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La gestione psicosociale e i ritmi circadiani quali elementi chiave per il benessere psicofisico

I fattori responsabili dell’accelerazione e del rallentamento delle lancette del nostro orologio biologico, cioè i nostri telomeri, sono identificabili dall’alimentazione, dall’attività motoria, dalla qualità del sonno, dalla rete sociale che abbiamo e dal nostro benessere psicologico.

 

L’adattamento richiesto al nostro organismo, sia in termini di contesti di vita molto distanti rispetto agli scenari evoluzionistici che hanno definito l’architettura dei nostri meccanismi fisiologici, che in termini di elevato stress psicosociale che dobbiamo affrontare quotidianamente, si traduce in uno sforzo adattativo del nostro organismo che può essere gestito solo attraverso una visione olistica integrata dove gli aspetti psico-neuro-endocrino-immunologici vengono letti all’interno di un’ottica bio-psico-sociale.

Questo periodo legato alla gestione biologica, psicologica e sociale della pandemia ha esacerbato le difficoltà già presenti nella società della maggior parte delle nazioni relative ai sostenuti ritmi di vita lavorativa combinati ad un’estrema e diffusa incertezza nei confronti del futuro (psicologica, sociale ed economica), sia sul piano personale che professionale.

In questo contesto generale, il ripristino di corretti ritmi circadiani, abbinati ad una più efficace capacità di gestione dello stress psicosociale, rappresentano dei fattori chiave per ripristinare una migliore qualità di vita ed un benessere psicofisico.

Risulta fondamentale considerare in maniera integrata questi due aspetti della nostra vita perché, diversamente, adottando una visione più riduzionistica, si correrebbe il rischio di impattare sulla salute e sulla qualità di vita in maniera molto meno efficace se non addirittura dannosa.

A confermare quanto appena descritto basta consultare la letteratura relativa alla scienza dei telomeri che ci dimostra quanto possa essere inutile e potenzialmente dannoso intervenire esclusivamente in uno, o più, dei macro aspetti che determinano la nostra salute tralasciando gli altri.

Ad esempio intervenire unicamente sui ritmi circadiani (attività motoria, alimentazione, qualità del sonno, etc.) senza considerare anche la gestione psicologica dello stress può non solo essere poco efficace ma anche potenzialmente pericoloso (Agnoletti, 2018; Blackburn, 2010).

Da notare, dal punto di vista del professionista, quante competenze trasversali richiede questo approccio ben più complesso e dinamico rispetto quello più tradizionale fondato sulla iper-specializzazione formativa settoriale.

Il cosiddetto “effetto imbuto” o “collo di bottiglia” della dinamica dei telomeri (Agnoletti, 2019a) suggerisce infatti che, a modulare l’attività degli enzimi della telomerasi, gli agenti biologici che riparano i telomeri (le strutture cromosomiche che determinano la nostra longevità e la propensione a sviluppare malattie), sono diversi processi convergenti e in parte indipendenti.

In altre parole, concentrarsi quindi in maniera esclusiva solo su uno di questi aspetti (motorio, nutrizionale, del sonno, di gestione dello stress psicologico, etc.) non risulta essere una strategia efficace, ma anzi potenzialmente pericolosa, per i rischi conseguenti la sottovalutazione dell’area che in quel momento sta impattando più sfavorevolmente sui telomeri stessi.

Un supporto professionale ideale dovrebbe quindi eventualmente partire dall’analisi della situazione delle singole aree che impattano sui telomeri individuando quella, o quelle, maggiormente deficitarie al fine di stabilire quindi la priorità temporale della sequenza dell’intervento stesso.

Da questa dinamica emerge la profonda e complessa trasversalità di competenze che dovrebbe possedere il professionista per assistere la persona in maniera integrata ed olistica.

I fattori responsabili dell’accelerazione e del rallentamento delle lancette del nostro orologio biologico, cioè i nostri telomeri, sono identificabili dall’alimentazione, dall’attività motoria, dalla qualità del sonno, dalla rete sociale che abbiamo e dal nostro benessere psicologico (Epel et al., 2004; Jang & Serra, 2014).

Alla luce del moderno paradigma epigenetico, i ritmi circadiani sono un meccanismo di adattamento basato sull’apprendimento previsionale, finalizzato a regolare ed ottimizzare il funzionamento dell’organismo nella sua globalità psico-neuro-endocrino-immunologica.

Nel 2017 tre premi Nobel sono stati assegnati a Jeffrey C. Hall, Michael Rosbash e Michael W. Young per l’individuazione del meccanismo genetico dei ritmi circadiani responsabile dell’andamento oscillatorio che determina, in maniera autonoma, un cambiamento ciclico nella modalità di funzionamento cellulare. Questi ritmi circadiani sono regolati epigeneticamente attraverso stimoli che provengono dall’ambiente esterno (principalmente dalla luce e dalla temperatura) e tramite i comportamenti (o stili di vita) legati al sonno, all’alimentazione, all’attività motoria ed alla gestione dello stress psicosociale.

Tutte queste attività diverse impattano in maniera convergente sulla regolazione circadiana dell’organismo determinandone la sincronia o l’asincronia con i ritmi ambientali (giornalieri, stagionali, etc.) che percepiamo.

Sia il “quanto” che il “quando” siamo esposti alla luce, il “cosa”, la quantità ed il quando ci alimentiamo, la specifica attività motoria che pratichiamo (e naturalmente quando la eseguiamo) oltre al tipo di gestione dello stress che percepiamo, condizionano la nostra qualità di vita e la predisposizione a generare disturbi o patologie nel tempo piuttosto che promuovere un equilibrato e solido benessere psicofisico.

La luce (o meglio, lo spettro di frequenze che caratterizza la luce solare) che percepiamo durante il giorno, attraverso la stimolazione di un gruppo di circa ventimila neuroni dedicati che si trovano nel nucleo sopra-chiasmatico del nostro cervello, determinano un settaggio sia neurale che endocrino, di tutte le cellule del nostro corpo (Mohawk, Green, & Takahashi, 2012; National Institute of General Medical Sciences, 2020).

Addormentarsi oltre la mezzanotte (magari finendo di cenare poco prima) genera, per esempio, una disorganizzazione dei ritmi circadiani perché l’attività alimentare e la qualità del sonno risultano compromesse per il fatto che non sono coordinate e coerenti con ciò che viene elaborato dal master clock (nucleo sopra-chiasmatico) per ottimizzare l’attività predittiva generale (Acosta-Galvan et al., 2011; Antle & Silver, 2005; Patel et al., 2012).

Quindi da una parte i ritmi circadiani sono fortemente condizionati dall’esposizione alla luce, dall’alimentazione, dalla qualità del sonno e dell’attività motoria, dall’altra anche il benessere psicologico può, ad esempio, determinare un cambiamento della qualità del sonno (inducendo ad esempio una produzione di cortisolo notturno che contrasta funzionalmente la produzione di melatonina che promuove invece il sonno).

Oltre a tendere ad un corretto ritmo circadiano, agendo sul “cosa” e sul “quando” mettere in pratica un’abitudine positiva (praticare attività motoria, mangiare in maniera sana, adottare una valida igiene del sonno), occorre agire anche al fine di limitare i danni da stress negativo prodotto da una poco efficace gestione delle dinamiche psicosociali, così preponderanti nella nostra società.

In questo senso esistono già comprovate strategie utili ed efficaci per arginare i danni da stress negativo (si veda ad esempio l’attività meditativa o le semplici respirazioni diaframmatiche che possiamo applicare quotidianamente), come esiste la tipologia di esperienze emotivamente positive (vedi ad esempio le cosiddette esperienze “ottimali” o di “flow”) che generano benessere psicofisico rinforzando anche il sistema immunitario (Agnoletti, 2019b; Agnoletti & Formica, 2021).

In questa visione olistica e integrata chiaramente il rapporto tra benessere psicologico e dinamiche biologiche è bidirezionale, quindi se è vero che un degradato benessere emotivo influenza i ritmi circadiani alterando alcuni processi neuro-endocrini, è altrettanto vero che la regolarizzazione nutrizionale, dell’igiene del sonno, dell’attività motoria e l’esposizione ad una più significativa e positiva socialità, favoriscono, a loro volta, il recupero di una qualità di vita psicologica temporaneamente compromessa.

Dalla letteratura psico-neuro-endocrino-immunologica presente risulta quindi efficace adottare abitudini finalizzate a ripristinare corretti ritmi circadiani attraverso l’attività motoria, l’alimentazione, la qualità del sonno oltre ad una sana rete sociale ed un solido benessere psicologico.

 

Lo stato mentale di coppia. Il modello Tavistock Relationships (2021) – Recensione

Morgan nel volume Lo stato mentale di coppia ripropone le nozioni fondamentali della psicoanalisi e mostra come vanno utilizzate per comprendere le fondamenta inconsce della relazione di coppia.

 

Mary Morgan è una psicoanalista e psicoterapeuta psicoanalitica di coppia, membro della British Psychoanalytical Society, di Tavistock Relationships e della Polish Society for Psychoanalytic Psychotherapy. È stata lettrice e direttrice del corso magistrale in psicoterapia psicoanalitica di coppia presso la Tavistock Relationships. Ha scritto nel campo della psicoanalisi di coppia, insegna e supervisiona a livello internazionale e ha una pratica analitica privata. Il suo libro: “A Couple State of Mind: Psychoanalysis of Couples – the Tavistock Relationships Model”, pubblicato nel 2018 da Routledge è uscito da poche settimane per le edizioni di Cortina nella traduzione italiana.

Il libro descrive ed esemplifica il modello della psicoterapia psicoanalitica di coppia del Tavistock Relationships, ispirandosi alla storia ma anche alle ricerche recenti di questa istituzione che, pur modificando più volte negli anni la propria denominazione, da oltre 70 anni costituisce un punto di riferimento assoluto in ambito psicoanalitico e non solo, innanzitutto per il trattamento infantile e di coppia.

La relazione di coppia, fortemente evocativa delle relazioni primarie, è intesa come luogo elettivo ove i partner, con movimenti reciproci e complementari, si ingaggiano reciprocamente in quella che Dicks (1967), uno dei primi autori ad occuparsi di coppia in chiave analitica, facendo riferimento al matrimonio, ebbe a definire una “relazione terapeutica naturale”. Nel senso che la scelta del partner rappresenta sul piano inconscio anche un tentativo di risoluzione di alcune difficoltà personali. In tal modo la coppia, in una dinamica di mutuo aiuto, può essere una potente esperienza trasformativa ed evolutiva, in un gioco felice di equilibrio tra contenimento e meccanismi difensivi. Tuttavia, in un certo numero di casi, i motivi personali di difficoltà prevalgono sul tentativo di evoluzione e la “terapia naturale” fallisce. Anzi, la relazione di coppia può divenire un amplificatore delle difficoltà individuali.

Tornando al testo, Morgan ripropone le nozioni fondamentali della psicoanalisi e mostra come vanno utilizzate per comprendere le fondamenta inconsce della relazione di coppia. La posizione psicoanalitica che il clinico assume in relazione alla coppia costruisce, all’interno della relazione di transfert e controtransfert, un setting terapeutico in cui i partner in trattamento possono sperimentare e modificare le dinamiche che impediscono l’evoluzione della loro relazione.

Per l’autrice compito primario del terapeuta è mantenere uno “stato mentale di coppia”. Tale funzione è essenziale nel suo modello e consiste nel conservare contemporaneamente nella propria mente sia la presenza di entrambi i partner sia delle loro modalità relazionali. Questa capacità consente al terapeuta di comprendere e restituire un po’ alla volta alla coppia le aree tematiche in cui si svolgono i conflitti e in cui risiedono le loro angosce condivise e le fantasie inconsce. In una coppia disfunzionale, infatti, gli stessi partner non riescono a vedere la loro “relazione” e percepiscono soltanto i bisogni individuali, propri e dell’altro, senza accorgersi che hanno dato vita anche ad un organismo diadico, con funzionamento autonomo (Filippi, S. 2003).

In pratica utilizzare tale costrutto ci invita a interrogarci sull’uso che viene fatto della relazione in quanto tale, ciò che Norsa e Zavattini hanno definito la qualità del “Senso del Noi” (Norsa, Zavattini 1997) di cui la coppia è portatrice e che sta a indicare come, accanto ai sentimenti di differenziazione sempre messi in evidenza nella modellistica psicoanalitica, bisogna dare importanza anche al sentimento di appartenenza reciproca. In tal modo la logica dell’intervento del terapeuta presuppone un superamento della lettura meramente individuale assumendo quello che già in un precedente lavoro era stato concettualizzato come lo “stato mentale di coppia” (Morgan, 2001).

Infatti, secondo il suo modello, il più importante fattore di contenimento della coppia è rappresentato da questo particolare assetto interno del terapeuta, che comporta molto più del tenere entrambi i partner in mente. Si tratta piuttosto di tenere in mente la relazione, ossia assumere una posizione interna che permette di essere soggettivamente coinvolti con entrambi i partner, ma anche, al tempo stesso, di porsi esternamente alla relazione e osservare la coppia nella sua interazione.

Successivamente lo “stato mentale di coppia” del terapeuta sollecita gradualmente la formazione di un analogo stato mentale nei membri della coppia, nella misura in cui per ognuno di essi sarà possibile iniziare a percepire se stesso, i bisogni dell’altro e la relazione tra loro. Questo è senz’altro uno degli obiettivi della terapia di coppia ed il suo perseguimento può comportare un alleggerimento delle reciproche e rigide identificazioni proiettive che avevano costituito sia un elemento di paralisi degli aspetti creativi della coppia, sia un elemento intrusivo, o comunque dotato di forte potenzialità negativa, nella psiche degli eventuali figli (Zavattini, G. 2006).

I capitoli centrali del volume sono dedicati alle aree fondamentali della teoria e della tecnica del lavoro analitico di coppia. In particolare, sono descritti i concetti di fantasie inconsce, il tema del narcisismo, il transfert e controtransfert, il ruolo della sessualità, l’identificazione proiettiva, le interpretazioni, tutti declinati secondo il particolare setting di coppia. L’ultimo capitolo è infine dedicato al tema della conclusione della terapia e ai suoi obiettivi. A questo riguardo va detto che in questo tipo di terapia l’eventualità della separazione dei partner è spesso possibile. Riguardo ai suoi scopi, analogamente a una terapia individuale analitica, una terapia di coppia può dirsi felicemente conclusa quando la funzione analitica, ovvero lo “stato mentale di coppia” è stato adeguatamente introiettato dai partner. L’incontro con il terapeuta che possiede tale assetto saldamente presente come posizione interna consente gradualmente ai partner di confrontarsi con i meccanismi ad incastro della relazione di coppia. In tal modo, può avvenire un graduale insight secondo cui nessuno pensa più che il problema sia l’altro e ci si sofferma maggiormente su ciò a cui insieme si è dato vita. L’obiettivo terapeutico deve essere quindi inteso come possibilità di ripristinare la corretta funzionalità della relazione, ovvero garantire un “Senso del Noi” collegato alle esperienze più costruttive e riparative del Sé e degli schemi che caratterizzano la collusione, in modo da favorire un Sé autonomo e più integrato, nonché una comprensione più profonda di ciò che viene affidato alla relazione come senso di appartenenza (Zavattini, G. 2006).

 

Autoefficacia e benessere psicologico in un campione di studenti universitari italiani con e senza disturbo specifico dell’apprendimento

Il seguente elaborato è finalizzato a focalizzare l’attenzione su un gap della letteratura sul tema DSA: una notevole mole di ricerche riguarda i disturbi specifici dell’apprendimento nell’infanzia (Matteucci, Scalone, Tomasetto, Cavrini e Selleri, 2019), ma mancano studi che ne esplorino i correlati nell’arco di vita, come ad esempio negli studenti universitari con DSA.

 

Lo spettro dei Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA) concerne una classe di disturbi del neurosviluppo caratterizzati da difficoltà significative e persistenti nella sfera dell’apprendimento, che possono includere la lettura, la scrittura e il calcolo. Il rendimento dell’individuo nelle abilità scolastiche interessate è nettamente inferiore a quello atteso per l’età cronologica, implicando una compromissione significativa del funzionamento psicosociale (Matteucci & Soncini, 2021). La classe diagnostica dei disturbi specifici dell’apprendimento è considerata di natura evolutiva, il cui esordio si manifesta tendenzialmente durante i primi anni della scuola primaria. Tuttavia, si tratta di condizioni irreversibili e permanenti, in quanto non si fa riferimento ad un disturbo in senso stretto, bensì ad una modalità di funzionamento differente da quella normotipica; in termini di neurodiveristà e non di deficit neurologico/cognitivo. La connotazione life-time dei DSA, se non adeguatamente diagnosticati e trattati, può implicare significative difficoltà che possono persistere nel corso della vita in svariate aree, come ad esempio: nell’ambito dell’istruzione, nel mondo lavorativo (Motimore & Crozier, 2006) e in generale a carico del benessere psicosociale (Eloranta, Na ̈rhi, Ahonen, & Aro, 2019).

