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L’ansia da separazione e il potere della persuasione

Le persone con disturbo d’ansia da separazione con esordio in età adulta nutrono un eccessivo disagio quando sperimentano o prevedono la separazione dalla propria casa o dalle proprie figure di attaccamento. Saranno più inclini ad esserse persuasi da pubblicità che richiamano il concetto di essere a casa?

 

Nel corso del tempo, rispetto all’ansia, i ricercatori si sono sempre concentrati sull’eziologia dei disturbi ad essa connessi, sulla diagnosi differenziale, sulla comorbilità, sulle sue conseguenze socio-emotive e sull’efficacia dei trattamenti. Gli autori di uno studio preso in esame hanno deciso, invece, di prendere in considerazione un focus differente: si sono chiesti se la sintomatologia ansiosa possa rendere gli individui particolarmente suscettibili a specifici tentativi di persuasione.

Nello specifico, gli autori si sono concentrati sul disturbo d’ansia da separazione con esordio in età adulta, una patologia caratterizzata da un’eccessiva paura di separarsi da coloro ai quali l’individuo è legato (Boelen, Reijntjes & Carleton, 2014). I soggetti affetti da questo disturbo nutrono un eccessivo disagio quando sperimentano o prevedono la separazione dalla propria casa o dalle proprie figure di attaccamento (American Psychiatric Association, 2013). Quando gli individui si trovano in uno stato ansioso, sono motivati a sopprimere questa sensazione di disagio (Battista et al., 2015) e ricercano qualsivoglia tipo di soluzione che consenta loro una via di fuga. Di conseguenza, se un soggetto affetto da agorafobia sarà portato ad evitare i luoghi pubblici, un individuo adulto con disturbo d’ansia da separazione tenterà di ridurre la distanza percepita, fisicamente o psicologicamente, da casa e dai propri cari. Gli autori hanno dunque ipotizzato che coloro che presentano sintomi correlati all’ansia da separazione, rispetto a coloro i quali non manifestano tale sintomatologia, sarebbero stati particolarmente attratti da pubblicità che richiamano il concetto di essere a casa, in quanto strettamente allineate con le loro propensioni motivazionali.

Al fine di testare le loro ipotesi, i ricercatori hanno condotto un’indagine su un campione costituito da 216 studenti universitari. Avendo ipotizzato che gli individui avrebbero mostrato reazioni differenti rispetto al tema pubblicitario, in funzione della propria sintomatologia ansiosa, è stato necessario includere nello studio partecipanti con sintomi di differente entità e gravità e dunque condurre uno studio su un campione non clinico.

Ai partecipanti è stato detto che avrebbero preso parte ad uno studio intitolato Personalità e preferenze dei consumatori e, successivamente, è stato chiesto loro di compilare il Severity Measure for Separation Anxiety Disorder-Adult (Craske, Wittchen, Stein, Andrews & Lebeu, 2013), uno strumento di autovalutazione che consente di misurare la frequenza con cui i soggetti manifestano i sintomi correlati all’ansia da separazione. In un secondo momento, gli studenti sono stati impegnati in un compito di interferenza, il cui scopo era quello di distrarre i partecipanti, prima di passare allo step successivo. È stato dunque richiesto di compilare un questionario riguardante le preferenze dei consumatori. Al termine del suddetto compito, ai partecipanti è stato chiesto di osservare attentamente la pubblicità di una compagnia aerea, il cui nome era stato adeguatamente oscurato, e di rispondere alle successive domande, selezionando le caselle che meglio rappresentano la propria opinione. Nello specifico, la pubblicità mostrava l’immagine di una giovane donna sorridente che guarda dal finestrino di un aereo. I ricercatori hanno manipolato il testo dell’annuncio al fine di creare le due condizioni sperimentali; di fatti, nel primo caso l’annuncio affermava “Tornare a casa dalla mia famiglia…la miglior sensazione del mondo”, mentre, nel secondo caso “Vedere nuovi posti…la miglior sensazione del mondo”. È bene specificare che i partecipanti sono stati assegnati in maniera casuale alle due condizioni. Successivamente è stata valutata l’opinione dei soggetti rispetto all’annuncio (MacKenzie & Lutz, 1989).

Coerentemente con quanto ipotizzato, i risultati hanno mostrato come gli individui che avevano manifestato livelli più elevati di una sintomatologia connessa all’ansia da separazione hanno mostrato atteggiamenti più favorevoli nei confronti della pubblicità caratterizzata dal tema della casa rispetto all’altra. Al contrario, gli individui che avevano mostrato livelli di ansia da separazione bassi o inesistenti, non hanno mostrato questa reattività differenziale rispetto all’annuncio contenente il tema casalingo. I risultati appena esposti potrebbero suggerire un’opportunità per i professionisti operanti nel settore marketing ma, allo stesso tempo, possono riflettere una minaccia per coloro che soffrono di un disturbo d’ansia da separazione con esordio in età adulta. Di fatti, per questi individui, essere a conoscenza delle proprie vulnerabilità rispetto a certi tipi di manipolazione potrebbe consentire loro di evitare di cadere in queste ultime (Wood & Quinn, 2003; Xu & Wyer, 2012). D’altro canto, un terapeuta che abbia in cura questa tipologia di pazienti potrebbe fornire maggiori informazioni rispetto alle suddette vulnerabilità, sia attraverso sedute individuali che attraverso interventi psicoeducativi.

 

La domanda sessuologica in psicoterapia – VIDEO

Il 19 ottobre si è tenuta la presentazione online della Scuola di Specializzazione “Psicoterapia Cognitiva e Ricerca” di Mestre. L’incontro è stato accompagnato da un webinar sulle disfunzioni sessuali e la domanda sessuologica in psicoterapia. Pubblichiamo, per i nostri lettori, il video del webinar.

 

 Le disfunzioni sessuali possono essere all’origine di diversi sintomi psicologici come ansia, depressione o stress. A volte costituiscono la domanda di psicoterapia, altre volte non vengono riconosciute come problema e sono di difficile argomentazione sia per il paziente sia per il giovane terapeuta che si trova a entrare nell’intimità del paziente.

Nel webinair sono state discusse in generale le disfunzioni sessuali ed è stato illustrato il protocollo di intervento della Terapia Mansionale Integrata fondata sulla prescrizione di mansioni a seconda del tipo di disturbo portato dal paziente, orientate alla scomparsa del sintomo e al mantenimento del risultato. L’obiettivo dell’intervento è quello di promuovere una conoscenza di sé e di sé attraverso l’altro anche in un’ottica di relazione di coppia, una maggiore conoscenza del proprio piacere e del piacere dell’altro.

 

LA DOMANDA SESSUOLOGICA IN PSICOTERAPIA – Guarda il video:

 

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Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale di Mestre - PTCR

 

La Terapia Metacognitiva (MCT) applicata al Disturbo da Stress Post traumatico

Prove preliminari da una serie di casi controllati, un trial non controllato e un trial pilota controllato e randomizzato (RCT) supportano l’efficacia potenziale della MCT nel trattamento del Disturbo da Stress Post-Traumatico (Wells & Colbear, 2012; Wells & Sembi, 2004b, Wells et al. 2008).

Elisa Petetta – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto 

 

La caratteristica essenziale del disturbo da stress post-traumatico (DPTS) è lo sviluppo di sintomi tipici che seguono l’esposizione a uno o più eventi traumatici (DSM-5, American Psychiatric Association, 2013).

L’esposizione può essere diretta o indiretta attraverso l’esser venuti a conoscenza di un evento traumatico accaduto a un familiare o amico stretto, o attraverso l’esperienza ripetuta o estrema ai dettagli crudi dell’evento. Il DSM 5 distingue essenzialmente quattro domini per quanto riguarda il ventaglio della sintomatologia esperita individuando:

  • sintomi di natura intrusiva (flashback, sogni, ricordi, immagini intrusive);
  • sintomi di evitamento (di stimoli, persone, luoghi e situazioni connessi all’evento traumatico);
  • sintomi cognitivi-affettivi (sentimenti di distacco verso gli altri, convinzioni negative su di sé, gli altri o il mondo, riduzioni di interessi o incapacità di provare emozioni positive);
  • sintomi di iperarousal e reattività (ad esempio ipervigilanza, problemi di concentrazione e memoria o difficoltà relative al sonno).

La manifestazione clinica del DPTS è molto variabile, con individui in cui può essere predominante il rivivere con paura i sintomi emotivi e comportamentali, con alcuni che mostrano preminentemente sintomi di arousal e reattività, mentre in altri possono presentarsi anche sintomi dissociativi o varie combinazioni di questi pattern sintomatologici (DSM- 5, APA, 2013).

Nel panorama attuale per il trattamento del DPST ci sono alcuni interventi di comprovata efficacia.

Robuste evidenze empiriche sottolineano l’efficacia dell’esposizione, della terapia cognitiva focalizzata sul trauma e dell’eye-movement desensitation and re-processing (EMDR), (Bisson et al., 2007; Bradley, Greene, Russ, Dutra, &Wetsern, 2005). Questi ultimi rimangono i trattamenti di eccellenza raccomandati anche dalle linee guida Nice (National Institute of Clinical Excellence, 2005). Ognuno di questi approcci utilizza l’esposizione alle memorie traumatiche come una delle componenti principali all’interno dell’intervento. L’efficacia di questi trattamenti è supportata da un gran numero di studi che mostrano equivalenti livelli di esito senza evidenziare significative superiorità tra i diversi trattamenti (Bisson et al., 2007). Il trattamento erogato attraverso la procedura EMDR in particolare si basa sull’assunto che i sintomi esperiti dai soggetti con DPST siano causati da esperienze traumatiche memorizzate in maniera non elaborata, disconnessa dalle reti di memoria esistenti (Shapiro, 2001). Durante il trattamento EMDR al paziente viene chiesto di focalizzarsi sulle immagini, sulle cognizioni negative e sulle sensazioni corporee esperite connesse al trauma, e si concentra contemporaneamente sulla stimolazione bilaterale fisica operata dal terapeuta. L’ingrediente specifico dell’EMDR è costituito da movimenti oculari orizzontali che il paziente esegue seguendo il dito indice del terapeuta che si muove rapidamente da destra verso sinistra; i movimenti oculari guidati dal terapeuta faciliterebbero il processo cognitivo scatenato dal trauma e il corretto processamento delle memorie traumatiche nei circuiti neurali.

Sebbene l’importanza dei movimenti oculari bilaterali sia stato spesso evidenziata, esiste ancora una sostanziale controversia circa la sua specificità in termini di efficacia (Devilly, Ono, & Lohr, 2014; Lee & Cuijpers, 2013).

La terapia Metacognitiva (MCT; Wells, 2009) è uno tra i più recenti approcci al trattamento del DPST. L’obiettivo della MCT è quello di rimuovere quelle specifiche barriere che si contrappongono al processo di guarigione spontanea che occorre in seguito ad un evento traumatico. Il modello metacognitivo proposto da  Adrian Wells si basa sull’assunto che i sintomi esperiti dai pazienti siano funzionali nel periodo immediatamente successivo all’evento traumatico. Sintomi come pensieri intrusivi, reattività eccessiva ed un generale incremento di arousal fanno parte di un processo interno di adattamento psicologico definito processo di adattamento riflessivo (RAP;  Wells & Sembi, 2004a). Il RAP è responsabile della modificazione di cognizione e attenzione in modalità tali da sviluppare delle routines di controllo esecutivo per supportare l’implementazione di nuove strategie di coping.

Questo processo dovrebbe procedere normalmente senza ostacoli e l’individuo riuscirebbe a venir fuori dal ciclo dell’ansia mentre la cognizione torna a essere priva di quei meccanismi orientati al processamento della minaccia. Il modello metacognitivo di Wells si basa quindi sull’assunto che la maggior parte delle persone, a seguito di un evento traumatico, possieda la capacità di riadattarsi e, successivamente, non vada incontro allo sviluppo di particolari disturbi (Wells, 2009).

Questo processo di ‘guarigione spontanea’, tuttavia, può essere ostacolato o bloccato dall’attivazione di uno specifico stile di pensiero che conduce ad estendere oltre il processamento delle informazioni connesse al trauma e/o quelle di natura minacciosa. Questo stile cognitivo disfunzionale, definito sindrome cognitiva attenzionale (CAS), consiste in un pensiero ripetitivo che può assumere la forma di rimuginio e/o di ruminazione, perpetrati dal soggetto per cercare di trovare dei significati a quanto è accaduto, prevenire danni in futuro o colmare le lacune presenti nei ricordi. La CAS è costituita anche dal ‘monitoraggio della minaccia’, un processo di scannerizzazione dell’ambiente orientato alla ricerca di pericoli potenziali e finalizzato inoltre a cercare di rilevare, evitare o sopprimere pensieri ed emozioni disturbanti e angoscianti.

I sintomi del DPTS persisterebbero perché la CAS impedisce la flessibilità individuale verso stati di elaborazione privi di minaccia. In particolare a supporto di questo stile di pensiero ci sarebbero delle credenze metacognitive di natura positiva e negativa. Alcune meta credenze positive (ad es. ‘Analizzare i miei errori mi aiuterà a prevenire pericoli futuri’) supportano alcuni processi della CAS come il rimuginio, la ruminazione, il tentativo di colmare le lacune presenti nei ricordi e il monitoraggio della minaccia. Le meta credenze negative concernono l’incontrollabilità di alcuni processi di pensiero e il significato attribuito agli eventi cognitivi ( ad es. ‘Se continuo a pensare in questo modo potrei impazzire’), le quali contribuiscono alla percezione presente e futura della minaccia.

Il modello meta cognitivo applicato al DPTS suggerisce che il trattamento dovrebbe avere come obiettivo la destrutturazione della CAS (rimuginio, ruminazione e il monitoraggio della minaccia) e le meta credenze cognitive che sono a supporto di questi processi piuttosto che focalizzarsi sui contenuti delle memorie traumatiche o sull’utilizzo dell’esposizione prolungata col fine di rivivere gli episodi traumatici.

La MCT non impiega l’esposizione ai ricordi traumatici o la manipolazione delle immagini connesse al trauma né ha come obiettivo quello di disputare e ristrutturare i pensieri connessi all’evento. La MCT aiuta i pazienti a rispondere ai pensieri o alle immagini intrusive che sperimentano in una maniera diversa, la quale limita l’estensione dei processi di pensiero collegati all’evento traumatico, riducendo il rimuginio e la ruminazione connessi e rimovendo il monitoraggio della minaccia e le altre strategie di coping disfunzionali come gli evitamenti o la soppressione del pensiero.

L’efficacia della MCT per il DPTS è stata esaminata in diversi studi.

Prove preliminari da una serie di casi controllati, un trial non controllato e un trial pilota controllato e randomizzato (RCT) supportano l’efficacia potenziale della MCT nel trattamento del DPTS (Wells & Colbear, 2012; Wells & Sembi, 2004b, Wells et al. 2008).

