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Uno, nessuno, centomila: i molteplici volti delle emozioni umane nelle differenti culture

L’attenzione di ciascun popolo a un particolare aspetto delle emozioni è specchio del suo passato e della sua collocazione geografica, degli eventi storici ed economici e dei processi culturali che lo hanno caratterizzato.

Eliana Berra – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, Milano

 

Le emozioni sono fenomeni complessi e affascinanti, frutto di un processo multifattoriale, innescato da una molteplicità di eventi, correlato ai più svariati pensieri e credenze, associato a sensazioni e sintomi fisici e scatenante innumerevoli reazioni e comportamenti. Nonostante da decenni siano oggetto di attenzione e di studi volti a chiarirne le caratteristiche e categorizzarle, spesso continuano a sorprenderci per la varietà delle loro apparentemente indefinibili sfumature. Nel corso delle epoche storiche, tutti i popoli hanno cercato di avvicinarsi ad esse e dare loro un nome, talora cogliendone particolari per noi tanto illuminanti quanto inaspettati.

Nell’Atlante delle Emozioni Umane, viene effettuato un curioso excursus sui termini più particolari attribuiti a specifiche sensazioni e pensieri correlati alle emozioni nelle diverse tradizioni del mondo. L’attenzione di ciascun popolo a un particolare aspetto delle emozioni è specchio del suo passato e della sua collocazione geografica, degli eventi storici ed economici e dei processi culturali che lo hanno caratterizzato. Mappando le differenze affettive tra i popoli, questa singolare panoramica ci porta inevitabilmente a comprendere come il caleidoscopio lessicale paradossalmente rispecchi l’universalità di ciò che tutti gli esseri umani sono in grado di provare. Scoprendo vocaboli che ci appariranno strani o impronunciabili, ci scopriremo incredibilmente vicini a coloro che li hanno coniati per la prima volta, seppur a secoli o a migliaia di chilometri di distanza da noi.

Abhiman

Il termine Abhiman viene citato per la prima volta nei Veda ed è noto ancora oggi in tutto il subcontinente indiano. Composti in sanscrito intorno al XVI secolo a.C., i Veda sono tra i più antichi testi sacri e costituiscono la base spirituale dell’Induismo. Il significato letterale di abhiman è “orgoglio di sé”, “dignità”. Ma un indizio sul suo significato più profondo sta in un’altra parola del sanscrito, di cui abhiman conserva qualche eco: balam (forza). L’abhiman, intraducibile con un unico sinonimo, evoca il dolore e la rabbia causati dal torto subito da parte di una persona che amiamo, o da cui ci aspettiamo di venire trattati con gentilezza. Alla sua origine c’è la tristezza, che presto si trasforma in un impeto di orgoglio, di offesa e talora di moto vendicativo. Spesso viene tradotta con “dignità ferita” e in India rappresenta una reazione accettabile, persino attesa, e ostinata. A livello sociale, la consapevolezza dell’abhiman come reazione inevitabile implica che la rottura dei taciti patti di amore e rispetto tra le famiglie e gli alleati rappresenti un tradimento della massima serietà.

Amae

Negli anni settanta, gli antropologi occidentali si dedicarono con grande entusiasmo a studiare l’amae, termine coniato in Giappone: per loro era la prova che anche le nostre emozioni più intime sono influenzate dalle strutture politiche ed economiche delle società in cui viviamo.

In Giappone, l’amae indica una resa temporanea in totale sicurezza, come l’impulso ad abbracciare una persona cara per essere coccolati e rassicurati o come l’affidarsi a qualcuno che ci possa aiutare incondizionatamente. L’amae è generalmente riconosciuta come parte di ogni relazione umana. La si prova non soltanto tra membri della stessa famiglia, ma anche tra amici e colleghi di lavoro, e rappresenta un ritorno ai piaceri e all’accudimento incondizionato dell’infanzia. È il collante che permette alle relazioni stabili di prosperare, il simbolo della fiducia più profonda.

Gli antropologi sostengono che l’amae si sia sviluppata nella cultura tradizionalmente collettivista del Giappone e sia sintomatica della maniera in cui la società giapponese continua a celebrare la dipendenza da un gruppo rispetto all’individualismo.

Compersione

La comune Kerista, fondata nell’Haight-Ashbury di San Francisco nel 1971, si proponeva di ribaltare molti dei capisaldi della tradizione americana circa la famiglia, la proprietà e la monogamia. Quest’ultimo fu l’aspetto che le diede maggiore fama, poiché i membri della comune Kerista praticavano il poliamore e venivano incoraggiati ad avere più di un partner sessuale alla volta. Alcune di queste relazioni avevano vita breve, altre più lunga, ma nessuna prevedeva l’esclusività. Per spiegare come la gelosia per loro non fosse un problema, i keristani coniarono il termine “compersione”. Variante di “compassione”, la compersione indicava l’eccitazione indiretta provata nello scoprire che una persona amata era attratta da qualcun altro.

Il termine “compersione”, che fa da antagonista a gelosia, viene ancora utilizzato sia negli Stati Uniti che in Europa e non ha sinonimi, ad eccezione che in Inghilterra, dove, per indicare la stessa sensazione, si usa il termine “The Frubbl”.

Gezelligheid

Non a sorpresa, molte delle lingue nordeuropee hanno coniato una parola specifica per esprimere la sensazione dell’appagamento legato alla comodità e all’accoglienza. L’inglese “cozy” (accogliente) viene dal gaelico “còsag”, letteralmente un piccolo buco in cui ci si può rifugiare. E tutti, quando inizia l’inverno e fuori piove o nevica, ci troviamo a desiderare quello che i danesi chiamano “gezelligheid”. Gezelligheid denota sia una situazione fisica – come lo starsene al caldo in un posto confortevole, circondati da buoni amici (non si può provare gezelligheid da soli) – sia lo stato emotivo del sentirsi “abbracciati” e confortati da qualcuno. Sulla stessa linea ci sono il danese “hygge” (vicinanza), il tedesco “gemütlichkeit”, che indica una sensazione legata alla cordialità e alla compagnia, e il finlandese “kodikas” (accogliente). Al contrario, nelle lingue del caldo Mediterraneo, sarà molto difficile trovare vocaboli caratterizzati da una simile combinazione di vicinanza fisica, calore e conforto.

Fago

Negli anni ‘80, vivendo a contatto con la popolazione di Ifaluk, un atollo corallino delle Isole Caroline del Pacifico, l’antropologa Catherine Lutz rimase colpita dalla definizione di una sensazione che lei per istinto riconosceva ma per cui non esisteva un termine equivalente in inglese, né in altre lingue.Il fago è un singolare termine emozionale che unisce la compassione, la tristezza e l’amore. È la pietà provata per le persone in difficoltà, che ci spinge a occuparci di loro, ma che è anche pervasa dalla forte sensazione di precarietà, fragilità, correlata alla consapevolezza che un giorno potremmo perderle. Il fago spesso è una sensazione improvvisa, intensa, che sfocia nella commozione. Secondo Lutz, era significativo come tale termine fosse stato coniato proprio da una popolazione famosa per la propria non belligeranza. «La parola fago», scriveva Lutz, «viene pronunciata quando si prende atto che il dolore è ovunque e, con uno spirito vigorosamente ottimista, si crede che lo sforzo umano, specie quando si tratta di occuparsi degli altri, possa limitare i danni di quel dolore emotivo”.

Glee

Quando i vichinghi arrivarono in Inghilterra portando con sé il loro linguaggio, “glý”, o “glíw”, o “glew” significavano sia “passatempo” che “presa in giro”. Glew era anche il testo di una canzone cantata a squarciagola da ubriachi, e chamber-glew era il modo più breve per indicare un comportamento osceno. L’essere guidati da golde e glie era frequente fonte di disprezzo, poiché significava vivere in cerca di denaro e piaceri dissoluti. Nel corso del Seicento, glee perse buona parte della sua connotazione negativa quando il termine venne utilizzato dai maestri di coro per descrivere un tipo di canto polifonico non accompagnato da strumenti, una versione più austera di quello poi adottato dai glee clubs dei licei americani. Ad oggi, la parola conserva sfumature poco raccomandabili: indica, infatti, la sensazione di gioia e piacere nel festeggiare la propria fortuna a scapito di qualcun altro. Non a caso, dopo il “datagate” del 2013, il capo dei servizi segreti inglesi aveva immaginato i terroristi di Al-Qaida intenti a «rubbing their hands with glee»-“sfregarsi le mani per la felicità”.

Going postal

Gli Stati Uniti degli anni ’80 videro susseguirsi numerose sparatorie di massa, i cui autori erano impiegati postali scontenti del proprio lavoro. Da qui, l’espressione “going postal” cominciò a essere utilizzata per indicare un attacco di rabbia e violenza avvenuto sul posto di lavoro, e poi, più in generale, come sinonimo di “andare su tutte le furie”.

Hiraeth

La parola gallese “hiraeth” rivela un profondo legame con il proprio paese natale, esprimendo la tristezza nostalgica, venata di apprensione, di chi vorrebbe rimanere nella propria terra ma sa di doverla lasciare. Probabilmente la lunga occupazione da parte degli inglesi può spiegare perché gli abitanti del Galles abbiano tanta familiarità con la combinazione tra l’amore per la patria e la percezione della sua vulnerabilità – un’emozione che gioca un ruolo chiave nella retorica della “gallesità”. Oggi il termine hiraeth è associato soprattutto alla sensazione di precarietà provata dagli emigrati, così come da coloro che temporaneamente ritornano a casa, sapendo che presto arriverà il momento di ripartire.

Hwyl

In inglese, Hwyl è il termine con cui si indica la vela di una barca. È una parola gallese, onomatopeica,  che evoca uno stato di esuberanza o eccitazione, come se si venisse spinti da una folata di vento. La si usa per descrivere un lampo di ispirazione, un impeto di entusiasmo o di buonumore. Ma, paradossalmente, Hwylè anche la parola dell’addio:  “Hwyl fawr”–“Vai con il vento in poppa”.

Matutolypea

Il solenne vocabolo Matutolypea (si pronuncia matutolipia) deriva da una combinazione tra “Mater Matuta”, la dea dell’alba per gli antichi romani, e “lype”, il termine greco per “avvilimento”. Indica, infatti, la sensazione provata al suonare della sveglia quando, prendendo consapevolezza del nuovo giorno che sta per iniziare, ci si sente sopraffatti da tristezza, ansia, malumore. Si potrebbe tradurre, con una certa solennità, in “tristezza mattutina”.

Mudita

Per Siddhārtha Gautama, meglio noto come il Buddha, vissuto tra il V e il IV secolo a.C., la gioia non era una risorsa limitata su cui litigare o a cui avevano diritto soltanto pochi fortunati, ma era infinita, illimitata. Per Siddhārtha, la parola “mudita” esprimeva la piena esperienza di felicità, priva di invidia o risentimento, provata dinanzi alla gioia o alle fortune altrui. Secondo lui, il puro fatto di poter provare mudita era la prova che la felicità degli altri non diminuisce la propria, ma la aumenta.

Nakhes

L’eccesso di orgoglio genitoriale è un tipico luogo comune dell’umorismo ebraico. E in yiddish esiste una parola speciale per l’emozione di felicità e soddisfazione dei genitori di fronte ai piccoli traguardi dei loro figli: nakhes (si pronuncia nà-khez, con il kh aspirato).

Nginyiwarrarringu

Quando un’emozione diventa predominante ed essenziale per la sopravvivenza di un popolo o la sua conoscenza del mondo, è possibile che di essa vengano coniati numerosi termini volti a coglierne le più fini peculiarità. Per i pintupi, abitanti dei deserti dell’Australia occidentale, esistono quindici diversi tipi di paura. “Ngulu” è il timore di essere oggetto di una vendetta; “kamarrarringu” è la tensione provata nell’accorgersi che qualcuno si sta lentamente avvicinando alle nostre spalle; “kanarunvtju” è il terrore del possibile arrivo di spiriti maligni nella notte, tanto potente da provocare insonnia; “nginyiwarrarringu” è l’improvvisa e potente sensazione di allarme che ci fa balzare in piedi e guardarci attorno, cercando di capire cosa l’ha provocato.

 

Il paradosso dell’obesità: cosa ci dicono i topi più obesi al mondo

Nonostante l’incessante incremento del tasso di obesità, nel 2018 pari al 42% della popolazione statunitense adulta (Hales et al., 2020), negli ultimi tempi medici e ricercatori stanno promuovendo un approccio volto a non demonizzare il grasso, quanto a favorirne una comprensione più profonda.

 

Essere obesi, difatti, non sembrerebbe sempre sinonimo di malattia, ragion per cui risulta doveroso valutare singolarmente caso per caso, persona per persona, approcciandovisi spogli da pregiudizi.

Partiamo da un interrogativo, motore che ha determinato il diffondersi di numerosi studi nell’ambito di obesità, metabolismo e salute: “Si può essere considerati sani pur pesando 270 chilogrammi?”.

Secondo il ricercatore americano Philip Scherer, del Southwestern Medical Center, ed i suoi topi, i più grassi del mondo, sì (Lee et al., 2014). La loro caratteristica principale era quella di essere nati da genitori ingegnerizzati. Ad alcuni di questi è stato soppresso l’ormone leptina, fondamentale per regolare il senso di sazietà, mentre altri sono stati indotti a sovra produrre adiponectina, responsabile di un buono stato di salute metabolica. Dal loro incrocio, i topi di Scherer mangiavano e ingrassavano senza sviluppare patologie metaboliche, risultando quindi estremamente sovrappeso ma incredibilmente sani. I roditori infatti, a differenza dei loro simili carenti di leptina, presentavano livelli di colesterolo e glicemia nella norma. Tuttavia, a dispetto del buono stato metabolico, a causa della mole eccessiva, i topi erano spesso impossibilitati nel muoversi e finivano per capovolgersi, morendo disidratati (Asterholm et al., 2007).

Seppur quella dei roditori del laboratorio texano sia una storia senza lieto fine, porta con sé un messaggio importante: peso e salute metabolica possono non necessariamente procedere sullo stesso binario, considerabili talvolta come due concetti disgiunti. Sulla stessa lunghezza d’onda di Scherer si colloca anche la genetista Ruth Loos, dell’Università di Copenaghen. La ricerca dell’équipe danese è iniziata quando una striscia di DNA li ha condotti su di una strada inaspettata.

Hanno difatti scoperto che nelle persone più predisposte all’incremento ponderale erano identificabili distinti tratti di DNA, uno in particolare responsabile dell’accumulo di grasso localizzato su fianchi e cosce. Questo filamento appariva però puntualmente accanto ad un gene chiamato IRS1, noto per ridurre il rischio di sviluppare malattie cardiovascolari e diabete (Kilpeläinen et al., 2011).

Sulla base di questa scoperta Loos e Scherer hanno esaminato, attraverso modelli animali ed umani, come determinati fattori quali la distribuzione del grasso corporeo o la natura del grasso stesso, potessero aggravarne o attenuarne gli effetti sulla salute.

I primi ad offrire un indizio su tali differenze sono stati proprio i topi di Scherer: il loro adipe era prevalentemente immagazzinato a livello sottocutaneo e non viscerale, quest’ultimo più dannoso in quanto tendenzialmente associato all’infiammazione di organi e muscoli, quali pancreas e fegato.

Il modello animale in esame calza perfettamente con quanto riscontrato nell’essere umano: ampi studi hanno accertato che le persone con una percentuale più alta di grasso viscerale sono maggiormente soggette a problemi di salute, rispetto a quanto non accada in quelle con accumuli adiposi sottocutanei (Paiman et al., 2020). Il ruolo giocato dal grasso viscerale è stato approfondito anche da Zinman, endocrinologo dell’Università di Toronto (Kramer et al., 2013). Attraverso i suoi studi, ha dimostrato che è proprio l’adipe viscerale a generare le molecole infiammatorie responsabili di molte patologie metaboliche, particelle che agiscono prevalentemente a livello pancreatico. Di contro, quello sottocutaneo può renderci più sani, fungendo sia da riserva energetica che da cuscinetto a protezione di muscoli ed ossa. In aggiunta, quadri clinici connotati da insufficienza cardiaca ed alcune tipologie di cancro, fra cui quello mammario, traggono beneficio dall’accumulo di grasso sottocutaneo (Bradshaw et al., 2019).

Sulla base di quanto suggerisce la scienza non è errato affermare che un leggero sovrappeso, rispetto ad una corporatura più esile, può avere in alcuni casi una certa utilità. È sempre il ricercatore di Toronto ad affermare che in assenza di una zona in cui accumulare i depositi di grasso in eccesso, quest’ultimo si dirigerebbe pericolosamente nella regione viscerale. Le persone affette da sindromi da lipodistrofia ne sarebbero l’esempio vivente: la loro impossibilità di accumulare grasso sottocutaneo le fa apparire estremamente magre, a dispetto di elevatissimi livelli di grasso collocati però attorno agli organi, che li predispongono allo sviluppo di malattie gravi, fra cui anche il diabete di tipo 2 (Nagayama et al., 2021).

Ad appannaggio di queste ricerche anche gli effetti di alcuni farmaci per il diabete introdotti alla fine degli anni ’90: i tiazolidinedioni.

La loro azione di riduzione dei livelli di glucosio nel sangue ha curiosamente portato i pazienti ad accumulare peso. Diversi studi hanno dimostrato che questi farmaci aiutano a convertire le cellule precursori del grasso in cellule adipose sottocutanee mature. I pazienti che hanno ottenuto questo effetto collaterale, sviluppavano in media meno infiammazioni, rivelandosi meno insulinoresistenti (Natali & Ferrannini, 2006).

Obesità metabolicamente sana

Dal proliferare di studi in tale ambito, si evince chiaramente l’affermarsi di un nuovo campo di ricerca scientifica, impegnata nell’indagare una condizione tutt’oggi poco definita, ma parecchio frequente fra gli esseri umani: l’MHO, ossia la metabolically healthy obesity (obesità metabolicamente sana) (Gómez-Zorita et al., 2021). Imprescindibile in questo settore, affermano gli esperti, è stabilirne i confini ed esaminare quanto possa essere comune o per quanto tempo possa persistere la MHO prima che degeneri in patologica. Difatti, è buona prassi ricordare che sussiste una chiara correlazione tra incremento ponderale e diabete di tipo 2, seppur tale patologia non si manifesti immediatamente. Inoltre, l’obesità si associa a numerosi altri problemi di salute inclusi artrosi da usura, sovraccarico delle articolazioni e vari tipi di cancro (Abdelaal et al., 2017).

