativamente presentata come un ‘grande uomo che ha fatto del furto un’arte moralmente rispettabile’ e come esperto, ‘tecnico’ di furti, chiamato a commentarne altri.

L’intento di questo articolo è leggere il personaggio Pipino da un punto di vista psicologico a partire dalla grande disponibilità di materiale che le numerose interviste da lui rilasciate forniscono, individuando i momenti critici della costruzione della sua carriera deviante ma anche della sua personalità e provando a verificarne la compatibilità con alcune teorie sulla genesi del comportamento criminale. Ripercorreremo l’evoluzione della carriera criminale di Pipino partendo dalla sua storia personale, iniziando dalla sua infanzia. Tale, infatti, è il momento nel quale si iniziano a strutturare in lui quelle convinzioni che lo accompagneranno per tutta la vita facendone un ladro così particolare. Tra le convinzioni alle quali Pipino si dice più legato vi è l’idea di rubare solo ai ricchi e che sia giusto (o meglio, non sbagliato) farlo, l’evitare il ricorso alla violenza ed il rispetto per la povertà e la miseria economico-sociale.

Vincenzo Pipino nasce a Venezia nel 1943, primo di cinque fratelli, in una famiglia molto povera dove la madre era casalinga ed il padre un capitano di traghetti.

All’età di 6 anni avviene un fatto particolarmente traumatico per lui che segnerà tutta la sua vita: viene infatti cacciato da scuola per una lite con un coetaneo, ricco. Dopo aver tentato di fare piccoli lavoretti (aiutante alle pompe funebri, garzone di pasticceria ed aiutante fotografo) inizia a 8 anni a rubare, a suo dire per aiutare la sua famiglia. Nel furto, ma ancor prima nella vita di strada, Pipino sebbene piccolissimo racconta di aver trovato la propria appartenenza ‘…la strada è la mia maestra‘.

La sua carriera criminale inizia quindi molto presto e, come spesso accade a soggetti emarginati, con reati bagatellari, di criminalità diffusa. Nel giro di breve diviene autore di furti sempre più complessi, relativi a beni di valore crescente, fino ad arrivare alle grandi opere d’arte veneziane.

Parallelamente inizia presto anche il suo contatto con la carcerazione, già prima di 14 anni. Nella sua vita Pipino passerà moltissimi anni in carcere, senza mai pentirsi ed anzi considerando sempre di più la galera come una parte complementare alla sua attività criminale, dove trovare accoglimento e sviluppare socializzazione.

Pipino si sposa a 25 anni con Carla; non hanno figli per via dell’impossibilità di lei ad averne. L’uomo dice di aver molto sofferto la mancanza di un figlio anche perché viene da una famiglia numerosa; nonostante ciò la coppia resiste e Vincenzo sviluppa una propria generatività sociale: nelle interviste racconta di essersi sempre dedicato alla cura dei fratelli e dei nipoti, provvedendo alla loro ‘sistemazione’, presumibilmente economica. La relazione con la moglie è raccontata con tenerezza, affetto e calore.

Pipino vive ancora a Venezia, ha reinventato se stesso ed il proprio posizionamento sociale, da alcuni anni infatti dice di essere un ‘consulente per persone benestanti’: ‘gli insegno come proteggere le loro ville dai malviventi’.

Significati dell’evento-reato

È utile fornire alcuni elementi di comprensione delle dinamiche che si scatenano nel singolo e nella famiglia quando soprattutto un giovane (come era Pipino all’inizio) compie un reato.

La commissione di un reato è sempre un evento critico per il minore ma anche per la sua famiglia in quanto questo, forse più di altri, è uno di quegli eventi puntuali che ha il potere di trasformare l’identità stessa della famiglia sia in termini di autostima che di posizionamento sociale. Da quel momento, infatti, minore e famiglia si situano nella polarità semantica ‘onesto-disonesto’, ‘criminale-persona per bene’ e tutti devono fare i conti con il fatto che da un certo momento in avanti in famiglia c’è un delinquente ‘...tra di noi c’è chi ha infranto la legge e commesso un reato, questo cosa significa per noi e per le persone che interagiscono con noi? Che conseguenze può portare a me e ai miei cari?‘.

L’atto deviante si struttura su tre livelli posti in interazione circolare tra loro: il comportamento manifesto (cosa una persona fa concretamente), la cognizione (i pensieri ed i significati attribuiti dal soggetto al comportamento) ed il significato sociale (per il soggetto rispetto al suo posizionamento sociale ma anche per la società che deve com-porsi con l’atto deviante). Questa interazione crea un sistema che ‘… definisce lo scopo dell’azione [delinquenziale, n.d.r.] come un costrutto che propone continui rinvii di significati‘ (De Leo & Patrizi, 1999, p.113). Dunque il reo, specie se minorenne, attraverso l’agito deviante, pone la famiglia in un’interazione forzata con la società, che ha la caratteristica di essere sempre trasformativa: da questo confronto-scontro infatti il reo e la sua famiglia emergeranno comunque come socialmente diversi da prima. Ciò accade sempre in quanto l’azione criminale contiene in sé un’esplicita condanna da parte della società, non passibile di modificazioni di tipo culturale come invece può accadere per le separazioni coniugali, l’omosessualità, l’utilizzo di alcune droghe, le gravidanze precoci, etc. (Schneider, 2018).

Partendo dalla teoria dell’azione come costruzione sociale (Kelly, 1991), che vuole che il soggetto anticipi mentalmente gli effetti delle sue azioni ristrutturando di volta in volta il proprio comportamento in base alla reazione sociale, è possibile sostenere che il comportamento criminale, fatta eccezione forse per alcuni reati impulsivi, si caratterizza come un agito organizzato e pianificato, del quale vengono valutati in anticipo dal reo gli effetti, i possibili rischi e le conseguenze.

Su questa base De Leo e Patrizi (1999) si sono concentrati sullo studio della condotta deviante identificandone due specifici effetti: gli effetti strumentali e gli effetti espressivi. I primi fanno riferimento allo scopo manifesto (ovvero, quale tipo di risultato/vantaggio voglio ottenere con il reato?) mentre i secondi rimandano agli effetti propriamente comunicativi dell’azione (cosa voglio comunicare agli altri con il mio reato?). In relazione a quest’ultimi, secondo De Leo e Patrizi l’azione deviante è un forte strumento comunicativo e di attrazione, e l’atto criminale viene inteso come una modalità molto efficace per rendere evidenti i messaggi e gli effetti anticipatori (ivi, p.128).

Nel caso specifico di Pipino, gli effetti strumentali dei suoi primi furti sembrano connessi alle necessità di sostentamento della sua famiglia ed in generale al fornire a se stesso e alla famiglia condizioni di vita meno deprivate. Per quanto riguarda gli effetti espressivi, con i suoi furti diretti in particolare contro i ricchi della nobiltà veneziana Pipino sembra voler comunicare il disagio per le disuguaglianze sociali con essi e la superiorità di quest’ultimi ostentata verso la classe più povera. Non sembra prioritario nei suoi crimini l’intento di arricchirsi mentre al contrario i ricchi e la ricchezza sono vissuti come ‘nemici’ da punire e vincere, configurando quasi una lotta di classe.

Carriera deviante

Il passaggio da un singolo atto criminale ad una reiterazione dello stesso, prerequisito per De Leo e Patrizi per lo strutturarsi di una carriera deviante, viene spiegato dagli autori considerando un processo relativamente stabile di ristrutturazione cognitiva di significati diviso in fasi, ognuna delle quali rinforza il consolidamento dell’identità deviante. Il caso di Pipino appare in questo senso emblematico: è infatti possibile ritrovare una corrispondenza abbastanza precisa tra le varie fasi del processo evolutivo criminale proposte da De Leo e Patrizi ed i momenti critici della vita di Pipino.

Antecedenti storici. Rappresentano per De Leo e Patrizi le condizioni di disagio socio-economico e relazionale entro cui la prospettiva di una carriera deviante può trovare terreno fertile per svilupparsi. Per Pipino la condizione di partenza è la povertà e l’appartenenza ad un contesto caratterizzato da atteggiamenti disprezzanti agiti dai più ricchi verso i più poveri. Forte in questo caso è la percezione di ingiustizia sociale. Pipino dice ‘...noi che eravamo i poveri ci mettevano sempre negli ultimi banchi, e nei primi c’erano tutti i figli dei ricchi, dei signori, che facevano comodo ai maestri: portavano sempre qualcosa per i maestri che erano sempre molto più attenti a questi ragazzi qua e non a noi che eravamo poveri‘.

Crisi. Rappresenta la fase nella quale avvengono i primi contrasti tra le esigenze di sviluppo del soggetto e la considerazione della limitatezza degli strumenti concreti a sua disposizione. In Pipino l’evento critico avviene molto presto, a 6 anni, e coincide con lo scontro con un compagno ricco per un torsolo di mela (contrasto con la società). Pipino racconta: ‘…è successo che ho fatto una litigata per un torsolo di mela con uno il cui papà era un medico-farmacista. Aveva il cestino pieno di leccornìe e io gli ho chiesto il torsolo della mela. Questo a furia di morsicare è arrivato alla fine… e me lo ha gettata in faccia. Mi sono alzato e gli ho dato una spinta, è caduto per terra, si è morso la lingua, è uscito un flutto di sangue (…) Hanno chiamato mia madre, mio padre no perché lavorava, e le hanno detto: signora suo figlio bisogna metterlo in una scuola pedagogica, quelle chiuse, per i ritardati mentali. Da quel giorno lì non sono più andato a scuola‘.

Inizio. Riguarda le occasioni sporadiche nelle quali il soggetto sperimenta azioni devianti. Spesso l’intento è comunicare in modo disfunzionale il proprio disagio ma parallelamente inizia anche la percezione di poter trarre dall’atto deviante un qualche vantaggio (strumentale o comunicativo). Dagli 8 anni Pipino trova nel furto un modo per sopperire alla sua povertà sia concreta (fame) sia sociale (emarginazione). ‘…Una volta ho raccolto un frutto, mi sono pasciuto di questo frutto, e ho detto: questo frutto sarà la mia scuola e la strada la mia maestra. E così ho cominciato a cambiare completamente la mia vita. Il primo furto l’ho fatto a 8 anni. Rubavo un litro di latte tutti i giorni, lo portavo nel mio quartieretto, dove c’erano 15 famiglie, tutte morte di fame, e aspettavano me con il latte per dare il latte ai bambini‘.

Prosecuzione. Il soggetto percepisce positivamente gli effetti strumentali dell’azione deviante e l’acquisizione di uno status deviante riconosciuto dagli altri in modo favorevole. Dai 12 anni Pipino trova attraverso il furto l’approvazione del suo gruppo di riferimento (famiglia e poveri) e si gratifica nell’aiutarli. ‘…Poi piano piano, mi sono un po’ migliorato, ho cominciato dapprima con i tabaccai poi con le gioiellerie, sono diventato insomma, quello che sono‘.

Stabilizzazione. Il soggetto sente di non poter più ‘tornare indietro’ rispetto alla criminalità, per non tradire il suo gruppo di riferimento ma anche perché è sempre più capace nelle sue azioni delinquenziali; l’identità si struttura su queste competenze. Pipino continua la sua personale ‘battaglia’ contro i ricchi, giustificata e sostenuta dalla sempre maggiore appartenenza al proprio gruppo (i bersagliati e i vessati dai ricchi) e da un sempre maggiore riconoscimento in tale gruppo. Si sviluppa in lui una ‘morale’. ‘… io ho rubato per necessità, poi di necessità ho fatto una virtù quando mi sono accorto che c’erano ladri che rubavano molto, ma molto più di me, [ovvero, n.d.r.] i ricchi-ricchi. Non esiste una ricchezza che non provenga da un ladrocinio. Venezia è una città rubata. Ci sono quelli che nascono con la camicia e con lo smoking, noi invece siamo nati nudi, come Dio ci ha fatto‘.

Consolidamento. Questa per De Leo e Patrizi è la fase nella quale gli altri si aspettano che il soggetto continui a delinquere. Il soggetto si riconosce ormai come deviante e la devianza è percepita come un successo. Per Pipino è proprio così: si percepisce come deviante, la devianza è un successo e un riconoscimento personale. È fiero del suo operato e del riconoscimento che ottiene in quanto abile ladro con un proprio codice d’onore, che gli vale anche il rispetto della polizia. Sono presenti diversi elementi:

Successo nel poter aiutare i poveri a scapito dei ricchi ‘… Il mio era il modo onesto di poter sottrarre ai ricchi per poi dare qualcosa ai poveri (…) mi definisco una sorta di Robin Hood‘.

Il furto diventa un’occupazione stabile un ‘lavoro’. Pipino dimostra orgoglio per aver rubato in tutte le case dei nobili Veneziani: ‘li ho castigati (…) Ho visitato tutte le case dei nobili veneziani’.

Riconoscimento sempre più generalizzato, fascinazione degli avversari e degli interlocutori. Mosi, Ex Capo della Squadra Mobile di Venezia, dice: ‘… è difficile parlar male di lui nonostante i 30 anni che ha passato in carcere per una scelta di vita che indubbiamente non è da condividere, perché nel suo modo di pensare, nel suo stile di vita, nel suo essere fuorilegge, in qualche misura criminale, ha sempre avuto un codice di rispetto per quello che erano le persone. Non mi risulta mai che abbia usato violenza nei confronti di altri, neppure all’interno del suo gruppo, all’interno del suo mondo, dove è facile entrare in contrasti. Era un soggetto d’altri tempi, un soggetto che voleva la quiete all’interno del suo gruppo‘.

Meccanismi di difesa

Spesso l’azione deviante è accompagnata da una distorsione cognitiva ed emotiva che implica la giustificazione del proprio comportamento. Tali processi hanno la funzione di neutralizzazione della norma e sono messi in atto, secondo Bandura (1996), attraverso meccanismi di disimpegno morale.

