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“Ma da chi ho appreso il perfezionsimo?” Un’ipotesi di trasmissione intergenerazionale dei tratti perfezionistici

Alcuni autori hanno ipotizzato che le radici del perfezionismo siano ancorate nell’età infantile (Cook & Kearney, 2014; Karayağız et al., 2020) ed evidenziano l’influenza delle figure genitoriali.

 

A tutti probabilmente sarà capitato di dire/pensare almeno una volta nella nostra vita “ Sono/è un perfezionista!”.

In psicologia, il perfezionista è colui che esige da sé stesso e dagli altri performance di altissima qualità e standard generalmente molto alti, spesso è ipercritico e costantemente in ansia nel tentativo di svolgere le proprie mansioni sempre nel migliore dei modi (Bastiani et al., 1995; Hamacheck., 1978).

Le dimensioni del perfezionismo

Una delle concettualizzazioni multidimensionali del perfezionismo più popolari e comunemente usate consiste in un modello tripartito che include sia dimensioni intrapersonali che interpersonali: perfezionismo orientato al sé (SOP; esigere la perfezione da sé), perfezionismo socialmente prescritto (SPP; percepire gli altri come esigenti la perfezione da sé) e perfezionismo orientato agli altri (OOP; esigere la perfezione dagli altri) (Hewitt e Flett, 1991).

Spesso, queste caratteristiche personologiche vengono associate allo sviluppo e al mantenimento di diversi disturbi psicologici, sia per quanto riguarda gli adulti che i bambini (Carmo et al., 2021).

Alcuni autori hanno ipotizzato che le radici di questo costrutto siano ancorate nell’età infantile (Cook & Kearney, 2014; Karayağız et al., 2020), e, modelli che tentano di spiegare lo sviluppo del perfezionismo, evidenziano l’influenza delle figure genitoriali, nello sviluppo di tratti di personalità. Proprio sulla base di queste teorie, è stata proposta un’ipotesi di trasmissione genitore-figlio dei tratti perfezionistici (Carmo et al., 2021).

Come si sviluppa il perfezionismo

Tra i modelli teorici più riconosciuti c’è il Modello delle Aspettative Sociali e il Modello di Apprendimento Sociale (Flett et al., 2002). Per il primo modello, i bambini che percepiscono aspettative molto alte sulle loro performance da parte dei genitori, e che vengono criticati quando queste aspettative non vengono soddisfatte, nel tentativo di compiacerli e ricevere amore sviluppano del perfezionismo, facendo proprie l’autovalutazione negativa e le aspettative stesse. Il secondo modello, invece, pone l’enfasi sull’imitazione, concettualizzando il perfezionismo come tratto che si sviluppa osservando, e per l’appunto imitando, i comportamenti perfezionistici dei genitori.

Nella trasmissione dei tratti perfezionisti da genitore a figlio, due fattori sembrano inoltre assumere grande valenza: il sesso dei genitori (Flett et al., 2002) e gli stili genitoriali da loro messi in atto (Walton et al., 2020).

Per quanto riguarda il sesso, esistono due ipotesi: l’ipotesi del caregiver dello stesso sesso ipotizza che i bambini tendano per l’appunto a far proprie le caratteristiche del genitore dello stesso sesso, mentre l’ipotesi del caregiver primario prevede che le madri siano maggiormente responsabili dello sviluppo del perfezionismo a causa del più lungo periodo di tempo che trascorrono con i loro figli.

Per quanto riguarda gli stili genitoriali, Baumrind (1966) teorizza uno stile autoritario, uno permissivo e uno autorevole. La genitorialità autoritaria prevede genitori tendenzialmente rigidi, che nutrono aspettative eccessivamente alte su come i loro figli dovrebbero essere, arrivando anche a modellare, controllare e valutare i comportamenti e gli atteggiamenti dei figli. Lo stile permissivo prevede genitori poco esigenti ed altamente accettanti nei confronti dei figli, tendono ad esserci poca o nessuna punizione o regole esplicite, rendendo i figli liberi da vincoli esterni. I genitori autorevoli, invece, sono capaci di stabilire delle regole e guidare i loro figli quando necessario, sono affettuosi e reattivi ai loro bisogni, raggiungendo quindi un equilibrio tra l’affetto e la definizione delle regole. Lo stile maggiormente associato allo sviluppo di tratti perfezionisti è quello autoritario (Walton et al., 2020; Domocus & Damian, 2018; Damian et al., 2013).

La trasmissione intergenerazionale del perfezionismo

Uno studio molto recente (Carmo et al., 2021), nel tentativo di studiare il meccanismo di trasmissione intergenerazionale del perfezionismo, ha analizzato l’influenza del perfezionismo dei genitori e degli stili genitoriali percepiti sui livelli di perfezionismo riportati dai figli, indagando inoltre se il sesso dei genitori influenzasse questo processo di trasmissione.

I risultati ottenuti dallo studio sembrano supportare, almeno in parte, il modello dell’apprendimento sociale, secondo cui i bambini possono imitare i comportamenti perfezionistici dei genitori. In particolare, le madri che mostrano alti livelli di perfezionismo per sé stesse (SOP – Self-oriented perfectionism) e che percepiscono gli altri come persone aventi alte aspettative e standard eccessivamente alti nei loro confronti (SPP – Social prescribed perfectionism), hanno maggiori probabilità di avere figlie altamente esigenti con loro stesse, che percepiscono gli altri come eccessivamente esigenti e con aspettative irragionevoli.

É stata inoltre osservata una significativa associazione moderata tra alto livello di perfezionismo per sé stessi (SOP – Self-oriented perfectionism) dei padri e SPP (SPP – Social prescribed perfectionism) dei figli, suggerendo che quando i padri stabiliscono standard eccessivamente elevati e irrealistici per sé stessi, i figli tendono a percepire che anche le altre figure significative hanno aspettative rigide ed eccessivamente elevate per sé stesse.

Per ciò che concerne la relazione tra stili genitoriali e tratti di perfezionismo nei figli, lo studio dimostra che uno stile genitoriale autoritario è legato ad entrambe le dimensioni del perfezionismo (SOP e SPP) nei bambini, indipendentemente dal sesso. Questo risultato è in linea con studi che evidenziano lo sviluppo di forte autocritica nei bambini con genitori autoritari e criticanti (Kawamura et al., 2002). La medesima associazione viene riportata per gli adolescenti (Damian et al., 2013) e per l’età adulta (Zikopoulou et al., 2021). Interessante è il fatto che, indipendentemente dal sesso del bambino, gli stili genitoriali materni di tipo autoritario mostrano una correlazione maggiore rispetto agli stili genitoriali autoritari paterni. Questi risultati sono coerenti con la letteratura, in cui la madre appare come la figura predominante, anche se la durezza sia della madre che del padre è associata al perfezionismo delle figlie. (Frost et al., 1991)

Nel complesso, i risultati dello studio suggeriscono che, per alcune dimensioni del perfezionismo, sembra esistere un meccanismo di trasmissione da madre a figlia e uno da padre a figlio, con delle implicazioni in riferimento allo stile genitoriale assunto. Nonostante ciò, bisogna sottolineare e ricordare che lo sviluppo del perfezionismo coinvolge molti altri fattori, tra cui l’ambiente socioculturale, le interazioni con i pari e con altre persone (ad esempio, gli insegnanti, gli allenatori), nonché i fattori inerenti al bambino (ad esempio, il temperamento).

 

Dal laboratorio al territorio – Il caso del trattamento dell’OMS per le famiglie di bambini con autismo

Il Caregiver Skills Training è stato sviluppato dall’OMS per rispondere al bisogno delle famiglie di bambini con autismo di accedere a un intervento gratuito, evidence-based e che necessiti di poche risorse.

 

‘Treatment gap’ per l’autismo – un problema generalizzato di accesso alle cure

In Europa, un bambino su 10 affetto da autismo non ha accesso a trattamenti basati su evidenze scientifiche. Esiste infatti un esteso problema di accesso alle cure – il cosiddetto treatment gap – non solo nei paesi a basso e medio reddito, in cui la maggior parte dei bambini non accede ai servizi (Reichow et al., 2013), ma anche in quelli ad alto reddito (Salomone et al., 2016; Smith et al., 2020). In Italia, una recente analisi dell’Istituto Superiore della Sanità riporta che il 50% dei servizi pubblici di Neuropsichiatria Infantile non offre alcun tipo di trattamento specifico per l’autismo (Borgi et al., 2019) e solamente un terzo dei genitori ha accesso a training specifici per apprendere abilità utili a sviluppare le competenze dei bambini (Salomone et al., 2016).

Dal laboratorio al territorio – Cosa ci dicono i risultati sperimentali sul mondo reale

Per risolvere il treatment gap, una soluzione è lo sviluppo di nuovi trattamenti che siano efficaci ma allo stesso tempo richiedano poche risorse e possano essere accessibili a tutti. Esistono ormai molte prove, derivate da ricerche sperimentali in setting universitari, che i genitori di bambini con autismo possano apprendere con percorsi di ‘caregiver training’ quelle competenze utili a favorire lo sviluppo dei loro bambini (Oono et al., 2013). Tuttavia, un problema fondamentale nello sviluppo di trattamenti psicologici è capire quanto i risultati della ricerca sperimentale, solitamente condotta da clinici esperti e specializzati in setting di laboratorio universitari altamente controllati, siano poi effettivamente replicabili in setting di comunità. In questi contesti le condizioni sono molto diverse: l’intervento è erogato da personale sanitario non necessariamente specializzato, la platea di pazienti è molto eterogenea perché non selezionata sulla base di specifici criteri di inclusione o esclusione ed è possibile solo un ridotto controllo sull’effettiva applicazione concreta del trattamento. In altre parole: quanto i risultati ottenuti in laboratorio riflettono quelli ottenuti nel mondo reale? Una recente metanalisi (uno studio che valuta i risultati di numerose ricerche sperimentali al fine di ottenere conclusioni più precise) ha dimostrato che quando gli stessi trattamenti psicologici per bambini con autismo che hanno ottenuto risultati ampiamente positivi in setting di laboratorio – cioè alta efficacia sperimentale, o efficacy – sono implementati sul territorio, questi ottengono risultati significativamente inferiori – cioè bassa efficacia sul campo, o effectiveness – (Nahmias et al., 2019; Reichow, 2012). L’efficacia di questi interventi quindi si riduce sostanzialmente quando sono implementati nel contesto reale.

Come si può spiegare questo dato? I risultati ottenuti in setting sterili e altamente controllati spesso non tengono in conto dell’effettiva fattibilità di erogazione dell’intervento (cioè, barriere e difficoltà per l’implementazione fedele del programma, barriere alla partecipazione dei partecipanti alle sessioni o alla ‘pratica a casa’) e l’accettabilità per chi lo eroga e chi lo riceve (cioè, la comprensibilità, rilevanza, o allineamento con i valori personali dei contenuti e metodologie proposte). Ciò può avere in ultimo un effetto negativo sull’efficacia sul campo dei trattamenti proposti. Si comprende quindi come, per poter davvero ‘chiudere’ il gap nell’accesso alle cure, sia necessario non solo sviluppare nuovi trattamenti, ma anche valutare la loro efficacia clinica in contesti di comunità.

Il Caregiver Skills Training – Lo studio pilota dell’OMS in Italia

Un esempio positivo in tal senso è un recente studio condotto dall’Università di Milano-Bicocca, in collaborazione con l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), Georgia State University e Newcastle University, che ha valutato l’efficacia sul campo del Caregiver Skills Training (CST), un nuovo modello di intervento open-access per caregiver di bambini con disturbi del neurosviluppo, incluso l’autismo. Il CST è stato sviluppato dall’OMS per rispondere al bisogno delle famiglie di accedere a un intervento gratuito, evidence-based e che necessiti di poche risorse (Salomone et al., 2019). L’obiettivo principale del CST è la strutturazione di attività quotidiane in routine condivise tra bambino e caregiver al fine di fornire regolari esperienze di attenzione condivisa che lo aiutino a sviluppare nuove abilità, quali la comunicazione verbale e non-verbale, la condivisione di interessi e la regolazione dei comportamenti problema. Questo training, che consiste di 9 sessioni di gruppo e 3 visite domiciliari, fornisce ai caregiver le strategie necessarie per strutturare le attività del bambino, seguire la sua guida e usare l’affetto positivo per stabilire e mantenere routine sia di gioco che con le attività casalinghe quotidiane.

Per valutare se questo trattamento sia veramente efficace anche nei contesti in cui poi dovrebbe essere erogato alle famiglie, cioè il Servizio Sanitario Nazionale (SSN), il CST è stato prima adattato al contesto italiano ed è poi stato testato in uno studio pilota diretto dalla dr.ssa Erica Salomone dell’Università di Milano-Bicocca, all’interno del field-testing a livello mondiale condotto dall’OMS. L’adattamento del CST, con lo scopo di mantenere un’alta accettabilità del trattamento, è stato condotto da un team di ricercatori e psicologi secondo le linee guida dell’OMS (Salomone et al., 2021a). Infine, l’adattamento italiano è stato valutato e affinato da un gruppo di operatori del settore (psicologi, terapeuti del linguaggio, neuropsichiatri infantili, terapeuti della psicomotricità ed educatori). Successivamente è stata testata l’implementazione del CST nei servizi di Neuropsichiatria Infantile del SSN in uno studio pilota randomizzato controllato (RCT) sull’efficacia dell’implementazione – che coniuga la validità empirica degli studi di laboratorio, con la variabilità e complessità dell’implementazione nel SSN – il primo di questo genere realizzato in un contesto di comunità in Italia.

Lo studio ha mostrato alti livelli di fattibilità di erogazione da parte di professionisti sanitari nel contesto pubblico ed eccellente accettabilità per i caregiver. Dal punto di vista dell’efficacia sul campo, lo studio ha indicato effetti favorevoli, a 3 mesi dalla conclusione dell’intervento, sulla qualità dell’interazione genitore-bambino, sulla comunicazione non verbale del bambino, sulle competenze genitoriali a supporto dell’interazione, nonché sull’autoefficacia e lo stress genitoriali (Salomone et al., 2021a; Salomone et al., 2021b).

Uno sguardo al futuro – Tra implementazione in comunità e pandemia

In conclusione, il CST sembra essere un programma efficace, fattibile e accettabile per caregiver di bambini affetti da disturbi del neurosviluppo, tra cui l’autismo. Lo studio pilota condotto in Italia non solo ha dimostrato la sua utilità e convenienza, grazie alla bassa quantità di risorse richieste, ma anche la sua grande adattabilità. In questa direzione, un ulteriore studio è in corso al fine di valutare l’efficacia, fattibilità ed accettabilità di implementazione tramite erogazione da remoto (cioé, videoconferenze per le sessioni di gruppo e analisi di videoregistrazioni dell’interazione caregiver-bambino per le visite a casa), in accordo alle restrizioni vigenti a causa della pandemia da Covid-19.

 

Lo stress da pandemia può influenzare il benessere di mamma e bambino, agendo a livello di DNA

Dai dati preliminari di ConfiNATI (progetto MOM-COPE) di Fondazione Mondino IRCCS di Pavia, le madri hanno un rischio più elevato di ansia e depressione post parto e gli effetti dello stress materno possono finire “sottopelle”, modificando il funzionamento del DNA del piccolo e alterandone lo sviluppo.

Comunicato Stampa

 

PAVIA, 30 luglio 2021 – Si intitola ConfiNATI (studio scientifico MOM-COPE), l’innovativo progetto di ricerca che Fondazione Mondino IRCCS, l’Istituto neurologico nazionale con sede a Pavia, ha avviato da aprile 2020 con l’obiettivo di indagare i potenziali rischi per la salute materno-infantile dovuti al contesto pandemico ed evidenziare i meccanismi psicobiologici (comportamentali ed epigenetici) che legano lo stress vissuto in gravidanza con il benessere di madri e bambini nei primi dodici mesi dopo il parto.

Il progetto, finanziato dal Ministero della Salute e con il contributo di Fondazione Roche per la Ricerca Indipendente, è coordinato dal dottor Livio Provenzi, psicologo, ricercatore e psicoterapeuta e coinvolge 50 collaboratori e dieci neonatologie nel Nord Italia, geolocalizzate in città fortemente colpite dalla pandemia, tra cui Milano, Brescia, Pavia, Piacenza e Lodi.

A più di un anno dall’inizio del monitoraggio, dai dati preliminari in un campione di più di 300 donne emerge che valori più elevati di stress legato alla pandemia si associano a un più alto rischio di sviluppare sintomatologia depressiva e ansiosa dopo il parto. In più, i maggiori livelli di ansia osservati in queste donne sembrano ridurre il senso di legame e vicinanza verso il proprio bambino e aumentano lo stress legato al ruolo genitoriale.

ConfiNATI: come lo stress influenza il neonato

Tuttavia, lo stress da pandemia non incide solo sul benessere materno, ma anche sul primo sviluppo dei piccoli: è stato riscontrato infatti, che gli effetti dello stress materno possono finire “sottopelle” e avere un legame indiretto sullo sviluppo fetale e sul benessere futuro del bambino. Nei bambini nati durante la pandemia, infatti, l’esposizione allo stress potrebbe aver influenzato lo sviluppo delle capacità di essere calmati, di prendere sonno, o di prestare attenzione all’ambiente circostante nei primi mesi di vita.

Si tratta di variazioni che non sembrano superare la soglia di preoccupazione per comportamenti problematici – chiarisce la dottoressa Serena Grumi, collaboratrice del dottor Provenzi nel progett ConfiNATI (studio scientifico MOM-COPE) – Tuttavia ci raccontano di come, ancora prima di nascere, l’ambiente in cui la madre porta avanti la gravidanza diventa parte integrante della storia di vita del bambino. Possiamo quindi identificare una traiettoria di rischio nascosta, che mina la salute materno-infantile a livello della popolazione generale ed è necessario che questi dati informino al più presto strategie di prevenzione e cura con interventi mirati che raggiungano le famiglie e il territorio.

La gravidanza è infatti un periodo di grande suscettibilità e sensibilità allo stress.

