Mi inserisco anche io nel dibattito iniziato da Sassaroli, Caselli e Ruggiero e poi proseguito da Farina. Sassaroli, Caselli e Ruggiero sostengono che: “ci si è tirati fuori dalla palude della relazione, argomento affascinante ma in fondo poco promettente come strumento terapeutico”. Importanti autori sostengono esattamente il contrario.
Leggi il resto della discussione:
- Lo spettro del trauma che si aggira per il mondo (della psicoterapia) – 25 Maggio 2017
- Come non avere paura dello spettro del trauma – di Benedetto Farina – 04 Luglio 2017
- Il paradigma psicotraumatologico, in risposta a Benedetto Farina – 06 Luglio 2017
- Trauma e Relazione Terapeutica: in risposta a Benedetto Farina – Pt. 2 – 13 Luglio 2017
Norcross, che ha coordinato la task force sulla relazione terapeutica delle divisioni 12 e 29 dell’APA (American Psychological Association Division of Psychotherapy) condotta con studi di meta-analisi (2011), identifica 3 Fattori di efficacia dimostrata in psicoterapia: l’Alleanza terapeutica, il Feedback dei pazienti (il monitoraggio dei vissuti del paziente nella terapia in corso riduce di circa il 50% i drop-out) e l’Empatia del terapeuta (percepita dal paziente). Norcross conclude il suo lungo studio affermando che mantenere il focus dell’attenzione sulla Relazione e sull’Alleanza terapeutica e costruire una relazione terapeutica “su misura” sono tra i pochi dati certi correlati all’esito favorevole della terapia.
L’ alleanza terapeutica
Due importanti meta-analisi dimostrano che l’alleanza terapeutica è uno dei più importanti e forti predittori di buon esito della psicoterapia (Horvath & Symonds, 1991; Martin, Garske & Davis, 2000). La relazione terapeutica e l’alleanza terapeutica rappresentano due fondamentali elementi connessi da un preciso rapporto gerarchico: l’alleanza deve essere considerata uno degli elementi, probabilmente il più importante, che costituiscono la relazione terapeutica (Lingiardi, 2002; Norcross, 2011; Safran, Muran, 2000). L’alleanza terapeutica in ambito cognitivo-evoluzionista è considerata come un fattore dinamico, dimensionale e diadico. Dimensionale perché di intensità mutevole nel tempo -quindi differente dal modo dicotomico (presente o assente) in cui veniva considerato in passato; Dinamico perché mutevole e Diadico perché emerge dall’interazione continua tra terapeuta e paziente: pertanto l’alleanza terapeutica può essere considerata come il risultato dell’atteggiamento del paziente e dell’operato del terapeuta e come tale riflette ed è l’effetto dei loro reciproci contributi. Proprio per questi tre motivi la relazione e l’alleanza vanno monitorate di continuo perché il monitoraggio migliora in maniera significativamente importante gli esiti del trattamento (Lambert, Kenichi, 2011, Hill & Knox, 2009)
Il metodo AIMIT per monitorare la Relazione Terapeutica
Sassaroli, Caselli e Ruggiero aggiungono: “Intendiamoci: non neghiamo che la relazione possa essere davvero la variabile che incide di più sull’esito positivo, ma è anche la variable meno gestibile”. Quindi, giustamente non viene messa in dubbio l’importanza e il ruolo della relazione terapeutica, ma viene sottolineata la difficoltà di gestire e monitorare la relazione e l’alleanza. A questo proposito mi fa piacere segnalare i risultati di una nostra ricerca (Monticelli, Carcione, Pedone, Farina) su un single-case che stiamo ultimando, che ha fornito prove sufficienti a sostenere l’ipotesi di utilizzare il metodo AIMIT (Assessing Interpersonal Motivations in Transcripts, Liotti & Monticelli, 2008) per monitorare l’assetto motivazionale della relazione e il grado di cooperazione tra terapeuta e paziente (suggestiva di alleanza terapeutica perché la cooperazione a nostro avviso crea e mantiene l’alleanza terapeutica) e i suoi momenti di crisi nell’immediatezza della relazione terapeutica (impasse) che creano i presupposti di una relazione di basso profilo terapeutico.