Se tuttavia tramite queste indagini, da un lato, si procede contro la demonizzazione del grasso, dall’altro la nostra società corre nella direzione opposta. Così le persone obese, nella maggior parte dei casi discriminate, possono ritrovarsi bersaglio degli stessi medici, che frequentemente finiscono per ridurre un qualsivoglia indizio di malattia ad un problema di peso, senza procedere con altri approfondimenti (Puhl & Brownell, 2001). Il numero sulla bilancia e la circonferenza vita costituiscono, oggigiorno, un vero e proprio stigma sociale, che induce ad approcci superficiali e stereotipati.

Obesità e stigma

A sensibilizzare la popolazione scientifica e non relativamente a questa tematica è il fisiologo Lindo Bacon, Università della California, nonché fermo sostenitore della Body Positivity. Egli afferma che tartassare le persone con consigli volti al dimagrimento si rivela spesso un grosso errore, talvolta addirittura controproducente (Bacon, L. 2010). Appellandosi alle teorie sopracitate, definisce oggettivo il fatto che esistano molte persone appartenenti alla categoria degli obesi che in realtà conducono vite lunghe e sane, senza alcun segno di malattie metaboliche.

Seppur concorde con il pensiero comune che associa l’obesità ad uno status di cattiva salute, Bacon insiste sul fatto che il grasso, in sé, non è il vero colpevole di determinate patologie. I reali colpevoli andrebbero cercati anche tra povertà, discriminazione e disomogenee opportunità di accesso ai cibi sani. Infatti, come dimostrato, le persone obese che non presentano disfunzioni metaboliche, sono spesso benestanti e più istruite rispetto a quelle nelle quali si presentano le patologie.

Oltre alla povertà, altra imputata è l’etnia: da uno studio del 2020, condotto nel Regno Unito su quasi 3 milioni di adulti monitorati per 11 anni, l’Obesity Science and Pratice ha evinto che le persone con BMI compreso tra 30 e 35 correvano il rischio di sviluppare il diabete di tipo 2 con una probabilità ben cinque volte superiore rispetto a coloro con un indice di massa corporea nella norma. I soggetti con un BMI tra 40 e 45 il rischio era 12 volte più elevato (Tillin et al., 2015).

Lo studio ha evidenziato in aggiunta che il campione composto da soggetti con obesità era anche più propenso a soffrire di malattie cardiache, apnea notturna, ictus, osteoartrite e cancro.

Nonostante questi dati piuttosto allarmanti, Antonio Vidal-Puig, esperto in malattie metaboliche, riconosce la presenza di molte persone che, nonostante il peso in eccesso, mantengono livelli di colesterolo e glicemia perfettamente in norma, contrariamente ad altri pazienti normopeso.

Tale tendenza sembrerebbe proprio ascrivibile all’etnia. Ad esempio, secondo altri studi, le persone di origine sud asiatica sarebbero più predisposte a sviluppare patologie metaboliche anche se non obese (Stanford et al., 2019).

Questa variabile, insieme alla localizzazione del grasso corporeo e alla sua natura, amplierebbe ulteriormente il numero di fattori da tenere in considerazione in caso di insorgenza di tali patologie.

Obesità e fibrosi

È proprio dalla collaborazione fra Vidal-Puig e la genetista Loos, entrambi operativi presso l’Università di Cambridge, che nascono nuovi interrogativi volti a comprendere meglio un altro aspetto molto interessante in merito alla relazione che intercorre tra infiammazioni e malattie metaboliche: la fibrosi. Definibile come l’inspessimento o cicatrizzazione del tessuto connettivo, essa promuove quella serie di infiammazioni dannose responsabili della scarsa salute di alcuni organi, fra cui il fegato. Queste fibrosi, molto frequenti nell’adipe di pazienti obesi, portano gli autori a ribadire la loro reticenza nel considerare l’obesità non pericolosa per la salute (Loos & Kilpeläinen, 2018). Come confermano i topi oversize di Scherer, le fibrosi riducevano nei roditori la produzione endogena di adiponectina, ormone che sembrerebbe fungere da protettore per malattie metaboliche. Uno degli studi più esaurienti relativo all’effetto delle cicatrizzazioni sull’uomo è quello condotto da Samuel Klein, direttore del Nutrition Obesity Research Center presso la Washington University di St. Luis. Dal 2016 lui e i suoi colleghi hanno eseguito una serie di test su tre gruppi, così composti: 45 persone obese metabolicamente sane, 45 persone obese metabolicamente malate e 25 persone normopeso, magre (Cifarelli et al., 2020). I partecipanti sono stati sottoposti a diverse diete, randomizzate, tra le quali una mediterranea ed una a base vegetale. Periodicamente, i ricercatori hanno somministrato ai soggetti iniezioni di insulina, effettuando successivamente delle biopsie sia su massa grassa che muscolare. Inoltre, un prelievo di sangue permetteva loro di comprendere come l’ormone iniettato regolasse il metabolismo del glucosio nei diversi tessuti e nel flusso ematico.

L’obiettivo principe di Klein era proprio quello di comprendere il motivo per cui alcune persone con obesità appaiono “resistenti” ai suoi aspetti negativi, nonché valutare se sussistono differenze tra il grasso sottocutaneo delle persone obese sane rispetto a quello dei soggetti con patologie. Ha recentemente riscontrato che la grande differenza tra questi due gruppi è da attribuirsi alla maggiore produzione di tessuto fibroso e di conseguenti infiammazioni nella controparte “malata”. Questo studio, prosegue l’equipe di ricerca, apre la strada ad una quantità infinita di domande che trovano risposta, molto probabilmente, nel codice genetico delle persone prese a campione.

Tuttavia, i dati ottenuti rafforzano il punto di vista di studiosi come Loos: ossia che esistano persone geneticamente predisposte all’obesità seppur con basso rischio di sviluppo di malattie cardiovascolari o metaboliche, quindi annoverabili nella sopracitata definizione di obesità metabolicamente sana.

Conclusioni

Per appartenere a questa categoria, dice la scienza, è necessario avere al massimo due tra i molti fattori di rischio che caratterizzano la sindrome metabolica; fra questi: girovita ampio, ipertensione, colesterolo HDL basso, trigliceridi e glicemia elevati (Donataccio et al., 2021). Inoltre, le donne, i giovani e le persone con BMI inferiore a 35 avrebbero maggiori probabilità di soddisfare i criteri di una MHO.

Nonostante questi risultati, l’epidemiologo direttore del programma di prevenzione dell’obesità presso l’Harvard T.H. Chan School of Public Health, Frank Hu, è perentorio nell’affermare che le persone obese metabolicamente sane ad un certo punto cominciano comunque a sviluppare delle patologie (Eckel et al., 2018). Basandosi su esami eseguiti su oltre 90.000 donne selezionate dal Nurse Health Study, i ricercatori hanno avviato un progetto decennale nato per raccogliere dati riguardanti lo status di salute e lo stile di vita. È stato così scoperto che l’84% delle donne obese considerate metabolicamente sane finivano prima o poi per manifestare sintomi di patologie cardiovascolari o metaboliche, portando Hu ad affermare la transitorietà della MHO.

Giunti fin qui, risulterà chiaro che i risvolti degli studi citati sono molteplici e notevolmente complessi. Nonostante ciò, non si può certo ignorare il messaggio implicito sotteso a tutte le indagini: quando si affrontano pazienti sovrappeso, è quanto mai necessario spostare il focus dal semplice calcolo del BMI a fattori più complessi e articolati. Per Bilik e Vidal-Puig focus dell’attenzione medica dovrebbero essere i marcatori cardiaci e metabolici, come pressione e trigliceridi. Ancora, Bozello e Vanzo (2020) sottolineano l’importanza del rapporto vita/fianchi, facilmente misurabile da chiunque (Bosello & Vanzo, 2021).

Fil rouge di queste evidenze è l’importanza attribuita all’esercizio fisico, principale responsabile di una migliore risposta all’insulina e a capo della riduzione dei livelli di grasso viscerale. “Non si tratta di grasso, si tratta di essere in forma!”, questo il mantra che Vidal-Puig fa imparare a memoria ai suoi pazienti. Pertanto, il trattamento dell’obesità non dovrebbe mirare esclusivamente alla perdita di peso, quanto più a favorire anche il miglioramento metabolico del paziente.

Secondo Bacon la domanda che dovrebbe porsi ogni medico di fronte ad un paziente sovrappeso è: “Che tipo di consigli darei ad una persona più magra?” ed aggiunge: “Per allontanarsi dal pregiudizio sul peso, una delle prima cose che i medici possono fare, è eliminarlo dal quadro clinico…prima di prenderlo in considerazione”.

 


 

Oltre il contesto educativo: motivazione intrinseca e abitudini di lettura durante la pandemia da COVID19

Un’indagine spagnola ha esplorato la relazione tra motivazione intrinseca alla lettura e frequenza di lettura prima della pandemia, durante le prime settimane di lockdown e dopo qualche settimana di lockdown (De Sixte et al., 2021).

 

La diffusione del virus SARS-CoV-2, a causa della sua contagiosità, ha costretto le persone a confinarsi entro le loro abitazioni. Tutte o buona parte delle attività lavorative e del tempo libero sono state spostate all’interno delle case: ciò ha modificato il modo di vivere la quotidianità. Diverse ricerche confermano i cambiamenti delle dinamiche routinarie in questo periodo di pandemia, dallo stile alimentare (Pérez-Rodrigo et al., 2020), al consumo di TV e al tempo dedicato ai videogiochi e all’esercizio fisico (Balluerka et al., 2021). La lettura è una delle attività che più ha risentito di questo momento storico (Salmerón et al., 2020), ma da cosa dipendono veramente questi cambiamenti?

Le abitudini di lettura e la quantità di tempo dedicato ai diversi tipi di lettura (lettura per svago, per lavoro/studio, per l’aggiornamento sugli eventi, ecc…) sono influenzati da fattori individuali (Scales & Rhee, 2001; Schutte & Malouff, 2007; Garces-Bacsal & Yeo, 2017). La motivazione intrinseca è un fattore che gioca un ruolo fondamentale nella quantità di tempo trascorso a leggere. Ad esempio, lo studio di Schiefele (2012) riporta una relazione positiva tra motivazione intrinseca e tempo trascorso alla lettura, una relazione che si mostra più forte nel tipo di lettura per svago (Schiefele et al., 2012). Il ruolo di tale motivazione è stato indagato anche in relazione alle differenze di genere: le femmine hanno più alti livelli di motivazione intrinseca alla lettura (Wigfield e Guthrie, 1997; Swalander e Taube, 2007; Vansteenkiste et al., 2009) e, pertanto, investono più tempo in questa attività rispetto ai maschi (Scales e Rhee, 2001). Un altro importante fattore individuale che determina le nostre abitudini di lettura, soprattutto alla luce dei forti cambiamenti dell’attuale periodo, è il distress. La pandemia da COVID19 ha generato un forte disagio psicologico con conseguenze sui nostri comportamenti (Ingram et al., 2020; Stanton et al., 2020). Lo studio di Guo (2021) dimostra infatti che il distress sperimentato in questo periodo in Cina è associato, soprattutto nelle donne, ad un aumento del tempo dedicato alla lettura di informazioni relative al COVID (Guo et al., 2021).

Dunque, diversi fattori possono spiegare il cambiamento nelle abitudini di lettura ma l’interazione a tre vie tra abitudini di lettura, motivazione alla lettura e distress risulta ancora inesplorata. Alla luce dell’eccezionale situazione che stiamo vivendo, ci si potrebbe chiedere quindi se le motivazioni che sostengono l’attività di lettura si siano modificate in questa condizione di isolamento che le persone sono state costrette a vivere.

La risposta arriva finalmente da uno studio spagnolo che esamina l’interazione di tali fattori nel contesto dell’attuale pandemia da COVID-19 in un campione di 3.849 adulti tra i 18 e i 65 anni, prevalentemente femminile, giovane e mediamente istruito (De Sixte et al., 2021). In questa ricerca, gli autori si sono focalizzati sulla motivazione alla lettura abituale che “… denota la disponibilità relativamente stabile di una persona a iniziare particolari attività di lettura” (Schiefele et al., 2012, p. 429). Prima di esaminare in dettaglio i risultati dello studio, verranno discussi di seguito i principali studi nel campo della motivazione. È importante sottolineare che la maggior parte di questi studi fa riferimento al contesto educativo. Le letteratura di seguito esposta dovrebbe pertanto farci riflettere sull’importanza e la necessità di andare oltre al contesto educativo per indagare le motivazioni e le abitudini degli adulti in situazioni diverse da quelle generalmente esaminate.

Studi precedenti sulla motivazione alla lettura

Secondo Schiefele et al. (2012), la più importante distinzione nel costrutto della motivazione alla lettura è quella che si osserva tra la motivazione intrinseca ed estrinseca: la prima è definita come la volontà di leggere poiché si ritiene l’attività di lettura soddisfacente per sé; la seconda si riferisce alle situazioni in cui la lettura è motivata dalle conseguenze attese, come ad esempio ottenere risultati positivi o evitare quelli negativi (Wigfield & Guthrie, 1997; Becker et al., 2010; de Naeghel et al., 2012, 2014; Schiefele et al., 2012, 2016). Una delle teorie più accreditate sulla motivazione, la SDT (Self Determination Theory), postula che i due tipi di motivazione alla lettura possono essere ordinati su un continuum dell’autodeterminazione (Howard et al., 2017; Ryan e Deci, 2020) che varia da un’assenza di autodeterminazione a comportamenti parzialmente autodeterminati, fino a giungere ai comportamenti più autodeterminati. In tal senso, le motivazioni intrinseche sono sempre autodeterminate, mentre le motivazioni estrinseche possono essere categorizzate, lungo il continuum, come più o meno autodeterminate: si definisce così la regolazione esterna, introiettata, identificata e integrata (Ryan e Deci, 2019, 2020; Howard et al., 2021). La regolazione esterna si riferisce ai comportamenti guidati da ricompense e punizioni imposte dall’esterno (ad esempio, leggere per evitare una punizione); la regolazione introiettata si manifesta quando l’obiettivo è quello di ottenere l’approvazione di sé o degli altri, mentre la regolazione identificata e quella integrata sono le più autodeterminate tra le motivazioni estrinseche: gli individui sono guidati da una regolazione identificata quando i loro comportamenti sono coerenti con i loro valori e significati personali, a prescindere dal godimento che può derivare dall’attuazione del comportamento stesso; nella regolazione integrata, gli individui assimilano quel comportamento nel loro senso di sé in modo che quello stesso comportamento diventi parte pienamente congruente con la loro identità.

Tenendo conto di questo continuum, lo studio spagnolo si concentra sul tipo più autodeterminato di motivazione, ossia la motivazione intrinseca alla lettura, definita come il desiderio psicologico di eseguire dei comportamenti (leggere, in questo caso) al solo scopo di ottenere soddisfazione, piacere o eccitazione che derivano dall’attuazione del comportamento stesso (Ryan e Deci, 2019). In altre parole, la lettura è attività intrinsecamente motivante nella misura in cui soddisfa i bisogni psicologici di competenza e autonomia (Ryan e Deci, 2009).

Diversi studi hanno ormai confermato la relazione tra motivazione intrinseca alla lettura e il comportamento di lettura (Wang e Guthrie, 2004; Unrau e Schlackman, 2006; Law, 2008, 2009; Becker et al., 2010; Retelsdorf et al., 2011). Tale relazione indica che le persone che leggono per il piacere di leggere dedicano più tempo a questa attività, rispetto a persone estrinsecamente motivate. Altri studi hanno trovato che il genere gioca un ruolo importante nella relazione tra motivazione alla lettura e la frequenza e/o il tipo di lettura: le ragazze sono più intrinsecamente motivate a leggere, ciò è associato ad una maggior frequenza di lettura (de Naeghel et al., 2012). Inoltre, una maggiore motivazione intrinseca delle ragazze verso compiti accademici è positivamente correlata ai loro risultati e all’apprendimento (Ratelle et al., 2007; Vansteenkiste et al., 2009).

I risultati elencati sulla motivazione alla lettura e gli effetti del genere sembrano abbastanza convalidati. Tuttavia, in una situazione eccezionale come quella che stiamo sperimentando, potrebbero emergere altri fattori che influenzano la relazione tra motivazione, genere e abitudini di lettura. Alzueta e colleghi (2021), ad esempio, hanno analizzato l’impatto psicologico della pandemia in 59 paesi del mondo: una proporzione significativa di intervistati ha riportato sintomi di depressione e ansia, soprattutto tra donne e giovani adulti, probabilmente perché più vulnerabili agli effetti psicologici della pandemia come conseguenza di una maggiore esposizione ai media. Ancora, Guo e colleghi (2021) hanno evidenziato che la quantità di tempo che le persone trascorrevano sui social media a leggere informazioni riguardanti il COVID-19 rappresenta un predittore dello stress psicologico.

Gli effetti della pandemia sulla lettura

Alla luce degli studi menzionati e dell’importanza del distress in situazioni emotivamente salienti, la sfida di questa indagine spagnola consiste nell’esplorare la relazione tra motivazione intrinseca alla lettura e frequenza di lettura in tre momenti diversi: prima della pandemia, durante le prime settimane di lockdown e dopo qualche settimana di lockdown (De Sixte et al., 2021).

Nello specifico, gli autori ipotizzano una relazione positiva tra motivazione intrinseca alla lettura (IRM, Intrinsic Reading Motivation) e frequenza di lettura (RF, Reading Frequency) ossia che le persone con IRM più alta mostreranno maggiore RF rispetto a quelle che riferiscono una bassa IRM (Schiefele et al., 2012). Gli autori ipotizzano inoltre che la relazione tra IRM e RF sia più forte nella lettura per studio/lavoro e per svago, rispetto alla lettura di social e di news in quanto questi due tipi di lettura, considerate le ricerche precedenti, non sembrano essere i mezzi principali per soddisfare il piacere associato alla lettura stessa. Gli autori si pongono altresì l’obiettivo di indagare le differenze di genere: ipotizzano una IRM più alta nelle femmine rispetto ai maschi e pertanto si aspettano che le femmine trascorrano più tempo a leggere. Questo è uno studio condotto durante il periodo pandemico perciò si tiene conto della situazione di isolamento e del distress che gli individui hanno vissuto in questo momento. Gli autori si aspettano quindi che i fattori di distress condizionino in misura minore la RF nelle persone con maggiore IRM, soprattutto per la lettura per svago.

