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Breve trattato sulla stupidità umana (2021) di Ricardo Moreno Castillo – Recensione

Breve trattato sulla stupidità umana è un trattato breve quanto ricco di parecchie verità, scritte in maniera impeccabilmente tagliente. E scomoda (se non altro per gli stupidi).

 

[…] Non vi è peccato al di fuori della stupidità

Un trattato breve quanto ricco di parecchie verità, scritte in maniera impeccabilmente tagliente. E scomoda (se non altro per gli stupidi). Una denuncia contro i mali generati dalla stupidità umana, che, come scrive Moreno Castillo, è così dilagante nelle società perché la stupidità è, ahinoi, “sovvenzionata”. Gli stupidi sono dappertutto. Pensiamo ai politici: la maggioranza pecca di stupidità, o perché lo è davvero, oppure perché è più conveniente. Di fatto, raramente chi non lo è raggiunge il successo, così come raramente idee generate da menti intelligenti riescono a trovare un campo fertile di attuazione, se non prima di essere ostacolate (a volte per tempi biblici) dall’idiozia circostante. La stupidità, va detto, non è l’opposto dell’intelligenza e, infatti, essa non può essere misurata attraverso test d’intelligenza; tuttavia forse esiste un indicatore sottile per definire una persona stupida: la cattiveria.

Castillo cita Unamuno, il quale con altrettanta durezza, afferma: “Non esistono degli sciocchi buoni. Lo sciocco, che in più ama le burle, mastica l’amaro boccone dell’invidia.” Non è sempre facile – aggiunge l’autore – discernere la linea sottile che separa la stupidità dalla malvagità, sebbene sia innegabile che “la perversione manca di ogni grandezza e profondità. Ed è la conseguenza della volgarità e della stupidità”. Dunque cosa fare quando ci si imbatte in qualche stupido? Come combattere la stupidità? Castillo fornisce quattro “regole”, con le quali conclude il suo trattato filosoficamente brillante. Il comune denominatore è sicuramente la conoscenza di sé. Da Socrate abbiamo ereditato il motto: “Conosci te stesso” e per conoscere noi stessi la prima condizione è ammettere le nostre possibilità e i nostri limiti, liberarci dalla presunzione di sapere tutto. Socrate andrebbe fiero di Castillo; se quest’opera fosse stata scritta nel 400 a. C. forse avrebbe preso il nome di: De stupiditate, e sarebbe rimasto tra i testi più illuminanti di sempre da cui partire per poter migliorare la propria condizione di “non sapiente”. Un piccolo manuale di sopravvivenza alla stupidità, che solo gli stupidi non vorranno leggere.

 

Un costrutto di base della psicologia sociale: l’aspettativa – Terza parte

La funzione primaria delle aspettative è quella di guidare il comportamento in vista dei nostri obiettivi a breve come a lungo termine.

Ndr – Il presente articolo è il terzo di una serie di tre articoli sul tema delle aspettative. Il primo e il secondo articolo sono stati pubblicati nei giorni scorsi su State of Mind

 

Negli articoli precedenti si è cercato di fornire un quadro informativo chiaro e ampio, anche e certamente non esaustivo, sull’aspettativa, uno dei costrutti di base della psicologia sociale. Nella prima parte si è fornita la definizione di cosa sia un’aspettativa e alcuni spunti per comprenderne il suo ruolo fondamentale di guida per il comportamento. Nella seconda parte sono stati esposti i parametri in base ai quali comprenderne la natura ed, eventualmente, valutarne la validità qualora fossimo in grado di cogliere quelle aspettative che ci guidano in una determinata situazione.

In questa terza parte verrà descritto il loro impatto, pressoché ubiquo, sulla nostra vita quotidiana. La ragione di fondo sta nel fatto che queste credenze riguardanti eventi futuri soggettivamente stimati come probabili (Roese & Sherman, 2007) influenzano il nostro comportamento, i nostri pensieri e le nostre emozioni. Ma trattiamoli in ordine.

Come visto in precedenza, inizialmente, di fronte a una situazione nuova, l’aspettativa che si crea possiede una struttura molto semplice, basata sull’associazione tra elementi che la nostra mente astrae dal contesto. Con l’accumulo di esperienze questi elementi tendono ad essere organizzati in reti complesse e altamente flessibili, che ci permettono di realizzare un buon grado di adattamento nelle diverse situazioni che incontriamo, risparmiandoci lo sforzo di cercare di ‘mettere a fuoco’ le situazioni e facendoci conservare tempo e risorse mentali che potremo, così, utilizzare per rispondere con maggiore efficienza alle richieste ambientali.

La funzione primaria delle aspettative è quella di guidare il comportamento in vista dei nostri obiettivi a breve come a lungo termine, in relazione ai quali siamo messi nella possibilità di creare piani di azione più o meno complessi, che considerino anche l’evoluzione delle circostanze nel tempo. Molti fenomeni noti ormai da tempo in ambito clinico e di ricerca possono aiutarci a comprendere questa funzione (Roese & Sherman, 2007).

Uno di essi è la ‘facilitazione del successo’ (Oettingen & Mayer, 2002), ovvero il fenomeno in base al quale possedere credenze positive sul proprio successo futuro ha effetti facilitatori sull’impegno personale, sulla persistenza nel compito, sulla creazione di piani per raggiungere gli obiettivi e, in ultima istanza, sull’effettiva riuscita e il raggiungimento dei propri scopi.

Un altro fenomeno è quello dell’optimistic bias shift (Taylor & Gollwitzer, 1995), in base al quale un corso d’azione già intrapreso determina lo slittamento delle proprie aspettative verso una prospettiva maggiormente ottimistica, soprattutto se il soggetto possiede verso i propri obiettivi un orientamento di fondo mirante al perseguimento dei risultati desiderati (in contrapposizione all’evitamento di risultati temuti; Higgins, 1997).

Altri fenomeni, noti in clinica, sono poi l’anticipazione del fallimento in chiave difensiva dell’autostima, come anche l’anticipazione di problemi che potrebbero presentarsi, quest’ultimo fenomeno utile a spingere il soggetto alla ricerca e alla pianificazione di soluzioni ad hoc, a considerare le conseguenze potenziali delle proprie decisioni e a ipotizzare piani d’azione legati alle diverse contingenze possibili (Sanna, 2000).

Un fenomeno molto noto presso il grande pubblico è, infine, quello della self-fulfilling prophecy, dove i processi cognitivi e il comportamento procedono in maniera da selezionare, prestare maggiore attenzione e agire in base alle informazioni ambientali che risultano essere coerenti con le aspettative che si possiedono (ad esempio: Chen & Bargh, 1997). Quando le aspettative sono irrealisticamente fallimentari o eccessivamente pessimistiche il risultato è che il soggetto diviene l’artefice e il promotore delle proprie sconfitte, con il risultato conseguente, spesso, di esacerbare visioni del mondo negative e disperate, come anche alimentare – come accade ad esempio nel disturbo d’ansia sociale – difficoltà altamente frustranti.

L’impatto sul comportamento è di primaria importanza per comprendere la funzione delle aspettative e si accosta all’impatto delle aspettative sulla cognizione e sulle emozioni provate dal soggetto.

In generale, dal punto di vista cognitivo le aspettative guidano l’elaborazione delle informazioni in modi che tendono a confermarle. Partendo da questa premessa è possibile poi considerarne l’impatto su alcuni processi cognitivi fondamentali (Roese & Sherman, 2007).

L’influenza delle aspettative sui processi attentivi

In primo luogo, l’influenza sui processi attentivi e sulla ricerca delle informazioni. Le aspettative possono essere paragonate a ipotesi che il soggetto verifica grazie alle informazioni ricevute dall’ambiente (Klayman & Ha, 1987). Nel caso l’ipotesi venga disconfermata, l’informazione ottenuta verrà considerata inattesa e nuova, il soggetto sperimenterà la sensazione che ‘c’è qualcosa che non va‘ (esperienza di disfluenza percettuale e/o semantica) e l’attenzione verrà focalizzata sulla fonte di informazione incongrua con le previsioni (Barthalaw, Fabiani, Gratton & Bettencourt, 2001), allo scopo di darle senso e utilizzarla per adattarsi alla situazione.

Rispetto ai processi di codifica, le aspettative possono influenzare il modo in cui interpretiamo gli eventi, fornendo un quadro di riferimento in base al quale cercare ulteriori informazioni da utilizzare per valutare il proprio agire. L’informazione che conferma le aspettative tende a essere compresa più facilmente, viene processata in maniera inconsapevole e inattenta ai dettagli e, infine, tende a definire il modo in cui un evento rappresentato in memoria e, quindi, come viene ricordato. La stessa cosa avviene quando le informazioni rilevate nell’ambiente sono incongruenti con l’aspettativa. In questo caso, però, la loro elaborazione in genere è più approfondita e i dettagli analizzati con maggiore attenzione, per permettere la creazione di una traccia mnestica unitaria e distinta (Sherman, Lee, Bessenhoff & Frost, 1998). In entrambi i casi lo scopo principale è fornire alla persona un quadro il più possibile fedele alle circostanze in cui si trova e in cui in futuro potrebbe ritrovarsi, per promuoverne (come detto negli articoli precedenti) l’adattamento.

Aspettative e memoria

Altri processi cognitivi influenzati in maniera importante dalle aspettative, come intuibile dalle righe precedenti, sono relativi alla memoria. Per quanto riguarda il recupero di ricordi e il riconoscimento delle situazioni, entrambi i processi risultano facilitati per eventi nel passato giudicati inattesi, in ragione di un maggior tempo di elaborazione delle informazioni ambientali da parte della memoria di lavoro nel tentativo di darvi senso in relazione alle nostre aspettative (Sherman et al., 1998).

Cosa accade in questi casi? La ricerca ci informa che di fronte a una disconferma l’aspettativa è sottoposta a una revisione nei termini della modifica riparativa o di una ristrutturazione completa, effettuate tramite il tentativo di attribuire un’origine alla disconferma (attribuzione causale), il pensiero controfattuale, (Se fosse avvenuto x, la conseguenza sarebbe stata y) o , infine, per mezzo della percezione – distorta – che il risultato inatteso era in realtà prevedibile e ovvio (hindsight bias). Il prodotto di queste tre attività risulterà in uno di questi possibili esiti inferenziali, che daranno senso alle informazioni inattese (Roese & Sherman, 2007):

  • l’informazione discrepante con l’aspettativa è ignorata;
  • l’informazione discrepante è marcata come caso eccezionale, ma non elaborata oltre;
  • l’informazione discrepante è considerata come eccezione alla regola generale, l’aspettativa originaria è ampliata e il comportamento dell’individuo diviene più flessibile;
  • L’aspettativa viene completamente rivalutata;

Aspettative ed emozioni

Per terminare con questo breve resoconto degli effetti delle aspettative sull’individuo che le possiede, vanno infine considerate le relazioni che intercorrono tra esse e le emozioni.

La funzione delle emozioni, in questo caso, è quella di segnali regolatori che indicano lo stato del progresso verso uno scopo considerato desiderabile o dell’evitamento di qualcosa considerata nociva. Rispetto a ciò possiamo avere, in generale, stati di affettività positiva (orgoglio, sentimenti di ‘starcela facendo’ etc.) oppure di affettività negativa (sentimenti di inutilità, sensazione di stare ‘perdendo slancio’ etc.). Le emozioni, nel primo caso, segnaleranno al soggetto che è in atto un effettivo progresso nei confronti dei propri obiettivi mentre, nel secondo caso, segnaleranno che i progressi non sono quelli attesi e che è necessario fare qualcosa perché questo stato di cose cambi (meccanismi regolatori di feedback). Questi fenomeni, a loro volta, avranno un impatto sulle cognizioni e sul comportamento. Ad esempio, nel caso dell’affetto positivo, tra le altre, avremo l’adozione di una prospettiva maggiormente ottimistica del progresso verso i risultati, un’attesa di maggiori guadagni futuri e maggiore persistenza e impegno nel perseguire gli obiettivi. Nel caso dell’affetto negativo, alcune conseguenze includono l’attivazione di processi di problem solving, la revisione delle aspettative, la diminuzione degli sforzi nel perseguire l’obiettivo fino anche alla rinuncia, come anche la revisione dei propri piani per raggiungere gli obiettivi prefissati (vedi ad esempio, Carver & Scheier, 1998).

Conclusioni

Alla fine di questo viaggio nel mondo delle aspettative sorge spontanea una domanda che spesso accompagna il non specialista quando legge di psicologia: ‘Ma tutto questo a che cosa serve?’.

Le aspettative ci guidano dal momento in cui apriamo gli occhi la mattina – quando ci alziamo sapendo che le cose saranno tutte al posto dove le abbiamo lasciate, che il bagno funzionerà, che la cucina non esploderà quando accenderemo i fornelli per fare il caffè – al momento in cui ci addormentiamo nel nostro letto, certi del fatto che l’ambiente in cui ci troviamo è prevedibile e (si spera) sarà molto improbabile che qualsiasi evento strano accadrà mentre dormiamo. Le aspettative ci guidano continuamente, ci dicono dove e con chi proveremo probabilmente emozioni positive, ci indicano a chi avvicinarci e chi evitare, ci dicono come comportarci e i passi da fare per ottenere i nostri obiettivi a breve e lungo termine, ci permettono di adattarci a situazioni per noi nuove e ci indicano come comportarci in situazioni di pericolo.

La domanda, insomma, dovrebbe essere ribaltata piuttosto in: ‘C’é qualcosa che facciamo per la quale non abbiamo bisogno di aspettative?’. La risposta per chi scrive è un netto no.

 


UN COSTRUTTO DI BASE DELLA PSICOLOGIA SOCIALE: L’ASPETTATIVA – LEGGI TUTTI GLI ARTICOLI DELLA SERIE:

 

Contenitore e Contenuto

Il contenitore non può esistere senza un contenuto come il contenuto non ha senso di essere in assenza di un contenitore.

 

Essi sono poi assolutamente sovrapponibili, dato che il contenitore è pur sempre contenuto ed il contenuto allo stesso modo contiene.

Emozioni e pensiero, senso di appartenenza e necessità di individuazione, soggetto ed oggetto. La segreta alchimia che sottende alla capacità di giudizio dell’individuo e delle masse, la potenzialità di scegliere razionalmente solo se guidati dai sentimenti.

In un campo complesso come quello della psicoterapia e della psicoanalisi Gaburri e Ambrosiano in Ululare con i lupi. Conformismo e rêverie esprimono alcune perplessità riguardo alla tendenza sociale, e non solo, a “ululare con i lupi”. Il bisogno e desiderio di appartenenza ad un gruppo richiedono necessariamente la rinuncia parziale alla propria individualità ed auto affermazione. L’essere “conformi” alla mentalità di gruppo. Questo non è necessariamente dannoso per l’individuo. Far parte di un gruppo non solo offre un rifugio dall’incertezza ed il dubbio, ma permette di testare le proprie capacità relazionali e l’integrità del nostro Sé. Ma quando il soggetto non ha sviluppato una sufficiente emancipazione la paura può ostacolare quella che è definita rêverie, termine utilizzato da Bion per descrivere la capacità della figura materna di accogliere emozioni e sentimenti senza nome del bambino e farsi “contenitore” riducendo il suo malessere, accudendolo ed aiutandolo nel processo di crescita e formulazione del pensiero verbale. Questa funzione non è così lontana da quella del terapeuta che deve essere pronto ad accogliere questi elementi non ancora definiti senza la fretta di volerli interpretare. Fare appunto da “contenitore”, come in una reazione chimica.

“Offrire l’opportunità che gli elementi mentali si mescolino, si intreccino, creino nessi e differenze in forme nuove…come in una nuova soluzione chimica che innesca reazioni diverse, riorienta il sistema, e sviluppa organizzazioni mentali inedite.”

Quando anche il terapeuta si mette ad “ululare con i lupi” questa riformulazione, questo perturbare un sistema (quello del paziente e del terapeuta stesso) diviene più macchinoso e meno efficace. Quando il terapeuta non lascia che le emozioni siano parte integrante del ragionamento logico nella seduta psicoterapica dimentica il significato di “relazione”, di qualsiasi genere, ponendo un filtro al “contenuto” del paziente. Eppure Damasio, pur tenendo ben presente quanto pericolose possano essere le nostre emozioni nel prendere una decisione, afferma che “certi aspetti del processo dell’emozione e del sentimento sono indispensabili per la razionalità” e che “nei casi migliori, i sentimenti ci volgono nella direzione giusta, ci conducono al luogo appropriato di uno spazio decisionale nel quale possiamo fare bene operare gli strumenti della logica.

In un mondo dove l’omologazione e la rinuncia alla propria individualità stanno guadagnando sempre più terreno è doverosa la presenza di un conflitto, quello tra “narcisismo e socialismo”, intesi come la naturale tendenza ad una battaglia interna tra “adesione alla mentalità di gruppo e pensiero individuale, conformismo e rêverie.

Contaminare l’Altro lasciandosi contaminare, essere contenitore senza rinunciare al proprio contenuto.

È il mio modo di essere, con un po’ di biochimica: i cambi di personalità dovuti ad elementi neurobiologici e neurologici


La personalità è un argomento che affascina sempre la ricerca umanistica e psicologica, che siano gli sviluppi di essa attraverso le esperienze, gli elementi ambientali e gli elementi sociali. Questo articolo affronta le modifiche della personalità via sindromi mentali e squilibri neurochimici.

 

La personalità è un argomento che affascina da sempre la ricerca e la letteratura sulla psiche. Di fatto, l’analisi dei vari fattori che influenzano e caratterizzano la personalità umana ha permesso lo sviluppo di strumenti diagnostico-analitici come il questionario Big Five (Soldz, Vaillant, 1999) e il questionario Myers-Briggs (Furnham, 1990) e ha ispirato ricerche come l’influenza genetica sullo sviluppo della personalità di Samuel Barondes (2016).

Fra i fattori principalmente considerati come principali influenze sullo sviluppo e sul cambiamento della personalità umana rientrano l’educazione, la qualità della vita e delle relazioni con la famiglia nella fase dello sviluppo (Amianto, 2013), le relazioni e le situazioni vissute in adolescenza (Galambos, Costigan, 2013), i fattori ambientali (Brooks et al, 2001), i fattori sociali (Buss, 1996), l’uso di droghe e medicinali (Bouso, 2015) e cambiamenti comportamentali conseguenti alla psicoterapia (Jarrett, 2017).

