expand_lessAPRI WIDGET

Tè, cacao, caffè e disturbi affettivi

García-Blanco et al. (2017) hanno effettuato una revisione sistematica della letteratura esaminando il ruolo di tè, cacao e caffè in relazione all’ansia e ai disturbi affettivi come la depressione.

 

Solo nei paesi dell’unione europea, 21 milioni di persone soffrono di depressione e l’80% circa sono uomini (Vigo et al., 2016). Il trattamento della depressione nell’UE, costituisce l’1% dell’economia totale (Trebatická & ɰuračková, 2015) ed è parecchio costoso, con una stima di circa 118 miliardi di euro, ossia 253 euro per abitante.

Poiché la dieta, l’inattività fisica e l’inquinamento (Cohen, 2012) costituiscono i fattori di rischio maggiori per la salute, andare ad agire sulla prevenzione, migliorando lo stile di vita individuale, costituisce un valido supporto al trattamento psicologico.

Il cacao, il tè ed il caffè vengono attivamente studiati poiché ricchi di composti polifenolici, che agiscono sulla salute mentale, modulando plasticità cerebrale, comportamento, umore, depressione e cognizione (Visioli & Burgos-Ramos, 2016). Svolgono inoltre attività biologiche importanti: le loro proprietà antinfiammatorie ed antiossidanti, possono proteggere le cellule dallo stress (Giordano et al., 2014).

García-Blanco et al. (2017) hanno effettuato una revisione sistematica della letteratura esaminando il ruolo tè, cacao e caffè in relazione a disturbi affettivi come depressione e ansia.

Su 17 studi indagati, 12 riportavano un’associazione positiva tra consumo di tè, cacao e caffè, con bassi livelli di depressione.

Mentre alcune indagini non hanno mostrato alcuna associazione tra tè, cacao e riduzione della depressione (Guo et al., 2014), al contrario, gli studi sul caffè riportavano una chiara associazione tra il suo consumo e ridotti livelli di sintomi depressivi (Lucas et al., 2011).

Tè, caffè e cacao sono ricchi di sostanze organiche il cui ruolo nella salute e sul sistema nervoso centrale  (Visioli & Burgos-Ramos, 2016), è stato attivamente indagato.

Per quanto concerne il tè, è stato suggerito che la caffeina e la L-teanina agiscono sull’umore, migliorando anche le capacità attentive e la prontezza auto-riferita (De Bruin et al., 2011). L’L-teanina induce cambiamenti nell’espressione genica nel cervello di ratti, soprattutto agendo su geni implicati in una varietà di disturbi che vanno dall’ansia, ai disturbi dell’umore e alla dipendenza da sostanze (Ceremuga et al., 2014).

Il consumo di tè verde si associa ad un rischio minore di ictus, diabete, miglioramento dei livelli di glucosio, colesterolo, obesità addominale e pressione sanguigna (Helm & Macdonald, 2015).

Tra i polifenoli presenti nel tè, la ricerca mostra che l’epigallocatechina gallato sarebbe in grado di modulare i disturbi affettivi (Oliveira et al., 2016), interagendo con il recettore delle benzodiazepine GABA-A (Vignes et al., 2006).

Inoltre, alcuni studi hanno dimostrato che la somministrazione di estratto di tè verde può diminuire la massa grassa totale e la percentuale di grasso corporeo, favorendo un aumento di massa magra (Amiot et al., 2016).

Considerando il cacao, i suoi effetti sono spesso in contrasto (Visioli et al., 2009). I flavonoidi contenuti possono innescare l’espressione di proteine in grado di modulare alcune regioni del cervello implicate nell’apprendimento, nella memoria e nella cognizione, suggerendo una potenziale azione a breve termine del cacao su questi aspetti, compreso l’umore (Sokolov et al., 2013). Studi sugli animali mostrano che i flavanoli possono attraversare la barriera emato-encefalica, inducendo effetti benefici nel funzionamento e nella circolazione sanguigna cerebrale (Vauzour et al., 2008). Tuttavia, queste evidenze sono supportate da pochi studi, con altri che riportano associazioni tra consumo di cacao e tassi più elevati di suicidio (Lester & Bernard, 1991).

Inoltre, è da tenere in considerazione che il contenuto di flavonoidi nel cacao e nei suoi derivati (come il cioccolato), differisce sostanzialmente in base alla varietà di fave, all’origine geografica, alla coltivazione e alle pratiche agricole e di produzione (Visioli et al., 2009).

La caffeina contenuta nel caffè, oltre che nel tè, è un noto stimolante del sistema nervoso centrale e potrebbe influenzare i disturbi affettivi (Zulli et al., 2016).

Alcuni degli effetti positivi della caffeina, come ridurre la depressione e migliorare l’umore e le prestazioni (Dodd et al., 2015), possono essere contrastati dalle azioni negative che lo stress esercita sulla salute mentale. Tra gli adolescenti, in particolare, l’assunzione settimanale di caffeina incrementa i livelli di ansia e di depressione, soprattutto tra le femmine (Richards & Smith, 2015).

Altri studi che hanno analizzato prospetticamente la relazione tra caffeina e rischio di depressione, non hanno trovato un’associazione tra consumo di caffè e basso rischio di depressione (Lucas et al., 2011).

L’assunzione di caffè, tè, ma soprattutto del cioccolato, viene spesso considerata in termini di conforto o compensazione, quindi ricondotta al mangiare emotivo, che insorge quando non si è fisiologicamente affamati.

Nonostante si è soliti pensare che questi alimenti inducano dipendenza, le sostanze contenute, potenzialmente coinvolte in tale meccanismo, non sono presenti in alte concentrazioni, ad eccezione della caffeina. La caffeina, infatti, eleva i livelli di dopamina e noradrenalina, aumentando l’umore generale (Nehlig, 2016), ma creando dipendenza. D’altra parte una sua astinenza provoca sintomi spiacevoli (Ferré, 2016) innescando un circolo vizioso (Cappelletti et al., 2014).

Sebbene i risultati dello studio indichino un ruolo protettivo del consumo di tè, cacao o caffè contro la depressione, sono necessari ulteriori studi prima promuoverne l’uso nella popolazione generale per tali problematiche. Ad esempio, è necessario considerare il contenuto di zucchero o latte, che potrebbe incidere sugli esiti comportamentali legati all’assunzione di queste bevande (Guo et al., 2014).

Inoltre impiegare tè, cacao o caffè in un contesto di alimentazione emotiva per innalzare l’umore non produce alcun beneficio duraturo e marcato, contribuendo invece ad un’affettività disforica. Se impiegati in una dieta equilibrata non innescano necessariamente circoli virtuosi o viziosi, viceversa, un loro consumo eccessivo o l’evitamento è probabilmente indicatore di abitudini alimentari disturbate come la bulimia (Cartwright & Stritzke, 2008) o l’ortoressia (Herranz Valera et al., 2014).

 

10/09/2021 Pantelleria

Pantelleria. Dal crinale osservo l’inumana nube avvicinarsi e non passano più di pochi secondi affinché l’acqua inizi a cadere dal cielo.

A un mese di distanza dal tragico disastro provocato da un tornado a Pantelleria, pubblichiamo questo intenso contributo per non dimenticare quanto accaduto (ndr). 

 

23.45

Continuo a guardare i lampi. Incandescenti squarciano il cielo stellato di Pantelleria. Osservo la tempesta allontanarsi e nessun suono muove le fronde delle palme. Solo una brezza leggera rimane accompagnando i miei pensieri verso il largo. Tutto tace ed io col tutto.

06.15

L’acqua scroscia giù per l’orrido che sovrasta la mia stanza. Inopportuna bagna i miei piedi scalzi. Non più pesante è l’aria isolana smossa da sferzate di vento violento. Inquieto guardo al mare grigio madreperla. La giornata ha inizio.

13.30

L’entroterra pantesco è ricoperto da fitta vegetazione. Capperi e viti abitano la valle coperta di rugiada. La montagna taglia come lama nuvole veloci quasi fosse scafo di un gozzo su mare in tempesta. La costa nera è battuta da nere onde feroci. Dal crinale osservo l’inumana nube avvicinarsi e non passano più di pochi secondi affinché l’acqua inizi a cadere dal cielo. Non gocce ma fiume in piena scende dall’alto.

19.45

Il sole splende con riflessi di Tunisi. Tutto si è consumato in una manciata di minuti. Dall’altro capo dell’isola giungono le prime voci del disastro. Forte è la tentazione di concedersi a Calipso ed al suo dolce oblio. Ma due corpi giacciono e non c’è incantesimo che tenga. Non conosco i vostri nomi ma non importa. Che abbiate vissuto come principi o pirati su barca in tempesta sono sicuro che vento e nuvola avrete avuto come compagni.

Vento / se arriva l’inverno la primavera non è lontana

 

COME SI RINNOVA LA PSICOTERAPIA

COMUNICATO STAMPA
GRUPPO ARMANDO TESTA E STUDI COGNITIVI

In occasione della Giornata Mondiale della Salute Mentale, il prossimo 10 Ottobre 2021, il Gruppo Studi Cognitivi, protagonista in Italia nel campo della psicoterapia e specializzato nell’alta formazione, nella ricerca, nella divulgazione scientifica e nell’erogazione di servizi clinici per la salute mentale, presenta insieme ad AT Design del Gruppo Armando Testa, il proprio totale rebranding e il lancio di una nuova campagna che partirà l’8 ottobre e verrà pianificata online e stampa.

Il Gruppo Studi Cognitivi si è affidata ad AT Design, la divisione specializzata in graphic design del Gruppo Armando Testa, per ridisegnare la propria immagine e allineare i suoi standard di comunicazione all’eccellenza formativa e clinica che rappresenta.

L’agenzia si è occupata del rebranding totale del network, della riprogettazione della brand architecture del gruppo e della creazione dei nuovi siti internet, per ogni specifica divisione, coordinati dal nuovo logo.
In particolare la divisione inTherapy, la prima rete di psicoterapia fondata su evidenze scientifiche, è stata totalmente ideata ex novo, dal sito internet alla nuova campagna promozionale di lancio, per raccontare il servizio di terapia sempre vicino al paziente con percorsi anche online.

La ricerca del cambiamento e la dinamicità è alla base di questa nuova esplorazione e ha preso vita anche nella campagna social studiata ad hoc che inaugura i nuovi profili Facebook, Instagram e LinkedIn del brand. La creatività della campagna spinge l’utente a riflettere sulla grande importanza di dedicare alla propria mente, le stesse attenzioni che ha ogni giorno per il proprio aspetto fisico. L’obiettivo è di incentivare l’individuo a prendersi cura del proprio benessere mentale, rivolgendosi ai professionisti di inTherapy.

Sandra Sassaroli, Presidente e Fondatore del Gruppo Studi Cognitivi ha definito così la collaborazione con il Gruppo Armando Testa:

“Noi ci abituiamo a soffrire psicologicamente come se fosse un destino, il destino all’ansia, alla melanconia, alla tristezza, invece non c’è un destino alla sofferenza psicologica. Si può vivere meglio. Con inTherapy Studi Cognitivi, grazie all’esperienza ventennale in formazione, ricerca e clinica, vuole dare una risposta alle problematiche psicologiche attraverso un modello basato sull’evidenza scientifica e di rapida efficacia, controllato e supervisionato da Studi Cognitivi e da un Comitato Scientifico di caratura internazionale.

In inTherapy, prima di tutto, ci sono il paziente e la sua storia, poi c’è il metodo con un modello clinico centralizzato e supervisionato e infine ci sono i terapisti, solo psicoterapeuti e psichiatri altamente formati, selezionati e garantiti da Studi Cognitivi.

Studi Cognitivi aveva bisogno di un’agenzia di assoluto livello per comunicare al meglio la missione di inTherapy e garantire un adeguato livello di comunicazione per un servizio di così grande importanza e rilevanza sociale. ll Gruppo Armando Testa ha da subito dimostrato il suo valore, comprendendo perfettamente come veicolare al meglio questo messaggio.”

 

Credits:

Agenzia: Gruppo Armando Testa

Direzione Creativa Esecutiva: Georgia Ferraro e Nicola Cellemme

Design Director: Paolo Cremonesi

Design Team: Lara Aldrighi, Roberta Campagna

Team Creativo: Monica Barbalonga, Elisa Melagrani

Team Account: Emanuele Cicogna Mozzoni, Chiara Simone

Chief Innovation Officer: Alessandro Peroncini

 

Il disturbo selettivo e restrittivo dell’alimentazione (ARFID): possibili cause e trattamenti

Il disturbo selettivo e restrittivo dell’alimentazione (ARFID), è un disturbo che è stato introdotto nel Manuale Diagnostico dei Disturbi Mentali (DSM) solo nel 2013.

Elisa Petetta – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, San Benedetto del Tronto

 

Prima di allora, sebbene l’ARFID non esistesse come diagnosi o condizione formalmente riconosciuta, venivano comunque già documentate le difficoltà dell’alimentazione che comprende. Queste erano conosciute con nomi ed etichette diverse come “neofobia alimentare”, “anoressia infantile”, “avversione sensoriale verso il cibo”, “alimentazione schizzinosa” e molte altre ancora.

La sua inclusione nel capitolo dei Disturbi della Nutrizione e dell’Alimentazione del DSM-5 ha ridotto l’utilizzo delle diagnosi residue e facilitato il processo diagnostico, di ricerca e di trattamento.

Per poter far diagnosi di disturbo selettivo e restrittivo dell’alimentazione secondo il DSM-5 (American Psychiatric Association, 2013), devono essere presenti le seguenti condizioni:

Un persistente fallimento nel soddisfare l’appropriato fabbisogno nutrizionale e/o energetico associato ad una o più delle seguenti caratteristiche:

  • significativa perdita di peso (o mancato raggiungimento dell’aumento ponderale previsto o crescita discontinua nei bambini);
  • significativo deficit nutrizionale;
  • dipendenza dalla nutrizione enterale oppure da supplementi nutrizionali orali;
  • marcata interferenza con il funzionamento psicosociale.

Il mancato appagamento dei bisogni nutrizionali porta il soggetto a sviluppare conseguenze mediche e fisiche significative, in particolar modo durante l’infanzia (Bryant-Waugh & Higgins, 2020). I comportamenti restrittivi comportano esiti negativi che si ripercuotono anche sulla vita sociale dell’individuo, sul suo umore, sul suo apprendimento, e sulla vita dei propri familiari.

È bene sottolineare come alla base delle restrizioni e degli evitamenti alimentari non ci siano motivi riconducibili alla volontà di perdere peso o all’insoddisfazione per le forme corporee.

Il DSM-5 individua tre sottotipi che evidenziano le tre principali cause sottostanti il comportamento evitante che sono:

  • Evitamento o restrizione per apparente mancanza d’interesse per il mangiare o per il cibo.
    Alcune persone possono riportare difficoltà nel ricordarsi di mangiare o nel dedicare tempo all’alimentazione perché molto impegnate in attività ritenute più interessanti o perché non sembrano avvertire adeguate sensazioni di fame e di appetito. Altri invece possono percepire il mangiare come una specie di “dovere” da cui non riescono a trarre alcun piacere né soddisfazione;
  • Evitamento o restrizione a causa delle caratteristiche sensoriali del cibo e delle risposte specifiche dell’individuo a queste. Queste proprietà sensoriali includono consistenza del cibo, temperatura, aspetto, colore, odore e il rumore che si produce quando lo si consuma. Queste persone appaiono molto selettive, possono mangiare solo cibi di una certa consistenza, ad esempio solo cibi morbidi o croccanti, o solo cibi a temperature specifiche. La sensibilità all’olfatto e al sapore è estrema, tanto che alcuni soggetti affetti da disturbo selettivo e restrittivo dell’alimentazione possono essere immaginati come “super-gustatori”. I soggetti arrivano ad escludere dalla loro dieta tutte le pietanze per cui provano disgusto;
  • Evitamento o restrizione del cibo dovuto alle preoccupazioni per le conseguenze avverse o temute del mangiare. Il soggetto si trova a pensare “se mangio questo, succederà qualcosa di brutto” e questo potrebbe includere vomitare, soffocare, stare male, avere la nausea o semplicemente che quel cibo non piacerà (Bryant-Waugh & Higgins, 2020). In questi pazienti sono comuni dolori e gonfiori addominali, nausee e reflussi gastroesofagei.

Sebbene l’ARFID possa affliggere gli individui durante tutto l’arco della vita, i dati sulla prevalenza si concentrano primariamente sulla fascia d’età più giovane. Dopo che è stata stabilita la categoria diagnostica, la prevalenza di questo disturbo, nei programmi di cura terziaria pediatrica nordamericana per disturbi alimentari è stata tra il 5% e il 14% (Katzman, Norris, & Zucker, in press). La prevalenza documentata di disturbo selettivo e restrittivo dell’alimentazione invece, in un programma di trattamento diurno pediatrico per disturbi alimentari è stata del 23% (Pinhas, L., Nicholls, D., & Crosby, R. D, et al. , 2017). In generale i pazienti con l’ARFID risultano essere più giovani rispetto a quelli con altri disturbi alimentari, l’età media rilevata è 12,9 e sembra che vi sia una più alta percentuale di soggetti affetti di sesso maschile (Fisher et al., 2014).

Ad oggi non esiste alcun farmaco specifico per il trattamento dell’ARFID. I farmaci sono utilizzati per curare i sintomi di altri disturbi associati che aggravano o interferiscono negativamente con l’andamento della patologia di base o con gli esiti dei trattamenti. È essenziale che il trattamento farmacologico sia sempre affiancato ad un approccio integrato che preveda interventi nutrizionali, educativi e psicoterapeutici (Quaderni della salute, 2013).

I trattamenti più usati sono il Family-Based Treatment (FBT; Le Grange,  & Lock, 2005) e gli approcci cognitivo-comportamentali.

Ad oggi non è stata individuata una singola causa che permetta di spiegarne l’eziologia.

È probabile che, come nella maggior parte dei disturbi, ci sia una gamma di fattori di rischio. È stato anche evidenziato (Bryant-Waugh & Higgins, 2020) come non ci siano ancora sufficienti anni di ricerca per avere certezze sulle modalità di insorgenza dell’ARFID.

Negli ultimi anni è stata proposta una chiave di lettura differente, la quale conferisce un peso maggiore alla biologia nell’eziologia del disturbo.

