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Binge drinking e binge eating: esiste una relazione tra assunzione eccessiva di alcol e di cibo?

Capita spesso nel settore psicologico di sentir parlare di binge eating e di binge drinking, ma la relazione tra i due viene considerata piuttosto raramente.

 

L’eccessivo consumo di alcol e l’abbuffata sono due comportamenti disfunzionali che possono tradursi rispettivamente nel disturbo da uso di alcol e nei disturbi alimentari (APA, 2013). È ormai noto che questi comportamenti disfunzionali siano associati ad un disagio psicologico di fondo, che può portare ad abitudini disadattive di vario tipo. Capita spesso nel settore psicologico di sentir parlare di binge eating e di binge drinking, ma la relazione tra i due viene considerata piuttosto raramente. Proprio per questo motivo Azevedo e colleghi hanno scelto di realizzare una revisione sull’argomento (Azevedo et al., 2021). La revisione integrativa ha incluso ricerche sull’argomento pubblicate dal 2015 al 2019, per un totale di 964 articoli, i quali hanno indicato l’esistenza di una relazione tra abbuffate ed elevato consumo di alcol, evidenziando come alcuni fattori siano stati associati a questa comorbilità.

Per quanto riguarda le caratteristiche della popolazione di riferimento, è stato confermato che le donne tendono ad avere episodi di binge eating e binge drinking in numero maggiore rispetto agli uomini (Souza da Silva et al., 2016, Fouladi, 2015; Freitas, 2015). Per ciò che concerne il fattore età, è stata rilevata una maggiore frequenza di consumo di alcol nei giovani adulti fino a 38 anni (Martin et al., 2015; Freitas, 2015).

Dal punto di vista clinico, l’indagine ha evidenziato come il consumo di alcol sia spesso associato a disturbi alimentari con episodi di abbuffate, come bulimia nervosa (Rolland et al., 2017, Chapa, 2018; Martin et al., 2015); Fouladi, 2015], binge eating disorder (Rolland et al., 2017; Chapa et al., 2018; Fouladi, 2015), ed anoressia nervosa di tipo purging, vale a dire con condotte di eliminazione (Fouladi, 2015). Uno studio longitudinale sulla salute complessiva che aveva come campione 15.074 adulti, ha mostrato come il 6,5% dei soggetti riportasse 2 o più episodi di abbuffate a settimana ed utilizzasse elevate dosi di alcol una o due volte a settimana (8,9%) (Souza da Silva et al., 2016). Altri studi hanno mostrato come persone che svolgevano eccessivo esercizio fisico (Castañeda, 2019, Martin et al., 2015), diete restrittive (Castañeda, 2019; Martin et al., 2015), digiuno o condotte di eliminazione, erano più soggette al consumo problematico di alcol (Martin et al., 2015).

Per ciò che concerne il peso e l’immagine corporea, è stato rilevato che le donne che consumavano alcol erano insoddisfatte del proprio peso (36%) e del proprio corpo (34%), avevano sensi di colpa durante i pasti (45,5%), paura di perdere il controllo sulla propria dieta (30%), nonché un forte desiderio di perdere peso (50%) (Cranford et al., 2010). Un altro studio che ha indagato la differenza tra i sessi nella cooccorrenza di binge drinking e binge eating, ha rilevato come tra le donne l’uso eccessivo di alcol fosse associato a insoddisfazione per il peso e alimentazione compulsiva, mentre tra gli uomini fosse correlato ad eccesso di peso, vomito e uso di lassativi (Stickley, 2015).

Per quanto riguarda i fattori genetici e ambientali, l’influenza genetica sullo sviluppo dei sintomi bulimici e sul consumo di alcol è chiara e riconosciuta in letteratura (APA, 2013; Hilbert, 2019; Baker, 2017). I geni possono predeterminare le caratteristiche di una persona che portano direttamente o indirettamente a comportamenti a rischio come un’alimentazione disordinata e il consumo disregolato di alcol, e si ritiene che entrambe le condizioni abbiano percorsi neurali comuni (Baker, 2017). Entrando nel dettaglio, uno studio condotto negli USA con adolescenti tra i 16 e i 17 anni ha identificato correlazioni fenotipiche e genetiche tra coinvolgimento nell’uso di alcol, desiderio di un corpo magro e insoddisfazione del corpo, che erano significativamente più elevate nelle femmine (Baker, 2017). Un altro studio ha trovato risultati differenti, secondo cui l’associazione tra consumo di alcol e sintomi bulimici era quasi il doppio nei gemelli monozigoti rispetto ai gemelli dizigoti; questa ricerca ha anche dimostrato una significativa associazione tra uso di alcol e sintomi bulimici nei maschi. Questi risultati suggeriscono che i fattori genetici hanno una forte influenza sulle abbuffate e sul consumo di alcol (Baker, 2017).

Per quanto riguarda la sfera emotiva e l’impulsività, è noto che le abbuffate e il consumo di alcol siano comportamenti legati alla disregolazione emotiva (Pisetsky, 2016), all’impulsività (Sysko, 2017) o ad entrambi (Stojek et al., 2014; Mikheeva&Tragesser, 2016). Questa comorbidità può inoltre essere ulteriormente associata a ideazione suicidaria e tentativi di suicidio, ansia e disturbi dell’umore. A conferma di ciò, Pisetsky et al. hanno valutato le emozioni positive e negative in 133 donne con bulimia nervosa, scoprendo che il 33,8% di loro ha auto-riferito almeno un episodio di intossicazione da alcol durante il periodo studiato, e che l’assunzione di alcol era preceduta e seguita da tristezza (Pisetsky, 2016). Questi risultati suggeriscono che l’alcol non funge da meccanismo di regolazione emotiva. I ricercatori hanno anche notato che il consumo di alcol e/o cibo può essere una strategia di regolazione emotiva per affrontare la sofferenza, e che l’azione impulsiva è spesso una strategia per tentare di evitare o deviare tali emozioni negative (Mikheeva & Tragesser, 2016). Le emozioni negative e la tendenza ad agire impulsivamente sono quindi comportamenti comuni legati al binge eating e al binge drinking (Kim, 2018). In effetti, gli individui che bevono alcol hanno maggiori probabilità di adottare azioni affrettate, come il binge eating, quando provano emozioni negative (Kim, 2018).

I risultati del presente studio hanno indicato che esiste una relazione tra abbuffate e consumo di alcol, che è influenzata da molte variabili. L’indagine ha mostrato che le caratteristiche sociodemografiche, nutrizionali, genetiche, ed emotive dei campioni analizzati sono rilevanti in questo fenomeno. Questi risultati possono supportare azioni e strategie terapeutiche per l’identificazione dei casi e trattamenti più efficaci per soddisfare le esigenze biopsicosociali degli individui.

La solitudine che è in noi: un’esperienza esistenziale di profonda libertà e potenziale creativo

Gli individui sono spesso isolati dagli altri o da parti di loro stessi, ma ciò non va confuso con la solitudine esistenziale. Essa si riferisce ad un abisso incolmabile tra un individuo e ogni altro essere, ma anche ad un isolamento più fondamentale, una separazione tra l’individuo e il mondo.

 

Il verbo esistere (ex-istere, staccarsi), implica un processo di separazione e differenziazione da un altro, un altro che durante le prime fasi dello sviluppo rappresenta una fonte di protezione assoluta e nondimeno indispensabile per la sopravvivenza (Yalom, 1980). Più avanti, nel corso dello sviluppo, si possono cercare sicurezza e protezione in un genitore, in un insegnante, in un partner, che in condizioni di pervasività e persistenza, possono portare ad una forte stagnazione della qualità di vita e dell’esperienza dell’individuo. Secondo lo psicoanalista Otto Rank, il soggetto, durante il percorso di vita, si trova a fronteggiare due tipi di paure: la paura della vita e la paura della morte. La prima fa riferimento alla paura di separarsi, di dover fronteggiare la vita come esseri autonomi, di affermarsi e realizzare il proprio potenziale e che comporta, se presente in maniera pervasiva e persistente, una quota di angoscia di morte, un senso di abbandono e pericolo rispetto alla possibilità e al diritto di affermare le proprie opinioni, i propri desideri e bisogni. Casi tipici di estremo sacrificio di sé, di immolazione, di autoannullamento, si possono ritrovare nelle personalità masochistiche, dove la persona, durante la propria vita, sviluppa la credenza che, tollerare il dolore e la sofferenza, come lo stare in relazioni estremamente precarie, talvolta pericolose, e totalmente non reciproche, comporti il raggiungimento di un qualche bene maggiore, una qualche ricompensa. Ciò, da un punto di vista esistenziale, emerge da un estremo bisogno di sicurezza, dove la forza del legame nasce dal terrore di rimanere soli e dal bisogno di un essere potente e magico, da cui ricevere protezione, approvazione e ricompensa a qualunque costo. A tal proposito, si fa riferimento a soggetti cresciuti in ambienti abusanti con ripetute esperienze traumatiche (trauma relazionale) dove la costanza dell’oggetto non è stata raggiunta, dove i vissuti legati alle esperienze di attaccamento risultano separati nel tempo e dove nel senso di continuità nella percezione del caregiver (spaventante-spaventato), “sicuro” può anche diventare un ambiente abusante, all’interno del quale però la persona impara in maniera implicita e automatica, come esercitare strategie di controllo, volte ad anticipare l’eventuale pericolo. Il bambino avrà bisogno di impiegare risorse sproporzionate per comprendere il comportamento del genitore, alle spese però della percezione della realtà in termini di stati mentali e della loro relativa intenzionalità. Emergono, in questi casi, dinamiche in cui, non potendo trovare un continuum spazio-temporale tra più stati della mente, un senso di continuità e coerenza, il soggetto estende all’altro rappresentazioni di sé aliene e incongruenti, attraverso schemi rigidi e ripetitivi che permettono di avere un controllo contingente sulla realtà e un senso, seppur precario ed estremante disfunzionale, di sicurezza. La paura, quale una delle emozioni dominanti in esperienze traumatiche cumulative, viene autoindotta, attraverso per esempio il meccanismo di difesa primitivo dell’identificazione proiettiva e ciò permette di trovare conferme all’esterno di ciò che non può essere mentalizzato. Dominante in queste esperienze, oltre alla paura, è l’odio. Come afferma Gabbard, in pazienti in cui l’odio risulta un’emozione dominante, odiare ed essere odiati, è preferibile all’essere ignorati o abbandonati (Gabbard, 2003). In organizzazioni borderline di personalità, quindi, l’oscillazione dell’esperienza di sé e dell’altro, altro che funge da contenitore per un senso di sé precario e da regolatore per un affettività scissa e non integrata, porta a relazionarsi all’altro in modalità estremante costrittive e ripetitive, in cui l’individuo si priva della spontaneità e della libertà di scelta, e l’altro viene utilizzato come un innesto, come uno strumento per mantenere un certo livello di sicurezza nella propria rappresentazione di sé. Si relaziona pertanto solo a quella parte che serve a mantenere lo status quo in modalità rigide e pervasive di funzionamento, ma soprattutto a non prendere contatto con una possibilità di scelta e libertà estremamente angosciante che, qualora accolta, porterebbe a sperimentare un’intensa vacuità e assenza di senso.

La seconda si riferisce alla paura dell’estinzione, della perdita di una propria individualità, dove l’individuo tenta in tutti i modi di evitare una fondamentale angoscia della vita, l’angoscia del limite, dello stare in una comunità, in un legame intimo con un altro e che porta spesso all’immergersi in attività frenetiche nel tentativo di controllare la vita e la quota di incertezza che comporta. Per esempio individui totalmente orientati al potere, a distinguersi, al loro senso di specialità, trovano insopportabile qualunque tipo di sensazione di immobilità e, come accennato prima, di intimità nel rapporto con sé stessi e con l’altro. Persone freneticamente impegnate nel lavoro e in una sessualità promiscua e compulsiva, si ritrovano però durante il loro percorso a contatto con la solitudine, con l’angoscia di morte e con una fondamentale mancanza di protezione inerente l’individuazione (si pensi, per esempio durante i viaggi d’affari), la quale, seppur bramata, viene soffocata da una profonda inautenticità nello stare con l’altro. Rank sosteneva inoltre che queste due modalità appena descritte (paura della vita e paura della morte) durante il percorso di vita si alternassero in maniera più o meno pervasiva e persistente (Yalom, 1980). Yalom, nel suo testo “Psicoterapia esistenziale”, fa riferimento ad alcuni pazienti in cui tali dinamiche si presentano entrambe e che spesso portano a quello che emerge come un blocco nella fase descritta dalla Mahler di separazione-individuazione. La persona si è separata ma non si è individuata, alla costante ricerca di oggetti tramite cui mantenere un senso di sé precario, per cui le rappresentazioni di sé e dell’altro vengono sperimentate senza soluzione di continuità. Lena, per esempio, cercava di evitare l’angoscia rimanendo bloccata nell’adolescenza. Cercava di fondersi con qualche salvatore, tuttavia era spesso terrorizzata dalla propria situazione: si aggrappava agli altri e si ribellava costantemente, oscillando spesso dalla posizione di vittima, bisognosa di un salvatore, alla posizione di persecutrice, in cui, sperimentando costrizione nella relazione con gli altri (si poneva in un modo che portava gli altri a non prenderla sul serio e a trattarla come una bambina), era spinta a sentirsi ulteriormente vittimizzata, a provare rabbia e a reagire impulsivamente per il torto subito, allontanando gli altri con i suoi comportamenti. Cercava la pace, il conforto, la sicurezza, e tuttavia quando li aveva, veniva fagocitata dall’angoscia di morte. Restare inglobati dentro un altro, come anche separarsi da tutto attraverso il rifiuto dell’intimità e di qualsiasi legame, sottopone al rischio di perdere se stessi, al fallimento dell’esplorazione e dello sviluppo di potenzialità all’interno del sé, al soffocamento della propria crescita che avviene attraverso un’immersione profonda nel mondo, in cui si comincia da se stessi, allo scopo di non doversi preoccupare di sé, di trascendere il sé, iniziando pertanto ad accogliere l’altro.

Yalom, nel suo libro “Terapia allo specchio”, riporta assieme alla paziente Ginny una raccolta di riassunti delle relative sedute, in cui emergono molte delle tematiche viste fino ad ora. Ginny entra in terapia con un profondo transfert positivo nei confronti di Yalom, nutrendo aspettative irrealistiche verso di lui, manifestando quindi il bisogno di percepirlo come un terapeuta onnisciente e protettivo. Ciò le permetteva di mantenere uno status quo, tra l’altro presente in molte delle relazioni nella propria vita quotidiana (la relazione con Karl, con la sorella, con le amiche) rispetto alla responsabilità per la propria vita, per le proprie scelte, per i propri diritti. Arrancava in una posizione di “animazione sospesa”, in cui le cose le accadevano, in cui sguazzando nella propria impotenza, delegava le responsabilità agli altri, non prendeva decisioni e rinforzava la convinzione di essere vittima delle circostanze. Stava con gli altri, non per crescere, ma per mantenere un senso di sicurezza, una fede in quello che Yalom definisce “un salvatore ultimo”, in un “fuori” magico in cui tutto le accadeva dall’esterno e lei negava quello che poteva essere la propria scelta, il proprio contributo al fatto che le situazioni accadano, il proprio atteggiamento interpersonale e il proprio ruolo nel ricreare le situazioni. Prima di passare agli incontri di terapia individuale con Yalom, frequentava una terapia di gruppo per stare con lui, in cui il parlare dei propri problemi personali aveva il principale vantaggio di guadagnarsi la sua approvazione. Nella relazione con Karl, il suo fidanzato, aveva spesso la fantasia di essere improvvisamente abbandonata da lui, fantasia che sperimentava spesso dopo il sesso (Yalom, 1974).  Spesso in terapia si lamentava della propria incapacità di godere del sesso e di raggiungere l’orgasmo. Si concentrava su quello che avrebbe potuto far piacere a Karl durante l’atto, trascurando però il proprio corpo e il proprio godimento. A tal proposito, Yalom, la invitava a coinvolgere attivamente Karl in proprie richieste: “Cosa avrebbe potuto fare lui per aiutarla a sentirsi coinvolta nel sesso?” (Yalom, 1974). La invitava anche a coinvolgere l’altro “chiedendo”, volgendosi all’incontro autentico piuttosto che ad un monologo egocentrico ed autoreferenziato. Cercava di incoraggiare quella che è stata prima menzionata come “trascendenza del sé”, una possibilità di rispettare i propri diritti nel mondo e di andare oltre l’incontro basato sulla sicurezza e sul controllo di “immagini di sé”, ma piuttosto orientato all’esperienza di sé, dell’altro e all’esplorazione. Lei in questo arrancava, come arrancava nella possibilità di riconoscersi anche un margine di possibilità e di scelta, di propri desideri e quindi anche la possibilità che potesse essere lei ad vere il bisogno, nonché il diritto, di chiudere questa relazione. Si preoccupava invece di possibili abbandoni da parte di Karl per la propria inadeguatezza, e stava in questa relazione in cui lui spesso la umiliava e la criticava, continuando in ciò a dargli il permesso di farlo. In una parte del libro, scrive: “Inoltre, nel profondo, oltre il senso disperato di abbandono, c’è la sensazione che sia giusto così, che in realtà desideravo che io e Karl non stessimo insieme, che volessi in qualche modo uscirne e che fremevo all’idea, speravo in una sua decisone ma, come al solito, un’inerzia sconcertante fatta di pietà e paura mi aveva trattenuto in quella situazione”. In quest’estratto del testo, si manifesta in modo particolare il suo dislocare la responsabilità all’altro e quanto il suo definirsi attraverso la sottomissione, l’immolazione di sé, l’impotenza, il sentirsi vittima, abbandonata, avesse a che fare con un’angoscia di morte, con la paura di vivere senza un altro, con la paura che assumendo un comportamento adulto, scegliendo, desiderando, avrebbe potuto perdere la propria sicurezza (in particolare, lei aveva due relazioni che rappresentavano rispettivamente quello che Liotti-Farina (2011), rifacendosi a Karpmann, definiscono come triangolo drammatico: Yalom (Salvatore); Karl (Persecutore); lei come vittima. In genere, in organizzazioni borderline di personalità con esperienze di trauma complesso, l’oscillazione tra i poli risulta molto marcata, ma, in questo caso, è relativamente evidente. L’odio verso sé stessa si manifestava principalmente nel “non darsi permessi e diritti”, nel soffocare la propria crescita stando in relazioni “abortite” e non reciproche, nell’esprimere la quota di rabbia che aveva attraverso modalità passivo-aggressive che non coinvolgevano direttamente l’altro. L’espressione della rabbia in queste modalità risulta evidente in alcune parti del libro: Karl si lamentava della sua incompetenza in casa, della sua passività e della sua mancanza di praticità, aspetti che durante la terapia con Yalom emergono anche come piccoli tentativi, da parte sua, di fare imbestialire Karl e di punirlo; si presentavano inoltre modalità simili nella terapia, in cui lei, non appena si avvicinava, sotto “forte guida e incoraggiamento” da parte di Yalom, a modalità più sane di stare con se stessa e con gli altri, cadeva in stati depressivi, in preda a forti sentimenti di pessimismo e impotenza. C’era una forte pressione interpersonale, da parte sua, nel far sì che l’altro assumesse degli atteggiamenti attivi, incoraggianti e persino autoritari, arrivando persino a fare esplicita richiesta a Yalom di punirla, ma quando lui assumeva una posizione particolarmente attiva, quasi da “coach”, focalizzandosi sul comportamento e suggerendole cosa fare e come farlo, da un’iniziale stato di euforia ed eccitazione, sprofondava e sprofondavano nell’impotenza. Quindi Yalom, arrivò a considerare, quanto un atteggiamento del genere non facesse altro che infantilizzarla, deresponsabilizzarla e renderla inoltre ulteriormente dipendente, e soprattutto quanto ciò fosse anche legato ad un’immagine di sé e ad un senso di padronanza che, a livello controtransferale, alimentava un innesto tra rappresentazioni di sé e dell’oggetto da parte di entrambi. Ciò che Gabbard (2003) definisce come identificazione proiettiva e controidentificazione proiettiva – nello specifico, Gabbard fa riferimento ad un “controtransfert erotico”, in cui il paziente diventa il contenitore della rappresentazione di sé e dell’oggetto idealizzato che salverà il terapeuta dalla disperazione. Sandler (1987), descrivendo esperienze di “collusione” in terapia, avverte che sia estremamente rischioso presumere una corrispondenza puntuale tra ciò che avviene nel terapeuta e ciò che avviene nel paziente. Perciò accenna al concetto di “risonanza di ruolo”, associata da Sandler stesso al controtransfert complementare di Racker, in cui emerge una formazione di compromesso tra le personali tendenze del terapeuta e l’accettazione del ruolo che il paziente gli sta imponendo. Tale dinamica risulta connessa a quello che è stato in precedenza definito come “innesto”.  Yalom scrive: “Per più di quindici anni sono stato un risanatore; la terapia è diventata una parte essenziale dell’immagine che ho di me; mi offre significato, industriosità, padronanza. Ho dovuto trasformarla, riuscire dove altri avevano fallito, e riuscirci in un periodo di tempo relativamente breve. Colui che realizza miracoli. L’ho tenuta sotto pressione senza posa, ho dato voce alla mia frustrazione quando si fermava o si consolidava anche solo per poche ore. “Guarisca” le gridavo “Guarisca per il suo bene, non per il bene di sua madre o di Karl- guarisca per se stessa!” (Yalom, 1974). Ma molto piano, dicevo anche: “Guarisca per me, mi aiuti ad essere un risanatore, uno che fa i miracoli.” In tutto questo però, emergono aspetti fondamentali che hanno a che fare con la soggettività, con la trascendenza del sé e con il creativo in terapia. Yalom, scrive: “Ginny non sarà mai una che sceglie attivamente, tuttavia è così affascinante che verrà sempre scelta”; Ginny non poteva essere se stessa in molte altre maniere. Le ho chiesto di mostrarmi tutto nel “qui ed ora” della relazione tra di noi. “Ci provi” dicevo “io starò con lei, l’ascolterò, l’accetterò nella sua totalità”. Inoltre viene coltivato un talento, ovvero la scrittura, che Yalom coglieva in Ginny, proponendole la stesura, da parte di entrambi, di riassunti sulle sedute, non escludendo però in questo incoraggiamento, la propria dimensione controtransferale, legata alle proprie aspirazioni da scrittore. Yalom dava molta importanza all’aspetto dell’autorivelazione: “Speravo che Ginny, nella pace della propria solitudine, riuscisse a dar voce ad alcune parti soffocate di sé. Speravo in particolare che lei, rendendosi conto delle mie debolezze, del disorientamento e dello scoraggiamento, modificasse l’irrealistica sopravvalutazione che aveva di me. Il suo sguardo da bambina che alza gli occhioni stupiti, spesso mi faceva sentire incapace e solo. Volevo che si tirasse fuori da quel canale antidiluviano e mi guardasse, mi toccasse, parlasse con me faccia a faccia. Se avesse potuto farlo, e se fossi riuscito a mostrarle che potevo accettare o meglio accogliere le parti nascoste di lei mentre, una dopo l’altra, infilavano timidamente la testa attraverso il reticolo della sua autocancellazione, sapevo che avrei potuto aiutarla a crescere”. Ginny, scrive: “In effetti penso che tutte queste similitudini, tutte queste metafore che le ho gettato addosso nelle mie relazioni e nelle nostre conversazioni siano una cosa, e io un’altra. Le ho usate come un velo, fino a quando non ho potuto parlare direttamente con lei” (Yalom, 1974). La relazione terapeutica, con Yalom, ha permesso a Ginny di trasformarsi con “l’altro” (in questo caso Yalom) e non per l’altro (soffocandosi per mantenere un “altro dominante” come aveva fatto in passato). È stata risanatoria, in quanto è andata oltre una modalità “come sé” facilitatrice di altre potenziali relazioni, ma ha rappresentato un incontro autentico. Ciò mette in luce quello che Winnicott (1965) definisce come “fenomeno transizionale”, in cui attraverso relazioni “sufficientemente buone” con i caregivers, che prevedono un iniziale adattamento attivo ai bisogni del bambino, quest’ultimo acquista gradualmente la capacità di accettare dei limiti e tollerare i risultati della frustrazione. In particolare il bambino impara che esiste un limite al tempo della frustrazione, acquisendo un senso crescente del processo e la possibilità di integrare passato, presente e futuro. Si viene quindi a creare un equilibrio tra illusione e delusione, in cui il caregiver, con il suo adattamento iniziale quasi perfetto, dà la possibilità al bambino di illudersi, finchè non sarà possibile che cominci a svilupparsi la capacità di una relazione con la realtà esterna. Winnicott riferisce: “La madre colloca il seno reale esattamente là dove il bambino è pronto a crearlo, e al momento giusto” (Winnicott, 1965). Ciò presuppone un’area intermedia tra la creatività primaria e la percezione oggettiva basata sulla prova di realtà, ma, come sostiene Winnicott, senza sufficienti occasioni di illusione non c’è per nessun essere umano nessun significato nell’idea di una relazione con un oggetto che è percepito dagli altri come a lui esterno. Quest’area intermedia di esperienza, se evolutivamente andata a buon fine, viene coltivata costantemente durante il percorso di vita, e rappresenta pertanto una dimensione indiscussa dell’esperienza come base fondante della creatività. Winnicott (1965), infatti, scrive: “Si suppone quindi che il compito dell’accettazione della realtà non sia mai terminato, che nessun essere umano si liberi dallo sforzo di collegare la realtà esterna con quell’interna, e che tale sforzo venga alleviato da quest’area intermedia” (Winnicott, 1965). Quest’area intermedia rappresenta l’inizio della relazione del bambino con il mondo e l’unica possibilità per l’autore di incontrare la realtà dell’altro. Hillmann (1997) afferma: “essere è in primo luogo essere visibili”. Il lasciarci passivamente vedere apre una possibilità di benedizione. Perciò noi cerchiamo amanti e mentori, affinché possiamo essere visti ed essere benedetti”. L’immagine che un mentore scorge in un allievo non è né tutta davanti, né quel che è nascosto dietro; non esiste alcun me reale se non la realtà di me nella mia immagine. Il mentore percepisce le pieghe di una complessità, quelle curve dentro/fuori, sotto/sopra dell’implicito che sono la verità dell’immaginazione in ogni sua forma, per cui possiamo ben definire l’immagine: “il come globale del presentarsi di una cosa”. “In questa esperienza di terapia appena descritta, avviene quello che Mitchell (1988) concettualizza come passaggio da una dimensione oggettuale della relazione ad una soggettuale. Una dimensione oggettuale, che si ravvisa in un bisogno “di riconoscimento”, sicurezza e controllo da parte di entrambi e, se si vuole, “ricompensa” nella relazione con l’altro, ma porta nondimeno con sé una dimensione soggettuale e trasformativa, dove Yalom, prendendo consapevolezza di quello che fosse un proprio bisogno di mantenere lo status quo nella relazione terapeutica, arriva a percepire l’essenza di ciò che è la propria immagine e l’essenza dell’immagine di Ginny, riconosce la propria libertà e la libertà della paziente e, soprattutto, “vede” Ginny, conferendole il dono della fede e accogliendone quella che Hillamnn chiama “ciascunità” e quello che Recalcati definisce “particolare”. L’immaginazione è una parte fondante della terapia e del ruolo di mentore per Hillmann. In generale però, la “componente erotica”, l’innamorarsi della fantasia di un altro, il portare alla vita qualcosa nell’altro, il dare forza alla forma, alla forza della vita per dirla con Recalcati, sono aspetti fondamentali del processo creativo e di un modo di amare maturo.

