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Cambiamento in psicoterapia: il modello dei fattori aspecifici

Il modello dei fattori aspecifici sostiene che esistono dei fattori comuni a tutte le terapie che sarebbero responsabili dei benefici della psicoterapia

Di Alessia Offredi

Pubblicato il 30 Lug. 2015

Alessia Offredi, OPEN SCHOOL MODENA

 

 

Il modello dei fattori aspecifici nasce dalla convinzione che esista una serie di fattori comuni a tutte (o quasi) le terapie, responsabili dei benefici della psicoterapia, più degli elementi peculiari dei vari approcci.

[blockquote style=”1″]Everybody has won and all must have prizes[/blockquote] (Lewis Carroll, Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie, cap.3)

Saul Rosenzweig (1936) prende spunto dal capolavoro di Carroll per coniare un modo di dire che sarà alla base di un grande dibattito in ambito psicologico, attivo ancora oggi. Si tratta del verdetto del Dodo e nasce dall’episodio narrato nell’opera in cui l’uccello Dodo indice una gara tra i vari personaggi, senza specificare i parametri che avrebbero decretato il vincitore. Per questo motivo, alla fine della gara, per accontentare i partecipanti desiderosi di sapere chi avesse vinto, l’uccello risponde: “Tutti hanno vinto e tutti devono essere premiati”.

Rosenzweig afferma che i fattori aspecifici sono i maggiori responsabili del cambiamento in psicoterapia, pertanto non c’è nessuna differenza nell’applicazione di una o dell’altra tecnica specifica, dato che ognuna può portare a risultati apprezzabili. Questa posizione viene ripresa nel 1975, quando Luborsky e colleghi conducono il primo studio comparativo su diversi tipi di psicoterapie, riscontrando poche differenze significative tra di esse. Questo lavoro ha dato origine alla conduzione di numerosi studi pro o contro il verdetto del Dodo, che si susseguono tuttora nella letteratura internazionale.

Il modello dei fattori aspecifici si muove a favore del verdetto del Dodo, portando sempre più numerosi studi a sostenere il ruolo secondario delle tecniche scelte. Tra questi, la metanalisi di Smith e Glass (1977) considera più di 400 trial controllati, confrontando popolazione che si era sottoposta a psicoterapia e campione di controllo e mostrando l’efficacia della terapia al di là della base teorica da cui era stata sviluppata. Successivamente, Wampold (2001) non riscontra differenze tra gli effetti di differenti trattamenti e afferma che una ricerca metodologica più rigorosa non avrebbe comunque trovato delle differenze.

Il modello dei fattori aspecifici nasce quindi dalla convinzione che esista una serie di fattori comuni a tutte (o quasi) le terapie, responsabili dei benefici della psicoterapia, più degli elementi peculiari dei vari approcci.

Partendo da questo presupposto, mancava però in letteratura una visione condivisa e definita dei fattori aspecifici, che per loro natura sembrano difficilmente operazionalizzabili. Grencavage e Norcross (1990) effettuano una grande revisione dei lavori pubblicati fino a quel momento, citando tutti i fattori individuati dai colleghi e illustrati altrove. Ne risulta un elenco molto ricco (89 fattori per l’esattezza) suddiviso in 5 macro-categorie:
– processi di cambiamento (acquisizione e pratica di nuovi comportamenti, autoconsapevolezza, apprendimento emotivo e interpersonale, feedback dalla realtà, …);
– qualità del terapeuta (si mostra speranzoso o condivide le proprie aspettative, è accogliente, si pone in un atteggiamento di ascolto empatico, …);
– elementi della relazione (sviluppo di una buona alleanza terapeutica, ingaggio del paziente, …);
– elementi del trattamento (uso di tecniche o rituali, esplorazione dei contenuti emotivi, aderenza a una teoria, comunicazione verbale e non verbale);
– caratteristiche del paziente (aspettative positive, il paziente cerca aiuto in modo attivo, …).

Wampold chiarifica che i fattori aspecifici così come descritti da Grevncavage e Norcross (1990) non possono da soli giustificare un cambiamento, ma devono essere considerati nel sistema di aiuto descritto da Frank. Jerome Frank (Frank & Frank, 1993) sembra avere il merito di aver dato il via alla creazione di una cornice teorica maggiormente definita a tale approccio; successivamente Wampold e colleghi hanno ripreso e perfezionato il modello (Wampold, 2001, Wampold & Budge, 2012), concettualizzando la psicoterapia come una pratica di cura socialmente fondata.

Da questa prospettiva, vengono identificati cinque fattori considerati necessari e sufficienti a produrre un cambiamento: (a) un legame forte e emotivamente connotato tra paziente e curante, (b) un setting di cura riservato e adeguato, (c) un terapeuta che offra una spiegazione di carattere psicologico e culturalmente coerente dell’origine del disturbo emotivo, (d) una spiegazione adattiva e accettabile per il paziente, e (e) una serie di procedure che conducano il paziente a comportarsi in modo più adattivo, utile e positivo.