Per indagare la motivazione intrinseca alla lettura, gli autori hanno utilizzato una versione adattata del questionario SRQ -Reading Motivation (de Naeghel et al., 2012). La RF è stata indagata chiedendo ai partecipanti di ricordare quanto tempo ogni giorno dedicavano ai diversi tipi di lettura: lettura per svago, lettura per lavoro/studio, lettura di news e lettura dei social (Scales e Rhee, 2001; Torppa et al., 2020). I partecipanti hanno completato la scala precedente (frequenza di lettura per ogni tipo di lettura) tre volte: all’inizio, ricordando l’ultima volta (prima del lockdown) che avevano trascorso alcuni giorni a casa, ad esempio in vacanza o durante un fine settimana, successivamente hanno completato la scala ricordando le prime 2 settimane di lockdown ed infine hanno riflettuto sul periodo attuale, dopo che alcune settimane di lockdown erano passate.

Per indagare il distress è stata utilizzata la subscala del personal distress (PD) dell’Interpersonal Reactivity Index (IRI) (Davis, 1980) adattata e convalidata in spagnolo (Escrivá et al., 2004).

Per quanto riguarda le prime ipotesi, in linea con le aspettative teoriche e gli studi citati, i dati dimostrano che i partecipanti con maggiore IRM investono più tempo nella lettura rispetto ai partecipanti con IRM inferiore (Schiefele et al., 2012). Questa relazione si è mantenuta in tutti i momenti: prima, all’inizio e dopo qualche settimana di lockdown. Per quanto concerne il tipo di lettura, le relazioni più forti tra IRM e RF si osservano nella lettura per svago e per lavoro/studio. Questo può significare che questi tipi di lettura riescono meglio a soddisfare i bisogni di competenza e di autonomia (de Naeghel et al., 2012). Al contrario, questo effetto si mostra più debole per quanto concerne la lettura di notizie, almeno nella situazione di confinamento analizzata. Il fatto che la lettura di notizie non è stata influenzata così tanto dall’IRM potrebbe indicare che la lettura di notizie può soddisfare la persona solo per la sensazione di essere informata, non per la lettura in sé. Parallelamente, la relazione tra la lettura dei social e l’IRM era negativa. È possibile che la lettura dei social faciliti un senso di appartenenza in alcune situazioni (Pintrich e Schunk, 2006), ma potrebbe non rappresentare il metodo più appropriato per soddisfare tale bisogno. Infatti, tutti i partecipanti hanno ridotto il loro tempo dedicato alla lettura dei social dopo qualche settimana di lockdown. Per gli individui che amano la lettura in sé, sembra logico dedicare il loro tempo libero alla lettura (che è quella con più forte relazione positiva con l’IRM in questo studio), poiché tale attività potrebbe essere il tipo di lettura più appropriato per soddisfare la motivazione di leggere e basta, senza altri scopi, quale l’essere informati o connettersi con altre persone.

Anche la seconda ipotesi risulta confermata: le femmine erano più intrinsecamente motivate a leggere rispetto agli uomini, come dimostrato anche da altri studi (Ratelle et al., 2007; Vansteenkiste et al., 2009). A questo proposito, precedenti ricerche hanno suggerito la possibilità che le donne con maggiore motivazione autonoma potrebbero essere più efficienti nell’investire il loro tempo per concentrarsi sui loro studi (per esempio, Vallerand et al., 1997). Questo può spiegare perché le donne di questo studio hanno mostrato una RF più alta per studio/lavoro rispetto agli uomini, prima del lockdown. I maschi invece hanno mostrato un RF più alta per il lavoro/studio rispetto alle femmine nelle prime settimane di lockdown, a condizione che presentassero un’alta IRM. Questo dato è molto interessante, poiché suggerisce che le differenze di genere nella RF possono essere influenzate dal contesto, in questo caso di lockdown.

Infine, in riferimento alla terza ed ultima ipotesi, la motivazione intrinseca alla lettura sembra giocare un ruolo diverso nel comportamento di lettura quando si considera il distress e il tipo di lettura. Nel caso specifico della lettura per studio/lavoro, il distress sembra ridurre la RF anche se gli individui hanno un’alta IRM: è possibile pensare che l’interazione tra il distress e il contenuto di queste letture in qualche modo prevalga sul peso della motivazione intrinseca. Per quanto concerne la lettura di social e di news, le persone con alta IRM leggono di più quando entra in gioco il distress. Per il tipo di lettura dei social, tale interazione può essere spiegata dalla potenziale dipendenza che i social media possono creare in situazioni di stress come la pandemia da COVID-19 (Zhao e Zhou, 2021). Per quanto riguarda la lettura di notizie invece, allo stesso livello di motivazione e stress, il tempo dedicatovi sembra avere un impatto sul comportamento di lettura. È possibile che, all’inizio del lockdown, le persone fossero più motivate a leggere le notizie per il bisogno di percepire un certo controllo o autonomia in un contesto in cui iniziavano a non averne. Questo effetto cessa man mano che il confinamento progredisce. Dai risultati descritti, sembra quindi che il distress abbia un impatto diverso a seconda del tipo di lettura che si considera: quando l’attività non rappresenta una richiesta o un’esigenza (per esempio, lettura dei social o per studio/lavoro) o non è legata a stimoli stressanti (per esempio, la lettura di news), la motivazione intrinseca alla lettura rappresenta una protezione contro il distress. Tuttavia, quando il tipo di lettura è più impegnativo, il distress ha un impatto negativo e possono verificarsi eventi paradossali, come i risultati di questo studio che mostrano come i partecipanti con IRM più alta per la lettura di studio/lavoro dedicano meno tempo a quel tipo di lettura se presenti elevati livelli di distress.

Conclusioni

Concludendo, i risultati indicano che i comportamenti di motivazione intrinseca e, come tali, autodeterminati, hanno un impatto positivo durante i periodi di chiusura obbligatoria. In tal senso, le persone con una più alta IRM sono riuscite a proteggere le loro abitudini di lettura indipendentemente dal contesto stressante che l’attuale pandemia ha rappresentato. Tuttavia, non tutti i tipi di lettura riescono a soddisfare le esigenze di base associate all’IRM. Come dimostra questo studio, in alcuni casi, un’alta IRM è collegata ad una più alta RF ma anche ad un più alto livello di distress. Quando la lettura comporta richieste o esigenze da parte del lettore e viene eseguita in un ambiente stressante come l’isolamento, la relazione tra IRM e RF può non essere necessariamente positiva, poiché un aumento di RF può essere associato ad un maggiore distress e, quindi, ad un minore benessere.

Questi risultati suggeriscono la necessità di indagare queste variabili al di là di un contesto educativo. La motivazione alla lettura è un tema molto affrontato nel contesto della ricerca educativa, ma sarebbe interessante rivolgere l’attenzione a popolazioni adulte e ad altri contesti. I risultati di questo studio sottolineano l’importanza dello sviluppo di una motivazione intrinseca alla lettura fin dalla più tenera età: essa ha impatti positivi sull’apprendimento e sul rendimento, e nei contesti che vanno al di là del contesto educativo, ossia in tutte quelle situazioni legate alla salute, al benessere degli individui e alla capacità di gestire situazioni stressanti o difficili.

 

ACT: Acceptance and Commitment Therapy (2020) di Paolo Moderato, Giovambattista Presti, Francesco Dell’Orco – Recensione

L’Acceptance and Commitment Therapy (ACT), come in molti ben sanno, è un intervento psicoterapico di ultima generazione.

 

Alcuni anni fa, durante una lezione all’istituto di psicoterapia con il Prof. Miselli, citato nel libro, ho avuto la possibilità di affacciarmi all’ACT. Sono subito rimasta affascinata da tale approccio che definirei, in poche parole, profondo e autentico.

Ritengo che questo testo sia uno dei vari manuali indispensabili per svolgere un lavoro così complesso e delicato come quello dello psicoterapeuta.

ACT significa “Acceptance and Commitment Therapy”, ossia “terapia dell’accettazione e dell’impegno”. Ovviamente, come dico spesso ai pazienti che seguo, il termine “accettare” ha una connotazione piuttosto negativa in italiano rispetto all’inglese, tanto che il libro offre un sinonimo più adatto: lasciare spazio. Anche se smettere di cercare di allontanare ciò che non piace, piuttosto che lasciargli spazio, solitamente non è un processo automatico, aiuta a crescere. È così che questo tipo di intervento psicoterapico insegna alle persone a smettere di combattere contro se stesse, ossia contro i propri stati d’animo, le parti di sé che non accettano, le emozioni che non tollerano, ecc., per evolvere.

Il termine “impegno” si riferisce invece a delle vere e proprie azioni finalizzate ad andare incontro a ciò che conta davvero nella propria vita. Qui ci colleghiamo ai valori, quindi a ciò che dà importanza alla nostra esistenza. Si tratta pertanto di allinearsi con se stessi, cosa tutt’altro che scontata in un mondo così caotico e capace di mettere a dura prova la nostra attenzione. Ogni persona infatti, chi più e chi meno, rema contro se stessa mettendo in atto i cosiddetti “evitamenti”. Si tratta di strategie disfunzionali che in alcuni casi precludono addirittura la possibilità di vivere una vita soddisfacente, mentre in altri casi sono soltanto limitanti. Se bastasse sapere che affrontando si smette di evitare, ci riuscirebbero facilmente tutti, ma non è così automatico e nemmeno semplice. Ciascuno di noi nella quotidianità mette in atto evitamenti che, con un po’ di pratica, può imparare a riconoscere e superare. Ad esempio io evitavo di preparare tale recensione con l’idea che potrebbe non essere abbastanza esaustiva, ma poi, come vedete, l’ho fatta!

Il manuale inizialmente spiega in modo molto esaustivo che cosa è l’ACT per poi approfondire i concetti chiave, concetti che richiedono pratica in quanto è come imparare un nuovo sport. Non è infatti sufficiente spiegare verbalmente a un paziente che cosa deve fare affinché possa apprendere delle nuove abilità, esattamente come non è sufficiente spiegare solamente la teoria a una persona che intende imparare a sciare.

Tramite l’ACT il paziente ha infatti modo di fare pratica perché viene istruito e modellato dal terapeuta, nonché rinforzato automaticamente quando comprende le conseguenze benefiche derivate dalle sue azioni. Diventare persone più flessibili, capaci di vivere in linea con i propri valori e di osservare i pensieri prodotti automaticamente dal cervello senza diventarne parte, sono alcuni dei principali vantaggi che si possono acquisire tramite l’utilizzo dell’approccio ACT.

Una delle parti del testo che ritengo fondamentali riguarda il clima relazionale; viene messa in luce la possibile difficoltà del terapeuta del restare nel presente, in contatto aperto e compassionevole col paziente, come sarebbe invece opportuno. Ci sono numerosi spunti di riflessione utili a migliorare il proprio operato. Per concludere trovo che questo manuale sull’ACT, terapia con efficacia scientifica, sia un fondamento importante per i terapeuti che tendono a utilizzare un approccio integrato.

Anziani e adulti in età lavorativa a confronto: chi risponde meglio al trattamento psicologico?

La letteratura sostiene una simile efficacia tra gli anziani e gli adulti in età lavorativa degli interventi psicologici per la depressione, sebbene gli anziani potrebbero beneficiare meno di un trattamento specifico per i disturbi d’ansia.

 

Un quarto degli anziani sopra i 65 anni, soffre di un disturbo mentale depressivo o ansioso (Evans & Mottram, 2000; Gowling et al., 2016) particolarmente associato a questa età ad esiti negativi, come deterioramento cognitivo, demenza (Byers & Yaffe, 2011; Kazmi et al., 2021) e mortalità precoce (Saz & Dewey, 2001).

Sebbene la terapia cognitivo comportamentale (CBT) si sia dimostrata efficace (NICE, 2011), comportando meno effetti collaterali negativi dell’impiego di psicofarmaci (Carvalho et al., 2016), in molte parti del mondo, gli antidepressivi vengono impiegati più delle terapie psicologiche per il trattamento di ansia e depressione (Maust et al., 2017; Tamblyn et al., 2019), soprattutto tra gli anziani (Sanglier et al., 2011).

Probabilmente, alla base vi è la convinzione tra i medici che gli interventi psicologici in questo gruppo di pazienti siano meno efficaci (Mental Health Taskforce, 2016), mentre dall’altra parte sono gli stessi anziani che non credono di poter beneficiare della psicoterapia (Laidlaw et al., 2008).

Un confronto tra anziani e adulti in età lavorativa

La letteratura sostiene una simile efficacia tra gli anziani e gli adulti in età lavorativa degli interventi psicologici per la depressione (Cuijpers et al., 2018), sebbene gli anziani potrebbero beneficiare meno di un trattamento specifico per i disturbi d’ansia (Gould et al., 2012). Ulteriori indagini non sono state in grado di valutare l’impatto dell’età sull’esito della psicoterapia (Cuijpers et al., 2018) a causa del ridotto campione di studio e l’impossibilità di generalizzare i risultati perché studiati in contesti differenti. In generale, le prove sull’efficacia dei trattamenti psicologici di routine per gli anziani è limitata.

Eventuali differenze negli esiti delle terapie psicologiche tra anziani e adulti in età lavorativa, possono essere ricondotte alle condizioni di salute a lungo termine tra gli anziani, come l’artrite, il diabete, l’ipertensione, i problemi cardiaci e le malattie polmonari, tutte associate a menomazioni funzionali e impattanti sulla terapia (Callahan, 2001; Laidlaw et al., 2008). Queste problematiche vengono spesso diagnosticate in comorbilità ai disturbi mentali depressivo e ansiosi (Djernes, 2006), che possono insorgere dopo o essere già presenti, aumentando il rischio di prognosi infausta (Callahan, 2001).

Una ragione per cui gli anziani che afferiscono ai servizi di salute mentale abbandonano la terapia potrebbe rimandare alla presenza di tali condizioni fisiche comuni nella tarda età, che spiegano i peggiori esiti di trattamento rispetto alla popolazione di adulti in età lavorativa.

Valutazioni recenti effettuate nei servizi di trattamento psicologico in Inghilterra, dimostrano come gli over 65 abbiano tassi di recupero significativamente più alti (64,4%) dopo la terapia psicologica rispetto agli adulti in età lavorativa (50,2%) (Callahan, 2001).

A fronte di una previsione dell’aumento di circa il 60% degli over 65 entro il 2030 (He et al., 2016), è necessario comprendere l’efficacia della psicoterapia routinaria per gli anziani affetti da depressione ed ansia.

Anziani e psicoterapia: esiti post trattamento

Saunders et al. (2021) hanno valutato le differenze negli esiti post trattamento tra i pazienti più anziani (over 65 anni) e gli adulti in età lavorativa affetti da ansia e depressione, entrambi trattati con terapie psicologiche evidence based (come auto-aiuto guidato, terapia cognitivo-comportamentale o consulenza; Clark, 2018). Inoltre, è stato valutato l’impatto della comorbilità con una condizione fisica a lungo termine sull’esito della terapia.

Rispetto al campione totale (N= 100 179), le persone anziane che sono afferite tra il 2008 e il 2019 ai servizi di salute mentale in Inghilterra, erano solo il 3,8% e piuttosto sottorappresentate (Office of National Statistics, 2021). Complessivamente, le condizioni di disagio mentale riportate dagli over 65, erano meno gravi rispetto a quelle emerse negli adulti in età lavorativa. Inoltre, rispetto agli adulti più giovani, avevano una probabilità di 1,33 volte superiore di ottenere un recupero affidabile post trattamento, mentre il rischio di peggioramento era alquanto basso.

Sebbene la ricerca suggerisca che la presenza negli anziani di una condizione problematica di salute insorta in età tardiva in concomitanza ad una psicopatologia ansiosa o depressiva influisca negativamente a livello psicologico (Callahan, 2001), sorprendentemente, questa indagine ha riscontrato differenze minime negli esiti post trattamento tra gli over 65 con e senza una patologia fisica. Inoltre, l’impatto psicologico era maggiore tra gli individui in età lavorativa, che avevano ottenuto un recupero funzionale minore rispetto agli anziani. Il miglioramento era maggiore tra gli anziani con problematiche fisiche in comorbilità con un disturbo d’ansia per il quale richiedevano il trattamento.

Ne consegue che una patologia fisica concomitante non dovrebbe essere considerata un ostacolo all’ingresso di anziani in trattamento e nel raggiungimento di esiti psicologici favorevoli. Viceversa si tratta di una condizione più delicata per gli adulti in età lavorativa. Probabilmente, gli anziani sono in grado di adattarsi meglio alle condizioni fisiche avverse insorte in tarda età rispetto agli adulti più giovani, nei quali l’insorgenza di tali problematiche è certamente più inaspettata.

È emerso che il campione di anziani aveva una probabilità maggiore di ricevere interventi ad alta intensità ed una valutazione più dettagliata in fase preliminare che, rispetto agli adulti in età lavorativa, garantiva loro un intervento maggiormente su misura. Nonostante abbiano ricevuto meno sessioni, gli esiti positivi ottenuti dagli anziani enfatizza il valore di un trattamento che sia al contempo informato.

Sebbene da un lato alcuni medici ritengano che la psicoterapia per l’ansia e la depressione siano meno efficaci negli anziani (Mental Health Taskforce, 2016), e dall’altro gli anziani stessi credano di non beneficiarne (Laidlaw et al., 2008), i risultati dell’attuale studio sono preziosi nel contribuire a disconfermare la credenza che gli anziani siano intrinsecamente inflessibili e incapaci di cambiare.

Riuscire ad esplorare ed abbattere i potenziali ostacoli nei medici e negli stessi anziani per l’accesso ai servizi di cura, offrendo al contempo un supporto adatto alla persona, aumenterebbe l’accesso alla terapia psicologica per questa fascia delicata della popolazione.

Sarebbe interessante che la futura ricerca indaghi quali interventi si adattano al meglio alle condizioni fisiche insorte nella tarda età, per ridurre il rischio di ricaduta post trattamento e favorire una prognosi più favorevole.

Sticazzi, la suprema via della leggerezza – Recensione del libro

In un testo sincero ed aperto, l’autore ci espone la sua personale filosofia di vita. Non delle più bon ton, il mantra dello “sticazzi” diventa un refrain liberatorio ed emancipante.

 

Sono molte le barriere che una società, specialmente una da sempre avversa al rischio come quella italiana, impone ai suoi figli. Ogni tanto c’è bisogno di prendere le distanze rispetto alle aspettative, alle paure, separare quello che veramente conta per noi e cosa invece si può lasciare correre.