Per Bandura i meccanismi di difesa attivi nella devianza e nella criminalità sono:

  • Giustificazione morale
  • Etichettamento eufemistico
  • Confronto vantaggioso
  • Dislocamento della responsabilità
  • Diffusione della responsabilità
  • Non considerazione e distorsione delle conseguenze
  • Attribuzione di colpa
  • Deumanizzazione della vittima

Dall’analisi delle interviste rilasciate da Pipino negli ultimi anni, emerge soprattutto l’utilizzo di due di questi meccanismi di difesa:

  • La giustificazione morale. Egli è certo di aver fatto la cosa giusta, di averla fatta in maniera etica, in nome di un ideale e di un valore superiore: contro i ricchi per il bene dei poveri. ‘… La soddisfazione era che non rubavi affatto ai proprietari delle carte di credito, ma alle banche (..). Un conto è rubare per quella mania di possesso del denaro, che fa schifo, il denaro è del diavolo, ma l’ho fatto per una sorta anche di sfida tra me e l’impossibile (…) Io ho rubato per necessità, poi di necessità ho fatto una virtù quando mi sono accorto che c’erano ladri che rubavano molto ma molto più di me, i ricchi-ricchi. Non esiste una ricchezza che non provenga da un ladrocinio. La mia etica: di non far dannare le persone. Rubare ma onestamente‘.
  • La non considerazione o distorsione delle conseguenze. Pipino dice esplicitamente che rubare ai ricchi ‘non è un peccato’ e non viene frenato nemmeno dalla possibilità di tornare in carcere per l’ennesima volta: ‘… quando mi arrestavano, ero tranquillo, pacifico, beato, avevo già preso questa consapevolezza‘. Il carcere per Pipino è infatti un ambiente nel quale si trova a proprio agio, circondato da persone che condividono storie di vita simili alla sua e che cerca sempre di aiutare: ‘… sono sempre stato un leader nelle carceri, mi chiamano ‘il sindacalista delle carceri’’.

Classificazione dell’evento-reato

La teoria dell’azione deviante di De Leo e Patrizi (1999) spiega, partendo da un’ottica costruttivista, non solo i processi personali ed interattivi che portano un soggetto a diventare un delinquente, ma anche gli aspetti specificamente comunicativi del gesto criminale. Questa teoria evidenzia come l’atto criminale sia uno strumento per il reo per amplificare i propri messaggi verso gli altri e per ottenere vantaggi simbolici che lo coinvolgono circolarmente all’interno della sua rete sociale di riferimento.

Su questo filone uno di noi ha proposto una classificazione dell’agire delinquenziale in adolescenza basata sulla motivazione prevalente (Schneider, 2018). Ne emergono quattro principali categorie:

  • Il reato come ‘sintomo’. Questa tipologia riguarda ragazzi ‘sofferenti’, che attraverso il reato esprimono un disagio emotivo e/o relazionale: in questi casi il reato è l’equivalente di un sintomo psicologico ed è leggibile come una richiesta di aiuto. De Leo a tal proposito diceva ‘… se vuoi che qualcuno si faccia carico della tua situazione, commetti reati‘ (citato in Biscione, Pingitore, 2015).
  • Il reato come ‘scelta di vita’. Questa tipologia di ragazzi commette reati per una sorta di scelta di vita deviante. Questi giovani, mettendo in atto comportamenti delinquenziali, non esprimono infatti primariamente un disagio quanto piuttosto confermano un’appartenenza a gruppi devianti accogliendo e facendo propri valori criminali. Sebbene in molti casi può essere presente un evento critico generatore di sofferenza psichica, ciò non è sempre detto: l’appartenenza a contesti devianti può infatti per molti di essi rappresentare la principale fonte di identificazione e la principale motivazione a delinquere. Questi ragazzi non manifestano un bisogno di aiuto seppur nascosto ma nemmeno una sofferenza riconoscibile e socializzabile; per essi al massimo è possibile dire che il reato rappresenta un sintomo ego sintonico.
  • Il reato come ‘necessità’. Alcuni ragazzi possono vivere situazioni di grave disagio socio-economico e non avere una rete sociale che possa sostenerli in un percorso di legalità e proteggerli. Molti di questi giovani, spesso stranieri ‘non accompagnati’ (ovvero senza adulti di riferimento nel nostro paese) finiscono per delinquere per bisogno e/o per costrizione (ad esempio quando, spesso loro malgrado, sono arruolati sotto minaccia dalla criminalità organizzata, magari legata al loro paese d’origine).
  • Il reato come ‘fatalità’. Vi è poi una tipologia di giovani che si trova ad incappare in un’azione deviante quasi per caso, ovvero senza riuscire a soddisfare nessuno dei precedenti criteri in modo significativo.

Il caso di Pipino rientra nella seconda tipologia, ovvero della scelta deviante come scelta di vita, nonostante l’iniziale motivazione sia legata ad una sofferenza: la storia del comportamento criminale di Vincenzo, infatti, nasce da una condizione favorente la criminalità (svantaggio socio-economico) ma anche da una significazione degli eventi di tipo culturale nella quale la contrapposizione tra ricchi e poveri diviene contenitore di azioni devianti, a più livelli logici giustificate o quanto meno rese plausibili.

In questo contesto Pipino si identifica in brevissimo tempo nel suo ruolo/status di criminale, non prova rimorso per i furti commessi che anzi giustifica in modo coerente secondo la propria morale ‘… rubare ai ricchi-ricchi non è peccato, perché chiunque sia ricco è stato a sua volta un ladro’.

Come detto, il contesto ha poi il suo peso. Rispetto alla famiglia di Pipino, essa dalle informazioni in nostro possesso sembra aver avuto reazioni confermanti i suoi crimini. Utilizzando la classificazione delle possibili reazioni di una famiglia al reato di un minorenne, classificazione che è parte di un modello interpretativo della criminalità giovanile più ampio, proposto da uno di noi (Schneider, 2018), la famiglia di Vincenzo rientra nel sottotipo ‘tollerante/istigante la commissione del reato’, ovvero tipo 2 – di ‘conferma’ (dell’identità e dei gesti devianti), sottotipo 4 – ‘manipolativo’. Secondo il modello di Schneider infatti le famiglie possono reagire ad un reato commesso da un minorenne in due modi: con ‘vergogna’ o con ‘conferma’. Nel primo caso vi è disagio da parte della famiglia, la quale (sottotipo 1) può reagire in modo ‘collaborativo’ oppure (sottotipo 2) in modo ‘ambivalente’. Nel secondo caso la famiglia non prova disagio per il reato del figlio, e ciò perché (sottotipo 3) condivide esplicitamente valori devianti o perché (sottotipo 4) accetta il reato, collude con esso e a volte lo istiga per interessi interni (conflitti, lotte di potere, ecc..).

Dal racconto di Pipino emerge l’immagine di una famiglia unita, con genitori affettivi e supportivi che però appaiono in conflitto con la società e nello specifico essi stessi per primi con ‘i ricchi’. Verosimilmente per tale conflitto con la società i genitori sostengono Pipino e ne coprono diversi comportamenti, al limite della collusione. In particolare la madre attua tale comportamento fin dall’infanzia del figlio. In un docufilm del 2019, lo stesso Pipino dirà raccontando di una lettera a lei indirizzata: ‘… mamma, quanto mi hai difeso. Per te io ero sempre innocente, nonostante avessero prove certe della mia responsabilità. Da bambino dicevi sempre che io ero innocente e mi coprivi anche, facevi un po’ da complice, e che lotte che facevi, guai a chi mi toccava‘.

Su questa linea, che si rifà all’ottica sistemico-relazionale che legge i comportamenti del singolo in relazione ai rapporti affettivi che egli intrattiene con il proprio contesto di riferimento, riteniamo ipotizzabile che Vincenzo Pipino fin dall’infanzia abbia agito ‘per conto’ dei genitori o più in generale del suo ambiente di provenienza portando avanti il desiderio di una redistribuzione della ricchezza dai più ricchi ai poveri, ricercando dunque in questo una forma, sebbene inappropriata, di giustizia sociale. Pipino pare essersi così profondamente identificato in quei valori da arrivare a farne una scelta di vita.

 

Isolamento sociale da Covid-19, depressione e rischio suicidio nell’anziano: prospettive d’intervento

In questo periodo di tensione causato dagli effetti della pandemia, la terapia CBT è un’opportunità che identifica approcci validi a promuovere la regolazione emotiva, la consapevolezza cognitiva, la gestione dello stress fisico e mentale e rappresenta un supporto anche per i soggetti anziani.

 

I problemi di salute più comuni nelle persone anziane sono rappresentati da ipertensione, diabete, malattie cardiovascolari, malattie respiratorie e malattie psichiatriche che possono contribuire al rischio di morte in caso di infezione da Covid-19 (Zheng et al., 2020, Park & Unützer, 2011).

A questo quadro clinico si aggiunge l’isolamento sociale condizionato dal Covid-19, sia per gli anziani residenti negli istituti di cura sia per quelli che vivono soli, consigliato se non a volte imposto come prevenzione del rischio di contagio.

Questa condizione implica per gli anziani l’allontanamento dai luoghi più comuni vissuti come momenti di socialità, nonché la disconnessione dalla rete familiare. Uno scenario in cui il tempo per una persona anziana si tramuta spesso in senso di inutilità, solitudine e perdita di appartenenza. Uno studio recente mostra conseguenze importanti sulla salute e la morte prematura negli anziani derivanti da condizioni di isolamento sociale prolungato come disagio emotivo, deterioramento cognitivo e sensomotorio. (Plagg, Engl, Piccoliori, & Eisendle, 2020).

Per i soggetti in età avanzata, uno stile di vita stressante determina difficoltà di adattamento e si associa a una serie di esiti psichiatrici avversi come ansia, depressione, disturbi del sonno nonché frequenti atti suicidari (Conejero, Olié, Courtet, & Calati, 2018).

Un recente studio americano pubblicato su The American Journal of Geriatric Psychiatry ha sottolineato l’importanza per gli anziani di mantenere le relazioni sociali durante le restrizioni dovute alla pandemia. Gli autori di questo studio (Van Orden et al., 2020), descrivono la tragedia pandemica mondiale in atto attraverso una lettura sociologica, dove il concetto di comunità sociale, in genere percepito come germe di solidarietà e fratellanza che inspira senso di appartenenza alla collettività, viene associato a effetti di distruzione delle comunità e mette a rischio categorie più deboli come gli anziani.

Intervento cognitivo-comportamentale per ridurre i rischi dell’isolamento sociale nel soggetto anziano

Van Orden e colleghi hanno applicano un Piano di strategie di carattere cognitivo comportamentale (CBT) come prevenzione al disturbo dell’umore e agli atti suicidari comprensivo di brevi sessioni telefoniche/video (30 minuti) e l’invio di e-mail contenenti materiale informativo, al fine di mantenere il contatto con gli anziani soli e promuovere la salute sociale.

Secondo il modello CBT, in un primo momento il soggetto è stato accompagnato a individuare i pensieri negativi che molto spesso giudicano, svalutano e si accompagnano a sentimenti di scarso valore e inutilità, in una prospettiva che consentiva di individuare i bias cognitivi e sostituirli con immagini più positive.

Inoltre, i soggetti anziani coinvolti nello studio sono stati motivati a cambiare le azioni quotidiane con nuove attività sociali, ad esempio: connessioni in remoto o con la comunicazione scritta.

Sono state aggiunte le strategie derivanti dalla terapia dialettica comportamentale (DBT) rivolte al riconoscimento delle emozioni, dei pensieri e delle sensazioni corporee utili a tollerare il disagio e regolare lo stato emotivo.

Queste tecniche prevedono l’orientamento al “qui e ora” rispetto al passato e al futuro, contribuiscono ad alleviare la solitudine e migliorare l’appartenenza nonché la consapevolezza e l’accettazione della sofferenza condivisa dovuta al Covid-19.

In aggiunta, il piano di strategie messo in atto per garantire la sicurezza dei soggetti anziani soli chiama in causa la “mente saggia” (compresa nello sfondo DBT) atta a favorire la consapevolezza e la partecipazione alla connessione con l’universo, in una prospettiva contemplativa, spirituale e mistica.

In questo quadro, l’esercizio della “gentilezza amorevole” calma le emozioni di estrema intensità e lo stress, fino a che una sensazione di connessione, percezione di amore e accudimento consente di affrontare la somatizzazione ansiosa, l’irrequietezza e migliorare l’umore.

Le strategie cognitivo-comportamentali possono aiutare i soggetti a rischio a mantenere i collegamenti sociali e limitare le conseguenze dell’isolamento e della solitudine durante la pandemia COVID-19.

Considerazioni generali e prospettive future

È bene considerare che tutta la popolazione mondiale al momento attuale sta vivendo una limitazione dei confini sociali dovuta alla pandemia. Isolamento e distanza fisica, non solo nei contesti sociali, ma anche nello spazio privato e familiare, sono la speranza di sfuggire all’infezione da Coronavirus.

Sul piano psicologico la distanza interpersonale mette a dura prova la salute mentale, in particolare per le categorie più vulnerabili come bambini e anziani.

È noto che le dinamiche sociali sono alla base della salute mentale a tutte le età, basti pensare alle teorie sullo sviluppo socio-emotivo del bambino (Pattwell & Bath, 2017), nonché al benessere derivante dalle relazioni sociali in età avanzata (Charles & Carstensen, 2010). Comunemente, il mondo mediatico ha paragonato la pandemia ad una guerra.

Questa metafora ha condotto la popolazione mondiale a una risposta sociale di allerta e difesa per di più, alla consapevolezza che il nemico vive in forza del proprio agire, alimentato la fragilità, l’impotenza, la solitudine, fino alla percezione di abbandono e perdita (Battistelli, 2020).

Dall’esigenza di fronteggiare la paura di un’incombente distruzione della propria salute, della sfera personale e affettiva, fino al rischio della perdita della vita, ne deriva un importante sindrome da stress sul piano biologico, psicologico, sociale ed economico (Taylor et al., 2020).

In questo periodo di tensione causato dagli effetti della pandemia, la terapia CBT è un’opportunità che identifica approcci validi a promuovere la regolazione emotiva, la consapevolezza cognitiva, la gestione dello stress fisico e mentale e rappresenta un supporto anche per i soggetti in età avanzata.

