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Quando le ‘delusioni rimangono, l’amore muore’: l’erotomania e la sua relazione con vergogna e narcisismo

L’erotomania è una rara condizione psichiatrica in cui un soggetto sviluppa la convinzione – una credenza persistente e fissa – di essere amato da un’altra persona a distanza (Kelly, 2018).

 

Questo disturbo ha una lunga storia psichiatrica: inizialmente conosciuto come sindrome di de Clérambault e della ‘vecchia follia della cameriera’, il disturbo erotomanico è stato rinominato e classificato come una forma di disturbo delirante nell’ICD-10 (WHO, 1992; Kelly, 2018). Alla fine del ‘900, il disturbo delirante non era comunemente descritto in psichiatria, nonostante tutto era presente un interesse per alcuni sottotipi come l’erotomania primaria e la gelosia patologica (Munro, 1999). Questo disturbo è stato trattato con dei farmaci antipsicotici per la prima volta negli anni ’50 e ’60, oggi si riconosce che l’erotomania è una condizione relativamente rara che ha una relazione con comportamenti di stalking e altri comportamenti offensivi (Kelly, 2018).

La teoria triangolare di Sternberg (2007) sostiene che l’amore può essere compreso in termini di componenti: 1) ‘l’intimità’ comprende sentimenti di condivisione, vicinanza, legame e connessione, 2) la ‘passione’ comprende forme di eccitazione, attrazione fisica e sessualità, infine 3) ‘l’impegno’ comprende, nel breve termine, la scelta di una persona per cui si prova amore, a lungo termine invece riguarda l’impegno nel mantenimento della relazione amorosa attraverso scelte di tipo istituzionale (ad esempio i figli, il matrimonio). I due aspetti dell’impegno non necessariamente si susseguono, in quanto è possibile impegnarsi anche senza una relazione a lungo termine (Sternberg, 1986).

Kelly (2018) propone una revisione della letteratura per comprendere meglio il delirio erotomanico e i possibili tratti associati: da numerosi studi emerge come il concetto odierno di amore è dipendente non solo da fattori culturali, ma soprattutto sociali e politici (Kelly, 2018). Tali fattori darebbero forma anche all’erotomania che spesso si verifica lungo un gradiente sociale reale o percepito, dove le identità sociali e le dinamiche di potere svolgono un ruolo chiave nel generare questa forma di delirio.

Bortolotti (2015) spiegò come alcuni deliri servano a disinnescare le emozioni negative e a proteggere una persona con un’autostima bassa. Lloyd (2017) evidenziò come molte persone si vergognino, si sentano sole e difettose dopo una relazione romantica insoddisfacente: in tali circostanze, l’illusione di essere amati da qualcuno e/o da lontano può compensare i sentimenti di vergogna (Kelly, 2018). Quando si parla di erotomania, questa compensazione viene vista come un’illusione, non come una semplice fantasia o un desiderio: Kraepelin definì l’erotomania come un compenso per le delusioni della vita (Kelly, 2018). Il delirio erotomanico è prevalente nella popolazione femminile e solitamente è diretto verso uomini con posizioni sociali maggiormente elevate, al contempo gli uomini con tale disturbo predominano nei campioni forensi (Kelly, 2018). Dalla revisione della letteratura emerge come costrutti psicologici – vergogna, bassa autostima, fallimento – siano rilevanti anche per i casi di erotomania e non solo per caratteristiche di personalità individuali come il narcisismo. In termini psicologici, alcuni casi di erotomania sono sostenuti da una combinazione tra desiderio, delusione, vergogna e narcisismo in contesti sociali specifici: si ipotizza che esistano differenti gradi di erotomania, più o meno evidenti (Kelly, 2018). Forme minori di delirante esagerazione esistono anche in alcune relazioni stabili, con il fine di mantenere intatto il rapporto affettivo o per conferire vantaggi sociali specifici alle parti coinvolte.

In conclusione, i casi di erotomania diagnosticati necessitano di un trattamento attivo per ridurre i rischi psicopatologici e la sofferenza del soggetto, in quanto si ipotizzano manifestazioni erotomaniche all’interno delle relazioni più di quanto non si sia immaginato.

 

Stare a tavola, come affrontare i pasti condivisi – Report e video del webinar tenuto da CIP Milano

Report del webinar mensile dal titolo Stare a tavola, come affrontare i pasti condivisi tenuto dall’équipe multidisciplinare del Centro Disturbi dell’Alimentazione di Milano (CIPda).

 

Un ciclo d’incontri finalizzato alla gestione delle problematiche alimentari, indirizzato alla popolazione generale e nato per garantire supporto a chi si interfaccia con individui con Disturbi Alimentari, o più in generale con chi mostra criticità verso l’alimentazione e la forma fisica.

L’impostazione dell’incontro si è articolata in 2 momenti: il primo dando voce ai quattro differenti specialisti dell’équipe multidisciplinare del CIPda; il secondo dando spazio al pubblico, tramite domande libere scritte in chat.

Il primo momento è iniziato con una breve introduzione della Dott.ssa Rosaria Nocita (direttrice operativa), che ha introdotto i quattro specialisti e stimolato il loro intervento sui seguenti temi.

Come gestire il momento pre-pasto

Prende la parola la Dott.ssa Ranzini (psicologa-psicoterapeuta) che ha offerto indicazioni pratiche sulla gestione di un momento critico come quello che precede il pasto. La specialista ha illustrato i seguenti punti:

  • Creare un’atmosfera di supporto/incoraggiamento; non lasciando spazio alla critica
  • Garantire al paziente il minor grado di preoccupazione possibile
  • Attuare la procedura dell’alimentazione pianificata e meccanica, ovvero decidere aprioristicamente quali alimenti mangiare; secondo il razionale 3+2 (3 pasti + 2 spuntini)
  • Ridurre la presenza di stimoli alimentari che non richiedono una preparazione
  • Attribuire un’importanza cruciale al luogo del pasto

Il momento del pasto

L’incontro è proseguito con l’intervento della Dott.ssa Tramontano (psicologa-psicoterapeuta), la quale ha sottolineato ulteriormente l’importanza di creare un’atmosfera supportiva, evitando conversazioni concernenti cibo e forma fisica.

Anche la Dott.ssa Tramontano ha offerto un breve vademecum su come comportarsi con il paziente, durante questo momento di ansia acuta:

  • Rimandare il fatto di mangiare senza farsi influenzare da segnali interni erronei quali: pienezza, gonfiore e illusoria sazietà
  • Invitare a focalizzarsi sul momento presente, decentrandosi dal turbinio di preoccupazioni nel qui ed ora
  • Non lasciare che la persona in questione mangi in solitudine
  • Evitare di offrire/far assaggiare cibo alla persona con DA

Come gestire il momento post-pasto

Al termine dell’intervento di due psicoterapeute, segue quello del Dott. Schiena (psichiatra). Quest’ultimo ribadisce l’importanza di essere empatici nei confronti del paziente, specialmente nella fase che segue il pasto; l’empatia viene, infatti, da lui stesso definita come la bussola per orientare il proprio comportamento. La spiegazione di questa raccomandazione si fonda sul nucleo psicopatologico cardine del disturbo alimentare: questi pazienti hanno un sistema valutativo unicamente focalizzato sulle dimensioni del peso, della forma fisica e del controllo alimentare. A tal proposito, questo sistema si attiva notevolmente nel momento del post-pasto, in quanto i pazienti tendenzialmente avvertono una sensazione di gonfiore (causata da un tipico rallentamento dello svuotamento gastrico nei DA); questa sensazione non fa altro che acuire il senso d’angoscia pervasivo che accompagna il pasto.

Lo psichiatra conclude il suo intervento raccomandando di evitare commenti sterili su quanto e come il paziente abbia mangiato che indurrebbero un clima di ostilità. Lo specialista fornisce, infine, una parentesi psicoeducativa inerente alla curva emozionale transitoria: consiglia di rimandare alle pazienti che la sensazione d’angoscia che stanno provando non è infinita, anzi che il lasso di tempo normotipico entro cui l’acuzie emotiva si esaurisce è di circa un’ora.

Affrontare pasti al di fuori del contesto casalingo

L’incontro è proseguito con un contributo della dietista della clinica Dott.ssa Ramponi, la quale ha fornito suggerimenti pratici per gestire specificamente i pasti fuori casa. Tra questi:

  • Organizzare in anticipo il pasto: lasciando libera scelta al paziente in merito al ristorante in cui andare, in modo tale da poter scegliere aprioristicamente la portata del menù stesso
  • Provare a individuare dei criteri di scelta oggettivi (es: criterio economico)
  • Invitare il paziente a non lasciarsi condizionare dal proprio senso di fame e/o di pienezza anche fuori casa
  • Concentrarsi sulla conversazione (rimando sempre valido di evitare i temi ‘cibo’ e ‘forma fisica’)

Il webinar si è concluso con l’invito della Dott.ssa Nocita al successivo incontro sul tema: Il rapporto con il cibo durante le festività: come regolare abbuffate e restrizioni.  Infine il pubblico è stato informato per seguire le video-risposte sulla pagina Facebook del CIPda: spazio in cui i curanti risponderanno a tutte le domande restanti emerse dalla chat dell’incontro odierno.

 

STARE A TAVOLA, COME AFFRONTARE I PASTI CONDIVISI – Guarda il video integrale del webinar:

 

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Intersoggettività e prime impressioni di affidabilità in età evolutiva

Il volto rappresenta una finestra sull’altro: è universale la tendenza a effettuare inferenze sull’affidabilità, l’aggressività, l’attrattività altrui basandosi sui tratti fisionomici e, inevitabilmente, ne consegue che vi sia una sola possibilità di fare una buona prima impressione.

 

Adolphs e Birmingham (2012) proposero una tassonomia dei segnali socialmente rilevanti, distinguendoli in statici (cues) e dinamici (signals). Ai cues appartengono, ad esempio, il colore della pelle, la forma degli occhi, la larghezza della mandibola, ma anche l’attrattività e l’affidabilità: tali caratteristiche sono infatti immodificabili, poiché l’individuo non possiede alcun controllo su una loro attivazione/disattivazione a seconda delle circostanze e il nostro cervello ha sviluppato meccanismi per l’elaborazione delle informazioni da esse veicolate. Il volto di ogni individuo si caratterizza dunque per una particolare configurazione, la quale viene usualmente processata dal nostro sistema cognitivo in modo olistico (piuttosto che analitico). L’elaborazione dei singoli dettagli avviene quindi tendenzialmente in modo simultaneo (e non caratteristica-per-caratteristica), giungendo a un’integrazione in un unico percetto globale in tempi assai ristretti, motivo per cui tale giudizio non risulta esente da bias.

La percezione di affidabilità sembra assolvere a un bisogno evoluzionistico adattivo, legandosi strettamente alla possibilità di inferire le intenzioni minacciose dell’altro in modo rapido, per attuare tempestivamente un comportamento di attacco o fuga. Tale giudizio riflette la presenza nel volto di caratteristiche facciali assimilabili anche alle espressioni emozionali: un individuo viene ritenuto maggiormente inaffidabile se la sua espressione facciale è di rabbia, mentre è giudicato affidabile se la sua espressione è simile a quella relativa all’emozione di felicità (Todorov, Baron & Oosterhof, 2008). Nonostante vi sia, generalmente, un buon accordo tra osservatori nella formulazione di giudizi relativi alle prime impressioni, le caratteristiche di personalità e le esperienze passate degli stessi incidono inevitabilmente sulla valutazione e la salienza delle caratteristiche facciali.

L’influenza delle prime impressioni legate all’apparenza del volto sull’attuazione di un comportamento di fiducia è perciò preponderante negli individui adulti, ma ciò è valido anche per l’età evolutiva? Ewing e colleghi (Ewing, Caufield, Read & Rhodes, 2015), tramite il ricorso al Token Quest, compito sperimentale riconducibile al paradigma del comportamento di fiducia in ambito di investimento economico, rilevarono come già a partire dai 5 anni di età le prime impressioni influenzino l’attuazione o meno di condotte di fiducia, per giungere però solo attorno ai 10 anni di età a osservare un chiaro allineamento al pattern di risposta comportamentale adulto. Sembra inoltre che, nella formazione di prime impressioni di affidabilità, un ruolo centrale sia rivestito dall’attrattività del volto: uno studio di Ma e Xu (2015) dimostra infatti come tale caratteristica sia utilizzata da bambini di età compresa tra 8 e 12 anni come scorciatoia per la formulazione di giudizi sociali. La piacevolezza del volto, in età evolutiva così come in età adulta, risulta quindi un discrimine fondamentale per il soggetto che si trova a scegliere se attuare o meno un comportamento di fiducia verso l’altro.

