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La resilienza: un piegarsi senza spezzarsi

La resilienza è così sinonimo di chi, anche di fronte alle situazioni stressanti della vita, non perde mai la speranza e continua a lottare contro le avversità (Trabucchi P., 2019).

 

Di fronte alla sofferenza l’uomo ha sempre cercato, e continuerà a farlo, di trovare modi, siano essi magici o razionali, in grado di ridurre la probabilità che un processo morboso si manifesti (Becciu M., Colasanti A.R., 2016).

Nella mitologia greca e poi nella mitologia romana, Igea e Panacea, figlie di Esculapio, Dio della medicina, incarnavano simbolicamente la prevenzione e la cura. Pensare, quindi, che la prevenzione sia un concetto tipico dell’età moderna è un errore. Tuttavia, la sistematizzazione delle conoscenze a riguardo ha avuto bisogno di molto altro tempo e forse tutt’oggi siamo ancora lontani da una chiarezza concettuale e da una sistematicità operativa (Ammaniti M., 2006).

Le origini del termine resilienza

Fino a qualche tempo fa, il termine resilienza era utilizzato solo per designare la proprietà fisica di un materiale, indicando così l’attitudine di un corpo a riacquistare la propria forma iniziale dopo aver subito una deformazione causata da un impatto (Castelletti P., 2006). La resilienza è, quindi, la capacità dei materiali di resistere ad urti improvvisi e di sopportare sforzi applicati bruscamente senza spezzarsi e senza riportare incrinature (Becciu M., Colasanti A.R., 2016).

Conoscere la resilienza di un materiale è fondamentale perché consente di prevedere il suo comportamento qualora fosse sottoposto a forti sollecitazioni. Riportando tale concetto nell’ambito della psicologia, potremmo dunque pensare che la resilienza sia una qualità che una persona possiede oppure non possiede. Eppure, a differenza dei materiali, l’uomo possiede una caratteristica in più: è capace di apprendere (Trabucchi P., 2019).

Per questo motivo, c’è chi preferisce ricollegare il concetto di resilienza al suo significato etimologico, facendo così riferimento al verbo latino “resalio” (saltare, rimbalzare per indicare il movimento repentino di risalita in barca). Infatti, nell’antichità veniva utilizzato questo verbo per indicare coloro che, durante una tempesta quando la barca si era rovesciata, lottavano strenuamente per risalirvi sopra. La resilienza è così sinonimo di chi, anche di fronte alle situazioni stressanti della vita, non perde mai la speranza e continua a lottare contro le avversità (Trabucchi P., 2019).

Le caratteristiche delle persone resilienti

Come osserva la psicologa e professoressa universitaria, Marie Anaut, essere resiliente non significa essere invincibili. Le persone resilienti non sono immuni alla sofferenza, non ignorano l’esperienza dolorosa, ma riescono ad apprendere da essa. Secondo l’Anaut, è più corretto paragonare la persona resiliente ad un Batman piuttosto che ad un Superman, ossia ad un eroe che possiede molte qualità ma non è dotato di super poteri. Così la persona resiliente può restare ferita, ma riesce ad andare oltre questa ferita per affrontare con coraggio e competenza la propria vita (Anaut M., 2003).

Dunque, affinché si possa parlare di resilienza sono fondamentali due condizioni: l’incontro con circostanze altamente stressanti, da un lato, e l’evoluzione soddisfacente in termini di adattamento psicosociale e di benessere soggettivo, dall’altro (Becciu M., Colasanti A.R., 2016).

Non bisogna quindi pensare che la resilienza sia l’equivalente della “resistenza”; si potrebbe anche dire che essa ne rappresenta l’opposto, cioè una “non resistenza” funzionale alla sopravvivenza, “un piegarsi senza spezzarsi” (Castelletti P., 2006). Essere una persona resiliente non significa impedire nella nostra vita la presenza di preoccupazioni, dolori o paure; al contrario, essere resilienti significa accettare i carichi e le difficoltà come parte integrante della vita e avere la certezza di poter uscire più forti di prima dalle crisi, avendole vissute ed avendo appreso da esse (Becciu M., Colasanti A.R., 2016).

Non è difficile riconoscere un individuo resiliente, poiché egli presenta sempre una serie di caratteristiche inconfondibili: è un ottimista, riconosce gli eventi negativi come momentanei e circoscritti, è fortemente motivato a raggiungere i suoi obiettivi e tende a vedere i cambiamenti come un’opportunità (Centro di Ascolto Psicologico, 2017).

Ad utilizzare il termine di resilienza per la prima volta è stata la psicologa americana Emmy Werner: nel corso di una ricerca longitudinale sui bambini delle isole Hawaii, non scolarizzati, senza famiglia e abbandonati alla violenza e alle malattie, constatò che a 30 anni ben il 30% di loro era alfabetizzato, lavorava e aveva creato una famiglia. La Werner aveva incentrato per la prima volta la sua ricerca su quei soggetti piegati dalle avverse condizioni socioeconomiche e bisognosi di aiuto: studiò le modalità con le quali un bambino su tre era riuscito, nonostante tutto, a trovare una forma adeguata di adattamento e a vivere una vita serena (Werner E. E., Smith R. S., 1989). Gli psicologi americani hanno così adottato negli anni ‘90 il termine resiliency per descrivere la capacità dei bambini di resistere a stress anche molto acuti (Castelletti P., 2006).

I fattori di rischio e di protezione della resilienza

Tutt’oggi è attivo e irrisolto un dibattito relativo alla formulazione di una definizione condivisa dei fattori di rischio e di protezione e ad una coerente differenziazione tra tali variabili (Prati G., Pietrantoni L., 2006). Gli individui resilienti riescono a trovare in loro stessi, nelle relazioni e nei contesti di vita quegli elementi di forza per superare le avversità, definiti anche fattori di protezione, che si contrappongono ai fattori di rischio, cioè tutto ciò che diminuisce la capacità della persona stessa di sopportare il dolore (Becciu M., Colasanti A.R., 2016).

Coie e colleghi raggruppano i fattori di rischio in 7 classi (Coie J.D. et all, 1993, p. 114):

  • Circostanze familiari: classe sociale bassa, conflitto familiare, malattia mentale in famiglia, famiglia molto numerosa, scarso legame con i genitori, disorganizzazione familiare, comunicazione disturbata;
  • Difficoltà emozionali: esperienze di abuso nell’infanzia, apatia, chiusura, immaturità emozionale, eventi di vita stressanti, bassa autostima, scarso controllo emotivo;
  • Problemi scolastici: insuccesso, demoralizzazione scolastica;
  • Problemi interpersonali: rifiuto dei pari, alienazione e isolamento;
  • Contesto ecologico: disorganizzazione sociale, ingiustizie razziali, disoccupazione, povertà estrema;
  • Handicap costituzionali: complicazioni perinatali, disabilità sensoriali, handicap organici, disfunzioni di natura innata;
  • Ritardi nello sviluppo di abilità: intelligenza sotto la norma, incompetenza sociale, deficit attentivi, disabilità di lettura, scarse abilità e attitudini al lavoro

I fattori protettivi, invece, hanno un ruolo fondamentale nel contrastare gli effetti negativi delle circostanze di vita avverse, potenziando così la resilienza dell’individuo (Trabucchi P., 2019). Differenti ricerche hanno indicato l’esistenza di tre macroaree di fattori protettivi: le caratteristiche individuali, l’ambiente famigliare e il contesto sociale allargato (Werner E., Smith R.S., 1992). Relativamente alle caratteristiche individuali, tra i fattori di protezione è possibile distinguere l’autonomia, il senso di fiducia personale, l’apertura alle relazioni sociali, la capacità di risolvere i problemi e prendere decisioni, il porsi degli obiettivi ed essere in grado di raggiungerli. Inoltre, affinché una persona diventi resiliente, è necessario che nella propria storia di vita abbia una figura di riferimento positiva sia dentro che fuori dalla famiglia, abbia la possibilità di fare delle esperienze che aumentino la propria autostima e autoefficacia. Una comunità competente, infine, riesce ad effettuare degli interventi di promozione del benessere favorendo la coesione sociale, la partecipazione e la solidarietà (Losel F., 1994). Altri importanti fattori protettivi sono l’ottimismo, l’autostima, la robustezza psicologica (hardiness) e le emozioni positive (Cantoni F., 2014).

Pertanto, è importante ricordare che la resilienza è dinamica, frutto dell’interazione individuo e ambiente ed è sia individuale che sistemica; ne consegue che è più adeguato riferirsi ad essa come ad un processo piuttosto che ad un concetto (Becciu M., Colasanti A.R., 2016). E solo imparando a conoscerla meglio potremo riconoscerla in ognuno di noi stessi e potenziarla.

 

“Psicoterapia cognitiva. Comprendere e curare i disturbi mentali” (2020) a cura di Perdighe e Gragnani – Recensione

Psicoterapia cognitiva rappresenta un ricchissimo e dettagliato contributo dell’approccio psicoterapeutico ad indirizzo cognitivo comportamentale nel trattamento e nella presa in carico dei disturbi mentali.

 

Mutuando e parafrasando la prefazione, il volume può essere consultato per cercare di rispondere a due domande essenziali nella pratica clinica: come nasce e come la pensa una persona?

Metaforicamente parlando, infatti, una psicopatologia non nasce mai da sola: nasce sempre inserita in un contesto preciso, in un’epoca storica e in una famiglia, oltre che nella mente di un singolo individuo. E infine, per poterla “gestire” è essenziale, in particolar modo per questa tipologia di approccio clinico, capire quali sono i pensieri ad essa sottesi, ossia i meccanismi di funzionamento mentale che generano e perpetuano la sofferenza.

Il manuale segue la classificazione dei disturbi riportata dal DMS 5, con l’obiettivo di mantenere una linea di comunicazione e una cornice di comprensione della patologia “universalmente riconosciuta”.

Questo rende i diversi capitoli anche fruibili come componenti a sé stanti, parti di un unico corpo che possono funzionare in autonomia perché guidati e sorretti dai medesimi principi.

Nonostante il volume sottolinei l’importanza delle prove di efficacia per ogni singolo disturbo (ossia, quale approccio terapeutico ha i risultati migliori per quello specifico disturbo?), allo stesso tempo viene sottolineato come una relazione terapeutica efficace travalichi lo specifico approccio.

La relazione che si costruisce insieme al paziente e la capacità del terapeuta di infondere fiducia e di poter lavorare con creatività, adattando se stesso e le proprie “tecniche” alla persona che si ha davanti, sembrano “valere” più di una singola tecnica applicata “alla perfezione”.

L’approccio cognitivo comportamentale illustrato nel testo ritiene fondamentale un’accurata formulazione del caso, così da poter rintracciare i processi psicologici che generano e mantengono la sofferenza, non consentendo al paziente di evolvere e cambiare.

Altro punto focale è la concezione della psicopatologia come sofferenza emotiva, cioè “emozioni dolorose qualitativamente appropriate ma di intensità e durata esagerate”.

Infine, la Teoria della Mente (Theory of Mind) rappresenta un altro caposaldo che fa da cornice al volume, sostenendo che i costrutti di scopo e rappresentazione sono strumenti indispensabili per comprendere le emozioni, i pensieri e le condotte delle persone (e, di conseguenza, di coloro che nel continuum “normalità” vs patologia, si collocano verso quest’ultima).

Il testo è scritto in un linguaggio preciso, tecnico ma fruibile anche da chi è agli inizi della propria pratica clinica o sta iniziando a conoscere il congitivismo di Beck, la Schema Focused Therapy e il costruttivismo di Kelly (tutti e tre capisaldi auto-dichiarati del volume).

Il manuale non tratta semplicemente di psicopatologia, ma nella sua estensione, parte da una disanima critica del disagio emotivo (comprenderlo prima che curarlo), per poi illustrare alcune tecniche che producono il cambiamento (seguendo sempre la cornice teorica di riferimento e di partenza, chiaramente), per poi dettagliare ogni disturbo (seguendo, come anticipato, la struttura del DSM 5) e “illustrandolo” con brevi vignette cliniche.

La lettura è scorrevole, piacevole e chiara, oltre che ricca di bibliografia a cui attingere qualora si volesse approfondire uno o più aspetti trattati al suo interno.

Come ogni manuale, ogni lettura e rilettura consente di scoprire o approfondire qualcosa di nuovo, ma i primi capitoli possono anche essere “vissuti” e sentiti come un’interessante approfondimento o introduzione (a seconda dei casi) dell’approccio cognitivo – comportamentale.

 

“Guardare, ma non toccare”: gli effetti della capacità di autoregolazione sul rischio di infedeltà

L’infedeltà può determinare conseguenze dannose sia per coloro i quali compiono atti infedeli (Foster & Misra, 2013), sia per i loro partner (Charny & Parnass, 1995).

 

Non sorprende che il tradimento sia il predittore più comune della fine di una relazione (Amato & Previti, 2003). Dunque, il sentirsi attratti da altre persone potrebbe rappresentare un campanello d’allarme per coloro i quali possiedono una relazione sentimentale stabile. Ma è realmente così?

Il legame tra l’infedeltà e l’attenzione rivolta ad altri

Secondo alcuni autori evitare di guardare alternative desiderabili riduce la tentazione e, di conseguenza, la probabilità di tradire (Maner, Gailliot, & Miller, 2009).

Una cosa però è certa: le persone attraenti sono difficili da ignorare e, dal momento in cui si è evinto che le persone sono più propense a perseguire cose desiderabili – come il cibo delizioso – dopo aver dedicato loro attenzione (Harris, Bargh, & Brownell, 2009), è stato sostenuto che, guardare soggetti attraenti, motivi le persone a perseguire rapporti con loro (Buss, 2016).

Diverse teorie relazionali sostengono che le persone impegnate in relazioni stabili dovrebbero dunque essere motivate ad evitare di prestare attenzione ad altri. Per esempio, Kenrick, Li e Butner (2003) sottolineano il valore adattativo del mantenimento di relazioni a lungo termine, al fine di assicurare la sopravvivenza della prole e, dunque, suggeriscono che gli esseri umani abbiano sviluppato bias, come ignorare i partner alternativi attraenti, per proteggere le loro relazioni primarie.

Il legame tra l’infedeltà e l’autoregolazione

Numerose ricerche concordano con l’idea che le persone prestino meno attenzione agli altri, a seconda della qualità della loro relazione sentimentale (Birnbaum et al., 2019; Maner et al., 2009). Tuttavia, solo uno studio ha esaminato se tale attenzione aumenti effettivamente il rischio di infedeltà. In particolare, McNulty e colleghi (2018) hanno condotto due studi longitudinali su coppie appena sposate ed hanno dimostrato che il prestar meno attenzione ad alternative attraenti diminuiva la probabilità che i partecipanti mostrassero il desiderio di avere rapporti sessuali con qualcuno che non fosse il loro coniuge. Tuttavia, il fatto che guardare altri soggetti affascinanti conduca all’infedeltà dovrebbe dipendere dalla capacità di resistere a tali tentazioni. In particolare, prestare attenzione agli altri dovrebbe aumentare il rischio di infedeltà solo quando le persone non possiedono la capacità di autoregolazione, ovvero la capacità di resistere agli impulsi inizialmente soddisfacenti che ostacolano gli obiettivi a lungo termine (Carver & Scheier, 2004). La capacità di autoregolazione è influenzata sia da fattori disposizionali che situazionali. In particolare, sebbene le differenze individuali nell’autocontrollo siano in qualche modo stabili nel tempo (Hay & Forrest, 2006), la capacità di autoregolazione può anche essere temporaneamente compromessa, ad esempio quando le persone sono malate o stressate (Hagger et al., 2010).

Quindi, la capacità di autoregolazione dovrebbe far sì che i soggetti resistano alle tentazioni, nonostante essi siano attratti da persone differenti dal proprio partner ma, attualmente, ciò non è ancora stato verificato.