Il seguente elaborato è finalizzato a focalizzare l’attenzione su un gap della letteratura sul tema: una notevole mole di ricerche riguarda i DSA nell’infanzia (Matteucci, Scalone, Tomasetto, Cavrini e Selleri, 2019), ma mancano studi che ne esplorino i correlati nell’arco di vita, specialmente negli studenti universitari con DSA. Infatti, nonostante un significativo aumento, riconosciuto a livello internazionale, di studenti con diagnosi di DSA nell’istruzione superiore, le stime della prevalenza di DSA nella popolazione studentesca universitaria rimangono ancora imprecise e, di conseguenza, è carente la letteratura sui loro profili psicologici (Longobardi, Fabris, Mendola e Prino, 2019). Sebbene non siano disponibili dati statistici nazionali sulla percentuale di studenti universitari con DSA nelle università private e pubbliche italiane, un recente studio ha stimato il tasso di prevalenza di studenti con DSA nelle università italiane in un range compreso tra lo 0,03 % e lo 0,48 % (Longobardi et al., 2019). Tale gap nella ricerca sugli studenti universitari con DSA in Italia costituisce una lacuna significativa da colmare.

In tale estratto l’attenzione viene focalizzata sull’autoefficacia accademica degli studenti universitari con DSA e sul loro benessere psicologico percepito. Nello studio analizzato, un campione di studenti universitari italiani con DSA è stato confrontato con un gruppo di controllo di studenti senza DSA. Il primo obiettivo è stato quello di esplorare problematiche di natura psico-sociale, verificando le differenze tra studenti con e senza DSA. Come secondo obiettivo, è stata analizzata l’autoefficacia accademica percepita degli studenti universitari con DSA, rispetto a un gruppo di controllo di studenti senza DSA, monitorando anche il loro rendimento scolastico. È stato riscontrato che gli studenti con DSA presentano mediamente una minore autoefficacia rispetto agli studenti senza DSA, tuttavia, analisi approfondite hanno rilevato che gli studenti con scarsi risultati senza DSA non differivano dagli studenti con DSA con risultati accademici comparabili, mentre gli studenti DSA con buoni risultati non hanno dimostrato una differenza significativa dai loro coetanei senza DSA (Matteucci & Soncini, 2021).

Questi risultati suggeriscono che molte difficoltà di natura motivazionale e di autostima negli studenti con disturbi specifici dell’apprendimento possono non essere specifici della condizione di DSA. In questo senso è possibile ipotizzare un confortante contribuito da parte della politica di didattica inclusiva del sistema educativo italiano. Pertanto, una possibile deduzione è che in tale contesto gli studenti potrebbero non sperimentare la stigmatizzazione, la quale implicherebbe vissuti emotivi negativi e potrebbe inficiare il rendimento accademico (Daley & Rappolt-Schlichtmann, 2018). Per quanto riguarda le differenze nel benessere psicologico tra studenti con e senza DSA, i risultati emersi sono in linea con studi precedenti che non hanno riscontrato differenze significative tra la salute mentale (sintomatologia ansiosa, depressiva e sintomi somatici) di studenti con DSA e il gruppo di controllo (Jordan, McGladdery, & Dyer, 2014). Piuttosto, secondo gli autori, gli studenti con DSA mostrano un livello di benessere psicologico inferiore, rispetto ai controlli, solo in merito all’ambito accademico, senza un impatto pervasivo sulla qualità di vita generale: è presente un maggiore rischio di sviluppare auto-percezioni negative di sé come studenti, ma non a carico della loro autostima complessiva (Gibby-Leversuch, Hartwell e Wright, 2019). I risultati suggeriscono che la presenza di una diagnosi di DSA non è necessariamente un predittore significativo di convinzioni negative su se stessi e difficoltà socio-emotive, tuttavia, sono necessarie ulteriori ricerche sulle caratteristiche psicologiche degli studenti universitari con DSA e in particolare sul ruolo protettivo delle caratteristiche personali, sociali e contestuali. Tuttavia, i risultati suggeriscono comunque di implementare interventi psicologici rivolti a tutti gli studenti che, al di là della diagnosi di DSA, potrebbero aver bisogno di supporto.

In questo senso, un miglioramento dell’autoefficacia accademica sosterrebbe la motivazione, l’apprendimento e i conseguenti risultati accademici (Multon, Brown & Lent, 1991), poiché è stato dimostrato che l’autoefficacia accademica è un predittore significativo del rendimento scolastico. Pertanto, un intervento specifico con insegnanti e tutor per migliorare l’autoefficacia accademica, potrebbe essere particolarmente utile per gli studenti con disturbi specifici dell’apprendimento che affrontano difficoltà di apprendimento durante la loro vita scolastica e accademica. In conclusione, i risultati dello studio analizzato suggeriscono la necessità di monitorare e fornire supporto a tutti gli studenti che potrebbero essere considerati a rischio di abbandono accademico, offrendo interventi psicologici focalizzati sul riconoscimento dei loro punti di forza e sul miglioramento delle loro difficoltà; al fine di sostenere il loro percorso di studi, in un’ottica d’intervento precoce (Matteucci & Soncini, 2021).

 

Dolore cronico: quando curare il corpo non basta

La problematica del dolore cronico affligge buona parte della popolazione mondiale, eppure vi è una certa difficoltà nel delimitare, attraverso una definizione univoca, tale costrutto.

 

Anzitutto, bisogna considerare che la condizione di dolore cronico si costituisce a partire da componenti sia fisiche che psichiche; questo è il motivo per il quale spesso trattamenti esclusivamente medici o farmacologi non contribuiscono alla sua eliminazione. L’Institute of Medicine Commettee on Pain, Disability and Chronic Illness Behavior definisce il dolore cronico come “una percezione complessa, che coinvolge livelli superiori del SNC, stati emozionali e processi mentali di ordine più elevato” (Khouzam, 2000). Esso può essere misurato attraverso strumenti standardizzati, tra cui ad esempio il Chronic Pain Acceptance Questionnaire (CPAQ) (McCracken, Vowles & Eccleston, 2004; Nilgen, Koster & Schmidt, 2007) o l’Affective Acceptance (Dijkstra et al., 2008).

Nonostante il grande impatto di questo fenomeno a livello mondiale, e considerando che il dolore cronico è una delle cause di maggiore impatto che conducono alla disabilità, le statistiche nazionali per questa condizione sono meno sviluppate di altre patologie, come cancro e problemi cardiovascolari (Von Korff et al., 2016). Ciononostante, diversi sono gli sforzi effettuati per fronteggiare tale problematica, ad esempio attraverso la creazione della National Pain Strategy con l’obiettivo di stimare la prevalenza e l’incidenza del dolore cronico nella popolazione, individuare metodi ed interventi standardizzati per la sua cura e valutarne l’efficacia.

Poiché, come si è già accennato, spesso la percezione del dolore in pazienti affetti da tale condizione non viene scalfita o indebolita dall’assunzione di farmaci o da trattamenti tradizionali, la domanda che ad oggi la ricerca scientifica si pone è come migliorare la condizione di vita di questi individui. Partendo dall’intuizione di Brakel (2014), secondo cui i processi psicologici attivati dal dolore cronico sarebbero gli stessi messi in campo per affrontare gli eventi negativi di vita, l’idea di base è dunque di lavorare sull’interpretazione che si fornisce a tale evento. In altre parole, laddove non sia possibile modificare un evento inteso in termini oggettivi, si può comunque modificare l’attribuzione di senso data all’evento, e dunque il proprio atteggiamento verso di esso.

Una lettura interessante rispetto alla gestione del dolore cronico viene fornita in uno studio trasversale di Orfgen & Dijkstra (2016). Gli autori individuano tre strategie, riconducibili a processi di relativizzazione del dolore, che consentono una riformulazione dell’attitudine del paziente con dolore cronico verso il dolore stesso:

  • Comparazione temporale;
  • Comparazione sociale;
  • Comparazione controfattuale.

Gli autori hanno infatti indagato come agisce ciascuno di questi tre meccanismi nel cambiamento di atteggiamento verso il dolore: dallo studio emerge una modificazione del 37% rispetto alla propria condizione. Più specificatamente, andando a lavorare sulla frequenza con cui i pazienti pensano al proprio passato, e confrontando questa percezione con quella attuale – dunque effettuando una paragone temporale -, vi sarebbero delle modificazioni nella percezione di sé. Il confronto con l’altro implicato nel processo di raffronto sociale va a lavorare sulle aree di identificazione e differenziazione con le altre persone, andando a facilitare l’accettazione della malattia, come accade anche in altri studi effettuati, ad esempio, sul diabete (Dijkstra et al., 2008). Infine, il confronto controfattuale, inteso come la prefigurazione mentale di come sarebbe stata la propria vita senza il dolore cronico, andrebbe a modificare l’influenza emotiva delle reazioni ed il significato stesso attribuito agli eventi (Orfgen & Dijkstra, 2016).

La strada per la ricerca sui trattamenti di una patologia così complessa e sfuggente come quella del dolore cronico è ancora in salita, ma ciò che appare evidente è la necessità di un lavoro sinergico attraverso una rete di professionisti della salute, i quali non dovrebbero mai dimenticare la fondamentale continuità tra mente e corpo, evitando di minimizzare, banalizzare o ignorare la condizione e la sofferenza di chi è affetto da questa condizione. Al contrario, sarebbe auspicabile che coloro i quali si fanno carico di un paziente con dolore cronico ispirino il proprio lavoro al principio di trasparenza e chiarezza nell’esposizione delle cause e dell’eventuale prognosi, per non alimentare la preoccupazione del paziente, tenendo bene a mente la necessità di considerarne il vissuto globale nella sua interezza (Callegari, Salvaggio, Gerlini & Vender, 2007).

 

Il distress psicologico dei pazienti oncologici: qual è il ruolo della terapie di terza ondata ACT e MCT?

Tra le terapie utilizzate per il trattamento dei sintomi psicologici del paziente oncologico, la più efficace e raccomandata sembrerebbe la CBT, ma la psiconcologia si sta aprendo all’utilizzo di ACT e MCT.

Fiorenza Fella, Merve Ulku Kulaksiz – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

La patologia oncologica è vissuta come un evento stressante, indipendentemente dalla tipologia di neoplasia. Secondo le linee guida AIOM il 75% dei pazienti manifesta una qualche forma di distress psicologico. Quest’ultimo, associato alla malattia oncologica, ha un impatto psicologicamente negativo che interferisce con la capacità della persona di affrontare la malattia, i sintomi fisici associati ed il percorso di cura (Hall et al. 2018). I sintomi del distress si sviluppano lungo un continuum che va da sentimenti di vulnerabilità, paura, tristezza a sintomi che possono diventare invalidanti, quali ansia, depressione, panico, isolamento sociale e crisi spirituale ed esistenziale (M.Shams et al.2019). Tale sintomatologia riduce la qualità di vita, l’aderenza al trattamento, intensifica i sintomi fisici ed incrementa i costi di assistenza sanitaria. Gli studi in letteratura riportano che circa il 25% dei pazienti oncologici mostra una comorbilità con una sintomatologia psicologica che può condurre a livelli di ansia e depressione significativi (Hoffman et al.2009). Inoltre, a partire dal 6% al 45% della popolazione oncologica possono essere presenti anche i sintomi da Disturbo da Stress Post Traumatico (PTSD); infine il 60% tra i sopravvissuti potrebbe esperire un vissuto di paura di recidiva (Swartzman et al.2017). La comorbilità psicologica incide sulle cure oncologiche in corso in quanto riduce anche la partecipazione agli incontri di follow up previsti dal percorso di cura. A causa delle complicanze accennate sono quindi richiesti interventi specifici di psiconcologia.

Le linee guida nazionali ed internazionali raccomandano l’assistenza psicologica nei pazienti che presentano una sintomatologia psicologica (Falleret al. 2013). Tra le terapie utilizzate per il trattamento dei sintomi psicologici del paziente oncologico, la più efficace e raccomandata sembrerebbe la Terapia Cognitivo Comportamentale (CBT).

Il trattamento CBT si focalizza principalmente sul ruolo dei pensieri, delle emozioni e del comportamento disfunzionali utilizzando metodi per rilevare e modificare tali pattern maladattivi. Dalla revisione della letteratura effettuata, sebbene alcune delle tecniche tipiche della CBT, quali l’intervento sulle distorsioni cognitive e l’analisi dei pensieri automatici negativi, risultino essere valide, sono presenti anche alcuni limiti dal punto di vista clinico. I limiti evidenziati potrebbero essere superati dalle terapie cognitiviste di Terza Ondata. Questi interventi non si focalizzano sul contenuto della cognizione ma si direzionano sull’analisi dei processi psicologici coinvolti. Il focus nelle terapie di Terza Ondata si sposta dall’analisi dei contenuti dei pensieri disfunzionali alla relazione tra la persona e il proprio pensiero. Tali metodi di intervento enfatizzano il ruolo della metacognizione ed approcci esperienziali quali, per citarne alcuni: la mindfulness, l’accettazione, il lavoro sui valori e gli scopi di vita.

Recentemente, anche l’interesse dei ricercatori nell’ambito della psiconcologia internazionale si sta orientando sulla possibilità di trattare gli eventuali disturbi psicologici che emergono nella patologia oncologica attraverso alcuni degli interventi di terza ondata. Tra questi saranno analizzati di seguito gli studi che stanno valutando l’efficacia dell’Acceptance and Commitment Therapy (ACT) di Steven C. Hayes, e la Metacognitive Therapy (MCT) introdotta da Adrian Wells.

ACT

L’Acceptance and Commitment Therapy si fonda su sei pilastri della flessibilità psicologica: il contatto con il momento presente, la defusione cognitiva, l’accettazione, il sé come contesto, i valori e l’azione impegnata. L’ACT, adopera nel suo modello di intervento sia strategie esperienziali di accettazione e mindfulness sia un atteggiamento di impegno all’azione e alla modificazione del comportamento. Il fine è quello di incrementare la flessibilità psicologica della persona ovvero l’essere in contatto consapevolmente con il momento presente agendo in linea con i propri valori. Diversamente dalla CBT consente, anche nel caso del paziente oncologico, di ampliare il proprio repertorio comportamentale e di gestire il proprio disagio con nuove strategie: tolleranza delle problematiche inerenti la malattia, la capacità di stare sul qui ed ora piuttosto che focalizzarsi sulle paure riguardanti il futuro. Questi aspetti aprono la strada ad un approccio mentale di accettazione sull’inevitabilità del disagio correlato alla neoplasia.

Uno studio recente di John et al. (2020) che ha applicato il trattamento ACT a pazienti oncologiche ha dimostrato l’efficacia preliminare anche nel ridurre i pensieri rimuginativi circa la preoccupazione di poter incorrere in una recidiva. Questo studio ha coinvolto 91 donne con carcinoma mammario, le quali avevano completato le cure mediche previste. Le pazienti hanno effettuato sei sessioni settimanali (della durata di due ore) di terapia e hanno partecipato anche ad esercizi di mindfulness oltre che a svolgere homework tra una seduta e l’altra. Le pazienti dopo questo trattamento hanno mostrato una riduzione dei pensieri intrusivi in correlazione alla riduzione delle strategie di evitamento esperienziale. Inoltre, si è visto che lo sviluppo della flessibilità psicologica ha consentito alle pazienti di ottenere una maggiore capacità di adattamento allo stato di malattia.

Un altro studio di E. Mosheret al. (2019) ha sottoposto l’ACT a pazienti con carcinoma avanzato ai polmoni, i quali riportavano almeno uno tra i sintomi più comuni (affaticamento, disturbi del sonno, affanno, dolori, sintomi depressivi, ansia); inoltre in questa ricerca sono stati reclutati anche i caregiver. Lo studio ha coinvolto i partecipanti per sei settimane attraverso delle sessioni telefoniche della durata di cinquanta minuti. L’intervento si è basato principalmente sullo sviluppo di skills di mindfulness e sull’incoraggiamento ad azioni in linea con i propri valori. Nonostante la gravità dei sintomi fisici (fatica, dolore) mostrati dai pazienti, l’intervento attraverso l’ACT sembrerebbe aver dimostrato efficacia nel miglioramento del benessere psicologico di entrambi i gruppi.

