In questa seconda parte della nostra risposta a Farina affrontiamo l’ipotesi che tra psicopatologia del trauma e relazione terapeutica come strumento di cura ci sia un rapporto privilegiato, e consideriamo i rischi e vantaggi di questo rapporto.
Sappiamo che questo collegamento è almeno in parte di una forzatura, e che trauma e relazione terapeutica non vanno per forza a braccetto. Sappiamo che ci sono colleghi che sottolineano l’importanza della relazione terapeutica senza pensare che il trauma sia il principale fattore psicopatologico e che ci sono altri colleghi che privilegiano il lavoro sul trauma senza però ritenere che si debba operare soprattutto sulla relazione terapeutica.
Sappiamo infine che relazione terapeutica è un concetto ancor più ampio di quello di trauma, che comprende varie cose, dall’alleanza di lavoro alla relazione spontanea fino alle rotture interpersonali tra paziente e terapista. Insomma, sappiamo che si tratta di una palude immensa la cui analisi dettagliata esula dallo scopo di questo articolo.
Leggi il resto della discussione:
- Lo spettro del trauma che si aggira per il mondo (della psicoterapia) – 25 Maggio 2017
- Come non avere paura dello spettro del trauma – di Benedetto Farina – 04 Luglio 2017
- Il paradigma psicotraumatologico, in risposta a Benedetto Farina – 06 Luglio 2017
Trauma e relazione terapeutica
Prendiamo però in esame il caso speciale in cui tra trauma e relazione terapeutica sia ipotizzato un legame teorico e clinico forte. Un modello traumatico fondato sull’ipotesi del deficit potrebbe proporre che la terapia non possa limitarsi all’individuazione e all’apprendimento di una funzione male utilizzata –come farebbe un terapista cognitivo comportamentale- ma deve riparare strutture deficitarie o mal-funzionanti. E in questo modello la ricostruzione avverrebbe soprattutto in una relazione -beninteso una relazione professionalmente terapeutica- e questo perché a sua volta la fase in cui nel passato le funzioni ora deficitarie del paziente avrebbero dovuto svilupparsi fu soprattutto una fase relazionale; insomma una relazione di sicurezza, protezione e contenimento con figure significative per la crescita, una relazione –alla Winnicott, ma anche alla Farina e Liotti (2011)- di cooperazione.
L’apprendimento del buon uso delle funzioni male utilizzate non si realizzerebbe se non è preceduto dalla ricostruzione delle strutture che permettono l’integrazione o comprensione della mente altrui. E dove avverrebbe questa ricostruzione? In una relazione, probabilmente, perché li avrebbero dovute essere costruite nell’infanzia perduta del paziente le impalcature deficitarie, e solo li possono essere ri-costruite.
La terapia come relazione
La terapia come relazione ci dice che siamo dalle parti di Winnicott e di Mitchell più che di Beck ed Ellis. Sicuramente anche in terapia cognitivo-comportamentale il monitoraggio della relazione e gli interventi di riparazione sono previsti, utili, a volte necessari, per mantenere la terapia cognitiva on the track (Waller, 2009). Ed è vero che Farina e Liotti (2011) hanno sempre insistito sul carattere di cooperazione della relazione terapeutica, quasi a evitare un eccessivo appiattimento sul transferale riproporsi in terapia del good enough mothering di Winnicott. Ed è infine vero che Safran e Muran (2000) sottolineano come la relazione sia un’esperienza non solo affettiva ma anche di crescita metacognitiva attraverso fasi drammatiche di rottura e riparazione. E poi, anche uno degli autori di questo articolo ipotizzò a suo tempo che potesse essere utile ricostruire la storia passata dell’apprendimento disfunzionale delle credenze distorte in specifici stili di conoscenza (Lorenzini e Sassaroli, 1995). Ci sono dati in linea con queste considerazioni, ad esempio Horvath ha trovato una robusta correlazione tra working alliance ed esito della terapia (Horvath & Bedi, 2002; Horvath, Del Re, Flückiger & Symonds, 2011). Anche se poi i suoi effetti sono minori del previsto (Beutler, 2009), principalmente legati all’accordo su scopi e compiti della terapia più che sul legame relazionale (Webb et al., 2011), specie affiancata al contributo di altri predittori, tra i quali perfino la bistrattata tecnica terapeutica (Lambert & Barley, 2002).
