expand_lessAPRI WIDGET

Il massaggio neonatale come strumento che sostiene e favorisce il benessere del neonato, la genitorialità e il legame di attaccamento genitore-bambino

Il massaggio del bambino è un’antica tradizione di cura, tramandata di genitore in genitore per generazioni intere, presente nelle culture di molti paesi che recentemente è stata riscoperta e si sta espandendo anche nel mondo occidentale.

 

L’evidenza clinica e recenti ricerche hanno confermato l’effetto positivo del massaggio sullo sviluppo e sulla maturazione del bambino a diversi livelli.

Con il massaggio possiamo accompagnare, proteggere e stimolare la crescita e la salute del bambino:

  • favorisce uno stato di rilassamento sciogliendo le tensioni toniche e i piccoli malesseri;
  • la stimolazione tattile promuove ed accelera le connessioni neuronali, favorendo la crescita della guaina mielinica;
  • può avere effetti benefici sui dolori della crescita, su fastidi dovuti alla dentizione, previene ed attenua le coliche intestinali;
  • facilita nel bambino la conoscenza del suo schema corporeo, lo aiuta a correggere la sua posizione distendendo i muscoli ed aiutandolo a coordinare i movimenti, migliora la capacità di apprendimento e l’integrazione sensoriale.

Il massaggio non è una tecnica, ma è un modo di stare con il bambino, che favorisce il legame di attaccamento e rafforza la relazione genitore-bambino. È un mezzo privilegiato per comunicare ed essere in contatto con il proprio bambino, che sostiene e stimola le competenze e l’autostima dei genitori.

Qualunque sia la forma che assume la pratica, è importante sapere che non ci sono potenziali danni per il bambino. La sensibilità della pelle è una delle funzioni del corpo che si sviluppa per prima ed è particolarmente importante; la stimolazione dell’epidermide è, infatti, essenziale per uno sviluppo organico e psicologico adeguato sia per gli animali che per gli esseri umani. I famosi esperimenti sulle scimmie condotti da Harlow nel 1958, hanno per primi dimostrato che per i piccoli il benessere creato dal contatto è persino più importante del cibo. Harlow (1958) evidenziò che le scimmie, chiuse in gabbia con due sostituti materni (uno di peluche caldo e morbido che non forniva latte, e l’altro freddo e duro, fatto con fil di ferro, ma in grado di erogare latte), preferivano il surrogato di madre di peluche quando si sentivano minacciate e avevano bisogno di conforto, mentre ricorrevano alla madre di fil di ferro solo per soddisfare i bisogni alimentari per poi ritornare alla madre morbida e calda. Venne così dimostrato che la necessità di contatto fisico è un bisogno primario e indipendente da quello relativo al soddisfacimento dei bisogni fisiologici, e che il legame di attaccamento madre-figlio è qualcosa di più che l’esito di un rapporto strumentale finalizzato all’ottenimento di cibo. Alcuni bambini affetti da una deficienza nella crescita esibiscono lo stesso tipo di comportamento in quanto, poiché venga dato loro il cibo di cui necessitano, portano avanti un processo di deterioramento a meno che non intervenga un fattore che implichi un nutrimento emotivo, un contatto benefico e una cura costante (McClure, 2015).

Alcuni studi hanno considerato il massaggio infantile come un intervento per migliorare il rapporto madre-bambino, la salute mentale materna e il benessere del bambino. Ferber et al. (2005) hanno evidenziato che, dopo aver seguito un percorso di massaggio neonatale, le madri di neonati nati pretermine erano meno invadenti e i neonati trattati erano più socialmente coinvolti nella relazione rispetto ai neonati del gruppo di controllo. In un altro studio sono stati raccolti dati relativi ai sentimenti soggettivi di attaccamento di 117 madri (57 nel gruppo sperimentale, 60 nel gruppo di controllo) nei confronti dei propri bambini utilizzando il Maternal Attachment Inventory (MAI). Tutte le madri sono state valutate all’inizio e alla fine dello studio durato 38 giorni e nel gruppo sperimentale i neonati hanno ricevuto ogni giorno una seduta di massaggio di 15 minuti. Sebbene nel pre-test non siano state riscontrate differenze tra i due gruppi, i valori medi post-test del MAI delle madri del gruppo sperimentale erano significativamente più alti di quelli del gruppo di controllo, evidenziando il ruolo del massaggio infantile nel sostenere e incrementare il legame di attaccamento madre-bambino (S., Gurol, S., Polat, S., 2012).

Il massaggio neonatale ha diversi effetti positivi per i bambini in termini di: aumento di peso (soprattutto nei neonati prematuri), migliore ciclo sonno-veglia, migliore sviluppo neuromotorio, migliore relazione di attaccamento, maggiore diminuzione delle catecolamine/ormoni dello stress urinario (norepinefrina, epinefrina, cortisolo); inoltre, è evidente una riduzione delle infezioni e della mortalità nei neonati prematuri (Cooke, A., 2015; Field, T., et al., 1996; Hernandez-Reif, M., et al., 2007; Kulkarni, A., et al., 2010).

Diversi studi indicano l’esistenza di benefici del massaggio neonatale anche per le madri con depressione postnatale e i loro neonati (Fujita, et al., 2006; Feijo, et al., 2006); i meccanismi con cui si ottiene questo risultato possono includere l’imparare a comprendere gli stimoli dei loro bambini e il rilascio di ossitocina (Glover, et al., 2002). Altri studi hanno evidenziato che la maggior parte delle madri con depressione post-partum, che hanno praticato il massaggio neonatale, ha mostrato una riduzione clinica dei punteggi all’Edinburgh Postnatal Depression Scale (EPDS), tra il pre e il post esperimento, rispetto alle madri del gruppo di controllo, e un miglioramento significativo dell’interazione madre-bambino (O’Higgins, M., et al., 2008; Onozawa, K., et al., 2001). Herrera et al. (2004) hanno evidenziato che la depressione postnatale può influenzare anche il comportamento tattile oltre che il contenuto affettivo e informativo del linguaggio materno: le madri con un umore depresso, rispetto alle madri non depresse, toccano i loro neonati in modo più negativo e il loro linguaggio è meno ben regolato per quanto riguarda la quantità di contenuto emotivo e informativo, impedendo così alle madri depresse di rispondere efficacemente alle esigenze di sviluppo dei loro neonati. Altri risultati suggeriscono che neonati, figli di madri depresse, che sperimentano sessioni di massaggio di 15 minuti, piangono meno, permangono maggiormente in uno stato di veglia attiva, hanno livelli più bassi di cortisolo salivare e, dopo il massaggio, trascorrono meno tempo in uno stato di veglia attiva, suggerendo che il massaggio ha un effetto rilassante (induce facilmente il sonno).

Altri studi hanno cercato di determinare se un intervento di massaggio infantile possa aiutare i padri a ridurre lo stress percepito e ad aumentare il legame con i neonati durante il periodo post-partum. Darrell Cheng et al. (2011) hanno rilevato che istruire i padri al massaggio infantile diminuisce significativamente il loro stress. Un altro studio evidenzia che i padri che hanno massaggiato i propri bambini sono stati più espressivi, hanno mostrato più divertimento e più calore durante le interazioni di gioco con i loro neonati (Cullen, C., et al., 2000). Sembra, quindi, che il coinvolgimento dei padri durante un percorso di massaggio neonatale sia un importante elemento di sostegno al loro ruolo genitoriale.

 

Le conseguenze dell’apparente inesistenza di Medea – Moms, una rubrica su maternità e genitorialità

Il presente articolo continua il discorso proposto dal precedente nella rubrica. Il tema verte nuovamente sulla legittimità della rabbia e dell’aggressività materna, proponendo alcune possibili conseguenze della negazione di queste emozioni.

Moms – (Nr.6) Le conseguenze dell’apparente inesistenza di Medea

 

Il quinto episodio di Workin’ Moms oltre ad introdurre la Medea presente in ogni madre, come visto nell’articolo precendente, mostra cosa succede quando aggressività e rabbia non vengono elaborate. L’episodio è incentrato sull’iniziale intenzione di Kate Foster, la protagonista, di sopprimere il proprio cane perché ritenuto troppo aggressivo dalla madre Eleonor e dal marito. L’episodio termina con la sua scelta di lasciarlo crescere con l’assistente. Il cane in questo caso si fa portatore metaforico dell’aggressività di ognuno che in qualche modo deve essere celata e inibita.

Sentimenti meno piacevoli come la rabbia e l’aggressività non muoiono, ma possono avere un esito negativo, per le mamme e per i figli se non portate alla consapevolezza.

Il celebre antropologo Gregory Bateson ha studiato la genesi della schizofrenia nella sua opera Verso un’ecologia della mente. Egli notò che quando una madre non può ammettere a se stessa di provare sentimenti ambivalenti rispetto al proprio figlio, sono i messaggi che manda a divenire tali. Agli occhi del figlio risulterà incoerenza tra messaggio verbale, del tipo “ti voglio bene”, e non verbale, rispecchiante una madre fredda e distaccata fisicamente ed emotivamente. L’esito di questa negazione materna dei propri vissuti interiori porta consequenzialmente il figlio ad essere incerto sull’amore del genitore e, essendosi anch’esso vietato di provare sentimenti spiacevoli rispetto alla madre, sceglierà inconsciamente e protettivamente la via della follia.

Un’altra spiacevole conseguenza del rifiuto del proprio lato rabbioso e aggressivo è presentato nel romanzo Madame Bovary. Emma, la protagonista, sceglie di volgere su se stessa la rabbia e l’aggressività nutrita per la situazione in cui vive. Le proprie emozioni non portate alla consapevolezza e con impossibilità di elaborazione la uccidono e lasciano la figlia orfana con tutte le conseguenze delle circostanze.

Tra i fatti di cronaca recenti troviamo quello di Annamaria Franzoni, che tanto non ha potuto ammettere a se stessa sentimenti ambivalenti rispetto ai propri figli da dissociarsi intrapsichicamente ed ucciderne uno.

In tutti i casi citati è evidente un elemento: l’aggressività e la rabbia non sempre hanno come oggetto i propri figli, ma possono danneggiare madre, figli e relazioni finché restano indicibili. La stessa Medea, famoso personaggio della mitologia graca, uccide i propri figli non per astio nei loro confronti ma perché non può ammettere a se stessa la rabbia nei confronti del marito Giasone e dunque l’agisce su di loro. Il modo migliore per non arrivare a queste dolorose conseguenze è poter dire a se stesse che sentimenti come rabbia e aggressività possono essere legittimamente provate e aprire la strada per l’elaborazione.

 

Da componenti erotiche e comparse campy a campioni: l’aumento di parità delle lottatrici e dei lottatori LGBT nel mondo del wrestling professionistico

Sin dalla sua concettualizzazione, lo sport spettacolo del wrestling professionistico si è sempre distinto per essere un intrattenimento incentrato sulla figura maschile e spesso rappresentate narrazioni al limite del maschilismo. Tuttavia, attualmente si sta verificando un processo di parità nei confronti dei personaggi femminili ed appartenenti al mondo LGBT.

 

Il wrestling professionistico è uno sport intrattenimento che attira ogni anno milioni di nuovi fan ed è oramai una componente stabile del mondo dello spettacolo e dell’atletica. Sebbene una iniziale reticenza, ora la lotta libera professionistica è un argomento frequentemente studiato dalla Scienza Umanistica (Smith, 2008). Il wrestling professionistico è principalmente analizzato per la sua componente di rilascio delle tensioni e delle emozioni (Smith, ibidem), per le sue vicinanze alle arti teatrali (Everard, 2003), per le sue componenti legate agli stereotipi etnici (Maguire, Wozniak, 1987) e per le sue tematiche legate alla sessualità (Oppliger, 2003).

Per quanto riguarda le tematiche legate alla sessualità, il mondo scientifico si è concentrato soprattutto sul rilevante ruolo della mascolinità nelle trame presentate e le limitazioni imposte ai personaggi di sesso femminile e i personaggi appartenenti alle categorie LGBT, solitamente rappresentati come stereotipati se non basati su pregiudizi (Mazer, 2020).

Come si può dedurre dal prodotto offerto dal wrestling professionistico, il concetto di mascolinità è una componente fondamentale delle trame della lotta d’intrattenimento (Soulliere, 2006). Come indicato dalla letteratura psicologica l’atteggiamento audace, una struttura fisica imponente e capacità di reazioni aggressive sono elementi considerati mascolini (Smith, 2014), elementi che sono alla base delle storie raccontate nei match di catch (Karasick, 2019).

Di fatto, molte lotte dei personaggi della lotta libera professionistica possono essere lette come una sfida per dimostrare chi dei lottatori possa essere reputato il vero uomo (Mazer, ibidem). Questa lotta per la dimostrazione di virilità viene attuata sia attraverso l’uso del corpo (Soulliere, Blair, 2006) che l’uso della comunicazione verbale (Tamborini, 2008).

Per aumentare ulteriormente l’importanza della mascolinità dei wrestler, sono state introdotte le figure femminili, prima principalmente come figure manageriali on-air e poi come lottatrici. Infatti, sebbene ci siano state sempre delle lottatrici femminili con qualità atletiche indiscutibili, il ruolo solitamente associato alle figure femminili anche attive sul ring è quello di essere un incentivo della mascolinità dei lottatori presenti agli stessi show e di essere principalmente un contenuto principalmente legato a contenuti sessuali (Leng et al, 2012).

Un trattamento simile è stato riservato ai personaggi legati alla comunità LGBT: spesso personaggi stereotipici e direttamente legati a pregiudizi sulle personalità omosessuali e lesbiche sono stati rappresentati nelle lotte del wrestling, sia nel ruolo di personaggi ambigui e minaccianti l’integrità della mascolinità degli avversari (Sammond,, 2005) sia di personaggi apprezzati per il loro essere caratteristici ed espansivi della loro reputata devianza, limitati però nei confini dello spettacolo in sé (Levi, 1998).

Attualmente sia i personaggi femminili e LGBT del mondo del wrestling stanno raggiungendo livelli atletici e di rilevanza quasi alla pari dei colleghi maschili, con la vincita di un titolo mondiale vinto da una lottatrice femminile (Konuwa, 2020) e il primo wrestler transgender a firmare per una federazione di alto livello (Schmidt, 2019). Questa rivoluzione socio-sportiva sta cominciando ad essere analizzata dalla Accademia Umanistica (Aiba, 2016).

 

Adolescenti in crisi (2018) a cura di E. Quagliata – Recensione

Il testo Adolescenti in crisi raccoglie testimonianze, approfondimenti e casi clinici di stampo psicoanalitico che ci spingono ancora una volta a metterci in discussione non solo come adulti, ma anche e soprattutto come terapeuti. 

 

I contributi degli autori, tutti accomunati da una visione dinamica del periodo adolescenziale, ci consentono non solo di confrontare la pratica clinica attuale con i grandi capisaldi della storia passata (es: il concetto di transfert o la visione che Winnicott, per esempio), ma anche di interrogarci rispetto alla nostra posizione all’interno di quel​ ​setting con quello​​ specifico paziente, che è “figlio del suo tempo”.

Il lavoro con gli adolescenti necessita di una modalità propria e specifica, che non può essere improvvisata e che per sua natura spinge a guardarsi molto allo specchio e quindi a fare i conti con tutto ciò che è ed è stata l’adolescenza del terapeuta.

Oggigiorno, però, “in seduta con noi” si presenta anche una nuova modalità di pensiero e di comunicazione, più frammentata, più fluida (per utilizzare un termine che da tempo ormai connota la nostra società), anche più precaria se vogliamo (specchio dei tempi e del contesto esterno) e anche molto meno riservata.

