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Analisi della psicologia di Will Hunting – Genio ribelle

Will Hunting è un film del 1997, con Matt Damon e Robin Williams. Il film ha come protagonista un ragazzo, un genio della matematica e una persona particolarmente acculturata, che ha conoscenze che spaziano dalla filosofia fino alla bio-chimica.

 

Anziché sfruttare il suo talento però, Will passa il suo tempo conducendo una vita frivola, fatta di litri di birra la sera, in compagnia degli amici e di lavori precari. È proprio mentre svolgeva uno di questi lavori precari, precisamente il manutentore presso il M.I.T. di Boston, che risolve un problema esposto pubblicamente come sfida agli studenti, ma decide di non palesarsi. Viene apposto un secondo problema e mentre Will lo risolve viene scoperto, inizialmente il suo gesto viene frainteso e interpretato come atto vandalico. Il professore Lambeau, che aveva affisso entrambi i problemi, una volta accortosi che in realtà Will ha risolto entrambi i problemi, cerca di reperirlo. Lo troverà partecipe di un udienza nei suoi confronti. Il professore Lambeau lo farà inserire in un programma di recupero supervisionato da lui. Dopo aver incontrato svariati psicologi che hanno gettato la spugna con lui, incontra lo psicologo Sean McGuire, interpretato da Robin Williams; come con gli altri psicologi, Will non ha alcuna intenzione di aprirsi e come ha sempre fatto si protegge con inconsci meccanismi di difesa. Un meccanismo di difesa, secondo la psicoanalisi freudiana, è una funzione propria dell’Io attraverso la quale l’io si protegge da eccessive richieste libidiche o da esperienze di pulsioni troppo intense che non è in grado di gestire direttamente. Il primo meccanismo che ci viene mostrato si manifesta con il rifiuto alla collaborazione; quando Will va dallo psicologo Sean si guarda intorno, osserva un punto debole del suo avversario e quando lo psicologo inizia a fare domande personali per ottenere gradualmente fiducia, Will cambia discorso. Questo meccanismo di difesa è detto Evitamento, ossia il soggetto fugge dalla fonte di angoscia, in questo caso dalla possibile creazione di un legame. Altri meccanismi di difesa li osserviamo nel colloquio di lavoro di Will e nella sua relazione con Skylar; nel colloquio con l’NSA (National Security Agencies) ci viene mostrato un meccanismo di difesa chiamato razionalizzazione, Will per non dover affrontare il problema costruisce delle ragioni basate sulla razionalità e sulla logica, e alla persona che stava facendo il colloquio risponde così:

Diciamo che lavoro all’N.S.A. e mettono sulla mia scrivania un codice che nessuno sa decifrare, e forse ci provo e magari ci riesco e sono fiero di me perché ho fatto bene il mio lavoro ma forse indica la località di un esercito ribelle in Nord Africa o in Medio Oriente. Ottenuta la località bombardano il villaggio dove i ribelli si nascondono, 1500 persone con le quali non ho mai avuto problemi restano uccise. Ora i politici dicono: oh spedite i marines a sorvegliare la zona perché non gliene frega niente, non ci sarà un loro figlio a farsi sparare come non c’erano loro quando era il momento perché erano in gita nella Guardia Nazionale, ci sarà un tipo di Southy a prendersi una sventagliata nel sedere, torna in patria per scoprire che la fabbrica in cui lavora è stata esportata nel paese da cui è arrivato e quello che gli ha sbridellato il culo ora sta al suo posto e lavora per 15 centesimi al giorno e non va mai a pisciare. Nel frattempo capisce che la ragione per cui l’avevano mandato a combattere era installare un governo che ci avrebbe venduto il petrolio a buon prezzo ed è chiaro che le compagnie hanno usato quella scaramuccia lontana per addomesticare i prezzi, un aiutino notevole per i loro profitti, ma non aiuta il mio amico a 2 dollari e 50 a gallone. Ci vanno con molta calma a reimportare il petrolio, magari si prendono fino anche un alcolizzato skipper a cui piace bere martini e fare pazzi slalom tra gli iceberg finisce che ne centra uno, sparge il petrolio e uccide la vita del Nord Atlantico e così il mio amico ora è senza posto e non può permettersi l’auto e va a piedi a fare i colloqui di lavoro e si sfrange perché la sventagliata nel sedere gli ha procurato le emorroidi, nel frattempo muore di fame perché ogni volta che cerca di mangiare la sola prospettiva è un merluzzo del Nord Atlantico intriso di petrolio salato. Allora cos’ho pensato? Mi conservo per qualcosa di meglio. Ci rifletto cazzo mentre aspetto perché non uccido il mio amico, gli frego il posto, lo do al suo peggior nemico, alzo i prezzi della benzina, bombardo un villaggio, ammazzo le foche, fumo hashish e vado nella Guardia Nazionale. Potrei essere eletto presidente.