Il complesso periodo storico che attualmente stiamo vivendo, caratterizzato da inevitabili modificazioni dei codici che usualmente regolano gli scambi intersoggettivi, può condurre potenzialmente allo sviluppo di un generale clima di sfiducia. L’epigenetica spiega come gli esiti evolutivi derivino dalla commistione di fattori genetici e ambientali e infatti, anche per quanto concerne l’affidabilità percepita, risulta centrale il ruolo giocato dalle figure di riferimento del bambino nel sostenere un orientamento alla fiducia/sfiducia nei confronti di individui sconosciuti.

Stolle e Nishikawa (2011) dimostrarono come la trasmissione di un clima di sfiducia avvenga a opera di genitori che non necessariamente giudicano l’altro in modo negativo e non sono sempre orientati da un costante atteggiamento di sfiducia nei confronti del mondo. L’educazione all’inaffidabilità, supportata da un’accurata selezione di fatti di cronaca che contribuiscano a sostenere la creazione del worst-case scenario, legittima però il genitore a compiere nei confronti del figlio una campagna di presa di consapevolezza di tutti i potenziali pericoli, alimentando in lui la percezione di essere una potenziale vittima, specie in virtù della sua vulnerabilità evolutiva e della sua inesperienza nel mondo. Conseguentemente però, tale stile educativo può comportare una diminuzione di comportamenti pro-sociali e di atteggiamenti di cooperazione tra individui anche sconosciuti, aspetti che risulterebbero protettivi per la comunità in periodi storici particolarmente critici.

Sul piano psicologico è essenziale sottolineare che in una ‘società della sfiducia’ dilagano ansia, paura, ricerca di protezione, ossia emozioni biologicamente adattive di fronte a uno scenario realmente pericoloso, ma disfunzionali se esito di pensieri catastrofici e irrazionali, scaturiti dall’inaffidabilità percepita appresa e ostacolanti il comportamento pro-sociale.

 

Storia dell’ipnosi: Franz Anton Mesmer e le origini dell’ipnosi moderna

Franz Anton Mesmer si può considereare uno dei padri dell’ipnosi moderna. Ad oggi è cosiderato, da molti studiosi, il fondatore dell’ipnosi

 

Franz Anton Mesmer è stato un medico tedesco nato nella prima metà del ‘700 ed è oggi considerato da molti il fondatore dell’ipnosi moderna (Crabtree, 1988). Fu, infatti, il primo a cercare di dare una spiegazione ‘scientifica’ dell’ipnosi ed ipotizzò l’esistenza di un ‘fluido magnetico’ che, manipolato dal magnetizzatore, fosse in grado favorire la guarigione di quadri clinici che oggi chiameremmo psicosomatici (Thuillier & Meriggi, 1996).

Il lavoro di Mesmer suscitò clamore in numerose corti europee (Thuillier & Meriggi, 1996) e aprì la strada ad uno studio sistematico delle tecniche ipnotiche da parte di ricercatori che saranno celebri in epoche successive (Mesmer & Grandchamp, 1826).

Di particolare interesse è il fatto che questa tensione tra idee, superstizione e indagine scientifica della materia sarà un leitmotiv che accompagnerà l’ipnosi ancora per molti anni. In un certo senso, si tratta di un dibattito che persino al giorno d’oggi, nonostante la crescita notevole di pubblicazioni scientifiche sull’argomento, non si è ancora esaurito. Anche per questo colpisce la disponibilità del medico tedesco a mostrare il suo lavoro ad un’équipe internazionale di prominenti scienziati dell’epoca (tra cui il noto chimico Antoine-Laurent de Lavoisier e Benjamin Franklin, allora ambasciatore a Parigi) formata specificamente per investigare i suoi metodi (Thuillier & Meriggi, 1996).

La commissione scientifica determinerà che i fenomeni osservati non erano da attribuirsi ad alcun fluido magnetico, bensì a fenomeni che oggi chiameremmo psicologici.

È così che da Mesmer in poi vedremo affermarsi personaggi, magnetizzatori prima ed ipnoterapeuti poi, che dovettero spendere una parte considerevole delle proprie energie a sfatare una molteplicità di miti nati sui palcoscenici dell’Europa del diciottesimo secolo. Facendo un salto in avanti di circa 200 anni infatti, lo stesso Milton H. Erickson si occuperà di istruire colleghi e pubblico su queste tematiche, conscio che solo legittimando questa pratica sarebbe stato possibile diffonderla in ambito sanitario (Haley, 1967).

 

STORIA DELL’IPNOSI: FRANZ ANTON MESMER – GUARDA IL VIDEO:

 

 

Maddalena bipolare (2020) di Ornella Spagnulo – Recensione

Nelle pagine di Maddalena bipolare troviamo la storia di Sabrina, ne ricostruiamo il percorso clinico e di vita, giriamo con lei nei corridoi della clinica psichiatrica e ci immergiamo nella sofferenza umana.

 

Maddalena bipolare è la storia, narrata in prima persona in un misto di prosa e di epistolario, di Sabrina/Maddalena, una giovane trentenne che viene ricoverata ‘nella clinica dei matti’ a seguito di un ennesimo episodio di euforia maniacale che, quando le capita, la porta ad identificarsi con personaggi vari, come per esempio Maria Maddalena, che dà il titolo al romanzo.

‘Mi chiamo Sabrina, ho trent’anni e soffro di un disturbo dell’umore che a volte di aggrava in un disturbo di conversione. E sono anche istrionica, che è un disturbo della personalità‘ (p. 57). Così si descrive la protagonista e appare come un’eterna bambina, seduttiva e drammatica, che nel disperato tentativo di piacere a tutti e di sentirsi amata (‘Mica puoi piacere a tutti. Eh già, ditelo a un’istrionica!’, p. 59), si ritrova sopraffatta da un turbine di emozioni e bloccata nel corpo. In clinica, oltre ad una serie di altri personaggi, appare lo psichiatra Guido, che entrerà nella relazione con la paziente in maniera incauta, innescando un sentimento di innamoramento e attrazione, che si svilupperà nel corso delle pagine. Attraverso la narrazione diretta vediamo esplodere questo moto emotivo e costruirsi nella mente della paziente, trovare forma e giustificazione, coerenza e nutrimento. Sabrina viene dimessa e comincia una corrispondenza epistolare unidirezionale, fino a che uno giorno Guido risponde. Si affida alla lettura il seguito e l’epilogo.

Nelle pagine che scorrono troviamo la storia di Sabrina, ne ricostruiamo il percorso clinico e di vita, la vediamo incontrare Guido, il primario, la sentiamo emozionarsi e perdersi nei suoi pensieri, giriamo con lei nei corridoi della clinica psichiatrica e ci immergiamo nella sofferenza umana; leggiamo poesie. E tra citazioni di Alda Merini – grande esempio di poesia e follia – e riferimenti alla storia tra Jung e Sabina Spielrein ci muoviamo nella franca esperienza della paziente che oscilla tra dramma e tenerezza.

È una storia che con semplicità, ma con accurata precisione, ci ricorda quanto è fragile l’animo che soffre e quanto è importante il tocco di chi cura, che ci racconta della relazione tra chi dà cura e chi la riceve, quella relazione medico-paziente, tanto preziosa quanto delicata e scivolosa, a volte. È un libro che ci fa tornare nelle corsie delle cliniche psichiatriche, tra luci e ombre del trattamento della malattia mentale; che ci fa vedere e sentire la sofferenza dei pazienti e la fragilità che può avvolgerli, tanto da rendere ogni movimento da parte di chi si offre di aiutare necessariamente attento e consapevole.

 

Alzheimer: scoperti i meccanismi delle difese antiossidanti contro la neurodegenerazione – Comunicato stampa

Comunicato Stampa

Un nuovo studio sull’Alzheimer, oltre a far progredire le conoscenze sulla malattia e sul ruolo della prevenzione dello stress ossidativo, come forma di resistenza alla neurodegenerazione provocata dalla patologia, può gettare le basi per nuovi approcci terapeutici alla malattia.

 

Roma, 11 dicembre

I soggetti Non-Demented with Alzheimer Neuropathology (NDAN) hanno la capacità di attivare una risposta cerebrale antiossidante efficace al punto da far fronte alla neurodegenerazione causata dall’Alzheimer.

A dimostrarlo è un nuovo studio pubblicato su The Journal of Neuroscience, dal titolo Oxidative damage and antioxidant response in frontal cortex of demented and non-demented individuals with Alzheimer’s neuropathology, frutto della collaborazione tra la University of Texas Medical Branch, l’Oregon Health & Science University e l’Università degli Studi di Roma Tre.

La demenza è in crescente aumento nella popolazione generale ed è stata definita dal Rapporto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e di Alzheimer’s Disease International una priorità mondiale di salute pubblica: circa 35,6 milioni di persone nel mondo ne risultano affette, con 7,7 milioni di nuovi casi ogni anno e un nuovo caso diagnosticato ogni 4 secondi. In Italia, secondo l’Istat, circa 1 milione di persone sono colpite da demenza e circa 3 milioni sono direttamente o indirettamente coinvolte nell’assistenza dei loro cari. Tra le forme di demenza, la più comune e devastante è la malattia di Alzheimer, i cui casi potrebbero triplicare nei prossimi 40 anni, in relazione al progressivo invecchiamento della popolazione, con costi sociali ed economici elevatissimi.

Lo studio contribuisce a chiarire gli eventi molecolari alla base della malattia di Alzheimer (Alzheimer’s Disease, AD), sottolineando il ruolo delle difese antiossidanti contro la neurodegenerazione in soggetti che invece presentano placche amiloidi e grovigli neurofibrillari nel cervello, tratti istopatologici caratteristici della malattia di Alzheimer. Si sono affrontati i meccanismi per cui un particolare gruppo di individui, indicato come Non-Demented with Alzheimer Neuropathology (NDAN), resiste alla demenza, nonostante i depositi amiloidei e della proteina Tau siano invece indicativi di una sintomatologia di Alzheimer.

Lo studio si basa sull’analisi di 34 campioni post-mortem di corteccia cerebrale di soggetti controllo, alzheimeriani e NDAN sia maschili sia femminili ai quali la University of Texas Medical Branch (UTMB) ha accesso grazie alla collaborazione con la Brain Bank dell’Oregon Health & Science University

afferma il prof. Giulio Taglialatela, vice Chairman del Dipartimento di Neurologia e Direttore del Mitchell Center for Neurodegenerative Diseases della UTMB insieme alla sua equipe composta dalle dott.sse Anna Fracassi (formatasi a Roma Tre conseguendo sia la Laurea Magistrale che il PhD e attualmente post-doc presso la UTMB), Michela Marcatti, Olga Zolochevska, Natalie Tabor.

Nei tessuti dei soggetti NDAN abbiamo scoperto una differente espressione dei fattori che modulano la risposta antiossidante: in particolare, molecole di microRNA regolatrici negative di fattori di trascrizione della risposta antiossidante, sono presenti a basse concentrazioni negli individui NDAN e altamente espresse nei pazienti alzheimeriani. (prof. Giulio Taglialatela)

Da anni il nostro gruppo di ricerca a Roma Tre si occupa del ruolo dei radicali liberi nella fase di innesco e di progressione della malattia di Alzheimer. Oggi abbiamo un’ulteriore conferma del nostro lavoro: lo studio, infatti, rivela la capacità dei soggetti NDAN di attivare una risposta cerebrale antiossidante efficace, per far fronte allo stress ossidativo, che rappresenta uno dei meccanismi primari di danno. Tale resilienza innata sembra così giustificare le abilità cognitive intatte degli NDAN, che in effetti mostrano livelli di danno ossidativo ai neuroni e alla glia più bassi rispetto agli AD, simili invece alla condizione normale di controllo

spiega la prof.ssa Sandra Moreno, docente di Neurobiologia dello Sviluppo presso il Dipartimento di Scienze dell’Ateneo romano e Direttore di un Master in Embriologia Umana Applicata.