 

Born To Surf 2.020 (2020) di Flavio Nascimbene- Recensione del libro

Con grande capacità di evoluzione e adattamento i servizi digitali ci hanno consentito di introdurre nel nostro quotidiano smart-working, sedute on-line, lezioni di fitness su zoom, dirette Instagram e intrattenimenti di ogni genere.

 

Le nostre vite oggi sono cambiate. È un affermazione che ormai inizia quasi a diventare vecchia.

Nel corso della nostra evoluzione diverse invenzioni sono state in grado di dare una forte accelerazione a questo processo che l’essere umano percorre da sempre. In questo momento storico assistiamo ai cambiamenti che si ascrivono a quella che possiamo definire “l’era digitale” e ”l’Homo Digitans”, come definisce Michele Spaccarotella (Il Piacere Digitale, 2020), ne è il suo indiscusso abitante.

Oggi più che mai, nel pieno corso di una crisi sociale senza precedenti, il digitale è stato tra le risorse più usate e abusate assieme all’amuchina e al lievito di birra, permettendoci di assaporarne sempre più vantaggi, limiti e anche pericoli. Con grande capacità di evoluzione e adattamento, i servizi digitali hanno soddisfatto esigenze dell’utenza quasi in tempo reale consentendoci di introdurre nel nostro quotidiano smart-working, sedute on-line (o teleterapia), lezioni di fitness su zoom, dirette Instagram e intrattenimenti di ogni genere riuscendo ad ammortizzare un colpo che la nostra società non era preparata a ricevere.

Questo cambiamento sta da tempo coinvolgendo inevitabilmente la nostra professione di psicologo ed è assolutamente opportuno e necessario fermarsi a riflettere sulle conseguenze che ne derivano sia sulle nostre vite che nel nostro contesto lavorativo.

Flavio Nascimbene è uno di quei colleghi che lo sta facendo da tempo e lo fa anche con molta cura e competenza e ora ha voluto condividere il suo interessante impegno e il suo utile punto di vista con il suo libro Born to Surf.

Se avessi letto la prima parte di questo libro negli anni 90, dalle prime righe avrei pensato di aver iniziato quasi un racconto di Asimov. Questo perché l’autore introduce l’argomento proiettando il lettore da subito in una realtà di vita intrisa di abitudini digitali. Ho letto le pagine sul mio portatile in giro per la città, per restare attaccato a questa sensazione e trattenere il senso fluido e veloce delle infinite opportunità che il mondo digitale è solito farci provare; liberi da vincoli strutturali, ogni posto poteva essere una sala di lettura metropolitana. La sensazione personale che ho sviluppato però andando avanti è divenuta presto ambivalente. Da una parte il senso di arricchimento, quella possibilità tendente all’infinito dove il digitale è una risorsa senza limiti, dall’altra la mia dimensione analogica di pre-millennial ha iniziato a provare un senso di invadenza, di costrizione.

È proprio questo uno dei punti fermi del libro, tutta questa facilitazione di vita e ricchezza di opportunità offerta dal mondo digitale viene descritta raccontando anche l’altra faccia della medaglia, quella che impegna in modo significativo le nostre facoltà cognitive di pre-millennials che assistono ad un mondo che cambia e si evolve, ma non sempre in modo semplice e intuitivo. Con delle sue regole che nascono e si sviluppano tra necessità di gestirlo e di nutrirlo, come se avesse vita propria.

Un mondo che a volte tende a divenire marcatamente diviso dall’esistenza di differenti generazioni che lo abitano e lo utilizzano in modo differente.

Parte della realtà è cambiata, siamo in un contesto dove ormai i parametri che definivano le nostre abitudini quotidiane prettamente analogiche, non sono più gli stessi, ci sono nuove modalità e nuove regole.

Flavio Nascimbene lo descrive dal punto di vista di chi c’era prima e cerca di capirne il senso con curiosità e riflessioni che non risparmiano un sano spirito critico e a volte anche preoccupato. Tempi, distanze e altri aspetti che poco tempo fa costituivano dei limiti, ora assumono un valore diverso attraverso infinite possibilità che chiamiamo applicazioni. Il problema? Dobbiamo scegliere costantemente tra tutte le possibilità che offrono queste applicazioni con un ipertrofico senso di responsabilità al quale prima non eravamo abituati.

Possiamo restare in collegamento continuo con i colleghi e amici, accedere a tante modalità di spostamento nella nostra città e ordinare cibo on line con una facilità incredibile. Ciò che cambia è il modo di definire noi stessi e anche quello di rapportarsi alle altre persone. Gli spazi personali sono concepiti con confini più fluidi e meno formali.

Le nostre dimensioni sociale, organizzativa, interpersonale e personale, hanno nuovi confini e meno limiti rendendoci a volte disorientati attraverso queste nuove infinite possibilità. Il percorso evolutivo intrapreso sembra irrimediabilmente tracciato e incontrovertibile mentre diviene sempre più faticoso farne una sintesi per utilizzarlo al meglio rispetto le nostre necessità.

Cavalchiamo un cambiamento in itinere che sembra impossibile da arrestare e ancora più difficile da sintetizzare in modo semplice. Insomma non si torna certo indietro e quindi non ci resta che cercare di comprendere come le cose cambiano e quindi come adattarci al meglio possibile.

Quali sono quindi le implicazioni di tutto questo nelle nostre vite? Cosa accade tra le varie generazioni coinvolte? Sembrerebbe che qualcosa con tanto potere di collegarci e metterci in comunicazione gli uni agli altri, paradossalmente stia creando enormi distanze tra le generazioni.

Ed è proprio in questa cornice che in Born to Surf l’autore prova a cercare di comprendere come la generazione Millennials (nota anche come generazione X e Y) sia differente rispetto a quella dei giovani di venti anni or sono. Lo fa studiando una sotto categoria ben precisa: la generazione dei giovani sportivi.

Un tentativo di costruire un ponte tra le generazioni pre e post Millennials

questo rappresenta infatti questo libro per il Flavio Nascimbene.

Ma chi sono i Millennials e sopratutto chi è il millennials sportivo?

Questo è ciò che cerca di descrivere l’autore nella prima delle due parti del libro.

Circa il 40% della popolazione mondiale è rappresentato dai Millennials. Questa generazione, rispetto alla precedente, vive diversamente le relazioni, immagina la carriera lavorativa con modalità adattive meno rigide e acquisisce continuamente nuove capacità al fine di adattarsi a un mondo mutevole, interattivo e sempre meno prevedibile.

In tutto questo il Millennials è esposto a un processo di costruzione della propria identità differente dal nostro. Ognuno di noi, di norma, mette in atto un processo costante di integrazione tra realtà interna e realtà esterna. Quest’ultima è fatta di informazioni ed esperienze e viene percepita ed elaborata al fine di essere utilizzata in un’importante processo di categorizzazione che ci aiuta a dare senso e ordine alle cose. Lo sviluppo di questo processo per ognuno di noi è essenziale al fine di definirci e orientarci nell’assumere una posizione nel mondo e nella società con un identità e un ruolo definito al suo interno.

Il Millennials diversamente si interfaccia con una realtà on-line di cui ne è contemporaneamente cittadino e fautore. Una realtà che egli alimenta e arricchisce attraverso immagini di Sé selezionate attraverso un processo di impression management con lo scopo di confezionare identità più desiderabili e piacevoli attraverso il quale contemporaneamente si definisce e rappresenta («La personalità online – Tracce digitali dell’identità», Villani e Triberti 2018).

L’Interrealtà è il nome con cui può essere definito il nuovo spazio sociale (V. Van Kokswijk, 2003; Riva, 2009) dove il Millennials costruisce la propria identità che viene affidata a cangianti algoritmi ideati da ben altri scopi come racconta il documentario The social dilemma (2020).

Tale contesto del tutto inedito è fonte di  preoccupazione del clinico che cerca di comprenderne i vantaggi e gli svantaggi.

Tanto da arrivare a domandarsi se il Web 2.0 si un vantaggio reale o una regressione di massa.

Nel libro si sceglie di concentrare l’attenzione di questa indagine principalmente su una categoria ben specifica di millennials, quella degli sportivi attraverso 62 casi studio.

Questa scelta, sviluppata nella seconda parte del libro, riesce a mettere a confronto due dimensioni apparentemente in contrasto: l’analogico del corpo che si esprime e si relaziona attraverso lo sport e la dimensione “online” che abita il virtuale attraverso il quale questi ragazzi si relazionano e sviluppano la propria identità.

La vulnerabilità caratterizzante della fase evolutiva dell’adolescenza  espone lo sportivo millennials ad una dimensione comunicativa molto potente attraverso i social, da qui il processo di definizione del proprio Sè in corso può essere significativamente influenzato. Fuori da questo pericolo, sottolinea Nascimbene, non lo sono naturalmente neanche tutti coloro che vivono in condizioni di fragilità psicologia e socio economica.

Negli studi presentati vengono individuate quattro aree problematiche:

  1. (Is) Iperrealtà e sogno
  2. (Di) Demotivazione e instabilità motivazionale
  3. (Ai) Ansia e instabilità emotiva
  4. (Rs) Relazionalità e solitudine

Questa parte del libro è sicuramente più operativa e l’autore propone degli “Strumenti di lavoro per sportivi millennials” molto utili per gli addetti ai lavori e per chi volesse conoscere ed essere di aiuto a questa generazione.

Attingendo alla sua esperienza di psicologo sportivo, Nascimbene condivide importanti e mirate riflessioni assolutamente orientate su un versante pratico tenendo presente tre aspetti importanti da considerare: la consapevolezza del Sé, benessere-relazionale e ottimizzazione delle abilità utili alla performance.

Il setting terapeutico si è arricchito di una possibilità, la comunicazione a distanza, ma questa modifica attraverso svariati strumenti che operano on-line, ha sottoposto il professionista a nuove sfide. La prima è il tentativo di mantenere efficace un setting che diviene inevitabilmente più aperto, più fluido e a rischio di facile invasione e contaminazione. Ci si chiede se è possibile mantenere quell’intimità fondamentale per ogni buona relazione terapeutica. Ancor più ci si domanda: funziona la Web Therapy?

L’autore prova a dare una risposta attraverso un’accurata rassegna di studi di efficacia e meta-analisi sull’efficacia delle terapie on line rispetto a quelle vis à vis.

Le riflessioni condivise, dato il nostro periodo storico dove la necessità di molti di operare on-line è divenuta sempre più incalzate, sono assolutamente preziose.

Ogni riflessione sulle quattro aree critiche è ben descritta offrendo al lettore una visione tecnica della problematica, dettagliando i dati statistici si apre la possibilità di dare vita a profonde riflessioni che vengono attivate pagina dopo pagina e che sarebbe giusto continuare anche una volta terminato il libro.

Born to surf si mostra una risorsa utile non solo per coloro che lavorano in ambito sportivo, ma per tutti i professionisti che si occupano di adolescenza e che hanno bisogno di acquisire spunti di riflessioni utili al fine di ammodernare la loro impronta metodologica.

 

L’impulsività: deficit nel controllo inibitorio motorio e cognitivo

L’impulsività è definita come la ‘mancanza di riflessione prima di fare o dire qualcosa‘, la ‘tendenza a seguire i propri impulsi‘ (Cattana e Nesci, 2003, pp. 366-367).

 

Il DSM-5 (APA, 2013) definisce l’impulsività, o un comportamento impulsivo, come un’azione non lungimirante espressa prematuramente, inappropriata per la situazione, rischiosa e associata a esiti indesiderabili piuttosto che desiderabili.

Questa tendenza è considerata una caratteristica transdiagnostica di molti disturbi mentali, un tratto associato alla psicopatologia (Moeller et al., 2001; Stanford et al., 2009). I primi studi misurarono l’impulsività attraverso la somministrazione di questionari auto-valutativi. Inoltre, l’eterogeneità di questo costrutto ha limitato la traduzione dei risultati ottenuti e la sua definizione specifica all’interno della pratica clinica.

Le neuroscienze hanno delineato un modello dell’impulsività che comprende due costrutti separati e sovrapposti. Il controllo inibitorio include un deficit nell’inibizione motoria (‘inibizione della risposta’): quest’ultima è la capacità di inibire le risposte agli stimoli e coinvolge la corteccia frontale interna (IFC) e l’area motoria supplementare (SMA) (Aron, 2011). In secondo luogo, l’inibizione cognitiva – cioè ‘l’arresto o l’annullamento di un processo mentale, in tutto o in parte, con o senza intenzione’ (Aron, 2007) – coinvolge la corteccia frontale inferiore (McHugh e Balaratnasingam, 2018).

Recenti ricerche sulla personalità – che passano da un campo categorico ad una panoramica dimensionale dei disturbi di personalità (Newton-Howes et al., 2015) – evidenziano come i tratti possano essere maggiormente plastici e come la loro espressione rischi di essere peggiorata da fattori stressanti di carattere psicosociale. Tale attenzione alle dimensioni trans-diagnostiche della psicopatologia ha portato a un rinnovato interesse per l’impulsività, costrutto ad oggi studiato anche mediante le tecniche di neuroimaging e metodi di misurazione comportamentali e neurocognitivi (McHugh e Balaratnasingam, 2018).

McHugh e Balaratnasingam (2018) hanno fornito una panoramica del fenomeno dell’impulsività attraverso una revisione, per spiegare come sia associata ai disturbi di personalità e quali siano delle implicazioni funzionali per il suo trattamento (McHugh e Balaratnasingam, 2018).

Kable e Glimcher (2007) evidenziano stretti collegamenti e una sovrapposizione tra le varie reti coinvolte sia in aspetti del controllo inibitorio che nella valutazione della ricompensa, riguardante la tendenza a scegliere ricompense più piccole ottenute nell’immediato rispetto a ricompense più sostanziose fornite in un secondo tempo (Kable e Glimcher, 2007).

Steinberg (2007) ha descritto un sistema duale riguardante il modello di controllo cognitivo e il processo decisionale socio emotivo legato ai sistemi di ricompensa: ci sono prove che il controllo inibitorio aumenti costantemente dall’infanzia all’età adulta. Al contrario, sembra che il processo decisionale legato all’impulsività segua una traiettoria differente durante la fase adolescenziale: durante questa fase infatti tale processo non garantisce certezze predittive (Scheres et al., 2014; Tymula et al., 2012).