Nella relazione con Skylar, Will assume più di un meccanismo di difesa, innanzitutto Will ha idealizzato la figura Skylar.

Will sostiene: «Si ma questa ragazza, insomma, è bellissima, intelligente, divertente, diversa dalle le altre con cui sono stato». Sean ribatte: «E allora chiamala, Romeo», al che Will replica: «Così mi rendo conto che non è poi tanto intelligente? Che mi rompe i coglioni? Si, insomma, ecco, questa ragazza, cazzo! È perfetta ora, non voglio rovinare questo».

Will proietta su Skylar una perfezione che non c’è, con lo scopo di nascondere l’aggressività che prova nei suoi confronti. Quando la relazione con Skylar si fa seria, lei gli propone di andare a vivere insieme in California, ma Will rifiuta accampando scuse, Skylar obbliga Will a vedere il reale problema ossia l’attaccamento di Will alla sua zona sicura.

«Beh, cos’è che non ti spaventa? Tu vivi nel tuo mondo tranquillo dove nessuno ti pungola e sei spaventato perché devi fare qualcosa che è diverso da quello che fai di solito» ma Will non è ancora pronto ad avere una catarsi perciò si allontana da Skylar con un freddo e brutale «Non ti amo più».

Questo in psicologia è noto come regressione ovvero l’Io per difendersi torna ad uno stadio precedente, poiché quello attuale provoca troppo dolore. Will regredisce all’ultimo stato in cui stava bene, ovvero di quando passava le serate a bere in compagnia dei suoi leali amici. Difatti solo quando il suo amico Chuckie lo sprona:

…Ah, non posso saperlo. Beh, ti dico quello che so. Ogni giorno passo a casa tua a prenderti con la macchina, usciamo, ci facciamo qualche birra, qualche risata, ed è fico. Sai qual è la parte migliore della mia giornata? Sono circa dieci secondi, da quando volto l’angolo fino a quando arrivo alla tua porta. Perché penso che magari arrivo là, busso alla porta e tu non ci sei più. Niente addio, niente arrivederci, niente. Sparito, via. Non so molte cose, ma questa la so.

Will abbassa le difese e, nel suo ultimo colloquio. Will ha la sua catarsi, che si manifesta in un pianto liberatorio tra le braccia del suo psicologo Sean, o meglio tra le braccia del padre che non ha avuto.

Will Hunting è un film che ti scuote anche se a tratti scontato e ti lascia il dubbio se Will sia felice, dopo aver soddisfatto le aspettative sociali che avevano verso di lui. Che l’io di Will, come scrive Anna Freud in L’Io e i suoi meccanismi di difesa, sia vittorioso: «L’Io è vittorioso quando le sue prestazioni difensive hanno successo, cioè quando riesce a limitare con il loro aiuto lo sviluppo di angoscia e dispiacere, ad assicurare all’individuo anche in circostanze difficili un godimento pulsionale, mediante le necessarie trasformazioni pulsionali, e a instaurare insieme, per quanto è possibile, un’armonia fra Es, Super-io e forze del mondo esterno

 

La pulsione aggressiva e la guerra in psicoanalisi (2021) di M. Rivardo e M. Muzio Treccani – Recensione

Il ruolo dell’aggressività viene posto in primo piano in La pulsione aggressiva e la guerra in psicoanalisi, che afferma come all’interno di un setting terapeutico, possa aver luogo una guerra, portata avanti con vigore narcisistico da parte del paziente che si nega alla guarigione.

 

Il testo di Muzio Treccani e Rivardo mette in evidenza l’importanza della decisione nella clinica psicoanalitica, laddove con questo termine si intende la scelta di mettere in discussione il disagio psichico e tutto quanto ha contribuito alla sua formazione e perpetuazione, accettando di modificare e lasciarsi modificare da una nuova alleanza- quella col terapeuta- che aiuti il paziente ad abbandonare i precedenti legami, e ad aprirsi con spirito di iniziativa ad un’esistenza fatta di significati nuovi, curiosi, e per questo indubbiamente coraggiosi.