Mi colpisce, infatti, tra le tante osservazioni presenti nel primo capitolo, una in particolare: in un contesto sempre più “mediatico”, dove i riti di iniziazione all’età adulta sono ormai agiti e vissuti tramite lo schermo o i social network (e non più la piazza, o la scuola), forse la stanza d’analisi è l’ultimo baluardo della nostra privacy.

E’ importante, ad esempio, tener presente che gli adolescenti di oggi portano in seduta anche il cellulare, oltre ai loro pensieri. L’uso o il non uso di questo strumento è di per sé un dato clinico e il terapeuta non può chiamarsi fuori dai giochi: deve apprendere non solo un nuovo linguaggio, comune, condiviso e comprensibile, ma anche abituarsi ad essere parte di una dialettica comunicativa che passa attraverso gli schermi. Infine, è interessante chiedersi anche come si possa costruire una relazione terapeutica duale con la mente dell’adolescente, che è abituato ormai a “dissociarsi” tra mille compiti e canali comunicativi (es: scrivo un messaggio whatsapp mentre guardo un tutorial su YouTube e studio).

Non esiste forse una risposta univoca, ma quella che possiamo dare è: fornire un’esperienza di senso condivisa e diversa, che consenta all’adolescente di identificarsi e allo stesso tempo di differenziarsi senza paura di rompere il legame e con la certezza che il terapeuta sarà lì, come magari non è stato possibile per altre figure.

Un altro spunto rilevante che emerge dal testo ed è imprescindibile per il lavoro con gli adolescenti è il tener presente che si sta parlando di un processo evolutivo. Il sintomo (che sia circoscritto o un vero e proprio breakdown) va sempre letto come parte di un percorso che si è bloccato/ si sta bloccando/ o rischia di bloccarsi. Questa prospettiva consente agli addetti ai lavori di mettersi nella giusta posizione terapeutica per far ripartire il processo evolutivo o comprendere se e dove si sia arrestato.

Il corpo, in adolescenza, appare quasi come il nemico numero uno da attaccare e da distruggere. Sfugge al controllo (sta cambiando), è fonte di pressioni (sociali e non) e di sensazioni e desideri sconosciuti, che spaventano. E’ importante tenere presente che l’adolescente ha la sensazione che la minaccia arrivi da fuori e quindi rischia di ritrarsi dal mondo (es: si chiude in camera, abbandona la scuola, rifugge la famiglia), quando in realtà la pressione che sente è spesso interna. Il rischio, dunque, si presenta quando non si riesce ad integrare il rapporto con il nuovo corpo all’interno del proprio senso di realtà.

Anche le condotte antisociali o devianti in adolescenza sembrano essere lo specchio di un conflitto interiore spostato all’esterno, e come tali possono e devono non solo essere accolte e contenute, ma anche significate ​ ​in qualche modo, per poter essere infine sbrogliate.

In adolescenza i sentimenti insostenibili sono spesso seguiti dall’azione: il processo di provare un’emozione, assimilarla ed elaborarla è spesso sostituito da un passaggio all’atto. Anche i disturbi alimentari rispondono ad una difficoltà di mentalizzazione: attraverso il corpo parlo e agisco qualcosa, spesso il rifiuto di una dipendenza e di un legame affettivo.

Ecco perché, indipendentemente dalla ragione per cui un adolescente arriva in consultazione o trattamento, è imprescindibile il lavoro congiunto con i genitori e la famiglia. L’adolescenza è un insieme di legami e “scopo” di questa fase di vita è il cambiamento, sostenibile e sostenuto solo attraverso una buona alleanza terapeutica con i familiari, che giustamente sperimentano una gamma di emozioni e di vissuti che necessitano di trovare spazio e con i quali deve essere sempre chiaro e condiviso l’obiettivo dell’intervento.

 

Trattamenti per Internet Addiction, Acquisto Compulsivo e Dipendenza da Sesso: terapie indicate per le Dipendenze Comportamentali

Recenti ricerche hanno identificato somiglianze tra il Disturbo da Uso di Sostanze (ing. Substance Use Disorders, SUD) e le varie Dipendenze Comportamentali (ing. Behavioral Addictions, BA) (Grant et al., 2010).

 

Queste ultime differiscono dai SUD in quanto non caratterizzate dall’utilizzo di sostanze tossiche, seppur siano definite sulla base dei criteri utilizzati per la diagnosi di uso di sostanze, descritto nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM IV; American Psychiatric Association, 1994).

Le dipendenze comportamentali che questo articolo prenderà in esame sono tre: Dipendenza da Internet (ing. Internet Addiction, IA), Dipendenza dal Sesso (ing. Sex Addiction, SA) e Acquisto Compulsivo (ing. Compulsive Buying, CB). Sono state fatte molte ricerche su IA e Dipendenza da Gioco Online (ing. Internet Gaming Disorder, IGD), ponendo particolare attenzione alle misure neurobiologiche che suggeriscono parallelismi con il SUD (Kuss, Pontes, & Griffiths, 2018). Oltre alle somiglianze tra SUD e dipendenze comportamentali in termini di caratteristiche fenomenologiche e cliniche, comorbilità e storia familiare, i risultati della ricerca neuroscientifica sembrano essenziali per identificare gli indicatori di comportamenti di dipendenza (Grant et al., 2010).

In linea con questa considerazione, recentemente sono stati raggiunti alcuni progressi nell’esame dei punti neurobiologici in comune con il SUD nei domini della SA e del CB. Ciò è avvenuto analizzando fenomeni tradizionalmente indagati nelle SUD, come processi di condizionamento, reattività, bias attenzionale e relativa attivazione della rete neurale, e funzionamento esecutivo (Goslar et al., 2020). Questi studi hanno dimostrato che tra quelle condizioni che non sono state ancora ufficialmente riconosciute nel DSM-5 come dipendenze comportamentali, IA, SA e CB presentano indicatori neurobiologici molto simili a quelli del Disturbo da Uso di Sostanze. Queste tipologie di disturbi hanno rilevanza clinica giacché possono spesso avere conseguenze dannose (Pontes et al., 2015), per cui è necessario studiare opzioni di trattamento efficaci sulla base delle terapie indicate per il SUD (Grant et al., 2010).

La meta-analisi svolta nel 2020 da Goslar e colleghi aveva come obiettivo l’esame dell’efficacia dei trattamenti di tali dipendenze comportamentali e l’individuazione di parallelismi in termini di risposta al trattamento con i disturbi da uso di sostanze (Goslar et al., 2020). Per ciò che concerne i metodi utilizzati dai ricercatori, lo studio della letteratura ha individuato 91 documenti in grado di fornire una valutazione completa dell’efficacia a breve e lungo termine dei trattamenti psicologici, farmacologici e combinati per la dipendenza da Internet, la dipendenza dal sesso e l’acquisto compulsivo, per un totale di 3.531 partecipanti.

Le evidenze emerse dagli studi di Goslar e collaboratori mostrano robusti miglioramenti per quanto riguarda la dipendenza da Internet e la dipendenza dal sesso grazie alla combinazione di psicoterapia e farmaci. Per l’acquisto compulsivo, è emerso che terapie psicologiche e farmacologiche erano associate a una riduzione di ampia portata della gravità globale. Le analisi dei moderatori hanno suggerito che gli interventi psicologici erano efficaci nel ridurre i comportamenti compulsivi, specialmente se eseguiti faccia a faccia e condotti per lunghi periodi di tempo. Inoltre, combinazioni di farmaci e terapia cognitivo-comportamentale (ing. Cognitive-Behavioral Therapy, CBT) hanno mostrato un vantaggio rispetto alle monoterapie. I risultati suggeriscono anche che i suddetti trattamenti per le dipendenze comportamentali, simili a quelli implementati per il disturbo da uso di sostanze, sono efficaci a breve termine (Goslar et al., 2020). Sebbene la CBT fosse la terapia più utilizzata nelle tre categorie di dipendenza, vari approcci psicologici si sono dimostrati ugualmente efficaci per ridurre i comportamenti problematici, indipendentemente dalla modalità di trattamento e dal background culturale.

Tra questi, gli approcci più comunemente utilizzati includevano la terapia familiare, che considerando una varietà di condizioni familiari disfunzionali sembra benefica non solo per i giocatori problematici su Internet (Han et al., 2012), ma anche per adolescenti con SUD (Filges, Andersen, & Jørgensen, 2018), i programmi mindfulness, basati appunto sulla consapevolezza, utili per il miglioramento dei sintomi di IA (Li, et al., 2017) e CB (Armstrong, 2012), e la terapia di accettazione e impegno (ing. Acceptance and Commitment Therapy, ACT) efficace nel ridurre i sintomi di SA, IGD e SUD (Maynard et al., 2018). Ad ogni modo, i programmi integrativi, che per lo più contenevano elementi CBT, producevano dimensioni dell’effetto ugualmente grandi nelle tre categorie di dipendenza.

Non puoi fermare le onde, puoi soltanto imparare a cavalcarle: la Mindfulness nella pratica clinica – VIDEO

Scuola Cognitiva di Firenze, in associazione con Studi Cognitivi, ha presentato un incontro formativo online rivolto a studenti e professionisti nei settori della salute mentale (psicologia, psichiatria, medicina) per aiutarli ad approfondire la conoscenza della mindfulness e la sua applicazione in campo clinico.

 

Scuola Cognitiva di Firenze, in associazione con Studi Cognitivi, ha proposto un ciclo di incontri formativi e di confronto fra modelli, rivolti a studenti e professionisti nei settori della salute mentale (psicologia, psichiatria, medicina).

In ogni incontro è stato affrontato un tema di interesse clinico con particolare riferimento alla pratica.

Nell’incontro del 16 ottobre 2020 la dottoressa Camilla Freccioni ha parlato di Mindfulness.

Nel corso del webinar, dal titolo “Non puoi fermare le onde, puoi soltanto imparare a cavalcarle” ispirato alla celebre frase di Jon Kabat-Zinn, sono stati illustrati dettagliatamente i 7 pilastri della mindfulness (non giudizio, pazienza, mente del principiante, fiducia, non cercare risultati, accettazione, lasciare andare), approfonditi grazie anche a delle pratiche di mindfulness.

Pubblichiamo per i nostri lettori il video dell’incontro.

 

NON PUOI FERMARE LE ONDE, PUOI SOLTANTO IMPARARE A CAVALCARLE
Guarda il video del webinar sulla Mindfulness:

 

 

SCOPRI I PROSSIMI EVENTI IN PROGRAMMA >> CLICCA QUI

SCUOLA COGNITIVA DI FIRENZE >> SCOPRI DI PIU’

 

Disturbi del sonno e disturbo dello spettro autistico: le nuove evidenze di una possibile relazione

L’intervento sui disturbi del sonno nei bambini con un disturbo dello spettro autistico è importante per migliorare non solo la loro quotidianità, riducendo l’emissione di comportamenti problema e di problematiche internalizzanti ed esternalizzanti, ma anche il benessere dell’intero nucleo familiare.

Bresciani Giulia e Messi Francesca – OPEN SCHOOL, Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Mestre

I disturbi dello spettro autistico ed i disturbi del sonno

Così come viene riportato dal Manuale Diagnostico e Statistico dei disturbi mentali (DSM-5), i disturbi dello spettro autistico (Autism Spectrum Disorder, ASD) sono caratterizzati da deficit nelle abilità di comunicazione e di interazione sociale e dalla presenza di interessi ristretti e di comportamenti stereotipati.

Come riportato nel lavoro di Verhoeff e colleghi (2018) i bambini con disturbo dello spettro autistico spesso presentano un quadro di comorbidità con i disturbi del sonno definiti come difficoltà ad addormentarsi o la presenza di incubi. In questi bambini, i disturbi del sonno sembrano presentarsi nel 40-80% dei casi a differenza del 25-50% riscontrato nei bambini a normo sviluppo. Se si prendono in considerazione i lavori di ricerca che si sono occupati di questo argomento, essi stimano che il grande divario percentuale può essere spiegato da diversi fattori come: l’utilizzo di diversi strumenti per indagare le problematiche relative al sonno, le età dei bambini, il quoziente intellettivo (QI) e la grande eterogeneità sintomatologica, caratteristica dei bambini con ASD.

I disturbi del sonno più frequenti in bambini con ASD

In un lavoro di Reynolds e Malow (2003), gli autori riportano i disturbi del sonno che si riscontrano con più frequenza o che appaiono di più difficile identificazione nei bambini con ASD:

  • Insonnia. Le difficoltà di addormentamento e di mantenimento del sonno, tipiche dell’insonnia, sono anche le problematiche maggiormente riportate dai genitori di bambini con ASD. Dai questionari e dai diari del sonno compilati dai genitori, i bambini con disturbo dello spettro autistico presentano tempi di addormentamento maggiori, resistenza al sonno, riduzione dell’efficienza del sonno, ovvero un decremento del tempo di sonno in relazione al tempo trascorso a letto, riduzione della durata del sonno e della sua continuità e incremento dei risvegli.
  • Disturbi respiratori nel sonno. Questa problematica è legata all’ostruzione delle vie respiratorie ed include l’apnea ostruttiva del sonno (OSA). Questo tipo di disturbo è comune nella popolazione pediatrica e può influire negativamente sul comportamento diurno, contribuendo alla sonnolenza ed alla presenza di sintomatologia riconducibile a quella dell’ADHD. Pertanto, è importante porre attenzione a questo tipo di disturbo e permetterne, se presente, il riconoscimento precoce, al fine di poter intervenire.
  • Parasonnie. Questi disturbi, come ad esempio il disturbo del movimento oculare non rapido, sono caratterizzati da terrori notturni, camminata nel sonno e confusione. Gli autori riportano che in alcuni studi si è verificata una presenza maggiore di parasonnie in individui con ASD rispetto alla popolazione di confronto.
  • Disturbi del movimento legati al sonno:
  1. Il disturbo del movimento ritmico, caratterizzato dal movimento ripetitivo della testa, del tronco o degli arti che di solito si presenta nel passaggio dalla veglia al sonno, sembra essere più persistente e sembra crescere di intensità in bambini con disturbo dello spettro autistico rispetto ad altre disabilità dello sviluppo.
  2. La sindrome delle gambe senza riposo (RLS) è un disturbo senso-motorio che si manifesta come uno stimolo nel movimento delle gambe e tendenzialmente si presenta nel momento in cui si va a letto. I movimenti periodici degli arti nel sonno (PLMS) sono definiti come movimenti ripetitivi stereotipati degli arti che avvengono durante il sonno. Il disturbo periodico del movimento degli arti (PLMD) comprende sia i movimenti ripetitivi che stereotipati ed è inoltre associato ad insonnia e sonnolenza diurna. Rispetto a questi disturbi, la criticità si riferisce all’identificazione del disturbo stesso, la diagnosi della sindrome delle gambe senza riposo, ad esempio, appare maggiormente difficoltosa in bambini con ASD in quanto richiede una comunicazione dei sintomi perché non sempre visibili dall’esterno.

Da cosa deriva l’interesse per i disturbi del sonno nei bambini con ASD?

Come riportato da Verhoeff e colleghi nel 2018, l’associazione tra i disturbi del sonno e i bambini con disturbo dello spettro autistico può essere spiegata in due modi:

  • I problemi del sonno possono precedere e peggiorare l’outcome comportamentale nei bambini con ASD.
  • I problemi del sonno possono essere una conseguenza del disturbo dello spettro autistico.