Dai risultati della review sopra citata emerge che il controllo inibitorio e la valutazione della ricompensa sono costrutti correlati.

La revisione di McHugh (2018) evidenzia come l’impulsività sia una caratteristica diagnostica del disturbo borderline (BPD) e di altri disturbi di personalità, come il disturbo antisociale (ASPD). È possibile che l’impulsività sia una mediatrice dell’associazione tra diversi disturbi di personalità e possibili esiti, inclusi comportamenti suicidari, la dipendenza da sostanze, una disfunzione interpersonale o di altri indicatori sociali come l’occupazione (McHugh e Balaratnasingam, 2018). La tendenza a cercare di ottenere ricompense immediate è una caratteristica del disturbo borderline di personalità (BPD) indipendentemente dalle condizioni di stress percepite dal soggetto (McHugh e Balaratnasingam, 2018). Per quanto riguarda i deficit legati all’inibizione della risposta, anch’essi sono risultati associati al BPD e peggiorano in condizioni di stress elevato. I risultati indicano come l’impulsività di stato abbia un ruolo chiave nell’espressione e nella manifestazione di un comportamento impulsivo (McHugh e Balaratnasingam, 2018). Comprendere l’impulsività in termini di meccanismi comportamentali e di processo decisionale di un individuo offre l’opportunità di avere nuovi obiettivi utili per la diagnosi e il trattamento dei disturbi di personalità. Studi esplorativi hanno confermato che tali informazioni potrebbero essere utilizzate per misurare la risposta al trattamento (McHugh e Balaratnasingam, 2018).

 

Teledidattica e riabilitazione online: amici o nemici?

Il Coronavirus, dai più noto col nome della malattia da questo derivante ovvero COVID-19 (CO-rona VI-rus D-isease), è un virus respiratorio che, in questi mesi, sta tenendo in scacco il mondo intero, minacciando il nostro benessere, sia fisico che psichico, che l’economia mondiale e, in una visione più ridotta, il nostro lavoro.

Ilaria Cester e Paola Destro – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Mestre

 

 Le prime notizie certe (e allarmanti) che abbiamo di questo virus qui in Italia, risalgono alla fine di febbraio (noi precisamente ci trovavamo a Milano per seguire il corso di perfezionamento in età evolutiva e seguivamo con molta attenzione e apprensione l’aumento di casi nella provincia di Lodi, a Codogno).

Ad inizio Marzo, l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), ha proclamato lo stato di pandemia, essendosi oramai il virus propagato nella maggior parte dei Paesi nel mondo.

Sin dall’inizio sono rimbalzati alla tv, sul web, alle radio e attraverso tutti i canali di comunicazione, consigli e indicazioni su cosa fare e cosa non fare. Anche il Governo si è mosso in tal senso predisponendo una serie di Decreti Legislativi e ordinanze che man mano hanno ristretto sempre di più la libertà personale dei singoli, a tutela di tutti.

Ed eccoci arrivati ad oggi, dove ognuno di noi (ad eccezione dei lavoratori che svolgono mansioni di prima necessità in questo infausto periodo) è rimasto chiuso in casa, chi in famiglia e circondato dagli affetti più cari e chi, invece, ha dovuto affrontare questa situazione di emergenza lontano da casa.

Ed è proprio in queste occasioni che la nostra professione, che nella maggior parte dei casi si basa sull’interazione umana vis a vis, sullo scambio comunicativo verbale, ma anche non verbale, è stata chiamata a riorganizzarsi ed a reinventarsi in tutti i modi possibili, senza però perdere di vista l’importanza di un intervento efficiente ma, soprattutto, efficace.

Noi psicologhe dello sviluppo e dell’età evolutiva, che interveniamo nell’ambito della psicopatologia dello sviluppo ed, in particolar modo, degli apprendimenti, ci siamo interrogate e confrontate su come poter mantenere un filo conduttore con i nostri piccoli e non più piccoli pazienti e con le loro famiglie, in particolar modo rispetto alla possibilità di continuare i percorsi di potenziamento delle abilità più fragili, precedentemente avviati e messi a dura prova dalla situazione sanitaria nazionale.

In questo momento di grandi cambiamenti, la tecnologia, che da qualche anno ci accompagna nel nostro lavoro, ci è venuta in aiuto, in quanto gli strumenti che già utilizzavamo per il potenziamento a livello domiciliare, ci hanno permesso di proseguire il nostro lavoro di potenziamento, aggirando l’ostacolo della distanza.

Quando parliamo di Disturbi Specifici dell’Apprendimento, ci riferiamo ad una categoria diagnostica che il DSM-5 (2013) include all’interno di una più ampia area, quella dei Disturbi del Neurosviluppo (ovvero Disabilità Intellettive, Disturbi della Comunicazione, Disturbi dello Spettro dell’Autismo, Disturbo da deficit di attenzione/iperattività, Disturbo specifico dell’apprendimento, Disturbi del movimento, altri disturbi del neurosviluppo).

Nello specifico, quando parliamo di DSA, facciamo riferimento ai disturbi che ‘coinvolgono uno specifico dominio di abilità, lasciando intatto il funzionamento intellettivo generale. Essi infatti interessano le competenze strumentali degli apprendimenti scolastici’; parliamo, quindi, di Dislessia, Disortografia, Discalculia e Disgrafia, come definito dalla Consensus Conference dell’Istituto Superiore di Sanità (CC-ISS, 2011).

A livello legislativo, i bambini e ragazzi con un profilo DSA sono tutelati dalla Legge n. 170 dell’8 ottobre 2010 e dalle linee guida per il Diritto Allo Studio degli alunni e degli studenti con DSA allegate al Decreto Ministeriale 12 luglio 2011, che prevedono l’introduzione di misure compensative e dispensative, attraverso la stesura di un Piano Didattico Personalizzato (PDP) in modo tale da evitare che le difficoltà specifiche penalizzino il ragazzino nell’acquisizione delle competenze scolastiche e vadano ad inficiare il benessere del ragazzino stesso, in termini di autostima, motivazione e senso di autoefficacia rispetto al contesto scolastico, ma non solo.

La personalizzazione della didattica è caldamente suggerita anche per tutti quei profili caratterizzati da altre tipologie di ‘fragilità’, al di là dei disturbi specifici dell’apprendimento, che rientrano nella categoria dei ‘Bisogni Educativi Speciali’ (BES), introdotta con la Direttiva Ministeriale del 27 Dicembre 2012 (Strumenti d’intervento per alunni con Bisogni Educativi Speciali e organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica), e successivamente specificata dalla Circolare Ministeriale n. 8 del 6 Marzo 2013 e dalle successive Note Ministeriali del 22 Novembre 2013 e del 17 Maggio 2018, secondo la quale ‘ogni alunno, con continuità o per determinati periodi, può manifestare Bisogni Educativi Speciali: o per motivi fisici, biologici, fisiologici o anche per motivi psicologici, sociali, rispetto ai quali è necessario che le scuole offrano adeguata e personalizzata risposta’.

Tale categoria comprende tre sotto-categorie, molto ampie: quella della disabilità (a sua volta tutelata dalla Legge 104/1992), quella dei disturbi evolutivi specifici (oltre ai DSA, per i quali, come sopra specificato il riferimento è la Legge 170/2010, ci si riferisce, ‘in particolare, ai disturbi con specifiche problematiche nell’area del linguaggio (disturbi specifici del linguaggio o, più in generale, presenza di bassa intelligenza verbale associata ad alta intelligenza non verbale) o, al contrario, nelle aree non verbali (come nel caso del disturbo della coordinazione motoria, della disprassia, del disturbo non-verbale o – più in generale – di bassa intelligenza non verbale associata ad alta intelligenza verbale, qualora però queste condizioni compromettano sostanzialmente la realizzazione delle potenzialità dell’alunno) o ad altre problematiche severe che possono compromettere il percorso scolastico’), passando per il Deficit di Attenzione/Iperattività (ADHD), fino alla categoria legata allo svantaggio socioeconomico, linguistico e culturale.

Questa piccola premessa ci aiuta a capire quanto è ampio il gruppo di bambini e ragazzini che, successivamente ad una valutazione psicodiagnostica degli apprendimenti e di tutti gli aspetti ad essi associati (intelligenza, funzioni esecutive, aspetti emotivi e comportamentali, autostima, motivazione…), dalla quale possono emergere profili ‘puri’ o che presentano più comorbilità, possano beneficiare di un percorso di potenziamento delle abilità risultate più in difficoltà.

Appare fondamentale la presa in carico non solo del piccolo paziente, ma il coinvolgimento attivo della famiglia e, soprattutto, della scuola (questo aspetto è ribadito e sottolineato anche nella Consensus Conference).

In periodi di ‘normalità’, tale lavoro di rete, pur non essendo sempre facile, risulta molto più semplice rispetto a questi ultimi mesi dove, pur mantenendo i contatti con la famiglia e con la scuola, telefonicamente e/o secondo qualche modalità ‘online’, il percorso di riabilitazione, solitamente erogato a livello ambulatoriale in associazione ad attività di consolidamento svolte a domicilio (gli homework tanto cari al nostro approccio CBT quanto efficaci) necessariamente è stato rimodellato.

Esistono diversi software/piattaforme, ad utilizzo clinico, che ci hanno permesso, in queste settimane, di continuare i nostri interventi riabilitativi, già avviati a livello ambulatoriale, in modalità ‘online’, così da proseguire con un continuo monitoraggio a distanza. Sono strumenti che spesso già vengono utilizzati per implementare a casa quanto trattato durante la seduta ambulatoriale ma che, durante i mesi appena trascorsi, si sono rivelati ancora più utili.

Tra questi, nominiamo, la piattaforma Ridinet della cooperativa Anastasis (www.anastasis.it) che propone una serie di percorsi personalizzabili in base alla diagnosi, che si presentano sotto forma di App (con un’interfaccia semplice, intuitiva e accattivante e che fornisce continui feedback, visivi e sonori, che da una parte alimentano la riflessione metacognitiva, dall’altra sostengono il senso di autoefficacia), dove l’utente, scelto il suo ‘avatar’, lavora tramite esercizi basati su specifici modelli riabilitativi su abilità diverse (lettura, linguaggio ed espressione, scrittura, comprensione del testo, scrittura, calcolo, funzioni esecutive). Gli esercizi vengono proposti sulla base di una serie di parametri tarati dal clinico, che può effettuare un monitoraggio a distanza, e modificabili sulla base dei progressi fatti dal bambino durante l’allenamento in modo tale da adattare continuamente le richieste ed incrementare i miglioramenti.

Uno studio condotto da Tucci et. al (2015), con 34 bambini con diagnosi di Dislessia a cui è stato proposto un potenziamento sublessicale e lessicale tramite Reading Trainer (App inserita nella piattaforma Ridinet), a distanza, ma monitorato dal terapeuta, ha mostrato valori di efficacia ed efficienza del trattamento applicato tramite Reading Trainer, con ricadute significative nel processo di lettura e sulla sua automatizzazione, dato anche il confronto con i risultati di altri studi italiani precedentemente pubblicati (Allamandri et. al., 2007; Tressoldi e Vio, 2011; Tressoldi et al., 2012).

Un ulteriore studio di Pecini et al., del 2019, che ha utilizzato alcune App della piattaforma Ridinet, ha dimostrato l’efficacia di percorsi di potenziamento anche attraverso l’utilizzo di altre app della piattaforma Ridinet (in questo caso Run The RaN).

Anastasis offre, inoltre, un’ampia gamma di strumenti che possono essere utilizzati sia a livello scolastico che domiciliare (es. sintesi vocale, programmi per costruire mappe, quaderni digitali…) usufruibili da famiglie ed insegnanti.

Un ulteriore strumento utilizzabile per la teleriabilitazione è la piattaforma Epro (Potenziamento e Riabilitazione Online) proposta dal Centro Studi Erickson, per la riabilitazione in studio e a distanza dei bambini con difficoltà di apprendimento, o con una diagnosi di Disturbo Specifico dell’Apprendimento, che permette di lavorare sulle abilità linguistiche, di lettura, scrittura, calcolo e comprensione (a partire dai prerequisiti). La piattaforma si configura come un sistema multimediale, modulabile ed innovativo che permette al clinico di pianificare, monitorare e adattare costantemente il programma riabilitativo attraverso la predisposizione di materiali appositamente studiati sulla base delle caratteristiche del bambino.

Grazie ad Epro si dispone di tre modelli di riabilitazione (ambulatoriale, integrata e a distanza) (Franceschi, 2013).

Anche il Centro Studi Erickson offre un ampio catalogo di strumenti e servizi che possono essere utilizzati sia a livello di supporto clinico che didattico.

Esistono molti altri strumenti che possono aiutare il potenziamento a distanza, a livello telematico, nati anche sulla base degli studi di efficacia proposti nel panorama italiano.

Questo ci porta a valutare pro e contro di questa modalità di potenziamento.

Tra i vantaggi possiamo considerare la possibilità di continuare ad erogare un percorso di potenziamento, nonostante la situazione di emergenza sanitaria, comunque basato su modelli di efficacia. Il professionista può gestire e monitorare, attraverso un feedback immediato, l’andamento del percorso di intervento e personalizzare le attività proposte. I bambini, a loro volta, possono continuare con il loro percorso di potenziamento da casa, attraverso l’utilizzo del PC, strumento che aiuta l’apprendimento e permette anche di divertirsi (in questo caso consideriamo l’interfaccia dei vari software, creata appositamente per essere accattivante e divertente).

Tra gli svantaggi, dobbiamo considerare come la teleriabilitazione a distanza possa inficiare il rapporto terapeutico, vis a vis, terapeuta-bambino, piuttosto che il confronto diretto da parte del clinico con la famiglia (che può comunque essere gestito telefonicamente, come tutti gli eventuali contatti con gli insegnanti).