In questo modello l’adozione di una teoria e dei relativi protocolli nella pratica clinica non è l’elemento primario che indica il percorso di cura del paziente, bensì solo uno dei molti fattori che concorrono al cambiamento della persona. Le implicazioni di questa prospettiva sono diverse, come sottolineano Laska e coll. (2014); innanzitutto ogni terapia che contenga tutti gli elementi sopra descritti sarà efficace nel trattamento di un problema.

Secondariamente, i fattori relazionali come empatia, condivisione dell’obiettivo e collaborazione, alleanza terapeutica e buona considerazione dell’altro, potrebbero predire i risultati della terapia: ciò implica la possibilità di riscontrare differenze tra i terapeuti, a seconda di quanto siano abili nel considerare e coltivare gli elementi della relazione. Infine, ogni trattamento terapeutico (con le caratteristiche descritte) sarà più efficace di un semplice supporto o di “condizioni psicologiche placebo” (Laska, Gurman & Wampold, 2014).

Il modello descritto trova alcune aree di vicinanza con l’approccio evidence-based, che tenta invece di individuare quali siano le tecniche specifiche maggiormente funzionali per le diverse problematiche nel campo della salute mentale. In particolare, l’applicazione di procedure volte a migliorare la qualità della vita del paziente è proprio uno dei fattori aspecifici necessari e sufficienti al cambiamento.

La possibilità di integrazione che si trova in questo punto del modello è sempre stata un punto di forza secondo i suoi sostenitori, che così facendo lasciavano “spazio per tutti”. Tuttavia, sembra mancare l’attenzione verso il processo della terapia, vista la libertà lasciata al terapeuta di agire indipendentemente da ciò che si è dimostrato efficace, ma solo in accordo con la propria coscienza e la propria “buona fede”.

Lambert e Ogles (2014), che ben sottolineano tali punti d’incontro tra modelli, pongono tuttavia qualche riflessione in merito alla posizione di Laska e colleghi (2014), i quali sostengono una maggior diffusione del modello dei fattori aspecifici come linea teorica più completa e esaustiva rispetto agli approcci evidence based. Per sostenere tale posizione, affermano Lambert e Ogles, occorrerebbe che il modello dei fattori aspecifici si presentasse come una teoria in grado di spiegare le patologie, il loro trattamento e i processi di cambiamento, cosa che attualmente in letteratura non sembra esserci, sicuramente non in modo condiviso, né supportato da dati empirici. Non si fa attendere la risposta di Laska e Wampold, che tentano di far chiarezza sull’approccio da loro difeso indicando un decalogo di “cose da sapere prima di parlare dei fattori aspecifici”.

1 – I fattori aspecifici sono incorporati in una teoria scientifica
La teoria a cui fanno riferimento gli autori è quella di Jerome Frank (Frank & Frank, 1993), con le relative estensioni più recenti (ad esempio, Wampold & Budge, 2012). Tale teoria non si limita a definire una lista dei fattori aspecifici, ma consiste in una spiegazione scientifica di come avviene il cambiamento in psicoterapia. Gli autori affermano che alla base del loro approccio c’è la scienza che analizza come le persone guariscono nei contesti sociali e descrive fattori specifici sottostanti alle ipotesi su cosa dovrebbe essere osservato nelle varie condizioni.

2 – I meccanismi di cambiamento dei modelli supportati empiricamente sono specifici per patologia
Wampold e colleghi (2010) analizzano il caso del disturbo post traumatico da stress, identificando 17 possibili elementi di efficacia nel trattamento del disturbo secondo il modello CBT: secondo Laska e Wampold, questo rende impossibile l’identificazione e la spiegazione del reale meccanismo di cambiamento sottostante.

3 – I modelli dei fattori aspecifici non sono un sistema chiuso, ma operano con l’obiettivo di identificare cosa renda una psicoterapia efficace, attraverso studi in continua evoluzione.

4 – Non c’è niente di paragonabile al modello dei “fattori aspecifici” – e la questione della struttura
Data la natura del modello e la sua strutturale integrazione con tecniche di intervento e teorie specifiche, è impensabile per gli autori paragonare un intervento evidence based con un intervento basato sui fattori aspecifici. Teoricamente, un intervento senza alcun razionale non risulterebbe tanto efficace quanto un intervento in cui il razionale sia chiaro e condiviso: tale posizione è in linea con la sopra citata teoria di Jerome Frank (Frank & Frank, 1993).

5 – Anomalie: occorre affrontarle
La presenza di anomalie, che possono arricchire un modello se adeguatamente integrate, possono anche inficiare la validità di un trattamento, qualora risultino eccessive e difficilmente inquadrabili. Gli autori affermano provocatoriamente: “Se l’efficacia di esposizione prolungata o EMDR sono dovuti alla presenza di elementi di esposizione, cosa conferma la necessità di una particolare tecnica di esposizione?” (Frost, Laska & Wampold, 2014).