A tal proposito, uno studio di coorte, citato da Verhoeff e colleghi (2018), ha messo a confronto bambini che non rientravano in un quadro di disturbo dello spettro autistico e bambini con ASD, evidenziando che i due gruppi presentavano una durata del sonno simile durante la prima infanzia, mentre a partire dai 30 mesi il gruppo ASD presentava una riduzione della durata del sonno rispetto al gruppo di bambini a sviluppo tipico. Per quanto concerne l’adolescenza, uno studio citato dagli stessi autori, ha riportato una maggior presenza di problematiche legate al sonno in ragazze/i con ASD rispetto alla popolazione a normo sviluppo.

Inoltre, come riportato da Malhi e colleghi (2018), le ricerche mostrano come le maggiori e più persistenti difficoltà nel sonno dei bambini con ASD compromettono il loro funzionamento sociale, emotivo e cognitivo, aumentano gli effetti negativi e riducono la qualità della vita dei bambini stessi e delle loro famiglie. La povertà del sonno potrebbe, quindi, peggiorare le difficoltà di questi bambini, aumentando la disfunzione cognitiva ed esacerbando i sintomi comportamentali presenti durante la giornata.

Gli autori (Mahli et al., 2018) hanno dimostrato che le difficoltà legate al sonno sono correlate positivamente ed in maniera significativa ai comportamenti maladattivi presenti durante la routine diurna, includendo sia problemi esternalizzanti che internalizzanti. Ulteriore sostegno a questa tesi lo possiamo trovare anche nel lavoro di Mazurek e Sohl (2016), nel quale gli autori identificano una forte correlazione tra i disturbi del sonno ed il funzionamento diurno; in particolare, hanno rilevato che le aggressioni fisiche, l’ostilità, l’inattenzione e l’iperattività sono correlate con la durata del sonno, i risvegli notturni e le parasonnie. Inoltre, l’ansia legata al sonno è positivamente correlata sia all’irritabilità che all’iperattività mentre la sonnolenza diurna è legata solamente all’irritabilità.

È importante quindi considerare questo tipo di problematica, tenendo a mente anche l’impatto sulla quotidianità familiare. Intervenire sui disturbi del sonno dei bambini con disturbo dello spettro autistico, potrebbe ridurre l’emissione di comportamenti problema e quindi conseguentemente intervenire anche sui livelli di stress parentale e sul benessere familiare.

Come sottolineato dagli autori (Mahli et al., 2018; Mazurek & Sohl, 2016), è importante che i bambini vengano sottoposti a degli screening in merito a queste difficoltà e che successivamente vengano attivati gli interventi più opportuni, come: la psico-educazione sull’igiene del sonno, il trattamento cognitivo-comportamentale e il trattamento farmacologico.

Per quanto riguarda la psico-educazione sull’igiene del sonno consigliamo la lettura del documento prodotto dal Autism Treatment Network (ATN) intitolato “Strategies to Improve Sleep in Children with Autism Spectrum Disorders” scaricabile dal loro sito.

Il trattamento dei disturbi del sonno in bambini con ASD

Analizzando la letteratura, emergono diverse tipologie di trattamento per il disturbo del sonno in bambini con ASD, sia di tipo farmacologico sia non farmacologico ed esistono diverse linee guida a riguardo. Il National Institute for Health and Clinical Excellent (NICE) evidenzia l’importanza dell’ambiente in cui il bambino dorme, nonché la presenza di possibili comorbilità, come il disturbo da deficit dell’attenzione e dell’iperattività, alterazioni della respirazione durante il sonno e la presenza di altri trattamenti farmacologici in corso, che possono contribuire ai disturbi dello stesso. Allo stesso modo, il Comitato del sonno dell’Autism Treatment Network (ATN) raccomanda di effettuare degli screening sistematici sulla presenza di problematiche del sonno nei bambini con ASD, di identificare se c’è la possibilità che altri disturbi medici, come problemi gastrointestinali, epilessia, problemi nutrizionali e problemi di respirazione, possono contribuire all’insonnia e raccomandano di utilizzare interventi comportamentali come prima scelta, considerando invece, l’approccio farmacologico come seconda opzione. Inoltre, nei bambini con ASD, i problemi maggiori riguardano l’instaurarsi di comportamenti e routine della buonanotte adeguate, a causa delle difficoltà relative alla regolazione emotiva ed ai deficit nelle capacità comunicative e sociali.

Secondo entrambi questi riferimenti internazionali è preferibile, quindi, utilizzare strategie comportamentali come l’estinzione, ovvero l’eliminazione di meccanismi di rinforzo per comportamenti inappropriati, ed il rinforzo positivo a comportamenti adattivi per il sonno; consigliano però di associare alle tecniche comportamentali le buone pratiche relative all’igiene del sonno. Il trattamento farmacologico, sempre in associazione ad interventi non farmacologici, viene consigliato solo quando l’intervento comportamentale non risulta efficace ed i problemi del sonno persistono.

Il trattamento cognitivo-comportamentale come trattamento d’eccellenza

La letteratura scientifica supporta questo tipo di interventi, dimostrando come il trattamento comportamentale garantisca gli effetti migliori, soprattutto se rivolto ad una popolazione di bambini molto piccoli. Negli ultimi anni tuttavia si sono susseguiti diversi studi in cui è stata indagata l’efficacia dell’intervento comportamentale anche in bambini più grandi e negli adolescenti. Esempi in merito sono lo studio pilota di McCrae e colleghi (2020) e lo studio Loring e colleghi (2016).

Nel primo studio (McCrae e coll., 2020) sono stati reclutati 17 bambini di età compresa tra i 6 e i 12 anni che rientravano nei criteri per il disturbo dello spettro autistico e per l’insonnia, insieme ai loro genitori. Sia ai bambini che ai genitori è stato proposto un trattamento cognitivo comportamentale per l’insonnia infantile (CBT-CI). L’intervento consisteva in otto sessioni da 50 minuti di CBT-CI, somministrate, a una settimana di distanza l’una dall’altra, da dottorandi di ricerca in psicologia. Inoltre, venivano fornite, un’ora alla settimana, delle sessioni di supervisione di gruppo o individuale da psicologi autorizzati. La linea temporale utilizzata dai ricercatori è stata: baseline (settimane 1-2), trattamento (settimane 3-10), post-trattamento (settimane 11-12) ed infine il follow up (settimane 25-26). I risultati dello studio hanno evidenziato un miglioramento significativo nel sonno e nel funzionamento diurno sia nei bambini che nei loro genitori. In particolare, sono emersi dei miglioramenti moderati nella percezione soggettiva e nel sonno oggettivo del bambino, nella sua regolazione sonno/veglia e nel suo comportamento diurno. Nei genitori invece c’è stato un miglioramento immediato nella percezione soggettiva del sonno, nel sonno oggettivo e nell’affaticamento. Questi risultati possono quindi suggerire come un miglioramento del sonno può diminuire nei bambini con ASD l’irritabilità, la letargia e le stereotipie tipiche della fase diurna. Questi miglioramenti potrebbero inoltre portare a una riduzione dell’uso di un linguaggio inappropriato.

Nello studio di Loring e colleghi (2016), sono invece stati reclutati 23 adolescenti tra gli 11 e i 18 anni ed i loro genitori. A tutti i partecipanti veniva registrato il ritmo sonno-veglia di base con l’attigrafia, ovvero un accelerometro a forma di orologio che misura il ritmo circadiano. Ognuno di loro veniva sottoposto a due sessioni individuali di educazione del sonno condotte da uno psicologo, a una settimana di distanza una dall’altra. Ogni sessione veniva adattata all’adolescente, permettendogli di scegliere la modalità di acquisizione delle informazioni (verbale, scritto o scritto su un laptop). Durante la seduta, lo psicologo insegnava delle tecniche di distrazione e di rilassamento che sarebbero state utili al momento di coricamento ed in caso di risvegli notturni. Alla fine di ciascuna sessione, il terapeuta consegnava agli adolescenti dei compiti da svolgere a casa e chiedeva ai genitori di registrare il loro comportamento durante il sonno, oltre ad eventuali dubbi e domande. Alle sedute seguivano due telefonate di follow-up a 1 e 2 settimane di distanza. Dai risultati dello studio è emerso che sia l’adolescente sia il genitore hanno riportato miglioramenti significativi nel sonno, in termini di stabilità, oltre che cambiamenti cognitivi e comportamentali, anche a 1 mese di distanza dalle sessioni. Tuttavia, la latenza media di insonnia non si è modificata, pertanto, secondo gli autori, questo tipo di popolazione potrebbe necessitare anche di ulteriori interventi oltre alla terapia cognitivo comportamentale, inclusi quelli di tipo farmacologico.

Il trattamento farmacologico

Gli interventi farmacologici in aggiunta all’intervento comportamentale sono consigliati anche nei casi più gravi riscontrati nei bambini con ASD, al fine di migliorare il loro comportamento, ridurre le stereotipie ed i comportamenti compulsivi (Malow et al., 2012). Il farmaco che viene consigliato dall’ATN come il più sicuro ed efficace, è la melatonina, un ormone sintetizzato dalla ghiandola pineale, che ha proprietà ipnotiche e cronobiotiche. I dosaggi di solito variano da 1 a 3 mg/notte (5mg negli adolescenti) e solitamente viene considerata un farmaco sicuro. Tuttavia, vengono segnalati alcuni possibili effetti collaterali tra cui l’insorgenza di sonnolenza mattutina, aumento dell’enuresi, mal di testa, vertigini, diarrea, eruzioni cutanee ed ipotermia. Inoltre, a causa degli scarsi studi di follow-up, non si conosce il suo reale effetto a lungo termine. La melatonina comunque risulta essere molto efficace nel migliorare la latenza, la durata ed i problemi del sonno, nel diminuire la quantità dei risvegli notturni e delle parasonnie e nel migliorare la respirazione notturna (Cuomo et al., 2017).

Nonostante gli interventi comportamentali siano considerati il trattamento di prima scelta, il trattamento farmacologico è ancora quello più prescritto (a volte anche a causa della scarsa presenza di terapisti qualificati nei servizi psichiatrici infantili e adolescenziali). Gli interventi comportamentali sono vantaggiosi in quanto hanno effetti positivi sulle problematiche del sonno nell’ASD, senza il rischio di avere effetti avversi associati agli approcci farmacologici. Hanno inoltre il vantaggio di poter essere erogati per lunghi periodi di tempo, se necessario. Per questo motivo sono i trattamenti che i genitori preferiscono maggiormente. Per tale motivo, è crescente l’interesse per lo sviluppo di interventi efficaci per il trattamento dell’insonnia, senza l’utilizzo di farmaci.

In conclusione

I disturbi del sonno sono presenti in percentuale maggiore in bambini che presentano un disturbo dello spettro autistico. Per tale motivo, è necessario attuare degli screening che permettano l’individuazione precoce e quindi il successivo intervento. A tal proposito, il trattamento cognitivo-comportamentale risulta essere quello di eccellenza. È importante però, associarlo ad un intervento di parent-training sull’igiene del sonno, che permetta ai genitori di intervenire anche sull’ambiente del bambino e sulla routine familiare. Per quanto riguarda il trattamento farmacologico, questo viene consigliato solo nei casi più gravi e sempre in associazione a trattamenti comportamentali.

In conclusione, l’intervento su questi disturbi nei bambini che presentano un disturbo dello spettro autistico è importante per migliorare non solo la loro quotidianità, riducendo l’emissione di comportamenti problema e di problematiche internalizzanti ed esternalizzanti ma anche il benessere dell’intero nucleo familiare.

 

 

Economia e Neuroscienze, un connubio perfetto

Le continue evoluzioni in ambito tecnologico hanno permesso al neuromarketing di svilupparsi e insediarsi in molti settori chiave, alcuni inaspettati. Ecco un quadro della sua ascesa.

 

Negli anni si è studiato come il processo decisionale di acquisto attuato dall’uomo non si possa definire consapevole. La volontà di acquistare prodotti o servizi subisce infatti degli stimoli emotivi che successivamente si riflettono sul cervello e sulle decisioni stesse. In questo senso, il progresso tecnologico e il relativo sviluppo di soluzioni innovative hanno permesso all’approccio neuroscientifico di diventare uno strumento importante nell’indagine delle reazioni inconsce e del funzionamento del cervello durante la vita quotidiana. A tale proposito, il contesto sempre più frenetico che ci circonda gioca un ruolo fondamentale, favorendo il cambiamento delle abitudini di vita, di pensiero e di acquisto delle persone nei diversi settori come, per esempio, i social network, il mondo dello sport e la pubblicità.

Uno dei principali obiettivi del mercato di oggi è capire che cosa spinga i consumatori a scegliere un prodotto al posto di un altro o perché prediligano un marchio specifico (Cherubino et al., 2019). In questo modo risulta chiaro come ci sia un crescente interesse nel comprendere le risposte cerebrali che riflettono il processo decisionale dei consumatori (Cherubino et al., 2019). Da qui nasce l’esigenza di instaurare una collaborazione tra il mondo economico e le neuroscienze, così da creare una nuova area di studio nota come neuroeconomia, la quale si compone di svariati strumenti tra cui il neuromarketing che si prefigge di analizzare come il cervello umano percepisca, elabori, valuti e reagisca nel momento in cui viene sottoposto a degli specifici stimoli relativi a prodotti, marche e/o pubblicità.

Quando un’impresa decide di investire nei social network, ha come obiettivo quello di riuscire a connettersi con il proprio target di riferimento, andando a creare viralità e ottenendo una maggiore visibilità. Se consideriamo Instagram, il neuromarketing evidenzia come i post riguardanti i brand e pubblicati dagli influencer sembrino ottenere un maggiore riscontro rispetto a quelli pubblicati dal marchio stesso e con testimonial le celebrità tradizionali, perché capaci di raggiungere il proprio target con una maggiore naturalezza e credibilità (Mañas-Viniegra et al., 2020).

Il mondo sportivo si avvale del neuromarketing per migliorare l’esperienza dei tifosi e implementare la fedeltà al brand e il relativo appeal. Il neuromarketing in questo settore sta ottenendo risultati importanti perché fa leva sulla fedeltà psicologica individuale dei tifosi (valori, emotività e identità) e sul collegamento sociale che ne deriva, andando a costruire dei ‘luoghi sacri’ che fungano da comunità specifica del marchio (Thomas et al., 2017). Le società sportive che intendono avvalersi degli strumenti di neuromarketing, potranno investire negli impianti di nuova generazione che renderanno l’esperienza dei tifosi maggiormente coinvolgente e duratura, con forti sensazioni da vivere allo stadio e a casa (Thomas et al., 2017).

Poiché la cognizione umana può essere influenzata da stimoli subliminali che consentono di attivare particolari reazioni, il neuromarketing risulta essere fondamentale nell’analisi degli effetti che le varie pubblicità hanno sulle persone, creando ulteriore valore alla stessa (Hsu et al., 2020). Da qui la conclusione che la pubblicità e i relativi messaggi (anche banali, come per esempio l’utilizzo di una emoji sorridente) possano essere dei fattori in grado di influenzare le scelte dei consumatori (Hsu et al., 2020). Infatti, un sorriso è considerato quale segno sociale con un ruolo critico nel comportamento decisionale, andando ad aggiungergli valore e modellandolo (Hsu et al., 2020). Nello specifico, gli stimoli delle espressioni facciali vengono elaborati più velocemente di qualsiasi altro e le espressioni facciali emotive risultano essere le più efficaci, se percepite inconsciamente piuttosto che coscientemente (Hsu et al., 2020).