Il lavoro, oltre a far progredire le conoscenze sulla malattia dell’Alzheimer e sul ruolo della prevenzione dello stress ossidativo, come forma di resistenza alla neurodegenerazione provocata dalla patologia, può gettare le basi per nuovi approcci terapeutici alla malattia, possibilmente basati sull’attivazione delle difese antiossidanti attraverso un intervento mirato alla modulazione di specifiche molecole di microRNA.

 

 

La gesione dei conflitti in famiglie costituite da genitori omosessuali e bambini adottati

I bambini adottati, compresi quelli che hanno genitori omosessuali, devono affrontare diverse sfide di sviluppo specifiche per comprendere e contestualizzare il loro stato adottivo: questi bambini spendono una certa quantità di tempo e di energia nel pensare alla loro adozione e mostrano anche diversi livelli di curiosità sulle loro origini biologiche, sul loro patrimonio e sui membri della famiglia.

 

Un numero sempre crescente di famiglie negli USA sono costituite da genitori omosessuali e bambini adottati (Goldberg & Conron, 2018). Ricerche volte ad indagare se, ed eventualmente come, l’omosessualità dei genitori influenzi lo sviluppo del bambino hanno rivelato un buon adattamento di quest’ultimo (Farr, 2017; Fedewa, Black, & Ahn, 2015). Tuttavia, meno studi su famiglie composte da genitori adottivi e coppie gay/lesbiche (LG) si sono focalizzati sul funzionamento generale della famiglia e le possibili associazioni con l’adattamento dei bambini. Ciò nonostante, sono emersi tre filoni di ricerca: (a) i genitori LG con figli piccoli si impegnano in pratiche di co-parenting diverse rispetto ai genitori eterosessuali (Farr, 2017), (b) i bambini adottati sono esposti a più fattori di rischio rispetto ai bambini non adottati relativamente ai problemi di esternalizzazione (Grotevant, McRoy, Wrobel, & Ayers-Lopez, 2013) e (c) il conflitto familiare è legato a disadattamento infantile, almeno tra genitori eterosessuali (Davies, Martin, & Cummings, 2018). La teoria dei sistemi familiari afferma che il funzionamento complessivo della famiglia influenza i singoli membri, pertanto gli individui non possono essere esclusi dal contesto familiare (Minuchin, 1988). Ricerche condotte sulle famiglie di genitori eterosessuali suggeriscono che un basso conflitto familiare è legato a un adattamento positivo del bambino nell’infanzia e nell’adolescenza (Cummings, Koss, & Davies, 2015; Demby, Riggs, & Kaminski, 2017), al contrario l’ostilità dei genitori si associa ad esiti negativi circa la regolazione delle emozioni, oltre che una prevalente emotività negativa, nei bambini in tutte le fasi dello sviluppo (Davies, Coe, Martin, Sturge-Apple, & Cummings, 2015). Gli studi osservazionali che si sono concentrati sui modelli di interazione dell’intera famiglia durante il conflitto hanno scoperto che vi sono associazioni tra i bambini preadolescenti con famiglie più positive e più coese (Demby et al., 2017; Shigeto, Mangelsdorf, & Brown, 2014) e minori problemi comportamentali. I bambini adottati, compresi quelli che hanno genitori LG, devono affrontare diverse sfide di sviluppo specifiche per comprendere e contestualizzare il loro stato adottivo: questi bambini spendono una certa quantità di tempo e di energia nel pensare alla loro adozione e mostrano anche diversi livelli di curiosità sulle loro origini biologiche, sul loro patrimonio e sui membri della famiglia (Tan & Jordan-Arthur, 2012). Una comunicazione soddisfacente tra genitori adottivi e figli e la presenza di rapporti positivi tra i membri della famiglia adottiva sono importanti per esiti di sviluppo positivi (Wrobel et al., 2004). Pochi di questi studi si sono concentrati sulle famiglie adottive o le famiglie di genitori LG, infatti nessuno studio ha affrontato in modo specifico argomenti su come le famiglie adottive LG gestiscono i conflitti e su come questi comportamenti possano essere in relazione con gli esiti del bambino. Le ricerche esistenti hanno dimostrato che i bambini (inclusi i bambini adottati) con genitori LG condividono risultati di sviluppo molto simili, o anche più positivi, rispetto ai bambini con genitori eterosessuali. (Fedewa et al., 2015; Golombok et al., 2014).

Il presente studio si è prefissato un duplice obiettivo: (a) esaminare se la positività, la negatività e la coesione durante le interazioni familiari correlano al comportamento dei bambini in età scolare e all’adattamento specifico dell’adozione, e (b) osservare i conflitti familiari, gli esiti dei figli, e se le loro associazioni differivano tra famiglie adottive LG e eterosessuali.

I partecipanti sono stati selezionati da 96 famiglie, ognuna delle quali aveva almeno un figlio adottato, pertanto sono stati considerati 48 femmine e 48 maschi adottati in età infantile. Nessun figlio aveva avuto precedenti collocamenti. Innanzitutto, le famiglie sono state osservate, nelle loro interazioni familiari, presso la propria abitazione: ciò aveva l’obiettivo di esplorare il modo in cui le famiglie affrontano le discussioni e i conflitti. Nello specifico, i ricercatori hanno fornito alle famiglie una lista di problematiche (es. “Come spendere il denaro, “Fare i compiti a casa”, ecc.), questi dovevano segnalare quali di esse erano state oggetto di discussione e quali erano ancora questioni aperte, dopodiché gli è stato chiesto di parlarne. I disaccordi più comuni riguardavano la scuola, i litigi tra fratelli e sorelle e il tempo trascorso in TV, su Internet e sui videogiochi.

Per valutare le interazioni familiari nel contesto dei disaccordi tra genitori e figli, è stato usato il System for Coding Interactions and Family Functioning (SCIFF; Lindahl & Malik, 2001). Lo SCIFF è uno schema di codifica che si è rivelato efficace nell’identificare come i tratti a livello familiare (cioè negatività/conflitto, affetti positivi e coesione) siano collegati all’adattamento comportamentale e alla salute emotiva dei bambini (Demby et al., 2017). La negatività/conflitto valuta il grado di ostilità o di tensione nelle interazioni genitore-figlio, compresi il linguaggio del corpo e il tono della voce. La coesione valuta quanto bene la famiglia lavora insieme per risolvere i conflitti. Infine, l’affetto positivo valuta il tono emotivo piacevole nelle interazioni della famiglia, compreso il linguaggio del corpo, il tono della voce e indicatori come sorrisi e risate. Tutti gli items sono valutati per mezzo di una scala Likert da 1 a 5 (1 molto basso, 5 molto alto). La Externalizing Behavior subscale of the Child Behavioral Checklist for Ages 6 to 18 (Achenbach & Rescorla, 2001) è stata utilizzata per valutare gli esiti comportamentali dei bambini, composta da 42 items che indagavano le problematiche esternalizzanti (es. “Disobbediente a casa”, “Mente o imbroglia”). L’Adoption Dynamics Questionnaire (ADQ; Benson, Sharma, & Roehlkepartain, 1994) ha permesso di valutare i sentimenti dei bambini nei confronti dell’adozione attraverso tre sottoscale: affetto positivo sulla propria adozione (20 items del tipo “Sono felice che i miei genitori mi abbiano adottato”), esperienze negative con l’adozione (7 items del tipo “Mi prendono in giro per essere stato adottato”) e preoccupazione per l’adozione (3 items del tipo “Quanto spesso pensi alla tua madre naturale?”).

I risultati hanno rivelato che generalmente le famiglie avevano un’elevata coesione, un atteggiamento positivo e una moderata negatività/conflitto. Mediamente i comportamenti con problematiche esternalizzanti dei bambini erano al di sotto dei livelli clinici, essi mostravano sentimenti molto positivi, poche esperienze negative e una moderata preoccupazione legata alla propria adozione. Le famiglie con una maggiore espressione di emozioni negative durante i conflitti avevano figli con maggiori problemi di esternalizzazione, al contrario le famiglie più unite e coese durante le discussioni, avevano figli con meno problematiche esternalizzanti. Inoltre, le interazioni familiari conflittuali erano legate a sentimenti di adozione meno positivi e le famiglie che si mostravano più coese durante i conflitti e quelle che avevano una maggiore tendenza ad esprimere emozioni positive avevano figli con sentimenti più positivi nei confronti della propria adozione. Non ci sono state differenze nelle interazioni familiari o negli esiti dei figli in funzione dell’orientamento sessuale dei genitori. I genitori di LG non si sono differenziati dai genitori eterosessuali nella conduzione di discussioni familiari, nei livelli di coesione, negli atteggiamenti positivi e nell’espressione delle emozioni durante i conflitti.

 

Che fatica le relazioni sociali! I meccanismi della dipendenza relazionale – Report e video dall’evento

Report dall’evento online organizzato dal CIP di Modena sul tema delle relazioni sociali, in particolare sui meccanismi che portano a sviluppare una dipendenza affettiva.

 

Uno dei motivi più frequenti di richiesta di inizio di un percorso terapeutico risiede nella difficoltà di regolazione di un’emozione specifica che si ripercuote sulle relazioni interpersonali. La manifestazione di problematiche emotive è dovuta a difficoltà nell’acquisizione della competenza emotiva, ossia la capacità di percepire e riconoscere le emozioni, di discriminarle tra loro e di riuscire a nominarle; aspetto che comporta complicazioni anche per quanto riguarda il riconoscimento delle emozioni negli altri.

Un contributo importante nell’acquisizione della competenza emotiva è svolto dalle esperienze infantili precoci, in particolare dalla relazione di attaccamento con figure di riferimento e da un ambiente validante. Infatti, l’attaccamento rappresenta il comportamento che spinge il bambino a cercare la vicinanza delle persone che si prendono cura di lui nel momento in cui vive emozioni spiacevoli. Si tratta di un comportamento innato che si ripercuote sulla modalità di gestione delle emozioni anche in età adulta, in base alla risposta del genitore ricevuta in infanzia. Un atteggiamento validante invece risulta benefico poiché permette al bambino di provare sia emozioni positive sia negative, di riconoscerne le funzioni e le relative modalità di espressione più adeguate.

Con il termine personalità si intende il modo di vedere, comprendere e relazionarsi con il mondo esterno, così come la modalità in cui una persona vede se stessa. La personalità si forma a partire dall’infanzia dall’interazione di fattori ereditari ed ambientali e determina il modo in cui una persona pensa, sente, percepisce e si comporta. Quando la modalità di esperienza interiore e di comportamento è pervasiva, inflessibile, stabile e causa una sofferenza che condiziona il funzionamento della persona si parla di disturbo della personalità. Per dipendenza invece si intende una condizione in cui l’organismo ha bisogno di una determinata sostanza, persona o attività per funzionare; le caratteristiche principali consistono nel non riuscire a rinunciare alla sostanza o al comportamento senza sperimentare disagio ed apprensione e la centralità che tale sostanza o comportamento assume nella vita dell’individuo. Tutti dipendono da qualcuno o qualcosa nei momenti di vulnerabilità, ciò che distingue una dipendenza sana da una problematica però riguarda il mantenimento della propria identità nel primo caso; in altre parole l’assenza di una persona significativa può provocare mancanza affettiva ma non condiziona l’individuo, non gli impedisce di funzionare. Nel caso del disturbo di personalità dipendente invece la dipendenza relazionale è patologica poiché si osserva un intenso timore dell’abbandono, un atteggiamento passivo e sottomesso ai desideri dell’altro e una richiesta costante di rassicurazioni.