Le esperienze traumatiche o stressanti vissute dai genitori – spiega il dottor Provenzi, responsabile del Progetto – possono avere effetti indiretti sullo sviluppo fetale e sul benessere futuro del bambino. Questi effetti dipendono dal fatto che il nostro DNA non è completamente immutabile e stabile; anzi, il modo in cui funziona dipende in larga misura dalle esperienze di vita.

In altre parole, il nostro DNA sarebbe capace di imparare dall’ambiente in cui viviamo, modificando il modo in cui produce proteine e neurotrasmettitori fondamentali per il benessere psicofisico. Gli scienziati si riferiscono a questa capacità del DNA di apprendere dall’esperienza con il termine “epigenetica comportamentale”. Uno dei meccanismi epigenetici è la metilazione del DNA, un processo biologico per cui alcune porzioni dei geni inclusi nel DNA possono venire progressivamente spenti o silenziati, diminuendo la disponibilità di specifiche proteine o neurotrasmettitori.

ConfiNATI: i risultati dello studio

Il progetto ConfiNATI suggerisce che i neonati di donne che hanno vissuto più alti livelli di stress durante la gravidanza in rapporto alla pandemia mostrino maggiore tasso di metilazione in corrispondenza di un gene coinvolto nella regolazione della serotonina, un neurotrasmettitore molto importante per il benessere emozionale. Inoltre, dati in corso di pubblicazione suggeriscono che una elevata metilazione di questo gene si associ – tre mesi più tardi – a una minore capacità del bambino di esprimere tonalità affettive positive (sorrisi, risate) e una minore disponibilità del bambino a coinvolgersi in scambi sociali. In altre parole, come sottolinea il prof. Renato Borgatti, responsabile della Struttura Complessa di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza di Fondazione Mondino IRCCS:

È possibile che in un periodo come la gravidanza in cui madre e bambino sono intimamente connessi a livello biologico, lo stress materno possa passare attraverso la placenta, raggiungere il feto e programmare almeno in parte il benessere futuro del bambino attraverso meccanismi di tipo epigenetico.

Questi risultati ovviamente dovranno essere confermati da studi futuri, ma ci mostrano ancora una volta come madre e bambino siano intimamente connessi, ben prima della nascita. Inoltre, se è vero che i bambini nati durante la pandemia possono mostrare difficoltà di regolazione degli stati emotivi o di disponibilità all’interazione sociale, allora è importante avviare e rafforzare i programmi di monitoraggio e di supporto alla salute materno-infantile.

La pandemia che stiamo vivendo entra a fare parte della nostra storia e della nostra esperienza; e questa viene scritta con molto probabilità nel DNA di ciascuno di noi – prosegue il dottor Provenzi – Queste ricerche ci aiutano ad assumere una prospettiva diversa nella cura di madri e bambini: una prospettiva che parta dall’idea di un apprendimento continuo della nostra biologia.

A maggior ragione, sarà importante aiutare questi bambini a fare apprendimenti che li aiutino a riscrivere o ri-annotare il proprio genoma con nuove esperienze caratterizzate da cure sensibili e rispetto delle loro peculiari individualità.

 

Variazioni della concentrazione di testosterone e competitività in concomitanza delle fasi mestruali in atlete professioniste

Il testosterone, un ormone steroideo, solitamente viene associato al dominio sociale, alla competizione e alla motivazione sessuale negli animali e nell’uomo (Archer, 2006).

 

Tuttavia, alcuni studi mostrano che l’ormone spesso agisce anche sulla motivazione: la ricerca psicobiologica suggerisce che l’aumento dei livelli di testosterone modula il funzionamento delle strutture cerebrali coinvolte nella motivazione e nelle emozioni (Packard et al., 1997); l’ormone sembra infatti migliorare la motivazione ad impegnarsi in un comportamento senza priming di ricompensa e in modo inconscio (van Honk et al., 2005). Altri autori sostengono che il testosterone (T) alimenti la motivazione a raggiungere la superiorità quando si compete per diverse risorse, elicitando comportamenti per raggiungere e mantenere uno status più elevato (Stanton & Schultheiss, 2009). Il modello biosociale (Mazur, 1985) dello status postula infatti che il testosterone suscita comportamenti per affrontare i confronti di dominio sociale, aumenta e diminuisce i suoi livelli dopo la vittoria e la sconfitta e fornisce un feedback affettivo che influenza i successivi stili di coping.

Testosterone e motivazione

Dal momento che sembrerebbe avere un legame con la motivazione, c’è un crescente interesse nei ruoli androgeni ed eccitanti del testosterone nello sport e nell’esercizio fisico, in particolare per quanto riguarda i comportamenti competitivi tra le donne (Cook & Beaven, 2013). La letteratura mostra che i cambiamenti o le differenze nei livelli di testosterone delle donne sono positivamente correlati all’autoefficacia, all’attenzione pre-evento, alla motivazione all’azione, al legame di squadra e ai carichi di lavoro (Aarts & van Honk, 2009). Il testosterone sembrerebbe essere quindi reattivo alla competizione e aumentare con l’allenamento. A conferma di ciò, i risultati di uno studio riportano una correlazione positiva tra il testosterone salivare (sal-T) e la motivazione pre allenamento di alcuni atleti maschi professionisti (Crewther et al., 2016); alti livelli di sal-T sono stati trovati anche in donne professioniste (più del doppio rispetto a donne non professioniste) e l’aumento di testosterone è stato indotto dall’esercizio fisico, sostenendo così potenzialmente quei comportamenti necessari per mantenere le prestazioni a livello agonistico (Keizer et al.,1987).

Diversi studi hanno riscontrato che nelle donne la concentrazione di testosterone varia anche con le diverse fasi del ciclo mestruale; solitamente si verifica un aumento di testosterone fino al 40% a metà ciclo o in fase ovulatoria, seguito da una diminuzione durante la fase follicolare, prima fase del ciclo ovarico che termina con l’ovulazione, e luteale, fase che segue la maturazione dei follicoli e che decorre fra l’ovulazione e l’inizio del periodo mestruale successivo (Cook, 2018). Inoltre sembra che tra le donne atletiche il testosterone aumenti conseguentemente ad uno stressor fisico durante l’ovulazione (16%) rispetto alle altre fasi (6-8%) (Crewther, 2019).

Testosterone e competitività

Poiché fino ad oggi nessuna ricerca ha esaminato l’effetto della sal-T sulla competitività nelle atlete, Crewther e colleghi (2018) hanno condotto uno studio longitudinale con l’obiettivo di indagare il legame tra il livello di testosterone salivare e la competitività in atlete agoniste e non agoniste. In particolare, i test sono stati eseguiti durante le tre fasi mestruali (follicolare, ovulatoria e luteale) e hanno tracciato il profilo della variazione dei livelli di sal-T e due misure di competitività legate allo sport: desiderio di competere e motivazione nell’allenamento. Le ipotesi formulate dagli autori erano che il testosterone salivare e la competitività sarebbero risultati elevati in fase di ovulazione rispetto alle altre fasi, che i cambiamenti di sal-T sarebbero stati più marcati nelle atlete professioniste e infine che queste ultime avrebbero mostrato relazioni più forti tra sal-T e competitività. Trenta atlete di diversi sport sono state reclutate e suddivise in due gruppi: atlete concorrenti a livello nazionale (professioniste) e atlete competitive in club o ricreativi (non professioniste) (Pokrywka et al., 2005); entrambi i gruppi sono stati monitorati nelle tre distinte fasi del ciclo mestruale: il test si è verificato nei giorni 6-8 (fase follicolare), 13-15 (fase ovulatoria), e 20-22 (fase luteale), dall’inizio delle mestruazioni precedenti e, dopo un prelievo salivare, alle atlete sono state poste alcune domande sulla competitività.

Come ipotizzato, il testosterone salivare ha mostrato fluttuazioni significative in concomitanza delle fasi mestruali: un aumento dalla fase follicolare a quella ovulatoria, seguito da una diminuzione in fase luteale. Tali risultati sono coerenti con i dati inerenti al sal-T in donne sane in età riproduttiva (Roney & Simmons, 2013). In particolare i cambiamenti del testosterone sono risultati più pronunciati nelle atlete professioniste, le quali hanno mostrato anche un picco in fase ovulatoria sia del desiderio competitivo sia della motivazione all’allenamento (Crewther & Cook, 2018). Ci sono diversi dati in letteratura che forniscono come spiegazione il fatto che esercitare il potere in modo mascolino durante una prestazione sportiva aumenti i livelli di sal-T nelle donne, per cui un’elevata concentrazione di testosterone potrebbe anche essere il prodotto di comportamenti mascolini per raggiungere e mantenere il dominio fisico. Un’ulteriore spiegazione può essere la selezione naturale per cui gli individui che possiedono livelli elevati di testosterone di base spesso scelgono uno stile di vita attivo e prediligono gli sport che massimizzano il loro potenziale di adattamento.

Infine, una maggiore competitività intrasessuale in fase ovulatoria, determinerebbe anche cambiamenti in  diversi altri ambiti oltre allo sport, tra i quali le scelte economiche, i comportamenti per migliorare il proprio aspetto (Saad & Stenstrom, 2012) o la posizione sociale (Durante et al., 2014) e le preferenze per i volti maschili (Welling et al., 2007).

 

Psicologia del denaro: esistono soldi zen? Pensieri limitanti sul connubio denaro-spiritualità

È la psicologia del denaro ciò che determina la relazione con la ricchezza, la quale dipende in particolare dalle nostre credenze.

 

Adriano Tilgher, giornalista e pubblicista dei primi del ‘900, nel suo saggio Homo Faber, scrive: ‘‘È facile deridere l’imprenditore o l’uomo d’affari, che da mane a sera si consuma in un lavoro senza tregua, accumulando ricchezze che non ha tempo né voglia di godere; è facile accusarlo di mancare di spiritualità. Ma intanto egli genera vita a torrenti intorno a sé; ma intanto egli gusta a volte la gioia divina del creatore e sempre, o quasi, la calma fresca e profonda delle energie disciplinate. Dopodiché, padrone chi vuole di trovarlo meno spirituale dell’asceta della Tebaide, assalito la notte dagli incubi dei sensi insoddisfatti, snervato il giorno dalla noia di un’esistenza inerte e monotona, che passa la vita a intrecciare stuoie, che poi, dopo averne fatto un bel mucchio, deve bruciare, mancandogli in quel deserto di pietre e di scorpioni clienti a cui vuole venderle’’. In questo passo l’autore esprime il concetto della conflittualità tra ricchezza e spiritualità. L’autore infatti espone le divergenze che possono nascere tra coloro che vivono di denaro (l’imprenditore) e coloro che vivono di spiritualità (l’asceta), tracciando tra di essi una netta linea di demarcazione.

Quello che risulta difficile da comprendere è se, appunto, questi due ‘status’ appartengano o meno ai due poli opposti di uno stesso continuum, o se al contrario possono trovare un punto d’incontro.

Secondo il dizionario Treccani il termine spiritualità è etimologicamente legato ad una particolare sensibilità e profonda adesione ai valori spirituali: la spiritualità del soggetto lo porta a disinteressarsi dei problemi concreti. Così ad esempio parliamo di un uomo, artista o scrittore di grande spiritualità.

Il denaro è invece, nel senso comune, legato ad un valore economico rispetto a determinati beni ed ottenibile attraverso l’attività lavorativa che in tal senso risulta essere il mezzo attraverso il quale raggiungere il fine: il guadagno. Questa visione meccanicistica (di causa-effetto) del lavoro svolto come modalità d’azione utile per raggiungere solo quel determinato scopo, genera uno dei primi pensieri limitanti rispetto a tale questione. Infatti, se si cambiasse prospettiva e ci si approcciasse all’impiego non come mezzo diretto ad una meta, ma come un’attività svolta per sé stessa, ecco che forse l’opinione corrente muterebbe. Cos’ha di diverso un artista che vende i suoi dipinti da un uomo d’affari che gestisce i propri capitali in un’attività economica?

L’inghippo è spesso collegato al binomio materiale-immateriale. Ciò che è materiale è definito come superficiale e consumistico, al contrario ciò che è immateriale è legato ad un’accezione considerata divina.

In realtà, si potrebbe dire che ciò che fa di un uomo un essere spirituale, inteso come non egoista e privo dei sensi di colpa legati al guadagno, è l’intenzione che esercita sull’azione che svolge. Nel momento in cui i soldi vengono concepiti come un flusso, e non come dei pezzi di carta finalizzati al consumo e/o all’arricchimento, ecco che la prospettiva cambia. Il flusso implica un continuo ciclo in cui il denaro circola in maniera continua, un po’ come il nostro respiro fa fluire l’ossigeno all’interno del nostro corpo.

L’ecosistema che verte intorno ai soldi è molto più complesso di quanto crediamo, e se facessimo un’analisi più accurata forse capiremmo anche che coloro che guadagnano e non risparmiano non sono necessariamente individui che amano ostentare la loro ricchezza, ma sono persone che attraverso i loro investimenti producono nuovi circoli di denaro producendo spesso occasioni lavorative. Quindi potremmo vedere gli investimenti come una forma di altruismo.

Denaro e spiritualità possono intendersi nel momento in cui il denaro non viene demonizzato come oggetto ‘del male’ dell’uomo, ma come aria che circola, come circola la stessa energia divina o universale che l’ascetico avverte nel mondo.

Marx Weber spiega, in una importante sua opera, le ragioni del ‘razionalismo economico’ e, citando Lutero, scrive che ‘‘il lavoro professionale è un compito o meglio il compito assegnato da Dio’’ e, pertanto, una ‘‘espressione esterna dell’amore verso il prossimo’’. Poi, citando Baxter (AChristian Directory,1678) scrive sempre Weber ‘‘Ciò che la morale veramente condanna è l’adagiarsi nel possesso, il godimento della ricchezza con la sua conseguenza di ozio e di concupiscenza e, soprattutto, con la conseguenza di deviare dal faticoso cammino verso la vita santa’’.

È la psicologia del denaro ciò che determina la relazione con la ricchezza, la quale dipende in particolare dalle nostre credenze. A partire dal 1951, con il lavoro di George Katona nella sua opera L’analisi psicologica del comportamento economico, si trova il primo tentativo di unire psicologia ed economia quando, ancora un decennio prima, si leggeva tra le righe di uno dei più importanti manoscritti di Marx: ‘‘Ciò che mediante il denaro è a mia disposizione, ciò che io posso pagare, ciò che il denaro può comprare, quello sono io stesso, il possessore del denaro medesimo. Quanto grande è il potere del denaro, tanto grande è il mio potere. Le caratteristiche del denaro sono le mie stesse caratteristiche e le mie forze essenziali, cioè sono le caratteristiche e le forze essenziali del suo possessore. Ciò che io sono e posso non è quindi affatto determinato dalla mia individualità. Io sono brutto, ma posso comprarmi la più bella tra le donne. E quindi io non sono brutto, perché l’effetto della bruttezza, la sua repulsività, è annullata dal denaro (…). E se il denaro è il vincolo che mi unisce alla vita umana, che mi unisce alla società, che mi collega con la natura e gli uomini, non è il denaro forse il vincolo di tutti i vincoli, il vero cemento, la forza galvano-chimica della società?’’ (Karl Marx , Manoscritti economico-filosofici, 1844). Questa interpretazione del denaro è frutto di un’epoca in cui il guadagno sembrava essere l’unico generatore di senso, secondo quanto detto dall’autore, e quindi gli aspetti legati alla personalità e alla soggettività venivano spazzati via da questa forza egemone rappresentata dai soldi, che plasmavano in una dimensione prettamente quantitativa. Il denaro dunque è rappresentato come il metro di misura non solo della quantità, bensì anche del proprio modo di vivere e della propria essenza dinanzi agli altri.

Katona comincia invece ad affiancare la dimensione economica a quella prettamente psicologica, legata ad attività umane come il relazionarsi con gli altri, il pensiero e la capacità di elaborare idee. La comprensione dei processi economici muta nel momento in cui si focalizza l’attenzione sugli individui considerati in quanto tali e non come astrazioni, dimenticando o nascondendo le innumerevoli deviazioni e aberrazioni provocate dall’umana fragilità al solo scopo di poter fare raffronti utili e che si mantengano intatti (Katona,1951).

Quanto scritto sopra ha senso nel momento in cui l’attività economica è strettamente collegata al comportamento dell’uomo. E il comportamento è un fattore intrinsecamente collegato ad aspetti psichici dell’individuo. Si può dedurre come sia fondamentale lo studio della motivazione, delle credenze e delle aspettative dei singoli per facilitare la comprensione dei fenomeni economici.

Il ‘sentirsi ricchi’ è una percezione soggettiva, molto più spirituale di quanto si possa pensare. Non si può ridurre il guadagno ad una questione meramente oggettivistica e materialistica, altrimenti perché esisterebbero miliardari che in realtà sono spiritualmente poveri? Questa loro condizione rende conseguentemente anche il denaro che possiedono come privo di valore.

Il denaro può essere considerato zen perché può generare scambio, empatia e collaborazione.

In conclusione, se il proprio lavoro oltre ad essere una professione non è una passione e non porta quindi giovamento personale in termini ad esempio di autostima ed autorealizzazione, probabilmente i soldi che verranno guadagnati saranno ‘tristi’. In quest’ottica, come ben spiega Ken Honda nel suo libro ‘Happy Money’, il denaro non è un semplice numero o pezzo di carta, ma è un’energia che porta positività o negatività in base alle percezioni soggettive del suo possessore (Ken Honda, 2019).

 

L’organizzazione a network delle aree cerebrali nella malattia di Parkinson

Nella malattia di Parkinson è particolarmente comune il riscontro di una sindrome disesecutiva, caratterizzata da difficoltà nell’esecuzione di compiti complessi, nella pianificazione a lungo termine, nella memorizzazione e nel richiamo di nuove informazioni.

 

Un’architettura ben definita

Oggetto di grande interesse e di ricerca negli ultimi dieci anni, il connettoma, descrive lo studio dei network cerebrali; utile infatti nel delineare un’attività continua e riverberante non tanto di un singolo neurone, quanto di più neuroni attivi contemporaneamente (Hebb, D. O., 1949).