Wells e Sembi (2004b) hanno trattato in maniera consecutiva sei pazienti con diagnosi di DPTS in base ai criteri richiesti dal DSM-IV, tramite uno studio a disegno A-B su casi singoli. I pazienti della ricerca erano tutti stati esposti a crimini volenti o sessuali e avevano sofferto del disturbo per un periodo oscillante tra i 3 e i 10 mesi. In tutti i soggetti dello studio è stata evidenziata un’ampia riduzione dei sintomi da stress post-traumatico, della depressione e dell’ansia. Attraverso la somministrazione dell’Impact of Events Scale (IES; Horowitz, Wilner, & Alvarez, 1979 ) si è potuto rilevare un livello medio di miglioramento dell’83% mentre quello documentato tramite il Penn Inventory (Hammarberg, 1992) è stato del 69%. Rivalutati poi con dei follow-up a 3 e a 6 mesi di distanza, e anche considerando un arco di tempo più esteso, nessun soggetto è risultato più affetto dal disturbo.

Wells et al. in un open trial del 2008 hanno voluto indagare l’efficacia della terapia metacognitiva per il DPTS cronico. Hanno somministrato il trattamento (con una media di 8,5 sedute) a 12 pazienti che manifestavano il disturbo da un lasso temporale compreso tra i 6 e i 39 mesi riscontrando dei miglioramenti statisticamente significativi nei sintomi da stress post-traumatico, nell’ansia e nella depressione. Ad un follow-up a sei mesi l’89% dei soggetti è risultato molto migliorato o guarito, secondo i punteggi ottenuti dalla IES.

In uno studio randomizzato Wells & Colbear (2012) hanno inserito casualmente i pazienti oggetto della ricerca in lista d’attesa o nel protocollo del trattamento. I soggetti della prima condizione hanno mostrato un miglioramento pressoché nullo mentre il gruppo che aveva ricevuto il trattamento (8 sessioni) aveva ottenuto punteggi più bassi a tutte le misurazioni con una riduzione statisticamente significativa della sintomatologia post-traumatica, della depressione e dell’ansia. In base ai punteggi ottenuti alla IES, l’80% dei soggetti trattati con il protocollo è risultato andare incontro a guarigione e il 10% a un significativo miglioramento, mentre nella condizione di controllo solo il 10% dei pazienti è risultato migliorato e nessuno è guarito. Inoltre, tassi di guarigione dal 60 all’80% sono stati ottenuti al follow-up di 6 mesi in base ai punteggi ottenuti attraverso la Postraumatic Stress Diagnostic Scale (PDS; Foa, 1995) e l’Impact of Events Scale (IES). Gli autori hanno evidenziato anche la buona tollerabilità al trattamento con solo il 10% di dropout. Questo studio dimostra l’efficacia della MCT confermando i tassi di recovery documentati precedentemente (Wells & Sembi, 2004b).

L’efficacia  della terapia Metacognitiva è stata recentemente testata anche attraverso la comparazione con altri trattamenti.

Wells, Walton, Lovell e  Proctor nel 2015 hanno condotto un trial parallelo controllato confrontando la MCT con l’esposizione prolungata (PE). I soggetti dello studio erano 32 pazienti con diagnosi di DPTS cronico. I partecipanti sono stati assegnati a 8 sessioni di terapia (MCT o PE) o a una condizione di lista di attesa di 8 settimane. Entrambi i trattamenti sono risultati efficaci laddove comparati con il gruppo in lista d’attesa, con una riduzione statisticamente significativa della sintomatologia post-traumatica, dell’ansia e della depressione. I tassi di guarigione sono risultati essere elevati in entrambi i gruppi che hanno ricevuto il trattamento, tuttavia i miglioramenti nel gruppo MCT sono stati più rapidi. Al post-trattamento la MCT è risultata superiore rispetto alla PE per quanto riguarda la riduzione sintomatologica (misurata attraverso la IES e la Post-traumatic Stress Diagnostic Scale – PDS) e superiore alla condizione lista d’attesa per quanto riguarda le misure oggettive di iper arousal rilevate attraverso la frequenza cardiaca dei soggetti.

Nel protocollo di studio per un trial parallelo randomizzato di superiorità di Nordahl, Halvorsen, Hjemdal, Ternava e Wells (2018) si sta confrontando per la prima volta l’efficacia della MCT con l’EMDR. Lo scopo principale di questo studio, sottolineano gli autori, è quello di testare l’efficacia di un trattamento, la MCT, che, contrariamente all’EMDR, non prevede l’esposizione come ingrediente specifico, sulla scia dei risultati ottenuti nello studio precedentemente citato (Wells et al., 2015) che la metteva a confronto con la PE.

Il non includere né l’esposizione né il rivivere le memorie traumatiche potrebbe essere un fattore vantaggioso, secondo gli autori, nel ridurre le avversità al trattamento, sia da parte dei terapeuti che dei pazienti.

Nel protocollo di studio verranno inclusi 100 pazienti con una diagnosi primaria di DPTS cronico i quali saranno assegnati a due condizioni, ricevendo 12 sessioni di uno dei due trattamenti. L’outcome primario sarà la gravità dei sintomi post traumatici misurata attraverso la Posttraumatic Diagnostic Scale (PDS) misurata al post trattamento (dopo 3 mesi). Gli outcomes secondari includono gravità dei sintomi trauma correlati (sempre valutati attraverso la scala PDS), i livelli di ansia e depressione e la valutazione delle credenze metacognitive misurate a follow up di 3 e 12 mesi. I risultati dello studio ci forniranno dati importanti sulla comparazione di efficacia della terapia metacognitiva confrontata con l’EMDR e la stabilità dei risultati nel tempo.

 

L’ efficacia dell’Acceptance and Commitment Therapy (ACT) in pazienti oncologici con diagnosi prevalente di carcinoma mammario

Di seguito vengono analizzati i risultati di efficacia emersi da una review sistematica sull’utilizzo di un protocollo di Acceptance and Commitment Therapy (ACT) in adulti sopravvissuti al cancro.

 

Si stima che nel 2020 saranno 377 mila le nuove diagnosi di cancro nel nostro Paese, di cui 195 mila negli uomini e 182 mila nelle donne. Lo riferisce il rapporto I numeri del cancro in Italia 2020, presentato l’8 ottobre all’Istituto Superiore di Sanità (ISS). Un numero assoluto in aumento, a causa dell’invecchiamento della popolazione italiana.

Un altro dato importante è quello relativo alla riduzione dei tassi di mortalità stimati per il 2020 rispetto al 2015: sono in diminuzione sia negli uomini (-6%) che nelle donne (-4,2%), legati ai progressi ottenuti in ambito diagnostico-terapeutico. Continuano quindi ad aumentare i prevalenti, cioè le persone che vivono dopo aver avuto una diagnosi di tumore.

Tali dati, se da un lato indicano un miglioramento in campo diagnostico, terapeutico e di prevenzione (primaria e secondaria), dall’altro spostano l’attenzione sulla necessità di gestire una maggior richiesta di supporto dopo la diagnosi e durante e dopo il trattamento oncologico. La diagnosi oncologica e le sue conseguenze, possono avere un forte impatto negativo sulla vita dei malati e delle loro famiglie. Lo sviluppo di sintomi depressivi ed ansia, a seguito di una diagnosi oncologica, correla con un decorso peggiore della malattia (J.R. Satin, W. Linden, M.J. Phillips, 2009; Y.H. Wang et all. 2019).

Gli studi in letteratura sul carcinoma mammario, evidenziano come tale diagnosi si associ a disabilità fisiche, sociali e psicologiche, così come a problemi di adattamento, difficoltà interpersonali e sintomi depressivi o ansiosi (Nasser M. et all., 2007). E’ stato osservato che fattori di stress emotivi e psicologici, incrementano l’esperienza di dolore nelle pazienti e riducono complessivamente la performance sociale, rappresentando un fattore di rischio per lo sviluppo di ideazione e comportamenti suicidari (Zabora et all., 2001). A conclusione del trattamento oncologico primario (chemioterapia e/o radioterapia), un altro importante fattore da considerare è l’impatto della paura di una recidiva (Fear of Cancer Recurrence – FCR), che compare all’incirca nel 70% delle pazienti, con conseguenze importanti nel lungo periodo (Thewes et al., 2014; Thewes et al., 2012). In quasi la metà dei lungo-sopravviventi, pensieri intrusivi sulla malattia e sul trattamento (pensieri, immagini e memorie indesiderate) si sono verificati a distanza di anni dalla conclusione della terapia (Bleiker et al., 2000). In ultimo, fatigue e problemi del sonno, sono sintomi clinicamente significativi in circa il 60% delle pazienti, con una conseguente riduzione della qualità di vita (QoL) (Rosedal M., 2009).

Alla luce di tali premesse, gli interventi basati sulla Mindfulness (MBI Mindfulness-Based Interventions) hanno dimostrato la loro efficacia nel fornire utili strategie di coping con conseguente riduzione di ansia, stress, fatigue, problemi del sonno, miglioramento del tono dell’umore ed incremento generale della qualità di vita (QoL) (Bartley, 2011).

Jon Kabat Zinn, pioniere dell’applicazione terapeutica della Mindfulness, la definisce come “un processo di consapevolezza che emerge prestando intenzionalmente attenzione al momento presente, attraverso un’osservazione non giudicante, al dispiegarsi dell’esperienza, momento per momento’’ (Kabat Zinn, 2003). Si tratta, quindi, di un processo psicologico fondamentale, che può modificare il modo in cui rispondiamo alle inevitabili difficoltà della vita, non solo alle sfide esistenziali quotidiane, ma anche a problemi psicologici gravi (Segal, Williams e Teasdale, 2002; Didonna, 2009). Quando la Mindfulness viene adattata allo scopo di alleviare specifiche condizioni cliniche, inizia ad includere, oltre alla consapevolezza, attenzione e ricordo, anche qualità come il non giudizio, compassione e accettazione.

Acceptance e Compassion rientrano nei focus esperienziali degli interventi basati sulla Mindfulness (MBI) (es. pratica della gentilezza amorevole; Kabat Zinn 1990). Le pratiche basate sull’accettazione favoriscono l’apertura, in modo consapevole e non giudicante a sentimenti, sensazioni, impulsi ed emozioni dolorosi: ‘abbandoniamo la lotta con loro, diamo loro qualche spazio di respiro e permettiamo loro di essere come sono. Piuttosto che combatterli, resistere, scappare via o rimanere invischiati o sopraffatti, apriamoci a loro e lasciamoli essere quello che sono‘ (Harris, 2016). Gli interventi basati sulla Compassion, si focalizzano piuttosto sullo sviluppo delle abilità che ci consentono di ‘entrare in contatto con la sofferenza, di comprenderla e dalla nostra capacità e impegno nell’alleviarla‘ (Gilbert e Choden 2013).

Di seguito analizzeremo i risultati di efficacia emersi da una review sistematica sull’utilizzo di un protocollo di Acceptance and Commitment Therapy (ACT) in adulti sopravvissuti al cancro (Mathews et all., 2020).

Cos’è l’ACT?

L’ACT è un intervento psicoterapeutico ad orientamento cognitivo comportamentale, ideato da Steven Hayes (2006). Alla radice, l’ACT è una terapia comportamentale: si tratta di agire; ma non si tratta di un’azione qualsiasi. In primo luogo, riguarda un’azione guidata dai valori: per che cosa vogliamo vivere la nostra vita? Quali sono i desideri più profondi rispetto a chi vogliamo essere e a che cosa vogliamo fare durante il nostro breve tempo su questa terra. L’individuazione di questi valori fondamentali consente di guidare, motivare ed ispirare il cambiamento comportamentale. In secondo luogo, riguarda l’azione consapevole, l’azione che intraprendiamo con piena consapevolezza, aperti all’esperienza e pienamente coinvolti nel qui ed ora. L’ACT prende il nome da uno dei suoi messaggi fondamentali: accettare ciò che è fuori dal controllo personale ed impegnarsi nell’intraprendere azioni che arricchiscono la propria vita. Lo scopo è quello di aiutare a creare una vita ricca, piena e significativa, mentre accettiamo il dolore che la vita inevitabilmente porta (Harris, 2016).

I sei processi fondamentali nell’ACT sono: il contatto con il momento presente (Essere qui adesso), la defusione (Osservare il proprio pensare), l’accettazione (Aprirsi), il sé come contesto (Pura consapevolezza), i valori (sapere ciò che è importante) e l’azione impegnata (fare ciò che conta) (Hayes et al., 2006). Tali passi non sono da considerarsi come processi separati; insieme portano alla Flessibilità Psicologica: abilità di essere nel momento presente con piena consapevolezza e apertura all’esperienza, intraprendendo azioni guidate dai valori. Allo sviluppo di tale abilità, ne consegue un graduale miglioramento della qualità di vita, poiché si è in grado di rispondere molto più efficacemente ai problemi e alle sfide che la vita porta inevitabilmente con sé (Harris, 2016).

Il protocollo ACT, nel perseguire gli scopi sopra citati, si avvale prevalentemente di tecniche esperienziali, esercizi di mindfulness, metafore e richiede impegno e allenamento costante nella vita quotidiana.

Diversi studi, hanno dimostrato l’efficacia dell’ACT nel trattamento del dolore cronico, mostrando miglioramenti significativi nel dolore e nel funzionamento sociale, fisico ed emotivo con una stabilizzazione dei risultati sino ai 3 mesi successivi al trattamento (Vowles KE, Sowden G., Ashworth J., 2014; Johnston et all, 2010; McCracken LM, Velleman SC, 2010). Alla luce di tali evidenze, c’è stato un incremento sempre maggiore dell’applicazione dell’ACT tra gli individui con diagnosi oncologica, negli ultimi dieci anni. Una recente review sistematica dimostra che i pazienti con cancro sottoposti ad interventi basati sull’ACT hanno mostrato miglioramenti significativi rispetto allo stato emotivo, qualità di vita, e flessibilità psicologica (Mathew et all., 2020). Gli autori propongono un modello concettuale per descrivere quali sono i possibili fattori che influenzano un intervento basato sull’ACT nei pazienti oncologici, coloro che hanno superato la fase acuta e vengono considerati i sopravvissuti.

I fattori da considerare sono i seguenti:

  • Contesto dell’intervento: ambiente socio culturale e demografico, rigore metodologico nell’applicazione del modello, setting clinico dell’intervento (casa vs ambiente clinico – sanitario (es.ospedale); intervento individuale piuttosto che di gruppo);
  • Caratteristiche del clinico: orientamento terapeutico, materiali e protocolli utilizzati nella presentazione del modello, complessivamente il livello di aderenza alle procedure ACT;
  • Caratteristiche dei partecipanti: livello di comprensione del modello e delle istruzioni veicolate dal clinico, capacità di base richieste dalla pratica ACT, accettazione e rigore nella pratica esperienziale al di fuori della sessione clinica.

Tali fattori, vengono considerati fondamentali nella valutazione degli esiti della procedura ACT, sia nel breve termine (incremento della flessibilità psicologica) che nel lungo periodo (riduzione dei sintomi fisici e psicologici, in generale un miglioramento nella qualità di vita). Il protocollo basato sull’ACT si è dimostrato efficace nell’incoraggiare tale popolazione di pazienti ad accettare la realtà e compiere azioni in linea con i propri valori, piuttosto che continuare ad impegnare la propria esistenza in strategie di evitamento della sofferenza (Mathew et all, 2020). Tali evidenze, possono avere importanti implicazioni per i professionisti che si occupano della cura dei pazienti oncologici, più specificatamente, indicano che anche i soggetti sopravvissuti al cancro con componenti di ansia, depressione e timore di recidiva a livelli clinicamente significativi, possono trarre benefici dal modello ACT.