Le evidenze suggeriscono che effettuare interventi psicoterapeutici basati sull’ACT possa condurre ad un miglioramento del funzionamento psicosociale in misura maggiore di trattamenti standard (Low et al. 2016).

MCT

La Metacognitive Therapy (MCT) potrebbe essere un altro approccio terapeutico alternativo per trattare i disturbi psicologici in comorbilità (Fisher et al 2019). Esso ha origine da una teoria sulla psicopatologia trans-diagnostica che viene teorizzata attraverso il modello dell’Autoregolazione delle Funzioni Esecutive (S-REF). Tale modello inquadra i disturbi psicologici come derivanti dall’attivazione di uno stile di pensiero negativo chiamato Sindrome Cognitiva-Attenzionale (CAS). Il CAS si contraddistingue da stile di pensiero perseverante (rimuginio o ruminazione); focalizzazione dell’attenzione sulla minaccia; strategie disfunzionali di coping (Wells, 2009). L’intervento MCT non mette in discussione il contenuto dei pensieri riguardanti la malattia, ma è orientata a far comprendere ai pazienti gli effetti deleteri e controproducenti del CAS, rafforzando così la motivazione a sospendere la preoccupazione e la ruminazione. Allo stesso tempo, le credenze metacognitive sull’incontrollabilità della preoccupazione e della ruminazione sono messe in crisi dal paziente insieme al terapeuta (Wells, 2018).

Tra gli studi che stanno valutando l’efficacia della MCT nel trattare la sofferenza psicologica nell’ambito della popolazione oncologica, troviamo uno studio inglese che ha esaminato le potenzialità della MCT attraverso sei sessioni della durata di un’ora. Sebbene si tratti di un trattamento psicoterapeutico breve i pazienti hanno cominciato a riscontrare delle riduzioni nei livelli di ansia, depressione, PTSD ed infine anche una diminuzione dei pensieri rimuginativi (Fisher et al. 2019).

Un altro studio che supporta l’efficacia della MCT in questo ambito è quello del gruppo di ricerca di Cherry et al.(2019) nel quale i pazienti coinvolti hanno lavorato sui processi specifici che mantengono il distress psicologico. Secondo gli autori, se inizialmente i partecipanti allo studio si sentivano particolarmente “sopraffatti” dalle preoccupazioni legate alla malattia, dopo aver effettuato sei sessioni di terapia hanno esperito un maggiore decentramento dai propri pensieri. Dalle interviste semi strutturate effettuate post-intervento, è emerso che la maggior parte dei pazienti coinvolti aveva appreso i principi cardine del trattamento MCT: i pensieri sono “solo pensieri” e i sentimenti di preoccupazione o tristezza sono dei meccanismi essenziali alla sopravvivenza. Infine, le persone coinvolte hanno anche acquisito una maggiore padronanza nel trattare i propri pensieri come dei fenomeni normali della mente e di conseguenza si è rafforzata la tendenza ad esperire un distacco dalle preoccupazioni negative inerenti l’evolversi futuro della malattia.

Per concludere, sulla base degli studi pubblicati fino ad oggi, si evince che l’ACT e l’MCT possono essere dei trattamenti promettenti nella cura dei sintomi psicologici correlati alla malattia oncologica. L’ACT si rivela essere efficace soprattutto nel ridurre le preoccupazioni circa una futura recidiva e nel promuove la riduzione del coping evitante disadattivo. Esso consente quindi una migliore gestione a lungo termine del disagio emotivo correlato alla patologia oncologica (Johns et al. 2020). Nonostante ciò, è necessario che la ricerca futura chiarisca i meccanismi specifici che sono alla base dell’ACT e che proceda con studi ulteriori che consentano una maggiore generalizzabilità dei risultati. Per quanto riguarda invece l’MCT vi sono prove crescenti sul ruolo delle credenze e dei processi metacognitivi come fattori che alimentano il disagio emotivo dei sopravvissuti al cancro (Fisher et al. 2019). Tuttavia, le evidenze presenti in letteratura sono ancora poco numerose anche per la terapia metacognitiva.

Le attuali ricerche nell’ambito della psiconcologia, visti i risultati promettenti, suggeriscono l’utilità di continuare a testare l’efficacia di queste nuove prospettive per trattare il distress e migliorare quindi il benessere psicologico del paziente.

 

La disforia e l’incongruenza di genere ed i disturbi dello spettro autistico – FluIDsex

La maggiore attenzione su disforia di genere, sessualità e autismo potrebbe essere spiegata dai modelli osservati nella popolazione generale, dove i cambiamenti negli atteggiamenti sessuali sono stati massicci negli ultimi decenni.

 

Disforia di genere (DG), come termine descrittivo generale, si riferisce al disagio affettivo/cognitivo in relazione alla differenza tra il genere con cui si identifica la persona ed il genere assegnato biologicamente e/o socialmente. La disforia di genere può essere fonte di grande sofferenza e di confusione di identità, così come di vergogna e di stigmatizzazione.

All’interno dei servizi clinici, c’è stato un numero crescente di persone trans con disturbo dello spettro autistico (ASD), che è stato di grande interesse clinico perché ha implicazioni per la diagnosi e il trattamento (De Vries et al, 2010; Jacobs et al, 2014). Il Disturbo dello Spettro Autistico è un disturbo neurobiologico della traiettoria evolutiva di sviluppo (Grayson et al, 2016). I criteri diagnostici individuati dal DSM-5 (2013) sono cinque e vanno principalmente a sottolineare le difficoltà in ambito comunicativo, nelle interazioni sociali, nella ristrettezza delle aree di interesse, nell’emissione di pattern di comportamento ricorsivi e presenza di idiosincrasie sensoriali più o meno marcate.

La percentuale delle persone con disturbo dello spettro autistico tra le persone transgender è tra il 7,8% e il 23,1% (Shumer et al., 2016; de Vries et al., 2010).

Come detto in precedenza, la prevalenza di Disforia di Genere e la prevalenza disturbo dello spettro autistico sono entrambe in aumento (Arcelus et al. 2015; Lai et al. 2014). Tuttavia, non è chiaro se ciò sia dovuto a un vero aumento o piuttosto a una maggiore visibilità e tolleranza nei confronti delle persone transgender, e l’ampliamento dei criteri diagnostici e il miglioramento dei metodi di rilevamento del disturbo dello spettro autistico (van der Miesen et al. 2016). Inoltre, entrambi i disturbi sono più prevalenti nei maschi rispetto alle femmine [rapporto maschi-femmine 3-5:1 in ASD (Lai et al. 2014)] e MtF rispetto a FtM [2.6:1 in DG (Arcelus et al. 2015)]. Sebbene i rapporti tra i sessi varino tra gli studi e tendano a convergere, Aitken et al. (2014) hanno mostrato che negli adolescenti con DG, il rapporto tra i sessi è cambiato a favore di FtM negli ultimi anni.

Gli ultimi anni mostrano un notevole aumento degli studi pubblicati su riviste scientifiche (Glidden et al., 2016). La maggiore attenzione su Disforia di Genere, sessualità e disturbo dello spettro autistico potrebbe essere spiegata dai modelli osservati nella popolazione generale, dove i cambiamenti negli atteggiamenti sessuali sono stati massicci negli ultimi decenni. È plausibile che Internet e la rivoluzione tecnologica, in particolare i social media, abbiano consentito uno scambio più naturale di esperienze vissute per quelle minoranze con diverse sessualità, sofferenze legate al genere e anche per quelle con disturbi dello spettro autistico concomitanti. Ciò ha portato a meno tabù, stigmatizzazione e maggiore emancipazione di queste minoranze, di cui il movimento LGBTQIA+ è un buon esempio. È necessario inoltre considerare il fatto che questi studi sono stati svolti per lo più su campioni provenienti dalla società occidentale. Oltre a fattori come le risorse, la ragione della sovra rappresentanza degli studi del mondo occidentale è dovuta alle diverse credenze culturali e religiose, e ci vorrà del tempo prima di vedere studi su Disforia di Genere e disturbo dello spettro autistico da paesi e regioni più conservatori in cui la religione è forte (Glidden et al., 2016).

La valutazione della disforia di genere negli individui con disturbo dello spettro autistico può diventare più complessa a causa di alcune delle difficoltà che si possono incontrare all’interno dell’autismo (Ahmad et al., 2013). Questi potrebbero includere difficoltà nella comunicazione, la diminuzione o la mancanza della Teoria della Mente e la conseguente potenziale mancanza di riconoscimento di genere bidirezionale (il pensiero interno di una persona, l’esperienza di genere e il riconoscimento di come gli altri percepiscono l’espressione del genere di quella persona) e difficoltà nella costruzione di una relazione terapeutica tra il paziente e il clinico (Drescher et al., 2012). La transizione del ruolo sociale e le componenti funzionali spesso richieste prima di iniziare un eventuale trattamento ormonale, come avere una funzione sociale o lavorativa, possono rendere più difficile la navigazione nel percorso di trattamento.

Queste difficoltà si aggravano ulteriormente se il clinico ha poca esperienza di lavoro con persone con disturbo dello spettro autistico. Tutto ciò può lasciare i medici esperti e qualificati meno sicuri della loro valutazione e trattamento. Ciò avrà implicazioni per il trattamento di persone con disforia di genere e disturbo dello spettro autistico, che vanno da una valutazione incompleta all’incertezza sull’opportunità di iniziare un trattamento potenzialmente irreversibile con terapie ormonalei e procedure chirurgiche di riassegnazione. A sua volta, questo potrebbe far sentire il paziente incompreso e sotto-supportato (Ahmad et al., 2013). Un’ulteriore esperienza nella valutazione e nel trattamento della disforia di genere dei soggetti con disturbo dello spettro autistico potrebbe iniziare ad alleviare gran parte di queste difficoltà. Tuttavia, solo una buona ricerca sulle procedure di valutazione, eventuali adattamenti al percorso di trattamento richiesto e una solida valutazione dell’esito del trattamento miglioreranno la situazione (Zucker et al., 2009). Nel complesso, permangono lacune significative nella comprensione dell’eziologia della potenziale co-occorrenza di disforia di genere e disturbo dello spettro autistico, valutazione e trattamento appropriati e esito del trattamento delle persone transgender con autismo (Glidden et al., 2016).

 


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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

 

La mente autistica. Le risposte della ricerca scientifica all’enigma dell’autismo (2021) di Giacomo Vivanti – Recensione

Vivanti nella seconda edizione del suo libro La mente autistica, ampliata, riveduta ed aggiornata, oltre ad illustrare i nuovi dati scientifici, descrive le numerose prove che la scienza e la società debbono ancora affrontare per riuscire ad avere una comprensione completa della sindrome autistica

 

Giacomo Vivanti si è laureato a Milano in Psicologia Evolutiva ed ha maturato una solida esperienza nella ricerca e nella clinica dell’autismo. Egli ha, inoltre, un vissuto personale di questa sindrome, essendo il fratello maggiore di una coppia di gemelli autistici.

L’enigma dell’autismo è rappresentato proprio dal funzionamento della mente di chi ne soffre. Perché i bambini autistici, a differenza degli altri, non interagiscono, non apprendono per imitazione ed hanno un comportamento stereotipato e ripetitivo?

La ricerca sull’autismo ha prodotto numerosi lavori ed alcuni studi hanno capovolto vecchie convinzioni ed aperto nuove prospettive.

Giacomo Vivanti con il suo libro La mente autistica, le risposte della ricerca scientifica al mistero dell’autismo, pubblicato in prima edizione nel 2010 da Omega, testimonia come la ricerca sull’autismo abbia avuto un significativo incremento a partire dal primo decennio degli anni 2000.

Le nuove acquisizioni hanno portato a concepire ed a percepire l’autismo in modo differente rispetto al passato. Attualmente si utilizzano nuovi parametri per la diagnosi, si hanno nuove informazioni sull’eziologia di questa sindrome, sui suoi aspetti biologici e psicologici e tutto questo modifica gli interventi terapeutici. Il cambiamento sulla percezione dell’autismo è inoltre legato al differente modo con cui la società ha iniziato a considerare le persone che ne soffrono, ritenendole capaci di integrarsi socialmente ed in ambito lavorativo.

Nonostante i tanti progressi, rimangono ancora molti aspetti da chiarire per comprendere a fondo il funzionamento della mente autistica.

Vivanti nella seconda edizione del suo libro, ampliata, riveduta ed aggiornata, oltre ad illustrare i nuovi dati scientifici, descrive le numerose prove che la scienza e la società debbono ancora affrontare per riuscire ad avere una comprensione completa della sindrome autistica.

L’autore fa un’analisi approfondita di come tutto ciò che emerge dai lavori di ricerca debba poter essere utilizzato in clinica ed in riabilitazione, ma anche dai genitori e dalla società. Molto interessante è la trattazione delle traiettorie evolutive che riguardano anche l’età adulta, quella delle ipotesi che si propongono di spiegare le caratteristiche sensoriali e percettive dell’autismo, l’attenzione posta agli studi di neuroimaging e la presentazione delle nuove ipotesi che tentano di spiegare le anomalie che si verificano nell’autismo rispetto all’apprendimento per imitazione e nel comportamento sociale.

Nel libro traspaiono la coerenza ed il rigore metodologico dell’autore, ma anche la sua personale capacità di comprendere le persone affette da autismo.

 

Il tilt nel poker: showdown degli aspetti psicologici del gioco problematico

Il poker è una forma di gioco d’azzardo in cui l’abilità del giocatore può influenzare l’esito del gioco.

 

L’abilità consente ad alcuni giocatori di fare del poker la propria professione ed incoraggia altri a continuare ad impegnarsi per cercare di migliorare le proprie skills. Per giocare ai massimi livelli, i giocatori devono essere in grado di controllare se stessi, le proprie capacità cognitive e le proprie emozioni, ed è anche necessario che abbiano buone capacità di concentrazione (Laakasuo et al., 2014). Il termine tilt, utilizzato nel contesto del poker, descrive un episodio durante il quale il giocatore non può più controllare il proprio gioco con decisioni razionali (Browne et al., 1989). Questo fenomeno porta a disregolazione emotiva e mancanza di controllo sul gioco, nonché a una perdita di denaro (Moreau et al., 2015). Tra le conseguenze, la principale è la distorsione cognitiva, caratterizzata da pensieri del tipo “La fortuna verrà”, “Riavrò indietro i miei soldi” (Moreau et al., 2015). Gli episodi di tilt i possono essere causati da eventi interni, come frustrazione o stanchezza, o eventi esterni, come una perdita improvvisa statisticamente improbabile, o una lunga serie di piccole perdite, che provocano una sensazione di frustrazione (Brochu et al., 2015). Il tilt può essere considerato una forma transitoria di gioco d’azzardo patologico e un gateway per lo sviluppo di un problema più duraturo (Moreau et al., 2015). Sembra che maggiore sia l’abilità del un giocatore, maggiore sia la capacità di regolare il proprio comportamento e le proprie emozioni (Laakasuo et al., 2014). Un giocatore con scarse abilità regolerà più difficilmente emozioni e comportamenti, entrando in tilt, e rischiando, a lungo termine, di sviluppare un disturbo da gioco d’azzardo.

Molti studi hanno identificato alcuni elementi che predicono il gioco d’azzardo problematico nel poker, quali: ansia, depressione, impulsività e ricerca di sensazioni stimolanti (Dufour et al., 2020; Hopley et al., 2010; Barrault et al., 2015). Il team di Moreau, invece, ha incentrato il suo studio sul tilt (Moreau et al., 2020). La prima ipotesi dello studio francese assumeva che la frequenza del tilt, le distorsioni cognitive e l’ansia avrebbero potuto predire il gioco problematico. La seconda ipotesi proponeva che il tilt avesse stretti legami con ansia, impulsività e credenze irrazionali. Il campione dello studio era composto da 291 giocatori di poker online, con un’età media di 33,8 anni. I partecipanti hanno completato un questionario di autovalutazione online, misurando la frequenza di episodi di tilt, distorsione cognitiva, ansia, e impulsività. I risultati hanno indicato che la frequenza degli episodi di tilt e la distorsione cognitiva fossero predittori significativi di un eccessivo gioco d’azzardo online; la frequenza di tilt e la distorsione cognitiva erano fortemente correlate. Inoltre, sono state trovate correlazioni moderate per tilt e ansia e basse per tilt e impulsività (Moreau et al., 2020).