Il metodo “sticazzi” può essere usato, un po’ come il parmigiano, per spolverare le situazioni più varie della quotidianità e della vita, ma attenzione: non per ribellarsi mandando tutti a quel paese, ma per comprendere, liberare se stessi e rendere un piatto più buono, saporito, nutriente.

Mi perdonerà l’autore, chiaramente romano, per aver citato il parmigiano e non il pecorino. Il che ci rimanda direttamente al capitolo 4, nel quale l’autore ci racconta, purtroppo senza dovizia di particolari, come applicando il metodo “sticazzi”, cito testualmente: “ho avuto moltissimi rapporti occasionali”.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO L’IMMAGINE:

Sticazzi 2021 di Andrea Pietrangeli Recensione del libro Fig 1

 

In questo periodo molti hanno avuto modo, o sono stati costretti, a fermarsi e riconsiderare se la propria vita quotidiana corrisponda a quello che davvero vogliono. Il libro di Pietrangeli può essere un simpatico test, per vedere quanto siamo in fase con noi stessi e i nostri valori e anche una guida, leggera, per vivere più serenamente.

Personalmente in certe parti l’ho trovato un po’ diretto, nel senso che l’autore dice “é cosi, te lo garantisco” (non testuale). Ma la filosofia “Sticazzi” consiste proprio nel farsi scivolare addosso questo genere di dichiarazioni prescrittive; è ok prenderne atto, ma anche giusto e lecito metterci la dovuta distanza per osservarle da fuori. È in effetti uno strumento molto potente.

 

Vaccino anti Covid-19: una riflessione sul funzionamento della mente in situazioni critiche

Nel momento storico attuale il tema principale è il vaccino anti COVID-19 e anch’esso ha portato con sé implicazioni che dobbiamo affrontare.

 

Questo articolo propone una riflessione sul possibile funzionamento della nostra mente quando ci troviamo ad affrontare eventi critici, che potrebbero innescare alti livelli di tensione emotiva. La pandemia COVID-19 ha rappresentato e rappresenta a tutti gli effetti un evento critico; profonde conseguenze si sono verificate progressivamente su ogni aspetto della nostra vita, ogni campo della nostra esistenza è stato travolto da significativi e dolorosi cambiamenti.

Nel momento storico attuale il tema principale è la vaccinazione anti COVID-19 e anch’essa ha portato con sé implicazioni che dobbiamo affrontare. Le istituzioni sono impegnate da mesi a raggiungere, attraverso la vaccinazione di massa, l’immunità di gruppo, che appare essere l’unica soluzione per sconfiggere il COVID-19. L’approvazione dei vaccini da parte dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) e dell’EMA (Agenzia Europea per i Medicinali), i dati scientifici divulgati, l’appello alla responsabilità civile, i miti anti-vaccinali sfatati e, in ultima battuta, l’introduzione del green pass, hanno diminuito in parte il numero delle persone che non intendono vaccinarsi, senza però, purtroppo, azzerarlo. È interessante, a tale riguardo, poter far luce e riflettere sui potenziali meccanismi di funzionamento della mente in questa peculiare situazione. In particolare, l’attenzione viene qui posta sul funzionamento della mente borderline (Cancrini, 2006; Kernberg, 1984) e di come essa possa attivarsi in situazioni che percepiamo come avverse e che generano elevati livelli di tensione.

Il funzionamento della mente borderline è caratterizzato dal fornire giudizi estremi (“o bianco o nero”) su noi stessi e sulla realtà esterna; tale meccanismo di difesa è conosciuto come scissione. La mente che presenta questo meccanismo giudica tutto buono o tutto cattivo, senza nessuna sfumatura, ha difficoltà a intercettare i gradi di positività e negatività di una persona o di un oggetto esterno (Cancrini,2006; Kernberg, 1984). La mente funziona in questo mondo per il bambino fino ai 15-21 mesi: una madre presente è la nutrice buona e disponibile che lo rende felice e riconoscente, mentre una madre assente viene vissuta come cattiva e lo rende pieno di rabbia e di odio. È soltanto verso i 3 anni, quando il piccolo può ricordare con chiarezza la madre che c’era e immaginare quella che ci sarà, che questa fase critica ha termine. Il superamento dell’angoscia di separazione segnala la raggiunta stabilità con l’oggetto d’amore; essa indica la capacità acquisita del bambino di integrare l’immagine della madre cattiva (assente) con quella buona (presente), preparandolo agli aspetti maturativi della separazione che seguirà la sua reale nascita psicologica (Mahler et al., 1975).

Nello sviluppo normale, la capacità di integrare le rappresentazioni buone e cattive aumenta gradualmente con l’età e dovrebbe raggiungere i massimi livelli nell’età adulta. Gli individui maturi fondano il loro equilibrio sulla consapevolezza profonda della propria e altrui imperfezione, possono interrogarsi con sospetto (“mi sto arrabbiando troppo?”), con ironia (“forse mi sto arrabbiando troppo”) o con aperto compiacimento (“quando vado allo stadio posso arrabbiarmi o entusiasmarmi troppo”) allo sviluppo di emozioni unilaterali (“tutto bianco” o “tutto nero”). La tendenza a regredire verso posizioni più primitive, tuttavia, può presentarsi in situazioni di particolare tensione, come nei passaggi evolutivi critici (preadolescenza, adolescenza, nascita di un figlio, etc.), nel momento del lutto e della perdita (cui si reagisce, per un lasso di tempo, in modo borderline), negli entusiasmi basati sull’identificazione proiettiva con un ideale, nell’innamoramento (Cancrini, 2006).

Il funzionamento della mente borderline è un riflesso difensivo molto significativo nella misura in cui consente al singolo e al gruppo di darsi una spiegazione di quello che sta accadendo evitando lo smarrimento depressivo di chi è sopraffatto da eventi “incomprensibili”. Ciò non esclude che possano esserci singoli o gruppi di persone che riescono a mantenere un funzionamento normale anche in situazioni caratterizzate da alti livelli di tensione, che vivono esprimendo un dubbio o una mancanza di certezze su ciò che sta realmente accadendo. Se la crisi vissuta è particolarmente intensa e drammatica, se le pressioni esterne sono particolarmente forti, può accadere che gli individui vengano travolti da ondate di funzionamento borderline, cercando di trovare rinforzi positivi per le proprie convinzioni e per i propri atteggiamenti. Coloro che esprimono dei dubbi vengono rapidamente assimilati a dei nemici. Si potrebbe, a questo punto, osservare l’utilizzo del meccanismo di difesa dell’idealizzazione per quanto riguarda l’interno (chi appartiene alla stessa corrente di pensiero) e di svalutazione per l’esterno (coloro che non vi aderiscono). L’esterno e l’interno appaiono, in tal modo, scissi e viaggiano su binari estremi opposti: il “buono” e il “cattivo”. Tale pervasività di funzionamento borderline è un fenomeno che tende ad autoalimentarsi. Mentre nelle situazioni in cui la crisi e la tensione viene sperimentata in modo meno drammatico, una parte cospicua di persone e di gruppi riesce a mantenere la propria capacità di riflessione e può opporsi in modo funzionale allo sviluppo di un’ulteriore pervasività del funzionamento borderline, in quest’ultimo caso ad autoalimentarsi è la tendenza a organizzare un pensiero maggiormente strutturato. Quello che appare più verosimile, e che trova conferma negli studi di Freud (1921) sulla psicologia delle masse, è l’idea che in tali circostanze si stabilisca una regressione a livelli primitivi di funzionamento di un numero rapidamente crescente di individui che si “contagiano” l’uno con l’altro. Il rinforzo della regressione è connesso ai messaggi che provengono dallo schieramento opposto all’interno di sequenze comunicative caratterizzate dalla escalation progressiva dei toni, delle minacce, delle accuse e delle aggressioni reciproche (Cancrini, 2006).

Tale funzionamento della mente borderline potrebbe essersi attivato di fronte all’evento critico della pandemia e, in particolare, nel caso della vaccinazione anti COVID-19: le tensioni emotive a cui siamo soggetti potrebbero aver attivato un funzionamento mentale primitivo, legato a meccanismi difensivi arcaici, come quello della scissione, dell’idealizzazione e della svalutazione, lasciando, in tal modo, poco spazio a un funzionamento psichico più maturo, caratterizzato da un pensiero maggiormente strutturato e non soggetto a giudizi totalizzanti. Risulta, a mio avviso, pertanto importante poter effettuare una lettura complessa del fenomeno della vaccinazione che prenda in esame anche i risvolti psicologici e il potenziale funzionamento mentale sottostante, in modo tale che questa lettura possa essere una guida e un ausilio ai potenziali interventi da mettere in opera in questo delicato momento storico.

 

Il concetto di olobionte umano-microbiota e l’effetto imbuto dei telomeri

Il concetto di olobionte implica una mente umana quale sistema integrato che, non solo cerca di soddisfare le teleonomie bio-psico-sociali implementate dal DNA della specie umana, ma include anche le teleonomie dell’ecosistema.

 

Il settore scientifico del microbiota ha fatto emergere la necessità di introdurre il concetto di olobionte mentre la scienza dei telomeri ha evidenziato la natura convergente di molti aspetti psicofisici umani. La mente, in questo scenario complesso, assume un ruolo nuovo di mediatore tra esigenze bio-psico-sociali umane e degli altri microorganismi che ospitiamo.

Abstract

L’epigenetica e lo studio del microbiota supportano il concetto di olobionte cioè di organizzazione formata da un ecosistema di agenti biologici che non condividono il medesimo DNA, ma che interagiscono simbioticamente al fine di massimizzare la fitness dell’unità globale. In questo contesto la velocità di consumo dei telomeri, le strutture cromosomiche che determinano la nostra longevità e qualità di vita complessiva, assumono un significato nuovo e ancora più complesso. Mentre il concetto relativo l’“effetto imbuto” (detto anche “a collo di bottiglia”) dei telomeri ben rappresenta la dinamica estremamente convergente ed in parte indipendente delle teleonomie umane e non, la mente assume il ruolo di spazio in cui queste eterogenee teleonomie convergono in maniera integrata per essere negoziate all’interno dei processi decisionali umani.

Il microbiota

Sulla nostra pelle, all’interno della nostra bocca e delle vie respiratorie, ma soprattutto nell’intestino, il complesso ecosistema di microorganismi con un DNA diverso dal nostro chiamato microbiota svolge un ruolo fondamentale ed indispensabile per la nostra salute e la nostra sopravvivenza.

Seppur largamente sottostimato fino a pochi anni fa anche dalle scienze biomediche, oggi sappiamo finalmente che dalle funzioni digestive a quelle metaboliche o immunitarie, il microbiota è essenziale per il funzionamento del nostro organismo sia nei suoi aspetti più strettamente fisiologici che psicologici.

Il ruolo e l’impatto del microbiota, ossia l’insieme di microorganismi (batteri, virus e funghi) che coabitano con le nostre cellule, finora non ha mai trovato il suo reale spazio logico perché fino a pochi anni fa era considerato solo come un insieme di agenti biologici tollerati dal nostro organismo, ma che parassitavano le cellule umane senza apportare alcun beneficio.

Attualmente, in considerazione delle conoscenze emerse dal settore del microbiota, occorre cambiare paradigma per incorporare le teleonomie espresse da questo vasto ecosistema che vive in simbiosi con le cellule umane, soprattutto perché siamo sempre più coscienti che la loro interazione con le teleonomie bio-psico-sociali che caratterizzano la specie umana è fondamentale ed imprescindibile (Agnoletti, 2021a).

Il microbiota risulta indispensabile per capire l’eziologia di molte problematiche di natura sia fisiologica (si veda ad esempio la celiachia, l’obesità o la colite ulcerosa) che psicologica come l’ansia, la depressione e molte psicopatologie quali l’autismo, la schizofrenia, etc. (Caio et al., 2019; Cheung et al., 2019; Kelly et al. 2016; Li & Zhou, 2016; Foster & McVey Neufeld; 2013; Garrett et al. 2007; Koenig et al., 2011; Mangiola et al., 2016; Ottman et al., 2012; Rodrigues-Amorim et al., 2018; Sharon et al., 2019; Simpson et al., 2021).

Questa considerazione comporta dei cambiamenti piuttosto radicali dei paradigmi delle scienze biomediche e psicologiche perché aumentano notevolmente la complessità dei fenomeni da analizzare, anche se offre contemporaneamente tutta una serie originale di processi esplicativi finora mai considerati scientificamente (Agnoletti, 2021b; Agnoletti, 2021c).

L’olobionte

In passato, anche prima di quella che viene attualmente chiamata “microbiota revolution” per il suo forte impatto sulle scienze biomediche, alcuni biologi evoluzionisti e microbiologi avevano già sentito l’esigenza di parlare di “olobionte”, per meglio descrivere un organismo caratterizzato dalla convivenza simbiotica di agenti biologici che non condividono lo stesso DNA.

La famosa biologa Lynn Margulis propose in passato la teoria dell’endosimbiosi in riferimento soprattutto a strutture biologiche intracellulari (si veda ad esempio il ruolo dei mitocondri), introducendo anche il concetto di olobionte come entità in cui vari organismi cellulari che non possiedono lo stesso DNA condividono una prossimità spaziale e funzionale, pur mantenendo una propria autonomia cellulare (non si trovano cioè all’interno della stessa cellula come nel caso dell’endosimbiosi).

Il concetto di olobionte implica necessariamente una mente umana quale sistema integrato che, non solo cerca di soddisfare le teleonomie bio-psico-sociali implementate dal DNA della specie umana, ma include anche le teleonomie dell’ecosistema rappresentato dall’insieme di microorganismi del microbiota che non condividono il nostro DNA ma che globalmente possiamo considerare all’interno un’unità olobiontica (Agnoletti, 2021b).

Un esempio pratico di questa interazione complessa e bidirezionale può essere rappresentato dal fatto che, ad esempio, una corretta quantità di serotonina o dopamina può non essere sintetizzata in una situazione disbiotica (di perdita cioè dell’equilibrio stabilito nel microbiota) con tutte le conseguenze esperienziali, motivazionali ed emotive del caso, così come la consapevolezza di alcune conoscenze riguardo gli stessi argomenti di questo scritto può condurre a decidere di alimentarsi in una maniera favorevole al ristabilirsi di una situazione eubiotica (in cui si recupera l’equilibrio all’interno del microbiota introducendo il Lactobacillus Rhamnosus) riportando quindi vantaggi anche a livello psicologico.

È chiaro quindi che il ripristinare un certo tipo di benessere psicologico passi inevitabilmente dal considerare e favorire la teleonomia di alcuni ceppi specifici di batteri, decidendo di effettuare delle scelte alimentari (intervenendo quindi a livello mentale) favorevoli la loro proliferazione.

La transizione da una teleonomia all’altra (rispettivamente da quella biologica di specie microbiotiche a quella biologica umana a quella psicologica e culturale e “ritorno”) è necessaria, in questo esempio, per descrivere la dinamica complessiva del fenomeno.

Il legame tra olobionte e telomeri

Se da una parte il microbiota richiama il concetto di olobionte implicando una visione della mente quale dominio dove le varie teleonomie convergono per essere continuamente negoziate al fine di ottimizzare la fitness complessiva, l’altrettanto recente scienza dei telomeri ci offre un punto di vista diverso e sotto certi aspetti ancora più sfidante, perché rappresenta un altro luogo dove convergono tutte queste teleonomie.

In estrema sintesi i telomeri sono il nostro orologio biologico perché la loro lunghezza determina la nostra aspettativa di vita residua nel senso che la lunghezza assoluta di queste strutture molecolari che si trovano sulle estremità terminali dei nostri cromosomi definiscono la nostra longevità e, di conseguenza, la nostra probabilità di sviluppare problematiche e malattie legate all’invecchiamento cellulare.

La letteratura esistente relativa alla scienza dei telomeri evidenzia che diversi fattori incidono quantitativamente sulla dinamica che determina l’attivazione degli enzimi della telomerasi (gli enzimi responsabili della ricostruzione strutturale dei telomeri stessi).

Queste “macchinette” biologiche sono deputate a ricostruire i telomeri contrastando, almeno in parte, il fisiologico consumo e quindi l’invecchiamento globale cellulare e dell’intero organismo.

Più è efficace il lavoro di manutenzione fatto sugli stessi telomeri per opera della telomerasi, più lunga è la vita residua della cellula e migliore sarà la sua fitness globale.

Per la stessa logica, minore è la lunghezza assoluta dei telomeri, più la cellula tenderà ad avere problemi d’invecchiamento fino al punto limite in cui i telomeri, non riuscendo più a soddisfare il loro ruolo strutturale nei confronti del resto del cromosoma, avviano il processo di disgregazione decretando il declino irreversibile di tutta la struttura e la funzione cellulare (Andrews & Cornell, 2017; Blackburn, 2010).

Dopo una certa soglia specifica, pari a circa 5000 basi azotate, l’accorciamento telomerico predispone quindi a molte malattie di natura cardiocircolatoria, immunitaria ed oncologica (Prinz, 2011).

L’invecchiamento cellulare determinato dalla lunghezza dei telomeri ha quindi una proprietà plastica “esperienza dipendente” nel senso che può essere accelerato o rallentato in base alla tipologia di esperienza epigenetica che influenza l’attività della telomerasi e, in ultima analisi, della lunghezza assoluta dei telomeri.

I fattori responsabili dell’accelerazione od il rallentamento dell’attività della telomerasi, e quindi dell’invecchiamento cellulare, sono stati ben identificati dalla letteratura scientifica.

La nutrizione, l’attività motoria, la qualità del sonno, della rete sociale che percepiamo ed il benessere psicologico, contribuiscono tutti a modificare l’attività della telomerasi (in senso positivo o negativo) influenzando in ultima analisi la lunghezza assoluta dei telomeri.

In altre parole gli aspetti psicologici, motori, del sonno, nutrizionali e relativi le relazioni sociali hanno la medesima capacità di modificare le dinamiche della telomerasi e quindi della lunghezza assoluta dei telomeri determinando la longevità potenziale residua dell’organismo intero.

Tutti questi fattori sociologici, psicologici, fisiologici, nutrizionali e motori, con le loro rispettive teleonomie, “bersagliano” quindi in maniera convergente ed almeno in parte indipendente i telomeri perché tutte queste “esperienze” epigenetiche vengono “tradotte” in codici biologici che si esprimono, in ultima analisi, in termini di attività della telomerasi.

Quanto appena descritto sottolinea chiaramente la natura almeno in parte indipendente e convergente che coinvolge molti livelli delle nostre teleonomie bio-psico-sociali e che hanno importanti implicazioni pratiche relative il nostro benessere psicofisico (Agnoletti, 2018a; Agnoletti, 2018b).