La connettività pertanto, se da un lato evidenzia l’attività di più assemblee neuronali, al contempo ne esplica le rispettive caratteristiche: funzionali e strutturali. La prima è di tipo anatomico ed evidenzia come le aree cerebrali siano tra loro connesse tramite collegamenti fisici, rappresentati dai filamenti di materia bianca (Faingold, C, Blumenfeld, H., 2014). Si riferisce oltremodo alle variazioni morfologiche (cerebrali) conseguenti sia all’apprendimento sia al declino delle capacità già apprese di elaborazione motoria o cognitiva (Sale, A, Berardi, N., 2014).

Invece, sotto il profilo funzionale, viene messo in risalto il concetto di network, ossia l’insieme di collegamenti che prende vita tra distretti cerebrali distanti e anatomicamente non collegati tra loro, basandosi sulla presenza e compresenza di segnali chimici con carattere elettromagnetico; per lo più è associato allo studio delle capacità di riorganizzazione dell’attività cerebrale in seguito all’apprendimento o durante il processo di recupero di un danno, che avvengono senza modificazioni del substrato anatomico.

Entrambi i profili (strutturale/funzionale) nel loro insieme consentono di mettere in coerenza i neuroni del circuito che si trovano ad essere reclutati per la stessa funzione senza legami fisici.

La variazione dell’architettura e dell’organizzazione cerebrale correlate al processo di plasticità (Schurz, M., Radua, J., 2014) possono essere inoltre analizzate sia a livello spazio temporale sia a livello di complessità. Infatti, se nel primo caso la plasticità può durare microsecondi sino a modificazioni perenni, a livello spaziale invece le modificazioni possono interessare intere regioni cerebrali e le relative connessioni interregionali (Sporns, O., 2012).

I contributi degli studi di RM sia morfologici che funzionali hanno infatti consentito di rilevare ed evidenziare le variazioni della plasticità cerebrale a livello di grande scala nei processi di riorganizzazione funzionale a seguito di una lesione. Sulla base di quanto descritto sinora, la plasticità neuronale risulta sottesa ad un processo di neurogenesi in rapporto all’ambiente circostante (Cajal, S., 1913).

Quest’ultima sembra circoscritta nello specifico a due zone presenti nel cervello adulto, rispettivamente la zona subventricolare e il giro dentato dell’ippocampo, due zone generative che risulterebbero coinvolte nei meccanismi alla base della neurogenesi stessa.

Il concetto di nicchia neurogenetica e la psiconeuroendocrinoimmunologia

L’aspetto peculiare che emerge è dato dalla compresenza di una pluralità di fattori in interazione tra loro e che in sintonia promuovono un cablaggio di più aree capaci di produrre nuove cellule, dando vita a quella che viene definita nicchia neurogenetica (Kempermann, G., 2011).

Ma questa interazione risente sempre di un equilibrio omeostatico interno all’organismo oppure possono subentrare ulteriori fattori disfunzionali?

Nel 1993 infatti Heather Hameron ed Elisabeth Gould, utilizzando un nuovo metodo di indagine che combina 3H-timidina con immunoistochimica, che identifica un marker specifico per i neuroni (chiamato NSE Neuron Specific Enolase), confermarono non solo come la neurogenesi si collochi a livello ippocampale, ma anche come lo stress intacchi il processo neurogenetico stesso (Bottaccioli, F, Bottaccioli, A, G., 2020).

Nel loro insieme tali concetti offrono un panorama rispetto al quale l’equilibrio interno all’organismo non può essere riducibile ad un fattore causale, ma al contrario correlabile ad un’omeostasi interna che chiama in causa la visione psiconeuroendocrinoimmunologica.

Infatti i fattori interni alla nicchia neurogenetica sono di varia natura tra i quali: molecole del sistema immunitario come le citochine IL-1, IL-6, TNF-α prodotti da astrociti e dalla microglia, fattori di crescita e di plasticità come il BDNF prodotto dai neuroni maturi e il VEGF, i quali in maniera reciproca e simultanea formano una rete di segnalazione che rende tale nicchia una rete composta da molecole diffuse a tutto il cervello, riguardante numerose aree cerebrali (Ziv, Y, Ron, N., 2011).

Nel panorama scientifico, se si parla di neurogenesi post natale, è altresì possibile ipotizzare come quest’ultima non solo risenta della dimensione epigenetica, ma anche come la stessa vada incontro sia ad un rafforzamento che ad un deterioramento durante il corso della vita.

Il contributo della neurogenesi ippocampale

La dimensione epigenetica infatti consente di comprendere come un ambiente stimolante sia promotore di quei cambiamenti e riorganizzazioni che vedono l’organismo in costante mutamento, a differenza di quei fattori disfunzionali che ne possono intaccare lo sviluppo, soprattutto durante la vecchiaia.

Durante questa fase della vita la neurogenesi ippocampale comincia a indebolirsi, ma non in maniera drastica, in quanto il proprio background fisiologico ed esperienziale consente di capire se si è in grado di far fronte ai nuovi stimoli in maniera più o meno adattiva (Bergmann, O, Spalding, K, L., 2015).

Nello specifico, infatti, un cervello che invecchia in salute continua a produrre neuroni nell’ippocampo e nello striato, ossia in quelle aree cerebrali importanti e fondamentali per le attività cognitive e di memoria.

Nella malattia di Parkinson lo stesso striato risulta infatti centrale non solo per l’attività motoria (i cui sintomi sono connessi all’atrofia delle cellule di questi nuclei che producono dopamina), ma risulta pienamente coinvolto anche nei circuiti emozionali e cognitivi.

In questa malattia neurodegenerativa le funzioni cognitive rientrano in quella categoria che prende il nome di sintomi non motori, i quali sotto il profilo neuropatologico si discostano dalla visione esclusivamente dopaminergica, interessando e coinvolgendo ulteriori sistemi caratterizzati da neuroni colinergici del nucleo basale di Meynert, neuroni noradrenergici del locus coeruleus, quelli serotoninergici degli emisferi cerebrali e del sistema nervoso autonomo. Valorizzando così come l’interazione tra più sistemi e il rispettivo grado di equilibrio più o meno funzionale, possa apportare notevoli cambiamenti.

Inoltre le funzioni cognitive sembrerebbero essere compromesse a seguito della deposizione dei LB (corpi di Levy), i quali coinvolgono nella fase avanzata della malattia le aree corticali.

Tali alterazioni che accompagnano la malattia di Parkinson sono di entità generalmente lieve ma, in una percentuale variabile a seconda degli studi, possono evolvere in un quadro di demenza. È particolarmente comune il riscontro di una sindrome disesecutiva, caratterizzata da difficoltà nell’esecuzione di compiti complessi, nella pianificazione a lungo termine, nella memorizzazione e nel richiamo di nuove informazioni.

La presenza di un significativo deterioramento cognitivo, non solo limita le opzioni e gli interventi terapeutici, ma si accompagna oltremodo all’insorgenza di allucinazioni, depressione grave e ad una nuova modalità psicosomatica di far fronte agli eventi cui l’organismo va incontro.

Nondimeno questi cambiamenti rispecchiano all’unisono una riorganizzazione dell’organismo, il quale sotto il profilo neuroendocrino può apportare notevoli modifiche, favorendo in maniera adattiva o meno una flessibilità al cambiamento o viceversa un deterioramento riscontrabile anche al dominio cognitivo stesso.

Tale dimensione (neuroendocrina), assieme a quella epigenetica, permette dunque di capire come spesso e volentieri i domini cognitivi risultino caratterizzati e inficiati da un proprio modo di stare al mondo e di farvi fronte, evidenziando così come un substrato fisiologico ed un background neurobiologico esperienziale possano rappresentare linee guida e chiavi di lettura acquisite nel tempo.

Stimoli ambientali sia esterni che interni (emozioni e stress) apportano cambiamenti nella produzione di ormoni surrenalici, tiroidei e gonadici tramite la produzione di ormoni ipofisari stimolati da fattori ipotalamici.

Come sottolineato già a partire dagli anni trenta da Geoffrey W. Harris (Harris, G, W., 1951) è proprio l’ipotalamo a dirigere la “danza”, un’affermazione che facilmente si correla a quanto riportato successivamente da Bruce Mc Ewen (MC Ewen, B, S., 1968), il quale ha affermato come il cervello non solo comanda la produzione di ormoni, ma al tempo stesso ne risulta essere il bersaglio.

Quanto riportato da entrambi gli autori, offre l’opportunità non solo di valorizzare l’unità psicosomatica e dunque la stretta unità Mente-Corpo, ma al contempo di comprendere il ruolo svolto dai feedback ormonali sul cervello (MC Ewen, B, S., 2015). Questi ultimi, infatti, regolando le funzioni ipotalamiche hanno un grandissimo impatto soprattutto sulle funzioni neurologiche, cognitive ed emozionali.

Il rimodellamento dell’architettura cerebrale si costituisce grazie al cablaggio più o meno adattivo di più sistemi (neurovegetativo, metabolico, immunitario e neuroendocrino), i quali risentono dell’impronta di meccanismi epigenetici nel corso della vita (Nasca, C, Zelli, D., 2015).

Assi e circuiti dello stress e implicazioni a livello cognitivo

Lo stress, come riportato da Hans Seyle, è l’essenza della vita, perché la sua attivazione coinvolge in contemporanea numerosi fattori esterni ed interni all’organismo stesso. Tuttavia, se i livelli fisiologici da un lato permettono di reagire e far fronte agli eventi quotidiani chiamando in causa opportune risorse energetiche, dall’altro non sempre le modalità dell’organismo risultano adattive e flessibili al cambiamento.

Il Corticotropin-Releasing Hormone (CRH) risulta infatti essere l’attivatore della catena neuroendocrina dello stress e il suo ruolo non è circoscritto ad un singolo distretto corporeo, in quanto diffusamente presente nel cervello, più nello specifico nell’amigdala, nella corteccia cingolata, nel locus coereleus e in altre aree cerebrali. Se nel breve periodo l’effetto del cortisolo è quello di mobilitare le risorse energetiche, a lungo termine invece, qualora i livelli fisiologici non rientrino nella norma, possono verificarsi effetti di natura patogena.

Sulla base di quanto accennato in precedenza, e in relazione a quanto appena introdotto, ciò vuol dire che a livello cerebrale si assiste ad una riorganizzazione inerente aree cruciali, con una possibile riduzione dei dendriti nell’ippocampo e nella corteccia mediale prefrontale.

Nello specifico si assiste ad una riorganizzazione cerebrale che è di tipo epigenetico e quindi potenzialmente reversibile, tramite il rilascio di glutammato, il quale non solo provoca effetti tossici sui neuroni ma al contempo il blocco della produzione di cellule nervose, inficiando così la neurogenesi ippocampale.

Inoltre, come riportato da Ron Kloet il ruolo del cortisolo è strettamente correlato a quello svolto dai rispettivi recettori, l’MR (mineralcorticoide) e l’GR (glucocorticoide). (De Kloet, E, R., 2005) (De Kloet, E, R, 2014). Sulla base delle ricerche condotte dall’autore è emerso come ambo i recettori siano presenti nel cervello, soprattutto nell’ippocampo e nell’ipotalamo. Ciò vuol dire che in una fase di persistente stress cronico il sistema limbico risente di un’alterazione del rapporto tra i recettori sopracitati, provocando una riduzione dei recettori MR, che porta ad un assetto disfunzionale dell’asse ipotalamo ipofisi surrene.

In relazione al piano cognitivo è stato inoltre dimostrato come la stimolazione del recettore MR causi una regolazione della produzione di cortisolo e al contempo un miglioramento della memoria, la quale risulta intaccata in fase di stress ripetitivo (Ferguson, D, Sapolsky, R., 2008).

Nondimeno nel 2013 (Groch, S, Wilhelm, I., 2013) un gruppo di ricercatori ha dimostrato come la somministrazione di fludrocortisone apporti miglioramenti relativi alla memoria verbale e alle funzioni esecutive. Nello specifico tali miglioramenti presentano una plausibilità biologica perché l’ippocampo e le aree prefrontali, cruciali per queste funzioni, hanno un’elevata espressione di MR. Inoltre un effetto positivo del fludrocortisone è stato riportato anche in rapporto alle cellule progenitrici dell’ippocampo, in quanto l’agonista dell’MR sarebbe protettivo e funzionale per la neurogenesi, la quale risulta bloccata dall’iperattivazione del recettore GR (Gesmundo, I, Villanova, T., 2016).

 

Quant’è bello lu primm’ammore… “Primi Amori. Uno, nessuno e centomila” (2021) di Umberta Telfener – Recensione

Primi Amori è un libro molto godibile e di facile lettura; prosegue l’indagine sulla fenomenologia delle relazioni affettive a cui l’autrice ha dedicato altri scritti rivolti ad un pubblico ampio.

 

Avviso ai lettori. Conosco personalmente da diversi anni l’autrice di questo volume. Non posso definirmi proprio un suo amico, ma, essendo entrambi didatti di scuole di formazione ad orientamento sistemico-relazionale, ho avuto modo di ascoltarla in tanti convegni e di incontrarla in occasioni informali. Ne apprezzo la competenza clinica ma anche la facilità al racconto, la disponibilità generosa verso colleghi e allievi, la carica vitale. Ho letto con grande interesse, su suo suggerimento, gli articoli in cui descrive le sue esperienze con sciamani, stregoni e altri guaritori avvenute negli anni in diversi continenti.

Quindi, posso risultare di parte e non sono neutrale. D’altro canto, l’obiettività assoluta è ormai da molti riconosciuta come un miraggio e, quale che sia il rapporto con l’autore, una recensione è sempre espressione di una soggettività.

Il libro è molto godibile e di facile lettura. Prosegue l’indagine sulla fenomenologia delle relazioni affettive a cui l’autrice ha dedicato altri scritti rivolti ad un pubblico ampio (Tra gli ultimi: “Gli amori briciola” e “Letti sfatti”). Non è scritto in “psicologhese” e le tante descrizioni delle esperienze personali, raccolte direttamente dalla Telfener o reperite in rete, costituiscono il punto di partenza da cui si dipana il ragionamento dell’autrice. Nato durante i mesi di isolamento che hanno accompagnato il primo anno di pandemia, occuparsi di amore è stato per la scrittrice un bel modo di allargare i propri confini. Il libro è strutturato in tre parti: la prima concerne le idee e i modelli, veicolati dalla letteratura e dai mezzi di comunicazione di massa, che ci organizzano attorno al tema del primo amore; la seconda contiene le tante testimonianze, tutte italiane, di persone che raccontano le proprie esperienze affettive e sessuali; la terza è dedicata allo svelamento della trama psicologica propria dell’esperienza dell’innamoramento.

I primi amori si declinano in tante modalità, non sono affatto un’esclusiva degli adolescenti. Anzi, come racconta una donna intervistata, esistono tanti primi amori per quante relazioni importanti si sono avute nella vita.

Particolarmente interessanti i capitoli dedicati all’innamoramento e su ciò che ci attrae dell’altro, le pagine dedicate alle differenze attuali tra donne e uomini, al ruolo della famiglia d’origine e delle idealizzazioni. Ogni volta che ci si innamora è sempre una “prima volta”.

Dopo la lettura del libro viene da chiedersi se il primo amore contiene un imprinting relazionale, ovvero un modello di rapporto che continueremo a impiegare tutta la vita. Oppure si cresce e si cambia? È possibile imparare dai propri errori in campo sentimentale? Certo che sì. Mi pare sia questa la risposta di Umberta, che comunque ci tiene a ricordarci come nei confronti dell’innamoramento siamo tutti dei dilettanti, quale che sia la nostra età, la nostra cultura, le nostre esperienze pregresse.

In ogni caso, quello che è certo è che per lei amore non ha nulla a che vedere con possesso. Anzi, questo costituisce uno dei nemici principali dell’amore. Leggendola, a tal proposito, mi è venuto in mente un aneddoto che raccontava Paolo Menghi. Presente in una chiesa durante la cerimonia della prima comunione di un gruppo di bambini, egli affermava che era facile indovinare chi fossero i parenti di ciascun bambino. Il sacerdote li aveva preparati molto bene e a turno salivano sull’altare per declamare un proprio pensiero o una personale preghiera. Ogni volta che un bambino parlava, c’era un gruppetto di persone che si commuoveva e poi si rimetteva a posto, magari nascondendo le lacrime con un fazzoletto, quando il bambino terminava. A quel punto, ascoltandone un altro, in un’altra navata iniziava lo stesso movimento tra un altro gruppo di persone. Menghi notava come in genere tutti si commuovessero ascoltando il proprio congiunto mentre tendevano a distrarsi ascoltando gli altri. Ma in realtà tutti i bambini erano splendidi, nel loro uguale impegno. Eppure nessuno riusciva a godere della grazia di tutti ma solo del proprio figlio o nipote. Maledetto possesso, quanta bellezza sprecata…

Imparare ad amare ciò che ci circonda, fino all’Universo intero, è dunque anche il messaggio con cui si chiude il libro. Ma serve disciplina e perseveranza per poter vivere un perenne primo amore, fatto di curiosità, apertura e fiducia.

Esiste una relazione fra teorie del complotto e tratti disfunzionali di personalità? Uno studio su giovani inglesi

Le teorie del complotto sono definite come narrazioni essenzialmente false in cui si ritiene che più agenti stiano lavorando insieme verso fini malevoli.

 

Douglas et al. (2019) notano che si tratta di tentativi di spiegare le cause ultime di eventi sociali e politici significativi mediante affermazioni di complotti segreti riguardanti due o più agenti potenti. Il numero copioso di persone che dà credibilità alle teorie del complotto ha attirato una grande quantità di ricerche.

Da uno studio recente è emerso che credere alle teorie del complotto è associato a una serie di caratteristiche dei disturbi di personalità e sintomi psicopatologici (Bowes et al., 2021).

Teorie del complotto, sospettosità e pensieri insoliti

È stato riportato che le teorie del complotto aiutano a dare un senso agli eventi che vengono considerati confusi, difficili da comprendere o mal spiegati dalle fonti di informazione tradizionali. Possono esistere, inoltre, tratti cognitivo-percettivi disadattivi che contribuiscono alla formazione o al mantenimento delle teorie del complotto (Van Elk, 2015).