Nel presente studio, l’impulsività non differenzia i giocatori problematici dai giocatori di poker online controllati. Questo risultato è stato confermato dal team di Biolcati, che ha dimostrato che i giocatori di poker non erano più impulsivi della popolazione generale (Biolcati et al., 2014). Questo risultato è in linea con le caratteristiche del poker, gioco che necessita di un’elevata capacità di autoregolazione, e che non sembra compatibile con un profilo di giocatore molto impulsivo.

Il più forte predittore del gioco d’azzardo problematico è la frequenza del tilt. Più frequentemente i giocatori di poker sperimentano il tilt, più è probabile che presentino anche un punteggio di gioco problematico più alto. Sebbene siano noti i collegamenti tra distorsione cognitiva e gioco d’azzardo eccessivo (Barrault et al., 2015), i risultati di questo studio forniscono il primo supporto empirico all’ipotesi di Browne (Browne et al., 1989), secondo la quale il tilt potrebbe essere una porta d’ingresso al gioco problematico. Questi risultati sono anche coerenti con le descrizioni del tilt fornite dai giocatori (Moreau et al., 2015), che tendono a descrivere un episodio di tilt come responsabile di una perdita di controllo e di un forte aumento delle convinzioni irrazionali.

Per limitare il rischio di sviluppare un disturbo da gioco d’azzardo e diventare un giocatore di poker più performante, è necessario imparare a identificare e gestire il verificarsi di episodi di tilt (Laakasuo et al., 2014). I giocatori più esperti affermano che la loro unica difesa contro il tilt è interrompere la sessione di gioco (Moreau et al., 2015). Se un giocatore non è in grado di identificare o gestire il verificarsi di episodi di tilt, aumenterà notevolmente la probabilità di adottare un comportamento di gioco rischioso o addirittura problematico, arrivando ad una condizione di tilt.

Ad oggi, il tilt è stato poco studiato, ma conoscere approfonditamente questo fenomeno potrebbe migliorare la comprensione dei giocatori di poker online, identificando i giocatori d’azzardo a rischio, e facilitando così misure preventive specificamente adattate a questa popolazione.

Il drug checking: una pratica ancora poco diffusa in Italia

Nato in Olanda già negli anni Settanta, il monitoraggio di controllo delle droghe circolanti si è poi diffuso in tutta Europa, arrivando a definire per il 31 marzo di ogni anno una Giornata mondiale di sensibilizzazione sul drug checking.

 

Molti di voi ricorderanno il rave party organizzato in provincia di Viterbo, a cavallo del ferragosto 2021, di cui si è tanto parlato ai tg e sui giornali. In un’area priva di asfalto e cemento, migliaia di giovani europei si sono dati appuntamento. Al centro le limpide acque del Lago di Mezzano, che sommersero alcuni villaggi dell’età del bronzo, consegnandoci poi i reperti paleontologici dell’epoca; a ovest il bosco di Monte Rosso; tutto intorno i pascoli lasciati agli animali, liberi di vivere la terra; più a est il lago di Bolsena. In una zona di confine piuttosto estesa tra Lazio e Toscana, lontana da grandi città come Roma o Firenze, si è svolto un evento dai più considerato come luogo di perdizione.

Da definirsi più precisamente come teknival, si tratta di una festa libera, gratuita e autogestita, dedicata alla musica elettronica, nella quale si danno appuntamento gruppi crew che propongono spazi liberi in cui ballare, ognuno con il proprio muro di casse, luci e proiettori. «Difficile identificare il primo rave party della storia. La figura dei ravers si lega agli anni ’80 e alla nascita della musica elettronica. A Chicago si cominciarono a sperimentare evoluzioni techno della vecchia musica soul e funk, alzando il livello dei bassi e aumentando i bpm. Location dei primi party sono state le fabbriche abbandonate delle metropoli statunitensi, per poi emigrare in Europa. Gran Bretagna, soprattutto, dove ha avuto luogo uno dei più famosi rave della storia, quello di Clink Street, nel 1988» (Huffington Post, 2021).

Denominato comunemente “rave party”, dal verbo inglese che significa “entusiasmarsi”, il teknival potrebbe essere considerato un vero e proprio festival della musica tekno, genere nato proprio durante i free party di inizio anni Novanta, la cui caratterizzazione rispetto alla techno sta in una maggiore velocità del ritmo (dai 170 ai 200 bpm) e nella presenza di un basso pulsante e ripetitivo (chiamato kick drum).

«Sostanzialmente si tratta di una vera e propria città artificiale: il progressivo collocamento di bancarelle, furgoni e auto forma le strade; i soundsystem più grossi fungono da piazze; i boschi punteggiati di tende e furgoni sono i sobborghi. Ogni città ha una sua economia. Quella del teknival è una microeconomia, che ricorda da vicino i suq nordafricani. Ovunque spuntano banchetti che vendono di tutto, dalle bottiglie d’acqua ai monili, dal cous-cous alle sostanze psicotrope» (Santoni, 2012).

Secondo alcuni, fra la musica tekno e le droghe ci sarebbe una certa sinergia, volta a facilitare quella esperienza estetica che, senza l’assunzione di stimolanti, forse sarebbe vissuta con più lucidità, e quindi meno trasporto. Le sostanze più diffuse in un teknival sono quattro: MDMA, LSD, Speed e Ketamina. «I ruoli di ciascuna sono piuttosto definiti. L’MDMA è per eccellenza la droga per ballare: la sua diffusione, che accompagna la nascita del movimento, e il suo effetto empatogeno ed entactogeno contribuisce a creare il clima da fratellanza universale tipico del free party. L’LSD potenzia le percezioni e incrementa la portata mistica dell’esperienza (già il suo creatore, Albert Hofmann, spiegava che l’acido lisergico riproduce le sensazioni ottenibili dopo un ventennio di pratica di meditazione trascendentale). La Speed non è che carburante: metanfetamine per stare svegli, sopportare la fatica e ballare a oltranza, anche quando l’MDMA, che dura solo quattro-cinque ore, va giù. La Ketamina, un anestetico pediatrico e veterinario riscoperto dal popolo dei rave dissocia e crea nuove significanze, oppure rimette in sesto chi è troppo “indurito” dagli stimolanti» (Santoni, 2012).

Da un punto di vista meramente legislativo, in Italia non esiste una normativa che regoli le sanzioni in merito all’organizzazione di raduni di questo tipo, che sì, sono liberi e aperti a chiunque, ma pongono delle questioni serie, quali il loro svolgimento su terreni vincolati dalla proprietà privata, la tutela dell’ambiente (in riferimento ai rifiuti prodotti), la salvaguardia della salute pubblica (non solo relativamente alla diffusione del covid, ma soprattutto all’uso di sostanze che provocano, evidentemente, controindicazioni da non sottovalutare). In attesa di una seria analisi parlamentare intorno ai teknival, professionisti del settore socio-sanitario e qualche istituzione territoriale (stando alla Relazione annuale sul fenomeno delle tossicodipendenze in Italia, «le attività rivolte alla riduzione dei rischi correlati all’assunzione di sostanze stupefacenti di natura “incerta o sconosciuta”, risultano presenti in 8 regioni, e in Lombardia, Toscana e Umbria risultano accessibili alla quasi totalità/maggior parte delle persone che ne hanno bisogno» – Presidenza del Consiglio dei Ministri 2021) si sono attivati per allestire dei siti di drug checking e pill testing in contesti di divertimento – sia autorizzati che non -, quali strumenti di analisi e riduzione del danno. Nato in Olanda già negli anni Settanta, il monitoraggio di controllo delle droghe circolanti si è poi diffuso in tutta Europa, arrivando a definire per il 31 marzo di ogni anno una Giornata mondiale di sensibilizzazione sul drug checking.

Il progetto si propone di conseguire diversi obiettivi: «identificare nuove sostanze psicoattive e comunicarle sia ai Sistemi di Allerta Precoce presenti nei singoli paesi partner che all’Early Warning System europeo; migliorare la conoscenza e la consapevolezza sull’uso di droghe, e sul consumo di Nuove Sostanze Psicoattive (NSP) nello specifico, comunicandone rischi ed effetti alle persone che frequentano contesti di divertimento; comprendere i significati che sottendono l’uso di NSP, conoscerne i pattern di consumo e individuare eventuali retroscena culturali che possono influire sui comportamenti di assunzione di sostanze psicoattive; comunicare e informare i servizi che si occupano di giovani e dipendenze, sia a livello locale che nazionale, sull’identificazione di NSP e circa i fattori culturali che possono influire sul loro utilizzo; creare delle linee guida per esperienze pilota di drug checking che possano essere estese ad altri paesi europei in cui tale strumento non viene ancora utilizzato» (B.A.O.N.P.S., 2017).

Stando ai dati raccolti in Italia tra il 2016 e il 2017 nell’ambito del progetto europeo “B.A.O.N.P.S. – Be Aware On Night Pleasure Safety”: «più della metà delle persone che scopre di non essere in possesso della sostanza attesa, decide di non utilizzare il composto, oppure riflette e considera attentamente la possibilità di evitarne il consumo. In questo senso il servizio di drug checking assume un significato non solo di limitazione dei rischi, ma anche di prevenzione al consumo». Esso «si configura, quindi, come un ottimo strumento di monitoraggio del mercato al dettaglio degli stupefacenti, in grado di identificare rapidamente la comparsa di una NSP (9 sostanze identificate nel corso di 18 mesi di interventi sul campo) e di identificare rapidamente potenziali adulteranti pericolosi per la salute (per esempio farmaci a cui una persona può essere allergica)» (B.A.O.N.P.S., 2017).

La prevenzione rimane, quindi, uno degli strumenti cardine per agganciare soggetti a rischio, attraverso iniziative di conoscenza sui pericoli legati all’assunzione di NPS: il drug checking è infatti associato al counseling, mezzo utile per aiutare chi si ha davanti a focalizzare l’attenzione sull’opportunità o meno di ingerire la sostanza sottoposta ad analisi.

I teknival dovrebbero, così, non essere più considerati come dei luoghi di perdizione, ma quali occasioni per incontrare giovani a rischio, che grazie a una semplicissima analisi potrebbero vedersi salvata la vita. Oltre al monitoraggio sul mercato degli stupefacenti, il drug checking rappresenterebbe davvero un mezzo di grande utilità per la salute psico-fisica di molti, offrendo certezza sul composto chimico da assumere e supporto nella scelta libera di rinunciarvi.

Anoressia: basi genetiche

Con lo sviluppo delle nuove tecnologie per lo studio della genetica, l’anoressia è diventata il centro di numerosi studi di associazione volti ad identificare i fattori di rischio genetici per questa malattia.

 

Pensa agli altri, ci dice la società. Ama il prossimo tuo, ci dice la religione. A quanto pare nessuno si ricorda mai del “come te stesso”. Se è vero che vuoi conseguire la felicità nel presente, proprio questo, invece, dovrai imparare a fare: amare te stesso (Wayne,1976).

Introduzione

L’anoressia nervosa è uno dei disturbi alimentari che si definisce tra le sindromi psichiatriche complesse, multifattoriali, e si caratterizza per anomalie comportamentali, come il rifiuto o l’incapacità di mantenere un peso corporeo adeguato in base ad età ed altezza. Chi è affetto da anoressia manifesta un’intensa paura circa l’aumento corporeo, un’alterata percezione di sé e un maniacale controllo di introito calorico (Gillberg et al., 1988). La fascia più colpita sono le donne dai 15 ai 19 anni.

Le sue cause sono complesse e non del tutto chiare, anche se esistono sempre più dati che evidenziano il ruolo importante della predisposizione genetica e di un ampio numero di fattori di rischio ambientali. Numerose persone che ne soffrono non raggiungono mai l’attenzione clinica e molte iniziano un trattamento dopo molti anni, quando ormai la condizione è diventata cronica. Solo un sottogruppo di pazienti raggiunge la remissione dai sintomi (Dalle Grave et al. 2001).

In alcuni pazienti è stato osservato che la restrizione alimentare e la perdita di peso sono motivate da altri processi psicologici, come per esempio l’ascetismo, la competitività e il desiderio di punire se stessi (Faiburrn et al., 2003).

Il DSM 5 (American Psychiatric Association, Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, 2013) identifica i disturbi del comportamento alimentare in un’unica categoria diagnostica, chiamata disturbi della nutrizione e dell’alimentazione specificando i criteri diagnostici. Per l’anoressia nervosa, nel caso del sottotipo con restrizioni la perdita di peso è ottenuta principalmente attraverso la dieta, il digiuno e/o l’attività fisica eccessiva mentre nel sottotipo con abbuffate/condotte di eliminazione, l’individuo presenta ricorrenti episodi di abbuffata o condotte di eliminazione (cioè, vomito autoindotto o uso inappropriato di lassativi, diuretici o enteroclismi).

Fattori di rischio

Per capire meglio i fattori di rischio dell’Anoressia Nervosa accenniamo a cosa sia un “fattore di rischio”.

Con questo termine si intende un fattore (genetico, familiare, sociale, ambientale, culturale, etc) in grado di aumentare la probabilità (rischio) che un determinato evento-malattia si verifichi. Ad esempio, in ambito medico, è noto che il fumo aumenta il rischio di ammalarsi di cancro polmonare, o il solo fatto di appartenere al sesso femminile è un fattore di rischio per ammalarsi di osteoporosi.

La presenza di un fattore di rischio aumenta la probabilità di ammalarsi, ma non è la sola causa della malattia (non tutti i fumatori si ammalano di tumore e non tutte le donne in menopausa hanno l’osteoporosi).

I fattori di rischio sono molto importanti da tenere in considerazione quando parliamo di malattie complesse come i Disturbi alimentari.

I sintomi ed i segni del disturbo non arrivano mai in modo brusco, ma nella storia del paziente si possono individuare i “semi” della malattia anche molti anni prima dell’esordio. La famiglia, che rappresenta il nucleo primario dove l’individuo si sviluppa, ha un ruolo determinante nell’affrontare al meglio il disagio che si verrà a creare.

Dopo queste premesse possiamo ora valutare i fattori di rischio principali per l’Anoressia Nervosa.

  • L’ambiente socioculturale influenza convinzioni e comportamenti soprattutto nei bambini e negli adolescenti; questo assume un ruolo importante nel comportamento alimentare e nella genesi del disturbo. In particolare la denigrazione del sovrappeso e dell’obesità ed i continui richiami alla magrezza possono contribuire al rischio di Anoressia Nervosa nei soggetti predisposti.
  • Le figure genitoriali determinano il contesto in cui il bambino cresce e si sviluppa e sono in grado di trasmettere insegnamenti e convinzioni così come di influenzare i comportamenti futuri. Infatti le abitudini alimentari dei bambini e adolescenti si strutturano in base alla modalità di accudimento ed educazione nutrizionale trasmesse dei genitori stessi.
  • Presenza di idee errate e dannose nei riguardi del peso e delle forme corporee, spesso patrimonio della cultura del ragazzo, sia familiare che sociale. I soggetti più suscettibili sono donne giovani con bassa opinione di sé e quindi insicure e facilmente influenzabili dal contesto ambientale.
  • L’adolescenza come periodo di cambiamento, il continuo confronto con i mezzi di comunicazione, il desiderio di identificarsi con i propri coetanei, emularne i comportamenti, nel tentativo di trovare la sicurezza che non trovano in se stessi. Vengono considerati accettabili e quindi da seguire i modelli estetici standard ed ideali che la società impone anche all’interno delle famiglie.
  • Sottoporsi a diete dimagranti. Infatti spesso i disturbi esordiscono dopo una dieta dimagrante intrapresa da un soggetto normopeso o con sovrappeso moderato. Il rischio di sviluppare il disturbo aumenta di 18 volte dopo una dieta ferrea e di 5 volte dopo una dieta più leggera.
  • Distorsione dell’immagine corporea, con ciò si intende l’alterazione del modo di vedere il proprio corpo o alcune parti di esso, che appaiono ai nostri occhi sproporzionate rispetto alla realtà. Numerosi studi indicano che circa il 25% delle ragazze fra i 10 e i 15 anni riferisce di sentirsi in sovrappeso o obesa anche se normopeso.
  • L’attività fisica esagerata superiore alle normali abitudini oltre alle reali necessità dev’essere considerata sospetto per Anoressia Nervosa. L’eccessivo allenamento, combinato con cattive abitudini alimentari e spesso anche condotte compensatorie (vomito, farmaci anoressizzanti) ha una ripercussione sulla salute dei soggetti che adottano questi comportamenti.
  • Tra i fattori di rischio bisogna considerare anche gli eventi traumatici come la presenza di lutti o eventi di perdita in famiglia, anche in epoche remote o addirittura durante la gravidanza insieme ad eventi di vita gravi come maltrattamenti e abusi.
  • Alcuni tratti di personalità come la rigidità, il perfezionismo e l’intolleranza alle frustrazioni sono presenti nella maggior parte dei soggetti con disturbi alimentari.
  • Il sesso femminile, già di per sé, aumenta il rischio.
  • L’uso di sostanze, in particolare l’alcolismo.
  • La presenza di depressione.