Ho chiamato “effetto imbuto” o “effetto collo di bottiglia” telomerico questa dinamica dei telomeri appunto per descrivere l’evidente convergenza di molti processi parzialmente indipendenti, che influenzano l’attività della telomerasi, determinando cambiamenti nella longevità e nella qualità di vita cellulare.

Le implicazioni, anche cliniche, di questo concetto sono rilevanti per quanto riguarda il benessere psicofisico e la salute umana e rappresentano un cambiamento piuttosto radicale rispetto gli standard applicati attualmente (Agnoletti, 2018b; Agnoletti, 2019).

Nel contesto descritto precedentemente, che prevede il concetto di olobionte caratterizzato dalla convivenza di teleonomie umane e relative i microorganismi del microbiota, il livello d’analisi dei telomeri rappresenta uno spazio particolare dove il grado di negoziazione tra queste diverse teleonomie viene in qualche modo sintetizzato sia attraverso l’attività della telomerasi che attraverso la lunghezza totale dei telomeri.

Risulta particolarmente importante sottolineare il fatto che questo livello di analisi è oggettivo e già misurabile in maniera sufficientemente affidabile, anche se è prevedibile che nel prossimo futuro si svilupperà una ancora maggiore precisione ed affidabilità.

Quindi riassumendo abbiamo uno spazio mentale (conscio e non), dove le teleonomie umane e non umane si incontrano per essere negoziate globalmente all’interno dei processi decisionali che dirigono i nostri comportamenti, ed uno spazio rappresentato dai telomeri, dove queste scelte vengono sostanziate in termini di fitness biologica di tutte queste scelte globali.

Lo spazio psicologico umano è il dominio caratterizzato dall’incontro dell’oggettività e della soggettività, dall’incontro delle dinamiche che caratterizzano la nostra specie, così come le particolarità individuali derivanti dalla nostra storia personale in tutti i suoi aspetti bio-psico-sociali.

Lo spazio dei telomeri è un luogo biologico, oggettivabile, perché definito da una natura digitale, e quindi misurabile, in cui convergono tutte le dinamiche dello spazio psicologico espresse in comportamenti psico-neuro-endocrino-immunologici.

Il nostro concetto di benessere psicofisico non può ormai prescindere da questi macro concetti che la scienza ha identificato, e che ho provato a descrivere sinteticamente in questo testo, perché la consapevolezza delle loro dinamiche si declina in aspetti pratici sia per i professionisti del benessere (nel modo di supportare i loro assistiti) sia per tutte le persone che vogliono migliorare la propria salute e la loro qualità di vita.

 

“Redenzione” il primo singolo tratto da “Essenziale”, il nuovo album di Massimo Priviero uscito il 1 ottobre

Redenzione nasce nel pieno della pandemia, quando il mondo ha trovato conforto nella musica che ha aiutato a sentire ed amplificare un sentimento di condivisione, facendoci sentire meno soli, uniti ad affrontare un nemico comune. Uniti e per questo più forti.

 

Lo spazio temporale della canzone è quello post Covid, di un paese che sta cercando di ripartire dopo lo sconvolgimento causato dalla pandemia. Si cerca di guardare avanti pur non essendo ancora liberi dai vincoli e dai timori che sono nostri compagni ormai da un anno e mezzo.

All’inizio, nel febbraio 2020, nessuno aveva immaginato quello che stava per travolgerci, la sorpresa e il senso di disorientamento erano più forti della paura.

Nella primavera 2020 – racconta Massimo Priviero – mi ritrovai forzatamente chiuso in casa. Naturalmente, come gran parte del mondo. Confesso che all’inizio mi sentissi molto più sorpreso che terrorizzato. Ovviamente, parecchio intristito dalla quantità di quotidiane vittime innocenti a seguito di quel che abbiamo vissuto. Scrivere e comporre era quanto di più naturale potesse accadermi. Allo stesso modo, chiaro che hai tanto tempo per riflettere, per guardare dentro di te.

Con il passare delle settimane, poi dei mesi, si è fatta strada l’idea che quello che stava succedendo ci stava soverchiando. Ci siamo sentiti sempre più piccoli e impotenti in balia di qualcosa di incontrollabile che stava ridimensionando in modo irreversibile quell’eterno desiderio di onnipotenza che ci portiamo dentro. Cominciano a emergere debolezze, contrasti e fragilità che forse senza che nemmeno ce ne accorgessimo ci stanno dominando.

Avevo spesso questi pensieri mentre scrivevo, parlavo a me stesso, mettevo in fila immagini, tante immagini, fatti che ben sapete, poveri sempre più poveri, sempre di più, pezzi di mondo emarginati in mille modi, crisi ambientali come non ne abbiamo mai viste, trionfo dell’indifferenza, generazioni schiave di tecnologia e di rapporti umani falsati, drammi sul colore della nostra pelle.

​Apri anima e testa per sentire di più
Non lo vedi tuo figlio che cerca un lavoro
E il tuo benessere a debito che fotte il futuro
Globalizzati e ubriachi di tecnologia
Figli di grandi fratelli e bella democrazia
Te li immagini i cristi davanti a un confine
Con esistenze dal costo di un pezzo di pane
Tra volontari di pace perseguitati ogni giorno
Mentre gli idioti contenti qui ballano intorno

Da qui il pensiero che forse, in qualche modo, questo mondo deve finire, finire per poter ricominciare attraverso una sorta di redenzione umana:

Ma sembra la fine, sembra la fine
Sembra la fine del mondo che abbiamo visto noi

È in questo preciso momento, con questo stato d’animo, che nasce Redenzione:

La rabbia, la paura, la denuncia, il bisogno di amore e di purificazione. Il menestrello solo nel mezzo di una strada che suona e canta quel che i suoi occhi vedono e quel che la sua penna scrive da sola, invitando il mondo ad aprire la sua finestra. La finestra della mente e finestra dell’anima.

Eppure le contraddizioni del mondo sembrano non attenuarsi nemmeno con la pandemia. Su una presa di coscienza seria e un’onesta autocritica sembra prevalere una voglia di leggerezza sterile:

Lo vedi bene anche tu cosa siam diventati
​Indifferenti al mercato finché siamo scaduti
​Uomini senza le facce che chiamiamo gente
​Intossicati dal troppo, dal troppo di niente
​Governati da inetti e nullità senza fine
Banditi del tuo domani e senza bene comune
Terrorizzati dal gioco dell’economia
Contiamo morti innocenti di un’epidemia

Strano però, scrivevo strofe su strofe, anche cariche di peso, di denuncia di rabbia, di fame di giustizia, dategli voi il nome. È una cosa difficile da fare oggi, in un tempo in cui parliamo di bisogno di leggerezza che il più delle volte è desiderio di non vedere, è una grande bugia che ci raccontiamo, il fatto è che abbiamo fatto coincidere la leggerezza con l’indifferenza e spesso col cinismo.

Sento molto dire: “Con quel che abbiamo passato vuoi che non sia ora di divertirci e di metterci tutto alle spalle”, bene avremmo un mondo libero di essere più scemo e pure più criminale giustificato da quello che abbiamo passato, oppure verrà un giorno in cui cercheremo una nuova strada e una nuova salvezza, soprattutto per chi verrà dopo di noi.

Siamo schiavi del mercato, schiavi dei soldi, siamo uomini contenti di vivere senza alcuna idealità, senza domani, uomini illusi di vivere senza domani, non lo vediamo neanche il domani.

C’è l’amara considerazione che di questo fardello d’indifferenza e superficialità non siamo ancora riusciti a liberarci, ma resta anche viva la speranza che almeno per alcuni si possa essere aperto uno spiraglio di consapevolezza, magari proprio attraverso la musica.

Non ho creduto per un solo momento che il mondo sarebbe uscito migliore da quel che ha vissuto. La mia resistente idealità non è illusione. Credo, questo sì, che alcune minoranze possano aver trovato invece nuova forza dentro a una tragedia. Il bisogno di redenzione e se volete di conoscenza, oltreché essere un fatto molto individuale, riguarda essenzialmente loro.

Eppure mi sono trovato assurdamente felice mentre scrivevo e incidevo redenzione, eppure mi aspettavo e mi aspetto ancora che una minoranza di pazzi o di santi possa sentire la chiamata a raccolta del menestrello (…) aspettando altre voci che si aggiungano alla mia, come succede alla fine di questa canzone che inizia da sola in mezzo a una piazza vuota ma che poi si riempia di suoni, di altre voci, di altre menti, di altre anime.

L’ascolto di Redenzione innesca un processo che recupera i ricordi e contribuisce a creare la colonna sonora della nostra vita.

L’arte, e la musica nello specifico, è fonte di benessere emotivo e nutrimento interiore, ha potere salvifico, specie nei momenti di sofferenza.

A volte, nei mesi passati, richiusi tra quattro mura, abbiamo assistito a esibizioni improvvisate e concerti in streaming, talvolta spinti più dalla voglia di apparire e riappropriarsi di un palcoscenico che da una reale esigenza artistica. Ma la MUSICA è altro, la musica ha bisogno del contatto col pubblico, non si può fare da soli, in casa. È collettività e fisicità.

La musica ha bisogno di tornare nelle piazze e nei teatri, ed è li che troveremo Redenzione.

 

Guarda il video di Essenziale, di Massimo Priviero:

 

Il disturbo ossessivo-compulsivo nello spettro autistico: implicazioni nella diagnosi differenziale e nel trattamento

I disturbi dello spettro autistico (ASD) e il disturbo ossessivo-compulsivo (DOC), secondo recenti studi epidemiologici, presentano dei tassi di prevalenza dall’1% al 2% e dall’1% al 3%, rispettivamente (Pazuniak & Pekrul, 2020).

 

Introduzione

Il DOC è caratterizzato dall’interrelazione tra pensieri intrusivi (ossessioni) e azioni fisiche e/o mentali intenzionali (compulsioni), finalizzate a ridurre l’ansia causata dall’ossessione (APA, 2013). Il profilo dei disturbi dello spettro autistico, invece, presenta: iper- o iporeattività sensoriale, carenza di reciprocità socio-emotiva, mancanza di espressività facciale con anomalie del contatto visivo, stereotipie, scarsa flessibilità cognitiva e gamma di interessi limitata (APA, 2013).

Prima della pubblicazione della 4° edizione revisionata del Manuale Diagnostico e Statistico dei disturbi mentali (DSM-IV-TR; APA, 2000), i criteri diagnostici dell’ASD e del DOC precludevano la diagnosi dell’altro disturbo (Jiujias, Kelley & Hall, 2017). Questi criteri di esclusione erano in parte basati sull’idea che il comportamento ripetitivo e ristretto, nonché gli interessi limitati e stereotipati riscontrati nell’ASD, sembravano essere simili alle ossessioni e alle compulsioni riscontrate nel DOC.

Tuttavia, la ricerca suggerisce che esistono differenze nel comportamento ripetitivo e limitato tra i due disturbi (Pazuniak & Pekrul, 2020). Inoltre, gli studi indicano che bambini e adolescenti con ASD e DOC in comorbilità (ASD-DOC) possono presentare una sintomatologia differente rispetto ai pazienti con ASD senza DOC.

La diagnosi differenziale tra autismo e DOC

Date le differenze negli approcci terapeutici con ASD e DOC, è importante che il clinico riconosca un criterio di demarcazione tra i due disturbi, al fine di implementare gli interventi terapeutici più appropriati ed efficaci (Pazuniak & Pekrul, 2020).

Inoltre, i bambini e gli adulti nello spettro autistico possono presentare un’ampia variazione in termini di gravità: da quelli con significative disabilità linguistiche e a basso funzionamento, a quelli considerati più ‘funzionali’; nonostante siano tutti accomunati da una difficoltà pervasiva, più o meno marcata, nella comunicazione e manifestazione dei loro stati interni (Postorino et al., 2017).

L’identificazione di situazioni e stati mentali, che precedono episodi di disregolazione emotiva e comportamentale, può anche aiutare nella diagnosi di DOC nell’ASD: una delle caratteristiche chiave per distinguere i comportamenti ripetitivi primari dell’ASD dal quadro clinico del DOC, è che soltanto nello spettro autistico i comportamenti sono egosintonici e finalizzati alla ricerca sensoriale, mentre nel DOC sono spesso ego-distonici, causano angoscia e sono principalmente guidati dall’ansia (Pazuniak & Pekrul, 2020). Inoltre, i sintomi del disturbo ossessivo compulsivo possono apparire come nuovi comportamenti e diversi da quelli stereotipati di base che gli individui con autismo potrebbero aver manifestato per lunghi periodi di tempo, prima dell’insorgenza del disturbo ossessivo compulsivo.

L’attitudine verso l’accumulo di oggetti, in un bambino o adolescente con ASD, può indicare una diagnosi di comorbidità ASD-DOC. Si raccomandano, però, maggiori studi per discernere quali ossessioni e compulsioni sono più comuni nella popolazione con ASD, in quanto perseverano risultati contrastanti in merito alla diagnosi differenziale.

Trattamento del DOC in persone con autismo

Per quanto riguarda il trattamento, se a un paziente con disturbo dello spettro autistico è stato diagnosticato il DOC, si consiglia di seguire le linee guida cliniche standard per il DOC con alcune modifiche. Ad esempio, si consiglia di iniziare con una Terapia Cognitivo-Comportamentale (Cognitive Behavioural Therapy, CBT) modificata per gli individui con ASD ad alto funzionamento e/o con buone capacità di linguaggio espressivo-ricettivo. In particolare, la prevenzione dell’esposizione e delle ricadute può essere utile, specialmente con adattamenti per bambini e adulti con ASD. Tali adattamenti possono includere sessioni a domicilio, per aumentare la generalizzabilità della terapia, con una maggiore attenzione sull’identificazione affettiva e una minor enfasi sulla modulazione dello schema cognitivo.

Sebbene in letteratura non sia dimostrata un’efficacia conclamata per un farmaco specifico per il trattamento del disturbo ossessivo compulsivo nei pazienti con ASD, ci sono alcune prove a sostegno dell’uso di clomipramina, fluoxetina e fluvoxamina. Tuttavia, poiché le persone con ASD tendono a presentare tassi più elevati di effetti collaterali con i farmaci psicotropi, viene raccomandato di iniziare con un inibitore selettivo della ricaptazione della serotonina (SSRI), che ha evidenza di efficacia solo nel DOC (Skapinakis et al., 2016), partendo gradualmente e a basso dosaggio.

Sebbene si raccomandi di iniziare con la CBT e di integrare un trattamento farmacologico solo nei casi di scarsa o parziale aderenza alla terapia, con alcuni pazienti con disturbi dello spettro autistico, specialmente quelli con un basso funzionamento e/o un significativo ritardo del linguaggio, risulta necessario iniziare sincronicamente con un trattamento psicoterapico e farmacologico. Per questi pazienti potrebbe essere utile iniziare con un intervento psicotropo, in aggiunta agli interventi comportamentali standard per l’ASD. Qualora il trattamento di prima linea con un inibitore selettivo della ricaptazione della serotonina risultasse inefficace o dimostrasse solo una risposta parziale, potrebbe essere necessario provare la clomipramina. Se la clomipramina non viene tollerata, è inefficace o mostra una risposta parziale, il medico può considerare di aumentare o sostituire questi farmaci con un antipsicotico di seconda generazione, che abbia evidenza di efficacia nel disturbo ossessivo compulsivo, come ad esempio risperidone o aripiprazolo (Dold et al., 2015). Tuttavia, risulta doveroso ribadire che sono emersi risultati contrastanti in merito all’utilizzo di risperidone e aripiprazolo nei casi di comorbidità di ASD e DOC.

Conclusioni

Il confine di demarcazione diagnostico tra le due categorie di disturbi costituisce un’area che necessita ulteriori approfondimenti in ambito clinico e di ricerca. A tal proposito, gli argomenti suggeriti per la ricerca futura includono: (1) l’eventuale identificazione di sottogruppi specifici all’interno della macro-categoria ‘comorbilità DOC-ASD’, in quanto questa vasta popolazione clinica costituisce un raggruppamento eterogeneo che può implicare manifestazioni sintomatologiche e trattamenti diversi; (2) elaborare ulteriori adattamenti nel protocollo CBT per i diversi livelli di funzionamento dello spettro autistico (3) e ulteriori studi randomizzati e controllati che valutano l’efficacia degli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina e degli antipsicotici (Pazuniak & Pekrul, 2020).

Rimuginio e timidezza nell’ansia sociale: fattori di rischio o di mantenimento?

L’ansia sociale è riportata come la seconda più comune condizione ansiosa, con una prevalenza nel corso della vita di circa il 10% (Kessler et al., 2014).

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Caratteristiche dell’ansia sociale

 Si caratterizza per la presenza di un’intensa paura nelle situazioni sociali in cui si è sottoposti allo sguardo e alla valutazione di altre persone. Il tema centrale di questa difficoltà è rappresentato dalla convinzione di essere continuamente sottoposti al giudizio degli altri, e il conseguente timore è quello di essere oggetto di una valutazione negativa (Grimaldi, 2018).

Pertanto, l’apprensione di chi ne soffre è strettamente legata alla rappresentazione di come è percepito e valutato dalle altre persone. Diverse sono le situazioni temute dalle persone con ansia sociale, tra cui generalmente tutte le situazioni nuove o quelle in cui si è chiamati a difendere i propri diritti o a sostenere un’opinione diversa da quella di un’altra persona. Questo porta chi ne soffre a evitare molte delle situazioni sociali per paura di possibili giudizi negativi e per la preoccupazione di potersi sentire sotto osservazione. In questa prospettiva, si è continuamente alla ricerca di un giudizio positivo, in uno scenario, tuttavia, in cui la paura di poter subire un rifiuto tende a innescare un circolo vizioso che può gradualmente portare ad un peggioramento dell’ansia stessa (Grimaldi, 2018).

Fattori di mantenimento dell’ansia sociale

Una delle caratteristiche più rilevanti così è la necessità di voler dare sempre una buona impressione durante le interazioni sociali, cercando di evitare di ricevere giudizi negativi. L’ansia sociale, tuttavia, è una condizione che viene mantenuta ed alimentata da diversi fattori, tra cui: tratti di personalità caratterizzati da introversione e timidezza, una forte ansia anticipatoria che precede le azioni da eseguire in pubblico e un costante rimuginio. Più di altri disturbi d’ansia è mantenuta da pensieri di autosvalutazione, che si generano automaticamente, in corrispondenza di una situazione temuta e che fanno perdere alla persona il focus sulla situazione in cui si trova, facendola concentrare soltanto sui propri timori. Questo porta così a rappresentarsi già l’esito negativo della propria prestazione, sociale o individuale, facendo emergere di riflesso l’emozione della vergogna, che nell’ansia sociale si caratterizza per essere un tratto distintivo.