Alcuni studi hanno esplorato il legame tra credenze alle teorie del complotto e tratti come la paranoia, l’ideazione magica e la credenza al paranormale, trovando associazioni positive tra la credenza alle teorie del complotto e la schizotipia (Darwin et al., 2011; Swami et al., 2016). In particolare, hanno suggerito che i tratti di sospettosità visti negli individui ad alto contenuto schizotipico possono portare a non credere alle fonti di informazione ufficiali o mainstream. Goreis e Voracek (2019) hanno notato che le teorie del complotto fanno appello a coloro che si sentono disconnessi dalla società, infelici della loro vita e che hanno una visione del mondo che include convinzioni, esperienze e pensieri insoliti.

Teorie del complotto e tratti di personalità

Lo studio di Furnham e Grover (2021) ha esplorato la relazione tra la credenza alle teorie del complotto e i disturbi di personalità. Allo studio hanno partecipato 450 individui britannici mediamente ventinovenni, di cui 240 uomini. Il grado di educazione riscontrato fra i partecipanti era: 31% diploma di scuola superiore, 36% diploma di laurea e 19% diploma post laurea. Inoltre il 73% dei partecipanti si è dichiarato per niente religioso ed il 4% molto religioso. I soggetti dello studio sono stati reclutati online, utilizzando la piattaforma “Prolific” e garantendo l’anonimato dei dati. La ricompensa stabilita per la partecipazione era di £1.50. Per verificare le ipotesi di partenza sono stati utilizzati quattro questionari self-report. Le informazioni riguardo alla personalità sono state raccolte utilizzando il “Coolidge Axis-II Inventory – Short Form” (SCATI) (Coolidge, 2001) ed il “Structured Assessment of Personality Abbreviated Scale” (SAPAS) (Moran et al., 2003). Il primo fa riferimento ad un approccio categoriale, ovvero legato ai criteri diagnostici proposti nel DSM, il secondo ha una natura dimensionale e meno strutturata. Per misurare le credenze legate alle teorie del complotto è stata usata la scala a 15 item “Belief in Conspiracy Theories” (BCTI) (Swami et al., 2010, 2011). In questa fase i partecipanti hanno valutato la validità delle cospirazioni in una scala a 9 punti in cui 1 equivaleva a “completamente falso” e 9 “completamente vero”. Il quarto test proposto è “Intelligence” (Grover, 2018), un questionario a 10 item per valutare il quoziente di intelligenza, basato anche sulle conoscenze culturali dei soggetti (es. “Qual è l’unità di misura dell’intensità del suono?”). Infine, per valutare il livello di autostima, è stato chiesto ai partecipanti di attribuire un punteggio da 0 a 100 in cui 0 indicava “Molto bassa” e 100 “Molto alta” (Furnham & Horne, 2021).

Le correlazioni positive emerse dallo studio di Furnham & Grover (2021) dimostrano che le teorie del complotto possono essere associate ad una vasta gamma di disturbi. Risultano di particolare rilevanza le relazioni fra tratti sadici e teorie del complotto e tratti autolesionisti e teorie del complotto. La prima può essere spiegata dal desiderio di spaventare e intimidire gli altri mentre la correlazione tra tratti autolesionisti e teorie del complotto potrebbe essere motivato dall’insieme di negatività, tristezza e preferenza per le persone che portano alla delusione, al fallimento o al maltrattamento associabili a questo tipo di tratti. I risultati hanno dimostrato che i cluster di ordine superiore sono i predittori più chiari delle teorie del complotto, soprattutto il cluster A il quale comprende il disturbo paranoide, schizoide e schizotipico di personalità. Le caratteristiche comuni di questi disturbi sono l’inibizione sociale, il ritiro sociale, la predominanza del pensiero distorto ed una mancata sincronia con il mondo circostante (Esterberg et al.,2010). Altre due variabili correlate alle teorie del complotto sono: il grado di istruzione e l’intelligenza (QI). Nello specifico sembrerebbe che le persone più istruite siano più scettiche, meno religiose e pertanto meno attratte dalle teorie del complotto (Goreis & Voracek, 2019). Pertanto, si pensa che l’istruzione e la formazione siano tra gli strumenti migliori per contrastare la diffusione delle credenze nelle teorie del complotto. La scala SAPAS (Moran et al., 2003) non ha fornito dati significativamente utili per la ricerca. Ciò suggerisce che brevi misure di screening dei disturbi di personalità non sono sufficientemente utili per esplorare la relazione tra disturbi di personalità o tratti patologici e teorie del complotto. Il presente studio presenta potenzialmente dei limiti quali la trasversalità, l’autosomministrazione dei test, l’impossibilità di dedurre il rapporto di causalità fra le variabili e sovrastime legate alle statistiche. Gli autori suggeriscono per le ricerche future sulle teorie del complotto di esplorare ulteriori variabili di personalità non precedentemente implicate nella ricerca (Furnham & Grover, 2021).

 

Bias Vs campagna di vaccinazione. Il ruolo del ragionamento: indecisi e determinati.

L’emergenza da Covid-19 e la conseguente campagna vaccinale ha fatto emergere diversi giudizi e valutazioni circa l’utilità del vaccino. In questo articolo si descrivono alcuni processi cognitivi sottesi alle diverse reazioni.

 

Il 27 dicembre 2020, abbiamo assistito al “Vaccine day”, giornata che ha sancito ufficialmente l’inizio della campagna vaccinale per contrastare la pandemia da Covid-19.

Per più di un anno la campagna vaccinale ci è stata presentata come l’unica risoluzione al panico generatosi in seguito alla diffusione del virus. Diverse sono state le reazioni psicologiche della popolazione, non obbligata dal Decreto del 12 marzo 2021 a vaccinarsi, e le valutazioni personali sono state connotate – a nostro avviso – da una allarmante miopia cognitiva.

Di conseguenza, alcuni cittadini si sono adoperati alla ricerca di un antidoto, altri si sono nascosti o sottratti, negandone l’efficacia o dissertandone sulla rete. Altri ancora ne hanno sostenuto l’efficacia, e si sono sentiti privilegiati di essere reclutati tra coloro che potevano o avrebbero dovuto sottoporvisi; altri, invece, hanno temuto di andare incontro a potenziali danni per la propria salute.

Queste reazioni, a nostro avviso, potrebbero essere connesse alla campagna europea di vaccinazione, contraddittoria e spesso enfatica, nonostante la sua finalità rassicurante.

Ci riferiamo ad esempio agli allarmismi e alle fake news circolate anche nella rete. Abbiamo visto sottoporsi a vaccinazione prima i vulnerabili e le fasce protette, e poi file di pensionati vaccinati e gli insegnanti in lista di attesa, quotidianamente esposti al rischio: un “pandem-onio”! Non ultimi i lotti fallati e le alterne valutazioni su alcune tipologie di vaccino. Si disegna dunque una psicologia emotiva contraddittoria che si muove da un lato tra paura, ansia, rabbia e dall’altro, ottimismo, entusiasmo, speranza.

Di fronte al vaccino diverse sono state le credenze attivatesi: ci riferiamo a delle modalità di ragionamento riguardanti la salute, il benessere personale e comune, e più in generale l’approccio alla vita, alla malattia e all’emergenza.

I bias relativi alla campagna vaccinale

Tversky & Kahneman (1974) hanno teorizzato l’esistenza di una serie di bias cognitivi che possono indurre in errori di ragionamento, ovvero distorsioni nelle valutazioni o nel processo decisionale. Si tratta di distorsioni cognitive inconsapevoli che a volte ci inducono a prendere decisioni irrazionali anche quando siamo convinti di aver valutato accuratamente una questione. Un bias è definito nello specifico come un errore di valutazione o mancanza di oggettività di giudizio di fronte ad una scelta, una situazione o una questione che prende origine da informazioni che si hanno in possesso e da cui si inferiscono giudizi, pregiudizi e ideologie.

Tuttavia, non è possibile rimuovere i bias dal funzionamento della nostra mente; è possibile analizzarli a posteriori in modo tale da verificare le diverse valutazioni sulla realtà e prevenire eventuali effetti distorsivi.

Per quasi tutto il Novecento, mentre si diffondevano gravi malattie infettive anche nei paesi industrializzati, le campagne di vaccinazione erano considerate una soluzione miracolosa. Oggi, in relazione all’opportunità offertaci dal piano di vaccinazione nazionale, osserviamo una diffusione di bias cognitivi che sembrano frenare la propensione alla vaccinazione.

Nel secolo scorso, grazie all’interazione tra il bias della disponibilità (Tversky & Kahneman, 1973), ovvero la tendenza che porta a formulare giudizi sulla base degli esempi e/o delle informazioni più disponibili che più facilmente e vividamente vengono alla mente, e il bias della riprova sociale (Cialdini  1984), tendenza a ritenere maggiormente validi i comportamenti o e le scelte che vengono effettuati da un elevato numero di persone), quasi nessuno sviluppava un atteggiamento critico nei confronti della vaccinazione su larga scala.

Dando uno sguardo al passato, come possiamo spiegarci che i vaccini – forse i rimedi più efficaci e sicuri che la scienza abbia mai scoperto e garantito – siano diventati così allarmanti al punto da indurre milioni di genitori nel mondo a non proteggere i propri figli da malattie molto gravi?

Analizzando il fenomeno, possiamo osservare come sia già accaduto che si diffidasse del vaccino; ad esempio nel febbraio del 1998 il medico inglese Andrew Wakefield avanzò l’ipotesi che la vaccinazione trivalente potesse causare l’insorgenza di autismo. L’annuncio ebbe una significativa risonanza mediatica e milioni di genitori entrarono in allarme. Sulla scia del bias della disponibilità, l’allarme divenne forte alimentando il dilemma: vaccinare o non vaccinare i propri figli? Spinti dal bias di omissione, molti genitori scelsero di non farlo, seguendo una linea di ragionamento omissiva: in caso di incertezza o di dubbio, meglio non agire piuttosto che ad agire.

Un altro bias senz’altro contribuì ad alimentare l’allarme. Spesso l’insorgenza dell’autismo corrispondeva temporalmente alla somministrazione della vaccinazione. Ciò portò molti genitori ad inferire un nesso di causalità fra vaccino e autismo: “se l’autismo si manifesta poco dopo la vaccinazione, allora il vaccino deve esserne stato la causa”.

Tuttavia, ad oggi sappiamo, che si tratta di due eventi separati ed indipendenti, ma l’illusione di causalità fece sembrare questo legame molto plausibile e probabile. In moltissimi genitori la paura si consolidò in una convinzione sempre più radicata, alimentando uno dei bias più potenti di cui spesso siamo vittime: il bias di conferma (Wason 1960). Si tratta della tendenza a cercare, a credere e a ricordare informazioni che confermano una nostra convinzione, e a rifiutare, non credere o dimenticare quelle che la possono smentire (Nickerson, 1998; Oswald, & Grosjean 2004) e dunque confermare una ipotesi tramite prove a favore invece che prendere in considerazione evidenze contrarie. A sommarsi intervenne l’effetto Dunning-Kruger, un bias cognitivo che porta a sovrastimare le proprie competenze in uno specifico ambito, anche se pur debolmente in nostro possesso.

Attualmente la società è spaccata tra indecisi e determinati. Per questo motivo può essere utile confrontarsi con diversi bias che possono condurre a valutazioni erronee circa l’efficacia della vaccinazione e dunque far luce sui bias degli “indecisi”.

Mai come in questo momento storico, la disponibilità di un vaccino efficace rappresenta un rimedio indispensabile: ecco il bias della disponibilità di nuovo in azione!

Tra gli errori di ragionamento, possiamo annoverare il bias di conferma. Ciascuno di noi è portato ad attribuire maggiore credibilità alle informazioni che confermano le proprie convinzioni e ad evitare informazioni che le contraddicano. Si tratta di una modalità di ragionamento che porta a far riferimento alle sole informazioni che alimentano i propri punti di vista preesistenti (“negazionisti – complottisti”). La conseguenza di questo errore comporta una conferma delle nostre decisioni o convinzioni, piuttosto che la loro messa in discussione: “Se hanno iniziato a dire che AstraZeneca ha esiti avversi è proprio vero quanto pensavo…”. Questa affermazione non è supportata da un punto di vista scientifico, piuttosto è una rappresentazione della realtà che conduce ad ignorare o sottostimare gli eventi che confuterebbero la propria posizione preesistete. Inoltre, questo errore, può essere alimentato anche dal “bias del pavone”, inteso come la tendenza a mostrare maggiormente i successi rispetto ai fallimenti o, d’altra parte, a ignorare questi ultimi.

Alla luce di quanto indicato precedentemente, appare interessante riflettere anche sul bias di omissione, errore che porta a fare scelte che comportano l’omissione anziché l’azione, anche quando vi è un’esposizione a rischi oggettivamente elevati per la salute, in questo caso il contagio. La paura o il timore di commettere una scelta potenzialmente errata o dannosa porterebbero, infatti, ad assumere una posizione passiva, tale da sperimentare un rimpianto minore qualora l’esito fosse la morte o il rischio per la propria salute. Di fronte al dubbio che la vaccinazione possa causare esiti avversi, si decide quindi di non vaccinarsi, sottoponendosi a rischi di gran lunga maggiori in termini di probabilità. In situazioni di una scelta valutata come “rischiosa”, chi deve decidere se vaccinarsi o meno si confronta con l’alternativa tra azione concreta e omissione, tendendo a scegliere l’omissione in assenza di informazioni per sé valutate come rassicuranti: “Non ho informazioni rassicuranti… se dovessi vaccinarmi non mi perdonerei o accetterei mai un’eventuale reazione avversa”. Tuttavia anche il non vaccinarsi è in realtà una scelta assai più rischiosa: corrisponde, infatti, alla scelta di non proteggersi dall’epidemia.

Si aggiungono il bias di ancoraggio o la trappola della relatività, ossia la tendenza a creare una propria realtà soggettiva, non corrispondente alle evidenze, sulla base di interpretazioni in possesso che portano ad un errore di valutazione o ad una non oggettività di giudizio. L’errore, pertanto, comporta un ancorarsi ad un valore che viene poi utilizzato arbitrariamente come termine di paragone per le valutazioni in atto, invece che basarsi sul valore assoluto (“Dopo la vaccinazione, pochi sono deceduti, ed altri hanno rischiato la trombosi”). Pertanto, non vengono valutati gli esiti positivi. Ciò si ricollega alle correlazioni illusorie (Hamilton e Guifford, 1976), ovvero all’attribuzione di relazioni tra variabili seppur non esistenti: “dopo il vaccino ho iniziato a sentirmi più stanco, più debole, più vulnerabile”. Anche queste affermazioni non si basano su statistiche dei dati, ma su una valutazione erronea che, se due eventi sono legati a livello temporale, allora possono essere connessi da un rapporto di causa-effetto. Tale modalità definita “Correlation is not causation” pone enfasi su come due eventi correlati temporalmente non sono necessariamente uno causa dell’altro e, dunque, che la correlazione non implica causalità. Il nostro cervello è sempre alla ricerca di spiegazioni per comprendere la realtà, pertanto, in una situazione avversa come la pandemia, sarebbe opportuno non effettuare una valutazione partendo da un caso singolo, ma affidarsi a ciò che la scienza ritiene attendibile.

Infine, si è avuto modo di riscontrare la presenza dell’euristica della disponibilità. Le persone tendono a sovrastimare le informazioni che sono loro maggiormente disponibili o che appartengono ad una cerchia di persone “vicine”.

In questo caso quindi, oltre all’impossibilità di verificare la veridicità delle informazioni, si tende a considerarle superiori a tutte quelle che possono mitigarne l’effetto. Il risultato è quello di estremizzare il dato, nonché di considerare il vaccino pericoloso e, quindi, di evitarlo. È sicuramente inevitabile non lasciarsi coinvolgere dalle persone vicine: il problema è lasciare all’emotività il controllo su decisioni importanti che possono decretare un rischio la propria salute.

In questi mesi, a seguito dell’attenzione da parte dei media di poche gravi reazioni avverse, abbiamo osservato come intere fasce di popolazione si siano rifiutate di sottoporsi alla vaccinazione con AstraZeneca, attivando anche un bias di informazione selettiva, sulla base del quale ogni elemento statisticamente irrilevante assume invece una notevole importanza a favore delle proprie credenze di diffidenza e paura circa gli effetti collaterali del vaccino.

Campagna vaccinale e decision making

Queste considerazioni conducono certamente alla maggiore comprensione di taluni fenomeni, ed evidenziano come i processi di valutazione e la presa di decisione siano influenzati da ingredienti emotivi.

È noto, infatti, come l’emozione guidi e influenzi i processi cognitivi, e dunque i giudizi, quando sono vissuti come fonte di informazioni rilevanti per il giudizio (Clore, 1992; Schwarz & Clore, 1988, 1996). Alcuni processi come l’Emotional Reasoning (Arntz et al, 1995; Mancini  e Gangemi, 2004) e l’Affect-as-Information, sono due  termini per descrivere un medesimo meccanismo psicologico in grado di mantenere nel tempo valutazioni e comportamenti disfunzionali, che espongono ad inferire una condizione di pericolo/timore a partire dal proprio stato emotivo negativo, validando erroneamente pensieri e credenze relativi alla presenza di pericoli o impedimenti, che a loro volta vanno ad amplificare l’emozione di partenza. Si tratta di processi attraverso i quali gli esseri umani tendono ad utilizzare il proprio stato affettivo, più che delle evidenze oggettive, come informazione saliente per esprimere valutazioni sul mondo, meccanismo che non è soltanto tipico di processi psicopatologici, ma che tutti viviamo nella quotidianità. Un esempio pertinente per questo articolo può essere: “Se mi sento preoccupato e in ansia, allora vuol dire che il vaccino ha qualcosa di pericoloso”.

Appare interessante riflettere sul ruolo del ragionamento emozionale come fenomeno che guida coloro che, nonostante le numerose evidenze empiriche riguardo i vantaggi della vaccinazione (alcuni studi escludono fenomeni avversi anche a lungo termine), continuano a non vaccinarsi sulla base di un vissuto emotivo di paura, che guida la loro valutazione e il conseguente comportamento, sino a generare credenze arbitrarie relative al vaccino, talvolta persino di tipo complottistico.