Ma come si configura un disturbo di personalità dipendente? I fattori relativi alla predisposizione genetica (timidezza) e alle esperienze infantili (relazioni trascuranti, di solitudine) fanno sì che si sviluppino credenze centrali su di sé e sugli altri (solo, non amato, incapace), rispetto alle quali l’individuo mette in atto delle strategie disfunzionali di fronteggiamento, vale a dire comportamenti di sicurezza che hanno lo scopo di impedire l’attivazione delle credenze (cercare qualcuno a cui appoggiarsi). Tuttavia quando queste credenze e strategie si cronicizzano, diventando rigide e pervasive possono configurarsi in un disturbo di personalità dipendente. Le persone che soffrono di questo disturbo di personalità sperimentano spesso ansia, che tendono a gestire attraverso l’evitamento; il loro attaccamento con le figure di accudimento è frequentemente di tipo insicuro-ambivalente o resistente (C), per cui il genitore si è dimostrato imprevedibile, capace di fornire vicinanza e protezione ma non sempre disponibile a concederle. Conseguentemente il bambino si attribuisce la colpa o il merito di conquistare la vicinanza del genitore tramite le prestazioni (“se faccio il bravo la mamma mi abbraccia”) e il giudizio sulla propria amabilità dipende dalla risposta del genitore, aspetto che impedisce al bambino di costruirsi un’immagine di sé stabile. Nello specifico, il bambino tenderà a ricercare la vicinanza rinunciando all’esplorazione dell’ambiente e a considerare l’intimità come intensamente desiderabile e allo stesso tempo temibile, per paura di venire rifiutato perché considerato non amabile. Inoltre, tenderà a utilizzare come strategia comportamentale l’evitamento, richiudendosi in poche relazioni più prevedibili. In sintesi, un individuo con un disturbo di personalità dipendente tendenzialmente si considera debole, incompetente, non amato e vede l’altro come capace, supportivo e protettivo. Pertanto si appoggia a un’altra persona e solo vicino a qualcun altro si sente sicuro, con la conseguenza di essere disposto a tutto pur di mantenere la relazione.

Come pensa, si sente e vive le relazioni una persona con disturbo di personalità dipendente? Lo stato desiderato è l’autoefficacia, ovvero la rappresentazione di sé come competente, che raggiunge solo in presenza di una relazione solida; quando una persona si allontana infatti sperimenta un vuoto disorganizzato con sintomi depressivi, ansiosi e apatici. Avendo diverse relazioni di riferimento da mantenere l’individuo si trova in una condizione di overwhelming, cioè possiede una rappresentazione caotica di molteplici scopi e compiti, a volte contraddittori, dato che ha il desiderio di accontentare tutti, finendo per provare confusione ed abbattimento. L’individuo presenta la tendenza a soddisfare i bisogni altrui, tuttavia quando le proprie aspettative sono incompatibili con quelle altrui sperimenta un senso di obbligo a cui si ribella emotivamente con rabbia (ribellione alla coercizione); a tale rabbia però segue senso di colpa e timore dell’abbandono poiché vede l’altro sofferente. Le relazioni interpersonali dunque sono caratterizzate da oscillazioni tra accudimento e aiuto negato perché l’altro non è sempre disponibile a soddisfare il bisogno di continue rassicurazioni del paziente.

Per quanto riguarda le linee di intervento, il lavoro terapeutico parte dall’aiutare a rendere consapevole il paziente del proprio funzionamento e ad identificare le proprie credenze disfunzionali; in seguito lo si aiuta a vedere come la strategia di fronteggiamento che utilizza (dipendenza) gli arrechi dolore e a cercare alternative di regolazione più funzionali, incrementando l’autonomia. Per raggiungere questi obiettivi, è possibile integrare una serie di tecniche di intervento, quali: Terapia Cognitivo-Comportamentale (CBT), Terapia Metacognitiva (MCT), Skills Training, validazione della Terapia Dialettico-Comportamentale (DBT) e Mindfulness.

 

CHE FATICA LE RELAZIONI! ANALIZZIAMO I MECCANISMI DELLA DIPENDENZA RELAZIONALE

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Metacognizione, rimuginio e sintomi ansiosi nei bambini – Partecipa alla ricerca!

Studio esplorativo su metacognizione, rimuginio e sintomi ansiosi nei bambini (9-13). Che cosa intrappola i bambini ansiosi nei meccanismi di ricorsività del pensiero, quali rimuginio e ruminazione?

La presente ricerca online, condotta dal Child and Youth Lab della Sigmund Freud University e approvata dal Comitato Etico della stessa università, si occupa di indagare determinati processi cognitivi, come rimuginio e ruminazione, e le credenze metacognitive. Con i termini rimuginio e ruminazione si indicano due forme diverse di pensiero ripetitivo, il primo orientato verso possibili minacce future, il secondo su eventi accaduti in passato e sullo stato emotivo attuale. La metacognizione, invece, può essere definita come la conoscenza del proprio sistema cognitivo, dei fattori che influenzano il proprio funzionamento cognitivo, e la regolazione dei propri pensieri (Wells, 1995).

La precedente letteratura scientifica sembrerebbe mostrare come proprio le credenze metacognitive giochino un ruolo cruciale nella persistenza del rimuginio e della ruminazione nei bambini ansiosi. Secondo il modello della funzione esecutiva di autoregolazione (S-REF) di Wells e Matthews (1994, 1996), le credenze metacognitive contribuirebbero a mantenere attiva la sindrome cognitiva attenzionale, mettendo in atto strategie di regolazione disfunzionali quali rimuginio, ruminazione, maggiore focalizzazione su sé stessi e monitoraggio della minaccia.

Le metacredenze possono essere positive o negative (Wells, 2000): quelle positive ci fanno ritenere utile impegnarsi in processi cognitivi disfunzionali (es. “Se mi preoccupo sarò pronto al peggio”), mentre quelle negative ci fanno pensare che il rimuginio sia incontrollabile (es. “Non ho il controllo sui miei pensieri”). Un bambino ansioso potrebbe essere convinto che se rimugina sarà preparato al peggio, ma in realtà, rimuginando in continuazione, non fa altro che intrappolarsi in un circolo vizioso che potrebbe apparire senza via di uscita. Un intervento che tenga in considerazione anche le credenze metacognitive potrebbe dunque aiutare i bambini a riconoscere i propri stati mentali disfunzionali, così da abbassare anche i livelli d’ansia esperiti e sentirsi meglio.

L’obiettivo principale di questo studio è quindi valutare rimuginio, ruminazione e le credenze metacognitive nei bambini, anche considerando la presenza di sintomatologia internalizzante.

Il seguente questionario della durata di circa 30 minuti, è rivolto sia ai genitori che ai loro bambini di età compresa tra i 9 e i 13 anni e ci aiuterà a comprendere meglio e a trattare con maggiore efficacia i disturbi d’ansia.

Grazie a chi vorrà partecipare!!


La comunicazione degli occhi

Artisti e filosofi si sono spesso soffermati sulla comunicazione che avviene attraverso gli occhi, sulle informazioni riguardo alla persona che questi trasmettono, oltre che sui suoi pensieri e sulle sensazioni, fino a giungere alla conclusione che gli occhi sono lo specchio dell’anima.

 

Gli occhi riflettono il mondo interiore della persona e, a volte senza volerlo, questa ci dice molto di più quando guarda che quando parla. Così, spesso ci troviamo a cercare lo sguardo dell’altro per capire se quella che esprime è reale gioia, tristezza o paura, o per scorgere una menzogna ben mascherata con le parole giuste.

Molti ricercatori si sono per questo soffermati sulla comunicazione degli occhi, dimostrando come le loro caratteristiche, o meglio le variazioni di queste, diano a chi li guarda importanti informazioni circa la salute, l’eccitazione, le emozioni che il soggetto sta provando, oltre a generare una maggiore o minore attrazione sessuale nell’osservatore.

Nell’esperimento di Caryl, fatto nel 2009, il ricercatore si è soffermato sulle preferenze che gli uomini e le donne hanno verso la dimensione delle pupille di persone del sesso opposto. Questo lavoro infatti parte dalle indicazioni emerse in esperimenti e studi precedenti, come quello di Hess (1965), il quale dimostrò che gli uomini trovavano le fotografie delle donne più attraenti se le pupille delle stesse venivano ritoccate per sembrare più grandi.

Autori come Tombs e Silverman (2004) hanno confermato tale tendenza, mostrando tuttavia come la stessa generalizzazione non poteva essere fatta per quanto riguarda le preferenze delle donne. In quest’ultimo caso, difatti, la situazione appariva più complessa in quanto chiamava in ballo altre variabili che potevano orientare la scelta delle donne per un viso o per un altro.

In due esperimenti Tombs e Silverman notarono che le donne tendevano a preferire visi di uomini con una dimensione media delle pupille. Questi infatti arrivarono ad ipotizzare che una maggiore grandezza delle pupille indicava livelli di arousal maggiori a livello sessuale, e che quindi tale caratteristica fosse interpretata dalle donne come il segnale di un uomo tendenzialmente possessivo, geloso o promiscuo. Qualche donna appariva fortemente attratta dall’ampiezza delle pupille dei visi presentati nell’esperimento, dichiarando inoltre di preferire il genere di uomo che stereotipicamente veniva definito nelle relazioni sentimentali come ‘bad boy’.

Da questo esperimento i ricercatori conclusero che il giudizio delle donne non era semplicemente mediato dalle caratteristiche fisiche degli stimoli, in questo caso la grandezza delle pupille, ma anche da circostanze transitorie e dall’orientamento socio-sessuale. Come emerso in questa e in altre ricerche (Simpson & Gangestad, 1991; Caryl, 2009) le donne sembrano reagire alla grandezza delle pupille degli uomini come se queste corrispondessero ad un’alta qualità della relazione.

Nell’esperimento di Caryl, rimanendo in tema del giudizio delle donne in base alla grandezza delle pupille, si è voluto indagare su quanto le loro scelte fossero influenzate dalle variazioni dei livelli di fertilità, dallo status relazionale e dall’orientamento socio-sessuale delle stesse.

Partendo dai lavori che dimostrano come la donna nel periodo di maggiore fertilità del ciclo mestruale preferisca nell’uomo alcune caratteristiche piuttosto che altre, come i tratti del viso più mascolini (Penton-Voak et al., 1999; Roney & Simmons, 2008; Welling et al., 2007) e un tono della voce più profondo (Feinberg et al., 2006; Puts, 2005), mentre nei periodi di minore fertilità sia più incline verso caratteristiche quali la salute e l’affinità, sono state misurate le oscillazioni delle preferenze delle donne in merito all’ampiezza delle pupille in base al ciclo mestruale. Le preferenze appena elencate, analizzate nel periodo di massima fertilità della donna, sono state indicate come criteri che designano, a livello adattivo, il maschio con migliori geni (Garver-Apgar, Gangestad, & Thornhill, 2008; Waynforth, Delwadia, & Camm, 2005). Questo esperimento voleva così osservare se anche la grandezza delle pupille fosse una caratteristica sensibile alla variazione della fertilità nella donna.

Ciò che è emerso è interessante, in quanto è stato osservato che durante la fase follicolare, che va dal sesto al quattordicesimo giorno del ciclo mestruale e rappresenta il periodo di massima fertilità, le donne del campione tendevano ad avere un maggiore incremento dell’indice LPP (preferenza per pupille grandi). Tale risultato era ancora più evidente tra le donne impegnate in una relazione sentimentale, rispetto a quelle single. Nelle prime sembra infatti che le variabili di fertilità abbiano un impatto significativo sull’indice LPP, mentre nelle donne single ad avere un impatto maggiore sull’indice LPP è il loro orientamento socio-sessuale e non il loro livello di fertilità. Le donne che invece assumevano contraccettivi ormonali non mostravano alcuna variazione di preferenza per la grandezza delle pupille nelle diverse fasi del ciclo mestruale.

Tale risultato sembra andare nella direzione della mixed mating strategy, secondo la quale le donne per ragioni adattive tenderebbero ad adottare una strategia mista che permetta loro di generare una prole con i geni migliori e nello stesso tempo poter contare sulla protezione di una relazione stabile. Secondo tale teoria infatti la donna con un partner può voler ricercare rapporti occasionali al di fuori della coppia con uomini migliori del proprio partner per migliorare le caratteristiche della prole, pur conservando la relazione con l’uomo più adatto a crescerla (Thornhill & Gangestad, 2003). Tale teoria sembra supportata dal fatto che, come quest’esperimento ci dimostra, le donne impegnate in relazioni durature mostrano una maggiore oscillazione nella preferenza dei criteri di buoni geni precedentemente esposti, se confrontate con donne single (Havlicek, Roberts, & Flegr, 2005).