Tuttavia, gli autori sostengono che si rendono necessarie ulteriori ricerche, specie nella raccolta di evidenze e studi di efficacia dell’ACT, tra la popolazione dei sopravvissuti al cancro, nella riduzione del dolore, disturbi del sonno e fatica e nell’approfondire la valutazione dei fattori che influenzano il miglioramento degli esiti (Mathew et all., 2020).

 

Mindfulness-Based Cognitive-Therapy for OCD, di Fabrizio Didonna – Recensione del libro

In Mindfulness-Based Cognitive-Therapy for OCD Fabrizio Didonna spiega con precisione cosa vada fatto per trattare il Disturbo Ossessivo Compulsivo, perché vada fatto (prove empiriche incluse) e come farlo, utilizzando uno stile esplicito e diretto e servendosi di interessanti proposte.

 

Ho approfittato della quarantena impostami al rientro da Londra (Natale con figlie) per godermi con calma le 430 pagine del Manuale per il trattamento del Disturbo Ossessivo Compulsivo (OCD), edito da Guilford nel 2020. Piena soddisfazione, il 2020 ha almeno prodotto eccellenti novità in campo clinico.

Fabrizio Didonna non è nuovo a queste titaniche imprese, ha già curato il fondamentale manuale clinico di Mindfulness, ma in questo volume si espone in prima persona con una dettagliata descrizione del suo metodo originale di trattamento dello OCD. Il riferimento esplicito è al Mindfulness-Based Cognitive Behavioural Therapy (MBCBT) for Depression di Segal, Williams e Teasdale, pubblicato nel 2014 in Italia da Bollati Boringhieri col titolo semplificato in Mindfulness dal curatore Fabio Giommi nella Serie di Scienza Cognitiva da me diretta. Lo stesso Mark Williams ne scrive una esaustiva introduzione, considerando il programma sull’OCD una importante estensione del proprio lavoro sulla utilizzazione della Mindfulness per il trattamento della depressione.

Abbiamo qui due libri in uno, scritti dai due Sé ben differenziabili dello stesso autore, il Sé accademico e il Sé terapeutico di Fabrizio. Il Sé accademico svolge le prime cento pagine, in cui offre una spiegazione di cosa sia l’OCD e di cosa sia la Mindfulness, e di come e perché possa essere utilizzata per curarlo. Questa prima parte è forse indispensabile per i lettori che non sappiano cosa siano né l’OCD né la Mindfulness, ma non entusiasma Didonna, obbligato a riassumere idee altrui in poco spazio. Le ipotesi esplicative si susseguono, da quelle neurobiologiche a quelle evoluzionistiche, epidemiologia, diagnostica, processi emotivi e cognitivi. L’autore cerca di comprimere OCD e Mindfulness in cento pagine, mission impossible svolta con impegno ma con ridotto entusiasmo, modalità anomala per Fabrizio, terapeuta appassionato.

Che sia una imposizione esterna (dell’editore?) cui l’autore si assoggetta? Il dubbio viene perché la seconda parte scorre invece fluida, ricca, piena di spunti originali: il vero libro è questo, questo è ciò che con piacere raccomando ai colleghi di leggere. Le trecento pagine preziose le scrive il Sé terapeutico, finalmente libero di mostrare il valore del proprio lavoro, spiegando con precisione cosa vada fatto, perché vada fatto (prove empiriche incluse) e come farlo. Didonna utilizza uno stile esplicito e diretto che molto apprezzo, si trovano di continuo proposte interessanti anche se non si intenda seguire interamente il programma disegnato. Si tratta di 11 dettagliate sessioni, che iniziano col tradizionale Body Scan per terminare con la pratica del perdono a se stessi.

Il legame con la già citata MBCT di Segal, Williams e Teasdale e con il programma di Mindfulness-based stress reduction (MBSR) si rafforza, una serie di passaggi riproducono con le necessarie varianti la procedura usata per la depressione. A questa sequenza si aggiunge con particolare intensità la pratica sulla Compassione, come impostata da Paul Gilbert. Il percorso completo è frutto esclusivo di Didonna, che usa tutto quel che gli serve per rendere efficace il suo programma. Ogni sessione dettaglia i passaggi necessari, con una serie di indicazioni sia per il terapeuta che per i pazienti.

L’autore non ha paura di mostrare quanto sia in debito con la tradizione meditativa Vipassana, quella da cui è partito originariamente Kabat-Zinn. Si percepisce una profondità di pratica contemplativa che lo mette in diretta connessione con i grandi autori che lo precedono, praticamente tutti quelli che ho finora menzionato. Sono ammirato dal loro lavoro, anche se non mi appartiene lo stile di utilizzare a fini terapeutici qualcosa che è intrinsecamente priva di obiettivo, la meditazione qui e ora. Ma le storie individuali sono diverse, ognuno di noi segue la propria strada, riconoscendo appena possibile la qualità e i benefici ottenuti dagli altri.

Critiche specifiche alla parte teorica introduttiva sarebbero facili per l’ossessivo che dormicchia dentro ciascuno di noi (se l’ipotesi evoluzionistica viene compressa in un paio di pagine immaginate le imperfezioni!), ma immagino che l’autore ne sia pienamente consapevole. Comunque, l’indicazione sarebbe di abbreviarla drasticamente, non di ampliarla in un impossibile tentativo di completezza. Come detta il famoso koan Zen: ciò che non si può dire in cento pagine tanto vale non dirlo in cento righe.

La seconda parte è piacevolmente difficile da criticare, si coglie bene il complesso lavoro di raccordo con le procedure già esistenti in letteratura e si apprezza sia la competenza con cui sono costruite le sessioni originali sia la precisione con cui vengono esplicitate. Il risultato è uno strumento potente, usabile da ciascuno secondo la propria sensibilità clinica, ma col vantaggio di potersi riferire a un manuale di istruzioni assai ben disegnato. Unico concreto suggerimento (nella augurabile ipotesi di una traduzione italiana) è che a un testo di tale ampiezza sia indispensabile aggiungere un indice dettagliato, da porre rigorosamente all’inizio, che aiuti il lettore a ritrovare la parte che gli serve nel momento in cui gli serve.

Questo testo, assieme a quello edito da Mancini (La mente ossessiva, 2016), rappresenta oggi un completo panorama di diagnosi e trattamento, con tecniche diverse, dello OCD. Se trattate pazienti ossessivi, con questi due libri avete in mano tutto quel che vi serve sapere, e come si fa a metterlo in pratica. Che si tratti di autori italiani, e che il loro ambizioso lavoro sia di alta qualità clinica, mi rende orgoglioso e grato. Buona lettura a tutti voi, cari colleghi, per iniziare al meglio il neonato 2021.

 

Fine vita: cosa succede in una famiglia? Analisi sistemica degli aspetti psicologici

Il concetto di morte è un tema che accompagna l’intero arco della vita e possiamo assistere a diverse rappresentazioni di questo evento dall’infanzia fino all’età adulta. Cosa accade nel sistema familiare nel momento in cui avviene un processo di cambiamento legato alla sofferenza e alla perdita?

 

J. K. Rowling, nota per aver dato vita alla saga di Harry Potter, scrive:

In fin dei conti, per una mente ben organizzata, la morte non è che una nuova, grande avventura.

Quello del fine vita è un argomento molto delicato e studiato per i suoi aspetti psicologici soprattutto nell’ambito della psicologia della salute.

Il concetto di morte è un tema che accompagna l’intero arco della vita e possiamo assistere a diverse rappresentazioni di questo evento dall’infanzia fino all’età adulta. Nella prospettiva della psicologia della salute, la morte costituisce un momento della vita stessa e, come se fossimo protagonisti di un paradosso, non si è più vivi di quando ci avviciniamo alla fine della vita. Questa ottica, a cavallo tra psicologia e filosofia, ci offre una serie di considerazioni importanti, su quanto sia fondamentale la persona che si avvicina alla fine della propria vita e dell’intero nucleo familiare che le sta vicino, con lo scopo di agire per la costruzione del benessere dell’intero sistema familiare.

Le fasi del fine vita

La psicoanalista Elizabeth Kübler-Ross, pioniera nello studio e nella ricerca legati alla morte, ha individuato un modello che espone le cinque fasi che le persone attraversano mentre si avvicinano al momento della loro morte (Taylor, 2018). Queste fasi possiamo osservarle anche nei familiari prima e dopo la perdita del proprio caro. È importante anche affermare che queste non seguono pedissequamente l’ordine stabilito dalla Kübler-Ross usato a scopo esplicativo, ma sono reazioni che vengono comunemente sperimentate anche contemporaneamente e in un ordine diverso o intermittente (Taylor, 2018).
Le cinque fasi sono:

  • Negazione: è un meccanismo di difesa attraverso il quale le persone evitano le implicazioni di una malattia. Queste persone possono agire come se la malattia non fosse grave o non avesse effetti a lungo termine. In casi estremi, il paziente può persino negare di avere la malattia, nonostante gli siano state fornite informazioni chiare sulla diagnosi. È, dunque, un tentativo difensivo di bloccare la piena realizzazione della realtà e della malattia. Questo meccanismo, tuttavia, può essere anche utile dal momento che può proteggere il paziente dalla piena realizzazione della morte imminente (Taylor, 2018).
  • Rabbia: la domanda tipica di questa fase è “Perché io?”. La reazione tipica è quella del risentimento verso chiunque sia sano, come il personale dell’ospedale, i familiari, gli amici. I pazienti che non possono esprimere la loro rabbia direttamente possono farlo indirettamente mostrandosi amareggiati. Questi mostrano risentimento attraverso battute sulla morte o con osservazioni puntuali su tutte le cose eccitanti che non saranno in grado di fare perché avverranno dopo la loro morte. La rabbia è una delle risposte più difficili da affrontare per la famiglia e gli amici, potrebbero sentirsi accusati dal paziente di godere di ottima salute. La famiglia ha bisogno di sapere che il paziente in realtà non è veramente arrabbiato con loro ma con il destino a cui va incontro (Taylor, 2018).
  • Contrattazione: il paziente abbandona la rabbia a favore di una strategia diversa, ovvero quella di adottare una buona condotta in cambio di una buona salute. Qui emerge un forte impatto della sfera spirituale, poiché il paziente accetta di impegnarsi in opere di bene o almeno di abbandonare i modi egoistici in cambio di una salute migliore o di più tempo da vivere (Taylor, 2018).
  • Depressione: è caratterizzata da una perdita del controllo con cui il paziente inizia a fare i conti. Arriva la consapevolezza che il tempo è finito e che si può fare poco per fermare il corso della malattia. Questa presa di coscienza può coincidere con un peggioramento dei sintomi, con la prova tangibile che la malattia non verrà curata. I pazienti possono sentirsi nauseati, senza fiato e stanchi, possono avere difficoltà a mangiare, controllare l’eliminazione, focalizzare l’attenzione e sfuggire al dolore o al disagio. Si definisce questa fase come un momento di “dolore anticipatorio”, in cui i pazienti piangono la prospettiva della propria morte. Questo processo di lutto può avvenire in due tempi, poiché prima si fanno i conti con la perdita di attività passate, poi si inizia ad anticipare la futura perdita di attività e relazioni. La depressione può essere però anche funzionale nei termini di una preparazione a ciò che avverrà (Taylor, 2018).
  • Accettazione: in questa fase, considerata quella finale nella teoria della Kubler-Ross, il paziente potrebbe essere troppo debole per provare rabbia o troppo abituato all’idea di morire per essere depresso. Può scendere una calma stanca, pacifica, anche se non necessariamente piacevole. Alcuni pazienti usano questo tempo per prepararsi all’evento, decidere come dividere i loro beni rimanenti e salutare i vecchi amici e i familiari (Taylor, 2018).

I sopravvissuti: elaborazione della perdita nel sistema famiglia

La morte di un membro della famiglia può essere l’evento più sconvolgente e temuto nella vita di una persona. In alcuni casi, diventa anche una prospettiva più terrificante della propria morte o malattia (Taylor, 2018). Quello che è riscontrabile è che la perdita di un membro della propria famiglia comporta un cambiamento dell’intero sistema familiare (Taylor, 2018).

Un punto di vista interessante è quello di vedere la famiglia come un sistema interpersonale considerato un circuito di retroazione dove il comportamento di ogni persona influenza ed è influenzato dal comportamento degli altri componenti del sistema.

Adesso la domanda da porsi è: cosa accade nel sistema nel momento in cui avviene un processo di cambiamento legato alla sofferenza e alla perdita?

Possiamo rispondere al quesito con alcuni principi esplicativi:

  • Tutti i membri del sistema familiare sono interconnessi e interdipendenti. Con questo si intende che davanti ad una situazione di cambiamento non cambia solo l’individuo ma l’intero sistema di relazioni in cui è inserito. Un sistema è composto da soggetti in costante connessione tra loro: se una persona si ammala nel sistema famiglia questo implica un cambiamento.
  • Le famiglie tendono a mantenere il loro equilibrio omeostatico. Ognuno di noi tende a mantenere il proprio equilibrio, la posizione in cui si trova. Anche all’interno del sistema ognuno ha il proprio ruolo e tutto si muove in funzione del mantenimento del ruolo di ciascuno. La vita, però, è in costante cambiamento e noi tendiamo a resistergli, ad opporci a questo, provocando sofferenza.
  • Quando un membro della famiglia prova dolore tutti i membri della famiglia provano una qualche forma di dolore. Se tutti i membri del sistema sono interconnessi è chiaro che il dolore provato da uno di questi membri coinvolge anche gli altri. Il dolore non sarà mai lo stesso, ognuno avrà la propria dimensione, ma allo stesso tempo ci saranno dei fattori comuni al dolore che prova la persona in questione.
  • Ciascun membro della famiglia ha la sua narrazione da fare e deve essere ascoltato empaticamente. La narrazione è fondamentale per il sistema di credenze. Racconto una serie di esperienze che mi permettono, in qualche modo, di declinare, secondo il mio sistema cognitivo, l’esperienza. Ogni membro della famiglia ha il suo punto di vista e quindi questa narrazione va sempre e comunque considerata e ha bisogno di essere accolta. Le difficoltà emotive e pratiche che un membro della famiglia può incontrare, insieme alle narrazioni, hanno necessità di essere accolte, ascoltate. Uno dei problemi centrali è proprio non elaborare e non narrare, e quindi non sapersi raccontare rispetto all’esperienza che si sta attraversando.
  • Il cambiamento di un membro del sistema favorirà il cambiamento degli altri membri del sistema famiglia. È chiaro, a questo punto, che favorire il cambiamento di uno, favorisce il cambiamento dell’intero sistema.
  • Ciascuna persona è responsabile del proprio comportamento. Spesso l’azione dello psicoterapeuta è quello di togliere il noi, favorire l’io e favorire l’assunzione di responsabilità individuale.