Un altro aspetto di svantaggio può essere individuato nell’adeguatezza delle tecnologie a disposizione (Wi-fi o accesso ad internet, la presenza di un solo PC, magari utilizzato per lavoro dai famigliari, ecc), e delle risorse della famiglia anche a livello economico (considerando come alcuni supporti potrebbero essere a pagamento). Bisogna considerare, inoltre, le indicazioni date dall’OMS sulla fruizione degli schermi da parte dei bambini: sotto i 5 anni non deve superare i 60 minuti al giorno, mentre per i bambini dai 6 agli 11 anni il tempo totale di utilizzo di questi device aumenta a due ore.

La riabilitazione online è stata supportata anche dall’uso di tantissime piattaforme che hanno permesso a clinico e bambino di potersi ‘guardare’ negli occhi, dando una lieve parvenza di normalità ai contatti di questi ultimi mesi.

Queste piattaforme sono le stesse che sono state utilizzate dalle scuole per attivare la DAD, ‘Didattica a Distanza’, argomento su cui genitori, insegnanti, psicologi, ministri, hanno discusso molto; si è parlato dei vantaggi e degli svantaggi, delle varie e diverse modalità con cui le attività sono state proposte, dell’impegno richiesto agli insegnanti e ai ragazzi, del numero di ore trascorse davanti allo schermo del pc e così via…

Per quanto ci riguarda, per comprendere meglio il fenomeno della DAD, e le sue conseguenze, anche a livello sociale, abbiamo pensato di parlare con i diretti interessati, chiedendo a uno dei nostri ragazzi più grandi di rispondere ad alcune domande, per comprendere meglio il punto di vista degli studenti in questo delicato periodo di didattica a distanza. Di seguito troverete le risposte date da S., studente con diagnosi di Discalculia, frequentante la II classe della Scuola Secondaria di Secondo Grado. L’intervista, inoltre, è stata proposta a L., un bambino di 9 anni, frequentante la quarta classe della scuola Primaria con diagnosi di ADHD.

In questo modo, abbiamo voluto andare oltre il parere degli ‘esperti’ e dare voce a chi, questa nuova modalità di apprendimento (ma anche di relazione), l’ha vissuta, gestita e utilizzata.

 

APPENDICE: LE INTERVISTE AI BAMBINI – CLICCA QUI.

 

 

Sta squillando oppure no? Le false percezioni della sindrome da vibrazione fantasma

La sindrome da vibrazione fantasma o la sindrome da squillo fantasma: cos’è? Come nella sindrome dell’arto fantasma, anche gli smartphone possono causare sensazioni e percezioni inesistenti, come squilli o vibrazioni. Fenomeno ancora poco studiato che può portare a diversi sintomi.

PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr. 16) Sta squillando oppure no? Le false percezioni della sindrome da vibrazione fantasma

 

Da quando nel 1973 fu lanciato dalla Motorola il primo telefonino, la tecnologia ha fatto passi da gigante facendo evolvere i servizi del cellulare da ricevitore/trasmettitore di chiamate fino a farlo diventare lo smartphone che oggi conosciamo e che ha in sé opportunità di utilizzo innumerevoli. E’ uno strumento che ci accompagna tutto il giorno tutti i giorni perché non è più solo una commodity ma mezzo di intrattenimento, socializzazione, gioco, lavoro. Riteniamo impensabile stare senza anche solo per poche ore. Inevitabile che, come tutte le tecnologie, influenzi vita e comportamento in diversi modi e crei nuovi desideri, bisogni, domande, interrogativi.

Che cos’è la sindrome da vibrazione fantasma

La sindrome da vibrazione fantasma (phantom vibration syndrome, PVS) o la sindrome dello squillo fantasma (phantom ringing syndrome, PRS) è la percezione che il telefono stia vibrando o suonando in assenza di un reale stimolo. Altri termini rappresentano questi fenomeni: vibranxiety (da vibration e anxiety), ringxiety (da ring e anxiety), fauxcellarm (da faux e cellphone and alarm) e phonetom (da phone e phantom).

Analogamente alla sindrome dell’arto fantasma in cui si hanno vivide percezioni da arti rimossi o amputati, allo stesso modo in queste sindromi si ha la falsa sensazione che il telefono vibri o suoni, a tutti gli effetti al pari di una allucinazione.

Pur non essendo incluse in nessun manuale diagnostico, compresi ICD-10 e DSM-5, né prese in considerazione da organizzazioni internazionali come l’American Psychiatric Associazione (APA), alcuni autori se ne sono interessati e ne hanno descritto i sintomi: ansia, allucinazioni, sintomi depressivi, sintomi cognitivi (deficit di attenzione, ipervigilanza), disturbi dell’umore.

La prima comparsa del termine si deve al fumettista Scott Adams nel 1996: nella sua striscia di “Dilbert” uno dei personaggi parla di “phantom pager syndrome” (sindrome del cercapersone fantasma).

Alcuni anni dopo, siamo nel 2003, l’editorialista del New Pittsburgh Courier, Robert D. Jones, pubblica un articolo sulla “sindrome da vibrazione fantasma” riferendosi proprio ad immaginarie vibrazioni o suoni. Primi studi scientifici risalgono a una decina di anni fa e da allora la ricerca ha progredito poco, sebbene alcuni autori se ne siano occupati.

Fattori di rischio

In clinica tra i fattori predisponenti l’insorgere di un sintomo abbiamo la rigidità e la pervasività dell’adozione di determinati pensieri o comportamenti. Ed è proprio la frequenza di utilizzo degli smartphone uno dei fattori di rischio, così come il posto dove lo riponiamo abitualmente (per esempio in tasca, nella borsa, ecc.) e le modalità d’uso (squillo o vibrazione). I sintomi del fantasma poi sono direttamente proporzionali al numero di ore e a quanto spesso controlliamo il telefono.

Si ipotizza che anche caratteristiche di personalità siano coinvolte: persone estroverse che hanno un marcato bisogno di connessione sociale sono più inclini a usare frequentemente il telefono per sentirsi vicini agli altri; anche chi soffre di nomofobia, la paura di rimanere disconnessi dalla rete di telefonia mobile, è, come intuibile, più suscettibile alla sindrome; la dipendenza da smartphone è un altro significativo fattore di rischio per la sindrome fantasma (Pareek, 2017; Kruger, 2017).

Alla base del meccanismo

Ci sono diverse ipotesi sull’eziologia del fenomeno (Goyal, 2015; 2019). Secondo la teoria del rilevamento del segnale, la percezione di vibrazioni o suoni inesistenti è un falso positivo, una semplice rilevazione erronea. Secondo un’altra teoria, si tratta di ricordi di precedenti esperienze generate da stimoli sensoriali simili, per esempio da indumenti o contrazioni muscolari. 
Altre teorie chiamano in causa più direttamente aspetti biochimici: secondo la teoria della stimolazione elettrica transcutanea il fenomeno potrebbe essere dovuto alla sensazione interpretata dai nervi della pelle causati da una piccolissima scarica di energia elettrica emessa dal telefono. Infine, secondo la teoria della dopamina il sistema di notifiche provoca il rilascio di dopamina rafforzando il bisogno sempre maggiore di stimoli.

Sindrome da vibrazione fantasma: come evitarla

Le poche ricerche non danno modo di avere indicazioni validate, per il momento dobbiamo accontentarci del buon senso: diminuire la dipendenza e modificare i comportamenti legati all’uso degli smartphone. Per esempio, limitare la frequenza di utilizzo, variare frequentemente le modalità di notifica, portare il cellulare in diverse posizioni, evitare la modalità di vibrazione.

Secondo i dati dello State of Mobile Internet Connectivity Report del 2020 nel 2021 almeno 3.8 miliardi di persone, pari a circa metà della popolazione mondiale, avranno uno smartphone. Difficile pensare che nei prossimi anni questi fenomeni non riceveranno sempre maggiore attenzione nella ricerca e in clinica (Pareek, 2017).

 

 


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Il lato “Medea” – Moms, una rubrica su maternità e genitorialità

Il presente articolo si propone di legittimare emozioni quali l’aggressività e la rabbia di ogni donna e madre in quanto essere umano. La consapevolezza e l’elaborazione di questi vissuti vengono suggeriti come via alternativa alla dannosa negazione. 

Moms – (Nr.5) Il lato “Medea”

 

Una madre può avere un lato da Medea? Il quinto episodio di Workin’ Moms sembra rispondere di sì. Durante la riunione del gruppo post-partum Jenny Matthews, una delle partecipanti, comunica alle altre la difficoltà di connettersi emotivamente con sua figlia. Così per supportarla la protagonista Kate Foster replica sinceramente: “Charlie lo amo da morire, è il mio bambino, ma a volte vorrei essere nello show Svaniti nel nulla. Hai presente? Tirarlo fuori dal seggiolino e poi tornare a casa e pensare: ‘So di essere andata a fare la spesa, ma dov’è mio figlio?’ E poi sono libera…”.

Molte donne si sentono in colpa quando provano dei moti di rabbia e aggressività nei confronti dei propri figli. Eppure, pur se nelle parole di Kate non viene ammesso esplicitamente, la rabbia e l’aggressività sono due parti di ogni essere umano strettamente correlate e poiché ogni madre è una donna, e dunque un essere umano, è presente anche in lei.

Euripide ha incarnato in Medea, nell’omonima tragedia, la madre apparentemente più perfida del creato che uccide i figli come rivalsa sul marito, di cui non sentiva ricambiato l’amore. Dal punto di vista intrapsichico è possibile vedere gli eventi sotto un’altra prospettiva. Sembra che l’azione della donna non fosse un atto di pura cattiveria, ma il prodotto di un accumulo di rabbia e aggressività, trasformatesi in un atto violento perché non accettabili e dunque impossibili da portare alla coscienza.

Da tempo vi è una tendenza a fare erroneamente una sovrapposizione tra rabbia, aggressività e violenza, ma sono tre concetti differenti.

La rabbia e l’aggressività sono due componenti innate tanto nell’uomo quanto nella donna, che presentano l’utilità di proteggere se stessi e coloro che si ama. I grandi predatori un tempo non venivano sconfitti dagli uomini primitivi solo con l’astuzia, ma anche con un tocco di sana aggressività. Queste due emozioni sono strettamente correlate tra loro, ma possono avere differenti funzioni ed entrambe non equivalgono alla violenza. La trasformazione in atto violento avviene attraverso due passaggi: la negazione di quello che si prova e la conseguente impossibilità di elaborazione.

Negare emozioni come rabbia e aggressività presume un giudizio rispetto ad esse, dunque vederle aprioristicamente come qualcosa di dannoso, che non può essere neanche portato alla coscienza. Individuare la causa di un eventuale moto aggressivo è il primo passo per poter elaborare il vissuto ed evitare che scada nella violenza.

Nel momento in cui si può portare alla consapevolezza e rendere esprimibili a parole sentimenti meno piacevoli nei confronti del proprio figlio e delle persone che influiscono indirettamente o direttamente nel rapporto con lui, il senso di colpa, che acuisce la violenza, non avrebbe modo di esistere. La rabbia e l’aggressività se pensate e legittimate possono essere elaborate. In questo modo non verranno agite o fuggite e verranno meno anche le possibili conseguenze dannose per la madre, per il bambino e per la loro relazione.

 

“Ambra era nuda”, il lutto del cambiamento – Rubrica Psico-canzoni

Il presente articolo dà una possibile interpretazione della canzone Ambra era nuda dell’autore toscano Postino, prendendo in considerazione sia il testo sia il videoclip. Il tema che emerge è la riproposizione del vuoto lasciato da una separazione già sperimentato nel passaggio dall’infanzia all’età adulta.

Psico-canzoni – (Nr.4) Ambra era nuda

 

Ambra era nuda, io ero vestito, il riflesso negli occhi di chi ha capito che alla fine vince sempre chi si spoglia per primo

sono le prime parole della canzone di Samuele Torrigiani, in arte Postino, edita nel 2018. Tra il brano e il videoclip sembra esserci una discrepanza, perché le parole del testo raccontano la fine di una relazione, mentre il video è incentrato sull’infanzia dell’autore.

In realtà c’è un legame molto forte tra testo e video perché entrambi parlano di un lutto. Nel primo caso la perdita appartiene ai momenti vissuti e a quelli che ancora avrebbe potuto vivere con Ambra, protagonista della canzone. Nel secondo caso si percepisce il dolore della perdita del periodo infantile e dei momenti vissuti con la famiglia d’origine che non potranno più tornare in quella modalità.

Il passaggio dall’età dell’infanzia all’età adulta è molto più doloroso di quanto la naturalezza del tempo trascorso possa far credere. Attraverso la rapida e delicata fase dell’adolescenza siamo costretti a salutare i bambini che eravamo per accogliere l’adulto che volenti o nolenti dobbiamo diventare. Possiamo anche fingere che

questa estate sono solo perché ho la libertà di costruire una spiaggia in mezzo al centro città, di fare il bagno nei tombini col costume in Chiesa, ma poi tutto finirà quando la Vodka è scesa

dove la Vodka è la metafora che rispecchia la fantasia di poter essere ancora il bambino senza la responsabilità di se stesso, ma la realtà è che quel bambino ora deve scontrarsi con il proprio assetto mentale e fisico da persona adulta.

Il bambino che eravamo si trasforma continuamente e per farlo deve morire ogni volta, con il conseguente dolore che comporta. Così le relazioni non terminano mai, anche quando ci si lascia, ma cambiano trasformando le persone che ne fanno parte. Dentro ognuno di noi in quanto esseri umani resta il bisogno di tenerezza e coccole, ma non è lo stesso di quando eravamo piccoli, perchè quei bambini non esistono più.

Brano e videoclip si incontrano nella frase

e tu, tu non ci sei qui con me, però vabè, qualcuno mi terrà compagnia: saremo io e la mia malinconia.

In questa frase emerge il delicato tema del vuoto lasciato dall’irrepetibilità di qualcosa, di qualcuno o di alcuni momenti.

L’autore capisce che può spogliarsi metaforicamente solo quando Ambra sceglie di andarsene, mostrando la parte più intima di sé, ovvero quella appartenente al periodo infantile. Per quanto nascano nuove necessità in età adulta, il bisogno di tenerezza, di coccole e di contatto fisico restano, pur se talvolta celati e difficili da esternare. Dalla canzone sembra che Ambra si sia già spogliata ed abbia vinto su se stessa perché non ha avuto paura di mostrare gli angoli più nascosti di sé. Ambra non vede i suoi bisogni come punti deboli. Ambra non pensa di poter perdere presentandosi così com’è. Ed è questa l’amara consapevolezza a cui arriva Postino quando scrive:

Ambra è vestita, io sono nudo, le valigie in mano di chi ha detto “chiudo”, che alla fine perde sempre chi si spoglia dopo.