L’ereditabilità

I fattori biologici possono essere predittivi nello sviluppo dei disturbi alimentari ed in particolare nell’anoressia nervosa.

Gli studi sui gemelli sono un utile strumento che può essere utilizzato negli studi di ricerca per chiarire il ruolo di geni ed ambiente nel determinare la suscettibilità ad un patologia (Kendler 1998). I gemelli omozigoti (MZ) hanno un identico DNA per cui le differenze tra loro nel fenotipo di malattia possono essere attribuite agli effetti dell’ambiente. Al contrario, le somiglianze tra gemelli MZ posso essere dovute alle influenze sia del patrimonio genetico sia del comune ambiente che condividono. I gemelli dizigoti (DZ) invece condividono solo metà del patrimonio genetico e lo stesso ambiente perché condividono la vita intrauterina e molte esperienze alla stessa età (per esempio l’inizio della scuola). Gli studi sui gemelli hanno riportato evidenze di una ereditarietà per AN che va dal 56% nello studio di Bulik fino al 84% in altri campioni (Klump et al, 2001; Wade et al., 2000). La prevalenza in questi studi è stata stimata in circa l’1,2% per le femmine e 0,29% nei maschi (Bulik et al., 2000).
Una maggiore incidenza di AN è stata osservata nei campioni di soggetti più giovani rispetto ad i gruppi di età più avanzata (1,56% nei gemelli nati dopo il 1945 vs 0,65% nei gemelli nati prima del 1945). La prevalenza di malattia determinata nello studio Bulik era inferiore rispetto a quella di altri campioni che hanno analizzato un’altra fascia d’età (gemelli nati 1935-1958).

Gli studi sui fratelli adottati da famiglie diverse (purtroppo molto rari) permettono di distinguere l’effetto della genetica e dell’ambiente. Fino ad oggi è stato condotto solo uno studio sui fratelli adottati nell’ambito dei disturbi dell’alimentazione (Klump et al.,2005).

I partecipanti in questo studio erano coppie di sorelle e, data la bassa prevalenza dell’AN, sono stati analizzati solo alcuni sintomi. L’ereditabilità stimata dei sintomi legati ai disturbi dell’alimentazione andava dal 59 all’82% e confermava sostanzialmente i risultati degli studi sui gemelli.

Gli studi nella popolazione generale hanno evidenziato una incidenza significativamente più alta di AN nei familiari di pazienti con disturbi del comportamento alimentare rispetto ai familiari di soggetti sani; in particolare, nei familiari di primo grado di soggetti con AN è stato evidenziato un rischio life time di ammalarsi di questa patologia pari al 2,69% rispetto allo 0,8% dei familiari di soggetti sani (Palmer et al., 2003).

Studi di linkage

Dalla fine del 1990, con lo sviluppo delle nuove tecnologie per lo studio della genetica, l’AN è diventata il centro di numerosi studi di associazione volti ad identificare i fattori di rischio genetici per questa malattia.

L’approccio classico per la determinazione dei geni di vulnerabilità nelle malattie genetiche sono gli studi di linkage nelle famiglie con più soggetti affetti. Questo approccio è stato estremamente efficace per identificare i geni che causano le malattie di tipo mendeliano, quando sono le mutazioni in un singolo gene a causare la malattia (come nel caso della fibrosi cistica, della malattia di Hungtington o dell’anemia falciforme). Nel caso dei disturbi dell’alimentazione e dell’AN questo approccio diventa più complicato perché la struttura genetica di queste malattie deriva dall’interazione di molte varianti geniche (polimorfismi) che hanno solo un piccolo effetto sul rischio di malattia e quindi sono più difficili da individuare.

Molti studi hanno tentato di individuare i loci cromosomici associati alla suscettibilità ai disturbi dell’alimentazione utilizzando un approccio con marcatori microsatelliti (analizzando i polimorfismi a sequenze ripetute, coppie di basi o triplette generalmente) sull’intero genoma.

Questi studi si sono focalizzati primariamente su coppie di fratelli dal momento che le famiglie multigenerazionali sono rare per l’Anoressia Nervosa.

Grice e colleghi hanno condotto un’analisi di linkage in 192 famiglie in cui almeno uno dei componenti era affetto da Anoressia Nervosa o da altri disturbi dell’alimentazione (Grice et al. 2002).

I risultati prodotti da questo studio riportano solo una modesta associazione di un marker (D4S2367) sul cromosoma 4, mentre una ulteriore analisi in un sottogruppo di 37 famiglie con più di un caso di AN del tipo restrittivo ha evidenziato un’associazione più forte della malattia con un marker (D1S3721) sul braccio corto del cromosoma 1.

Molti studi si sono concentrati sull’analisi delle associazioni di linkage invece che con la diagnosi di Anoressia Nervosa con alcuni dei sintomi psichiatrici e dei tratti di personalità che caratterizzano la malattia.

Uno di questi ha studiato i tratti quantitativi drive-for-thinness della scala sintomatologica Eating Disorders Inventory (EDI) e obsessionality della scala Yale-Brown Obsessive Compulsive Scale (Y-BOCS), nelle 196 famiglie già studiate dal gruppo di Grice e colleghi (2002) (Devlin et al. 2002). Utilizzando un’analisi che considerava molte possibili covariate (es: età del menarca, BMI), in questo studio sono state identificate diverse regioni cromosomiche in linkage con questi sintomi: una sul cromosoma 1 era associata sia al fenotipo drive-for-thinness che all’obsessionality, un’altra sul cromosoma 2 era associata solo con l’obsessionality, mentre una terza sul cromosoma 13 solo con il drive-for-thinness only.

Alcuni geni di interesse per il sistema nervoso centrale sono mappati nelle regioni identificate da questi studi di linkage, in particolare il recettore della serotonina 1D (HTR1D) ed il recettore degli oppioidi (OPRD1) sono presenti nel cromosoma 1, dove Grice e colleghi hanno identificato il picco di linkage con AN.

Per quanto riguarda invece i risultati di Devlin e colleghi, tra i 546 geni presenti nelle regioni cromosomiche in linkage ce ne sono molti legati alle basi eziologiche dell’AN “0”(per esempio HTR1D, o il recettore della serotonina 6 HTR6). Sono coinvolti o nel comportamento alimentare o nei meccanismi di sazietà (esempio: il recettore dei cannabinoidi CNR2), insieme ad altri che regolano importanti processi nel sistema nervoso centrale (Poyastro et al., 2009; 2(2): 153–164).

Geni candidati all’indagine

I geni candidati vengono studiati per chiarire un loro possibile coinvolgimento nella suscettibilità genetica ad una patologia complessa.

Nel caso dell’Anoressia Nervosa molti sono stati gli studi condotti con questo tipo di approccio, anche se pochi di questi hanno portato a risultati confermati in studi indipendenti.

La scelta del gene candidato si basa sulle evidenze presenti in letteratura sulle ipotesi eziologiche, fisiologiche, biochimiche o farmacologiche che indicano un coinvolgimento di un gene specifico con il fenotipo analizzato.

In particolare gli studi di associazione sul gene candidato per i disturbi del comportamento alimentare hanno tenuto in considerazione le seguenti osservazioni cliniche:

  • la prevalenza di Anoressia Nervosa e Bulimia Nervosa è predominante nel sesso femminile (rapporto 9:1),
  • il periodo di manifestazione è prevalentemente la pubertà o la tarda adolescenza,
    circa il 30% dei pazienti con Anoressia Nervosa successivamente sviluppa Bulimia Nervosa; la sequenza opposta è meno frequente.
  • c’è un alto tasso di comorbidità con disturbo ossessivo-compulsivo, depressione maggiore e disturbo d’ansia generalizzato (Kaye et al., 2000; Kaye et al.,1999; Koronyo-Hamaoui et al., 2002)

Sulla base di queste evidenze e delle indagini neurobiologiche i geni più studiati nell’AN sono coinvolti nella regolazione dei sistemi neurotrasmettitoriali, soprattutto dopaminergico e serotoninergico, insieme ai sistemi delle neurotrofine e della regolazione dell’appetito, così come dei sistemi ormonali legati alla pubertà e al sesso femminile.

Conclusioni

Negli ultimi 20 anni, molti studi sono stati condotti per identificare i possibili fattori di rischio genetici per l’Anoressia Nervosa, anche se ad oggi i risultati ottenuti non ci hanno ancora permesso di chiarire il ruolo delle varianti geniche nella patologia. Al momento pare che i candidati più promettenti che possono essere coinvolti nella vulnerabilità genetica appartengano al sistema serotoninergico e alle neurotrofine.

Dagli studi genetici condotti fino ad ora è emersa la necessità di raccogliere collezioni di DNA molto ampi, soprattutto per permettere gli studi GWAS che richiedono un potere campionario molto elevato. Inoltre un’altra strategia potrebbe essere la creazione di gruppi più omogenei all’interno dei pazienti affetti da Anoressia Nervosa, caratterizzati per endofenotipi sintomatologici, biochimici, di neuro imaging, ect, che siano quindi più facilmente studiabili dal punto di vista genetico (Gottesman et al.,2003).

Un endofenotipo è un tratto valutabile che può essere di tipo fisico, cognitivo o neuropsicologico, che è associato al disturbo correlato, è ereditabile ed è indipendente dallo stato di malattia in cui si trova il paziente (Halmi et al.,2003).

Inoltre bisogna considerare che i disturbi dell’alimentazione hanno un alto grado di comorbidità con altri disturbi psichiatrici, inclusi i disturbi affettivi, d’ansia e di personalità che possono contribuire all’eterogeneità clinica dei campioni valutati e spiegare, anche solo parzialmente, gli attuali risultati discordanti (Moffitt  et al.,2005).

Tutto ciò che otterremo in questo campo, combinato con l’identificazione dei predittori molecolari degli esiti del trattamento, aiuteranno i clinici a pianificare strategie e programmi di trattamento preventivi per far sì che sempre più persone affette possano regredire e stare meglio in futuro (A.Tortorella et al.,2009).

 


 

Sale cinematografiche e disturbi mentali: tra informazione e strumentalizzazione del disagio psichico

Quello che il cinema offre al pubblico è, il più delle volte, una caricatura diagnostica, una rappresentazione esagerata e drammatica di un’etichetta clinica che contribuisce a rafforzare lo stigma e gli atteggiamenti discriminatori.

 

Purtroppo, non è ancora scomparso lo stigma paralizzante legato alla malattia mentale (Beachum; 2010), stigma che porta ad applicare, a chi soffre di un certo disturbo, l’etichetta di “pazzo, pericoloso, folle, psicopatico”. Tutt’oggi, gli atteggiamenti nei confronti della persona con problematiche psichiche sono a volte pietistici, o al contrario distanzianti ed evitanti, considerando che, per molti, malattia mentale è sinonimo di comportamento violento.

Spesso, l’affascinante, oscuro, temibile e incomprensibile aspetto del disagio psichico è stato utilizzato dai registi per divertire, intrattenere, sbalordire e far commuovere il pubblico: non è raro, infatti, che in un film, sia il personaggio “fuori di testa” a commettere omicidi, fare uso di alcol o droghe, sentire delle voci, suicidarsi. Quale modo migliore per soddisfare le aspettative degli spettatori, se non quello di presentare protagonisti incompresi, imprevedibili, generatori di suspense e colpi di scena?

In realtà, quello che il cinema offre al pubblico è, il più delle volte, una caricatura diagnostica, una rappresentazione esagerata e drammatica di un’etichetta clinica che contribuisce a rafforzare lo stigma e i pregiudizi, ad incrementare gli atteggiamenti discriminatori nei confronti di chi sta già male (Da Silva, Baldac¸ Fasanella, Palha; 2020), a creare rappresentazioni e credenze errate sulla follia, ad aumentare la paura nei confronti dei matti, fornendo una scusa in più per alienarli dalla comunità (Pathak, Biswal; 2020).

Alcuni esempi di film i cui personaggi presentano disturbi mentali sono Touched with fire (Disturbo Bipolare), Ordinary People (Disturbo Depressivo), Il Solista (Schizofrenia), Rain Man (Disturbo dello Spettro Autistico), La donna dai tre volti (Disturbo Dissociativo di Identità), Il giardino delle vergini suicide (Suicidio), The Aviator (Disturbo Ossessivo-Compulsivo).

Fortunatamente, c’è stato chi ha utilizzato il cinema per accrescere la consapevolezza sulla malattia mentale, valorizzando le potenzialità dei pazienti psichiatrici: si pensi a A Beautiful Mind, il cui protagonista, il leggendario matematico John Nash, è affetto da Schizofrenia (Das, Doval, Mohammed, Dua, Chatterjee; 2017), ma nonostante ciò, riceve il Premio Nobel per l’economia.

Un film, dunque, può essere utilizzato anche a scopo formativo e informativo, e ciò è fondamentale considerando che, senza informazioni e comprensione, ogni stigma non può che rafforzarsi. Soltanto mostrando la vera realtà del disagio psichico attraverso i grandi schermi, si può offrire al pubblico una visione autentica della lotta invisibile che la persona sofferente combatte con sé stessa e con il mondo esterno.

 

I tic e la Sindrome di Tourette (2021) di Termine, Cavanna e Selvini – Recensione

I tic e la Sindrome di Tourette di Termine, Cavanna e Selvini offre un quadro clinico-epidemiologico di indubbia completezza sulla sindrome di Tourette, cui unisce una corposa descrizione degli aspetti socio-relazionali direttamente implicati nel disturbo.

 

Il risultato è un’opera che, pur tenendo fede ad un inquadramento scientifico rigoroso, si rivolge con lucidità e chiarezza espositiva non soltanto ai professionisti del settore, ma anche ai soggetti direttamente coinvolti dalla patologia, offrendo prospettive di analisi variegate e multiformi.

In apertura ampio spazio viene dedicato alla descrizione di quello che costituisce il focus patologico della sindrome di Tourette, ovvero l’emissione incoercibile e iterativa di tic motori o vocali; nello specifico il tic si presenta come un agito intrusivo e incontrollabile che, allo stesso modo di una compulsione, espone al rischio di un agito inadeguato al contesto, con profonde ricadute in ambito relazionale.

Il paziente agisce il tic ogni volta che ne avverte la necessità, non riuscendo a controllarsi neppure nei casi in cui la condotta ticcosa si esprima a mezzo di ecolalie, ecoprassie o, ancor peggio, di coprolalie.

Nella sintomatologia aspecifica è riscontrabile un deficit delle funzioni esecutive, invalidate da incapacità di organizzazione e integrazione della memoria di lavoro, impossibilità di mantenere un’attenzione selettiva e sostenuta su stimoli esterni e di maturare consapevolezza metacognitiva e controllo degli impulsi. Il richiamo all’ADHD è piuttosto immediato, tanto da richiedere lo stabilimento di criteri diagnostici specifici per effettuare le opportune diagnosi differenziali in riferimento a sindromi che, oltretutto, si presentano spesso in comorbilità.

La sindrome di Tourette mostra significative affinità – sintomatologiche e neurobiologiche- anche con i disturbi dello spettro ossessivo, specie con il DOC: studi di brain imaging hanno messo in evidenzia una disfunzionalità dei gangli della base e della corteccia fronto-striatale in entrambe le patologie, mentre la somiglianza neurobiologica con l’ADHD, altresì presente, è relativa ad un anomalo livello di dopamina e glutammato e ad una perdita dell’asimmetria del globus pallidus.