Un fattore importante che influenza o può portare il cambiamento, momentaneo o permanente, della personalità è lo squilibrio neurologico e/o biochimico: come indica la ricerca neurologica e psichiatrica, dietro a comportamenti considerati parte integrante del carattere e della persona potrebbe esserci in realtà una causa biochimica (Friedman, 2006).

I cambiamenti della personalità nelle malattie psichiatriche

Un primo esempio sono i cambiamenti della personalità dovute a malattie neuropsichiatriche: i malesseri mentali, dovuti a fattori ambientali o causati da traumi di vita, possono influenzare elementi della personalità, che possono essere presi come parte del carattere da chi ignora la situazione della persona affetta. Esempi emblematici di questa situazione sono quelli di trasgressioni e di ribellione di chi soffre di disturbo bipolare (Nelson, 2021) o le dimostrazioni di attitudini creative e di grande fantasia e introspezione letteraria delle persone affette da epilessia dei lobi temporali (Cartwright et al., 2004).

I cambiamenti della personaltità a causa di esperienze traumatiche

Un ulteriore esempio sono le personalità modificate da traumi psicofisici. Impatti continui e persistenti nel tempo ed altre situazioni dannose, come le commozioni cerebrali e la deprivazione del sonno, possono non solo causare danni semipermanenti come perdita della memoria (Ford, Giovanello, Guskiewicz, 2013; Chee, Chuah, 2008), ma possono peggiorare in maniera considerevole elementi caratteriali negativi come l’aggressività e la stabilità umorale.

Casi rilevanti sono l’irascibilità e la violenza di chi soffre di encefalopatia traumatica cronica (Golden, Zusman, 2019) e i cambi di umore incostanti di chi ha una grande insufficienza di sonno duratura (Wiseman, 2019).

Conclusioni

Sebbene l’analisi di questi fattori possa aiutare a distanziare gli elementi caratteriali dalle conseguenze delle situazioni mentali, l’eccessivo analizzare i lati della personalità con uno sguardo troppo medico ha attirato le critiche di nomi autorevoli della ricerca, come lo scomparso Oliver Sacks (1995).

 

Diagnosi dei disturbi specifici dell’apprendimento scolastico (2012) di Vio, Lo Presti e Tressoldi – Recensione

Diagnosi dei Disturbi Specifici dell’Apprendimento scolastico unisce un intento esplicativo, consolidato da un corposo contenuto teorico, e una finalità eminentemente pratica, raggiunta attraverso casi clinici che descrivono ogni passo dell’iter diagnostico.

 

Il testo Diagnosi dei Disturbi Specifici dell’Apprendimento scolastico di Vio, Cornoldi e Lo Presti offre un quadro esaustivo sulla diagnostica dei disturbi dell’apprendimento, esponendone gli aspetti clinico-descrittivi necessari ad un inquadramento di base, senza tralasciare tematiche più specifiche che, in una dimensione multidimensionale come quella in esame, non si mostrano carenti.

L’intento informativo-formativo del testo viene suggerito dall’aggiornato riferimento alle numerose e non sempre univoche fonti legislative che disciplinano la materia dei disturbi specifici dell’apprendimento (DSA), con indicazione specifica della legge 170/10 e della Consensus Conference del 2011, per citare le più autorevoli; rilevante anche l’attento riferimento ai parametri diagnostici valutativi e all’importanza del dato standardizzato, considerato indispensabile ai fini di una valutazione corretta ed oggettiva, che scongiuri il pericolo di risultati approssimativi, in grado di condurre a falsi positivi e falsi negativi.

Non manca un intento esplicativo, consolidato dalla presenza di un corposo contenuto teorico e dall’apporto di tabelle ed esemplificazioni illustrative, in grado di rendere più facile l’apprendimento e la fruizione delle informazioni.

Una finalità eminentemente pratica viene infine raggiunta attraverso l’utilizzo di casi clinici che descrivono nel dettaglio ogni passo dell’iter diagnostico, conferendo all’opera un connotato esperienziale perfettamente integrato alla dimensione teorico-speculativa. Se ne origina, nel complesso, un contesto di fruizione coerente, variegato e attendibile.

La descrizione clinico-diagnostica dei disturbi

I DSA presentano un innegabile correlato neurobiologico. Sembra questa la grande premessa del testo, espressa soprattutto nella descrizione dei processi neuro-cerebrali coinvolti nell’origine e nel mantenimento del disturbo. Proprio questa innatività, e non una scarsa motivazione allo studio, è alla base di due conseguenze tipiche della patologia DSA: la resistenza all’intervento, e dunque l’impossibilità di migliorare sostanzialmente le prestazioni pur dopo un programma di recupero mirato, e la resistenza all’automatizzazione, intesa come l’incapacità di assimilare concetti generalmente memorizzabili e ben recuperabili. Il tutto sullo sfondo di una dilatazione dei tempi di esecuzione in grado di limitare marcatamente la capacità di apprendimento e la prestazione scolastica.

Si inizia con la descrizione della dislessia, disturbo fondato sull’incapacità di dar luogo al processo di conversione grafema-fonema che consente il formarsi di un’associazione stabile tra la rappresentazione ortografica e fonologica della parola. La conseguenza è una notevole compromissione della velocità e della correttezza della lettura.

Un difetto di automatizzazione è presente anche nella disortografia, che non permette la scrittura delle parole nel rispetto della regole grammaticali, e nella discalculia, in cui l‘incompetenza può riguardare più direttamente la natura semantica del numero e, dunque, la quantità astratta cui è collegato (non è possibile capire a cosa corrisponde il 3 o il 5 o il 2), la capacità di etichettamento verbale (non è effettuabile la transcodifica tra rappresentazione grafica e verbale del numero, ad esempio si dice 3 e si scrive 30) una scrittura che sia rispettosa della grammatica numerica (numeri scritti secondo un ordine scorretto, ad esempio 1003 – 1300), l’immagazzinamento e il recupero mnestico di fatti aritmetici. La conseguenza è che il numero viene a costituire una dimensione sconosciuta cui il bambino si approccia con difficoltà e diffidenza, maturando verso la matematica una sorta di frustrazione autosabotante che rende l’apprendimento ancor più problematico.

Ulteriori DSA trattati sono il disturbo della comprensione, che impedisce di inferire, a partire dai dati sintattici e semantici, il significato e l’intenzionalità specifica di un testo, e il disturbo dell’apprendimento spaziale, che limita la possibilità di svolgere tutte quelle prestazioni che hanno ad oggetto l’utilizzo di competenze visuo-spaziali. Si specifica a tal proposito l’importanza di effettuare una diagnosi differenziale con altre tipologie di disturbi che mostrano analogo coinvolgimento deficitario in ambito prassico –organizzativo, come l’ADHD, del quale viene fornita dettagliata descrizione clinica, e l’autismo.

Ampio spazio è dedicato alla descrizione clinica della disgrafia, intesa come incapacità di riproduzione dell’allografo a causa di deficit motori, percettivi e visuo-spaziali. Gli autori si premurano di descrivere le varie fasi del corretto processo di scrittura avvalendosi dell’ausilio di immagini dimostrative, a maggior chiarimento di un disturbo del quale si conosce ancora poco rispetto alla sua diffusione e alla sua capacità di limitazione dell’apprendimento. La stessa Consenus Conference del 2011 omette di inserirlo tra i DSA, originando un vacuum valutativo che il gruppo di ricerca coordinato dal Prof. Cornoldi presso l’AIRIPA di Padova (Associazione Italiana per la Ricerca e l’Intervento nella Psicopatologia dell’Apprendimento), ha recentemente cercato di colmare esponendo una serie di parametri diagnostici specifici quali la fluenza – intesa come velocità di recupero dell’allografo – e la qualità del segno grafico, riferibile alla resa formale del grafema; si raccomanda inoltre di effettuare un’attenta valutazione psicomotoria utile alla distinzione tra i casi di disgrafia pura, con esclusivo coinvolgimento della capacità di riproduzione dell’allografo, e i casi in cui l’elemento disgrafico appare compreso nel più ampio quadro sintomatologico di patologie compromissorie di competenze prassiche e visuo-spaziali, quali ADHD e autismo (pp. 98 e ss.).

Il taglio eminentemente pratico dell’opera continua attraverso una serie di indicazioni fornite al clinico impegnato in un assessment valutativo. Nulla viene tralasciato: dal momento della richiesta – alternativamente privata o scolastica – fino a quello della restituzione della diagnosi, dando conto del colloquio anamnestico coi genitori, della strumentazione diagnostica da somministrare nei singoli casi, delle modalità in cui dovrà essere svolta la relazione finale. Un autentico supporto pratico-professionale per il clinico alle prime armi e un valido promemoria per quello più esperto, posto all’interno di un’attività complessa e variegata in cui l’attendibilità del risultato e l’attenzione al dettaglio sono più che mai fondamentali (pp. 186 e ss.)

Linee guida sono rivolte anche al personale scolastico, in vista della compilazione del PDP (Piano Didattico Personalizzato) previsto dalla legge 170/10, a seguito della certificazione e della formalizzazione del disturbo. Viene fatta raccomandazione di coinvolgere, in questo complesso compito di individualizzazione dell’apprendimento, non soltanto il personale didattico, ma tutti i soggetti più o meno direttamente coinvolti dal disturbo: a partire dal clinico che ha emesso la diagnosi, per estendersi alla famiglia e allo stesso allievo, cui sono destinati il trattamento abilitativo ed eventuali strumenti compensativi e dispensativi. Tutto questo nella consapevolezza che una facilitazione didattica debba essere costruita in un contesto di unanime condivisione, al fine di evitare effetti “iatrogeni” sia nei riguardi dell’allievo, che potrebbe viverla come una discriminazione etichettante, sia nei confronti dei pari, che potrebbero identificarla con un ingiusto favoritismo. Per ottenere risultati generalizzabili e duraturi sono pertanto necessarie competenze teorico-applicative ed una flessibilità inclusiva da parte di tutti i soggetti coinvolti (p. 189 e ss.).

Il coinvolgimento emotivo-relazionale nei DSA

In linea con un’impronta contenutistica in cui, si è precisato più volte, è il dato scientifico a mostrarsi prioritario, il testo si approccia alla trattazione del disagio emotivo connesso ai DSA con intento specificamente diagnostico: dunque, dopo averne descritto l’importanza clinica nel contesto valutativo, si premura di fornire, in appendice, una serie di questionari self-report inerenti la misurazione di costrutti specificamente indicativi della dimensione emotivo-relazionale, quali autostima, motivazione allo studio, benessere scolastico, tipologia delle relazioni sociali nell’adolescenza. Completano il quadro un profilo di self- perception e le scale per l’individuazione di comportamenti di disattenzione e iperattività di Cornoldi, nelle tre tipologie SDAI, SDAB, SDAG, da somministrare al bambino, al genitore e all’insegnante, testimonianza di come l’aspetto emotivo risulti indubbiamente compromesso nei casi di disturbi dell’apprendimento, e di come sia impossibile ometterne la valutazione all’interno di un assessment diagnostico che possa definirsi tale.

In sintesi

Pur senza snaturare un intento principalmente clinico, il testo non si colloca in una dimensione di mero riduzionismo scientifico: piuttosto evidenzia l’importanza del dato standardizzato ai fini di una valutazione oggettiva, che sia in grado di risolvere discrepanze e difformità di misurazione, troppo spesso fuorvianti in un contesto diagnostico.

Una destinazione principalmente clinico-professionale, anziché mostrarsi un elemento preclusivo verso fruizioni di altro genere, consente al contrario la visione integrata di un quadro patologico che non può e non deve limitarsi ad un’analisi monosettoriale.

Il risultato finale è un insieme di linee guida le cui fonti, di autorevole ed indiscussa attendibilità nomotetica, sono in grado di coniugarsi con aspetti idiografici ugualmente basilari per l’ottenimento di una diagnosi completa ed attendibile.

Uno dei principali meriti degli autori è pertanto quello di aver saputo integrare aspetti variegati di un’unica dimensione patologica, realizzando una trattazione aggiornata, attenta ed equilibrata, all’interno di un volume che si pone come indispensabile vademecum per la diagnosi dei disturbi dell’apprendimento, in tutti i contesti coinvolti.

La psicologia politica: dall’antropologia culturale alla psicologia sociale, i paradigmi psicologici della vita politica contemporanea

Fra gli argomenti più rilevanti nell’ambito della psicologia sociale, un posto epistemico importante lo occupa la psicologia politica, che analizza gli archetipi psicologici che divengono gli agenti motivanti delle condotte politiche individuali.

 

La psicologia politica trae alcuni dei suoi contenuti da altre scienze sociali, quali l’antropologia culturale, le scienze politiche e le scienze economiche. L’articolo esamina dapprima le dimensioni che caratterizzano le società complesse, inclusa la dimensione politica, successivamente prende in considerazione le associazioni sociali e l’ambito politico delle società etnografiche. Sono analizzati, poi, la vita politica delle società complesse, la psicologia politica, le differenze psicologiche fra conservatori e progressisti e la psicologia delle consultazioni elettorali.

Keywords: psicologia sociale, psicologia politica, conservatorismo, progressismo, differenze psicologiche individuali.

Gli archetipi della società

In ogni società moderna strutturata si possono riconoscere cinque archetipi che la compongono, ovvero la dimensione ecologica, economica, sociale, politica e culturale. La dimensione ecologica rappresenta la territorialità geografica nella quale è allocata la società; la dimensione economica simboleggia l’insieme delle attività produttive che assicurano la sopravvivenza degli individui che fanno parte di quella società; la dimensione sociale indica le istituzioni sociali presenti in essa; la dimensione politica esprime il modo in cui è gestito e ripartito il potere fra le classi sociali che formano la società; la dimensione culturale rappresenta l’insieme delle conoscenze-competenze che sono peculiari di quella popolazione e indicano il modo con cui gli individui risolvono le criticità che via via si presentano (Lappas, 2000).

Affinché nella società ci possa essere benessere sociale, le differenti dimensioni devono essere in rapporto dialettico fra loro, evitando che nessuna di esse prenda il sopravvento sulle altre. Attualmente nelle nostre società si assiste ad un conflitto fra la dimensione politica e quella sociale, in quanto la politica non riesce più a farsi portavoce dei soggetti sociali che rappresenta.

Le associazioni

Alla base di alcuni di questi archetipi citati, ci sono le associazioni fra gli individui. In sostanza, l’associazione rappresenta un’aggregazione di soggetti che è contraddistinta da una struttura formalizzata, accoglie alcuni individui e ne esclude altri, i suoi membri hanno delle finalità condivise (Ember e Ember, 2004). Ogni società è contrassegnata da un numero variabile di associazioni. Alcuni di questi aggregati sono estremamente selettivi: infatti solo alcuni soggetti possono partecipare ad essi, mentre altri individui sono esclusi. La selezione viene fatta utilizzando due variabili: le peculiarità acquisite oppure le peculiarità ascritte. Le peculiarità acquisite sono quelle che l’individuo raggiunge nel corso della sua vita, quali posizione economica, carriera lavorativa, prestigio sociale ecc.; le peculiarità ascritte sono quelle che caratterizzano l’individuo sin dalla nascita, quali etnia, territorialità geografica, genere, credo religioso e appartenenza sociale (Ember e Ember, 2004).

Le ragioni che giustificano la presenza delle associazioni sociali sono molteplici. Fra quelle più accreditate, sembra che la più probabile sia quella che vede l’associazione come una vicariazione della famiglia, ovvero l’associazione nasce e si organizza perché la struttura familiare non è in grado di ottemperare alle responsabilità politiche, educative ed economiche necessarie per far funzionare in maniera ottimale la società (Eisenstadt, 1954).

La dimensione politica nelle società etnografiche

Ogni società, a seconda della sua complessità, ha un modo differente di gestire la dimensione politica. Nelle società più semplici, le cosiddette società etnografiche, ancora presenti in limitate territorialità geografiche, il potere è strutturato attraverso un’organizzazione tribale, che si basa frequentemente sui legami di parentela. In tali contesti sociali alcune famiglie sono dominanti rispetto ad altre e il potere viene gestito dai soggetti più anziani di esse. In altri contesti geografici, più tribù si uniscono fra loro per formare i “chiefdoms”, che hanno una struttura politica organizzata. La strutturazione dei “chiefdoms” prevede un’assemblea, formata da alcuni appartenenti alle diverse tribù, ed un capo.

La carica di capo, talvolta ereditaria e in genere permanente, conferisce a chi la detiene uno status elevato. Nella maggior parte dei chiefdoms vi è stratificazione sociale, e il capo e la sua famiglia hanno un accesso privilegiato alle fonti di prestigio. Tra le mansioni del capo possono esservi la redistribuzione dei prodotti, la pianificazione e il controllo del lavoro collettivo, la supervisione delle cerimonie religiose e la direzione delle attività militari (Ember e Ember, 2004, p. 255).

La vita politica delle società complesse

Nelle società complesse, quali sono le società presenti in gran parte delle territorialità geografiche mondiali, la dimensione politica è caratterizzata dalla vita politica. Con tale costrutto s’intende:

la prevenzione […] e […] la risoluzione di controversie e di problemi sociali interni ed esterni […], di mediazioni e di arbitrati per risolvere le vertenze industriali, di una forza di polizia per prevenire i crimini e per catturare i criminali […], di un sistema giudiziario che si occupi dei conflitti sociali e che intervenga nei confronti di coloro che infrangono la legge (Ember e Ember, 2004, p. 248).

In aggiunta, nel concetto di vita politica possono essere inclusi altri elementi, quali le istituzioni legislative, l’amministrazione degli organismi statali, i partiti politici, i differenti gruppi di potere che sono accomunati da interessi specifici, le elezioni politiche con le relative campagne elettorali.