Ma non è solo l’ampiezza della pupilla ad aver richiamato l’attenzione nell’ambito della ricerca. Ricercatori come Provine (2011) si sono focalizzati sul giudizio che le persone davano ai visi delle persone che riportavano una sclera, la parte bianca dell’occhio che circonda l’iride, rossa o arrossata.

Gli occhi rossi sono principalmente il risultato di una dilatazione dei vasi sanguigni superficiali della congiuntiva, la membrana trasparente che protegge la sclera. Gli occhi rossi sono un sintomo facilmente visibile e possono essere legati ad un ampio ventaglio di patologie, che va da quelle più leggere quali irritazione, congiuntivite, a disturbi più gravi, includendo anche l’effetto da uso di sostanze stupefacenti quali ad esempio la marijuana (McLane & Carroll 1986).

L’esperimento di Provine ha cercato di capire come le persone con gli occhi arrossati venivano percepite dagli altri. In linea con precedenti lavori scientifici, i quali dimostravano come gli occhi con una sclera bianca fossero associati a criteri di bellezza e sinonimo di salute (Symons 1979; Etcoff 1999; Thornhill & Gangestad 1999; Langlois et al. 2000; Sugiyama 2005; Johnston 2006; Rhodes 2006; Little et al. 2007), Provine ha dimostrato che i visi con gli occhi rossi, presentati durante l’esperimento, erano associati sia da donne che da uomini a peggiori livelli di salute e ad emozioni negative, specialmente alla tristezza. Mentre tali risultati sono emersi in egual misura sia nel campione composto dalle donne, sia in quello degli uomini, questi due gruppi tendevano a differire sul discorso dell’attrazione. Se si può notare una significativa correlazione tra visi con gli occhi rossi e bassa attrazione da parte delle donne, questa correlazione, seppur presente, appariva assai più debole nei giudizi degli uomini.

Se consideriamo inoltre che gli occhi con una sclera bianca, oltre a funzionare come criteri di salute, sono anche associati alla giovinezza, in quanto l’invecchiamento comporta, tra le altre cose, anche l’ingiallimento della sclera (Broekhuyse 1975; Watson & Young 2004), ci appare abbastanza evidente come le persone possano esprimere la loro preferenza verso visi che riportano un colorito più bianco della sclera.

A conferma del fatto che gli studi rivolti alla comunicazione e al grado di preferibilità che le persone hanno verso gli occhi degli altri si siano focalizzati sulla totalità delle componenti manifeste di questa parte del corpo, vediamo come autori come Peshek (2011) e Brown e colleghi (2017) abbiano dedicato i loro studi all’anello limbale. L’anello limbale è quel cerchio scuro che si trova intorno all’iride e ne disegna i confini. Questo può essere poco distinguibile nelle persone con gli occhi scuri, in quanto tende a confondersi con l’iride, ma è facilmente visibile nelle persone con gli occhi più chiari.

L’esperimento di Peshek ha dimostrato che solitamente, anche se a volte in modo automatico, le persone, se messe di fronte ad immagini di visi, tendano a preferire quelli che riportano un anello limbale più scuro e definito rispetto agli stessi visi a cui era stato alterato il colore dello stesso verso tonalità più uniformi all’iride.

Anche Brown (2017) ha voluto vedere l’effetto che un’alterazione della tonalità dell’anello limbale poteva provocare nella percezione e nel giudizio dei rispondenti; in questo caso è stato preso un campione di 150 persone. Oltre ad esserci la stessa generale tendenza nei partecipanti a preferire visi con un anello limbale più scuro, è emerso che le persone facevano corrispondere tale caratteristica alla salute.

Tuttavia vi sono state delle variazioni in base al genere dei rispondenti: le donne sembravano infatti quelle più influenzate da tale caratteristica, mentre gli uomini difficilmente sembravano dare la stessa attenzione nel loro giudizio. Interessante è il fatto che le donne più interessate ad una relazione breve e occasionale tendevano a giudicare i visi degli uomini con un anello limbale più scuro come più attraenti.

Ma qual è il motivo di tale preferenza?

Sembra che l’anello limbale sia collegato con la salute in quanto è stato studiato come questo tenda ad essere più scuro e definito nelle persone giovani (Peshek, 2013) ed in persone che hanno un cuore ed un sistema circolatorio sano. Un colore dell’anello limbale meno definito, o più simile se vogliamo al colore dell’iride, sembra essere associato, tra le altre cose, a bassi livelli di accumulazione di fosfolipidi, caratteristica connessa ai disturbi cardiovascolari in una persona (Ang et al., 2011; Fernandez et al., 2009).

Tutti questi esperimenti ci hanno mostrato che tutte le caratteristiche degli occhi che generalmente tendono ad essere associate a stati di salute migliore erano anche associati ad un grado di piacevolezza maggiore da parte dei partecipanti all’esperimento. Sebbene i gusti e le preferenze seguano sempre direzioni tanto soggettive quanto sociali, in base ai canoni di bellezza che una determinata società condivide in un determinato spazio e in un determinato tempo, sembra che la giovinezza e la salute siano criteri che non passano mai di moda, in quanto, a livello evolutivo, vengono associati ad una migliore fitness riproduttiva (Symons 1979, 1995; Etcoff 1999; Sugiyama 2005; Johnston 2006) e quindi tendono ad avere la precedenza tra le cose che soggettivamente si scelgono.

 

Maternità e sessualità – Moms, una rubrica su maternità e genitorialità

Il presente articolo affronta il tema della sessualità per una donna divenuta madre e per la coppia, attraverso l’interpretazione del sesto episodio della serie tv Netflix Workin’ Moms.

Moms – (Nr.7) Moms – Maternità e sessualità

 

In che rapporto è la sessualità con il ruolo genitoriale?

Dopo la nascita di un figlio il rapporto di coppia viene fortemente sacrificato, per la mancanza di tempo e forze fisiche. Diviene difficile per entrambi i membri della coppia potersi concedere lo spazio di cui necessitano. Nei primi mesi di vita del bambino, con scarso tempo e un nuovo ruolo a cui adattarsi, il bisogno messo maggiormente da parte è quello sessuale, tanto per le mamme quanto per i papà.

L’episodio della serie tv Workin’ Moms mette in luce l’umano bisogno sessuale e le diverse fantasie di ogni donna del gruppo post-partum. Si mostra fondamentale per ogni madre poter comunicare a se stessa e all’altro i propri vissuti interiori senza giudicarsi né essere giudicata.

In particolare nel gruppo viene introdotta con naturalezza la preferenza di ognuna rispetto ad un diverso tipo di cinematografia pornografica. Il telefilm canadese si rivela geniale anche stavolta nel non sottoporre la questione pornografia secondo il criterio di giusto o sbagliato, ma attraverso la stessa spontaneità che può esserci nella scelta della bevanda con cui accompagnare il pasto.

La protagonista Kate preferisce i cartoni giapponesi, noti come Hentai, mentre Jenny, altro elemento del gruppo post-partum, ama giocare con il capo dell’ufficio.

In una cultura occidentale che ancora a volte presenta il sesso come tabù, il diritto di una donna divenuta madre ad avere desideri sessuali rischia di essere messo in secondo piano se non è la madre stessa la prima a riconoscerlo. I personaggi di Kate e Jenny mostrano lo Sliding Doors, (riprendendo il celebre film di Peter Howitt con Gwineth Paltrow) di una relazione di coppia.

Kate più spontanea rispetto a Jenny non teme di raccontare al marito le proprie preferenze sessuali, mentre Jenny più artificiosa nega le difficoltà di comunicazione con il marito e il proprio bisogno di ricreare l’intimità, che sposta poi sul capo dell’ufficio. Con lo stesso capo Jenny non riesce ad essere diretta, ma deve sempre ricorrere ad escamotage e giochi affinché lui capisca il suo interesse, probabilmente perché lei stessa fa fatica a riconoscersi e ad esternare i propri bisogni sessuali in modo spontaneo.

Kate e Nathan, il marito, vincono perchè non sono soggetti a giudizi inconsci nè a tabù. Entrambi riescono a riconoscere e a dare spazio ai propri bisogni sessuali con naturalezza.

Jenny invece sembra ritenere che vi sia un copione nell’accoppiamento, dove donna e uomo sono personaggi con le parti già assegnate. Questo ostacola la comunicazione con il marito e rende possibile quella con il capo, fintantoché la recita può durare.

L’insegnamento che dona la serie tv in questo caso è che non c’è nulla di più spontaneo e naturale della sessualità, che nella relazione di coppia si incastra con aspetti comunicativi e individuali. Essere genitori vuol dire essere umani e spesso membri di una coppia, che ogni tanto per il benessere proprio e dell’altro dovrebbe permettersi di chiudere la porta della stanza e lasciare fuori i figli.

 

Il buco (2016) di Anna Llenas – Recensione del libro

Il Buco è una storia che parla di resilienza e dell’essenza di due discipline: la pedagogia e la psicologia.

 

Il Buco di Anna Llenas è un libro ricco di colori, testi e immagini originalissime che hanno una grande potenza simbolica come potenti sono i colori. Una storia che parla di resilienza, affrontando un tema importante come il dolore e non solo, perché in questo libro è possibile ritrovare l’essenza di due discipline: la pedagogia e la psicologia.

Il libro affronta non un dolore qualsiasi ma quel dolore, legato ad un lutto o ad un evento traumatico, che lascia il segno, nel nostro caso un buco, nella pancia di Giulia: la bambina protagonista della storia. E’ un libro semplice e per questo capace di arrivare dritto al cuore, o alla pancia, dei bambini (dai 3 anni in su) e dei grandi, in particolare quando si trovano a vivere la sensazione di smarrimento esistenziale, che sopraggiunge a seguito della rottura di un equilibrio, di una grave perdita o di quella metaforica ‘caduta dal Paradiso’ che trascina con sé tutte le nostre certezze e i nostri riferimenti, come nel caso del lutto che consegue una separazione o un divorzio.

Questo libro attrae subito per la copertina, rigida con un buco al centro, poi sfogliando le pagine, di buchi se ne trovano tanti, di tante dimensioni e colori, e poi colpisce una frase, presente prima di iniziare il racconto: ‘Per te, affinché trovi quello che stai cercando…’, la frase è una dedica e ognuno può sentirla sua, è indirizzata ad ognuno di noi, con i suoi buchi, colmi di bisogni, debolezze, vuoti e mancanze. Non è spiegato il perché di questo buco, ma solo le sensazioni che procura: entra freddo, escono mostri, ecc. Quando sentiamo un vuoto, solitamente, cerchiamo di colmarlo con ‘tappi’, e questo è ciò che fa Giulia, talvolta i tappi sono buoni, talvolta ingannevoli, finchè arriva il momento in cui Giulia rinuncia, smette di cercare una soluzione.

Un fortunato giorno però, qualcuno le suggerisce di guardare in se stessa, così facendo Giulia si accorge di avere in sé un mondo pieno di sorprese, di emozioni, pensieri, e che questo mondo che non sapeva di possedere la può avvicinare nuovamente agli altri, anche loro con un buco nella pancia, un dolore alle spalle, anche loro con un mondo da condividere.

E qui possiamo rintracciare il cuore della pedagogia, la disciplina umanistica che studia l’educazione e la formazione, educare significa: trarre fuori, condurre, portare la persona a guardarsi dentro, a comprendere se stessa, i propri obiettivi e le proprie potenzialità, per riuscire a fronteggiare le incertezze e le difficoltà del vivere quotidiano.

Psicoterapia breve strategica del trauma psicologico

Non solo Giulia guarda dentro il buco, ma lo attraversa imparando a conviverci e a capirne il significato per trarne nuove sintesi. In questo cercare di capire troviamo la psicologia, una scienza che studia i processi psichici, coscienti e inconsci, cognitivi (percezione, attenzione, memoria, linguaggio, pensiero ecc.) e dinamici. In particolare, nell’atto di attraversamento troviamo l’approccio breve strategico, perché quel buco richiede di passarci attraverso, di non ignorarlo, o il freddo continuerà a sentirsi e i mostri verranno fuori. Richiede di ammettere che nel vuoto si avranno le vertigini, ma poi la vista sarà più ampia.