Attualmente la terapia d’elezione è considerata quella farmacologica, effettuata tramite l’assunzione di antidopaminergici, neurolettici e antipsicotici atipici, utili soprattutto per la remissione dei tic. La prescrizione dei farmaci, destinata ad una categoria di pazienti perlopiù giovane o addirittura in età pediatrica, viene spesso sostituita o integrata con l’utilizzo di programmi rieducativi di matrice cognitivo-comportamentale, aventi la finalità precipua di limitare l’incoercibilità della condotta e il contenimento della pratica massiva. Il riferimento va all’Habit Reversal Training, finalizzato a conferire al paziente una maggiore consapevolezza circa le sensazioni premonitrici del tic, all’ERP, esposizione allo stimolo con prevenzione della risposta, già utilizzato con successo nel DOC, a programmi con approccio di reward system, training di rilassamento, tecniche psicoeducative. Tutti descritti nel testo.

Non manca un riferimento all’impatto sociale della sindrome, di cui vengono messe in evidenza le ricadute, sostanzialmente negative, nei diversi contesti relazionali: l’ansia, la scarsa capacità di autoregolazione, le condotte agite e stereotipate, l’inflessibilità di condotta e l’incapacità adattativa espongono il paziente a vissuti di isolamento, esclusione e rifiuto da parte dei pari.

Ma anche la famiglia può mostrare incapacità di gestione della sindrome e vissuti stressogeni circa la tolleranza della sintomatologia. In particolare l’elevato grado di frequenza e la stereotipia con cui viene agito il tic può rendere difficile l’interazione con il paziente, contribuendo a dar vita ad un circolo vizioso capace soltanto di accrescere il reciproco disagio; questo soprattutto ove si consideri che l’emissione dei tic risulta aggravata da una condizione stressogena che il paziente, proprio attraverso la condotta ticcosa, cerca di controllare.

A tal proposito si sottolinea l’importanza di una genitorialità empatica e affettiva, che sia in grado di limitare l’impatto con la sindrome: aspetti come lo stress, le aspettative disilluse, l’incapacità di spezzare definitivamente il legame idealizzato con il bambino nella mente, per il quale si prospettavano progetti resi irrealizzabili dalla malattia, devono essere piuttosto rielaborate in una direzione assertiva, volta alla costruzione di un vissuto relazionale realistico ed accettante.

In egual modo, in ambito scolastico è richiesta al docente la tenuta di uno stile relazionale-comunicativo equilibrato ed assertivo, in grado di costruire una didattica strutturata con cui trasmettere all’allievo una maggiore consapevolezza del Sé e degli obiettivi da raggiungere. Il tutto, unito all’adozione di un PDP specifico, dovrebbe mostrarsi sufficiente a limitare le ricadute patologiche nel contesto classe e ad evitare “etichette diagnostiche” preclusive del benessere psico-fisico.

Gli autori non tralasciano di analizzare una potenziale rilevanza della malattia in ambito medico-legale, affermando come, in caso di non trattabilità del disturbo, di resistenza al trattamento o di peggioramento delle condizioni, il paziente possa ottenere un certificato di dichiarazione di handicap o di invalidità civile. Questo in una finalità indubbiamente garantista verso i soggetti colpiti, che si vedono così legittimati a ricevere una compensazione, anche patrimoniale, per il detrimento e la limitazione cui la patologia li costringe.

Il concetto di qualità della vita subisce un’innegabile limitazione dall’insorgenza della malattia dei “mille tic”: il testo prova a quantificarne l’entità tramite la somministrazione di una scala, riportata in appendice, e avente come oggetto proprio l’indagine psicometrica della qualità della vita del paziente a ridosso della diagnosi. Si tratta della C&A-GTS-QOL, Gilles de La Tourette Syndrome -Quality of Life Scale for Children and Adolescents, composta da 27 item in scala Likert 1-4, somministrabile in due versioni: una self-report per ragazzi dai 13 ai 18 anni e una etero -somministrata per bambini dai 6 ai 12 anni, entrambe inserite.

Del testo colpiscono la completezza, la versatilità espositiva e la capacità di passare dall’analisi rigorosa di dati scientifici e protocolli terapeutici alla descrizione empatica delle limitazioni socio-relazionali imposte dalla patologia. Il tutto in un linguaggio che, seppur costruito sulla base di una scientificità oggettiva, non manca di comprensibilità e accessibilità semantica.

All’interno di ogni capitolo è sempre la persona a risultare protagonista- si tratti dell’insegnante, del genitore, del paziente, è all’individuo che ci si rivolge principalmente; se ne origina un contesto di analisi soggettivizzante, in cui l’aspetto individuale della sindrome viene privilegiato rispetto a quello clinico-nosologico, pur presente e completo.

Agli autori va il merito di aver coniugato rigore scientifico e finalità empirica in un’opera agile e ampiamente fruibile, il cui fine principale risulta quello di fornire contenuti psicoeducativi attendibili su di una sindrome non ancora sufficientemente nota.

Il risultato è un vademecum completo e versatile, indubbiamente utile per la gestione clinica e relazionale delle varie limitazioni comportate dal disturbo. Nel tentativo, ben raggiunto ad avviso di chi scrive, di stemperarne l’impatto negativo, con un metodo che miri essenzialmente alla terapia e al recupero.

 

Il ruolo della dieta mediterranea nella salute mentale e sui sintomi depressivi

La depressione è uno dei disturbi mentali che provoca maggiore disabilità in termini di anni di vita persi, costituendo un grave onere in tutto il mondo con tremendi esiti personali, psicosociali e finanziari (Vos et al., 2015).

 

La depressione è anche un fattore di rischio rilevante per l’insorgenza di malattie cardiovascolari, (Rudisch & Nemeroff, 2003), ed entrambe le patologie condividono un rischio biologico sottostante costituito da infiammazione (Dowlati et al., 2010), bassi livelli di acidi grassi omega-3 (Frasure-Smith et al., 2004; Sinn & Howe, 2008) e dieta povera.

Comunemente, individui che soffrono di una psicopatologia tendono ad avere una dieta più scarsa ed una minore comprensione del ruolo che riveste lo stile di vita sulla salute e sul benessere mentale (Parletta, Aljeesh, et al., 2016).

La dieta mediterranea, protettiva verso l’insorgenza di patologie cardiovascolari (Nordmann et al., 2011) ed associata ad un minor rischio di depressione (Psaltopoulou et al., 2013), è caratterizzata da un elevato apporto di alimenti vegetali (verdura, frutta, legumi, noci, semi, olive, cereali integrali), olio extra vergine di oliva come principale grasso, moderato apporto di pesce, basso consumo di dolciumi, carni rosse e alimenti elaborati (Bach-Faig et al., 2011).

Cambiare i comportamenti dietetici ormai consolidati nella popolazione è una sfida, soprattutto per alcuni fattori secondari, come una dipendenza da cibi ad alto contenuto di grassi e zuccheri (Johnson & Kenny, 2010). Inoltre le società occidentalizzate promuovono il consumo di cibo d’asporto e ultra-elaborato che, non solo provoca conseguenze disastrose sulla salute, ma influisce sulla possibilità per le persone di trarre benefici dall’intero processo di produzione e consumazione del pasto in contesto conviviale. Con l’incremento delle malattie fisiche e croniche, tornare alle origini promuovendo abilità culinarie e pasti in famiglia, potrebbe essere un approccio potente ai fini preventivi.

Promuovere una dieta mediterranea non apporta unicamente benefici alla salute, ma essendo altamente appetibile, è sostenibile, contribuendo ad uno stile di vita sano nel tempo (Bach-Faig et al., 2011).

Parletta et al. (2019), hanno indagato l’impatto della dieta mediterranea sul miglioramento della salute mentale e qualità della vita in un campione di 152 adulti che soffrivano di sintomi depressivi. Poiché gli individui affetti da psicopatologia tendono ad avere livelli particolarmente bassi di acidi grassi polinsaturi omega-3 (Parletta, Zarnowiecki, et al., 2016), la dieta è stata integrata con olio di pesce.

Gli individui sono stati randomizzati in due gruppi per 3 mesi: uno che seguiva il regime mediterraneo con laboratori di cucina, interventi di educazione nutrizionale ed integrazione con olio di pesce; l’altro, ovvero il gruppo di controllo, che frequentava gruppi sociali, durante i quali venivano forniti cibi meno salutari.

Alla baseline, 3 e 6 mesi dopo sono stati valutati: gli stati emotivi negativi di depressione, ansia e stress (Depression Anxiety Stress Scale), la qualità della vita (Assessment of Quality of Life), le emozioni positive e negative (Positive and Negative Affect Scale), il livello di aderenza alla dieta mediterranea (Mediterranean diet questionnaire), la varietà del consumo di frutta e verdura ed il livello di acidi grassi omega-3.

In tre mesi, i soggetti del gruppo sperimentale avevano incrementato l’assunzione di verdura (inclusa maggiore varietà), frutta, cereali integrali, noci, legumi, riducendo l’assunzione di snack industriali e carne/pollo, migliorando complessivamente la qualità della dieta per 6 mesi.

Sebbene per 6 mesi la salute mentale era migliorata sia nel gruppo sperimentale che di controllo, coloro che avevano aderito alla dieta mediterranea riportavano miglioramenti significativamente maggiori nei sintomi depressivi e nella qualità della vita correlata alla salute mentale. L’entità del beneficio è stata piuttosto ampia: il 60% delle persone ha riportato una riduzione della gravità della depressione, il 72% di ansia e il 69% di stress percepito. Questi esiti sono in stretta associazione al miglioramento dietetico, in particolare grazie alla varietà di verdura e frutta, l’assunzione di legumi e noci, e più globalmente all’aderenza alla dieta mediterranea con un consumo ridotto di snack, cibo da asporto e carne.

Il miglioramento della salute mentale emerso in entrambi i campioni è in parte attribuibile alla componente di coinvolgimento sociale, ovvero l’esposizione a laboratori collettivi e grazie alla dinamica di aiuto reciproco che si era instaurata. Infatti, il supporto tra pari nel gruppo è efficace nel trattamento della depressione similmente alla psicoterapia (Pfeiffer et al., 2011).

Facilitatore del cambiamento di abitudini dietetiche è stata la fornitura di cibo gratuito, che ha ridotto al minimo le resistenze, ma al contempo impostato valori predefiniti e desiderabili (Loewenstein et al., 2007).

Oltre alla definizione degli obiettivi, l’esposizione continua aumentava la familiarità verso cibi considerati più sani, e quindi il loro gradimento e preferenza (Cooke, 2007).

Anche l’apprendimento delle abilità culinarie di base e delle ricette aveva sostenuto il cambiamento, potenzialmente mantenibile nel lungo termine, incentivando scelte alimentari più sane (Larson et al., 2006).

Nell’indagine non era emersa alcuna correlazione significativa tra l’aumento di omega-3 e il miglioramento dei sintomi depressivi. Probabilmente, ottimizzare l’intera dieta apporta benefici di gran lunga maggiori nella salute mentale rispetto a qualsiasi nutriente impiegato da solo (Parletta et al., 2013).

Il miglioramento della salute mentale legato alla dieta rimanda a meccanismi biologici sottostanti, che sono stati ampiamente descritti. I nutrienti (vitamine, minerali, grassi polinsaturi e amminoacidi), oltre a supportare una vasta quantità di funzioni biologiche (come sintesi dei neurotrasmettitori, segnalazione cellulare, mantenimento della guaina mielinica, metabolismo del glucosio e dei lipidi, funzione mitocondriale e prevenzione dell’ossidazione), sono essenziali per la struttura cerebrale ed il funzionamento sano della mente (Kaplan et al., 2007, 2015).

Inoltre, alla base di una cattiva salute fisica ci sono fattori correlati all’alimentazione come infiammazione, intolleranza al glucosio, alterazioni del flusso sanguigno e stress ossidativo, che influiscono sul benessere mentale (Kaplan et al., 2015; Parletta et al., 2013; Sinn & Howe, 2008).

Nonostante siano necessari ulteriori studi per valutare la sostenibilità a lungo termine dei cambiamenti dietetici e nella riduzione dei sintomi depressivi, questa indagine ha messo in luce l’importante ruolo della dieta nel mantenimento della salute mentale.

 

Mind wandering: vagabondare con la mente rende più creativi?

Il fenomeno del mind wandering, in italiano “il vagabondare della mente”, è un’esperienza che consiste nell’avere dei pensieri che non rimangono fissi su un unico contenuto ma vagano, appunto, in diverse direzioni e senza una meta precisa.

 

L’attenzione si sposta dai pensieri focalizzati sul compito in corso e/o eventi nell’ambiente esterno, a pensieri autogenerati senza che vi sia alcuna forma di controllo.

Il fenomeno del mind wandering ha cominciato ad essere oggetto di studio nella prima metà degli anni ’90, periodo in cui l’ambito delle neuroscienze cognitive si affermava progressivamente nel panorama scientifico. Nacque dunque un interesse per ciò che fino a quel momento, soprattutto nei contesti sperimentali, veniva considerato rumore di fondo generato nei momenti in cui il soggetto non era impegnato in alcun compito cognitivo (Christoff, 2016). Immaginando un continuum, il mind wandering si pone all’esatto opposto di quello che è il pensiero volontario che nasce in seguito alla presentazione di uno stimolo o durante lo svolgimento di un compito.

William James nella sua opera “Principi di Psicologia” (1890), descrisse il pensiero e il flusso di coscienza paragonandolo metaforicamente al volo di un uccello: così come gli uccelli alternano il volare all’appollaiarsi su un ramo, così fa il pensiero. È come se la mente fosse continuamente soggetta a un movimento oscillatorio tra uno stato di attenzione esternalizzata e uno in cui l’attenzione è rivolta ai propri stati interni (Goncalves, 2018); questa seconda condizione è una forma di pensiero svincolata dall’ambiente circostante che corrisponde al fenomeno del mind wandering.

Mind wandering e day-dreaming sono sinonimi?

In letteratura non è raro trovare affiancati i termini mind wandering e day-dreaming (traducibile con “sogno ad occhi aperti”), due termini apparentemente simili che erroneamente vengono usati talvolta come sinonimi. Il primo fenomeno, come illustrato precedentemente, consiste in una sequenza di pensieri incontrollata che si sposta da un oggetto all’altro, il secondo, invece, può essere considerato come un processo di pensiero caratterizzato da una forte componente intenzionale che consiste nella proiezione volontaria di determinati scenari o rappresentazioni mentali sorrette spesso da una struttura narrativa.

Di solito la sequenza erratica di pensieri che si ha durante il mind wandering non è molto lunga, tuttavia in un primo momento non sono immediatamente accessibili tutti i vari passaggi, che possono essere visti come nodi di una rete che hanno portato dalla fine di un pensiero alla nascita del successivo. Questi pensieri possono essere identificati attraverso una ricostruzione a posteriori da parte del soggetto, ovvero una rievocazione monitorata che permetta di risalire alle origini di ogni singolo pensiero episodico (Dorsch, 2014).

Mind wandering: le aree cerebrali coinvolte

Nel corso degli ultimi anni il mind wandering è stato oggetto di numerosi studi condotti nell’ambito delle neuroscienze cognitive che hanno tentato di risalire alle aree cerebrali coinvolte in questo tipo di attività (Mittner et al., 2016). La Default Mode Network (DMN) comprende una serie di aree quali la corteccia cingolata posteriore e la corteccia prefrontale mediale, il precuneo ed entrambe le circonvoluzioni angolari (Mason, 2007; Raichle, 2001). Alcune di queste aree cerebrali sono anche coinvolte in alcuni processi mentali associati al pensiero creativo, ad esempio si attivano di più durante la creazione di storie a partire da una lista di parole sconnesse (Wiggins, 2014). In uno studio di Takeuchi et al. (2011) si è osservata un’attivazione maggiore del precuneo durante prestazioni maggiormente creative in un compito di memoria di lavoro. La DMN, inoltre, è strettamente legata ai processi di rievocazione della memoria episodica, al pensiero autobiografico rivolto al futuro e alla mentalizzazione (Mittner et al., 2016; Christoff, 2016; Beaty, 2015). Anche il lobo temporale, e in particolare l’ippocampo, sembra avere un ruolo fondamentale nel mind wandering. Infatti, sembra che la sua attivazione sia associata all’immaginazione di nuovi scenari o possibili esperienze future (Schacter, 2008).

Mind wandering e creatività

Sia il mind wandering che il pensiero creativo più in generale sfruttano la capacità di immaginare attraverso il cosiddetto “occhio della mente”. Quando l’attenzione viene rivolta unicamente all’osservazione dei processi interni, la codifica degli stimoli provenienti dall’ambiente esterno è momentaneamente sospesa riducendo le potenziali distrazioni circostanti; il risultato è quello di una maggior concentrazione dell’attenzione verso i propri pensieri.