La ricerca da noi condotta evidenzia che nelle fasi di impasse della collaborazione del paziente le sue funzioni metacognitive peggiorano drasticamente; al contrario, tali funzioni aumentano significativamente quando la collaborazione del paziente migliora. Le fasi di non collaborazione del paziente (rappresentate dalle impasse), se rappresentano, riflettono ed emergono dalle fasi di scarso funzionamento metacognitivo del paziente, rappresentano “de facto” la perdita del lavoro congiunto verso gli obiettivi terapeutici concordati.
Proprio perché l’alleanza terapeutica è costituita da tre elementi fondamentali (la condivisione degli obiettivi terapeutici, dei compiti e dal legame affettivo; Bordin, 1979), è possibile sostenere che la perdita prolungata del dialogo terapeutico del paziente finalizzato al raggiungimento degli obiettivi condivisi (segnalato dall’impasse), rappresenti un indicatore sensibile dell’interruzione dell’alleanza, capace di rilevare “moment on moment” e in tempo reale la perdita degli obiettivi terapeutici (goals) e dei metodi più adatti a raggiungerli (tasks), costituiti dal dialogo autoriflessivo o incentrato sugli stati mentali dell’altro o sulla ricerca della mastery (Carcione et al., 2010); in altri termini, poiché nelle fasi di impasse della cooperazione del paziente si perdono due dei tre costituenti dell’alleanza terapeutica è possibile ipotizzare che l’assenza prolungata della cooperazione del pz sia un indiretto indicatore di impasse o di rottura dell’alleanza terapeutica.
L’alleanza terapeutica è un costrutto misurabile su larga scala; lo strumento più utilizzato è rappresentato dalla Working Alliance Inventory (Horvath & Greenburg, 1989), costituito da 36-item, somministrate alla fine di ogni seduta e che adottano la finestra di osservazione dell’intera seduta. Tale strumento misura l’accordo tra terapeuta e paziente sugli obiettivi terapeutici, sui compiti condivisi e sulla qualità affettiva del legame rilevato complessivamente all’interno di una finestra di osservazione dell’intera seduta, dalle diverse prospettive del paziente e separatamente del terapeuta.
Il modello AIMIT, invece, utilizza una finestra di osservazione molto più ristretta e consente la misurazione dell’impianto collaborativo “momento per momento” e in tempo reale.
Gli autori aggiungono: “Una buona relazione è un fatto”. Non credo che sia un fatto. possiamo invece considerarla una condizione necessaria, ma non sufficiente a garantire l’efficacia e utilità del trattamento. Otteniamo una buona relazione anche quando accudiamo il paziente che richiede cura e protezione, ma se questo diventa l’unico obiettivo della diade, la relazione stessa diventa iatrogena perché perde la componente terapeutica. Ad esempio, mi è capitato recentemente di ricevere una signora che ha chiesto una terapia dopo aver interrotto un precedente trattamento perché “eravamo diventate amiche con la precedente terapeuta”: quindi la pz riferisce una relazione buona -con la precedente terapeuta- ma dotata di scarsa terapeuticità. Quindi, è possibile ipotizzare che ci fosse una buona sintonizzazione interpersonale tra una paziente che richiedeva protezione e una terapeuta che sistematicamente accudiva la paziente. Oppure possiamo ipotizzare un piano paritetico e di condivisione tra paziente terapeuta, ma su temi che non riguardavano gli obiettivi terapeutici. Quindi tale sintonizzazione interpersonale era poco terapeutica perché orientata soltanto su alcuni bisogni della paziente; quindi, non era terapeutica perché non era orientata su altri bisogni più maturi e profondi (cioè il raggiungimento degli obiettivi terapeutici e il miglioramento delle capacità di mentalizzazione).
Sassaroli, Caselli e Ruggiero aggiungono: “Una buona relazione è un fatto. Non un metodo da seguire o una strategia da costruire. Possiamo imparare a non rovinare una relazione (si chiama: buona educazione) ma non possiamo far diventare buona una relazione appena passabile. Oppure un metodo c’è: lavorare bene. Ma per fare questo non abbiamo bisogno di mille teorie sulla relazione”.