La psicologia politica

La psicologia politica si occupa dello studio della vita politica. Nello specifico, essa analizza le variabili psicologiche che sono alla base delle condotte politiche, che si osservano a livello collettivo e individuale. Tali condotte sono influenzate dalle ideologie politiche che animano i singoli e le associazioni politiche che essi formano. Volendo definire l’ideologia, essa può essere

intesa come un complesso di credenze, opinioni e valori che orientano un determinato gruppo sociale o un individuo; tale insieme di credenze, inoltre, è condiviso all’interno di un gruppo e ne sostiene le azioni (Carraro e Bortolotti, 2020, p. 337).

In altre parole, l’ideologia è fatta di archetipi concettuali (credenze, opinioni, stereotipi e pregiudizi), che sono in funzione della mappa cognitiva della realtà che ogni individuo possiede, e che divengono sovente l’agente motivante delle proprie azioni.

Le differenze psicologiche fra conservatori e progressisti

In funzione dell’ideologia politica posseduta, possiamo ascrivere gli individui, al di là della loro appartenenza ad un partito politico specifico, a due grandi categorie, ovvero i conservatori e i progressisti. Fra gli appartenenti ai due gruppi si notano delle differenze psicologiche. Relativamente alla personalità, prendendo in considerazione i cinque fattori formulati dalla teoria dei Big Five (estroversione/introversione; gradevolezza/ostilità; coscienziosità; stabilità/instabilità emotiva; apertura all’esperienza) (Caprara e Gennaro, 1999), i progressisti sono contraddistinti da una maggiore apertura mentale, mentre i conservatori hanno come tratto dominante la coscienziosità (Carraro e Bortolotti, 2020). In aggiunta, i conservatori nella percezione della realtà sono animati da un “negative bias”, ovvero una maggiore attenzione verso gli aspetti più negativi e critici della realtà, piuttosto che per quelli più positivi (Carraro, Castelli e Macchiella, 2011). Altra differenza che si nota fra conservatori e progressisti è rappresentata dall’atteggiamento nei confronti del cambiamento e delle disuguaglianze sociali. In pratica, i conservatori appaiono più restii ai cambiamenti e più tolleranti nei confronti delle disuguaglianze sociali che si osservano nella realtà, mentre i progressisti sono più aperti al cambiamento e meno tolleranti nei confronti delle disuguaglianze sociali (Carraro e Bortolotti, 2020).

Per spiegare queste differenze che, a livello psicologico, distinguono i conservatori e i progressisti, sono state chiamate in causa due teorie:

  • il modello duale dell’ideologia e del pregiudizio;
  • il modello della cognizione sociale motivata (Carraro e Bortolotti, 2020).

Secondo il primo modello, l’ideologia politica individuale è fatta di due dimensioni, ovvero l’autoritarismo e l’orientamento alla dominanza sociale che, laddove prevalgono, indirizzano la persona verso un’ideologia conservatrice, mentre nella misura in cui sono poco accentuati l’individuo sviluppa un’ideologia progressista (Duckitt e Sibley, 2009; Carraro e Bortolotti, 2020).

Il modello della cognizione sociale motivata spiega il differente orientamento ideologico in base alle credenze epistemologiche di ciascuno, alla visione della realtà e ai bisogni che caratterizzano ogni individuo. In sostanza, i conservatori appaiono più insicuri e l’ideologia che abbracciano sembra lenire maggiormente questa incertezza, mentre i progressisti avvertono meno questo bisogno (Jost, Federico e Napier, 2009; Carraro e Bortolotti, 2020). Questa insicurezza-sfiducia è confermata dagli studi neurofisiologici: infatti, fra conservatori e progressisti si sono notate delle differenze nella dimensione dell’amigdala di destra, struttura anatomica del sistema limbico che elicita le emozioni negative legate alla paura, tanto è vero che nei conservatori l’amigdala è di maggiori dimensioni, cosa che non si riscontra nei progressisti (Carraro e Bortolotti, 2020).

La psicologia delle consultazioni elettorali

Un avvenimento importante nella vita politica è rappresentato dalle consultazioni elettorali, che periodicamente sono indette nelle società politiche democratiche. Decidere a chi dare il proprio voto non è affatto semplice: la psicologia politica analizza gli agenti motivanti psicologici alla base delle scelte fatte dagli elettori. A questo riguardo, un ruolo rilevante lo svolgono le percezioni sensoriali dell’elettore, da cui scaturiscono le impressioni, che sono alla base delle cognizioni che egli matura mentalmente.

Differenti ricerche hanno dimostrato che nella scelta del candidato da votare subentra un’euristica del candidato. In altri termini, l’elettore nella sua scelta tiene conto di alcuni fattori, quali, ad esempio, la competenza, ossia il possesso culturale dei contenuti da realizzare, la volizione, ovvero il portare avanti le finalità proposte in campagna elettorale, la moralità, intendo con essa il rispetto di quanto promesso, e la socievolezza, ossia la sintonia con i bisogni degli elettori.

Solitamente, gli elettori conservatori considerano maggiormente la volizione, mentre quelli più progressisti sono attenti alla socievolezza e alla moralità (Caprara, Vecchione, Barbaranelli, Fraley, 2007; Carraro e Bortolotti, 2020). A tal riguardo, perchè possano essere confermati tali fattori e indirizzare la scelta di voto, una funzione notevole la riveste la comunicazione politica. In pratica, l’elettore tende a leggere positivamente quello che il candidato dice, se si è fatto un’immagine-impressione positiva di lui (bias di conferma). Solitamente le notizie fornite dal candidato sono caratterizzate dal framing, ovvero da una cornice concettuale che fa da sfondo alla narrazione e che dà un senso all’informazione stessa. In sostanza, è proprio la collocazione in una cornice concettuale piuttosto che in un’altra che elicita nell’elettore l’uso di una chiave di lettura positiva o negativa, con la quale confermare o dissentire dalle proposte fatte dal candidato. Negli ultimi tempi nella vita politica delle nostre società si sono affacciati in maniera preponderante i movimenti populisti, che si ha difficoltà ad ascriverli al conservatorismo o al progressismo. Da recenti ricerche condotte (Marchlewska, Cichocka, Panayiotou, Castellanos e Betayneh, 2018; Carraro e Bortolotti, 2020), sembra che questi movimenti siano sorretti da due fattori, uno sociale, quale la deprivazione relativa, e uno psicologico, come il narcisismo collettivo. In pratica, la deprivazione relativa rappresenta la convinzione che il proprio gruppo sociale sia stato privato di opportunità attraverso un processo discriminatorio e questo diventa motivo di rivendicazione politica. Il narcisismo collettivo rappresenta il favoritismo verso il proprio gruppo sociale. In altri termini, il proprio gruppo sociale è il migliore fra tutti quelli presenti nella territorialità geografica di appartenenza o rispetto a quelli presenti in altre nazioni contigue e, in virtù di questo, deve accedere a privilegi maggiori.

In conclusione, in ogni società uno degli archetipi sociali più importanti è rappresentato dalla dimensione politica, che simboleggia il modo in cui ogni aggregato sociale umano gestisce e distribuisce il potere fra le sue classi sociali e i suoi individui. Nelle società etnografiche l’ambito politico appare estremamente semplice, assumendo la morfologia dell’organizzazione tribale e dei “chiefdoms”. Nelle società complesse il contesto politico, che è fatto da più variabili, si basa sull’ideologia politica che ogni cittadino matura nel suo percorso di vita. Da questo punto di vista, gli individui possono essere suddivisisi in conservatori e progressisti. Fra i due gruppi sociali si notano delle differenze psicologiche, che si riflettono nelle preferenze elettorali espresse. La psicologia politica studia queste variazioni psicologiche individuali e come esse elicitino i comportamenti politici.

 

Un costrutto di base della psicologia sociale: l’aspettativa – Seconda parte

La ricerca ha individuato cinque parametri per definire la natura di un’aspettativa (Roese & Sherman, 2007): la probabilità di occorrenza dell’evento, la fiducia sul giudizio di probabilità, l’accessibilità dell’aspettativa, il suo grado di astrattezza e la sua chiarezza.

Ndr – Il presente articolo è il secondo di una serie di tre articoli sul tema delle aspettative. Il primo contributo è stato pubblicato ieri su State of Mind, il terzo verrà pubblicato nei prossimi giorni

 

Nell’articolo precedente abbiamo visto che le aspettative sono uno dei blocchi fondamentali della mente umana. Esse sono credenze riguardanti una situazione attuale o futura, in chiave probabilistica e basate sull’esperienza diretta (ad esempio la memoria di situazioni simili nel passato) o indiretta (ad esempio un resoconto scritto o parlato), e la loro funzione fondamentale è quella di guidare il comportamento in situazioni anche molto complesse (Roese & Sherman, 2007).

Nei prossimi paragrafi si cercherà di definire quali sono gli aspetti in base ai quali caratterizzare le aspettative che possediamo, in modo tale da comprenderle meglio e, nel caso, valutarne l’utilità. Ciò, infatti, ci renderebbe in grado, una volta venuti a conoscenza di quali aspettative ci guidano in una determinata situazione, di prestarvi attenzione e correggerle in modo da facilitare il perseguimento dei nostri obiettivi nella situazione considerata. Consideriamo, ad esempio, l’andare in macchina. Se la mia aspettativa sulla guida dell’auto è di dover stare attento perché la strada è un posto pericoloso e in genere l’automobilista tipo è un omone arrabbiato, manesco e fortemente suscettibile, probabilmente non prenderei mai la macchina! In questo caso, cercare di identificare le mie aspettative sulla guida e poi sottoporle a revisione potrebbe semplificarmi parecchio la vita.

La ricerca ha individuato cinque parametri in base ai quali definire la natura di un’aspettativa (Roese & Sherman, 2007): la probabilità di occorrenza dell’evento considerato, la fiducia soggettiva su tale giudizio di probabilità, l’accessibilità dell’aspettativa, il suo grado di astrattezza, la sua chiarezza. Vediamoli uno a uno.

Aspettativa e probabilità

Il primo parametro è la probabilità di occorrenza dell’evento considerato. In questi termini si intende la stima, da parte del soggetto possessore dell’aspettativa, che l’evento previsto accada o non accada, e si situa in un punto tra la piena certezza e la piena incertezza (in termini probabilistici, tra 0 e 1). Maggiore la probabilità stimata, più probabile è che essa influenzi il nostro comportamento e i nostri pensieri in linea con la situazione prospettata (credo che pioverà? Mi porto un ombrello). L’aspettativa potrà essere così confermata o disconfermata dalla situazione attuale. Se confermata, a parità di condizioni e in situazioni future simili, l’evento previsto (‘pioverà’) verrà considerato più probabile (conferma dell’aspettativa), o meno probabile (disconferma).

Aspettativa e fiducia

Il secondo parametro è la fiducia che diamo alla probabilità stimata per l’evento, ovvero il grado di fiducia che diamo alla nostra credenza. Per tornare all’esempio precedente potremmo farci una domanda del tipo: ‘Quanto mi fido del mio giudizio sul fatto che pioverà?’. Il fatto è che magari non sono un esperto, non ho visto le previsioni meteo, non ho ancora preso il caffé etc. In altre parole, potrei non credere che le mie previsioni meteo siano molto affidabili e, in base a ciò, agirò di conseguenza (ad esempio potrei andare contro la mia previsione e non portare con me l’ombrello, con il rischio di bagnarmi).

Aspettativa e astrattezza

Il terzo parametro per valutare un’aspettativa è il suo grado di astrattezza. In questi termini si risponde alla domanda se l’aspettativa sia stata creata a partire da esperienze concrete e specifiche (immagazzinate nella memoria episodica) oppure a partire da generalizzazioni astratte (immagazzinate nella memoria semantica), che sintetizzano l’esperienza fatta a partire da molti eventi, persone e contesti. La differenza tra le due modalità non sono di poco conto.

Infatti, se nel primo caso (memoria episodica) avremo delle aspettative che verranno formulate e applicate ex novo, sul momento, esse ci richiederanno tempo e risorse cognitive per essere calcolate, saranno meno generalizzabili a situazioni anche simili e potrebbero portarci a sbagliare perché errate. Nel secondo caso (memoria semantica) invece, esse saranno già pronte, articolate in strutture coese ad attivazione rapida, e terranno conto delle diverse situazioni possibili, permettendoci di adattarci più velocemente e con meno sforzo. Prendiamo come esempio la guida dell’auto e pensiamo alla prima volta che abbiamo messo mano al cambio manuale o abbiamo attraversato un incrocio trafficato. Probabilmente in quelle circostanze alcuni di noi avranno provato un brivido freddo e il desiderio urgente di scappare, tuttavia con l’esperienza abbiamo imparato a guidare automobili di tipo diverso e attraversato incroci anche molto complicati senza battere ciglio. A partire dalle molte esperienze fatte con cambi manuali e incroci stradali, abbiamo creato strutture di aspettative utilizzabili in diverse circostanze che presentano tratti simili, e ci sentiamo più sicuri.

Aspettativa e accessibilità

Il quarto parametro è l’accessibilità, ovvero la facilità con la quale l’aspettativa tende ad attivarsi in una determinata situazione, spingendoci ad agire e pensare in conseguenza di essa. Esso deriva da quanto recentemente e con quale frequenza l’aspettativa considerata si è attivata nel corso del tempo in situazioni tra loro simili. Maggiore la frequenza e la recenza di attivazione, più probabile che essa sia molto attiva e influenzi il nostro agire e pensare. Torniamo all’esempio precedente. Di solito quando mi trovo davanti a un semaforo rosso la mia aspettativa è che tutte le macchine della mia corsia saranno ferme in attesa del verde come me e nel caso in cui ciò non accadesse, la mia reazione sarebbe di sorpresa. Ciò avviene perché possiedo aspettative molto forti riguardanti il fatto che di fronte a un semaforo rosso si resta fermi, persino nelle gare di formula uno.

Aspettativa e chiarezza

L’ultimo parametro per mezzo del quale valutare un’aspettativa è la sua chiarezza, ovvero il grado con cui è possibile esplicitarla in forma verbale. Nel caso ciò non sia possibile l’aspettativa sarà posseduta dall’individuo nella sua forma implicita, non verbale, e il soggetto agirà in base ad essa in modo inconsapevole (Bargh & Ferguson, 2000). Questo parametro può essere in relazione sia al grado di complessità che all’articolazione tra le aspettative possedute.

Le aspettative più basilari sono, infatti, il prodotto di semplici e immediate associazioni tra concetti e/o attributi relativi agli eventi che osserviamo nel mondo, e che con l’accumulo di esperienza tendono a divenire via via più complesse e connesse. La maggior parte delle aspettative che possediamo, comunque, sono molto complesse, ricche e differenziate in relazione alle situazioni cui si riferiscono. Nel momento in cui riuscissimo a identificarle e a darvi una forma verbale avremmo la possibilità di rifletterci sopra con calma, condividerle con altri e procedere così ad un lavoro critico atto alla valutazione della loro utilità, della loro aderenza alla realtà e della loro adeguatezza in relazione ai nostri obiettivi.

Purtroppo la sola introspezione non ci permette di identificarle né tantomeno coglierne la portata per i nostri nostri pensieri e comportamenti, anche perché, quand’anche ciò accadesse, entrerebbero in gioco altri fattori (come ad esempio la promozione dell’autostima e di un’immagine di sé desiderabile) che ci impedirebbero di riconoscerle con chiarezza (Eagly & Chaiken, 1993). Tuttavia, esplicitare a parole un’aspettativa può essere un potente mezzo per indurre cambiamenti nel proprio modo di pensare e di agire, come ben sanno i terapeuti di orientamento cognitivo-comportamentale.

Partendo da queste considerazioni, allora, un primo modo con il quale potremmo acquisire una maggiore consapevolezza e controllo di noi stessi potrebbe essere cercare di cogliere con l’intuizione quali sono le aspettative che ci guidano nelle situazioni e prendere atto del loro influsso sul comportamento, sul pensiero e sulle emozioni. L’influenza delle aspettative su queste tre aree sono oggetto del prossimo articolo, che chiuderà l’introduzione a questo costrutto così importante per la psicologia sociale e per la comprensione del comportamento umano.

 


UN COSTRUTTO DI BASE DELLA PSICOLOGIA SOCIALE: L’ASPETTATIVA – LEGGI TUTTI GLI ARTICOLI DELLA SERIE:

 

L’impatto del benessere psicologico dei genitori sul trattamento del disturbo autistico

I dati dello studio suggeriscono che i genitori o i principali caregivers di bambini con autismo che affrontano stress particolari possono beneficiare di un trattamento incentrato sulla famiglia.

 

L’esperienza della disabilità è un terremoto emotivo che sconvolge l’esistenza di una persona costringendola a ricostruire la propria vita su basi diverse. La nascita di un bambino disabile mette fine al sogno di avere un figlio perfetto. Da questa fase a quella successiva di accettazione della disabilità intercorre un tempo variabile nel quale si mischiano senso di colpa, vergogna verso se stessi e verso il figlio, rabbia, impotenza, depressione e nuovo slancio propositivo, sentimenti che si ripropongono a ogni stadio evolutivo del figlio (La Rovere, 2019). Cosa vuol dire essere genitore di un bambino autistico?

Cos’è l’autismo?

I disturbi dello spettro autistico (Autism Spectrum Disorder, ASD) sono disturbi del neurosviluppo a eziologia multifattoriale, caratterizzati da deficit nell’interazione sociale e nella comunicazione (verbale e non verbale), associati alla presenza di comportamenti ripetitivi e interessi ristretti e stereotipati. (AmericanPsychiatric Association, 2013).

Fu lo psichiatra svizzero Eugen Bleuler a coniare nel 1911 il termine autismo, dal greco autós («sé stesso»), per descrivere un aspetto sintomatologico nuovo della schizofrenia in età adulta, caratterizzato da autoreferenzialità, negazione dell’altro e di ciò che è differente da sé, mancanza del senso della realtà, pensiero ripetitivo e bizzarro, incomunicabilità e isolamento.

Leo Kanner, pediatra americano, nel 1943 propose il termine autismo infantile precoce, staccandosi definitivamente dalla definizione di schizofrenia grazie allo studio su un gruppo di bambini osservati presso il Johns Hopkins Hospital di Baltimora. In particolare Kanner scriveva di un bambino: “la cosa che più impressiona di Charles è la sua inaccessibilità, il suo distacco. Cammina come stesse nella sua ombra, vive in un mondo tutto suo, dove non può essere raggiunto.” (Kanner, 1943).