La rassegna dei casi clinici presentati ha il sapore di un dialogo che gli autori fanno con i lettori, con i pazienti e anche con se stessi, cercando di ricomporre frammenti di esistenze che hanno perso la propria simmetria e  che, nel setting clinico, chiedono di ricevere una “nuova disposizione”.

Ma si tratta di una richiesta che non va esente da conflitti tormentosi. Emerge la presenza del no come resistenza aggressiva da parte di un paziente che, prigioniero nella propria immobilità, porta avanti una vera e propria battaglia contro l’analista, impedendogli di portare alla luce ciò che, a mezzo di controinvestimenti dolorosi, nasconde nelle trame dell’inconscio.

Il ruolo dell’aggressività viene posto in primo piano in un testo che afferma come all’interno di un setting terapeutico, non meno che in un campo di battaglia, possa aver luogo una vera e propria guerra, portata avanti con vigore narcisistico da parte del paziente che si nega alla guarigione, armato di quella coazione a ripetere che lo induce a perpetrare il sintomo (Freud, 1915-17; 1920; Green, 1983) nell’intento patologico di sedimentarne gli effetti, renderli irreversibili, pietrificarli fino a lasciarsene fagocitare.

Il profondo e spesso inconscio disagio per cui si accede alla terapia, rappresenta il frutto di una scelta il cui fine resta essenzialmente quello di proteggere il Sé da attacchi esterni. Il paziente si è condannato al dolore, e dunque alla patologia, soltanto per salvarsi. Si è identificato con l’aggressore, ha scelto di perpetuare l’esperienza traumatica in un dolore muto e pietrificante in cui l’aggressività ferina – rivolta alternativamente al Sé o all’altro – diventa l’unica alternativa per sopravvivere (Kernberg, 2016).

La grande decisione, sintetizzabile nella resa incondizionata alla patologia, diventa allora il frutto “necessario” di una sofferenza insostenibile. Una scelta dilemmatica in cui le alternative appaiono severamente dicotomiche: distruggere o lasciarsi distruggere. Ma la vittima è in ogni caso il Sé, e le storie cliniche lo dimostrano: l’aggressività endogena si scaglia contro il corpo, impedendogli l’evoluzione, la libera espressione, il processo trasformativo.

Ostaggio di un masochismo alternato a sadismo, il paziente prende a lottare contro tutti i possibili invasori del suo spazio, coloro che vogliono impedirgli di portare a termine una battaglia di cui la coazione a ripetere rappresenta al contempo l’arma e il vessillo. E la perseveranza patologica si esprime con l’ostinazione nella dipendenza, nel rifiuto del cibo, della novità, del miglioramento. Nel rifiuto dell’altro, e infine del Sé. Ma soprattutto, il paziente pervicacemente legato a Tanatos rifiuta il setting, per rimanere ostaggio di blocchi evolutivi che impediscono la revoca delle “grandi decisioni”, e condannano ad un destino di involuzione ed impotenza.

Il significato dell’arte nella decisione e nella resistenza

Il parallelismo con l’arte ricorre efficacemente in tutto il corpo del testo, divenendo una suggestiva metafora in grado di evidenziare quanto profondo sia il legame tra universo interiore ed espressione grafica, e quanto proprio quest’ultima, con le sue simbologie e le morfologie dense di significato psichico, costituisca -anche nel setting- un prezioso strumento di conoscenza.

Il riferimento al linguaggio espressivo si fa ancor più esplicito nell’ultima parte del testo, in cui vengono riportate storie di pazienti infantili le cui vicissitudini cliniche non trovano espressione soltanto attraverso lo strumento semantico, ma anche e soprattutto attraverso il linguaggio dei colori e delle linee.

È allora possibile vedere come, grazie all’immediatezza e alla genuinità dell’arte grafica, i disegni riescano a rendersi messaggeri dell’inconscia conflittualità tra la volontà di revoca e di prosecuzione della scelta, che nel bambino si rende ancora più tormentosa e inesprimibile.

Da questa guerra tutta interiore emergono esecuzioni grafiche in cui le linee traboccano di sofferenza, gli scarabocchi diventano ruvide espressioni di un’oppositività inconscia, gli spazi e gli orientamenti delle figure fungono da assetti di guerra, le asimmetrie nel foglio e le stesse lettere dell’alfabeto agiscono alla stregua di messaggi di attacco, mentre i colori e la pressione del tratto si trasformano in armi con cui portare avanti una battaglia tutta tesa alla difesa del proprio no. Un no narcisisticamente e inconsapevolmente legato a Tanatos, che disegna il miraggio di una salvezza laddove c’è soltanto distruzione (Green, 1983). Sono i casi nei quali la terapia non riesce a fare il suo corso, a disegnare quelle brecce salvifiche che feriscono sì, ma per recare beneficio. Come un balsamo sulla ferita.