In conclusione, l’evolversi del neuromarketing sta facendo da regia nella creazione di nuove possibilità per le imprese, delineando uno scenario sempre più interessante e avvincente, oltre che complesso. Ma essendo una tematica di recente sviluppo, vi sono alcuni aspetti che meritano di essere ulteriormente approfonditi, quali il tema della privacy e dei costi da sostenere per le imprese che, però, non devono fungere da blocco. I vantaggi dell’uso del neuromarketing sembrano essere notevoli, ora sta solo a chi ne può usufruire di ottenere il massimo nel rispetto delle regole.

 

Covid-19 e sessualità: gli effetti della quarantena sulla vita sessuale degli italiani

A partire dal marzo 2020, il Covid-19 ha iniziato a diffondersi rapidamente in tutto il mondo, determinando alti tassi di mortalità. In Italia, così come in altri paesi, è stato prescritto l’obbligo di quarantena; gli italiani, pertanto, sono stati confinati nelle loro case e la quotidianità è drasticamente mutata.

 

Le coppie sono state costrette a condividere integralmente le loro giornate, le lezioni scolastiche sono state sostituite dall’e-learning e le abitazioni sono state improvvisamente ripopolate dai bambini e, di conseguenza, le famiglie hanno avuto la possibilità di creare una nuova condivisione di tempo e spazio.

In questo contesto, alcuni autori hanno ipotizzato che i rapporti, in particolar modo quelli sessuali, avrebbero potuto subire delle ripercussioni. Di fatti, le manifestazioni di ansia e/o di panico e i cambiamenti del tono dell’umore possono influenzare la diminuzione del desiderio sessuale (Cranston-Cuebas & Barlow, 1990). La letteratura mostra, a tal proposito, come i pazienti con disturbi d’ansia presentano tassi di disfunzione sessuale più alti rispetto ai controlli (Ware, Emmanuel, Johnosn, 1996). Inoltre, è necessario considerare anche le risonanze date dalla incombente crisi economica. Infatti, la stragrande maggioranza dei lavoratori autonomi ha subito una perdita completa dei profitti, mentre, la maggior parte dei dipendenti, è incorsa in una riduzione del loro stipendio fino al 30%. È stato dimostrato che le preoccupazioni per le ripercussioni economiche risultino essere fattori inibitori del desiderio sessuale (Carcedo, Fernàndez-Ruoco, Fernàndez-Fuertes & Martìnez-Alvarez, 2020).

Allo stesso tempo, però, situazioni travolgenti potrebbero anche determinare comportamenti inaspettati (Lykins, Janssen & Graham, 2006): l’ansia potrebbe facilitare l’eccitazione negli individui sessualmente attivi (Ware, Emmanuel, Johnosn, 1996), mentre, la possibilità di condividere una maggiore quantità di tempo con un partner, senza lo stress della vita quotidiana, potrebbe migliorare la qualità dell’intimità delle coppie.

È sulla base di queste considerazioni che alcuni autori si sono proposti di valutare come fosse cambiato il comportamento sessuale dei single e delle coppie, durante la quarantena.

Allo studio hanno preso parte 1576 partecipanti, di cui il 64,6% costituito da donne e il 35,4 % da uomini. La maggioranza del campione apparteneva alla fascia di età compresa tra i 31 e i 46 anni.

L’indagine ha previsto la creazione di un sondaggio online, costituito da 15 item.

Ai partecipanti è stato richiesto di indicare il numero di minori presenti in famiglia, inoltre, si è tenuto conto della situazione socioeconomica, inclusa la differenza dei profitti mensili rispetto all’inizio della pandemia. È stato valutato il tono dell’umore dei soggetti, nel periodo antecedente e durante il lockdown. Per quanto attiene ai domini inerenti la sfera sessuale, è stato inizialmente chiesto ai partecipanti se stessero trascorrendo la quarantena in compagnia dei propri partner. In caso di risposta affermativa, è stato richiesto di specificare lo stato della relazione (stabile o instabile), il tempo trascorso insieme al proprio compagno/a e il numero medio di rapporti sessuali (SI) settimanali, prima e durante la quarantena. Inoltre, a coloro i quali avevano segnalato una riduzione dei rapporti, è stato chiesto di indicare le possibili cause. Ulteriormente, è stata valutata la riduzione del desiderio e sono stati analizzati i comportamenti sessuali individuali. Nello specifico, è stato chiesto ai partecipanti di indicare la frequenza dell’autoerotismo durante la quarantena e le cause della sua possibile diminuzione.

Durante i primi giorni della pandemia, si era ipotizzato che l’obbligo di restare a casa avrebbe fornito la possibilità alle coppie di riscoprire la loro intimità. Coerentemente con quanto ipotizzato, nello studio preso in esame, all’aumentare del numero di ore trascorse a casa con il partner, si è assistito ad un aumento significativo del numero di rapporti sessuali. Teoricamente, l’allontanamento fisico, l’isolamento sociale e l’incapacità di incontrare parenti ed amici, potrebbero aver avuto un’influenza portando i partner ad avvicinarsi l’un l’altro (Micelli et al., 2020).

In alcuni gruppi di lavoratori, la possibilità di praticare lo “smart-working”, insieme alla conseguente diminuzione dello stress lavoro-correlato, hanno anche migliorato la qualità del tempo che le coppie potevano condividere. Tuttavia, la maggior parte dei partecipanti ha riportato livelli di preoccupazione più elevati rispetto all’inizio della quarantena e la diminuzione dei livelli di benessere era significativamente correlata ad una riduzione dei rapporti sessuali. Sebbene la maggior parte dei partecipanti abbia specificato che il desiderio sessuale sia rimasto invariato, o addirittura aumentato, rispetto all’inizio della quarantena, la maggioranza ha riportato un impatto negativo sul numero di SI settimanali. La mancanza di privacy e la diminuzione degli stimoli psicologici sono emerse come le cause principali. In primo luogo, la copresenza di bambini e genitori per molte ore nella stessa casa potrebbe giocare un ruolo importante nel compromettere l’intimità. Infatti, nello studio, all’aumentare del numero di bambini, il numero di SI diminuisce. Inoltre, le preoccupazioni per la pandemia, la paura di essere infettati o di contribuire alla diffusione del virus, le incertezze economiche hanno rappresentato dei limiti, impedendo che il desiderio sessuale si trasformasse in rapporto. Inoltre, una maggiore tendenza a trascurare l’aspetto fisico (come indossare il pigiama tutto il giorno) potrebbe comportare una diminuzione dell’interesse sessuale verso il partner. Confrontando la riduzione del desiderio sessuale tra i sessi, gli uomini hanno mostrato una riduzione significativamente maggiore. Ma, allo stesso tempo, si è evinto che la maggior parte della popolazione si masturba come al solito o anche più frequentemente di prima. Ciò potrebbe essere dovuto al fatto che l’autoerotismo potrebbe essere meno emotivamente coinvolgente rispetto ai rapporti sessuali.

Concludendo, potenzialmente, l’avere più tempo a disposizione potrebbe portare le coppie a riconnettersi a livello intimo e a migliorare la loro sessualità. Tuttavia, la maggior parte dei partecipanti ha sperimentato un numero ridotto di rapporti a settimana, a causa della riduzione della privacy e alla mancanza di stimoli psicologici, durante la quarantena. In futuro, sarà interessante valutare se i cambiamenti nella sessualità delle coppie saranno temporanei o se le conseguenze sui comportamenti sessuali modificheranno in modo permanente i rapporti.

 

Società ipertestualizzata: l’esempio del QR code

Il funzionamento del QR code, esempio dell’ipertestualità della Rete, è quella di collegamento immediato del mondo analogico a quello della Rete.

 

La tecnopsicologia è una branca di ricerca, che unisce due campi teorici: la psicologia e le nuove tecnologie.

La tecnopsicologia, infatti, si pre-occupa di studiare come la connessione tra linguaggio e organizzazione mentale impatta sulla società, in relazione all’evoluzione tecnologica.

Le nuove tecnologie, infatti, diventano estensioni di funzioni cognitive come la memoria, che da collettiva diventa ‘connettiva’ (De Kerckhove, 2016). Invero, una delle opportunità offerte, ad esempio dagli smartphone o dai social network, è quella di estendere il deposito mnestico, lasciando traccia degli avvenimenti biografici o delle piccole cose quotidiane da ricordare. Oltre alla funzione mnemonica, interessante è notare come vi sia una nuova organizzazione anche nella ricerca di informazioni: la Rete, infatti, mette a disposizione istantaneamente ogni richiesta di informazione, attraverso l’ipertestualità.

L’ipertestualità (Guerriero & Sauro, 1997) è una proprietà dei testi in Rete che consentono un collegamento tra loro per tematiche. Ad esempio, l’utente che volesse informarsi su un determinato argomento potrà ricercare in rete il tema, attraverso parole-chiave. Da lì, attraverso un semplice click, il fruitore dell’informazione sarà in grado di approfondire topic collegati al tema principale.

Un esempio particolare di ipertesto è il QR code. QR code è un acronimo inglese delle due parole ‘quick reader’, ovvero un codice che si può leggere velocemente. Il funzionamento di un QR code non è legato solo alla scansione di prodotti nei magazzini, ma con la società ipertestualizzata assume nuove funzioni e significati. Il funzionamento del QR code, infatti, è quella di collegamento immediato del mondo analogico a quello della Rete; ovvero, inquadrando il codice con uno smartphone, l’utente viene istantaneamente riportato ad una pagina web con contenuti di diversa natura, ma predefiniti.

Da questo ‘collegamento istantaneo’ si possono migliorare diversi contesti. Si pensi al marketing e all’esempio dei barattoli della Nutella dedicati ai paesaggi italiani. Scansionando il QR code, l’utente può viaggiare virtualmente, ammirando paesaggi e rispondendo a domande in modo interattivo. Si pensi anche allo user-generated advertising (Mutum & Wang, 2011), vale a dire alla pubblicità generata dall’utente e alla rivoluzione dei bigliettini da visita. Ogni professionista, infatti, può chiedere di scansionare i QR code per far visionare il curriculum vitae completo.

La rivoluzione dell’ipertestualità attraverso il QR code è stata particolarmente utile soprattutto nel periodo della pandemia da covid19, momento storico in cui si sta cercando di ridurre al minimo i contatti. Il QR code diventa una strategia immediata di tracciamento, oppure di lettura dei menù nei luoghi dedicati alla ristorazione, ma anche un modo per viaggiare. A livello psicologico, infine, il QR code diventa un modo di identificarsi nella realtà online come uno dei nodi del grande Ipertesto.

TikTok: quali usi e gratificazioni ricercate dagli utenti adolescenti e preadolescenti?

TikTok, uno dei social network più popolare degli ultimi tempi, vanta di 500 milioni di iscritti tra preadolescenti e adolescenti. In questa piattaforma, gli utenti possono produrre, modificare e condividere video di 15 secondi di loro stessi intenti a ballare, cantare e mostrare altre abilità. 

 

Sin dal suo esordio nel 2017, diversi professionisti dell’industria musicale hanno dichiarato TikTok  come determinante nella promozione e nel lancio di nuovi talenti, permettendo a ciascuno di “diventare qualcuno” (Leight, 2019).

L’uso di Tiktok di tipo passivo, partecipativo e contributivo alla creazione di contenuti (Shao, 2009), può essere letto attraverso il quadro delle teorie psicologiche dell’autorealizzazione e della creazione dell’identità (Goffman, 1959) e della teoria degli usi e delle gratificazioni (Katz, 1959). Quest’ultima indaga le motivazioni sociali e psicologiche alla base dell’utilizzo del social network, presupponendo che siano differenti in base agli usi più o meno attivi.

Studi precedenti sottolineano che una fruizione passiva (sorveglianza, rilassamento, ricerca di informazioni e intrattenimento senza partecipazione), infonde gratificazione immediata (Sheldon & Bryant, 2016) ed è incrementata tra i giovani utenti di TikTok per la presenza di contenuti di intrattenimento sempre accessibili (Whiting & Williams, 2013).

I social permettono di sfuggire dalla realtà e dalla noia, distogliendo l’attenzione dalle responsabilità (Quan-Haase & Young, 2010); inoltre, semplicemente osservando la vita dei propri coetanei, si può essere informati sui cambiamenti in atto senza alcun impegno nel dialogo (Shao, 2009).

L’uso dei social network permette di dimostrare un know-how sociale tra gli adolescenti (Quan-Haase & Young, 2010), che possono soddisfare il bisogno di interazione con il proprio gruppo e con persone aventi interessi simili tramite i comportamenti partecipativi (McKenna et al., 2002), di interazione utente-utente e utente-contenuto (Shao, 2009).

I social, avvantaggiando coloro che sono socialmente inibiti (Quan-Haase & Young, 2010), danno conforto grazie ad un ambiente interpersonale al riparo dai rifiuti e dagli imbarazzi della vita reale (Dunne et al., 2010).

Gli utenti di TikTok possono cimentarsi nel ruolo di produttori di contenuti personali; particolarmente favorevole per l’adolescente che, assolvendo al compito evolutivo di sviluppo della propria identità sociale, si trova a sperimentare sé stesso (Yau & Reich, 2019) in un mondo online vasto e impersonale.

Tra i giovani, i bisogni di espressione del sé, di riconoscimento sociale e ricerca di popolarità, sono i motivi più citati alla base della produzione di contenuti online (Dunne et al., 2010). Mettendo in mostra il propri talenti su TikTok, si viene a creare un’immagine di sé talvolta fittizia, che attira l’attenzione del pubblico (Trammell & Keshelashvili, 2005), con il fine di intraprendere relazioni nuove e supportive (Walker, 2000).

Gli adolescenti preferiscono esprimersi in piattaforme che consentono di costruire identità più visive, nelle quali il riconoscimento sociale ricevuto dal numero di mi piace e di seguaci è indicativo del loro successo (Mascheroni et al., 2015). TikTok offre il potenziale per raggiungere una certa popolarità grazie al pubblico virtuale, dando la possibilità di creare pagine di profilo simili a quelle delle celebrità, imitandone il loro stile di vita.

Bossen & Kottasz (2020) hanno condotto uno studio in Danimarca esaminando le modalità di interazione su TikTok da parte di adolescenti e preadolescenti (11-16 anni); scoprendo gli usi e le gratificazioni chiave ricercati in questo social network, oltre alle motivazioni che ne guidavano l’utilizzo.

Dall’indagine emerge come sia gli adolescenti che i preadolescenti adottavano prevalentemente comportamenti passivi di consumo su TikTok per ricercare una forma di intrattenimento e divertimento. Inoltre, questo motivo era il motore principale anche tra coloro che partecipavano e contribuivano ai contenuti.

Le gratificazioni ricercate dal consumo passivo di Tiktok erano associate a bisogni affettivi, di evasione, cognitivi (ricercare informazioni) oltre che di sorveglianza degli altri, senza distinzione per genere o età.

La motivazione primaria dell’uso partecipativo di TikTok nel campione era espandere la rete di conoscenze, sentirsi riconosciuti a livello sociale e più in generale strutturare una propria identità.

Un terzo di coloro che hanno usato TikTok contribuendo nei contenuti avevano come motivazione l’espressione della creatività, l’autoespressione e la volontà di sperimentare la propria identità.

La produzione di contenuti e la possibilità che possano divenire virali conferiscono sicurezza identitaria ai giovani, rafforzando la loro posizione sociale. Infatti, la motivazione primaria tra gli utilizzatori frequenti era il desiderio di diventare famosi.

Le esigenze relazionali di riconoscimento e di fama, emerse dagli adolescenti impegnati nella produzione di duetti e video collaborativi, venivano confermate in modo esplicito dal campione.

