Uno spettro si aggira per il mondo della psicoterapia, ed è lo spettro del trauma. Lo diciamo scherzosamente, ma anche seriamente. Il ruolo del trauma nella sofferenza emotiva ha una storia lunga e complessa. Questo concetto entra ed esce dai vari modelli teorici e terapeutici, ora rifiutato e definito ininfluente, ora posto al centro del processo patologico. E questo accade in tutti gli orientamenti. È accaduto nella psicoanalisi e ora sta accadendo nel cognitivismo clinico, in particolare italiano.
Sandra Sassaroli, Gabriele Caselli e Giovanni M. Ruggiero
Il trauma: dal primo Freud alla teoria degli stati dissociativi
Tutti sappiamo che il primo modello freudiano era traumatico. Un’esperienza traumatica reale e sessuale era, per Freud, alla base della sofferenza delle isteriche che arrivavano nel suo studio viennese.
Poi Freud cambiò idea e tutto diventò pulsione e fantasia. La pulsione sessuale mal governata diventò la base della sofferenza mentale e i traumi non furono più reali ma frutto di fantasie, sostanzialmente falsi ricordi. Insomma il ricordo del trauma era la conseguenza e non più la causa di impulsi sessuali non controllati dalla coscienza.
Il trauma finì per rifugiarsi nella psicologia francese, quella che da Pierre Janet in poi ha generato la teoria degli stati dissociativi su base traumatica. È una storia interessante. La teoria della dissociazione fu messa da parte ma in qualche modo continuò a operare e a crescere grazie a autori sottovalutati, non solo Janet ma ancor prima il neurologo John Hughlings Jackson alla fine dell’ottocento, per proseguire con Henry Ey nel secolo scorso e più recentemente con Stephen Porges, Dan Siegel e, in Italia, Gianni Liotti e Benedetto Farina.
Tutti questi modelli sottolineano la complessità del sistema nervoso, la difficoltà che ha la mente nel compiere operazioni integrative di livello sempre più alto, dai semplici archi riflessi percettivi motori fino alle funzioni autoriflessive e metacognitive più sofisticate, in cui la mente rappresenta se stessa nell’atto stesso di pensare e di integrare le informazioni. Per tutti questi autori queste operazioni integrative complesse sono sempre ad alto rischio di rottura, di disintegrazione ed è questa disintegrazione che poi porta alla sofferenza emotiva.
E da cosa dipende questa rottura, questa disintegrazione? Dagli eventi traumatici, da quegli eventi in cui la persona affronta una situazione di pericolo estremo nella quale il suo senso di integrità, sicurezza e identità sono messe seriamente in discussione. Un evento del genere ferma il processo di crescita mentale e impedisce la possibilità che le funzioni integrative superiori maturino.
Questi modelli sono indubbiamente utili e spiegano gli stati di sofferenza che conseguono a situazioni estreme. Il caso migliore è il disturbo post-traumatico da stress (PTSD).
Trauma cumulativo, trauma piccolo… quando un modello specifico è posto a chiave di lettura universale
Il problema è, come al solito, quando un modello smette di limitarsi a spiegare solo alcuni disturbi e aspira a una spiegazione universale dell’intera sofferenza emotiva.
Ecco quindi che il significato di trauma tende a estendersi sempre di più. Si passa dal trauma incontrovertibile, quello in cui la stessa sopravvivenza fisica è stata messa in pericolo, al trauma cumulativo, il susseguirsi di eventi dolorosi, nessuno di loro in sé traumatico ma che lo diventano appunto per accumulo. Oppure il neglect, la trascuratezza, la freddezza e la deprivazione emotiva. Insomma, una serie di circostanze che vanno sotto il nome di “trauma piccolo”.
Non che non esistano anche queste condizioni di trauma piccolo e ripetuto, potenzialmente altrettanto devastanti di un unico episodio estremo. Solo che questo tipo di trauma è comunque meno facilmente definibile e distinguibile da una più comune esperienza di sofferenza umana ed esistenziale. Esplorare questo tipo di trauma minore è un ottimo obiettivo scientifico, ma può anche prestarsi a scorrettezze cliniche e anche pratiche.
Il ritorno del trauma nella riflessione clinica
Insomma, per varie ragioni stiamo assistendo a un ritorno del trauma nella riflessione clinica. L’intera sofferenza emotiva è sempre più esplorata sotto questa etichetta e tutti i disturbi stanno diventando varianti del disturbo post-traumatico da stress.
Esageriamo? Noi non crediamo. La credenza, che si sta diffondendo, che per il trauma la terapia cognitiva non sia più il trattamento di elezione è quanto meno prematura. L’esaustiva rassegna di Nathan e Gorman (“A Guide to Treatments that Work”) riporta che mentre nessun trattamento si è ancora affermato come chiaramente efficace, molti però hanno ottenuto delle conferme parziali e tutte da verificare. E tra questi c’è ancora una volta la terapia cognitivo-comportamentale, e anche la principale terapia focalizzata su trauma e dissociazione, ovvero l’EMDR, (Eye Movement Desensitization and Reprocessing). L’EMDR, tuttavia, nell’aura del trauma non risulta essere superiore alla terapia cognitivo-comportamentale. E al di fuori del trauma è meno efficace.