Due studi presi in esame si sono posti l’obiettivo di dimostrare se le persone in relazioni stabili abbiano maggiori probabilità di attuare comportamenti infedeli, come risultato dell’attenzione iniziale designata ad alternative attraenti. Nello specifico, gli autori hanno ipotizzato che ciò sarebbe avvenuto solo tra coloro i quali manifestano difficoltà nel resistere a tali tentazioni. Di contro, hanno supposto che prestare attenzione alle alternative attraenti non avrebbe aumentato il rischio di infedeltà tra coloro i quali possiedono una maggiore capacità di autoregolazione.

Gli studi analizzati hanno dimostrato come la relazione tra l’infedeltà e l’attenzione dedicata a soggetti attraenti differenti dal proprio partner, dipenda per lo più dalla capacità di autoregolazione dei singoli. In particolare, l’attenzione rivolta verso alternative attraenti era associata ad un maggior interesse verso soggetti differenti, ad una maggiore probabilità di iscrizione su siti di incontri progettati ad hoc per promuovere l’infedeltà e ad un’infedeltà effettiva, ma solo per coloro i quali possedevano un basso livello di autocontrollo disposizionale. Al contrario, per i partecipanti con una maggiore capacità di autoregolazione, l’attenzione rivolta ad alternative attraenti non era associata a questi risultati. Così, la tendenza ad osservare soggetti attraenti comportava un maggior rischio di infedeltà, o di comportamenti che contribuiscono al tradimento, solo quando le persone non possedevano la capacità di resistere a tali tentazioni.

Conclusioni

Questi risultati comportano implicazioni teoriche e pratiche rilevanti. In primo luogo, il presente studio è tra i primi a mostrare le conseguenze comportamentali determinate dalla presenza di alternative attraenti. Dal momento in cui le persone impegnate evitano i soggetti affascinanti (Miller, 1997), è stato a lungo postulato (Rusbult et al., 2004) che evitare le suddette alternative sia un meccanismo con cui le persone possono mantenere le loro relazioni. Il lavoro appena presentato, invece, mette in luce come ciò dipenda dalla capacità di autoregolazione situazionale e disposizionale dei singoli.

In secondo luogo, la ricerca sfida l’idea che prestare attenzione alle alternative sia sempre dannoso per le relazioni (Maner et al., 2009). Difatti, se la capacità di autoregolazione viene mantenuta, l’impulso di prestare attenzione ad alternative seducenti non deve necessariamente essere soffocato. Infatti, evitare deliberatamente di guardare gli altri potrebbe anche sortire l’effetto opposto, aumentando il rischio di infedeltà (DeWall et al., 2011).

Infine, questi studi comportano implicazioni preliminari per i professionisti che aiutano le coppie a prevenire l’infedeltà. Ad esempio, dato che le persone hanno diverse aspettative e credenze sulle relazioni (Snyder, Baucom, & Gordon, 2008), le coppie potrebbero beneficiare di una discussione esplicita su ciò che sia o meno accettabile all’interno della loro relazione, come guardare e/o perseguire delle alternative. Oltre a ridurre il conflitto su credenze divergenti, questa disputa potrebbe anche prevenire l’infedeltà, dal momento in cui le persone possiedono maggiori probabilità di raggiungere i loro obiettivi quando questi ultimi vengono esplicitati (Locke, 1996). Allo stesso tempo, potenziare le strategie di autoregolazione, tra coloro i quali possiedono maggiori difficoltà nel resistere alle tentazioni, permetterebbe loro di preservare i propri rapporti sentimentali (Baumeister, et al., 2006).

 

Quando psicoterapeuta e paziente sono in un ambiente virtuale condiviso. Realtà virtuale multi-utente e le nuove frontiere della psicoterapia a distanza

Le applicazioni terapeutiche maggiormente esplorate coinvolgenti la Realtà Virtuale riguardano le tecniche di rilassamento e di esposizione, ora si aprono però nuove possibilità.

Greta Riboli – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, Milano

 

Già nel 2015 uscì un articolo sull’International Journal of Child-Computer Interaction, che indagava l’efficacia di un game in realtà virtuale multi-utente per favorire la collaborazione nei bambini con disturbi dello spettro autistico (Pearson, 2015). Ma da allora ad oggi come ci siamo mossi nel campo della terapia in virtuale?

La realtà virtuale è uno strumento tecnologico che è capace di creare la completa illusione di trovarsi in un posto diverso rispetto a quello reale, sia esso un ambiente fantastico o realistico.

La realtà virtuale costituisce una nuova modalità di conoscenza esperienziale, che pone la persona al centro dell’apprendimento stesso (Lanier & Biocca, 1992). In questa esperienza l’utente è immerso a livello sensoriale in un mondo altro, in cui le percezioni sensoriali provenienti dal mondo “reale” non sono più accessibili. Quando una simulazione virtuale riesce a riprodurre anche le componenti sensoriali oltre a quella visiva e uditiva (es. olfattiva, o tattile) si fa riferimento ad un’esperienza multisensoriale oppure estensiva (“extensivevirtual reality”).

Il poter sperimentare mondi immateriali è permesso dall’immersività, ovvero dal livello di fedeltà sensoriale stesso dell’esperienza virtuale e dal livello di interazione, in cui è osservabile una corrispondenza ben sincronizzata tra movimenti dell’utente e interfacce virtuali.

La presenza è un altro fenomeno fondamentale per lo studio della realtà virtuale come strumento terapeutico, infatti è definibile come la risposta psicologica soggettiva dell’utente all’interno dell’esperienza di realtà virtuale, o meglio, la sensazione di “essere lì” (Blascovich, 2010). Il fenomeno della presenza in realtà virtuale può assumere diverse forme, tra cui quella della presenza spaziale, sociale e dell’auto-presenza.

Le tecniche di rilassamento ed esposizione attraverso la realtà virtuale

Le applicazioni terapeutiche maggiormente esplorate nell’ultimo decennio (Freeman et al., 2017), coinvolgenti l’uso della Realtà Virtuale riguardano (i) le tecniche di rilassamento; (ii) la tecnica dell’esposizione applicata alle componenti ansiose e traumatiche; (iii) la tecnica dell’esposizione applicata ai disturbi alimentari.

Per quanto riguarda il rilassamento, le tecniche di rilassamento con biofeedback sono integrabili al sistema virtuale, misurando la risposta psicofisiologica del paziente (ad esempio tramite rilevazione dell’attività elettrodermica) in corrispondenza a scenari virtuali, con il possibile scopo di esporre il paziente a scenari stressanti, oppure immergerlo al contrario in ambienti rilassanti in cui vi è una guida al rilassamento.

La tecnica dell’esposizione graduale o il flooding sono le tecniche più implementate in realtà virtuale per il trattamento di diversi disturbi (ad esempio disturbi d’ansia). La letteratura scientifica parla di un’efficacia dell’esposizione in realtà virtuale parificabile a quella in vivo, e maggiore rispetto all’esposizione in immaginato (Carl et al., 2019). I vantaggi citati più e più volte dell’esposizione in realtà virtuale sono riassumibili nei seguenti punti: personalizzazione degli stimoli fobici in base alla specificità del disturbo; possibile creazione di una gradualità di esposizione ad hoc; vantaggio ecologico di poter esporre ad ambienti che in vivo comporterebbero un dispendio di risorse importante, tanto da rendere impossibile l’applicazione della tecnica; tutelare la privacy del paziente rimanendo nelle mura dello studio; ed infine il fatto di poter esporre il paziente allo stimolo fobico in un setting protetto. La tecnica dell’esposizione è stata applicata ai disturbi d’ansia, al disturbo da stress post-traumatico, al disturbo ossessivo-compulsivo (esposizione prevenzione risposta) e alle psicosi (Freeman, et al. 2017).

La tecnica dell’esposizione è stata anche spesso usata nel campo dei disturbi alimentari, attraverso la mirror exposure therapy. Grazie alla realtà virtuale, oltre a esperire ambienti immateriali ricreati ad hoc, è possibile anche incarnarsi in corpi ricreati (avatar), con caratteristiche corporee uguali, simili o diverse dalle proprie. Manipolando il corpo virtuale è così possibile indagare le reazioni emotive dell’utente attraverso le risposte fisiologiche dello stesso, le risposte comportamentali e gli atteggiamenti, e di conseguenza lavorare su questi aspetti. Il processo di incarnazione o embodiment emerge quando l’utente percepisce le caratteristiche del corpo avatar come se fossero appartenenti al proprio corpo reale (Maselli & Slater, 2014). La tecnica usata per favorire l’incarnazione consiste in correlazioni visuo-percettive sincrone, ispirate all’illusione della mano di gomma (Botvinick& Cohen, 1998), precedentemente illustrata nell’articolo Embodiment in Avatar in Realtà virtuale: gli effetti a livello comportamentale, cognitivo ed emotivo (Riboli, 2021).

In un recente studio di Porras-Garcia e colleghi (2020), un campione di pazienti con anoressia nervosa è stato esposto sistematicamente e gerarchicamente ad una rappresentazione virtuale della propria forma corporea, il cui indice di massa corporea aumentava progressivamente di sessione in sessione (in totale 5). In base alla compilazione del test Physical Appearance State and Trait Anxiety Scale (PASTAS, Reed et al., 1991), i ricercatori invitavano il partecipante a soffermarsi con lo sguardo su diverse parti del corpo, iniziando con le parti del corpo connesse a minori livelli di ansia esperiti, e procedendo con le aree capaci di generare una maggiore ansia nel soggetto. Ogni trenta secondi il livello di ansia veniva misurato con una scala visuo-analogica (paura di prendere peso e ansia per il corpo 0-100) e quando questo risultava al di sotto del 40% rispetto alla misurazione iniziale, avveniva il passaggio all’area corporea successiva (illuminata per facilitare la focalizzazione del paziente). In seguito ad ognuna delle 5 esposizioni, il paziente veniva esposto ad un ambiente rilassante per una durata di 5 minuti.

Studi come questo (Ferrer-García et al, 2017; Ferrer-Garcia et al., 2019), hanno dimostrato che l’esposizione a stimoli critici (come ad esempio parti del corpo specifiche) in realtà virtuale, può aiutare il paziente, oltre a ridurre i livelli di ansia sperimentati, anche a interrompere il ri-consolidamento dei ricordi negativi relativi al corpo, inquadrati teoricamente come bias cognitivi associati alla modalità di elaborazione visiva (Thompson et al., 1999).

La realtà virtuale multi utente in psicoterapia

Le forme di terapia in Realtà Virtuale precedentemente illustrate si basano su un’integrazione di terapia non virtuale a tecniche precise, quali rilassamento o esposizione. Ma la ricerca scientifica ed i protocolli terapeutici si sono mossi in questi anni anche sull’implementazione di sistemi terapeutici in virtuale capaci di essere “somministrati” a distanza. Tra questi si annoverano i famosi progetti del dottor Freeman, in cui, tramite sistemi di intelligenza artificiale, coach virtuali guidano il paziente in ambientazioni virtuali contraddistinte da specifici task e training. Eppure, una delle nuove frontiere dell’uso della realtà virtuale in campo psicoterapeutico è la realtà virtuale multi-utente, che permette a più utenti di condividere ambientazioni virtuali contemporaneamente. La realtà virtuale multi-user è già usata ampiamente nel campo delle scienze mediche, in particolare recenti studi fanno riferimento all’uso della stessa per permettere a diversi partecipanti (medico, paziente e/o caregivers) di interagire tra loro nel mondo virtuale simultaneamente allo scopo di manipolare oggetti virtuali e ad esempio svolgere della fisioterapia nei casi di ictus (Thielbar et al., 2020; Triandafilou et al., 2018; Tsoupikova et al., 2016).

Questa tecnologia apre ampie possibilità, connesse all’uso della realtà virtuale anche come strumento psicoterapeutico in cui la relazione terapeutica viene vissuta nell’ambiente virtuale stesso, senza essere integrata ad un percorso terapeutico vis-a-vis in reale. Questa modalità terapeutica potrebbe essere semplicemente considerata come la versione 2.0 della psicoterapia a distanza, largamente discussa in questo periodo pandemico (Sars-Covid-19, 2020-2021). Eppure, da un recente studio condotto sull’applicazione terapeutica della realtà virtuale multi-user sono emersi diversi spunti di riflessione intorno ai quali ogni psicoterapeuta dovrebbe interrogarsi.

Le sfide della realtà virtuale multi utente

Nello studio di Matsangidou e colleghi (2020) l’obiettivo era quello di esplorare le sfide della realtà virtuale multi-utente (MUVR), come facilitatore tecnologico per la psicoterapia a distanza. In particolare nel presente studio, lo scopo principale era quello di indagare l’accettabilità dello strumento da parte di psicoterapeuti e di pazienti ad alto rischio di sviluppare un disturbo alimentare, attraverso un’intervista semi-strutturata.

Per indagare in modo ampio la fattibilità della terapia a distanza in virtuale, i ricercatori del presente studio hanno progettato diversi ambienti terapeutici e compiti in VR: (i) il compito dei valori ACT; (ii) terapia del gioco; (iii) terapia dell’esposizione allo specchio. All’inizio di questi tre step il partecipante ha modo di esperire le modalità di utilizzo in realtà virtuale tramite un tutorial introduttivo.

Come ben sappiamo, l’Acceptance and Commitment Therapy (ACT) è una terapia cognitivo-comportamentale che sostiene il paziente nel percorso atto a perseguire i propri obiettivi e valori, ma per fare questo uno dei primi step è quello di far emergere i valori individuali significativi di ciascuno. In questo studio è stato usato il protocollo AcceptME (Karekla&Nicolaou, 2015), un programma di gamification dedicato a pazienti che soffrono di disturbi alimentari o preoccupazioni legate al peso, con l’obiettivo di guidarli nell’accettazione dei propri pensieri e delle proprie emozioni, per poi muoversi a livello comportamentale verso una direzione, nonostante la presenza di queste emozioni e pensieri indesiderati (anche relativi alle forme o al peso corporei) (Hayes et al., 2011). Per lavorare in questa direzione, i ricercatori hanno sviluppato due compiti virtuali in VR in cui il partecipante può entrare in contatto con i propri valori e costruire, secondariamente, una mappa dei propri valori afferrandoli e maneggiandoli. In seguito a questi compiti, i ricercatori si aspettano che i pazienti abbiano una maggiore chiarezza valoriale e di conseguenza le scelte comportamentali possano divenire più semplici da perseguire.

Il secondo step prettamente terapeutico è la play therapy, contraddistinta da due compiti specifici, uno di pittura e l’altro di lancio della palla. Questi giochi sono stati introdotti nel protocollo per ridurre l’impulsività, migliorare la regolazione emotiva, e per esprimere le proprie emozioni e pensieri (Fagundo et al., 2013)

Infine, attraverso la tecnica dell’esposizione allo specchio, il partecipante, o meglio il suo avatar, una figura antropomorfa a fumetti, modificata a somiglianza dai partecipanti stessi, si specchia virtualmente, esponendosi alla propria forma corporea. A poco a poco, l’abbigliamento dell’avatar viene rimosso lasciando l’avatar in intimo, e durante questo processo di disvelamento, viene indicato al partecipante di guardare attentamente ogni parte del proprio corpo dando risalto alle proprie emozioni e ai propri pensieri, così da poter essere discussi con il terapeuta.

In questo studio, una delle maggiori particolarità è la scelta dell’avatar terapeuta, rappresentato da un cartone animato anziché da una figura antropomorfa, coerentemente ai risultati ottenuti nello studio di Lee e colleghi (2012), i quali fanno riferimento ad una riduzione dello stress percepito dal paziente in terapia di fronte alla visualizzazione di figure animate.

Dalle interviste semi-strutturate e dai questionari sull’usability e sul senso di presenza in virtuale compilati dai 14 partecipanti e dai 7 terapeuti, i quali non si sono mai incontrati di persona tra di loro, sono emersi diversi spunti di riflessione importanti relativi a (a) il ruolo della gamification; (b) la figura terapeutica non antropomorfa e alla modalità senza incontro di persona tra paziente e terapeuta; (c) il ruolo dello stress e della paura nell’uso del sistema virtuale da parte degli utenti.