Nella vita di tutti i giorni questo tipo di attività mentale si può riscontrare in una varietà di situazioni. Ad esempio mentre si guida l’auto, o si è assorti nell’osservare il panorama fuori dal finestrino di un treno, o quando si è alle prese con una lettura noiosa (Dorsch, 2014).

Sebbene l’attività del mind wandering sembri avere origine dalle normali fluttuazioni nell’attività cerebrale e nei processi cognitivi degli esseri umani, alcuni ricercatori hanno individuato degli aspetti potenzialmente negativi legati ad essa. Ad esempio, sembra che il mind wandering possa essere spesso associato a stati dell’umore depressivi, può rendere più difficile comprendere il significato di un testo, e provocare dei rallentamenti nella rievocazione dei ricordi e nei riflessi con conseguenze potenzialmente dannose nel caso di attività che necessitano di elevate risorse attentive, come guidare l’auto in mezzo al traffico (Smallwood, 2015; Yamaoka, 2019).

In conclusione, dai dati emersi in letteratura sembra evidente che vagabondare con la mente possa promuovere nelle persone la creazione di nuove idee. Ciononostante, al fine di limitare i potenziali effetti collaterali di un eccessivo mind wandering, potrebbe essere utile apprendere abilità di mindfulness o di meta-consapevolezza utili ad osservare ed a regolare l’attività mentale spontanea (Smallwood, 2015).

 

Il percorso per diventare tecnico RBT ABA

Come si diventa tecnico RBT ABA? Quali sono i ruoli e i gradi di formazione che una persona può intraprendere all’interno del meraviglioso mondo dell’ABA?

Ilaria Cester e Cinzia Marcuzzo – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Mestre

 

L’acronimo ABA sta per Applied Behavior Analysis, ovvero l’analisi del comportamento applicata. L’ABA può essere presentato come un insieme di procedure di intervento intensivo precoce, basate su principi comportamentali Skinneriani. Famosa soprattutto per la sua applicazione con soggetti con Sindrome dello Spettro dell’Autismo, sarebbe riduttivo considerare questo metodo esclusivo per tali problematiche. L’ABA, infatti, può essere applicata nei più disparati contesti in cui ci si ritrovi ad affrontare una problematica comportamentale.

Numerosi studi (N. Peters-Scheffer & al., 2011; C. M. Anderson & D. Kincaid, 2005; Moderato, P. Copelli, C.,2010) sostengono l’efficacia dell’applicazione del metodo ABA con soggetti aventi diverse problematiche (Spettro dell’autismo, difficoltà comportamentali, DOP, disabilità intellettiva,..).

Appurata la validità e l’efficacia relativa all’implementazione di tale metodologia, come si diventa tecnico RBT ABA? Quali sono i ruoli e i gradi di formazione che una persona può intraprendere all’interno del meraviglioso mondo dell’ABA?

Ogni intervento ABA, degno di tale nome, prevede la supervisione di un BCBA (Board Certified Behavior Analyst) che è il responsabile della direzione, supervisione e gestione del caso. Progetta e coordina l’intervento, creato ad hoc per il singolo soggetto. L’implementazione vera e propria dell’intervento ABA si sviluppa sul campo grazie alla presenza di tecnici RBT (Registered Behavior Technician). A volte, potrebbe esserci anche la figura BCaBA (Board Certified Assistant Behavior Analyst), che è il responsabile del supporto alla gestione del caso, sempre sotto la supervisione di un BCBA, non può in alcun caso operare da solo. Il ruolo del BCaBA è quello di supervisionare l’operato dell’RBT (Fig. 1).

Applied Behavior Analysis il percorso per diventare tecnico RBT ABA Fig 1

Fig. 1: Schema gerarchia dei ruoli nell’implementazione del metodo ABA

Chiunque operi in nome dell’ABA, deve seguire un codice etico preciso, reperibile sul sito ufficiale del BOARD, in cui vengono affrontate tematiche quali: la condotta dell’analista del comportamento, i suoi obblighi nei confronti della famiglia del cliente, del soggetto stesso protagonista dell’intervento, di altri colleghi.

Per diventare tecnico RBT ABA è necessario anzitutto essere maggiorenni ed avere raggiunto almeno il diploma di scuola superiore. È necessario, poi, frequentare un corso definito Assesment delle competenze della durata di 40 ore, condotto da un BCBA certificato e riconosciuto dal Board. Durante il corso verranno affrontati argomenti che vanno dell’etica e condotta che l’RBT deve tenere nello svolgimento della sua professione, all’approfondimento teorico sul comportamentismo e sulle principali patologie in cui è possibile applicare l’ABA (Spettro dell’autismo, DOP,..). Fino ad arrivare a toccare con mano le tecniche di gestione dei comportamenti problema, le modalità di rinforzo e di estinzione, le tecniche volte allo sviluppo di capacità e autonomie e le diverse possibilità per la presa dati, fondamentale per l’implementazione di un buon progetto ABA.

Al termine del corso, il futuro tecnico RBT dovrà sostenere un esame scritto e un colloquio orale con il responsabile del corso e fornire alcuni video a dimostrazione dell’uso delle tecniche presentate durante le ore di lezione.

Superato l’esame finale sarà possibile iscriversi al Board e, attraverso il canale ufficiale, sostenere un successivo esame in lingua inglese per ottenere il titolo di RBT certificato.

Applied Behavior Analysis il percorso per diventare tecnico RBT ABA Fig 2

Fig. 2: Schema tratto dal sito del board con le fasi per diventare tecnico RBT

A partire dal 2020, vista la situazione COVID, è stata data la possibilità ai futuri RBT di sostenere l’esame online, accedendo ad un’interfaccia autorizzata dal Pearson VUE, sito che si occupa dell’aspetto valutativo delle competenze dei tecnici RBT. In precedenza, per poter sostenere l’esame come RBT era necessario recarsi a Roma, unica sede del Pearson VUE in Italia.

L’esame ha una durata massima di 90 minuti ed è composto da 85 domande (10 delle quali sono item pilota), a scelta multipla. Tutte le domande prevedono quattro alternative di risposta.

Per prepararsi all’esame, oltre alla frequentazione del corso per l’assesment delle competenze, è consigliabile consultare manuali quali:

  • Theisen B. & Bird Z. (2015): “RBT credential workbook“. Bx Dynamic Press; Vol. 3.
  • Martin G. & Pear J. (2000): “Strategie e tecniche per il cambiamento”.   McGraw-Hill Education; 6° edizione. Traduzione italiana a cura di Moderato P. & Rovetto F.
  • Ricci C. & al. (2014): “Manuale ABA-VB. Applied behavior analysis and verbal behavior. Fondamenti, tecniche e programmi di intervento”. Erickson.

Utile potrebbe essere, inoltre, consultare i siti delle riviste JABA e JEAB in cui sono raccolti articoli basati sulle ricerche di analisi applicata del comportamento.

Per potersi esercitare in vista dell’esame con il Board navigando nel web si possono trovare alcuni siti utili.

A conclusione dell’articolo, abbiamo pensato potesse essere interessante dare la parola a un’esperta. La Dott.ssa Lucia Piccin è un noto BCBA che lavora nel mondo dell’ABA da moltissimi anni.

Informazioni sulla Dott.ssa Lucia Piccin

Analista del Comportamento BCBA. Lavora in questo campo da 18 anni, dapprima in UK sotto la supervisione dello UKYAP (United Kingdom Young Autism Project) poi in Italia.

Si occupa:

  • della presa in carico, della valutazione, delle progettazione e supervisione di interventi individualizzati A.B.A. per bambini e ragazzi con ASD;
  • della formazione di terapisti/e e delle figure responsabili in relazione all’implementazione degli interventi;
  • della formazione dei genitori;
  • della formazione attraverso docenza di corsi inerenti ASD e l’Analisi Applicata del Comportamento.

Intervistatrice (I): Quando ha sentito per la prima volta parlare di ABA?

Dott.ssa Lucia Piccin (LP): Per la prima volta ho sentito parlare di ABA nel Dicembre del 2002 quando ho letto un annuncio su una bacheca universitaria che cercavano una terapista per un intervento ABA, per una bambina di 2 anni. Io al tempo non sapevo nemmeno cosa fosse. Ho partecipato alle selezioni, poi alla formazione e sono state scelta tra i vari candidati per la creazione del team.

I: Che cosa le è piaciuto dell’ABA da convincerla a renderlo il suo lavoro?

LP: Riferendomi sempre al mio primissimo caso, mi è piaciuto innanzitutto il fatto di poter arrivare a relazionarmi e a comunicare con una bambina piccola, con problematiche comportamentali gravi e un deficit cognitivo importante. Tali caratteristiche rendevano apparentemente le modalità di relazione e di comunicazione con lei scarse e limitate.

Il metodo ABA non è un intervento mirato allo sviluppo di una determinata area di competenza, ma è un intervento globale ed intervenire in tutte le aree, prendendo in considerazione punti di forza e di debolezza della persona, trasformando i primi in risorsa, mentre i secondi in ambiti nei quali è necessario promuovere nuove competenze.

Nel tempo ho potuto apprezzare l’impatto che un intervento A.B.A. può avere non solo nella vita della persona a cui è rivolto il progetto, ma anche su tutto il suo ambiente circostante, la sua famiglia e anche all’interno dei contesti sociali, come ad esempio la scuola.

Ritengo la componente relazionale di fondamentale importanza, tanto da affiancarla al pari degli obiettivi di apprendimento all’interno di un progetto ABA. L’importanza dell’aspetto relazione e del ruolo del gioco nel miglioramento delle competenze di bambini nello Spettro dell’autismo, per me è tale che nel 2005 è stato l’argomento della mia tesi di laurea “Can play be transformed into a powerful instrument helping the development and learning of autistic children?”

I: Com’è stato il suo percorso di formazione per diventare BCBA?

LP: Dopo aver conseguito la laurea presso l’University of Wales Swansea, Swansea, in Inghilterra, ho frequentato presso la medesima università un Master di II livello in Child Welfare and Applied Childhood Studies.

Durante tutto questo periodo ho praticato come tutor ABA, sotto la supervisione dei consulenti dell’UK IAP.

Successivamente, ho deciso di frequentare presso l’Istituto Europeo per lo Studio del Comportamento Umano (IESCUM), a Parma, un Master di II livello su “L’analisi del comportamento: aspetti teorico-metodologici e applicazioni al disturbo autistico”. Tale master dà diritto di accesso all’esame di certificazione da parte del BACB  per divenire Assistente Analista del Comportamento Certificato (BCaBA) e Analista del Comportamento Certificato (BCBA).

I: L’ABA, oltre ad essere applicabile a soggetti con Spettro dell’Autismo, porta risultati efficaci anche con altre problematiche come il disturbo oppositivo provocatorio o soggetti con disabilità intellettiva. Qual è la sua opinione in merito?

Innanzi tutto, è prioritario precisare che l’A.B.A. non è e non nasce come intervento specifico per l’autismo. L’A.B.A. è una scienza volta alla modificazione del comportamento, può essere applicata ad una varietà di situazioni, disturbi e patologie e non ci sono limiti di età. È vero però che c’è ampia evidenza scientifica dagli anni 70 ad oggi che ne prova l’efficacia nell’insegnamento di importanti comportamenti e abilità a bambini con autismo e ne evidenzia la particolare efficacia in relazione ad interventi precoci.

Nello specifico, l’A.B.A. è una scienza che, attraverso l’utilizzo di tecniche e procedure derivate dai principi del comportamento, mira, da un lato, ad incrementare comportamenti socialmente significativi e, dall’altro, a ridurre i comportamenti problematici e, quindi, disadattivi. Il tutto comprovabile attraverso la sistematica registrazione dei dati.

 

Il dialogo interno come strumento per mantenere la capacità di pensare e agire nelle situazioni difficili

Il dialogo interno può essere un potente strumento di autoregolazione del comportamento, del pensiero e delle emozioni.

 

A volte capitano situazioni in cui ci sentiamo completamente in balia degli eventi, e questi sembrano avere un impatto talmente potente su di noi che ci sembra di perdere completamente la facoltà di ‘stare lì, nel momento’. Quando ciò accade, sembra che la nostra capacità di riflettere, valutare e prendere decisioni subisca un tracollo e, successivamente, ci troviamo a pensare alla situazione vissuta con confusione, a volte con sgomento.

Alcuni dei principali autori di orientamento cognitivo-comportamentale, Ellis (1977), Beck (Beck, Rush, Shaw & Emery, 1979) e Meichenbaum (1977), con il loro lavoro ci informano che anche nelle situazioni più stressanti e caotiche è sempre presente una componente di pensiero discorsivo, esplicito o meno, che tende a guidare le nostre reazioni in termini di pensieri, emozioni e comportamenti che agiamo. Questo pensiero discorsivo deriverebbe da schemi disadattivi che distorcono l’elaborazione delle informazioni prese dall’ambiente in modi disfunzionali in relazione agli obiettivi dell’individuo (Beck et al., 1979).

Questo dialogo interno può presentarsi in diverse forme, fino a raggiungere quella di un vero e proprio dibattito con se stessi, più o meno articolato: “Starò facendo la cosa giusta?”; “Non fare così, fa’ così piuttosto”; “Stai attento che questa situazione ti è già capitata e sai come andrà a finire”… l’elenco delle cose che diciamo silenziosamente a noi stessi nelle più svariate circostanze è potenzialmente infinito, e si applica sia alle situazioni piacevoli che a quelle spiacevoli, che siano vissute intensamente oppure no.

Quando questo dialogo con noi stessi si presenta in modi che mettono in discussione la nostra autostima, la nostra capacità di fare e le aspettative positive rispetto a quanto stiamo vivendo, la nostra capacità di agire nella specifica situazione può venire pregiudicata in maniera più o meno ampia, possiamo sperimentare emozioni spiacevoli anche molto intense e, infine, subire una limitazione della nostra possibilità di agire, con il risultato di non essere in grado di esprimere pienamente noi stessi e di perseguire i nostri obiettivi in modo ottimale. Il disagio psicologico che ne deriva può essere più o meno intenso, fino anche alla possibilità a lungo termine di sviluppare un disturbo psichiatrico vero e proprio (Wann, Brennen & Holte, 2006).

D’altra parte, però, il dialogo interno può essere un potente strumento di autoregolazione del comportamento, del pensiero e delle emozioni, funzionale a mantenersi focalizzati sul compito da eseguire e sugli obiettivi da raggiungere, oltre che a permetterci di mantenere la calma (o motivarci) in situazioni competitive o stressanti (ad esempio, Malouff & Murphy, 2006). Non a caso l’addestramento all’uso del dialogo interno è una strategia utilizzata ampiamente nell’ambito della terapia cognitivo-comportamentale per il trattamento di depressione e ansia (Dush, Hirt & Schroeder, 1983), per il miglioramento della prestazione mentale (Schleser, Meyers & Cohen, 1981), per il trattamento dell’impulsività (Nelson & Birkimer, 1978) e dei disturbi del comportamento nell’infanzia (Dush, Hirt & Schroeder, 1989).

Un regime di trattamento che fa ampio uso del dialogo interno al fine di fornire uno strumento per fronteggiare le situazioni stressanti è lo Stress Inoculation Training (Meichenbaum, 1985). Sviluppato come paradigma di addestramento semistrutturato e clinicamente sensibile, è applicabile a un’ampia varietà di situazioni problematiche e stressanti (ad esempio nella gestione della rabbia e dell’ansia sociale) fino a situazioni estreme nelle quali la stabilità psicologica individuale è messa a dura prova e vi è il rischio di sviluppare sintomatologia post-traumatica (problemi gravi di salute, stupro, attacchi terroristici), tra le quali rientrano a pieno titolo l’ambito militare e, in generale, le professioni che richiedono all’individuo di sviluppare la capacità di funzionare bene in situazioni estreme.

Il training è composto da tre fasi: una fase di concettualizzazione della domanda di trattamento, una fase di acquisizione delle abilità funzionali alla risoluzione del problema e ripetizione a scopo di apprendimento, e infine una fase di applicazione delle abilità e completamento del trattamento (follow-through).

Il dialogo interno che promuove il funzionamento ottimale sotto stress, nella forma di affermazioni su di sé, è un’abilità oggetto di apprendimento nella seconda fase del trattamento e può essere utilizzato in diversi momenti relativi alla situazione stressante. Nello specifico, l’autore (Meichenbaum, 1985) distingue in relazione ad essa quattro momenti: quando ci stiamo preparando a fronteggiare una situazione stressante che prevediamo si presenterà, quando tentiamo di gestirla una volta presente, quando ci sentiamo travolti da essa e, infine, quando riflettiamo sugli sforzi che abbiamo profuso nel tentativo di fronteggiarla. In ognuno di essi abbiamo la possibilità di sfruttare il dialogo interno per prestare attenzione maggiore alle circostanze presenti e mantenere un atteggiamento proattivo e focalizzato sui nostri obiettivi.