La paura, il ragionamento emozionale e l’affect-as-information sottolineano quanto sia diffusa la resistenza al cambiamento a causa del ruolo cruciale svolto da alcune credenze nella genesi e nel mantenimento della sofferenza psicologica.

Certamente, a mantenere questo tipo di funzionamento, intervengono fattori ambientali di ambivalenza e scarsa chiarezza da parte della campagna vaccinale.

Ma è importante tener presente che i bias rispetto al vaccino possono essere certamente influenzati dalla tendenza ad affidarsi a processi di ragionamento influenzati dalle emozioni, alle euristiche, ad orientarsi verso una teoria complottista/negazionista o della cospirazione, che inficia una narrazione corretta sulla vaccinazione.

Appare interessante riflettere anche sul confine fra la psicologia dei no-vax e i quadri di fobia in cui osserviamo il ragionamento emozionale e/o simil ossessivo e l’evitamento esperienziale, messi in atto allo scopo di azzerare qualsiasi tipo di rischio, accettando un rischio di malattia maggiore.

Infine, anche l’obiezione relativa alla costrizione e alla democrazia di poter scegliere di non farlo, reclamano sia un senso di non accettazione, che riscontriamo nei profili ansiosi, sia credenze di specialità e diritti straordinari, che contraddistinguono quadri di narcisismo covert.

Riteniamo che una comunicazione corretta sull’utilizzo dei vaccini possa avvalersi delle competenze dello psicologo, al fine di garantire una comunicazione scevra da allarmismi, che neutralizzi le credenze negative rispetto ad esiti indesiderati.

 

Victim blaming: l’oscuro fenomeno degli abusi sugli uomini

La colpevolizzazione della vittima, fenomeno noto come victim blaming, può essere immaginato come un’esperienza estremamente negativa, caratterizzata dalla tendenza a biasimare chi ha subito reati o ingiustizie, ritenendolo parzialmente o totalmente responsabile di quanto patito.

 

Tale fenomeno trova spesso terreno fertile quando si tratta di violenze sessuali: il timore di essere sopraffatti dai giudizi negativi altrui può impedire alle vittime di denunciare e cercare aiuto formale o informale (Meyer, 2016); alcune narrative rivelano il timore delle vittime di essere colpite rispetto alla propria reputazione, ad esempio credendo di essere state responsabili della violenza subita o di essere giudicate in un’ottica moralista (Pagliaro et al., 2021).

Assieme al fenomeno del victim blaming, un’altra tendenza negativa nei confronti delle vittime è quella dei miti sullo stupro, ovvero atteggiamenti e credenze che, nonostante siano false, vengono mantenute solidamente a livello sociale, e che hanno la funzione di negare e giustificare le aggressioni sessuali (Lonsway & Fitzgerald, 1994, p.134). Le conseguenze del tramandarsi di questi miti includono l’accettazione e normalizzazione dello stupro, la possibilità da parte dell’abusante impunito di perpetrarlo nuovamente e, soprattutto, un ridotto supporto alle vittime con rischi di vittimizzazione secondaria da parte della legge (Bohner et al., 2006). La vittimizzazione secondaria si origina proprio quando le istituzioni danno vita a incomprensioni, pregiudizi, stereotipi nei confronti della vittima, costringendola a rivivere in parte la sofferenza già provata al momento dell’abuso.

Abusi sessuali con vittime maschili

Se questi fenomeni sembrano essere fortemente presenti in tema di abusi sessuali sulle donne, sembrerebbero ancora più pregnanti nei confronti delle vittime maschili di stupro (Turchik & Edwards, 2012): il numero oscuro delle statistiche aumenta vertiginosamente, oltre ad una quasi assenza di dati sui diversi motori di ricerca.

All’interno di una cultura occidentale che identifica fortemente il genere maschile con l’idea di virilità, contemplare la possibilità che anche gli uomini possano essere stuprati diviene di difficile accettazione da parte dell’intera società. La letteratura scientifica presenta diversi studi sui rape myths rispetto agli abusi sulle donne (Payne et al., 1999; Burt, 1980), ma ve ne sono altrettanti nella sfera maschile, come ad esempio la falsa credenza che gli uomini non possano essere violentati, che debbano essere biasimati o che non riportino traumi a lungo termine (Struckman-Johnson & Struckman-Johnson, 1992), i quali affondano le proprie radici proprio nel tipo di cultura appena esposta. Anche in questo caso, la stigmatizzazione che viene associata alle vittime maschili di abusi sessuali non viene perpetrata solamente dalla cultura e dalla società, ma anche da parte della giustizia, spesso condizionata da preconcetti (Javaid, 2017).

Questo sostrato socio-culturale alimenta la scarsa apertura delle vittime maschili nella ricerca di supporto psicologico; scarse sono anche le denunce e dunque l’opportunità di accesso ad aiuti per il timore di non essere creduti o di essere incolpati o stigmatizzati (Hancock et al., 2021; Masho & Alvanzo, 2010).

Conseguenze del victim blaming nei casi di vittime maschili

La mancanza di accesso ad agenzie di supporto specificamente dedicate alle vittime di abuso determina un tentativo da parte delle stesse di ritrovare rimedi autonomi, con conseguenze spesso disastrose, come ad esempio l’abuso di alcol come tentativo di autocura per abbassare i livelli di ansia e sopportare la sofferenza (Rehan et al., 2017). La letteratura scientifica mostra inoltre che, se l’abuso sessuale avviene in età infantile, esso è associato ad una maggiore insorgenza di disturbi dell’umore, ansia, disturbo da stress post-traumatico, uso di sostanze, disturbi di personalità e disturbi alimentari (Afifi et al., 2017).

Diversi studi hanno sottolineato che anche la sintomatologia sarebbe influenzata da una sorta di adesione ad aspettative di ruolo e di genere: nel 1996 Rutz ha teorizzato l’esistenza di una “modalità maschile di essere depressi”, connotata appunto da un abuso smodato di alcol e tentativi di suicidio; altri studi hanno integrato tale modalità con un pattern comportamentale particolarmente improntato al rischio, alla rabbia ed all’aggressività, identificando una sorta di fenotipo maschile depressivo (Rice et al., 2021).

Alla luce di quanto emerso, e soprattutto di quanto ancora oggi resta oscuro alle statistiche, alla letteratura e all’intera collettività rispetto al tema dell’abuso sessuale sugli uomini, appare fondamentale convogliare tutti gli sforzi per aumentare la consapevolezza rispetto all’esistenza di tale realtà, assieme all’abbattimento degli stigmi di genere. L’identificazione di tali crimini, e soprattutto di chi li ha subiti, può aiutare nell’elaborazione, nel superamento e nel miglioramento della qualità della vita, data la sofferenza che tale problematica comporta in chi ne è vittima.

 

La seconda giovinezza della terapia di esposizione. Modello concettuale e modalità operative – Recensione

La seconda giovinezza della terapia di esposizione, oltre a fornire una descrizione dettagliata dei meccanismi neurali sottostanti l’estinzione, descrive la reinterpretazione cognitiva del processo di estinzione e le sue influenze sulla terapia. 

 

Uno dei grandi meriti di questo volume, come indicato dal professore Giampaolo Robert Perna nella prefazione, è la definizione chiara e operativa del meccanismo dell’apprendimento inibitorio e la spiegazione dei vari strumenti operativi da utilizzare nella pratica clinica.

Il volume La seconda giovinezza della terapia di esposizione prende in considerazione i cambiamenti nella concettualizzazione e nella consegna della terapia di esposizione che si sono registrati negli ultimi anni. Parte dalle origini e finisce con il descrivere il nuovo modello di funzionamento dell’esposizione, secondo il quale la terapia agirebbe mediante la creazione di nuove memorie inibitorie rispetto a quelle eccitatorie di paura.

Per il nuovo modello definito di “apprendimento inibitorio”: l’esposizione non comporterebbe una vera e propria cancellazione della memoria originaria di paura, come si riteneva in passato, ma determinerebbe, invece, la formazione di una nuova memoria che interferirebbe con quella eccitatoria e con la sua espressione, una “memoria antagonista e inibitoria”.

Il volume, oltre a fornire una descrizione dettagliata dei meccanismi neurali sottostanti l’estinzione, descrive questa reinterpretazione cognitiva del processo di estinzione e le sue influenze sullo sviluppo e potenziamento della terapia.

Le principali tecniche proposte sono così divise:

  • strategie per massimizzare la “formazione” dell’apprendimento inibitorio (etichettamento delle emozioni e violazione delle aspettative);
  • strategie per massimizzare il “consolidamento” dell’apprendimento inibitorio (distribuzione del carico espositivo, riposo e sonno);
  • strategie per massimizzare il “recupero” dell’apprendimento inibitorio (contesti multipli, spunti di recupero e umore positivo).

In sostanza, l’esposizione condotta con un approccio inibitorio è finalizzata prevalentemente a creare errori di predizione violando al massimo l’aspettativa del paziente.

Il testo prende in considerazione aspetti specifici che riguardano gli adolescenti, i bambini e la fase di assessment.

Sono riportati, inoltre, casi clinici con numerosi esempi di applicazione per una serie di disturbi.

Una sezione importante del libro è dedicata agli studi e alle ricerche sul tema.

Fino a qualche decennio fa, l’idea sulla memoria era focalizzata sui concetti di consolidamento e indelebilità dei ricordi emotivi; in altre parole la memoria, una volta formata e consolidata, veniva considerata indelebile nel cervello. Oggi, però, sappiamo che il recupero di un ricordo induce un processo di riconsolidamento, in quanto il ricordo recuperato viene reso nuovamente labile e sottoposto a un nuovo consolidamento. Proprio questa finestra di riconsolidamento offre l’opportunità di riorganizzare la memoria esistente in funzione di nuove informazioni, un aggiornamento dovuto a una mancata corrispondenza di aspettative e previsioni rispetto al ricordo originario.

Alcune strategie farmacologiche si stanno dimostrando utili nel potenziare l’apprendimento inibitorio (D-cicloserina cortisolo, la L-dopa, l’ossitocina, l’orexina, il blu di metilene, la yohimbina e la scopolamina) e, inoltre, il testo descrive anche specifiche procedure di stimolazione cerebrale applicata mediante dispositivi, recentemente sperimentate in combinazione alla terapia di esposizione: la stimolazione elettrica transcranica, la stimolazione magnetica transcranica, la stimolazione cerebrale profonda, la stimolazione del nervo vago.

Queste nuove strategie non si contrappongono a quelle classiche di abituazione, bensì possono rappresentare insieme ad esse modalità integrate per produrre l’estinzione di comportamenti disfunzionali.

La seconda giovinezza della terapia di esposizione è una lettura molto interessante per il clinico, offre spunti preziosi sulle diverse strategie e tecniche da applicare nei casi più difficili e resistenti al trattamento.

 

Immaginare gli effetti delle droghe per migliorare le proprie capacità di coping: mantenimento dell’abuso o possibile terapia per le dipendenze?

Un recente studio ha cercato di dimostrare l’applicazione sperimentale della Self Regulation Therapy per migliorare le capacità di coping.

 

Esiste un ampio consenso internazionale riguardo alla nocività e alla pericolosità delle droghe sugli effetti della salute pubblica (Bahorik et al., 2017; NIDA, 2020; Amigó, 2021). Cannabis, ecstasy e cocaina sono considerate sostanze suscettibili di abuso che creano dipendenza (Amigó, 2021). Allo stesso tempo, diversi autori analizzano i motivi che portano le persone ad utilizzare queste sostanze. Nello specifico, Boys e colleghi (2001) osservarono le varie funzioni dell’utilizzo delle droghe, tra cui effetti rilassanti (96,7%), restare svegli di notte per socializzare (95,9%), alleviare stati d’animo depressi (86,8%) e migliorare un’attività (88,5%).

La suggestione è definita come un “processo psichico che conduce l’individuo ad agire secondo suggerimenti esterni, provenienti da personalità più forti della sua o da situazioni ambientali particolarmente cariche di tensione emotiva, senza aver subito alcuna costrizione manifesta” (Hoepli, 2018).

La Self Regulation Therapy

La Self Regulation Therapy (SRT; Amigó, 1992) è la prima procedura psicologica che si basa sulla riproduzione degli effetti delle droghe attraverso la suggestione: sono stati riprodotti gli effetti di droghe diverse per ogni sessione (Amigó, 2021) e sostanze come cannabis, ecstasy, metilfenidato, anfetamine e cocaina sono state testate (Amigó, 2014; 2015; 2018). Nonostante tale terapia sia scarsamente dimostrata, a causa dei pochi studi pubblicati sulla riproduzione degli effetti delle droghe mediante suggestione, due studi (Amigó, 1994; 1997) indicano come la SRT possa essere utilizzata per incrementare gli stati d’animo positivi e ridurre quelli negativi. Tale terapia è stata utilizzata con successo per il trattamento di pazienti con stress, ansia e depressione (Amigó, 2021). Con l’SRT vengono applicati differenti esercizi di richiamo sensoriale con lo scopo di insegnare ai soggetti come produrre varie sensazioni fisiche, inizialmente provocate da stimoli reali, in modo volontario attraverso l’immaginazione (Amigó, 1992; 2021).

Uno studio sperimentale sulla Self Regulation Therapy

Amigó (2021) ha cercato di dimostrare l’applicazione sperimentale della SRT per migliorare le capacità di coping. Basandosi sull’utilità di tale intervento per sostenere la psicoterapia convenzionale, l’autore ha svolto l’esperimento su un campione composto da 15 partecipanti volontari (8 maschi e 7 femmine), con un’età compresa tra i 20 e i 34 anni. In questo studio sono state incluse persone che fanno un uso occasionale di droghe illegali e persone che hanno risposto sufficientemente alla suggestione generale e ai vari effetti (Amigó, 2021). Tra i vari strumenti utilizzati, la Substance Use Scale (EMCDDA; 2003) è una questionario di autovalutazione, utile a misurare la frequenza del consumo di sostanze come tabacco, alcol, cannabis, MDMA, sedativi, allucinogeni, anfetamine e cocaina, che segue l’Osservatorio Europeo per criteri relativi alle Droghe e alle Tossicodipendenze (OEDT). La Barber Suggestibility Scale (BSS; Barber e Carverley, 1963; Gonzàlez) è stata utilizzata per valutare il livello di suggestionabilità dei partecipanti: può essere somministrata individualmente, con o senza induzione ipnotica, e può essere valutata oggettivamente (OS) o soggettivamente (SS; Amigó, 2021). Il Coping Orientation to Problems Experienced (COPE; Carver, 1989; Crespo e Cruzado, 1997) è un inventario multidimensionale tipo Likert composto da 60 domande, utile a valutare i metodi di coping, in tempi distinti, attraverso 15 scale e con dei punteggi che variano da 1 (nessun effetto) a 4 (massimo effetto). Per questo studio, sono state incluse le sottoscale “pianificazione e fronteggiare attivamente” (6 domande), “reinterpretazione positiva” (3 domande), “crescita personale” (2 domande) e “disimpegno comportamentale” (3 domande). La Positive and Negative Affect Schedule (PANAS) è una scala composta da parole descriventi diverse emozioni e sentimenti e da due scale, ognuna composta da 10 domande, per indagare gli affetti positivi e negativi (Amigó, 2021). Le droghe maggiormente utilizzate dai partecipanti nell’ultimo anno erano l’alcol e la cannabis (da parte di tutti i soggetti), il tabacco (12 soggetti) e tranquillizzanti (11 soggetti), nell’ultimo mese invece le sostanze più utilizzate erano cannabis (n = 14), alcol (n = 14) e tabacco (n = 10). Utilizzando l’SRT, 14 soggetti hanno scelto di riprodurre gli effetti della cannabis attraverso la suggestione, due partecipanti hanno scelto di riprodurre gli effetti della cocaina e altri due gli effetti dell’ecstasy (Amigó, 2021).

I risultati suggeriscono come la SRT abbia un effetto significativo per le quattro strategie di coping analizzate e, nel tempo, per la pianificazione, il fronteggiare attivamente i problemi e la crescita personale dei soggetti. La SRT sembra aver migliorato anche le capacità emotive, incrementando le emozioni positive e diminuendo quelle negative. Considerando il possibile limite legato al fatto che la SRT potrebbe spingere i soggetti ad utilizzare le sostanze in modo controllato, si suggeriscono ulteriori studi per osservare se questa terapia può essere efficace per trattare le tossicodipendenze, portando così i soggetti a provare degli effetti “mentali” delle droghe senza craving e senza doversi procurare la sostanza (Amigó, 2021).

 

Scene da un matrimonio (2021) tra amore, odio e rimpianti – Recensione della serie TV

Il 20 settembre è uscita la rivisitazione del film di Ingmar Bergman Scene da un matrimonio, con gli attori Oscar Isaac e Jessica Chastain per la regia Hagai Levi.

 

La trama di base osserva, come per il film originale, il rapporto di coppia. Amore, odio, rimpianti e crisi di mezz’età sono tutti elementi comuni sia per Mira e Jonathan che per i protagonisti della serie originale Marienne e Joahn.

L’essenza è il non riuscire a spiegare come mai certe coppie non si lasciano stare, ma la versione di Levi ci porta una novità importante. I ruoli dei personaggi sono invertiti.

Nella versione HBO di Scene da un Matrimonio, Mira, è una donna in carriera e guadagna più del marito, Jonathan, professore. È lui ad occuparsi prevalentemente della famiglia. In questa versione è Mira a decidere di divorziare, dopo aver confessato una relazione extraconiugale a Jonathan.

Nella serie originale, tale ruolo spetta al marito Johan, ed è la moglie Marianne a insistere affinché lui non la lasci, piuttosto che andarsene con la studentessa di cui si è invaghito (nella serie HBO, Mira ha invece una storia con un collega più giovane).

In effetti, il tradimento di Mira è una valvola di sfogo che arriva solo dopo il reale motivo di rottura. A scaraventare la coppia in crisi è l’interruzione volontaria della seconda gravidanza di Mira. La protagonista infatti rimane incinta, ma non vuole un secondo figlio. La difficoltà nel sacrificare la maternità con le proprie ambizioni professionali. Questo senso di colpa che permane nella donna e che è tutto radicato nella società contemporanea. Avviene quindi una rottura con il passato ma che non cambia molto nella situazione di coppia, ed è questo il punto di svolta. A parer mio, che sia lui o lei ad avere una relazione, una sofferenza, un’insoddisfazione, non cambia il risultato. La società evolve, i ruoli si scambiano, si mescolano, si aprono, ma il risultato non cambia.