Mentre i preadolescenti erano gratificati nel seguire profili di loro amici coetanei e nel produrre contenuti, gli adolescenti più grandi d’età soddisfacevano i loro bisogni visitando passivamente i post pubblicati da altri famosi (influencer, celebrità e idoli). Tra loro, un uso meno partecipativo di TikTok derivava probabilmente dall’autoconsapevolezza e dalla volontà di tutelare la propria privacy.

Sebbene TikTok sia considerato una forma di intrattenimento che concede un divertimento spensierato può essere motivo di preoccupazione sapere che i consumatori, oltre alla loro precoce età, ricercano attivamente nuovi legami sociali con lo scopo di divenire più popolari.

Al fine di tutelare i ragazzi, è importante entrare in contatto con il loro mondo, comprendere quali sono le figure influenti seguite su TikTok e a quali contenuti espongono gli utenti.

E’ chiaro che i social network non vengono monitorati come ci si aspetterebbe dal contesto sociale e che i bambini stessi che si interfacciano con il social, nonostante adultizzati in modo precoce, non hanno gli strumenti per capire e affrontare i pericoli insiti nel mondo online.

Per questo, è necessario agire in ottica preventiva, educando ad un uso consapevole di internet e del mondo social in un’età sempre più precoce, intervenendo non solo sulle questioni legate alla privacy e al pericolo dell’approccio ad estranei; ma nella gestione delle aspettative dei ragazzi, come quella del divenire famosi.

 

Dopo Trump, tornare alla razionalità

In questi giorni, gli strani e inquietanti eventi che accompagnano la fine della presidenza di Donald Trump ci dicono molte cose, tra le quali ce ne è una che interessa a noi che lavoriamo nel campo psicoterapeutico: che è tempo di tornare a riconoscere il ruolo significativo che la razionalità gioca nel benessere emotivo oltre che in quello sociale.

È tempo di tornare a dare un suo ruolo alla razionalità forse anche in psicoterapia perché troppo di emotivo e irrazionale vi è nei fatti accaduti a Washington. È vero: rischia di essere strumentale discorrere di razionalità o razionalismo in psicoterapia in questo momento in cui ben altro accade: la solidità della democrazia americana, tra le più antiche al mondo, ha mostrato una crepa. La razionalità è un valore importante ma non si può non riconoscere che in psicoterapia questa parola ha un significato preciso: “razionalità” e “razionalismo” sono due termini legati a determinati orientamenti psicoterapeutici, così noti che è inutile indicarli. Additare gli scricchiolii della politica americana per fare la propaganda a una psicoterapia non suona elegante.

Eppure, distaccandoci dalle singole psicoterapie e parlando di “razionalità” e “razionalismo” in maniera più ampia, come atteggiamenti clinici e orientamenti scientifici e non come brand di una determinata psicoterapia, i fatti di Washington possono essere un monito a riconsiderare i meriti delle funzioni razionali nel processo psicoterapeutico. Proveniamo da alcuni decenni di riscoperta, a volte benemerita e altre volte meno, dell’emotività in psicologia e in psicoterapia. Tra i tanti libri, uno dei più mainstream e pop è stato “Emotional Intelligence” pubblicato nel 1995 dal giornalista scientifico Daniel Goleman. Accanto a questa opera, altre ne sono state pubblicate più rigorose e profonde e molto ci hanno insegnato.

Tutti questi contributi ci hanno fatto capire quanto sia complesso il rapporto tra gli stati emotivi e le nostre decisioni più ponderate, calcolate e fondate su i principi più impersonali e astratti della razionalità. Un rapporto complesso in cui non possiamo pretendere che l’emozione sia meccanicamente asservita alla ragione. Abbiamo capito che i nostri stati esecutivi e consapevoli, la cosiddetta ragione, possono svolgere una funzione regolativa che arriva sempre dopo la percezione emotiva ma non può sostituirla: come scriveva Jonathan Haidt (2001) la buona ragione è la coda del cane, una metacognizione e non una cognizione primaria. Abbiamo imparato che la razionalità è una funzione acquisita tardivamente nell’evoluzione e da questa provenienza derivata dipendono i suoi limiti nel controllo degli stati mentali. Sappiamo ormai che la razionalità, lasciata a sè stessa, genera anch’essa i suoi mostri: il rimuginio e i pensieri ossessivi ad esempio. Abbiamo infine appreso che gli stati mentali, compresi quelli più razionali e impersonali, non sopravvivono al di fuori delle relazioni emotive con le altre persone e che quindi in ogni ragionamento vi è un affetto per o contro qualcuno. Da ultimo, abbiamo imparato che la mente è incarnata e che gli algoritmi e i concetti della ragione non vivono al di fuori di stati corporei che coinvolgono nervi, muscoli, pelle e visceri.

Insomma, abbiamo imparato di tutto ma abbiamo iniziato a trascurare la ragione rischiando così di dimenticare quella che è una delle principali virtù del pensiero razionale, la sua capacità di distaccarsi, di disincarnarsi, di decontestualizzarsi e di valutare freddamente e astrattamente i pro e i contro di una situazione e poi stabilire il da farsi (anche) al di fuori di ogni istinto. Che poi ci riusciamo ad attivarlo questo da farsi è un altro paio di maniche, ma intanto possiamo immaginarlo, sapere cos’è e sapere che prima o poi faremmo bene a fare quel che si deve fare. Insomma, abbiamo dimenticato che la razionalità è connessa con la funzione esecutiva consapevole, quella funzione che ci consente di prendere decisioni che sono certamente condizionate dalle percezioni affettive, emotive, relazionali, interpersonali e corporee ma che poi posseggono sempre un margine, un margine sottile ma presente in cui per un attimo e in maniera del tutto astratta, decontestualizzata e impersonale possiamo dire “si, faccio questo” o “no, non voglio farlo”.

Questa funzione è stata a volte svalutata, trascurata, definita illusoria e irrilevante. E questo pensiero si è diffuso sia a livello popolare che scientifico, in un movimento che ha coinvolto vari ambiti. Un movimento, ripeto, che ha i suoi grandi meriti scientifici ma che è solo una possibile linea di sviluppo nella storia umana, non l’unica e nemmeno sempre la più promettente. È anche una direzione che spesso ha mostrato delle corrispondenze con movimenti culturali di tipo irrazionalistico e romantico che periodicamente hanno conquistato l’egemonia o almeno la prevalenza sulla scena della storia, accanto ad altri periodi in cui l’orientamento prevalente era quello razionalistico.

Non si può ignorare che l’ondata neoromantica in psicoterapia, che dura da un po’, mostri le sue risonanze armoniche con le ondate populistiche e anti-elitarie che da alcuni anni hanno acquistato forza. Mi pare sia più diffusa di un tempo la convinzione che un ragionamento astratto non abbia alcun valore sociale, culturale e personale se non è accompagnato da una convinzione emotiva, da una sensazione viscerale e se non è vissuto in una relazione affettiva che fornisca un significato sentimentale al tutto. È un pensiero popolare indubbiamente, e che ha i suoi meriti. Si pensa che una musica debba avere il suo “hook” immediato, il suo appiglio melodico altrimenti non vale nulla ed è sospettata di snobismo. E così per mille altre manifestazioni della vita culturale, sociale e mentale. La conseguenza è che però decresce la fiducia nella possibilità di poter effettuare uno sforzo volontario non sentito ma razionale, lo sforzo di educarsi a imparare a fare qualcosa che spontaneamente e visceralmente non ci piace. Questa conseguenza vale non solo per la psicoterapia, in cui decresce la fiducia nel poter trasmettere al paziente la possibilità di un suo impegno razionale a mettere in atto comportamenti e pensieri funzionali, ma anche per la società, sempre più preda di idee populistiche, irrazionalistiche, percepite ma non elaborate, di grande impatto emotivo ma non pensate e, se permettete, non razionalizzate razionalisticamente.

I cicli interpersonali in terapia

L’obiettivo che permane durante tutto l’arco della terapia è quello di creare e mantenere la relazione terapeutica stabile e sicura al fine di modificare i pattern di attaccamento disfunzionali con alcuni più adattivi e funzionali.

Michela Cavallaro, Giorgia Cipriano – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Milano

 

Il primo autore a parlare di alleanza terapeutica è Bordin (1979) che definisce i fattori che la costituiscono. Secondo l’autore, l’alleanza terapeutica, è connotata da: obiettivi condivisi, compiti reciproci durante il trattamento e un legame affettivo caratterizzato da fiducia e rispetto.

Nonostante si possa credere e/o immaginare che creare ed ottenere tutto ciò sia semplice e di facile intuizione in realtà non lo è. Il terapeuta, a volte, potrebbe sentire la sensazione di essere in una fase di stand by della terapia in cui si sente di non riuscire a dare il proprio contributo al paziente o non si procedono e/o si ottengono i risultati sperati o addirittura che la persona che sta fruendo di questo servizio ci attivi emozioni di rabbia o ansia. In questo caso è possibile che il terapeuta e il paziente siano dentro ad un ciclo interpersonale.

Due autori che hanno definito il ciclo interpersonale sono Safran e Segal. Per loro esso è ‘il modo in cui la relazione con l’altro attiva circuiti che rinforzano la patologia a causa dei segnali – in prevalenza non verbali, automatici ed emozionali – che i pazienti scambiano con i loro partner in interazione’ (Safran e Segal; 1990).

Dalla loro esposizione intuiamo che essi sono meccanismi e strategie che il paziente utilizza per non accedere a stati emotivi che per lui sono dolorosi e faticosi da tollerare. Ciò però suscita nell’altro proprio le sensazioni e gli stati emotivi temuti che avvalorano le credenze centrali e attivano una modalità che mina la relazione in generale e quelle significative e terapeutica in particolare.

I cicli interpersonali non sono volontari e frutto di un atto deliberato intenzionale a livello conscio ma avvengono su un piano automatico inconscio, emotivo ma esplicito e si autoperpetuano. L’autoperpetuazione è la tendenza di un soggetto a relazionarsi con gli altri attuando ruoli complementari che cristallizzano lo schema relazionale.

Affinché si crei l’alleanza terapeutica è necessario che la relazione proceda nella direzione sperata ed è importante che il terapeuta si monitori e ponga attenzione ai suoi stati emotivi, ai suoi pensieri e alle sensazioni che il soggetto gli trasmette. E’ importante che il terapeuta noti anche se ci sono delle conferme tra le narrazioni del soggetto (e quindi sulle relazioni significative che la persona riporta) e ciò che accade nel setting terapeutico.

Esistono diversi cicli interpersonali e gli autori Muran & Safran (2000) li esplicitano in 3 grandi tipologie mostrando ciò che gli attori della terapia attuano a livello comportamentale e quindi fisico, verbale e comunicativo. Essi sono:

  • Ciclo interpersonale del ritiro. In questo ciclo il paziente attua comportamenti di: intellettualizzazione, iperdettaglio, riduzione della comunicazione, shifting argomentativo, comunicazione laconica. Allo stesso tempo il terapeuta sente il desiderio di non presentarsi in terapia perchè non vorrà vedere il paziente; inoltre durante il colloquio sentirà del torpore e in seguito potrebbero esserci amnesie su ciò che essi si sono detti.
  • Ciclo interpersonale del confronto. In questa relazione il paziente critica la terapia e il suo andamento, sarà allusivo e porrà test al terapeuta e verificherà la sua disponibilità e l’autorevolezza nonché la sua preparazione. Il terapeuta sentendosi minacciato proverà fastidio ed irritazione.
  • Ciclo interpersonale dell’ipercoinvolgimento. In questo ciclo il paziente è in fase di allarme e richiedente di attenzione ed aiuto. Egli idealizza il terapeuta ma è anche preoccupato. Ciò crea nel teraputa ansia, paura e fantasie di catastrofi.

Oltre a questa suddivisione, i cicli interpersonali possono essere distinti secondo Di Maggio in due macro categorie: acuti o cronici.

I cicli acuti si caratterizzano per l’intensità delle emozioni, per la potenza della spinta all’azione e per la durata relativamente breve che, quando non porta alla rottura della relazione, raramente supera le due sedute. I cicli cronici, invece, sono caratterizzati da sentimenti di minore intensità, da spinte all’azione più facilmente contenibili, ma da una durata che, specie all’inizio della terapia, tende a prolungarsi per diverse sedute. Pertanto, mentre nei cicli acuti effettivamente il terapeuta incontra serie difficoltà a contenere la spinta emotiva e mettere in atto azioni anti terapeutiche, nei cicli cronici si segnala una tendenza all’azione grazie alla minore intensità. Tuttavia il terapeuta si trova a dovere gestire per un periodo più lungo una spinta verso interventi legati più al proprio stato emotivo che al ragionamento clinico. Il fatto che l’insorgenza dei cicli problematici sia profondamente legata alla patologia interpersonale dei Disturbi di Personalità fa sì che lo stesso tipo di ciclo tenda a ripetersi quando è presente un certo tipo di patologia, indipendente delle caratteristiche personali del terapeuta. In altre parole, pazienti simili tendono a creare cicli simili e ciò permette di tentare una sia pur parziale classificazione dei cicli e soprattutto un apprendimento a riconoscerli e gestirli (per una descrizione di diversi cicli: Carcione, Nicolò e Semerari, 2016; Dimaggio e Semerari, 2003; Semerari, 1999).

I cicli interpersonali possono verificarsi sia con i cosiddetti pazienti semplici che con i pazienti che hanno disturbi della personalità. Essi ricoprono una categoria molto sensibile a questo tema: è infatti più probabile che i cicli interpersonali si verifichino in terapie con pazienti con disturbo di personalità. In questi pazienti i cicli sono un vero e proprio elemento clinico che deve essere avvertito e gestito ancora più tempestivamente che con gli altri pazienti. Essi faticano a riflettere e ragionare sui propri e altrui stati mentali (deficit metacognitivo). Nelle terapie con questa tipologia di utenza i cicli interpersonali hanno un’attivazione più rapida, di maggiore intensità e sono rafforzati dai deficit metacognitivi che creano un sistema di auto-mantenimento. Queste relazioni disfunzionali sono state studiate da diversi autori che hanno evidenziato come a seconda del disturbo, essi abbiano caratteristiche diverse. Quindi non sono tanto le differenze individuali del paziente e del terapeuta a crearli e mantenerli quanto le caratteristiche del disturbo di personalità di cui soffre il paziente (Clarkin et al. 1999). L’autore fa l’esempio di un paziente paranoico che attua reazioni di di paura o rabbia o il narcisista che mostra reazioni di sfida, distacco o di adulazione. Essi sono inoltre indicatori del tipo di disturbo di personalità cui soffre il paziente e possono fornire indicazioni sul funzionamento del paziente.

Ma l’accorgersi del ciclo interpersonale, oltre a fornire indicazioni sulle caratteristiche del paziente aiuta il terapeuta sull’orientamento della terapia. Egli, pertanto dovrà dare importanza ai suoi vissuti emotivi durante il colloquio con il paziente e una volta identificato lo stato emotivo, potrà domandarsi se questo sia simile a ciò che prova il paziente o le persone che sono in relazione con lui. ‘L’obiettivo è di riuscire a collocarsi mentalmente in modo contrario alla tendenza spontanea che emerge dall’interazione con il paziente‘ (Dimaggio, Semerari, 2007). Dimaggio e Semerari con questa affermazione sottolineano l’importanza di riconoscere i cicli interpersonali e condividerli e discuterne quando è possibile con l’utente al fine di favorire il processo empatico e migliorare l’alleanza terapeutica creando schemi relazionali più funzionali. Non è semplice riconoscersi dentro ad un ciclo interpersonale proprio perchè si è uno degli attori coinvolti e questo denota quanto sia importante aver fatto terapia personale e quindi essere a conoscenza dei propri temi dolorosi e delle strategie che noi stessi mettiamo in atto, sia di essere supervisionati da esterni sui nostri casi. Costruire o ricostruire insieme al paziente una relazione solida e di cura è parte stessa del percorso terapeutico.