Ecco alcuni esempi di affermazioni che possiamo utilizzare:

  • Quando ci stiamo preparando a fronteggiare la situazione stressante: “Cosa dovrò fare?”,”Posso farmi un piano per gestire la situazione”, “Smettila di preoccuparti. Preoccuparsi non serve a nulla”, “Mi sento un po’ teso, ma è una cosa naturale”;
  • Quando stiamo tentando di gestire la situazione stressante: “Un passo alla volta”, “Non pensare allo stress, pensa alle cose che devi fare”, “Guarda al positivo. Non saltare alle conclusioni”, “Questa tensione può essere un alleato, un segnale per trovare un modo di agire”;
  • Quando ci sentiamo travolti dalla situazione stressante: “Fermati un momento e rifletti su cosa sta accadendo”,”Non cercare di eliminare lo stress, gestiscilo solamente”, “Rilassati e rallenta”, “É il momento di risolvere il problema”;
  • Quando riflettiamo sugli sforzi di fronteggiamento e ci ricompensiamo (anche solo per avere tentato): “Non è andata male come pensavo”, “Non ha funzionato. Va bene lo stesso”; “Vediamo cosa posso imparare da questa storia”; “L’ho gestita abbastanza bene”.

Ma come utilizzare concretamente queste suggestioni? Innanzitutto dobbiamo trovare quali affermazioni ci sembrano più efficaci in relazione alla situazione stressante che ci accingiamo a incontrare, e di cui quelle indicate sono semplici piste per costruire le proprie. Una volta individuate le proprie possiamo, attraverso l’esercizio e la ripetizione (cognitive rehearsal), creare il nostro repertorio di affermazioni da dire a noi stessi quando ci troviamo in situazioni stressanti, che provvederemo a tenere presenti alla nostra mente, anche scrivendole da qualche parte, per portarle con noi. Il loro utilizzo in situazioni reali ci permetterà, poi, di acquisirle in pianta stabile nelle nostre abitudini di pensiero, in modo da garantirne l’uso anche in situazioni nuove, fornendoci così da noi stessi quella focalizzazione sul compito e quella percezione di controllo, che tanta parte hanno nell’adattamento e nella promozione del benessere per l’individuo lungo tutto l’arco della sua vita.

L’attenzione al dialogo interno sotto stress non solo potrebbe portarci a risultati insperati di fronte alle avversità, ma potrebbe anche fornirci una dose maggiore di fiducia nelle nostre capacità, assieme a un nuovo slancio per tentare imprese mai tentate e imboccare percorsi di vita desiderati ma che ci siamo sempre preclusi da noi stessi, attraverso le parole che ci diciamo.

L’amo o non l’amo? Vincere le ossessioni sulla relazione e sul partner (2021) di Marta Venturini Drabik e Gabriele Melli – Recensione del libro

L’amo o non l’amo? è un manuale di auto-aiuto che ha lo scopo primario di far comprendere il DOC da relazione a chi si trova a soffrirne.

 

In un rapporto di coppia, specie a lungo termine, è normale avere dei dubbi riguardanti la relazione o le caratteristiche del partner e avere dei momenti di conflitto, incomprensione o distanza.

Per chi soffre invece di Disturbo Ossessivo-Compulsivo da relazione, noto anche come R-OCD (Relationship Obsessive-Compulsive Disorder), i dubbi sono vissuti come più intensi e pervasivi, come qualcosa da cui non ci si riesce a liberare. Inoltre, non riuscendo la persona con DOC da relazione a tollerare le normali oscillazioni insite in ogni relazione, si arrovella con pensieri intrusivi e indesiderati cercando di capire se sia il caso di portare avanti il rapporto. Tutto ciò interferisce significativamente sulla qualità della relazione, producendo sofferenza anche nel partner e nelle persone intorno, interpellate incessantemente per avere rassicurazione.

“L’amo o non l’amo?”, infatti, è il dilemma quotidiano di chi soffre di DOC da relazione, a cui cerca disperatamente di dare risposta, sperimentando invece che più affannosamente prova a cercarla, più essa sfugge, alimentando l’ansia e peggiorando la situazione. Questo accade perché, in realtà, una risposta certa a tale interrogativo non esiste e lo spiega bene il libro L’amo o non l’amo? Vincere le ossessioni sulla relazione e sul partner, manuale di auto-aiuto che ha lo scopo primario di far comprendere il DOC da relazione a chi si trova a soffrirne, partendo dal presupposto importante che il primo passo fondamentale del cambiamento è capire il nemico con cui si ha a che fare.

L’amo o non l’amo?: capire il DOC da relazione

Nella prima parte del libro, vengono descritti i meccanismi coinvolti nella genesi e nel mantenimento delle ossessioni sulla relazione e sul partner.

I primi a individuare il DOC da relazione come quadro sintomatologico ben preciso, pur in parte sovrapponibile al Disturbo Ossessivo-Compulsivo, sono stati due psicologi israeliani, Guy Doron e Danny Derby.

Il disturbo ossessivo-compulsivo da relazione si caratterizza per la presenza di dubbi ossessivi ricorrenti, intrusivi e persistenti circa la “giustezza” della propria relazione o circa le caratteristiche del proprio partner (ad esempio dubbi se la relazione va bene o meno, se i sentimenti provati sono abbastanza intensi o sufficientemente costanti, se il proprio partner è quello giusto o no, se è abbastanza intelligente o attraente ecc.).

Il DOC da relazione è distinto in due categorie, in base alla natura e al tipo di ossessione predominante: DOC da relazione con ossessioni circa la relazione e DOC da relazione con ossessioni circa le qualità e le caratteristiche del partner.

L’elemento fondamentale da considerare è che ciò che innesca la risposta ossessiva non è la carenza di un reale coinvolgimento emotivo o di un sentimento d’affetto o amore, ma la presenza di alcune specifiche credenze irrazionali su come dovrebbe essere una relazione e su come dovremmo sentirci in essa. Le credenze disfunzionali centrali nel DOC da relazione, derivanti dagli apprendimenti e dalle esperienze di vita, sono: estremizzazione o visione bianco e nero (“In una relazione soddisfacente, il sentimento provato per il partner non dovrebbe mai variare di intensità”), catastrofizzazione (“Una volta che si è preso un impegno, non si può più tornare indietro”), intolleranza del rischio e dell’incertezza (“Rimanere in uno stato di incertezza è intollerabile”), fusione pensiero-azione (“Pensare, desiderare, immaginare una cosa è grave quanto farla nella realtà”).

Tipici momenti in cui  possono emergere o aumentare le ossessioni di tipo relazionale sono quelle situazioni in cui si delinea la possibilità di un cambiamento verso un maggiore investimento relazionale (ad esempio convivenza, matrimonio, nascita di figli, ma anche una vacanza o una spesa condivisa), che comportano un conseguente aumento delle eventuali ripercussioni reali o presunte nel caso in cui la relazione si interrompesse. Non a caso nelle storie delle persone che soffrono di disturbo ossessivo-compulsivo da relazione i temi connessi all’integrità morale e al perfezionismo risultano centrali.

Allo scopo di placare l’incertezza relazionale e l’ansia da essa derivante, si genera tutta una serie di strategie compulsive, riparative e preventive. Le principali e più comuni descritte nel libro sono: evitamento, controllo dei pensieri, auto-rassicurazioni e richiesta di rassicurazioni, confessione, disinvestimento relazionale. Tali strategie vengono attuate con l’obiettivo di raggiungere un grado soddisfacente di certezza circa la stabilità dei propri sentimenti e la “giustezza” della relazione e delle caratteristiche del proprio partner. Tuttavia, essendo il grado di certezza desiderato irrazionalmente alto e quindi irraggiungibile, tali strategie inevitabilmente falliscono, andando ad aumentare la frequenza e l’intensità del pensiero ossessivo.

L’amo o non l’amo?: autovalutazione e cambiamento

Nella seconda parte del libro, gli autori offrono compiti di auto-osservazione e questionari per comprendere la natura del proprio DOC da relazione. Inoltre, ampio spazio viene dato a consigli, esercizi e tecniche tratte dalla terapia cognitivo-comportamentale da mettere in pratica nella vita di tutti i giorni, per affrontare i sentimenti di colpa e auto-biasimo verso la propria condizione, per evidenziare l’irrazionalità e l’inutilità delle credenze disfunzionali (con esercizi di ristrutturazione cognitiva) e per contrastare attivamente le strategie preventive e riparative che contribuiscono al mantenimento del disturbo (attraverso esercizi di esposizione con prevenzione della risposta).

Il programma e le istruzioni proposte mirano non solo a un cambiamento che possa far sentir significativamente meglio la persona, ma anche alla prevenzione e gestione delle ricadute che spesso si manifestano.

Nel libro ci si concentra sui dubbi ossessivi sulle relazioni sentimentali, che caratterizzano la forma più comune di DOC da relazione, ma questo disturbo può svilupparsi anche con altre tipologie di relazioni significative (ad esempio tra genitore e figlio) con manifestazioni analoghe.

È presente inoltre un’appendice, dove sono raccolte indicazioni utili anche per i partner e i familiari delle persone con DOC da relazione, il cui coinvolgimento è importante e spesso indispensabile per un cambiamento duraturo.

Concludendo, L’amo o non l’amo? Vincere le ossessioni sulla relazione e sul partner, è un manuale di auto-aiuto utile e chiaro anche per la presenza di schede e descrizioni di casi clinici che, tuttavia, non vuole sostituirsi a un percorso di psicoterapia, necessario – come specificano gli autori – qualora si voglia analizzare ed elaborare i nuclei problematici alla radice del DOC da relazione e la componente emotiva delle credenze disfunzionali, che originano dalla propria storia di vita.

 

Il razzismo interiorizzato: quando le discriminazioni sociali entrano a far parte dell’individuo

Due manifestazioni particolarmente importanti che indicano la presenza di razzismo interiorizzato consistono nell’alterazione dell’aspetto fisico e il cambiamento dei capelli.

 

La discriminazione razziale è un’esperienza pervasiva (Hope, Hoggard, & Thomas, 2015) ed è stata associata ad esiti negativi come disturbi dell’umore (Paradies et al., 2015), diminuzione dell’autostima (Yip, 2015) e malattie cardiovascolari (DeLilly & Flaskerud, 2012). Quando i giovani afroamericani passano all’età adulta e iniziano a frequentare ambienti come le università o i posti di lavoro, possono sperimentare una maggiore discriminazione razziale (Mouzon et al., 2017). Esistono fattori socioculturali che rendono alcuni individui particolarmente vulnerabili rispetto agli effetti psicologici negativi della discriminazione.

Se molte ricerche hanno esaminato i correlati psicologici della discriminazione razziale (Carter et al., 2018), poco si sa sull’influenza moderatrice del razzismo interiorizzato nel tempo. Risulta dunque importante indagare quali fattori si combinano con la discriminazione razziale per comprendere quali individui siano più vulnerabili agli effetti di tale fenomeno (Paradies, 2006b). Per questo motivo, si è scelto di prendere in esame uno studio che ha osservato se il razzismo interiorizzato moderasse la relazione tra la discriminazione razziale e i sintomi ansiosi.

Due modelli teorici sono alla base di questa ricerca. Il primo, il modello biopsicosociale del razzismo di Clark, Anderson, Clark e Williams (1999), sostiene che la percezione di uno stimolo ambientale come razzista porti a risultati negativi per la salute con effetti che possono essere moderati da fattori psicologici e/o comportamentali. Il secondo è il modello del rischio e della resilienza (Rutter, 1987): tale modello sostiene che anche se i fattori di rischio possono portare a risultati disadattivi, esistono variazioni individuali nella risposta al rischio. In particolare, la vulnerabilità e i processi protettivi possono rispettivamente, intensificare o migliorare la risposta al rischio.

Quando si esaminano le correlazioni tra discriminazione razziale, razzismo interiorizzato e disagio dovuto ai sintomi ansiosi, è importante considerare anche l’età. La prima età adulta rappresenta una fase critica dello sviluppo, contraddistinta da un’esplorazione dell’identità all’interno di nuovi contesti universitari (Arnett & Brody, 2008). Purtroppo, per i giovani afroamericani, questo stadio è anche associato a una maggiore esposizione alla discriminazione razziale (Hope et al., 2015).

La discriminazione razziale può aumentare i sintomi d’ansia, in parte perché le esperienze discriminatorie possono aumentare la sensibilità nelle interazioni interpersonali (Neblett et al., 2016) e ridurre l’autostima (Yip, 2015).

La concettualizzazione di Bailey et al. (2011) rappresenta il primo tentativo di operazionalizzare il razzismo interiorizzato in dimensioni misurabili. L’alterazione dell’aspetto fisico e il cambiamento dei capelli possono essere due dimensioni particolarmente importanti del razzismo interiorizzato.

L’alterazione dell’aspetto fisico riflette la misura in cui i partecipanti desiderano alterare il loro aspetto fisico per conformarsi a un’estetica eurocentrica. Il cambiamento dei capelli esprime la misura in cui i partecipanti preferiscono i capelli lisci (cioè trattati chimicamente) ai capelli naturali. I lineamenti anglosassoni, la pelle più chiara e i capelli lisci sono standard culturali di attrattività fisica che vengono trasmessi attraverso le generazioni delle famiglie afroamericane (Parmer et al., 2004). Il continuo confronto di sé con gli ideali della società e la convinzione che il proprio valore sia collegato al proprio aspetto, può aumentare la vergogna e l’ansia (Buchanan et al.,2008).

Attualmente, solo due studi hanno esaminato l’influenza del razzismo interiorizzato sul legame tra discriminazione razziale e sintomi psicologici, e da queste premesse nasce la necessità di effettuare ulteriori approfondimenti.

Il primo obiettivo dello studio preso in esame è stato quello di valutare longitudinalmente gli effetti della discriminazione razziale sui sintomi ansiosi, ipotizzando che tale fenomeno sarebbe stato associato ad un aumento della suddetta sintomatologia. Il secondo obiettivo prevedeva di dimostrare che il razzismo interiorizzato moderasse il legame tra la discriminazione e i sintomi ansiosi. Inoltre, gli autori hanno previsto che l’alterazione dell’aspetto fisico e il cambiamento dei capelli sarebbero emersi come moderatori.

Il campione era costituito da 157 studenti universitari di colore.

Coerentemente con la ricerca precedente, la discriminazione razziale era un predittore significativo dei sintomi d’ansia nel tempo.

Inoltre, le analisi hanno rivelato che la relazione tra discriminazione razziale e disagio psicologico può dipendere dal razzismo interiorizzato. Un’associazione significativa è stata trovata tra la discriminazione razziale e l’interiorizzazione degli stereotipi negativi, ciò significa che la discriminazione razziale è stata associata ad un aumento dei sintomi ansiosi per gli individui con livelli moderati ed elevati di interiorizzazione degli stereotipi negativi. Questo risultato suggerisce che gli individui con alti livelli di interiorizzazione hanno accettato stereotipi negativi sulle persone di colore. Date queste credenze, i soggetti possono avere opinioni negative verso sé stessi e avere livelli di autostima inferiori. Di conseguenza, le esperienze di discriminazione razziale confermano queste opinioni negative, incrementando i sintomi psicologici e fisiologici dell’ansia.

È stata scoperta un’associazione significativa anche tra la discriminazione razziale e il cambiamento dei capelli, così che ai fenomeni di razzismo è stato associato un aumento dei sintomi ansiosi per gli individui con livelli moderati ed elevati di cambiamento dei capelli. Questo risultato suggerisce che gli individui che sostengono affermazioni come “i capelli lisci sono migliori dei miei capelli” sono più propensi a riportare esperienze di disagio psicopatologico.

Le analisi non hanno rivelato alcuna interazione significativa tra discriminazione razziale e alterazione dell’aspetto fisico.

Per ciò che concerne le implicazioni cliniche, questo studio sottolinea la necessità che le esperienze di discriminazione razziale vengano considerate ed elaborate nel contesto terapeutico. In secondo luogo, i risultati suggeriscono che l’interiorizzazione del razzismo può esacerbare gli effetti nocivi della discriminazione.

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