Dalle interviste è emerso da parte di partecipanti e terapeuti come la gamification ha migliorato la comunicazione tra paziente e terapeuta, permettendo ai pazienti di esprimere più liberamente le proprie emozioni, creando un senso di fiducia e comprensione. In questo modo il terapeuta è stato spogliato agli occhi dei pazienti dal suo ruolo autoritario e formale, ritagliandosi anche un ruolo diverso che permette al paziente di relazionarsi in modo più naturale. Detto questo un terapeuta ha riportato come, a suo parere, proporre diverse attività di play therapy possa essere funzionale allo scopo di coprire un ventaglio di opzioni di gioco coerenti con gli interessi dei partecipanti. Infatti ha avuto modo di notare come un paziente sembrava trarre più beneficio dalla pittura, piuttosto che dal lancio della palla, mentre l’altro paziente sembrava più interessato al “basket”. Il vantaggio della gamification è stato anche quello, riportato dai pazienti, di diminuire le preoccupazioni e aumentare la sensazione di calma e tranquillità.

Il fatto che il terapeuta fosse una figura non antropomorfa è stato vissuto dai pazienti come un vantaggio ai fini della propria self-disclosure, in quanto la figura umana viene connotata di uno sguardo giudicante, mentre la figura animata è percepita come meno stressante, implementando positivamente la relazione terapeutica. Il fatto che il terapeuta non sia riconoscibile, e così il paziente agli occhi del terapeuta, nonostante ci sia un avatar a rappresentarlo, ha permesso ai partecipanti di sentirsi sicuri anche nella garanzia della propria privacy.

Per quanto riguarda il ruolo dello stress e della paura nell’uso del sistema virtuale da parte degli utenti, alcuni partecipanti hanno manifestato reazioni fobiche nel setting virtuale, eppure nessuno di essi ha chiesto di interrompere la sessione. Sicuramente i partecipanti con minore conoscenza del sistema virtuale hanno manifestato una maggiore difficoltà. Oltre alla parte iniziale, in cui alcuni si sono sentiti spaesati nel sistema virtuale, alcuni hanno vissuto con forte ansia la tecnica dell’esposizione al proprio corpo. Le reazioni ansiose innanzi al proprio corpo, in questo tipo di popolazione, erano state preventivate dai ricercatori, ed è proprio parte del percorso terapeutico sperimentarle per poi andare a ridurle così come nella realtà, così in virtuale e così in virtuale con terapeuta a distanza. La possibilità di osservarsi e di farsi osservare anche dal terapeuta, contraddistinto dalle caratteristiche citate al punto precedente è sicuramente parte della creazione di nuovi apprendimenti.

Grazie a questo studio, che ha il vantaggio di aprire le danze relativamente alla psicoterapia in MUVR e ai futuri studi, i quali dovranno anche orientarsi nell’ottica della verifica dell’efficacia degli interventi terapeutici a distanza con la realtà virtuale multi-user, ci possiamo spingere verso la possibilità di implementare protocolli comportamentali in cui il terapeuta sente la necessità di affiancare il proprio paziente durante l’esercizio stesso anche nelle terapie a distanza. Così come riflettere sul valore dell’eventuale assenza di informazioni fisiognomiche e non verbali (extra postura, che rimane percepibile) nella relazione terapeutica, sicuramente da un lato in un’ottica di minore stress, ma al contempo perdendo informazioni che potrebbero essere utili nella concettualizzazione del paziente. Inoltre, in aggiunta ai classici strumenti a disposizione nelle terapie online a distanza non virtuali, anche la possibilità di cogliere i movimenti del corpo di un paziente anche se mediati da un avatar. Questi sono alcuni esempi, ma la potenzialità dello strumento permetterebbe anche terapie di gruppo in realtà virtuale a distanza, oltre all’implementazione di diversi protocolli terapeutici, godendo della presenza simultanea di terapeuta e paziente, senza sacrificare le capacità del virtuale. Indubbiamente questo terreno pone nuovamente i terapeuti in quell’ottica di continuo aggiornamento e interlocuzione riflessiva tipica del lavoro psicologico.

I giovani e il Covid-19

La mancanza di libertà che abbiamo vissuto e, in parte, stiamo vivendo a causa del Covid rappresenta per gli adolescenti un importante disagio.

 

Il 31 dicembre 2019 le autorità sanitarie cinesi hanno rilevato un focolaio di casi di polmonite a eziologia non nota nella città di Wuhan. Successivamente le stesse autorità hanno confermato la trasmissione interumana del virus e l’11 febbraio l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha annunciato che la malattia respiratoria causata dal 2019-nCoV è stata chiamata COVID-19 (Corona Virus Disease) (Buccolo M., Ferro Allodola V., Mongili S., 2020).

Da febbraio 2020 il Covid-19 ha repentinamente cambiato la vita all’intera popolazione globale, con importanti ripercussioni sul benessere psicosociale dell’intera collettività: tutti noi, infatti, ci siamo ritrovati in una progressiva condizione di allarme, a causa di un virus che ci ha allontanati gli uni dagli altri, costringendoci a rimanere chiusi in casa.

Inizialmente, mossi dalla paura e dalla inesperienza, la prova più grande da superare è stata imparare come mettere e levare i guanti una volta tornati a casa, come disinfettare nel modo corretto le mani, non salutare le persone con una stretta di mano o con un abbraccio ma con il tocco di un gomito, tenere sempre la mascherina e tanto altro.

In realtà la reale e cruda sfida alla quale siamo stati costretti è la capacità di adattamento. Il Covid-19 ci ha costretti a rivedere il nostro concetto di libertà, a rinunciare a ciò che sembrano essere le cose più ovvie, come abbracciare un amico, per il bene di tanti; abbiamo dovuto riorganizzare la nostra routine, combattere con la voglia di rimanere tutto il giorno in pigiama, abbiamo dovuto sopportarci e supportarci all’interno delle nostre quattro mura domestiche, che ormai erano diventate il nostro mondo, dove l’unica finestra alla quale potevamo affacciarci era la televisione. Si è trattato di una «situazione che ha impedito di attingere a delle risorse per fronteggiare i consueti problemi», come ha scritto la psicoanalista Costanza Jesurum su una pagina di L’Espresso (Jesurum C., 2020).

E quindi stavamo lì, sul divano, tutti i giorni alle 18 in punto, in attesa del “bollettino” del giorno, in cui si parlava di numeri difficili da quantificare, che facevano impressione solo quando ti fermavi a pensare che quel numero erano persone, genitori, fratelli, amici, che non c’erano più e che non potevano essere neppure salutati un’ultima volta.

Fin da subito i media hanno sottolineato la scarsa vulnerabilità dei più piccoli agli effetti sistemici del virus: questo ci ha dato un’apparente tranquillità e serenità, sapendo che un male così terribile non avrebbe toccato i nostri figli.

Tuttavia, il benessere dei più piccoli appare assediato allo stesso modo degli adulti, a causa del riflesso delle condizioni familiari, emotive e psicologiche di chi li circonda. Per tutto il tempo, i bambini hanno respirato e continuano a respirare l’aria che li circonda, densa di incertezze, paure e pensieri. Secondo l’UNICEF, almeno 139 milioni di bambini ed adolescenti nel mondo hanno vissuto per almeno 9 mesi un regime restrittivo obbligatorio di permanenza a casa e per poco meno di 200 milioni la permanenza a casa è stata raccomandata (UNICEF, 2021).

Dalle prime fasi della pandemia, l’Istituto Giannina Gaslini di Genova ha attuato un programma di sostegno e di monitoraggio delle condizioni dei bambini e delle loro famiglie, con l’ulteriore obiettivo di individuare precocemente possibili situazioni di criticità in ambito psichico comportamentale (Uccella S., 2020). Tale programma non ha solo fornito un aiuto nella fase acuta della pandemia, ma ha anche permesso di attivare un nuovo servizio, che potrebbe ridurre i rischi di sintomatologie post-traumatiche perduranti nel tempo (Ibidem).

Dall’analisi dei dati di famiglie con figli minori di 18 anni a carico è emerso che nel 65% e nel 71% dei bambini con età rispettivamente minore o maggiore di 6 anni sono insorte problematiche comportamentali e sintomi di regressione. Nei bambini al di sotto dei sei anni, i disturbi più frequenti sono stati l’aumento di irritabilità, disturbi del sonno e disturbi d’ansia. Nei bambini ed adolescenti (6-18 anni) i disturbi più frequenti interessano la componente somatica (disturbi d’ansia e somatoformi) e disturbi del sonno; in particolare è stata osservata un’aumentata instabilità emotiva con irritabilità, cambiamenti del tono dell’umore ed una significativa alterazione del ritmo del sonno con tendenza al “ritardo di fase”, come in una sorta di “jet lag domestico” (Ibidem).

Oltre a quanto emerso da questi dati, è bene considerare che non tutti i bambini o adolescenti manifestano le stesse reazioni psicologiche. La National Child Traumatic Stress Network (NCTSN) ha evidenziato alcuni indicatori da tenere in considerazione rispetto al benessere dei propri figli (Brymer M., Schreiber M., Gurwitch R., Hoffman D., Graham M., Garst L., Speier A., 2020):

  • I bambini di 2 anni possono piangere più spesso del solito e richiedere più attenzioni e affetto, mentre i bambini in età prescolare possono presentare comportamenti regressivi, come episodi di enuresi, ansia da separazione dalle figure genitoriali, capricci o manifestazioni di rabbia e difficoltà nel sonno;
  • I bambini tra i 7 e 10 anni possono sperimentare tristezza o paura che l’emergenza possa ripresentarsi; inoltre, alcuni bambini possono manifestare difficoltà di concentrazione o focalizzarsi sui dettagli dell’evento e parlarne durante buona parte della giornata, mentre altri possono manifestare evitamento;
  • I preadolescenti ed adolescenti possono manifestare disturbi comportamentali o, d’altro canto, ridurre il tempo di frequentazione con i pari. Possono talvolta sperimentare vissuti emotivi di elevata intensità e sentirsi incapaci di esprimerli a parole, manifestandoli così attraverso irritabilità e comportamenti oppositivi verso fratelli, genitori o altri adulti;
  • I bambini con neuro-diversità o problematiche psicologiche, infine, possono sperimentare uno stress più intenso ed un minore senso di controllo, necessitando quindi di maggiori rassicurazioni ed un maggiore conforto attraverso il contatto fisico.

Nella realtà italiana, ad alcuni mesi dall’inizio della pandemia, numerose strutture ospedaliere con posti letto dedicati alla gestione dell’emergenza-urgenza psichiatrica in età adolescenziale hanno segnalato un allarmante aumento di accessi al pronto soccorso e di ricoveri di ragazzi e ragazze in stato di sofferenza psicologica acuto (Lo Parrino R., Landi M., Leonetti R., 2021). Il motivo principale di tali accessi è dovuto all’autolesionismo, ai disturbi alimentari, al consumo di sostanze d’abuso, sino ad arrivare a tentati suicidi, ai quali si affiancano disturbi di panico e d’ansia acuti e stati dissociativi con alterazioni senso-percettive (Ibidem).

La mancanza di libertà che abbiamo vissuto e, in parte, stiamo vivendo, rappresenta per gli adolescenti un importante disagio. La libertà è un bisogno primario degli adolescenti, poiché permette loro di dare un senso ed una forma al processo di individuazione e concretizzazione di un’identità e fiducia nelle proprie capacità (Biondi G., 2020). La chiusura delle scuole, non avere la possibilità di ritrovarsi con gli amici e il lockdown hanno messo in pausa momenti di sperimentazioni, mediazioni, conoscenze importanti nella vita di un adolescente.

Così come i più piccoli, anche e soprattutto gli adolescenti si troveranno costretti ad affrontare delle difficoltà dovute ai tanti cambiamenti che si concretizzeranno una volta finita la pandemia. Dover riprendere a frequentare la scuola in presenza, poter uscire con gli amici, andare a cena fuori, incontrarsi in piazza, saranno “comportamenti normali”, che avranno un sapore diverso dal solito.

Difatti non sono pochi gli adolescenti che manifestano un certo timore del “fuori”: i giovani manifestano un’ambivalenza tra il forte desiderio di poter uscire e riprendere i legami e l’insicurezza per come sarà vivere tutto questo con le mascherine, i distanziamenti e le limitazioni a cui sono obbligati (Biondi G., 2020). In questo è necessario che intervengano gli adulti, pronti ad accogliere questo loro senso di inquietudine, così da farli sentire ascoltati, capiti ed aiutati e così da concedere loro una chiave di lettura a ciò che stanno provando.

Dunque, appare evidente come, seppur non ad alto rischio di infezione, i bambini e gli adolescenti sono soggetti estremamente vulnerabili in questa pandemia da Covid-19: i ragazzi necessitano grandi attenzioni e cure non solo per proteggerli dall’infezione di un virus, ma anche per salvaguardarli da un punto di vista emotivo e psicologico. Concludendo con le parole del Direttore generale UNICEF, Henriette Fore: «Se non abbiamo compreso pienamente l’urgenza prima della pandemia da COVID-19, sicuramente lo faremo adesso» (UNICEF, 2021).

 

Self-efficacy e sport: quando l’autoefficacia percepita fa la differenza

Il senso di autoefficacia è la percezione che l’atleta ha delle proprie possibilità di raggiungere il successo nell’esecuzione di un compito, e cioè il senso di competenza, di “poter fare”.

 

Gli sport agonistici richiedono requisiti molto elevati negli atleti in termini di prestazioni fisiche e psicologiche. Gli atleti sono chiamati a resistere a stress significativi sia durante la competizione che durante l’allenamento quotidiano, il tutto fin dalla tenera età iniziale richiesta dagli sport di alto livello.

Self-efficacy

L’autoefficacia (self-efficacy) viene definita da Bandura come “la fiducia che una persona ripone nella propria capacità di affrontare un compito specifico”. Il senso di autoefficacia agisce quindi come spinta motivazionale, può essere infatti considerato il motore dell’azione.

Gli effetti positivi di un buon senso di autoefficacia si estendono anche alla continuità dell’impegno, alla persistenza nel tempo dello sforzo, nonché alla creatività e alla libertà di operare autonomamente delle scelte.

Autoefficacia e attività fisica

McAuley (1992) considera l’autoefficacia e l’attività fisica in una relazione circolare, dove chi si sente più efficace è maggiormente portato ad intraprendere l’attività fisica, ma anche dove chi fa attività fisica sperimenta sentimenti di maggior efficacia personale. È quindi presente un’autoefficacia iniziale che spinge l’individuo a praticare attività fisica. (Figura 1)

Situazioni di stress e competizione

Le abilità atletiche richiedono un lungo periodo di sviluppo e perfezionamento. Durante questo processo evolutivo, gli aspiranti atleti devono riuscire a tenere duro nelle difficoltà e a non abbandonare mai la speranza quando si trovano di fronte a ostacoli scoraggianti e ai fin troppo comuni giudizi scettici sulle loro capacità di riuscita. È necessaria una salda convinzione di autoefficacia per sostenere l’impegno necessario a convertire le potenzialità in competenza atletica.

In vari sport, il livello del senso di efficacia è il fattore psicologico che, fra gli atleti d’élite, differenzia più attendibilmente quelli che hanno successo da quelli che ne hanno meno (Mahoney, 1979).

I processi psicologici attivati dalle convinzioni di efficacia influenzano quasi tutti gli aspetti del funzionamento atletico. Gli atleti devono lavorare duramente e a lungo per padroneggiare le abilità richieste dal loro sport e per tenere duro di fronte ad ostacoli, stressor o infortuni.

Un aspetto che contraddistingue gli atleti di successo è la capacità di gestire gli stressor nella competizione e momenti sfavorevoli con un incrollabile senso di efficacia. Chi ha un senso di efficacia elevato aumenta le aspirazioni e migliora il livello delle prestazioni; chi ha un senso di efficacia moderato si accontenta e riposa sugli allori; chi dubita di poter ripetere il successo per cui ha tanto faticato riduce le aspirazioni e la motivazione personale.