A questi sei principi corrispondono altrettanti possibili interventi in ambito psicologico e terapeutico:

  1. Aiutare a districarsi dai sentimenti troppo interconnessi e a lasciare il senso di essere un sé separato. Dato che esiste un’interconnessione eccessiva che diventa molto vincolante tra i membri di una famiglia, l’intervento terapeutico è quello di districarsi dai sentimenti e iniziare ad essere un Sé separato, favorire l’uso dell’Io. L’Io è l’assunzione di una responsabilità. L’uso del Noi è confusivo, nasconde l’Io e il mito della simbiosi di coppia è fonte di nevrosi che impedisce al Sé separato di scegliere e di agire. Il compito del terapeuta è quello di districare il groviglio del Noi a vantaggio del filo dell’Io. Proprio perché Sé separato, questo è in grado di legarsi all’altro.
  2. Tentare di rompere un equilibrio che ha avuto conseguenze negative. Lo sforzo nel mantenere l’equilibrio del sistema, spesso, implica delle sofferenze e meccanismi di tipo disadattivo. È nell’ambivalenza delle cose che c’è lo sforzo. Cercare di mantenere un equilibrio che non può essere più mantenuto è fonte di grande sofferenza. Allora, questa rigidità nell’essere ancorati al sistema che non è più funzionale alla nuova situazione va infranta, perché lo sforzo non è quello di mantenere l’equilibrio ma di trovarne uno nuovo che risponda ad aspetti adattivi e funzionali. Districare il groviglio del Noi a favore del Sé va nella direzione di un nuovo equilibrio. Si possono negare i cambiamenti proprio perché il nostro sistema cognitivo è ancorato ad uno stadio antecedente rispetto ai cambiamenti, ad esempio, i figli che vedono il genitore che non è più autonomo possono rispondere a questo cambiamento rimproverandolo. È un lavoro faticoso perché significa rivedere tutta l’organizzazione della famiglia, anche dell’assistenza della persona. L’eccessivo coinvolgimento è, comunque, fonte di sofferenza.
  3. Incoraggiare la condivisione del dolore. Incoraggiare la condivisione significa verbalizzare il dolore, parlare a me stesso e agli altri perché ci sia ascolto ed espressione del dolore ed accoglierne le diverse declinazioni che la famiglia esprime ed elabora. Il dolore ha bisogno di essere ascoltato. La specie umana ha bisogno per sopravvivere di essere gruppo e comunità, di solidarietà. Lo spazio di condivisione del dolore è importante perché favorisce l’espressione del Sé in una dimensione di ascolto. Il fatto di affermare, da parte di tutti i membri della famiglia di provare lo stesso dolore, può essere considerato un meccanismo difensivo, perché si favorisce il Noi al posto del Sé. Per questo si richiede un racconto personale a tutti i membri della famiglia, di narrare in senso personale la propria esperienza.
  4. Richiedere un racconto personale. Il racconto personale che è anche il senso personale che si attribuisce all’esperienza permette di dire a sé stessi cosa si sta attraversando, di aprire lo spazio alla crescita e non mantenere lo status quo, ma affacciarsi alla dimensione iniziale soggettiva.
  5. Il cambiamento della persona anticipa e può essere concomitante con quello degli altri. Il cambiamento dei comportamenti e dei sistemi di credenze di uno dei membri della famiglia implica il cambiamento degli altri, lo anticipa, può essere concomitante e lo può favorire. Significa che il lavoro dello psicologo con una persona, comporta un cambiamento in quella persona e di conseguenza può favorire quello dell’intero sistema. Cambiare significa muoversi in una direzione e questo implica che tutto il sistema si muova, a meno che non si manifestino condizioni psicopatologiche per cui l’intero sistema resiste al cambiamento. Allora, compito dello psicologo è quello di favorire e promuovere i processi di cambiamento.
  6. Incoraggiare l’indipendenza, la responsabilità e la padronanza. Ogni persona è responsabile del proprio comportamento. L’uso dell’Io significa assumersi l’unica responsabilità dell’essere Sé e quindi assumere padronanza di Sé.

Conclusioni

Per elaborare i vissuti di perdita appare molto utile la narrazione che il soggetto fa di questa esperienza. La narrazione permette di elaborare storie attraverso le quali costruiamo una versione di noi stessi nel mondo, una versione verosimile con cui ricostruiamo il significato delle nostre azioni e le leghiamo al senso della vita vissuta (Cardinale, 2012).

Le strutture narrative sono forme universali attraverso cui le persone comprendono la realtà e comunicano su di essa. Il racconto permette di costruire significati che consentono agli uomini di interagire con il sistema di convenzioni culturali all’interno del quale essi vivono (Cardinale, 2012).

Il pensiero narrativo consiste nel raccontarsi all’altro e a sé stessi. Narrare significa saper dare forma all’esperienza, organizzarla, interpretarla in modo da poterla comunicare e condividere con chi ci ascolta. Diventa uno strumento per creare una memoria (Cardinale, 2012).

In ambito terapeutico, la narrazione dell’esperienza personale dovrebbe avere un ruolo significativo nelle relazioni di cura perché la sofferenza richiede di essere inserita in racconti reali per acquisire un senso preciso, diventare condivisibile e trasformarsi in risorsa (Cardinale, 2012).

Il modo in cui il paziente racconta la propria esperienza è un metodo che può essere applicato ad ogni forma patologica.

 

Sempre più vicini e più distanti

I cellulari non solo contribuiscono a cambiamenti psicologici, bensì contribuiscono alla modificazione della comunicazione relazionale per cui i soggetti faticano a comunicare con individui co-presenti mantenendo interazioni con altre persone assenti fisicamente.

 

Gli strumenti tecnologici alterano il comportamento umano e modificano il modo in cui gli individui comunicano, sia fisicamente che a distanza (Allred & Atkin, 2020). L’accesso alla tecnologia dei dispositivi mobili è in costante aumento. Nel 2016, l’utilizzo di dispositivi mobili da parte della popolazione americana ha superato l’80% ed è stato stimato che raggiungerà l’82,7% nel 2020 (Anderson, 2019). Secondo il Pew Research Center, in media un bambino riceve il suo primo cellulare a 10 anni e ha un account di un social media intorno ai 12 anni (Anderson, 2019). Anche quando si trovano nella stessa casa, il 31% dei genitori utilizzano messaggi di testo per comunicare con i propri figli (Influence Central, 2016). I cellulari non solo contribuiscono a cambiamenti psicologici, bensì contribuiscono alla modificazione della comunicazione relazionale per cui i soggetti faticano a comunicare con individui co-presenti mantenendo interazioni con altre persone assenti fisicamente (Gergen, 2002). Il lavoro di Leung e Wei (2000) suggerisce come i dispositivi mobili agevolino una comunicazione a distanza e inibiscano l’efficacia di una conversazione faccia a faccia (Przybylski e Weinstein, 2013). La comunicazione faccia a faccia è un aspetto importante dello sviluppo relazionale (Berger e Calabrese, 1975). Il grado di comunicazione varia e la volontà di comunicazione rappresenta la predisposizione a parlare con un’altra persona tramite un incontro faccia a faccia (McCroskey e Baer, 1985). Nonostante siano due costrutti diversi, ansia e disponibilità a comunicare sembrano essere correlati (McCroskey, 1992): individui che provano ansia generalizzata tendenzialmente sono meno disposti a comunicare di persona.

La teoria cognitiva sociale (SCT) di Bandura (1986) presenta una spiegazione dell’azione e della motivazione umana da una prospettiva socio-cognitiva, secondo cui le conoscenze di un individuo possono essere correlate all’osservazione degli altri nel contesto di interazioni sociali, esperienze ed influenze esterne ai media (Bandura, 2008).

Riprendendo la SCT di Bandura, lo studio di Allred e Atkin (2020) esamina l’effetto dei cellulari sulla volontà di comunicare e sull’ansia. I risultati ottenuti da un sondaggio online – su un campione composto da 498 soggetti – indicano una correlazione significativa tra cellulare e ansia. L’ansia sarebbe negativamente associata alla volontà di impegnarsi in una conversazione di persona (Allred & Atkin, 2020).

I risultati della regressione lineare non hanno indicato una relazione tra dipendenza da cellulare e disponibilità a comunicare di persona. Infine, è stato utilizzato un modello di effetti indiretti per osservare se l’ansia media la relazione tra dipendenza da cellulare e disponibilità a comunicare: i risultati ottenuti suggeriscono un piccolo ma significativo effetto indiretto (Allred & Atkin, 2020). I risultati delle due ipotesi significative confermano come i cellulari siano utilizzati per rimanere in contatto con persone lontane e come siano una potenziale minaccia alla comunicazione con altre persone co-presenti (Allred & Atkin, 2020).

 

COVID-19, operatori sanitari sotto pressione. Comunicato Stampa di UGL

COMUNICATO STAMPA

La pressione cui sono sottoposti quotidianamente gli operatori sanitari non si allenta e sono sempre maggiori i casi di professionisti che non riescono a sostenere lo stress sul posto di lavoro. “Se prima dell’esplosione della pandemia – commenta Gianluca Giuliano, Segretario Nazionale della UGL Sanità – erano le aggressioni fisiche, verbali e sui social la causa principale del disagio ora bisogna aggiungere il Covid-19. Il rischio del contagio, la carenza di personale che, unita ai turni massacranti, costringe i lavoratori a allontanarsi dalle proprie famiglie si fonde alla paura delle sempre più frequenti rivendicazioni di carattere legale e economico derivanti da denunce a carico dei professionisti da parte di pazienti o loro famigliari. Tutti questi fattori sono la causa dell’aumento dei casi di burnout, lo stress patologico che si accusa sul posto di lavoro. E’ notizia proprio di questi giorni del suicidio in Calabria di un responsabile della campagna vaccinale. E’ un evento drammatico, purtroppo non il primo di questo genere dall’esplosione della pandemia”. L’esigenza primaria è quella quindi di supportare chi è in prima linea. “C’è assoluto bisogno- conclude Giuliano –  che in ogni struttura venga creata una figura di riferimento per i casi di burnout che coordini dei centri di ascolto psicologico. Ma non basta.  Chi sta combattendo contro il virus deve essere tutelato e messo in sicurezza per poter poi svolgere nel miglior modo possibile, con l’adeguato riposo che la situazione attuale richiede, il proprio compito al servizio della nazione”.


Unione Generale del Lavoro Sanità
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Tel. 06 32482245 -246
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Le emozioni del paziente affetto da demenza

Quali ricordi e quali emozioni possono sperimentare i pazienti affetti da demenza?

 

Molto spesso quando si parla di patologie psichiatriche, un aspetto che viene dimenticato è quello relativo all’interiorità e al valore di una persona, nascosti dietro una fredda etichetta diagnostica.

Si approfondiscono in particolare aspetti riguardanti le ripercussioni fisiche, cognitive e psichiche del paziente, ma raramente ci si interroga su cosa essi realmente provino, su quali siano le loro sensazioni, se anche loro provino felicità nelle cose più semplici, nelle giornate soleggiate, nel ricevere una bella notizia, nel mangiare un buon pasto.

Spesso, quando ci si trova in una situazione poco felice della propria vita, la prima cosa che si fa è pensare ai ricordi felici, probabilmente a quelli di infanzia, o per chi li ha vissuti, a eventi come il conseguimento di un titolo, il matrimonio, la nascita del primo figlio.

Se questi pazienti perdono i propri ricordi, a cosa possono aggrapparsi?

La demenza è, sia per il paziente che per chi gli sta vicino, un destino a cui è difficile rassegnarsi poiché caratterizzato da un’inevitabile sofferenza: la perdita del proprio essere, il divenire estranei a se stessi, che rende irriconoscibili davanti ai propri occhi e agli occhi di chi guarda. E’ necessario correre contro il tempo, che ha per il paziente un valore inestimabile.

Il paziente lotta contro l’angoscia, il dolore di dover perdere qualcosa che a lui è così caro: la propria memoria, i ricordi delle proprie emozioni, per non dimenticare le persone che ama, le caratteristiche che rendono l’individuo quello che è stato e quello che è diventato. Ogni memoria, ogni ricordo di un’emozione è un bene prezioso, indispensabile, a cui aggrapparsi e da tenere stretto.

L’amnesia, nella demenza, comincia con il dimenticare i ricordi più vicini nel tempo: si tratta di amnesia anterograda, a cui segue quella retrograda che può cancellare il ricordo della propria infanzia, della propria giovinezza; insomma di una vita intera.

L’emozionalità dei pazienti che ne sono affetti è molto interessante. Non è semplice comprendere come questi percepiscano le emozioni, e quale sia la ragione delle loro reazioni emotive.

Le emozioni, secondo numerosi studi, trovano sede nell’emisfero cerebrale destro (sistema limbico), più precisamente nell’amigdala e nel cingolo anteriore. Diverse osservazioni su umani e animali hanno confermato nel complesso dell’amigdala l’attore principale. ‘La vita senza l’amigdala è un’esistenza spogliata di significato personale […] tutte le passioni dipendono da essa‘ (D. Goleman, 1996). Uno dei primi studi sulla relazione tra amigdala ed emozioni è stato condotto da Heinrich Kluver e Paul Bucy, che hanno dimostrato come la rimozione di una parte del lobo temporale contenente l’amigdala provocasse, tra gli altri sintomi, indifferenza affettiva (Antonio R. Damasio, 2000). L’amigdala ha quindi un ruolo cruciale nelle emozioni: ‘se viene resecata dal resto del cervello, il risultato è un’evidente incapacità di valutare il significato emozionale degli eventi, una condizione a volte indicata con l’espressione «cecità affettiva » o «cecità psichica»‘ (L. Mingazzini, 2006). L’amigdala è particolarmente attiva quando si provano emozioni quali rabbia o paura, pertanto riveste un ruolo importante nell’individuazione di situazioni sociali potenzialmente pericolose e, di conseguenza, nell’elaborazione di una risposta appropriata a queste situazioni. Damasio, nel suo libro dal titolo Emozioni e coscienza, descrive il caso della paziente S., che presentava un danno bilaterale dell’amigdala. La donna non mostrava deficit nell’apprendimento e la sua intelligenza rientrava nella media. Era molto socievole e incredibilmente disponibile e cordiale nei confronti degli altri. In seguito a numerose ricerche, si mise in luce come emozioni negative, quali paura o collera, fossero assenti dalla sua vita, lasciando le emozioni positive a dominare. Questo squilibrio affettivo era causato dall’indebolimento della sensazione di paura. La paziente conosceva la paura solo concettualmente, ma a causa del danno bilaterale all’amigdala non aveva mai provato quest’emozione.

E’ interessante l’analisi di un caso clinico di seguito riportato:

Una donna di 60 anni, con demenza frontotemporale destra, ha cominciato a manifestare il suo stato di malattia con appiattimento emotivo, scoperto casualmente nel momento della morte di una parente prossima. Tale situazione, che avrebbe dovuto implicare una partecipazione al lutto, ha invece visto la signora distratta e indifferente all’evento, tanto da manifestare il suo disinteresse con l’iniziativa di recarsi a fare compere invece di essere presente al funerale. La paziente ha una discreta amnesia per i fatti trascorsi, escluso uno: la morte della figlia avvenuta venti anni addietro. Durante il colloquio clinico, i richiami ad eventi e ricordi sono scarsi e superficiali, a volte provocano solo risposte di tipo stereotipato, ma se accade di ricordare l’evento della perdita della figlia, ebbene questo è l’unico momento in cui la paziente mostra una partecipazione emotiva commuovendosi fino alle lacrime‘ (M.F. Turno, 2004).