 

AMBRA ERA NUDA – Guarda il video del brano:

 

Autolesionismo, evitamento e regolazione emotiva

L’autolesionismo è definito come una strategia di coping maladattiva associata spesso ad una “regolazione emotiva deficitaria”. Esso è descritto attraverso molti termini, definibili come “lesioni intenzionali verso se stessi senza intenti suicidari” o NSSI

 

Le strategie di coping sono un insieme di strategie che vengono messe in atto per fronteggiare i problemi. Non tutte le strategie di coping sono funzionali, in quanto una regolazione emotiva inefficace può portare il soggetto a crearne alcune maladattive (Brereton e McGlinchey, 2019). L’autolesionismo è definito come una strategia di coping maladattiva associata spesso ad una “regolazione emotiva povera” (Sim et al., 2009; Brereton e McGlinchey, 2019) e a comportamenti autolesionistici come bruciature, tagli, testate o pugni (Mikolajczak, Petrides e Hurry, 2009; Brereton e McGlinchey, 2019). L’autolesionismo è descritto attraverso molti termini, definibili come “lesioni intenzionali verso se stessi senza intenti suicidari” – o NSSI (Klonsky, Oltmanns e Turkheimer, 2003, p. 1501; American Psychiatric Association, 2013).

Le prime forme di autolesionismo si osservano nella prima adolescenza (Jacobson e Gould, 2007)  – dove circa l’80% dei soggetti mette in atto forme di autolesionismo per regolare le emozioni (Brereton e McGlinchey, 2019) e con una frequenza maggiore in alcuni disturbi, come il disturbo borderline di personalità (BPD; American Psychiatric Association, 2013; Nock, 2009; Suyemoto, 1998). I tassi di prevalenza nell’arco della vita si stima che vadano dal 13.0% al 23,2% (Jacobson e Gould, 2007). Dato che il disturbo borderline di personalità è raramente diagnosticato negli adolescenti, è importante trovare altri marcatori legati a comportamenti autolesionistici (McKenzie e Gross, 2014; Suyemoto, 1998). I fattori correlati sono molti, come il cercare di evitare un’esperienza emotiva come “l’elusione esperienziale” (Chapman, Gratz e Brown, 2006) o per regolare quelle negative attraverso il dolore (Mikolajczak et al., 2009; Brereton e McGlinchey, 2019). La regolazione emotiva è stata definita da Cole e colleghi (2004) come “cambiamenti associati alle emozioni attivate” (p. 320). Gli stessi autori hanno osservato come tale regolazione dipenda da emozioni come regolamentazione (si riferiscono così a cambiamenti che si sviluppano da emozioni attivate) o da emozioni come regolate (per indicare la trasformazione delle emozioni stesse) (Brereton e McGlinchey, 2019). Per dare una definizione migliore, Eisenberg e Spinrad (2004, p. 338) spiegano la regolazione emotiva come un:

processo di avvio, prevenzione, mantenimento, inibizione o modulazione di forma, intensità e durata degli stati di sentimento interni, inclusi gli stati fisiologici, dei processi di attenzione, di stati motivazionali e/o comportamentali concomitanti alle emozioni con lo scopo di realizzare affetti biologici, l’adattamento sociale o il raggiungimento di obiettivi individuali (Brereton e McGlinchey, 2019, p.6).

L’evitamento esperienziale fa riferimento ad un’ampia gamma di comportamenti di elusione: il termine viene utilizzato per descrivere quando un individuo:

non è disposto a rimanere in contatto con particolari esperienze private come sensazioni corporee, pensieri, memoria, emozioni e predisposizioni comportamentali, di conseguenza agisce prendendo provvedimenti per alterare la forma e la frequenza di questi eventi, nonché i contesti correlati (Hayes et al., 1996, p. 1154; Brereton e McGlinchey, 2019).

Il modello esperienziale dell’autolesionismo spiega come un individuo metta in atto un autolesionismo intenzionale per sfuggire o per evitare determinati fattori: in questo caso l’autolesionismo è mantenuto attraverso il rinforzo negativo nella fuga da emozioni indesiderate (Chapman et al., 2006).

Brereton e McGlinchey (2019) hanno effettuato una revisione sistematica su 17 articoli riguardanti regolazione delle emozioni, evitamento esperienziale e autolesionismo. I risultati ottenuti indicano come il concetto di sopprimere o evitare pensieri, esperienze e contingenze indesiderate è legato a comportamenti autolesionisti (Armey e Crowther, 2008; Gratz et al., 2010; Jutengren et al., 2011, Nielsen et al., 2016). L’autolesionismo è più frequente in soggetti con una difficoltà legata alla regolazione delle emozioni in quanto viene visto come una possibile strategia efficace (Anderson e Crowther, 2012; Armey e Crowther, 2008; Gratz et al., 2016; Nielsen et al., 2016). Tutti gli studi, tranne uno, hanno fornito un sostegno al concetto che la scarsa regolazione delle emozioni e l’evitamento esperienziale siano legati all’autolesionismo (Brereton e McGlinchey, 2019), inoltre gli autori si concentrano sul trattamento che potrebbe ridurre la frequenza di tali comportamenti nocivi. Trattamenti incentrati sul miglioramento delle capacità di regolazione emotiva (Gratz e Gunderson, 2006; Gratz e Tull, 2011) e sul miglioramento della regolazione di comportamenti elusivi (Gratz e Gunderson, 2006) si sono dimostrati utili per ridurre la frequenza di comportamenti autolesionistici.

 

Tinder: verso una dipendenza comportamentale?

Tinder è un’applicazione differente dai tradizionali siti di incontri: il facile accesso ai potenziali compagni e la natura “user-friendly” dell’applicazione possono incrementare le difficoltà nel controllo del suo utilizzo, dando origine ad un uso problematico che, a lungo andare, potrebbe sfociare in una dipendenza comportamentale.

 

Tinder è un’applicazione differente dai tradizionali siti di incontri, data la sua maggiore portabilità, nonché la sua capacità di geolocalizzazione (Schrock, 2015). Il facile accesso ai potenziali compagni e la natura “user-friendly” dell’applicazione, però, possono incrementare le difficoltà nel controllo del suo utilizzo, dando origine ad un uso problematico che, a lungo andare, potrebbe sfociare in una vera e propria dipendenza comportamentale (Orosz, To ́th-Király, Bo ̋the, & Melher, 2016). Sebbene alcuni studi abbiano esaminato alcune variabili associate all’uso adattivo di Tinder, manca ancora una chiara comprensione del suo uso “problematico”.

Rispetto alle motivazioni alla base dell’utilizzo di Tinder, è stato messo in luce come l’applicazione aiuti a soddisfare contestualmente molteplici bisogni, sia di natura fisica che di natura psicosociale (Sumter, Vandenbosch & Ligtenberg, 2017). Inoltre, è stato suggerito che il suo utilizzo possa costituire un meccanismo di coping, volto a regolare sintomi depressivi o, ancora, a migliorare l’autostima (Ranzini & Lutz, 2017). Rispetto a quest’ultima variabile, è stato osservato, nello specifico, come alti livelli di autostima siano connessi ad un’autentica rappresentazione di sé sulla piattaforma, mentre, la bassa autostima è stata associata al fenomeno del sexting (Ybarra & Mitchell, 2014).

Anche l’impulsività è stata considerata una caratteristica distintiva della psicologia “online” che dà origine ad un ampio spettro di comportamenti, seppur la sua relazione con l’uso problematico di Tinder non è ancora stata indagata.

Vi è poi l’attaccamento, un sistema innato il cui obiettivo è quello di stabilire legami di accudimento-attaccamento con figure significative (Ainsworth, 1989). Ad oggi non è ancora stata indagata se vi sia una relazione tra lo stile di attaccamento e l’utilizzo di Tinder.

Vi è un’ultima variabile che non è ancora stata presa in esame, ovvero il desiderio sessuale. Attraverso un’analisi dei cluster e, prendendo in considerazione le variabili psicologiche appena citate, alcuni autori si son proposti di individuare differenti tipologie di utenti di Tinder, in modo da indagare, successivamente, in che misura i diversi sottogruppi differissero tra loro.

All’indagine hanno preso parte 1159 utenti di Tinder, con un’età compresa tra i 18 e i 74 anni.

In primo luogo, è stato valutato l’utilizzo dell’applicazione, tenendo conto del numero di contatti, della ricerca di relazioni significative e di partner sessuali. Al fine di indagare l’utilizzo problematico dell’applicazione, è stato utilizzato il Problematic Tinder Use Scale (Orosz et al., 2016), mentre, con l’obiettivo di valutare i livelli di felicità e di depressione, è stata utilizzata la Short Happiness and Depression Scale (Joseph et al., 2004).

Inoltre, il Cybersex Motives Questionnaire (CMQ; Franc et al., 2018) è stato utilizzato per indagare le motivazioni che spingono gli individui al cybersex, mentre, il Sexual Desire Inventory (Spector, Carey & Steinberg, 1996), è stato impiegato per valutare il desiderio sessuale diadico, ovvero il desiderio di avere un rapporto sessuale con un’altra persona, e solitario, che implica di desiderio di impegnarsi in attività masturbatorie. Inoltre, è stato utilizzato l’Experiences in Close Relationship- Revised Questionnaire (Fraley, Waller & Brennan, 2000) al fine di valutare lo stile di attaccamento; infine, sono state utilizzate la Short UPPS-P Impulsivity Behavior Scale (Billieux et al., 2012) e la Single-Item Self-Esteem Scale, per valutare, rispettivamente, l’impulsività e l’autostima.

Le analisi hanno identificato quattro sottogruppi.

Il primo era caratterizzato da bassa impulsività, alta autostima, attaccamento sicuro, desiderio sessuale diadico medio-alto, tono dell’umore adeguato e basso uso problematico di Tinder. I soggetti hanno segnalato interesse sia per la ricerca di rapporti significativi che occasionali e hanno mostrato motivazioni differenti rispetto a quelle affrontate nel CMQ, come la curiosità e la distrazione (Timmermans & De Caluwé, 2017).

Il cluster 2 era caratterizzato da impulsività medio-bassa, bassa autostima, attaccamento ansioso, desiderio sessuale diadico e solitario molto basso, umore più depresso e basso uso problematico di Tinder. Questi soggetti hanno riportato un minore interesse per la ricerca di partner ed è stato dunque ipotizzato che, in questo caso, Tinder venga utilizzata come un mezzo per aumentare l’autostima o per appagare il senso di impotenza associato alla depressione.

Il terzo cluster era caratterizzato da un alto livello di impulsività, un’autostima moderata, un alto livello di attaccamento ansioso, un alto livello di desiderio sessuale diadico e solitario e, i partecipanti erano fortemente interessati alla ricerca di partner sia stabili che occasionali.

In questo gruppo è stato riscontrato un utilizzo problematico dell’applicazione, nonostante sia stato constatato un livello intermedio di umore depresso. L’uso di Tinder di questi soggetti sembra essere guidato da una combinazione di motivazioni e da un minore autocontrollo. Si è dunque ipotizzato che gli utenti con uno scarso autocontrollo sembrano essere maggiormente a rischio di sviluppare un uso problematico di Tinder, in quanto questa attività sembra costituire una strategia di coping, volta ad alleviare l’umore negativo. In questo contesto, l’uso dell’app può interagire con il disagio psicologico legato a livelli moderati di umore depressivo e attaccamento ansioso dei soggetti.

Infine, il quarto cluster era caratterizzato da un attaccamento evitante, un alto livello di desiderio sessuale solitario e bassa autostima. I soggetti hanno riportato alti livelli di umore depresso e alti livelli nell’ uso problematico dell’applicazione. Inoltre, sono risultati più inclini a ricercare relazioni stabili, piuttosto che partner occasionali. Questi soggetti potrebbero essere più predisposti ad utilizzare queste applicazioni perché potrebbero considerare gli ambienti online più sicuri per esprimersi. Rispetto al desiderio sessuale solitario, è stato ipotizzato che quest’ultimo, potenzialmente come l’uso di Tinder, sia una strategia di coping volta ad affrontare gli affetti depressivi o la frustrazione sessuale (Dosch et al., 2016).

Concludendo, i risultati appena esposti suggeriscono che l’uso problematico di Tinder potrebbe coinvolgere un’ampia gamma di fattori psicologici. Saranno dunque necessari ulteriori studi per districare il ruolo di queste variabili nello sviluppo, perpetuazione e ricorrenza dell’uso problematico di questa piattaforma.

 

Le nostre relazioni digitali

Oggi l’intelligenza artificiale, basandosi su un algoritmo addestrato, è in grado di tradurre una frase pensata da un soggetto in una frase realmente pronunciata attraverso una voce sintetizzata al computer.

Introduzione

In economia (e non solo), molto diffuso è il concetto di ‘bene relazionale’ all’interno di una collettività. Oggi, con gli avanzamenti dell’intelligenza artificiale (IA), questa nozione dovrebbe essere integrata da quella di ‘bene relazionale digitale’. Infatti, all’interno della collettività, le relazioni si arricchiscono mediante la possibilità di interagire anche con le macchine – in una realtà più articolata, aumentata, e ricca di opportunità – o, in una diversa ottica, si impoveriscono – per il depauperarsi e per il rarefarsi delle interazioni interpersonali dovuti alla sostituzione della macchina all’uomo. La prospettiva cambia soprattutto in ragione dei contesti applicativi e delle finalità. Contesti e fini alla cui formulazione concorrono inevitabilmente il pensiero, i valori del data scientist che vengono canalizzati nella macchina.

Nel presente lavoro si vogliono illustrare gli sviluppi della IA antropocentrica (cioè al sevizio dell’uomo, per studiare fenomeni complessi) ed etica (cioè che lo coadiuvi/sostituisca per il miglioramento delle sue condizioni di vita, nel rispetto della sua dignità e della privacy). Lo si farà in particolari campi dove la IA si sta sviluppando: quello sensoriale e quello relativo al pensiero.