Il modello tridimensionale della neurobiologia dell’ARFID di Thomas e colleghi

Contrariamente ai tre sottotipi di disturbo selettivo e restrittivo dell’alimentazione individuati nel DSM-5, Thomas e colleghi (2017) hanno ipotizzato che, come l’ARFID si presenta in un certo individuo, possa essere visto come un singolo punto lungo uno spazio tridimensionale. Questo significa che le tre presentazioni prototipiche variano in gravità e non si escludono a vicenda. Gli studi (Pulumo et al., 2016) evidenziano infatti che spesso l’ARFID varia nel livello di gravità, e che quasi la metà degli individui con ARFID che si presenta per un trattamento psicologico, mostra difficoltà alimentari in più domini.

Coerentemente con l’approccio Research Domain Criteria (RDoC; Insel, 2010), del National Institute of Mental Health, il gruppo di ricerca di Thomas ipotizza che siano le anomalie nella sensibilità sensoriale, nell’appetito omeostatico e nella reattività alla paura, alla base delle tre presentazioni primarie di ARFID, rispettivamente: sensibilità sensoriale, mancanza di interesse per il cibo e paura di conseguenze avverse.

I ricercatori stanno attualmente testando queste ipotesi in uno studio multimodale (Neurobiological and Behavioral Risk Mechanisms of Youth Avoidant/Restrictive Eating Trajectories) su 100 ragazzi e ragazze con disturbo selettivo e restrittivo dell’alimentazione di età compresa tra 10 e 22 anni e 50 soggetti di controllo sani, abbinati per età e sviluppo puberale, per identificare il potenziale contributo neurobiologico alle basi delle tre principali presentazioni. I ricercatori stanno raccogliendo dati in diversi domini, che vanno dalle autovalutazioni, ai livelli ormonali, ai risultati acquisibili con le tecniche di neuroimaging.

A sostegno del loro approccio, i ricercatori sottolineano, in primis, che gli individui con ARFID che presentano sensibilità sensoriale, spesso riferiscono che gli alimenti evitati hanno un sapore fortemente negativo. La spiegazione clinica che è stata tradizionalmente adottata è che gli individui con sensibilità sensoriale mancherebbero di aver fatto sufficiente esperienza con i cibi evitati e che, dopo esposizioni ripetute a questi ultimi, riuscirebbero ad assumerli. Gli autori ipotizzano invece che sia l’ipersensibilità nella percezione del gusto, piuttosto che semplici reazioni cognitive o affettive estreme a determinati sapori, a contribuire all’elevata sensibilità sensoriale di questi soggetti. In effetti, ci sono prove che gli adulti che si autodefiniscono come “mangiatori schizzinosi” valutano sia le soluzioni amare che quelle dolci come significativamente più intense rispetto a quelli che non si identificano come tali (Kauer, Pelcha, Rozin, & Zickgraf, 2015). Allo stesso modo, i bambini descritti dai genitori come “schizzinosi” è probabile che vengano classificati come supergustatori, poiché percepiscono il 6-N-propiltiouracile (PROP) come estremamente amaro, rispetto ai bambini meno esigenti (Golding, Steer, Emmett, Bartoshuk, Horwood & Smith, 2009).

In secondo luogo, gli individui con disturbo selettivo e restrittivo dell’alimentazione che presentano mancanza di interesse per il cibo, spesso descrivono che non hanno fame durante i pasti, dimenticano di mangiare o si sentono sazi più rapidamente degli altri. Ricerche precedenti (Holsen et al., 2012) hanno ipotizzato che le donne con disturbi alimentari che impiegano condotte restrittive, a digiuno, hanno una ridotta attivazione dell’ipotalamo (centro di controllo per l’integrazione dei segnali dell’appetito) e dell’insula anteriore (dove risiede la corteccia gustativa primaria, la quale integra segnali viscerali ed esperienze enterocettive) rispetto ai soggetti di controllo. La mancanza di interesse per il cibo quindi, potrebbe essere associata a differenze nell’attivazione dei centri di regolazione dell’appetito del cervello.

Infine, gli individui con l’ARFID che presentano paura di conseguenze avverse, reagiscono con intensa paura ed evitamento a seguito di un’esperienza traumatica con il cibo. Mentre molte persone possono, durante la vita, sperimentare soffocamento, vomito o dolore addominale dopo aver mangiato, solo una piccola minoranza sviluppa l’ARFID. Questo dato potrebbe suggerire che, questo sottoinsieme più piccolo, potrebbe aver sperimentato l’episodio alimentare traumatico, con una vulnerabilità preesistente, in grado di dar luogo ad una risposta fobica. In linea con le prove che suggeriscono che la reattività psicofisiologica agli stimoli di paura distingue i disturbi d’ansia di tipo fobico (cioè fobie sociali e specifiche) da altri disturbi d’ansia (Lang, & McTeague, 2009), i ricercatori ipotizzano che l’iperattivazione di questo sistema di difesa (cioè, amigdala, cingolato anteriore e corteccia prefrontale ventromediale) potrebbe manifestarsi proprio tra gli individui con l’ARFID.

La terapia cognitiva-comportamentale per l’ARFID (CBT-AR)

Sulla base del loro modello neurobiologico tridimensionale, il team di Thomas ha recentemente sviluppato una nuova forma di terapia cognitivo-comportamentale per l’ARFID (CBT-AR). La CBT-AR è appropriata per bambini, adolescenti e adulti di età pari o superiore a 10 anni, clinicamente stabili, che non presentano gravi disabilità dello sviluppo e non dipendono dall’alimentazione con sondino. Dato che i ricercatori sostengono che gli individui con sensibilità sensoriale percepiscono i sapori, come l’amaro o il dolce, più intensamente, rispetto agli individui senza disturbo selettivo e restrittivo dell’alimentazione, la CBT-AR insegna ai soggetti le abilità per avvicinarsi ai nuovi cibi in modo graduale: guardare, toccare, annusare, assaggiare e infine masticare. Data la loro seconda ipotesi, ossia che gli individui che presentano mancanza di interesse per il cibo sarebbero caratterizzati da anomalie dell’appetito omeostatico, la CBT-AR fa molto leva sul supporto dei genitori per aumentare il volume della dieta per i giovani che sono sottopeso. Infine, poiché ritengono che la paura delle conseguenze avverse del mangiare sia mantenuta da alti livelli di reattività fisiologica, la CBT-AR si basa sull’esposizione sia in vivo che enterocettiva, per gestire le risposte fobiche a esperienze traumatiche come vomito o soffocamento.

La CBT-AR procede attraverso quattro fasi, che includono:

  • psicoeducazione e alimentazione regolare;
  • rialimentazione e pianificazione del trattamento;
  • l’affrontamento dei meccanismi di mantenimento rilevanti (cioè sensibilità sensoriale, mancanza di interesse nel mangiare, paura di conseguenze avverse);
  • prevenzione delle ricadute.

La CBT-AR dura circa 20 sessioni, ma possono essere necessarie fino a 30 sessioni quando il paziente è sottopeso. Le sessioni si svolgono settimanalmente, quindi il trattamento standard di 20 sessioni richiede circa cinque mesi. Per i pazienti sottopeso o malnutriti, il numero totale di sessioni si basa sul grado di ripristino del peso necessario, sul numero dei meccanismi di mantenimento che devono essere affrontati e sul giudizio clinico del terapeuta. La CBT-AR è un trattamento a tempo limitato che può essere erogato in un format individuale o assistito dalla famiglia. La terapia supportata dalla famiglia è generalmente raccomandata per i pazienti di età inferiore ai 16 anni e può essere utilizzata anche per adolescenti più grandi o giovani adulti gravemente sottopeso o per pazienti con lievi disabilità dello sviluppo. Il formato individuale è generalmente consigliato invece per adulti e adolescenti che sono molto motivati ​​e che non hanno un peso significativo da recuperare.

Un recente case report (Thomas, Brigham, Sally, Hazen, & Eddy, in press) descrive l’applicazione della CBT-AR con ottimi risultati ad una bambina di 11 anni con peso ridotto, sensibilità sensoriale, mancanza di interesse per il cibo e paura di conseguenze avverse. Recentemente gli autori (Thomas, et al., 2020) hanno condotto uno studio con lo scopo di valutare la fattibilità e l’accettabilità della CBT-AR nei bambini e negli adolescenti. Di 25 individui eleggibili, 20 hanno iniziato il trattamento, 17 lo hanno completato mentre 3 lo hanno abbandonato. Utilizzando l’analisi intent-to-treat, i medici hanno valutato 17 pazienti (85%) come “molto migliorati”. I punteggi di gravità dell’ARFID misurati attraverso l’intervista strutturata “Pica, ARFID, and Rumination Disorder Interview” (PARDI, Bryant-Waugh et al., 2019) sono significativamente diminuiti, sia per i pazienti, sia per quanto osservato dai genitori dei soggetti dello studio. I pazienti hanno assunto una media di 16,7 (con deviazione standard DS di 12,1) nuovi alimenti dal pre al post-trattamento. Il sottogruppo sottopeso ha mostrato un aumento di peso significativo di 11,5 (con deviazione standard DS di 6,0) libbre, passando dal 10° al 20° percentile per l’indice di massa corporea. Al post-trattamento, il 70% dei pazienti non soddisfaceva più i criteri per porre diagnosi di ARFID.

Questo è il primo studio di un trattamento psicosociale manualizzato ambulatoriale per ARFID negli adolescenti più grandi. I risultati forniscono prove di fattibilità e di accettabilità per la CBT-AR e si auspicano futuri studi randomizzati controllati per poter testare l’efficacia di questa nuova tipologia di trattamento.

Stigma verso i disturbi mentali: quali effetti?

La stigmatizzazione dei disturbi mentali è un problema importante nelle scienze sociali e uno dei più importanti ostacoli nel campo dell’assistenza alla salute mentale pubblica.

 

Cosa vuol dire stigma?

Il punto di partenza per definire lo stigma del disturbo mentale è la definizione di Goffman (1963), che definisce lo stigma come un attributo che produce un profondo discredito. Il riconoscimento di questo attributo conduce la persona stigmatizzata ad essere “declassata da persona completa, dotata di un valore e a cui siamo comunemente abituati, a persona segnata, screditata” (p. 636). Questo presenta lo stigma come la relazione tra l’attributo e lo stereotipo.

Nei termini di Goffman (1963), gli attributi possono essere classificati in tre gruppi principali:

  • difetti fisici (es. disabilità fisica o deformità visibile);
  • imperfezioni di carattere individuale, (es. malattia mentale, condanna penale);
  • stigmi tribali (es. etnia, genere, età.).

Quali effetti ha la stigmatizzazione dei disturbi mentali?

La letteratura indica che la stigmatizzazione delle persone con disturbi mentali è piuttosto diffusa nella popolazione generale (Crisp, Gelder, Goddard, & Meltzer, 2005; Link, Phelan, Bresnahan, Stueve, & Pescosolido, 1999). Tuttavia, esiste una variazione significativa a seconda delle diverse componenti dello stigma che sono state considerate (Corrigan, 2004).

Lo stigma ha molti effetti negativi sulle persone che vivono con un disturbo mentale, tra cui: assenza o ritardo nel ricercare supporto o un trattamento, diminuzione della qualità della vita, minori opportunità di lavoro, aumento della solitudine, minore possibilità di ottenere un alloggio, e diminuzione dell’autostima (Corrigan, 2004; Hansson, Stjernswärd, & Svensson, 2014; Lawrie, 1999; Link, Phelan, Bresnahan, Stueve, & Pescosolido, 1999). Inoltre, lo stigma non ha soltanto un impatto sulle persone che soffrono di un disturbo mentale, ma anche sui loro parenti e su chi si prende cura di loro (Muralidharan, Lucksted, Medoff, Fang, & Dixon, 2016). Diversi studi hanno rilevato che un aumento dello stigma è associato all’“etichettare” una persona come mentalmente malato, inoltre il riconoscimento dei disturbi mentali risulta essere piuttosto basso nella popolazione (Jorm, 2000; Martin, Pescosolido, & Tuch, 2000; Peluso & Blay, 2009). Secondo Jorm e colleghi (1997) alla base dello stigma è presente una bassa conoscenza dei disturbi mentali; introducono inoltre il termine “Mental Health Literacy” (MHL), con cui si fa riferimento ad aspetti di riconoscimento dei disturbi mentali, di ricerca di informazioni sulla salute mentale, alla conoscenza dei fattori e delle cause di rischio (ad esempio, biomedico, psicosociale), dei trattamenti (cioè farmaci o psicoterapia) e della prognosi. Per di più, MHL è essenziale per promuovere la diagnosi precoce e il trattamento dei problemi di salute mentale, quindi, portando a migliori risultati a lungo termine (Jorm, 2000; Wright et al., 2005).

Nello studio di Serra e colleghi (2013) è stato dimostrato che, per gli studenti delle scuole superiori italiane, la conoscenza dei disturbi mentali era positivamente correlata con la disponibilità a fornire aiuto a persone con un disturbo mentale, ed entrambi erano correlati ad atteggiamenti più positivi verso le persone con psicosi. Questo conferma che una conoscenza della salute mentale è correlata sia ad uno stigma inferiore sia ad una ridotta distanza sociale dalle persone con gravi disturbi mentali. Gli studenti sono risultati avere una sufficiente conoscenza dei disturbi mentali, tuttavia, sebbene abbiano mostrato dubbi sulla natura psicopatologica dei disturbi, gran parte degli studenti rimaneva piuttosto scettica riguardo l’efficacia del trattamento o sulla possibilità di recupero delle persone con gravi disturbi mentali. In questo studio, i soggetti con punteggi di stigma più alto erano anche meno disposti a fornire aiuto a qualcuno con un disturbo mentale. Le studentesse hanno mostrato una maggiore conoscenza dei disturbi mentali rispetto agli studenti maschi ed erano più propense a offrire un supporto volontario a persone con disturbi mentali, in accordo con quanto sostenuto da Horowitz (1982). Tuttavia, è emersa un’alta tendenza di atteggiamenti non stigmatizzanti in quei soggetti che hanno avuto una storia familiare di psicosi. Questo potrebbe indicare che l’esposizione diretta alla psicosi può abbassare lo stigma e ridurre la distanza sociale da persone con disturbo mentale (Serra et al., 2013). Tuttavia, il grado di stigma dipende largamente dal disturbo a cui è attribuito. Uno stigma maggiore è correlato ai disturbi mentali più gravi, in particolare alla schizofrenia e alla psicosi (Angermeyer & Matschinger, 1997; Norman, Sorrentino, Windell, & Manchanda, 2008). I pazienti con diagnosi di psicosi hanno maggiore probabilità di venire emarginati e discriminati a causa dello stigma correlato (Buizza et al., 2007).

A questo proposito vari studi hanno rilevato che il livello dello stigma aumenta in modo esponenziale a partire dalla depressione, per poi passare alla schizofrenia fino a raggiungere il picco con i disturbi da uso di sostanze. Il forte stigma nei confronti di persone con disturbi da uso di sostanze potrebbe essere spiegato in diversi modi. Per esempio, lo stigma può verificarsi più frequentemente perché le persone possono essere considerate molto più deboli e responsabili per la loro condizione rispetto alle persone con schizofrenia o depressione. Inoltre, sia i soggetti con disturbi da uso di sostanze che soggetti con schizofrenia sono stati etichettati come pericolosi e imprevedibili. La pericolosità percepita è stata identificata come un mediatore molto importante della stigmatizzazione; di fatto può rafforzare il rifiuto e la distanza, aumentando così la discriminazione e l’emarginazione causate dallo stigma (Crisp, Gelder, Goddard, & Meltzer, 2005; Hengartner et al., 2012; Link, Phelan, Bresnahan, Stueve, & Pescosolido, 1999; Pescosolido et al., 2010). A sua volta la paura dell’emarginazione può rafforzare la stigmatizzazione interiorizzata nelle persone con un disturbo mentale e può anche ridurre l’accesso alle cure.

Le persone spesso si astengono dal ricercare supporto e cure di cui hanno bisogno per paura di venire etichettati negativamente da parte di amici o parenti per la loro condizione mentale (Angermeyer & Matschinger, 2003; Thornicroft, 2008). Inoltre, lo stigma interiorizzato riduce l’autostima. Gli atteggiamenti negativi sono particolarmente forti contro chi fa uso di farmaci per trattare i disturbi mentali (Jenkins & Carpenter-Song, 2009; Sorsdahl & Stein, 2010). Ad esempio, l’utilizzo di antidepressivi per il trattamento del Disturbo Depressivo Maggiore è spesso percepito come un segno di debolezza emotiva e incapacità ad affrontare i problemi (Castaldelli-Maia et al., 2011). Oltre ciò, la stigmatizzazione di per sé esercita un’influenza negativa sia sul decorso che sull’esito del trattamento del disturbo (Van Zelst, 2009). Ci sono prove che lo stigma contro i disturbi mentali incide seriamente sulla volontà dei giovani di cercare aiuto per risolvere la propria condizione (Fröjd, Marttunen, Pelkonen, von der Pahlen, & Kaltiala-Heino, 2007; Mukolo, Heflinger, & Wallston, 2010; Pescosolido, Martin, Lang, & Olafsdottir, 2008; Quinn, Wilson, MacIntyre, & Tinklin, 2009; Yap & Jorm, 2011). In particolare, i giovani maschi sembrano essere maggiormente influenzati da atteggiamenti stigmatizzanti, determinando così una riduzione nella ricerca di supporto sociale (Eisenberg, Downs, Golberstein, & Zivin, 2009; Gonzalez, Alegria, & Prihoda, 2005). Qui di seguito possiamo menzionare brevemente due conseguenze deleterie della stigmatizzazione.

In primo luogo, lo stigma pubblico si traduce, nella vita di tutti i giorni, in discriminazioni nelle interazioni interpersonali e negli stereotipi e con immagini negative riguardanti i disturbi mentali nei media (Wahl, 1995). Secondo, la discriminazione strutturale include istituzioni private e pubbliche che intenzionalmente o involontariamente limitano le opportunità delle persone con disturbi mentali (Corrigan, Markowitz, & Watson, 2004).

Come riportato da Thornicroft, Rose, Kassam, e Sartorius (2007), per quanto riguarda lo stigma verso le persone con disturbi mentali, l’obiettivo finale degli interventi non è solo aumentare la conoscenza e migliorare gli atteggiamenti (ridurre il pregiudizio), ma anche migliorare il comportamento reale (ridurre la discriminazione).

 

L’arte dell’essere imperfetti: onore agli errori e agli sbagli

L’assenza di errori non è desiderabile: il perfezionismo patologico, infatti, è come un tarlo che deteriora la salute mentale.