Emerge quindi ciò che Winnicott (1971) riporta come un “fare uso dell’oggetto”, che non implica una strumentalità nelle relazioni e un utilizzo dell’altro in quanto funzione di sé, ma invece la capacità di trascendere il sé, di utilizzare aree intermedie di esperienza, una “ripresa singolare” nella ripetizione (relazioni oggettuali), a detta di Recalcati (2019), una ripetizione che può trasfigurarsi in una decisione inedita e aprire il campo della contingenza illimitata dell’esistenza. Nel gioco di Eros ritroviamo il grande “Si”, con il quale Nietzsche proclama la forza del desiderio come separata dalla serietà metafisica di valori morali che pre-esistono alla vita, intralciando così l’accesso al suo gioco. Recalcati (2017) scrive: “Così leggo la liberazione della vita dal peso del sacrificio e dalla dedizione seriosa e risentita al “dio oscuro” della causa”. Una rinuncia di sé che si costituisce come dono, offerta di sé assoluta e responsabilità verso l’altro. L’enorme potenziale generativo che deriva dal toccare gli altri in maniera profondamente umana, dall’umanizzare la vita, dall’esplorare cosa si voglia dall’altro e come si contribuisca, in questo, alla vita dell’altro, mette a contatto con la propria solitudine esistenziale. Il che significa che l’esistenza è gettata nella propria libertà, o meglio nella responsabilità assoluta della propria libertà. Che atto sarebbe, quello che rimanesse subordinato all’iniziativa dell’altro? Come potrebbe, un atto degno di questo nome, trovare il suo fondamento, appoggiarsi, sostenersi, reggersi sulla volontà dell’altro? Un atto infatti è tale se trova il suo fondamento in sé stesso. Solo in questo modo può svelare la totale inesistenza dell’Altro o, come direbbe Sartre, il nostro essere soli e senza scuse, consegnati al peso di una responsabilità illimitata. Come visto fino ad ora, gli individui terrorizzati dalla propria solitaria vulnerabilità tentano di mitigare il terrore attraverso modalità interpersonali rigide e coatte: hanno bisogno degli altri per affermare la propria esistenza; bramano di essere incorporati da altri più grandi di loro; cercano di alleviare l’angoscia incorporando gli altri, legami sessuali multipli, frenesia nel lavoro e bisogno di costante movimento. L’individuo si fa avanti non perché vuole ma perché deve, cosicché la relazione rimanga bloccata sul tema della sopravvivenza, trascurandone invece la crescita. Gli individui, sono spesso isolati dagli altri o da parti di loro stessi, ma ciò non va confuso con la solitudine esistenziale. Essa si riferisce ad un abisso incolmabile tra un individuo e ogni altro essere, ma anche ad un isolamento più fondamentale, una separazione tra l’individuo e il mondo. Nella misura in cui si è responsabili della propria vita, si è soli. L’esserne consapevole significa abbandonare la credenza che ci sia un altro a proteggerci e a crearci. Ciò implica un’esperienza di profonda impotenza, dettata da quello che Heidegger (1927) definiva come “essere gettati soli” nell’esistenza. Nessuna relazione può eliminare la solitudine. Ciascuno di noi è solo nella sua esistenza. Yalom (1980) afferma: “Se siamo in grado di riconoscere le nostre situazioni isolate nell’esistenza, saremo in grado di rivolgerci amorevolmente verso gli altri. Se siamo sopraffatti dal terrore, davanti all’abisso della solitudine, non porgeremo la mano agli altri, ma invece ci sbracceremo scomposti per non annegare nel mare dell’esistenza”. Una parte fondamentale del percorso terapeutico, perciò, risulta proprio aiutare il paziente a confrontarsi con la propria solitudine, con la propria libertà e con la propria responsabilità. Clark Moustakas (1961), affermava: “Nell’essere solo, l’individuo si realizza nella solitudine, e crea un senso di relazione fondamentale con gli altri”. La solitudine, invece di separare l’individuo o di causare una rottura o una divisione del sé, espande la sua interezza, la sua percettività, sensibilità e umanità. L’individuo sperimenta nuovi aspetti di sé, si relaziona agli altri in quanto persone reali, impara che il potenziale per l’amore esiste dentro di sé, aprendosi non soltanto all’altro, ma anche a sé stesso. Nell’esperienza di terapia, non importa che la relazione sia temporanea, ma quando l’esperienza dell’intimità è permanente anche l’esperienza della scoperta di sé lo sarà altrettanto e non potrà mai essere eliminata. Esiste nel proprio mondo interiore a ricordare il potenziale di ciascuno per raggiungere l’intimità. Quando l’esperienza dell’intimità è permanente, l’individuo riconosce i limiti della relazione, ovvero ciò che si può ottenere dagli altri, ciò che non si può ottenere, ma soprattutto incontra l’altro su un piano umano come fratello con cui condividere un irrevocabile solitudine.

 

Tempo lib(e)ro che promuove benessere

Alcuni studi considerano identificazione e catarsi due fasi delle dinamiche della biblioterapia, cui fa seguito, come terza fase, il meccanismo psicologico dell’introspezione.

 

La biblioterapia, ossia la terapia attraverso la lettura di testi letterari, di saggistica, di auto-aiuto, rappresenta uno strumento relazionale (di supporto al piano terapeutico di base) e una tecnica psicoeducativa, che favoriscono una crescita culturale di persone e gruppi e l’acquisizione di una consapevolezza più mirata ad attivare un’autentica cura di sé in particolari situazioni di disagio psichico, fisico, sociale.

Diversi studi confermano infatti l’efficacia della lettura nel migliorare la resilienza, la mindfulness, la qualità della vita e come ausilio nella gestione terapeutica, sia di alcune patologie psichiatriche (ad esempio il disturbo depressivo e il disturbo d’ansia generalizzato) sia di patologie organiche ad evoluzione cronica.

Se dunque è ormai provato che un libro scelto e “somministrato” ad hoc da un biblioterapista clinico possa stimolare la giusta presa di coscienza per rielaborare costruttivamente il proprio rapporto con la malattia e modificare uno stile di vita inadeguato, è altrettanto diffusa e condivisibile l’opinione comune di molti lettori abituali. Ognuno di questi lettori – anche chi scrive, al di là del ruolo professionale – lo sa, perché ne fa esperienza di continuo: un libro calma ed attenua le preoccupazioni, gli assilli quotidiani, quello sterile ed ossessivo rimuginio che talvolta arpiona un pensiero per costringerlo a girare su se stesso. Un libro, insomma, può aiutare a guarire.

Ciò premesso e in accordo con le finalità della health literacy (“alfabetizzazione sanitaria”), riconosciuta dall’OMS come una fondamentale strategia di empowerment nella promozione della salute, appare utile favorire l’implemento e la diffusione della biblioterapia non solo in ambito clinico, ma più in generale all’interno di webinar e di gruppi di lettura come una delle modalità di approccio alla lettura ricreativa o di svago.

Webinar e gruppi di lettura possono allora diventare uno spazio e un tempo di incontro privilegiati con l’oggetto libro, e ovviamente con chi ne condivide la lettura, che promuovono crescita culturale, sviluppo di abilità psicologiche e sociali e benessere dell’individuo.

Ma quali sono i meccanismi psicologici che motivano l’uso della lettura (indirizzata soprattutto ad una letteratura di qualità) come strumento potenzialmente efficace dal punto di vista della prevenzione e della cura di alcuni dei più comuni disagi del vivere quotidiano?

Per citarne alcuni, sono: il soddisfacimento di un connaturato bisogno di conoscenza, l’identificazione, la catarsi, l’introspezione, la teoria della mente.

Cominciamo col dire che la lettura risponde alla necessità di soddisfare il bisogno di conoscenza: conoscenza di sé, prima di tutto, dell’altro, del mondo.

Un buon romanzo, un testo letterariamente curato sotto il profilo contenutistico, stilistico, verbale, in cui l’autore sia riuscito ad esplorare, interpretare e descrivere in modo non superficiale l’ordito polisemico dell’esistenza, aiuta il lettore a conoscere e a conoscersi di più e meglio. Del resto, come ha scritto Marcel Proust:

ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L’opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che è offerto al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso.

Quella di cui si parla è una conoscenza trasmessa per via estetica, una conoscenza cioè che non passa attraverso il ragionamento, ma attraverso il piacere di essere testimoni di un’opera della creazione umana, attraverso i sensi, l’intuizione, l’immedesimarsi con un personaggio letterario.

Ed eccoci dunque all’immedesimazione o identificazione, il meccanismo attivo allorché chi legge partecipa emotivamente alle vicende del personaggio di finzione, avvertendo un senso di affinità con la personalità dello stesso, approvandone o disapprovandone pensieri, scelte, azioni.

È proprio il gioco del confronto con le emozioni della pagina scritta a determinare il meccanismo della catarsi: quando la lettura rievoca alcune esperienze personali, il lettore si trova a rivivere e a sfogare le emozioni represse, legate a quelle esperienze, e a raggiungere una sorta di vera e propria purificazione da esse.

Alcuni studi di settore considerano identificazione e catarsi due fasi delle dinamiche della biblioterapia, cui fa seguito, come terza fase, il meccanismo psicologico dell’introspezione.

Il “movimento” introspettivo comporta la presa di coscienza di alcune conferme o di nuove consapevolezze su se stessi, sul proprio vissuto, sul mondo, rendendo ragione di due funzioni della letteratura: la funzione pacificatoria, che conforta i lettori nella loro condivisa umanità, e la funzione sovversiva, che sfida costantemente i loro pregiudizi, le loro radicate abitudini, il loro autocompiacimento.

L’introspezione diventa il punto di partenza per raggiungere una maggiore apertura mentale, per scoprire aspetti inediti della propria personalità, per assimilare pensieri e valori più funzionali al vivere quotidiano. Stimola anche il gusto intellettuale della ricerca di risposte di senso, compito imprescindibile ai fini della salute mentale, se si pensa che il significato attribuito alla propria persona e alla propria vita è l’elemento integratore in grado di conferire valore a tutti gli aspetti della personalità e che la malattia mentale e il disagio psichico rappresentano, forse, la massima espressione della perdita di significato del vivere.

La lettura implementa infine la ‘teoria della mente’, che consiste nella capacità cognitiva di riuscire ad attribuire stati mentali, ovvero credenze, emozioni, desideri, intenzioni, pensieri, a sé e agli altri e assumere, sulla base di questi presupposti, il proprio e l’altrui comportamento (secondo la definizione di Sempio et al., 2005).

Come è evidente questo meccanismo rispecchia il più noto concetto di empatia, ossia la capacità di comprendere immediatamente lo stato d’animo dell’altra persona con una controllata partecipazione emotiva.

Approcciarsi ai libri secondo le finalità e i metodi propri della biblioterapia significa dunque vivere i libri stessi come veicolo di libertà. Libertà di inventare, di esprimersi, di tracciare percorsi di vita più consapevoli e in sintonia con le fonti interiori della personalità, libertà di non smettere di porre e di porsi domande.

Non dimentichiamo che, come afferma Miro Silvera, chi cerca risposte nei libri quasi sempre le incontra a propria misura. Perché i libri curano ogni male, compreso quello più imbarazzante di tutti: il male di vivere.

 

 

Attività Assistita con gli Animali ai tempi del Covid-19: è possibile in telematica?

L’Attività Assistita con gli Animali può addurre benefici in termini motivazionali, educativi, ricreativi e/o terapeutici per migliorare la qualità della vita di bambini, adulti e anziani in condizioni di salute eterogenee.

 

Negli ultimi decenni, la ricerca ha dimostrato che gli interventi con gli animali possono migliorare la salute psicosociale di individui affetti da patologie croniche, nello spettro autistico, con problematiche comportamentali ed emotive (Nimer & Lundhal, 2007). In particolare una recente meta-analisi di Feng e collaboratori (2021) mostra benefici mirati relativi all’attività assistita con gli animali per i bambini e gli adolescenti ospedalizzati, in termini di diminuzione della frequenza di sintomi ansiosi e depressivi.

Nella letteratura scientifica contemporanea, Kruger e Serpell (2006) hanno identificato 20 diverse definizioni che sono state utilizzate per descrivere l’attività assistita con gli animali (AAA) e più di 12 parole chiave associate alle AAA nei database scientifici. A fronte di tale eterogeneità, la Delta Society ha pubblicato le best-practice e linee guida per le attività e la terapia assistite dagli animali nel tentativo di creare una nomenclatura standardizzata.

Generalmente, questo tipo di interventi ha come obiettivo il miglioramento del funzionamento fisico, sociale, emotivo e/o cognitivo di bambini e adulti (Delta Society, 2005) e può essere perseguito solo attraverso l’azione di specialisti propriamente certificati. Internazionalmente, gli specialisti AAA devono aver completato un corso di formazione e relativo esame come coadiutore dell’animale. Secondo gli studi scientifici, questi professionisti hanno diversi background: possono essere infermieri, medici, pediatri, fisioterapisti, assistenti sociali, psicologi, educatori, counselor (Delta Society, 2005; Kruger & Serpell, 2006).

L’ attività assistita con gli animali può addurre benefici in termini motivazionali, educativi, ricreativi e/o terapeutici per migliorare la qualità della vita di bambini, adulti e anziani in condizioni di salute eterogenee (Delta Society, 2005). Nella cornice di tali attività, gli operatori fanno visita agli utenti presso ospedali o case di cura con i propri animali. Tuttavia, gli operatori propriamente formati possono intervenire in una varietà di ambienti, tra cui scuole, strutture sanitarie, riformatori, residenze per anziani e, in alcuni casi, il domicilio della persona a cui è rivolto l’intervento.

Per quanto riguarda gli animali implicati in questo intervento la Delta Society (2005) ha stabilito che cani, gatti, porcellini d’india, cacatua, pappagalli grigi africani, cavalli, capre, polli, asini, maiali e lama, possono essere coinvolti in questo tipo di intervento. Edwards e Beck (2002) e Antonioli e Reveley (2005) hanno identificato anche i benefici di interventi AAA effettuati con delfini e cetacei presso gli acquari attrezzati alla visita di persone con patologia.

Con l’avvento della pandemia, le restrizioni socio-comportamentali per prevenire il contagio da Covid-19 hanno reso difficile la pratica degli interventi AAA dal vivo. Non sono mancate, tuttavia, le strategie di adattamento dell’intervento nel mondo online: in questo senso, il gruppo di coadiutrici del Porto dei Piccoli (Genova) e i loro amici a quattro zampe rappresentano uno dei primi gruppi di lavoro con AAA su piattaforma telematica.

Il progetto si chiama “Gimmie Five Online” e offre interventi di attività assistita con gli animali. Gli interventi sono rivolti a bambini e adolescenti con disabilità o patologie croniche, i quali, con l’aiuto dei caregiver, sono collegati tramite Skype, Meet, Zoom o altre piattaforme, alle coadiutrici e ai loro cani. L’approccio online comporta un setting in differita, dove il coadiutore e il bambino sono contemporaneamente collegati dalle stanze della propria abitazione (o dalla stanza dell’ospedale). Alcune attività chiave della seduta in presenza (come le attività di condotta al guinzaglio), non possono essere praticate a distanza. Tuttavia, utilizzando il coadiutore come “tramite”, il bambino può realizzare attività di accudimento, rivolgere comandi di base all’animale, seguirlo in percorsi, ricerche e giochi interattivi. Gli effetti a breve e lungo termine delle sessioni telematiche sono ancora in corso di investigazione scientifica, ma l’intervento è stato accolto con un alto grado di soddisfazione da parte dei bambini e delle famiglie, ponendo le basi per un futuro studio pilota sull’esperienza.

 

Forze del destino. Psicoanalisi e idioma umano – Recensione del libro

Bollas nel suo volume Forze del destino. Psicoanalisi e idioma umano presenta il suo tentativo di integrare, confrontare, di spingersi oltre l’orizzonte conoscitivo sino a questo momento conquistato.

 

Cristopher Bollas, psicoanalista britannico, noto per i numerosi contributi nel panorama psicoanalitico internazionale, ci presenta Forze del destino. Psicoanalisi e idioma umano, il suo contributo più recente, edito ancora una volta da Cortina, in cui propone al lettore, in un tentativo originale e finemente articolato, di illuminare il destino del vero sé, la sua teoria sulla “forza del diventare”.

Il tema scelto per questo libro racconta senz’altro l’ambizioso compito di Bollas di rendere dicibile quella parte del lavoro analitico che può essere difficilmente restituita e del suo rapporto con l’enigmatico nucleo della personalità dell’uomo. Si tratta del frutto di una lunga analisi, com’è lui stesso a rivelarci, nata da un controverso intrecciarsi di teoria, clinica e vita personale, che tenta di aprire uno spazio di riflessione sull’uso che il paziente fa in analisi dell’analista come oggetto.