Sapete perché? Perché una coppia è coppia ed oggi dovremmo osservarla eliminando gli stereotipi oramai divenuti obsoleti di uomo, donna. Una famiglia è una famiglia. L’amore tra due persone è amore tra due persone.

Scene da un matrimonio osserva quindi l’incastro tra due persone, e forse per questo è stato inserito il cambio di ruoli per parlare di questo, la loro intimità, la difficoltà a separarsi da qualcosa che è così famigliare, qualcosa che ormai fa parte di noi anche se ci è divenuto insopportabile e questo prescinde dai ruoli, ma è ancorato alla crescita dell’individuo, a quello che cambia, alle aspirazioni, alla coerenza, a il represso che abbiamo ignorato e che alla fine esce fuori e che non ha sesso né razza.

Ho pianto vedendo questa mini serie, perché quello che ti fa vedere è una verità molto semplice, che non ha troppe necessità di colorare nessuna situazione e che viviamo o abbiamo vissuto in molti.

Quando si inizia un percorso di vita insieme è bene tenere a mente queste 9 verità:

  • Imparare ad ascoltarsi
  • Non scordare il NOI
  • Non dare per scontato l’altro
  • Riconoscere che ci sono sempre due verità
  • Non dover per forza avere sempre ragione
  • Essere onesti con se stessi e con l’altro
  • Non pretendere di essere uguali
  • Non scordarsi l’intimità

Nel film originale Marianne dice:

Non ho mai pensato “cosa voglio”, ma solo cos’è che vuole lui che io voglia. Ma quello non era essere altruisti come io credevo prima, era soltanto vigliaccheria. E quello che è peggio, un’assoluta ignoranza di me stessa.

La nona verità è questa:

  • conosci te stesso

perché, solo quando sai perfettamente chi sei e cosa vuoi, puoi iniziare a camminare davvero con qualcun altro.

 

Sessualità e relazioni – Seconda edizione del Festival della Sessuologia – Parte II – FluIDsex

In che modo internet ha cambiato le nostre relazioni? Quali possono essere i rischi di internet sulle nostre relazioni? Queste alcune delle domande relative a sessualità e relazioni affrontate nella seconda edizione del Festival della Sessuologia.

La prima parte del report dal Festival della Sessuologia è stata pubblicata nei giorni scorsi su State of Mind

 

Sesso e relazioni online

Con l’intervento “Sesso e relazioni online”, moderato dal dott. Andrea Olmi (sessuologo) e che vedeva la partecipazione di Marvi Santamaria (social media strategist, fondatrice della community Match and the city) e il dott. Michele Spaccarotella (sessuologo, autore de Il piacere digitale), si sono volute affrontare alcune caratteristiche contemporanee del sesso e delle relazioni. Per esempio, come sostiene Santamaria, quando si chatta con una persona che si sta conoscendo si tende a idealizzare sia la persona sia la relazione.

Ma perché si preferisce approcciarsi online? Come ha mostrato il dott. Spaccarotella, il 64% dei single italiani ha problemi nell’approcciarsi ad una persona dal vivo. Di conseguenza, le dating app rappresentano un ottimo strumento per mostrare chi si è con maggiore disinvoltura, per avere un senso di protezione, poco investimento emotivo o per semplice comodità. Inoltre, secondo quanto riportato da Santamaria, vi sono delle problematiche legate alla situazione pandemica. Si parla di nuovi vissuti emotivi, come la FODA (Fear of Dating Again, la paura di tornare a fare incontri), e di nuove tipologie di dating, come il vacci-dating per assicurarsi partner vaccinati.

Ad ogni modo, che la relazione venga instaurata online o che trovi spazio anche nel mondo fisico, è probabile che almeno una volta si incorra in fenomeni come il ghosting (quando la persona sparisce), lo zombieing (es. il ritorno di un ex partner), il benching (il “tenere in panchina” con vari tipi di manipolazione per evitare che la persona perda l’interesse) o l’orbiting (un’evoluzione del ghosting: la persona non risponde ma interagisce con like sui social).

Truffe romantiche

In che modo internet ha cambiato le nostre relazioni? Quali possono essere i rischi di internet sulle nostre relazioni? Con l’intervento “Truffe romantiche: le nuove frontiere della manipolazione online”, la dottoressa Roberta Bruzzone ha cercato di rispondere a queste domande.

Come sostiene, con l’avvento del web 2.0 vi sono state varie rivoluzioni, tra cui la rapida evoluzione dei social media che hanno radicalmente modificato le nostre vite. La principale caratteristica evidenziata è che i social media lavorano sui sistemi della ricompensa: i social permettono di avere piccole quantità di dopamina tramite i “mi piace” e i commenti, portando le persone ad avere una vera e propria dipendenza da social network. Inoltre, la tecnologia è diventata molto velocemente un amplificatore emotivo e internet un fattore di disinibizione, in quanto si riesce ad esplorare nuove forme di affettività e sessualità, e mostrare agli altri una versione migliore di sé. Come ricorda la dottoressa, si è passati all’uso intensivo di piattaforme di digital dating, le quali permettono di connettersi con più persone, ma anche ad essere esposti a fenomeni come il cat-fish, il gender-swapping o gender-switching (ovvero cambiamento di genere) e le romantic scam (truffe romantiche).

Come spiega Bruzzone, il fenomeno del cat-fish vede coinvolta una vittima che interagisce con una persona che finge di essere un’altra. Quando viene instaurata una relazione online tra la vittima e il perpetratore, i due vivono una vita di coppia del tutto simile a quella che condurrebbero di persona. Il problema, come sottolinea Bruzzone, è che i due non si incontreranno mai e, una volta smascherata l’identità del perpetratore, la vittima avrà forti danni emotivi ed economici. È bene, quindi, diffidare da persone che vogliono instaurare una relazione online senza mai volersi incontrare di persona.

Sessualità e disabilità

Concludendo, questo festival ha dato la possibilità agli addetti ai lavori, e non, di approfondire vari aspetti della sessualità. Seppur sia stato scelto di affrontare queste tematiche lungo due articoli, al festival della sessuologia vi erano anche altre tavole rotonde e laboratori. Per esempio, nel laboratorio “Disabilità e sessualità”, gestito dalla dottoressa Anna Castagna, si poteva apprendere l’impatto dei vari stereotipi che colpiscono la vita sessuale delle persone con disabilità. Per esempio, si tende a concepire la persona con disabilità come una persona che non ha una sessualità, non ne ha bisogno. Tuttavia, come afferma la dottoressa Castagna, bisognerebbe promuove un clima dove si aiuta la persona con disabilità a capire e ad esplorare la propria sessualità. Purtroppo, però, molto spesso si trovano resistenze familiari (es. famiglie che non vogliono l’aiuto di professionisti), limiti fisici (es. una persona vorrebbe masturbarsi, ma la fisicità lo impedisce), mancanza di privacy (es. a causa di una limitata autonomia) e, soprattutto, una mancanza di assistenza. Una soluzione, come suggerisce la dottoressa Castagna, è di avvalersi dell’aiuto di un operatore all’emotività, all’affettività e alla sessualità (per maggiori informazioni si veda l’associazione “Lovegiver”) che, tuttavia, non è ancora riconosciuta come professione nel nostro Paese.

Conclusioni

In estrema sintesi, servono maggiori sforzi da parte delle istituzioni per assicurare una sana salute e educazione sessuale, serve maggiore comprensione da parte di tutti delle varie sfumature della sessualità, e serve maggiore consapevolezza circa l’impatto che la tecnologia e le nostre scelte hanno sulla salute sessuale e psicofisica.

 

Giornata mondiale della salute mentale: commercializzazione o sensibilizzazione?

Ogni anno in tutto il mondo, il 10 Ottobre, dal 1992, si celebra la Giornata Mondiale della Salute Mentale, con l’obiettivo di aumentare la consapevolezza di cittadini e governi sui problemi di salute mentale.

 

Le giornate internazionali sono una recente istituzione occidentale, costituiscono insieme uno degli esiti e degli strumenti di un processo di globalizzazione della cultura dei diritti umani nel tentativo di definire le sfide più rilevanti per la comunità globale sensibilizzando l’opinione pubblica rispetto ai temi più disparati. In questo sforzo, i risultati sono paradossali: le giornate si sono moltiplicate così come le soggettività che rivendicano un’attenzione particolare, talvolta senza alcuna connessione o interesse ai problemi reali delle società.

Non è un segreto che queste ricorrenze costituiscano un’occasione importantissima all’interno delle strategie di marketing per molti grandi attori privati, oltre che per affrontare temi talvolta negletti nel dibattito pubblico, come è stato, per lungo tempo, quello della salute mentale.

Così, ogni anno in tutto il mondo, il 10 Ottobre, dal 1992, si celebra la Giornata Mondiale della Salute Mentale, con l’obiettivo di aumentare la consapevolezza di cittadini e governi sui problemi di salute mentale e mobilitare gli sforzi a sostegno della salute mentale dei cittadini, promuovere azioni di advocacy e lotta allo stigma. La giornata, sostenuta sempre più attivamente dall’OMS, è nata su iniziativa della World Federation for Mental Health, ONG composta da operatori, volontari e utenti e, a partire dal 1994, le migliaia di iniziative si concentrano sul tema che, di anno in anno, ne costituisce il fils-rouge.

Ad ogni modo, il tema scelto per l’edizione del 2021 della Giornata Mondiale della Salute Mentale è stato “la salute mentale in un mondo diseguale” e la giornata è stata accompagnata dal lancio della campagna “Insieme per la salute mentale”, con la partecipazione di molte società scientifiche, associazioni di utenti, onlus e testimonials, numerose iniziative in molti territori e grandissima risonanza mediatica. Si è trattato di un’occasione importante per portare un tema tanto delicato e urgente all’opinione pubblica, in un momento storico particolare in cui la salute mentale della popolazione è fortemente logorata dalla pandemia e dalle misure necessarie al suo contenimento, che esacerbano le preesistenti disuguaglianze sociali e sanitarie e logorano lo stato di salute dei servizi pubblici, già pesantemente definanziati da anni di tagli.

La salute mentale però costituisce un ambito complesso. I cosiddetti disturbi mentali non costituiscono entità reali, oggettivamente presenti in natura, ma rappresentano l’esito finale di un processo, storicamente situato all’interno di un contenitore sociale dotato di forze culturali, economiche, politiche, attraverso cui gruppi di ricercatori arrivano ad un accordo rispetto alla definizione dei criteri necessari per poter far rientrare un insieme di manifestazioni osservabili entro specifici quadri diagnostici, le cosiddette “malattie”. Per altro le fonti e i dati utilizzati in questo processo non sono neutre ma costituiscono anch’essi il prodotto della ricerca e dell’influenza su questa esercitata da varie pressioni, anche economiche, che ne indirizzano contenuti, qualità, validità e spesso trasparenza.

In natura non esistono i disturbi mentali, che costituiscono, a tutti gli effetti, una convenzione arbitraria, storicamente determinata, un prodotto sociale.

L’etichetta oggi utilizzata per descrivere un certo tipo di sofferenza potrebbe scomparire tra qualche decina di anni e, viceversa, più probabilmente, forme della sofferenza che non soddisfacevano tutti criteri per essere definiti come disturbi potranno soddisfarli in futuro, oppure nuove categorie diagnostiche possono sorgere in base ai bisogni sociali e alle nuove forme di sofferenze prevalenti, oppure ancora una sofferenza oggi definita come particolare disturbo, rispondente a determinati criteri, potrebbe in futuro essere esclusa da quella definizione e inclusa in altre.

Salute mentale e sistemi diagnostici

La storia dei sistemi diagnostici è piena zeppa di tali meravigliose bizzarrie che parlano in maniera equivocabile del rapporto tra l’ordine sociale, il mondo reale e i sistemi di diagnosi e cura e loro funzioni: la scomparsa della diagnosi di isteria, o di omosessualità, la nascita della diagnosi di PTSD (è molto interessante ricostruire la genesi storica delle teorie sui traumi che sottolineano l’importanza dei meccanisimi assicurativi americani nella produzione e nell’affermarsi della diagnosi di PTSD per i reduci della guerra del Vietnam), l’affermarsi e il proliferare della diagnosi di ADHD, con differenze di prevalenza e incidenza enormi tra paesi differenti, non ascrivibili a differenze così ampie nel disagio nei diversi stati.

Non solo cambiano le forme della sofferenza reale come conseguenza del cambiamento degli stimoli ambientali (ad esempio la sofferenza connessa ai nuovi stimoli digitali), ma si trasformano anche le modalità che abbiamo per nominarle, identificarle e gli strumenti di cura e di diagnosi, insieme all’atteggiamento verso la sofferenza e determinate sue forme.

ICD e DSM costituiscono i principali classificatori che sanciscono l’esistenza di particolari quadri diagnostici e “malattie“. Entrambe nati dopo la Seconda Guerra Mondiale per usi statistici e risentono inevitabilmente degli schemi e delle funzioni amministrative del contenitore in cui sono stati concepiti e sviluppati (l’OMS da una parte e l’American Psychiatric Association dall’altra). Pur essendo il primo utilizzato a livello globale per funzioni di monitoraggio delle condizioni di salute dei differenti paesi e di programmazione degli interventi socio-sanitari, il secondo si è gradualmente affermato come sistema diagnostico di riferimento, con il maggior potere simbolico e pratico, nell’indirizzare lo sviluppo delle discipline nell’ambito della salute mentale e della ricerca, oltre che il linguaggio comune e le concezioni dominanti di salute e malattia. Ma non è l’unico.

La semplificazione e i rischi insiti nella diffusione del DSM hanno fatto sorgere nel tempo sistemi diagnostici “alternativi”. Tra i più celebri sicuramente troviamo il PDM, creato dall’enclave psicanalitica come affermazione della propria lontananza e indipendenza dal modello riduzionista promosso dal DSM. Meno noto invece è il PTM- Framework, il POWER THREAT MEANING FRAMEWORK, creato dalla BPS, la British Psychological Society, in risposta alla pubblicazione del DSM 5. Il punto di partenza di questo lavoro è una lunga critica epistemologica e pratica del concetto di diagnosi medica, in particolare quella psichiatrica, mostrandone la debolezza empirica e teoretica da un lato, ma anche evidenziando come essa persista nei servizi e nei sistemi di cura per ragioni culturali, sociali, economiche e professionali e proponendone un superamento pratico. Il Power Threat Meaning Framework si sofferma sulla necessità di sviluppare, insieme ai cosiddetti esperti per esperienza, un approccio multifattoriale al disagio, che contempli i determinanti sociali e psicologici e le variabili biologiche con il significato personale. Il gruppo di lavoro promotore aggregato intorno a questo obiettivo ha prodotto nel 2018 una pubblicazione di oltre 400 pagine, fruibile gratuitamente da chiunque scaricando il testo dal sito della BPS e attualmente in traduzione in Italia a cura di alcuni attivisti.

Storicamente, da quando la salute mentale si è costituita come ambito e corpo scientifico, si osserva un continuo aumento di diagnosi disponibili (definito da Allen Frances (2013), capo della Task Force per la stesura del DSM- IV-tr, inflazione diagnostica) che, se da una parte consente una maggior precisione nell’identificazione sempre più sottile delle forme di disagio, migliorando l’accuratezza dell’atto diagnostico, dall’altra rischia di creare una frammentazione e un’iperspecializzazione sterili e vacue, allargando a dismisura i confini del diagnosticabile. Nella realtà storica, ciò che spinge il numero di diagnosi a crescere rendendo possibile un trattamento di precisione, è in parte riconducibile ad un processo relativamente recente, ben noto e studiato, il disease mongering (Moynihan, 2002): forme dell’esperienza, prima ritenute nella “norma medica”, quindi non oggetto di trattamento specialistico, vengono gradualmente patologizzate e medicalizzate, spesso sotto l’influenza di grandi produttori di farmaci con un grande potere nell’influenzare la ricerca e grandi interessi nell’ampliamento del bacino di consumatori. Nuove malattie vengono create e definite come tali anche perché nuovi farmaci devono essere venduti. Basti pensare alla medicalizzazione e patologizzazione di flatulenza, calvizie, impotenza: occorre, innanzitutto, la costruzione e la vendita di una particolare “condizione patologica”, ovvero “la commercializzazione della salute e della malattia”. Il fenomeno, affrontato e contrastato in molti ambiti della medicina e dell’attivisimo per la salute, interseca e influenza da vicinissimo il campo della psicologia, delle sue teorie, del mercato della formazione, e delle sue pratiche e le concezioni sociali che questa veicola.

Ma Vygotskij, il Buddha e Lacan, ci insegnano che le parole creano la mente. Ed è anche attraverso la condivisione di sistemi simbolici e di appartenenze che si creano le comunità. Così, dopo aver definito la sofferenza delle persone attraverso un disturbo in uno specifico quadro nosografico, convenzionale, artefatto e arbitrario, le persone tendono ad identificarsi con l’etichetta utilizzata dagli operatori di un determinato sistema di cure, ancor più se questa identificazione è conforme al quadro culturale dominante e l’insicurezza che accompagna il disagio è vissuta come eccessiva. Questa identificazione ha ripercussioni significative, non sempre positive, sul decorso clinico, prendendo a prestito un termine in voga dalla letteratura psichiatrica, “recovery”. Svolge alcune funzioni importanti per l’individuo, quali ad esempio quella di poter dare un nome, un senso alla propria sofferenza, e quindi immaginare la possibilità di una cura, contenere l’incertezza che deriverebbe da un’impostazione radicale di fronte ad una sofferenza per cui non esiste un nome. Inoltre, rassicura, fornendo un sollievo alla solitudine, potendo condividere le sorti della propria vita, salute e malattia, con l’insieme di persone le cui manifestazioni della sofferenza sono state fatte rientrare all’interno della medesima categoria diagnostica.