L’impatto della diagnosi di autismo sui genitori

La diagnosi è il punto chiave per pianificare un trattamento e per i successivi esiti dello stesso. Una mancanza di conoscenza sulle pratiche diagnostiche può alterare l’efficacia del trattamento e portare ad un aumento di disagio emotivo nei genitori. Molti genitori vivono esperienze stressanti, come i problemi comportamentali dei bambini e le difficoltà del trattamento degli stessi. (Osborne, Reed, 2012).

Sapere come i genitori reagiscono alla diagnosi di autismo del loro bambino può contribuire a una maggiore comprensione del processo diagnostico, a un miglioramento della comunicazione della diagnosi e all’ottimizzazione delle decisioni relative al trattamento (De Aguiar, Pondè, 2020).

Le ricercatrici Pondè e De Aguiar hanno effettuato uno studio nel 2015 su 9 padri e 21 madri. Le interviste sono durate dai 13 ai 117 minuti, con una durata media di 35 minuti e sono stati osservati dodici casi nel momento in cui la diagnosi di autismo è stata comunicata ai genitori dei bambini. Quasi tutte le madri intervistate hanno espresso sentimenti di tristezza, angoscia e disperazione quando sono venute a conoscenza della diagnosi. Questi sentimenti sono stati descritti come uno shock; un momento devastante; la peggiore esperienza della loro vita. Per quanto riguarda i padri, la maggioranza ha descritto il momento come difficile e triste, uno shock, un colpo (De Aguiar, Pondè, 2020).

L’apprendimento della diagnosi del proprio figlio esercita un impatto emotivo negativo sui genitori, che può essere meglio elaborato da strategie di coping e dalla comunicazione della diagnosi che, oltre a fornire informazioni tecniche, offre conforto, sostegno emotivo e speranza riguardo allo sviluppo del bambino.

Tra le strategie di coping, la negazione può rappresentare una forma di convivenza con le difficoltà del bambino, conservando speranza e aspettative in relazione ai suoi aspetti positivi. […] Nel ricevere le strategie di coping, i genitori hanno chiarito che hanno bisogno di sostegno emotivo per prendersi cura dei loro figli e questo è un aspetto importante da ricordare non solo al momento della diagnosi ma durante l’intero processo di cura delle persone con autismo (De Aguiar, Pondè, 2020).

Relazione tra autismo e stress genitoriale

I genitori di bambini con disabilità dello sviluppo affrontano sfide che li mettono a rischio di alti livelli di stress e di esiti psicologici negativi. Fare da genitore a un bambino con autismo può portare ulteriori fattori di stress legati alla difficoltà del bambino nella comunicazione, comportamenti disfunzionali, isolamento sociale, difficoltà nella cura di sé e mancanza di comprensione. Diversi studi tra i genitori di bambini con autismo e disturbi dello spettro autistico correlati hanno riportato un aumento del disagio psicologico, compresa la depressione, l’ansia e componenti legati allo stress, come la diminuzione della coesione familiare, l’aumento dei disturbi somatici e burnout, in confronto ai genitori di bambini con sviluppo tipico o ai genitori di bambini non autistici con ritardo mentale o altra disabilità dello sviluppo. Inoltre, in diversi studi sui genitori di bambini con ASD, il comportamento del bambino e i problemi di condotta erano più strettamente legati a stress dei genitori, piuttosto che ad altri sintomi dell’autismo, gravità di ritardo dello sviluppo o abilità adattive. Gli studi fino ad oggi sono stati limitati da un piccolo campione, dal basso potere statistico e dai bassi tassi di risposta con possibile bias di selezione. La generalizzabilità era anche limitata perché i campioni sono stati tipicamente prelevati da strutture cliniche, scuole o organizzazioni di genitori (Schieve et al., 2015).

I bambini con autismo affrontano molti problemi di sviluppo e sfide fisiche, che spesso richiedono numerose terapie provenienti da diversi ambiti. Il trattamento basato sui modelli che enfatizzano una collaborazione di squadra, in cui le famiglie sono parte integrante, rispetto ai modelli centrati sul bambino, sta guadagnando attenzione. Tale centratura sul modello della famiglia considera le preoccupazioni familiari e la qualità della vita nello sviluppare piani di trattamento.

I dati dello studio suggeriscono che i genitori o i principali caregivers di bambini con autismo che affrontano stress particolari possono beneficiare di un trattamento incentrato sulla famiglia. In futuro saranno necessari ulteriori studi per confermare e ampliare questi risultati con un focus su specifici stressors che possono avere un impatto negativo sulla famiglia con un bambino con diagnosi di ASD (Schieve et al., 2015).

I genitori di bambini affetti da autismo fanno fatica o sono impossibilitati a svolgere una vita normale e, a causa della natura permanente del disturbo, si trovano perennemente angosciati dall’incertezza sia per il futuro prossimo del proprio bambino sia per quello più lontano. La terapia che si protrae per tutta l’esistenza e l’assenza di cure implicano che le famiglie si occupino del figlio disabile per molti anni.

I risultati di uno studio sul benessere psicologico (Dryer et al., 2014) di genitori di bambini autistici hanno riportato che i problemi comportamentali ed emotivi si verificano sia in casa che in pubblico, causando imbarazzo, restrizioni e impatto sui genitori che riportano stati emotivi di angoscia nella maggior parte degli ambiti della loro vita. Allo stesso modo, Tomanik et al. (2004) hanno scoperto che le madri hanno riportato più stress quando i loro figli si mostravano più irritabili, socialmente introversi, iperattivi e incapaci di interagire con gli altri.

Questo studio sottolinea l’importanza di affrontare l’ASD nell’ottica del benessere psicologico dei genitori. Fornire ai genitori maggiore assistenza e supporto sulle difficoltà comportamentali, emotive e sociali dei figli li aiuterà probabilmente a ridurre i loro livelli di angoscia. I risultati di questo studio mostrano che i genitori che beneficiano di una maggiore educazione e consapevolezza riguardo la gravità dei problemi comportamentali/emotivi del proprio figlio godono di una salute psicologica migliore. Una maggiore consapevolezza può portare a una maggiore accettazione di assistenza professionale per la cura del bambino e a un miglior supporto al benessere psicologico dei genitori di bambini con autismo (Dryer et al., 2014).

 

Il Demone del Grasso (2021) di Valeria Bobbi – Recensione

Il Demone del grasso è un libro scritto da Valeria Bobbi. Un racconto in parte autobiografico.

 

Una descrizione cronologica di emozioni caratterizza tutto il libro, una fame immonda, che contorce viscere e anima, affligge la protagonista fin dalla pubertà. È un demone appunto, che ad ogni emozione si sveglia e si impossessa di lei. Si placa di notte, tanto da far svegliare la giovane, ogni mattina, convinta di poter vincere la sua battaglia contro il senso di colpa e la voglia di dimagrire.

Alternando periodi di controllo del peso a periodi di fluttuazione incontrollabile, il demone ad un certo punto si impadronirà completamente di Caterina che si arrenderà a questo circolo vizioso, almeno fino ad un incontro con una persona che si rivelerà fondamentale.

L’equilibrio è l’obiettivo più complicato da acciuffare e non far scappare tra le intemperie dell’esistenza

Quanto è vero!

Leggendo questo libro ho riflettuto su quanto dovrebbe essere fatta promozione alla prevenzione dei disturbi alimentari, tanto quanto le dipendenze da droga e alcol. Una dipendenza, una particolare mal gestione emotiva, ha molte strade in cui incanalarsi e i disturbi del comportamento alimentare fanno parte di questi canali, fintamente accettabili rispetto a droghe ed alcol, fanno meno rumore e quando li viviamo, addirittura spesso non ce ne rendiamo neanche conto.

Leggere il racconto di chi ha vissuto certe dinamiche è un grande strumento per non sentirsi soli, strani, per vedere che, sebbene per ognuno di noi le esperienze sono personali, spesso hanno un comune denominatore.

Da leggere sicuramente, lo consiglio soprattutto ad un pubblico in età adolescenziale e, perché no, anche ai genitori che troppo spesso non danno troppo peso a certi comportamenti.

 

Quando la penna dà voce all’anima: scrittura espressiva e benessere

La scrittura espressiva permette non solo di sfogarsi, ma anche di comprendere maggiormente gli avvenimenti scritti.

 

I primi studi che hanno indagato la relazione tra scrittura espressiva e benessere psicofisico sono stati condotti da Pennebaker (Niles, Haltom, Mulvenna, Lieberman, Stanton; 2014), il quale considerava la scrittura come uno strumento catartico che consentiva non solo di “sfogarsi”, ma anche di prendere consapevolezza dei propri vissuti.

Negli ultimi 20 anni, una mole corposa di letteratura ha dimostrato gli effetti benefici che la scrittura di eventi traumatici, stressanti, esperienze di malattia e sentimenti negativi ha a livello fisico e psicologico (Baikie, Wilhelm; 2005): lo stesso Pennebaker scoraggiava l’inibizione delle emozioni negative o il controllo eccessivo delle stesse, in quanto richiedevano un lavoro fisiologico che comportava livelli malsani e cronici di stress (Lepore; 2002). L’inibizione delle emozioni negative, infatti, è deleteria per la salute, in particolar modo per quella cardiovascolare e per il sistema immunitario, a differenza dell’espressione emotiva, che è un moderatore significativo degli esiti dell’ansia (Niles, Haltom, Mulvenna, Lieberman, Stanton; 2014) ed è legata a condizioni di salute migliori.

Lo scrivere consente di mettere nero su bianco quello che si prova, incidendo sul foglio emozioni e sentimenti che altrimenti soccomberebbero nell’abisso dell’anima: è come se, tracciando su carta consonanti e vocali, si desse al mondo interiore la possibilità di parlare, di farsi vivo, quando le parole non lo consentono. Perché, quando la gola si chiude e la lingua si paralizza, la penna riesce a far vibrare le corde vocali.

La scrittura espressiva, dunque, permette all’individuo non soltanto di sfogarsi, ma anche di comprendere maggiormente gli avvenimenti scritti: in sostanza, rileggendo il proprio elaborato, si diventa osservatori esterni di sé stessi e si ha la possibilità di riflettere sul testo.

Vari studi dimostrano che scrivere dei propri pensieri più profondi, a lungo termine, comporta: miglioramento dell’umore e del funzionamento del sistema immunitario, minori visite mediche a causa dello stress, pressione sanguigna ridotta, miglioramento della funzione polmonare e della funzionalità epatica (Baikie, Wilhelm; 2005).

Alcuni studiosi, tuttavia, credono che la scrittura espressiva, in pazienti con difficoltà a riconoscere e verbalizzare le proprie emozioni (ad esempio gli alessitimici), non abbia alcun effetto benefico; altri, invece, sostengono la tesi opposta, attestando che coloro con maggiori difficoltà ad identificare e/o esprimere i propri vissuti, sono quelli che potrebbero trarre i più grandi vantaggi dall’expressive writing.

In sintesi, per molti quest’ultima non è uno strumento universalmente vantaggioso, ma in ogni caso, che si tratti di testi autobiografici, lettere, poesie o racconti fantastici, la scrittura è un mezzo di espressione emotiva (Smyth, Helm; 2003).

Un costrutto di base della psicologia sociale: l’aspettativa – Prima parte

Quello di aspettativa è un costrutto base in psicologia e uno dei blocchi principali costituenti la mente umana.

Ndr – Il presente articolo è il primo di una serie di tre articoli sul tema delle aspettative. Gli altri contributi verranno pubblicati nei prossimi giorni

 

Esse entrano in gioco quando ci alziamo la mattina, quando andiamo al lavoro, quando incontriamo gli amici, quando siamo impegnati in compiti nuovi, quando ci troviamo in situazioni ordinarie come in situazioni eccezionali. Esse ci permettono di considerare il mondo prevedibile, in una certa misura controllabile; ci permettono di costruire progetti dal brevissimo (secondi) al lunghissimo termine (anni), formulare piani di azione, impegnarci in obiettivi da raggiungere, simulare mentalmente scenari non ancora incontrati e massimizzare i risultati dello sforzo e dell’inventiva personale. Il loro impatto sulla nostra vita è ubiquo e soprattutto silenzioso, in quanto per la maggior parte del tempo esse ci guidano senza che ne siamo consapevoli (Roes & Sherman, 2007).

Per fare alcuni esempi, esse sono responsabili dell’apprezzamento estetico, che si baserebbe su una loro parziale disconferma quando viene fatta esperienza dell’opera d’arte (Berlyne, 1974); sono fondamentali nel definire gli atteggiamenti che abbiamo su eventi e oggetti del mondo (Ajzen & Fishbein, 1980); sono fondamentali nello humour (Wyer & Collins, 92), che si baserebbe sulla risoluzione di un’incongruità percepita tra quanto osserviamo/ ascoltiamo e le attese di come il mondo funziona; infine, hanno un ruolo chiave nella genesi e nello sviluppo della depressione, in cui le aspettative sugli eventi sono spesso perlopiù negative, cupe, fino a essere disperate (Abramson,  Metalsky & Alloy, 1989).

Cosa ci può dire la psicologia sociale sulle aspettative? Cosa sono? Quale è la loro funzione? In base a quali parametri si valutano? Se poco aderenti alla realtà sono passibili di modifica/revisione? Quali conseguenze esercitano sul comportamento, la cognizione e le emozioni? Questo e i prossimi articoli tenteranno di dare una risposta accessibile al lettore non specialista a queste domande.

Una definizione di aspettativa e delle sue funzioni

Innanzitutto serve una definizione di comodo. Consideriamo le aspettative come “credenze riguardanti futuri stati di cose” e, in quanto tali, sono stime soggettive della possibilità che uno o più eventi si presentino, con la possibilità espressa tra gli estremi della certezza incrollabile e dell’impossibilità (Rose & Sherman, 2007). Sono, in altri termini, credenze che costruiscono scenari che riteniamo probabili e che utilizziamo come guida per agire nel mondo, e che si formano a partire dalle informazioni che possediamo in base alla nostra esperienza passata o per esperienza indiretta (dal racconto di un conoscente, da un libro, osservando gli altri, etc.).

La loro funzione primaria è di guidare il comportamento per raggiungere uno o più obiettivi in base a un confronto, che avviene a livello non consapevole, tra la situazione attuale – di cui il soggetto sta facendo esperienza – e uno stato di cose futuro che crede possibile. In base alle ‘piste’ fornite dalle aspettative, il comportamento che il soggetto attua sarà costantemente monitorato dal sistema cognitivo affinché sia raggiunto l’obiettivo e, se necessario, attuare delle modifiche al corso d’azione scelto.

Per fare un esempio, pensiamo a quando guidiamo l’automobile. Sappiamo che per partire da fermi dobbiamo effettuare tutta una serie di operazioni che crediamo daranno dei risultati (accendere l’auto, tirare la frizione, ingranare la prima etc.) senza i quali non partiremmo mai. Le aspettative ci dicono cosa dobbiamo fare, che sarà molto probabile che la macchina parta e, inoltre, cosa fare nel caso ciò non accada. Più la situazione attuale è percepita come complessa, più le aspettative tenderanno ad articolarsi di conseguenza, a formare un sistema che possa guidarci in essa. Avremo così diversi piani di azione disponibili, molteplici rappresentazioni di possibili situazioni future, diversi modi di affrontare una situazione, tutto ciò a concorrere per i nostri scopi (Rose & Sherman, 2007).

Il rapporto tra l’aspettativa e la realtà

Ma non c’è il rischio che le aspettative che possediamo siano sbagliate rispetto alla situazione attuale, ovvero che le nostre credenze non siano ancorate adeguatamente alla realtà? Non proprio. La maggior parte di esse sono accurate e rispecchiano molto fedelmente la realtà, perché basate su un bagaglio consistente di esperienza passata direttamente vissuta dall’individuo. Tuttavia possono contenere errori. Quando ciò accade il comportamento non porta gli esiti previsti e tra la aspettativa posseduta dal soggetto e la situazione reale verrà percepita una discrepanza, il soggetto percepirà che ‘c’è qualcosa che non va’, e l’aspettativa verrà disconfermata in una parte più o meno consistente, portando il soggetto a rivedere il comportamento, l’aspettativa stessa, o entrambi (Roese, 2001).

Ritornando all’esempio dell’automobile, avete mai provato a partire da fermi con la quarta marcia ingranata? Cosa avete sentito in quel momento, a parte il fatto che la macchina non partiva? Quella sensazione che c’era ‘qualcosa di storto’, era il sistema cognitivo che vi diceva di prestare attenzione a ciò che stava accadendo in quel momento.

Oltre a essere per la maggior parte corrette, precise e affidabili (per ora, quasi ogni mattina riusciamo a far partire l’auto) le aspettative agiscono perlopiù al di sotto della piena consapevolezza (in ‘automatico’; Rose & Sherman, 2007), il che le rende uno strumento che la nostra mente applica in modo efficiente e veloce alle situazioni che incontriamo nella vita quotidiana, soprattutto quando è necessario prendere decisioni rapide e in circostanze difficili, quando in genere sperimentiamo stanchezza, confusione e urgenza di pensare a una soluzione (come ad esempio scegliere un percorso alternativo se siamo in ritardo, o se inchiodare o sterzare se un pedone ci passa davanti).

Nella seconda parte si tenterà di fornire i parametri necessari per comprendere la natura e il funzionamento di questo indispensabile strumento cognitivo.

 


UN COSTRUTTO DI BASE DELLA PSICOLOGIA SOCIALE: L’ASPETTATIVA – LEGGI TUTTI GLI ARTICOLI DELLA SERIE:

 

Il microbiota influenza il comportamento sociale attraverso i neuroni dello stress

Il microbiota è un ecosistema complesso che influenza, modula ed è continuamente influenzato e modulato da molti sistemi attraverso il cosiddetto asse “microbiota-intestino-cervello”.

 

Una recente ricerca non solo ha confermato la forte connessione tra la composizione del microbiota ed i comportamenti sociali espressi dall’organismo ma ha anche identificato nei topi sia lo specifico gruppo di neuroni sensibili alle influenze del microbiota (nucleo paraventricolare dell’ipotalamo) sia il particolare ceppo di batteri (Enterococcus faecalis) che ne modulano il funzionamento neurale e comportamentale.