Bollas crede che la strada migliore per seguire questo proposito sia quella di partire da qualcosa che conosciamo, attingere ai contributi di eminenti esponenti del panorama psicoanalitico per poterne arricchire, ampliare e innovare le visioni. Con un’attenzione particolare ai concetti di vero e falso sé di Winnicott, della percezione endopsichica freudiana e della preconcezione di Bion, contributi che non siamo riusciti ad utilizzare per questo scopo, Bollas presenta il suo tentativo di integrare, confrontare, di spingersi oltre l’orizzonte conoscitivo sino a questo momento conquistato.

È una proposta intrigante quella che ci viene offerta, e al richiamo “Vero sé da questa parte!”, non possiamo che rispondere avanzando lungo la strada che sembra aver tracciato per noi, alla ricerca di una cura per la nostra unicità danneggiata. Di fatto, che quest’ultima possa essere stata poco riconosciuta, mal colta, ignorata, è una questione nota e molto probabilmente assai comune, meno nota è la storia, lo sono le peculiarità, gli itinerari, le coordinate spazio-temporali, le forze benefiche e ostili, le persone e le risorse che ne determinano il suo esprimersi.

Chi sarà disposto a lasciarsi guidare, dalla periferia al centro, nelle trame sempre più fitte del suo discorso potrà abbracciare con una chiarezza crescente la funzione della psicoanalisi di salvaguardare e accompagnare l’unicità della persona al suo compimento.

Partendo dal processo analitico, del quale l’autore mette in risalto la procedura decostruttiva e rielaborativa, nonché la necessaria posizione analitica e ricettiva dell’analista, quest’ultima riscontrabile proprio nel momento in cui l’analista viene usato come oggetto nel transfert, Bollas ne evidenza la loro necessaria integrazione affinché il paziente possa entrare in contatto e dare al suo vero sé la possibilità di esprimersi.

Il suo nucleo, che chiama “idioma”, non può che essere dipendente dalle prime esperienze del bambino con una madre ricettiva e facilitante e che promuove la sua articolazione, il suo procedere. Si tratta di una madre capace di amare il suo bambino nel senso più profondo che possiamo attribuirgli, che corrisponde al riconoscimento pieno di quello che egli è, l’unico necessario per essere se stesso.

Come sostiene Bollas (2021), infatti, “L’armonia tra genitore e bambino determinerà notevolmente l’evoluzione del bambino in termini di compimento del proprio destino (vero Sé) o il fatto che la sua vita sembri dominata dagli interventi del fato (falso Sé)” (p.101).

Se avessimo la possibilità di sfruttare una prospettiva longitudinale per osservare quanto egli afferma, le sue parole sembrerebbero più immediatamente comprensibili. Quello che intende dire è che ci troviamo di fronte a due condizioni, influenzate dalle cure materne, in divenire, la prima, immobile, la seconda. Quest’ultima, dominata dal fato, ci racconta di un soggetto impotente e incapace di agire attivamente sulla sua vita, svuotato di opzioni future e che si fa testimonianza della perdita di tutti i sé potenziali che non hanno avuto la possibilità di esprimersi.

Ci potremmo chiedere a questo punto cosa spinga il soggetto a compiere il destino del vero sé. Secondo Bollas, esiste in ognuno di noi una forza, che chiama in modo assolutamente acuto “pulsione del destino”, che si palesa attraverso l’uso di oggetti nel corso dell’esistenza e, come lui stesso sostiene, “[…] ogni tanto il perturbante connubio tra idioma e oggetto che si incontrano in un momento preciso, ci trasformerà” (Bollas, 2021, p.43). Come si può intuitivamente comprendere, uno di questi oggetti è proprio l’analista, la cui presenza farà emergere il desiderio nel soggetto.

A mio avviso, però, il frammento, in cui Bollas chiarisce meglio e condensa il significativo legame tra la pulsione del destino e psicoanalisi è quello in cui afferma:

La psicoanalisi è particolarmente adatta all’analisi e alla facilitazione dell’idioma del vero Sé perché l’analista, che “fornisce” al paziente un campo di oggetti (elementi della personalità dell’analista, elementi della procedura psicoanalitica, elementi di concetti psicoanalitici), crea un universo di oggetti talora osservabili nel quale il paziente si muove. Usando e organizzando gli oggetti, il paziente può vivere il vero Sé in queste esperienze (Ivi, pp. 98-99).

Bollas fa partire, dunque, la sua riflessione, “sull’uso dell’oggetto”, dall’uso che il bambino fa della madre, recuperando i contributi di Winnicott, e ricordando che, laddove le cure materne riusciranno a sostenere il senso di illusione del bambino, egli potrà evolversi. Facilitando in lui l’uso dell’oggetto transizionale, un oggetto reale che consentirà al bambino la distinzione tra il me e il non me, la madre gli permetterà di accedere a quell’area dell’esperienza che è intermedia tra quella interna e quella esterna.

Viceversa, un’esperienza opposta, fatta di cure materne insufficienti e poco responsive, contribuirà alla creazione, come ricorda Bollas, di uno spazio immaginario, uno spazio alternativo. In esso il bambino collocherà tutti gli oggetti alternativi, che Bollas ci presenta come spettri, proprio per restituirci la loro vitalità perduta.

Analizzare il rapporto che il bambino intrattiene con questi fantasmi, ci aiuta a riconoscere la loro funzione. Ricorrevi, infatti, consente al bambino di mantenersi distante dal mondo reale e dal rapporto con le persone reali che lo popolano. Sarebbe un errore, però, considerare il mondo alternativo, un mondo patologico di per sé, infatti, come Bollas (2021) ci ricorda, “[…] tutti abbiamo una linea spettrale e nutriamo lo spirito di un oggetto (come nel lutto)” (p.129), è, invece, il suo ostacolare in modo definitivo l’instaurarsi dello scambio tra il dentro e il fuori, a renderlo tale.

La solidità dell’amore del bambino per la madre rappresenta, possiamo dirlo, la sua garanzia perché la distruzione o le ripetute distruzioni possano non compromettere il suo uso. Qui la distruzione, come accade nell’uso dell’oggetto analista da parte del paziente, deve essere colta nella sua accezione positiva; è creativa e appartenente a quelli che comunemente chiamiamo istinti di vita.

Per Bollas, l’analista può essere promotore di questa esperienza a patto che manifesti la sua disponibilità e la sua comunicazione ad essere utilizzato in questo senso. Più nel dettaglio, egli si riferisce alla possibilità che l’analista conceda elementi della sua personalità per favorire l’articolarsi del vero sé del paziente, il conosciuto non pensato, proprio in quello spazio intermedio in cui sarà la libertà di gioco a influenzare l’esperienza.

Se quindi da una parte il discorso di Bollas ci conduce verso lo spazio condiviso, dall’altra il suo interesse non smette mai di essere focalizzato sull’analista, oltre che sul paziente. Un motivo di accurata riflessione in tal senso è rappresento dalla sensibilità analitica e dalla consapevolezza dell’analista di occupare la controversa posizione di essere oggetto e soggetto allo stesso tempo all’interno dell’analisi.

La consapevolezza di quest’ultima posizione, in particolare, è ciò che consente all’analista di prestare attenzione a ciò che dice e sente, di correggere le sue associazioni, laddove ne riscontri l’inadeguatezza, dare spazio dunque al disaccordo del paziente e sentirsi libero di comunicargli la discrepanza con la sua visione. Scontrarsi, allora, e in seguito incontrarsi con il non sapere rappresenta per l’analista il suo punto di arrivo; riservare a questa capacità il prezioso valore che possiede, significa riconoscergli la capacità di generare uno spazio potenziale in cui il vero sé del paziente possa esprimersi.

Ecco che: “Essere ignoti a noi stessi non è necessariamente una carenza: abbiamo bisogno dell’inconscio per fare un uso creativo del conscio” (Bollas, 2021, p.62), e questo è quanto mai vero nel lavoro interpretativo, che non può che essere costruito dalla “dialettica dei due sistemi inconsci”, quello del paziente e dell’analista.

Agli analisti chiede, infatti, “intelligenza analitica”, ossia la capacità di analizzare gli istinti di morte e di vita, impedendo il verificarsi del fenomeno secondo cui, l’affetto, l’amore, la creatività del paziente, scarsamente affrontati o avvicinati con la prudenza con cui ci si avvicina a un armamentario difensivo, finiscano per essere oscurati dalle forze opposte, in fondo, e a dispetto delle apparenze, un oggetto più agevole di studio.

La conversazione con il lettore si fa a questo punto più intima, e per dare voce, proprio a ciò che viene dimenticato, Bollas introduce il concetto di “celebrazione dell’analizzando”, ponendo in primo piano il ponte che questo intervento dell’analista è in grado di introdurre tra la vita reale e mondo interiore.

Più nel dettaglio, con la celebrazione dell’analizzando l’analista risponde affettivamente con i suoi commenti agli aspetti del vero sé del paziente che trovano in questo modo lo spazio per essere riconosciuti ed elaborati. Il suo richiamo all’umorismo, il suo riconoscersi un “cretino”, nelle esperienze con i suoi pazienti, ecco che diventano terreno di conoscenza, uno spazio reciprocamente in-formativo e creativo.

Facendoci accedere alla stanza d’analisi, affollata di pazienti compromessi da ambienti affettivi deprivanti, Bollas ci presenta il differente uso dell’oggetto e del lavoro analitico compiuto da paziente e analista.

Mentre i pazienti spettrali sconvolti dalla vitalità dell’analista lo ingaggiano in una lotta per far prevalere la morte sulla vita, i pazienti tossicodipendenti rendono instabile la capacità dell’analista di restare sul qui e ora, il loro tentativo è quello di portarlo altrove, nel loro viaggio allucinato.

Tuttavia, Bollas individua in queste persone, in cui è interrotto il contatto tra la psiche e l’Io, una luce oltre il buio – a quegli aspetti del sé che non sono stati elaborati – che chiama processo conservativo: “[…] il bambino conserva un’esperienza relativamente immutata e non trasformata nella speranza che un giorno o l’altro possa essere rivissuta alla presenza di un oggetto trasformante (amico, amante o analista)” (Bollas, 2021, p.137).

Differente è l’esperienza dell’antinarcisista, il paziente che, più di altri, sembra offrirgli l’occasione per analizzare quanto la pulsione del destino possa essere osteggiata dalla persona che gli si oppone con la distruttività delle sue idee, che sono mosse da un falso sé necessario all’occultamento di quello vero.

Ognuno dei pazienti che Bollas ci consente di conoscere, attraverso la sua esperienza, reca la testimonianza dell’emblematica forza che spinge l’uomo nel corso della sua esistenza a spodestare il fato, e la sua definitiva sentenza, proprio per consentire al vero sé di esprimersi.

Nei tre temi che seguono, il trauma dell’incesto, il legame tra gli ordini di tempo, materno, paterno e psicobiologico e il ruolo della memoria nella conservazione degli stati del sé, Bollas conclude e completa la lunga analisi.

Partendo dal trauma dell’incesto, è alla più devastante violazione della mente, oltre che del corpo, il luogo a cui Bollas vuole condurre l’attenzione del lettore. Del padre, che entra “sotto la pelle psichica della madre” e che sostituisce nella bambina la realtà dove prima c’era l’immaginazione, Bollas segnala come comprometta severamente la strutturazione della sua psiche. Dove non c’è un contenitore buono, anche l’esperienza analitica può essere vissuta come un’esperienza che attacca il sé; questo è vero almeno all’inizio dell’analisi.

Possiamo a questo punto chiederci se il vero sé si esprima all’interno di coordinate spazio-temporali. Ecco, allora, che un episodio comune, quella vita familiare, può diventare occasione per riflettere sul modo in cui nel bambino possa verificarsi in modo adeguato, o viceversa, l’integrazione dei tre ordini di tempo materno, paterno e psicobiologico necessari per la sua organizzazione psichica.

La prima esperienza del bambino è di un tempo atemporale, quello materno – come è intuibile – tutto rispondente ai bisogni del bambino e molto differente dal tempo paterno, del dovere e della socialità. Ma il bambino, che vive l’atemporalità del tempo materno, inizia piano piano a sperimentare anche la sua temporanea assenza, ed è verso questi movimenti che Bollas convoglia la sua attenzione, nel tentativo di chiarire in che modo possano facilitare l’integrazione dei tre ordini di tempo.

Quando questa integrazione risulta difficile, il bambino non mancherà di dimostrarlo e il suo timore che il padre possa non fare ritorno nel tempo della casa, dal tempo del lavoro, rifletterà la sua preoccupazione per quelle parti del sé che sente fragili e incapaci di integrare questi tre ordini di tempo.

Nella vita adulta continuiamo a mediare la natura di questi diversi ordini temporali. La temporalità e l’atemporalità si uniscono sempre più nel ricordo, in cui colleghiamo i due ordini in quello che chiamiamo il passato: un luogo che collega l’atemporale con il temporale. E il nostro tempo corporeo, dovuto allo svolgersi dei suoi progressi, alla fine ci informa della morte che sarà il nostro tempo finale, forse quel momento in cui tutti gli ordini del tempo si riconoscono e si unificano (Bollas, 2021, p.178).

Come avevo anticipato, Bollas conclude la sua analisi proprio riservando uno spazio specifico all’indagine sul ruolo ricoperto della memoria nel compimento dell’unicità della persona. Quello che intende mettere in risalto della memoria è la sua funzione operativa, introducendo il concetto di serie storica e mostrando il suo incontro con la psicoanalisi.

Le serie storiche sono biblioteche interiori che mettono le esperienze del Sé a disposizione del lavoro futuro” (Bollas, 2021, p.193). In sostanza, contengono le esperienze precedenti del sé che sono state conservate per poter essere elaborate successivamente. Quindi, se da una parte il processo conservativo è ciò che consente al paziente di non perdere questi sé, come ci ricorda Bollas, “È a partire dal processo ricettivo e dalla procedura evocativa che gli stati conservati del Sé vengono vissuti in presenza dell’analista” (Ivi, p.187).

Ecco, allora, che l’incontro tra paziente e analista consente il realizzarsi della loro doppia funzione, di conservazione e di elaborazione degli stati del sé, “il dipanarsi del discorso dell’inconscio”.

Tuttavia, le serie storiche contengono anche tutto ciò che non può essere comunicato, proprio perché appartenente all’esperienza specifica di ognuno, alla sua solitudine.

Il vero sé, infatti, come sostiene Bollas (2021): “[…] non può essere descritto completamente. Non somiglia tanto all’articolazione dei significati in parole che consentono di isolare un’unità di significato, come nella localizzazione di un significante, quanto al moto della musica sinfonica. Ma anche questa analogia non fa giustizia all’effimera formazione dell’esperienza del vero Sé. Ognuno inizia la vita con un vero Sé. È un potenziale ereditario che viene alla luce in seguito alle stimolazioni dell’esperienza” (p. 99); così come il suo corso in analisi “è questa esperienza del momento”.

 

10.000 passi al giorno a beneficio della salute mentale

A partire dalle evidenze dei miglioramenti fisici associati all’attività fisica, e nello specifico al percorrere 10.000 passi giornalieri, l’indagine di Hallam et al. (2018) ne ha valutato l’impatto sui fattori psicologici quali benessere, stress, ansia e depressione.

 

Si prevede che entro il 2030, la malattia mentale impatterà globalmente a livello economico per oltre 6 miliardi di dollari, diventando più dispendiosa delle malattie cardiovascolari, delle malattie respiratorie croniche, del cancro e del diabete (Bloom et al., 2011).

La psicopatologia comporta un rischio elevato di morbilità e mortalità precoce per problemi di salute (De Hert et al., 2011), ulteriormente aggravato dall’impiego di psicofarmaci impiegati per farvi fronte (Correll et al., 2015). La carenza di specialisti della salute mentale nei paesi a basso e medio reddito, oltre alla non equità di accesso al trattamento nei paesi a basso reddito, testimoniato dal 75%-85% delle persone con problemi di salute mentale che non viene trattato (Funk et al., 2012), sono solo alcuni dei motivi che rendono rilevante il ruolo della prevenzione primaria e degli interventi a livello di popolazione per migliorare la salute mentale ed il benessere.

Sebbene l’attività fisica sia in grado di prevenire alcune patologie fisiche, è stata poco presa in considerazione nel contesto della malattia mentale e per la salute mentale (Booth et al., 2002; Callaghan, 2004; Stanton et al., 2015). Studi epidemiologici dimostrano che un’adeguata attività fisica riduce i sintomi depressivi (Lucas et al., 2011) e, viceversa, se insufficiente, può essere un fattore di rischio per l’insorgenza della sintomatologia depressiva (Hiles et al., 2017). Infatti Cooney et al. (2014) hanno riscontrato che l’attività fisica in individui clinicamente depressi può essere un importante trattamento aggiuntivo, in grado di ridurre moderatamente i sintomi depressivi.

L’attività fisica agisce sull’umore riducendo l’attività del sistema nervoso simpatico e la reattività dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene nel cervello (Rimmele et al., 2007). Inoltre, incrementa i livelli di serotonina e noradrenalina, similmente ai farmaci antidepressivi (Meeusen& De Meirleir, 1995), oltre a favorire il rilascio del fattore neurotrofico derivato dal cervello (BDNF), comportando miglioramenti cognitivi, emotivi e comportamentali (Meeusen & De Meirleir, 1995). Smits et al. (2008), hanno dimostrato che un minimo di sei sessioni di 20 minuti su tapis roulant consente di ottenere in due settimane miglioramenti anche a livello dell’ansia.

Prevenire l’ansia e la depressione, e quindi l’impatto dello stress, è rilevante al fine di limitare l’insorgenza di una psicopatologia. Svolgere attività fisica comporta un maggiore benessere in quanto riduce l’impatto dello stress sulla salute fisica e mentale (Brown et al., 2012; Fletcher et al., 1996).

L’Organizzazione Mondiale della Sanità considera preziosi gli interventi sul posto di lavoro che promuovono il miglioramento della salute dei lavoratori (Proper& Van Mechelen, 2007). I programmi basati sull’impiego del pedometro possono contribuire ad incentivare l’attività fisica, riducendo il peso corporeo, i lipidi nel sangue ed il rischio di diabete (Faghri et al., 2008; Ganesan et al., 2016; Glance et al., 2016). Il benessere raggiunto, grazie a questi programmi, ha impattato positivamente sullo stress dei partecipanti (Glance et al., 2016).

Nei programmi basati sui passi, l’obiettivo di percorrerne 10.000 al giorno (8 km) supera di gran lunga i 150 minuti di attività fisica a settimana raccomandati dall’OMS. A partire dalle evidenze dei miglioramenti fisici associati al percorrere 10.000 passi giornalieri, Hallam et al. (2018) hanno proposto ai soggetti del loro studio di partecipare a un programma di 10.000 passi per 100 giorni, valutandone l’impatto sui fattori psicologici quali benessere, stress, ansia e depressione.

Partendo dal presupposto che gli individui trascorrono almeno metà della vita lavorando, il presente studio ha effettuato l’indagine sul luogo di lavoro, ambiente significativo per promuovere il cambiamento della salute e favorire il benessere (Conn et al., 2009).

Sono stati monitorati i passi giornalieri dei partecipanti, mentre prima e a seguito dei 100 giorni sono stati valutati i sintomi depressivi, ansiosi (Depression, Anxiety Stress Scales, DASS; Lovibond & Lovibond, 1995) e l’indice di benessere (Warwick-Edinburgh Mental Wellbeing Scale, WEMWBS; Bass et al., 2016).

I risultati evidenziano alcuni effetti positivi sia sugli aspetti psicologici che sul benessere generale derivanti dall’effettuare un’attività programmata di passi giornalieri, indipendentemente dal numero medio di passi raggiunti. In particolare, il programma ha migliorato i livelli di stress dell’8,9%, i sintomi di depressione del 7,6%, l’ansia del 5,0% ed il benessere del 2,1%. Camminare svolge un ruolo significativo per il benessere non solo fisico ma anche mentale, sebbene considerare il valore soglia dei 10.000 passi sia emerso come poco significativo.

Tale mancanza di risultato dose-dipendente, evidenzia la presenza di fattori concomitanti che possono contribuire al miglioramento del benessere mentale, come il divertimento, il supporto interpersonale e la connessione costituita dalla partecipazione di gruppo alla sfida (LaMontagne et al., 2014). Inoltre, le attività di promozione della salute spesso incentivano cambiamenti comportamentali a livello di dieta, in grado di migliorare potenzialmente i risultati.

Ulteriori ricerche dovranno individuare la combinazione di fattori interni ed esterni associata ad un cambiamento maggiore in questo tipo di programmi e verificarne la sostenibilità nel tempo. Una valutazione di follow-up eseguita otto mesi dopo un intervento simile, ha riscontrato un miglioramento dei fattori di rischio legati alle malattie croniche nel lungo periodo (Freak-Poli et al., 2013).

Programmi di questo genere possono apportare benefici nel contesto lavorativo, prevenendo l’assenteismo, la spesa sanitaria dell’azienda, il turnover, favorendo la produttività ed in generale la qualità di vita, la soddisfazione e la salute mentale dei lavoratori.

Chi sono e chi vorrei essere: differenze tra sé reale e sé ideale

Il concetto di Sé Reale e Sé Ideale è stato introdotto dallo psicologo statunitense Carl Rogers (Rogers, 1951). Secondo Carl Rogers, l’immagine di sé e il sé ideale possono essere congruenti o incongruenti. Quando c’è congruenza vuol dire che tra l’immagine di sé e il sé ideale c’è una discreta quantità di sovrapposizione e ciò porta alla sensazione di autorealizzazione, cioè a sentirsi appagati da ciò che si fa.

 

“Cosa mi aspetto dal domani?” dicevano i Lunapop. Questa è una domanda che un po’ tutti ci facciamo ad un certo tratto della nostra vita. Vi svelo un segreto, per quanto mi riguarda in qualità di professionista, una cosa è certa, il lavoro che farò sarà sempre volto non alla cura, ma al prendersi cura dell’altro.