 

Come mai, se sbagliando si impara, si cerca di evitare gli errori?

Sarà forse perché, fin da piccoli, si ricevono messaggi che, implicitamente o esplicitamente, suggeriscono che sbagliare è sbagliato? Forse perché l’errore, nei temi di italiano, veniva cerchiato con una penna rosso fuoco, e più volte sottolineato? O forse perché solamente il compagno che svolgeva un compito in classe eccellente meritava un dieci? Ma è davvero compito della scuola insegnare agli studenti che una prestazione è ottimale soltanto se perfetta?

Naturalmente, non c’è niente di male nell’osannare un successo: è giusto che, ad ogni merito, corrisponda un’adeguata ricompensa. Il lavorar sodo non è di certo criticabile.

Il problema è un altro, e sta nella condanna degli sbagli e dell’imperfezione.

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, è stato dimostrato che eludere totalmente gli errori nei processi di apprendimento è sconveniente in quanto, se seguiti da un feedback correttivo, diventano vantaggiosi per i discenti (Metcalfe; 2016): del resto, non serve dire agli altri se hanno torto o ragione, senza giustificarne il perché. Dunque, piuttosto che incoraggiare gli studenti a non fallire mai, li si dovrebbe aiutare a considerare gli insuccessi scolastici come nuove opportunità di sviluppo.

Al di là del mondo accademico, qual è il senso della corsa soffocante finalizzata al raggiungimento della massima prestazione?

In verità, l’assenza di errori non è desiderabile: il perfezionismo patologico, infatti, è come un tarlo che deteriora la salute mentale.

Non a caso, secondo l’OMS, l’aumento vertiginoso della sintomatologia ansiosa e depressiva tra i più giovani, è dovuto, anche e in parte, a prototipi di perfezione inesistenti con cui ci si confronta, a standard sociali eccessivamente elevati, ad aspettative irrealistiche sui risultati accademici e professionali raggiungibili (Curran, Hill; 2018).

Purtroppo, la tendenza al perfezionismo è sempre più comune nell’attuale società narcisistica, e va da sé che, quando la precisione suprema è l’unica meta desiderabile, ogni fallimento diventa devastante (Metcalfe; 2016). L’ossessione per la meticolosità assoluta porta a rimuginare in maniera cronica sui propri insuccessi, sulle proprie carenze, sulle parole e sul comportamento più giusto da adottare, nel luogo giusto e al momento giusto; tutto ciò può provocare la sperimentazione di Ansia, Depressione, Disturbi alimentari, Autolesionismo, Fobia e Ansia sociale, Marcata Autocritica, Sensi di colpa e timore per il giudizio altrui. Il perfezionismo patologico impedisce di ragionare su ciò che è concretamente realizzabile e, piuttosto che far apprezzare i traguardi raggiunti, obbliga il soggetto a focalizzare l’attenzione su ciò che non ha ancora compiuto al meglio.

Si dovrebbe, dunque, far comprendere ai più giovani che non è attraverso una prestazione impeccabile che si dimostra il proprio valore, ma piuttosto, che è necessario onorare gli errori come i più veri tra i maestri. In fondo, non è dal rigore, ma dall’imperfezione, che può nascere qualcosa di straordinario: si pensi agli errori compiuti in laboratorio, che hanno portato a nuove scoperte, o a quelli che hanno aperto nuove linee di pensiero (Shallenberger; 2015). A chi non è mai capitato, sbagliando, di far meglio qualcosa? Di trovare una via d’uscita?

E poi, soltanto attraverso una più sincera imprecisione si può essere autentici.

 

Recensione di: “Invidia del pancione. Una guida per riconoscere le proprie emozioni e affrontare la ricerca di un figlio” di Beatrice Corsale

In un’intervista dedicata alla presentazione del testo viene chiesto all’autrice il motivo della scelta legata ad un titolo forse un po’ “forte”: Invidia del pancione.

 

Condivido, si tratta di un’espressione molto forte. Forte perché vera. Reale. Tanto vera da sottolineare la necessità di poterla esternare: soltanto dando un nome alle emozioni è possibile riordinarle, integrarle.

Nel 2017 le coppie ricorse alla PMA – Procreazione Medicalmente Assistita – sono 78.366 (Relazione del Ministro della Salute al Parlamento sullo stato di attuazione della legge contenente norme in materia di procreazione medicalmente assistita -L. 19 febbraio 2004, n. 40, articolo 15- anno 2019). Lo scorso Giugno, la Regione Toscana, leader nel supporto al servizio pubblico sanitario dedito a procedure di PMA, rischiava di ridurre i rimborsi offerti.

La società contemporanea è costellata di coppie che convivono, spesso per anni, con problematiche legate al concepimento. Un disagio unito sovente ad emozioni quali vergogna e colpa nei confronti di quello stesso modello sociale all’interno del quale sembra ancora molto difficile condividere un simile vissuto.

Personalmente mi occupo di PMA da diversi anni e sono stato, mio malgrado, io stesso paziente. La diagnosi di infertilità mette a dura prova l’equilibrio della coppia. Fornirsi sostegno reciproco e concedersi supporto esterno rappresentato i migliori strumenti utili a costruire e ri-costruire una dinamica sana e resiliente tra i partner. Le tecniche di PMA, sempre più numerose ed efficienti, restano processi stressanti e invasivi sia da un punto di vista fisico -in particolar modo per la donna- che psicologico: senso di colpa, depressione, perdita del controllo, tristezza, rabbia, ritiro sociale, senso di inadeguatezza e shock. Una paziente un giorno mi disse: “ma perché mi è stata negata la cosa più naturale del mondo!”. Il tutto associato a visite mediche programmate, sessualità programmata, famiglie d’origine che non sempre trovano lo spazio per comprendere e una famiglia fantasmatica anch’essa programmata ma che tarda ad arrivare.

L’intero mondo della PMA, con tutte le sue tonalità emotive e le dinamiche proprie di una coppia alla quale sembra negata la possibilità di procreare, viene perfettamente esplicitato in Invidia del pancione della dott.ssa Beatrice Corsale.

Diversi sono i testi presenti in letteratura in riferimento al percorso PMA, alcuni incentrati principalmente su contenuti normativi in riferimento alle linee guida contenenti le indicazioni delle procedure e delle tecniche di procreazione medicalmente assistita in materia ‘attività di consulenza e sostegno rivolta alla coppia’ (Art. 7 – Legge n. 40/2004 LINEE GUIDA 2015), e altri di natura puramente clinica. Ciò che ho apprezzato di più di questo scritto è stata l’audacia dell’autrice nel non limitarsi a far luce sull’insieme di emozioni negative che si presentano durante l’iter diagnostico e terapeutico ma concedere al lettore la possibilità di lavorare attivamente su quell’insieme di stati d’animo. Il testo fornisce la descrizione sia di tecniche specifiche -quali ad esempio la Mindfulness– sia schede illustrate utili alla validazione e normalizzazione delle emozioni “in vivo”, incentivando l’elemento centrale al buon esito di una qualsiasi buona psicoterapia di coppia: “fare insieme” e condividere.

Il tutto condito da uno storytelling in grado di permettere una lettura fluida, viva, di un testo tecnico-pratico e, per questo, utile.

 

Confronto tra il trattamento dei disturbi alimentari in adulti e adolescenti: Enhanced Cognitive Behavioural Therapy paragonata ad altre terapie

Con un trattamento unificato come la CBT-E, i pazienti possono essere traslati tra i diversi livelli di cura senza complicanze e senza mutare la natura della terapia stessa.

 

In alcune nazioni, i servizi clinici per adolescenti e adulti con disturbo alimentare (DA) sono distinti, al fine di offrire un trattamento specifico e tarato sul target di riferimento. Cambiamenti nella natura del trattamento si verificano spesso anche quando i pazienti devono passare da cure meno intensive (es. regime ambulatoriale) a un percorso intensivo (es. regime di day-hospital/ospedaliero) e viceversa. Queste transizioni possono creare discontinuità nel percorso di cura e disorientare i pazienti e i loro caregiver sulle strategie e procedure utilizzate per affrontare la problematica alimentare (Dalle Grave et al., 2020). Oggigiorno sono disponibili diverse psicoterapie individuali per adulti con disturbi alimentari supportate empiricamente, tra queste la Terapia Cognitivo-Comportamentale Migliorata (Enhanced Cognitive BehaviouralTherapy; CBT-E) risulta essere adatta a tutte le sotto-categorie del DA (Fairburn et al., 2015). Questo dato non è stato raggiunto da nessun altro trattamento.

A tal proposito l’evidenza scientifica suggerisce che due terzi dei pazienti con bulimia nervosa (BN) mostrano una totale remissione a seguito del trattamento CBT-E, con il restante terzo che manifesta comunque un miglioramento significativo, seppur in misura minore (Fairburn et al., 2015). In merito al confronto tra CBT-E e altri trattamenti psicoterapici sui DA, dalla letteratura è emerso che: (a) la CBT-E si è dimostrata più potente nel confronto diretto con una psicoterapia dominante per adulti con BN, ovvero la psicoterapia interpersonale (IPT); (b) 20 sessioni di CBT-E sono risultate essere più efficaci in BN rispetto a 100 sessioni di psicoterapia psicoanalitica erogata per oltre 2 anni (Poulsen et al., 2014). In merito all’anoressia nervosa (AN), in un trial clinico randomizzato (RCT) che paragona la rispettiva efficacia della CBT-E con il modello Maudsley (MANTRA) e lo Specialist Supportive Clinical Management (SSCM), non è emersa alcuna differenza significativa tra i 3 trattamenti in termini di effetti sull’Indice di Massa Corporea (IMC), psicopatologia e compromissione della qualità di vita, a 1 anno di follow-up, nonostante la CBT-E abbia garantito una maggiore percentuale di recupero ponderale in minor tempo (Byrne, Wade, Hay et al., 2017).

In merito, invece, al target d’età adolescenziale, una tipologia specifica di terapia familiare, chiamato trattamento basato sulla famiglia (Family Based Treatment, FBT), risulta essere l’intervento più empiricamente supportato per adolescenti con disturbi alimentari (Lock & Le Grange, 2015). Nonostante ciò, anche gli adolescenti sembrano rispondere in maniera proficua alla CBT-E, il cui razionale transdiagnostico prevede l’efficacia su tutte le sotto-categorie diagnostiche del disturbo alimentare, sia su adulti, che adolescenti, in tutto lo spettro di cura. Infatti, nonostante alcune differenze fisiche e psicosociali distintive, adolescenti e adulti sembrano condividere il medesimo nucleo psicopatologico del disturbo alimentare (Fairburn et al., 2009). Inoltre, un trattamento unificato potrebbe potenzialmente trascendere molteplici limiti generati da servizi clinici generalmente frammentati per il trattamento dei DA. Invece, con un trattamento unificato come la CBT-E, i pazienti possono essere traslati tra i diversi livelli di cura senza complicanze e senza mutare la natura della terapia stessa (Dalle Grave et al., 2020).

Nonostante l’attuale disponibilità di trattamenti per i DA basati sull’evidenza scientifica, sia per gli adolescenti, che per gli adulti, permangono molteplici frontiere cliniche da affrontare. In particolare, poiché molteplici servizi clinici ancora non forniscono ai pazienti trattamenti psicologici basati sull’evidenza, o si affidano a terapeuti che si discostano dai protocolli evidence-based, persiste un urgente bisogno di promuovere la diffusione della CBT-E, della FBT e di altri modelli clinici basati sull’evidenza. A tal fine, l’erogazione di programmi di formazione progettati per formare terapeuti su ampia scala, in diversi paesi contemporaneamente, potrebbe essere una potenziale soluzione. Infine, la ricerca dovrebbe continuamente cimentarsi nella scoperta e nell’implementazione di strategie e procedure di trattamento efficaci. A tal proposito, anche con il più efficace dei trattamenti disponibili fino ad oggi, solo il 50% dei pazienti raggiunge una remissione completa e duratura, e in una porzione di pazienti persiste una cronicità del disturbo per gran parte della vita e nei casi più estremi alcuni, purtroppo, muoiono prematuramente. Questi dati stimolano ricercatori e clinici a proseguire la ricerca nella direzione di individuare e garantire strategie e procedure terapeutiche sempre più efficaci e tarate sulle caratteristiche ed esigenze del singolo paziente (Dalle Grave et al., 2020).

 


Deputazione di storia patria dell’Abruzzo: storia e personaggi famosi

La deputazione di storia patria è un istituto a carattere locale che in genere è sostenuto dallo Stato. Le varie deputazioni sono nate nelle differenti regioni italiane nel XIX secolo, soprattutto dopo che si è formato il territorio del Regno d’Italia. Molto interessante è la deputazione di storia patria degli Abruzzi, fondata nel 1838 come società di storia patria A.L. Antinori.

 

La deputazione di storia patria è un istituto a carattere locale che in genere è sostenuto dallo Stato. Le varie deputazioni sono nate nelle differenti regioni italiane nel XIX secolo, soprattutto dopo che si è formato il territorio del Regno d’Italia. La loro funzione principale è quella di promuovere degli studi di carattere storico relativamente agli Stati italiani prima dell’unità d’Italia. Inoltre le deputazioni di storia patria si occupano di pubblicare opere storiche e lavorano anche per la messa a punto di periodici. La prima regia deputazione sopra gli studi di storia patria è stata fondata a Torino da re Carlo Alberto nel 1883. Poi Vittorio Emanuele II con l’unità d’Italia estese la fondazione di un’altra deputazione di storia patria in Lombardia. In Emilia Romagna ne furono costituite altre tre. Nel 1862 sono state istituite quelle per la Toscana e poi man mano nel corso del tempo le altre per le differenti regioni. Nel 1883 è stato creato l’Istituto storico italiano, che aveva il compito di coordinare le attività delle varie deputazioni. Questo istituto nel 1934 è stato sostituito dalla Giunta centrale per gli studi storici.

La deputazione di storia patria dell’Abruzzo

Molto interessante è la deputazione di storia patria degli Abruzzi, fondata nel 1838 come società di storia patria A.L. Antinori. Dal 1889 si occupa di pubblicare il Bullettino. In questa deputazione si distinguono dei personaggi importanti, come per esempio, proprio da quella abruzzese, lo storico e professore Vittorio Casale. Vittorio Casale è attualmente titolare della cattedra di Storia della critica d’arte presso l’Università di Roma Tre. Ha insegnato anche in altri atenei, come l’Università di Chieti e presso l’Università di Salerno come professore straordinario di Storia dell’arte moderna.

Le ricerche e gli studi di Vittorio Casale

Vittorio Casale si è occupato soprattutto di studi e ricerche sulla storia dell’arte relativa a Roma e all’Italia centrale nei secoli XVII e XVIII. Ha partecipato ad un’attività di ricognizione della pittura del Sei e del Settecento in Umbria, che ha dato vita ad una mostra che si è svolta a Spoleto nel 1989. Ha curato la pubblicazione di due busti inediti di Gian Lorenzo Bernini da lui ritrovati nel Duomo di Foligno. Ha definito la produzione artistica per canonizzazioni, ha analizzato le opere d’arte di Pescocostanzo e ha definito i principi fondamentali della poetica del Barocco.

Il percorso della deputazione di storia patria degli Abruzzi

La deputazione di storia patria degli Abruzzi è stata fondata all’Aquila il 26 settembre del 1888. Con il regio decreto numero 264 del 1910 è stata elevata al rango di regia deputazione di storia patria. Sempre con regio decreto è stato approvato il relativo statuto, che è stato controfirmato dall’allora ministro della Pubblica Istruzione Daneo. Successivamente è stata la volta di un aggiornamento dello statuto, approvato con un decreto del Presidente della Repubblica Luigi Einaudi. Il nuovo statuto, quello tutt’ora vigente, è stato approvato dall’assemblea l’8 novembre 2015 ed è stato validato dalla Prefettura il 24 febbraio del 2016.

I vari nomi illustri che operarono nella deputazione

Ci sono vari personaggi illustri che si distinsero all’interno della deputazione degli Abruzzi, nomi famosi di persone che operarono attivamente. Per esempio fra questi personaggi possiamo ricordare Benedetto Croce, che fu anche presidente onorario dell’associazione e che l’ha rappresentata all’interno dell’Istituto storico italiano. Poi ricordiamo anche Filippo Masci, Giulio de Petra, Vincenzo Balzano e Vincenzo de Bartholomaeis. Non possiamo fare a meno di ricordare Ernesto Monaci, che ha scoperto a Napoli il Laudario Aquilano e la Leggenda di Santa Caterina. De Bartholomaeis ha svolto un’intensa attività volta al reperimento di manoscritti in archivi pubblici e privati.

L’attività istituzionale della deputazione di storia patria dell’Abruzzo

Secondo lo statuto all’articolo 1 la finalità caratteristica della deputazione consiste nella ricerca delle fonti e nella ricostruzione della storia d’Abruzzo. I risultati della ricerca confluiscono nel Bullettino, la cui pubblicazione è iniziata nel 1989 e prosegue ancora oggi. Il Bullettino consiste in una serie di volumi con diverse monografie, dalla buona metodologia e di elevato taglio critico. Ma l’attività istituzionale della deputazione non si risolve soltanto con questo periodico, visto che fin dall’inizio sono stati pubblicati contributi in serie libera, come per esempio le opere del De Bartholomaeis e del De Caesaris.

La collana Documenti per la storia d’Abruzzo

Nel 1977 è nata la collana Documenti per la storia d’Abruzzo, sempre facente parte dell’attività istituzionale della deputazione. La collana è stata da subito destinata ad accogliere la pubblicazione di documenti e regesti. Il primo volume è stato il Regesto Antinoriano, che è stato realizzato a cura di Salvatore Piacentino. Poi nel tempo sono sorte altre sette serie monografiche o miscellanee e al Bullettino è stata affiancata dal 1994 una newsletter con cadenza semestrale. La newsletter si chiama Notizie DASP e l’istituzione della storia patria si occupa anche di fornire il parere riguardo ad intitolazioni di toponomastica delle amministrazioni pubbliche.

La biblioteca e le riunioni dei soci

La deputazione ha molto a cuore la sua biblioteca, che consiste in 36.000 volumi tra monografie e periodici. La biblioteca aderisce al polo aquilano del Servizio Bibliotecario Nazionale. I soci della deputazione di storia patria d’Abruzzo si riuniscono due volte l’anno. Un incontro avviene in primavera e poi l’assemblea si svolge in autunno. Sono organizzati in queste occasioni importanti convegni di studio. Molte attività sono ospitate in varie città dell’Abruzzo che si avvalgono della collaborazione della deputazione per lo svolgersi di varie attività culturali. L’associazione arriva a coinvolgere anche altri territori di competenza, come per esempio quello del Molise.