È facile restare fedeli ai propri obiettivi sportivi quando i successi arrivano senza troppa fatica. Ma è difficile continuare a perseguire obiettivi impegnativi quando gli insuccessi, i passi falsi e lunghi periodi di difficoltà li fanno apparire al di là della propria portata. In circostanze scoraggianti come queste, le convinzioni di efficacia contribuiscono a rafforzare il sostegno offerto dagli obiettivi preposti. (Bandura, 2014)

L’autoefficacia è rappresentata dalla fiducia nelle proprie capacità per affrontare una situazione competitiva che può influenzare fortemente la prestazione.

Atleti con capacità simili e un diverso grado di sicurezza di sé non forniscono prestazioni dello stesso livello. Gli atleti dotati ma tormentati da dubbi su di sé hanno prestazioni molto inferiori alla loro possibilità, e quelli che hanno meno talento ma sono molto più sicuri di sé possono superare avversari più dotati che non credono nelle proprie capacità. Tali discrepanze tra capacità e risultati mettono in luce l’importante contributo delle convinzioni di efficacia nella performance sportiva.

Gli sport agonistici rivelano la fragilità del senso di efficacia. Una serie di insuccessi capace di indebolire la convinzione della propria efficacia crea una crisi prestazionale negli atleti professionisti che, a causa delle loro insicurezze, non mettono adeguatamente a frutto le loro abilità nonostante ne abbiano completa padronanza e la loro stessa sussistenza poggi sulla qualità delle loro prestazioni sportive.

La motivazione e la prestazione secondo Locke sono regolate dagli obiettivi che le persone scelgono di perseguire e la considerazione di sé risulta essere un forte fattore motivazionale.

A parità di doti atletiche, le proprie convinzioni di efficacia sportive sono già un predittore di chi sceglierà di intraprendere certe attività sportive e in che misura queste persone miglioreranno le loro abilità partecipando a programmi di allenamento. Gli atleti che superano questo processo di selezione altamente competitivo possiedono, oltre al talento naturale per l’attività sportiva scelta, la capacità di motivarsi abbastanza da affrontare un processo lungo e impegnativo di continuo perfezionamento.

Quando si compete con avversari molto capaci, vincere o perdere può dipendere anche da un breve calo di attenzione o di impegno o di precisione.

Nell’ambiente sportivo si riconosce da tempo l’importanza di un resiliente senso di efficacia per una prestazione ottimale. In condizioni di forte pressione competitiva, per eseguire efficacemente le abilità apprese, gli atleti devono esercitare un controllo sugli effetti inabilitanti tipici delle attività atletiche agoniste (stressor, cali di motivazione, affaticamento…).

Dallo sport allo sviluppo sociale e cognitivo

La convinzione di autoefficacia è stata studiata ampiamente nell’ambito sportivo poiché rappresenta un importante fattore per la promozione del successo, data l’influenza che esercita sull’atleta, sia nella fase di competizione, sia in quella di allenamento. Il successo di conseguenza aumenterà la fiducia in sé e l’autostima, l’insuccesso la farà diminuire.

Lo sport è un‘attività idonea sia per migliorare abilità fisiche sia per migliorare lo sviluppo cognitivo e sociale in altri ambiti.

L’esperienza sportiva non solo influenza la percezione fisica dell’atleta, ma si traduce in sicurezza nelle proprie capacità, autocontrollo e gestione dello stress.

 

L’impatto dell’emergenza sanitaria dovuta al Covid-19 sui medici anestesisti rianimatori

Il Congresso ICARE2021, della Società Italiana di Anestesia, Analgesia, Rianimazione e Terapia Intensiva – Siaarti, ha analizzato l’impatto della pandemia sui medici anestesisti rianimatori.

 

In un recente articolo pubblicato su Doctor33.it, vengono riportati i dati esposti al Congresso ICARE2021 riguardanti l’impatto della pandemia sui medici anestesisti rianimatori.

Pandemia, operatori sanitari e burnout

Come sappiamo la diffusione del Covid-19 ha influenzato la popolazione mondiale con conseguenze sulla mentale soprattutto in termini di sintomatologia ansiosa e/o depressiva (De Mola, 2020), ma particolarmente significativo è stato il vissuto degli operatori sanitari che si sono occupati in modo diretto di questi pazienti e si sono trovati ad affrontare un carico importante sia dal punto di vista pratico che da quello emotivo.

Gli operatori sanitari sono generalmente esposti al rischio di burnout, caratterizzato da logorio psicofisico ed emotivo e da vissuti di ansia, insofferenza, demotivazione e disinvestimento emotivo. In particolare, nella situazione pandemica, si sono aggiunte o enfatizzate condizioni che hanno aumentato il carico di stress, tra queste la costante esposizione al pericolo di contrarre la malattia e di poter contagiare i propri cari, l’esposizione continua alla malattia e alla morte, non solo dei pazienti, ma anche dei colleghi, con un’esposizione ripetuta ad eventi traumatici ed infine un sovraccarico di lavoro legato al dover svolgere turni eccessivamente lunghi e al doversi fare carico del paziente non solo dal punto di vista medico, ma anche dal punto di vista emotivo ed assistenziale, parte di cui di solito si occupano i familiari (Scarola, 2020).

Il burnout nei medici anestesisti rianimatori

Tra gli operatori maggiormente coinvolti rientrano i medici anestesisti rianimatori, che si occupano dei pazienti in sala operatoria ma anche di quelli in rianimazione, motivo per cui il loro lavoro è stato estremamente intenso nei periodi con il numero di contagi più elevato.

Durante il Congresso ICARE2021 sono stati presentati i risultati di una survey che ha raccolto i risultati di una serie di questionari somministrati a 1042 anestesisti rianimatori con lo scopo di osservare l’impatto del Covid-19 su questa specifica categoria; i questionari utilizzati nella ricerca sono stati il Maslach Burnout Inventory (MBI), il Resilience Scale (RS-14), il Coping Inventory to Stressful Situations (CISS) e l’Intolerance of Uncertainty Scale-Revised (IUS- R) (Doctor33).

Analizzando il rapporto tra livelli di burnout, caratteristiche socio-demografiche e variabili legate al contesto lavorativo, sono emersi quattro profili di anestesisti rianimatori durante l’emergenza sanitaria:

  • resilienti (33% dei partecipanti), caratterizzati da elevate capacità di gestione della condizione lavorativa e dello stress correlato;
  • in burnout (20% dei partecipanti), professionisti che hanno sperimentato grave disagio professionale con alti livelli di esaurimento emotivo e depersonalizzazione e scarsa gratificazione operativa;
  • in riserva emotiva (20% dei partecipanti), medici che hanno accumulato fattori preoccupanti di stress e di esaurimento emotivo, gruppo costituito in maggioranza da donne e da una popolazione anagraficamente giovane;
  • in distacco (27% dei partecipanti), operatori che hanno maturato un atteggiamento difensivo, con l’allontanamento dalle condizioni umane, emotive e tecniche del lavoro e delle persone in esso coinvolte (pazienti, colleghi, altri operatori), gruppo costituito in maggior percentuale  da uomini.

Il quadro emerso dallo studio ha considerato il periodo legato al Covid-19, ma:

Ha insegnato che è indispensabile inglobare nella formazione specialistica le competenze comunicative e relazionali – ha spiegato Maria Grazia Frigo, Responsabile Anestesia Ostetrica presso FBF Isola Tiberina Roma – Questo diventa possibile attraverso una formazione continua finalizzata alla ‘manutenzione’ del benessere psicosomatico degli anestesisti rianimatori in modo da potenziarne la resilienza anche in funzione di una gestione proattiva del rischio clinico.

Infine, date le condizioni di estrema fatica e complessità in cui gli operatori sanitari lavorano, diventa importante essere solleciti nel fornire loro un adeguato e repentino sostegno anche dal punto di vista psicologico (Scarola, 2020).

 

Leggi l’articolo originale:
Covid-19 e burnout medici. Ecco l’impatto dello stress pandemico sugli anestesisti rianimatori

 

Breve trattato sulla stupidità umana (2021) di Ricardo Moreno Castillo – Recensione

Breve trattato sulla stupidità umana è un trattato breve quanto ricco di parecchie verità, scritte in maniera impeccabilmente tagliente. E scomoda (se non altro per gli stupidi).

 

[…] Non vi è peccato al di fuori della stupidità

Un trattato breve quanto ricco di parecchie verità, scritte in maniera impeccabilmente tagliente. E scomoda (se non altro per gli stupidi). Una denuncia contro i mali generati dalla stupidità umana, che, come scrive Moreno Castillo, è così dilagante nelle società perché la stupidità è, ahinoi, “sovvenzionata”. Gli stupidi sono dappertutto. Pensiamo ai politici: la maggioranza pecca di stupidità, o perché lo è davvero, oppure perché è più conveniente. Di fatto, raramente chi non lo è raggiunge il successo, così come raramente idee generate da menti intelligenti riescono a trovare un campo fertile di attuazione, se non prima di essere ostacolate (a volte per tempi biblici) dall’idiozia circostante. La stupidità, va detto, non è l’opposto dell’intelligenza e, infatti, essa non può essere misurata attraverso test d’intelligenza; tuttavia forse esiste un indicatore sottile per definire una persona stupida: la cattiveria.

Castillo cita Unamuno, il quale con altrettanta durezza, afferma: “Non esistono degli sciocchi buoni. Lo sciocco, che in più ama le burle, mastica l’amaro boccone dell’invidia.” Non è sempre facile – aggiunge l’autore – discernere la linea sottile che separa la stupidità dalla malvagità, sebbene sia innegabile che “la perversione manca di ogni grandezza e profondità. Ed è la conseguenza della volgarità e della stupidità”. Dunque cosa fare quando ci si imbatte in qualche stupido? Come combattere la stupidità? Castillo fornisce quattro “regole”, con le quali conclude il suo trattato filosoficamente brillante. Il comune denominatore è sicuramente la conoscenza di sé. Da Socrate abbiamo ereditato il motto: “Conosci te stesso” e per conoscere noi stessi la prima condizione è ammettere le nostre possibilità e i nostri limiti, liberarci dalla presunzione di sapere tutto. Socrate andrebbe fiero di Castillo; se quest’opera fosse stata scritta nel 400 a. C. forse avrebbe preso il nome di: De stupiditate, e sarebbe rimasto tra i testi più illuminanti di sempre da cui partire per poter migliorare la propria condizione di “non sapiente”. Un piccolo manuale di sopravvivenza alla stupidità, che solo gli stupidi non vorranno leggere.

 

Un costrutto di base della psicologia sociale: l’aspettativa – Terza parte

La funzione primaria delle aspettative è quella di guidare il comportamento in vista dei nostri obiettivi a breve come a lungo termine.

Ndr – Il presente articolo è il terzo di una serie di tre articoli sul tema delle aspettative. Il primo e il secondo articolo sono stati pubblicati nei giorni scorsi su State of Mind

 

Negli articoli precedenti si è cercato di fornire un quadro informativo chiaro e ampio, anche e certamente non esaustivo, sull’aspettativa, uno dei costrutti di base della psicologia sociale. Nella prima parte si è fornita la definizione di cosa sia un’aspettativa e alcuni spunti per comprenderne il suo ruolo fondamentale di guida per il comportamento. Nella seconda parte sono stati esposti i parametri in base ai quali comprenderne la natura ed, eventualmente, valutarne la validità qualora fossimo in grado di cogliere quelle aspettative che ci guidano in una determinata situazione.

In questa terza parte verrà descritto il loro impatto, pressoché ubiquo, sulla nostra vita quotidiana. La ragione di fondo sta nel fatto che queste credenze riguardanti eventi futuri soggettivamente stimati come probabili (Roese & Sherman, 2007) influenzano il nostro comportamento, i nostri pensieri e le nostre emozioni. Ma trattiamoli in ordine.

Come visto in precedenza, inizialmente, di fronte a una situazione nuova, l’aspettativa che si crea possiede una struttura molto semplice, basata sull’associazione tra elementi che la nostra mente astrae dal contesto. Con l’accumulo di esperienze questi elementi tendono ad essere organizzati in reti complesse e altamente flessibili, che ci permettono di realizzare un buon grado di adattamento nelle diverse situazioni che incontriamo, risparmiandoci lo sforzo di cercare di ‘mettere a fuoco’ le situazioni e facendoci conservare tempo e risorse mentali che potremo, così, utilizzare per rispondere con maggiore efficienza alle richieste ambientali.

La funzione primaria delle aspettative è quella di guidare il comportamento in vista dei nostri obiettivi a breve come a lungo termine, in relazione ai quali siamo messi nella possibilità di creare piani di azione più o meno complessi, che considerino anche l’evoluzione delle circostanze nel tempo. Molti fenomeni noti ormai da tempo in ambito clinico e di ricerca possono aiutarci a comprendere questa funzione (Roese & Sherman, 2007).

Uno di essi è la ‘facilitazione del successo’ (Oettingen & Mayer, 2002), ovvero il fenomeno in base al quale possedere credenze positive sul proprio successo futuro ha effetti facilitatori sull’impegno personale, sulla persistenza nel compito, sulla creazione di piani per raggiungere gli obiettivi e, in ultima istanza, sull’effettiva riuscita e il raggiungimento dei propri scopi.

Un altro fenomeno è quello dell’optimistic bias shift (Taylor & Gollwitzer, 1995), in base al quale un corso d’azione già intrapreso determina lo slittamento delle proprie aspettative verso una prospettiva maggiormente ottimistica, soprattutto se il soggetto possiede verso i propri obiettivi un orientamento di fondo mirante al perseguimento dei risultati desiderati (in contrapposizione all’evitamento di risultati temuti; Higgins, 1997).

Altri fenomeni, noti in clinica, sono poi l’anticipazione del fallimento in chiave difensiva dell’autostima, come anche l’anticipazione di problemi che potrebbero presentarsi, quest’ultimo fenomeno utile a spingere il soggetto alla ricerca e alla pianificazione di soluzioni ad hoc, a considerare le conseguenze potenziali delle proprie decisioni e a ipotizzare piani d’azione legati alle diverse contingenze possibili (Sanna, 2000).

Un fenomeno molto noto presso il grande pubblico è, infine, quello della self-fulfilling prophecy, dove i processi cognitivi e il comportamento procedono in maniera da selezionare, prestare maggiore attenzione e agire in base alle informazioni ambientali che risultano essere coerenti con le aspettative che si possiedono (ad esempio: Chen & Bargh, 1997). Quando le aspettative sono irrealisticamente fallimentari o eccessivamente pessimistiche il risultato è che il soggetto diviene l’artefice e il promotore delle proprie sconfitte, con il risultato conseguente, spesso, di esacerbare visioni del mondo negative e disperate, come anche alimentare – come accade ad esempio nel disturbo d’ansia sociale – difficoltà altamente frustranti.

L’impatto sul comportamento è di primaria importanza per comprendere la funzione delle aspettative e si accosta all’impatto delle aspettative sulla cognizione e sulle emozioni provate dal soggetto.

In generale, dal punto di vista cognitivo le aspettative guidano l’elaborazione delle informazioni in modi che tendono a confermarle. Partendo da questa premessa è possibile poi considerarne l’impatto su alcuni processi cognitivi fondamentali (Roese & Sherman, 2007).

L’influenza delle aspettative sui processi attentivi

In primo luogo, l’influenza sui processi attentivi e sulla ricerca delle informazioni. Le aspettative possono essere paragonate a ipotesi che il soggetto verifica grazie alle informazioni ricevute dall’ambiente (Klayman & Ha, 1987). Nel caso l’ipotesi venga disconfermata, l’informazione ottenuta verrà considerata inattesa e nuova, il soggetto sperimenterà la sensazione che ‘c’è qualcosa che non va‘ (esperienza di disfluenza percettuale e/o semantica) e l’attenzione verrà focalizzata sulla fonte di informazione incongrua con le previsioni (Barthalaw, Fabiani, Gratton & Bettencourt, 2001), allo scopo di darle senso e utilizzarla per adattarsi alla situazione.