Vi ricordate quando da piccoli ci chiedevano: “Cosa vuoi fare da grande?”, difficilmente qualcuno di noi rispondeva il centralinista o l’imbianchino, io di solito ho sempre risposto la rock star e molti dei miei compagni di classe ambivano ad essere dei supereroi come Zorro o Superman. Che significa questo? Che quando siamo piccoli abbiamo una grande immaginazione e una scarsa consapevolezza delle risorse a disposizione, del contesto in cui viviamo, degli ostacoli che possiamo incontrare, delle nostre capacità.

Secondo lo psicologo sovietico Vygotskij (Vygotskij, 1925) l’immaginazione è strettamente interconnessa con l’esperienza pertanto, quanto più un bambino avrà accesso a esperienze di vita significative, tanto più sarà prolifera la sua immaginazione, viceversa un bambino che vive in un contesto culturale con pochi stimoli avrà una capacità più ristretta di andare oltre il dato concreto.

Grazie a quel lato incosciente che ci permette di andare oltre, abbiamo la possibilità di provare a metterci alla prova in qualcosa che non siamo e che mai nessuno ci ha detto che potremmo diventare. Pian piano che cresciamo l’immaginazione diminuisce e aumenta la consapevolezza, si arriva a un momento in cui aspettativa e realtà iniziano a combaciare. Ci succede che siamo costretti a scontrarci con le difficoltà economiche, con un sistema spesso poco meritocratico, che fa sì che finiamo spesso per accettare un lavoro che non ci appaga. L’importante è portare lo stipendio a casa, ci hanno insegnato i nostri nonni, portare il pane, saziare i nostri figli e riuscire a campare.

L’ambizione, invece, guardare oltre gli orizzonti, è qualcosa che non deve abbandonarci mai, il Sé Ideale (ciò che vogliamo essere) è la nostra guida, il nostro motore a dare sempre di più.

Il concetto di Sé Reale e Sé Ideale è stato introdotto dallo psicologo statunitense Carl Rogers (Rogers, 1951). Per Sé Reale intendiamo tutto ciò che sentiamo di rappresentare, di aver raggiunto grazie alle nostre forze e di poter raggiungere concretamente, mentre per Sé Ideale intendiamo tutto ciò a cui tendiamo, ciò che vorremmo realizzare ma che non siamo sicuri di riuscire a fare. Secondo Carl Rogers, l’immagine di sé e il sé ideale possono essere congruenti o incongruenti. Quando c’è congruenza vuol dire che tra l’immagine di sé e il sé ideale c’è una discreta quantità di sovrapposizione e ciò porta alla sensazione di autorealizzazione, cioè a sentirsi appagati da ciò che si fa.

Ma cosa succede quando, invece, c’è troppa discrasia (incongruenza) tra Sé Reale e Sé ideale?L’incongruenza può avvenire in positivo o in negativo. Alcuni soggetti possono avere progetti di vita irreali e non corrispondenti alla realtà, avere quindi un Sé Ideale troppo “gonfiato”, o, viceversa, altri possono avere un’immagine troppo scarsa del proprio sé, che li porta a essere poco ambiziosi. Quando il soggetto non riesce a realizzare i propri sogni inizia ad avere momenti di conflitto interiore, a vivere stati di tristezza per non riuscire a raggiungere i propri scopi. Sentimenti come ansia e depressione diventano sempre più incombenti, il che può portare ad abbandonare i propri progetti, impigrirsi e rimanere in uno stato di stallo emotivo e lavorativo dal quale poi è difficile uscire, i giorni passano e non ce ne accorgiamo e ogni giorno ci affossiamo in un baratro dal quale poi risalire diventa quasi impossibile.

Per avere un Sé Ideale sempre al passo, mai addormentato e nemmeno troppo vispo, vi è uno slogan che dovrebbe essere sempre il faro del nostro cammino, sto parlando del CO.CO.MI (Robbins, 1992), un acronimo che sta per: CONTINUO, COSTANTE MIGLIORAMENTO. Secondo Robbins, ognuno di noi trova la sua felicità nella ricerca del miglioramento costante e nel percorso che segue nel raggiungere nuovi obiettivi personali; il che significa che ognuno di noi dovrebbe cambiare prospettiva, ovvero dovremmo iniziare ad avere un modo diverso di vedere la nostra crescita emotiva e personale: la vita dev’essere vissuta come un processo in continuo divenire, un approccio continuo da mettere in atto ogni giorno a lavoro e nelle relazioni sociali, ma che, a poco a poco, al contempo, si armonizzerà a pieno con la nostra quotidianità.

La nostra ottica di vita può così essere basata sull’assunto che “non si smette mai di imparare”, bisogna essere in costante formazione, per poter dare il meglio di sé, non bisogna mai sentirsi arrivati, bisogna avere sempre lo stimolo a fare un passettino in più rispetto a quello che già sappiamo. Per formazione non si intende la mera formazione didattica, ma formazione personale, culturale, emotiva, che ci dia la possibilità di: Sapere, Saper Fare e Saper Essere.

Mi piace il futuro perché lì possiamo essere forti e delicati e pieni di sogni e di vento in faccia.
E ci sono strade mai viste e fiori colorati e stagioni che soffiano giorni nuovi e polvere di stelle che si deposita sulle mani. (Fabrizio Caramagna)

 

La relazione tra Intolleranza all’Incertezza, Disregolazione Emotiva e Affettività Negativa in individui con Disturbo da uso di sostanze

Questo lavoro evidenzia come le differenze individuali nella regolazione delle emozioni possano precedere lo sviluppo di un Disturbo da Uso di Sostanze, e possano quindi essere concettualizzate come un fattore di rischio che predice l’insorgenza della malattia.

Pamela Filiberto – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Mestre

 

Il Disturbo da Uso di Sostanze è frequentemente associato a deficit nella regolazione delle emozioni. La domanda che gli studi spesso si sono posti è: “Questi deficit precedono lo sviluppo del disturbo, in modo che possano essere considerati un fattore di rischio?” La risposta sembra essere di sì.

A partire dai classici esperimenti del “test del marshmallow” negli anni ’60 di Mischel e colleghi, l’ipotesi che è stata proposta dai ricercatori consiste nel considerare la capacità di ritardare la gratificazione, e di regolare uno stato affettivo come il desiderio, un elemento cruciale nel determinare le traiettorie di sviluppo dei bambini (Mischel, Ayduk, Berman, Casey, Gotlib, et al., 2011). In questi studi sperimentali ormai famosi, ai bambini in età prescolare veniva presentato un dolcetto gustoso e veniva detto loro che potevano mangiarlo subito o, in alternativa, ricevere due dolcetti in un secondo momento, se fossero riusciti ad aspettare e, quindi, ritardare la gratificazione. Nella descrizione dell’esperimento, Mischel riferisce che i bambini differiscono nella loro capacità di ritardare la gratificazione, che va dal non essere assolutamente in grado di aspettare, all’aspettare tutto il tempo previsto dallo sperimentatore (utilizzando anche una varietà di strategie spontanee per rendere più tollerabile l’attesa). Successivamente Mischel (2011) ha riferito che i bambini in età prescolare che sono stati in grado di ritardare la gratificazione più a lungo (aspettando una ricompensa più grande piuttosto che cedere immediatamente alla ricompensa più piccola) in seguito hanno ottenuto punteggi più alti ai test accademici, hanno avuto un migliore adattamento socio-cognitivo ed emotivo durante l’adolescenza e, cosa importante, avevano meno probabilità di usare sostanze come, in particolare, cocaina in età adulta. Questo lavoro evidenzia come le differenze individuali nella regolazione delle emozioni possano precedere lo sviluppo di un Disturbo da Uso di Sostanze, e possano quindi essere concettualizzate come un fattore di rischio che predice l’insorgenza della malattia.

Negli anni successivi alla pubblicazione del lavoro di Mischel e colleghi, sono stati raccolti altri dati sperimentali che suggeriscono come lo scarso autocontrollo in età infantile possa effettivamente essere un fattore di rischio per l’uso di sostanze e l’insorgenza di un Disturbo da Uso di Sostanze in età adulta. Per esempio, Moffitt e colleghi (2011) hanno seguito 1.000 bambini dalla nascita ai 32 anni. Durante l’infanzia, i partecipanti sono stati valutati su varie misure di autocontrollo relative alla regolazione delle emozioni, tra cui labilità emotiva, tolleranza alla frustrazione e persistenza. Gli autori riferiscono che le differenze individuali nella capacità di autocontrollo erano significativamente predittive degli esiti di salute in età adulta, tra cui l’uso e la dipendenza da sostanze, fino a 30 anni dopo.

La Disregolazione delle Emozioni

La Disregolazione delle Emozioni è un costrutto multidimensionale, che descrive l’incapacità dell’individuo di controllare o modulare gli stati emotivi (Gratz & Roemer, 2004), e rappresenta un fattore transdiagnostico per molte psicopatologie.

Diversi modelli esplicativi del Disturbo da Uso di Sostanze considerano la Disregolazione delle Emozioni come una caratteristica implicata nell’uso continuativo di sostanze e uno degli elementi responsabili delle ricadute, giocando quindi un ruolo significativo sia come fattore di rischio precoce (Moffitt et al., 2011) che come fattore di mantenimento (Kober e Gross, 2014). Ad esempio, il Modello di Prevenzione delle Ricadute (Marlatt & Witkiewitz, 2005), il Modello del Rinforzo Negativo (Baker, Piper, McCarthy, Majeskie, & Fiore, 2004), e il Modello del Self Medication (Khantzian, 1985), tra gli altri, chiamano direttamente in causa il processo di regolazione carente come motivo chiave e primario nella spiegazione di un uso problematico di sostanze e della ricaduta.

Spesso i consumatori di sostanze sviluppano aspettative positive riguardo l’uso, per esempio “se bevo, mi sentirò bene”, che sono associate a un maggiore utilizzo e a un maggiore rischio di sviluppare un vero e proprio disturbo (Jones, Corbin, & Fromme, 2001). Oltre alle aspettative riguardo alle emozioni positive, diverse sostanze sono associate a un decremento degli stati emotivi negativi, come l’ansia con l’alcol e i farmaci ansiolitici, la tristezza e la depressione con gli stimolanti come la cocaina e le anfetamine, il dolore con l’eroina, la morfina e altri oppiacei sintetici. In considerazione di ciò, è stato proposto che gli effetti di riduzione dell’Affettività Negativa da parte delle sostanze funzionino da rinforzo negativo, aumentando così la probabilità di un successivo utilizzo (Koob & Le Moal, 2008).

Questa idea è stata inizialmente resa popolare dal Modello del Self Medication proposto da Khantzian (1985), caratterizzato da due componenti principali: (1) gli stati affettivi spiacevoli predispongono gli individui all’uso di sostanze, e (2) quelli con una particolare predisposizione agli stati affettivi negativi hanno maggiori probabilità di sviluppare un Disturbo da Uso di Sostanze verso una sostanza in grado di invertire su quei particolari stati affettivi.

Sebbene l’ipotesi dell’automedicazione sia stata messa in discussione, diverse linee di ricerca supportano l’ipotesi che l’uso di sostanze serva a regolare l’affettività negativa. In primo luogo, il Disturbo da Uso di Sostanze frequentemente co-occorre con una serie di altri disturbi psichiatrici, in particolare i disturbi dell’umore e dell’ansia. Inoltre, le diagnosi psichiatriche preesistenti aumentano la probabilità che un individuo sviluppi successivamente un Disturbo da Uso di Sostanze (Kessler et al., 2005). In secondo luogo, le persone con dolore cronico sembrano avere molte più probabilità di sviluppare Disturbo da Uso di Sostanze rispetto alla popolazione generale, soprattutto per quanto riguarda i farmaci antidolorifici come gli oppiacei (Morasco et al., 2011). In terzo luogo, anche livelli tipici di affettività negativa sono correlati all’uso di droghe. Per esempio, i livelli di rabbia e ansia di tratto sono correlati al desiderio di bere negli alcolisti (Litt, Cooney, & Morse, 2000). Infine, gli stati affettivi negativi possono essere considerati alcuni dei fattori scatenanti del craving nel contesto d’uso sia occasionale che problematico di sostanze.

L’Intolleranza all’Incertezza

L’Intolleranza all’Incertezza è definita come “la capacità dispositiva di un individuo di sopportare la reazione avversa innescata dalla assenza percepita di informazioni chiave e sufficienti, e sostenuta dalla percezione associata di incertezza” (Carleton, 2016) e, in maniera simile alla Disregolazione delle Emozioni, è considerata un fattore di vulnerabilità transdiagnostica per diversi disturbi emotivi.

In circostanze incerte, le persone con un alto livello di intolleranza all’incertezza sperimentano pensieri ed emozioni negative che le spingono a mettere in atto comportamenti che portano alla riduzione dell’incertezza. Le persone intolleranti all’incertezza sono inclini a sperimentare difficoltà nell’identificare quali emozioni provano, e tendono a interpretare con ambiguità le emozioni come fastidiose e indesiderabili. L’intolleranza all’incertezza potrebbe inoltre promuovere un comportamento impulsivo in risposta all’incertezza: a lungo termine, la cessazione immediata dell’incertezza e del relativo disagio potrebbe rafforzare strategie di coping impulsivo e le stesse credenze di intolleranza.

Per quanto riguarda la relazione tra Intolleranza all’Incertezza e l’uso di sostanze per regolare le emozioni, Kraemer et al. (2015) e Oglesby et al. (2015) hanno indagato l’associazione tra Intolleranza all’Incertezza e i motivi dell’uso di alcol in laureati non clinici; entrambi gli studi hanno mostrato che l’Intolleranza all’Incertezza prediceva il bere come modalità per gestire o evitare emozioni negative.

Garami et al. (2017) hanno scoperto che i pazienti dipendenti da oppioidi, sottoposti a terapia di mantenimento con metadone, avevano un tasso di Intolleranza all’Incertezza più elevato rispetto agli individui non clinici.

In conclusione, l’uso problematico di sostanze e il Disturbo da Uso di Sostanze potrebbe essere considerato una strategia di coping maladattivo che ha lo scopo di ridurre l’affettività negativa in assenza di strategie di regolazione delle emozioni più adeguate. L’approccio della CBT consente di incrementare le abilità di riconoscimento e padroneggiamento dell’esperienza emotiva soggettiva attraverso una serie di tecniche cognitive e comportamentali di comprovata efficacia, come il dialogo socratico, l’automonitoraggio, le tecniche di distrazione, gli esperimenti comportamentali, la gestione delle contingenze, il monitoraggio delle attività.

 

Imprinting tra etologia e neuroscienze

In etologia, ancora oggi con il termine imprinting si indica una particolare forma di apprendimento precoce, con cui un animale concentra la sua preferenza sociale verso un oggetto a cui è stato esposto subito dopo la nascita.

 

Cosa è l’imprinting?

L’imprinting è uno dei costrutti più rilevanti per gli studiosi del comportamento.

Inizialmente fu studiato dal naturalista inglese Spalding nel 1873 e, in seguito, fu ripreso dall’etologo austriaco Konrad Lorenz per indicare quel fenomeno per cui gli uccelli appena usciti dal guscio seguono il primo oggetto che vedono in movimento comportandosi nei suoi confronti come con la madre (Galimberti, 2018).

In etologia, ancora oggi con questo termine si indica una particolare forma di apprendimento precoce, con cui un animale concentra la sua preferenza sociale verso un oggetto a cui è stato esposto subito dopo la nascita, in una breve fase indicata come “periodo sensibile” o “periodo critico”. È riscontrabile specialmente negli uccelli ma anche nei mammiferi, i quali riconoscono e seguono la madre o un surrogato di questa, che può essere un altro animale o un qualsiasi oggetto in movimento. Ciò ha una funzione legata alla sopravvivenza, in quanto permette di riconoscere e rimanere vicini al genitore, così da evitare di essere attaccati (McCabe, 2013).

L’imprinting può essere relativamente irreversibile e influisce anche sullo sviluppo dell’animale nella maturità, esercitando un ruolo fondamentale perfino sul comportamento della vita adulta per quanto riguarda il rapporto del genitore con la prole e la vita sessuale: infatti, l’oggetto dell’imprinting verrà corteggiato in età adulta, anche nel caso di un oggetto, come se si trattasse di un proprio conspecifico (McCabe, 2013; Galimberti 2018).

Dai primi studi di Lorenz sull’oca Martina a ipotesi più recenti

Quando si parla di imprinting non si può non far riferimento a Konrad Lorenz, al quale è stato assegnato il Premio Nobel proprio per i suoi studi su questo fenomeno.

L’oca Martina, di cui l’autore ha raccontato nella sua celebre opera “L’anello di re Salomone”, è divenuta simbolo delle sue ricerche: Lorenz, infatti, racconta di come Martina avesse identificato in lui la propria madre, seguendolo ovunque per mesi fino all’età adulta.

Lorenz elaborò sin dal 1935 il concetto di imprinting, che poi ha definito come «la fissazione di un istinto innato su un determinato oggetto», osservando che «nelle anatre selvatiche il processo di imprinting che ferma l’azione del seguire è ridotto a poche ore. Proprio per essere circoscritto a una determinata fase di sviluppo e per la sua irrevocabilità l’imprinting si differenzia da altre forme d’apprendimento» (Lorenz et al., 1990).

Ma per quale motivo differisce dalle altre tipologie di apprendimento? Per tre aspetti fondamentali: in primis non necessita di ricompensa, non è soggetto alla generalizzazione dello stimolo e, infine, non muta per tutto il ciclo di vita.

Tuttavia, studi più recenti contestano l’irreversibilità dell’imprinting, che in condizioni particolari può essere sostituito da un nuovo stimolo. Si ipotizza, inoltre, che la durata del periodo critico non sia fissa, bensì differisca a seconda della specie e delle condizioni ambientali.

Recentemente l’ipotesi è stata estesa altresì al comportamento umano fino a supporre che l’assenza di stimoli adeguati nel periodo sensibile possa essere alla base di alcune forme di ritardo mentale (Bateson, 1966; Lorenz, 2012; Galimberti 2018).

Le basi neurali dell’imprinting

Da studi sul pulcino domestico sono state ottenute informazioni sui meccanismi neurali alla base dell’imprinting filiale a uno stimolo visivo o uditivo.

Si è scoperto che una regione ristretta all’interno del proencefalo è fondamentale per l’imprinting di uno stimolo visivo. Tale area originariamente nota come parte intermedia e mediale dell’iperstriato ventrale (IMHV), è stata successivamente definita mesopallio intermedio e mediale (IMM) (Horn, 1985; Reiner et al., 2004).

L’ablazione bilaterale, ossia l’asportazione in entrambi gli emisferi, dell’IMM prima dell’esposizione a uno stimolo di imprinting impedisce l’acquisizione della preferenza e lo stesso intervento fino a tre ore dopo l’avvenuto imprinting rende i pulcini amnesici per lo stimolo dell’imprinting (McCabe et al., 1982).

Per quanto riguarda gli stimoli uditivi, invece, i pulcini domestici sviluppano una preferenza per il richiamo materno di una gallina e per gli stimoli dal tono ritmico in seguito all’esposizione a questi. Cambiamenti neurali successivi all’imprinting agli stimoli tonali sono stati rilevati nel mediorostrale nidopallium/mesopallium (MNM; precedentemente il medio-rostrale neostriatum/hyperstriatum ventrale o MNH), e comprendono un aumento dell’assorbimento di 2-fluorodesossiglucosio, riduzione della densità numerica delle sinapsi, e cambiamenti nel rilascio di glutammato e nell’attività elettrofisiologica (Maier & Scheich, 1983; Wallhauser &, Scheich, 1987; Bredenkotter & Braun, 2000).

Evidentemente l’elaborazione della memoria dopo l’esposizione allo stimolo coinvolge diverse regioni del cervello, a seconda della modalità impiegata per la procedura di imprinting (McCabe, 2013).

Ma cosa sappiamo delle basi neurali dell’imprinting nei mammiferi?

Nei mammiferi si parla di fenomeni di apprendimento precoce di tipo imprinting, ma non è stata identificata un’area “imprinting-specifica”.

Studi condotti sui topi mostrano come il riconoscimento della madre si basi principalmente su stimoli olfattivi, pertanto gioca un ruolo centrale il bulbo olfattivo.

Infatti, lo sviluppo dell’attaccamento alla madre è su base olfattiva nel ratto, con cambiamenti neurali a livello del bulbo olfattivo a seguito della presentazione di un odore legato al nido, sia naturale che artificiale.

È importante perfino la noradrenalina: un’infusione di quest’ultima a livello del bulbo olfattivo durante la presentazione di uno stimolo odoroso è sufficiente ad indurre l’acquisizione della preferenza per quell’odore nel piccolo di ratto. Un effetto analogo si ottiene accoppiando un odore con la stimolazione elettrica delle afferenze noradrenergiche al bulbo olfattivo.

Viceversa, il blocco dei recettori ß per la noradrenalina a livello del bulbo olfattivo o le lesioni del locus coeruleus impediscono un normale condizionamento associativo su base olfattiva (Marazziti, Roncaglia, Piccinni, 2008).

Concludendo, l’imprinting è stato ampiamente studiato non solo dal punto di vista dell’etologia, ma anche della psicologia sperimentale e delle neuroscienze. Inoltre, continua a contribuire a tutte queste discipline, dimostrandosi rilevante nello studio dei meccanismi neurali dell’apprendimento e della memoria (McCabe, 2013).

Cyberbullismo e sexting (2020) di Andrea Bilotto e Iacopo Casadei – Recensione

Il cyberbullismo deriva da cyberbullying, ossia bullismo digitale; rispetto al bullismo cambia il mezzo attraverso cui la vittima viene colpita da messaggi colmi di ogni forma denigratoria, offensiva e lesiva per la sua reputazione.

 

Il mondo virtuale, proprio per le sue caratteristiche aleatorie, potrebbe trarre in inganno molti di noi adulti e farci credere di essere superficiale, proprio perché non reale.