L’approccio breve strategico, a seguito di un forte trauma, come ad esempio quello che sta vivendo in questi mesi il personale medico e paramedico in seguito alla pandemia da Covid-19 o tutte le persone colpite da un lutto che non hanno avuto la possibilità di elaborarlo, propone come strategia il ripercorrere per scritto il tragico evento, per potersi distaccare gradualmente dalla paura, dal dolore e dalla rabbia che questo ha provocato. La parola ‘trauma’ deriva dal greco ‘foro, perforamento’. In ambito psicologico, ci si riferisce al trauma come ad un evento particolarmente spaventoso, tale da lasciare uno strascico emotivo ed esperienziale che si estende al di là dell’evento stesso. Un ‘solco’ quindi, una profonda messa in crisi dell’equilibrio precedente, tale da lasciare separati un prima e un dopo che poco interagiscono, poco si accomunano, poco comunicano. Chi, infatti, ha vissuto un forte trauma, si trova ad essere inondato di ricordi, immagini, suoni, odori, flashback, che impediscono alla persona di proseguire il suo cammino verso il futuro.

Secondo Nardone ed altri (2007) le strategie di gestione messe in atto da chi accusa i sintomi di Disturbo Post-Traumatico sono raggruppabili in tre tipologie: il tentativo di controllare i propri pensieri e cancellare l’esperienza traumatica, l’evitamento delle situazioni associabili al trauma, la richiesta d’aiuto, di rassicurazioni e le lamentele.

Nell’illusione di poter in qualche modo ‘dimenticare’ il trauma vissuto e tenere sotto controllo le spaventose sensazioni ad esso correlate, la persona sperimenta la situazione paradossale per cui più cerca di dimenticare, più finisce per ricordare sempre di più.

Secondo l’approccio della psicoterapia breve strategica diviene importante non evitare la crisi ma attraversarla, come diceva il poeta Robert Frost: ‘Se vuoi venirne fuori, ci devi passare in mezzo’. In Psicoterapia Breve Strategica, la tecnica di elezione per il trattamento del trauma è quindi basata sulla scrittura, il cosiddetto Romanzo del trauma (Cagnoni, Milanese, 2009). Attraverso la narrazione scritta è possibile innescare la metabolizzazione dell’esperienza e una diminuzione delle emozioni correlate. Inoltre, richiamando volontariamente questi pensieri, non li si vivono più come incontrollabili e intrusivi, ma come gestibili. Successivamente è possibile diminuire progressivamente gli evitamenti, in modo da ripristinare la funzionalità di vita presente prima dell’episodio traumatico.

In questo modo la ferita del trauma si trasforma a poco a poco in una cicatrice che, pur non scomparendo completamente del tutto, permette alla persona di riappropriarsi della propria naturale capacità di resilienza.

 

Intolleranze e allergie alimentari negli studenti universitari: esiste una relazione con ansia e depressione?

Per gli studenti con una malattia cronica, come un’allergia o un’intolleranza alimentari, il periodo di transizione rappresentato dall’università può comportare responsabilità aggiuntive, relative all’autogestione della malattia, che possono avere un impatto negativo sul benessere generale.

 

L’università è un importante periodo di transizione per molti giovani adulti, durante il quale questi ultimi ottengono un’indipendenza senza precedenti e affrontano sfide di adattamento significative, come lo sviluppo di nuove relazioni (Ravert, Boren, & Wiebke, 2015) e l’adattamento all’elevata domanda accademica (Ross, Niebling, & Heckert, 1999). Tali sfide possono aumentare la loro vulnerabilità e portare a problemi di salute mentale legati allo stress come ansia e depressione (Shin & Liberzon, 2009). Secondo alcuni studi, i sintomi depressivi sono associati a una diminuzione delle prestazioni accademiche (American College Health Association, 2014) e ad un aumento del rischio di autolesionismo (Taliaferro e Muehlenkamp, ​​2014) tra gli studenti universitari. Gli studenti con sintomi ansiosi hanno maggiori probabilità di soffrire di malattie infettive acute (Adams et al. 2008) rispetto alle loro controparti meno ansiose. In effetti, la ricerca mostra che la prevalenza di depressione e ansia è in aumento tra gli studenti universitari (Schwanz et al. 2016), colpendo circa il 22,1% (ansia) e il 18,1% (depressione) dei giovani accademici statunitensi (American College Health Association, 2015). In particolare, per gli studenti universitari con una malattia cronica, come un’allergia alimentare (ing. Food Allergies, FA) o un’intolleranza, questo periodo di transizione può comportare responsabilità aggiuntive relative all’autogestione della malattia, che possono avere un impatto negativo sul benessere generale (Greenhawt, 2016; Warren et al. 2016).

L’allergia alimentare è una malattia cronica derivante da reazioni immunitarie avverse a specifiche proteine ​​alimentari che possono variare da lievi eruzioni cutanee ad anafilassi potenzialmente letali (Herbert, Shemesh & Bender, 2016). Simile all’FA, l’intolleranza alimentare è una reazione avversa a specifici cibi, che può portare a una vasta gamma di sintomi come indigestione e diarrea (Nettleton et al., 2010). Alcuni studi hanno rivelato che gli adulti con FA e/o intolleranza sono a maggior rischio di sviluppare ansia e/o sintomi depressivi (Dunjic, 2015; Molzon et al., 2011; Yang et al., 2013).

Chen e colleghi hanno incentrato il loro studio del 2020 sulle implicazioni psicologiche negative correlate ad allergie e/o intolleranze alimentari (Chen et al., 2020). L’obiettivo dello studio era quello di determinare la prevalenza di allergie e intolleranze alimentari e di stimare le associazioni di queste con ansia e depressione in un campione di 1574 giovani universitari. I risultati ottenuti da questa ricerca hanno indicato come la prevalenza di FA diagnosticate dal medico era del 7,6% (n = 119), mentre il 14,6% (n = 227) ha riportato un’intolleranza alimentare. Le allergie più segnalate sono state noci (3,1%) ed arachidi (2,6%). Dalle analisi è emerso che l’FA era associata a punteggi più alti dei sintomi depressivi, mentre le intolleranze alimentari erano associate a punteggi più alti di sintomi depressivi e ansia. Questa ricerca ha mostrato come il gruppo di universitari statunitensi che conviveva con una specifica allergia al cibo e/o con un’intolleranza presentava maggiori sintomi interiorizzati di tipo depressivo o ansioso (Chen et al., 2020).

Il meccanismo attraverso il quale la FA e l’intolleranza sono collegati ad ansia e/o a depressione rimane poco chiaro. È possibile che, poiché queste patologie sono associate a livelli di stress più elevati (Dunjic, 2015), ciò possa predisporre gli adulti a maggiori rischi di sviluppare ansia e depressione (Khan & Khan, 2017; Shin e Liberzon, 2009). Una teoria dominante sull’associazione tra FA e depressione è l’ipotesi delle citochine proinfiammatorie, molecole proteiche generalmente prodotte in risposta a un qualche stimolo, che svolgono un ruolo importante nello sviluppo della depressione (Maes et al., 2008). In effetti, è stata osservata una maggiore produzione di citochine proinfiammatorie tra pazienti allergici ad alimenti (Bartuzi et al., 2000). Il mantenimento di un microbioma intestinale sano promuove il normale sviluppo e funzionamento del sistema immunitario (Purchiaroni et al., 2013). Recenti studi su modelli animali hanno dimostrato che la disregolazione del microbioma intestinale è associata a una varietà di condizioni psichiatriche tra cui ansia e depressione (Sharon al., 2016). L’intolleranza alimentare può disturbare il normale microbioma intestinale attraverso l’induzione di sintomi fisiologici avversi come diarrea e generazione di sostanze tossiche (Campbell et al., 2010), fornendo una potenziale spiegazione della sua associazione con depressione e ansia.

Per quanto riguarda la connessione tra intolleranze alimentari ed ansia, è possibile ipotizzare un’ulteriore spiegazione assumendo un punto di vista psico-fisiologico, per cui le sensazioni fisiche di fastidio e/o dolore provocate dalle intolleranze potrebbero essere male interpretate da chi le sperimenta, che potrebbe confonderle con sintomi ansiosi o di panico, innescando un vero e proprio stato d’ansia. È infatti noto che l’ansia può manifestarsi sotto forma di somatizzazione corporea, tale per cui la sofferenza psicologica può emergere mediante sensazioni fisiche: il soggetto con intolleranze a specifici cibi potrebbe male interpretare i segnali corporei provenienti dall’addome risultanti dall’ingestione di cibi tossici per il suo organismo, etichettandoli come sintomi ansiosi, oppure correlati ad un attacco di panico.

Ad ogni modo è importante tenere a mente che ad intolleranze alimentari ed FA potrebbero conseguire sintomi ansiosi e depressivi; in tal caso sarebbe bene rivolgersi a specialisti nel settore psicologico per intraprendere un percorso psicoterapeutico in grado di ripristinare il benessere soggettivo percepito.

 

Dall’adolescenza all’età adulta: la difficile gestione delle emozioni – Video e report dal webinar organizzato dal CIP Modena

L’evento organizzato dal CIP Modena ha approfondito il tema del delicato passaggio dall’adolescenza all’età adulta soffermandosi sulla difficile gestione delle emozioni.

 

Con il termine adolescenza si intende la fase dello sviluppo che inizia verso i 14 anni e di cui non si riesce a stabilire una fine certa poiché il passaggio all’età adulta può variare notevolmente da un punto di vista temporale.

Il periodo che precede l’adolescenza, invece, viene definito preadolescenza e riguarda la fascia d’età che va dagli 11 ai 13 anni. L’adolescenza è caratterizzata da immaturità e consiste in un periodo di grandi cambiamenti, sia ormonali sia emotivi, che rendono l’adolescente allo stesso tempo vittima ed eroe di tali sconvolgimenti.

Questa fase di sviluppo si suddivide in 3 stadi: la prima adolescenza ha inizio uno o due anni dopo la pubertà ed è caratterizzata da un’imprevedibilità emozionale (scatti d’ira, aggressività, emozioni violente) che si può manifestare solamente all’interno del contesto familiare o estendersi anche all’esterno; durante l’adolescenza media (15-16 anni) si acquisisce il controllo delle emozioni, si sviluppa uno stile di pensiero più raffinato e si assiste a una completa dedizione al gruppo d’appartenenza, con la conseguente messa in secondo piano dei genitori; infine, nella tarda adolescenza (18-20 anni) si forma l’identità (motivo per il quale è possibile diagnosticare disturbi della personalità a partire dai 18 anni) e il ragazzo si trova a dover affrontare scelte professionali importanti.

Durante l’incontro organizzato dal CIP Modena, la Dott.ssa Giannotti ha analizzato più nel dettaglio questi stadi e, ponendoli a confronto, è possibile notare che nella prima adolescenza i cambiamenti corporei sono sconvolgenti e lo sviluppo sessuale è molto rapido mentre nelle fasi successive l’accrescimento corporeo rallenta e si consolidano le esperienze sessuali. Tuttavia è importante segnalare che attraverso il corpo passa la sensazione di sentirsi accettato dai pari e che in questo periodo si assiste a una crisi dell’identità sessuale in cui ci si interroga sul proprio orientamento. Inoltre, durante la prima adolescenza il ragazzo si trova in una situazione di ambivalenza in cui vorrebbe distaccarsi e chiedere maggiore indipendenza dai genitori ma allo stesso tempo ha bisogno di una dipendenza affettiva; nella media adolescenza la necessità di libertà prevale mentre in tarda adolescenza riemergono le competenze che i genitori hanno insegnato loro e i ragazzi diventano autosufficienti.

Per quanto riguarda la relazione con i coetanei, si osserva il bisogno di sentirsi parte di un gruppo, che viene raggiunto imitando gli altri e che causa preoccupazione nei genitori. Nelle prime fasi il ragazzo tenta di assumere ruoli differenti, spesso inadatti e contraddittori, mentre in tarda adolescenza si forma e consolida un’identità sicura. Relativamente all’autocontrollo emozionale, durante la prima adolescenza viene questo visto come una limitazione, per cui il ragazzo sperimenta l’espressione delle sue emozioni (ad esempio con esplosioni di rabbia o risate molto marcate); nella media adolescenza, invece, l’autocontrollo viene riconosciuto come importante, ma risulta difficile da applicare poiché le emozioni sono percepite come molto intense, finché non si arriva alla tarda adolescenza, momento in cui viene raggiunto tale autocontrollo.