Non tutte le sensazioni che il terapeuta ha però devono necessariamente essere associate a cicli interpersonali: i pensieri, le emozioni e i comportamenti che un paziente ci suscita possono essere altresì correlati alle caratteristiche del terapeuta (Clarkin, Kernberg e Yeomans, 1999). Potrebbero infatti essere dovuti a stati mentali che sono condizionati dalla quotidianità e dal vissuto privato del terapeuta come una condizione faticosa in famiglia, stanchezza generale, bournout, malessere o ancora a suoi aspetti caratteriali come insicurezza, arroganza e freddezza. Ciò che però occorre approfondire è che durante tutto il percorso terapeutico il terapeuta si osservi e riconosca i propri vissuti e stati mentali e si chieda quanto siano dovuti alle proprie caratteristiche personali e quanto alla relazione e al paziente. Osservarsi e monitorare l’andamento del colloquio terapeutico ha a che fare con la cura e fornisce spunti di narrazione con i pazienti disfunzionali sul piano relazionale. Se non adeguatamente osservato e compreso, questo aspetto, può compromettere gravemente la terapia.

La terapia metacognitiva interpersonale

Per conoscere e curare un disturbo mentale è necessario capire in che modo i diversi elementi che lo caratterizzano interagiscono tra loro creando un funzionamento patologico stabile nel tempo. La terapia metacognitiva interpersonale è indicata per i pazienti che presentano disturbi di personalità perchè, in questo approccio, il terapeuta li suddivide in aree e processi di funzionamento mentale e agisce su di essi cercando di bloccare i loro circuiti di rinforzo. Essi prendono in considerazione soprattutto gli stati mentali problematici, le disfunzioni cognitive, gli schemi ed i cicli interpersonali disfunzionali.

L’intervento metacognitivo interpersonale si basa su quelle che sono le capacità metacognitive, ovvero l’abilità di comprendere, riconoscere e monitorare le proprie emozioni e i propri bisogni e quelli degli altri. In altre parole è sinonimo di conoscere la nostra mente e comprendere quella dell’altro. Molto spesso i pazienti che presentano dei cicli interpersonali hanno anche dei deficit metacognitivi e, di conseguenza, l’intervento deve prima essere mirato sullo sviluppo delle abilità metacognitive e, solo in un momento successivo sui cicli interpersonali.

Per uscire dal ciclo interpersonale è necessario innanzitutto riconoscerlo e ricondurlo anche ad altri episodi della vita del paziente, non soltanto alla relazione terapeutica, esplicitarlo al paziente e ragionare con lui sulle motivazioni e l’utilità di tale schema relazionale. E’ importante effettuare tale intervento monitorando il timing terapeutico poichè può essere successivo solo a un precedente intervento metacognitivo. Se l’intervento viene svolto in modo eccessivamente precoce potrebbe portare alla creazione di un ciclo competitivo non funzionale alla terapia. L’obiettivo finale è quello di permettere all’utente di instaurare relazioni più funzionali e, in altre parole, l’attivarsi di cicli interpersonali problematici tra terapeuta e paziente rappresenta, oltre a un rischio, un’occasione per la cura, perché permette al terapeuta una comprensione più completa e terapeuticamente vantaggiosa di come il suo paziente vive le relazioni interpersonali (Di Maggio, Semerari, 2007)

 

La disposizione dei posti a sedere può influenzare i processi cognitivi di studenti della scuola primaria?

Lo studio condotto da Tobia et al. (2020) ha indagato nella scuola primaria, l’effetto del cambiamento della disposizione dei posti a sedere, sul ragionamento logico, sulla creatività e sulla teoria della mente.

 

Le caratteristiche strutturali dell’ambiente scolastico influiscono sul rendimento, l’impegno, lo stato emotivo ed il benessere generale di coloro che lo frequentano (Higgins et al., 2005); condizionando le interazioni sociali tra pari e tra insegnanti e studenti (Byers et al., 2018).

Ad esempio, il posizionamento dei banchi nelle scuole primarie, sembra impattare notevolmente sul comportamento tenuto in classe dagli studenti, come alzare la mano per fare domande o essere fuori posto senza permesso (Wannarka & Ruhl, 2008).

La tradizionale disposizione dei banchi incentrata sull’insegnante, è costituita dalla collocazione degli studenti su file e colonne, con il docente posto di fronte a loro. Diversamente, l’organizzazione dei banchi in cluster che permette con facilità il lavoro in gruppi favorendo la cooperazione, è divenuta la più utilizzata dagli insegnanti negli ultimi anni (Gremmen et al., 2016). Tuttavia, in questa fase storica, la riapertura delle scuole durante il COVID-19, è stata effettuata a condizione del rispetto di misure volte a favorire il distanziamento sociale, intraprese cambiando la disposizione spaziale dei posti a sedere nelle aule, in file e colonne.

La distanza interpersonale tra gli studenti condiziona sia i processi relazionali che quelli cognitivi (Amit et al., 2013), influenza l’attenzione spaziale e favorisce la concentrazione al compito solo quando entrambi i partecipanti ne stanno eseguendo uno identico (Szpak et al., 2016).

La vicinanza con un compagno influisce negativamente nel ragionamento logico (Nagar & Pandey, 1987), nella creatività  (Lamm & Trommsdorff, 1973) e nei compiti di cognizione sociale (Strayer & Roberts, 1997), portando ad un rendimento scolastico peggiore soprattutto per le ragazze (Maxwell, 2003). Mentre la prossimità potrebbe promuovere la creatività di squadra (Milliken et al., 2010); la creatività nei compiti individuali è favorita dalla privacy (Dul & Ceylan, 2014), in assenza di vincoli fisici e sociali.

La distanza interpersonale non agisce sulla prestazione similmente per tutti gli individui, ma in modo variabile a seconda delle caratteristiche personali di ognuno (ad esempio, percepire la vicinanza come invasione dello spazio personale; Kaitz et al., 2004), in base al genere (ovvero le femmine tendono a stare più vicine tra loro rispetto ai maschi; Costa, 2010) e per la presenza di relazioni esistenti tra gli individui (Mehrabian, 1968).

Minore distanza interpersonale, influenza negativamente la performance per l’insorgenza del disagio sociale, una risposta allo stress determinata dall’invasione da parte dell’altro, nel nostro spazio personale. Fronteggiarlo richiede risorse cognitive, che possono essere sottratte a quelle necessarie alla risoluzione del compito (Helton et al., 2009).

Lo scopo dello studio, condotto da Tobia et al. (2020), era indagare sperimentalmente su 77 bambini della scuola primaria, l’effetto del cambiamento della disposizione dei posti a sedere (gruppi vs file e colonne), sul ragionamento logico (pensiero convergente), sulla creatività (pensiero divergente) e sulla teoria della mente (cognizione sociale).

Inoltre essendo plausibile che specifici fattori individuali, insieme alle caratteristiche del compito, possano influenzare i processi cognitivi; l’effetto della disposizione dei posti a sedere è stato analizzato in relazione ad alcune caratteristiche, come genere e grado di solitudine valutato dai compagni di classe.

I partecipanti seduti in file e colonne, dunque ben distanziati, hanno riportato un punteggio nel ragionamento logico globalmente più alto, insieme ad un miglioramento qualitativo e quantitativo del lavoro stesso; coerentemente col fatto che l’essere seduti separati dai coetanei facilita lo svolgimento di compiti individuali, aumentando la produttività (Bennett & Blundell, 1983).

Nonostante per gli altri processi cognitivi esaminati non siano emersi effetti significativi in relazione della disposizione dei banchi, per le variabili individuali sono emersi risultati rilevanti.

Nel dettaglio, le bambine riportavano prestazioni migliori nella teoria della mente quando sedute distanziate, avendo migliori competenze sociali e capacità di riconoscimento emotivo rispetto ai loro coetanei maschi. Durante i compiti di cognizione sociale, un compagno nelle vicinanze potrebbe agire come stimolo ambientale che le distrae e che entra in competizione con le richieste del compito, comportando un carico cognitivo maggiore e prestazioni peggiori (Choi et al., 2014).

I bambini più isolati, avevano prestazioni migliori nel compito di cognizione sociale ed in quello creativo quando seduti in file e colonne, avendo riportato idee più originali.

Coerentemente con il modello della solitudine di Hawkley e Cacioppo (2010), individui tendenzialmente soli ma costretti alla vicinanza con i loro coetanei, si ritrovano in sovraccarico cognitivo per un’ipervigilanza verso le minacce sociali; pongono attenzione alle informazioni negative dell’ambiente sociale e hanno minori risorse disponibili per il compito.

Tuttavia, i bambini che tendevano a circondarsi da coetanei, hanno beneficiato della loro vicinanza fisica promossa dalla disposizione dei banchi a grappolo durante il compito di creatività, avendo riportato un maggior numero di idee.

Concludendo, il posizionamento delle sedute nelle aule delle scuole primarie, andrebbe concordato con la natura del compito, favorendo posti distanziati per attività individuali che implicano il pensiero convergente, come nei compiti di ragionamento, e sedute più ravvicinate per i compiti creativi; non senza prima considerare le caratteristiche individuali dei singoli studenti.

Inoltre, sarebbe utile favorire politiche scolastiche volte a consolidare il gruppo classe, portando alla coesione e integrazione di tutti i membri, cosicché le prestazioni cognitive dei bambini tendenzialmente soli ma costretti a lavorare in gruppo, possano trarne beneficio.

Le linee guida imposte dal COVID-19 che impongono banchi disposti in file e colonne, pur avendo un impatto positivo per alcuni tipi di compiti e per alcuni studenti, dovrebbero essere limitate a questo momento di emergenza sanitaria.

Privilegiare un ambiente di apprendimento flessibile, significa riorientarlo a beneficio del fruitore primario, in modo tale da creare per il raggiungimento degli obiettivi scolastici, uno spazio di crescita incentrato sullo studente e per lo studente.

 

Covid-19, ansia, stress ed immagine corporea (Body Image), trovata una relazione

Oltre alle conseguenze sulla salute fisica, il COVID-19 ha portato a diversi problemi psicologici. La letteratura scientifica sulle pandemie passate ha mostrato il ruolo della paura, ansia, stress e depressione e le sue conseguenze psicosociali negative sulla qualità della vita della popolazione.

 

Nell’ultimo mese del 2019 e nel primo trimestre del 2020, una nuova malattia infettiva ha causato un’emergenza mondiale, al punto da dover dichiarare una pandemia globale da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità l’11 marzo 2020 (WHO, 2020). I sintomi di questa malattia (COVID-19), causata dal virus SARS-CoV-2, includono febbre, affaticamento, tosse secca, dolori, mal di gola, diarrea, congiuntivite, mal di testa, perdita del gusto o dell’olfatto, eruzione cutanea, difficoltà respiratorie, dolore toracico, perdita della parola o del movimento (WHO, 2020). Oltre alle conseguenze sulla salute fisica, il virus ha portato a diversi problemi psicologici (Santini et al, 2020). La letteratura scientifica sulle pandemie passate ha mostrato il ruolo della paura, ansia, stress e depressione e le sue conseguenze psicosociali negative sulla qualità della vita della popolazione (ad esempio Pappas et al., 2009).

L’immagine corporea è la percezione che gli individui hanno del proprio aspetto fisico e dei pensieri e dei sentimenti che derivano da tale percezione (Cash e Puzinsky, 2002). Più nello specifico

l’immagine che abbiamo nella nostra mente della forma, dimensione, taglia del nostro corpo e i sentimenti che proviamo rispetto a queste caratteristiche e rispetto alle singole parti del nostro corpo. (Slade, 1994)

Sempre secondo Slade (1994), la percezione della propria immagine corporea è composta da diversi elementi: (i) percezione (che fa riferimento a come una persona percepisce il proprio corpo tramite i sensi) ii) attitudinale (che fa riferimento alla cognizione del proprio corpo), iii) affettiva (che fa riferimento ai sentimenti verso il proprio corpo), iv) comportamentale (che fa riferimento alle attività fisiche, alimenzione etc.). Tutti questi elementi tra loro, possono dunque essere riferiti a diversi aspetti della personalità dell’individuo e ci fa comprendere come l’immagine che ogni persona possiede del proprio corpo è complessa e non riferibile solo ad elementi singoli (Nerini et al., 2008). L’insoddisfazione corporea consiste in una valutazione soggettiva negativa del proprio fisico (Troisi, 2020). Questo avviene quando vi è una differenza importante tra l’immagine ideale che vorremmo avere e la percezione reale che abbiamo del nostro corpo (Halliwell e Dittmar, 2006). Questa differenza (o discrepanza) può portare ad attuare dei sentimenti e dei comportamenti negativi verso sé stessi e verso il proprio corpo, arrivando anche, in alcuni casi, a mettere in atto dei comportamenti nocivi verso la propria salute fisica e mentale (Cash e Pruzinsky, 2002). Una conseguenza molto comune di questa discrepanza è la distorsione della propria immagine corporea (Garner e Garfinkel, 1981) che, se portata a livelli patologici, può sfociare in disturbi alimentari di varia natura (come ad esempio bulimia o anoressia, Garner e Garfinkel, 1981). Come riportato da Nerini et al. (2008, p.3):

L’enfasi data allo studio dell’insoddisfazione verso la propria immagine corporea quindi è dovuta principalmente al fatto che tale insoddisfazione risulta uno dei fattori di rischio per l’insorgenza di disturbi del comportamento alimentare (…) binge eating (…) o comportamenti alimentari disturbati come, per esempio, la tendenza a sottoporsi a ripetute diete dimagranti (…).

Inoltre, moltissimi studi (Granner, Black e Abood, 2002; Stice e Shaw, 2002), hanno messo in correlazione l’insoddisfazione della propria immagine corporea e la sua distorsione con altre variabili, come ad esempio bassa autostima, ansia, stress, depressione, uso di tabacco etc.

Inoltre, l’insoddisfazione per il proprio corpo, può essere ricondotta anche alla sovraesposizione ad immagini contenute in riviste, film e pubblicità, che ritraggono corpi ideali muscolosi per gli uomini, e di magrezza per le donne (ad esempio Leit, Pope e Gray, 2001; Cahill e Mussap, 2007).

Nella popolazione generale, si è visto che l’esposizione ai modelli ideali proposti dai media influisca sull’insoddisfazione corporea attraverso i processi di confronto sociale (relativo al proprio aspetto fisico) (Neriti et al., 2008; p. 3)

e questo porta a confrontare il proprio corpo, sia con i modelli di riferimento, sia con la famiglia, sia con i propri pari in modo più frequente ed ossessivo, alimentando la propria insoddisfazione (Van der Berg et al., 2007). Nello specifico

i pari e le immagini mediatiche risultano essere i più frequenti e importanti modelli estetici per il confronto dell’aspetto e del corpo sia fra gli adolescenti che i giovani adulti di entrambi i sessi (…) Anche la percezione delle pressioni dei media, dei genitori e dei pari a perdere peso risulta predire il livello di insoddisfazione corporea negli adolescenti. (Nerini et al., 2008; p. 8).

