Oggi pubblichiamo il decimo lavoro della serie di Roberto Lorenzini, dedicata al tema della monogamia e delle sue implicazioni psicologiche, affettive, relazionali e, perché no, sessuali. Lorenzini propone una tesi forte: la monogamia non funziona. E prosegue il suo racconto esplorando lo sviluppo della vicenda amorosa e in particolare la fine dell’amore.
MONOGAMIA E TRADIMENTI – (Nr. 10) La fine degli amori
10. La fine degli amori
“Panta rei”, “tutto scorre”, ciò che ha un inizio è destinato ad avere una fine e paradossalmente proprio la sua limitatezza, la sua finitezza gli dà valore, lo rende prezioso (Baroni 2020). Come insegnano le leggi di mercato una risorsa illimitata ha scarso o nullo valore. Tra le cose più preziose c’è la vita che sappiamo essere finita. Anche le storie affettive dunque hanno necessariamente una fine. Non è il fatto in sé che finiscano a renderle brutte o fallimentari, quanto piuttosto come ciò avviene. La chiusura è importante quanto l’inizio e prima di catalogare una storia affettiva e archiviarla in memoria nello scaffale delle meraviglie da ricordare o in quello dei fallimenti da dimenticare dovremmo prima aspettarne la chiusura che peraltro è ciò che ci influenza di più nel bilancio complessivo. I trenta anni di positiva vita in comune possono scomparire a fronte di una chiusura violenta di soli pochi mesi.
La chiusura di un matrimonio o una convivenza soprattutto se lunga comporta una enormità di problemi di ordine pratico organizzativo, economico e soprattutto emotivo ed è considerata insieme al lutto, peraltro molto simile, come uno degli eventi massimamente stressanti della vita seppure il suo effetto dipenda dalla personalità dei due partner che possono risentirne in modo molto diverso, dal tipo del legame in termini di qualità e durata e dalle modalità stesse con cui la chiusura avviene.
I prodromi più comuni della fine di una storia sono il fatto che la presenza del partner da motivo di gioia e dunque ricercata diventi motivo di fastidio e dunque evitata inizialmente nel desiderio e successivamente nei fatti; la riduzione della comunicazione e l’ampliarsi di aree di non condivisione; la mancanza di una progettualità futura e l’estinzione progressiva della vita sessuale; il coinvolgimento in storie affettive con altri partner che può diventare il motivo scatenante della rottura ma è a sua volta la conseguenza della fine della storia stessa.
L’emozione prevalente che accompagna la fine di un amore è la tristezza da considerare assolutamente normale. A questa tristezza per la perdita dell’altro e del progetto condiviso si può aggiungere un’ulteriore tristezza a carattere autosvalutativo per non essere stati all’altezza del compito che ci si era prefissi e si può pensare di non valere solo perché l’altro non ci vuole più. In questo modo ci si carica di tutta la colpa per la fine della storia. Al contrario per evitare questo vissuto molto penoso si può ritenere l’altro completamente responsabile trasformando la tristezza in rabbia nei suoi confronti e iniziando comportamenti violenti di stalking fino all’uccisione del partner, drammaticamente attuali.
Una posizione più equilibrata si fonda sulla consapevolezza che l’esito di una relazione dipende da entrambi, quali che siano i comportamenti finali che hanno suscitato la rottura definitiva, e anche del fatto che non essere più il partner scelto in questa fase di vita dall’altro, seppure motivo di dispiacere, non indica un proprio scarso valore, evitando così la depressione. I neuroscienziati hanno spiegato come esperienze di sana tristezza da perdita possano scivolare in soggetti con un particolare assetto recettoriale (ipersensibilità dei recettori serotoninergici presinaptici inibitori) in un circolo vizioso automantenentesi di depressione vera e propria, è dunque importante elaborare la tristezza per non esserne sopraffatti.