Il paradigma di riferimento
Questi però sono i dati e qui ci preme sottolineare che il problema è anche di paradigma di riferimento e quindi di interpretazione dei dati e, conseguentemente, di chiarezza dell’operare clinico. Partiamo dal presupposto che mantenere una buona relazione sia un dato trasversale e indiscutibile, comune a tutti gli approcci terapeutici. Non abbiamo notizia a oggi di un approccio psicoterapeutico che teorizzi il maltrattamento strategico del paziente. In questo è una competenza di base. Oltre questa competenza di base possiamo identificare due scenari contrapposti sul binario trauma-relazione.
(1) Da un lato una terapia che mira alla ri-costruzione di buone relazioni per riparare meccanismi cognitivi malfunzionanti (a seguito di esperienze traumatiche) e conseguentemente restituire al paziente il potere di cambiare. L’intervento di cambiamento dei meccanismi cognitivi è posticipato, se necessario, come ultima tappa di un lavoro realizzato in buona parte altrove, ovvero nella relazione e nella costruzione di esperienze emozionali correttive.
(2) Dall’altra parte terapie cognitivo-comportamentali che mirano al cambiamento di scopi, credenze, stili di pensiero e di reazione alla sofferenza emotiva, comprensibilmente sorte per far fronte a un contesto difficile o esigente (e nel 30% dei casi traumatico), là e allora persino utili, ma che non hanno tolto al paziente il potere di cambiare, per quanto possa non esserne pienamente consapevole. L’intervento relazionale, oltre alla competenza di base, diventa uno specifico intervento, se necessario, a favorire un ritorno, certo cooperativo, al processo di cambiamento nella relazione con i propri stati mentali.
Tuttavia, potrebbe forse obiettare un relazionalista, come ci si può aspettare che i pazienti siano in grado utilizzare meglio le loro malcomprese funzioni mentali, se le mura portanti della loro mente cadono a pezzi? I calcinacci della mente ci cadono in testa e questi cognitivisti stanno li a mostrare che si possono manovrare gli interruttori della luce e del gas!
È una posizione legittima, anzi proprio a livello teorico il confronto sui dati si farebbe interessante e florido. Ma per garantire un confronto con un paradigma cognitivo, occorre riconoscere che- almeno in parte- si esce fuori dal paradigma cognitivo. Ripetiamo: nulla di male in questo. Semmai, il rischio che paventiamo è quello di muoversi nel mezzo di un ecletticismo teorico, una miscela di teorie, tecniche e prospettive, talvolta aggregate senza consapevolezza piena della loro diversa prospettiva di riferimento. Questo è anche il rischio che potrebbe condurre a una sovrageneralizzazione del pur utile concetto del paziente “difficile”, intuizione di Carlo Perris. Naturalmente non neghiamo l’esistenza di una percentuale di pazienti cosiddetti difficili. Tuttavia l’accumulo eclettico di tecniche di diversa origine può ridurre la consapevolezza del professionista su quali siano le basi stesse del proprio paradigma di riferimento.
Senza una visione chiara del proprio paradigma di riferimento (in altri termini della propria unità di analisi) che delinei l’orizzonte, chiunque si troverebbe in maggior difficoltà nel definire obiettivi primari del proprio operare, selezionare strategie adeguate, mantenere il focus attentivo sulla meta del processo terapeutico. Esito finale: confusione e incertezza e passaggio inconsapevole tra un paradigma e un altro (magari non condiviso esplicitamente con il paziente) e tutti i pazienti che diventano difficili, o per meglio dire, si perde la capacità di discriminare gli uni dagli altri.
Questo rischio ci pare concreto a prescindere dalla prospettiva di riferimento: può trasformare la relazione terapeutica in un costrutto vago e astratto, può trasformare l’applicazione di tecniche cognitive in un esercizio sommario e non aderente. Di quest’ultimo aspetto parleremo in un successivo articolo.
In ogni caso, rimaniamo consapevoli che trauma e relazione sono cose diverse. Infatti, a ben vedere, ci pare che negli ultimi tempi la psicotraumatologia stia ottenendo risultati significativi nell’intervento su sintomi associati a trauma, percorrendo una terza strada (Sensorimotor, EMDR) che prevede il recupero di interventi molto strutturati e che però non si fonda sulla forza curativa della relazione terapeutica o sulla gestione consapevole delle funzioni cognitive.
Sandra Sassaroli, Gabriele Caselli, Giovanni Maria Ruggiero
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