 

Dolore e Regolazione Emotiva nella Fibromialgia. Dati a favore dell’intervento terapeutico

La fibromialgia o sindrome fibromialgica (FMS) è una malattia cronica caratterizzata da dolore muscoloscheletrico diffuso e persistente che colpisce prevalentemente le donne (tra il 61% e il 90%) e ha una prevalenza stimata del 2%-4% nella popolazione generale.

 

Altri sintomi associati sono affaticamento, insonnia, rigidità mattutina, depressione e ansia. La fibromialgia è spesso accompagnata da altre condizioni mediche e sintomi come sindrome dell’intestino irritabile, mal di testa, febbre, diarrea, ulcere orali, secchezza oculare, vomito, stitichezza, eruzioni cutanee, difficoltà uditive, perdita di capelli, minzione dolorosa e frequente, ecc.

Alcuni fattori sembrano predisporre gli individui alla FMS, come incidenti (stradali, infortuni sul lavoro, fratture, politraumatismi), interventi medici e complicazioni (chirurgici e infezioni) e traumi emotivi (abuso sessuale, fisico e abbandono). In generale, alcuni studi hanno evidenziato un’associazione tra traumi durante l’infanzia e l’adolescenza (non solo abuso o violenza, ma anche negligenza e altri eventi negativi della vita) e lo sviluppo della patologia.

Un ruolo importante è stato affidato a meccanismi disadattativi di risposta allo stress: stress prolungato o eventi traumatici ripetuti a partire dell’età infantile sembrano influenzare negativamente i sistemi di modulazione del cervello, sia del dolore che delle emozioni.

A tal proposito è stato mostrato che i pazienti con fibromialgia presentano una ridotta reattività dell’HPA (ipotalamo-ipofisi-surrene) (in particolare a livello ipofisario), che porta a una risposta inadeguata del cortisolo allo stress o alle attività della vita quotidiana con maggior coinvolgimento emotivo.

Quando parliamo di emozioni nei pazienti FMS, facciamo riferimento ad uno stato generale di angoscia dettato da una miscela di stati emotivi avversi come tristezza, paura, senso di colpa e rabbia verso se stessi, il dolore o gli altri.

Un paziente ha descritto le sue emozioni in questo modo:

Ho costantemente paura del mio dolore perché so quanto possa diventare grave. Questo mi fa preoccupare e pensarci tutto il tempo, il che provoca rabbia e tristezza perché sto sprecando la mia vita. Non so come affrontarlo. Ma a volte le emozioni sono più difficili da affrontare rispetto al dolore stesso. Questo mi stressa.

Le emozioni vengono spesso gestite attraverso modalità non sempre efficaci. Ad esempio la ruminazione rabbiosa è una delle strategie più utilizzate da questi pazienti. Essa implica un pensare, ripensare, ripetere, immaginare, rivivere e “rimasticare”, un evento vissuto con contenuto rabbioso con conseguente incremento dello stato emotivo e delle sensazioni spiacevoli dolorose.

I pazienti FMS sperimentano emozioni e credenze catastrofiche rispetto al proprio dolore, vale a dire un esagerato orientamento negativo verso lo stesso che provoca paura e disagio e aumenta le stesse percezioni dolorose.

Tutti questi meccanismi di risposta emotiva sono frequentemente associati ad un peggioramento dei sintomi, compresi quelli cognitivi.

L’intensità delle emozioni negative è infatti positivamente associata all’aumento dell’intensità del dolore, all’irritabilità, alla tensione fisica e mentale, alle limitazioni funzionali, al numero di punti sensibili, a insonnia, ai deficit cognitivi, all’affaticamento e all’impatto della malattia sulla qualità della vita . Questi pazienti si sentono spesso isolati, incompresi o rifiutati da parenti, amici, operatori sanitari e in generale dal proprio contesto sociale.

Fibromialgia e regolazione delle emozioni: quale legame?

Il successo dell’adattamento al dolore cronico richiede quindi la capacità di autoregolarsi o esercitare il controllo sui propri sintomi corporei, sui pensieri, sulle emozioni e sui comportamenti (Solberg Nes et al.,  2010). In particolare, si è ritenuto che la regolazione delle emozioni sia fondamentale nell’adattamento al dolore cronico (Hamilton et al.,  2005).

Koechlin et al. (2018) suggeriscono che questo collegamento potrebbe essere dovuto al fatto che una regolazione emotiva non riuscita possa mantenere o addirittura peggiorare il dolore e limitare il funzionamento generale della persona. Ciò può a sua volta alimentare nuovamente il proprio livello di instabilità affettiva e, come tale, diventare un circolo vizioso di rinforzo. Tuttavia, può anche essere che il dolore persistente e la disregolazione emotiva condividano meccanismi sottostanti simili (Linton,  2013 ). Ad esempio, il pensiero ripetitivo negativo, potrebbe operare come fattore transdiagnostico, vale a dire, fungere da driver per problemi emotivi e correlati al dolore (Flink et al.,  2013 ; Linton,  2013). Quando questa modalità di pensiero ripetitivo diventa una forma di problem solving inefficace, guida lo sviluppo di problemi emotivi e fisici (Eccleston & Crombez,  2007 ; Linton,  2013 ).

Nello specifico, lo stress associato all’esperienza del dolore cronico riduce il glutammato, un neurotrasmettitore eccitatorio, nella corteccia prefrontale mediale, con conseguente disregolazione emotiva. Questi risultati si allineano con modelli animali di dolore cronico, per cui meccanismi di stress come l’aumento dei livelli di glucocorticoidi con l’insorgenza di dolore cronico, portano a un declino del glutammato nella corteccia prefrontale mediale con conseguente cambiamento nei modelli di comportamento emotivo. Complessivamente, questi risultati dimostrano che i processi neurobiologici sono alla base della disregolazione emotiva nel dolore cronico.

Il dolore cronico presenta sfide costanti alla persona fibriomialgica, e necessita di adeguate strategie di coping. A causa di queste sfide costanti è probabile che in alcuni casi, l’adattamento flessibile delle strategie di coping al contesto fallisca o che, dopo continue sfide per affrontare il dolore cronico e/o problemi correlati, il soggetto non riesca a far fronte a queste sfide, con conseguente variabilità di emozioni negative (Solberg Nes et al., 2009).

Questi dati ci suggeriscono la possibilità di introdurre all’interno del trattamento di pazienti fibromialgici, l’apprendimento di abilità per migliorare la regolazione delle emozioni spesso inerenti alla presenza di dolore cronico.

Fibromialgia: i trattamenti indicati

Recenti ricerche, seppur limitate, hanno studiato l’applicazione della DBT (terapia dialettica comportamentale) su pazienti con dolore cronico, mostrando esiti positivi sulla riduzione dell’intensità del dolore insieme a minore disgregolazione emotiva.

La terapia comportamentale dialettica (DBT) è un tipo specifico di CBT sviluppato da Marsha Linehan, originariamente per individui altamente suicidi con elevata disregolazione emotiva per apprendere abilità nel gestire in modo più efficace le proprie emozioni. La DBT aiuta le persone a far fronte a pensieri ed emozioni dolorose, paurose, preoccupanti e negative, e ha dimostrato di alleviare i sintomi emotivi negativi negli individui che presentano alti stati emotivi. Nel contesto del dolore cronico, Linton ha mostrato in uno studio con una donna di 52 anni con dolore muscoloscheletrico cronico che la DBT riduce la disregolazione emotiva e l’intensità del dolore. Inoltre, in uno studio pilota con chi soffre di dolore cronico (n=6), un programma DBT di 8 settimane ha migliorato l’intensità del dolore e i sintomi di ansia e depressione.

Una componente fondamentale della pratica DBT basata sull’evidenza è la formazione delle competenze su diverse aree chiave, come la regolazione emotiva e la consapevolezza, per aiutare le persone a regolare in modo più efficace le cognizioni e le emozioni negative. L’addestramento alle abilità fornisce all’individuo la capacità di identificare i fattori scatenanti che stimolano gli stati emotivi negativi e di applicare le abilità di coping alla sequenza di pensieri, sentimenti e comportamenti avversi.

Attualmente non esiste un protocollo specifico di intervento alla fibromialgia. Il trattamento multidisciplinare è quello maggiormente privilegiato, in cui la terapia Cognitivo Comportamentale ha un ruolo centrale, includendo tecniche di trattamenti di terza generazione.

La complessità della fibromialgia necessita di porre attenzione ai vari aspetti della patologia optando per un trattamento che, a step, possa permettere di agire secondo i principali bisogni del paziente. In tutto ciò, acquisire abilità di regolazione emotiva e allo stesso tempo ridurre il dolore, può rappresentare una priorità al fine di migliorare la qualità della vita della persona.

L’ACT a supporto della genitorialità. La terapia dell’accettazione e dell’impegno per aumentare la flessibilità psicologica dei genitori di bambini ed adolescenti con patologie

In questo contributo viene presentata una sintesi delle più recenti revisioni sistematiche con le quali è stata valutata l’efficacia degli interventi basati sull’ACT a supporto di genitori di bambini e adolescenti in condizioni di particolare disagio.

 

Introduzione

I genitori di bambini che vivono una condizione di compromissione cronica della propria salute, dopo aver ricevuto la notizia di una diagnosi simile, affrontano situazioni molto complesse, come rischi medici correlati, regimi di trattamento impegnativi e compiti quotidiani molto articolati (Cousino e Hazen, 2013). Anche se alcuni genitori possono mostrare una maggiore resilienza di fronte a tali sfide, pur con un sostegno adeguato (Cousineau et al., 2019), le continue preoccupazioni per la salute e la vita futura dei loro bambini, l’ulteriore carico di cura o la perdita della propria libertà possono avere un impatto negativo, causando un disagio psicologico (Kazak, 1989) che, in alcuni genitori, si manifesta con alti livelli di depressione, ansia e stress (Couusino e Hazen, 2013; Pinquart, 2019). Il disagio emotivo può persistere fino a 5 anni dopo la diagnosi ricevuta, influenzando in maniera significativa il benessere dei genitori (Vrijmoet-Wiersma et al., 2008). Le difficoltà psicologiche negative sono correlate a comportamenti genitoriali disadattavi (Pinquart, 2013) e associate a condizioni peggiori per i bambini, compresi un incremento dei sintomi medici, emozioni negative e problemi comportamentali (Law et al., 2019). Studi recenti hanno associato un elevato distress psicologico dei genitori e comportamenti genitoriali disadattavi ad una bassa flessibilità psicologica (Chong et al., 2019; Corti et al., 2018). La flessibilità psicologica è un costrutto della Terapia dell’Accettazione e dell’Impegno (ACT – Acceptance anch Commitment Therapy) e si riferisce alla capacità di un individuo di accettare tutte le esperienze psicologiche, mentre ci si impegna in comportamenti basati su valori personali (Hayes et al., 2006). Da questo punto di vista gli eventi che caratterizzano la malattia di un bambino o i sentimenti negativi che ne derivano non sono problematici, ma sono malsani i tentativi di evitare o controllare queste esperienze, che rischiano di esacerbare il disagio psicologico e determinare comportamenti disadattavi (Hayes, 2006; Hayes et al, 1996). Ad esempio, i genitori di bambini con autismo possono evitare di partecipare ad eventi sociali a causa delle percezioni negative degli altri (Hahs et al., 2019); oppure i genitori di bambini con l’asma possono limitare i loro figli nelle attività fisiche o manifestare comportamenti iperprotettivi, nel tentativo di gestire o sopprimere il dolore psicologico associato alle difficoltà dei figli (Chong, 2018), invece di intraprendere comportamenti appropriati, sostenuti da azioni di valore. A differenza degli approcci cognitivo-comportamentali tradizionali, l’ACT pone un’attenzione specifica sui valori che aumentano la sostenibilità del cambiamento comportamentale, in quanto questo è guidato da azioni di valore, piuttosto che dall’evitamento di esperienze spiacevoli (Coyne et al., 2011). Per procedere in questa direzione è fondamentale incrementare la flessibilità psicologica attraverso i sei processi che costituiscono l’Hexaflex nell’ACT: accettazione, defusione cognitiva, contatto con il momento presente, sé come contesto, valori ed azione impegnata (Fletcher e Hayes 2005; Hayes 2016). Ogni processo può aiutare i genitori ad affrontare la difficile situazione che stanno vivendo. L’accettazione può essere usata per contrastare l’evitamento esperienziale; essa rappresenta una disponibilità attiva e consapevole degli eventi che incontriamo lungo il nostro percorso di vita, senza cercare di cambiarli (Hayes et al. 2012). La defusione cognitiva ci consente di considerare e trattare le esperienze intime (pensieri, emozioni, immagini) come semplici esperienze soggettive e non come realtà oggettiva. Essere in contatto con il momento presente significa orientare l’attenzione a ciò che sta accadendo nel momento presente, come sensazioni e stimoli esterni e interni. Sé come contesto significa essere in grado di fare un passo indietro e connettersi con il nostro osservatore interno, inteso come una parte di noi che è testimone di pensieri, sentimenti ed azioni, senza esserne intrappolati. Permette quindi di non essere invischiato in concetti sul sé, specialmente in quelli negativi (Fung et al. 2018). Per tali motivi, l’ACT potrebbe essere considerato un approccio promettente per i genitori di bambini che vivono particolari condizioni di disagio fisico e psichico.

In questo contributo viene presentata una sintesi delle più recenti revisioni sistematiche con le quali è stata valutata l’efficacia degli interventi basati sull’ACT a supporto di genitori di bambini e adolescenti in condizioni di particolare disagio. Nello specifico, sono state incluse 4 revisioni, di seguito riportate, identificate nelle banche dati PsycArticles, Psychology & Behavioral Sciences Collection, PsycInfo, PubMed, attraverso una ricerca effettuata usando i termini “Acceptance and Commitment Therapy” e “Parents” (per un approfondimento, ved. bibliografia).

  • “A systematic review of the use of acceptance and commitment therapy in supporting parents”, pubblicata da Gary Byrne, Áine Ní Ghráda, Teresa O’Mahony, Emma Brennan, il 13 Maggio 2020.
  • “Acceptance and Commitment Therapy for psychological and behavioural changes among parents of children with chronic health conditions: A systematic review” pubblicata da Xiaohuan Jin, Cho Lee Wong, Huiyuan Li, Jieling Chen, Yuen Yu Chong, Yang Bai, il 24 Febbraio 2021.
  • “A Systematic Review: Acceptance and Commitment Therapy for the Parents of Children and Adolescents with Autism Spectrum Disorder” pubblicata da Julie Juvin, Serine Sadeg, Sabrina Julien-Sweerts e Rafika Zebdi, il 26 Febbraio 2021;
  • “Acceptance and Commitment Therapy for Children with Special Health Care Needs and Their Parents: A Systematic Review and Meta-Analysis” pubblicata da Arpita Parmar, Kayla Esser, Lesley Barreira, Douglas Miller, Leora Morinis, Yuen-Yu Chong, Wanda Smith, Nathalie Major, Paige Church, Eyal Cohen e Julia Orkin, il 3 Agosto 2021.

Le revisioni sistematiche in sintesi: metodi di ricerca, obiettivi e caratteristiche del campione

La prima revisione sistematica, dal titolo tradotto “Una revisione sistematica dell’uso della terapia di accettazione e impegno nel sostegno ai genitori”, ha incluso 27 studi, comprendenti in totale 1155 partecipanti. L’intento è stato quello di individuare studi che si sono posti l’obiettivo di verificare l’efficacia della terapia ACT destinata a genitori di bambini ed adolescenti con differenti disturbi, per promuovere repertori di comportamento ampi e flessibili e per neutralizzare quei processi psicologici identificati come responsabili di molte delle sofferenze umane. I documenti sono stati identificati in 4 banche dati (Scopus, Psichinfo, Medline e Webof Science), individuando studi pubblicati fino al mese di Gennaio 2020 e l’analisi è stata svolta seguendo la dichiarazione Preferred Reporting Items for Systematic Review and Meta – Analysis (PRISMA – Moher et al., 2009). Undici degli studi hanno incluso interventi per genitori di bambini con disturbi del neurosviluppo, disturbi dello sviluppo neurologico o disturbo dello spettro autistico (40,7%). Altri sei studi hanno incluso genitori di bambini con dolore cronico (22,2%). Sette interventi si sono concentrati su genitori di bambini in pericolo di vita o con gravi compromissioni della salute fisica (25,9%) e due hanno incluso l’analisi dei disturbi di salute mentale dei genitori (7,4%). Uno studio si è concentrato specificamente sui disturbi d’ansia (3,7%). Gli autori hanno volutamente scelto di includere studi con un’ampia gamma di problematiche presentate, proprio per la peculiare caratteristica dell’ACT, quale modello transdiagnostico e quindi caratterizzato da una vasta applicabilità (Dindo et al., 2017). Diversi studi hanno confrontato l’ACT con un’altra forma di terapia: combinando l’ACT con la CBT; combinandola con il programma Stepping Stones Triple P (SSTP – Sanders, 2008) e confrontandola con il Triple P presentato singolarmente; combinando l’ACT all’Early Intensive Behavioural Interventions (EIBI – Rogers e Dawson, 2010) e confrontandola con l’EIBI sottoposto singolarmente. Altri studi hanno confrontato l’ACT con trattamenti generici, quali psicoeducazione, consulenza generale o anche con liste d’attesa. Un unico studio ha confrontato l’ACT individuale con l’ACT di gruppo. Per quanto riguarda il campione, la dimensione prevista è stata compresa tra i 3 ed i 193 soggetti. Solo sei studi hanno avuto campioni superiori a 50 partecipanti. La maggior parte degli studi (dieci) ha avuto luogo negli Stati Uniti; quattro sono stati condotti in Australia, tre in Svezia, due ciascuno in Iran, Canada e India; uno studio è stato condotto in Italia, uno in Giappone, uno nel Regno Unito e uno ad Hong Kong. La maggior parte degli studi ha riportato dei miglioramenti nella condizione di stress riportata dai genitori, nelle condizioni di depressione e di ansia. Dei miglioramenti sono stati identificati anche in alcuni processi tipici dell’ACT, quali la consapevolezza, l’accettazione e la defusione cognitiva.