Cominciamo da quest’ultimo. ‘Mi hai letto nel pensiero!’: questa espressione non è più appannaggio esclusivo di un rapporto fra persone, ma anche fra persone e macchina. Perché oggi l’intelligenza artificiale, basandosi su un algoritmo addestrato, è in grado di tradurre una frase pensata da un soggetto in una frase realmente pronunciata attraverso una voce sintetizzata al computer. Estrarre dalla mente per mezzo della IA non è puro divertissement tecno-scientifico o mera sfida di frontiera; i risvolti pratici, come si illustrerà più avanti, sono importantissimi ed ‘eticamente corretti’. Il ventaglio è ampio e va dal campo medico al fact-checking, che – se esperito come correzione di un certo personale e profondo convincimento – si scontra il più delle volte con grandi resistenze psicologiche. Prevale, ad esempio, un largo consenso sulla circostanza che una persona, una volta esposta alla disinformazione, è molto difficile che se ne liberi (Swire ed Ecker, 2018. E qui entriamo nell’area della psicologia della disinformazione).

Ma non solo: l’intelligenza artificiale ha scoperto i segreti dell’immaginazione e il meccanismo che lega questa funzione a quella della visione. Pure in questo caso, il risultato potrebbe avere importanti applicazioni soprattutto in campo medico.

Di più: un odore artificiale realizzato con il machine learning può essere trasmesso a un cervello. Le ricadute nel campo delle neuroscienze e della medicina non sono di poco momento.

Inoltre, nuovi studi hanno dimostrato la possibilità di sviluppare una robotica dotata di sensibilità tattile. Di nuovo, le implicazioni sono notevoli in tantissimi settori – da quello produttivo a quello medico.

I progressi

Entriamo più nel dettaglio di tali progressi in campo medico e di come la qualità della vita di un individuo possa migliorare grazie alla combinazione fra neuroscienze e intelligenza artificiale.

Consideriamo, in primo luogo, il pensiero dell’uomo espresso in parole dalla IA, attraverso un meccanismo costruito da un team di ricercatori della Columbia University (Akbari et al., 2019). Questa interfaccia cervello-computer (BCI – Brain-Computer Interface) monitora l’attività cerebrale dell’uomo e può ricostruire le parole con estrema chiarezza. In particolare, i ricercatori hanno combinato i più recenti progressi nel deep learning con le tecnologie più avanzate nel campo dei sintetizzatori vocali così da ricostruire discorsi nella maniera più intellegibile e fedele possibile prendendo in esame il meccanismo cerebrale che si attiva quando i soggetti ascoltano frasi pronunciate da diverse persone. Il deep learning, si afferma nello studio, costituisce il modello più diffuso e avanzato per processare i segnali audio. I risultati sperimentali ottenuti costituisco un importante passo avanti nell’implementazione delle generazioni future dello ‘speech BCI systems’, si prevede nello studio. Questa capacità di dialogare con il cervello umano aiuta persone che non riescono più a parlare come conseguenza di una varietà di patologie contratte, quali la sclerosi laterale amiotrofica e la sindrome ‘locked-in”'(cfr., fra i numerosi studi al riguardo, Iljina et al., 2017). I soggetti affetti dalla sindrome ‘locked-in’ sono in grado di interagire con gli altri, codificando la chiusura delle palpebre oppure muovendo gli occhi, grazie al fatto che i loro centri nervosi e le vie afferenti ai nervi ottici e oculo-motori non sono intaccati. Oppure riescono a comunicare utilizzando particolari dispositivi, che risultano però lenti in quanto consentono di digitare parole lettera per lettera producendo al massimo dieci parole al minuto (il parlato naturale ha una media di 150 parole al minuto. Cfr. Anumachiapalli, et al., 2019). Con questi metodi di frontiera basati sulla AI e sulla BCI, a persone diversamente abili si danno quindi nuove notevoli opportunità di interagire con il mondo esterno.

Attraverso la IA si sono inoltre individuati i segreti dell’immaginazione e il meccanismo che lega questa funzione a quella della visione. Il deep learning ha consentito di comprendere che il cervello usa aree simili per le immagini e per la visione mentale, cioè per l’immaginazione (Breedlove et al., 2020). Più specificamente, per individuare le differenze tra le aree visive del cervello, i neuroscienziati hanno addestrato una rete neurale a vedere le immagini e successivamente a ricrearle, vale a dire a immaginarle. In una ulteriore fase della sperimentazione, allo scopo di verificare se la rete neurale fosse in grado di riprodurre fedelmente le funzioni del cervello umano, il team ha sottoposto alla risonanza magnetica un gruppo di volontari. In tal modo è stato possibile individuare quali parti del cervello diventano attive quando si vede qualcosa e quando la si immagina. Mappate queste aree del cervello, i neuroscienziati hanno constatato che cervello e rete neurale lavorano in modo simile quando vedono qualcosa e quando la immaginano, e che in entrambe le attività entrano in funzione le stesse aree del cervello. Le applicazioni in campo medico riguardano, tra l’altro, la salute mentale. Ad esempio, la cura dei disturbi che influenzano l’immaginazione, come quelli da stress post-traumatici (PTSD), che portano a rivivere tale esperienza attraverso ricordi esiziali e incubi. Se si è in grado di capire meglio la funzione neurale alla base di questi ultimi, in prospettiva potrebbero verosimilmente essere sviluppati trattamenti clinici più avanzati per il PTSD (Corbo, 2020). Quanti spettri e fantasmi verrebbero allontanati e forse anche del tutto sconfitti!

Passiamo a considerare un odore artificiale prodotto tramite il deep learning (Paoletti, 2020). Si tratta del primo odore artificiale percepito dalle cellule del cervello, ed è frutto della collaborazione fra l’Istituto Italiano di Tecnologia e la New York University. Il rationale è elaborare per via matematica un odore virtuale e trasmetterlo a un cervello biologico per verificare se venga percepito come reale. Nel lavoro (riportato in Chong et al., 2020), l’addestramento di algoritmi ha consentito di produrre il segnale elettrico corrispondente all’odore artificiale. Successivamente, in laboratorio esso è stato tramesso alle cellule nervose del bulbo olfattivo di alcune cavie. I risultati ottenuti illustrano come l’algoritmo consenta di produrre caratteristiche neurali chiave che, una volta combinate, costituiscono una specie di codice di come il cervello trasformi gli input sensoriali in percezione di un odore. Anche in questo caso, le applicazioni in campo medico sono preziose. Basti considerare le persone che hanno perso il senso dell’olfatto in seguito al Covid-19.

Sempre nella sfera sensoriale, oggi la IA è dotata anche della sensibilità tattile, grazie ai risultati della sperimentazione condotta da ricercatori della National University of Singapore, che sono stati in grado di produrre una pelle artificiale. Essa riesce a percepire stimoli tattili con una velocità superiore più di mille volte rispetto al sistema nervoso umano e di identificare forma, consistenza e durezza di un oggetto dieci volte più rapidamente di un battito di ciglia (De Agostini, 2020). La capacità di sentire e percepire meglio l’ambiente circostante grazie a questa spiccatissima sensibilità tattile può agevolare un’interazione più affidabile fra robot e persone, anche a beneficio della salute umana, ad esempio mediante l’automatizzazione di alcune (o parte di) operazioni chirurgiche.

Conclusioni

Poter mettere nuovamente in relazione il proprio mondo interiore con il mondo esterno tramite funzionalità di base quali il dialogo e i sensi, rappresenta una sorta di rinascita e il rafforzamento della propria identità. Oggi questo sta diventando possibile grazie alla ricerca di frontiera dei neuroscienziati combinata con l’intelligenza artificiale antropocentrica in ambito sanitario. Le applicazioni volte al miglioramento della qualità della vita sono sempre più numerose e sofisticate: dall’imaging medico, che velocizza l’intervento terapeutico e ne accresce l’accuratezza, all’allontanamento degli spettri collegati a una esperienza traumatica, al poter riassaporare odori e profumi e alle possibili rievocazioni che ad essi si accompagnano, allo scambio più intenso con il prossimo grazie all’accresciuta capacità di comunicare.

I progressi in tali direzioni concorrono a liberare – o quanto meno ad alleggerire – l’individuo dalle proprie esperienze stranianti.

Chiedimi scusa (2019) di Eve Ensler (traduzione di Valeria Gorla) – Recensione del libro

Eve Ensler è una attivista statunitense famosa per le sue campagne contro la violenza sulle donne. Violenza in ogni sua forma. Mi sono ritrovata a leggere della sua storia e in particolare questo suo testo, Chiedimi Scusa, grazie ad una mia paziente.

 

T. ha una storia di abusi e trascuratezza emotiva che giustificano il suo disturbo borderline di personalità, il disturbo post traumatico complesso e una carrellata di sintomi tra cui il disturbo ossessivo compulsivo e la dissociazione. Nella sua vita T. ha dovuto, in mille modi, gestire una sofferenza poco nominabile attraverso uso eccessivo di farmaci e sostanze varie, regolando stati corporei con tagli e abbuffate e sovra-regolando le sue emozioni. Lo ha fatto talmente tanto bene che accede alla terapia con poca consapevolezza di cosa ci fosse nella sua mente. Una mente frammentata, contesa tra la vergogna, la rabbia, la paura e molto altro che lei identifica con una parola: ‘dolore’. Quando le chiedo dove lo sente mi risponde sempre ‘ovunque’. Ama anche un altro termine e anch’esso lo usa spesso: ‘vuoto’. T. a 8 mesi dall’inizio della terapia è decisamente molto più capace di toccare con mano le conseguenze che alcuni eventi hanno avuto nel suo funzionamento mentale e interpersonale e parla apertamente dei suoi abusi. Sessuali e non. Per aiutarsi a condividere con me la vergogna che si cela dietro un corpo che, sessualizzato precocemente, vive una faticosa altalena di piacere e disprezzo, arriva in seduta con la sua copia di Chiedimi Scusa. Me lo racconta, mi legge una piccola parte e lo vado a comprare pochi giorni dopo.

Come suggerisce il titolo, l’autrice scrive a sé stessa una lettera di scuse da parte del padre, suo abusante da quando lei aveva solo 5 anni. E gli abusi sono stati di vario ordine: sessuale e fisico in genere da un lato ed emotivo e psicologico dall’altro.

Il testo sembra avere una struttura interna in cui, inizialmente Eve racconta la storia del padre Arthur e descrive in modo finemente tecnico la costruzione di una personalità narcisista malvagia (i colleghi terapeuti apprezzeranno le specificazioni del suo vissuto interno) e poi parla di sé, sempre rivedendosi attraverso gli occhi del padre. Arthur si narra, come se stesse scrivendo in prima persona, riconoscendo quei meccanismi che l’hanno reso un mostro per la figlia (e probabilmente per tutte le persone che l’hanno incontrato anche solo per un istante): famiglia esigente e, contemporaneamente, disinteressata. Critiche ovunque. Richiesta di perfezionismo ed alti standard. Riflesso sterile e freddo negli occhi dei suoi genitori, incapaci di trasmettere il minimo affetto o la minima parola di conforto. Addirittura, Arthur ricorda come non gli fosse stata addolcita alcuna pillola: sapeva benissimo di essere stato un figlio indesiderato, un incidente di percorso divenuto un miracolo, un trofeo da sfoggiare, il figlio salvatore da idolatrare. Svalutazione e idealizzazione ad alta intensità spaccano la mente, frantumano l’identità, predispongono solitudine e patologia. Nella sua lettera di scuse, Eve immagina il padre fare i conti con la morte e con quello che ne segue, un qualcosa di sconosciuto e potente e a tratti lo immagina indifeso, debole, forse perfino rassegnato e spaventato. Stona un po’ tutto questo: dalla grandiosità, arroganza e presunzione alla paura. Innominabile, ovviamente. Lo immagina pensare …’perfino qui nel limbo mi sento costretto a dimostrare il mio valore, e qui non c’è nessuno. Dimostrare il mio valore a Dio, forse. Fargli vedere che non sarò sconfitto. Anche di fronte alla tortura eterna non abbandonerò questa vanità‘…

Arthur è stato incapace di creare una connessione calda e intima con la figlia. Provando per lei emozioni complesse di invidia e rabbia, non poteva fare altro (ne siamo davvero sicuri?, mi chiedo) che tiranneggiare la sua famiglia, punire tutti, condire ogni interazione di crudele manipolazione, agita attraverso violenza. Gravitavano, nel tempo che trascorreva con Eve, pensieri ed emozioni poco congrue con i ruoli sani di padre-figlia. E quando Eve inizia a mentalizzare e tradurre in parole ciò che accade, preparatevi a subire il suo dolore. Descrive in modo vivido ogni brandello di agonia e tormento, gestito in qualche modo. Descrive benissimo le sue strategie di dissociazione o di regolazione emotiva attraverso le relazioni che creerà da adolescente e adulta. Senza spoilerare gli eventi di vita dei nostri due protagonisti, credo che il momento finale, in cui la lettera si chiude nel suo epilogo, sia il momento più toccante. Eve regala un colpo di accettazione alla sua vita, fa pace (se così la si può chiamare) con il suo passato e sembra servirle da morire la chiusura di questa lettera. Sembra che così il ‘passato resti nel passato’ come ci insegna Shapiro nel suo testo del 2013.

Quando ho acquistato il libro mi son detta che 100 pagine le avrei lette in un paio d’ore. Invece, mi son servite tre settimane per far sedimentare dentro di me la densità di dettagli, di sofferenza, di dolore che conducono alla conclusione, così condita di un delicato velo di accettazione e di compassione.

Un merito di questo testo è l’accuratezza tecnica con cui sono stati descritti vissuti interni e conseguenze di eventi. Da psicoterapeuta, infatti, ritrovo i cicli interpersonali tra aggressore e vittima (Dimaggio et al., 2013; 2019) i sintomi del disturbo post traumatico complesso o, le caratteristiche di personalità narcisistiche (Dimaggio, 2016) e borderline e ritrovo il percorso verso la compassione e l’accettazione (Gilbert, 2014).