Apparentemente le capacità emotive della donna sembrerebbero compromesse, eppure la donna sembrava provare emozioni per un evento fortemente doloroso della sua vita ossia la morte di sua figlia. La donna, quando si parlava di quest’evento, si commuoveva fino alla lacrime. Evidentemente la demenza frontotemporale aveva compromesso i suoi ricordi e le emozioni, eppure quest’episodio era rimasto impresso nelle sue tracce mnesiche a prova del fatto che gli eventi emotivamente rilevanti lascino più segno nella nostra memoria.

La donna che ricorda ancora la morte della figlia, nonostante i suoi ricordi siano azzerati, ci riferisce qualcosa di molto importante, qualcosa di profondamente umano: ciò che abbiamo vissuto, se emotivamente profondo e significativo, non può essere scalfito.

Questo è di fondamentale importanza, i nostri ricordi e con loro le relative emozioni, positive o negative che siano, formano ciò che siamo. In particolare episodi fortemente significativi come la morte di una persona cara sono qualcosa che ci segna nel profondo e che quindi ci costituisce. Perciò conservare le proprie emozioni, significa anche conservare se stessi. E’ vero che gran parte di quello che siamo, con l’avanzare della patologia scompare, ma è anche vero che tramite la conservazione delle emozioni possiamo ricordare chi siamo, e cosa ha segnato la nostra esistenza. Pertanto, lavorare sulle emozioni del paziente può far guadagnare serenità a quest’ultimo, restituendogli dei brandelli di ciò che lui è ed è stato, conferendogli un po’ di umanità che gli è stata sottratta.

 

La realtà virtuale oltre gli ostacoli della terapia basata sull’esposizione in vivo per il trattamento del Disturbo da Stress Post Traumatico

La VR ha dimostrato di essere efficace nell’indurre reazioni di stress e ansia che sono paragonabili a quelle osservate in analoghe situazioni di vita reale. Questa caratteristica ha contribuito all’implementazione della VR come metodo per il trattamento del Disturbo da Stress Post Traumatico.

LO PSICOLOGO DEL FUTURO – (Nr. 8) La realtà virtuale per il trattamento del Disturbo da Stress Post Traumatico

 

La prevalenza del Disturbo da Stress Post Traumatico (PTSD) negli Stati Uniti è di circa l’8,7%. È stato riscontrato che i tassi di PTSD sono più alti tra i veterani e altre persone la cui scelta lavorativa aumenta il rischio di esposizione traumatica (es. vigili del fuoco) e tra i sopravvissuti allo stupro. Questa patologia, inoltre, è più diffusa nelle donne (Botella, Serrano, Baños & Garcia-Palacios, 2015).

Il disturbo da stress post-traumatico (PTSD) affligge fino ad un terzo di coloro che affrontano un evento traumatico (Cusack et al., 2016; APA, 2013) e la natura debilitante di tale disturbo pone alla luce la necessità di implementare un intervento tempestivo ed efficace. Esiste un’ampia gamma di trattamenti psicologici per il disturbo da stress post-traumatico, tra questi il trattamento di Esposizione Prolungata si è rivelato altamente efficace nel ridurre i sintomi del disturbo da stress post-traumatico ed è considerato una procedura di prima linea per il trattamento di tale disturbo secondo numerose linee guida (APA, 2017; International Society for Traumatic Stress Studies ISTSS, 2018).

I meccanismi alla base del trattamento di Esposizione Prolungata possono essere spiegati dalla teoria dell’elaborazione emotiva, che afferma che una struttura di paura fobica viene attivata al confronto con informazioni rilevanti per il trauma. Di conseguenza, i meccanismi per la riduzione dei sintomi implicano l’attivazione della struttura della paura mediante il confronto ripetuto con uno stimolo temuto (immaginale o in vivo) per ottenere l’abitudine e l’estinzione della reazione ansiosa (Foa e Kozak, 1986). Quindi, le componenti principali del trattamento di Esposizione Prolungata sono l’esposizione in vivo e l’esposizione immaginativa a stimoli correlati all’esperienza traumatica, oltre alla psicoeducazione e alla respirazione controllata. L’esposizione in vivo consiste nell’approccio graduale e sistematico a situazioni che i pazienti evitano. L’esposizione immaginativa, invece, implica la rivisitazione della memoria nell’immaginazione e il racconto dell’evento traumatico (Foa, Gillihan & Bryant, 2013; Foa, Hembree & Rothbaum, 2007).

Sebbene il coinvolgimento emotivo sia la chiave per il risultato del trattamento, questo è particolarmente difficile da ottenere nel contesto dell’esposizione immaginativa, poiché molti pazienti mostrano problemi nella visualizzazione dell’evento traumatico o dei dettagli correlati (Foa, Huppert e Cahill, 2006; Rizzo & Shilling, 2018). L’esposizione in vivo, a sua volta, pone la sfida di fornire stimoli di vita reale che siano adatti per un’esposizione sistematica e graduata (Bohil, Alicea, & Biocca, 2011).

Oltre le sfide delle esposizioni in vivo: la realtà virtuale

Un approccio praticabile per superare questi problemi è fornito dalla tecnologia della realtà virtuale (VR).

La VR ha dimostrato di essere efficace nell’indurre reazioni di stress e ansia che sono paragonabili a quelle osservate in analoghe situazioni di vita reale (Kothgassner et al., 2016; Dibbets, 2019).

Tutte queste caratteristiche hanno contribuito all’implementazione della VR come metodo per il trattamento di Esposizione Prolungata.

Attualmente, esistono già alcuni sistemi VR per il trattamento del PTSD; dalla pubblicazione del primo caso di studio che utilizzava la Virtual reality exposure-based therapy (VR-EBT) per trattare questo problema nel 1999, il numero di studi è aumentato notevolmente (Rothbaum et al., 1999).

In letteratura, sono chiaramente identificati due tipi di ambienti VR per il trattamento del PTSD:

Un ambiente VR con situazioni molto specifiche e realistiche (Rothbaum et al., 1999; Cárdenas-López & de la Rosa, 2011).
Un ambiente VR flessibile che utilizza il simbolismo per rappresentare qualsiasi evento traumatico (Baños et al., 2009).
Gli ambienti VR specifici e realistici sono stati sviluppati per trattare eventi traumatici specifici. Il loro principale punto di forza è il loro iperrealismo perché ricreano la situazione traumatica con dettagli ben precisi. Il loro principale punto debole è che lo scopo di questi ambienti VR è quello di trattare gli eventi traumatici per i quali sono stati sviluppati. Poiché le forze che causano eventi traumatici possono differire ogni evento traumatico richiederebbe un ambiente VR specifico (Rothbaum et al., 1999; Cárdenas-López & de la Rosa, 2011).

Il secondo tipo di ambiente VR è un sistema flessibile e adattabile in cui qualsiasi evento traumatico può essere rappresentato “simbolicamente” utilizzando diversi strumenti. Questo ambiente VR potrebbe essere una buona soluzione per i limiti degli ambienti VR che possono essere usati solo per trattare uno specifico evento traumatico.

Esposizione prolungata in realtà virtuale per PTSD

Tra i molti approcci che sono stati utilizzati per trattare le persone con PTSD, la terapia per esposizione prolungata (EP) ha un significativo supporto scientifico per la sua efficacia terapeutica (Maples-Keller et al., 2017). L’EP è una forma di psicoterapia individuale basata sulla teoria dell’elaborazione emotiva di Foa e Kozak (1986), la quale postula che i disturbi fobici e il disturbo da stress post-traumatico coinvolgano strutture di paura patologica che si attivano quando si incontrano situazioni analoghe a quelle precedentemente esperite. Un trattamento efficace richiede l’elaborazione emotiva delle strutture della paura al fine di modificare gli elementi patologici, in modo che gli stimoli non invochino più livelli così elevati di stress e paura, all’interno di un ambiente sicuro e controllato. Sebbene l’efficacia della EP immaginativa sia stata stabilita in molteplici studi con diverse situazioni traumatiche, molti pazienti non sono disposti o non sono in grado di visualizzare in modo efficace l’evento vissuto, e questo può provocare il fallimento del trattamento (Difede & Hoffman, 2002).

Per affrontare questo problema, i ricercatori hanno esplorato l’uso della VR come strumento per fornire la terapia dell’esposizione attraverso la Virtual reality exposure therapy – VRET, con lo scopo di immergere gli utenti in simulazioni di ambienti di rilevanza traumatica in cui l’intensità emotiva delle scene può essere controllata con precisione dal medico per personalizzare il ritmo e la rilevanza dell’esposizione per il singolo paziente. In questo modo, la VRET offre un modo per aggirare la naturale tendenza all’evitamento fornendo direttamente segnali multisensoriali e rilevanti per il contesto che aiutano nel recupero, nel confronto e nell’elaborazione delle esperienze traumatiche. I risultati hanno indicato un miglioramento post-trattamento su tutte le misure di PTSD e il mantenimento della stabilità emotiva a un follow-up di sei mesi, con una diminuzione del 34% dei sintomi di PTSD valutati dal medico e una diminuzione del 45% dei sintomi auto-riportati di PTSD. Esemplare è stato uno studio, condotto da Rothbaum nel 2001, con veterani del Vietnam. In questa ricerca, 16 veterani maschi con PTSD sono stati esposti a due ambienti virtuali forniti da HMD, una radura virtuale circondata da uno scenario della giungla e un elicottero virtuale Huey, in cui il terapeuta controllava vari effetti visivi e uditivi (ad esempio razzi, esplosioni, giorno / notte). Dopo una media di 13 sessioni di terapia di esposizione, effettuate in 5-7 settimane, c’è stata una significativa riduzione del disturbo da stress post-traumatico e dei sintomi correlati.

Ciò che rende l’uso clinico della VR così distintamente importante è che rappresenta più di una semplice estensione lineare della tecnologia informatica esistente per uso umano. Grazie alla capacità della VR di immergere un utente all’interno di una simulazione interattiva generata dal computer esistono nuove possibilità che possono andare oltre la semplice automazione dei precedenti approcci di valutazione e intervento clinico. Inoltre, i continui progressi nelle tecnologie abilitanti sottostanti per la creazione e la fornitura di applicazioni VR hanno portato alla sua recente disponibilità diffusa come prodotto di consumo, a volte a un costo molto basso. Ciò è particolarmente rilevante se si considerano le esperienze emotivamente evocative e cognitivamente stimolanti che ora possono essere prodotte negli utenti di VR. La ricerca è necessaria per comprendere l’impatto e l’efficacia di questa nuova tecnologia per specificare la misura in cui la VR è applicabile e aggiunge valore nel trattamento di disturbi di carattere traumatico (Maples-Keller et al., 2017).

Vieni alla Conference on Digital Psychology per saperne di più. Diversi clinici e ricercatori terranno lezioni magistrali sul tema realtà virtuale nella pratica clinica per il trattamento dei disturbi.

 

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EUROPEAN CONFERENCE OF DIGITAL PSYCHOLOGY
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Ageismo: la discriminazione basata sull’età

Il termine ageismo fa riferimento a una alterazione di sentimenti, credenze e comportamenti nei confronti di individui appartenenti a un gruppo di età differente dalla propria.

 

Come è noto, lo stereotipo è una scorciatoia cognitiva, una rappresentazione di un gruppo sociale che associa a quel determinato gruppo o categoria una serie di caratteristiche distintive, permettendo così una rapida e condivisa impressione su ciò che ci circonda. È, dunque, una immagine valutativa e semplificata dei membri di un gruppo. Essa viene acquisita precocemente, durante l’infanzia, il più delle volte ancora prima di venire a contatto con il gruppo sociale in questione.

A questa rappresentazione cognitiva si aggiungono solitamente pregiudizi, ovvero atteggiamenti sfavorevoli verso un gruppo sociale e i suoi membri, e discriminazioni, cioè trattamenti differenziali di individui sulla base della loro appartenenza sociale.

Le forme di discriminazione più studiate sono indubbiamente razzismo e sessismo, ma negli ultimi anni sta emergendo sempre più il fenomeno dell’ageismo, un prodotto culturale di cui siamo tutti vittime.

Il termine ageismo è stato coniato dal gerontologo Robert Butler (1969) e fa riferimento a una alterazione di sentimenti, credenze e comportamenti nei confronti di individui appartenenti a un gruppo di età differente dalla propria. In questo caso, dunque, ciò che differenzia Noi dagli Altri è l’età. Focalizzando la nostra attenzione sulla vecchiaia, essa viene tendenzialmente dipinta come una condizione di inesorabile declino fisico e cognitivo, di peso economico e sociale, di tristezza, isolamento e di asessualità: l’ageismo è proprio questo.

La peculiarità di questa forma di discriminazione è che non è rivolta a una minoranza discreta e limitata, essendo l’età una condizione universale, e, dunque, il confine tra Noi e gli Altri è estremamente labile.

La vecchiaia però non è sempre stata connotata negativamente, la sua accezione si è modificata a seguito dei cambiamenti demografici che stiamo tuttora vivendo. In passato gli anziani costituivano una piccola percentuale della popolazione, erano considerati insegnanti e custodi della cultura, depositari della conoscenza. La vecchiaia, dunque, evocava autorevolezza e saggezza, suscitando rispetto, riconoscimento ed emulazione. Attualmente, invece, si assiste a un aumento vertiginoso della speranza di vita e, con essa, dei tassi di prevalenza dei disturbi cognitivi e delle malattie croniche. Come sottolineato da De Beni e Borella (2015) ‘la saggezza (del vecchio) viene sostituita dalle informazioni e dalle conoscenze disponibili su fonti facilmente accessibili, l’esperienza viene soppiantata dalla ricerca scientifica e dalle relative conoscenze e i vissuti di coloro che hanno già affrontato i problemi dell’esistenza perdono di valore e significato’.

Una delle maggiori divulgatrici del fenomeno dell’ageismo è Ashton Applewhite, giornalista e attivista, autrice del libro Il bello dell’età: manifesto contro l’ageismo (2017).

Nel suo manifesto, la Applewhite afferma che ‘l’ageismo è intrecciato al tessuto della vita, rinforzato dai media e dalla cultura popolare a ogni livello e raramente sfidato‘. Invecchiare, infatti, è passato dall’essere un processo naturale a un problema sociale e la scrittrice, capitolo per capitolo, analizza e scardina ogni stereotipo legato all’invecchiamento, dalla sessualità al declino cognitivo, dalla fragilità fisica alle discriminazioni sul posto di lavoro.

La minaccia dello stereotipo nell’anziano

Gli stereotipi vengono interiorizzati dai membri del gruppo stereotipato stesso e hanno una serie di effetti negativi a livello emotivo-motivazionale, cognitivo e funzionale.