La seconda revisione sistematica, dal titolo tradotto “La Terapia dell’Accettazione e dell’Impegno per i cambiamenti psicologici e comportamentali tra i genitori di bambini con patologie croniche: Una revisione sistematica” ha incluso 8 studi che hanno coinvolto 485 genitori. I database consultati sono stati 9 (MEDLINE, PubMed, Embase, Cochrane Library, CINAHL, PsychINFO, Web of Science, China National Knowledge Infrastructure and WanFang Data) e sono stati ricercati documenti fino all’Ottobre 2019. Altri articoli rilevanti sono stati ricercati su siti web di interesse, quale quello dell’Association for Contextual Behavioural Science. Tutti gli studi sono stati pubblicati dopo il 2014 e sono stati condotti in luoghi differenti: due in Australia, due in Iran, uno negli Stati Uniti, uno in Svezia, uno in Italia ed uno ad Honk Kong. Tale revisione ha mirato a valutare l’applicazione dell’ACT nei genitori di bambini in condizione di compromissione cronica della salute, sulla base di studi randomizzati controllati e di studi clinici controllati disponibili, e a valutare l’efficacia dell’ACT sulla flessibilità psicologica, sul disagio psicologico e sul comportamento dei genitori; le compromissioni croniche si riferiscono a qualsiasi condizione fisica, mentale, comportamentale che abbia una durata maggiore di tre mesi, che influenzi la normale attività di un bambino e per la quale è necessaria la richiesta di un intervento da parte dei servizi sanitari (Mokkink et al., 2008). Degli otto studi inclusi, uno si è rivolto a differenti tipologie di patologia cronica (diabete e menomazione funzionale); altri si sono concentrati su una singola tipologia, quali l’autismo, l’asma, la paralisi cerebrale, le lesioni cerebrali acquisite ed i problemi di udito. Degli otto studi, quattro hanno utilizzato l’ACT come trattamento indipendente per il gruppo sperimentale e la lista d’attesa o interventi generici (quali educazione, consulenza generale e follow up) per il gruppo di controllo; altri quattro hanno combinato l’ACT con diversi interventi specifici per la malattia, come l’educazione all’asma, lo Stepping Stones Triple P (SSTP) e l’Early Intensive Behavioural Intervention (EIBI). La maggior parte degli studi non ha utilizzato più di cinque sessioni per la presentazione di un intervento ACT e la durata degli incontri è stata di circa 1,5 – 2 ore. In tutti gli studi gli incontri sono stati svolti in presenza ed in gruppo, ad eccezione di un unico studio, che ha utilizzato una modalità a distanza. Relativamente ai risultati, l’efficacia degli interventi ACT è stata significativamente maggiore dei trattamenti generici, nel migliorare la flessibilità psicologica dei genitori nel post intervento e nei follow up di uno e sei mesi. Significativi sono stati anche gli effetti dell’ACT, nel ridurre il disagio psicologico (ansia, depressione e stress), rispetto ai trattamenti generici. Non è stata trovata una particolare significatività rispetto ai trattamenti SSTP e EIBI. Per quanto riguarda il miglioramento del comportamento genitoriale, l’ACT ha mostrato un effetto significativamente maggiore rispetto ai trattamenti generici ed alla lista d’attesa.

La terza revisione sistematica, dal titolo tradotto “Una revisione sistematica: Terapia dell’Accettazione e dell’Impegno per i genitori di bambini e adolescenti con un disturbo dello spettro autistico”, ha incluso 8 ricerche (condotte fino all’Ottobre 2020) individuate in 5 banche dati: PsychInfo, CINAHL, PubMed, Science Direct, e Psychology and Behavioral Sciences. Questa revisione ha indagato l’efficacia della terapia dell’accettazione e dell’impegno per i genitori di bambini ed adolescenti con disturbo dello spettro autistico, con l’obiettivo di fornire una migliore comprensione dell’utilità di tale intervento per i genitori che vivono una simile condizione. Nello specifico, i disturbi considerati sono stati: il disturbo autistico, la sindrome di Asperger e il disturbo pervasivo dello sviluppo non altrimenti specificato. Sette degli otto studi hanno previsto sessioni ACT di gruppo, un solo studio incontri individuali. La durata degli interventi è variata in maniera significativa, per cui gli otto studi sono stati divisi in due gruppi: “interventi lunghi”, che hanno compreso cinque ricerche nelle quali gli incontri sono stati svolti in diverse settimane, con un numero di sessioni che è variato dai i 4 ai 12 incontri e workshop durati tra i 90 minuti e le 14 ore; “interventi brevi”, nei quali sono rientrati tre studi con in media 2 workshop della durata di 2 ore ciascuno. Il campione è stato caratterizzato da un minimo di 3 ad un massimo di 42 soggetti; in cinque studi i partecipanti sono stati solo madri, mentre i tre studi rimanenti hanno incluso sia le madri che i padri. Sette degli otto studi hanno valutato l’impatto dell’intervento ACT sulla salute mentale dei genitori (stress, depressione, ansia e disagio psicologico); due studi hanno valutato il suo impatto su tratti di salute mentale come il locus of control e l’autocompassione; uno ha valutato l’impatto di avere un figlio diversamente abile in vari aspetti della vita (lavoro, relazioni sociali, tempo, spese, relazioni familiari); un altro ha valutato il benessere dei genitori dopo gli incontri, prendendo in considerazione la qualità della vita; infine, uno degli otto studi ha esaminato l’effetto dell’ACT sulla salute e sull’isolamento. In tutte le ricerche è stato esaminato quanto l’ACT fosse efficace nel miglioramento di uno o più dei sei processi dell’Hexaflex. In quattro studi su cinque, in cui è stata valutata la flessibilità psicologica, è stato registrato un miglioramento significativo; tre lavori hanno esaminato l’effetto dell’intervento sui valori ed in tutti è stato registrato un aumento significativo dell’importanza ad essi collegata, da parte dei genitori; nei due studi che si sono concentrati sull’evitamento esperienziale, c’è stata una diminuzione significativa tra il pre-test ed il post-test; quattro studi hanno indagato la fusione cognitiva ed in tre è stata registrata una significativa diminuzione della stessa; due studi si sono concentrati sulle abilità di mindfulness e solo in uno è stato registrato un miglioramento di tali abilità; in un solo studio è stata valutata l’autocompassione, registrandone il miglioramento. Per quanto riguarda gli effetti sulla salute mentale e sulla qualità della vita, in tutti gli studi si è registrata una diminuzione dei problemi psicologici rilevati (bassa autostima, scarso coping, somatizzazione, sintomi depressivi, stress ed ansia).

La quarta revisione sistematica, dal titolo tradotto “Terapia dell’accettazione e dell’impegno per bambini con bisogni sanitari speciali e i loro genitori: Una revisione sistematica e meta-analisi”, ha incluso 10 studi, da Gennaio 2000 ad Aprile 2021, attraverso una ricerca condotta nelle seguenti banche dati: PubMed, Web of Science, Ovid/EMBASE and PsycINFO. Dei 10 studi individuati, 7 hanno interessato interventi ACT orientati a bambini e 3 ai genitori. Data la specificità di interesse di questo contributo, sono state prese in considerazione le tre ricerche il cui gruppo sperimentale è stato composto dai genitori dei bambini nelle condizioni individuate. Nello specifico, in uno il campione è stato rappresentato da genitori di bambini con asma, in un altro da genitori di bambini con autismo e nel terzo da genitori di bambini con problemi di udito o sordità. Dei tre studi di interesse in questa sede, uno è stato condotto ad Honk Kong, uno negli Stati Uniti, uno in Iran. Tra i principali criteri di inclusione degli studi, è stata identificata una condizione fondamentale: l’ACT è stata somministrata in modo indipendente e non in combinazione con altre terapie ed interventi ed il gruppo di controllo ha previsto solo trattamenti generici o lista d’attesa. In tutti sono stati indagati i sei processi dell’Hexaflex, sintomi depressivi ed ansia, a distanza di una settimana dall’inizio della prima sessione per uno studio, di quattro settimane per il secondo, e sei mesi dopo l’intervento ACT per il terzo. I risultati hanno dimostrato un miglioramento significativo della flessibilità psicologica, ma non nei sintomi depressivi e nell’ansia.

Conclusioni

Le quattro revisioni sistematiche presentate hanno evidenziato l’utilità dell’ACT nel supportare i genitori nell’affrontare le difficoltà associate alla cura di un figlio con diverse patologie: autismo, dolore cronico, difficoltà fisiche, patologie croniche e bisogni sanitari speciali. Coerenti risultati indicano che l’ACT porta a miglioramenti della flessibilità psicologica, e quindi anche nell’adattamento alle sfide affrontate quotidianamente dai genitori. L’ACT può essere utile nel far fronte ad avversità ed eventi immutabili e per i quali c’è la necessità, da parte dei genitori, di accettare pensieri e sentimenti difficili, associati alla condizione dei loro bambini (Biglan et al., 2008; Losada et al., 2015); è ragionevole pensare che l’aumento dell’accettazione delle difficoltà dei loro figli non solo porta ad un miglioramento della loro salute mentale, ma anche della disponibilità ad accogliere il dolore dei bambini (Kemani et al., 2018). La relazione tra l’inflessibilità psicologica dei genitori e la salute dei loro figli può essere spiegata dal Modello dello Stress Familiare (Conger et al., 1992; Daks et al., 2020), che evidenzia che i fattori di stress esterni, come ad esempio la malattia di un bambino, possono influenzare direttamente il benessere del genitore; ciò influisce sulla loro capacità di prendersi cura del bambino stesso. I risultati hanno dimostrato una significativa efficacia dell’ACT rispetto alla lista d’attesa ed ai trattamenti standard, non solo nella flessibilità psicologica, ma anche nell’alleviare i sintomi psicologici depressivi, d’ansia e di stress dei genitori. Tuttavia i risultati sono da tutti considerati preliminari, essendo l’ACT una terapia relativamente nuova e trovandoci di fronte a studi ancora limitati, che non presentano procedure standard, ma che sono necessari poiché possono andare a sostenere le capacità di cura del genitore e, di conseguenza, la salute del figlio. In futuro, la ricerca dovrebbe essere volta a creare una procedura standard per il training ACT, per migliorare l’affidabilità e la validità. Potrebbero essere inclusi campioni più grandi in studi controllati, inserendo un numero adeguato di padri, oltre che di madri. La ricerca futura beneficerebbe anche di periodi di follow up più lunghi, per poter esplorare gli effetti sia a breve che a lungo termine. E si potrebbe condurre la nostra comprensione sugli effetti dell’ACT, non solo in relazione a trattamenti generici, ma anche ad interventi specifici, come la terapia cognitivo-comportamentale o la terapia di problem-solving o l’Applied Behavioral Analysis.

 

Analisi della psicologia di Will Hunting – Genio ribelle

Will Hunting è un film del 1997, con Matt Damon e Robin Williams. Il film ha come protagonista un ragazzo, un genio della matematica e una persona particolarmente acculturata, che ha conoscenze che spaziano dalla filosofia fino alla bio-chimica.

 

Anziché sfruttare il suo talento però, Will passa il suo tempo conducendo una vita frivola, fatta di litri di birra la sera, in compagnia degli amici e di lavori precari. È proprio mentre svolgeva uno di questi lavori precari, precisamente il manutentore presso il M.I.T. di Boston, che risolve un problema esposto pubblicamente come sfida agli studenti, ma decide di non palesarsi. Viene apposto un secondo problema e mentre Will lo risolve viene scoperto, inizialmente il suo gesto viene frainteso e interpretato come atto vandalico. Il professore Lambeau, che aveva affisso entrambi i problemi, una volta accortosi che in realtà Will ha risolto entrambi i problemi, cerca di reperirlo. Lo troverà partecipe di un udienza nei suoi confronti. Il professore Lambeau lo farà inserire in un programma di recupero supervisionato da lui. Dopo aver incontrato svariati psicologi che hanno gettato la spugna con lui, incontra lo psicologo Sean McGuire, interpretato da Robin Williams; come con gli altri psicologi, Will non ha alcuna intenzione di aprirsi e come ha sempre fatto si protegge con inconsci meccanismi di difesa. Un meccanismo di difesa, secondo la psicoanalisi freudiana, è una funzione propria dell’Io attraverso la quale l’io si protegge da eccessive richieste libidiche o da esperienze di pulsioni troppo intense che non è in grado di gestire direttamente. Il primo meccanismo che ci viene mostrato si manifesta con il rifiuto alla collaborazione; quando Will va dallo psicologo Sean si guarda intorno, osserva un punto debole del suo avversario e quando lo psicologo inizia a fare domande personali per ottenere gradualmente fiducia, Will cambia discorso. Questo meccanismo di difesa è detto Evitamento, ossia il soggetto fugge dalla fonte di angoscia, in questo caso dalla possibile creazione di un legame. Altri meccanismi di difesa li osserviamo nel colloquio di lavoro di Will e nella sua relazione con Skylar; nel colloquio con l’NSA (National Security Agencies) ci viene mostrato un meccanismo di difesa chiamato razionalizzazione, Will per non dover affrontare il problema costruisce delle ragioni basate sulla razionalità e sulla logica, e alla persona che stava facendo il colloquio risponde così:

Diciamo che lavoro all’N.S.A. e mettono sulla mia scrivania un codice che nessuno sa decifrare, e forse ci provo e magari ci riesco e sono fiero di me perché ho fatto bene il mio lavoro ma forse indica la località di un esercito ribelle in Nord Africa o in Medio Oriente. Ottenuta la località bombardano il villaggio dove i ribelli si nascondono, 1500 persone con le quali non ho mai avuto problemi restano uccise. Ora i politici dicono: oh spedite i marines a sorvegliare la zona perché non gliene frega niente, non ci sarà un loro figlio a farsi sparare come non c’erano loro quando era il momento perché erano in gita nella Guardia Nazionale, ci sarà un tipo di Southy a prendersi una sventagliata nel sedere, torna in patria per scoprire che la fabbrica in cui lavora è stata esportata nel paese da cui è arrivato e quello che gli ha sbridellato il culo ora sta al suo posto e lavora per 15 centesimi al giorno e non va mai a pisciare. Nel frattempo capisce che la ragione per cui l’avevano mandato a combattere era installare un governo che ci avrebbe venduto il petrolio a buon prezzo ed è chiaro che le compagnie hanno usato quella scaramuccia lontana per addomesticare i prezzi, un aiutino notevole per i loro profitti, ma non aiuta il mio amico a 2 dollari e 50 a gallone. Ci vanno con molta calma a reimportare il petrolio, magari si prendono fino anche un alcolizzato skipper a cui piace bere martini e fare pazzi slalom tra gli iceberg finisce che ne centra uno, sparge il petrolio e uccide la vita del Nord Atlantico e così il mio amico ora è senza posto e non può permettersi l’auto e va a piedi a fare i colloqui di lavoro e si sfrange perché la sventagliata nel sedere gli ha procurato le emorroidi, nel frattempo muore di fame perché ogni volta che cerca di mangiare la sola prospettiva è un merluzzo del Nord Atlantico intriso di petrolio salato. Allora cos’ho pensato? Mi conservo per qualcosa di meglio. Ci rifletto cazzo mentre aspetto perché non uccido il mio amico, gli frego il posto, lo do al suo peggior nemico, alzo i prezzi della benzina, bombardo un villaggio, ammazzo le foche, fumo hashish e vado nella Guardia Nazionale. Potrei essere eletto presidente.

Nella relazione con Skylar, Will assume più di un meccanismo di difesa, innanzitutto Will ha idealizzato la figura Skylar.

Will sostiene: «Si ma questa ragazza, insomma, è bellissima, intelligente, divertente, diversa dalle le altre con cui sono stato». Sean ribatte: «E allora chiamala, Romeo», al che Will replica: «Così mi rendo conto che non è poi tanto intelligente? Che mi rompe i coglioni? Si, insomma, ecco, questa ragazza, cazzo! È perfetta ora, non voglio rovinare questo».

Will proietta su Skylar una perfezione che non c’è, con lo scopo di nascondere l’aggressività che prova nei suoi confronti. Quando la relazione con Skylar si fa seria, lei gli propone di andare a vivere insieme in California, ma Will rifiuta accampando scuse, Skylar obbliga Will a vedere il reale problema ossia l’attaccamento di Will alla sua zona sicura.

«Beh, cos’è che non ti spaventa? Tu vivi nel tuo mondo tranquillo dove nessuno ti pungola e sei spaventato perché devi fare qualcosa che è diverso da quello che fai di solito» ma Will non è ancora pronto ad avere una catarsi perciò si allontana da Skylar con un freddo e brutale «Non ti amo più».

Questo in psicologia è noto come regressione ovvero l’Io per difendersi torna ad uno stadio precedente, poiché quello attuale provoca troppo dolore. Will regredisce all’ultimo stato in cui stava bene, ovvero di quando passava le serate a bere in compagnia dei suoi leali amici. Difatti solo quando il suo amico Chuckie lo sprona:

…Ah, non posso saperlo. Beh, ti dico quello che so. Ogni giorno passo a casa tua a prenderti con la macchina, usciamo, ci facciamo qualche birra, qualche risata, ed è fico. Sai qual è la parte migliore della mia giornata? Sono circa dieci secondi, da quando volto l’angolo fino a quando arrivo alla tua porta. Perché penso che magari arrivo là, busso alla porta e tu non ci sei più. Niente addio, niente arrivederci, niente. Sparito, via. Non so molte cose, ma questa la so.

Will abbassa le difese e, nel suo ultimo colloquio. Will ha la sua catarsi, che si manifesta in un pianto liberatorio tra le braccia del suo psicologo Sean, o meglio tra le braccia del padre che non ha avuto.

Will Hunting è un film che ti scuote anche se a tratti scontato e ti lascia il dubbio se Will sia felice, dopo aver soddisfatto le aspettative sociali che avevano verso di lui. Che l’io di Will, come scrive Anna Freud in L’Io e i suoi meccanismi di difesa, sia vittorioso: «L’Io è vittorioso quando le sue prestazioni difensive hanno successo, cioè quando riesce a limitare con il loro aiuto lo sviluppo di angoscia e dispiacere, ad assicurare all’individuo anche in circostanze difficili un godimento pulsionale, mediante le necessarie trasformazioni pulsionali, e a instaurare insieme, per quanto è possibile, un’armonia fra Es, Super-io e forze del mondo esterno

 

La pulsione aggressiva e la guerra in psicoanalisi (2021) di M. Rivardo e M. Muzio Treccani – Recensione

Il ruolo dell’aggressività viene posto in primo piano in La pulsione aggressiva e la guerra in psicoanalisi, che afferma come all’interno di un setting terapeutico, possa aver luogo una guerra, portata avanti con vigore narcisistico da parte del paziente che si nega alla guarigione.