Rispetto ai processi di codifica, le aspettative possono influenzare il modo in cui interpretiamo gli eventi, fornendo un quadro di riferimento in base al quale cercare ulteriori informazioni da utilizzare per valutare il proprio agire. L’informazione che conferma le aspettative tende a essere compresa più facilmente, viene processata in maniera inconsapevole e inattenta ai dettagli e, infine, tende a definire il modo in cui un evento rappresentato in memoria e, quindi, come viene ricordato. La stessa cosa avviene quando le informazioni rilevate nell’ambiente sono incongruenti con l’aspettativa. In questo caso, però, la loro elaborazione in genere è più approfondita e i dettagli analizzati con maggiore attenzione, per permettere la creazione di una traccia mnestica unitaria e distinta (Sherman, Lee, Bessenhoff & Frost, 1998). In entrambi i casi lo scopo principale è fornire alla persona un quadro il più possibile fedele alle circostanze in cui si trova e in cui in futuro potrebbe ritrovarsi, per promuoverne (come detto negli articoli precedenti) l’adattamento.

Aspettative e memoria

Altri processi cognitivi influenzati in maniera importante dalle aspettative, come intuibile dalle righe precedenti, sono relativi alla memoria. Per quanto riguarda il recupero di ricordi e il riconoscimento delle situazioni, entrambi i processi risultano facilitati per eventi nel passato giudicati inattesi, in ragione di un maggior tempo di elaborazione delle informazioni ambientali da parte della memoria di lavoro nel tentativo di darvi senso in relazione alle nostre aspettative (Sherman et al., 1998).

Cosa accade in questi casi? La ricerca ci informa che di fronte a una disconferma l’aspettativa è sottoposta a una revisione nei termini della modifica riparativa o di una ristrutturazione completa, effettuate tramite il tentativo di attribuire un’origine alla disconferma (attribuzione causale), il pensiero controfattuale, (Se fosse avvenuto x, la conseguenza sarebbe stata y) o , infine, per mezzo della percezione – distorta – che il risultato inatteso era in realtà prevedibile e ovvio (hindsight bias). Il prodotto di queste tre attività risulterà in uno di questi possibili esiti inferenziali, che daranno senso alle informazioni inattese (Roese & Sherman, 2007):

  • l’informazione discrepante con l’aspettativa è ignorata;
  • l’informazione discrepante è marcata come caso eccezionale, ma non elaborata oltre;
  • l’informazione discrepante è considerata come eccezione alla regola generale, l’aspettativa originaria è ampliata e il comportamento dell’individuo diviene più flessibile;
  • L’aspettativa viene completamente rivalutata;

Aspettative ed emozioni

Per terminare con questo breve resoconto degli effetti delle aspettative sull’individuo che le possiede, vanno infine considerate le relazioni che intercorrono tra esse e le emozioni.

La funzione delle emozioni, in questo caso, è quella di segnali regolatori che indicano lo stato del progresso verso uno scopo considerato desiderabile o dell’evitamento di qualcosa considerata nociva. Rispetto a ciò possiamo avere, in generale, stati di affettività positiva (orgoglio, sentimenti di ‘starcela facendo’ etc.) oppure di affettività negativa (sentimenti di inutilità, sensazione di stare ‘perdendo slancio’ etc.). Le emozioni, nel primo caso, segnaleranno al soggetto che è in atto un effettivo progresso nei confronti dei propri obiettivi mentre, nel secondo caso, segnaleranno che i progressi non sono quelli attesi e che è necessario fare qualcosa perché questo stato di cose cambi (meccanismi regolatori di feedback). Questi fenomeni, a loro volta, avranno un impatto sulle cognizioni e sul comportamento. Ad esempio, nel caso dell’affetto positivo, tra le altre, avremo l’adozione di una prospettiva maggiormente ottimistica del progresso verso i risultati, un’attesa di maggiori guadagni futuri e maggiore persistenza e impegno nel perseguire gli obiettivi. Nel caso dell’affetto negativo, alcune conseguenze includono l’attivazione di processi di problem solving, la revisione delle aspettative, la diminuzione degli sforzi nel perseguire l’obiettivo fino anche alla rinuncia, come anche la revisione dei propri piani per raggiungere gli obiettivi prefissati (vedi ad esempio, Carver & Scheier, 1998).

Conclusioni

Alla fine di questo viaggio nel mondo delle aspettative sorge spontanea una domanda che spesso accompagna il non specialista quando legge di psicologia: ‘Ma tutto questo a che cosa serve?’.

Le aspettative ci guidano dal momento in cui apriamo gli occhi la mattina – quando ci alziamo sapendo che le cose saranno tutte al posto dove le abbiamo lasciate, che il bagno funzionerà, che la cucina non esploderà quando accenderemo i fornelli per fare il caffè – al momento in cui ci addormentiamo nel nostro letto, certi del fatto che l’ambiente in cui ci troviamo è prevedibile e (si spera) sarà molto improbabile che qualsiasi evento strano accadrà mentre dormiamo. Le aspettative ci guidano continuamente, ci dicono dove e con chi proveremo probabilmente emozioni positive, ci indicano a chi avvicinarci e chi evitare, ci dicono come comportarci e i passi da fare per ottenere i nostri obiettivi a breve e lungo termine, ci permettono di adattarci a situazioni per noi nuove e ci indicano come comportarci in situazioni di pericolo.

La domanda, insomma, dovrebbe essere ribaltata piuttosto in: ‘C’é qualcosa che facciamo per la quale non abbiamo bisogno di aspettative?’. La risposta per chi scrive è un netto no.

 


UN COSTRUTTO DI BASE DELLA PSICOLOGIA SOCIALE: L’ASPETTATIVA – LEGGI TUTTI GLI ARTICOLI DELLA SERIE:

 

Contenitore e Contenuto

Il contenitore non può esistere senza un contenuto come il contenuto non ha senso di essere in assenza di un contenitore.

 

Essi sono poi assolutamente sovrapponibili, dato che il contenitore è pur sempre contenuto ed il contenuto allo stesso modo contiene.

Emozioni e pensiero, senso di appartenenza e necessità di individuazione, soggetto ed oggetto. La segreta alchimia che sottende alla capacità di giudizio dell’individuo e delle masse, la potenzialità di scegliere razionalmente solo se guidati dai sentimenti.

In un campo complesso come quello della psicoterapia e della psicoanalisi Gaburri e Ambrosiano in Ululare con i lupi. Conformismo e rêverie esprimono alcune perplessità riguardo alla tendenza sociale, e non solo, a “ululare con i lupi”. Il bisogno e desiderio di appartenenza ad un gruppo richiedono necessariamente la rinuncia parziale alla propria individualità ed auto affermazione. L’essere “conformi” alla mentalità di gruppo. Questo non è necessariamente dannoso per l’individuo. Far parte di un gruppo non solo offre un rifugio dall’incertezza ed il dubbio, ma permette di testare le proprie capacità relazionali e l’integrità del nostro Sé. Ma quando il soggetto non ha sviluppato una sufficiente emancipazione la paura può ostacolare quella che è definita rêverie, termine utilizzato da Bion per descrivere la capacità della figura materna di accogliere emozioni e sentimenti senza nome del bambino e farsi “contenitore” riducendo il suo malessere, accudendolo ed aiutandolo nel processo di crescita e formulazione del pensiero verbale. Questa funzione non è così lontana da quella del terapeuta che deve essere pronto ad accogliere questi elementi non ancora definiti senza la fretta di volerli interpretare. Fare appunto da “contenitore”, come in una reazione chimica.

“Offrire l’opportunità che gli elementi mentali si mescolino, si intreccino, creino nessi e differenze in forme nuove…come in una nuova soluzione chimica che innesca reazioni diverse, riorienta il sistema, e sviluppa organizzazioni mentali inedite.”

Quando anche il terapeuta si mette ad “ululare con i lupi” questa riformulazione, questo perturbare un sistema (quello del paziente e del terapeuta stesso) diviene più macchinoso e meno efficace. Quando il terapeuta non lascia che le emozioni siano parte integrante del ragionamento logico nella seduta psicoterapica dimentica il significato di “relazione”, di qualsiasi genere, ponendo un filtro al “contenuto” del paziente. Eppure Damasio, pur tenendo ben presente quanto pericolose possano essere le nostre emozioni nel prendere una decisione, afferma che “certi aspetti del processo dell’emozione e del sentimento sono indispensabili per la razionalità” e che “nei casi migliori, i sentimenti ci volgono nella direzione giusta, ci conducono al luogo appropriato di uno spazio decisionale nel quale possiamo fare bene operare gli strumenti della logica.

In un mondo dove l’omologazione e la rinuncia alla propria individualità stanno guadagnando sempre più terreno è doverosa la presenza di un conflitto, quello tra “narcisismo e socialismo”, intesi come la naturale tendenza ad una battaglia interna tra “adesione alla mentalità di gruppo e pensiero individuale, conformismo e rêverie.

Contaminare l’Altro lasciandosi contaminare, essere contenitore senza rinunciare al proprio contenuto.

È il mio modo di essere, con un po’ di biochimica: i cambi di personalità dovuti ad elementi neurobiologici e neurologici


La personalità è un argomento che affascina sempre la ricerca umanistica e psicologica, che siano gli sviluppi di essa attraverso le esperienze, gli elementi ambientali e gli elementi sociali. Questo articolo affronta le modifiche della personalità via sindromi mentali e squilibri neurochimici.

 

La personalità è un argomento che affascina da sempre la ricerca e la letteratura sulla psiche. Di fatto, l’analisi dei vari fattori che influenzano e caratterizzano la personalità umana ha permesso lo sviluppo di strumenti diagnostico-analitici come il questionario Big Five (Soldz, Vaillant, 1999) e il questionario Myers-Briggs (Furnham, 1990) e ha ispirato ricerche come l’influenza genetica sullo sviluppo della personalità di Samuel Barondes (2016).

Fra i fattori principalmente considerati come principali influenze sullo sviluppo e sul cambiamento della personalità umana rientrano l’educazione, la qualità della vita e delle relazioni con la famiglia nella fase dello sviluppo (Amianto, 2013), le relazioni e le situazioni vissute in adolescenza (Galambos, Costigan, 2013), i fattori ambientali (Brooks et al, 2001), i fattori sociali (Buss, 1996), l’uso di droghe e medicinali (Bouso, 2015) e cambiamenti comportamentali conseguenti alla psicoterapia (Jarrett, 2017).

Un fattore importante che influenza o può portare il cambiamento, momentaneo o permanente, della personalità è lo squilibrio neurologico e/o biochimico: come indica la ricerca neurologica e psichiatrica, dietro a comportamenti considerati parte integrante del carattere e della persona potrebbe esserci in realtà una causa biochimica (Friedman, 2006).

I cambiamenti della personalità nelle malattie psichiatriche

Un primo esempio sono i cambiamenti della personalità dovute a malattie neuropsichiatriche: i malesseri mentali, dovuti a fattori ambientali o causati da traumi di vita, possono influenzare elementi della personalità, che possono essere presi come parte del carattere da chi ignora la situazione della persona affetta. Esempi emblematici di questa situazione sono quelli di trasgressioni e di ribellione di chi soffre di disturbo bipolare (Nelson, 2021) o le dimostrazioni di attitudini creative e di grande fantasia e introspezione letteraria delle persone affette da epilessia dei lobi temporali (Cartwright et al., 2004).

I cambiamenti della personaltità a causa di esperienze traumatiche

Un ulteriore esempio sono le personalità modificate da traumi psicofisici. Impatti continui e persistenti nel tempo ed altre situazioni dannose, come le commozioni cerebrali e la deprivazione del sonno, possono non solo causare danni semipermanenti come perdita della memoria (Ford, Giovanello, Guskiewicz, 2013; Chee, Chuah, 2008), ma possono peggiorare in maniera considerevole elementi caratteriali negativi come l’aggressività e la stabilità umorale.

Casi rilevanti sono l’irascibilità e la violenza di chi soffre di encefalopatia traumatica cronica (Golden, Zusman, 2019) e i cambi di umore incostanti di chi ha una grande insufficienza di sonno duratura (Wiseman, 2019).

Conclusioni

Sebbene l’analisi di questi fattori possa aiutare a distanziare gli elementi caratteriali dalle conseguenze delle situazioni mentali, l’eccessivo analizzare i lati della personalità con uno sguardo troppo medico ha attirato le critiche di nomi autorevoli della ricerca, come lo scomparso Oliver Sacks (1995).

 

Diagnosi dei disturbi specifici dell’apprendimento scolastico (2012) di Vio, Lo Presti e Tressoldi – Recensione

Diagnosi dei Disturbi Specifici dell’Apprendimento scolastico unisce un intento esplicativo, consolidato da un corposo contenuto teorico, e una finalità eminentemente pratica, raggiunta attraverso casi clinici che descrivono ogni passo dell’iter diagnostico.

 

Il testo Diagnosi dei Disturbi Specifici dell’Apprendimento scolastico di Vio, Cornoldi e Lo Presti offre un quadro esaustivo sulla diagnostica dei disturbi dell’apprendimento, esponendone gli aspetti clinico-descrittivi necessari ad un inquadramento di base, senza tralasciare tematiche più specifiche che, in una dimensione multidimensionale come quella in esame, non si mostrano carenti.

L’intento informativo-formativo del testo viene suggerito dall’aggiornato riferimento alle numerose e non sempre univoche fonti legislative che disciplinano la materia dei disturbi specifici dell’apprendimento (DSA), con indicazione specifica della legge 170/10 e della Consensus Conference del 2011, per citare le più autorevoli; rilevante anche l’attento riferimento ai parametri diagnostici valutativi e all’importanza del dato standardizzato, considerato indispensabile ai fini di una valutazione corretta ed oggettiva, che scongiuri il pericolo di risultati approssimativi, in grado di condurre a falsi positivi e falsi negativi.

Non manca un intento esplicativo, consolidato dalla presenza di un corposo contenuto teorico e dall’apporto di tabelle ed esemplificazioni illustrative, in grado di rendere più facile l’apprendimento e la fruizione delle informazioni.

Una finalità eminentemente pratica viene infine raggiunta attraverso l’utilizzo di casi clinici che descrivono nel dettaglio ogni passo dell’iter diagnostico, conferendo all’opera un connotato esperienziale perfettamente integrato alla dimensione teorico-speculativa. Se ne origina, nel complesso, un contesto di fruizione coerente, variegato e attendibile.

La descrizione clinico-diagnostica dei disturbi

I DSA presentano un innegabile correlato neurobiologico. Sembra questa la grande premessa del testo, espressa soprattutto nella descrizione dei processi neuro-cerebrali coinvolti nell’origine e nel mantenimento del disturbo. Proprio questa innatività, e non una scarsa motivazione allo studio, è alla base di due conseguenze tipiche della patologia DSA: la resistenza all’intervento, e dunque l’impossibilità di migliorare sostanzialmente le prestazioni pur dopo un programma di recupero mirato, e la resistenza all’automatizzazione, intesa come l’incapacità di assimilare concetti generalmente memorizzabili e ben recuperabili. Il tutto sullo sfondo di una dilatazione dei tempi di esecuzione in grado di limitare marcatamente la capacità di apprendimento e la prestazione scolastica.

Si inizia con la descrizione della dislessia, disturbo fondato sull’incapacità di dar luogo al processo di conversione grafema-fonema che consente il formarsi di un’associazione stabile tra la rappresentazione ortografica e fonologica della parola. La conseguenza è una notevole compromissione della velocità e della correttezza della lettura.

Un difetto di automatizzazione è presente anche nella disortografia, che non permette la scrittura delle parole nel rispetto della regole grammaticali, e nella discalculia, in cui l‘incompetenza può riguardare più direttamente la natura semantica del numero e, dunque, la quantità astratta cui è collegato (non è possibile capire a cosa corrisponde il 3 o il 5 o il 2), la capacità di etichettamento verbale (non è effettuabile la transcodifica tra rappresentazione grafica e verbale del numero, ad esempio si dice 3 e si scrive 30) una scrittura che sia rispettosa della grammatica numerica (numeri scritti secondo un ordine scorretto, ad esempio 1003 – 1300), l’immagazzinamento e il recupero mnestico di fatti aritmetici. La conseguenza è che il numero viene a costituire una dimensione sconosciuta cui il bambino si approccia con difficoltà e diffidenza, maturando verso la matematica una sorta di frustrazione autosabotante che rende l’apprendimento ancor più problematico.