6 – Quali sono le ipotesi sottostanti alla teoria degli approcci supportati empiricamente?
In questo punto gli autori si rivolgono ai colleghi invitandoli a riconsiderare le proprie posizioni. In letteratura è stato dimostrato che non ci sono differenze di outcomes in differenti tipologie di trattamento (ad esempio, sui disturbi alimentari, Zipfel et al., 2014), trattamenti privi di fondamento teorico si sono dimostrati efficaci (Cuijpers et al., 2012) e la rimozione di alcuni elementi non inficia l’efficacia di un intero percorso terapeutico (Ahn & Wampold, 2001). Resta quindi da chiedersi cosa aspettino i terapeuti di vari approcci a riconsiderare il loro modo di lavorare alla luce di questi dati.

7 – I fattori aspecifici non implicano che “una cosa vada bene per tutti”
Una delle critiche maggiormente mossa al modello dei fattori aspecifici consiste proprio nel fatto che tale modello sembri incoraggiare l’assunzione della stessa posizione per ogni disturbo e scoraggiare, d’altra parte, l’adozione di tecniche specifiche. Come sottolineato da Beutler (2014), il vantaggio di adottare un approccio basato sui fattori aspecifici risiede proprio nella flessibilità e nella possibilità di adattamento ad ogni paziente. Così, se il paziente preferisce un trattamento meno rigido, il terapeuta sarà libero di realizzarlo senza essere imprigionato nelle trame della propria teoria di riferimento.

8 – Le omissioni sono importanti
Ad oggi sembrano non esserci evidenze sufficienti a favore della diffusione di modelli basati sull’efficacia; non abbiamo alcuna prova in letteratura che investire in questa direzione porterà a ottenere dei miglioramenti. Inoltre la conduzione di studi di efficacia comporta ingenti costi per la loro realizzazione: Laska (2012) ha calcolato che dal 1999 al 2009 sono stati spesi 11 milioni di dollari nella conduzione di trial clinici, senza ottenere risultati processabili.

9 – I trial clinici randomizzati non sono l’unica via per la conoscenza
Kazdin (2007, 2009) afferma che i trial clinici non evidenziano i meccanismi di cambiamento, ma si limitano a sottolineare correlazioni tra meccanismi e outcomes. Inoltre, sebbene sia arduo dal punto di vista etico e metodologico, è possibile considerare i fattori aspecifici all’interno delle sperimentazioni, per esaminarne gli effetti. Ad esempio, nel caso dell’empatia, è stato dimostrato che l’interazione con clinici empatici migliora i risultati ottenuti con pazienti che soffrivano di sindrome dell’intestino irritabile, relativamente a qualità della vita e sintomatologia (Kaptchuk et al., 2008; Kelley et al., 2009).

10 – “Pensieri diversi per diversi strizzacervelli”
Per concludere, gli autori evidenziano la necessità di lasciare un certo spazio di movimento ai terapeuti, in modo da poter includere qualità e predisposizioni individuali all’interno della terapia, arricchendola e creando una sorta di pratica evidence based individualizzata.

Il dibattito è ancora aperto e aspettiamo di vedere quale sarà la risposta dei colleghi al decalogo riportato. Senza dubbio conoscere e considerare i fattori aspecifici è di fondamentale importanza per qualsiasi professionista: condurre una terapia senza considerare l’alleanza del paziente è pressoché impossibile. Sebbene in letteratura si riscontri un forte dibattito volto a sostenere questo approccio, manca una chiarificazione di cosa comporti sposare il modello dei fattori comuni e di come ciò sia realizzabile.

Anche il decalogo qui riportato, apparentemente molto semplice ed essenziale, in realtà risulta caratterizzato da contraddizioni e mancanza di chiarezza. Se un terapeuta si svegliasse domattina volendo diventare esperto di fattori aspecifici potrebbe leggere i lavori di Jerome Frank e probabilmente sperare di avere delle qualità intrinseche adatte al mestiere, ma poco altro. Questi aspetti, ampiamente studiati, per loro natura sembrano sfuggire alla possibilità di essere insegnati e appresi e non risulta nemmeno che questa sia l’intenzione dei sostenitori (si noti il punto 10 del decalogo). L’impressione è che si richieda a gran voce una loro diffusione, ma senza l’uso di trial (costano e non aggiungono conoscenze) o forse sì (possono comunque essere indagati), che vengano considerati da tutti i professionisti (che prove gli servono ancora?), ma senza definizioni o rigidità (il professionista deve poter muoversi nella conduzione della terapia).

Il rischio, dal punto di vista della ricerca scientifica, è di focalizzarsi molto sul come funzionano i meccanismi del cambiamento (elemento che non è tralasciato nemmeno nelle terapie evidence based) e smettere nel contempo di cercare cosa funziona, tralasciando i numerosi dati a sostegno delle tecniche specifiche finora applicate e suggerite dalle linee guida (Sassaroli & Ruggiero, 2015). Emerge infine lo stereotipo purtroppo diffuso del professionista che si attiene ai modelli evidence based come fosse un enorme diagramma di flusso incapace di gestire una risposta non preconfezionata. E per fortuna non è proprio così.

 

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