Fatte queste premesse, nella situazione che la popolazione generale sta vivendo, ansia, stress correlati alla situazione di emergenza, generata dal COVID-19, sembrano essere inoltre, la causa di una serie di problemi di immagine corporea sia negli uomini che nelle donne (Anglia Ruskin University, 2020). A scoprire questa relazione (tra ansia, stress e situazione dovuta al COVID-19) è una recente ricerca, effettuata da Viren Swami, professore dell’Anglia Ruskin University (ARU). La ricerca, guidata dal professor Viren Swami, è stata condotta su 506 adulti del Regno Unito e pubblicata sulla rivista Personality and Individual Differences (Viren Swami et al., 2020). In particolare, nello studio condotto dal professore Viren Swami e collaboratori si è visto che: le donne avevano i sentimenti di ansia e stress causati da COVID-19 associati a un maggiore desiderio di magrezza (Anglia Ruskin University, 2020; Viren Swami et al., 2020) e che l’ansia era significativamente associata all’insoddisfazione del proprio corpo. Negli uomini, invece, l’ansia e lo stress correlati a COVID-19 erano associati a un maggiore desiderio di avere un tono muscolare elevato, con l’ansia associata anche all’insoddisfazione della quantità di grasso corporeo.

Una percezione negativa del proprio corpo è una delle cause principali che possono sfociare in disturbi alimentari, come ad esempio bulimia e anoressia (vedi ad esempio Cash, T. F., & Deagle III, E. A., 1997). Questo studio conferma come, in situazione particolarmente stressanti ed ansiogene, come quella dovuta alle restrizioni per fronteggiare il COVID-19, possono alimentare ansia e stress che influenzano, in negativo, lo stato psicofisico dell’individuo, e causare diversi disturbi alimentari nella persona (Fernández-Aranda F, Casas M, Claes L, et al., 2020).  Viren Swami (2020), ha inoltre dichiarato che:

Oltre all’impatto del virus stesso, i nostri risultati suggeriscono che la pandemia potrebbe anche portare a un aumento dei problemi di immagine corporea. In alcuni casi, questi problemi possono avere ripercussioni molto gravi, inclusa l’attivazione di disturbi alimentari (…) Certamente durante il periodo iniziale di blocco primaverile, il nostro tempo davanti allo schermo è aumentato, il che significa che era più probabile che fossimo esposti a ideali magri o atletici attraverso i media, mentre una diminuzione dell’attività fisica potrebbe aver acuito pensieri negativi sul peso o sulla forma. Allo stesso tempo, è possibile che l’ansia e lo stress aggiuntivi causati da COVID-19 possano aver diminuito i meccanismi di coping che tipicamente utilizziamo per aiutare a gestire i pensieri negativi. (…) Il nostro studio ha anche scoperto che, quando stressati o ansiosi, le nostre occupazioni tendono a seguire le linee tipiche del genere. Durante il blocco, le donne possono essersi sentite sotto maggiore pressione per conformarsi ai ruoli e alle norme tradizionalmente femminili, e il messaggio sull’auto-miglioramento può avere portato le donne a sentirsi insoddisfatte del proprio corpo e ad avere un maggiore desiderio di magrezza. (…) Allo stesso modo, i nostri risultati riflettono il modo in cui lo stress e l’ansia influenzano le relazioni degli uomini con i loro corpi, in particolare in termini di ideali corporei maschili. Dato che la mascolinità enfatizza tipicamente il valore della forza, dell’autosufficienza e della ricerca dello status, Lo stress e l’ansia correlati al COVID-19 possono indurre gli uomini a dare maggior valore all’importanza di essere muscolosi. (Anglia Ruskin University, 2020)

Cosa dovrebbero fare le persone, dunque, in situazioni di stress, ansia dovuti alla quarantena? Un articolo del Prof. Riccardo Dalle Grave, M.D. (2020), dice che:

(…) Le persone con disturbi alimentari hanno un alto rischio di ricadere o di peggiorare la gravità del loro disturbo, a causa dei timori di infezione e dell’effetto della quarantena, e per la mancanza di adeguati trattamenti psicologici e psichiatrici dovuti alla pandemia. Le paure infettive tendono ad aumentare la sensazione di non avere il controllo che, nelle persone con disturbi alimentari, è spesso gestita con un aumento delle restrizioni alimentari o altri comportamenti estremi di controllo del peso o con binge-eatingepisodes (…) Non esistono soluzioni facili ai problemi di cui sopra. Tuttavia, è possibile mantenere l’erogazione di trattamenti psicologici ambulatoriali utilizzando la tecnologia online con alcuni adattamenti. Inoltre, alcuni centri clinici hanno già implementato servizi ambulatoriali intensivi virtuali (…) Tuttavia, alcuni pazienti con disturbi alimentari non rispondono al trattamento ambulatoriale o non possono essere gestiti in modo sicuro o praticabile in ambulatorio. La maggior parte di questi pazienti soffre di anoressia nervosa. In questi casi, anche nel periodo COVID-19, è necessario un trattamento intensivo, ma dovrebbe essere adattato per includere tutte le precauzioni per mantenere la sicurezza sia dei pazienti che del personale sanitario. Ciò richiede, ad esempio, di dover educare i pazienti a ridurre al minimo il rischio (ad esempio, lavarsi spesso le mani con acqua e sapone per almeno 20 secondi, evitare di toccare gli occhi, il naso o la bocca con mani non lavate, mantenere diversi metri di distanza tra loro e gli altri pazienti), aumentare i lavori di pulizia con disinfettanti, limitare tutti i visitatori, sospendere i pass terapeutici esterni, usare mascherine chirurgiche, condurre tutte le sessioni familiari in modo virtuale e mantenere la possibilità che i pazienti possano connettersi online con gli altri. Inoltre, dovrebbe essere ideato e implementato un protocollo specifico per gestire un paziente risultato positivo al coronavirus.

Tutti noi dobbiamo navigare in questo periodo difficile, ma coloro che soffrono di disturbi alimentari devono affrontare ulteriori sfide legate all’interazione della loro psicopatologia con le minacce associate alla pandemia COVID-19. Ciò richiede la progettazione di un nuovo modo di fornire trattamenti e di integrare strategie e procedure standard per affrontare sia il disturbo alimentare che le paure legate all’infezione e all’isolamento sociale (…).

Oltre ad ansia e stress però, ci sono altre variabili che possono essere concausa dei disturbi alimentari, come si evince da una recente ricerca di Abbiati F. et al. (2020, p.3):

La pandemia potrebbe anche aver avuto un impatto significativo sui pazienti con disturbo alimentare (…) Per quanto riguarda le abitudini alimentari, l’assenza di abitudini chiare e riferimenti temporali o spaziali, come le pause pranzo nelle mense aziendali, potrebbe essere annoverata tra i fattori che hanno peggiorato la qualità della vita dei pazienti con disturbi alimentari. Ad esempio, l’assenza di strutture che normalmente supportavano i piani alimentari della persona avrebbe potuto portare a un aumento del consumo di cibo al di fuori dei pasti prestabiliti, fomentando l’insorgenza di episodi di abbuffate (…) Inoltre, la raccomandazione del governo di limitare l’attività di acquisto non essenziale, con la percezione della scarsità di alcuni prodotti alimentari, potrebbe aver aumentato l’attenzione sul cibo e indirettamente incoraggiato le persone ad acquistare determinate forniture come snack e alimenti a lunga conservazione (…).Oltre ai suddetti fattori di rischio, la paura di contrarre l’infezione da COVID-19 ha probabilmente portato le persone a sperimentare maggiori preoccupazioni per quanto riguarda la qualità del cibo o la possibilità che possa essere un veicolo di contagio (…).

I futuri studi e ricerche, dovrebbero concentrarsi su come ansia, stress e COVID-19 siano legati tra loro per avere una visione più chiara di questo legame.

Inoltre, altre variabili da prendere in considerazione (oltre ansia e stress), che possono influire sull’immagine negativa del proprio corpo e condurre a disturbi alimentari (ad esempio bulimia o anoressia), nella situazione di emergenza da COVID-19 : (i) Preoccupazione estrema per il peso e la forma del corpo (Lydecker et al., 2017) dovuta all’incremento delle attività via webcam, come la didattica a distanza e quindi apparire sempre in forma (Ghosh et al., 2020),  (ii) depressione, che in situazione di crisi può essere presente in maniera patologica nell’individuo (Salari, N. et al., 2020) (iii) umore negativo che in situazione difficili può portare ad una valutazione ridotta della propria piacevolezza fisica (Bessenoff,  2006).

 


 

 

Prima il piacere e il dovere assieme: imprescindibilità di una moderata attività fisica per il benessere dell’individuo

Una corposa quantità di ricerca determina che l’attività fisica è assolutamente necessaria per il benessere e l’omeostasi dell’essere umano. L’articolo descrive questo bisogno psicofisico dell’uomo, contestualizzandolo nella attuale pandemia globale.

 

Il recente incremento dei casi di Sars-Cov-2 ha portato il governo italiano ad inserire nel nuovo DPCM un coprifuoco e la chiusura momentanea di attività, come i teatri e le palestre, di solito abilitate a luoghi di raggruppamento di un considerevole numero di clienti (Forgnone, Vitale. 2020).

Sebbene lo Stato abbia approvato un decreto con il quale le filiere più a rischio avranno un rimborso a fondo perduto, come indicato da Il Sole 24 Ore (2020), membri delle filiere stesse e le Regioni hanno contestato questa nuovo provvedimento (La Repubblica, 2020), considerandolo approssimativo e causa di effettivi fallimenti economici a catena.

Una dei rami aziendali che più ha contestato le direttive del nuovo DPCM è quella legato alle palestre, all’attività fisica agonistica e ai centri benessere, non solo per le conseguenze sulla loro già aggravata situazione economica (Il Resto del Carlino, 2020), ma anche per il danno alla salute psicofisica del popolo italiano (Rota, 2020).

La necessità di svolgere attività fisica per la salute generale e mentale è da sempre sottolineata dalla ricerca (Chekroud, Sammi R., et al., 2018), una necessità che deve essere soddisfatta in maniera moderata per garantire una corretta omeostasi nell’individuo (Biddle, S.,1995).

Il bisogno vitale dell’essere umano di compiere dell’esercizio fisico è un lascito del suo passato ancestrale come cacciatore di persistenza nomade (Trabucchi, 2015), dove la buona costituzione fisica continuamente sottoposta ad esercizio è stata una variabile fondamentale per la sopravvivenza.

Essendo l’evoluzione della specie umana lenta (Welsh, 2011; Georgiou, 2019), ancora oggi la struttura fisica e mentale dell’essere umano necessita di base una moderata attività fisica (Diamond, A., 2015).

Infatti, il costante esercizio fisico è solitamente correlato ad una gestione ottimale dell’umore (Jarrett, 2018), delle capacità cognitive (Jarrett, 2018) e della gestione delle situazioni di stress (Feltz, Short, Sullivan, 2008).

Per questo motivo, lo psicologo Pietro Trabucchi determina come lo sport non solo sia un elemento necessario per una vita funzionale, ma sia una esperienza che all’uomo può portare insegnamenti e benefici duraturi nella vita, come la capacità di attuare adattamenti resilienti (2016), allenare maggiormente la capacità di attenzione (2016) e incrementare il proprio senso di controllo (2017).

Dello stesso parere è lo psichiatra e professore Vittorino Andreoli, che indica come la ginnastica costante sia una base fondamentale per l’equilibrio psicofisico dell’individuo, da lui contestualizzata con il neologismo di ‘bendessere’ (2016).

Con il fatto che l’attività fisica sia stata inserita come elemento prescrivibile nella ricetta medica (Corica, 2016) e che sia considerata un elemento fondamentale per la prevenzione naturale dei problemi cognitivi nell’avanzare dell’età (Kramer, Kirk, Stanley, 2006), l’ideale è che l’attività fisica sia regolamentata al meglio durante questa pandemia, sia per il bene della sua filiera economica che per la salute delle persone.

 

Tatuaggi e giudizio

In uno studio sperimentale sia le donne che gli uomini del campione tendevano a giudicare gli uomini tatuati come più mascolini, più dominanti e aggressivi. L’accezione negativa o positiva di tali caratteristiche dipende dal contesto in cui la persona vive.

 

Siccome la decorazione della pelle con tatuaggi permanenti sembra essere diventata una moda tutt’altro che passeggera (Armstrong, 1991; Hawkes, 2004), potremmo bene inferire che tale pratica sia sempre più accettata tanto da chi ne è interessato solo indirettamente, come i genitori, i parenti stretti, ma anche i datori di lavoro o gli insegnanti.

Se è quindi vero che di fronte ad un fenomeno in graduale aumento, il giudizio delle persone verso i tatuaggi sembra diventare via via più aperto con la loro diffusione, tale tolleranza nasconde ancora molti pregiudizi, alcuni dei quali verranno considerati nelle righe seguenti.

Le modifiche importanti sul corpo, come in questo caso i tatuaggi, sono delle pratiche con una lunga storia alle spalle in diverse culture (Krutak, 2015). Nel periodo preindustriale tale pratica metteva in seria minaccia di vita la persona che vi si sottoponeva, esponendola ad un’alta percentuale di infezione. La sua sopravvivenza dimostrava così un’importante ed evidente resistenza agli agenti patogeni, sinonimo quindi di forza e salute nel soggetto (Singh & Bronstad, 1997; Lynn, Dominguez, & Decaro, 2016).

Nella società moderna il discorso è molto diverso, ma alcuni di questi pensieri e giudizi sembrano essere resistiti al tempo e al cambiamento. Sebbene questa rimanga una pratica dolorosa e rischiosa, alcune accortezze a livello di igiene hanno sensibilmente diminuito la possibilità di infezioni o di altri effetti collaterali. Tuttavia, il soggetto tatuato sembra trasmettere ancora non solamente una resistenza al dolore, ma anche una buona salute a livello di immunocompetenza (Lynn, Dominguez, & Decaro, 2016).

Ma non solo: oltre ad influenzare il giudizio dell’altro in termini biologici, l’uomo tatuato impressiona l’altro condizionando la percezione che questi ha anche riguardo ai suoi tratti comportamentali.

L’esperimento di Galbarczyk e Ziomkiewicz (2017) ci apre all’interessante aspetto comportamentale appena nominato, mostrandoci come varia il giudizio degli uomini e delle donne partecipanti esposti ad immagini di uomini tatuati e di uomini non tatuati.

In tale occasione verranno anche osservati i due meccanismi insiti nella selezione sessuale, ovvero la scelta da parte del soggetto del sesso opposto e la competizione intrasessuale.

Come dimostrato anche dall’esperimento di Wohlrab (2009), nello studio di Galbarczyk e Ziomkiewicz (2017) le donne tendono a collegare ad un corpo maschile tatuato una migliore salute, considerandolo quindi una persona più sana; il giudizio appariva infatti molto più frequentemente durante l’esposizione a immagini di corpi maschili tatuati rispetto a quelli dello stesso genere non tatuati. Insieme a questo dato si è notato che sia le donne che gli uomini del campione tendevano a giudicare gli uomini tatuati nelle immagini esposte come più mascolini, più dominanti e aggressivi rispetto agli altri.

L’accezione negativa o positiva che si dà a tali caratteristiche dipende molto dal contesto in cui la persona vive. Come dimostra lo studio di Snyder, Fessler, Tiokhin, Frederick, Lee e Navarrete (2011), in un ambiente non sicuro in cui si viene esposti continuamente al pericolo, una donna è più motivata a ricercare nell’uomo qualità come l’aggressività e la dominanza intrasessuale, le quali possono garantire un maggior senso di protezione per se stessa e per la prole, oltre ad un migliore accesso alle risorse dell’ambiente.