Un altro fattore di mantenimento, inoltre, sono i comportamenti di evitamento che la persona mette in atto nel tentativo di proteggersi. La persona con ansia sociale, sottraendosi alle situazioni sociali temute, evita non solo un’eventuale valutazione negativa, ma anche le possibili disconferme dei propri timori. Si innesca così un circolo vizioso dove, evitando le situazioni sociali temute per paura di essere criticati, si finisce per far realizzare il proprio timore attraverso una profezia che si autoavvera. Un fattore determinante al mantenimento della problematica, infine, è rappresentato dal fatto che la persona con ansia sociale, raffigurandosi di continuo l’esito negativo delle proprie prestazioni, rimugina costantemente sulle proprie prestazioni. Ovvero, anticipa anzitempo i problemi che gli si potrebbero presentare, riflette sulle situazioni future in una prospettiva spesso catastrofica, richiamando anche alla memoria tutti i fallimenti passati.

Il rimuginio, così, non solo non aiuta la persona ad affrontare meglio le situazioni sociali, ma fa anche sì che si possa riproporre sempre lo stesso scenario negativo.

Rimuginio fattore di rischio? Il circolo vizioso dell’ansia

Il rimuginare, ovvero il preoccuparsi insistentemente rispetto a una situazione futura, è un aspetto caratteristico presente nelle persone con ansia sociale ed è presente in generalmente in due momenti: prima e dopo l’evento ansioso. Il rimuginio, che tende ad essere vissuto prima dell’evento ansioso, è dovuto al fatto che le persone con ansia sociale tendono a preoccuparsi a lungo della situazione che stanno per vivere, focalizzando la propria attenzione su tutti i potenziali problemi che potrebbero presentarsi. Tali riflessioni, compiute in modo prolungato, possono ad esempio riguardare tutte le conversazioni che potrebbero avvenire o i comportamenti sociali che la persona con ansia sociale teme possano esserci (Wells et al, 1995). Per evitare le conseguenze temute, l’ansioso sociale mette in atto comportamenti protettivi che in realtà altro non fanno che incrementare l’ansia e i pensieri di poter essere valutato negativamente, con la possibilità che i comportamenti protettivi che mette in atto possano influenzare negativamente la situazione sociale, facendo apparire la persona meno amichevole e disponibile (Wells e Clark, 1995).

Quando l’evento sociale giunge al suo termine, l’esposizione agli aspetti negativi non è ancora finita, dal momento che il rimuginio si focalizza sul comportamento messo in atto.

Le persone con ansia sociale si preoccupano così, in maniera insistente, su possibili aspetti giudicati potenzialmente come negativi, e passando anche interi giorni a rivivere l’episodio nei minimi dettagli, enfatizzano piccoli o grandi errori e ripensando alla performance sociale come fossero i protagonisti di un film, il tutto in un profondo stato di angoscia. Questo tipo di rimuginio, cosiddetto “post”, oltre a non fornire alcuna nuova informazione utile, rafforza i pensieri che c’erano prima dell’evento sociale e li intensifica nel tempo, rappresentando una fonte di nuovi interrogativi e dubbi alla persona con ansia sociale (Clark e Wells, 1997).
Se quindi da un lato il rimuginio che si verifica prima dell’evento sociale può rappresentare un fattore di rischio per la comparsa e l’incremento dell’ansia sociale, il rimuginio che avviene una volta trascorso l’evento sociale mantiene il circolo vizioso dell’ansia, rafforzandola nel tempo e causando un forte senso di timidezza.

La timidezza: tra desiderio di avvicinamento e di fuga

Zimbardo, studioso di psicologia, all’alba del 1997, metteva in luce come nelle persone timide, il fatto che i propri stati emotivi possano emergere di fronte ad altre persone, tende a generare un forte stato di allarme e preoccupazione, rispetto a come si è percepiti dagli altri (Zimbardo, 1997). Jones (2014) ha approfondito questa tematica, evidenziando come la timidezza sia caratterizza, da un lato, per la presenza di una “preoccupazione ansiosa” in risposta a situazioni sociali reali o immaginate, e, dall’altro, per la tendenza all’evitamento di situazioni sociali, per il timore di essere oggetto di valutazione da parte di altre persone. La possibilità di poter ricevere un giudizio negativo contraddistingue il comportamento delle persone timide all’interno di un gruppo, in cui pur essendoci un forte desiderio di farne parte, è anche presente una evidente fatica a fare la prima mossa. Alcune volte, le persone con ansia sociale aspettano un cenno prima di provare a inserirsi in una conversazione, mentre altre volte attendono un giudizio positivo che consenta loro di fare parte di un gruppo. Si innesca così un meccanismo per cui il desiderio di inserirsi in un contesto relazionale e la tendenza all’evitamento coesistono simultaneamente all’interno di uno stile di pensiero spesso orientato a una forte preoccupazione su ciò che gli altri potrebbero pensare. All’interno di questa prospettiva secondo studi recenti la timidezza rappresenterebbe un fattore che potrebbe predisporre all’ansia sociale. Diversi studi, tra cui (per primi) quello di Chavira e Malcarne (2002), hanno cercato di analizzare se la timidezza rappresentasse un fattore di rischio o di mantenimento, mettendo in luce come il livello di ansia sociale fosse molto più alto nei gruppi di persone “particolarmente timide”, rispetto a un campione timido nella norma. Questo tenderebbe a verificarsi ancor di più quando c’è una forte paura del giudizio altrui ed è allo stesso tempo presente un’intensa emozione di vergogna in seguito ad eventi sociali vissuti.

La vergogna e la paura del giudizio nell’ansia sociale

La vergogna è un’emozione molto complessa che può insorgere nei momenti di interazione sociale. Si caratterizza in particolare per un insieme di pensieri e comportamenti a valenza negativa, che fanno riferimento a una propria svalutazione e inadeguatezza in contesti socio – relazionali, in cui le altre persone sono percepite come migliori. L’emozione della vergogna, tuttavia, ha uno scopo specifico, che è quello di segnalare alla persona che vi può essere un possibile attacco alla propria autostima o ad il proprio status sociale. In particolare, è connessa a determinati canoni della cultura di riferimento, può assumere diverse sfaccettature e riguardare diversi ambiti. La persona che la prova può percepire, ad esempio, di non aver fatto bene in una determinata prestazione o, proprio come avviene nel caso dell’ansia sociale, può vergognarsi di ricevere dei complimenti poiché crede di non meritarli. Quest’emozione può diventare disfunzionale a seguito di determinate esperienze vissute nel corso dell’età evolutiva, in particolare quando le figure di riferimento, come genitori e insegnanti, espongono il bambino a valutazioni negative globali di sé, anche attraverso umiliazioni o mancati apprezzamenti. Crescendo, poi, si formano delle credenze che possono mantenere quest’emozione. In particolare quando si inizia a concepire come non degno di stima o ad essere estremamente attento ai giudizi altrui. Così, il timore del giudizio da parte dell’altro può emergere con elevata intensità, in particolar modo, ad esempio, quando la persona deve mettere in atto una prestazione in pubblico. La persona sperimenta così una profonda sofferenza nelle situazioni che teme, finendo spesso per evitarle. Altre volte, mette in atto strategie che ritiene possano proteggerla dal giudizio altrui, come nascondersi il viso, parlare il meno possibile e molto velocemente quando si deve intervenire in una discussione di gruppo, o ancora evitare del tutto di esprimere la propria opinione, dando sempre ragione all’altro (Caccico, 2019). Il timore di essere giudicato in modo negativo dagli altri, per le proprie prestazioni, fa sì che si generi una profonda angoscia nel momento in cui la persona si trova a svolgere in pubblico determinate azioni, che potrebbero essere giudicate negativamente.

La terapia metacognitiva di Wells come intervento di cura per l’ansia sociale

Fino agli anni ’80 del secolo scorso, il disturbo d’ansia sociale era un disturbo del quale si sapeva poco e i trattamenti per la cura di questa problematica erano pochi, come erano anche carenti le ricerche che ne davano prova di effettiva efficacia. Attualmente la situazione per quanto riguarda gli interventi per la cura della fobia sociale è radicalmente cambiata. Vi sono infatti diversi studi che riportano l’efficacia degli interventi cognitivi-comportamentali per la riduzione dei sintomi connessi (Wells & McMillan, 2004).

La terapia cognitivo comportamentale (CBT) è risultata efficace nel mantenimento dei miglioramenti anche nel lungo termine rispetto ad altri interventi psicoterapici o agli psicofarmaci (Studi Cognitivi, n.d.).

La CBT va a migliorare, sul piano cognitivo, i processi disfunzionali che mantengono il disturbo, mentre dal punto di vista comportamentale, attraverso esposizioni graduali, fa affrontare al paziente le situazioni temute, utilizza inoltre tecniche di rilassamento e training per apprendere abilità sociali (Rapee & Heimberg, 1997). Tuttavia grazie all’avvento della terza ondata della terapia cognitiva, vi sono nuovi interventi che si sono rivelati anche per certi versi migliori rispetto alla terapia cognitivo-comportamentale standard. Il nuovo trattamento cognitivo di Clark e Wells, la Terapia Metacognitiva (MCT) si focalizza direttamente sui meccanismi psicologici che mantengono la sintomatologia e secondo gli studi produce maggiori livelli di riduzione del sintomo rispetto ai precedenti trattamenti psicologici, compresa la CBT. Stando alle ricerche, l’MCT darebbe risultati superiori per quanto riguarda la riduzione dei sintomi anche rispetto agli SSRI, il trattamento farmacologico di prima linea per la fobia sociale (Wells &McMillan, 2004). Il focus dell’intervento non è sul contenuto dei pensieri disfunzionali del paziente, come avviene nella CBT standard, quanto piuttosto alle modalità di pensiero che risultano inflessibili e ricorrenti, come avviene nel processo del rimuginio. Assunto base dell’MCT è che alla genesi delle psicopatologie, tra cui la fobia sociale, vi siano degli stili di pensiero disfunzionale che prende il nome di CAS: sindrome cognitivo attentiva. La CAS si caratterizza per la presenza del rimuginio come stile di pensiero e per la focalizzazione della propria attenzione su stimoli interni o esterni alla persona considerati minacciosi, che mantengono lo stesso stato ansioso. La CAS, secondo gli autori, non ha origine da credenze su di sé e sul mondo, bensì da metacredenze riguardo le proprie modalità di pensiero. Queste possono essere a valenza positiva: “se ripenso costantemente all’evento riuscirò a fare bella figura”, che fanno riferimento sostanzialmente all’utilità di focalizzare la propria attenzione su determinati stimoli, oppure a valenza negativa: “prima o poi impazzirò a forza di ripensarci su”, che invece si riferiscono all’incapacità di gestire i propri pensieri ed emozioni. Nella terapia metacognitiva, all’opposto della CAS si ha la DM, ovvero la Detached Mindfulness, che è l’obiettivo finale di questa terapia. Detached Mindfulness, si traduce con: consapevolezza distaccata. Il termine fa riferimento alla modifica delle modalità con cui le persone si approcciano ai propri pensieri, sviluppando capacità di flessibilità cognitiva e di controllo dei processi attentivi. La consapevolezza distaccata è sostanzialmente la capacità di non farsi invischiare in tutti quei processi cognitivi disfunzionali che mantengono la sintomatologia ansiosa, in particolare il rimuginio. La persona, gradualmente, diviene in grado, grazie ad essa, di discostarsi da questi processi, non eliminandoli, ma prendendone consapevolezza e imparando a gestirli.

In conclusione, obiettivi terapeutici della Terapia Metacognitiva sono la rimozione della CAS, che si ha modificando le modalità di pensiero e le strategie utilizzate per gestirlo, la modifica delle metacredenze sia a valenza positiva che negativa e l’apprendimento di nuove modalità di orientare il proprio flusso di pensieri grazie alla DM (Melli, 2018).

L’MCT si prefigura come trattamento di intervento innovativo e d’elezione per il trattamento della fobia sociale, consente di ridurre i circoli viziosi che incatenano le persone con questa psicopatologia, consentendo di aumentare in loro il senso di autoefficacia e sentirsi di nuovo parte attiva nei contesti sociali. Diviene così possibile poter condurre una vita più appagante e maggiormente caratterizzata da interazioni relazionali piuttosto che da stati di rimuginio ed isolamento.

 


LA TERAPIA COGNITIVO-COMPORTAMENTALE DEL DISTURBO D’ANSIA SOCIALE - CORSO ECM FAD
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Robotica Psico-sociale: i progressi nell’interazione Uomo-Macchina

Qual è il compito dei robot? Uno dei compiti è sicuramente quello di sostituire l’uomo, ma non con il progetto di eliminarlo, bensì per evitare lavori pericolosi o stancanti.

 

Le persone sono da tempo interessate alle macchine che simulano i processi naturali, in particolare alle tecnologie che replicano il comportamento e/o l’aspetto umano. Questo desiderio ha radici antiche: partendo dalla creazione di una varietà di ‘simulacri’ in Egitto circa 2000 anni fa, fino alla costruzione di dispositivi altamente sofisticati, creati utilizzando le conoscenze scientifiche (Richter, 2015). Altri esempi impressionanti di simulazioni umane includono prime forme di androidi costruiti nel XVI, XVII e XVIII secolo in Europa, dove sono state costruite una varietà di macchine, in grado di simulare attività umane, come la scrittura o la danza. Da questi primi interventi di simulazione nasce l’ambiziosa sfida tecnologica e scientifica del tentativo di replicare la flessibilità e l’adattabilità dell’intelligenza umana (Breazeal, 2004).

In questa veloce evoluzione, a delinearsi è un dilemma morale: e se l’uomo fosse sostituito dalle macchine? Questa domanda è sempre più esasperata in relazione al progresso dell’Intelligenza Artificiale (IA) fino alla comparsa dei robot. In risposta a questo dilemma morale, invero, alcune parti della cultura contemporanea reagiscono infondendo un rifiuto e una paura apocalittica. Questo è visibile anche da scenari trasmessi dal cinema, dove il robot è rappresentato come uno schiavo meccanico, che si ribella e conquista il mondo eliminando il nemico umano. Ciò che, infatti, spaventa di più la società contemporanea è l’autonomia, ovvero la capacità di ragionare, apprendere e risolvere i problemi in maniera autonoma.

Ma cosa sono i robot? La parola “robot” deriva dal ceco ‘robota’, ovvero ‘lavoro servile’, con cui lo scrittore cèco Karel Čapek denominava gli automi che lavorano al posto degli operai nel suo dramma fantascientifico R.U.R., del 1920. Al di là di questa immagine fantascientifica di Čapek, è evidente che i robot fanno parte della nostra vita: pensiamo alle aspirapolveri automatiche, capaci di mappare il territorio ed evitare gli ostacoli. Qual è, quindi, il compito dei robot? Uno dei compiti è sicuramente quello di sostituire l’uomo, ma non con il progetto di eliminarlo, bensì per evitare lavori pericolosi o stancanti. Il fatto che, con l’evoluzione tecnologica, ci siano più generazioni di robot (dal doll-like allo human-like) non ci deve far dimenticare che il robot non è in grado di attribuirsi da sé “stati mentali”, che restano sotto il controllo esterno ed estraneo (Damiano et al., 2019, p. 21), in genere di chi lo programma, ovvero dell’essere umano.

Questo modo di risignificare il robot come “sostituto”, per cercare di rispondere al dilemma etico, ci fa comprendere che è necessario anche ripensare il rapporto Uomo-Macchina, o meglio, Uomo-Robot. La ricerca scientifica, soprattutto, psico-sociale non si limita a prendere una posizione nel dibattito sulla natura della mente, ma i robot diventano strumenti di una trasformazione sociale (Damiano et al., 2019, p 22). In questa trasformazione sociale, ad esempio, i robot possono interagire con i bambini per aiutarli nella raccolta differenziata (De Carolis et al., 2019) o ad “empatizzare” con persone anziane (Garcia et al., 2017). La logica, quindi, non è quella di sostituzione di figure professionali, che interagiscono con i bambini o con gli anziani, ma quella di supportare, ad esempio gli operatori, magari oberati di lavoro, nella pratica clinica o educativa. Da queste premesse, risulta necessaria la branca della psicologia che si occupa di interazione Uomo-Robot, verso una robotica psico-sociale, capace, ad esempio, di interrogarsi sull’interazione emotiva Uomo-Robot, dando, magari, avvio ad una generazione di Robot con Intelligenza Emotiva Artificiale (Papapicco, 2021).

 

Il funzionamento sessuale nei disturbi di personalità – FluIDsex

Collazzoni e colleghi (2017) hanno lavorato ad una review che raccoglie i risultati di una serie di studi che hanno indagato il funzionamento sessuale delle persone con disturbi di personalità.

 

Nelle interazioni con gli altri gioca un ruolo fondamentale la personalità, ovvero come da definizione di Castronguay e Oltmanns (2016) la modalità con cui un individuo tende ad esprimere le proprie emozioni, a pensare a se stesso e agli altri e ad interpretare la realtà circostante. Tale modalità può portare a vivere frequentemente situazioni conflittuali, provoca difficoltà a formare o mantenere legami con gli altri, interferisce con la realizzazione di un piano di vita, portando a rigidità e difficoltà persistenti e dispendiose a livello sociale (Castonguay & Oltmanns, 2016). La disfunzione sociale è uno degli aspetti più rilevanti dei disturbi di personalità, in quanto il malessere soggettivo e la menomazione della vita sociale interferiscono in modo significativo con il senso di efficacia e di realizzazione personale e sociale degli individui (Castonguay & Oltmanns, 2016).

Generalmente esistono diverse ragioni e scopi sottostanti alle relazioni sentimentali e sessuali che le persone intrecciano (Jonason, 2013). Le principali motivazioni indagate sono: supporto socio-emotivo, incremento dell’autostima, raggiungimento di una gratificazione sessuale o semplicemente distrazione dalla noia (Jonason, 2013). In base agli scopi relazionali si distinguono relazioni romantiche, amicizie o relazioni principalmente sessuali ed episodi di sesso occasionale. È necessario partire dal presupposto che gli individui con disturbo di personalità presentano tendenzialmente livelli alterati di empatia e ricerca di intimità (Collazzoni et al., 2017), ma con differenze che possono dipendere dalla tipologia specifica di disturbo. Difatti, purtroppo, la letteratura che indaga la sfera sessuale e seduttiva di questi disturbi è inconsistente e per lo più focalizzata sul disturbo borderline di personalità (Collazzoni et al., 2017). L’analisi della letteratura può dunque risultare limitata.