Ulteriori DSA trattati sono il disturbo della comprensione, che impedisce di inferire, a partire dai dati sintattici e semantici, il significato e l’intenzionalità specifica di un testo, e il disturbo dell’apprendimento spaziale, che limita la possibilità di svolgere tutte quelle prestazioni che hanno ad oggetto l’utilizzo di competenze visuo-spaziali. Si specifica a tal proposito l’importanza di effettuare una diagnosi differenziale con altre tipologie di disturbi che mostrano analogo coinvolgimento deficitario in ambito prassico –organizzativo, come l’ADHD, del quale viene fornita dettagliata descrizione clinica, e l’autismo.

Ampio spazio è dedicato alla descrizione clinica della disgrafia, intesa come incapacità di riproduzione dell’allografo a causa di deficit motori, percettivi e visuo-spaziali. Gli autori si premurano di descrivere le varie fasi del corretto processo di scrittura avvalendosi dell’ausilio di immagini dimostrative, a maggior chiarimento di un disturbo del quale si conosce ancora poco rispetto alla sua diffusione e alla sua capacità di limitazione dell’apprendimento. La stessa Consenus Conference del 2011 omette di inserirlo tra i DSA, originando un vacuum valutativo che il gruppo di ricerca coordinato dal Prof. Cornoldi presso l’AIRIPA di Padova (Associazione Italiana per la Ricerca e l’Intervento nella Psicopatologia dell’Apprendimento), ha recentemente cercato di colmare esponendo una serie di parametri diagnostici specifici quali la fluenza – intesa come velocità di recupero dell’allografo – e la qualità del segno grafico, riferibile alla resa formale del grafema; si raccomanda inoltre di effettuare un’attenta valutazione psicomotoria utile alla distinzione tra i casi di disgrafia pura, con esclusivo coinvolgimento della capacità di riproduzione dell’allografo, e i casi in cui l’elemento disgrafico appare compreso nel più ampio quadro sintomatologico di patologie compromissorie di competenze prassiche e visuo-spaziali, quali ADHD e autismo (pp. 98 e ss.).

Il taglio eminentemente pratico dell’opera continua attraverso una serie di indicazioni fornite al clinico impegnato in un assessment valutativo. Nulla viene tralasciato: dal momento della richiesta – alternativamente privata o scolastica – fino a quello della restituzione della diagnosi, dando conto del colloquio anamnestico coi genitori, della strumentazione diagnostica da somministrare nei singoli casi, delle modalità in cui dovrà essere svolta la relazione finale. Un autentico supporto pratico-professionale per il clinico alle prime armi e un valido promemoria per quello più esperto, posto all’interno di un’attività complessa e variegata in cui l’attendibilità del risultato e l’attenzione al dettaglio sono più che mai fondamentali (pp. 186 e ss.)

Linee guida sono rivolte anche al personale scolastico, in vista della compilazione del PDP (Piano Didattico Personalizzato) previsto dalla legge 170/10, a seguito della certificazione e della formalizzazione del disturbo. Viene fatta raccomandazione di coinvolgere, in questo complesso compito di individualizzazione dell’apprendimento, non soltanto il personale didattico, ma tutti i soggetti più o meno direttamente coinvolti dal disturbo: a partire dal clinico che ha emesso la diagnosi, per estendersi alla famiglia e allo stesso allievo, cui sono destinati il trattamento abilitativo ed eventuali strumenti compensativi e dispensativi. Tutto questo nella consapevolezza che una facilitazione didattica debba essere costruita in un contesto di unanime condivisione, al fine di evitare effetti “iatrogeni” sia nei riguardi dell’allievo, che potrebbe viverla come una discriminazione etichettante, sia nei confronti dei pari, che potrebbero identificarla con un ingiusto favoritismo. Per ottenere risultati generalizzabili e duraturi sono pertanto necessarie competenze teorico-applicative ed una flessibilità inclusiva da parte di tutti i soggetti coinvolti (p. 189 e ss.).

Il coinvolgimento emotivo-relazionale nei DSA

In linea con un’impronta contenutistica in cui, si è precisato più volte, è il dato scientifico a mostrarsi prioritario, il testo si approccia alla trattazione del disagio emotivo connesso ai DSA con intento specificamente diagnostico: dunque, dopo averne descritto l’importanza clinica nel contesto valutativo, si premura di fornire, in appendice, una serie di questionari self-report inerenti la misurazione di costrutti specificamente indicativi della dimensione emotivo-relazionale, quali autostima, motivazione allo studio, benessere scolastico, tipologia delle relazioni sociali nell’adolescenza. Completano il quadro un profilo di self- perception e le scale per l’individuazione di comportamenti di disattenzione e iperattività di Cornoldi, nelle tre tipologie SDAI, SDAB, SDAG, da somministrare al bambino, al genitore e all’insegnante, testimonianza di come l’aspetto emotivo risulti indubbiamente compromesso nei casi di disturbi dell’apprendimento, e di come sia impossibile ometterne la valutazione all’interno di un assessment diagnostico che possa definirsi tale.

In sintesi

Pur senza snaturare un intento principalmente clinico, il testo non si colloca in una dimensione di mero riduzionismo scientifico: piuttosto evidenzia l’importanza del dato standardizzato ai fini di una valutazione oggettiva, che sia in grado di risolvere discrepanze e difformità di misurazione, troppo spesso fuorvianti in un contesto diagnostico.

Una destinazione principalmente clinico-professionale, anziché mostrarsi un elemento preclusivo verso fruizioni di altro genere, consente al contrario la visione integrata di un quadro patologico che non può e non deve limitarsi ad un’analisi monosettoriale.

Il risultato finale è un insieme di linee guida le cui fonti, di autorevole ed indiscussa attendibilità nomotetica, sono in grado di coniugarsi con aspetti idiografici ugualmente basilari per l’ottenimento di una diagnosi completa ed attendibile.

Uno dei principali meriti degli autori è pertanto quello di aver saputo integrare aspetti variegati di un’unica dimensione patologica, realizzando una trattazione aggiornata, attenta ed equilibrata, all’interno di un volume che si pone come indispensabile vademecum per la diagnosi dei disturbi dell’apprendimento, in tutti i contesti coinvolti.

La psicologia politica: dall’antropologia culturale alla psicologia sociale, i paradigmi psicologici della vita politica contemporanea

Fra gli argomenti più rilevanti nell’ambito della psicologia sociale, un posto epistemico importante lo occupa la psicologia politica, che analizza gli archetipi psicologici che divengono gli agenti motivanti delle condotte politiche individuali.

 

La psicologia politica trae alcuni dei suoi contenuti da altre scienze sociali, quali l’antropologia culturale, le scienze politiche e le scienze economiche. L’articolo esamina dapprima le dimensioni che caratterizzano le società complesse, inclusa la dimensione politica, successivamente prende in considerazione le associazioni sociali e l’ambito politico delle società etnografiche. Sono analizzati, poi, la vita politica delle società complesse, la psicologia politica, le differenze psicologiche fra conservatori e progressisti e la psicologia delle consultazioni elettorali.

Keywords: psicologia sociale, psicologia politica, conservatorismo, progressismo, differenze psicologiche individuali.

Gli archetipi della società

In ogni società moderna strutturata si possono riconoscere cinque archetipi che la compongono, ovvero la dimensione ecologica, economica, sociale, politica e culturale. La dimensione ecologica rappresenta la territorialità geografica nella quale è allocata la società; la dimensione economica simboleggia l’insieme delle attività produttive che assicurano la sopravvivenza degli individui che fanno parte di quella società; la dimensione sociale indica le istituzioni sociali presenti in essa; la dimensione politica esprime il modo in cui è gestito e ripartito il potere fra le classi sociali che formano la società; la dimensione culturale rappresenta l’insieme delle conoscenze-competenze che sono peculiari di quella popolazione e indicano il modo con cui gli individui risolvono le criticità che via via si presentano (Lappas, 2000).

Affinché nella società ci possa essere benessere sociale, le differenti dimensioni devono essere in rapporto dialettico fra loro, evitando che nessuna di esse prenda il sopravvento sulle altre. Attualmente nelle nostre società si assiste ad un conflitto fra la dimensione politica e quella sociale, in quanto la politica non riesce più a farsi portavoce dei soggetti sociali che rappresenta.

Le associazioni

Alla base di alcuni di questi archetipi citati, ci sono le associazioni fra gli individui. In sostanza, l’associazione rappresenta un’aggregazione di soggetti che è contraddistinta da una struttura formalizzata, accoglie alcuni individui e ne esclude altri, i suoi membri hanno delle finalità condivise (Ember e Ember, 2004). Ogni società è contrassegnata da un numero variabile di associazioni. Alcuni di questi aggregati sono estremamente selettivi: infatti solo alcuni soggetti possono partecipare ad essi, mentre altri individui sono esclusi. La selezione viene fatta utilizzando due variabili: le peculiarità acquisite oppure le peculiarità ascritte. Le peculiarità acquisite sono quelle che l’individuo raggiunge nel corso della sua vita, quali posizione economica, carriera lavorativa, prestigio sociale ecc.; le peculiarità ascritte sono quelle che caratterizzano l’individuo sin dalla nascita, quali etnia, territorialità geografica, genere, credo religioso e appartenenza sociale (Ember e Ember, 2004).

Le ragioni che giustificano la presenza delle associazioni sociali sono molteplici. Fra quelle più accreditate, sembra che la più probabile sia quella che vede l’associazione come una vicariazione della famiglia, ovvero l’associazione nasce e si organizza perché la struttura familiare non è in grado di ottemperare alle responsabilità politiche, educative ed economiche necessarie per far funzionare in maniera ottimale la società (Eisenstadt, 1954).

La dimensione politica nelle società etnografiche

Ogni società, a seconda della sua complessità, ha un modo differente di gestire la dimensione politica. Nelle società più semplici, le cosiddette società etnografiche, ancora presenti in limitate territorialità geografiche, il potere è strutturato attraverso un’organizzazione tribale, che si basa frequentemente sui legami di parentela. In tali contesti sociali alcune famiglie sono dominanti rispetto ad altre e il potere viene gestito dai soggetti più anziani di esse. In altri contesti geografici, più tribù si uniscono fra loro per formare i “chiefdoms”, che hanno una struttura politica organizzata. La strutturazione dei “chiefdoms” prevede un’assemblea, formata da alcuni appartenenti alle diverse tribù, ed un capo.

La carica di capo, talvolta ereditaria e in genere permanente, conferisce a chi la detiene uno status elevato. Nella maggior parte dei chiefdoms vi è stratificazione sociale, e il capo e la sua famiglia hanno un accesso privilegiato alle fonti di prestigio. Tra le mansioni del capo possono esservi la redistribuzione dei prodotti, la pianificazione e il controllo del lavoro collettivo, la supervisione delle cerimonie religiose e la direzione delle attività militari (Ember e Ember, 2004, p. 255).

La vita politica delle società complesse

Nelle società complesse, quali sono le società presenti in gran parte delle territorialità geografiche mondiali, la dimensione politica è caratterizzata dalla vita politica. Con tale costrutto s’intende:

la prevenzione […] e […] la risoluzione di controversie e di problemi sociali interni ed esterni […], di mediazioni e di arbitrati per risolvere le vertenze industriali, di una forza di polizia per prevenire i crimini e per catturare i criminali […], di un sistema giudiziario che si occupi dei conflitti sociali e che intervenga nei confronti di coloro che infrangono la legge (Ember e Ember, 2004, p. 248).

In aggiunta, nel concetto di vita politica possono essere inclusi altri elementi, quali le istituzioni legislative, l’amministrazione degli organismi statali, i partiti politici, i differenti gruppi di potere che sono accomunati da interessi specifici, le elezioni politiche con le relative campagne elettorali.

La psicologia politica

La psicologia politica si occupa dello studio della vita politica. Nello specifico, essa analizza le variabili psicologiche che sono alla base delle condotte politiche, che si osservano a livello collettivo e individuale. Tali condotte sono influenzate dalle ideologie politiche che animano i singoli e le associazioni politiche che essi formano. Volendo definire l’ideologia, essa può essere

intesa come un complesso di credenze, opinioni e valori che orientano un determinato gruppo sociale o un individuo; tale insieme di credenze, inoltre, è condiviso all’interno di un gruppo e ne sostiene le azioni (Carraro e Bortolotti, 2020, p. 337).

In altre parole, l’ideologia è fatta di archetipi concettuali (credenze, opinioni, stereotipi e pregiudizi), che sono in funzione della mappa cognitiva della realtà che ogni individuo possiede, e che divengono sovente l’agente motivante delle proprie azioni.

Le differenze psicologiche fra conservatori e progressisti

In funzione dell’ideologia politica posseduta, possiamo ascrivere gli individui, al di là della loro appartenenza ad un partito politico specifico, a due grandi categorie, ovvero i conservatori e i progressisti. Fra gli appartenenti ai due gruppi si notano delle differenze psicologiche. Relativamente alla personalità, prendendo in considerazione i cinque fattori formulati dalla teoria dei Big Five (estroversione/introversione; gradevolezza/ostilità; coscienziosità; stabilità/instabilità emotiva; apertura all’esperienza) (Caprara e Gennaro, 1999), i progressisti sono contraddistinti da una maggiore apertura mentale, mentre i conservatori hanno come tratto dominante la coscienziosità (Carraro e Bortolotti, 2020). In aggiunta, i conservatori nella percezione della realtà sono animati da un “negative bias”, ovvero una maggiore attenzione verso gli aspetti più negativi e critici della realtà, piuttosto che per quelli più positivi (Carraro, Castelli e Macchiella, 2011). Altra differenza che si nota fra conservatori e progressisti è rappresentata dall’atteggiamento nei confronti del cambiamento e delle disuguaglianze sociali. In pratica, i conservatori appaiono più restii ai cambiamenti e più tolleranti nei confronti delle disuguaglianze sociali che si osservano nella realtà, mentre i progressisti sono più aperti al cambiamento e meno tolleranti nei confronti delle disuguaglianze sociali (Carraro e Bortolotti, 2020).

Per spiegare queste differenze che, a livello psicologico, distinguono i conservatori e i progressisti, sono state chiamate in causa due teorie:

  • il modello duale dell’ideologia e del pregiudizio;
  • il modello della cognizione sociale motivata (Carraro e Bortolotti, 2020).

Secondo il primo modello, l’ideologia politica individuale è fatta di due dimensioni, ovvero l’autoritarismo e l’orientamento alla dominanza sociale che, laddove prevalgono, indirizzano la persona verso un’ideologia conservatrice, mentre nella misura in cui sono poco accentuati l’individuo sviluppa un’ideologia progressista (Duckitt e Sibley, 2009; Carraro e Bortolotti, 2020).

Il modello della cognizione sociale motivata spiega il differente orientamento ideologico in base alle credenze epistemologiche di ciascuno, alla visione della realtà e ai bisogni che caratterizzano ogni individuo. In sostanza, i conservatori appaiono più insicuri e l’ideologia che abbracciano sembra lenire maggiormente questa incertezza, mentre i progressisti avvertono meno questo bisogno (Jost, Federico e Napier, 2009; Carraro e Bortolotti, 2020). Questa insicurezza-sfiducia è confermata dagli studi neurofisiologici: infatti, fra conservatori e progressisti si sono notate delle differenze nella dimensione dell’amigdala di destra, struttura anatomica del sistema limbico che elicita le emozioni negative legate alla paura, tanto è vero che nei conservatori l’amigdala è di maggiori dimensioni, cosa che non si riscontra nei progressisti (Carraro e Bortolotti, 2020).