Il ruolo del microbiota nell’organismo

Fino a pochi anni fa le scienze biomediche consideravano il microbiota semplicemente come un insieme piuttosto passivo e statico di microorganismi (batteri, virus, funghi) che parassitavano il nostro organismo senza attribuire loro alcuna funzione vantaggiosa per le cellule umane.

Molto recentemente però, grazie soprattutto allo sviluppo della tecnologia necessaria a sequenziare i genomi dei batteri che fanno parte di questo complesso ecosistema (metagenomica, trascriptomica e metabolomica), si è cominciato a comprendere il ruolo imprescindibile (e per alcuni versi quasi disorientante rispetto ad alcuni assunti precedenti) del microbioma anche per la fitness umana.

La stima della massa totale del microbiota è circa un kilogrammo e, anche se è presente in tutte le superfici interne ed esterne del nostro corpo (pelle, bocca, stomaco, intestino, polmoni, ecc.), si trova maggiormente concentrata nel tratto dell’intestino tenue e del colon per il suo ruolo strategico sia per quanto riguarda l’elaborazione alimentare che per quanto riguarda il nostro sistema immunitario.

L’organismo umano è costituito da circa 30 mila miliardi di cellule che contengono DNA umano che convivono in maniera generalmente simbiotica con un numero almeno pari o superiore (probabilmente di circa un terzo) di cellule appartenenti al microbiota (Sender, Fuchs, & Milo, 2016).

Diversamente da quanto creduto in passato è quindi lecito domandarsi se, quando ci riferiamo al “nostro” organismo, intendiamo esclusivamente l’insieme di cellule che condividono il DNA della specie umana o stiamo invece considerando il concetto di olobionte che include il complesso ecosistema che comprende anche tutte le cellule con un DNA “extra” umano che ci permettono di sopravvivere e prosperare (Agnoletti, 2021a).

Molecole biologiche fondamentali per il funzionamento del nostro organismo quali, ad esempio, la serotonina e la dopamina, non sono sintetizzate da cellule con il DNA umano ma da organismi che appartengono al microbiota.

Il microbiota ha quindi un ruolo di assoluto protagonista della “nostra” fitness anche se finora è stato grandemente sottostimato.

Ormai sia le scienze biomediche con gli studi ad esempio sulla celiachia, sull’obesità o la colite ulcerosa, che quelle psicologiche con gli studi sull’ansia, la depressione e molte psicopatologie quali l’autismo, la schizofrenia ed altre ancora (Caio et al., 2019; Cheung et al., 2019; Kelly et al. 2016; Li & Zhou, 2016; Sharon et al., 2019; Foster & McVey Neufeld; 2013; Garrett et al. 2007; Mangiola et al., 2016; Rodrigues-Amorim et al., 2018; Simpson et al., 2021) rendono facilmente prevedibile, nel prossimo futuro, un radicale cambiamento di molti paradigmi di entrambi questi settori scientifici (Agnoletti, 2021b; Agnoletti, 2021c).

Grazie alle ricerche molto recenti sul microbiota sappiamo ad esempio che soprattutto i primi anni di vita dell’organismo sono fondamentali per il benessere e la qualità di vita psicofisica di tutto l’arco temporale umano perché ci sono particolari esperienze quali il parto, l’allattamento, la presenza di altri esseri viventi con i quali siamo in stretto contatto (per esempio animali domestici), l’assunzione o meno di antibiotici, la tipologia di stress psicosociale percepito, etc. (Koenig et al., 2011; Ottman et al., 2012) che determinano il particolare assetto e composizione del microbiota e quindi il suo impatto nell’intero organismo.

Il microbiota è un ecosistema complesso che interagisce in maniera biunivoca con molti sistemi cellulari costituiti da DNA umano nel senso che influenza, modula ed è continuamente influenzato e modulato da molti sistemi attraverso il cosiddetto asse “microbiota-intestino-cervello” (Cryan et al., 2019).

Effetti dei trapianti di microbiota

Esistono in letteratura già numerosi studi relativi a trapianti di microbiota (tra modelli animali, da modelli umani ad animali e tra umani) che dimostrano, per esempio, che trapiantando il microbiota di un ratto stressato negativamente al punto di renderlo ansioso o depresso, all’interno dell’intestino di un topolino né ansioso né depresso, si inducono velocemente (nel giro di pochi giorni) in quest’ultimo comportamenti ansiosi o depressivi simili al donatore (Kelly et al., 2016; Winter et al., 2018).

Anche il trapianto nella direzione opposta, trapiantando cioè il microbiota di un topolino non ansioso e non depresso nell’organismo di uno ansioso o depresso, si riscontrano significativi miglioramenti sulla qualità di vita e la salute del topolino ricevente questa componente biologica che non fa parte del DNA dei topolini.

Microbiota e comportamento sociale

Già alcune ricerche quindi avevano dimostrato nei topi una connessione tra il loro microbiota ed il comportamento sociale che esprimevano (Buffington et al. 2016; Desbonnet, 2014; Rogers, G. B. et al. 2016; Sharon, Sampson, Geschwind & Mazmanian, 2016), ma solo attraverso uno studio molto recente, pubblicato sulla prestigiosa rivista Nature, si è identificato il meccanismo specifico attraverso il quale avviene questa dinamica (Wu et al. 2021).

Questa ricerca ha dimostrato infatti che il microbiota modula l’attività neuronale di specifiche regioni del cervello dei topi dedicate al meccanismo di gestione dello stress ed i comportamenti sociali.

Il comportamento sociale dei topi privi di microbiota e trattati con antibiotici è associato ad elevati livelli di cortisolo che viene prodotto principalmente dall’attivazione dell’asse endocrino ipotalamo-ipofisi-surrene (il cosiddetto asse HPA dall’inglese hypothalamic–pituitary–adrenal axis).

In questo studio si è visto che l’adrenalectomia (operazione chirurgica che consiste nell’asportazione di uno o entrambe le ghiandole surrenali), la funzione antagonista dei recettori glucocorticoidi e l’inibizione farmacologica indotta nella sintesi del cortisolo correggono tutti efficacemente i comportamenti sociali espressi dai topolini causati dalla situazione disfunzionale del microbioma.

Anche l’intervento di silenziamento genetico indotto per ridurre l’attività dei recettori dei glucocorticoidi in specifiche regioni del cervello e l’inattivazione chemogenetica dei neuroni nel nucleo paraventricolare dell’ipotalamo (quelli che producono il rilascio della corticotropina, CRH, che induce a sua volta la produzione surrenalica di cortisolo) migliorano significativamente i disturbi sociali espressi nei topi trattati con antibiotici (somministrati precedentemente per indurre uno stato disbiotico, di disequilibrio, nel microbiota).

A conferma di quanto già rilevato, lo studio condotto da Wu e colleghi, ha dimostrato che l’attivazione specifica dei neuroni che esprimono corticotropina nel nucleo paraventricolare induce deficit sociali nei topi con un normale microbiota.

Attraverso la profilazione del microbiota ed un intervento in vivo, questi ricercatori hanno anche identificato una specie batterica, l’Enterococcus faecalis, che promuove l’attività sociale nei topi riducendo i livelli di cortisolo indotti attraverso uno stress psicosociale.

Questi studi suggeriscono che specifici batteri intestinali possono limitare l’attivazione dell’asse HPA e mostrano come il microbiota possa influenzare i comportamenti sociali attraverso specifici circuiti neuronali del sistema nervoso centrale che mediano la gestione psicofisica dello stress.

I risultati presentati in questo lavoro molto recente indicano la necessità di esplorare dinamiche simili anche nelle persone per il ruolo sempre più importante attribuito all’asse intestino cervello nel determinare i comportamenti umani.

Anche se deve essere ancora dimostrato sperimentalmente nei suoi dettagli umani, le evidenze già presenti in letteratura lasciano supporre la definizione di nuovi paradigmi interpretativi legati allo sviluppo dei disturbi d’ansia, relativi alla depressione ma anche a tutti quelli stress correlati.

 

Mostri di casa (2021) di Eleonora Marton – Recensione del libro

Mostri di casa è un albo illustrato rivolto ai bambini dai 4 agli 8 anni.

 

Eleonora Marton, autrice di numerosi libri per l’infanzia, ha realizzato una storia ironica e divertente per aiutare i piccoli lettori a superare una tra le paure più diffuse, la paura del buio.

Ludovica, la protagonista, ci fa entrare nella sua casa che di giorno è un posto tranquillo, mentre di notte è popolata da creature minacciose acquattate nell’oscurità.

Ludovica conosce l’aspetto e i nomi di questi temibili nemici: nell’ingresso appare il minaccioso Barabao dalle unghie affilate, nel soggiorno c’è Sbobb lingua bavosa, Cucinosauro regna in cucina, Sgorgo è il cattivissimo mostro dello sgabuzzino, Walter si nasconde nel bagno mentre Tenebro vive nella stanza degli ospiti.

Solo la camera di Ludovica e quella dei suoi genitori sono libere da mostri, sono i posti sicuri della casa. Ma come mai, si domanda Ludovica, i mostri compaiono solo di notte? Di giorno che fine fanno? Per venire a capo del mistero non resta che arrivare fino alla fine dell’albo illustrato, quando Ludovica scopre una inattesa verità.

Il libro, con le sue spiritose illustrazioni, è molto utile per aiutare i bambini a sdrammatizzare le proprie paure senza, però, correre il rischio di operare una svalutazione; può, in questo, rappresentare un utile aiuto anche per l’adulto che vuole sostenere il bimbo, accompagnandolo nella crescita.

Il timore di ciò che non riusciamo a vedere, a conoscere e, di conseguenza, a controllare, è insito in tutti noi; è per questo che è importante imparare a convivere con le nostre paure più recondite, imparando, come il libro invita a fare, ad andare oltre le apparenze.

 

Esordi psicotici: un’attenzione particolare ai processi di recovery

Il decorso del disturbo nei casi di psicosi è fortemente condizionato dalla tempestività della presa in carico e dall’adeguatezza degli interventi integrati attuati nei primi due anni successivi all’esordio psicotico.

Annalisa D’Errico – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Mestre

 

Resta comunque ancora molta strada da fare. Anche se gli antipsicotici di seconda generazione riescono finalmente a colpire il cuore biologico della malattia, non potranno però mai trovare al paziente un lavoro o degli amici: nessuna molecola sarà mai così potente da donargli magicamente la capacità di sviluppare d’un colpo rapporti sociali normali. Questa è una prerogativa che spetterà sempre all’uomo: al medico, al familiare e, da oggi in poi, anche al malato stesso (L’Enciclopedia – Dizionario Medico, Roma, La biblioteca di Repubblica, 2004, pag. 1178)

Cosa s’intende con il termine psicosi ed esordio psicotico?

Il termine psicosi indica una vasta gamma di disturbi psichiatrici che si manifestano con severi sintomi di varia natura, in cui l’individuo sperimenta una distorsione o una perdita di contatto con la realtà, ossia un’incapacità di distinguere il proprio mondo interiore dalla realtà esterna. La psicosi può essere intesa come un cambiamento radicale che ha effetti sconvolgenti sul sé causando il deragliamento, l’interruzione o la paralisi della traiettoria di sviluppo della persona.

I disturbi psicotici hanno un’età di insorgenza compresa tra i 14 e i 35 anni, si manifestano con sintomi positivi (inizialmente dispercezioni, fino a franchi deliri ed allucinazioni) e negativi (ritiro sociale, apatia, rallentamento, appiattimento emotivo). In sintesi, comprendono disorganizzazione del pensiero e del linguaggio, bizzarrie comportamentali, disturbi affettivi e marcato calo del funzionamento (APA, 2013). Inoltre, possono essere presenti altri sintomi quali deflessione dell’umore, ansia, disturbi del sonno, disturbi dell’attenzione, della concentrazione e della memoria che comportano spesso scarsa prestazione scolastica o lavorativa. I principali disturbi psicotici o forme di psicosi sono: Schizofrenia, Disturbo delirante, Disturbo schizofreniforme, Disturbo schizoaffettivo e Disturbo psicotico breve.

L’esordio psicotico (FEP – First Episode Psychosis) avviene in genere prima dei 30 anni, l’insorgenza in età adolescenziale, con esordio prima dei 18 anni, è stimata del 18% (Davi, 2014). Si presenta come un evento apparentemente improvviso ma in realtà è preceduto da fasi prodromiche (della durata media di cinque anni), durante le quali avvengono una serie di cambiamenti e anomalie psicologiche e comportamentali (Larson et al, 2010; Heiden& Hafner, 2000). L’esordio psicotico può comportare la riduzione dei movimenti verso l’autonomia dalla famiglia e inibire la formazione dell’identità e la padronanza di sé.

L’importanza della presa in carico precoce degli esordi psicotici

Come precedentemente sottolineato, diverse ricerche svolte durante gli anni ‘90, hanno mostrato come fosse possibile rintracciare nella storia di vita di pazienti psicotici una serie di segnali e sintomi predittivi dello sviluppo patologico, la cui presenza in ragazzi giovani determina uno Stato Mentale a Rischio (ARMS – At Risk Mental State) (McGorry& Singh, 1995;  Yung et al, 1996). L’intervento precoce e tempestivo nei confronti di questi casi può avere effetti positivi sul decorso stesso della patologia, ritardando o prevenendo il primo episodio psicotico (Cozzi, 2017).

Diventa quindi fondamentale effettuare una corretta raccolta anamnestica volta a individuare i fattori di rischio che possono avere un ruolo nello sviluppo della psicosi. E’ stata riscontrata una frequente comorbidità dell’abuso di sostanze nei giovani, in particolare di sesso maschile, con recente esordio psicotico; si è ipotizzato che la tendenza ad usare droghe sia un tentativo di mitigare i sintomi psicotici negativi, la depressione o il disagio derivante dalle conseguenze del disturbo. Nonostante il sollievo soggettivo che può portare, l’abuso di sostanze ha spesso effetti deleteri sulla psicosi: peggiora la sintomatologia, aumenta le ricadute ed i conseguenti ricoveri ripetuti e incrementa la violenza e i suicidi (Smith e Hucker,1994). Il periodo in cui si manifestano i primi sintomi senza essere adeguatamente trattati è definito DUP (Duration of Untreated Psychosis), la sua durata è una variabile importante nella prognosi del disturbo, in particolare per quanto riguarda la remissione dei sintomi positivi (Norman, Lewis & Marshall, 2005).

Le ricerche ed evidenze scientifiche hanno portato dunque allo sviluppo di nuovi ed efficienti approcci e modelli di riconoscimento ed intervento, focalizzati sulle fasi prodromiche del disturbo, approcci che vengono definiti Interventi Precoci (EarlyIntervention). Si è assistito sempre più ad una visione ottimistica riguardo agli esiti nel trattamento delle psicosi. Le ragioni si possono riconoscere in due aspetti: nello sviluppo di farmaci antipsicotici di nuova generazione che hanno dimostrato una maggiore efficacia e minori effetti collaterali e nella consapevolezza che un intervento nelle fasi precoci della malattia potesse garantire una migliore qualità di vita al paziente ed ai suoi familiari e una prognosi maggiormente favorevole.

Un intervento precoce efficace dovrebbe essere (Malla e Norman, 2001) tempestivo, adattato a persone giovani che spesso vivono con le loro famiglie e che non hanno familiarità con i servizi e avere i seguenti obiettivi (Spencer, Birchwood, &McGovern, 2001): ridurre il tempo di DUP, accelerare il processo di guarigione attraverso efficaci interventi biopiscosociali, ridurre l’impatto negativo della psicosi sull’individuo e massimizzare il funzionamento sociale e lavorativo, prevenire le ricadute e la resistenza al trattamento farmacologico.

Situazione italiana: Programma 2000 e programma strategico GET UP

La letteratura internazionale e l’esperienza clinica hanno evidenziato come il decorso del disturbo, che presenta un’elevata variabilità in termini prognostici, sia fortemente condizionato dalla tempestività della presa in carico e dall’adeguatezza degli interventi integrati attuati nei primi due anni successivi all’esordio.

La prima e pionieristica esperienza organica di prevenzione secondaria delle psicosi nata in Italia è rappresentata dal “Programma 2000®”, programma di individuazione e intervento precoce all’esordio di patologie mentali che, dopo un iter burocratico e di definizione organizzativa e concettuale iniziato nel 1997 da un’idea di Angelo Cocchi e Anna Meneghelli, ha avviato l’attività sul campo nel 1999 come iniziativa sperimentale regionale, attuata dal Dipartimento di Salute Mentale dell’Azienda Ospedaliera Ospedale Niguarda Ca’ Granda di Milano. Anche alla luce dei risultati ottenuti il Programma è stato reiterato a partire dal gennaio 2002, rendendo possibile un assetto più esteso e più articolato. Attualmente ha sede operativa presso il Centro Psicosociale di via Livigno 3 a Milano, DSM Psichiatria 2.

Il Programma 2000® nasce come una possibile risposta preventiva di fronte alle usuali abitudini terapeutiche prevalentemente riparative, ed ha come destinatari giovani al primo episodio psicotico, o comunque al primo contatto con il Servizio e con una durata della psicosi non trattata (DUP) inferiore a 2 anni, e giovani considerati, per una combinazione di fattori e di evidenti segnali, ad alto rischio di psicosi.