Si può essere insoddisfatti e tristi per due diversi ordini di motivi. Il primo riguarda il gap tra lo stato reale delle cose e lo stato desiderato ovvero quanto siamo lontani dal raggiungimento dei nostri scopi e se essi sono o meno perduti per sempre. Il secondo riguarda quanto il soggetto stesso è lontano dal suo ideale del sé. In questo caso si è insoddisfatti per come non si è stati in grado di modificare favorevolmente l’andamento delle cose. La prima è una insoddisfazione sull’oggetto che ne attiva una più profonda sul soggetto stesso che genera ulteriori effetti secondari di mantenimento come la rinuncia e il disimpegno. Non solo ho fallito ma “sono un fallito”. Nel fare bilanci, incredibilmente non teniamo conto del fatto che il tempo passa e sia noi che il nostro partner siamo cambiati e per giudicare della bontà o meno di una scelta bisogna riassumere la prospettiva di quando la si è fatta e non valutarne la correttezza dagli esiti cadendo nel cosiddetto “bias del senno di poi” di cui si sa essere piene le fosse.
Molto probabilmente rimessi nella stessa situazione, con l’assetto motivazionale e i dati a disposizione in quel momento, rifaremmo esattamente la stessa scelta. L’errore che comporta una inutile autocritica deriva dalla fallace impressione di essere sempre stati come siamo ora e la certezza che saremo sempre così. Non vediamo i cambiamenti avvenuti e non ce ne aspettiamo di futuri. Addirittura, quando cambiamo idea non ci ricordiamo davvero come la pensavamo in passato, ricordiamo i fatti magari ma non i nostri giudizi su essi. Ci sembra di averla sempre pensata allo stesso modo anche quando ciò è contraddetto da specifici ricordi e testimonianze (Kanheman, 2011; Taleb, 2007). Dobbiamo invece immaginare i vari periodi di vita come blocchi transitori di coerenza. Un procedere dell’esistenza attraverso crisi di cambiamento, una sorta di rivoluzioni kuhniane e lunghi periodi di stabilità (Kuhn, 1962).
Se è vero che si nasce rivoluzionari, si diventa riformisti e si muore conservatori, l’aspetto più interessante è che si è convinti di essere sempre stati identici a se stessi. Rispetto a questa cecità al cambiamento che ci porta a credere che le cose saranno sempre come ora, il che certamente è sgradevole in momenti neri e costituisce proprio “l’errore del suicida”, credo sia utile frugare nella storia della coppia alla ricerca di periodi diversi e ricostruire come era la vita, le emozioni e le attività anche con l’ausilio di foto, interviste a testimoni, film o musiche d’epoca. Abbiamo visto come l’insoddisfazione dipenda dal confronto tra uno stato reale e uno stato desiderato.
In effetti come i recettori sensoriali anche nella valutazione degli stati (a esempio, ricchezza o felicità) siamo molto sensibili alle variazioni e ai confronti, insomma non stati di ricchezza, ma guadagni e/o perdite. Per questo l’esito dipenderà molto dalla baseline scelta come riferimento che sia esterna o un altro periodo della propria vita. Se confronto la relazione con il mio partner con il momento iniziale dell’innamoramento, il mio stato di salute con la prestanza dei diciott’anni o il mio reddito con quello di un top manager, sono evidentemente alla ricerca di secchiate di insoddisfazione. È sperimentalmente dimostrato che gli esseri umani hanno una naturale avversione alle perdite sperimentate come minacce e anche che ciò sia un meccanismo salvavita evolutivamente vantaggioso sebbene possa non migliorare l’umore (Kahneman 2011).
Nel modello biopsicologico prevale la negatività e la fuga su positività e approccio. Il negativo vince sul positivo. Un solo scarafaggio rende disgustoso un intero piatto di ciliegie ma una ciliegia non rende gradevole un cesto di scarafaggi. Ancora, un solo cattivo gesto rovina una amicizia ma non viceversa. In natura e anche in molti sport sono in vantaggio i difensori sugli attaccanti.