Le implicazioni della diagnosi

Le diagnosi e i disturbi che queste indicano, si trasformano così in uno strumento di soggettivazione, individuale e insieme politico. Identificazione individuale, nel momento in cui le persone, dopo l’atto diagnostico, identificano sé stesse, il proprio sentire, agire, patire, pensare, esperire; gli danno un senso attraverso l’etichetta utilizzata e ogni parte di sé diventa funzione di quella diagnosi a cui viene ridotto e ricondotto. Questo livello di identificazione agisce inoltre permettendo di trovare una causa al proprio patire nel disturbo indicato dall’etichetta. Avendo dato un nome e una spiegazione al proprio sentire, l’etichetta diagnostica utilizzata, smette di essere un prodotto storico e viene percepita essere la causa reale del proprio sentire, in una profezia che si autoavvera.

La diagnosi attiva inoltre un processo di identificazione collettiva, rendendo saliente un’appartenenza comune attraverso cui far valere la propria voce, in cui i vissuti di profonda solitudine e incomunicabilità si dissipano nella vicinanza con tutte le altre identità individuali con cui potersi riconoscere e supportare all’interno di una comunità di uguali, definita e delimitata dai confini diagnostici, che può lottare nella rivendicazione dei propri diritti di malato. È quello a cui Rose (2008) si riferisce parlando di “biosocialità”, ovvero la creazione di spazi di socialità e cittadinanza a partire da una particolare diagnosi, spesso ricondotta a disturbi concepiti come biologicamente determinati (nell’ambito della salute mentale, è stato il DSM III ad accelerare il processo di assimilazione delle entità nosografiche a sottostanti “squilibri chimici”, scotomizzando i cosiddetti determinanti sociali della salute mentale). Ecco così fiorire le associazioni di pari e di pazienti, in salute mentale, frammentate e disunite, spesso ricalcando i criteri diagnostici che li hanno battezzati, talvolta in un’estrema unzione, come tali. Le azioni di tali soggettività diagnostiche espandono e riproducono una concezione della salute mentale che naturalizza costrutti sociali in entità reali che costituiscono la base dei processi di partecipazione e identitaria, riproducendo le concezioni di salute e malattia più diffuse e gli interessi economici ad essi sottostanti.

È a questa natura sociale, costruita, storica, a cui ci si riferisce quando si parla di quella “invenzione delle malattie” che una certa antipsichiatria, nell’opera di legittima contestazione della nocività di alcune pratiche di cura, rischia di trasformare in negazione del bisogno e della realtà di una sofferenza e dell’utilità di ogni intervento tecnico.

Salute mentale e società

Rispetto al calcolo del peso dei disturbi mentali sulle società invece, l’epidemiologia è utilissima consentendo confronti tra paesi o tra condizioni di salute mentale nello stesso paese in tempi diversi, oppure tra diverse fasce di popolazione. Ad esempio, è certo che i paesi più diseguali, divisi e divisivi, siano paesi in cui la salute mentale è peggiore rispetto a paesi più equi. Oppure che nei periodi di recessione economica la salute mentale peggiori. O ancora, che con la pandemia, la salute mentale dei giovani stia peggiorando più di quella di altre fasce della popolazione. Tuttavia gli indici utilizzati sono poco attendibili: misurano solo parzialmente ciò che vorrebbero e godono di un consenso relativo. Per fotografare le condizioni di salute mentale vengono utilizzati dati relativi ai servizi, come il numero di ricoveri. O relativi ai trattamenti erogati, come il consumo di farmaci. O il numero dei suicidi, oppure i trend di ricerca su internet di una data parola. Ma è palese che il numero dei ricoveri o i dati sui consumi dicano di più sulla salute dei sistemi di cura che sulle condizioni reali di salute dei cittadini. In sintesi, nessuno di questi indici riesce a fotografare la realtà della salute mentale della popolazione. Benedetto Saraceno, ex direttore del Dipartimento di Salute Mentale dell’OMS, parla chiaramente del rischio di “un’epidemiologia allarmista” (2017). ovvero di dati che sovrastimano il problema, ad esempio includendo problemi di carattere neurovegetativo all’interno del numero di casi conteggiati.

Parlare di salute mentale

Ciononostante, le condizioni reali di salute mentale della popolazione sono un tema fondamentale oggi. È un bene che se ne parli, anche se il modo in cui questo avviene è spesso importante almeno quanto il parlarne. La difficoltà a parlare in maniera seria è accresciuta da un uso scorretto del linguaggio, che riflette l’impostazione biomedica di una certa psichiatria, che tende a naturalizzare e reificare i disturbi come entità realmente presenti in natura, ma che è anche fortemente influenzata dagli interessi economici di chi vende specifici prodotti medicali per specifici disturbi.

I disturbi e le malattie, tutti, costituiscono anche un miniera d’oro per chi vende prodotti per curarli e l’attuale periodo di disagio postpandemico rappresenta un’occasione imperdibile, e l’indefinitezza che caratterizza l’ambito della salute mentale è un vantaggio enorme per le aziende produttrici. Ma il conteggio delle gambe rotte o di forme particolari di tumori è cosa ben differente dal conteggio, ad esempio, di casi di diagnosi di disturbo bipolare.

E qui torniamo al punto di partenza.

La giornata mondiale della salute mentale

La campagna di sensibilizzazione “Insieme per la salute mentale” in occasione della Giornata Mondiale della Salute Mentale è stata organizzata da una multinazionale danese, di recente definitivamente multata dalla Corte di Giustizia Europea con 93 milioni di euro, che aveva violato nel Regno Unito le norme per i contenuti pubblicitari, a cui è stato rimosso un brevetto per mancanza di requisito di novità e rispetto, su cui autorevoli osservatori fanno sorgere dubbi, più che fondati, sulla contraffazione di dati relativi all’efficacia di alcune sue molecole e sul rischio suicidario in bambini che assumevano alcuni suoi farmaci.

Il mercato degli psicofarmaci ha salutato con grande entusiasmo l’arrivo della pandemia, che ne ha fatto impennare le previsioni di crescita di molti punti percentuali per quasi tutte le classi. Solamente l’anno scorso, i guadagni relativi ad un farmaco antidepressivo di recente immissione della multinazionale danese, sono aumentati del 15%. I dati inoltre indicano un generico aumento delle prescrizioni in tutto l’occidente da alcuni anni a questa parte, amplificato dall’impatto della pandemia e in Italia, ad esempio, il trend di consumo degli antidepressivi, sostiene l’AIFA, è cresciuto del 10% negli ultimi 7 anni.

In Italia non è possibile fare pubblicità diretta verso i consumatori per le aziende produttrici e le “giornate di sensibilizzazione e consapevolezza” (negli USA cresciute da 44 a 401 dal 1997 al 2016, con un aumento di spesa da 177 a 430 milioni di dollari per le multinazionali) rappresentano da sempre uno strumento privilegiato per l’ampliamento del bacino di consumatori a fronte di investimenti enormi, spesso maggiori nel marketing che nella ricerca (ad esempio, Johnson e Johnson nel 2014 spese 6,2 miliardi di dollari in ricerca e 21,9 miliardi per marketing).

Dal punto di vista psicologico, le campagne di sensibilizzazione e consapevolezza offuscando l’arbitrarietà e la fluidità dei costrutti diagnostici e il processo storico che determina la creazione di nuove condizioni patologiche, presentano i disturbi mentali come realtà oggettivamente esistenti, misconoscendo le implicazioni e gli interessi economici che contribuiscono alla diffusione di particolari diagnosi e di una visione di una società malata, massicciamente medicalizzata. L’obiettivo delle campagne è promuovere l’identificazione delle persone in condizioni di sofferenza nella condizione di malato. Il superamento dello stigma e del pregiudizio evocato, ad esempio nella campagna “insieme per la salute mentale”, si muove nella stessa direzione, in modo funzionale all’abbassamento delle difese e delle resistenze che le persone possono frapporre tra sé e il riconoscimento e l’identificazione della condizione di malato, e quindi la richiesta di un trattamento. Per altro, un’impostazione fortemente biologicista alla sofferenza e al disagio, come quella promossa in occasione della Giornata Mondiale della Salute Mentale, che assimila “salute fisica” e “salute mentale” e che identifica nel cervello le cause del disagio, tanto facilita la riduzione dello stigma (se il problema è nel cervello, come un diabetico non sono biasimabile) quanto promuove un uso dei trattamenti che agiscono esclusivamente a questo livello.

Schwartz e Woloshin (2019) sottolineano che tutte le attività di marketing cerchino di plasmare le convinzioni di pubblico e operatori sanitari rispetto sia ai benefici e ai danni dei farmaci da prescrizione, sia alle definizioni delle condizioni che possono essere etichettate come malattia. Gli autori affermano che le campagne di sensibilizzazione delle aziende farmaceutiche possano aumentare la consapevolezza dei cittadini e, insieme, essere controproducenti causando danni, portando a sovradiagnosi e sovratrattamento (con conseguente spreco di risorse) o medicalizzando l’esperienza ordinaria. Le campagne contribuiscono ad ampliare le definizioni di malattia senza che questo porti a benefici reali per la popolazione, e influenzando l’atteggiamento dei cittadini verso il proprio disagio, attraverso l’incoraggiamento a “chiedere al medico”, che costituisce uno degli ingredienti fondamentali di tali campagne

Altri, come Kravitz (2005) si spingono oltre e illustrano come le campagne di sensibilizzazione possano avere effetti diretti, seppur non stimabili, sull’andamento delle prescrizioni dei medici, mediati dalle richieste dei cittadini, che rischiano di alimentare un sovrautilizzo inappropriato dei farmaci.

Sulla stessa linea, Aikin (2016) e Sullivan (2016), mettono in guardia sulla possibilità che tali campagne di sensibilizzazione inducano le persone a confondere erroneamente le informazioni relative alle malattie con i benefici dei farmaci, alimentando il rischio di sovradiagnosi e sovratrattamento, con benefici evidenti per i produttori di farmaci medicinali, proprio mentre l’obiettivo dichiarato è contrastare sottodiagnosi e sottotrattamento.

Viste le restrizioni imposte dalle misure di contenimento dell’epidemia, le aziende farmaceutiche, hanno dovuto adattare le proprie strategie promozionali. Facebook, che mette a disposizione analisi sui comportamenti degli utenti, con elevato valore predittivo sulle loro condizioni di salute, costituisce il canale privilegiato.

Secondo un articolo del 2020 de “Il Washington Post” inoltre, su Facebook, negli Stati Uniti, dove è possibile fare pubblicità diretta di farmaci alla popolazione, stanno spuntando annunci che promuovono farmaci da prescrizione per la depressione. Pathmatics, afferma che la spesa solo per gli annunci su Facebook da parte di marchi farmaceutici, targettizzata verso campioni selezionati di popolazione, abbia raggiunto quasi un miliardo di dollari nel 2019, quasi triplicando in due anni. Non è un caso che la campagna “Insieme per la salute mentale”, promossa in occasione della Giornata Mondiale della Salute Mentale sia stata diffusa largamente su questo social dove, in occasione della pandemia, a qualche mese di distanza, sono state create alcune pagine di sensibilizzazione, gestite da multinazionali produttrici.

Come già ampiamente accaduto in molte altre situazioni simili, molte delle associazioni, sia professionali, che di pazienti, che hanno partecipato all’iniziativa, diffondendola e amplificandola, hanno intrattenuto rapporti più o meno trasparenti e diretti con la multinazionale che ha loro versato, come documenta il sito dell’azienda, notevoli quantità di denaro. Come sottolineò Mosher, già presidente dell’APA dimissionario, in relazione al decadimento denunciato della psichiatria americana, legato al consolidarsi del rapporto con le industrie farmaceutiche, i rapporti tra queste e le associazioni di utenti e familiari costituiscono un tassello chiave nel comprendere le spinte rivendicative e i bisogni di alcune forze della società civile, e il loro effetto sulle pratiche di cura.

Il fenomeno non si limita alla salute mentale; secondo uno studio di McCoy (2017), nel 2017, l’83% delle 104 maggiori organizzazioni in difesa e per i diritti dei pazienti degli Stati Uniti ha ricevuto finanziamenti da aziende farmaceutiche e 14 aziende farmaceutiche hanno donato almeno 116 milioni di euro a 594 gruppi di pazienti nel 2015.

Questo significa che la multinazionale, durante la Giornata Mondiale della Salute Mentale, ha utilizzato le associazioni di pazienti, identificati con il proprio disturbo, come strumento per la diffusione di una campagna, formalmente di sensibilizzazione, ma che risponde sostanzialmente a obiettivi e logiche commerciali attraverso note strategie di marketing amplificando un messaggio distorto e informazioni incomplete, tendenziose e pretestuose. Questo, in Italia, accade mentre i servizi di salute mentale promuovono una cultura e un uso degli psicofarmaci che rischiano di produrre più sofferenza e cronicità di quanto non aiutino ad alleviare e che, come rilevato dalla Conferenza per la Salute Mentale, dovrebbero essere reindirizzati nella direzione di una maggiore appropriatezza prescrittiva.

I messaggi promossi dalla campagna, naturalmente, non possono tenere conto della complessità del tema ma contribuiscono ad una visione semplicistica dei disturbi mentali e della salute mentale. I disturbi sono presentati come entità reali, oggettive, localizzate esclusivamente a livello cerebrale, di cui rappresenterebbero un malfunzionamento. Tale messaggio è funzionale più al profitto dell’azienda che alla promozione di un dibattito pubblico informato o agli interessi di salute pubblica.

Evidentemente e legittimamente, all’interno di un mercato competitivo come quello farmaceutico, una grande azienda con precisi obiettivi commerciali diffonde un’idea di malattia e salute che poco ha a che vedere con la realtà dei fatti. I proclami sul diffondersi dei disturbi mentali sono utilissimi nell’accendere i riflettori su una realtà grave e urgente, quella del diffondersi del disagio, ma ne semplificano la concezione escludendo aspetti determinanti, quali quelli economici e materiali, che stanno alla base di ogni discorso e pratica.

Durante la Giornata Mondiale della Salute Mentale, da tredici anni a questa parte, si celebra la Giornata Nazionale della Psicologia con il rischio di creare un disallineamento, pratico e semantico, tra il mondo della salute mentale, sempre più ritenuto di esclusiva pertinenza delle pratiche e dei saperi psichiatrici, e la psicologia, relegata ad un ambito tanto prezioso quanto limitato e limitante, quello del benessere psicologico. Evidentemente tale giornata ha un’utilità reale nell’affermazione e nell’emancipazione della disciplina psicologica, che a mio parere sarebbe auspicabile potesse avvenire all’interno del medesimo contenitore di cui si è appropriato, colonizzandolo, chi subordina alla salute mentale, o psicologica, delle persone, alle logiche di profitto.

L’effetto delle restrizioni del Covid sui pazienti con malattia infiammatoria intestinale cronica (IBD)

Uno studio ha voluto esplorare le reazioni psicologiche degli italiani con diagnosi di malattia infiammatoria intestinale cronica (IBD) alla pandemia e le loro preoccupazioni sull’emergenza sanitaria. 

 

La malattia infiammatoria intestinale (IBD) è una malattia infiammatoria cronica del tratto gastrointestinale; solitamente comprende la malattia di Crohn, un’infiammazione cronica dell’intestino, che può colpire tutto il tratto gastrointestinale, dalla bocca all’ano; la colite ulcerosa che colpisce l’intestino crasso, interessando dapprima il retto, per poi eventualmente estendersi a tutto il colon e, talvolta, altre condizioni (Ricci et al., 2008).

Malattia infiammatoria intestinale: di cosa si tratta

L’infiammazione dell’intestino caratteristica delle IBD provoca dolore addominale, diarrea, sangue nelle feci e perdita di peso (Barello et al., 2014). Le IBD sono una malattia che dura tutta la vita e l’incidenza è aumentata notevolmente nei paesi industrializzati: è considerata una delle malattie gastrointestinali più prevalenti (Shah et al., 2015). Gli italiani con diagnosi di malattia infiammatoria intestinale sono circa 250.000 (AMICI Onlus, 2020) e, poiché non esiste una cura definitiva, i trattamenti includono farmaci con possibili effetti collaterali, interventi chirurgici invasivi e una costante attenzione allo stile di vita e alla dieta (Kaplan, 2015).

Spesso, la malattia infiammatoria intestinale richiede l’integrazione delle competenze di vari fornitori di assistenza sanitaria per soddisfare adeguatamente le esigenze dei pazienti. Le opzioni di trattamento medico e chirurgico sono complicate e sono frequentemente fonte di angoscia sia per il paziente che per l’operatore. Tuttavia, alcuni risultati dell’ultimo decennio sottolineano l’importanza del coinvolgimento dei pazienti nel trattamento, i quali diventano gestori attivi ed efficaci delle loro cure. La disponibilità dei pazienti a partecipare attivamente alla gestione della loro salute e alla prevenzione dei rischi è definita in letteratura come Patient Engagement (Greene, 2012). Le prove a sostegno del ruolo della compliance e del coinvolgimento del paziente rivelano infatti migliori risultati di salute, esperienze migliori per il paziente e costi complessivi più bassi.

Possibili effetti del Covid-19 su persone con malattia infiammatoria intestinale

La malattia da coronavirus 2019 (Covid-19) presenta, tra i fattori di rischio, l’età avanzata, le malattie cardiovascolari, l’ipertensione, il diabete, le malattie respiratorie croniche e il cancro (Liu et al., 2020). Il tasso di mortalità del Covid-19, secondo le statistiche, è del 4,3% e raggiunge il 13% in Italia settentrionale (Haybar et al., 2020).

Il governo italiano, in seguito alla rapida trasmissione del Covid-19, ha attuato misure preventive per limitare la diffusione della malattia, bloccando l’intera popolazione a casa tramite un decreto ministeriale. Tali limitazioni hanno avuto conseguenze emotive e psicologiche sulle persone, costrette a modificare il loro stile di vita e le loro abitudini quotidiane. Inoltre, l’incertezza dell’emergenza sanitaria e le misure restrittive hanno messo a dura prova le persone con una malattia cronica e la loro capacità di affrontare situazioni stressanti (Savarese et al., 2021).