Nell’ambito del “Programma 2000®” sono stati condotti, in un quadro di stretti collegamenti e collaborazioni internazionali, alcuni filoni di ricerca strategici, oltre ad aver sviluppato nel tempo un preciso e personalizzato modello di cura e intervento nelle psicosi all’esordio riconosciuto e valorizzato in ambito nazionale e internazionale. Un esempio di come l’esperienza e la competenza maturate in questo campo dall’équipe clinica di Programma 2000® ha potuto coinvolgere la partecipazione di docenti, esercitatori e supervisori all’interno della grande ricerca nazionale denominata Programma Strategico GET UP (Genetics, Endophenotypes and Treatment: Understanding early Psychosis), finanziato dal ministero Della Salute nell’ambito della Ricerca sanitaria finalizzata nazionale e promosso dall’università di Verona che si fonda sull’attuazione precoce di specifici interventi farmacologici e psicosociali, inclusivi di una psicoterapia ad orientamento cognitivo-comportamentale per il paziente, di un intervento psicoeducativo con le famiglie e di un’organizzazione dell’assistenza secondo il modello del case management che coinvolga tutte le figure professionali del dipartimento. Consta di 4 progetti e si pone l’obiettivo di testare l’efficacia di interventi innovativi per soggetti all’esordio di psicosi e per le loro famiglie, attuato in 115 centri di salute mentale dislocati tra Veneto, Emilia Romagna, le provincie di Bolzano, Firenze e Milano. Gli operatori che hanno ricevuto la formazione agli interventi specifici hanno acquisito competenze organizzative e cliniche che hanno modificato le pratiche attuate nei servizi. Sono entrati inoltre a far parte del programma dai 400 agli 800 soggetti all’esordio psicotico, che sono stati valutati al baseline e con un follow-up a breve termine in cui è stato raccolto DNA e materiale biologico che, con alcuni dati clinici d’esordio, ha costituito una biobanca di notevole importanza per l’identificazione di marcatori evolutivi.

Riabilitazione e Recovery: dalla malattia alla persona

La Disabilità è da dove partiamo, la Recovery è la nostra destinazione e la Riabilitazione la strada che percorriamo (Liberman, 2008)

Oltre all’individuazione dei fattori potenzialmente predittivi della possibilità di un esordio psicotico, come abbiamo fin qui visto, è diventato fondamentale anche l’aspetto riabilitativo ed il recupero in giovani che hanno avuto almeno un esordio psicotico. La riabilitazione psichiatrica è quell’insieme di interventi mirati a migliorare il funzionamento di persone con disabilità psichiche, in modo di essere in grado di svolgere un ruolo con successo e soddisfazione nell’ambiente di vita scelto con il minor sostegno continuativo possibile (Anthony, Farkas, Cohen, Gagne, 2002).

Un altro termine che ha preso piede da qualche anno e sul quale ci si concentra è quello di recovery, dal verbo inglese to recover che significa riaversi, riprendersi, recuperarsi, indica il percorso o processo che si compie nel superamento della psicosi. Il termine non significa necessariamente guarigione clinica, ma enfatizza il viaggio compiuto da ciascuno nel costruirsi una vita al di là della malattia. A differenza della parola “guarire”, recovery implica un’idea di processo, di percorso evolutivo e di viaggio che non ha una vera e propria fine; non si tratta dunque di un esito coincidente al ritorno alla condizione precedente al problema, quanto più di un percorso volto alla attivazione di risorse che permettono al soggetto di vivere in maniera piena la sua vita (Coleman, 1999).

Condurre una vita produttiva e soddisfacente anche in presenza delle limitazioni imposte dalla malattia mentale. È lo sviluppo, personale e unico, di nuovi significati e propositi man mano che le persone evolvono oltre la catastrofe della malattia mentale (Anthony, 1993)

Esistono diversi tipi di recovery (Anthony, 1993):

  • Recovery clinico (criteri oggettivi e misurabili): consiste nella remissione prolungata dei sintomi che costituiscono la diagnosi, presenti ad un livello subclinico per frequenza ed intensità; riduzione delle ospedalizzazioni e delle recidive; aderenza terapeutica.
  • Recovery funzionale/sociale (criteri oggettivi e misurabili): coinvolgimento a tempo pieno o parziale in un’attività che presuppone l’esercizio di un ruolo valido – come il lavoro o la scuola – che sia costruttiva e appropriata all’età. Una vita parzialmente o totalmente indipendente dalla supervisione da parte della famiglia o dei servizi, in modo che l’individuo sia responsabile per le esigenze quotidiane nella gestione del denaro, dei beni personali, dei famaci, degli appuntamenti nel fare la spesa e preparare da mangiare. Buoni rapporti con i familiari. Attività ricreative in luoghi e contesti normali in cui è richiesto il rispetto di regole. Relazioni soddisfacenti con i pari, caratterizzate dal curare in modo attivo le amicizie più strette e il mantenere una rete sociale di conoscenti.
  • Recovery personale (criteri soggettivi e oggettivi in parte misurabili): consiste nella crescita personale e nella riappropriazione delle proprie esperienze di vita, una speranza realistica per un futuro migliore che deriva dal fronteggiare i sintomi e la disabilità in maniera attiva, recuperando un senso di sé positivo. Empowerment che deriva dal successo nel raggiungere i propri obiettivi, dalla partecipazione al trattamento e dal trovare per sé nuovi ruoli soddisfacenti e socialmente validi. Si focalizza sul processo attivo di costruzione di un’esperienza di vita significativa, così come definita dalle persone stesse.

Sebbene il termine recovery comprenda aspetti appartenenti a tutte e tre queste categorie, esso implica in primo luogo un processo di cambiamento personale e di riappropriazione del potere e del controllo della propria vita al di là della remissione sintomatologica.

Dal punto di vista pratico è fondamentale nel recovery agire tempestivamente su più livelli:

  • Biologico: assumere regolarmente la terapia, fare attività fisica all’aperto, controllare la propria dieta, evitare l’assunzione di alcool e droghe.
  • Psicologico: instaurare un’alleanza e un dialogo continuo con un operatore del Centro di Salute Mentale (psichiatra, infermiere, psicologo, assistente sociale o tecnico della riabilitazione) poichè conosce questo disturbo e sa come aiutare nell’affrontare i pensieri e le difficoltà che accompagnano la psicosi.
  • Sociale: riprendere gli studi, cercare un lavoro con l’aiuto dei tecnici della riabilitazione, riallacciare i rapporti con gli amici o risperimentarsi al più presto in nuove occasioni di incontro e svago. L’interruzione di alcuni di questi passaggi può rallentare la ripresa o favorire una ricaduta.

Secondo l’approccio del recovery, quindi, radicalmente diverso da quello proposto dalla medicina tradizionale occidentale, fenomeni inusuali, tra cui udire le voci, non vengono considerati come un sintomo di malattia o di perdita di contatto con la realtà, ma come esperienze significative e reali per chi le vive e quindi dotate di senso ed integrabili nella vita della persona (Casadio, 2014).

Nel mese di marzo 2012, l’amministrazione dei servizi per l’abuso di sostanze e la salute mentale (SAMHSA) ha annunciato una definizione aggiornata di “recupero” dai disturbi mentali. Definiscono la recovery come “un processo di cambiamento attraverso il quale gli individui migliorano la loro salute e benessere, vivono una vita autodiretta e si sforzano di raggiungere il loro pieno potenziale”. Sulla base della visione del recupero come diritto, la cura della salute mentale orientata al recovery è concettualizzata come una collaborazione tra utenti del servizio e fornitori che deve essere guidata dalla visione del tipo di vita che una persona vorrebbe condurre.

Servizi di salute mentale orientati al recovery

In passato, la diagnosi di una grave malattia mentale, come può essere la psicosi, era associata ad una vita di disabilità (Frese, Knight, & Saks, 2009). I trattamenti per la malattia mentale erano focalizzati principalmente sull’uso di farmaci per ridurre i sintomi, con disabilità a lungo termine sia attesa che accertata (Dipartimento della salute e dei servizi umani degli Stati Uniti, 2003). Gli utenti del servizio, i membri della famiglia ed i professionisti della salute mentale hanno sostenuto una visione più ampia di recupero che non si limitava al sollievo dai sintomi, ma che includeva un ripristino dei vari domini per i quali la maggior parte delle persone riteneva importante la propria salute mentale e il proprio benessere. Tali domini includevano sicurezza e alloggi a prezzi accessibili, occupazione significativa, sostegno tra pari/sociale/familiare, sviluppo personale e arricchimento e impegno con la comunità, attività e organizzazioni. Approcci precoci alla cura della salute mentale o non avevano riconosciuto l’importanza di questi domini del tutto, o non erano riusciti ad affrontarli efficacemente.

L’aumento delle evidenze scientifiche per l’implementazione di pratiche e sistemi orientati al recovery ha portato ad un maggior riconoscimento e consenso (Compagni et al., 2007). Tuttavia, è necessario identificare con maggiore chiarezza il contributo che i servizi di salute mentale possono dare in questo senso (Slade et al., 2011) e come queste pratiche possano essere integrate comportando un cambiamento all’interno dei sistemi di cura dei Paesi anziché rimanere realtà singole ed isolate che non si contaminano.

Il paradigma del recovery propone un riorientamento ed una trasformazione delle politiche di salute mentale, in grado di dialogare con il modello di psichiatria inaugurato in Italia con la legge 180 e allo stesso tempo in grado di promuovere una modalità di trattamento multidisciplinare, flessibile, personalizzata che fa affidamento ridotto sui farmaci e include la partecipazione dell’utente e della sua famiglia, enfatizzando il ruolo del contesto e riducendo pratiche coercitive e di ricovero ospedaliero. Lo scopo dei professionisti è quello di dotare la persona di risorse, informazioni, abilità, reti sociali e supporti per gestire la loro condizione e per aiutarli ad accedere alle risorse di cui ritengono di avere bisogno per vivere le loro vite. Ciò implica una relazione tra i professionisti e le persone che essi servono radicalmente diversa da quelle tradizionale in termini di potere e dipendenza (Casadio, 2016).

Questo significa che i servizi di salute mentale devono essere molto più interessati al benessere e alla salute complessiva della persona e devono fornire supporti per dare la possibilità alle persone di funzionare come cittadini nella loro comunità.

Ci sono diversi modi in cui il sistema di cure può supportare la ripresa di persone affette da disagio mentale e questo avviene promuovendo relazioni, benessere e offrendo trattamenti che migliorino le possibilità di inclusione sociale (Slade, 2009).

Gli obiettivi dei «servizi di salute mentale orientati al recovery» sono pertanto diversi dagli obiettivi dei «servizi tradizionali di trattamento e di cura». Passaggio: da uno staff che è sentito lontano, perchè considerato in una posizione di “esperto” che ha una “autorità”, a qualcuno che si comporta più come un “personal coach o trainer”, mettendo a disposizione le proprie abilità e conoscenze professionali, mentre nel contempo impara dagli utenti e conferisce loro un valore, che è esperto attraverso l’esperienza (Robert & Wolfson, 2004). Poichè gli individui con malattia mentale possono condurre vite relativamente normali e realizzate anche se sono vulnerabili alle ricadute e devono essere seguiti per un tempo indefinito, i servizi devono diventare, da un posto dove gli utenti ricevono assistenza e trattamento, a posti che li dotano di strumenti per gestire se stessi e per costruire le loro vite dove e come desiderano farlo. Tali servizi tendono ad andare oltre la tradizionale assistenza clinica per aiutare la persona con malattia mentale a reinserirsi nel tessuto sociale, incorporando nel concetto di guarigione gli esiti raggiunti nelle dimensioni della qualità di vita, del lavoro, dell’abitazione, dell’amicizia e della vita sociale (Appleby, 2007).

I principi dei servizi di salute mentale orientati al recovery dovrebbero essere:

  • Unicità dell’individuo
  • Scelte individuali e indipendenti
  • Diritti e atteggiamento proattivo
  • Dignità e rispetto
  • Comunicazione e partnership con i Servizi
  • Continua valutazione e misurazione della pratica clinica orientata alla recovery
    (Herefordshire partnership NHS Foundation Trust «Recovery Principles in the UK)

Soprattutto nei paesi anglosassoni, negli ultimi 30 anni una serie di fattori concomitanti hanno determinato la nascita e lo sviluppo del “Recovery Movement” che si articola in diversi criteri tra cui: la deistituzionalizzazione e l’integrazione nella vita comunitaria, il desiderio degli utenti psichiatrici di avere maggior controllo sul proprio destino, il crescente movimento per i diritti umani, la disponibilità di psicofarmaci meglio tollerati.

In sintesi, nella pratica orientata al Recovery (Davidson et al., 2009) i criteri da considerare sono:

  • Primarietà della partecipazione
  • Favorire l’accesso e il coinvolgimento
  • Garantire la continuità della cura
  • Utilizzare una valutazione basata sui punti di forza
  • Offrire una pianificazione individualizzata del percorso di Recovery
  • Fungere da “guida per il Recovery”
  • Conoscere e sviluppare l’inclusione comunitaria
  • Identificare e affrontare le barriere al Recovery

Ogni servizio o trattamento o intervento o supporto deve essere valutato in questi termini: quanto aiuta il paziente a raggiungere i suoi obiettivi di guarigione?

È possibile misurare il recovery?

Grazie ad un maggior riconoscimento del concetto di recovery nel trattamento della malattia mentale, si è dato via alla progettazione di diversi strumenti per valutare sia il recovery personale che l’orientamento in questa direzione dei servizi sanitari. Infatti, la necessità di orientare i servizi di salute mentale verso il recupero personale richiede l’utilizzo di misure che consentano di valutare sia il processo di recupero individuale degli utenti sia quanto un particolare programma, agenzia o sistema nel suo insieme sia efficace nel promuovere tale recupero (White, 2006).

In letteratura si trovano diverse review che hanno cercato di fare una rassegna dei principali strumenti utilizzati attualmente. Al riguardo, nonostante l’esistenza di definizioni comunemente accettate, la variabilità relativa alla concettualizzazione di un processo tanto soggettivo, complesso e multidimensionale come il recupero personale ostacola la creazione e selezione di misure oggettive per la sua valutazione. Inoltre, c’è una grande variabilità per quanto riguarda le dimensioni utilizzate dagli attuali strumenti valutativi.

Uno strumento ad oggi utilizzato per la maggiore è il RAS (Recovery Assessment Scale) che misura il recovery personale. I fattori psicologici indagati sono:

  • Fiducia in sé stessi e speranza
  • Disponibilità a chiedere aiuto
  • Orientamento ad obiettivi ed al successo
  • Fiducia negli altri
  • Non sentirsi dominati dai sintomi

Il RKI (Recovery Knowledge Inventory) (Bedregal et al. 2006) valuta le attitudini e le conoscenze dei professionisti della salute mentale riguardo al recovery. Le aree valutate sono:

  • Ruoli e responsabilità nel Recovery
  • Non linearità del processo di Recovery
  • I ruoli della autodefinizione e dei pari nel Recovery
  • Aspettative rispetto al Recovery

Possiamo concludere evidenziando come sia necessario specificare, unificare e chiarire il concetto ed il modello di recovery. Questo è l’unico modo per raggiungere il consenso sui domini che lo compongono; ciò consentirà a sua volta di selezionare gli strumenti più appropriati per valutare tale concetto. Nello stesso modo, se gli elementi che contribuiscono al processo di recovery sono compresi e specificati, sarà possibile scegliere gli strumenti che servono per valutare i servizi di salute mentale e, quindi, sarà possibile migliorare il processo e l’approccio attuato nei confronti della persona.

 

La Fiaba: un racconto solo per bambini?

Tutti abbiamo, almeno una volta nella vita, avuto la possibilità di entrare in contatto con la narrazione delle fiabe. Tradizioni tramandate di generazione in generazione, dai più grandi ai più piccoli.

 

Ma chi in età adulta, con il senno di poi, con l’acquisizione di una struttura di personalità più matura, si è mai domandato od incuriosito sui significati profondi ed intrinsechi racchiusi nel racconto?

La Sirenetta

Alcuni di questi concetti li possiamo facilmente ‘interpretare’ e incorporare all’interno di una delle famose Fiabe dello scrittore danese Hans Christian Andersen, La Sirenetta, successivamente reinterpretata nel 1989 nel film d’animazione prodotto da Walt Disney Feature Animation.

Quando accadrà no non lo so…ma del tuo mondo parte farò, guarda e vedrai che il sogno mio si avvererà! [cit. Ariel de La Sirenetta]

Il soddisfacimento del desiderio si può manifestare sotto diverse forme, assumere diversi aspetti, varie interpretazioni possono spingere l’uomo al compimento di azioni e/o reazioni.

Nella realtà odierna, ancora oggi basata su concezioni e fondamenti etici e morali, può risultare complesso riuscire ad appagare i propri istinti più reconditi, giungendo in alcune occasioni ad una condizione di mancata accettazione del sé od impossibilità nel mostrarla, fattore di grande importanza ai fini del raggiungimento di uno stato di benessere psicofisico.

Il senso di autorealizzazione, presente in ognuno di noi, viene amplificato o ridotto in base alla motivazione e perseveranza del singolo. In alcune circostanze si assiste ad un vero e proprio ricercare il compromesso pur di ottenere il desiderato. Azione, quest’ultima, che spinge la protagonista della Fiaba, nonché Ariel, a rinunciare alla sua suadente voce, donandola alla Strega del Mare, in cambio di arti umani.

Non pretendo molto, un compenso del tutto simbolico…una sciocchezza! Una cosa di cui puoi fare a meno. Quello che voglio da te è….la tua voce. [cit. Ursula de La Sirenetta]

Una continua ricerca verso l’emancipazione, un allontanarsi dalle restrizioni e costrizioni dettate dal contesto esterno, per poter finalmente approdare sull’isola della libertà, così come Ariel desiderosa di lasciare per sempre la pinna e poter godere di gambe umane che le permettessero di affrontare nuove avventure, lontana dagli stereotipi e dalle pressioni del Regno.

Mi sono sempre reputato un tritone ragionevole. Ho stabilito certe regole e pretendo che quelle regole vengano rispettate da tutti. [cit. Tritone de La Sirenetta]

Un Re del mare che si oppone al carattere ribelle della propria figlia, cercando di dissuaderla nel suo voler esplorare la terra ferma, entrare in contatto con gli umani e varcare la sua tanto sicura comfort zone.

Quello che viene riportato nel mondo immaginario altro non è che una trasposizione della realtà, anche la fantasia può celare un significato profondo, che verrà rivelato solo ad occhi attenti.

Lo vede? E poi non mi dica che l’avevo avvertita, Maestà. I giovani devono essere lasciati liberi di scegliersi il loro avvenire. [cit. Sebastian de La Sirenetta].

Fiaba e Realtà

Innumerevoli gli ostacoli incontrati duranti il percorso di vita, a volte demoralizzanti e ostili, altre coinvolgenti e portatori di novità. Fattori che non vengono però elicitati nel film di animazione della Disney, in quanto Ariel e il principe Eric alla fine della storia si sposano vivendo finalmente ‘Felici e Contenti’.