 

Il testo di Muzio Treccani e Rivardo mette in evidenza l’importanza della decisione nella clinica psicoanalitica, laddove con questo termine si intende la scelta di mettere in discussione il disagio psichico e tutto quanto ha contribuito alla sua formazione e perpetuazione, accettando di modificare e lasciarsi modificare da una nuova alleanza- quella col terapeuta- che aiuti il paziente ad abbandonare i precedenti legami, e ad aprirsi con spirito di iniziativa ad un’esistenza fatta di significati nuovi, curiosi, e per questo indubbiamente coraggiosi.

La rassegna dei casi clinici presentati ha il sapore di un dialogo che gli autori fanno con i lettori, con i pazienti e anche con se stessi, cercando di ricomporre frammenti di esistenze che hanno perso la propria simmetria e  che, nel setting clinico, chiedono di ricevere una “nuova disposizione”.

Ma si tratta di una richiesta che non va esente da conflitti tormentosi. Emerge la presenza del no come resistenza aggressiva da parte di un paziente che, prigioniero nella propria immobilità, porta avanti una vera e propria battaglia contro l’analista, impedendogli di portare alla luce ciò che, a mezzo di controinvestimenti dolorosi, nasconde nelle trame dell’inconscio.

Il ruolo dell’aggressività viene posto in primo piano in un testo che afferma come all’interno di un setting terapeutico, non meno che in un campo di battaglia, possa aver luogo una vera e propria guerra, portata avanti con vigore narcisistico da parte del paziente che si nega alla guarigione, armato di quella coazione a ripetere che lo induce a perpetrare il sintomo (Freud, 1915-17; 1920; Green, 1983) nell’intento patologico di sedimentarne gli effetti, renderli irreversibili, pietrificarli fino a lasciarsene fagocitare.

Il profondo e spesso inconscio disagio per cui si accede alla terapia, rappresenta il frutto di una scelta il cui fine resta essenzialmente quello di proteggere il Sé da attacchi esterni. Il paziente si è condannato al dolore, e dunque alla patologia, soltanto per salvarsi. Si è identificato con l’aggressore, ha scelto di perpetuare l’esperienza traumatica in un dolore muto e pietrificante in cui l’aggressività ferina – rivolta alternativamente al Sé o all’altro – diventa l’unica alternativa per sopravvivere (Kernberg, 2016).

La grande decisione, sintetizzabile nella resa incondizionata alla patologia, diventa allora il frutto “necessario” di una sofferenza insostenibile. Una scelta dilemmatica in cui le alternative appaiono severamente dicotomiche: distruggere o lasciarsi distruggere. Ma la vittima è in ogni caso il Sé, e le storie cliniche lo dimostrano: l’aggressività endogena si scaglia contro il corpo, impedendogli l’evoluzione, la libera espressione, il processo trasformativo.

Ostaggio di un masochismo alternato a sadismo, il paziente prende a lottare contro tutti i possibili invasori del suo spazio, coloro che vogliono impedirgli di portare a termine una battaglia di cui la coazione a ripetere rappresenta al contempo l’arma e il vessillo. E la perseveranza patologica si esprime con l’ostinazione nella dipendenza, nel rifiuto del cibo, della novità, del miglioramento. Nel rifiuto dell’altro, e infine del Sé. Ma soprattutto, il paziente pervicacemente legato a Tanatos rifiuta il setting, per rimanere ostaggio di blocchi evolutivi che impediscono la revoca delle “grandi decisioni”, e condannano ad un destino di involuzione ed impotenza.

Il significato dell’arte nella decisione e nella resistenza

Il parallelismo con l’arte ricorre efficacemente in tutto il corpo del testo, divenendo una suggestiva metafora in grado di evidenziare quanto profondo sia il legame tra universo interiore ed espressione grafica, e quanto proprio quest’ultima, con le sue simbologie e le morfologie dense di significato psichico, costituisca -anche nel setting- un prezioso strumento di conoscenza.

Il riferimento al linguaggio espressivo si fa ancor più esplicito nell’ultima parte del testo, in cui vengono riportate storie di pazienti infantili le cui vicissitudini cliniche non trovano espressione soltanto attraverso lo strumento semantico, ma anche e soprattutto attraverso il linguaggio dei colori e delle linee.

È allora possibile vedere come, grazie all’immediatezza e alla genuinità dell’arte grafica, i disegni riescano a rendersi messaggeri dell’inconscia conflittualità tra la volontà di revoca e di prosecuzione della scelta, che nel bambino si rende ancora più tormentosa e inesprimibile.

Da questa guerra tutta interiore emergono esecuzioni grafiche in cui le linee traboccano di sofferenza, gli scarabocchi diventano ruvide espressioni di un’oppositività inconscia, gli spazi e gli orientamenti delle figure fungono da assetti di guerra, le asimmetrie nel foglio e le stesse lettere dell’alfabeto agiscono alla stregua di messaggi di attacco, mentre i colori e la pressione del tratto si trasformano in armi con cui portare avanti una battaglia tutta tesa alla difesa del proprio no. Un no narcisisticamente e inconsapevolmente legato a Tanatos, che disegna il miraggio di una salvezza laddove c’è soltanto distruzione (Green, 1983). Sono i casi nei quali la terapia non riesce a fare il suo corso, a disegnare quelle brecce salvifiche che feriscono sì, ma per recare beneficio. Come un balsamo sulla ferita.

Il coraggio della scelta

Il testo evidenzia come la guerra che il paziente deve portare avanti sia prima di tutto con se stesso, e come sia finalizzata a sconfiggere il no che lo sottrae al mutamento direzionale. Alla messa in discussione del prima, del mai, e dunque alla nuova decisione.

Da qui l’obbligo inesorabile della scelta: se continuare lungo il cammino dei propositi mortiferi, dolorosi ma rassicuranti perché ormai sin troppo noti; se aggrapparsi a quei meccanismi di difesa patologici che hanno limitato ma anche protetto dal proprio universo pulsionale e dal mondo esterno; se ostinarsi nel no e sottrarsi a quell’oggetto trasformativo che affascina ma fa anche tanta paura (Bollas, 1987)… O se al contrario cedere alla lusinghe di Eros e decidere di percorrere assieme al terapeuta una direzione nuova, incerta ma potenzialmente salvifica. Per convertire l’aggressività di morte in energia vitale.

È questa la grande scelta da compiere, prima e durante la psicoanalisi. E da qui in avanti trovare il coraggio di guardare le proprie incertezze, accettando di fronteggiare le conflittualità motivazionali che faranno del setting ora un luogo di salvezza ora una fonte di distruzione, e del terapeuta ora un generoso salvatore, ora un elemento persecutorio.

Il coraggio di trovare i luoghi della fobia e di lasciarli emergere- ( p. 165) è rappresentato efficacemente tramite il riferimento ad una tecnica pittorica mutuata dalla fotografia- il cliché-verre- incisione di un’immagine applicata su di un vetrino sporco di bitume, grazie alla quale la luce può penetrare l’oscurità creando un pregevole effetto visivo: “Il motto è dunque ora sia fatta luce. E così mi avvio lentamente verso il nuovo mondo della tonalità” (p. 173), sono le parole del pittore Klee, che nei suoi lavori ne faceva un largo impiego.

Tramutare il nero in bianco, portare la luce laddove c’è buio: la metafora evocativa di una luce che penetra l’oscurità di un vetro, e col suo apporto luminoso riesce a costruire autentiche immagini, richiama l’idea di un paziente che si affida all’Io ausiliario del terapeuta e gli consente di far luce nel suo mondo oscuro e inconoscibile, fendendo quelle difese, ostinate e aggressive, che costituiscono le sbarre di una prigione travestita di libertà.

Lo scopo, in pittura come in terapia, diventa allora l’avvento del bianco, nella cui dimensione ogni fragore si annulla, e il resto dei colori viene inghiottito per lasciare il posto ad un silenzio creativo e chiarificante che consente la fuga verso infinite nuove possibilità.

Costruito sul filo ambivalente di un disordine che, mentre si afferma ostinatamente, chiede di essere disconfermato, il testo di Rivardo e Muzio Treccani analizza la simbologia espressiva dei pazienti con coraggio e chiarezza, contribuendo a portare la luce laddove, in apparenza, sembra esistere la sola oscurità. L’espressione mortifera del no può così diventare, come nel vetro scuro di Klee, una fenditura significante in grado di sostituire il bianco di Eros al nero di Tanatos. In vista di una trasformazione, un’evoluzione pacificante e produttiva che in ogni guerra rappresenta la sola autentica vittoria.

 

Grima: una nuova emozione o un semplice riflesso?

I ricercatori si sono recentemente interessati al grima e, in un primo studio, si sono proposti di definire il grima, al fine di testare se vi fossero somiglianze anche rispetto ad altre espressioni emotive come il disgusto.

 

Alcuni stimoli uditivi, quei suoni acuti e striduli come il rumore del gesso, possiedono caratteristiche fisiche che innescano direttamente risposte avverse che, attualmente, non sono ancora state esplorate.

Mentre alcune lingue occidentali, come l’inglese, sembrano non avere un termine specifico per questa esperienza, gli spagnoli la definiscono grima.

Differenti approcci contemporanei considerano le emozioni come qualitativamente diverse l’una dall’altra. Da questo punto di vista, le emozioni di base sono associate a specifiche risposte fisiologiche e comportamentali. Di conseguenza, ogni emozione è un membro distinto della famiglia delle emozioni di base. Al contrario, le teorie dell’appraisal e l’approccio costruttivista mettono in discussione la visione delle emozioni come un repertorio limitato di categorie. Secondo le teorie dell’appraisal, è la valutazione dello stimolo emotigeno che consente di differenziare le emozioni (Ellsworth & Scherer, 2003). Si presume, così, che valutazioni diverse suscitino emozioni differenti (Roseman & Smith, 2001). Allo stesso modo, circostanze diverse possono provocare la stessa emozione quando sono generate dalla medesima valutazione sottostante.

Ulteriormente, secondo Russell, le emozioni non sono fenomeni unitari e oggettivi con una chiara definizione in termini di caratteristiche necessarie e sufficienti, ma un insieme di reazioni esperienziali, fisiologiche e comportamentali indipendenti – i cosiddetti “episodi emotivi” – (Russell, 2014) che possono verificarsi in alcune circostanze specifiche.

La ricerca sostiene l’ipotesi che il disgusto possa non essere un concetto unitario e omogeneo. Un recente studio di Han et al. (2015) ha mostrato che gli anglofoni usano la parola “disgusto” per riferirsi al disgusto rispetto al sangue, agli eventi sessuali inappropriati e alle violazioni morali. Al contrario, i coreani utilizzano questo concetto per riferirsi solo ad alcune di queste condizioni.

Nei casi in cui non esistono singole parole equivalenti per descrivere alcune esperienze emotive, le persone in alcune culture possono affidarsi a diverse espressioni colloquiali per riferirsi ad esse.

Uno studio preso in esame ha mostrato come questo sia il caso del termine grima utilizzato in spagnolo.

In un primo studio, gli autori si sono proposti di definire il grima, al fine di testare se vi fossero somiglianze anche rispetto ad altre espressioni emotive come il disgusto. L’obiettivo del secondo studio era esplorare il concetto quotidiano di grima, per poter evidenziare le sue caratteristiche più prototipiche. Inoltre, i ricercatori hanno analizzato se la differenziazione concettuale tra grima e disgusto, fosse supportata anche dalle risposte fisiologiche associate ad esse, come la frequenza cardiaca e la risposta di conduttanza cutanea (studio 3).

Nel quarto studio, gli autori hanno valutato se vi fosse una differenziazione tra grima e disgusto anche per ciò che concerne la loro regolazione. Per questo motivo, i ricercatori hanno chiesto ai partecipanti di formulare delle intenzioni di attuazione, dopo aver udito dei suoni grima-elicitanti (Gollwitzer, 1999). Si tratta di piani “se- allora” che specificano quando, dove e come un obiettivo stabilito dovrebbe essere messo in atto (“Se sento un suono grima-elicitante, allora lo ignorerò”). Esse si differenziano dalle semplici intenzioni di obiettivo, che definiscono gli stati finali desiderati dall’individuo (“Intendo ignorare il suono!”). La suddetta scelta si è basata sul fatto che la ricerca precedente abbia dimostrato come la formulazione di intenzioni di attuazione aiuti le persone a raggiungere i loro obiettivi in diversi domini, come la promozione di comportamenti desiderati o, ancora, come sia efficace nella regolazione delle esperienze emotive come il disgusto, la paura (Schweiger Gallo et al., 2009) e l’ansia (Varley et al., 2011).

Sulla base di questi risultati, gli autori hanno ipotizzato che, ammettendo che il grima fosse un’esperienza a sé stante, differente dal disgusto, i soggetti sarebbero stati in grado di regolare quest’ultima attraverso la formulazione di intenzioni di attuazione.

Infine, il quinto studio si è proposto di verificare se la reazione affettiva aversiva evocata da rumori acuti, sia concettualmente assimilabile ad altre reazioni aversive in quelle lingue che non possiedono un’unica etichetta linguistica specifica per descrivere tale esperienza.

L’esistenza di un termine specifico per questa reazione solleva una serie di domande teoriche interessanti: il grima è un’esperienza emotiva a sé stante o un semplice riflesso?

Gli studi analizzati hanno dimostrato come il concetto di grima differisca dal disgusto, sia per quanto riguarda i suoi tipici trigger, che per ciò che concerne le risposte fisiologiche.

Inoltre, i risultati del quarto studio hanno fornito una prova preliminare di come il grima possa essere regolato emotivamente. Difatti, i partecipanti a cui era stato chiesto di formulare delle intenzioni di attuazione sono stati in grado di ridurre selettivamente la reazione emotiva associata ai suoni acuti.

È interessante notare che gli anglofoni, i tedeschi e gli statunitensi non utilizzano un concetto analogo al grima (Studio 5) ma, nonostante ciò, sembrano riconoscere e usare i concomitanti fisiologici per riferirsi alla sua corrispondente reazione affettiva.

Dunque, l’esperienza aversiva etichettata come grima è una semplice riflesso? I riflessi sono tradizionalmente definiti come risposte semplici – e inevitabili – a specifici stimoli (Konorski, 1948). Si ritiene che essi non possano essere soppressi volontariamente, nonostante possano essere modulati da fattori come l’apprendimento (Lang et al., 1990). In linea con la ricerca sulla regolazione delle emozioni (Webb et al., 2012), i risultati del quarto studio suggeriscono che il grima possa essere regolato formando intenzioni di attuazione e, di conseguenza, potrebbe non essere considerato un riflesso. Un supporto indiretto all’ipotesi che il termine spagnolo grima si riferisca a un’esperienza emotiva piuttosto che a un riflesso, può essere trovato anche nel secondo studio dove si è visto come il grima possa essere suscitato da diversi stimoli e sembri coinvolgere anche processi cognitivi. Quindi, se accettiamo che le emozioni richiedono valutazioni cognitive, il grima non può essere considerato come un semplice riflesso o un insieme di risposte corporee.

Tuttavia, al fine di poter sostenere con fermezza che il grima sia un’emozione a sé stante, saranno necessari ulteriori studi.

Un segmento educativo: il nido

Al nido l’esperienza di ambientamento si costituisce come una situazione complessa di vissuti e relazioni interpersonali che lega educatore, genitori e bambino.

 

Dall’accudimento del bambino alla cultura per l’infanzia

I servizi per la prima infanzia (da 0 a 3 anni), nati con finalità custodialistiche e assistenziali, iniziano a essere pensati in Italia come educativi solo a partire dagli anni Settanta, periodo che ha contrassegnato lo sviluppo delle politiche sociali. È in questo contesto che viene approvata la legge n.1044 del 1971 che sancisce, per la prima volta, l’impegno da parte dello Stato a intervenire nell’educazione della prima infanzia, tradizionalmente delegata alla famiglia e in particolare alla donna. Nata, soprattutto, sotto la pressione dei movimenti femministi e in concomitanza con l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro, la legge che istituisce gli asili nido, evidenzia ancora un’impronta assistenziale, in quanto individua nella madre il soggetto principale, lasciando in secondo piano i bisogni psicologici del bambino e le potenzialità educative del servizio. Infatti, negli anni di iniziale costituzione degli asili nido, “sembra che la consapevolezza dei bisogni educativi del bambino da 0 a 3 anni fosse del tutto assente, nella legge n.1044/1971 si contempla che << il nido ha lo scopo di provvedere alla temporanea custodia del bambino per facilitare l’ingresso della donna al lavoro >> (art.2): il bambino non compare” (Bondioli, Mantovani, 1987). Nel corso del tempo, le diverse esperienze di asilo nido hanno consentito un’idea sempre più chiara nel definire appropriate soluzioni organizzative e nuovi modelli educativi, pertanto, l’intento del nido in quanto servizio non è stato solo quello di costruire strutture, ma “di inventare la loro qualità attraverso una organizzazione interna, di curarne la promozione, di riflettere sulle migliori forme di intervento pedagogico, di garantire agli operatori una formazione adeguata” (Ghedini, 1987). Gli anni Settanta sono stati quindi per l’asilo nido anni di approfondimento, di dibattito culturale e di ricerca, dai quali è emerso un preciso quadro teorico sullo sviluppo infantile che ha reso ipotizzabile, per i più piccoli, interventi formativi al di fuori della famiglia. “Si giunge, infatti, a una immagine nuova del bambino, attivo fin dalla nascita, con competenze sociali precoci, capace di stabilire relazioni significative con figure diverse da quelle familiari e con i coetanei, relazioni che hanno una funzione importante per le attività mentali” (Ugazio, 1993). In altri termini, l’infanzia inizia ad affermarsi come un periodo della vita dotato di potenzialità che necessitano di contesti adeguati per emergere, e il nido a connotarsi come “servizio educativo e non, come luogo di custodia” (Savio, 2015).