Grandissimo errore che può davvero costare la salute, in alcuni casi addirittura la vita, dei nostri figli o nipoti, spesso aggrappati ad un mondo fittizio, per svariati motivi: noia, mancanza o carenza di relazioni affettive, moda, paura, identità fragile. Ma se da una parte la connessione permette di superare il limite di tempo e spazio, dall’altra abitua le persone a non cercare più il vero contatto con l’altro, bensì uno schermo, attraverso cui sentirsi liberi di essere anche chi non si è. In questa era dell’illusorio, quelle forme già complesse di conflitto tra giovani, come il bullismo, possono davvero diventare pericolose per la stessa vita. Trasferire tale fenomeno nel web porta a conseguenze molto più gravose, soprattutto per la velocità della trasmissione delle informazioni e per la facilità con cui si può raggiungere la persona che si desidera colpire; persona che rimane letteralmente invischiata e incapace di liberarsi dalla tela costruita da questo macchinoso mondo virtuale che spesso, anziché placare, stimola quella forma di aggressività insita in ogni essere umano, che, se pur digitalizzata, è in grado di sferzare i colpi più duri e più pericolosi.

Quanto può essere potente la comunicazione?

In letteratura esistono numerose conferme a riguardo, ma attenzione che questo strumento così efficace può “far male più delle botte” (parole scritte da Carolina Picchio, citata nel testo, che ne ha pagate le conseguenze, suicidandosi all’età di 14 anni), se sfrutta il canale dei social, la cui presenza invasiva è ormai indiscussa.

Il cyberbullismo deriva da cyberbullying, ossia bullismo digitale, termine coniato dal canadese Bill Belsey nel 2004. Rispetto al bullismo cambia il mezzo attraverso cui la vittima viene colpita da messaggi colmi di ogni forma denigratoria, offensiva e lesiva per la sua reputazione. Mezzo attraverso cui si può diffondere a macchia d’olio un sms o un’immagine o addirittura un filmato sicuramente in maniera intenzionale, intenzionalità che sfugge, però, perfino all’autore dell’atto, diventando una potente arma contro l’altro, incapace di difendersi. In effetti il mezzo, ovvero il web, sfrutta la sua popolarità e la sua influenza, per diffondere male contro chi, magari per ingenuità, si ritrova ad essere il bersaglio in un preciso istante che diventa però, per lui, un’eternità. Gli autori, partendo dalle origini del bullismo, analizzano il contesto dell’era moderna, ormai immerso in un magma di follower, spesso dipendenti dalla stessa realtà illusoria (si parla, infatti, di Social Network Addiction o Friendship Addiction), realtà che mette in luce un profondo disagio nei giovani adolescenti, più propensi a chiedersi dove sia finito il proprio cellulare, piuttosto che farsi carico di domande esistenziali da sempre poste dall’uomo, sulla propria identità. Tale dipendenza, spiegano gli autori, mette in luce il forte senso di insicurezza dei giovani d’oggi che tentano di soffocarlo nell’apparenza delle cose, attraverso quella forma nuova di narcisismo digitale, in cui quel che conta è il numero di follower o i “mi piace” dei social. Ossia la mia identità dipende dal numero di click che ricevo, anche a scapito dell’altro, perché sono colpito da quel desiderio irrefrenabile di esibizione che prevarica su ogni forma di rispetto e di comprensione. Il mio essere preferisce vivere all’apparenza piuttosto che cercare la sostanza, galleggia sulla superficie per paura della profondità. D’altronde, come ben si mette in evidenza nel testo, su quel «Colosseo globale» rappresentato dai social, una persona apparentemente sicura di sé colpisce un’altra, anche in maniera spietata, ricevendo perfino il supporto diretto o indiretto di una massa di individui anonimi e frustrati che non fa che alimentare il fuoco della cattiveria e dell’aggressività. Perché, non si sa per quale arcano motivo, le persone in rete amano stare più dove prevalgono liti, polemiche e conflitti, piuttosto che in contesti dove si diffondono messaggi positivi e sani.

Nel primo capitolo, a partire dall’analisi delle origini dell’aggressività e del bullismo, si mette in evidenza quanto accade quando quest’ultimo viene portato sulla rete, informando il lettore su quei fenomeni di cyberbullismo nati proprio in questo mondo virtuale, che colpiscono maggiormente il genere femminile: dal sexting, ossia l’inviare foto in pose sexy, spesso in unione a messaggi o video dai contenuti sessualmente espliciti,-sempre testimonianza della fragilità adolescenziale e del bisogno di mettersi in mostra per essere ed esserci- al Revenge porn purtroppo il passo è breve. Quell’imprudente sexting si trasforma in una potente arma contro la stessa ragazza che ritrova le sue foto sul web, diffuse in un nano secondo, magari dal suo stesso ex fidanzato, allo scopo di danneggiarne la reputazione. Un fenomeno altamente preoccupante, indice di allarme sia per i genitori che per gli educatori. E su questo punto gli autori tornano più volte, mettendo in evidenza la necessità, in un momento storico così confuso, di un’educazione sana e profonda ai sentimenti, un’alfabetizzazione emotiva che deve partire dall’infanzia, per far sì che il bambino impari a conoscere i propri stati mentali, ma anche quelli altrui, unica maniera per riuscire a “mettersi nei panni dell’altro” e costruire così relazioni sane e reali. Un messaggio importante traspare dalla lettura del testo, ossia la ricerca della propria identità e della propria felicità in sé stessi e non negli altri, la costruzione del proprio essere attraverso la qualità e non la quantità effimera di amici, molto semplicemente meglio “pochi ma buoni”.

Nel secondo capitolo si affronta l’analisi della figura del bullo e di quella della vittima, del cyberbullo e della cybervittima, cercando di delineare anche le principali caratteristiche presenti nelle famiglie di origine. Se si pensa, bullo e vittima potrebbero essere definiti come le due facce di una stessa medaglia, in quanto entrambi risentono fortemente di un’identità poco definita ed estremamente fragile. Da una parte il bullo, nella definizione del proprio status adolescenziale, tenta di ottenere una conferma nella sua posizione sociale attraverso le sue malefatte, non rendendosi conto della futilità dei vantaggi perseguiti. Dall’altro la vittima, spesso ha difficoltà relazionali con i compagni di classe, un senso di non appartenenza al gruppo dei pari e anche possibili problematiche di carattere psicosomatico o ansia e depressione; tutto questo porta la stessa, presa in giro dai suoi coetanei, a rispondere in maniera aggressiva o offensiva, incapace di gestire quella rabbia repressa che spesso sfocia in altrettanta cattiveria. Per quanto concerne le famiglie delle due parti, ben si evidenzia nel testo quali fattori possano interagire con le singole caratteristiche dell’individuo e del contesto, contribuendo a formare le due figure citate. Nella famiglia della vittima si evidenziano una scarsa comunicazione, spesso uno stile genitoriale troppo permissivo ed una eccessiva preoccupazione per il proprio figlio, che possono essere considerati fattori predittivi della condizione di vittima. Nella famiglia del bullo la letteratura evidenzia atteggiamenti dei caregiver privi o carenti di affetto e coinvolgimento, scarsa coesione e mancata comunicazione (Bowers, Smith e Binney, 1992), ma anche possibili tendenze paranoidi, attacchi verso l’altro, assenza di senso di colpa (Patterson et al., 1984; Ross, 1996). Proprio in virtù di questa analisi approfondita, gli autori sottolineano la necessità da parte dei famigliari e della scuola di un intervento atto a far comprendere e definire i limiti da non superare, senza atteggiamenti estremamente coercitivi, ma nemmeno troppo permissivi, in continua armonia ed accordo tra le due parti, ponendo l’accento su quella «sintonizzazione emotiva» fondamentale nello sviluppo e nella crescita del singolo individuo. Oltre a tali figure, viene anche delineato il profilo dell’osservatore, che nelle varie declinazioni, ossia sostenitore, spettatore neutrale, difensore della vittima, è presente sullo scenario come partecipante e dunque fattore interagente nei fenomeni di bullismo e cyberbullismo.

Nel terzo capitolo i due autori propongono un metodo di intervento definito «metodo antibullismo 7C», dove regna sovrana la capacità genitoriale ed educativa di saper insegnare ai bimbi, fin dalle elementari, a gestire le emozioni, anche rispetto a probabili prese in giro che caratterizzano la quotidianità, affinché apprendano a gestire anche piccole frustrazioni, momenti di difficoltà relazionale, per non divenire succubi degli eventi. Tutto questo, però, come ben sottolineano gli autori, deve partire innanzitutto dalla famiglia, un modello essenziale che il bambino prende come punto di riferimento e che pertanto non può caricarsi di contraddizioni, ma deve essere essa stessa capace di lavorare sulle proprie emozioni. Il metodo antibullismo 7C si caratterizza da parole chiave come consapevolezza, mantenere la calma, avere conoscenza di sé, comprensione dell’altro, ristrutturazione cognitiva della presa in giro, creatività e importanza nel far leva sul gruppo classe, anche attraverso dei piccoli giochi di role playing sia a casa che a scuola, che permettono al bambino di imparare a gestire situazioni di difficoltà, cercando di mantenere un atteggiamento empatico, gentile e assertivo.

Nel quarto e ultimo capitolo gli autori, a partire dal concetto di Losada Line, così definito dal nome dello psicologo cileno Marcia Losada che collaborò in una ricerca in ambito lavorativo con Barbara Fredrickson, puntano sulla presa di coscienza da parte del lettore della necessità di una maggior numero di pensieri positivi per riuscire a controbilanciare quelli negativi. La società attuale, in effetti, è concentrata su quelle che sono notizie di cronaca nera, scandali, violenza, che ricevono maggior audience da parte delle persone, con il rischio che gli stessi giovani finiscano per prediligere comportamenti volti alla trasgressione e alla violenza. È necessario, spiegano i due autori, poggiare su una psicologia positiva che cerchi di «immunizzare i figli dal bullismo». Un metodo che, sulla base di quanto detto, punti sulla prevenzione da fenomeni come il bullismo e il cyberbullismo, attraverso buoni insegnamenti come il fare bene agli altri, cercando nel possibile di non essere mai prevenuti o avere pregiudizi rispetto ai comportamenti altrui e, dunque, cercando di imparare a gestire e a trattenere gli istinti e l’irrazionalità a favore di un maggiore desiderio di conoscenza dell’altro, di una maggiore propensione a fare del bene, ispirati dalla voglia di cogliere nella vita quello che di bello esiste e non fossilizzandosi su quanto di negativo ci circonda. Vorrei riportare una frase del libro attraverso cui gli autori, citando A. de Botton, riassumono in maniera incantevole quanto di importante è stato analizzato in questo capitolo: «La notte è ancora più riccamente colorata del giorno… Se solo vi presti attenzione, ti avvedi che talune stelle sono giallo limone, altre emettono un chiarore rosato, altre irradiano aloni verdastri, azzurrini e blu nontiscordardimé».

Si tratta di un testo sicuramente rivolto a tutti, esperti e non, che permette al lettore di approfondire problematiche fortemente attuali, allo scopo di comprenderle e aiutare i nostri figli, nipoti, alunni a rendersene «immuni».

Le miocarditi da vaccino Covid sono rarissime, molto peggio quelle causate dal Virus. Vaccinarsi è fondamentale – Comunicato Stampa

Noi adulti siamo cavalieri con lo scudo, siamo l’unico scudo per proteggere i nostri figli, per questo fare il vaccino contro il Covid è fondamentale.

Comunicato Stampa

 

I medici della Cardiologia e Cardiochirurgia pediatrica dell’IRCCS Policlinico di S. Orsola in occasione della Giornata Mondiale del Cuore: “Dobbiamo proteggere i nostri bambini, con il vaccino.” “Le mamme incinta, cardiopatiche? Devono vaccinarsi”. “Il rischio di miocarditi da vaccino? E’ rarissimo”. “Molto peggio contrarre la malattia ed avere a seguito un interessamento cardiaco”.

“Vaccino sì. Terza dose, assolutamente sì”.

La dott.ssa Emanuela Angeli, cardiochiururgo pediatrico presso le Unità Operative di Cardiologia e Cardiochirurgia Pediatrica e dell’Età evolutiva dell’IRCCS Policlinico di Sant’Orsola a Bologna, non ha dubbi al riguardo.

“Il rischio delle miocarditi causate dal Covid è sicuramente più elevato rispetto al rischio delle miocarditi a cui può dare seguito il vaccino”. “Se i reparti oggi non sono in crisi – aggiunge il dott. Luca Ragni, cardiologo pediatrico presso le stesse Unità Operative – è proprio grazie al vaccino. Senza vaccino, con la variante Delta saremmo tornati ad una situazione drammatica. Questo è un dato oggettivo. La nostra indicazione è che il vaccino si deve fare, la terza dosa si deve fare: la probabilità di avere una miocardite a causa del vaccino o di avere complicanze è rarissima, è molto peggio contrarre la malattia ed avere a seguito un interessamento cardiaco. Questa è un’informazione reale”.

Dalla letteratura – spiega la dott.ssa Angeli  – emerge che la frequenza delle miocarditi a seguito del vaccino equivale ad 1 ogni 6 mila bambini. La frequenza delle miocarditi che si verificano nei pazienti che contraggono il Covid è indubbiamente molto più elevata.

Per promuovere la Giornata Mondiale del Cuore, il dott. Ragni e la dott.ssa Angeli hanno preso parte domenica 26 settembre ad un incontro sul tema “vaccini e cardiopatie”, organizzato dall’associazione Piccoli Grandi Cuori insieme all’IRCCS Policlinico di Sant’Orsola per sensibilizzare rispetto all’importanza della vaccinazione e chiarire alcuni dubbi in merito. “Rispondere con coscienza come medici è il massimo che possiamo fare” sottolinea la dott.ssa Angeli. Al momento non esiste ancora una letteratura esaustiva su questo argomento, ci sono tanti dati ed esperienze satellite, che sui media hanno una cassa di risonanza enorme.”

Nel corso di questi mesi di emergenza sanitaria la dott.ssa Angeli e il dott. Ragni hanno ricevuto centinaia e centinaia di e mail dai pazienti stessi e dai genitori dei pazienti cardiopatici: l’idea, come spiega la presidente Piccoli Grandi Cuori Paola Montanari – ci è venuta proprio per fornire un servizio in più alle nostre famiglie, grazie alla disponibilità dei nostri dottori. Per le famiglie è stato molto rassicurante sapere di poter chiamare in qualsiasi momento in Reparto e prendere contatto con il medico di riferimento.

“In questi mesi siamo stati sommersi dalle richieste di genitori – sottolinea il dott. Ragni –  che non sapevano assolutamente come orientarsi, occupandoci di cuore le domande sono molto centrate poiché si sentono notizie sul fatto che i vaccini possono causare miocardite o risentimenti cardiaci, ma laddove siano mirate ad altri temi ci avvaliamo di colleghi infettivologi e immunologi che ci forniscono le risposte più appropriate da fornire”.

Un bambino cardiopatico ha la stessa probabilità di prendere l’infezione di un bambino non cardiopatico?

“Assolutamente sì, – risponde il dott. Ragni – il sistema immunitario funziona allo stesso modo. I bambini cardiopatici si possono contagiare allo stesso modo di quelli non cardiopatici, il problema è che se il cardiopatico a seguito del contagio dovesse avere degli esiti importanti come la broncopolmonite interstiziale, quel cuore non riuscirebbe a far fronte alla malattia come un cuore “normale”. E quindi la guarigione sarebbe molto più complessa”.

Una donna incinta cardiopatica deve vaccinarsi? “Assolutamente sì”.

Paura della trombosi? “Molti pazienti cardiopatici fanno terapie anticoagulanti croniche e non ci sono mai stati problemi col vaccino”.

“Grazie all’analisi di queste domande e ai dati raccolti, – spiega la dott.ssa Angeli – stiamo cercando di capire quale sia l’incidenza del Covid sui bambini post operati e anche come si sono contagiati. Per noi è interessante capire di che cosa hanno avuto bisogno quando hanno contratto il Covid, quanti di loro sono stati ricoverati, quanti con patologie gravi, quanti hanno gestito la malattia a casa. Dal nostro studio interno è emerso che su un campione di 1.000 pazienti cardiopatici operati, di età eterogenea, l’8,6% ha avuto il Covid.

Se ci soffermiamo sui ragazzi e bambini al di sotto dei 18 anni, il 5% ha contratto il Covid. I nostri pazienti che hanno avuto il Covid tutto sommato sono stati bene, durante le visite ambulatoriali, in molti casi, il fatto di aver contratto il virus è emersa come informazione marginale. In questi mesi durante i colloqui cardiochirurgici mi è capitato che genitori chiedessero “dottoressa, ma io mi devo vaccinare per mio figlio?”. La mia risposta è sempre stata affermativa. Do loro la risposta che ho pensato per me stessa quando lavoravamo sotto emergenza totale e c’era tanto Covid: noi medici e adulti siamo cavalieri con lo scudo, siamo l’unico scudo che rimane per proteggere i nostri figli. Avere dubbi sul vaccino è lecito, ma in questo momento è l’unica arma che abbiamo, e non c’è tempo. Soprattutto se parliamo di bambini sotto i 12 anni, che non hanno gli strumenti per “difendersi”, l’unico scudo di protezione siamo noi adulti. Credo che ogni perplessità debba decadere nel momento in cui si sappiamo che vaccinarsi significa proteggere i nostri figli e quelli degli altri”.

“È un fatto di responsabilità”, aggiunge il dott. Ragni. “Ogni giorno ci troviamo di fronte a bambini piccolissimi e genitori che lottano per la sopravvivenza, è inconcepibile pensare che ci possano essere dubbi e che, qualcosa che ti può far stare bene, non sia presa in considerazione” conclude la dott.ssa Angeli.

 

Il ruolo del perfezionismo e della percezione del controllo nello stress post-traumatico

Per il sottoinsieme di persone con PTSD associato a perfezionismo socialmente prescritto, potrebbe essere vantaggioso effettuare un focus esplicito sul perfezionismo e sui temi ad esso associati.

 

La ricerca epidemiologica ha indicato che l’esposizione a eventi traumatici è relativamente comune, con stime che vanno dal 20% all’83% attualmente in crescita, a seguito della pandemia da COVID-19 (Breslau et al., 1998; Molnar et al., 2020). Tuttavia, la prevalenza del disturbo da stress post-traumatico (PTSD) tende ad essere relativamente bassa, con tassi di prevalenza che vanno dal 1% al 9% in Italia (EMDRia, 2020). Questi dati si aggiungono al corpus di evidenze sulla base del quale è stato ipotizzato che l’esperienza di eventi traumatici non sia sempre il principale fattore eziologico nello sviluppo del disturbo da stress post-traumatico (Johnson e Thompson 2008). Alla luce delle prove che suggeriscono che i tratti della personalità svolgono un ruolo importante nella vulnerabilità alla sintomatologia del disturbo da stress post-traumatico (Jaksic et al. 2012), Molnar e colleghi hanno cercato di esaminare le associazioni tra le dimensioni del perfezionismo di tratto e i sintomi del disturbo da stress post-traumatico (PTSD) in un campione comunitario di adulti che avevano subito almeno un evento traumatico (Molnar et al., 2020). Gli autori si sono inoltre proposti di determinare se le associazioni tra le dimensioni del perfezionismo di tratto e la sintomatologia del disturbo da stress post-traumatico variassero in funzione del grado di controllo percepito da ciascun soggetto. Il campione era composto da 161 adulti (57% donne; M = 33,24 anni) che avevano sperimentato almeno un evento traumatico nella loro vita. Essi hanno completato questionari di autovalutazione relativi a: perfezionismo di tratto, controllo percepito, personalità e sintomatologia da stress post-traumatico.

I risultati delle analisi statistiche hanno portato alla luce una particolare declinazione del perfezionismo, ovvero quello socialmente prescritto, vale a dire la convinzione che gli altri possano avere standard elevati sulla propria persona, mostrando come questo fosse associato a livelli più elevati di sintomatologia da stress post-traumatico. Questa scoperta è stata confermata dalla rilevazione di una significativa interazione con il controllo percepito, tale per cui livelli più elevati di perfezionismo socialmente prescritto erano associati a una maggiore sintomatologia da stress post-traumatico solo in condizioni di basso controllo percepito (Molnar et al., 2020). Questa interazione è comprensibile, in quanto la ricerca sull’argomento ha stabilito che individui con livelli più alti di perfezionismo socialmente prescritto tendono anche a mostrare un deficit nelle capacità di regolazione cognitivo-emotiva, mostrando abilità di coping disadattive (Rudolph et al. 2007). Queste persone tendono a sentirsi controllate dalle aspettative degli altri e spesso si trovano di fronte alla consapevolezza di non essere all’altezza delle elevate aspettative che percepiscono come imposte loro. Gli individui in questa situazione che sentono di non avere il controllo, e il cui senso di autoefficacia è presumibilmente diminuito, sono persone che, con ogni probabilità, si sentono sopraffatte dal precedente stress traumatico esperito, affrontando la credenza di non essere in grado di soddisfare standard sociali elevati (Molnar et al., 2020).

Lo studio del team di Molnar presenta implicazioni pratiche per il trattamento del PTSD. Per il sottoinsieme di persone con PTSD associato a perfezionismo socialmente prescritto, potrebbe essere vantaggioso effettuare un focus esplicito sul perfezionismo e sui temi ad esso associati. Poiché la terapia cognitivo-comportamentale è una delle terapie più raccomandate per il disturbo da stress post-traumatico, i risultati di Molnar indicano che i terapeuti trarrebbero beneficio dal prestare particolare attenzione alle cognizioni disadattive associate al perfezionismo prescritto dalla società. Inoltre, sono stati evidenziati benefici della promozione della consapevolezza tra i perfezionisti vulnerabili (Flett et al., 2020), per questo motivo, gli autori propongono anche interventi di tipo mindfulness per questo particolare problema (Molnar et al., 2020).

In conclusione, i risultati suggeriscono che gli individui con un più alto perfezionismo socialmente prescritto potrebbero essere particolarmente vulnerabili ai sintomi del PTSD dopo aver subito un trauma. Presumibilmente, questi individui trarrebbero beneficio dai tentativi di rafforzare i loro livelli di resilienza prima di essere esposti a situazioni di vita che potrebbero comportare l’esperienza di fattori di stress traumatici.

Quanto siamo influenzati dalle recensioni online – Psicologia Digitale

Le recensioni online sono una forma di passaparola digitale che permette ai consumatori di formarsi un’idea e delle aspettative ed influenza la loro intenzione di acquisto.

PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr. 23) Quanto siamo influenzati dalle recensioni online

 

Quando ci troviamo a scegliere un ristorante, un hotel, se acquistare o meno un prodotto, immancabilmente finiamo col leggere le recensioni. Oltre ad altri indicatori che orientano le nostre scelte (è lontano? È facilmente raggiungibile? Quanto costa?), un peso maggiore di quanto immaginiamo lo hanno i giudizi espressi da altri che ci sono passati prima di noi.

Le recensioni possono essere in varia forma: testuali, fotografiche, con un voto espresso in numeri o stelline; ma quello che realmente ci importa è che ci siano, tanto che quando non ne troviamo passiamo subito oltre.

L’importanza delle recensioni

Innanzitutto è importante notare che, a prescindere dal fatto che le recensioni siano negative o positive, basta che ci siano. Infatti sono ritenute un indicatore di popolarità, danno la percezione che il servizio o prodotto sia conosciuto, forniscono informazioni aggiuntive, incrementano fiducia e reputazione del brand, riducono l’incertezza e il rischio percepito e innescano l’effetto ‘go with the crowd’, ovvero la tendenza a fare quello che fanno tutti gli altri, a seguire la massa insomma (De Pelsmacker et al., 2018).

Le recensioni online sono una forma di passaparola digitale (electronic word-of-mouth, eWOM) che permette ai consumatori di formarsi un’idea e delle aspettative ed influenza la loro intenzione di acquisto. Questo meccanismo riguarda qualsiasi prodotto o servizio: libri, film, giochi, hotel, ristoranti, ecc. L’opinione di altri consumatori che pubblicano le loro esperienze tramite recensioni online fornisce informazioni da una fonte che viene percepita come più indipendente e degna di fiducia rispetto alle indicazioni rese disponibili nella scheda prodotto.

Perché ci basiamo così tanto sulle recensioni: le euristiche

Secondo la teoria del doppio processo di Kahneman e Tversky (1979) i nostri processi decisionali si basano su due sistemi: il primo automatico ed involontario ed il secondo invece razionale e volontario. Anche se in linea di massima possiamo affermare che vengono usati entrambi i sistemi, molto più spesso di quanto immaginiamo è proprio il primo che viene chiamato in causa. Questo perché il secondo sistema richiede uno sforzo cognitivo di gran lunga superiore: scelte ponderate e razionali, basate sull’analisi dei dati a disposizione, sul soppesare pro e contro, sulla stima degli effetti futuri, richiedono un grande dispendio di energie che non potremmo permetterci per ogni singola decisione. Ed ecco perché utilizziamo le euristiche di pensiero che sono delle scorciatoie mentali, dei processi intuitivi ed immediati, che ci permettono di formarci una idea o un giudizio su qualcosa senza troppi sforzi cognitivi.

Se dovessimo ogni volta soppesare in maniera razionale e ponderata ogni valutazione faremmo molta più fatica, mentre, grazie alle euristiche, riusciamo a procedere in maniera veloce.

Anche quando si tratta di recensioni sono proprio alcune di queste scorciatoie che utilizziamo.

I consumatori si affidano alle recensioni già solo per il fatto che ci sono: l’euristica di disponibilità (availability heuristic) è proprio quel meccanismo per cui diamo più rilevanza alle informazioni immediatamente disponibili e di facile accesso.

Entrano in gioco anche l’effetto primary e recency: le persone ricordano più facilmente le informazioni presentate inizialmente o alla fine di una lista o pagina. Per lo stesso motivo, per esempio, i motori di ricerca posizionano gli annunci a pagamento sopra o sotto i risultati di ricerca e solo raramente in mezzo a questi ultimi. Questi effetti fanno da cornice ai nostri giudizi e ci permettono di ‘inquadrare’ il contesto facilmente: i contenuti nella parte superiore o inferiore della pagina sono più accessibili dato che tipicamente per visualizzare ulteriori informazioni su una pagina web partiamo dall’alto e scorriamo verso il basso. Inoltre, se le recensioni negative vengono visualizzate per prime è più probabile che l’utente non proceda con l’acquisto.

Ma non tutte le recensioni sono uguali né è sufficiente la loro posizione per determinare le nostre preferenze. Esiste infatti un effetto asimmetria: le recensioni negative attirano di più la nostra attenzione rispetto a quelle positive e sono più importanti anche di altri fattori come il prezzo. Per esempio, tra un hotel con più recensioni positive ed uno con più recensioni negative gli utenti preferiscono il primo anche se costa molto di più (De Pelsmacker et al., 2018).

Questa asimmetria viene spiegata dal principio dell’avversione alla perdita teorizzato da Kahneman e Tversky (1979; 2011): quando dobbiamo effettuare una scelta siamo più attenti e diamo più peso alle perdite che ai guadagni. Tendiamo quindi ad evitare possibili rischi: le recensioni negative ci fanno intravedere lo spettro di un investimento sbagliato e di una perdita di denaro e per questo sono molto più salienti.

Le caratteristiche di una recensione affidabile

Siamo sulla pagina di un e-commerce, stiamo valutando se comprare o meno un prodotto. Le recensioni sono tante, così come molte sono quelle di altri prodotti simili per tipologia e prezzo. Ebbene, a questo punto cosa per noi è più rilevante nella scelta? Perché alla fine sceglieremo proprio quello?

Oltre alle euristiche anche il formato con cui le recensioni ci vengono proposte orienta le nostre preferenze (De Pelsmacker et al., 2018).

L’ideale è che ogni recensione sia accompagnata da una parte testuale, una o più immagini e una valutazione (rating).

Una recensione testuale esprime una valutazione qualitativa ed approfondita che viene ritenuta più utile se confrontata con i rating presi da soli (Noone & McGuire, 2014). È però importante che, oltre al testo, le recensioni abbiano anche dei punteggi espressi in numeri o graficamente (per esempio, da 1 a 10 oppure stelline) perché richiedono poco sforzo cognitivo. Alcuni ecommerce adottano il sistema delle valutazioni a stelle, come per esempio Amazon e TripAdvisor, mentre altri come Booking.com utilizzano punteggi numerici: tra le due tipologie sono preferite le valutazioni a stelle in quanto sono più immediate. Anche per le immagini vale lo stesso discorso: la componente visuale dà un feedback immediato e aiuta a familiarizzare col prodotto o servizio. Le foto, in particolare quando accompagnano una recensione positiva, hanno un effetto persuasivo maggiore rispetto al contenuto che comprende solo la parte scritta (Blondé e Girandola, 2016).

Quando le recensioni sono false

Ci affidiamo sempre di più alle recensioni online per fare le nostre valutazioni prima di un acquisto; le recensioni ci danno l’idea di affidabilità ed imparzialità ed esprimono un giudizio di qualcuno che, prima di noi, ha provato quel prodotto o servizio. Ci dicono qualcosa di più sull’esperienza, sulle caratteristiche e sui possibili pregi e difetti del prodotto.

L’importanza delle recensioni nel processo decisionale di acquisto è noto a brand e venditori che sanno molto bene quanto sia importante monitorarle. Accanto a strategie di gestione lecite, in primis dando un feedback a chi ha opinioni negative, sono diffuse anche pratiche fraudolente, come pubblicare false recensioni positive oppure cancellare o nascondere quelle negative. Ci sono poi anche le recensioni incentivate, per esempio attraverso carte regalo, bonus o rimborso sull’acquisto in cambio della pubblicazione di una recensione positiva e completa (testo e foto).

Questo fenomeno è noto alle piattaforme di e-marketplace che adottano diverse misure per filtrare account e recensioni falsi; nonostante questo il fenomeno delle recensioni false è sempre più diffuso.

Come possiamo tutelarci? Secondo un recente studio di Zhuang e colleghi (2018) ci sono degli indizi che ci possono suggerire se una recensione è manipolata o incentivata. Per esempio, quando ci accorgiamo che un prodotto ha un numero di recensioni positive nettamente superiore rispetto a quelle negative possiamo cominciare a farci venire qualche dubbio sulla veridicità di alcune di esse; soprattutto se, ad un’occhiata più attenta, leggiamo valutazioni eccessivamente positive con un linguaggio generico, stereotipato e troppo entusiasta. Altro indizio è se queste recensioni vengono da utenti che hanno profili poco completi o che pubblicano recensioni solo positive: la possibilità che sia un account creato ad hoc per pubblicare recensioni false aumenta. Quando la distribuzione delle valutazioni è asimmetrica può anche voler dire che le recensioni negative vengono cancellate. La notorietà del brand o del venditore è un altro indizio: quando le recensioni polarizzate appartengono a prodotti di brand sconosciuti è più probabile che parte di essere siano false.

Il consumatore consapevole

Quando si tratta di compiere una scelta, ancor di più di se una scelta di acquisto, non siamo esseri del tutto razionali. Utilizziamo delle scorciatoie di pensiero – le euristiche – e alcuni indizi del contesto per orientarci. Siamo implicitamente proiettati a ricercare questi indizi per ridurre lo sforzo cognitivo. Possiamo considerare le recensioni proprio questo, un indizio del contesto.

Per noi sono un importante aiuto che supporta le nostre scelte anche se sappiamo che potrebbero non essere veritiere. In generale però la pratica di manipolarle non porta lontano: se nel breve termine pratiche fraudolente possono aumentare le vendite, nel lungo termine (soprattutto quando si tratta di un marchio sconosciuto) sarà inevitabile seminare degli indizi sospetti e generare mancanza di fiducia da parte degli utenti, portando ad un decremento delle vendite e una cattiva reputazione. D’altra parte i consumatori sono sempre più abili ed esperti negli acquisti online: scovare e filtrare recensioni vere da quelle false diverrà più facile (Zhuang e colleghi, 2018).

Negli ambienti online – così come in quelli offline – valutiamo simultaneamente più aspetti ed attiviamo più euristiche. È indubbio però che specifiche caratteristiche delle recensioni guidano il nostro giudizio ed è fondamentale comprendere come utilizzarle al meglio ed in maniera chiara e trasparente.

 

Fragilità e antifragilità nei malati con dolore cronico

L’antifragilità non è l’opposto della fragilità, semmai è una caratteristica che si può sviluppare proprio quando ci si trova in una condizione di particolare vulnerabilità. Per esempio, le persone affette da malattie autoimmuni e/o da dolore cronico smettono di comunicare la loro sofferenza perché, invece di ricevere supporto e comprensione, si sentono svalutati, derisi e a volte, persino, disprezzati.

Emanuela Taraschi – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Viviamo in un’epoca in cui si è titolati a vivere solo se perfetti. Ogni insufficienza, ogni debolezza, ogni fragilità sembra bandita” (A. D’Avenia, 2016). Sarà per questo che il termine antifragilità coniato in ambito economico da Taleb (2012), ha avuto successo ed è stato ripreso da Vercelli (2016; 2021) nell’ambito della psicologia della prestazione sportiva. Tuttavia, l’antifragile non è l’opposto del fragile, semmai è una caratteristica che si può sviluppare proprio quando ci si trova in una condizione di particolare vulnerabilità. Durante la pandemia da Covid-19 tutti ci siamo sentiti un po’ più fragili, sebbene, alcuni sono stati inclusi ufficialmente nella categoria dei “fragili”. Per esempio, le persone affette da malattie autoimmuni, tra i cui sintomi si annoverano senso di fatica, malessere generale e dolore cronico. Quando la problematica fisica non è particolarmente evidente, accade più facilmente di sottovalutare il problema dell’altro che soffre, tanto che alcune di queste persone smettono di comunicare la loro sofferenza, perché, invece di ricevere supporto e comprensione, si sentono svalutati, derisi e a volte, persino, disprezzati.

Certo, come ci insegna Epitteto non sono le cose a farci stare bene o male, ma quello che pensiamo di esse, come le interpretiamo. Le tecniche REBT, per esempio, aiutano a disputare e ristrutturare le credenze disfunzionali, migliorando la percezione della propria efficacia e interrompendo il ciclo vizioso tra nocicezione, dolore, distress e disabilità. Le emozioni, però, ci informano (e informano l’altro) su come stiamo interpretando la realtà. In particolare, l’emozione di disprezzo ci dice che stiamo valutando un’altra persona inferiore a noi per qualche comportamento e/o caratteristica personale. Ci dice anche che nutriamo sfiducia sulla sua possibilità di miglioramento. Così, quando disprezziamo siamo maggiormente inclini a prendere in giro, ad offendere, e poi a distaccarci dalla persona disprezzata, in quanto ritenuta un soggetto non utile per un proficuo scambio sociale. A volte, persone affette da dolore cronico riferiscono di essere stati derisi attraverso battute allusive, sentendosi larvatamente accusare di esagerare i sintomi, di essere pigri, deboli, di fare le vittime. Miceli e Castelfranchi (2018) spiegano bene come l’espressione di disprezzo può nascondersi sotto un linguaggio non verbale (per es. alzando gli occhi al cielo) o in battute sottili e divertenti. Quando ciò accade è molto più difficile per il bersaglio difendersi. Difatti, se il bersaglio rende esplicito il significato dispregiativo, chi disprezza può affermare che non intendeva dire o fare nulla di irrispettoso e che il bersaglio è permaloso o non capisce le battute, o entrambe le caratteristiche negative; segni chiari di mancanza di intelligenza o mancanza di senso dell’umorismo, e così finisce per offendere ulteriormente l’altro. In questo modo, al dolore fisico si aggiunge ulteriore sofferenza psichica. Ma cos’è il dolore? In base all’eziologia il dolore è diviso in:

  • nocicettivo (danno ai tessuti, dolore circoscritto che viene definito come pulsante, costrittivo, pungente, per es. lesioni, fratture…);
  • neuropatico (lesioni a livello del sistema nervoso centrale e/o periferico, riferito come un dolore diffuso, costante, snervante, invalidante, per es. post ictus, sclerosi multipla ecc.)
  • misto (per es. dolore alla schiena in malati oncologici).

Il dolore è stato definito dall’International Association for the Study of Pain (IASP) come: “un’esperienza sensoriale ed emotiva spiacevole associata o simile a quella associata a un danno tissutale effettivo o potenziale”. Nello specifico:

  • Il dolore è sempre un’esperienza personale che è influenzata in vari gradi da fattori biologici, psicologici e sociali.
  • Il dolore e la nocicezione sono fenomeni diversi. La nocicezione è la trasmissione dell’informazione di un danno tissutale, che dai recettori periferici, viene trasmessa fino alla corteccia e all’area limbica.
  • Il dolore non può essere dedotto esclusivamente dall’attività nei neuroni sensoriali.
  • Apprendiamo il concetto di dolore attraverso le esperienze di vita.
  • Il resoconto di un’esperienza come dolorosa dovrebbe essere sempre rispettata.
  • Sebbene il dolore di solito svolga un ruolo adattativo, può avere effetti negativi sulla funzionalità e sul benessere sociale e psicologico.
  • La descrizione verbale è solo uno dei numerosi comportamenti per esprimere dolore.
  • L’incapacità di comunicare non nega la possibilità che una persona o un animale provi dolore. (Raja et al., 2020).

Rispetto alla capacità di comunicare dolore è interessante l’associazione tra attaccamento, trauma e dolore. Si è visto che bambini con attaccamento insicuro di tipo evitante mostrano meno segnali di dolore, questi bambini “silenziano” il corpo, mostrando una comunicazione non verbale e verbale molto povera rispetto al proprio dolore fisico. Al contrario, i bambini con un attaccamento insicuro ambivalente, tendono a manifestare moltissimo disagio e agitazione. Conoscere le cause di questi diversi modi di manifestare il dolore, può consentire di mediare in modo funzionale l’esperienza del dolore, sviluppando buone pratiche per la sua gestione. Difatti, nei bambini i traumi irrisolti comprendono anche singoli o multipli esperienze di dolore acuto o cronico non alleviato. Le conseguenze negative di un dolore non alleviato possono essere permanenti (Failo, Giannotti, Venuti, 2019).

Il dolore cronico “è una condizione caratterizzata da un’esperienza sensoriale ed emotiva che perdura oltre alla normale guarigione e/o comunque ricorre oltre i sei mesi ed erode la qualità della vita di un individuo, rappresentando una significativa fonte di stress, quale minaccia sia per la sua integrità corporea che esistenziale” (in Failo, Mazzoldi, 2020). Inoltre ha un impatto sui loro familiari e costi elevati per la società, in quanto il numero delle persone che ne soffre supera la somma delle persone malate di cancro, diabete e malattie cardiache.

La variabilità individuale rispetto al fronteggiamento del dolore cronico è legata non solo a caratteristiche fisiche e temperamentali, ma anche a come l’ambiente ha risposto e risponde a queste. Si rimanda alla Teoria Polivagale di Porges (vd Deb Dana, 2018; 2019) per approfondire i meccanismi di mentalizzazione dell’esperienza corporea.

Allora è utile pensare allo sviluppo dell’antifragilità nelle persone con dolore cronico?

In effetti, il costrutto dell’antifragilità comprende 4 dimensioni (Anti Fragility Questionnaire, Giunti, 2019) che mi pare siano tutte legate ad un tipo d’azione generativa:

  • Adattamento proattivo: capacità di reagire in modo proattivo di fronte a situazioni impreviste, cogliendone i vantaggi e trasformando i limiti in opportunità per evolvere. Mi ci trovo e ballo sotto la pioggia.
  • Evoluzione agonistica: motivazione verso situazioni nuove con curiosità per il cambiamento, ricercando sfide in cui contemplare anche il fallimento, alla scoperta di nuove possibilità. Mi ci metto, esploro, esponendomi a piccoli stress.
  • Agilità emotiva: capacità di riconoscere e stare a contatto con le proprie emozioni e trasformare il vissuto emotivo in energia o distaccandosi emozionalmente per gestire al meglio se stessi, cioè regolare le emozioni in modo funzionale.
  • Distruttività consapevole: capacità di superare il condizionamento della conoscenza
    eliminando consapevolmente i vincoli mentali disfunzionali al superamento della sfida. Flessibilità cognitiva, pensiero divergente.

Specifico subito, cosa, secondo me, non è antifragile. A mio avviso, l’antifragile non è un eroe semi-infrangibile, né un cinico, distaccato dagli altri, impermeabile alle emozioni, concentrato solo sul suo guadagno e che rischia sì, ma sulla pelle degli altri, tantomeno un sensation seeker sconsiderato che compulsivamente insegue nuove sensazioni.

Se colui che assume la posizione resiliente, resiste, affronta e supera gli eventi negativi, si piega senza spezzarsi e conserva le sue caratteristiche, colui che assume la posizione antifragile mira ad evolvere, a migliorare, a superare una condizione molto negativa, partendo dal problema stesso e trasformandolo in opportunità. Riesce a fare questo, non solo accettando l’imprevedibilità della vita, gli ostacoli, i problemi e la fragilità, ma ricercando attivamente sfide, rischi ed esponendosi a piccoli stress. Quando sviluppiamo uno stato mentale antifragile, percepiamo tutta la nostra fragilità e siamo consapevoli che i rischi presi, ci mettono in una posizione di reale incertezza e aumentata probabilità di fallire, tuttavia sappiamo, o meglio, speriamo e abbiamo fiducia che l’esperienza sarà comunque un’occasione di apprendimento generativa. Magari non ci porterà nel punto programmato, dove volevamo arrivare, ma chissà, potrebbe condurci in un punto anche migliore rispetto a quello che potevamo prevedere. Quindi l’antifragile, non si espone agli stress e all’incertezza per masochismo né per costrizione, piuttosto perché è mosso da una passione, una forte motivazione intrinseca, che lo spinge a cambiare, ad esplorare spazi nuovi e a visualizzare scenari possibili. La passione potrebbe portare a sfruttare un altro fenomeno ben conosciuto nella prestazione sportiva e che è stato individuato studiando l’atto creativo degli artisti: lo stato di flow. Lo stato di flow è quello stato di coscienza in cui si è massimamente concentrati nello svolgere un’attività con una motivazione intrinseca così alta, da sperimentare un’espansione dei confini del sé, a partire da una destrutturazione dell’esperienza temporale e da un incremento della percezione di controllo nei confronti dell’attività che si sta svolgendo (cfr. Muzio, Riva, Argenton, 2012). In questo stato di coscienza, in cui c’è una perfetta integrazione mente-corpo, finalizzata all’azione, il dolore, per esempio, potrebbe essere confinato automaticamente in secondo piano, nella periferia della propria attenzione e del proprio campo d’azione, almeno in alcuni momenti della giornata. Da quanto sopra emerge che molte tecniche (biofeedback, neurofeedback, rilassamento ecc.) e terapie cognitive e comportamentali (CBT; REBT; ACT; Terapia basata sulla Teoria Polivagale ecc.) possano essere messe al servizio delle persone con dolore cronico per sviluppare anche le componenti dell’antifragilità.

Concludo con D’Avenia (2006) che ci indica un antifragile per eccellenza, che, a sua volta, ci invita ad apprezzare la propria e l’altrui fragilità: “C’è un altro modo per mettersi in salvo, ed è costruire, come te, Giacomo, un’altra terra, fecondissima, la terra di coloro che sanno essere fragili.

La Psicoterapia funziona? Le Neuroscienze ci hanno spiegato come

Ma come può un complesso di attività e tecniche basate per lo più sulla parola, come la Psicoterapia, essere efficace al punto di indurre modificazioni nei convincimenti e nel comportamento altrui?

 

Alzi la mano chi non si è mai posto questa domanda oppure si è ma sentito porre un tale interrogativo; ebbene, è dimostrato ormai da tempo, con una enorme quantità di studi scientifici basati su dati empirici, che la Psicoterapia funziona, in una considerevole percentuale di casi, sia nell’immediato, nel breve periodo, sia anche dopo molto tempo dalla sua conclusione. La Psicologia e le pratiche Psicoterapeutiche non hanno perciò bisogno di essere difese né tantomeno questa può essere la sede per farlo e confermare la loro validità.

Ma come può un complesso di attività e tecniche basate per lo più sulla parola essere efficace al punto di indurre modificazioni nei convincimenti e nel comportamento altrui? Semplice suggestione? Assolutamente No, e le Neuroscienze lo hanno dimostrato. Tre gli argomenti chiave: plasticità sinaptica, plasticità cerebrale, epigenetica.