La psicologia delle consultazioni elettorali

Un avvenimento importante nella vita politica è rappresentato dalle consultazioni elettorali, che periodicamente sono indette nelle società politiche democratiche. Decidere a chi dare il proprio voto non è affatto semplice: la psicologia politica analizza gli agenti motivanti psicologici alla base delle scelte fatte dagli elettori. A questo riguardo, un ruolo rilevante lo svolgono le percezioni sensoriali dell’elettore, da cui scaturiscono le impressioni, che sono alla base delle cognizioni che egli matura mentalmente.

Differenti ricerche hanno dimostrato che nella scelta del candidato da votare subentra un’euristica del candidato. In altri termini, l’elettore nella sua scelta tiene conto di alcuni fattori, quali, ad esempio, la competenza, ossia il possesso culturale dei contenuti da realizzare, la volizione, ovvero il portare avanti le finalità proposte in campagna elettorale, la moralità, intendo con essa il rispetto di quanto promesso, e la socievolezza, ossia la sintonia con i bisogni degli elettori.

Solitamente, gli elettori conservatori considerano maggiormente la volizione, mentre quelli più progressisti sono attenti alla socievolezza e alla moralità (Caprara, Vecchione, Barbaranelli, Fraley, 2007; Carraro e Bortolotti, 2020). A tal riguardo, perchè possano essere confermati tali fattori e indirizzare la scelta di voto, una funzione notevole la riveste la comunicazione politica. In pratica, l’elettore tende a leggere positivamente quello che il candidato dice, se si è fatto un’immagine-impressione positiva di lui (bias di conferma). Solitamente le notizie fornite dal candidato sono caratterizzate dal framing, ovvero da una cornice concettuale che fa da sfondo alla narrazione e che dà un senso all’informazione stessa. In sostanza, è proprio la collocazione in una cornice concettuale piuttosto che in un’altra che elicita nell’elettore l’uso di una chiave di lettura positiva o negativa, con la quale confermare o dissentire dalle proposte fatte dal candidato. Negli ultimi tempi nella vita politica delle nostre società si sono affacciati in maniera preponderante i movimenti populisti, che si ha difficoltà ad ascriverli al conservatorismo o al progressismo. Da recenti ricerche condotte (Marchlewska, Cichocka, Panayiotou, Castellanos e Betayneh, 2018; Carraro e Bortolotti, 2020), sembra che questi movimenti siano sorretti da due fattori, uno sociale, quale la deprivazione relativa, e uno psicologico, come il narcisismo collettivo. In pratica, la deprivazione relativa rappresenta la convinzione che il proprio gruppo sociale sia stato privato di opportunità attraverso un processo discriminatorio e questo diventa motivo di rivendicazione politica. Il narcisismo collettivo rappresenta il favoritismo verso il proprio gruppo sociale. In altri termini, il proprio gruppo sociale è il migliore fra tutti quelli presenti nella territorialità geografica di appartenenza o rispetto a quelli presenti in altre nazioni contigue e, in virtù di questo, deve accedere a privilegi maggiori.

In conclusione, in ogni società uno degli archetipi sociali più importanti è rappresentato dalla dimensione politica, che simboleggia il modo in cui ogni aggregato sociale umano gestisce e distribuisce il potere fra le sue classi sociali e i suoi individui. Nelle società etnografiche l’ambito politico appare estremamente semplice, assumendo la morfologia dell’organizzazione tribale e dei “chiefdoms”. Nelle società complesse il contesto politico, che è fatto da più variabili, si basa sull’ideologia politica che ogni cittadino matura nel suo percorso di vita. Da questo punto di vista, gli individui possono essere suddivisisi in conservatori e progressisti. Fra i due gruppi sociali si notano delle differenze psicologiche, che si riflettono nelle preferenze elettorali espresse. La psicologia politica studia queste variazioni psicologiche individuali e come esse elicitino i comportamenti politici.

 

Un costrutto di base della psicologia sociale: l’aspettativa – Seconda parte

La ricerca ha individuato cinque parametri per definire la natura di un’aspettativa (Roese & Sherman, 2007): la probabilità di occorrenza dell’evento, la fiducia sul giudizio di probabilità, l’accessibilità dell’aspettativa, il suo grado di astrattezza e la sua chiarezza.

Ndr – Il presente articolo è il secondo di una serie di tre articoli sul tema delle aspettative. Il primo contributo è stato pubblicato ieri su State of Mind, il terzo verrà pubblicato nei prossimi giorni

 

Nell’articolo precedente abbiamo visto che le aspettative sono uno dei blocchi fondamentali della mente umana. Esse sono credenze riguardanti una situazione attuale o futura, in chiave probabilistica e basate sull’esperienza diretta (ad esempio la memoria di situazioni simili nel passato) o indiretta (ad esempio un resoconto scritto o parlato), e la loro funzione fondamentale è quella di guidare il comportamento in situazioni anche molto complesse (Roese & Sherman, 2007).

Nei prossimi paragrafi si cercherà di definire quali sono gli aspetti in base ai quali caratterizzare le aspettative che possediamo, in modo tale da comprenderle meglio e, nel caso, valutarne l’utilità. Ciò, infatti, ci renderebbe in grado, una volta venuti a conoscenza di quali aspettative ci guidano in una determinata situazione, di prestarvi attenzione e correggerle in modo da facilitare il perseguimento dei nostri obiettivi nella situazione considerata. Consideriamo, ad esempio, l’andare in macchina. Se la mia aspettativa sulla guida dell’auto è di dover stare attento perché la strada è un posto pericoloso e in genere l’automobilista tipo è un omone arrabbiato, manesco e fortemente suscettibile, probabilmente non prenderei mai la macchina! In questo caso, cercare di identificare le mie aspettative sulla guida e poi sottoporle a revisione potrebbe semplificarmi parecchio la vita.

La ricerca ha individuato cinque parametri in base ai quali definire la natura di un’aspettativa (Roese & Sherman, 2007): la probabilità di occorrenza dell’evento considerato, la fiducia soggettiva su tale giudizio di probabilità, l’accessibilità dell’aspettativa, il suo grado di astrattezza, la sua chiarezza. Vediamoli uno a uno.

Aspettativa e probabilità

Il primo parametro è la probabilità di occorrenza dell’evento considerato. In questi termini si intende la stima, da parte del soggetto possessore dell’aspettativa, che l’evento previsto accada o non accada, e si situa in un punto tra la piena certezza e la piena incertezza (in termini probabilistici, tra 0 e 1). Maggiore la probabilità stimata, più probabile è che essa influenzi il nostro comportamento e i nostri pensieri in linea con la situazione prospettata (credo che pioverà? Mi porto un ombrello). L’aspettativa potrà essere così confermata o disconfermata dalla situazione attuale. Se confermata, a parità di condizioni e in situazioni future simili, l’evento previsto (‘pioverà’) verrà considerato più probabile (conferma dell’aspettativa), o meno probabile (disconferma).

Aspettativa e fiducia

Il secondo parametro è la fiducia che diamo alla probabilità stimata per l’evento, ovvero il grado di fiducia che diamo alla nostra credenza. Per tornare all’esempio precedente potremmo farci una domanda del tipo: ‘Quanto mi fido del mio giudizio sul fatto che pioverà?’. Il fatto è che magari non sono un esperto, non ho visto le previsioni meteo, non ho ancora preso il caffé etc. In altre parole, potrei non credere che le mie previsioni meteo siano molto affidabili e, in base a ciò, agirò di conseguenza (ad esempio potrei andare contro la mia previsione e non portare con me l’ombrello, con il rischio di bagnarmi).

Aspettativa e astrattezza

Il terzo parametro per valutare un’aspettativa è il suo grado di astrattezza. In questi termini si risponde alla domanda se l’aspettativa sia stata creata a partire da esperienze concrete e specifiche (immagazzinate nella memoria episodica) oppure a partire da generalizzazioni astratte (immagazzinate nella memoria semantica), che sintetizzano l’esperienza fatta a partire da molti eventi, persone e contesti. La differenza tra le due modalità non sono di poco conto.

Infatti, se nel primo caso (memoria episodica) avremo delle aspettative che verranno formulate e applicate ex novo, sul momento, esse ci richiederanno tempo e risorse cognitive per essere calcolate, saranno meno generalizzabili a situazioni anche simili e potrebbero portarci a sbagliare perché errate. Nel secondo caso (memoria semantica) invece, esse saranno già pronte, articolate in strutture coese ad attivazione rapida, e terranno conto delle diverse situazioni possibili, permettendoci di adattarci più velocemente e con meno sforzo. Prendiamo come esempio la guida dell’auto e pensiamo alla prima volta che abbiamo messo mano al cambio manuale o abbiamo attraversato un incrocio trafficato. Probabilmente in quelle circostanze alcuni di noi avranno provato un brivido freddo e il desiderio urgente di scappare, tuttavia con l’esperienza abbiamo imparato a guidare automobili di tipo diverso e attraversato incroci anche molto complicati senza battere ciglio. A partire dalle molte esperienze fatte con cambi manuali e incroci stradali, abbiamo creato strutture di aspettative utilizzabili in diverse circostanze che presentano tratti simili, e ci sentiamo più sicuri.

Aspettativa e accessibilità

Il quarto parametro è l’accessibilità, ovvero la facilità con la quale l’aspettativa tende ad attivarsi in una determinata situazione, spingendoci ad agire e pensare in conseguenza di essa. Esso deriva da quanto recentemente e con quale frequenza l’aspettativa considerata si è attivata nel corso del tempo in situazioni tra loro simili. Maggiore la frequenza e la recenza di attivazione, più probabile che essa sia molto attiva e influenzi il nostro agire e pensare. Torniamo all’esempio precedente. Di solito quando mi trovo davanti a un semaforo rosso la mia aspettativa è che tutte le macchine della mia corsia saranno ferme in attesa del verde come me e nel caso in cui ciò non accadesse, la mia reazione sarebbe di sorpresa. Ciò avviene perché possiedo aspettative molto forti riguardanti il fatto che di fronte a un semaforo rosso si resta fermi, persino nelle gare di formula uno.

Aspettativa e chiarezza

L’ultimo parametro per mezzo del quale valutare un’aspettativa è la sua chiarezza, ovvero il grado con cui è possibile esplicitarla in forma verbale. Nel caso ciò non sia possibile l’aspettativa sarà posseduta dall’individuo nella sua forma implicita, non verbale, e il soggetto agirà in base ad essa in modo inconsapevole (Bargh & Ferguson, 2000). Questo parametro può essere in relazione sia al grado di complessità che all’articolazione tra le aspettative possedute.

Le aspettative più basilari sono, infatti, il prodotto di semplici e immediate associazioni tra concetti e/o attributi relativi agli eventi che osserviamo nel mondo, e che con l’accumulo di esperienza tendono a divenire via via più complesse e connesse. La maggior parte delle aspettative che possediamo, comunque, sono molto complesse, ricche e differenziate in relazione alle situazioni cui si riferiscono. Nel momento in cui riuscissimo a identificarle e a darvi una forma verbale avremmo la possibilità di rifletterci sopra con calma, condividerle con altri e procedere così ad un lavoro critico atto alla valutazione della loro utilità, della loro aderenza alla realtà e della loro adeguatezza in relazione ai nostri obiettivi.

Purtroppo la sola introspezione non ci permette di identificarle né tantomeno coglierne la portata per i nostri nostri pensieri e comportamenti, anche perché, quand’anche ciò accadesse, entrerebbero in gioco altri fattori (come ad esempio la promozione dell’autostima e di un’immagine di sé desiderabile) che ci impedirebbero di riconoscerle con chiarezza (Eagly & Chaiken, 1993). Tuttavia, esplicitare a parole un’aspettativa può essere un potente mezzo per indurre cambiamenti nel proprio modo di pensare e di agire, come ben sanno i terapeuti di orientamento cognitivo-comportamentale.

Partendo da queste considerazioni, allora, un primo modo con il quale potremmo acquisire una maggiore consapevolezza e controllo di noi stessi potrebbe essere cercare di cogliere con l’intuizione quali sono le aspettative che ci guidano nelle situazioni e prendere atto del loro influsso sul comportamento, sul pensiero e sulle emozioni. L’influenza delle aspettative su queste tre aree sono oggetto del prossimo articolo, che chiuderà l’introduzione a questo costrutto così importante per la psicologia sociale e per la comprensione del comportamento umano.

 


UN COSTRUTTO DI BASE DELLA PSICOLOGIA SOCIALE: L’ASPETTATIVA – LEGGI TUTTI GLI ARTICOLI DELLA SERIE:

 

L’impatto del benessere psicologico dei genitori sul trattamento del disturbo autistico

I dati dello studio suggeriscono che i genitori o i principali caregivers di bambini con autismo che affrontano stress particolari possono beneficiare di un trattamento incentrato sulla famiglia.

 

L’esperienza della disabilità è un terremoto emotivo che sconvolge l’esistenza di una persona costringendola a ricostruire la propria vita su basi diverse. La nascita di un bambino disabile mette fine al sogno di avere un figlio perfetto. Da questa fase a quella successiva di accettazione della disabilità intercorre un tempo variabile nel quale si mischiano senso di colpa, vergogna verso se stessi e verso il figlio, rabbia, impotenza, depressione e nuovo slancio propositivo, sentimenti che si ripropongono a ogni stadio evolutivo del figlio (La Rovere, 2019). Cosa vuol dire essere genitore di un bambino autistico?

Cos’è l’autismo?

I disturbi dello spettro autistico (Autism Spectrum Disorder, ASD) sono disturbi del neurosviluppo a eziologia multifattoriale, caratterizzati da deficit nell’interazione sociale e nella comunicazione (verbale e non verbale), associati alla presenza di comportamenti ripetitivi e interessi ristretti e stereotipati. (AmericanPsychiatric Association, 2013).

Fu lo psichiatra svizzero Eugen Bleuler a coniare nel 1911 il termine autismo, dal greco autós («sé stesso»), per descrivere un aspetto sintomatologico nuovo della schizofrenia in età adulta, caratterizzato da autoreferenzialità, negazione dell’altro e di ciò che è differente da sé, mancanza del senso della realtà, pensiero ripetitivo e bizzarro, incomunicabilità e isolamento.

Leo Kanner, pediatra americano, nel 1943 propose il termine autismo infantile precoce, staccandosi definitivamente dalla definizione di schizofrenia grazie allo studio su un gruppo di bambini osservati presso il Johns Hopkins Hospital di Baltimora. In particolare Kanner scriveva di un bambino: “la cosa che più impressiona di Charles è la sua inaccessibilità, il suo distacco. Cammina come stesse nella sua ombra, vive in un mondo tutto suo, dove non può essere raggiunto.” (Kanner, 1943).

L’impatto della diagnosi di autismo sui genitori

La diagnosi è il punto chiave per pianificare un trattamento e per i successivi esiti dello stesso. Una mancanza di conoscenza sulle pratiche diagnostiche può alterare l’efficacia del trattamento e portare ad un aumento di disagio emotivo nei genitori. Molti genitori vivono esperienze stressanti, come i problemi comportamentali dei bambini e le difficoltà del trattamento degli stessi. (Osborne, Reed, 2012).

Sapere come i genitori reagiscono alla diagnosi di autismo del loro bambino può contribuire a una maggiore comprensione del processo diagnostico, a un miglioramento della comunicazione della diagnosi e all’ottimizzazione delle decisioni relative al trattamento (De Aguiar, Pondè, 2020).

Le ricercatrici Pondè e De Aguiar hanno effettuato uno studio nel 2015 su 9 padri e 21 madri. Le interviste sono durate dai 13 ai 117 minuti, con una durata media di 35 minuti e sono stati osservati dodici casi nel momento in cui la diagnosi di autismo è stata comunicata ai genitori dei bambini. Quasi tutte le madri intervistate hanno espresso sentimenti di tristezza, angoscia e disperazione quando sono venute a conoscenza della diagnosi. Questi sentimenti sono stati descritti come uno shock; un momento devastante; la peggiore esperienza della loro vita. Per quanto riguarda i padri, la maggioranza ha descritto il momento come difficile e triste, uno shock, un colpo (De Aguiar, Pondè, 2020).