Gli strumenti dell’azione educativa

Ambientamento

Il concetto di bambino competente, che emerge dall’esperienza quotidiana dei servizi dedicati alla prima infanzia, ha consentito un’evoluzione terminologica in base alla quale “inserimento” è stato sostituito da “ambientamento”. Nello specifico, il termine “inserimento” richiama l’idea di includere un elemento nuovo in un insieme già completo/compiuto, all’interno di un’organizzazione che tiene, prevalentemente, conto del ruolo dell’educatore per favorire l’entrata al nido del bambino (Mantovani, Saitta, Bove, 2000). Il termine “ambientamento” invece sembra essere più adatto a indicare un’esperienza particolarmente significativa che vede sulla scena: diversi attori, ambiente nuovo, adulti nuovi, bambini nuovi, che progressivamente entreranno in relazione, aggiustandosi vicendevolmente, in un tempo e in uno spazio da costruire su bisogni differenti (Restiglian, 2018). Nello specifico, l’esperienza di “ambientamento si costituisce come una situazione complessa di vissuti e relazioni interpersonali che lega educatore, genitori e bambino, come un processo emotivo e psicologico che consente il passaggio dalla relazione madre-bambino a uno spazio comunicativo più allargato in cui più interlocutori agiscono”, con modalità diverse, “assecondando il percorso di separazione tra madre e bambino, allargando la dimensione relazionale e influendo su questo momento transitorio” (Galardini, 2010). Ed è proprio per questo che, come la presenza del genitore al nido insieme al bambino diviene essenziale, in quanto facilita la separazione e media una realtà sconosciuta, allo stesso modo, la capacità dell’educatore di osservare la relazione madre bambino risulta di primaria importanza nel percorso di ambientamento. In altri termini “le interazioni madre-bambino realizzano una drammatizzazione che rivela il copione” (Cramer,1992), e secondo Restuccia Saitta (2018), l’educatore dovrà leggere correttamente tale copione per potersi inserire nella relazione senza intrusività alcuna, evitando di suscitare resistenze e opposizioni da parte del bambino o gelosie e sentimenti di rivalità nella madre.

Routine

Routine è un termine francese che indica un’abitudine e il suo ritmo monotono e ripetitivo. Al nido, con tale termine, si indicano i momenti che si ripetono nel corso della giornata in modo costante, individuati a livello “biologico”, nel cambio, nell’igiene, nel pasto, nel riposo; “organizzativo”, nell’accoglienza e nel ricongiungimento; “funzionale”, nell’organizzazione degli spazi e nella gestione dei materiali (Restuccia Saitta, 2018). Storicamente, le routine sono state connotate da modalità assistenziali, in quanto ci si focalizzava solo su aspetti igienico-sanitari che occupavano gran parte della giornata, costringendo il personale ad acquisire il ruolo di sostituto della madre senza alcuna connotazione educativa. Ad oggi, invece, “le routine costituiscono veri e propri contenitori spaziali e temporali entro i quali i bambini si riconoscono e si ritrovano”, stabiliscono relazioni e si avviano allo sviluppo di competenze e alla conquista dell’autonomia. Esse scandiscono i tempi della giornata al nido e non possono essere intese in senso meccanicistico, poiché proprio la ripetizione di determinate azioni permette ai bambini di comprendere la realtà che li circonda e di controllarla, attraverso l’abitudine al fare; non si tratta di comportamenti standard stabiliti, ma adattati ai ritmi e allo stile del bambino. Non sono azioni volte solo al soddisfacimento di bisogni primari, ma sono da intendersi come gesti di cura, di sostegno fisico e psichico, pensati per soggetti non ancora autonomi e in fase di adattamento al nuovo contesto e, soprattutto, finalizzati allo sviluppo percettivo, comunicativo, cognitivo, relazionale ed emotivo-affettivo (Restiglian, 2018).

Tempi

Le diverse esperienze al nido evidenziano che, soprattutto nella fase di ambientamento, i tempi personali dei bambini vengono considerati riservando una precisa organizzazione degli orari, che continua per i più piccoli, ma che per gli altri converge in una dimensione comunitaria, entro la quale ciascuno rispetta i tempi dell’altro. In altri termini, è importante che tutti i bambini “arrivino a determinati apprendimenti e che il nido riesca ad assecondare i ritmi personali di ciascuno, nel rispetto delle differenze” (Restiglian, 2018).

Spazi e attività

Il nido è un luogo in cui il bambino è stimolato e incoraggiato al fare, pertanto la predisposizione degli spazi non solo deve essere pensata con intenzionalità educativa, ma soprattutto deve rispettare le diverse attività proposte, promuovendo l’utilizzo di materiali diversi. Il bambino, secondo Musatti (2010), è “sintonizzato” su ciò che accade nell’ambiente, e tale meccanismo gli consente di porre attenzione a ciò che fanno gli altri, traendo stimoli anche per la propria attività. La qualità del contesto determina la direzione di questo meccanismo, di conseguenza gli spazi non possono ostacolare i percorsi di conoscenza e scoperta, così come non possono essere dispersivi o stressanti, cioè con rumori di fondo e confusione. Inoltre, “il bambino ha bisogno di luoghi circoscritti in cui sentirsi rassicurato e protetto, luoghi “tana” in cui può scegliere di stare da solo o con gli altri per riposarsi, giocare, parlare e in cui lasciare e ritrovare le proprie tracce” (Restiglian, 2018). Anche i materiali devono rispondere a precisi criteri quali “la funzionalità, la praticità, l’igiene, la sicurezza e la bellezza”, di fatto, la scelta del materiale, la modalità con la quale viene messo a disposizione e l’utilizzo orientano l’attività del bambino (Stradi, 2000).

Sezioni

La sezione (Bortoletto, 2018) è lo spazio entro il quale il bambino può esprimere il proprio essere, condividendo esperienze e routine con il gruppo. Al suo interno si trova la zona dedicata all’igiene, al pranzo, al riposo, alle attività in piccoli gruppi; infatti, per consentire al bambino di sentirsi libero di esplorare e di esprimersi attraverso tutti i linguaggi del corpo, è indispensabile organizzare questi spazi in angoli o atelier.

Doverosa a questo punto la differenza con il “laboratorio”, in cui l’educatore si aspetta determinati risultati sulla base dei materiali predisposti e degli obiettivi prefissati in un ambito inizialmente individuato (Restiglian, 2018). L’“atelier” invece, “è un luogo in cui il bambino diventa protagonista” (Padoan, Paperini, 2010); costituisce, secondo il Reggio Approach di Malaguzzi, “la possibilità quotidiana di avere più punti di vista e dove il bello, la scelta estetica, non vengono considerati un optional ma una necessità del pensare del vivere” (Vecchi, 2010); definisce un contesto che stimola il bambino a produrre, offrendo materiali e presentando tecniche, ma lasciandolo libero di seguire la sua creatività e la sua curiosità.

Non ci sono quindi “obiettivi prefissati, quanto piuttosto un coinvolgimento personale e intenzionale del bambino che conduce a una sua scoperta individuale”, evidenziando il proprio “bagaglio di conoscenze e ragionamenti, con i quali cerca di dare risposte a teorie da lui stesso elaborate”. In tal senso, l’attenzione si orienta al processo “del fare”, connotato dal piacere e dal gusto estetico, anziché all’obiettivo così come stabilito e atteso (Restiglian, 2018).

Inoltre, nel sottolineare l’importanza dei tempi nel processo evolutivo dei bambini, secondo Bortoletto (2018), è necessario che l’organizzazione degli spazi/sezione segua una distinzione tra lattanti, al cui interno è previsto un gruppo di bambini che ancora non deambula, semi-divezzi e divezzi; sezioni composte invece da gruppi di bambini che hanno raggiunto una certa autonomia fisica e di movimento, tale da poter esplorare lo spazio in tutte le sue parti. L’educatore, osservando il gruppo e individuando i bisogni che naturalmente evolvono durante il processo di crescita, modificherà la composizione e la disposizione degli angoli, proponendo un ambiente sempre ricco di stimoli, utili al loro sviluppo sociale, cognitivo e motorio.

In altri termini, la complessa strutturazione di una sezione al nido è il risultato di un’efficace “osservazione”, di una continua e attenta “offerta di stimoli e di situazioni di gioco libero e strutturato”, di una necessaria “capacità di comprendere quando per il bambino è indispensabile giocare da solo e quando invece ha bisogno di un co-attore”, ossia dell’educatore, “che lo accompagni in esperienze diverse e in nuove ricerche” (Bortoletto, 2018).

Famiglia e nido

I rapporti tra famiglia e nido si sono modificati nel tempo, con modalità diverse: da un’iniziale partecipazione sociale a un coinvolgimento al progetto educativo, sino a giungere, ad oggi, a un’attiva collaborazione alla vita del nido.

“Il dialogo con la famiglia non deve essere a corrente alternata ma a corrente sistemica cioè a corrente forte” (Malaguzzi, 1991).

Il bambino è affidato al servizio nido, in un momento delicato della sua crescita nel quale la famiglia ha un ruolo imprescindibile; pertanto diviene fondamentale la conoscenza del sistema famiglia al fine di predisporre e strutturare, una qualsivoglia azione educativa.

“Per educare un bambino è necessario […] trovare tempo e spazio […] per i genitori e con i genitori” (Milani, 2008).

Ciascun bambino, possiede caratteristiche proprie che lo rendono unico e diverso dall’altro; pertanto valorizzare il sapere dei genitori, attraverso il riconoscimento della loro esperienza, consente di adeguare e/o migliorare il proprio agire educativo. “Dal sapere dell’esperienza, nasce il sapere della cura” (Zucchi, 2018).

In altri termini affidare un bambino alle cure di un servizio esterno alla famiglia, nonostante le convinzioni sulla positiva funzione educativa, non è una scelta semplice; è infatti il primo incontro che la famiglia realizza in un contesto sociale esterno. “Aspettative, ansie e sentimenti contradditori nascono dall’inevitabile conflitto tra la volontà di affidare il bambino e il timore di perdere qualcosa durante la temporanea separazione”. Diviene dunque necessaria la consapevolezza che “accogliere un bambino al nido significa accogliere anche una famiglia con le sue peculiarità”, di fatto “ogni intervento non si esaurisce nel solo ed esclusivo rapporto con il bambino, ma si colloca in una dinamica relazionale che coinvolge la madre e il padre e il tipo di relazione che questi hanno con il proprio figlio” (Galardini, 2018).

Il nido in quanto segmento educativo

Un servizio nido non è intrattenimento, ogni azione educativa proposta è il risultato di un’attenta, puntuale e sistematica osservazione e si connota di intenzionalità, in quanto focalizzata esclusivamente sul bambino. Essa, in termini di progettazione, diviene elemento indispensabile per l’educatore, che, partendo da ipotesi non definite a monte, ma risultanti dalla conoscenza del contesto in essere, traduce i suoi saperi, adeguandoli alle competenze del bambino, alla sua età, alla sua storia, ai suoi bisogni e alle sue caratteristiche individuali. In altre parole, il bambino diviene protagonista in un ambiente piacevole, rassicurante e favorevole all’acquisizione di conoscenze e di competenze, attraverso routine pensate e strutturate ad hoc. Ed è proprio rispetto all’acquisizione di conoscenze e competenze che il nido pone le basi per il successivo percorso formativo alla scuola dell’infanzia. “Significa, quindi, pensare al nido come segmento educativo” (A.de Gaetano, 2020)

 

Social skills e caregiving: migliorare il processo di cura e assistenza, la relazione ed il benessere soggettivo

I caregiver socialmente responsabili con buone capacità interpersonali tendono ad avere una qualità superiore di vita rispetto ai caregiver con un repertorio limitato di abilità sociali.

Annalisa D’Errico – OPEN SCHOOL, Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Mestre

Cosa s’intende per caregiver e caregiver burden?

La parola caregiver deriva dalla lingua inglese e letteralmente significa “colui che presta le cure”. Si possono distinguere due tipologie di caregiver: informale, si identifica normalmente con un famigliare del paziente (più frequentemente un figlio o un coniuge) o altre volte può essere un amico; formale, si identifica con un professionista come il medico o l’infermiere. In generale, dunque, colui che viene riconosciuto come caregiver assume il ruolo di responsabile attivo nella presa in carico di un secondo individuo, e si impegna inoltre a svolgere una funzione di supporto e cura nei confronti di una persona che si trova in condizione di difficoltà. Nel caso del caregiver informale quindi, colui che all’interno di un nucleo famigliare si assume il compito principale di cura e assistenza, va a rivestire un ruolo fondamentale nella storia della malattia del proprio caro (Fasinelli, 2005).

Il termine caregiver burden è un concetto multidimensionale riferito all’impatto complessivo che il carico assistenziale di un malato comporta sul benessere di tipo fisico, psicologico ed emozionale del caregiver; comprende inoltre disagi di ordine sociale e finanziario. Zarit e colleghi (1980) lo hanno definito come: “La misura in cui i caregiver percepiscono che il caregiving ha avuto un effetto negativo sul loro funzionamento emotivo, sociale, finanziario, fisico e spirituale”. Questa definizione sottolinea il pedaggio multidimensionale che l’assistenza può avere sugli operatori sanitari e sui familiari e anche che il caregiving è un’esperienza altamente individualizzata.

In molti Paesi le famiglie sono chiamate ad erogare un’assistenza sempre più complessa ai congiunti malati. I trattamenti migliori e che hanno prolungato la durata della vita della maggior parte dei pazienti con malattie croniche, sono quelli che hanno richiesto il coinvolgimento del caregiver (Given et al., 2001). Tale pratica richiede un livello di conoscenze e capacità assistenziali senza precedenti a persone estranee all’ambiente sanitario (Barg et al., 1998). Benché le abilità richieste ai familiari in varie situazioni cliniche siano state descritte (Grobe, 1981), e anche gli interventi atti ad accrescerle (Archbold et al., 1995), le abilità di caregiving familiare non sono ancora state sviluppate formalmente come concetto. Lo sviluppo concettuale delle abilità di caregiving familiare è essenziale nell’era attuale dell’assistenza. Poiché le famiglie diventano sempre più responsabili dell’assistenza a propri membri gravemente malati, gli interventi destinati ad assisterle devono fondarsi su basi teoriche solide.

Molti caregiver familiari riferiscono di non avere le competenze e le conoscenze necessarie per fornire assistenza continua a una persona malata, quindi mancano di fiducia e si sentono impreparati. I caregiver dicono di ricevere poche indicazioni da parte dei professionisti, che non hanno familiarità con il tipo e l’importo di cure necessarie e che non sanno come fare per accedere e utilizzare le risorse. Tutto ciò, compresi i sentimenti di incertezza, contribuiscono alla loro angoscia.

Sono disponibili poche informazioni sulle conoscenze e le abilità di cui i caregiver familiari hanno bisogno per fornire assistenza o su come le loro conoscenze e abilità influiscano sull’assistenza. La maggior parte degli studi non organizza o classifica gli interventi in base ai compiti dei caregiver o alle conoscenze e abilità di cui hanno bisogno, ma queste informazioni sono vitali per pianificare e attuare interventi che li aiuteranno. I concetti di padronanza, preparazione e competenza sono stati considerati come componenti necessarie per un processo decisionale efficace e per la risoluzione dei problemi da parte dei caregiver familiari (Archbold et al., 1995), ma il sistema di cura formale ha prestato poca attenzione a queste componenti.

La capacità del caregiver familiare di fornire assistenza di qualità e contribuire alla gestione delle malattie croniche è una risorsa sanitaria vitale. Gli operatori sanitari dovrebbero essere di supporto a caregiver familiari e aiutarli ad acquisire conoscenze e competenze al fine di massimizzare la qualità della cura. I professionisti devono aiutare i caregiver familiari a sviluppare capacità di problem solving, organizzazione e capacità di comunicazione.

Social skills e caregiving

Il caregiving comporta richieste di abilità sociali che possono contribuire a minimizzare i conflitti e massimizzare la qualità della vita dei caregiver, dei pazienti e di altre persone coinvolte nel contesto assistenziale. Nonostante la mancanza di studi sulle abilità sociali di chi si prende cura, ricerche condotte in altri contesti indicano che le persone con abilità sociali ben sviluppate, hanno maggiori probabilità di stabilire relazioni di buona qualità, portando a una salute e ad un benessere migliore (Bandeira, 2014; Lima, 2014; Pinto &Barham, 2014). Il concetto di abilità sociali si riferisce a comportamenti che esistono nel repertorio di un individuo e che vengono utilizzati in interazioni con altre persone (Del Prette & Del Prette, 2013).

Una persona socialmente competente in un ruolo professionale, potrebbe non essere altrettanto competente nel contesto dell’assistenza e della cura e viceversa. Le abilità sociali coinvolgono varie classi di comportamento sociale, tra cui: espressione di sé, capacità di coping, espressione delle emozioni positive, comunicazione assertiva, stabilire nuove relazioni o adattarsi a nuove situazioni e controllare le reazioni aggressive. In termini di prove riguardanti l’importanza di abilità sociali nei caregiver, i ricercatori hanno dimostrato che i caregiver socialmente responsabili con buone capacità interpersonali tendono ad avere una qualità superiore di vita rispetto ai caregiver con un repertorio limitato di abilità sociali (Bandeira et al., 2014; Pinto &Barham, 2014).

Per essere socialmente competenti, i caregiver potrebbero aver bisogno di usare un maggiore autocontrollo per evitare di reagire in modo aggressivo ad ostilità da parte dell’altra persona, per identificare i fattori che contribuiscono al problema e calmare l’altra persona e se stessi, in modo che possano decidere il modo migliore per risolvere il problema. A seconda dell’eccitazione emotiva delle persone durante un conflitto ed errori di attribuzione causale, basati su storie familiari, il caregiver potrebbe non essere in grado di analizzare il problema e pensare subito alle soluzioni migliori. Come alternativa, ritirarsi dal conflitto e tornare al problema dopo il tempo di riflessione può essere più efficace, oppure una risposta socialmente più adeguata. Anche le abilità sociali, così come i comportamenti disadattivi (come evitare contatti sociali, non esprimere opinioni, attaccare le idee degli altri), sono comportamenti appresi (Del Prette & Del Prette, 2008, 2013). I comportamenti disadattivi possono anche generare risultati positivi, ma a breve termine, come ridurre l’ansia dei caregiver e frustrazioni momentanee (Gresham, 2010), ma questi comportamenti non portano a soluzioni a medio o lungo termine.