La società odierna, nonostante il suo continuo evolversi, in alcuni casi tende a camuffare quello che per molte persone può risultare un’avversità, una difficoltà nell’esprimere se stessi cercando di negare ciò che in realtà provano.

Nella Fiaba originale di Andersen possiamo riscontrare questo cammino impervio. Ariel, fortemente innamorata, sceglie di non utilizzare il pugnale donatole dalle sorelle per uccidere il principe così da continuare a vivere, ma decide di accasciarsi su uno scoglio e bagnata dall’acqua salina concludere la sua vita da Sirena tramutandosi in schiuma di mare.

La comunità, può, dunque volontariamente o involontariamente infrangere il desiderio del singolo, il quale stigmatizzandosi è costretto ad adeguarsi al contesto, al conformarsi all’etica, rinunciando all’esser libero.

Notiamo, dunque, un forte significato che in questo caso l’autore ha voluto lasciare in eredità al mondo.

Un aspetto psicologico che può inficiare il benessere psicofisico dell’individuo, la mancata realizzazione del sé, il contrasto con l’esterno e la morale e quanto questo possa influenzare le nostre decisioni, incidere sui nostri pensieri ed atteggiamenti. Non bisogna racchiudere la propria voce all’interno di una conchiglia, ma esprimerla, facendo sentire al mondo che esisti e puoi creare valore anche andando al di là dei confini della realtà.

Andersen conclude il suo racconto con la salvezza, la rinascita di Ariel, ripagando la sua purezza.

Invisibile baciò la sposa sulla fronte, sorrise al principe e salì con le altre figlie dell’aria su una nuvola rosa che navigava nel cielo. Fra trecento anni entreremo nel regno di Dio! [cit. Hans Christian Andersen]

In conclusione, la protagonista prende in mano la sua vita, affrontando scelte ardue ma personali, nonostante le barriere imposte dai profondi Abissi del mare.

Ma nella realtà, tutti riescono a gestire tali fattori ostacolanti od incapacità nel giunge ad uno sblocco interno? E se Ariel avesse avuto al suo fianco il supporto di uno Psicologo?

 

Report dal Congresso della International Society for the Study of Personality Disorders

Si è appena concluso il congresso della International Society for the Study of Personality Disorders (Società Internazionale per lo studio dei Disturbi di Personalità, ISSPD), organizzato in collaborazione con l’ospedale universitario di Oslo, ma svoltosi interamente online.

 

Nel corso di 3 giorni si sono alternati numerosi relatori affrontando temi centrali nel dibattito internazionale (e italiano) sui disturbi di personalità (DP) e sulla psicoterapia in genere. Particolare attenzione è stata infatti dedicata al rapporto della psicoterapia con l’evidence-based practice e alle prospettive evolutive (epistemi trust, unmet needs, etc.) e dimensionali (fattore p, tratti, etc.) della personalità. Ne emerge un quadro caratterizzato da marcate contraddizioni, ma anche da una significativa propensione ad innovare una disciplina che ambisce ad una visione sovraordinata e comprensiva dell’esperienza umana.

L’eredità di Theodore Millon

Chiunque lavori nell’ambito della personalità non può non confrontarsi con l’opera di Theodore Millon, la cui eredità è centrale nella ISSPD. Nell’aprire il congresso, Carla Sharp, presidentessa in carica della ISSPD, ha evidenziato una lettura critica di questa eredità che ha trovato il suo naturale esito nella prima keynote sul tema dell’evidence-based practice.

L’elaborazione del pensiero di Millon nella ISSPD sembra procedere lungo due linee. Primo, nel riconoscerne il ruolo fondativo, si pone l’accento non sul modello prototipico dei disturbi di personalità, quanto sul concetto di “personality-guided synergistic therapy” (lett. terapia sinergica guidata dalla personalità) con cui questi aprì il primo congresso della società nel 1984 (Ronningstam et al., 2021). L’idea è quella di perseguire una psicoterapia in cui, a prescindere dal target e dal format, la comprensione della personalità guida l’agire clinico secondo una prospettiva che supera la tradizionale definizione di integrazione. L’integrazione diviene infatti non un generico approccio eclettico tra scuole di pensiero, quanto piuttosto un processo di personalizzazione in cui tratti e sintomi specifici della persona orientano la scelta di obiettivi e interventi. Secondo, si riconosce un limite nella quasi esclusiva focalizzazione da parte di Millon su un metodo empirico e deduttivo, che diviene limitante nel fronteggiare una disciplina in cui si intersecano numerose variabili e che rischia di polarizzare sterilmente il dibattito tra approcci quantitativi e qualitativi (Pincus & Krueger, 2015).

Questa visione critica di Millon aiuta forse a capire il razionale del programma in cui la prima lettura magistrale si è focalizzata sulle metodologie meta-analitiche e in cui centrali sono stati gli interventi personality-guided. Da un lato la prima keynote tenuta da Pim Cuijpers ha mostrato quello che possiamo apprendere dagli studi sulla depressione per implementare in chiave evidence-based i trattamenti sui disturbi di personalità. Notevole interesse ha suscitato il database open-access METAPSY (Cuijpers et al., 2019) in cui è possibile visionare e condurre online meta-analisi sui trial esistenti sulla depressione. Dall’altro lato gli approcci più ricorrenti nei simposi rientrano chiaramente in una prospettiva personality-guided per come suggerita da Millon. Tra questi oltre a Mentalization Based Treatment (MBT), Dialectical Behavior Therapy (DBT) e Schema Therapy (ST) troviamo anche la Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI), rappresentata da Giancarlo Dimaggio in due simposi rispettivamente su cognizione sociale e disturbo evitante. La TMI si inserisce pienamente in questa prospettiva presentando un intervento transdiagnostico di gruppo (Popolo et al., 2021) e un tentativo di integrazione con la MBT per pazienti evitanti (Simonsen et al., 2021).

La prospettiva evolutiva dei disturbi di personalità

Per quanto numerose siano le differenze, tutti i modelli di diagnosi e trattamento dei disturbi di personalità rimarcano un’età di insorgenza precoce e un decorso di lunga durata. Non stupisce dunque che la quasi totalità delle psicoterapie personality-guided presenti al congresso ponessero l’accento su meccanismi evolutivi di vulnerabilità o resilienza. Il simposio più seguito del primo giorno ha cercato ad esempio di rispondere alla domanda: quali fattori promuovono la resilienza nei confronti dei disturbi di personalità? Tra gli speaker Patrick Luyten e Arnoud Arntz che hanno presentato rispettivamente la prospettiva della MBT sull’epistemic trust e della ST sugli unmet needs. Al di là delle differenze terminologiche e cliniche entrambi gli approcci riconoscono l’impatto di bisogni e relazioni primarie in età evolutiva nel predire successive problematiche alla base dei disturbi di personalità (Caspi et al., 2016). Luyten ha portato buone evidenze neurofisiologiche su come i pattern disfunzionali nella relazione con i genitori creino un deficit nella regolazione dell’arousal e conseguentemente della mentalizzazione (Luyten & Fonagy, 2015). I dati clinici sull’efficacia nel targetizzare la relazione genitoriale per migliorare la salute mentale del paziente sono invece ancora parziali (Barlow et al., 2015). Arntz ha optato per mostrare la complessa articolazione di bisogni insoddisfatti, schemi maladattivi e modes della più recente formulazione della ST (Arntz et al., 2021), suggerendo come favorire una comprensione e prevenzione di parenting disfunzionali.

La prospettiva evolutiva emerge come fondamentale nella comprensione dei disturbi di personalità anche nel simposio della seconda mattina sul futuro dei trattamenti. Peter Fonagy pone da subito l’accento sia sulla dimensione evolutiva che dimensionale. La psicoterapia del futuro deve superare i limiti di un modello nomotetico e orientare l’intervento a partire da una comprensione della traiettoria evolutiva e delle caratteristiche di personalità individuali. A questa visione concorrono gli sviluppi della DBT (con in particolare l’approccio trauma-focused di Martin Bohus), della Transference Focused Psychotherapy (TFP; sottolineandone la prospettiva transdiagnostica con John Clarkin) e ovviamente della MBT (speaker Anthony Bateman). Tutti i relatori concordano su un modello evolutivo della vulnerabilità che converge su un fattore generale di psicopatologia in linea con l’ambizione “sinergica” di Millon e della ISSPD. In molti hanno utilizzato il costrutto di epistemic trust per come formulato da Fonagy sottintendendo una relazione diretta tra vulnerabilità evolutiva e psicopatologia generale. Tale costrutto vuole portare avanti il lavoro della MBT su un’altra importante funzione dell’attaccamento (oltre alla mentalizzazione): ovvero una fiducia nell’autenticità e rilevanza personale della conoscenza trasmessa interpersonalmente, che rappresenterebbe un fattore centrale di resilienza (Fonagy & Campbell, 2017).

La prospettiva dimensionale dei disturbi di personalità

Fonagy ha più volte citato nei suoi interventi la necessità di ripensare la psicoterapia a partire dagli studi sul fattore p o in genere sui modelli dimensionali (Alternative Model of personality Disorders – AMPD) o gerarchici (Hierarchical Taxonomy of Psychopathology – HiTOP) di psicopatologia (Caspi et al., 2013). E questo tema ha dominato i maggiori simposi della seconda giornata e non solo. Se in molti dibattiti nazionali la prospettiva dimensionale o gerarchica sembra ancora fronteggiare gli stessi dubbi che portarono l’APA ad inserirli in una sezione a parte del DSM-5, nel programma congressuale rappresentano la posizione maggioritaria. Simili dubbi, per quanto giustificati dalla iniziale utilità di una descrizione prototipica del paziente, contrastano fortemente con la mole dei dati raccolti e con un approccio che come sopra riportato non vuole contrapporre quantità a qualità quanto piuttosto promuovere interventi personalizzati basati però su evidenze (Pincus & Krueger, 2015; Ronningstam et al., 2021).

Il criterio A dell’AMPD, ovvero il livello generale di funzionamento della personalità, è il tema di un simposio coordinato da Donna Bender, nonché il risultato di un lavoro quasi ventennale di revisione delle teorie psicopatologiche (Bender et al., 2011). Al di là dei diversi modelli di concettualizzazione e label utilizzati, tutti gli approcci personality-guided presuppongono dei fattori generali di funzionamento che rappresentano il fulcro stesso della terapia (es. la mentalizzazione per la MBT; la metacognizione per la TMI; la disregolazione emotiva nella DBT). Ma soprattutto, è difficile sostenere che un modello psicopatologico tanto flessibile e idiografico come il criterio A (o il fattore p) sminuisca l’unicità di pazienti e terapeuti come spesso affermano i suoi detrattori (Sharp & Wall, 2020).

Segue poi un simposio attesissimo sulla convergenza tra AMPD e HiTOP, praticamente la criptonite per gli avversari di dimensioni e tratti. Leonard Simms (affettività negativa), Thomas Widiger (distacco), Donald Lynam (antagonismo), Stephanie Sweatt (disinibizione) e David Cicero (psicoticismo) discutono lo sviluppo teorico e clinico delle dimensioni di personalità. Particolare attenzione è dedicata alla validazione in corso di nuovi strumenti psicometrici per promuovere sempre più una connessione tra ricerca e pratica (Ringwald et al., 2021).

Da segnalare infine l’intrigante prospettiva gerarchica di Dan McAdams (2013) sullo sviluppo della personalità secondo il suo modello a tre fattori e il metodo dinamico di analisi delle situazioni interpersonali di Hopwood e colleghi (2019), presentati rispettivamente il secondo e il terzo giorno.

Tra contraddizioni e innovazioni

Provando a trarre un bilancio emergono molti entusiasmanti filoni di ricerca, ma ancora notevoli contraddizioni. Tra i primi dobbiamo sicuramente annoverare gli studi sui modelli dimensionali e gerarchici e i primi tentativi di applicare in psicoterapia tali modelli secondo un’ottica sinergica ed evidence-based. Nel comprendere le contraddizioni conviene invece riflettere su tre indicatori. Il primo è linguistico ed ha come emblema il disturbo borderline di personalità che imperversa in ogni simposio e presentazione. Quasi a ricordarci che le categorie sono dure a morire, soprattutto se associate a grant e progetti di rilievo. Il secondo è sostanziale ed emerge dalla difficoltà a passare da una teoria integrativa e dimensionale ad una pratica che richiede un atteggiamento anti-ideologico e quasi buddistico nei confronti delle proprie amate teorie. Il terzo è fortemente umano e riguarda le resistenze personali che ognuno di noi mostra verso i cambiamenti. Per quanto siano ormai oltre 20 anni che si mette in discussione il modello categoriale, vi è una strenua resistenza all’emergere di una nuova generazione di ricercatori e modelli che si teme, forse, possano spazzare via il passato. Credo che il taglio assai equilibrato con cui è stato scritto il position paper della ISSPD possa rassicurarci a riguardo. Personalmente, per quanto mi definisca un fervente sostenitore dei modelli dimensionali, ritengo che le descrizioni prototipiche di Millon siano sempre di aiuto per quanto non conclusive. E conviene a tal proposito ricordare un detto taoista che recita: impara i riti, dimentica i riti.

 

La malattia oncologica in età pediatrica: qualità di vita del bambino e della sua famiglia

Per offrire una buona qualità di vita al bambino con malattia oncologica e al suo nucleo familiare occorre elaborare una rete di lavoro che coinvolga anche le associazioni dei genitori, i volontari, le istituzioni e l’intera società. 

 

La malattia terminale è stata sempre affrontata con atteggiamenti di rifiuto e vergogna che fanno sì che il malato e la famiglia diventino responsabilità esclusiva della Struttura Ospedaliera, conducendo a una medicalizzazione della fase finale della vita che potrebbe sfociare nelle forme di un vero e proprio accanimento terapeutico.

Un bambino con malattia oncologica costituisce una realtà estremamente spaventosa soprattutto per i genitori che sviluppano una forte paura per il futuro unita al senso di impotenza e perdita della speranza per cui diventa fondamentale la possibilità di contare sul supporto offerto dalle figure significative nel contesto di vita, ma anche e soprattutto dagli operatori sanitari che hanno in carico il bambino che dovrebbero attuare strategie rispondenti sia ai bisogni di cura sia ai bisogni psichici dei protagonisti (Jankovic, 2013). In questo contesto ricordiamo la nuova filosofia di cura proposta dal dottor Momcilo Jankovic, (onco-ematologo pediatrico noto per la presenza e disponibilità costante che offre ai propri pazienti) che riconosce l’accompagnamento, l’ascolto e il rispetto come i 3 elementi chiave del lavoro terapeutico (Scaccabarozzi, 2017): l’accompagnamento, inteso come condivisione, richiede che il clinico sia in grado di mostrare il proprio interesse nei confronti del paziente, stimolando il genitore a trasformare il proprio dolore in fonte di energia; l’ascolto è fondamentale nel percorso di cura: il terapeuta deve essere in grado di “ascoltare” e comprendere anche i silenzi del paziente, prestando particolare attenzione al linguaggio del corpo che, spesso, rivela informazioni preziose che il paziente non vuole o non riesce a esprimere a parole; il silenzio, invece, può essere estremamente dannoso: ci sono situazioni in cui le persone che gravitano attorno al paziente hanno una paura tale della perdita da non riuscire ad affrontare l’argomento, facendo finta che nulla sia cambiato, atteggiamento che non aiuta la persona malata, che non trova nelle persone vicine qualcuno con cui sfogarsi; la solitudine e l’abbandono, infatti, sono aspetti che compromettono il benessere del paziente e del suo nucleo familiare, forse ancor di più rispetto ai sintomi fisici della malattia (Jankovic, 2020). È necessario stabilire un approccio integrato che valuti l’essere umano nella sua completezza, elaborando una rete di lavoro che coinvolga anche le associazioni dei genitori, i volontari, le istituzioni e l’intera società, per il raggiungimento dell’obiettivo comune: offrire una buona qualità di vita sia al paziente che al suo nucleo familiare.

L’impatto della malattia oncologica sul bambino, i genitori e i fratelli

I genitori, soprattutto nelle fasi iniziali di malattia, proveranno disagio nel vedere il figlio allettato, calvo e pallido, per cui devono essere supportati dal personale sanitario fin quando l’abitudine permetterà loro di provvedere autonomamente alle necessità del bambino (Zilli, 1987); già dalla pre-adolescenza, si sviluppa un forte senso di privacy che conduce il giovane a provare imbarazzo e vergogna a mostrare il proprio corpo e le proprie debolezze ai genitori, per cui diventa fondamentale istruire i pazienti al riconoscimento di sintomi che potrebbero suggerire l’eventuale presenza di patologie anche gravi (es. ingrossamento delle ghiandole di gola, inguine e ascelle) (Grootenhuis, 2003). I genitori, dunque, devono essere in grado di offrire la loro vicinanza intesa come capacità di prendersi cura anche di se stessi e dei propri interessi, dimostrando ai figli che non bisogna farsi annullare dalla malattia. Il bisogno maggiormente espresso dai ragazzi oncologici, infatti, è proprio quello di ottenere una “normalità di vita”: per questo motivo, nella maggior parte degli ospedali pediatrici è presente una sezione dedicata all’istruzione dei piccoli pazienti. La scuola in ospedale impegna il paziente per circa un’ora al giorno e si avvale di un approccio diverso rispetto a quello tradizionale poiché la malattia comporta una maggiore stanchezza per cui si sostituiscono i classici compiti scolastici con schede da compilare e con la visione di video registrazioni che motivino maggiormente l’attenzione del bambino (Hodges, 2010). Altro aspetto fondamentale è cercare di mantenere continuità con gli insegnamenti della scuola d’appartenenza di modo da favorire il successivo rientro scolastico del paziente, cercando di eliminare eventuali atteggiamenti di pietismo e favorendo atteggiamenti inclusivi finalizzati a supportare il compagno al fine di ottenere nuovamente una normalità di vita (Alderfer, 2010).