Il successo delle terapie per il trauma
E allora perché questi crescente successo? A nostro parere per varie ragioni, alcune culturali e altre pratiche.
Le ragioni culturali risiedono nella visione naif che abbiamo tutti noi della psicologia. Al cinema e in letteratura trauma e psicologia vanno a braccetto. Anche nella nozione popolare molti sono convinti che la psicoanalisi sia ancora una teoria del trauma mentre l’enfasi sulle fantasie soggettive è sempre stata poco capita dal grande pubblico. Il termine “rimozione” tende a far pensare al profano che si tratti di un qualche trauma rimosso, mentre a essere precisi per Freud ciò che era rimosso era il desiderio sessuale.
La terapia cognitiva nasce lasciando poco spazio al trauma, forse davvero troppo poco. Questo difetto iniziale forse spiega anche la recente ondata di interesse per il trauma negli ambienti della terapia cognitiva. In Beck e in Ellis l’eccesso di disinteresse per la storia personale con o senza trauma del paziente ha finito per pesare. Prima in Italia con Guidano e Liotti e poi all’estero con Jeffrey Young si è cercato di rimediare a questa trascuratezza. Tuttavia, soprattutto in Liotti e in Young, ci sembra che l’interesse per la storia personale del paziente abbia generato uno scompenso nella direzione del trauma.
La storia personale è finita per diventare una storia per definizione traumatica. E la terapia è diventata sempre più emotiva, relazionale e difficile da definire e replicare in procedure protocollari.
EMDR e Sensorimotor: tecniche fisiche, corporee, riproducibili
Questa fumosità dell’intervento relazionale ed emotivo stava già per causare la crisi del modello dissociativo, quando sono emerse nuove terapie che sono riuscite a superare il vicolo cieco del relazionalismo, movimento in cui le procedure sono troppo poco riducili in protocolli. Le nuove terapie, come ad esempio la Sensorimotor Psychotherapy (Ogden & Fisher, 2015) o la Eye Movement Desensitization and Reprocessing (EMDR) (Shapiro, 2001) hanno puntato su procedure di tipo fisico, corporeo ed esperienziale riproducibili.
In questo modo ci si è tirati fuori dalla palude della relazione, argomento affascinate ma in fondo poco promettente come strumento terapeutico. Intendiamoci: non neghiamo che la relazione possa essere davvero la variabile che incide di più sull’esito positivo, ma è anche la variabile meno gestibile. Una buona relazione è un fatto, non un metodo da seguire o una strategia da costruire. Possiamo imparare a non rovinare una relazione (si chiama: buona educazione) ma non possiamo far diventare buona una relazione appena passabile. Oppure un metodo c’è: lavorare bene. Ma per fare questo non abbiamo bisogno di mille teorie sulla relazione.
Non è così per le tecniche senso-motorie o EMDR. Questa potrebbe essere la ragione definitiva che sta dando forza e popolarità al trauma come concetto centrale di un nuovo paesaggio psicopatologico. In fondo i protocolli cognitivi sono sempre stati difficili da eseguire, con la loro enfasi sull’intervento verbale. Parlando, è sempre facile perdersi dietro ai racconti del paziente.
Un intervento di tipo fisico, invece, lascia molto più controllo nelle mani del clinico. Un esercizio sensorimotor o EMDR non può essere modificato a piacimento dal paziente o sottilmente boicottato menando il can per l’aia e tantomeno interrotto. Le interruzioni e le digressioni operate dal paziente che ci fanno uscire dai protocolli cognitivi spesso sono invece date per scontate, sottovalutate e temute. Abbiamo paura di rovinare la relazione terapeutica (sempre lei!) se le bloccassimo. Invece nel non verbale comandiamo noi terapisti con maggiore naturalezza.
Benvenuta quindi questa nuova attenzione alle procedure di tipo esperienziale e corporeo che ci portano queste nuove terapie per il trauma. Benvenute se ci insegnano più attenzione ai protocolli. Attenzione però a non perdere definitivamente un patrimonio di tecniche verbali non sempre ben padroneggiate e ora a rischio definitivo di deterioramento, fino all’oblio.
Il dibattito su Trauma e Relazione Terapeutica:
- Lo spettro del trauma che si aggira per il mondo (della psicoterapia) – 25 Maggio 2017
- Come non avere paura dello spettro del trauma – di Benedetto Farina – 04 Luglio 2017
- Il paradigma psicotraumatologico, in risposta a Benedetto Farina – 06 Luglio 2017
- Trauma e Relazione Terapeutica: in risposta a Benedetto Farina – Pt. 2 – 13 Luglio 2017
- L’Alleanza terapeutica: intervento di Fabio Monticelli nel dibattito su trauma e relazione – 14 Luglio 2017
- La relazione terapeutica è traumatica o il trauma è la vera relazione? – Roberto Lorenzini – 17 Luglio 2017
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