In sintesi, l’adolescenza è la fase evolutiva più delicata dell’arco della vita, finalizzata alla conquista dell’autonomia e dell’indipendenza attraverso il superamento di compiti evolutivi fase-specifici: in particolare, la costruzione di una propria identità separata da quella dei genitori e dei pari, l’inserimento in un gruppo di coetanei, la costruzione di un proprio ruolo sessuale, lo sviluppo di un’identità sociale e l’avvio di relazioni sentimentali stabili. Tenendo in considerazione che la trasgressione fa parte del compito di autonomia dell’adolescente e, conseguentemente, che il conflitto è indispensabile, è importante sottolineare come lo stile genitoriale e l’attaccamento determinano percorsi di sviluppo diversi. Infatti, uno stile educativo democratico e autorevole favorisce l’indipendenza tramite la contrattazione di regole con il figlio, mentre uno stile autoritario e autocratico in cui le regole sono imposte dal genitore produce risentimento e poca abilità di autonomia nel figlio. Dal lato opposto uno stile egualitario e permissivo in cui non vengono definite regole causa incertezza sui ruoli ed evitamento delle responsabilità da parte del figlio.

 

DALL’ADOLESCENZA ALL’ETA’ ADULTA:
LA DIFFICILE GESTIONE DELLE EMOZIONI
Guarda il video integrale del webinar:

 

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Stress e depressione gestazionale influenzerebbero lo stato fisico e psichico del nascituro

La letteratura indica che le condizioni psichiche delle donne durante la gravidanza possono influire sulla comparsa di quadri patologici, sia fisici che psichici, del nascituro.

 

Molti studi hanno indagato gli effetti che possono avere lo stress e la depressione durante la gestazione sullo stato di salute dei futuri bambini.

Negli ultimi trent’anni la messa a punto di nuove tecnologie ha incrementato l’interesse scientifico per lo studio della vita fetale. Analizzando la letteratura si trovano ricerche di due diverse tipologie: quelle a carattere biologico, che hanno come oggetto lo sviluppo embrio-fetale in un’ottica organica e con finalità preventivo-sanitarie (Branconi, 1992; Catizone, Ianniruberto, 1989; Pescetto, De Cecco, Pecorari, Ragno, 1989) e quelle che riguardano le teorie psicologiche, che hanno cercato di spiegare la continuità della vita psichica prima e dopo la nascita poiché il bambino, anche prima della nascita, oltre ad essere una realtà fisica è una realtà psicologica (Piontelli, 1987; Pasini, Beguin, Bydlowski, Papiernik, 1989; Della Vedova, Imbasciati, 1998; Righetti, 2000)

Sono numerosi gli studi condotti sui feti che utilizzano l’ecografia, la cardiotocografia e la fetoscopia. Di particolare interesse sono le ricerche che dimostrano come gli stati emotivi della madre si trasmettono al feto e come possono condizionarne lo sviluppo sia fisico che psichico oltre ad incidere sulle complicanze ostetriche (Ianniruberto, Iaccarino, Tajani, 1978; Ianniruberto, Tajani, 1980; Rossi, Avveduti, Rizzo, Lorusso, 1989).

Lo stress materno, se troppo intenso e prolungato, può provocare alterazioni funzionali fetali. Alcuni studi dimostrano che l’iperproduzione di cortisolo durante la gestazione, che si verifica per situazioni stressanti o percepite come tali, si  associa a malattie respiratorie e digestive dei bambini fino all’età di tre anni (Zijlmans et al., 2017). Inoltre, gli alti livelli di cortisolo materno, prodotto a causa dello stress in gravidanza, condizionano la regolazione precoce allo stress determinando, ad esempio, una marcata reattività comportamentale nel  nascituro (Nazzari et al., 2018).

Recenti studi hanno dimostrato che la depressione materna prenatale influenza il temperamento infantile e condiziona la regolazione delle emozioni. Per dimostrare gli effetti dell’esposizione in utero alla depressione materna, nel 2019 è stata condotta una ricerca su donne in gestazione, affette da depressione comparsa in seguito alla supertempesta Sandy, l’uragano che ha colpito la città di New York nel 2012. Lo studio dimostra come l’alterazione del tono dell’umore della madre, durante la gravidanza, influisca sul temperamento infantile e determini livelli più elevati di stress e di paura nel bambino oltre ad una ridotta reattività alle cadute, una minore tendenza a sorridere ed un’inclinazione alla tristezza (Nomura et al., 2019).

Non è infrequente che le donne possano iniziare, sin dal principio della gestazione, a sperimentare sentimenti depressivi e una generale percezione di inadeguatezza. La depressione colpisce circa il 15% delle donne in stato di gravidanza e può determinare la comparsa di difficoltà cognitive, comportamentali ed emotive nei figli (Pearson et al., 2018).

Un gruppo di ricercatori canadesi ha analizzato i dati dello studio All Our Families (AOF), uno studio di coorte di gravidanza, progettato per indagare le relazioni tra il periodo prenatale e la prima infanzia e gli esiti per bambini e madri. La ricerca ha evidenziato che esiste un legame tra i sintomi depressivi della madre, comparsi sia durante la gravidanza che nel primo anno dopo il parto, e la percentuale di disturbi del comportamento internalizzanti (sintomi emotivi / ansiosi e sintomi di ansia da separazione) ed esternalizzanti (iperattività / disattenzione, aggressività fisica) dei bambini all’età di tre anni. La percentuale di entrambi i tipi di disturbi è risultata più elevata nei bambini la cui madre presentava sintomi depressivi più gravi, sia nel periodo prenatale che nell’anno successivo al parto  (Kingston et al., 2018).

Anche la Nakov nel suo scritto La sintonizzazione patologica ritiene che oltre ai rapporti precoci neonatali anche quelli materno-fetali possono influire sulla comparsa di quadri patologici nel nascituro (Nakov A. 1992). La comprensione degli esiti del disagio psicologico materno prenatale sullo sviluppo infantile è fondamentale per la messa a punto di strategie di prevenzione e di intervento precoce.

 

Studenti con DSA. Programmazione e didattica inclusiva evidence based – Report dall’evento

Report dell’evento online Studenti con DSA. Programmazione e didattica inclusiva evidence based organizzato da Erickson in collaborazione con l’Associazione Italiana Dislessia.

 

In Italia si stima che circa il 3-5% degli studenti sia affetto da DSA, se non addirittura una percentuale superiore al 5%. Quali sforzi sono stati fatti fino ad ora per aggiornare i metodi di insegnamento nelle scuole così da rendere la didattica realmente inclusiva? E quale impatto sta avendo in questo periodo la didattica a distanza (DAD) sull’apprendimento degli studenti con DSA? Questi sono alcuni dei temi affrontati durante l’evento STUDENTI CON DSA organizzato da Erickson in collaborazione con l’Associazione Italiana Dislessia il 12 dicembre 2020. Una giornata ricca di spunti di riflessione e consigli utili per chiunque si occupi di scuola e apprendimento: dagli insegnanti agli educatori, dai tutor agli psicologi.

Il primo intervento, a cura di Flavio Fogarolo, ripercorre il dedalo di leggi, decreti legislativi, circolari e normative inerenti il diritto dello studente a una didattica personalizzata. Se con il DPR 275/1999, che disciplinava l’autonomia scolastica, si sanciva la possibilità per le scuole di attivare percorsi didattici individualizzati, con i successivi provvedimenti si è arrivati a tutelare gli studenti con certificazione DSA o disabilità, trascurando di fatto tutti quelli con bisogni educativi speciali (BES) e non. Un passo indietro rispetto a quanto affermato più di vent’anni fa dal DPR 275/1999, che riconosceva invece a tutti gli studenti la possibilità di un percorso di apprendimento personalizzato: una scuola a misura del singolo alunno, il quale dovrebbe essere protagonista del proprio apprendimento; una scuola che non dovrebbe porsi come obiettivo principale di valutare le conoscenze, ma far sì che tutti gli studenti imparino a imparare.

Inoltre la scuola non è mero studio, è anche motivazione, emotività e relazioni sociali, tutti aspetti che non possono e non devono essere ignorati. Di fronte a studenti con difficoltà nell’apprendimento il successo formativo vero è rappresentato dal raggiungimento dell’autonomia nello studio e passa per la realizzazione di una didattica realmente inclusiva e che tenga conto degli aspetti sopra citati. A tal proposito, davvero molto interessante l’intervento del docente Filippo Barbera, che ha raccontato la sua esperienza quotidiana a scuola, i metodi di insegnamento adottati e il costante lavoro svolto per promuovere un metodo di studio efficace, ricordandoci che “la didattica adatta per DSA è funzionale a tutti gli studenti della classe”. Quindi perché non adottarla di prassi?

Diventa pertanto fondamentale elaborare strategie differenti per facilitare l’accesso alla comprensione di bambini/e e ragazzi/e. Ciò significa, specifica l’insegnante Daniela Di Donato, adattare i materiali di apprendimento in base ai diversi livelli di difficoltà e a seconda degli interessi di chi si ha di fronte, utilizzando in aggiunta strumenti e tecnologie innovative (come, per esempio, gli educational role-playing game tipo Classcraft).

Anche la valutazione dell’apprendimento non può restare ancorata a una visione della didattica ormai sorpassata, ma da cui in Italia ancora si fatica ad affrancarsi; se ne discute con Luciana Ventriglia, il cui intervento evidenzia come, oggi più che mai, un approccio all’insegnamento così datato mostri tutti i suoi limiti proprio nella DAD: tra ragazzi costretti a sostenere interrogazioni da bendati in stile Guantanamo, compiti in classe sotto l’occhio vigile del Grande Fratello (3 webcam attive: una a inquadrare la parete di fronte, una la mano che scrive e una il volto), verifiche fortemente ansiogene a tempo da svolgere in velocità (deleterie per chi ha un DSA), alcuni docenti sembrano preoccuparsi soprattutto di evitare scopiazzature e di valutare i contenuti appresi. Sarebbe invece più opportuno valutare le competenze acquisite dagli alunni, anziché le conoscenze, e puntare maggiormente sugli ambienti di apprendimento per superare l’apprendimento meccanico, ripetitivo e mnemonico a favore della vera comprensione, dell’utilizzo e della produzione di conoscenza.

Sicuramente la pandemia e i conseguenti lockdown stanno costringendo la scuola a ripensare alle modalità di insegnamento adottate, laddove alla didattica in presenza va ora a integrarsi (non a sostituirsi!) la didattica a distanza. Questa potrebbe davvero essere l’occasione per una vera e propria rivoluzione didattica all’insegna della promozione dell’equità formativa e della inclusività. Le istituzioni e gli insegnanti saranno in grado di raccogliere la sfida?

 

Programma evento

Sessione plenaria – Dalle 10.00 alle 13.00

  • 10.00-10.15: Apertura e coordinamento della sessione – Francesco Zambotti (Erickson, Trento)
  • 10.15-10.45: Quadro normativo e PDP – Flavio Fogarolo (Formatore, Associazione Lettura Agevolata onlus, Vicenza)
  • 10.45-11.15: Suggerimenti e strategie didattiche da un insegnante con DSA per studenti con DSA – Filippo Barbera (Istituto Comprensivo Vicenza N.8)
  • 11.15-11.30: Pausa
  • 11.30-12.00: Facilitare l’accesso alla comprensione: adattare i materiali di apprendimento – Daniela Di Donato (Docente specializzata in didattica inclusiva, formatrice scuola AID)
  • 12.00-12.30: Dalla valutazione formativa alla valutazione autentica – Luciana Ventriglia (Formatrice scuola AID, Associazione Italiana Dislessia)
  • 12.30-13.00: Spazio domande partecipanti

Tavola rotonda a cura dell’Associazione Italiana Dislessia – Dalle 14.30 alle 16.30

  • Didattica inclusiva per una scuola accessibile a tutti – A cura di Paolino Gianturco (Dirigente scolastico e membro scuola del Consiglio Direttivo AID), Maria Rita Salvi (Dirigente scolastico e membro del comitato tecnico scientifico di AID), Cristina Fabbri (Docente e formatrice scuola AID) e Maria Enrica Bianchi (Docente e formatrice scuola AID)

Plenaria finale – Dalle 16.45 alle 17.00

  • Conclusioni: Francesco Zambotti (Erickson, Trento)

Realizzati e consapevoli. Allenamenti mindfulness per trasformare il tuo lavoro e la tua vita – Recensione

Nel libro Realizzati e consapevoli gli autori consigliano quali semi coltivare per il cambiamento e come prendersene cura.