Il tumore pediatrico viene riconosciuto come una malattia familiare per cui diviene fondamentale guidare la famiglia allo sviluppo della resilienza, ponendo particolare attenzione alle reazioni dei fratelli più piccoli che potrebbero sviluppare una sorta di autosufficienza unita ad emozioni negative (es. gelosia, rabbia e rifiuto verso genitori troppo impegnati nella cura del figlio malato) che, nel corso dell’adolescenza, si trasformano in cattivo adattamento a causa dello sviluppo di senso di colpa, paura della morte e angoscia. I fratelli più piccoli, inoltre, avvertono l’abbandono e l’inganno dei genitori, arrivando a perdere la fiducia nei loro confronti e allo sviluppo di numerose problematiche relazionali che, in adolescenza, lasciano spazio a disturbi internalizzanti (evidenti soprattutto nelle sorelle) e ad un atteggiamento protettivo verso i fratelli malati (Long, 2010).

I bambini ricoverati, invece, sembrano crescere più velocemente: riconoscono la paura dei genitori, spesso si sentono in colpa nei loro confronti e provano a dimostrare la loro riconoscenza, cercando di mostrarsi più forti per non farli preoccupare (Jankovic, 2020).

Diventa fondamentale una buona comunicazione della diagnosi che, soprattutto in età infantile, deve seguire delle caratteristiche precise: deve essere chiara e non traumatica per il bambino e spesso si avvale di strumenti quali diapositive esplicative (es. metafora di un giardino fiorito minacciato da erbacce) (Scaccabarozzi, 2017). La comunicazione avviene in assenza dei genitori ma in presenza dei fratelli per riuscire a far emergere le preoccupazioni principali, affrontarle e superarle, fornire informazioni adeguate su eventuali interventi e si preferisce non parlare degli effetti collaterali delle malattie, se non esplicitamente richiesti dai bambini.

Talvolta succede che i genitori, sopraffatti dalle loro ansie, diventano inefficaci nel loro ruolo di fruitori di cura, conducendo a conseguenze negative non solo per il bambino malato ma anche per gli altri figli ‘sani’, i quali potrebbero assumere le vesti di ‘giovani caregivers’, termine che indica ragazzi di età inferiore ai 18 anni che decidono di assumersi delle responsabilità di cura normalmente associate agli adulti, sviluppando una serie di problematiche in adolescenza (es. atteggiamenti adultomorfi) che conducono anche alla social closure con problemi nella gestione di emozioni disturbanti e lo sviluppo di un disequilibrio tra cura, amicizia e tempo libero, che incidono anche nell’ambientazione scolastica, conducendo spesso questi ragazzi al drop-out. A queste problematiche si potrebbero associare anche eventuali malattie cardiovascolari (es. ipertensione da stress) (Zavagli, 2012). Stando ai risultati di una ricerca del Censis, infatti, sembra che i giovani caregivers lamentino un senso di svuotamento (38,9%); problemi familiari (41%); uso di ansiolitici e antidepressivi (56%); vissuto di rinuncia (58%); forte impatto nella vita sociale e privata (60%). Il caregiving, infatti, è un compito molto impegnativo che occupa il soggetto per circa 18 ore al giorno, conducendolo ad avere a disposizione soltanto 4 ore da dedicare al tempo libero nelle fasi più avanzate, senza dimenticare nemmeno che il prendersi cura di un familiare si presenti come uno dei principali motivi di disoccupazione dei giovani italiani tra i 15 e i 30 anni (Italia Lavoro, 2014). Di contro, però, bisogna riconoscere che il caregiving conduce anche a conseguenze positive poiché permette a questi giovani di sperimentare maggiormente il loro senso di responsabilità, di diventare più maturi e di aumentare la propria autostima, per cui la presenza di un fratello con malattia non conduce necessariamente a problemi di adattamento dei giovani caregivers: il tutto dipende dal funzionamento familiare e dalla sua capacità di far fronte ai problemi. La situazione migliore sembra presentarsi in famiglie numerose (in cui è possibile dividere adeguatamente i compiti di cura), con uno status socioeconomico elevato (che permetta ai genitori di far fronte alle esigenze di tutto il nucleo familiare) e con prevalenza di figli maschi (meno inclini allo sviluppo di disturbi internalizzanti), senza dimenticare l’importanza della resilienza che aumenta nei nuclei familiari che godono di un buon supporto sociale.

Altro aspetto da non trascurare è il dolore oncologico che, se non adeguatamente trattato, conduce a conseguenze estremamente negative per la qualità di vita dei pazienti, per cui oggi si ricorre spesso alle cure palliative pediatriche, riconosciute come trattamenti terapeutici atti alla soppressione dei sintomi, e nello specifico del dolore, che non vanno a intaccare quantitativamente la durata della vita del paziente, ma hanno l’obiettivo di migliorarla qualitativamente; il ricovero rappresenta un altro aspetto critico che conduce a sensazioni negative (stress, paura e minaccia) e costringe ad un cambiamento delle abitudini quotidiane con conseguenze che sembrano peggiorare nel percorso di crescita del paziente: nella prima infanzia si assiste spesso a problematiche nel legame di attaccamento per cui si opta per l’ospedalizzazione congiunta madre-bambino (Moroni, 2007); nella seconda infanzia, invece, i ragazzi ricoverati iniziano a sentirsi a disagio, sviluppando un comportamento aggressivo; in adolescenza, infine, la mancanza del gruppo dei pari e la perdita delle autonomie precedentemente ottenute, conduce i ragazzi a fenomeni di chiusura e isolamento (Benini, 2007). Il luogo di cura elettivo nelle cure Palliative pediatriche, dunque, è il contesto domestico, per permettere al paziente di rimanere inserito all’interno del proprio contesto di vita, facilitando inoltre anche il ruolo di cura dei genitori che, però, devono essere affiancati da un’équipe multidisciplinare composta da pediatra, servizi territoriali, ospedale e palliativisti. Nonostante ciò è importante sottolineare l’utilità dei trattamenti complementari, ossia un insieme di tecniche volte a promuovere il benessere psicofisico del malato per rendere la malattia più accettabile: queste strategie (tecniche basate sul rilassamento e sui massaggi, clown terapia, pet therapy, musicoterapia, gioco libero) permettono di diminuire i livelli di cortisolo (ormone dello stress) con rilascio di beta endorfine che agiscono sul dolore. Le malattie oncologiche spesso conducono a condizioni di osteonecrosi (distruzione del tessuto osseo a causa delle elevate quantità di cortisone previste dalla terapia), per cui si sottolinea l’importanza della sport-therapy nelle malattie oncologiche: considerando che il movimento accelera la vascolarizzazione, la sport therapy può riuscire a ridurre gli effetti tossici, spesso provocati dalle cure oncologiche (Jankovic, 2020). L’importanza dei trattamenti complementari viene sancita nel 2007 con l’inaugurazione del “Dynamo Camp” (primo Camp di Terapia Ricreativa in Italia) per offrire un periodo di svago e divertimento a soggetti di età compresa tra i 7 e i 17 anni, affetti da patologie gravi e croniche (oncologiche, ematologiche, neurologiche), ma anche ai loro fratelli sani, basandosi sulla consapevolezza che la malattia non interessi solo il singolo, ma coinvolga l’intero nucleo familiare. Una delle particolarità del Camp è quella di farsi carico del bambino in assenza dei genitori poiché essi spesso per paura che il bambino possa star male decidono di privargli lo svolgimento di alcune attività (es. andare a cavallo) che potrebbero regalargli attimi di svago e di serenità. Altro motivo per cui si decide di escludere i genitori dalla permanenza al Camp è quello di permettere loro di avere un “momento di pausa” dal ruolo di caregivers e nel contempo di accrescere la loro speranza nel vedere che per il figlio sia ancora possibile ottenere una normalità di vita che gli permetta di divertirsi in un contesto sicuro e protetto: il Dynamo Camp, dunque, può essere riconosciuto anche come una possibile soluzione per limitare il Caregiver burden (Scaccabarozzi, 2017). Nelle situazioni più gravi, in cui si giunge alla morte del piccolo paziente, il clinico non deve interrompere bruscamente la relazione con i familiari (che probabilmente saranno maggiormente inclini allo sviluppo di disturbi importanti come la depressione maggiore o il PTSD), ma dovrebbe riuscire a colmare il loro bisogno di vicinanza affettiva, supportandoli nell’elaborazione e accettazione del lutto, invitandoli a partecipare a programmi di death education, volti ad aumentare consapevolezza e competenza nella gestione della propria o altrui morte, trasformando la paura in un sentimento positivo di accoglienza, riconoscendo la morte come parte finale del ciclo vitale (Bobbo, 2004).

La perdita di un figlio per malattia oncologica

Il dolore per la perdita di un figlio è talmente forte da spingere i genitori a rimanere legati al centro di cura attraverso l’organizzazione di raccolte fondi e associazioni che vogliono finanziare l’ambiente sanitario allo scopo di far progredire la ricerca e aiutare altri bambini a vincere la loro battaglia (Oberti, 2015). A tal proposito ricordiamo da un lato i B Live, associazione composta da ragazzi che hanno combattuto o stanno combattendo contro una patologia tumorale e decidono di raccontare le proprie esperienze nel “Bullone” (giornale a cui essi hanno dato vita) di modo da offrire forza, coraggio e disponibilità ad altri ragazzi che ancora lottano con la malattia (Scaccabarozzi, 2017); dall’altro il Centro Maria Letizia Verga, quarto centro al mondo che si propone di unire la ricerca e la cura in un’unica struttura; è stato elaborato da Giovanni Verga (in seguito alla perdita della figlia leucemica Maria Letizia Verga) con lo scopo di migliorare l’assistenza clinica e psicosociale da offrire a bambini con leucemia, massimizzando le loro possibilità di guarigione: si tratta di un insieme di misure volte ad umanizzare l’ospedale, rendendolo un ambiente più adatto ai bambini, infatti le 25 camere ospedaliere presentano pareti colorate che seguono una logica specifica: il blu viene utilizzato negli spazi di accoglienza, l’arancione delinea gli spazi di svago e gioco, il giallo gli spazi per la scuola, il rosso contraddistingue gli ambulatori degli assistenti sociali (Scaccabarozzi, 2017).

 

Attacchi e Disturbo di Panico (2019) di Ezio e Francesco Sanavio – Recensione

Il testo Attacchi e Disturbo di Panico appartiene ad una collana diretta da Daniele Berto ed intitolata 100 domande, nella quale attraverso l’uso di 100 domande, vengono approfondite caratteristiche, diagnosi e trattamento di alcuni disturbi.

 

Precisamente, il manuale qui considerato approfondisce il tema degli attacchi di panico e del disturbo di panico in tre parti separate: caratteristiche e definizioni, diagnosi e trattamento.

Più volte gli autori sottolineano quanto sia importante separare gli attacchi di panico dal disturbo di panico. Infatti, i primi possono essere considerati come momenti (massimo 20-30 minuti) di paura incontrollata, in cui fanno comparsa una pluralità di sintomi. A scopo diagnostico devono comparire almeno quattro tra: palpitazioni, sudorazione, tremori fini o a grandi scosse, dispnea o sensazioni di soffocamento, sensazioni di asfissia, dolore o fastidio al petto, nausea o disturbi addominali, vertigine, brividi o vampate di calore, parestesie, derealizzazione o depersonalizzazione, paura di perdere il controllo, paura di morire. Nel caso in cui i sintomi siano meno di quattro possiamo parlare di attacchi paucisintomatici. Ora, gli attacchi di panico non sono sempre inaspettati, ma possono esservene anche di attesi o situazionali (ossia attacchi previsti perché si verificano in situazioni simili). Solitamente i primi attacchi sono casuali, ma poi il paziente inizia a creare collegamenti tra i luoghi/situazioni e gli attacchi non esistenti. Si tratta comunque di un’esperienza molto diffusa: 28,3% della popolazione riporta attacchi di panico isolati. È importante sottolineare comunque che sperimentare un attacco di panico non è indice di un disturbo mentale: secondo alcuni studi il 10% della popolazione normale presenta un attacco all’anno senza per questo riportare particolari conseguenze. L’elevata diffusione degli attacchi di panico non corrisponde ad un’alta prevalenza del disturbo di panico (0.9% nei maschi e 2.2% nelle femmine).

Il disturbo di panico è una condizione per cui:

  • sono presenti attacchi di panico ricorrenti e inaspettati
  • almeno uno degli attacchi è stato seguito per almeno un mese dall’una o dall’altra o da entrambe queste manifestazioni: 1. persistente ansia anticipatoria; 2. evitamenti e significative alterazioni della propria routine.
  • gli attacchi non sono attribuibili ad una droga, farmaco o malattia fisica
  • gli attacchi non sono meglio spiegabili con un altro disturbo.

Gli attacchi di panico sono quindi tipici del disturbo di panico, ma non per questo non possono essere riscontrati in altri disturbi, come fobie, disturbo d’ansia sociale, disturbo d’ansia generalizzata, disturbi da stress post-traumatico, depressione, disturbo bipolare, disturbi di personalità e da dipendenza da sostanze. L’età media dell’esordio si aggira attorno ai 24 anni, tuttavia possiamo identificare una distribuzione bimodale con picchi tra 15-24 anni e tra 45-54 anni.

Tipicamente possono essere identificate tre fasi nello svilupparsi del disturbo di panico:

  • attacchi inaspettati vissuti con crescente paura
  • ansia anticipatoria
  • sviluppo di evitamenti che limitano l’autonomia e la qualità della vita.

Sebbene il DSM non consideri la frequenza degli attacchi nella diagnosi del disturbo di panico, l’ICD-10 considera il disturbo moderato quando si verificano almeno 4 attacchi in un mese e grave con almeno quattro alla settimana.

Alcuni studi hanno esaminato la possibile familiarità del disturbo di panico che sembrerebbe essere elevata, tanto per cui figli di individui con disturbo di panico hanno una probabilità 5-8 volte superiore di sviluppare anche loro il disturbo di panico. L’alta familiarità può essere spiegata sia in termini di trasmissione genetica che di ambiente familiare. Tuttavia, studi identificanti geni responsabili della vulnerabilità al disturbo di panico non sono molti e la maggior parte identifica geni corrispondenti alla predisposizione di altri disturbi come d’ansia e dell’umore. Sicuramente rilevante è comunque la componente ambientale, a causa dell’uso di modelli per lo stile educativo e gli eventi di vita non esattamente sani.

Per effettuare una valutazione psicodiagnostica degli attacchi di panico e di un possibile disturbo di panico possono essere usati diversi metodi, come:

  • osservazione diretta, durante le prove d’induzione e test di evitamento. Tra le prove d’induzione vanno citate la prova d’iperventilazione o qualsiasi altra prova tra le nove prove di Andrews. In caso di esito negativo, si potrebbe passare alla somministrazione di prove di evitamento.
  • diari e schede di automonitoraggio: la scheda di automonitoraggio andrebbe compilata immediatamente dopo l’attacco inserendo data e durata, luogo e situazione, prevedibilità, eventi antecedenti, eventuale associazione agli eventi precedenti, persone presenti, sensazioni fisiche avvertite, pensieri che sono passati per la testa, intensità, livello massimo di paura esperito. Tuttavia, non sempre i pazienti possono essere disposti a compilare accuratamente la scheda di automonitoraggio magari perchè timorosi che il pensare al precedente attacco possa provocarne un altro (comportamento di evitamento). Tuttavia, anche in caso di mancata compilazione la scheda può risultare di estrema rilevanza rivelando insight relativi allo stile e atteggiamento del soggetto in modo da poter intervenire.

Inoltre, è bene somministrare il Beck Anxiety inventory (BAI) ogni 7-15 giorni in modo da poter monitorare l’andamento dell’ansia.

Per quanto riguarda il trattamento del disturbo di panico esistono alcune linee guida. Ad esempio, secondo il NICE (National Institute for Health and Clinical Excellence) gli interventi che hanno dato buona prova su lunghe distanze sono:

  • terapia psicologica: più precisamente a) preferibile CBT; b) per via di professionisti; c) durata ottimale di 7-14 ore; d) sedute settimanali di 1-2 ore e dovrebbe completarsi entro un massimo di quattro mesi. I protocolli sono principalmente appartenenti a due filoni: inglese – muove dalla constatazione che un terzo dei pazienti ha immagini intrusive catastrofiche, motivo per cui vengono usate tecniche della terapia cognitiva classica, in modo flessibile; americano – basato sull’esposizione enterocettiva, ristrutturazione cognitiva, breathing training, esposizione situazionale (per 15 sedute)
  • terapia farmacologica: i farmaci in prima linea sono gli SSRI, quindi gli antidepressivi e non gli ansiolitici. Tuttavia, ancora oggi molti individui fanno uso di benzodiazepine per il panico. Trattamenti combinati psicologici-farmacologici non sembrano aumentare la velocità del trattamento, anzi in caso di mancata coordinazione tra specialisti potrebbero anche ostacolare la remissione.
  • auto-aiuto attraverso l’uso di manuali suggeriti dal clinico (è consigliato comunque un contatto personale col clinico almeno ogni 4-8 settimane).

Le ultime domande sono invece dedicate a comportamenti da adottare nel momento in cui si incorre in qualcuno con un attacco di panico, tra questi la tecnica della respirazione diaframmatica è consigliata. Essa consiste nel porsi davanti al soggetto e mettere la sua mano all’altezza del proprio diaframma per poi inspirare ed espirare lentamente, invitandolo a fare lo stesso. Per facilitare il rallentamento della respirazione è utile contare ad alta voce “uno…due…tre” durante l’inspirazione e “quattro… cinque… sei” durante l’espirazione. Oltre ad aiutare la respirazione lenta, altri comportamenti utili sono comprimere il torace, spostare l’attenzione su qualcosa, allontanare le persone in ansia e mantenere la calma.

All’interno del testo sono presenti anche delle chiarificazioni relative al rapporto tra iperventilazione e attacchi di panico, agorafobia, ansia da malattia (precedentemente chiamata ipocondria) e i comportamenti di sicurezza.

Nel complesso il manuale risulta essere di estrema chiarezza grazie alla sua struttura che permette di trovare subito le risposte alle domande che man mano emergono dalla lettura. Proprio per questo potrebbe essere molto utile per poter diffondere conoscenze relative ad esperienze comuni, quali sono gli attacchi di panico, in modo che più persone possibili possano essere pronte a reagire nel modo più adeguato nel momento del bisogno.

 

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