Ma in una realtà socialmente stabile le cose potrebbero andare diversamente; l’uomo con un’elevata mascolinità è anche associato ad un alto livello di testosterone che, agli occhi della donna, si traduce contemporaneamente in aspetti sia positivi che negativi all’interno della relazione.

Una scelta prevede sempre la considerazione dei costi e dei benefici e, almeno razionalmente, propendiamo sempre verso la strada in cui i secondi ci sembrano superare i primi. Se, tornando all’esempio precedente, l’uomo mascolino sembra portare con sé caratteristiche che esprimono dominanza e aggressività, possiamo essere ben d’accordo con gli esperimenti sopra citati per cui l’idea che la rilevanza di tali caratteristiche può variare molto in base all’ambiente.

Caratteristiche come l’aggressività possono fungere da punto di forza nel primo ambiente descritto, ma al contrario possono essere un fattore di rischio nella relazione sentimentale e nell’educazione della prole in un contesto di vita più bilanciato o, comunque, in un ambiente percepito dalla donna come meno minaccioso. Continuando tale linea di pensiero, un alto livello di testosterone negli uomini è associato dalle donne, oltre che a una maggiore aggressività, anche ad una maggiore probabilità di incorrere in relazioni sessuali al di fuori della coppia (Booth & Dabbs, Jr., 1993). Uno studio di Kruger (2006) ha mostrato come le donne tendano a vedere gli uomini più mascolini come persone più impegnate nella ricerca di partner piuttosto che nella cura della famiglia; così le donne interessate ad una relazione stabile possono essere motivate a dare maggiore spazio ad altre caratteristiche che garantiscano loro maggiori benefici tanto nella relazione quanto nel ruolo di futuri genitori.

Una volta comprese tali dinamiche non dovremmo sorprenderci troppo del fatto che le donne nell’esperimento di Galbarczyk e Ziomkiewicz (2017) abbiano dichiarato di giudicare gli uomini tatuati nelle immagini come persone più sane, mascoline, dominanti e aggressive, ma non abbiano espresso verso questi un maggior grado di preferenza rispetto agli altri. Inoltre, è interessante notare come le donne del campione considerino i soggetti tatuati peggiori di quelli non tatuati nelle vesti di potenziali partner e genitori.

Questo dato sembra andare nella stessa direzione di studi meno recenti, come quello di DeBruine, Jones, Crawford, Welling, e Little (2010), i quali mostravano che le donne appartenenti a società più sicure e con livelli di sanità elevati hanno una debole tendenza nel preferire nell’uomo caratteristiche che riflettono una maggiore mascolinità. Non bisogna infatti sottovalutare l’influenza che l’ambiente ha giocato nel determinare i risultati dell’esperimento di Galbarczyk e Ziomkiewicz (2017). Questo è stato fatto in Polonia, un paese con bassi rischi sanitari e dove la competitività aggressiva tra gli uomini non è cruciale nel determinare il loro valore ed il loro status. Se è vero che un corpo tatuato viene giudicato come più mascolino e più sano, queste caratteristiche perdono la loro rilevanza tanto da non essere più associate ad una maggiore attraenza agli occhi delle donne, specialmente se entrano in gioco interessi volti a creare una famiglia.

Tuttavia, rimanendo su questo esperimento, anche le risposte degli uomini di fronte alle immagini di persone dello stesso sesso tatuate e non rivelano ottimi spunti di riflessione. Abbiamo già detto che gli uomini, come le donne, tendono a giudicare un soggetto tatuato come più mascolino. Tuttavia, a differenza del campione femminile, quello maschile considera queste persone più attraenti, rispetto agli uomini senza tatuaggi.

Tale giudizio potrebbe tuttavia essere guidato più da stereotipi culturali piuttosto che dalla percezione personale. Gli uomini potrebbero condividere infatti l’idea che l’uomo tatuato sia considerato dalla donna più forte e quindi più attraente e orientare in base a questa convinzione il loro giudizio.

Questo aspetto sembrerebbe confermato dal lavoro di Swami (2011), il quale mostra come gli uomini abbiano un più alto apprezzamento del proprio corpo oltre ad una maggiore autostima dopo aver fatto un tatuaggio.

In quest’ottica il tatuaggio sembra così affiancarsi a quei tratti personali che hanno la funzione sia di facilitare la scelta di un partner, almeno nell’idea che l’uomo ha della percezione o dei gusti della donna, sia di allontanare dalla competizione sessuale potenziali rivali dello stesso sesso.

Questo sembra essere confermato dal fatto che gli uomini dell’esperimento, nel giudicare le immagini, sembrano essersi focalizzati solo su aspetti che denotano la competizione intrasessuale, ignorando caratteristiche quali la salute e le capacità genitoriali, le quali non sembrano variare significativamente in base alla presenza o meno di tatuaggi nell’immagine.

 

Arte e tecnologia: un ponte chiamato intelligenza artificiale

La “quarta rivoluzione tecnologica” (Internet delle cose e avanzamenti nell’ambito dell’intelligenza artificiale – IA) è connotata da una capacità sempre più sofisticata di elaborare dati di natura sia quantitativa sia qualitativa ed è incardinata in un numero di campi sempre maggiore, arrivando fino all’arte.

 

Introduzione

Consolidata è la disciplina dell’Economia dell’arte e della cultura – tra i cui temi vi sono le politiche a favore della diffusione della conoscenza dei beni culturali, della loro tutela, valorizzazione e fruizione, ecc. Tale disciplina ha illustri antesignani, che vanno (per citarne appena alcuni) da Adam Smith, a John M. Keynes, Alfred Marshall e, fra i più recenti, William Baumol, George Stigler e Gary Backer.

L’Economia dell’arte ha rilevanti connessioni con l’Economia esperienziale, in quanto la qualità e le caratteristiche intrinseche del “bene artistico” possono essere valutate solo ex post, cioè dopo il suo consumo da parte di un soggetto.

Inoltre, sono forti i legami tra Economia dell’arte ed Economia della conoscenza: la conoscenza costituisce un bene economico che si accumula nel tempo in uno stock e si diffonde quale esternalità sulla collettività. Tali spillovers tendono a “democratizzare” l’arte: contrastando l’analfabetismo funzionale, avvicinando e sensibilizzando all’arte fette sempre più ampie della popolazione; aiutando a condividere il sapere che, diventando trasversale, concorre ad attenuare il divario fra classi sociali. Questi fenomeni sono stati sintetizzati nell’espressione “welfare socio-culturale” (cfr. il Rapporto 2019 “Io sono cultura – l’Italia della qualità e della bellezza sfida la crisi”, redatto dalla Fondazione Symbola, insieme ad altri partner).

Ampliando quindi la visione, l’Economia dell’arte si interseca con altre tematiche socio-economiche, ad esempio, con quelle dell’ambiente, del turismo, dell’innovazione tecnologia, con quella della crescita economica di aree locali (cfr., uno fra tutti, il Rapporto 2019 “Io sono cultura – l’Italia della qualità e della bellezza sfida la crisi”, redatto dalla Fondazione Symbola, insieme ad altri partner) e, ancora, si incrocia sul terreno dell’etica, su quelli dell’antropologia, della filosofia e della storia.

Nel presente contributo si intende allargare ulteriormente la prospettiva, per includere un nuovo innesto che gira intorno all’arte: quello dell’intelligenza artificiale (IA). La “quarta rivoluzione tecnologica” (Internet delle cose e avanzamenti nell’ambito della IA), è connotata da una capacità sempre più sofisticata di elaborare dati di natura sia quantitativa sia qualitativa ed è incardinata in un numero di campi sempre maggiore, arrivando fino all’arte.

Il collegamento tra arte e IA è multidimensionale. Dopo un breve excursus, ci si soffermerà su uno di questi in particolare, affascinante e innovativo, determinato dal sistema MosAIc.

Arte e intelligenza artificiale

Uno degli argomenti su cui insiste la letteratura è legato alle nuove doti di creatività di cui è munita la IA – “macchine creative” – nei settori dell’arte e della cultura, ritenuti sinora esclusivo appannaggio degli uomini: musica, arti visive, letteratura, fino ad arrivare all’elaborazione di una nuova lingua (per gli approfondimenti si cita, uno per tutti, il volume di Du Sautoy, 2019). Vale la pena richiamare la prospettiva estremamente radicale dell’artista tedesco Klingemann, pioniere – per così dire – dell’“arte IA”. Riconoscendo addirittura una maggiore originalità all’intelligenza artificiale che all’uomo, egli asserisce:

Humans are not original. […] We only reinvent, make connections between things we have seen. […] While humans can only build on what we have learned and what others have done before us, machines can create from scratch. (Miller, 2019)

Dunque, non solo la razionalità dell’essere umano è limitata (bounded rationality à la Herbert Simon), ma sembrerebbe, seguendo tale linea di pensiero, anche la sua creatività, ed entrambe vengono superate dalla IA.

Tale prospettiva trova anche importanti riconoscimenti in termini monetari – uno degli aspetti dell’Economia dell’arte: nel 2018, la casa d’asta Christie ha venduto un dipinto generato dall’IA per 432.500 dollari, guadagnando 40 volte il prezzo stimato (Miller, 2019). L’interesse della prestigiosa casa d’asta per l’opera (“Ritratto di Edmond de Belamy”), nonché il suo prezzo di aggiudicazione induce a riflettere, poiché è un importante segnale inviato dal lato della domanda di mercato per nuove espressioni d’arte, come appunto le creazioni che utilizzano algoritmi. Anche il diffondersi di questo fenomeno dovrebbe diventare un utile spunto per la tradizionale Economia dell’arte: la recente diade – rispetto a forme di arte canoniche – fra innovazione tecnologica e arte è destinata a diventare un’ulteriore sfaccettatura della prismatica policy dell’Economia dell’arte.

Al di là della sua creatività, l’IA viene utilizzata anche per alcuni servizi ancillari all’arte.

Nel 2016, un sofisticato sistema di IA ha aiutato alcuni artisti a ritrarre dei noti personaggi servendosi dei loro scritti privati e pubblici. Alla base c’è l’idea che lo stile del linguaggio rispecchia la personalità, il pensiero, le relazioni sociali e gli aspetti emotivi di ciascun individuo. Così, ad esempio, analizzando le scelte lessicali, i lemmi e le ricorrenze linguistiche dei testi di Marie Curie, il sistema di IA ha rilevato legami semantici fra bambini, gioia e famiglia, inducendo a rivedere la sua immagine cliché di illustre scienziata totalmente implosa nella ricerca, due volte insignita del Premio Nobel, per raffigurarla come una donna che nutriva una genuina attitudine verso la maternità. Tali informazioni hanno consentito agli artisti di tratteggiarne gli aspetti inediti di una madre premurosa e accogliente, traducendoli in espressione pittorica (Salvetti, 2020). Semplicemente affasciante!

L’IA viene utilizzata anche per l’attribuzione di paternità di un’opera. Pure in tale campo si assiste a prestazioni eccezionali, come quella realizzata dalla Rutgers University e dall’Atelier olandese per il restauro e la ricerca di dipinti (AA.VV., 2017). Il loro sistema di IA è capace di riconoscere l’autenticità di un’opera attraverso le pennellate usate per realizzare un dipinto. Si tratta di centinaia di migliaia di pennellate che l’IA deve gestire: da qui richiamiamo le note sinergie tra IA e big data, cioè le potenzialità e opportunità che si aprono grazie alla capacità dell’intelligenza artificiale di gestire i big data; ma non solo, anche di operare il loro eventuale riuso e la condivisione in altri settori (nel caso di open data) in una più ampia prospettiva di transizione da un’economia lineare a un’economia circolare.

Ulteriore utilizzo della IA nel campo dell’arte è l’“X Degrees of Separation” di Google, o teoria dei sei gradi di separazione (mutuata dalla psicologia), secondo cui le persone sono tra loro collegate da un massimo di sei intermediari. Applicata tale teoria al settore dell’arte, è stato osservato che

[…] esistono straordinarie somiglianze anche tra oggetti ed opere molto diversi tra loro, e il punto di forza del sistema consiste proprio nel creare nessi, relazioni e punti di contatto tra questi. Chi potrebbe mai pensare che un antico vaso cerimoniale e una bottiglia di Coca-Cola sono tra loro connessi? Oppure, riuscite a immaginare il collegamento tra una porcellana del ‘700 e un’opera di Damien Hirst? E tra una scarpa degli anni ’60 e un capolavoro di Lucian Freud? E ancora, cos’hanno in comune Shepard Fairey ed una maschera maya dedicata al potentissimo dio giaguaro? (AA.VV., 2020)

In altri termini, coniugando arte e IA – e limitandoci al campo della pittura – è possibile individuare la somiglianza tra dipinti appartenenti a epoche e movimenti artistici diversi. Tuttavia, con un forte limite: il sistema non riesce a spiegare la connessione tra le opere pittoriche.

Il sistema MosAIc

L’innovazione tecnologica applicata all’arte è ulteriormente progredita, per giungere dove l’uomo non arriverà mai: è impossibile anche per i critici d’arte più esperti prendere in considerazione milioni di dipinti in migliaia di anni ed essere in grado di trovare paralleli inaspettati in temi, motivi e stili visivi. Si allude, in particolare, all’avanzato algoritmo che trova connessioni nascoste tra dipinti: il MosAIc, creato da CSAIL (Computer Science and Artificial Intelligence Laboratory) del MIT e da Microsoft. Dalla rete generativa avversaria StyleGAN (Generative Adversarial Network – GAN), utilizzata nel campo delle deepfake, MosAIc ha mutuato la capacità di esaminare le immagini, ma con finalità affatto differenti. Quest’ultimo trova opere con parallelismi, sebbene appartenenti a culture, artisti, epoche differenti di tutto il mondo utilizzando reti profonde per capire quanto siano vicine due immagini. La varietà di analogie è molto ampia, vanno dal colore allo stile, dal tema al significato più profondo e recondito dell’opera fino allo scambio culturale sotteso. Le similitudini che MosAIc è in grado di rivelare, sia delineano il lungo percorso dell’uomo nel grande universo della creatività, sia evidenziano connessioni dovute per esempio agli scambi commerciali tra paesi, influenzatisi reciprocamente a seguito delle mescolanze culturali. Si tratta spesso di similitudini celate, che possono essere persino inconsapevoli da parte di chi ha creato il manufatto o dipinto l’opera in quanto sintesi di influenze provenienti dall’ambiente in cui si vive e di cui non si è neppure consapevoli appieno (Quadri, 2020). Ça va sans dire, perché sia efficace, l’algoritmo ha bisogno di una enorme banca dati (Quadri, 2020).

I ricercatori hanno messo a confronto i dipinti del Metropolitan Museum of Art – il Met – con quelli del Rijksmuseum di Amsterdam (Gordon, 2020). E hanno effettuato un abbinamento apparentemente improbabile per individuare analogie – per l’appunto nascoste – fra Il martirio di San Serapione di Francisco de Zurbarán e Il cigno minacciato di Jan Asselijn, due opere che, messe a fattor comune, esprimono un sentimento di profondo altruismo. Eppure non vi era stato mai alcun contatto tra i due autori.

La differenza tra l’“X Degrees of Separation” e il MosAIc si fonda sulla circostanza che, mentre il primo trova percorsi artistici che collegano due opere, a quest’ultimo basta una singola immagine per lavorare; inoltre, invece di limitarsi a trovare i percorsi, esso scopre connessioni in qualsiasi cultura cui il fruitore è interessato.

Conclusioni

Se la macchina sta mutuando progressivamente tutto da noi, in prospettiva, cosa rimarrà di genuino e inimitabile dell’essere umano?

L’inverno è fuori, ma non sembra toccare la IA.

 

cancel