In principio era Kandel, neurologo, psichiatra e neuroscienziato statunitense premio Nobel per la Medicina nel 2000; lo vedremo tra poco, ma la storia inizia anche prima.

Che il nostro cervello non fosse un ingranaggio rigido ma avesse qualcosa di modificabile lo intuì per primo in maniera scientifica Donald Hebb, psicologo canadese. Studiando i processi psichici della ritenzione delle esperienze, del recupero dei ricordi e quindi dell’apprendimento, nel 1949 propose la “Teoria dell’Assemblea Cellulare”, meglio conosciuta semplicemente come “Legge di Hebb” (Hebb, 1949).

In sintesi Hebb propose ed affermò che se l’assone del neurone A e quello del neurone B, nella loro connessione (sinapsi), si attivano ripetutamente (oggi diremmo “proiettano”, “sparano” segnali elettrochimici) durante un evento, si verificheranno modifiche strutturali o metaboliche tali da aumentare l’efficacia di tale sinapsi conservando nel tempo il ricordo di quell’evento. In altre parole, sostenne la capacità del sistema nervoso di modificare la natura e la forza delle connessioni tra i neuroni che consentono la trasmissione di impulsi elettrochimici. Implicitamente quindi postulò la plasticità sinaptica.

Le ricerche di Taub, Elbert e colleghi nel 1995 (Elbert, 1995) misero in luce che la rappresentazione corticale delle dita della mano sinistra dei suonatori di violino (destrorsi) era più grande che la rappresentazione della mano destra e di quella dei controlli. Ossia i loro studi suggerirono l’ipotesi, poi confermata dalle evidenze scientifiche successive, che la rappresentazione di diverse parti del corpo nella corteccia somatosensoriale primaria degli esseri umani dipende dall’uso e dai cambiamenti per conformarsi ai bisogni e alle esperienze attuali dell’individuo. Da quella ricerca fu quindi dimostrata la plasticità cerebrale.

Parallelamente, negli ultimi 30 anni del secolo scorso, la ricerca neurobiologica avviò una serie di ricerche sulla riproduzione cellulare nel cervello dei mammiferi prima e dell’uomo poi.

Fino alla metà degli anni Sessanta del secolo scorso si presumeva che il sistema nervoso centrale dei mammiferi diventasse strutturalmente stabile subito dopo la nascita e rimanesse tale per tutta la vita (Gould, 2002).

Un aspetto fondamentale di questa stabilità era che nessun nuovo neurone veniva aggiunto al cervello in età adulta (Gross, 2000). In quel periodo cominciò ad essere pubblicata tutta una serie di ricerche che iniziarono a mettere in dubbio questa visione: Altman (1962; 1963; 1966; 1967), Altman & Das (1965; 1966). Negli anni ’90 ci furono diversi sviluppi che finalmente appurarono l’esistenza della produzione di nuove cellule nel sistema nervoso centrale dei roditori adulti, ossia la neurogenesi di alcune particolari cellule nel cervello di questi mammiferi (Goud, 2002). Le prime ricerche furono quelle di Cameron (Cameron, 1993), di Okano  (Okano, 1993) e quelle di Seki e Arai (1993). Tali studi trovarono nuovi neuroni, specificatamente cellule granulari, in una varietà di strutture nel ratto e nel gatto adulti, in particolare nel bulbo olfattivo, nel giro dentato dell’ippocampo e in alcune zone della corteccia cerebrale. Alla fine del ventesimo secolo la neurogenesi, per alcune regioni del cervello dei mammiferi adulti, è universalmente accettata dalla comunità scientifica (Gould, 2002).

Già dagli esperimenti sui meccanismi di apprendimento della lumaca di mare Aplysia californica, condotti negli anni Ottanta del ventesimo secolo, Carew, Hawkins e Kandel (Carew, 1983) osservarono che, con il ripetersi della presentazione dello stimolo, la serotonina ha un effetto indiretto non solo a livello della permeabilità della membrana cellulare, ma anche a livello di DNA e quindi sull’espressione di specifici geni (Pagani, 2019).

Molto grossolanamente e in estrema sintesi: sappiamo che un gene è fatto non soltanto della sua regione codificante, che contiene il suo codice, ossia ciò che ereditiamo dai nostri genitori e dai nostri avi, ma ha anche altre due regioni: una chiamata promotore del gene, e una chiamata enhancer. Entrambe queste due ultime regioni, con delle modalità e delle valenze diverse, sono delle regioni regolatorie. Ossia regolano la produzione di proteina della regione codificante del gene. Kandel e collaboratori (Carew, 1983) dimostrarono che queste proteine dette regolatorie e altri enzimi (ad esempio l’RNA polimerasi), che sono all’interno del nucleo cellulare, possono essere attivati o disattivati da molteplici stimoli: alcuni sono stimoli di natura enzimatica, (tipicamente CMP ciclico), altri sono stimoli di natura neurotrasmettitoriale (per esempio la serotonina, 5-HT), ma anche da stimoli di natura ambientale e non farmacologica.

Sulla base di questa scoperta e dei successivi studi, nel 1998 Kandel E.R. (1998) pubblicò un articolo, questo era un ampliamento del discorso che egli stesso aveva pronunciato in occasione di un convegno di Psichiatri nel 1997 in cui l’illustre scienziato si proponeva di dare un fondamento neurobiologico alle terapie psichiatriche non biologiche, come per esempio la psicoanalisi e le psicoterapie (Pagani, 2019).

Egli spiegò chiaramente che le modificazioni del DNA all’interno di qualsiasi cellula, comprese quindi quelle cerebrali, non sono solamente frutto del nostro patrimonio genetico ma dipendono anche da variabili di natura ambientale, come per esempio il fatto di essere sottoposti ad un ambiente particolarmente stimolante e che stimola per esempio le nostre funzioni di memoria. Questo è l’esatto punto, a livello molecolare, in cui avviene la vera interazione tra patrimonio genetico dell’individuo e ambiente. Il livello epigenetico (Pagani, 2019).

Grazie a queste scoperte ora siamo maggiormente consapevoli di come e quanto parole, gesti, comportamenti, in una parola, l’ambiente che circonda ognuno di noi, influisce e modifica ogni essere vivente.

 

La pulsione aggressiva e la guerra in psicoanalisi (2021) – Recensione del libro

Diviso in tre sezioni, Casi clinici, Aspetti della decisione nell’analisi dei bambini e La teoria nella clinica, La pulsione aggressiva e la guerra in psicoanalisi offre un cambio di prospettiva sulle differenti vicende esposte.

 

Il sapere della pulsione concorre a determinare la realtà per l’inconscio, che non coincide con il senso di realtà, una contrapposizione che può esaurire l’energia vitale del soggetto.

Scrivere un libro sulla psicoanalisi, sembra una cosa relativamente passata, il che può far entrare i meno esperti nella palude dello scetticismo. Le mutate condizioni storiche, nonché l’avvento di altre forme di psicoterapia, ne denotano una messa in discussione, come se un certo pensiero psicologico sia agganciato necessariamente al suo aspetto spazio-temporale.

Al di là del rivoluzionarismo in psicologia, molto spesso quello che conta, oltre l’approccio utilizzato, è la plasticità con la quale vengono esposti i casi ma, soprattutto, è importante che la didattica della narrazione li esalti da una zona pedagogica “elettrizzata” in cui si comprende, punto per punto, l’iter che sfocia nel comportamento deviante e che, di frequente, ha radice nell’educazione ricevuta nella nostra infanzia, vista come tra i protagonisti dell’andamento delle nostre pulsioni.

Il libro La pulsione aggressiva e la guerra in psicoanalisi, di Mario Rivardo e Maddalena M. Treccani, tratta della pulsione aggressiva e si costituisce nella trattazione di una serie di casi interessanti.

Diviso in tre sezioni: Casi clinici, Aspetti della decisione nell’analisi dei bambini e La teoria nella clinica, offre un cambio di prospettiva sulle differenti vicende esposte (per l’ampia estensione delle circostanze riportate mi concentrerò su quelle che mi hanno maggiormente colpito).

Immerso totalmente nella lettura non ho potuto che apprezzarne i fatti eccezionali, l’approfondimento del senso del “proprio posto nel mondo” dei soggetti coinvolti, il ripensamento di vicende comuni nonché tratti che possono toccare da vicino il lettore dato lo spirito acuto di osservazione e il modo “empatico” di considerarli. Si noti, del resto, l’indirizzo psicoanalitico degli autori:

Come si colloca [..] la decisione? In quale momento, come e perché una persona in analisi prende una decisione? È importante distinguere quando una decisione è un atto senza essere un passaggio all’atto, un movimento che sembra in avanti e in realtà è un movimento all’indietro in cui il soggetto viene respinto alla centralità del suo Io e su una posizione caratterizzata dal narcisismo.

Gli autori utilizzano una frase significativa che ci accompagnerà in tutti gli interessanti casi descritti in questo libro: «a prevalere sono le esigenze che ispirano i criteri di una economia domestica volta al mantenimento dei legami incestuosi». Come se le nostre decisioni siano ancorate ad altre, specificamente ai legami che hanno intessuto le fasi sensibili della nostra vita; per tale motivo è insita una forma di energia (pulsione) che tende a farsi autorità nell’individuo.

Le pulsioni esistono in virtù di un intrinseco dettame originario, e possono contrastare, ribellarsi ad un precostituito e contrario dispositivo educativo-sociale insito nelle relazioni familiari.

Doverosa la spiegazione di incestuosità, di cui, molto spesso, si evade l’intimo significato:

L’incesto non è “un fatto”, un accadimento, ma quell’impregnazione costante che costituisce per ciascuno il più forte vincolo, nel senso di catena, a fare, della propria vita, una vita propria. Una vita che non ricalchi, attraverso le vie dell’amore o attraverso quelle dell’odio, in un riferimento costante, aspetti della storia dei propri genitori nelle forme inconsce con cui essa è giunto al soggetto. Che al vincolo inconsciamente subito si sostituisca un legame d’amore liberamente scelto, è del resto una possibile apertura offerta da un’analisi giunta a compimento.

La pulsione aggressiva si prefigge come arma di combattimento e di preservamento dell’individuo, e può essere e può configurarsi, come dicevamo, in base ai legami familiari: genitori ambiziosi, rifiutanti, prepotenti, apatici, slavati o senza slanci di impulso o sentimenti o che, proponendo ai figli miraggi troppo concreti e angusti, mortificano le iniziative o si espongono al dolore di un prematuro distacco “spirituale” che immerge il proprio figlio in percorsi psicologicamente sdoppianti, vivendo in una immaginifica caccia “alla ricerca del paradiso perduto”. Apprezzabili gli effetti dello squilibrio per eccesso: la pulsione aggressiva si amplifica, come nel caso in cui il padre prepotente costringe i figli a regolare l’esistenza secondo principi non sentiti e pertanto sfibra il loro carattere disponendoli al servilismo, ne conseguono fermenti di ribellione, conati di dominio, bisogno di evasione, ansia di prove egoistiche; come nel caso di Marco menzionato nel libro, in cui, il padre una persona che, nell’ira, perde facilmente il controllo. Marco fa il bravo bambino, parla sensato, dice che è stato buono, si è pentito di aver fatto arrabbiare il papà, gli dispiace di aver picchiato un compagno «ma è stato per sbaglio, non per colpa mia». Ci vorrà del tempo perché si cominci a manifestare quanto di conflittuale, e di mirato, il “per sbaglio” ricopre.

I genitori amatissimi dei figli possono finire per diventare i loro carnefici. I genitori ambiziosi considerano i figli in funzione propria, come un’appendice o la cute dei loro insuccessi, dei tentativi sociali mancati.

In tale prospettiva si racconta il linguaggio dell’inconscio tra passaggi logici e una perfetta analisi in cui emerge la fascinazione di venire a conoscenza di una realtà nascosta nelle “nostre” decisioni; una realtà che crediamo ci appartenga e di cui si crede si abbia un perfetto controllo ma che, per comprenderla, ci obbliga a mettere i riflettori sul nostro passato. Ed è così che alcuni tratti possono essere associati ad altri, come in uno dei primi episodi descritti nel libro che narra la separazione dal coniuge. È il caso di una donna che, dopo aver lasciato il marito, rivive nuovamente la stessa circostanza con l’amante colto in flagrante con un’altra donna. La comparsa di questo tipo di decisione appare qui strettamente connessa con una serie di sintomi collocabili nell’ambito del tradimento – “non posso vivere senza sapere” – lungo cui corre, a distanza, il filo della ripetizione del legame con un padre infedele alla propria moglie.

Rimanendo in tema di padri, interessante il paragrafo su come si diventa handicappati: Carlo, vittima di un incidente, pone il padre in profondi sensi di colpa per non aver consentito al figlio di salire in un’auto così “troppo potente”. Così il senso di colpa del padre è un primo elemento che rende “handicappato” Carlo in quanto il padre, attraverso la “grande” decisione di interrompere la propria attività di avvocato e di dedicarsi completamente al figlio, non solo si è appropriato della sua responsabilità personale rispetto all’incidente ma, con il dedicargli gran parte della propria vita lo ha reso dipendente da lui. L’interessante caso continua con la minuzia di particolari tra cui una forma di atteggiamento ostile nei confronti dei genitori sotto forma di ossessione per lo studio e per il lavoro. Le parole dell’inconscio: «io non voglio studiare, voi mi obbligate a studiare, io studio troppo, sto male, e vi faccio star male».

Un messaggio opposto, descritto successivamente, riguarda l’utilizzo della droga come strumento di unione per rendere ancora più stretto il suo legame con la madre.

Seguono altrettanti casi interessanti sull’analisi del disegno nei bambini, sulle opere letterarie di Francisco Coloane «Capo Horn» e «Vita e destino» di Vasilij Grossman, in cui la pulsione aggressiva teorizzata da Sigmund Freud trova vita.

 

Gli effetti a lungo termine delle relazioni sorte in età adolescenziale

Il termine “relazioni tra pari” racchiude in sé molteplici tipologie di affiliazioni, dagli ampi gruppi sociali e conoscenze casuali alle amicizie diadiche.

 

Una distinzione fondamentale tra i diversi tipi di interazioni tra pari risiede nel grado in cui le interazioni si concentrano su amicizie strette rispetto allo stabilire il successo con un gruppo di pari più ampio, che può essere composto da conoscenti o amici più occasionali.

In generale, il possedere amicizie di qualità è stato associato a risultati positivi durante l’adolescenza. I giovani con livelli più alti di attaccamento ai loro migliori amici sembrano avere una migliore salute psicologica, nonché un miglior adattamento psicosociale (Wilkinson, 2010). Difatti, all’interno dei gruppi più ampi, è più difficile ricevere quell’attenzione che porta un soggetto a sentirsi unico nel suo genere. Nonostante l’essere inseriti all’interno dei gruppi determini lo sviluppo di determinate competenze sociali, che comportano a loro volta alcuni benefici durante l’adolescenza, come una maggiore autostima (Larson et al., 2007), una maggiore capacità assertiva e una minore aggressività (Asher & McDonald, 2009), solo la vicinanza tra due persone è stata collegata ad una maggior motivazione e al successo scolastico (Larson et al., 2007).

I comportamenti che rendono un giovane più “popolare” come il bere, fumare, il far uso di droghe, la frequente attività sessuale, non sono sempre visti in maniera positiva in età adulta (Moffitt, 1993). Durante l’adolescenza, al contrario, ci sono una varietà di benefici concomitanti nel guadagnare, attraverso questi atti, ammirazione da parte dei pari. Tuttavia, alcuni studi hanno scoperto che il raggiungimento dell’ammirazione da parte dei pari, all’inizio dell’adolescenza, può essere collegato, a breve termine, ad un aumento dell’incidenza di comportamenti sia positivi che negativi. Difatti, da un lato, questa popolarità aumenta la probabilità che vengano attuati comportamenti ancor più problematici, dall’altro, talvolta, consente la regressione di comportamenti come l’ostilità e l’aggressività (Balsa et al., 2010). Inoltre, coloro i quali sono concentrati sul successo all’interno del gruppo di pari – al punto da esser disposti a compromettere i loro valori per essere ammirati – mostrano maggiormente un comportamento problematico durante la fase avanzata dell’adolescenza (Fuligni et al., 2001).

Oltre ai comportamenti delinquenziali ed esternalizzanti, le interazioni all’interno dei gruppi possono avere un impatto sui sintomi internalizzanti, come la sintomatologia depressiva e sintomi dell’ansia sociale.

Di contro, si è visto che, dinanzi ad una serie di fattori stressanti tipici dell’adolescenza, i giovani hanno meno probabilità di sviluppare sintomi di ansia sociale se sono in grado di sviluppare amicizie strette di alta qualità (La Greca & Harrison, 2005).

Sulla base di quanto appena esplicitato, la domanda rilevante a questo punto è: quali effetti hanno le diverse tipologie di relazioni in età adulta? Nonostante sia chiaro che possedere un’abbondanza di relazioni possa determinare degli effetti benefici a breve termine, l’aver rinunciato a relazioni più strette, potrebbe essere problematico in età adulta.

Difatti, come si è detto, una volta che i comportamenti devianti che vengono lodati dal gruppo durante l’adolescenza smettono di essere visti come positivi, gli adolescenti che si basano sulle deboli fondamenta di quei comportamenti per raggiungere il successo – senza sviluppare amicizie strette – possono trovarsi persi in età adulta.

Lo studio preso in esame è stato condotto su un campione di giovani dai 15 ai 25 anni, al fine di estendere la comprensione delle conseguenze a breve e lungo termine date dalle differenti tipologie di interazioni. In primo luogo, i ricercatori hanno ipotizzato che la preferenza per i gruppi più ampi e la qualità delle interazioni diadiche avrebbero predetto, ciascuno in modo univoco, una diminuzione dei sintomi depressivi, un aumento dell’autostima e l’aumento della percezione dell’accettazione sociale in tarda adolescenza. In secondo luogo, è stato ipotizzato che la qualità dell’amicizia stretta avrebbe predetto un miglioramento della salute mentale in età adulta. È stato ipotizzato che la preferenza per le conoscenze più superficiali non avrebbe portato a simili guadagni a lungo termine, a causa della natura mutevole delle competenze necessarie per il successo interpersonale nel tempo.

Il campione era costituito da 169 studenti.

Come ipotizzato, la qualità dell’amicizia stretta e la preferenza di affiliazione tra pari durante gli anni dell’adolescenza hanno predetto in modo univoco i cambiamenti, a livello della salute mentale, dalla metà dell’adolescenza alla prima età adulta. In particolar modo, la qualità delle interazioni diadiche è stata associata a dei miglioramenti sia a breve che a lungo termine. In questo studio, gli adolescenti che hanno riferito di avere relazioni più strette hanno mostrato un aumento dell’autostima e dell’accettazione sociale l’anno successivo. La preferenza di affiliazione tra pari, tuttavia, non ha predetto cambiamenti a breve termine nei sintomi internalizzanti.

È possibile che le amicizie strette durante l’adolescenza forniscano esperienze positive che rafforzano il concetto di sé degli adolescenti nel tempo. Esse possono al contempo offrire delle opportunità di sviluppare un attaccamento sicuro con un coetaneo, oltre ai membri della famiglia o altri adulti. Inoltre, è stato dimostrato che le occasioni che permettono alle persone di assumere ruoli di aiuto hanno un impatto positivo sul benessere e sulla soddisfazione generale (Weinstein & Ryan, 2010).

Al contrario, la preferenza per i gruppi più ampi non è stata associata a nessun cambiamento significativo a breve termine nel funzionamento, ma ha predetto un aumento dei livelli di ansia sociale in età adulta.

Secondo gli autori non è la preferenza per l’affiliazione verso i gruppi di pari in sé ad essere problematica nel tempo. I giovani che possiedono una certa popolarità possiedono naturalmente una serie di abilità sociali apprezzate dai pari, ma il punto è che mantenere la preferenza per questa popolarità, piuttosto che concentrarsi sulla costruzione di amicizie più significative, potrebbe successivamente determinare delle difficoltà per alcuni giovani (Nangle, et al., 2003).

Questi risultati, se replicati, potrebbero avere implicazioni nel guidare genitori e insegnanti nella comprensione e nell’incoraggiamento delle relazioni adolescenziali, così come per una varietà di interventi focalizzati sull’interpersonalità che cercano di migliorare la salute mentale degli adolescenti e/o le relazioni strette.

 

La storia di Charles McGill, prestigioso avvocato affetto da Radio-Fobia. Analisi in chiave clinica del racconto tratto dalla serie televisiva “Better call Saul”

Nel corso dell’articolo proverò a raccontarvi la storia di Charles McGill, osservandone con leggerezza gli aspetti più umani e caratteristici, la sua relazione particolare con il fratello James, e cercherò infine di delineare un breve quadro clinico che descriva e spieghi alcuni dei sintomi e dei comportamenti raccontati.

Attenzione – L’articolo contiene spoiler!

 

Introduzione

Viviamo in un periodo storico dove la pandemia ha influenzato negativamente molte delle nostre abitudini, costringendoci a chiuderci in casa e ad evitare il più possibile l’esposizione all’ambiente esterno e alle relazioni interpersonali. Per fortuna la situazione sembra destinata a migliorare e la speranza di riappropriarci delle nostre sane abitudini ci appare sempre più realizzabile.

Purtroppo però ci sono persone che erano costrette a rimanere chiuse in casa già prima della pandemia e che lo rimarranno anche al termine della stessa poiché sono colpite da qualche forma di psicopatologia che ne compromette le capacità sociali e lavorative.

Non è così facile sentir parlare di casi del genere all’interno del mondo dei mass-media poiché è ancora presente un certo grado di ignoranza e vergogna rispetto a questo tema (sia da parte dei giornalisti che da parte delle persone portatrici del disagio).

Purtroppo però, chi come me lavora nel settore della salute mentale, può testimoniare come il numero di persone coinvolte in queste gravi forme psicopatologiche è più alto di quello che generalmente si crede.

È importante dunque sdoganare il tema della malattia mentale senza tuttavia fare troppa pressione sulle persone coinvolte e “costringerle” a mettersi in gioco personalmente.

Ma è davvero possibile raggiungere questo compromesso?

La risposta sembra essere affermativa e, come spesso accade, anche in questo caso l’arte e lo spettacolo possono venirci in aiuto.