Il coraggio della scelta

Il testo evidenzia come la guerra che il paziente deve portare avanti sia prima di tutto con se stesso, e come sia finalizzata a sconfiggere il no che lo sottrae al mutamento direzionale. Alla messa in discussione del prima, del mai, e dunque alla nuova decisione.

Da qui l’obbligo inesorabile della scelta: se continuare lungo il cammino dei propositi mortiferi, dolorosi ma rassicuranti perché ormai sin troppo noti; se aggrapparsi a quei meccanismi di difesa patologici che hanno limitato ma anche protetto dal proprio universo pulsionale e dal mondo esterno; se ostinarsi nel no e sottrarsi a quell’oggetto trasformativo che affascina ma fa anche tanta paura (Bollas, 1987)… O se al contrario cedere alla lusinghe di Eros e decidere di percorrere assieme al terapeuta una direzione nuova, incerta ma potenzialmente salvifica. Per convertire l’aggressività di morte in energia vitale.

È questa la grande scelta da compiere, prima e durante la psicoanalisi. E da qui in avanti trovare il coraggio di guardare le proprie incertezze, accettando di fronteggiare le conflittualità motivazionali che faranno del setting ora un luogo di salvezza ora una fonte di distruzione, e del terapeuta ora un generoso salvatore, ora un elemento persecutorio.

Il coraggio di trovare i luoghi della fobia e di lasciarli emergere- ( p. 165) è rappresentato efficacemente tramite il riferimento ad una tecnica pittorica mutuata dalla fotografia- il cliché-verre- incisione di un’immagine applicata su di un vetrino sporco di bitume, grazie alla quale la luce può penetrare l’oscurità creando un pregevole effetto visivo: “Il motto è dunque ora sia fatta luce. E così mi avvio lentamente verso il nuovo mondo della tonalità” (p. 173), sono le parole del pittore Klee, che nei suoi lavori ne faceva un largo impiego.

Tramutare il nero in bianco, portare la luce laddove c’è buio: la metafora evocativa di una luce che penetra l’oscurità di un vetro, e col suo apporto luminoso riesce a costruire autentiche immagini, richiama l’idea di un paziente che si affida all’Io ausiliario del terapeuta e gli consente di far luce nel suo mondo oscuro e inconoscibile, fendendo quelle difese, ostinate e aggressive, che costituiscono le sbarre di una prigione travestita di libertà.

Lo scopo, in pittura come in terapia, diventa allora l’avvento del bianco, nella cui dimensione ogni fragore si annulla, e il resto dei colori viene inghiottito per lasciare il posto ad un silenzio creativo e chiarificante che consente la fuga verso infinite nuove possibilità.

Costruito sul filo ambivalente di un disordine che, mentre si afferma ostinatamente, chiede di essere disconfermato, il testo di Rivardo e Muzio Treccani analizza la simbologia espressiva dei pazienti con coraggio e chiarezza, contribuendo a portare la luce laddove, in apparenza, sembra esistere la sola oscurità. L’espressione mortifera del no può così diventare, come nel vetro scuro di Klee, una fenditura significante in grado di sostituire il bianco di Eros al nero di Tanatos. In vista di una trasformazione, un’evoluzione pacificante e produttiva che in ogni guerra rappresenta la sola autentica vittoria.

 

Grima: una nuova emozione o un semplice riflesso?

I ricercatori si sono recentemente interessati al grima e, in un primo studio, si sono proposti di definire il grima, al fine di testare se vi fossero somiglianze anche rispetto ad altre espressioni emotive come il disgusto.

 

Alcuni stimoli uditivi, quei suoni acuti e striduli come il rumore del gesso, possiedono caratteristiche fisiche che innescano direttamente risposte avverse che, attualmente, non sono ancora state esplorate.

Mentre alcune lingue occidentali, come l’inglese, sembrano non avere un termine specifico per questa esperienza, gli spagnoli la definiscono grima.