Steele e Aronson (1995), confrontando la performance di studenti bianchi e afroamericani in compiti cognitivi, hanno teorizzato la minaccia dello stereotipo, dimostrando come sia la paura di essere giudicati o trattati secondo lo stereotipo legato al proprio gruppo di appartenenza che la paura di confermare tale stereotipo con il proprio comportamento minano la performance dell’individuo, come una ‘profezia che si autoavvera’. Negli anziani la minaccia dello stereotipo si manifesta specialmente in compiti di memoria (Chasteen et al., 2005) ed è stato dimostrato che essa dipende fortemente da come viene formulata l’istruzione del compito stesso. Ciò capita anche nei test fisici, se infatti viene chiesto all’anziano di alzarsi dalla sedia senza aiutarsi con le braccia la prestazione sarà peggiore se questo verrà presentato come test di anzianità invece che di equilibrio.

Le credenze e l’immagine dell’invecchiamento diffuse tramite i media non fanno altro che promuovere nell’anziano una interiorizzazione della vulnerabilità e fragilità rappresentate, con conseguente demotivazione nel mettersi in gioco e ritiro sociale, alimentando così un circolo vizioso per cui maggiore è il ritiro minore è l’esercizio di determinate abilità, con conseguente perdita di esse e conferma dello stereotipo.

Risulta, dunque, necessario intraprendere una serie di campagne informative sulle tematiche legate al processo di invecchiamento e volte a scardinare la visione negativa diffusa sulla vecchiaia, proponendo in aggiunta interventi metacognitivi che permettano di agire sul sistema di credenze individuale.

 

“Fare ciò che conta nei momenti di stress: una guida illustrata”. La guida proposta da Russ Harris per la gestione dello stress dal prolungarsi dell’emergenza Coronavirus e promossa dall’OMS

Il prolungarsi dell’emergenza Coronavirus, non sta comportando soltanto un danno biologico ed economico ma anche psicologico.

 

Ed ecco che tra le tante iniziative di singoli professionisti, Ordini degli Psicologi di varie Regioni ed organizzazioni che cercano di intervenire su quest’ultimo aspetto, su proposta di Russ Harris, psicologo e formatore all’uso delle tecniche dell’ACT (la terapia basata sull’accettazione e l’impegno) e autore di numerosi libri e pubblicazioni, l’Organizzazione Mondiale della Sanità realizza una guida illustrata come ausilio alla gestione dello stress, scaricabile gratuitamente e già disponibile in 13 lingue.

Lo stress, come viene spiegato all’interno del libro in questione, può essere sperimentato in innumerevoli situazioni come conflitti relazionali, liti in famiglia, malattie e problemi di salute, problemi economici, difficoltà a prendere delle scelte, o come per l’appunto in questo periodo caratterizzato dal prolungarsi dell’emergenza coronavirus e relative misure preventive e restrittive, consideriamo anche lo stress dei giovani lontani dalle loro routine, coetanei e banchi di scuola.

Ma sappiamo bene che lo stress di per sé non rappresenta una risposta patologica, ma anzi una risposta adattiva dell’organismo che fa fronte alle proprie risorse per superare la condizione di disagio o che sviluppa nuove competenze per affrontare e risolvere lo stesso.

Ma quando lo stress tende a prolungarsi, come per l’appunto sta accadendo all’umanità intera a causa dell’emergenza coronavirus, ecco che diventa nocivo, con la possibile comparsa di una serie di sintomi a livello psicofisico come quelli illustrati nelle seguenti vignette contenute all’interno della guida (Fig. 1 e Fig. 2):

 

Coronavius e stress il prolungarsi dell emergenza e la guida di Russ Harris Fig 1Fig. 1: Le sensazioni legate allo stress

Coronavius e stress il prolungarsi dell emergenza e la guida di Russ Harris Fig 2Fig. 2: Gli effetti dello stress

Come aiutarci allora?

Il libro, suddiviso in 5 sezioni, ci propone degli esercizi per orientarci quando ci sentiamo agganciati, intrappolati da situazioni dolorose, emozioni o pensieri ritenuti negativi.

Vediamoli  sinteticamente insieme:

  • Radicarsi (rallenta, ritorna al presente, a ciò che conta per te veramente, ai tuoi valori);
  • Sganciarsi (nota che un pensiero o un’emozione ti ha preso all’amo e dagli un nome… ha a che fare con quello che all’interno dell’ACT prende il nome di defusione.)
  • Agire secondo i propri valori
  • Essere gentili
  • Fare spazio.

Spesso la lotta per contrastare sensazioni, emozioni e pensieri dolorosi, non serve se non a stare peggio. In tal senso, ispirato ai principi dell’ACT, l’invito è quello di accettare e fare spazio anche a queste sensazioni, emozioni e pensieri ma lasciandole scorrere come agenti atmosferici, rimanendo radicati nel presente ed impegnandoci in azioni, verso ciò che conta veramente per noi (valori).

Ognuna di queste sezioni viene spiegata, illustrata graficamente ed accompagnata da esercizi per mettere in pratica quanto contenuto.

Qui il link della traduzione italiana, curata dall’Università Kore di Enna, ad opera del Prof. Giovanbattista Presti e dell’Università di Verona ad opera del Prof. Corrado Barbui e questo il link al sito ufficiale dell’OMS con la versione nelle diverse lingue.

 

 

Dilemmi morali nei partner di pazienti con tumore

Il rischio di alti livelli di stress, depressione e ansia è frequente tra i parenti di una persona con tumore maligno cerebrale primario; le persone vicino al malato oncologico, infatti, vengono investite di una responsabilità totale e devono fare esperienza di dilemmi etici legati alla cura.

 

Il tumore maligno cerebrale primario (PMBT) è associato a una prognosi sfavorevole e a un’aspettativa di vita media di 12-15 mesi (Khasraw, Ameratunga, Grant et al., 2014). Il piano terapeutico di solito consiste in un intervento chirurgico, radioterapia ambulatoriale e chemioterapia (Weller, vandenBent, Hopkins et al., 2014) che richiede 9-10 mesi (Danish National Board of Health. Pakkeforløb for kræft i hjernen [Brain cancer pathway]). Il trattamento mira alla sopravvivenza e a mantenere o migliorare la qualità di vita del paziente.

A seconda della localizzazione del tumore e degli effetti collaterali del trattamento, i pazienti possono sperimentare effetti collaterali quali inappetenza, nausea, vomito e debolezza fisica, vari deficit neurologici e cognitivi, che riguardano la concentrazione, l’attenzione, la memoria, disturbi funzionali, crisi epilettiche (Boele, Klein, Reijneveld, 2014; Chang, Parney; Huang, 2005), e cambiamenti di comportamento e personalità (Cavers, Hacking, Erridge et al., 2012; Andrewes, Kaye et al., 2003). Al momento della diagnosi, circa il 95% dei pazienti ha riscontrato problemi cognitivi, fisici, sociali o psicologici (Day, Gillespie, Rooney et al., 2016).

Rispetto ad altri tipi di cancro, i sintomi specifici della PBMT fanno sì che i pazienti abbiano maggiore bisogno di aiuto e sostegno (Ostaghe, Gaertner et al., 2010), cosa che spesso si ripercuote sui loro parenti (Hackel, Hoser et al., 2018). Il processo di malattia è descritto dai parenti come un tempo ricco di rapidi cambiamenti (McConigley, Lobb et al., 2010): in un breve lasso di tempo, i parenti devono adattarsi a nuovi ruoli e responsabilità di cura (McConigley, Lobb et al., 2010; Sterckx et al.,2013). I compiti frequentemente segnalati sono: l’assistenza alle attività di base di vita quotidiana, la somministrazione di farmaci, l’organizzazione e la partecipazione agli appuntamenti ospedalieri, il supporto emotivo e sociale, la gestione dei cambiamenti comportamentali (McConigley, Lobb et al., 2010); a causa dei deficit cognitivi e delle capacità decisionali, spetta ai parenti prendere decisioni riguardanti le attività quotidiane dei pazienti, i compiti di cura e di trattamento che coinvolgono la loro qualità di vita e la durata della vita (McConigley, Lobb et al., 2010; Pii, Juhler et al., 2015; Sherwood, Given, Doorenbos, 2004; Madsen and Pulsen, 2011) , infatti, i parenti diventano responsabili della casa, della famiglia e delle finanze (Pii, Juhler et al., 2015; Schubart, Kinzie and Farace, 2008), generando in loro un senso di responsabilità totale (Sherwood, Given, Doorenbos, 2004). Rischio di stress, depressione e ansia sono frequentemente documentati tra i parenti di una persona con PMBT (Sherwood, Given, Given, 2006; Stieb, Fischbeck, Wagner, 2018). Per sviluppare una comprensione più profonda della complessa situazione in cui i parenti si ritrovano, un recente studio si è concentrato sull’esplorazione delle loro esperienze di dilemmi etici di cura.

Per la raccolta dati è stata utilizzata la Brinkmann’s semi-structured research interview. Il setting consisteva nel reparto di oncologia in un ospedale universitario in Danimarca. I pazienti sono stati trattati con radioterapia e chemioterapia dopo una resezione neurochirurgica. I coniugi spesso accompagnavano il loro partner all’ospedale, il che permetteva di reclutare i partecipanti a questo studio. I partecipanti (N=10) sono stati selezionati in base al criterio secondo cui vivevano con un partner PMBT in cura, e li supportavano nella vita di tutti i giorni.

Dai risultati è emerso che la vita quotidiana dei coniugi era caratterizzata da continue oscillazioni i in termini di umore, stati emotivi e comportamenti rispetto al periodo precedente alla malattia. Spesso i cambiamenti menzionati riguardavano fluttuazioni dell’umore, rabbia, irritabilità e testardaggine. La cura era caratterizzata, da un lato, dal desiderio di fare la cosa giusta per il partner, mentre dall’altro, dal cambiamento di comportamento e di personalità del partner stesso che rendeva difficile fare la cosa giusta. Con il passare del tempo, i partecipanti hanno riferito il crescente bisogno di aiuto e sostegno da parte del partner, contribuendo alla frustrazione e alla disperazione, perciò il dilemma dei coniugi consisteva in arrendersi o resistere. Nel presente studio, gli autori hanno raggruppato le esperienze dei coniugi sui dilemmi quotidiani nella cura in un unico concetto principale: “oscillare in un rapporto instabile” che si declina in tre sotto-temi: “fare la cosa giusta in situazioni quotidiane imprevedibili”, “essere combattuto tra pazienza e senso di colpa” e “vivere in un tempo di incertezza, speranza e disperazione”.

  1. Fare la cosa giusta in situazioni quotidiane imprevedibili: si tratta di un sentimento di responsabilità nell’aiutare il proprio partner a vivere una vita il più normale possibile. I coniugi hanno mostrato una grande compassione per la situazione di vita, oltre che per i gravi sintomi con cui il partner viveva, tuttavia, si trovavano nel dilemma di voler aiutare il partner a mantenere l’autodeterminazione all’interno della propria posizione, dei ruoli e dei valori che li caratterizzavano prima della malattia, ma che erano cambiati con la malattia. I coniugi vivevano una battaglia quotidiana: volevano mostrare rispetto nei confronti del partner come persona, ma trovavano difficile gestire i cambiamenti dei partner senza farlo sentire compromesso. L’imprevedibile modo di essere dei partner rendeva i coniugi più attenti a come si comportavano e parlavano con il partner. Avere una normale conversazione reciproca con il partner su ciò che era giusto o sbagliato è diventato difficile. Inoltre, in caso di partner con deficit cognitivi, i coniugi hanno espresso la sensazione di sentirsi eccessivamente responsabili della presa di controllo sulla pianificazione della giornata: si trovavano spesso in un dilemma in cui il partner voleva essere coinvolto, ma non ne aveva la capacità, cosa che si traduceva in irritabilità. Sentirsi responsabili di far funzionare la vita quotidiana del proprio partner significa anche aiutare il partner in attività quotidiane come la doccia, vestirsi, servire il cibo e assumere farmaci. I coniugi dovevano fronteggiare la mancanza di autoconsapevolezza dei bisogni da parte del partner: spesso erano intrappolati in situazioni in cui il partner aveva bisogno di aiuto, ma lo rifiutava. I coniugi si sono sentiti disperati tra il prendere decisioni a nome del loro partner quando il loro partner ha avuto bisogno di aiuto, e l’irritabilità del partner quando l’aiuto gli è stato dato.
  2. Essere combattuto tra pazienza e senso di colpa: si riferisce a sentimenti contrastanti di lotta per rimanere paziente con il cambiamento di comportamento e di personalità dei partner e il senso di colpa per la loro impazienza. Alcuni coniugi hanno espresso che essere sempre vigili e attenti alle fluttuazioni d’umore dei loro partner ha contribuito nel tempo alla sensazione di cedere a un partner sleale, al punto di sembrargli sbagliato fare tutto per il partner per tutto il giorno, per poi essere accolti con irritabilità.
  3. Vivere in un tempo di incertezza, speranza e disperazione: si riferisce a un sentimento conflittuale tra speranza e disperazione relativamente a come si svilupperà la vita futura dei partner. La maggior parte delle interviste rifletteva una preoccupazione circa come continuare a vivere con il partner, che era molto cambiato rispetto al periodo precedente alla malattia. Pertanto queste persone sperimentavano al contempo speranza per la sopravvivenza del partner e disperazione intesa come “se sopravvivesse non riuscirei a gestire i problemi e i comportamenti imprevedibili del partner”. Questi pensieri erano seguiti da un altro dilemma morale conflittuale: sapere che al partner non piacerebbe essere curato da un servizio di assistenza domiciliare o stare in una casa di cura e deludere il partner se decidesse di lasciare che altri si prendano cura di lui. Per queste ragioni, i coniugi si trovavano a sperimentare un altro dilemma, riguardante ciò che loro stessi hanno definito “pensieri proibiti”: non si sentivano pienamente felici quando le analisi segnalavano stabilità o segni di miglioramento del partner.

 

Maladaptive daydreaming: essere prigionieri dei propri sogni ad occhi aperti

Fantasticare è una normale attività della mente, che assume solitamente carattere necessario e stimolante per l’uomo nella vita di tutti i giorni, ma non è così nel caso del Maladaptive Daydreaming (MD), che finisce col diventare una condizione profondamente invalidante.

 

Eli Somer ha individuato e definito per la prima volta questo disturbo nel 2002; la traduzione letterale è proprio ‘sognare ad occhi aperti disadattivo’ ed è definito come ‘un’estesa attività della fantasia che sostituisce l’interazione umana e/o interferisce con il funzionamento scolastico, interpersonale  o professionale‘ (p. 197, trad. dell’autore).

Tale definizione si distacca completamente dal semplice concetto di fantasticare, diventando una condizione grave proprio in considerazione del tempo speso, dei contenuti e della mancanza di controllo delle fantasie e dell’esperienza stessa, traducendosi dunque in una condizione di sofferenza che interferisce con il naturale e corretto funzionamento quotidiano (Gervasi et al, 2019).

Questa condizione è più sviluppata di quanto si possa pensare. Infatti, attualmente esistono centinaia di pagine, siti web, blog personali e testimonianze su canali youtube in cui individui provenienti da tutto il mondo condividono le proprie esperienze e angosce, riguardo la presenza di questi sintomi e dell’enorme mole di tempo legata proprio alla creazione di vividi e strutturati sogni ad occhi aperti. Questi individui si definiscono ‘Maladaptivedaydreamers’ (MDers) ed espongono anche tutta una serie di comportamenti ripetitivi e rituali, associati a questa condizione, come il camminare avanti e indietro, comportamenti che si traducono appunto in ulteriore tempo sottratto alle normali faccende quotidiane. Questi individui tuttavia trovano in questi gruppi e/o comunque punti di raccolta di informazioni, degli strumenti fondamentali per confrontarsi, in quanto prima di scoprire questi siti credevano di essere i soli a soffrire di questo insolito comportamento (Somer, Somer e Jopp, 2016a).