Collazzoni e colleghi (2017) hanno lavorato ad una review che raccoglie i risultati degli studi pubblicati tra il 2000 ed il 2016, che hanno indagato il funzionamento sessuale delle persone con disturbi di personalità.

Disturbi di personalità del Cluster A: Gelosia e Disinteresse

Le caratteristiche più diffuse nei disturbi di Cluster A di personalità sono una forte incapacità di instaurare relazioni, disinteresse affettivo e gelosia. Inoltre, studi recenti hanno riscontrato una correlazione fra disturbi di personalità di Cluster A e predisposizione ad ideologie omofobiche e transfobiche.

Paranoide: nella letteratura è emerso che individui che presentano il disturbo paranoide di personalità nutrono rabbia, sospettosità e gelosia nei confronti dei loro partner, a volte rischiando di sfociare in episodi violenti (Disney et al., 2012)

Schizoide: per quanto riguarda il disturbo schizoide di personalità generalmente vi è una mancanza di interesse ad entrare in intimità con altre persone che può condurre ad una vera e propria asessualità (Holtzman & Strube, 2013).

Schizotipico: la sfera intima legata al disturbo schizotipico di personalità appare variegata in quanto, nonostante la tendenza all’isolamento ed una pervasiva paura dell’altro, la desuetudine comportamentale ed ideologica tipica di questo disturbo sembra influire positivamente sulle opportunità di attirare partner sessuali. Difatti, è stata riscontrata una correlazione fra impulsività (che motiva la ricerca attiva di un partner) e desiderio di esperienze sessuali inusuali (Nettle & Clegg, 2005).

Disturbi di personalità del Cluster B: Sofferenza, Confusione ed Insoddisfazione

L’intimità degli individui con un disturbo di Cluster B è tendenzialmente caratterizzata da confusione, sofferenza ed indifferenza.

Borderline: il disturbo di personalità maggiormente studiato, per quanto riguarda l’ambito relazionale e sessuale, è il disturbo borderline di personalità (BPD). Essendo il disturbo borderline associato ad instabilità emotiva e deficit nella rappresentazione del sé, le persone che soffrono di questo disturbo tendono ad esperire una forte precarietà relazionale collegabile anche ad insoddisfazione, episodi di violenza, matrimoni precoci e gravidanze indesiderate (Daley et al., 2000). Alcuni studi hanno riscontrato che la sensibilità empatica di uomini con diagnosi di disturbo borderline risulta alterata in quanto tendono ad equivocare le espressioni emotive delle proprie partner. Un esempio di fraintendimento empatico riscontrato negli studi è lo scambiare la felicità per disgusto che sfocia in una forte paura abbandonica con conseguenze comportamentali (Marshall & Holtzworth-Munroe, 2010).

Gli uomini con disturbo borderline di personalità possono presentare una comorbidità con disturbi parafilici, specialmente nei casi in cui essi soffrano di una disfunzione sessuale (Prunas et al., 2016). Le donne con disturbo borderline di personalità che hanno subito un evento traumatico, quale l’abuso sessuale, possono sviluppare disfunzioni sessuali o comportamenti sessualmente rischiosi quali prostituzione e promiscuità sessuale non protetta con rischio di contrarre malattie veneree (Harned et al., 2011). Il disturbo borderline di personalità ha un ruolo anche nella determinazione dell’orientamento sessuale in quanto le persone con BPD tendono a dichiarare di essere omosessuali o bisessuali più frequentemente rispetto agli individui con altri disturbi di personalità (Sansone & Sansone ,2011).

Antisociale: le persone con disturbo antisociale di personalità mostrano una preferenza per le relazioni a breve termine. L’intimità tendenzialmente consiste in chiamate notturne a possibili partner sessuali con lo scopo esclusivo di soddisfare i propri bisogni sessuali, oppure in pratiche sessuali violente (Jonason et al., 2012).

Narcisistico: i soggetti con disturbo narcisistico di personalità tendono a preferire rapporti sessuali occasionali o friends with benefits (“amici di letto”) piuttosto che relazioni a lungo termine. Queste due preferenze sembrano essere più collegate agli uomini con questo disturbo, mentre le donne tendono a frequentare persone con tratti di personalità simili ai loro (Jonason et al., 2012). L’infedeltà è la caratteristica maggiormente riscontrata negli individui narcisisti poiché, non entrando in intimità con i partner in quanto iperfocalizzati su di sé, spesso subentra la noia che porta a cercare nuovi stimoli più soddisfacenti.

Istrionico: rimanendo nel Cluster B, le donne istrioniche tendono ad essere sessualmente seduttive ambendo ad una costante attenzione sessuale per attrarre diversi partner (Disney et al., 2012). È stata, inoltre, riscontrata un’alta frequenza di sexting correlata a tratti istrionici (Ferguson, 2010).

Disturbi di personalità del Cluster C: Ambiguità e Comfort Zone

La sfera intima del Cluster C presenta un insieme di elementi contrastanti quali paura, insoddisfazione e bisogno degli altri.

Ossessivo-compulsivo: il perfezionismo tipico del disturbo ossessivo compulsivo di personalità correla con costanti momenti di stress ed insoddisfazione coniugale (Porcerelli et al., 2004).

Dipendente: gli individui con disturbo dipendente di personalità sono iperfocalizzati sull’evitamento dell’abbandono, attuando però comportamenti morbosi che portano ad ottenere l’effetto opposto (Okuda et al., 2015).

Evitante: per quanto riguarda le persone con disturbo evitante di personalità, è stata riscontrata una tendenza a prediligere rapporti sessuali e relazioni con persone che sentono simili a loro o con fobia sociale, per sentirsi a proprio agio (Isomura et al., 2014).

Conclusioni

In conclusione, l’organizzazione della personalità sembrerebbe essere strettamente collegata alla sexual function, definita da Collazzoni e colleghi (2017) come l’intenzione legata a tutte le strategie di seduzione ed i comportamenti sessuali; di conseguenza, la personalità ha una forte influenza sulla vita relazionale ed intima in svariati modi.

 


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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

 

Genitori come pilastri dell’infanzia. “Aspettando Chandra” di Rossano Crotti – Recensione del libro

Chandra è un bambino indiano in attesa di essere adottato. Rossano Crotti, già padre di Mansi, racconta in una narrazione autobiografica, in Aspettando Chandra, il periodo che va dalla scelta di accogliere un secondo figlio fino al primo incontro e all’arrivo a casa.

 

Una realtà non ci fu data e non c’è, ma dobbiamo farcela noi,
se vogliamo essere: e non sarà mai una per tutti,
una per sempre, ma di continuo
e infinitamente mutabile

Luigi Pirandello

Chandra è un nome maschile e femminile, significa “lucente come la luna”. Chandra è un bambino indiano in attesa di essere adottato. Rossano Crotti, già padre di Mansi, racconta in una narrazione autobiografica, il periodo che va dalla scelta di accogliere un secondo figlio fino al primo incontro e all’arrivo a casa.

Fra paure e titubanze, riflessioni sul futuro incerto del mondo e attese che sembrano non finire, su tutto, vince il desiderio. Il desiderio di avere un secondo figlio, di permettere alla prima di avere un fratello e di vivere quella “fratellanza” che né lui né la moglie, in quanto figli unici, hanno mai sperimentato. Ma c’è anche la speranza di vedersi un uomo felice. Non solo quell’anelito a rappresentare per il nuovo arrivato il “pilastro dell’infanzia”, a garantirgli il grado di felicità maggiore possibile, ma fuori da dimensioni legate al sacrificio, l’autore è alla ricerca anche della propria, di fortuna.

Dai giorni nostri ai ricordi d’infanzia, dalla gratitudine per le donne che hanno concepito i suoi figli, alle domande sul ruolo di genitore, l’autore racconta la vicenda personale attraverso uno stile che sembra muoversi fra prosa e poesia. Nell’attesa di diventare di nuovo padre, non può non ricordare cosa significhi essere stato figlio e anche rispetto a questa trasformazione di ruoli, induce delle domande che sono significative per noi psicoterapeuti, per i genitori adottivi e per quelli naturali. È un romanzo che ha a che fare anche con lo “stare in relazione con”. Con il diverso, con lo sconosciuto, con chi arriva avendo una storia da raccontare o che non vuol essere raccontata. I primi incontri con i due bambini indiani, nella loro terra di origine, sono fatti di silenzi, colori, sguardi accennati, brevi contatti, ma c’è già quel tentativo di sintonizzarsi con l’altro che è alla base di tutte le relazioni che funzionano.

Tante le emozioni suscitate nel lettore, in particolare quando il futuro padre, dopo una visita, rivolge al figlio un pensiero: voglio che “tu creda che torneremo”. Non può dirlo perché non parlano la stessa lingua, ma in qualità di psicoterapeuti, noi sappiamo che ai figli fa bene essere pensati, stare al centro di quel contenitore che è la mente, se la fantasia è luogo di accoglienza, di accettazione, di comprensione dell’alterità.

La genitorialità adottiva è diversa da quella naturale. I bambini adottati vivono sapendo di avere quattro genitori, il periodo dell’attesa è caratterizzato da esperienze differenti e l’attaccamento con la famiglia che accoglie spesso non si costituisce alla nascita. Può essere però un’esperienza che permette al genitore di sentirsi pienamente padre o madre, fortemente affettiva, anch’essa come quella naturale, caratterizzata da certezze e insicurezze. Rossano Crotti non fa riferimento nello specifico all’esperienza della paternità, che negli ultimi anni è sempre più osservata e studiata (Recalcati, 2017), ma a quella della “genitorialità” nel senso più ampio del termine.

È un libro che si rivolge ai genitori ponendo loro implicitamente una domanda: quando una genitorialità può definirsi buona e sicura per il figlio che la riceve? Quando invece preoccuparsi? Per il proprio benessere. Per il benessere del bambino. L’identità personale si forma grazie ad un riconoscimento sociale che avviene principalmente all’interno della famiglia. I bambini devono sentire accettazione, disponibilità alla comprensione, sintonizzazione sui bisogni e sulle caratteristiche tipiche dell’età che stanno attraversando. Laddove il figlio manifesti comportamenti che suscitano emozioni negative nell’adulto, è preferibile che quest’ultimo risponda con la riflessione. La mentalizzazione da parte dell’adulto rispetto a quello che sta accadendo nella relazione, favorisce anche il benessere del figlio. In una fase di disaccordo, è la comprensione del punto di vista dell’altro a permetterci di incidere in modo affermativo nella conversazione, di giocare un ruolo nella relazione con chi si ha davanti. Solo dopo aver capito, possiamo esprimere eventualmente la nostra disapprovazione, senza giudicare, senza ferire. Ed è proprio la frequenza e il modo con cui un genitore pensa, sente, esprime le emozioni negative a costituire uno degli anelli più difficili della genitorialità.

Un rapporto che funzioni, è una strada vissuta da entrambi come piacevole e sicura, in cui la reciprocità garantisce la diversità, la fusione lascia progressivamente spazio all’affermazione di sé, il disaccordo ha un ruolo trasformativo che in qualche modo ha la possibilità di ridefinire entrambi. Una relazione in cui il genitore, pronto a mettere in discussione se stesso, è disponibile ad osservare i cambiamenti di chi ha davanti con uno sguardo sulla sua unicità, sulle sue risorse, sulle sue difficoltà.

Un romanzo che racconta una storia di adozione, ci permette di osservare due costrutti teorici e la relazione che intercorre fra questi: quello di “Modello Operativo Interno” formulato da Bowlby (1973, pp. 259-260) e il “Corollario della Socialità” elaborato da Kelly (2004, pp. 87-94). Il primo ha a che fare con la tematica dell’attaccamento, il secondo con la capacità di comprendere gli altri. Sono due tematiche intimamente legate nei percorsi di adozione perché il bambino ha delle dimensioni di attaccamento che il genitore adottivo non conosce, già parzialmente formate, già parzialmente strutturate, quando l’incontro non avviene alla nascita. Ciò richiede particolari capacità di comprensione dell’altro da parte del genitore adottivo al fine di poter instaurare una buona relazione. I Modelli Operativi Interni del bambino sono influenzati dalla relazione che ha instaurato con la madre sin dalla nascita o con altri caregiver, e sono rappresentati da un insieme di emozioni, immagini comportamenti più o meno consapevoli che raccontano le modalità di relazione messe in atto  dal bambino stesso con gli adulti significativi. Sono una specie di mappa affettiva che  gli permette di entrare in contatto con chi si prende cura, sulla base delle sue esperienze pregresse. Un bambino che ha dovuto affrontare la separazione dalla madre in età precoce e che è stato affidato a degli educatori di cui non conosciamo le qualità di care giving, ha dei modelli operativi interni, un modo di mettersi in relazione con gli adulti che è frutto della sua storia. Ed è qui che assume un particolare significato il “Corollario della Socialità” :

Per avere un ruolo di comprensione nella relazione con un’altra persona, occorre che in qualche modo si riesca a costruire la prospettiva di quella persona. (…) è necessario non tanto costruire gli eventi nello stesso modo, ma costruire il modo di vedere gli eventi dell’altra persona. (p. 87)

Possiamo sintetizzare affermando che il genitore adottivo si trova davanti ad una sfida particolare: il bambino adottato se non è un neonato, ha già dei Modelli Operativi Interni, ha già un suo modo di porsi in relazione con i caregiver, condizionato da separazioni e da modalità di cura pregresse. Il genitore dovrà essere dotato dunque di buone capacità di comprensione dell’altro per capire la prospettiva del bambino, il suo modo di interagire, la ragione di alcuni stati emotivi. Non gli saranno utili solo alcune qualità empatiche ma anche delle ottime capacità di costruire il punto di vista dell’altro. Per questa ragione, i genitori che hanno adottato un figlio, dovrebbero avere la possibilità di fare riferimento a psicoterapeuti attraverso una modalità gratuita, laddove ne sentissero la necessità.

 

Emicrania ed ansia: esplorazione del legame tra le due patologie

L’emicrania è un disturbo neurologico molto comune in tutto il mondo, più frequente nelle donne in età fertile rispetto ai maschi.

 

Precedenti studi hanno spesso dimostrato la comorbilità dell’emicrania con altri disturbi psichici, ma una revisione sistematica in particolare si è focalizzata sulla comorbilità dell’emicrania con l’ansia, e sulla sua distribuzione tra i sessi.

La revisione di Karimi e colleghi includeva studi di prevalenza e studi clinici che riportavano la frequenza dell’emicrania con l’ansia all’interno del campione dello studio. A seguito di una prima fase di screening, sono stati selezionati undici studi che avevano come campione partecipanti di età pari o superiore a 16 anni con diagnosi di emicrania provenienti da Canada, Stati Uniti, Turchia, Cina, India, Corea, Europa e Brasile (Karimi, 2020).

I principali risultati della revisione hanno mostrato come l’ansia sia una delle principali comorbilità dell’emicrania in tutto il mondo, con un ampio intervallo di prevalenza (16-83%) e una media di circa 43% dei pazienti manifestanti sintomi in comorbilità, il che è coerente con gli studi precedenti (Beghi et al., 2010, Breslau, 1998). I sintomi di ansia percepiti sembrano essere maggiori tra i maschi rispetto alle femmine, e ciò potrebbe essere attribuibile a differenti predisposizioni ambientali, ormonali, o genetiche.

I risultati hanno mostrato che la prevalenza delle donne con emicrania era significativamente più alta rispetto ai maschi, cosa ben consolidata da studi precedenti (Seneratne et al., 2010; Peres et al., 2017). Tuttavia, la prevalenza dell’emicrania con ansia era molto più alta tra gli uomini rispetto alle donne. Nonostante le diverse impostazioni di studio, paesi, età e altre caratteristiche individuali, l’evidenza di una maggiore prevalenza nei maschi era coerente in 9 studi su 11, vale a dire nella maggior parte degli studi inclusi nella revisione.

In presenza di tali differenze di genere, è opportuno considerare il fatto che molte donne soffrono di emicrania durante il ciclo mestruale, arrivando ad aspettarsi questo sintomo come un evento mensile; a ciò consegue che la consapevolezza di tale previsione può ridurre i livelli di ansia percepita. D’altronde, è possibile che i maschi trovino l’emicrania socialmente insolita e quindi più “preoccupante”. È interessante notare come uno studio abbia evidenziato che la comorbilità di emicrania e ansia nei maschi sia accompagnata da bassi livelli di testosterone (Shields et al., 2019).

I risultati della revisione evidenziano inoltre l’importanza che il personale sanitario dovrebbe attribuire all’elevata prevalenza di ansia ed emicrania in concomitanza nei contesti clinici. L’identificazione precoce delle condizioni di comorbilità può contribuire a migliorare la qualità della prognosi e della cura dei soggetti (Ratcliffe et al., 2009).

Le cause della comorbilità di emicrania ed ansia non sono attualmente disponibili in letteratura. Pertanto, ricerche future potrebbero identificare le caratteristiche cliniche associate a queste condizioni complesse, come le predisposizioni genetiche e le caratteristiche neurologiche dei pazienti. I risultati di tali studi porterebbero a una migliore comprensione delle strategie terapeutiche per le condizioni e alla progettazione di migliori strategie di trattamento. Ad esempio, nei casi in cui l’ansia funge da innesco per attacchi di emicrania frequenti, o viceversa, strategie di trattamento comportamentale mirate alla gestione dell’ansia potrebbero portare a miglioramenti nella gestione dell’emicrania.

Ad ogni modo, la revisione del team di Karimi, ha portato in luce l’importante relazione tra ansia ed emicrania in donne e uomini, aprendo la possibilità ad una ridefinizione degli obiettivi diagnostici e delle modalità terapeutiche correlate.

 

Victim Blaming: quando la vittima diventa colpevole

Il termine Victim Blaming indica la tendenza a colpevolizzare, in toto o in parte, le vittime di violenza, in quanto corresponsabili dei trattamenti loro inflitti.

 

Victim Blaming e inversione dei ruoli di vittima e colpevole

Biasimare chi subisce un’aggressione fisica, sessuale o verbale, significa non soltanto giustificare la condotta di chi schiaccia, picchia, tortura o uccide l’altro, ma anche incrementare la responsabilità della stessa vittima per l’accaduto e, di conseguenza, ridurre quella del carnefice. È come se i ruoli si invertissero: l’errore commesso viene trasferito dall’oppressore all’oppresso, che avrebbe agito in maniera tale da meritare quel torto, quello schiaffo, quel pugno, quell’insulto, quella morte.