Obiettivo e contenuto dell’articolo

Proprio durante la scorsa quarantena, ho avuto modo di guardare la famosa serie televisiva dal titolo “Better call Saul”, lo spin-off/prequel dell’ancora più conosciuta serie tv “Breaking Bad”, trasmesse entrambe su Netflix. Sono delle serie tv che non hanno assolutamente nulla a che vedere con il tema della salute mentale, tuttavia in “Better call Saul” è stato dedicato molto spazio alla narrazione della vita di Charles McGill, prestigioso avvocato di successo affetto da una grave forma di “Ipersensibilità Elettromagnetica”.

Nel corso dell’articolo proverò a raccontarvi la storia di Charles, osservandone con leggerezza gli aspetti più umani e caratteristici, la sua relazione particolare con il fratello James, e cercherò infine di delineare un breve quadro clinico che descriva e spieghi alcuni dei sintomi e dei comportamenti raccontati.

Due piccole precisazioni prima della lettura

  • L’articolo contiene numerosi spoiler della serie tv;
  • Il presente lavoro ha uno scopo di intrattenimento e non è da intendersi come un articolo scientifico poiché le informazioni su cui baserò alcune delle considerazioni cliniche sono parziali e frutto della mia libera interpretazione dell’opera televisiva.

Informazioni sulla vita di Charles McGill

Charles McGill, detto Chuck, ha 57 anni ed è il socio fondatore di uno dei più grandi e influenti studi legali di Albuquerque (USA). Vive da solo da diversi anni dopo aver divorziato da Rebecca. Nell’ambiente lavorativo è molto apprezzato per le sue doti diplomatiche, la sua lunga esperienza, la dedizione alla legge, che studia e pratica con professionalità, ma soprattutto per la sua rettitudine morale.

Chuck è il fratello maggiore di James, detto Jimmy (protagonista della serie), anche lui avvocato, ma caratterialmente agli antipodi del fratello maggiore.

Jimmy ha sempre vissuto di espedienti. A differenza di Chuck è inaffidabile ed imprevedibile. Non si fa troppi scrupoli ad infrangere la legge pur di continuare la sua improbabile scalata al successo. Jimmy è una persona molto ambiziosa e disposta proprio a tutto. Puntualmente si mette nei guai e per uscirne ha spesso bisogno dell’aiuto dei suoi cari, incluso Chuck, che è sfiancato ed irritato da questi ripetuti comportamenti inappropriati da parte del fratello minore. Chuck infatti ha passato la sua intera vita a cercare di rimediare agli errori di Jimmy, ad esempio tirandolo fuori dal carcere e dandogli una grande opportunità lavorativa come addetto allo smistamento della posta nel suo studio legale.

Tuttavia, andando avanti con la serie, si scoprirà che Chuck nei confronti di Jimmy non ha agito sempre e solo guidato dall’amore fraterno, anzi, ha segretamente e per lungo tempo messo i bastoni tra le ruote a Jimmy, soprattutto rispetto al suo tentativo di avanzare nella carriera di avvocato, poiché non crede abbia meritato questo titolo e possa in alcun modo onorare la professione.

Chuck certamente prova dei sentimenti negativi nei confronti di Jimmy, sentimenti che poi nella serie tv saranno esplicitati e che comprendono principalmente l’odio (perché considera suo fratello responsabile della malattia e della successiva morte prematura del padre) e invidia (non capisce perché Jimmy, nonostante il suo agire da incosciente, susciti negli altri una certa forma di simpatia e venga apprezzato da molte persone, inclusa la sua ex-moglie Rebecca).

La malattia

Chuck da circa 2 anni soffre di una condizione che viene comunemente definita ipersensibilità elettromagnetica e consiste in un insieme di sintomi fisici e psicologici, che le persone le quali si dichiarano affette da tale condizione attribuiscono all’esposizione a campi elettromagnetici. L’Organizzazione Mondiale della Sanità però non ha riconosciuto questa condizione come una malattia poiché mancano le evidenze scientifiche e sembrerebbe piuttosto trattarsi di uno stato di disagio psicologico che prende la suddetta forma.

È importante precisare, però, che la “battaglia” sul riconoscimento o meno di tale malattia non è ancora conclusa e che in tutto il mondo esistono associazioni di persone affette da questa che considerano una vera e propria malattia, e lottano affinché essa venga riconosciuta anche dall’OMS come tale.

Riguardo al nostro Chuck, però, non sembrano esserci grossi dubbi, il suo è un problema di natura psichica. Lo si può affermare poiché, oltre ad essersi sottoposto a numerosi esami medici oggettivi ottenendo sempre esito negativo, Chuck è stato più volte astutamente ingannato, facendolo venire a contatto, a sua insaputa, con delle forti fonti elettromagnetiche e si è visto che esse non gli provocavano reazioni di alcun tipo, dimostrando di fatto la natura psicologica del problema, anche se Chuck si rifiuterà di accettarlo.

Ad ogni modo, la natura psicologica del problema non significa che esso sia meno grave, tant’è che il disturbo diventa progressivamente sempre più invalidante, conducendo a momenti di forte crisi, tali da rendere necessari dei ricoveri ospedalieri. Inoltre, il ritiro sociale e lavorativo di Chuck, è ormai un fatto consolidato (sono passati 18 mesi da quando si è messo in aspettativa dal lavoro) e le persone a lui più vicine fanno di tutto per dargli una mano e supportarlo in questa sua difficoltà.

Chuck presso la sua abitazione ha disdetto la fornitura di energia elettrica. Ha eliminato ogni oggetto che funzioni con una batteria o che possa produrre campi elettromagnetici. Chiunque voglia entrare in casa sua deve lasciare tutti i dispositivi dotati di batteria nella cassetta della posta collocata a molti metri di distanza dall’abitazione. Inoltre l’ospite prima di entrare in casa deve “decontaminarsi” toccando con il dito un marchingegno creato ad hoc che scarica a terra l’eventuale energia elettrostatica accumulata nel corpo umano.

Chuck vive nel buio e nella solitudine, ma non sembra rammaricato per questo, per lui la cosa più importante è proteggersi dalle radiazioni poiché i sintomi che accuserebbe sarebbero troppo intensi e dolorosi ed è convinto che possano condurlo alla morte. Quando ha provato ad uscire di casa o quando è stato costretto a venire a contatto con dei campi elettromagnetici, ha avvertito una lunga serie di fastidiosi sintomi: intorpidimento, dolore o sensazione di formicolio agli arti, sensazione di bruciore cutaneo, tachicardia, sudorazione, tremore, acufene, vista annebbiata, nausea e vertigini con tendenza all’instabilità e allo svenimento.

Passa le sue giornate monotone leggendo libri e giornali illuminato da una piccola lanterna a gas. Ogni tanto suona il pianoforte. Il cibo è conservato in una grande scatola termica che ogni giorno ha bisogno di essere riempita con del nuovo ghiaccio. Da quando ha saputo che in città hanno installato dei nuovi generatori elettrici, spesso accusa dei blandi sintomi della sua “malattia” e ha bisogno di coprirsi con una coperta isotermica attingendo dalla sua vasta scorta di materiale radio-protettivo.

Chuck però non è del tutto solo, tutti i giorni Jimmy va a fargli visita consegnandogli la spesa, il ghiaccio e il giornale. Jimmy è estremamente premuroso nei confronti di Chuck, lo assiste con rispetto, pazienza e una preservata ammirazione nei suoi confronti. Non è del tutto convinto della natura medica del disturbo di Chuck, tuttavia lo rispetta e forse lo teme troppo per dirglielo esplicitamente, anche se spesso lo invita ad uscire di casa e a smetterla di prendere tutte quelle precauzioni. Chuck approfitta delle visite che Jimmy gli fa per controllare suo fratello minore e assicurarsi che non si metta in guai troppo grossi come è solito fare.

Anche il suo amico di vecchia data, nonché socio in affari Howard, frequentemente si reca da Chuck per fargli un saluto, aggiornarlo sull’andamento dello studio legale di cui condividono la proprietà e per ribadirgli la sua stima e la sua vicinanza e disponibilità sia in termini professionali che affettivi.

I sintomi riflettono l’andamento della vita relazionale di Chuck

Il problema di Chuck ha degli alti e bassi. Ci sono momenti in cui sembra stare meglio ed altri in cui peggiora drasticamente. Vediamone alcuni esempi.

Un giorno Jimmy, dopo essere finito sui giornali locali per una bravata delle sue, con l’intento di non far preoccupare Chuck decide di inventarsi una scusa e di non consegnare tale giornale al fratello. Chuck non se la beve, capisce che c’è qualcosa che non va e, armandosi di coraggio (e coperta isotermica), decide di uscire di casa, seppure solo per qualche secondo, e di “rubare” il giornale dei suoi vicini. Una volta letta la notizia Chuck sta male e nel suo volto si legge una grande tristezza e preoccupazione. I sintomi della sua malattia sembrano peggiorare.

La situazione però è destinata ad aggravarsi ulteriormente poiché i vicini di casa hanno avvertito la polizia del furto del giornale e due agenti si recano immediatamente presso l’abitazione di Chuck, che non è assolutamente disposto ad aprire se prima i due poliziotti non si sottopongono al solito iter di decontaminazione. I poliziotti ritengono di non poter assecondare la richiesta di Chuck e agiscono con la forza sfondando la porta e usando il taser contro di lui.

Non riesco ad immaginare arma più letale che il taser per una persona che si ritiene affetta da ipersensibilità elettromagnetica.

Di fatto Chuck finisce in ospedale, dove viene visitato dalla Dott.ssa Cruz, psichiatra, che si rende subito conto della gravità del problema di Chuck. La Dottoressa informa i familiari sulla natura di tipo psicologico del problema e propone un ricovero perché, nonostante descriva Chuck come una persona estremamente colta ed intelligente, ritiene che le sue attuali condizioni di vita mettano a repentaglio la sua e altrui incolumità. Jimmy decide di non accettare il ricovero assecondando la volontà di Chuck, che si rifiuta categoricamente di riconoscere la natura psicologica del problema.

Tornati a casa, Jimmy farà una sentita promessa a Chuck, per il bene di suo fratello d’ora in avanti eviterà di combinare altri guai. “Miracolosamente” Chuck comincia subito a sentirsi meglio e nei giorni a seguire proverà a suo modo ad affrontare il problema uscendo sempre più spesso fuori di casa e cercando di crearsi una progressiva tolleranza alle onde elettromagnetiche.

La risalita

Ha inizio il periodo migliore per Chuck da quando si è ammalato. Jimmy lo convince a collaborare con lui ad una causa e Chuck riacquista entusiasmo e crescente voglia di rimettersi in gioco a livello lavorativo.

Chuck comincia a tornare a lavoro presso lo studio legale di cui è socio fondatore, anche se, le poche volte che lo fa, deve mettersi in moto una vera e propria macchina di prevenzione. Chuck infatti prima di recarsi a lavoro esige ed ottiene che vengano staccati i contatori e ritirati tutti i dispositivi elettronici del personale.

Nonostante le bizzarrie che caratterizzano la vita di Chuck, questo è un periodo che potremmo definire di convivenza positiva con la malattia. È vero che la convinzione irrazionale è tuttora presente, ma è altresì vero che la sintomatologia sembra pian piano regredire e che Chuck riesce, seppur con notevole sforzo, a recarsi a lavoro.

La verità viene a galla

Purtroppo proprio sul lavoro succede qualcosa di molto spiacevole. Jimmy viene a sapere che Chuck negli ultimi anni ha agito di nascosto per ostacolare la sua carriera professionale. Ne scaturisce un acceso confronto tra i due fratelli che fa emergere vecchi rancori e risentimenti soprattutto da parte di Chuck nei confronti di Jimmy. La loro incompatibilità caratteriale sembra destinata a far allontanare i due fratelli.

Il conflitto ha inizio

Da questo momento in poi i fratelli McGill cercheranno di evitarsi il più possibile ed entrambi in segreto architetteranno dei modi per ostacolare il successo dell’altro. Ne verrà fuori una gara senza esclusione di colpi ma, si sa, quando c’è da giocare sporco Jimmy non ha rivali ed infatti, facendo letteralmente carte false, riesce a far sì che Chuck risulti colpevole di una grave negligenza lavorativa che gli provocherà un’enorme perdita sia economica che di reputazione.

Chuck tutte le volte che subisce un duro colpo da parte di Jimmy finisce per stare male manifestando una riacutizzazione dei sintomi e ritiro sociale. Questi aggravamenti della salute di Chuck puntualmente determinano un riavvicinamento da parte di Jimmy, che si sente in colpa e non riesce a voltare le spalle al fratello, soprattutto in virtù di questo suo stato di sofferenza psichica. Ma proprio quando Jimmy è spinto da compassione e affetto verso il fratello, Chuck contrattacca e sferra i suoi colpi con astuzia e cinismo arrivando persino a far incarcerare suo fratello.

In questa fase della storia sembra proprio che sia la rivalità con suo fratello Jimmy a rappresentare la principale motivazione per Chuck a riprendersi dalla malattia. Preso dalla “lotta” contro suo fratello, Chuck riesce ormai a svolgere quasi tutte le attività della vita quotidiana: va a lavoro di giorno senza la necessità di prendere misure protettive, è riuscito a tornare in tribunale e partecipa attivamente a tutte le riunioni a cui viene invitato.

Jimmy però, da quando è stato arrestato è cambiato. Adesso non sembra più disposto a perdonare Chuck e a farsi impietosire dalla sua fragilità psicologica. Durante un intervento pubblico di Chuck, Jimmy gli sferra un duro colpo dimostrando davanti a tutti che il problema di Chuck non è frutto di una condizione medica ma bensì di un disturbo mentale.

Questo evento getta Chuck nello sconforto più totale, ma prova ancora a trovare la forza di rialzarsi e decide di contattare la Dottoressa Cruz, con cui inizia un percorso di psicoterapia. Durante uno dei colloqui con la psichiatra, Chuck esprime chiaramente il suo disagio nel cominciare a considerare l’eventualità che sia davvero affetto da un disturbo psichico, di seguito riporto uno stralcio della seduta:

Chuck: ho avuto un incidente. È successo in pubblico, davanti alla gente… È stata la peggiore esperienza della mia vita. Mi è stata data una prova, in pubblico e senza alcuna ombra di dubbio, che c’era una batteria caricata al massimo molto vicina al mio corpo quasi da 2 ore… e non ho sentito niente.

Dott.ssa Cruz: cosa significa per lei?

Chuck: … questa patologia, per me è reale quanto lo è quella sedia, reale come questa casa, reale quanto lei, ma… ma se invece non lo fosse? Se fosse solo nella mia testa? E se così fosse, se non fosse reale… allora che cosa ho fatto?

Grazie al lavoro con la Dottoressa Cruz, Chuck impara sempre di più a gestire i sintomi della sua malattia, ma appena sta per rimettersi in piedi subisce un altro duro colpo da parte di Jimmy e questa volta purtroppo sarà il colpo di grazia.

Epilogo

Jimmy sparge la voce che Chuck sia psicologicamente instabile facendogli aumentare il premio dell’assicurazione professionale. Chuck è intenzionato ad intentare causa contro la Compagnia assicurativa, ma Howard, il suo amico e socio di vecchia data, in questa occasione gli volta le spalle. La storia di amicizia e collaborazione tra i due è arrivata al capolinea. Howard ormai ritiene Chuck non più in grado di portare avanti l’attività lavorativa e, temendo un crollo dell’immagine dello studio legale, prima propone a Chuck di ritirarsi in pensione e poi, di fronte al rifiuto di quest’ultimo, trama contro di lui arrivando ad ottenere, grazie alla maggioranza dei voti degli associati, il suo allontanamento ed estromissione dagli affari dello studio.

Chuck torna a rinchiudersi in casa e, dopo aver avuto l’occasione di parlare per l’ultima volta con Jimmy, si aggrava come mai prima. Arriva a smantellare le pareti della propria abitazione convinto che ci sia nascosta da qualche parte una fonte di onde elettromagnetiche che gli causa enorme dolore.

Chuck si è lasciato andare ed ormai non riesce più a trovare motivazioni per rialzarsi. Una sera, stanco e solo, Chuck guarda i suoi giornali e la sua lampada da campeggio, decide di far divampare un incendio e si lascia morire tra le fiamme.

Questo triste epilogo deve farci riflettere e metterci in guardia da una società dove un individuo preferisce togliersi la vita pur di fare i conti con la malattia mentale, come se questa fosse una colpa, un segno di debolezza o comunque qualcosa di cui vergognarsi.

Analisi in chiave clinica

Non è possibile elaborare una vera e propria diagnosi clinica poiché mancano troppe informazioni rilevanti che non emergono dalla serie tv, ma che invece sarebbe stato necessario approfondire. Tuttavia, ai fini dell’intrattenimento e della divulgazione, nella seguente sezione cercherò di presentare una breve concettualizzazione del caso di Charles McGill da un punto di vista psicologico. I principali riferimenti teorici che seguirò sono:

  • La Teoria dell’Attaccamento di John Bowlby (1972, 1975, 1983)
  • Il Modello Dinamico Maturativo di Patricia Crittenden (2008)
  • La Teoria delle Organizzazioni di Significato Personale di Vittorio Guidano e Giovanni Liotti (1983)
  • Il Modello a 3 Assi per la formulazione del caso secondo la prospettiva cognitivo-costruttivista ed evolutiva di Furio Lambruschi (2018).

Diagnosi descrittiva ed esplicativa

Secondo il DSM-5, che è un manuale pubblicato dall’Associazione Americana di Psichiatria e serve a fare diagnosi seguendo dei parametri oggettivi, Charles McGill sembrerebbe essere affetto da Fobia Specifica con Disturbo Delirante di natura somatica e continuativa.

È un paziente che a lungo è riuscito a sopperire al suo grave disturbo mentale grazie a delle spiccate doti intellettive, culturali e sociali anche se, tuttavia, mostra delle difficoltà metacognitive “in prima persona” ossia delle difficoltà ad osservare e riflettere adeguatamente sulla propria attività mentale.

Nei suoi atteggiamenti si scorge un’organizzazione di Significato Personale di tipo misto Fobica/Ossessiva. Nelle relazioni interpersonali, in particolar modo con le figure affettive più significative, Charles sembra alternare due Strategie di Attaccamento di tipo C-7 (nascostamente minaccioso con l’ossessione per la vendetta) e C-8 (paranoico).

Analisi storica

L’insorgenza della malattia pare collocabile nel periodo immediatamente successivo al divorzio (voluto principalmente da Rebecca per ragioni non specificate). Una crisi relazionale di questo tipo è potenzialmente in grado di produrre uno squilibrio affettivo e richiede una rielaborazione in chiave identitaria che probabilmente Charles non è mai riuscito a fare. Il nostro protagonista non ha avuto modo di integrare quell’esperienza con i suoi contenuti più emotivi, che sono rimasti invece inascoltati. Questo deficit integrativo ha prodotto una disregolazione emotiva “in eccesso” producendo dei sintomi fobici e di ritiro sociale.

Analisi funzionale

Il Disturbo che Charles ha sviluppato probabilmente gli permetteva di spiegarsi la sua solitudine e il suo graduale distacco dalla società come una “scelta forzata” o comunque come un qualcosa che gli era capitato senza che lui ne avesse alcuna responsabilità. Potrebbe essere stato un accomodamento identitario che nel momento in cui è avvenuta la separazione con Rebecca era forse l’unico realizzabile con gli strumenti mentali che Charles possedeva.

La manifestazione spontanea di questi sintomi che Charles con un delirio cercava di spiegarsi, gli consentiva inoltre di “controllare” la relazione con la sua unica figura familiare ancora in vita ossia il fratello James. Abbiamo avuto modo di vedere nel corso del racconto che tutte le volte che Charles stava male, James smetteva di combinare guai e correva da suo fratello maggiore impegnandosi con tutte le sue energie a garantirgli vicinanza e supporto. Quest’ultimo è un aspetto rilevante in chiave clinica poiché consente di produrre una diagnosi funzionale del problema ovvero rispondere alla domanda “quali sono i vantaggi diretti o indiretti che produce il sintomo?” Individuare questi elementi che vengono definiti fattori di mantenimento del problema è fondamentale per risolvere un caso di questo tipo. Non credo sia frutto della coincidenza infatti che la malattia sia peggiorata drasticamente proprio quando James ha smesso di rispondere a queste “chiamate” di Charles che, a quel punto, ha perso il controllo dell’unica strategia che fino ad allora gli aveva permesso di garantirsi la vicinanza affettiva dell’ultima figura d’attaccamento che gli era rimasta.

Intervento clinico

Quando Charles si è rivolto alla psichiatra ha iniziato un percorso di terapia a stampo cognitivo comportamentale che, per mezzo di un lavoro di auto-osservazione su un diario e su delle schede chiamate ABC, gli aveva permesso di cominciare a fronteggiare i sintomi della malattia. Questo è considerato uno degli obiettivi iniziali di una terapia. Il raggiungimento di tale traguardo ha prodotto, come previsto, un aumento dell’autostima e dell’auto-efficacia percepita. Successivamente la terapia avrebbe dovuto pian piano passare ad una fase successiva dove il problema viene affrontato a più ampio raggio, comprendendone le cause scatenanti, facendo emergere delle modalità disfunzionali di lettura del mondo e producendo una profonda conoscenza di sé stessi e della propria storia di vita.

Un lavoro così fatto dovrebbe portare come risultato sia una remissione dei sintomi sia una riduzione della probabilità di ricaduta.

Sfortunatamente Charles non ha avuto l’opportunità di arrivare fino in fondo alla terapia e non sapremo mai come sarebbe andata a finire se quella sera non avesse deciso di accendere un fuoco e spegnere la sua vita.

Conclusione

Ho deciso di raccontare la storia di Chuck perché nella forma, e purtroppo anche nell’epilogo, è simile ad altre drammatiche storie di vita reale. Gli autori della serie TV Vince Gilligan e Peter Gould, con maestria hanno narrato una storia tristemente realistica facendo emergere alla perfezione la personalità e il disagio del protagonista, dimostrandosi sensibili al tema della salute mentale e affrontandolo con coraggio ed originalità.

 

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