…’Avevi cinque anni. Io ne avevo cinquantadue. Non avevi sovranità. Ti ho sfruttata e abusata. Ho preso il tuo corpo. Non era più tuo. Ti ho resa passiva. L’hai dato compulsivamente a chiunque lo volesse perché ti ho insegnato io che dovevi farlo. Ti ho costretta a uscire dal tuo corpo e siccome eri disclocata e intorpidita, non eri in grado di proteggerti….ho svuotato i tuoi necessari confini in modo che non sapessi mai cos’era tuo e quando dire no e quando dire fermati. …ho distrutto la tua memoria facendoti desiderare di dimenticare tutto

Mi piace immaginare, ma credo che corrisponda molto alla verità, che Eve abbia lavorato su di sé nel corso del tempo e che sia giunta alla sua lettera di scuse, conciliante e risolutiva, solo dopo aver attraversato il mare di dolore che l’attanagliava e si manifestava sottoforma di mille sfaccettature di sofferenza.

Se avete bisogno di sperare, questo libro fa per voi. Se avete bisogno di sentirvi coraggiosi, questo libro fa per voi. Se avete paura, altrettanto.

Ricordo di Gianfranco Goldwurm

È mancato nei giorni scorsi Gianfranco Goldwurm, figura centrale della storia della psicoterapia comportamentale e poi cognitiva in Italia.

Gianfranco Goldwurm -Laureato in Medicina e Chirurgia e specializzato in Psichiatria, fin dagli anni ’60 condusse ricerche sui riflessi condizionati e poi sviluppò i suoi studi sul comportamentismo e sulle terapie comportamentali e cognitive presso l’Istituto di Farmacologia e poi presso la Clinica psichiatrica dell’Università di Milano. A quel tempo, e in seguito, lavorò anche in psichiatria professionale e riforma sanitaria.

Fondò il CIANS (Collegium International Activitatis Nervosae Superioris) di cui fu   principale organizzatore del suo Primo Congresso Internazionale (Milano 1968) e Presidente (1999-2001 e 2006-2008). Con Ettore Caracciolo promosse la formazione di un gruppo di interesse nell’istituto di Psicologia della Facoltà Medica di Milano per dell’analisi del comportamento teorica e applicata all’educazione normale e speciale.

Le due radici, quella psichiatrico-riflessologica che fa capo a Goldwurm e quella psicologico-operante di E. Caracciolo si fusero nella l’Associazione di Analisi e Modificazione del Comportamento (AIAMC) fondata nel 1977.

Nel 1984 insieme a Paolo Meazzini promosse la nascita della rivista Terapia del Comportamento. Nel 1989 organizzò a Roma i Latini Dies, I Congresso Internazionale di Psicoterapia Comportamentale e Cognitivo-Comportamentale dei Paesi di lingua latina.

Queste e altre, tante altre sono le opere e i contributi di Goldwurm allo sviluppo della psicoterapia cognitiva e comportamentale.

Monogamia e tradimenti: rassegna delle ricerche e conclusioni – Una serie di Roberto Lorenzini

Oggi pubblichiamo l’undicesimo lavoro della serie di Roberto Lorenzini, dedicata al tema della monogamia e delle sue implicazioni psicologiche, affettive, relazionali e, perché no, sessuali. Lorenzini propone una tesi forte: la monogamia non funziona. E qui chiude il suo racconto con la rassegna delle ricerca e una conclusione.

MONOGAMIA E TRADIMENTI – (Nr. 11) Ricerche e conclusioni

11. Rassegna delle ricerche

Il fatto che le relazioni amorose evolvano nel tempo non è certo una scoperta sensazionale ed è anzi sotto gli occhi di tutti. Mi limito in questa sede a riprendere il lavoro di rassegna complessiva dello stato dell’arte di Garcia (1998) perché nel descrivere le fasi cronologiche in modo non molto dissimile da quanto fatto nel corso degli episodi di questa rubrica, sottolinea come tali mutamenti siano ascrivibili al diverso dosaggio delle tre dimensioni che, secondo l’interessante teoria triangolare dell’amore di Stenberg (Morino et al., 2005) costituiscono l’amore romantico e che sono: la passione, l’intimità e l’impegno.

Gli psicologi hanno definito tre differenti fasi nelle relazioni d’amore (Garcia, 1998):

  1. Innamoramento;
  2. Amore passionale;
  3. “Companionate love” (che dà l’idea di equilibrio, complicità, armonia).

Fase 1: Innamoramento. Questa fase è caratterizzata da fortissima passione, intimità e impegno ed è una fase relativamente breve (dura circa per i primi 6 mesi); sono presenti eccitazione e, a causa dell’insicurezza, stress. Biologicamente i livelli di cortisolo sono alti, bassi quelli della serotonina.

Fase 2: Amore passionale. E’ una fase dominata da sensazioni di sicurezza e calma; la passione resta alta e l’intimità e l’impegno continuano ad aumentare costantemente. L’ossitocina e la vasopressina giocano un ruolo fondamentale, permettendo la formazione di legami saldi e un miglioramento della salute. Questa fase dura qualche anno prima di evolvere nel “companionate love”.

La fine di questa fase coincide con quella che Helen Fisher (2017) chiamava “4 years itch” ossia “prurito dei quattro anni”. La Fisher, studiando i dati sui divorzi nelle differenti culture, riportò un sostanziale aumento di divorzi nel quarto anno di matrimonio e sviluppò questa teoria ritenendo che i legami umani siano fatti per durare circa quattro anni, ossia il periodo in cui la prole è più vulnerabile. A prova di ciò trovò che questo periodo poteva essere esteso da quattro a sette anni nel caso in cui la coppia avesse più di un figlio. Ne risulta che il passaggio dalla seconda alla terza fase dell’amore è un periodo particolarmente fragile in una relazione.

Fase 3: “Companionate love”. Questa fase è caratterizzata da un decremento della passione, ma intimità e impegno restano elevati: la relazione d’amore è a tratti leggermente simile all’amicizia. L’ossitocina e la vasopressina sono sempre gli ormoni dominanti, assicurando il legame nella coppia. Non tutte le relazioni evolvono necessariamente in questa fase: molte finiscono prima! Quando l’intimità e la passione sono molto bassi e resta solo l’impegno, il risultato è quello che Stenberg definisce “amore vuoto”. Nonostante ciò molte coppie, se l’impegno è abbastanza forte, riescono a restare insieme.

Tuttavia, al di là di queste tendenze generali è pur vero che molte coppie sostengono di essere ancora appassionatamente innamorate anche dopo 20 anni di matrimonio! Ciò indica che alcune relazioni possono non evolvere mai nella terza fase, ma restare nelle fasi iniziali.

Il fatto che un terzo dei matrimoni finisca col divorzio e l’elevata frequenza di tradimenti ci fanno porre una domanda: ma gli uomini e le donne sono fatti per la monogamia?

De Boer, Buel & Ter Horst (2012) hanno riscontrato che ci sono molte indicazioni che farebbero optare per una non-monogamia dell’essere umano. Innanzitutto, ricerche psicologiche mostrano che la soddisfazione coniugale è inversamente correlata alla durata del matrimonio (Berscheid, 2010) e molti matrimoni sfociano nel divorzio (Kalmijin, 2007); ci sono momenti fragili in una relazione in cui la rottura è più che frequente (il “prurito dei 4 anni” della Fisher ne è un esempio).

Entrambe le osservazioni indicano che ci sono meccanismi che portano alla rottura delle relazioni, suggerendo che gli esseri umani non siano naturalmente inclini ad una forma di legame stabile “per tutta la vita” e che siano più simili alle specie non monogame rispetto a quelle monogame (Barash e Lipton, 2002).

Tuttavia, alla domanda se siano o meno monogami è difficile rispondere, poiché uomini e donne mostrano chiari tratti di monogamia sociale (legami durevoli, cooperazione nella crescita dei figli) ma sembra improbabile che siano naturalmente inclini alla monogamia sessuale. Sarebbe quindi più giusto parlare di “monogamia seriale” (tipicamente quando una coppia divorzia e i coniugi si risposano formando nuove coppie).

La monogamia umana è ancora un argomento delicato dove più che altrove è estremamente difficile separare l’effetto culturale dalla natura.

Conclusioni

Come terapeuti assistiamo frequentemente a grandi sofferenze determinate non direttamente da un proprio o altrui comportamento (in questo caso del partner) ma dal fatto che questo si discosti da quella che è la norma e che dunque spinga a condotte atte a ristabilirla. La norma in questione è appunto la monogamia che non ammette il tradimento e se esso si verifica impone la chiusura della relazione principale con separazione, divorzi, smembramento della famiglia e sofferenze dei figli, oppure la rinuncia all’altra relazione con la perdita dell’effetto vivificante e dell’arricchimento che comportava. In realtà abbiamo visto come la relazione principale di amore, una volta superata la fase iniziale dell’innamoramento è finalizzata al mantenimento dell’identità e alla realizzazione di progetti nel tempo come l’allevamento dei figli fino al loro svincolo e ad altri progetti esistenziali in linea con i valori della coppia. Non richiede invece quella esclusività propria del periodo dell’innamoramento per cui altri partner secondari e transitori potrebbero anche arricchire la coppia come nuove profonde amicizie con le quali in fondo sono in continuità e che nessuno percepirebbe come minaccia per la coppia stessa. Il conflitto si porrebbe solo durante la fase dell’innamoramento ma ciò in genere non accade perché ogni innamoramento si potenzia dall’innamoramento dell’altro (è difficile innamorarsi di chi non è interessato a noi). Quindi nella relazione tra due innamorati non ce n’è per nessun altro. In conclusione, mi sembra che l’ideale normativo della monogamia, ancorché costantemente disatteso nella pratica, comporti più sofferenze che vantaggi e non sia utile a garantire la certezza sulla paternità della prole per la quale probabilmente era nato. In compenso costringe alla segretezza e all’inganno vera devastante insidia per la coppia principale.

 

SPARX, un serious games per gli adolescenti che soffrono di depressione – Lo psicologo del futuro

SPARX è un serious games disegnato da un team di ricercatori e clinici dell’Università di Auckland: Prof. Sally Merry, Dr. Karolina Stasiak, Dr. Theresa Fleming, Dr. Matt Shepherd e Dr. Mathiks Lucassen.

LO PSICOLOGO DEL FUTURO – (Nr. 6) SPARX, un serious games per gli adolescenti che soffrono di depressione

 

SPARX è uno dei serious games più famosi esistenti nel mondo della psicologia clinica ed è stato progettato per gli adolescenti dai 12 ai 19 anni che soffrono di depressione. Gli autori specificano come tale gioco non sia da considerarsi un’alternativa alle cure psicologiche, psicoterapeutiche e psichiatriche. Viene piuttosto proposto come integrazione ad esse.

SPARX si serve di strategie di apprendimento attive e divertenti, basate sulla terapia cognitivo comportamentale (CBT).

Dai clinical trial effettuati (Merry et al., 2012; Fleming et al., 2012, 2019; Perry et al., 2017; Poppelaars et al., 2016; Yokomitsu, 2020) è emerso che SPARX è risultato essere efficace nel ridurre i sintomi depressivi, ansiosi ed i sentimenti di disperazione, oltre a migliorare la qualità della vita dei ragazzi tra i 12-19 anni. È risultato inoltre che tali risultati emergevano di fronte al completamento di almeno quattro livelli di gioco. I cambiamenti registrali sono stati mantenuti per una media di tre mesi. Ed il gioco è stato classificato come divertente da parte dei giocatori.

Il gioco è scaricabile su IOS e ANDROID, trovandosi su apple store e google play. All’inizio del gioco è presente un test composto da 9 domande (scala likert 0 “per niente” a 4 “quasi tutti i giorni”), in cui vengono indagati i sintomi dei possibili partecipanti nelle due settimane passate. Le domande poste riguardano la sensazione di irritabilità e depressione, il piacere nello svolgere le attività, la difficoltà nell’addormentarsi o il dormire troppo, la perdita di peso/appetito o il mangiare troppo, il livello di energia, la sensazione di essere un fallimento/delusione per sé o per la propria famiglia, la difficoltà di concentrazione, la lentezza nell’eloquio, l’agitazione e l’ideazione suicidaria.

In base ai risultati ottenuti, se sopra-soglia viene subito indicato di contattare un esperto, o il numero gratuito di SPARX per chiamate o invio di sms (lingua inglese).

In seguito, si possono iniziare i sette livelli, di cui si mostra una piccola demo esemplificativa:

Al termine di ogni livello (della durata di circa 30 minuti) vi è una guida che insegna al giocatore nuove abilità per aumentare il benessere, attivandosi nella vita esterna a SPARX.

Gli sviluppatori consigliano di svolgere al massimo uno o due livelli a settimana, anziché svolgerlo in una volta sola, così da poter sperimentare quanto appreso nella vita ‘reale’ prima di giocare al livello successivo.

Psicoterapia e SPARX

I terapeuti possono scegliere di consigliare l’utilizzo di SPARX ai propri pazienti, considerando che il gioco è in lingua inglese.

Li si può accompagnare, facendoli giocare durante la seduta, svolgendo un livello ad incontro e soffermandosi per il tempo rimanente e nella seduta successiva sulla generazione di compiti ad hoc e sulla loro fattibilità. Inoltre, è consigliabile svolgere anche del role playing esercitandosi sugli esercizi emersi.

A questo proposito gli autori sono aperti al confronto e a supportarne l’utilizzo nel migliore dei modi.

Inoltre, alla FIRST EUROPEAN CONFERENCE ON DIGITAL PSYCHOLOGY. DIGITAL PERSPECTIVES IN PSYCHOLOGY promossa dalla Sigmund Freud University diversi ricercatori e clinici, esperti di serious games e loro utilizzo nella pratica clinica terranno delle lezioni magistrali sul tema e vi saranno spazi di networking in cui poter fare loro domande sul tema.

 

Le iscrizioni alla prima Conferenza europea di Psicologia Digitale sono aperte:

ISCRIVITI ORA 9733

 


 

EUROPEAN CONFERENCE OF DIGITAL PSYCHOLOGY
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