Inoltre si dimostrano molto sorpresi e sollevati per il fatto di scoprire di non essere gli unici ad avere tali abitudini e comportamenti, unitamente alla presenza di informazioni su tali siti e il fatto che gli venga fornita la definizione di Maladaptive Daydreaming. Questo gli permette di interagire con gli altri MDers, chiedendo consigli su come smettere o a loro volta dandoli (Gervasi et al, 2019).

Molti MDers affermano di aver cercato in precedenza una cura o un aiuto dai professionisti della salute mentale ma da alcuni di questi il loro MD era stato minimizzato, etichettato come clinicamente insignificante oppure mal diagnosticato e attribuito a qualche altro disturbo (Somer, Somer, &Jopp, 2016b).

In cosa consiste?

Il Maladaptive Daydreaming porta il soggetto a creare fantasie strutturate e complesse che prevedono una vera e propria trama e dei personaggi, proprio come in un film; ad innescare tali processi creativi sono dei veri e propri rituali, come uno specifico suono, la musica o la tv, ovvero i cosiddetti triggers mentre ad accompagnarle è la cosiddetta attività cinestetica, che comprende il passeggiare avanti e indietro o la messa in atto di vere e proprie espressioni facciali connessi alle emozioni sperimentate durante le fantasia come la felicità o la tristezza (Gervasi et al, 2019).

Il Maladaptive Daydreaming può essere concepito sia come una forma di dissociazione dalla realtà circostante, in quanto ci si immerge in una realtà illusoria (Somer et al., 2016a) attraverso una disconnessione dagli stimoli reali (Ross, Joshi, &Currie, 1990,1991) sia una forma di dipendenza in quanto l’individuo non può più fare a meno dei propri sogni ad occhi aperti ( ollander, 1993).

A differenza dei sogni notturni (Freud, 1899, Rizzuto, 1991), che hanno a che vedere con il meccanismo di difesa della rimozione, avendo come scopo quello di soddisfare un desiderio infantile represso, la finalità delle fantasie è quella di ridurre dei sentimenti di vergogna patologica, e hanno a che vedere con il meccanismo della dissociazione (Winnicott, 1990).

Il ruolo della vergogna

Un ruolo fondamentale nella generazione di queste fantasie potrebbe ricoprirlo la presenza di traumi pregressi (Somer,2002), per cui il soggetto potrebbe immergersi in questa realtà alternativa illusoria, proprio per sottrarsi al sopravvento delle emozioni negative associate al riemergere di questi traumi, finendo però col restare intrappolati in queste fantasie (Bigelsen et al, 2016). La vergogna associata a queste emozioni traumatiche spinge con forza l’individuo a rifugiarsi nel suo mondo immaginario (Gabbard, 2007), e l’attività cinestetica assume una valenza fondamentale proprio per allontanarsi da tutti e non essere scoperti (Bigelsen&Schupack, 2011).

Ad avallare il fatto che la vergogna e il distacco possano giocare un ruolo fondamentale è stato anche lo studio condotto da Schimmenti e collaboratori del 2019, effettuato su un gruppo di 135 MDers confrontati con un gruppo di controllo. Dai risultati di questo studio si evince che molto spesso nel Maladaptive Daydreaming non solo siano presenti disturbi dissociativi, ma anche altri percorsi e sintomi patologici di varia natura fino a disturbi di personalità disadattivi e sentimenti di vergogna. Proprio partendo da queste evidenze, gli autori hanno ipotizzato diverse teorie: innanzitutto che il bisogno di percepire la grandiosità del proprio sé sia soddisfatto proprio da tali fantasie, e che quindi l’individuo che attua questo distacco dalla realtà e dalle relazioni reali, possa provare piacere solo immergendosi in questi mondi di fantasia o che la loro presenza disadattiva potrebbe essere associata ad una vulnerabilità narcisistica. Quindi il Maladaptive Daydreaming potrebbe addirittura essere un mezzo efficace che porta l’individuo a dedicarsi con maggiore sicurezza alle attività della vita quotidiana, proprio perché riesce ad allontanarsi e distrarsi da questi sentimenti di vergogna. E inoltre è stato anche ipotizzato che tali sentimenti di vergogna esperiti dal soggetto potrebbero essere proprio considerati come una conseguenza del Maladaptive Daydreaming (Gervasi et al, 2019).

Il confine tra normalità e patologia

Riguardo alle caratteristiche che differenziano il daydreaming adattivo da quello patologico, in primis vi potrebbe essere proprio l’interpretazione che il soggetto stesso dà del proprio fantasticare. Infatti, i soggetti che ricorrono alla fantasia in maniera adattiva, la utilizzano nel migliore dei modi, tanto da incrementare i sentimenti positivi su se stessi e figurarla come una vera e propria risorsa, mentre i MDers, interpretano tale attività solo come un’evidente prova della loro vergogna, debolezza ed inadeguatezza (Somer,2002).

Dagli studi di Bigelsen e Schupak (2011) su individui che soffrono di Maladaptive Daydreaming, in relazione all’interferenza con il funzionamento quotidiano e la quantità, vengono riportate medie del tempo speso a fantasticare che vanno da 1 fino a 10 ore.

Si evidenzia la differenza tra le attività mentali di rievocazione considerate normali (come il pensare a eventi passati o immaginare i futuri), dove i soggetti tornano alle loro attività e alla realtà senza alcuno sforzo, e le fantasie che invece generano una vera e propria sofferenza, impedendo un’adeguata concentrazione e sottraendoli al ritorno alla realtà concreta (Gervasi et al,2019).

Altro elemento chiave è la difficoltà di limitare il daydreaming: la generazione di tali sogni ad occhi aperti avviene in maniera consapevole e senza particolare sforzo da parte dell’individuo ma ciò che non riesce a controllare è proprio l’impulso a creare tali fantasie (Bigelsen&Schupak, 2011).

Anche se l’individuo che ne soffre continua ad avere la capacità di sottrarsi a queste fantasie quando richiesto dal mondo esterno e in presenza di relazioni reali esterne, tuttavia talvolta la possibilità di limitare il daydreaming sembra non avere successo e comunque anche quando viene interrotto permane nell’individuo un irrefrenabile impulso di tornare al mondo generato dalla propria fantasia (Bigelsen et al, 2016).

Nel daydreaming, il soggetto possiede straordinarie qualità e soprattutto l’approvazione degli altri personaggi, cosa che non avviene nel mondo reale, diventando così una realtà alternativa ben più stimolante di quella circostante (ibidem).

L’ultima differenza significativa può essere assunta dalla presenza nel MD dell’attività cinestetica, (Bigelsen et al, 2016). Differentemente dal daydreaming normativo, i soggetti affetti da tale disturbo riescono ad immergersi quasi completamente nelle loro fantasie, tanto da esperire stimoli uditivi, visivi o sensoriali sempre più forti e coinvolgenti (Bigelsen et al, 2016).

 

 

La gestione delle problematiche alimentari: “Il rapporto con il cibo durante le festività: come regolare abbuffate e restrizioni” – Report e video dell’evento tenuto dal CIPda Milano

Si propongono il report ed il video del webinar organizzato dal CIPda Milano il 19 dicembre 2020 incentrato sui Disturbi Alimentari e le festività, dal titolo Il rapporto con il cibo durante le festività: come regolare abbuffate e restrizioni.

 

Report del webinar mensile tenuto dall’équipe multidisciplinare del Centro Disturbi dell’Alimentazione di Milano (CIPda): un ciclo d’incontri finalizzato alla gestione delle problematiche alimentari, indirizzato alla popolazione generale e nato per garantire supporto a chi si interfaccia con individui con Disturbi Alimentari, o più in generale, con chi mostra criticità verso l’alimentazione e la forma fisica.

L’impostazione dell’incontro si è articolata in 2 momenti: il primo dando voce ai quattro differenti specialisti dell’équipe multidisciplinare del CIPda; il secondo dando spazio al pubblico, tramite domande libere scritte in chat.

Il primo momento è iniziato con una breve introduzione della Dott.ssa Rosaria Nocita (direttrice operativa), che ha introdotto i quattro specialisti e stimolato il loro intervento, tripartito nelle principali sotto-categorie diagnostiche del disturbo alimentare: anoressia nervosa (AN), bulimia nervosa (BN) e disturbo da alimentazione incontrollata (DAI).

Indicazioni su come agire con pazienti con anoressia nervosa

Prende la parola il Dott. Schiena (psichiatra), il quale ribadisce l’importanza di non sottovalutare e sminuire mai un disturbo psichico invalidante come l’anoressia nervosa, specialmente in un contesto di abbondanza alimentare come quello dei pasti natalizi, in quanto, per questa categoria di pazienti, la perdita di peso costituisce un obiettivo prioritario e costante. Lo specialista sottolinea che le festività si configurano come un momento critico non solo per la sovrabbondanza di cibo, ma anche per possibili commenti inopportuni da parte dei commensali sull’alimentazione e sulla forma fisica del paziente (es: ‘Ti vedo molto sciupata, mangia come si deve! L’anno scorso eri un po’ in carne, sei dimagrita, ti vedo bene!’). Per limitare il rischio di questi scenari, lo psichiatra invita a cercare di non invitare amici o parenti che non si incontrano da molto tempo, favorendo, invece, intime riunioni con persone che prima dell’incontro vengano informate dai genitori della problematica del proprio figlio/a, senza fingere che il disturbo sia inesistente o irrilevante.

Lo psichiatra ha concluso il suo intervento proponendo un vademecum riassuntivo, articolato nei seguenti punti:

  • Ridurre il più possibile la numerosità dei commensali
  • Avvisare tempestivamente i commensali della problematica alimentare della persona
  • Ridurre al minimo le portate e la presenza di cibo in vista sulla tavola
  • Non indurre il paziente a forzare l’alimentazione
  • Accettare che potrebbero presentarsi momenti di difficoltà, nonostante vengano rispettate pedissequamente tutte le indicazioni
  • Proporre attività distraenti post-pasto (es: gli iconici giochi da tavolo)

Indicazioni utili per pazienti che soffrono di bulimia nervosa

L’incontro è proseguito con l’intervento della Dott.ssa Tramontano (psicologa-psicoterapeuta), la quale spiega quanto il periodo delle feste natalizie possa acuire il circolo restrizione-abbuffata: il nucleo psicopatologico iatrogeno che sostiene la sintomatologia dei pazienti con bulimia nervosa.

La Dott.ssa ha presentato una lista di accortezze da seguire con questa sotto-categoria di problema alimentare:

  • Cercare di non tenere troppo cibo in casa, evitando di mettere in vista le scorte, in quanto potrebbero assumere la valenza di stimolo trigger, elicitando il meccanismo restrizione-abbuffata
  • Comunicare al paziente il menù del pasto con dovuto anticipo
  • Sviluppare strategie per far sentire il paziente il meno stigmatizzato possibile
  • Evitare che i piatti di portata permangano sulla tavola

La psicoterapeuta ribadisce quanto, tendenzialmente, il momento più critico per questi individui sia quello post-pasto, in quanto spesso subentra la tendenza a rimuginare sul grado di controllo alimentare attuato, sulla percezione che sia stato allentato il grado controllo sull’alimentazione, a focalizzarsi eccessivamente sulle sensazioni interne di pienezza e gonfiore.

A tal proposito, risulta opportuno proporre attività distraenti che distolgano l’attenzione dai temi dell’alimentazione e della forma fisica: in questo contesto i famigliari potrebbero diventare una risorsa funzionale e significativa per il paziente.

Raccomandazioni per chi soffre di disturbo da alimentazione incontrollata

Al termine dei due interventi, segue quello della Dott.ssa Ranzini (psicologa-psicoterapeuta). Quest’ultima ribadisce che, a tratti, le raccomandazioni da seguire con questa sotto-categoria diagnostica si sovrappongono a quelle precedentemente esposte per AN e BN.

La Dott.ssa ha fornito le seguenti indicazioni per i momenti pre e post-pasto:

  • Pre-pasto:
    Lasciare aperta la possibilità di rifiutare certi inviti (importanza della libertà di scelta)
  • Attuare una pianificazione in anticipo, senza attenersi a regole estremamente rigide
  • Aumentare la consapevolezza su ciò che si sta mangiando (tecnica dell’alimentazione consapevole): ingerire piccoli bocconi di cibo, masticare lentamente e focalizzarsi sul gusto degli alimenti, in quanto l’aumento della consapevolezza alimentare è determinante nel ridurre la sensazione di perdita di controllo.

Post-pasto:

  • Proporre attività distraenti, preferibilmente cambiando stanza
  • Diminuire la quantità di cibo disponibile e mettere in tavola unicamente le porzioni che verranno servite

Accorgimenti dal punto di vista nutrizionale, per evitare perdite di controllo alimentare

L’incontro è proseguito con un contributo della dietista della clinica: la Dott.ssa Ramponi, la quale ha ribadito l’importanza di attuare dei piccoli accorgimenti, che possono, però, assumere una rilevanza nucleare nella riduzione del carico ansiogeno di questi pazienti durante le feste natalizie:

  • Procedere per piccoli passi pianificando il pasto e inserendo nella pianificazione alimenti gestibili senza particolari difficoltà
  • Non affidarsi eccessivamente agli stimoli interni: l’invito è di rivolgere l’attenzione sulle conversazioni e non sulle sensazioni di pienezza e gonfiore
  • Cercare di evitare restrizioni alimentari nei giorni precedenti e seguenti alle feste
  • Potrebbe essere utile condividere il cibo che avanza con gli altri commensali, senza però sentirsi obbligati ad accettare
  • Cercare di trovare metodi di scambio dei regali alternativi a doni che contemplino la centralità del cibo e impegnarsi in attività distraenti alternative a quelle che coinvolgono il cibo (es. andare a visitare una città, al museo o al cinema: proposte purtroppo inattuabili in questo momento storico, che possono essere, però, sostituite dalla modalità virtuale)

Infine il pubblico è stato informato di seguire le video-risposte sulla pagina Facebook del CIPda, spazio in cui i curanti risponderanno a tutte le domande restanti emerse dalla chat dell’incontro. Il webinar si è concluso con un augurio di buone feste da parte di tutta l’équipe.

 

IL RAPPORTO CON IL CIBO DURANTE LE FESTIVITA’ – Guarda il video integrale del webinar:

 

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Il fenomeno dei phantom phone signals

Il fenomeno denominato Phantom Phone Signals (Segnali Telefonici Fantasma) consiste nella percezione errata di un segnale telefonico, ad esempio una chiamata in arrivo, un messaggio o una notifica, senza che questo si stia realmente verificando.

 

Lo smartphone è uno degli strumenti tecnologici a cui l’uomo del ventunesimo secolo dedica la maggior parte del suo tempo che sia per lavoro o per intrattenimento. Ciò ha prodotto un grande cambiamento nella vita quotidiana delle persone oltre che l’insorgere di fenomeni psicologici nuovi, presto diventati oggetto di interesse di ricercatori e studiosi.