 

E’ questo il momento di tornare a fare le stesse cose o è forse il momento di farle in modo diverso, ispirandosi a un cambiamento?

Questa domanda risuona più che attuale e calata nel nostro tempo. Il libro Realizzati e consapevoli è stato ultimato proprio in piena emergenza sanitaria, lo scorso marzo.

Gli autori si chiesero se fosse il momento opportuno per l’uscita di un libro sull’applicazione della Mindfulness al contesto lavorativo. Io rispondo senza dubbio di sì perché ora è necessario generare trasformazioni ripartendo dalla consapevolezza di ciò che esiste oggi per generare un cambiamento per il domani.

Il libro, come indicano gli autori: ‘Non ha la pretesa di migliorarti ma questo è il momento per cui questo libro è nato. Per un mondo del lavoro più incerto, è possibile una rivoluzione gentile‘. Anche la storia ci insegna che non c’è cambiamento senza rivoluzione, in altre parole qualcosa capace di rompere schemi e cambiare gli sguardi ma non è detto che la rivoluzione non possa essere gentile.

La disponibilità al cambiamento è il terreno, ma occorrono semi da piantare e coltivare con cura.

Gli autori consigliano quali semi coltivare e come prendersene cura, io ve li riassumo brevemente.

Presta attenzione!

Negli ultimi anni la nostra attenzione è stata posta sotto sequestro da migliaia d’input che arrivano rapidamente al nostro cervello e che ci seducono promettendoci cose. Social e applicazioni gratuite ma che in realtà ci rubano tempo e ci fanno lavorare gratuitamente per i loro scopi. ‘Se prima si passava da un dispositivo all’altro ogni tre minuti, adesso avviene ogni 40 secondi; vuole dire che la nostra attenzione ogni 40 secondi deve riprendere il focus’.

Il multitasking non è un vantaggio per il nostro cervello e crea dipendenza.

Le neuroscienze indicano, infatti, che possiamo dedicare attenzione sostenuta solo facendo una cosa alla volta.

Nel libro si propone di coltivare il seme dell’attenzione con diverse pratiche, esercizi utilissimi e soprattutto fattibili.

Sii gentile

Quanti luoghi comuni ancora sulla gentilezza? Segno di debolezza, fragilità che ti porta a essere alla mercé di altri? Gentile è da perdenti?

‘Amabilità, garbo, cortesia nel trattare con altri’ si legge nella Treccani alla voce gentile. Un animo gentile ascolta con garbo e senza giudizio, e prima di tutto sa che essere gentili con se stessi significa osservarsi e ascoltarsi avendo cura di ciò che notiamo e senza porre riflettori su limiti o fragilità.

Un consiglio, se leggendo queste prime righe della mia recensione ti sei distratto, accogli con gentilezza il pensiero, la distrazione e riporta la tua attenzione consapevole al prossimo passo.

Esprimi la creatività

La creatività non riguarda persone speciali, artisti e inventori ma bensì riguarda tutti e ognuno di noi può imparare a esprimerla. ‘Si può essere creativi anche nei gesti quotidiani, nei piccoli cambiamenti interiori ed esteriori che decidiamo di praticare con coraggio‘.

Con queste parole gli autori preparano il lettore a praticare la creatività, a sperimentare uno sguardo diverso di vedere le cose, a provare a fare le cose in modo diverso, per generare un cambiamento. Seguite gli esercizi del libro per scoprire che questo è possibile.

Sperimenta la connessione

Le tecnologie digitali ci permettono una connessione costante e ovunque, ma con chi? Con altri esseri umani, abbiamo bisogno di essere connessi ad altri esseri umani e di certo la pandemia e il conseguente lockdown ci ha fatto percepire questo bisogno. ‘Abbiamo bisogno di definirci attraverso lo sguardo dell’altro, il volto dell’altro. (…) Abbiamo bisogno di essere visti, ascoltati, valorizzati, riconosciuti’. Gli autori ci invitano quindi a scoprire come approfondire le relazioni e a coltivare il seme della connessione.

Allena e manifesta l’intenzione

Bene, ora che gli autori ci hanno invitato a conoscere, piantare e seminare il seme dell’attenzione, della gentilezza, della creatività e della connessione… ora proprio ora! Anzi qui e ora manifestiamo e realizziamo le nostre intenzioni.

Sentire e comprendere le proprie intenzioni, richiede allenamento e pratica. E in questo capitolo troverete i passi e gli esercizi per essere finalmente realizzati e consapevoli!

Termino questa mia breve recensione scegliendo una delle diverse poesie contenute nel testo e opportunamente scelte dagli autori per porre l’accento sui passi del percorso. A proposito questo percorso inizia ora! Qui e ora!

Non sei un essere che deve cambiare,
Sei un essere in continua trasformazione.
Puoi assecondare quella trasformazione,
Vedere dove ti porterà. Sarai più rilassato, sarai in ascolto.
Sarai più gentile con te stesso.

 

Sintomi psichiatrici, stress ed esperienze traumatiche sono implicate nella sindrome dell’intestino irritabile?

La sindrome dell’intestino irritabile (Irritable bowel syndrome; IBS), colpisce dal 5 al 30% della popolazione mondiale (Enck et al., 2016) e consiste in un disturbo funzionale del tratto gastrointestinale che si manifesta con dolore addominale ed alterazione dell’intestino (Longstreth et al., 2006).

 

La sua diagnosi, non basandosi su metodi definitivi o biomarcatori, avviene esclusivamente mediante raccolta anamnestica condotta sul paziente. Gli unici criteri diagnostici oggettivi e riconosciuti ad oggi, sono quelli stabiliti da Roma III, che rimandano alla manifestazione sintomatologica di dolore o fastidio nel tratto addominale (Gwee, 2007).

L’eziologia della sindrome dell’intestino irritabile, probabilmente multifattoriale, coinvolge aspetti di disagio psicologico tra cui disturbi dell’umore, ansia e disturbi somatoformi (Mykletun et al., 2010; Roy-Byrne et al., 2008). Sebbene non emergano prove oggettive a supporto della relazione causale tra sindrome dell’intestino irritabile e psicopatologia, quest’ultima aggrava la condizione sintomatologica dell’intestino, generando ulteriori complicanze come ipocondria, disturbi di somatizzazione e dissociazione (Salmon et al., 2003; Wilhelmsen, 2000).

La gravità dei sintomi della sindrome dell’intestino irritabile aumenta se in passato l’individuo ha vissuto una condizione di stress, subito un trauma o è stato abusato cronicamente (Kanuri et al., 2016; Leserman & Drossman, 2007). Una storia di abuso fisico o sessuale viene riportata di frequente da questi pazienti e contribuisce alla persistenza della sintomatologia.

L’indagine di Torun et al. (2020) si è occupata di valutare i sintomi psichiatrici, tra cui ansia e depressione, in 54 pazienti con sindrome dell’intestino irritabile; indagando il ruolo degli eventi traumatici passati (fisici o psicologici) nella predisposizione della malattia somatica.

Confrontando i pazienti aventi sindrome dell’intestino irritabile con un gruppo di controllo senza alcuna patologia fisica, emergono per i primi, punteggi più alti sulle scale del Symptom Checklist-90-R (SCL-90R; Derogatis, 1977), volto a valutare la sintomatologia psichiatrica. Nel dettaglio, in accordo con la letteratura precedente, riportavano maggiori livelli di somatizzazione, tratti ossessivo-compulsivi, e ostilità nella condizione emotiva di rabbia (Sykes et al., 2003; Whitehead et al., 2002). Tra loro, la tendenza a somatizzare, può aumentare l’impiego dei servizi sanitari e diminuire la risposta al trattamento oltre che l’aderenza allo stesso, con conseguente incremento degli effetti avversi sintomatologici.

Rispetto alle valutazioni dell’ansia effettuate mediante State-Trait Anxiety Inventory (STAI; Spielberger, 2010), emerge che mentre l’ansia di tratto (caratteristica relativamente stabile della personalità) era maggiore tra i pazienti con sindrome dell’intestino irritabile, l’ansia di stato (sensazione soggettiva di tensione e reattività dovuta alla rottura dell’equilibrio emotivo) era significativamente più alta nel gruppo di controllo. Quest’ultimo risultato, è stato ricondotto alla condizione dei partecipanti che sebbene senza patologia, si trovavano in ospedale e dunque in una condizione potenzialmente stressante.

La presenza di ansia tra coloro con sindrome dell’intestino irritabile è coerente con studi precedenti che riportavano, oltre a questa, maggiori livelli di depressione e somatizzazione (Palsson & Drossman, 2005; Sykes et al., 2003; Whitehead et al., 2002). Anche coloro che con l’insorgenza della malattia non sviluppano una psicopatologia, tenderanno a manifestarla al follow-up dopo diversi anni (Koloski et al., 2012). Secondo la letteratura, i disturbi d’ansia, in comorbilità con la sindrome dell’intestino irritabile nel 30-50% dei casi, svolgono un ruolo rilevante nella patogenesi e nella cronicità dei sintomi gastro-intestinali, stimolando eccessivamente il sistema nervoso autonomo (Agosti et al., 2002).

Coloro con sindrome dell’intestino irritabile ed una storia di abuso fisico alle spalle, avevano punteggi significativamente maggiori sugli indici psicopatologici valutati mediante l’SCL-90-R (somatizzazione, tratti ossessivo-compulsivi, ostilità, sensibilità interpersonale, depressione, ansia, ansia fobica, ideazione paranoide e psicoticismo).

Rispetto all’ansia, l’aver subito un trauma precedente può aver abbassato la soglia di comparsa dei sintomi ansiosi, rendendo l’individuo più vulnerabile.

Gli eventi quotidiani stressanti sono quantitativamente maggiori nell’arco della vita tra coloro con sindrome dell’intestino irritabile (Bradford et al., 2012); punizioni fisiche, abusi emotivi e sessuali esacerbano la sintomatologia intestinale, determinando un uso più frequente dei servizi sanitari (Lackner & Gurtman, 2004; Sperber et al., 2012). Inoltre, ad aggravare la loro condizione, questi soggetti possiedono funzioni gastro-intestinali più sensibili allo stress (Brandt et al., 2008).

L’indagine di Torun et al. (2020), ha riportato punteggi maggiori sugli indici psicopatologici anche tra i pazienti con sindrome dell’intestino irritabile e una storia familiare di malattia psichiatrica tra i parenti di primo grado. Secondo la letteratura, è più comune l’incidenza di disturbi psichiatrici tra i parenti di pazienti con sindrome dell’intestino irritabile rispetto a quelli di pazienti sottoposti a colecistectomia (Woodman CL, Breen K, Noyes R, Moss C, Fagerholm R, Yagla SJ, 1998). Oltre ad una maggiore incidenza del disagio psicologico, la letteratura riporta come tra i parenti di primo grado sia presente spesso una storia di abuso di alcol (Knight et al., 2015).

La presente ricerca ha rilevato come il disagio psicologico, oltre ad essere un importante fattore di rischio implicato nello sviluppo, nella persistenza ed esacerbazione dei disturbi funzionali intestinali, può influenzarne notevolmente l’esito compromettendo e condizionando negativamente la relazione tra medico curante e paziente (Addolorato et al., 2008).

I pazienti che sperimentano sindrome dell’intestino irritabile necessitano di essere valutati negli aspetti psicologici che sono spesso di ostacolo alla guarigione. Perciò, si rende necessario un approccio di valutazione olistico e multidisciplinare della sindrome, grazie al quale poter migliorare la qualità della vita dei pazienti, riducendo i costi di trattamento ed il tempo necessario alla guarigione.

 

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