Nonostante gli studi sul fenomeno abbiano indagato per lo più le questioni relative alla violenza carnale (Garland, Policastro, Richards, Miller; 2016), è possibile parlare di Victim Blaming anche in riferimento ai banchi di scuola: si pensi a quando la colpa di una rissa non viene attribuita al bullo, ma a chi, dopo aver stuzzicato il can che dormiva, è stato morso.

Victim Blaming nei casi di violenza sessuale o domestica

Purtroppo, la questione interessa prevalentemente le vittime di violenza sessuale e/o domestica (Gravelin, Biernat, Bucher; 2019): in entrambi i casi, il martire è di solito una donna che, secondo il parere di chi le punta il dito contro, è troppo distante dall’idea stereotipata di “vittima indifesa, autentica, vera, leale” e peccherebbe di credibilità (Randall; 2016) in quanto, a causa del suo comportamento o atteggiamento provocatorio, del suo abbigliamento inopportuno e provocante, ha dato fuoco alla miccia. Tutto ciò, non soltanto aumenta la sofferenza di chi già patisce, ma ne raddoppia anche l’umiliazione (Johnson, Nadal, Sissoko, King; 2021).

Nel caso specifico dei soprusi sulle donne, è chiaro quanto la tendenza a condannare chi non è in difetto sia alimentata, in parte e non solo, dagli stereotipi di genere (Johnson, Nadal, Sissoko, King; 2021), ovvero da un “insieme rigido di credenze condivise e trasmesse socialmente su quelli che sono e devono essere i comportamenti, il ruolo, le occupazioni, i tratti e l’apparenza fisica di una persona, in relazione alla sua appartenenza di genere”; tali credenze influenzano negativamente gli atteggiamenti e i pensieri della società nei confronti di chi subisce violenza, specie a sfondo passionale, e portano a formulare pensieri e frasi del tipo “Se la donna avesse tenuto un comportamento da donna, se non fosse stata tanto sconsiderata, allora non avrebbe fatto quella fine”.

Come se si scegliesse di soccombere alla violenza altrui. Come se una ferita fosse causata da chi riceve il colpo, e non da chi impugna il coltello.

 

Cosa può dirci la neuroestetica sul legame tra bellezza e movimento

Neuroestetica: le arti visive offrono alle neuroscienze cognitive un’interessante opportunità di studio dei processi con cui il valore soggettivo di bellezza, intesa come piacevolezza estetica, viene costruito a partire da rappresentazioni supportate da diversi sistemi neurali.

 

 In un recente studio (2021) condotto da Humphries, Rick, Weintraub e Chatterjee presso il Penn Center for NeuroAesthetics (University of Pennsylvania), i ricercatori hanno osservato che in pazienti con morbo di Parkinson la degenerazione della funzione motoria provoca effetti anche sulla percezione del movimento nelle opere d’arte astratte, che risulta significativamente peggiore se paragonata a quella di un gruppo di controllo. Non è inappropriato parlare di movimento per le opere d’arte, poiché anche quando implicito, il nostro sistema nervoso lo elabora (ad esempio nelle pennellate di un dipinto) e lo utilizza per la valutazione estetica soggettiva.

Nel caso specifico, i ricercatori hanno esaminato l’esperienza estetica di pazienti e soggetti non patologici nella valutazione di 10 dipinti di Jackson Pollock e 10 di Piet Mondrian, utilizzando diverse categorie (come piacevolezza, bellezza, familiarità, complessità, saturazione) attraverso la somministrazione di scale Likert a 7 punti. I dipinti di Piet Mondrian, nonostante l’assenza delle pennellate, possono evocare rappresentazioni astratte del movimento piuttosto che simulazioni corporee specifiche, mediate tra gli altri dai neuroni specchio, come più probabilmente accade per la visione dei lavori di Jackson Pollock, in cui il metodo di applicazione della pittura e il numero crescente di colori sovrapposti evocherebbero sensazioni “riflesse” di movimento.

I pazienti con Parkinson hanno dimostrato preferenze stabili e internamente coerenti per l’arte astratta, ma la loro percezione del movimento nei dipinti è risultata significativamente inferiore rispetto ai soggetti di controllo in entrambe le condizioni (low-motion e high-motion art, rispettivamente Mondrian e Pollock). Questo risultato va a confermare la letteratura in merito: il sistema motorio del nostro cervello è senz’altro coinvolto nella traduzione di informazioni non rappresentative da segnali visivi statici nell’immagine in rappresentazioni di movimento, che vengono utilizzate anche per la valutazione estetico-affettiva degli stimoli.

Una ricerca precedente (Battaglia, Lisanby e Freedberg, 2011) aveva utilizzato, tra altri, l’Espulsione dal Paradiso di Michelangelo come stimolo per valutare gli effetti sul sistema motorio, indagati tramite i potenziali evocati motori (MEP) e il periodo corticale silente (CSP) con la stimolazione magnetica transcranica (TMS). L’eccitabilità cortico-motoria riferita a un particolare muscolo del braccio (extensor carpi radialis longus destro) aumenta quando i partecipanti osservano un certo movimento ritratto nel dipinto, in fotografia o immaginato, ma non quando osservano lo stesso muscolo a riposo. Gli autori attribuiscono questo fenomeno all’attività dei neuroni specchio.

 La ricerca in neuroestetica suggerisce sempre di più che l’apprezzamento estetico correla con una facilitazione percettiva e un’amplificazione sensoriale che derivano dall’interazione tra le dinamiche sensoriali del percettore e le caratteristiche del percetto. Sarasso e colleghi (2019) dell’Università degli Studi di Torino hanno indagato la relazione tra apprezzamento estetico e modulazione dei processi attenzionali, individuando una correlazione sia a livello comportamentale che a livello neurofisiologico. Ramachandran e Hirstein in passato (1999) hanno proposto che le esperienze sensoriali estetiche siano prodotte da stimoli che “attivano in modo ottimale le aree visive del cervello”, e numerosi altri autori concordano nel descrivere la percezione della bellezza come uno stato mentale in cui l’attenzione è focalizzata sulle caratteristiche percettive dello stimolo.

L’idea che la valutazione affettiva dell’esperienza estetica abbia un effetto facilitatore sull’apprendimento è dibattuta da secoli, ma recentemente, convergenze multidisciplinari hanno evidenziato un netto collegamento tra i due processi, in cui gioca un ruolo chiave anche l’inibizione dell’attività motoria. In altre parole, le emozioni legate all’esperienza estetica emergerebbero di pari passo con un’inibizione del comportamento motorio (ad esempio, con un rallentamento o riduzione al minimo delle azioni), promuovendo inoltre un miglioramento del processamento percettivo a livello delle cortecce sensoriali – e di conseguenza, dell’apprendimento. È possibile quindi che l’apprezzamento estetico rappresenti un feedback di tipo edonico relativo ai processi di apprendimento, che motiva il soggetto a inibire le routine motorie nel tentativo di acquisire ulteriore conoscenza. A conferma di ciò, lo stesso gruppo di ricerca ha individuato una forte associazione tra le esperienze estetiche e l’attivazione del sistema dopaminergico della ricompensa (Sarasso et al, 2020).

 

Il tragico dilemma del narcisista – REPORT dell’intervento del Prof. Gabbard al Convegno Internazionale di Suicidologia e Salute pubblica, XIX Edizione

Spesso si tende a pensare che un soggetto con disturbo narcisistico di personalità passi la vita a creare disagio all’altro, quando in realtà il disagio permea nella sua struttura ed essenza. Il Prof. Glen Gabbard ha trattato questa difficile tematica e la relazione tra narcisismo e suicidio.

 

 Comunemente si pensa al narcisista come ad un soggetto tutt’altro che sofferente. In effetti, nella sua accezione come aggettivo, si associa a termini negativi come persona estremamente presuntuosa o arrogante.

“In realtà questo è un mito da sfatare”

Così esordisce il Prof. Glen Gabbard in un esemplare intervento il 10 settembre 2021, invitato dal Prof. Maurizio Pompili, responsabile scientifico del Convegno Internazionale di Suicidologia e Salute Pubblica, XIX edizione, evento totalmente gratuito accreditato ECM.

In effetti, si pensa che un soggetto con disturbo narcisistico di personalità passi la vita a creare disagio all’altro, quando in realtà il disagio permea nella sua struttura ed essenza, catapultandolo in una vita intrisa di un profumo apparente, con il solo scopo di sviare sé stesso e l’altro da quella che è la sua tragica realtà. In uno studio condotto da Eaton et al. (2017) su un campione di 34.365, soggetti il disturbo narcisistico di personalità viene definito come un disturbo del disagio sia in donne che uomini, disagio oscurato da meccanismi di difesa come la grandiosità e il disprezzo.

Questi soggetti conducono spesso una vita caratterizzata da una frastornante disperazione, buona parte della quale nasce dal fatto che non ricevono sempre quel riscontro positivo che si aspettano dagli altri. Non esiste un vero contatto con l’altro, perché la loro principale preoccupazione è quella di essere ammirati costantemente per il loro valore e la loro unicità, rendendo dunque impossibile un vero collegamento relazionale. Il loro desiderio è prevalentemente di uno sfrenato controllo onnipotente sull’altro con l’obiettivo di sentirsi al sicuro, dietro un’apparente e accecante unicità. La leggenda di Narciso esplica questo bisogno di costruire ad hoc un’immagine seducente di sé che prenda le veci del suo vero sé. Una spasmodica ossessione che lo porta a rimanere aggrappato in tutti i modi ad una costruzione che non giunge mai ad una vera definizione, rimanendo sospesa nella potenzialità di essere e di fare, ma mai capace di vera esistenza e di vera azione. Spasmodica ossessione che ripara nella costante tentazione di riflettere la propria immagine senza alcuna sbavatura negli occhi degli altri. Occhi di cui mai coglie l’essere Altro da Sé, occhi dunque per lui senza emozioni ed intenzioni, occhi da non perlustrare, ma semplicemente oggetto del suo desiderio di primeggiare. Un dilemma che non si consuma nell’essere o non essere, ma nell’errore di voler far coincidere il proprio Sé con quel Se ideale desiderato ardentemente, ma vivo solo nella sua costruzione illusoria. C’è una sorta di craving verso quell’immagine riflessa in uno specchio d’acqua con la convinzione di poterne immortalare un’eterea bellezza fiabesca. Un dilemma accentuato da quella compulsione ad emergere presente nella società moderna digitalizzata, che permette a chiunque di filtrare a piacimento la propria forma, in nome di un ideale estetico impossibile.

Del resto l’uomo, in generale, risulta essere un po’ narcisista e allora il Prof. Gabbard mette ben in evidenza la possibilità di ipotizzare la presenza di una linea di continuum che metta, ad un polo, un narcisismo definito sano che caratterizza ognuno di noi propenso a sentirsi bene, gratificato e rispettato nel proprio lavoro o nella propria vita privata, ma, dall’altro, un narcisismo patologico, caratterizzato da un’ossessione compulsiva verso mete irraggiungibili.

Ma dove sta la linea di confine tra i due opposti?

Impossibile da definire e da delimitare e dunque solo arbitraria.  Arbitraria rispetto alle differenze individuali, arbitraria rispetto alle varie fasi evolutive, arbitraria già solo nel fatto che assuma molto frequentemente un’accezione peggiorativa sempre proiettata all’esterno. E qui emerge quell’ipocrisia nell’etichettare l’altro con il termine narcisista, mai collegandolo ad un significato gratificante, come la stima, ma sempre in tono dispregiativo. D’altronde si vive in una società che già Lasch definiva negli anni ’70 sempre più propensa ad una cultura del Narciso, aggrappata e sottomessa alla richiesta di rimanere in superficie nella forma più accattivante e attraente possibile, cancellando ogni segno di imperfezione, soffocato nell’abisso oscuro della profondità, come se fosse maligno.

Molto significativa la rappresentazione che il Prof. Gabbard fa del narcisista: viene paragonato a Hýdra, un leggendario mostro della mitologia greca e romana, descritto come un serpente marino a nove teste, pleomorfo, capace di cambiare forma, di avere caratteristiche diverse nei diversi soggetti, caratteristiche che possono far incorrere in diagnosi errate, se non considerato attentamente.

Da un punto di vista descrittivo, lungo il continuum descritto in precedenza, nell’area patologica, ad un estremo è presente colui che è definito “narcisista inconsapevole”, dall’altro un “narcisista ipervigile” (Gabbard, 1989), tenendo conto nello specifico dello stile di interazione prevalente, sia nella vita che nel transfert con il terapeuta. Il primo si avvicina molto più ai criteri diagnostici definiti dal DSM-5 (APA, 2013), ossia caratterizzato da un pattern pervasivo di grandiosità nel pensiero e nel comportamento, assorbito da fantasie di successo, potere, fascino, desideroso di eccessiva ammirazione, incapace di provare empatia nei confronti dell’altro. Nel “narcisista ipervigile”, invece, ritroviamo un’immagine lontana da quanto descritto, in quanto il soggetto è sorprendentemente sensibile al modo in cui l’altro possa reagire nei suoi confronti e, dunque, profondamente suscettibile alle offese altrui. Nel core di questo tipo ipervigile permea un assordante senso di vergogna legato alla propria svalutazione rispetto agli standard desiderati e a un’assillante sensazione di essere inadeguato e imperfetto. I due opposti possono essere correlati rispettivamente ai sottogruppi di narcisismo manifesto e narcisismo celato di Wink (1991), attraverso un’analisi accurata delle componenti delle sei scale sul narcisismo che sono presenti nel Minnesota Multiphasic Personality Inventory (MMPI).

 Un contributo importante giunge da una ricerca di Rus et al.(2008) che, utilizzando una classificazione in base alla rigorosa scala Shedler-Westen Assessment Procedure-II (SWAPP-II), coinvolgendo 1200 professionisti nel campo della salute mentale tra psichiatri e psicologi e un totale di 255 pazienti corrispondenti ai criteri diagnostici del disturbo narcisistico di personalità secondo il DMS-IV, hanno individuato un terzo sottotipo definito “narcisismo ad alto funzionamento/esibizionistico”, caratterizzato da un’alta percezione della propria grandiosità, ma in grado di avere relazioni con gli altri, in quanto affascinante, attraente e apparentemente interessato a comprendere l’altro, anche se poi, nella relazione terapeutica emerge tutta la propria finzione e il proprio egocentrismo.

Si tratta, come già osservato, solo di una classificazione descrittiva, in quanto la variabilità riscontrata in ambito clinico supera ogni aspettativa; inoltre non bisogna dimenticare che spesso in comorbilità è possibile trovare tendenze ossessivo-compulsive, masochistiche, organizzazione borderline, abuso di sostanze, sex addiction, disturbi dell’umore o disturbi d’ansia che non vanno trascurate nella diagnosi (Stinson et al., 2008).

Addentrandosi nel tema centrale del Congresso, il Prof. Gabbard fa delle interessanti considerazioni sul tema della suicidalità nei soggetti con disturbo narcisistico di personalità. A riguardo in letteratura non si hanno ancora contributi importanti, in quanto la tematica viene spesso respinta o comunque non verbalizzata dai pazienti narcisistici, perché è troppo alto il senso di vergogna e di imbarazzo rispetto a quella che viene definita una debolezza. Links (2013) cerca di analizzare in profondità la tematica, rilevando dai suoi studi che il desiderio di uccidersi può essere presente anche in assenza di uno stato depressivo e, dunque, completamente discordante dalla linea comunemente seguita rispetto al suicidio. L’ ideazione suicidaria può scaturire proprio dal disagio stesso del narcisista, soffocato dalla disperazione di proteggere la propria autostima e di confermare quell’autoimmagine patologica di perfezione pervasiva ed invasiva da cui non riesce a liberarsi. Proprio dall’impossibilità di raggiungere standard così elevati potrebbe scaturire l’idea di morire come unica opzione disponibile. Il sentimento di umiliazione potrebbe raggiungere un’intensità tale da non permettere valutazioni ragionevoli da parte del narcisista, costretto nella morsa di un Super-Io così rigido da non riuscire a respirare.

In realtà, ancora non può essere confermato chi realmente è più vulnerabile al suicidio, proprio per l’incapacità comunicativa del soggetto narcisista che oscura la propria vergogna e qualsiasi altra debolezza nel profondo. Sicuramente da qui scaturisce l’importante necessità da parte del terapeuta di una valutazione accurata ed attenta e di un’esplicazione diretta della tematica suicidaria, esplicazione che davvero può salvare molte vite. In effetti, è risaputo che il comportamento suicidario è causa di una mortalità significativa dal punto di vista clinico, ma sottostimata e sottovalutata nei disturbi di personalità. In una ricerca di Blasco-Fontecilla et al.(2010) è emerso che in un campione di 446 soggetti che avevano tentato il suicidio ben 254 avevano avuto diagnosi di disturbo di personalità del cluster B; se valutati in termini di impulsività e letalità prevista secondo il the Beck Suicidal Intent Scale (BSIS) e il the Barratt Impulsivity Scale-11 (BIS-11) gli stessi soggetti risultavano meno impulsivi, ma con un’alta percentuale di letalità, in quanto l’esperienza era vissuta in maniera così soffocante da rimanerne completamente travolti.

E nell’Amore?

Ben spiega il Prof. Gabbard quanto sia tragica l’esperienza vissuta dal soggetto narcisista, in quanto occasione troppo sfuggente e impalpabile: l’amore risulta tanto desiderato quanto impossibile, proprio per la visione distorta che ne ha. Il desiderio di essere sentito dall’altro come perfetto risulta irrealistico; la sensazione di non provare quell’Amore unico fantasmatico porta il soggetto ad un ardente desiderio di controllare l’altro per plasmarlo secondo la propria volontà, con l’unico risultato di rendere l’altro ancora più sfuggente ed irraggiungibile.

A questo punto è ben chiaro il tragico destino del narcisista: la ricerca di una perfetta fusione primaria all’oggetto perfetto porta solamente alla disfatta e alla frammentazione dello stesso, da qui l’ambivalenza idealizzazione/svalutazione in cui vive il soggetto narcisista, catapultato da un polo all’altro senza mai riprendere fiato, in uno stato di perenne potenzialità sospesa, bloccata in un destino senza azioni, alla ricerca di quella stella accecante di successo e di bellezza che non ha mai un lieto fine.

In effetti, afferma Gabbard, la parte più triste di questo tragico destino è che questi soggetti, spesso, invecchiano da soli.

 

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