Alcuni risultati della letteratura mostrano che le persone affette da IBD sperimentano un livello di peso psicologico e di stress che influenza negativamente la gravità della malattia e la qualità della vita poiché l’asse cervello-intestino (Bernstein, 2017), un collegamento tra il sistema nervoso centrale e il sistema enterico, viene spesso alterato da eventi stressanti ad alto impatto tra i quali il Covid-19 (Sood, 2020). In aggiunta, i soggetti affetti da malattie intestinali croniche, durante la situazione di emergenza e le restrizioni, hanno dovuto cambiare drasticamente la loro quotidianità e la loro gestione della malattia. (Scaldaferri et al., 2020).

Malattia infiammatoria intestinale e Covid-19: uno studio

In uno studio del 2021, Savarese e colleghi hanno esplorato le reazioni psicologiche degli italiani con diagnosi di IBD e le loro preoccupazioni sull’emergenza. In particolare, si sono focalizzati sui possibili effetti negativi sul patient engagement e sulla gestione della malattia.

Tramite un questionario online si sono occupati di valutare preoccupazioni generali, gestione della malattia e reazioni psicologiche, selezionando un campione non probabilistico composto da pazienti con IBD appartenenti all’Associazione Italiana pazienti con IBD (AMICI Onlus) che hanno completato il questionario nell’Aprile del 2020.

I risultati mostrano che i pazienti italiani con IBD sono apparsi molto preoccupati per l’emergenza Covid-19 (60,7%) e per i rischi di infezione (59%). La metà degli intervistati ha riferito uno stress percepito medio-alto e il 74% aveva livelli medio-bassi di autoefficacia nel coping. Inoltre, un terzo era in uno stato di eccitazione psicologica e il 29% dei pazienti aveva cancellato gli appuntamenti in ospedale per paura di contrarre il virus.

I risultati, come ipotizzato, hanno mostrato che i pazienti hanno vissuto le restrizioni con un livello medio di stress e con un’inadeguata capacità di coping per la gestione della malattia. Il Covid-19 risulta quindi percepito come un fattore altamente stressante a causa del quale i pazienti con IBD possono sentirsi disorientati e abbandonati: questi sentimenti possono peggiorare la percezione dell’effetto del Covid-19 sulla malattia e sulla qualità di vita.

Relativamente alla Patient Engagement, alcuni pazienti avevano una buona elaborazione psicologica dell’emergenza, accompagnata da un alto livello di aderenza ai farmaci e continuità delle visite, altri, invece, sperimentavano fasi di blackout e arousal, con il rischio di perdere l’orientamento e cadere in uno stato di scoraggiamento. Sarebbe importante quindi prestare maggiore attenzione al coinvolgimento del paziente per poter migliorare la cura delle IBD durante situazioni altamente stressanti come il Covid-19 per facilitare l’adesione alle prescrizioni mediche. In conclusione i risultati emersi dallo studio suggeriscono che è importante considerare e monitorare lo stato psicologico dei pazienti con IBD durante la pandemia per prevenire un peggioramento degli outcome psicologici che possono, a loro volta, avere implicazioni negative su quelli clinici (Savarese et al., 2021).

 

WaW – Women at Work: il progetto internazionale che promuove l’inclusione nel mondo del lavoro di donne fragili

WaW – Women at Work” è un progetto internazionale sostenuto dal programma Interreg Italia-Svizzera V-A che promuove l’inclusione nel mondo del lavoro di donne fragili

 

WaW – Women at Work” è un progetto internazionale sostenuto dal programma Interreg Italia-Svizzera V-A che promuove l’inclusione nel mondo del lavoro di donne fragili, come ad esempio madri vittime di violenza, ex ragazze con disturbo borderline di personalità, donne in situazione di disagio… Opera attraverso l’attività congiunta di 8 partner (6 italiani, 2 svizzeri), che collaborano al progetto partito nel novembre 2020 della durata di 24 mesi, con l’obiettivo di intercettare almeno 300 giovani donne per permettere ad un centinaio di loro di sviluppare percorsi di inclusione lavorativa.

WaW – Women at Work” non vuole essere un progetto di orientamento né di inserimento professionale, ma anzitutto intende promuovere una sfida più profonda che coinvolga la donna e il lavoro: valorizzare il bene nella parte di società disagiata, in quanto le risorse stanno nello stesso tessuto di legami ed esperienze in cui nascono i problemi. Ogni problema sociale si palesa realmente solo quando da esso si genera un tentativo di soluzione, che possa emergere in un’ottica sussidiaria.

Il logo di “WaW – Women at Work” richiama i celebri fiori di cactus di Henri Matisse: un fiore che cresce anche nel deserto, contesto arido e ostile, simbolo di imprevisto e novità apparentemente impossibile per una vita degna. È, quindi, l’emblema del percorso che il progetto vuole offrire ad ogni donna che incontra. Il payoff – “e quindi uscimmo a riveder le stelle” – è invece tratto dal notissimo ultimo verso dell’Inferno di Dante Alighieri, a indicare la prospettiva di bellezza per una rinascita.

WaW – Women at Work” vuole intendere anche la parola “lavoro” in un’accezione più profonda di mera occupazione: la donna fragile, anche con figli, spesso non è attiva e non responsabile per affrontare la vita adulta. Nelle community care della rete di progetto si elabora quindi un percorso personale imperniato attorno a laboratori (cucina, informatica, make up, pediatria, family manager…) e attività singole e di gruppo. Una proposta che da subito possa far reagire l’ospite verso una responsabilità adulta. Imparare a cucinare per 2 o per 10 persone, curare un bambino, gestire il budget familiare con oculatezza, lavorare all’esterno in una occupazione quotidiana, gestire il tempo libero e le vacanze costituiscono (al di là e in più rispetto alla validazione di un tribunale) un grande goal, ma sulla propria vita.

Il progetto si avvale del supporto scientifico dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, coinvolta nella realizzazione di una ricerca sul Metodo Relazionale nelle pratiche di aiuto sociale elaborata dal prof. Fabio Folgheraiter. Una seconda mappatura è curata dall’Irs – Istituto per la Ricerca Sociale, su servizi e interventi per l’inclusione di donne in condizione di vulnerabilità nei territori di confine tra Italia e Svizzera. Tra i partner, anche la Clinica Santa Croce di Orselina (Canton Ticino), che cura la realizzazione di un’app di richiesta di primo aiuto per donne in situazione di disagio psichico.

 

Le sentenze sommarie del tribunale de Le Iene e l’equivoco dei ricordi traumatici in psicoterapia

Durante la puntata del 9 novembre 2021 la popolare trasmissione TV “Le Iene” ha messo in onda un servizio su una ragazza in passato affetta da disturbi alimentari che ha raccontato come, tramite una particolare tecnica terapeutica denominata EMDR, avrebbe ricordato abusi sessuali subiti in infanzia dallo zio.

Non basta. Durante il servizio la ragazza, accompagnata da alcuni operatori, è andata a trovare lo zio per rinfacciargli tutto (L’episodio di cui parliamo è visionabile a questo link: https://www.iene.mediaset.it/video/vivere-senza-ricordare-abusi-subiti-bambina-zio_1099826.shtml – NdR).

Da un punto di vista psicologico, un servizio di questo tipo genera una grande quantità di perplessità e domande. La prima è lo statuto scientifico dell’analisi terapeutica dei ricordi infantili. È una polemica nata con la psicoterapia stessa e intorno alla quale si continua a litigare da ormai più di un secolo, oscillando tra due posizioni estreme: si va dalla concezione dei ricordi come mero strumento terapeutico che serve ad aiutare il paziente a superare le proprie vulnerabilità emotive, che non ha alcuna verità fattuale ed è valido solo in seduta, all’estremo opposto nel quale i ricordi sono dati affidabili e riflettono traumi reali. In mezzo a queste due posizioni ne possiamo trovare molte altre, tra le quali una delle più rappresentative è quella sui ricordi abbastanza affidabili di relazioni trascuranti (il cosiddetto neglect) ma non traumatiche, eppure inevitabilmente raccontate in termini così dolorosi da poter essere definite anch’esse traumatiche. Anche Freud oscillò tra i due poli: ebbe una fase iniziale in cui credette al trauma reale e poi passò alla concezione opposta nella quale ritenne che si trattava di fantasie inconsce. I suoi successori per lo più si assestarono nel mezzo, con una certa propensione per il trauma relazionale o dell’attaccamento, doloroso ma non aggressivo. E così ancora oggi.

EMDR sta per Eye Movement Desensitization Reprocessing ed è una procedura di elaborazione del trauma utilizzabile in psicoterapia durante la quale, mediante un’induzione di movimenti oculari oscillatori gestita dal terapeuta, si aiuta il paziente a lavorare sui ricordi traumatici. Come tecnica ha la sua efficacia scientificamente confermata, specie sugli adolescenti e per traumi “specifici”, ovvero situazioni di violenza aggressiva senza possibilità di fuga che mettono a rischio l’incolumità della persona, come un terremoto o un grave incidente improvviso o quando si assiste a simili situazloni. Ricordiamo inoltre che i dati di efficacia a favore dell’EMDR, pur presenti, non la qualificano come terapia superiore a tutte le altre ma solo come di eguale efficacia alla terapia cognitivo comportamentale e, ribadiamolo, specifica per il disturbo da stress post traumatico e non per i problemi cumulativi di trascuratezza relazionale (Cusack e coll., 2016). È importante ricordare questo perché terapie e tecniche efficaci su determinati disturbi o problemi non vanno allargate a disturbi diversi o a problemi di tipo diverso. Ad esempio l’EMDR, utile soprattutto per i disturbi da stress post traumatico, non ha alcuna prova di efficacia sui disturbi dell’alimentazione o sui disturbi ossessivi. Questo dato sembra ovvio ma spesso chi si appassiona a determinate tecniche se non è scrupoloso rischia di allargarne l’uso in modo improprio e poco rispettoso dei dati dell’evidenza scientifica.

Materia dell’elaborazione nell’EMDR sono ricordi che però, va detto, sono elaborazione di materiale clinico e non riproduzioni esatte di eventi: la persona lavora sulle sue memorie dolorose e arriva a gestirle meglio ma non si può dire che essa ricordi affidabilmente avvenimenti reali “rimossi” e che queste riemersioni costituiscano accurate prove di fatto di avvenimenti dettagliatamente ricostruiti. In una trasmissione TV però non c’è molto spazio per queste sottigliezze cliniche e la concezione che rischia di passare allo spettatore è quella del trauma reale “rimosso” e poi ricordato per filo e per segno. E “rimosso” è proprio il termine che la ragazza utilizza al minuto 8:45 del servizio delle Iene: lei parla allo zio della violenza subita, del suo ricordo “rimosso” e ricordato -secondo la ragazza- con la tecnica EMDR che quindi diventa, nella trasmissione, una prova della realtà del fatto dell’evento. Inutile sottilizzare sull’uso tecnico in psicoterapia del termine “rimosso”, inutile ricordare che per Freud il paziente rimuove fantasie inconsce e non traumi reali. E così via, andando per i mille significati di questi termini nelle centinaia di psicoterapie nate dai tempi di Freud a oggi. Lo spettatore del servizio comprende che la ragazza ha ricordato in maniera affidabile un ricordo “rimosso” di un trauma certamente avvenuto.

Come reagiamo noi psicoterapeuti? Nel servizio della trasmissione TV al minuto 5:30 è chiesto il parere di una operatrice EMDR, la dottoressa Isabel Fernandez, presidente dell’associazione EMDR-Italia. La dottoressa naturalmente non parla di eventi rimossi e rievocati fedelmente ma del fatto che, durante eventi traumatici, la mente ha la possibilità di “chiudere” (minuto 5:52) su eventi così gravi e insopportabili e poi, durante l’applicazione dell’EMDR, è possibile una “elaborazione” (minuto 5:52) del trauma. Attenzione: elaborazione del trauma, non rievocazione fedele di ricordi. Tutto bene quindi, la Dottoressa Fernandez non si è prestata a strumentalizzazioni, non è cascata nel tranello.

Peccato che poi frasi sapientemente inserite dall’intervistatrice si aggancino alle affermazioni della dottoressa Fernandez come una conclusione, finendo per suggerire esplicitamente che i movimenti oculari dell’EMDR “possono far emergere ricordi” (minuto 6:31). Infine, dal minuto 7:30 in poi parte la ripresa dell’incontro tra la ragazza e suo zio.

A questo punto l’elaborazione mentale -fenomeno psicologico tutto interno, sottolineiamolo- si tramuta quindi in un ricordo affidabile di una violenza reale -comportamento esterno- che viene rinfacciata di persona allo zio perché -dice la ragazza- non solo è necessario “chiudere proprio il cerchio” (7:08) ma anche perché altrimenti “lui è libero, tranquillo” (minuto 7:19). Qui già vediamo come il “chiudere proprio il cerchio” attraverso un confronto -una forma molto naif ed estremamente discutibile di elaborazione psicologica, siamo nel mito popolare dell’esperienza purificatrice, ma pur sempre ancora nei termini della psicologia- già minacci di diventare una rivalsa, l’unica possibile perché “lui è libero, tranquillo” in un confronto che di psicoterapeutico non ha più nulla ma è semmai un evento tragico. Una rivalsa simile però finisce per essere troppo rozza e necessita di vestirsi dei panni della giustizia perché “non va bene così, non è giusto” (minuto 7:20) che lui sia libero e tranquillo.

E giustizia sia fatta allora, ma non quella custodita dalle leggi dello Stato di Diritto; semmai quella della condanna pubblica nella gogna di una trasmissione TV, perché, come subito dopo dice la voce dell’intervistatrice “questa per lei è l’unica giustizia possibile perché dopo tutti questi anni, qualsiasi reato abbia commesso lo zio in passato, per legge è ormai prescritto” (7:21). Insomma, dato che il reato non è più perseguibile diventa giusta allora la gogna, ovvero un linciaggio sia pure solo verbale. Linciaggio giustificato da quale prova? Dal ricordo rievocato dall’EMDR, che così diventa una tecnica di esplorazione scientifica della memoria utilizzabile a fini giuridici, una macchina della verità i cui risultati si possono usare in un processo o anche, se il reato è prescritto, in un linciaggio.

È vero che le affermazioni della dottoressa Fernandez -che si è limitata a parlare di una mente che può “chiudere” durante un trauma e di un EMDR che è una possibilità di “elaborazione”- sono state strumentalizzate nella trasmissione. E tuttavia è grave che l’associazione EMDR Italia non abbia sentito il bisogno di dissociarsi dall’uso strumentale fatto in trasmissione delle affermazioni di Fernandez. Non basta. Pochi giorni dopo, nella pagina Facebook ufficiale dell’associazione EMDR Italia, un post del 13 novembre alle ore 6:58 commenta l’intervista e riporta esplicitamente l’affermazione che “non solo l’EMDR, ma in generale la psicoterapia stessa porta i pazienti a ricordare, a collegare, a recuperare ricordi, purtroppo spesso di abusi.”

Assolutamente no. La psicoterapia non fa ricordare nulla in termini fattuali e se lo fa, lo fa nei termini della psicoterapia e non della ricostruzione fattuale di eventi. Questo punto è da tenere fermo. Come già è accaduto altre volte nella storia della psicoterapia fin dai tempi di Freud, si fa confusione tra l’esplorazione della memoria come strumento terapeutico valido in seduta per elaborare gli stati dolorosi e la rievocazione dei ricordi come prova affidabile di episodi reali e spendibile anche fuori dalla seduta, ad esempio in tribunale. Di qui al suo uso per giustificare gogne mediatiche e linciaggi di vario tipo il passo è breve. Questo passo non è corretto. Come ha segnalato il collega Giancarlo Dimaggio, psicoterapeuta e uno dei maggiori esperti internazionali di stati problematici, alcuni studiosi come Henry Otgar e i suoi collaboratori hanno dimostrato che l’uso dell’EMDR e in generale di tecniche psicologiche in procedure giuridiche è un’opzione rischiosa perché la logica del tribunale è quella della certezza della colpevolezza e non dell’elaborazione di un dolore (Otgar et al., 2021). E questo rischio è ulteriormente incrementato dal fatto che l’EMDR, lungi dallo scoprire ricordi reali, in realtà può indurre falsi ricordi, come confermano altri studi (Kenchel et al., 2020; Houben et al., 2018).

Tutto questo porta in primo piano la responsabilità di noi clinici che periodicamente da un secolo a questa parte caschiamo in questo equivoco, confondendo elaborazione psicologica del dolore e riemersione del ricordo rimosso come prova di fatto di eventi reali, stimolando così piccole o grandi caccie alle streghe, ed esempi ce ne sono tanti. È vero che la psicoterapia ha testimoniato anche periodi in cui si esagerava sul versante opposto, tempi in cui i ricordi dei pazienti traumatizzati erano ritenuti del tutto immaginari e inaffidabili e quindi completamente non valorizzati dagli psicoterapeuti in seduta. Sappiamo bene che la consapevolezza dell’importanza del trauma proviene dagli studi sugli effetti psicologici della guerra e delle grandi sciagure: c’è stato un tempo in cui la psicologia non riconosceva nemmeno l’impatto traumatico dell’esperienza in guerra dei soldati.

E tuttavia non dimentichiamo che anche nei momenti in cui la psicologia riscopre la verità del trauma questa rimane una verità clinica che ha una sua validità soprattutto in seduta come strumento di cura e non come mezzo di raccolta prove e di condanna e ancor meno di punizione surrogata mediante confronti drammatici o addirittura gogne e linciaggi per i supposti colpevoli. Gli abusi possono sicuramente essere reali e come tali possono essere trattati ed elaborati in seduta accanto alle sofferenze che non dipendono da traumi reali, e tutto questo senza chiedere ulteriori prove di fatto durante la seduta proprio perché una psicoterapia non è un processo in tribunale che per portare a una condanna ha bisogno di testimonianze certe ma una cura che si può accontentare di indizi da elaborare psicologicamente con il paziente senza mandare nessuno in galera. Sicuramente colleghi esperti che lavorano come periti in tribunale danno, se richiesti, il loro parere tecnico che contribuisce alla formulazione del verdetto, ma il tempo delle macchine della verità è, per fortuna, passato e questo è ormai un dato accettato dalla cultura comune, come troviamo scritto qui. Insomma, la psicologia e la psicoterapia devono fermarsi sulla soglia del tribunale ed entrare solo se chiamate per esprimere un parere tecnico e non emettere una sentenza.

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