In due studi sugli effetti della formazione sulle abilità sociali per i caregiver di persone anziane (Robinson, 1988; Robinson & Yates, 1994), le persone che hanno partecipato a programmi di formazione hanno dimostrato comportamenti socialmente più competenti nella loro vita quotidiana. Quindi, sembra che buone abilità sociali, che si traducono in comportamenti socialmente competenti, possono influenzare positivamente il benessere di chi si prende cura degli anziani e la qualità delle loro relazioni interpersonali. Tuttavia, c’è ancora poca informazione su questo contesto. Questo studio mirava ad identificare i principali conflitti coinvolti nel caregiving, per identificare le abilità sociali considerate importanti quando si ha a che fare con questo compito, che aiutano a ridurre al minimo i conflitti.

Quindi, possiamo concludere dicendo che ci sarebbe la necessità di individuare le esatte abilità sociali atte a migliorare il processo di caregiving e fornire una solida base teorica. Ciò avrebbe ripercussione anche sugli interventi professionali che hanno l’obiettivo di aumentare le abilità sociali nei caregiver avendo impatto positivo non solo sulla persona stessa, ma anche sulla relazione con il proprio caro e sulla patologia, aumentando la qualità di vita, migliorando quindi il processo di cura e assistenza, la relazione ed il benessere soggettivo.

 

Disturbo dell’orgasmo femminile: quanto ne sa la scienza? – FluIDsex

Il disturbo dell’orgasmo femminile viene classificato all’interno del DSM-5 (APA, 2013) nell’area nosografica delle disfunzioni sessuali.

 

Tutti i disturbi classificati all’interno di quest’area sono caratterizzati da un’anomalia nel processo che comporta il ciclo di risposta sessuale, o sono caratterizzati da un dolore associato al rapporto sessuale.

Il disturbo dell’orgasmo femminile viene definito dal DSM-5 (APA; 2013) come un marcato ritardo, o addirittura l’assenza, del raggiungimento dell’orgasmo in una normale fase di eccitazione sessuale. Questo tipo di disturbo viene considerato tale se la donna presenta una difficoltà nel raggiungimento dell’orgasmo anche con la masturbazione. Inoltre questo disagio deve perdurare per almeno 6 mesi ed essere clinicamente significativo.

Diversi studi mostrano come la difficoltà orgasmica colpisca il 16-28% delle donne negli USA, in Europa, nell’America centrale-meridionale, arrivando fino al 46% nella Cina continentale e in altri paesi asiatici (Laan et al., 2013; Zhang et al., 2017).

Questa difficoltà può dipendere da diversi fattori tra cui l’età e lo stato ormonale della donna, la salute e la sua esperienza sessuale. È inoltre importante tenere in considerazione la qualità del rapporto sessuale; in particolare se la stimolazione è adeguata durante l’attività sessuale, se l’attività sessuale è svolta in coppia o meno, e considerare la natura della relazione diadica (ad esempio, se il rapporto sessuale è occasionale o se avviene all’interno di una relazione continuativa) (Armstrong et al., 2012; Smith et al., 2014).

Il disturbo dell’orgasmo femminile può essere classificato in base al momento di insorgenza del disturbo: viene definito permanente se la donna non ha mai sperimentato un orgasmo né da sola, né con il partner con qualsiasi tipo di stimolazione; è acquisito, se invece la donna ha sviluppato il disturbo dopo aver provato l’orgasmo in passato. Questo disturbo, inoltre, può essere “generalizzato” se l’impossibilità di raggiungere l’orgasmo si ha in ogni contesto, oppure viene definito “situazionale” se la difficoltà si presenta solo in determinate situazioni (APA, 2013).

A causare il disturbo dell’orgasmo femminile sono coinvolti diversi fattori fisiologici, neurologici e psicosociali. Disfunzioni muscolari del pavimento pelvico, cambiamenti ormonali causati ad esempio dalla menopausa o da contraccettivi ormonali, malattie croniche come il diabete o la sclerosi multipla o lesioni ed interventi chirurgici che colpiscono i nervi (Meston et al., 2004).

Da un punto di vista clinico, per una donna che soffre del disturbo dell’orgasmo è importante indagare anche il contesto sociale e le sue esperienze di vita, questo perché divieti culturali o religiosi, atteggiamenti negativi verso il piacere sessuale, mancanza di informazioni sulla sessualità o esposizioni ad abusi o esperienze sessuali traumatiche potrebbero aver contribuito all’insorgenza sintomatologica di questo disturbo (Heiman & Lo Piccolo, 1988; Meston et al., 2004).

Alcune donne che sperimentano difficoltà a raggiungere l’orgasmo, o addirittura non lo hanno mai raggiunto, mostrano ansia e vergogna associate all’insoddisfazione per i propri rapporti sessuali. Tali condizioni psicologiche risultano essere l’effetto dell’anorgasmia, ma, in una sorta di circolo vizioso, sono considerate anche alcune delle cause di tale disturbo (Meston et al., 2004; Laan et al., 2013; Tavares et al., 2018).

Personalità e difficoltà nel raggiungere l’orgasmo

Diversi studi (Bridges et al., 1985; Loos et al., 1987; Mah & Binik, 2001; Harris et al., 2008) hanno inoltre mostrato come la difficoltà nel raggiungimento dell’orgasmo sia associata a particolari tratti di personalità come il bisogno di controllo e la paura di perderlo, emozioni represse, maggiore dipendenza dall’altro, apprensione e negatività, instabilità emotiva e il non essere aperti a nuove esperienze. Tavares e colleghi (2018) hanno valutato il ruolo di personalità, inibizione ed eccitazione sessuale, e delle credenze sessuali nel predire il verificarsi dell’orgasmo femminile. È emerso che la personalità non gioca un ruolo significativo nella regolazione dell’orgasmo femminile, ad esclusione del tratto di estroversione, che ha una relazione positiva con la frequenza dell’orgasmo. Inoltre, è emerso che l’inibizione sessuale associata alla paura del fallimento della prestazione predicono negativamente l’orgasmo femminile.

Si può dire quindi che oltre ai fattori organici, ad influenzare lo sviluppo di questo disturbo siano coinvolti anche fattori socioculturali, emotivi e psicologici che interessano donne di tutte le età.

In un altro studio del 2019 (Gruenwald et al.) si sono indagati i possibili deficit sensoriali nelle donne con disturbo dell’orgasmo femminile.

Deficit sensoriali e disturbo dell’orgasmo femminile

I risultati della ricerca hanno mostrato come le donne con disturbo dell’orgasmo femminile richiedano intensità più elevate di stimolazione clitoridea per raggiungere le soglie, rispetto alle donne con altre disfunzioni sessuali, in cui però l’anorgasmia non è la loro difficoltà principale.

Secondo questo studio, quindi, le donne con disturbo dell’orgasmo femminile soffrono di un’iposensibilità clitoridea, ed il clitoride gioca dunque un ruolo importante nel raggiungimento dell’orgasmo sessuale (Gruenwald et al, 2019).

Trattamenti per il disturbo dell’orgasmo femminile

Per quanto riguarda i trattamenti, tre sono le categorie di trattamenti psicologici individuate, utilizzate per la cura del disturbo dell’orgasmo femminile: (i) la masturbazione diretta, (ii) la desensibilizzazione sistemica ed (iii) il focus sensoriale (Meston et al., 2004; Marchand, 2020).

La masturbazione diretta è una tecnica cognitivo comportamentale mindfulness-based che comporta l’esposizione graduale alla stimolazione genitale utilizzando strumenti psicologici per migliorare l’attenzione agli stimoli sessuali e per ridurre l’ansia sperimentata. Questo tipo di tecnica è risultato essere molto utile anche per le donne con un disturbo dell’orgasmo permanente e generalizzato (LoPiccolo & Lobitz, 1972; Heiman & LoPiccolo, 1988; Heiman, 2002; Laan et al., 2013).

La desensibilizzazione diretta è invece una terapia basata sull’esposizione ad un’ansia specifica in cui si crea una gerarchia di esperienze temute, esponendosi a ciascuna di esse. Alcune di queste potrebbero essere, ad esempio, un bacio prolungato con il partner o essere spogliati dal partner (Lazarus, 1963).

Infine, la tecnica del focus sensoriale è una tecnica comportamentale mindfulness-based utilizzata per ridurre l’ansia, in cui si accompagna il paziente a focalizzarsi sulle sensazioni fisiche durante l’attività in coppia (Weiner & Avery-Clark, 2014). Questa tecnica, sviluppata da Master e Johnson (1970), consiste in uno scambio di carezze sul corpo da parte dei partner in un contesto di non richiesta. Inizialmente viene escluso il contatto con i genitali o il seno, successivamente vengono integrate anche queste aree in base all’acquisizione di comfort da parte dei partner e delle loro capacità di attenzione verso le sensazioni corporee. Il focus sensoriale è un trattamento utilizzato soprattutto per il disturbo dell’orgasmo femminile situazionale in un contesto di coppia (Carney et al., 1978).

Futuri sviluppi per quanto riguarda il disturbo dell’orgasmo femminile

In generale, si può affermare che il disturbo dell’orgasmo femminile interessi una buona parte della popolazione generale femminile, e le ricerche future potrebbero basarsi su un campione più ampio rispetto ai campioni su cui sono basati gli attuali studi scientifici. Inoltre, basandosi sui risultati ottenuti si potrebbe migliorare anche l’informazione a livello mediatico, con lo scopo di aumentare la consapevolezza rispetto ad un tema che è molto più comune di quel che si pensa, e che spesso non viene affrontato perché considerato ancora un tabù nella società odierna.

 


HAI UNA DOMANDA? 9998

Clicca sul pulsante per scrivere al team di psicologi fluIDsex. Le domande saranno anonime, le risposte pubblicate sulle pagine di State of Mind.

La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

 

La moglie di Darwin -L’arte di prendere decisioni lungimiranti (2021) di Steven Johnson – Recensione

“Esiste un’abilità più importante di quella di compiere scelte difficili?” Questo è il quesito posto da Steven Johnson nel libro La moglie di Darwin.

 

Dan e Chip Heath, autori del libro Decisive, fanno notare che “La gran parte delle organizzazioni sembra seguire lo stesso processo decisionale di un adolescente in preda agli ormoni” (Heath e Heath, 2013).

Chi non vorrebbe compiere scelte migliori?

In qualsiasi ambito, sia personale che professionale e in ogni fase della vita, saper prendere decisioni risulta essenziale. Non c’è bisogno di avere in mente una carriera particolarmente importante e ambiziosa per trovare utile la conoscenza di questo strano superpotere. La facoltà di prendere decisioni a lungo termine è una delle poche caratteristiche, insieme ad altre, davvero esclusive dell’Homo sapiens.

Vista l’importanza sarebbe utile che diventasse un percorso pedagogico, cardine della nostra istruzione e tra i vari vantaggi lo studio del processo decisionale offre un prezioso ponte tra le scienze e le discipline umanistiche. Daniel Kahneman (2011) nel libro Pensieri lenti e veloci ha introdotto l’idea del cervello suddiviso in due sistemi distinti, entrambi coinvolti nel processo decisionale.

Il libro La moglie di Darwin attinge dalla ricerca scientifica sul processo decisionale e dagli studi che ci aiutano a vedere oltre i nostri preconcetti, pregiudizi e prime impressioni. Analizza diversi contesti socio-politici, storici e biografici che spesso si intrecciano, come nel caso personale di Darwin, tracciando il processo decisionale adottato ed esamina le conseguenze di tali decisioni.

In questo percorso è necessario abbracciare l’incertezza, come lo descrive Richard Feynman nel suo libro Il senso delle cose:  “…Il dubbio ci spinge a guardare in nuove direzioni e cercare nuove idee…Se non si potesse, o volesse, guardare in nuove direzioni, se non si avessero dubbi, o non si riconoscesse il valore dell’ignoranza, non si riuscirebbe ad avere idee nuove” (Feynman, 1999, p. 36).

Quasi tutte le strategie descritte in questo volume perseguono, fondamentalmente, lo stesso obiettivo: aiutarci a vedere la situazione da nuove prospettive, forzare i limiti della razionalità e considerare un’ingente quantità di strategie che possono evitarci decisioni inadeguate.

I primi tre capitoli descrivono le tecniche per effettuare le decisioni di gruppo, seguendo in generale la sequenza di molti percorsi decisionali come:

  • Mappatura
  • Previsione
  • Compimento della scelta

I capitoli successivi sviluppano aspetti decisionali che riguardano questioni di più ampia portata e le decisioni personali, come quella con cui era alle prese Darwin.

Mappare

Il modo migliore di cominciare il viaggio di una scelta difficile è avere una buona mappa. Ma mappare non equivale a decidere. Ciò che la mappa dovrebbe svelare è un insieme di vie potenziali. I teorici delle decisioni hanno sviluppato uno strumento per schematizzare questi tipi di scelte: i diagrammi di influenza. Prendere decisioni complesse non significa solo mappare il terreno che influenzerà ciascuna scelta, è anche questione di scoprire nuove alternative, come ha evidenziato lo studio di Paul Nutt (2002).

Prevedere

Nel 1995 Adreasen osservò che quando il cervello/la mente pensa liberamente, senza vincoli, utilizza le sue parti più umane e complesse e grazie alla tomografia PET è emerso quanta energia richieda sognare a occhi aperti. Molti studi hanno messo in evidenza che il cervello si è rivelato essere più attivo a riposo rispetto a quando dovrebbe presumibilmente essere attivo. Quando lasciamo viaggiare la mente, questa comincia spontaneamente a passare al vaglio scenari immaginari su quello che ci attende.  Gli scienziati hanno denominato questo ricorrente pattern di attività “rete di default”.

Decidere

Mappare, prevedere, simulare: sommati tra loro non equivalgono a decidere. Una volta mappato il paesaggio, stabilita una gamma completa di opzioni e simulati gli esiti di quelle opzioni con la massima certezza possibile, come si fa, dunque, a scegliere?

Dalla prima descrizione dell’“algebra morale” di Benjamin Franklin sono stati escogitati sistemi sempre più elaborati per prendere decisioni.

Tuttavia l’incertezza, come Herbert Simon ha notoriamente dimostrato, è un fattore inevitabile in qualsiasi decisione complessa e dedicare troppo tempo a sondare l’incertezza rischia di lasciarci in un limbo amletico di indecisione. Per questo motivo Jeff Bezos, fondatore di Amazon, è famoso per seguire la “regola del 70%”.

Se abbiamo fatto un lavoro accurato in tutte le fasi di mappatura e previsione, la scelta vera e propria spesso diventa lampante. Le fasi di mappatura e previsione di una scelta complessa servono a dare alla rete di default più materiale da elaborare.

Il capitolo dedicato alla scelta globale affronta il tema dei supercomputer che hanno cominciato ad assumere il ruolo che nell’antichità spettava agli oracoli: ci consentono di sbirciare nel futuro. A mano a mano che la loro capacità di preveggenza cresce, facciamo sempre maggiore affidamento su queste macchine perché ci assistano nelle scelte difficili, e forse persino perché le compiano al nostro posto.

Queste macchine possono essere pericolose?

Immaginiamo di programmare una AI con quello che, all’apparenza, è l’obiettivo più innocuo immaginabile: la massima felicità del maggior numero possibile di persone. Fissiamo quello come valore generale e lasciamo decidere alla macchina l’approccio migliore per convertirlo in realtà.

L’ AI potrebbe benissimo elaborare uno scenario che, tecnicamente, raggiungerebbe l’obiettivo, ma che potrebbe risultare immediatamente inaccettabile per gli esseri umani.

La gran parte del dibattito intorno alla AI superintelligente è dedicata a sviscerare il cosiddetto “problema di contenimento” ossia come mantenere il genio della AI dentro la bottiglia pur continuando ad attingere ai suoi poteri, magistralmente rappresentato nel film Ex Machina di Alex Garland.

Se il punto è calcolare la massima felicità del maggior numero possibile di persone, quale migliore abilità può esserci se non quella di prevedere la presenza o assenza di felicità nella mente di altre persone?

L’autore suggerisce l’empatia, così descritta: “… quel talento di saper sbirciare nella mente di un’altra persona e immaginare l’effetto che un certo evento teorico potrebbe avere su di essa, è quasi per definizione una delle virtù più importanti quando si tratta di prendere decisioni complesse”.

Inoltre diverse ricerche hanno confermato che l’abitudine alla lettura della narrativa letteraria è in forte correlazione con una migliore capacità di teorizzare la mente. Come scrive Rebecca Mead:

“…se davvero mi importa di te — se cerco di calarmi nella tua posizione e nel tuo orientamento —, allora il mio mondo viene migliorato da quello sforzo di interpretazione e comprensione” (Mead, 2014, p. 223).

In un certo senso possiamo concepire il romanzo stesso come un tipo di tecnologia, analogamente alla gran parte delle tecnologie si sviluppa a partire da abilità già possedute per potenziarle; insieme ad altre forme d’arte come i film e le narrazioni seriali televisive, è una versione amplificata della narrazione istintuale della rete di default. Il romanzo sta ai sogni a occhi aperti della rete di default come il telescopio Hubble sta al nostro apparato visivo. Sono tutti strumenti che ci permettono di vedere più lontano e più in profondità.

Nel capitolo dedicato alla scelta personale l’autore si riferisce alla decisione personale di Darwin riguardante la scelta di sposarsi o meno. Darwin considerò pro e contro e in base ai suoi valori, tuttavia vengono prese in considerazione varie opzioni, come l’algoritmo morale. Anche se può risultare riduttivo prendere una decisione complessa ed emotiva comprimendola in una formula matematica, tuttavia vengono presi in esame alcuni calcoli che possono essere di aiuto a ridurre l’elenco alle sole alternative che valga la pena di tenere in considerazione.

Inoltre, considerando che non possiamo avere una visione perfetta delle conseguenze a valle delle nostre scelte, il fattore incertezza è inevitabile e quindi Johnson si sofferma sulle strategie disponibili per attenuarla. Un’altra decisione sconvolgente che dovette affrontare Darwin riguardò la possibilità di pubblicare o meno la sua radicale teoria dell’evoluzione. Decisione molto delicata perché i valori profondi in gioco che riguardavano lo sviluppo della teoria e quelli personali erano sostanzialmente inconciliabili.

Il libro è il frutto di un lavoro di raccolta di esperienze e riflessioni dell’autore durato circa 10 anni fino ad arrivare alla sua completa realizzazione. Oltre alla creatività, l’empatia, la resilienza, Johnson colloca la capacità di prendere decisioni complesse vicino alla cima della classifica delle capacità più importanti dell’essere umano, è il nocciolo di ciò che intendiamo con la parola “saggezza”.

 

cancel