Il tempo classico dell’insoddisfazione e della fine della maggior parte delle storie affettive è quello della tarda maturità quando si iniziano a fare i bilanci della propria esistenza nei vari campi in cui la si è spesa. Nel farli siamo vittime di un bias interessantissimo che Kanheman descrive con decine di affascinanti esperimenti definendolo “il valore edonico di un esperienza”. Quanto ne godiamo e/o quanto ne soffriamo risulta molto diverso se viene valutato in diretta, da quello che chiama il Sé esperienziale, o nel ricordo da quello che chiama il Sé mnemonico. Quest’ultimo che è quello attivo quando facciamo i bilanci o quando decidiamo se ripetere o meno una certa esperienza commette una serie di errori grossolani. Il primo è che conta molto più della media ponderata, che sarebbe il calcolo corretto (l’area logaritmica sotto la curva tempo/ piacere o dolore), l’intensità di picco e quella finale.
Il secondo gravissimo errore è la assoluta disattenzione per la durata. Così si può giudicare negativa un’esperienza affettiva o lavorativa di grande soddisfazione per trent’anni perché ha avuto un momento acuto di crisi oppure è finita male, mentre si giudica migliore una esperienza di pochi mesi senza infamia né lode ma conclusasi bene. Kanheman sottolinea la differenza tra Sé esperienziale che vive in diretta e il Sé mnemonico che valuta le esperienze secondo il bias “picco-fine” e la cecità per la durata, portando a confondere l’esperienza con il ricordo di essa. Quando dunque vogliamo valutare una storia affettiva non dobbiamo soffermarci soltanto sul periodo conclusivo certamente difficile e doloroso, ma ampliare il campo e tener conto dei periodi positivi, delle gioie, dei risultati ottenuti.
Sarebbe utile poter scrivere una lettera al partner in cui lo si ringrazia di tutte le cose buone che ci ha dato oppure scrivere una lettera congiunta in cui si elenchino tutti i successi e le gioie passate. Un piccolo accorgimento del genere renderebbe forse meno lacerante la chiusura e sarebbe controcorrente rispetto a tutte le spinte provenienti, spesso, dalle famiglie d’origine e, sempre, dagli avvocati che guadagnano dalla conflittualità, miranti a rinfocolare il conflitto per motivi di interesse o, come si dice “di principio”.
Un altro errore in cui siamo sistematicamente indotti quando pensiamo ad una relazione con un’altra persona (non soltanto il partner, ma fratelli, parenti, amici e colleghi) è di aver dato di più di quanto si è ricevuto (se sarete costretti a sbarcare il lunario leggendo la mano esordite sempre con l’affermazione “vedo che lei ha dato più di quanto ha ricevuto” e avrete il successo assicurato). Questo errore dipende di nuovo dal fatto che quello che diamo essendo una perdita ha una rilevanza emotiva esattamente doppia di quello che riceviamo, un guadagno. Per lo stesso motivo chi vende qualcosa ha l’impressione di ricevere troppo poco e chi compra di pagare troppo.
Inoltre, quando facciamo bilanci che ci generano insoddisfazioni abbiamo l’impressione che ci manchi qualcosa per essere felici. Kanheman chiama “miswanting” questo credere che certe cose ci renderanno felici (un partner, una casa, una macchina, un lavoro, un figlio) mentre al massimo lo fanno nella fase iniziale, poi diventano normali e non contano più (disattenzione per il tempo). Rispetto a questo bias sarà importante ridimensionare l’aspettativa di felicità rispetto ad un oggetto esterno e quindi la sofferenza per non averlo e lo si può fare ricordando periodi della propria vita in cui la cosa c’era ma non la felicità e osservando se davvero coloro che la possiedono sono felici.
Stando attenti ai bias elencati precedentemente è utile, per chiudere bene una storia, ricercare e ricordare, nonché valorizzare tutto quanto di buono c’è stato ed ha prodotto. È un errore, infatti, ritenere che per chiudere una esperienza occorra valutarla completamente negativa, tra l’altro così facendo si finisce per giudicare negativamente anche se stessi per il tempo e le risorse che ci si sono investite. Allo stesso modo è più facile risolvere il lutto di una persona con cui si aveva un buon rapporto, che di una persona con cui si aveva una cattiva relazione.