Rotture e impasse nell’alleanza terapeutica
Invece, c’è bisogno di teorie del disturbo e della cura per una serie di motivi: ad esempio, per capire se è il terapeuta a rovinare la relazione con interventi che turbano la sintonia interpersonale oppure se è il paziente che sta presentando i suoi schemi interpersonali disfunzionali. In quest’ultimo caso, la rottura dell’alleanza non è un contrattempo o un incidente di percorso, né un atto di cattiva educazione, ma spesso è un modo che consente di aprire una finestra sul mondo interpersonale del pz che non può verbalizzare certi schemi interpersonali disfunzionali ma può portarli nella relazione mettendo in atto comportamenti concreti nei confronti del terapeuta come avviene assai frequentemente coi pz gravi. È ampiamente noto che i momenti di rottura dell’alleanza non debbano essere contrastati dal terapeuta, ma considerati come momenti delicati e preziosi nel processo terapeutico in corso. Delicati perché il rischio di un imminente drop out è molto elevato e preziosi perché permettono l’osservazione e l’accesso diretto al mondo interpersonale dei pazienti che, specialmente quando hanno storie traumatiche pregresse, spesso non sono in grado di narrare elementi segregati che non appartengono alla coscienza esplicita.
Inoltre una solida teoria della cura può aiutare il terapeuta a riconoscere tempestivamente le rotture e le impasse dell’alleanza e strutturare interventi per la corretta riparazione di tali fratture. Il riconoscimento tempestivo da parte del terapeuta di queste fasi di impasse o di rottura dell’alleanza rappresenta il principale elemento per impostare un corretto e proficuo lavoro di riparazione della frattura, che consente l’esplorazione e la correzione degli schemi interpersonali disfunzionali del paziente (Safran e Muran, 2000; Safran, Segal, 1990). Come sostenuto da Safran e Muran (2000), la conoscenza delle esperienze passate rappresenta un elemento importante, ma spesso insufficiente per avviare un efficace e concreto processo di cura che può realizzarsi invece solo nell’esperienza diretta della relazione terapeutica. Tuttavia i momenti di rottura impongono al terapeuta un’attenzione particolare determinata dalla particolare intensità e complessità degli stati emotivi implicati, che devono essere compresi sul piano motivazionale per poter reagire in maniera modulata e efficace. quindi, la conoscenza di più teorie aiuta in maniera considerevole il terapeuta a gestire questi delicati momenti. Hill e Rodhes (1994) sottolineano che spesso il terapeuta ignora o sottovaluta le fasi di rottura dell’alleanza, i momenti di stallo terapeutico o di insoddisfazione del paziente, con risultati spesso irreversibili perché con soggetti con traumi pregressi i margini di tolleranza sono molto ridotti e il rischio di drop out è molto elevato.
Concludendo, vorrei sottolineare che le due affermazioni dei nostri colleghi: 1) “la relazione possa essere davvero la variabile che incide di più sull’esito positivo, ma è anche la variabile meno gestibile”; 2) “non possiamo far diventare buona una relazione appena passabile. Oppure un metodo c’è: lavorare bene. Ma per fare questo non abbiamo bisogno di mille teorie sulla relazione” rappresentano due affermazioni frutto di pregiudizio e preclusive per il paziente: frutto di pregiudizio perché non sostenute da una base scientifica e preclusive perché non consentono al paziente di accedere ad un trattamento che tenga in debita considerazione il ruolo e l’importanza della relazione terapeutica e dell’alleanza terapeutica come strumenti terapeutici di efficacia dimostrata, giacché è ampiamente dimostrato che mantenere il focus dell’attenzione sulla relazione e sull’alleanza terapeutica è uno dei pochi dati certi correlati all’esito favorevole della terapia Norcross (2011).
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- Lo spettro del trauma che si aggira per il mondo (della psicoterapia) – 25 Maggio 2017
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