L’apprendimento della diagnosi del proprio figlio esercita un impatto emotivo negativo sui genitori, che può essere meglio elaborato da strategie di coping e dalla comunicazione della diagnosi che, oltre a fornire informazioni tecniche, offre conforto, sostegno emotivo e speranza riguardo allo sviluppo del bambino.

Tra le strategie di coping, la negazione può rappresentare una forma di convivenza con le difficoltà del bambino, conservando speranza e aspettative in relazione ai suoi aspetti positivi. […] Nel ricevere le strategie di coping, i genitori hanno chiarito che hanno bisogno di sostegno emotivo per prendersi cura dei loro figli e questo è un aspetto importante da ricordare non solo al momento della diagnosi ma durante l’intero processo di cura delle persone con autismo (De Aguiar, Pondè, 2020).

Relazione tra autismo e stress genitoriale

I genitori di bambini con disabilità dello sviluppo affrontano sfide che li mettono a rischio di alti livelli di stress e di esiti psicologici negativi. Fare da genitore a un bambino con autismo può portare ulteriori fattori di stress legati alla difficoltà del bambino nella comunicazione, comportamenti disfunzionali, isolamento sociale, difficoltà nella cura di sé e mancanza di comprensione. Diversi studi tra i genitori di bambini con autismo e disturbi dello spettro autistico correlati hanno riportato un aumento del disagio psicologico, compresa la depressione, l’ansia e componenti legati allo stress, come la diminuzione della coesione familiare, l’aumento dei disturbi somatici e burnout, in confronto ai genitori di bambini con sviluppo tipico o ai genitori di bambini non autistici con ritardo mentale o altra disabilità dello sviluppo. Inoltre, in diversi studi sui genitori di bambini con ASD, il comportamento del bambino e i problemi di condotta erano più strettamente legati a stress dei genitori, piuttosto che ad altri sintomi dell’autismo, gravità di ritardo dello sviluppo o abilità adattive. Gli studi fino ad oggi sono stati limitati da un piccolo campione, dal basso potere statistico e dai bassi tassi di risposta con possibile bias di selezione. La generalizzabilità era anche limitata perché i campioni sono stati tipicamente prelevati da strutture cliniche, scuole o organizzazioni di genitori (Schieve et al., 2015).

I bambini con autismo affrontano molti problemi di sviluppo e sfide fisiche, che spesso richiedono numerose terapie provenienti da diversi ambiti. Il trattamento basato sui modelli che enfatizzano una collaborazione di squadra, in cui le famiglie sono parte integrante, rispetto ai modelli centrati sul bambino, sta guadagnando attenzione. Tale centratura sul modello della famiglia considera le preoccupazioni familiari e la qualità della vita nello sviluppare piani di trattamento.

I dati dello studio suggeriscono che i genitori o i principali caregivers di bambini con autismo che affrontano stress particolari possono beneficiare di un trattamento incentrato sulla famiglia. In futuro saranno necessari ulteriori studi per confermare e ampliare questi risultati con un focus su specifici stressors che possono avere un impatto negativo sulla famiglia con un bambino con diagnosi di ASD (Schieve et al., 2015).

I genitori di bambini affetti da autismo fanno fatica o sono impossibilitati a svolgere una vita normale e, a causa della natura permanente del disturbo, si trovano perennemente angosciati dall’incertezza sia per il futuro prossimo del proprio bambino sia per quello più lontano. La terapia che si protrae per tutta l’esistenza e l’assenza di cure implicano che le famiglie si occupino del figlio disabile per molti anni.

I risultati di uno studio sul benessere psicologico (Dryer et al., 2014) di genitori di bambini autistici hanno riportato che i problemi comportamentali ed emotivi si verificano sia in casa che in pubblico, causando imbarazzo, restrizioni e impatto sui genitori che riportano stati emotivi di angoscia nella maggior parte degli ambiti della loro vita. Allo stesso modo, Tomanik et al. (2004) hanno scoperto che le madri hanno riportato più stress quando i loro figli si mostravano più irritabili, socialmente introversi, iperattivi e incapaci di interagire con gli altri.

Questo studio sottolinea l’importanza di affrontare l’ASD nell’ottica del benessere psicologico dei genitori. Fornire ai genitori maggiore assistenza e supporto sulle difficoltà comportamentali, emotive e sociali dei figli li aiuterà probabilmente a ridurre i loro livelli di angoscia. I risultati di questo studio mostrano che i genitori che beneficiano di una maggiore educazione e consapevolezza riguardo la gravità dei problemi comportamentali/emotivi del proprio figlio godono di una salute psicologica migliore. Una maggiore consapevolezza può portare a una maggiore accettazione di assistenza professionale per la cura del bambino e a un miglior supporto al benessere psicologico dei genitori di bambini con autismo (Dryer et al., 2014).

 

Il Demone del Grasso (2021) di Valeria Bobbi – Recensione

Il Demone del grasso è un libro scritto da Valeria Bobbi. Un racconto in parte autobiografico.

 

Una descrizione cronologica di emozioni caratterizza tutto il libro, una fame immonda, che contorce viscere e anima, affligge la protagonista fin dalla pubertà. È un demone appunto, che ad ogni emozione si sveglia e si impossessa di lei. Si placa di notte, tanto da far svegliare la giovane, ogni mattina, convinta di poter vincere la sua battaglia contro il senso di colpa e la voglia di dimagrire.

Alternando periodi di controllo del peso a periodi di fluttuazione incontrollabile, il demone ad un certo punto si impadronirà completamente di Caterina che si arrenderà a questo circolo vizioso, almeno fino ad un incontro con una persona che si rivelerà fondamentale.

L’equilibrio è l’obiettivo più complicato da acciuffare e non far scappare tra le intemperie dell’esistenza

Quanto è vero!

Leggendo questo libro ho riflettuto su quanto dovrebbe essere fatta promozione alla prevenzione dei disturbi alimentari, tanto quanto le dipendenze da droga e alcol. Una dipendenza, una particolare mal gestione emotiva, ha molte strade in cui incanalarsi e i disturbi del comportamento alimentare fanno parte di questi canali, fintamente accettabili rispetto a droghe ed alcol, fanno meno rumore e quando li viviamo, addirittura spesso non ce ne rendiamo neanche conto.

Leggere il racconto di chi ha vissuto certe dinamiche è un grande strumento per non sentirsi soli, strani, per vedere che, sebbene per ognuno di noi le esperienze sono personali, spesso hanno un comune denominatore.

Da leggere sicuramente, lo consiglio soprattutto ad un pubblico in età adolescenziale e, perché no, anche ai genitori che troppo spesso non danno troppo peso a certi comportamenti.

 

Quando la penna dà voce all’anima: scrittura espressiva e benessere

La scrittura espressiva permette non solo di sfogarsi, ma anche di comprendere maggiormente gli avvenimenti scritti.

 

I primi studi che hanno indagato la relazione tra scrittura espressiva e benessere psicofisico sono stati condotti da Pennebaker (Niles, Haltom, Mulvenna, Lieberman, Stanton; 2014), il quale considerava la scrittura come uno strumento catartico che consentiva non solo di “sfogarsi”, ma anche di prendere consapevolezza dei propri vissuti.

Negli ultimi 20 anni, una mole corposa di letteratura ha dimostrato gli effetti benefici che la scrittura di eventi traumatici, stressanti, esperienze di malattia e sentimenti negativi ha a livello fisico e psicologico (Baikie, Wilhelm; 2005): lo stesso Pennebaker scoraggiava l’inibizione delle emozioni negative o il controllo eccessivo delle stesse, in quanto richiedevano un lavoro fisiologico che comportava livelli malsani e cronici di stress (Lepore; 2002). L’inibizione delle emozioni negative, infatti, è deleteria per la salute, in particolar modo per quella cardiovascolare e per il sistema immunitario, a differenza dell’espressione emotiva, che è un moderatore significativo degli esiti dell’ansia (Niles, Haltom, Mulvenna, Lieberman, Stanton; 2014) ed è legata a condizioni di salute migliori.

Lo scrivere consente di mettere nero su bianco quello che si prova, incidendo sul foglio emozioni e sentimenti che altrimenti soccomberebbero nell’abisso dell’anima: è come se, tracciando su carta consonanti e vocali, si desse al mondo interiore la possibilità di parlare, di farsi vivo, quando le parole non lo consentono. Perché, quando la gola si chiude e la lingua si paralizza, la penna riesce a far vibrare le corde vocali.

La scrittura espressiva, dunque, permette all’individuo non soltanto di sfogarsi, ma anche di comprendere maggiormente gli avvenimenti scritti: in sostanza, rileggendo il proprio elaborato, si diventa osservatori esterni di sé stessi e si ha la possibilità di riflettere sul testo.

Vari studi dimostrano che scrivere dei propri pensieri più profondi, a lungo termine, comporta: miglioramento dell’umore e del funzionamento del sistema immunitario, minori visite mediche a causa dello stress, pressione sanguigna ridotta, miglioramento della funzione polmonare e della funzionalità epatica (Baikie, Wilhelm; 2005).

Alcuni studiosi, tuttavia, credono che la scrittura espressiva, in pazienti con difficoltà a riconoscere e verbalizzare le proprie emozioni (ad esempio gli alessitimici), non abbia alcun effetto benefico; altri, invece, sostengono la tesi opposta, attestando che coloro con maggiori difficoltà ad identificare e/o esprimere i propri vissuti, sono quelli che potrebbero trarre i più grandi vantaggi dall’expressive writing.

In sintesi, per molti quest’ultima non è uno strumento universalmente vantaggioso, ma in ogni caso, che si tratti di testi autobiografici, lettere, poesie o racconti fantastici, la scrittura è un mezzo di espressione emotiva (Smyth, Helm; 2003).

Un costrutto di base della psicologia sociale: l’aspettativa – Prima parte

Quello di aspettativa è un costrutto base in psicologia e uno dei blocchi principali costituenti la mente umana.

Ndr – Il presente articolo è il primo di una serie di tre articoli sul tema delle aspettative. Gli altri contributi verranno pubblicati nei prossimi giorni

 

Esse entrano in gioco quando ci alziamo la mattina, quando andiamo al lavoro, quando incontriamo gli amici, quando siamo impegnati in compiti nuovi, quando ci troviamo in situazioni ordinarie come in situazioni eccezionali. Esse ci permettono di considerare il mondo prevedibile, in una certa misura controllabile; ci permettono di costruire progetti dal brevissimo (secondi) al lunghissimo termine (anni), formulare piani di azione, impegnarci in obiettivi da raggiungere, simulare mentalmente scenari non ancora incontrati e massimizzare i risultati dello sforzo e dell’inventiva personale. Il loro impatto sulla nostra vita è ubiquo e soprattutto silenzioso, in quanto per la maggior parte del tempo esse ci guidano senza che ne siamo consapevoli (Roes & Sherman, 2007).

Per fare alcuni esempi, esse sono responsabili dell’apprezzamento estetico, che si baserebbe su una loro parziale disconferma quando viene fatta esperienza dell’opera d’arte (Berlyne, 1974); sono fondamentali nel definire gli atteggiamenti che abbiamo su eventi e oggetti del mondo (Ajzen & Fishbein, 1980); sono fondamentali nello humour (Wyer & Collins, 92), che si baserebbe sulla risoluzione di un’incongruità percepita tra quanto osserviamo/ ascoltiamo e le attese di come il mondo funziona; infine, hanno un ruolo chiave nella genesi e nello sviluppo della depressione, in cui le aspettative sugli eventi sono spesso perlopiù negative, cupe, fino a essere disperate (Abramson,  Metalsky & Alloy, 1989).

Cosa ci può dire la psicologia sociale sulle aspettative? Cosa sono? Quale è la loro funzione? In base a quali parametri si valutano? Se poco aderenti alla realtà sono passibili di modifica/revisione? Quali conseguenze esercitano sul comportamento, la cognizione e le emozioni? Questo e i prossimi articoli tenteranno di dare una risposta accessibile al lettore non specialista a queste domande.

Una definizione di aspettativa e delle sue funzioni

Innanzitutto serve una definizione di comodo. Consideriamo le aspettative come “credenze riguardanti futuri stati di cose” e, in quanto tali, sono stime soggettive della possibilità che uno o più eventi si presentino, con la possibilità espressa tra gli estremi della certezza incrollabile e dell’impossibilità (Rose & Sherman, 2007). Sono, in altri termini, credenze che costruiscono scenari che riteniamo probabili e che utilizziamo come guida per agire nel mondo, e che si formano a partire dalle informazioni che possediamo in base alla nostra esperienza passata o per esperienza indiretta (dal racconto di un conoscente, da un libro, osservando gli altri, etc.).

La loro funzione primaria è di guidare il comportamento per raggiungere uno o più obiettivi in base a un confronto, che avviene a livello non consapevole, tra la situazione attuale – di cui il soggetto sta facendo esperienza – e uno stato di cose futuro che crede possibile. In base alle ‘piste’ fornite dalle aspettative, il comportamento che il soggetto attua sarà costantemente monitorato dal sistema cognitivo affinché sia raggiunto l’obiettivo e, se necessario, attuare delle modifiche al corso d’azione scelto.

Per fare un esempio, pensiamo a quando guidiamo l’automobile. Sappiamo che per partire da fermi dobbiamo effettuare tutta una serie di operazioni che crediamo daranno dei risultati (accendere l’auto, tirare la frizione, ingranare la prima etc.) senza i quali non partiremmo mai. Le aspettative ci dicono cosa dobbiamo fare, che sarà molto probabile che la macchina parta e, inoltre, cosa fare nel caso ciò non accada. Più la situazione attuale è percepita come complessa, più le aspettative tenderanno ad articolarsi di conseguenza, a formare un sistema che possa guidarci in essa. Avremo così diversi piani di azione disponibili, molteplici rappresentazioni di possibili situazioni future, diversi modi di affrontare una situazione, tutto ciò a concorrere per i nostri scopi (Rose & Sherman, 2007).

Il rapporto tra l’aspettativa e la realtà

Ma non c’è il rischio che le aspettative che possediamo siano sbagliate rispetto alla situazione attuale, ovvero che le nostre credenze non siano ancorate adeguatamente alla realtà? Non proprio. La maggior parte di esse sono accurate e rispecchiano molto fedelmente la realtà, perché basate su un bagaglio consistente di esperienza passata direttamente vissuta dall’individuo. Tuttavia possono contenere errori. Quando ciò accade il comportamento non porta gli esiti previsti e tra la aspettativa posseduta dal soggetto e la situazione reale verrà percepita una discrepanza, il soggetto percepirà che ‘c’è qualcosa che non va’, e l’aspettativa verrà disconfermata in una parte più o meno consistente, portando il soggetto a rivedere il comportamento, l’aspettativa stessa, o entrambi (Roese, 2001).

Ritornando all’esempio dell’automobile, avete mai provato a partire da fermi con la quarta marcia ingranata? Cosa avete sentito in quel momento, a parte il fatto che la macchina non partiva? Quella sensazione che c’era ‘qualcosa di storto’, era il sistema cognitivo che vi diceva di prestare attenzione a ciò che stava accadendo in quel momento.

Oltre a essere per la maggior parte corrette, precise e affidabili (per ora, quasi ogni mattina riusciamo a far partire l’auto) le aspettative agiscono perlopiù al di sotto della piena consapevolezza (in ‘automatico’; Rose & Sherman, 2007), il che le rende uno strumento che la nostra mente applica in modo efficiente e veloce alle situazioni che incontriamo nella vita quotidiana, soprattutto quando è necessario prendere decisioni rapide e in circostanze difficili, quando in genere sperimentiamo stanchezza, confusione e urgenza di pensare a una soluzione (come ad esempio scegliere un percorso alternativo se siamo in ritardo, o se inchiodare o sterzare se un pedone ci passa davanti).

Nella seconda parte si tenterà di fornire i parametri necessari per comprendere la natura e il funzionamento di questo indispensabile strumento cognitivo.

 


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