Tra questi si inserisce il fenomeno denominato Phantom Phone Signals o, in italiano, Segnali Telefonici Fantasma (Tanis, 2015). Esso consiste nella percezione errata di un segnale telefonico (ad esempio una chiamata in arrivo, un messaggio o una notifica) senza che questo si stia realmente verificando (Tanis et al., 2015). In altre parole, si potrebbe definire come quella allucinazione per cui si avverte il telefono squillare o vibrare.

Il primo studio in questo ambito risale al 2007, quando David Laramie, nella sua tesi di dottorato sugli aspetti emotivi e comportamentali connessi all’uso del cellulare, verificò che circa due terzi dei soggetti coinvolti nello studio avevano sperimentato questo fenomeno. Laramie coniò così il termine “Ringxiety”, dall’unione delle rispettive parole inglesi (ring, anxiety). Il suo studio venne poi pubblicato e i dati emersi iniziarono ad essere discussi in ambito scientifico fino a generare un movimento di ricerca. Uno degli autori che si è interessato maggiormente al tema è Tanis (2015), il quale ha proposto una definizione nuova e più generale del fenomeno, appunto, quella dei Segnali Telefonici Fantasma (Phantom Phone Signals) che possono manifestarsi o nella forma di “Phantom Vibration” (falsa percezione di una vibrazione del telefono) o di “Phantom Ringing” (falsa percezione della suoneria del telefono).

Sin dalle prime ricerche, è stata riscontrata un’ampia prevalenza del fenomeno nella popolazione con una percentuale che varia tra il  27.4% al 89% (Kruger & Djerf, 2016). Lo studio di Tanis (2015), in particolare, dimostrò che l’82% dei soggetti del suo campione aveva sperimentato almeno una volta una delle tipologie di Segnali Telefonici Fantasma e di questi circa il 50% dichiarava che ciò accadesse con la frequenza di almeno una volta a settimana. Successivamente, Kruger (2016) rilevò che la falsa percezione di una vibrazione fosse l’esperienza più comune nei soggetti (82%), mentre la meno condivisa fosse quella relativa alla falsa percezione della suoneria del telefono (45%).

Gli studi sulla diffusione del fenomeno sono stati accompagnati da alcune ipotesi interpretative relative ai possibili meccanismi sottostanti e da ulteriori ricerche sulle potenziali variabili associate. Rothberg (2010), in particolare, descrisse il fenomeno delle vibrazioni fantasma come un’allucinazione sensoriale per cui il cervello è portato ad interpretare erroneamente un input sensoriale (proveniente dal telefono) o percepisce una sensazione che non è reale. Ciò, secondo l’autore, potrebbe avere luogo nella corteccia cerebrale che, applicando filtri o schemi conosciuti in base a ciò che si aspetta di recepire, compirebbe interpretazioni errate dei segnali sensoriali in entrata (come contrazioni muscolari, pressione dai vestiti, rumore ambientale). Secondo Rothberg e colleghi (2010), inoltre, sebbene la presenza di allucinazioni potrebbe far pensare ad un assetto psicopatologico, in realtà si potrebbe trattare di una conseguenza della plasticità cerebrale, con un potenziale valore adattivo. Gli studi sui possibili predittori dei Phantom Phone Signals hanno individuato e poi analizzato alcuni fattori tra i quali fattori demografici, di personalità, tratti di ansia e depressione e altri correlati all’uso stesso dei telefoni cellulari. Dagli studi sono stati riscontrati numerosi dati significativi. In particolare, è emerso come l’intensità d’uso del telefono sia un importante predittore del fenomeno (Rothberg et al., 2010, Subba et al., 2013). Questo risultato contribuisce a delineare le caratteristiche di un fenomeno nuovo ed altamente diffuso nella popolazione. Tuttavia, data la sua recente scoperta, risulta ancora parzialmente sconosciuto ai ricercatori ed indubbiamente necessita di ulteriori approfondimenti.

 


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Contatto, profumo di tenerezza – Rubrica Psico-canzoni

Il presente articolo, riflettendo sull’ultimo brano dei Negramaro “Contatto”, mette in luce il bisogno di contatto fisico appartenente, come a tutti i mammiferi, anche all’essere umano.

Psico-canzoni – (Nr.5) Contatto

 

Contatto dei Negramaro è la descrizione di come nell’essenzialità l’essere umano possa trovare la strada per essere felice. Il consumismo attuale trae erroneamente nell’inganno che possedere qualcosa abbia il potere di colmare il vuoto che ci portiamo dentro. Questo tipo di vuoto però è sinonimo di solitudine.

In un mondo dove illusoriamente le relazioni vengono coltivate attraverso lo smartphone e negli ultimi tempi le emozioni si mimetizzano dietro ad una mascherina, Giuliano Sangiorgi e il suo gruppo propongono un brano che punta il faro sul reale bisogno dell’essere umano: il contatto con le persone amate.

Negli anni ’50 lo psicologo statunitense Harry Harlow, docente all’Università del Wisconsin, avviò uno studio sull’attaccamento e l’affettività. Egli trattenne delle scimmie Rhesus in una gabbia con due finte mamme: una metallica rappresentata da un impianto di fil di ferro a cui era associata la tettarella di un biberon, l’altra morbida e calda, che però non apportava alcuna forma di nutrimento.

Le scimmie preferivano la mamma morbida e calda, pur se da essa non potevano sostentarsi. La conclusione dello studio fu che il bisogno di contatto fisico nei mammiferi ha un peso maggiore rispetto a quello di cibo.

Circa 70 anni dopo questi studi, il brano dei Negramaro, uscito il 9 Ottobre 2020 ed edito dall’etichetta Sugar, cita

ho cercato il contatto per sfiorarti ogni tanto, per capire che in fondo nel mondo non sono così solo.

Giuliano Sangiorgi sembra dare voce alla scimmietta che sceglieva la mamma morbida a quella “nutriente”. La stessa voce spesso rimbomba nel nostro corpo, ma non le diamo ascolto.

Ognuno di noi nel momento in cui ha bisogno dell’abbraccio, della carezza, del bacio o di qualunque altra sensazione tattile simile, dipende da un altro essere umano. Sentimenti come la rabbia, la paura, l’invidia spesso sono correlati non tanto all’impossibilità di avere tale contatto quanto alla difficoltà di ammetterne il bisogno e di arrendersi dunque alla dipendenza nei confronti delle persone che si ama.

Sì la vita che volevo è tutta qui, gli amici che sognavo proprio così, fatti di carne ed ossa e di un bel film

riprende a cantare più avanti Sangiorgi, mostrando come nella semplicità della vicinanza e della tenerezza si possa trovare il soddisfacimento delle proprie necessità. La “mamma morbida” di Harlow nella cultura attuale sembra essere sostituibile con macchine, alcool, droga, sigarette, beni di lusso. Quante volte, invece, delle persone possono rappresentare tutto ciò che ci occorre, perché nel loro abbraccio troviamo la “casa” di cui abbiamo bisogno?

La caducità dei beni materiali aiuta per brevi momenti a riempire il vuoto che stagna nel nostro stomaco, ma l’unica via per colmarlo davvero è arrendersi al bisogno di contatto con l’altro. Dentro di noi infatti resta sempre il bambino che ha bisogno delle coccole materne, ma che talvolta ha difficoltà ad ammetterlo a se stesso. E in ogni tipo di affetto possiamo darci l’opportunità di sperimentare nuovamente quella tenerezza che profuma di casa. Del resto come diceva il poeta John Donne:

Nessun uomo è un’isola.

 

CONTATTO – Guarda il video del brano:

 

Dispercezioni ed esperienze allucinatorie tra i corridori ad alta quota: uno studio Italiano

La combinazione tra altitudine, stress estremo, affaticamento, deprivazione prolungata del sonno e uso di psicostimolanti in quantità elevate funge da fattore di rischio per fenomeni allucinatori e dispercezioni.

 

L’esposizione dell’essere umano ad elevati livelli di altitudine, può influenzare aspetti psichici e neuro-comportamentali; provocando talvolta fenomeni di dispercezione sensoriale (Alonso et al., 2004; Bolmont et al., 2000; Dong et al., 2013; Fagenholz et al., 2007). Molti atleti, che praticano attività a media ed alta quota, manifestano sovente disturbi somatici legati alle difficoltà di adattamento e alla ridotta pressione parziale dell’ossigeno nell’atmosfera, accompagnati da un incremento dei livelli di ansia (Cheng, 2010; Huber et al., 2014; Sracic et al., 2014). Tra i sintomi insoliti, possono sperimentare ritardi nella risposta a compiti cognitivi, allucinazioni visive (Hurdiel et al., 2015) o sensazioni di galleggiamento non associate ad alcun deficit neurologico o psichiatrico (Dietz & McKiel, 2000).

Lo studio di Carbone et al. (2020), ha indagato le conseguenze neuro-comportamentali e psichiche legate all’adattamento umano in condizioni ambientali estreme, in soggetti che svolgevano attività agonistica in montagna. Gli ultra-trail runners praticano uno sport che combina corsa ed escursionismo in forte pendenza, compiendo gare in condizioni psico-fisiche caratterizzate da deprivazione del sonno e stress (Millet et al., 2011; Saugy et al., 2013).

Gli autori, durante le interviste hanno riscontrato un elevato tasso di esperienze allucinatorie temporanee riportate dai 21 atleti, perfino tra coloro che gareggiavano ad altitudini relativamente basse.

La maggioranza dei soggetti che riportavano anomalie percettive, avevano rielaborato in modo fantasioso aspetti come nuvole, rocce, cespugli o alberi; interpretandoli come bestie fantastiche (draghi, goblin o gremlis). Queste illusioni, responsabili di forte disagio emotivo, sono state considerate fenomeni para-fisiologici legati alle condizioni avverse (Smailes et al., 2020).

Un soggetto ha riportato allucinazioni visive più elaborate, ovvero l’apparizione dei suoi familiari durante la corsa per sostenerlo nella fatica, che lo hanno accompagnato per diversi chilometri. Mentre un altro atleta ha riportato la percezione vivida della presenza di un compagno che lo ha aiutato e incoraggiato a concludere la gara, un altro ha sperimentato la sensazione di fluttuare.

Le percezioni illusorie del campione, sono coerenti con quelle riportate nella letteratura clinica e alpina (Dinges et al., 1994; Goel et al., 2013; Lucas et al., 2009); mentre la maggioranza riportava dispercezioni visive di oggetti reali, o percezioni del tutto errate in assenza di oggetto, sono pochi coloro che hanno avuto allucinazioni complesse e fenomenologicamente simili a quelle causate da danno cerebrale o da psicosi maggiori (come disturbo bipolare e schizofrenia).

L’assenza di un disturbo medico o psichiatrico alla base delle esperienze illusorie e allucinatorie, permette di ipotizzare che l’origine dei fenomeni sia ricondotta alla peculiarità della condizione.

I partecipanti, oltre a subire lo stress legato allo sforzo fisico, facevano uso eccessivo di sostanze psicostimolanti come caffeina e teina, trovandosi in condizioni di deprivazione del sonno.

Secondo alcuni autori, la carenza di sonno, tollerato fino a 72 ore, compare come causa comune dei fenomeni allucinatori; coerentemente con il fatto che i corridori dello studio hanno iniziato a sperimentare allucinazioni visive a partire dal terzo giorno di gara (Belenky et al., 2003; Goel et al., 2013)

Sebbene non siano presenti dati più specifici a supporto del legame causale tra attività fisica intensa in contesto montuoso ed esperienze allucinatorie; emergono osservazioni cliniche che coinvolgono l’ipossiemia acuta (ridotta quantità di ossigeno disponibile nel sangue), l’ipocapnia (ridotta concentrazione di anidride carbonica nel sangue), alterazioni dell’emodinamica cerebrale e la privazione del sonno (Brugger et al., 1997; Hurdiel et al., 2015). L’esercizio fisico intenso e l’iperventilazione in ambienti ipossici, ovvero privi di ossigeno, producono ridotta concentrazione di anidride carbonica e ossigeno nel sangue con il rischio della comparsa di allucinazioni.

Probabilmente, anche aspetti secondari sono coinvolti nel processo; come disfunzioni specifiche di alcune aree del cervello conseguenti alle altitudini estreme. La corteccia temporo-parietale è responsabile delle sensazioni di caduta, delle illusioni parossistiche riferite dalla percezione di una presenza accanto, delle esperienze extracorporee, delle sensazioni di fluttuazione e distorsioni corporee (Penfield & Perot, 1963). Queste aree cerebrali sono sensibili alla riduzione di ossigeno, in quanto in condizioni ipossiche l’afflusso di sangue diviene inadeguato, compromettendo anche l’integrazione senso-moria.

In accordo con la psicopatologia classica, le dispercezioni sensoriali riportate dagli atleti dello studio, sono state raggruppate in tre diversi cluster.

Al primo gruppo appartengono coloro che hanno riportato fenomeni di alterazione dello stato di coscienza; soprattutto variazioni dell’esperienza percettiva come derealizzazione (percezione di irrealtà) e depersonalizzazione (percezione di distacco dal proprio corpo). Questi soggetti avevano in comune tratti ansiosi, soffrivano di panico e agorafobia; tutti aspetti di vulnerabilità che concomitanti alla condizione di stress avrebbero potuto causare tali anomalie percettive.

Le illusioni percettive sperimentate dagli atleti appartenenti al secondo cluster, ricondotte alle condizioni avverse della gara; sono emerse sotto forma di semplici pareidolie (tendenza istintiva a strutturare gli stimoli sensoriali secondo forme ordinate e familiari) o distorsioni delle immagini.

Le illusioni vengono sperimentate quando stimoli esterni si fondono con elementi psichici soggettivi, formando un insieme percettivo non corrispondente alla realtà. Esse non implicano la perdita del senso di realtà, ma sono favorite da un particolare stato emotivo o un abbassamento della soglia attentiva, causato da fatica, stress ed abuso di stimolanti.

Nel terzo cluster sono stati collocati soggetti che riportavano vere e proprie allucinazioni sensoriali; ovvero false percezioni soggettivamente percepite come reali, ma insorte senza la presenza dell’oggetto. Gli atleti che le hanno sperimentate, avevano in comune tratti specifici dello spettro psicotico, esacerbati dalle condizioni di stress e dall’uso di psicostimolanti.

Complessivamente, questa indagine preliminare, rileva come l’altitudine, concomitante ad uno stress estremo, affaticamento, deprivazione prolungata del sonno e uso di psicostimolanti in quantità elevate; sia una combinazione che funge da fattore di rischio per fenomeni allucinatori. Inoltre, tratti temperamentali e personologici possono essere fattori predisponenti all’insorgenza di determinati fenomeni dispercettivi, ad esempio la derealizzazione e depersonalizzazione riscontrate tra coloro tendenzialmente ansiosi.

Infine, l’elevata prevalenza e la natura ben definita delle allucinazioni visive valutate in questo campione privo di disturbi psichiatrici o neurologici, danno spunto alla ricerca futura per un’indagine più approfondita del fenomeno in un contesto para-fisiologico.

 

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