Differenti approcci contemporanei considerano le emozioni come qualitativamente diverse l’una dall’altra. Da questo punto di vista, le emozioni di base sono associate a specifiche risposte fisiologiche e comportamentali. Di conseguenza, ogni emozione è un membro distinto della famiglia delle emozioni di base. Al contrario, le teorie dell’appraisal e l’approccio costruttivista mettono in discussione la visione delle emozioni come un repertorio limitato di categorie. Secondo le teorie dell’appraisal, è la valutazione dello stimolo emotigeno che consente di differenziare le emozioni (Ellsworth & Scherer, 2003). Si presume, così, che valutazioni diverse suscitino emozioni differenti (Roseman & Smith, 2001). Allo stesso modo, circostanze diverse possono provocare la stessa emozione quando sono generate dalla medesima valutazione sottostante.

Ulteriormente, secondo Russell, le emozioni non sono fenomeni unitari e oggettivi con una chiara definizione in termini di caratteristiche necessarie e sufficienti, ma un insieme di reazioni esperienziali, fisiologiche e comportamentali indipendenti – i cosiddetti “episodi emotivi” – (Russell, 2014) che possono verificarsi in alcune circostanze specifiche.

La ricerca sostiene l’ipotesi che il disgusto possa non essere un concetto unitario e omogeneo. Un recente studio di Han et al. (2015) ha mostrato che gli anglofoni usano la parola “disgusto” per riferirsi al disgusto rispetto al sangue, agli eventi sessuali inappropriati e alle violazioni morali. Al contrario, i coreani utilizzano questo concetto per riferirsi solo ad alcune di queste condizioni.

Nei casi in cui non esistono singole parole equivalenti per descrivere alcune esperienze emotive, le persone in alcune culture possono affidarsi a diverse espressioni colloquiali per riferirsi ad esse.

Uno studio preso in esame ha mostrato come questo sia il caso del termine grima utilizzato in spagnolo.

In un primo studio, gli autori si sono proposti di definire il grima, al fine di testare se vi fossero somiglianze anche rispetto ad altre espressioni emotive come il disgusto. L’obiettivo del secondo studio era esplorare il concetto quotidiano di grima, per poter evidenziare le sue caratteristiche più prototipiche. Inoltre, i ricercatori hanno analizzato se la differenziazione concettuale tra grima e disgusto, fosse supportata anche dalle risposte fisiologiche associate ad esse, come la frequenza cardiaca e la risposta di conduttanza cutanea (studio 3).

Nel quarto studio, gli autori hanno valutato se vi fosse una differenziazione tra grima e disgusto anche per ciò che concerne la loro regolazione. Per questo motivo, i ricercatori hanno chiesto ai partecipanti di formulare delle intenzioni di attuazione, dopo aver udito dei suoni grima-elicitanti (Gollwitzer, 1999). Si tratta di piani “se- allora” che specificano quando, dove e come un obiettivo stabilito dovrebbe essere messo in atto (“Se sento un suono grima-elicitante, allora lo ignorerò”). Esse si differenziano dalle semplici intenzioni di obiettivo, che definiscono gli stati finali desiderati dall’individuo (“Intendo ignorare il suono!”). La suddetta scelta si è basata sul fatto che la ricerca precedente abbia dimostrato come la formulazione di intenzioni di attuazione aiuti le persone a raggiungere i loro obiettivi in diversi domini, come la promozione di comportamenti desiderati o, ancora, come sia efficace nella regolazione delle esperienze emotive come il disgusto, la paura (Schweiger Gallo et al., 2009) e l’ansia (Varley et al., 2011).

Sulla base di questi risultati, gli autori hanno ipotizzato che, ammettendo che il grima fosse un’esperienza a sé stante, differente dal disgusto, i soggetti sarebbero stati in grado di regolare quest’ultima attraverso la formulazione di intenzioni di attuazione.

Infine, il quinto studio si è proposto di verificare se la reazione affettiva aversiva evocata da rumori acuti, sia concettualmente assimilabile ad altre reazioni aversive in quelle lingue che non possiedono un’unica etichetta linguistica specifica per descrivere tale esperienza.

L’esistenza di un termine specifico per questa reazione solleva una serie di domande teoriche interessanti: il grima è un’esperienza emotiva a sé stante o un semplice riflesso?

Gli studi analizzati hanno dimostrato come il concetto di grima differisca dal disgusto, sia per quanto riguarda i suoi tipici trigger, che per ciò che concerne le risposte fisiologiche.

Inoltre, i risultati del quarto studio hanno fornito una prova preliminare di come il grima possa essere regolato emotivamente. Difatti, i partecipanti a cui era stato chiesto di formulare delle intenzioni di attuazione sono stati in grado di ridurre selettivamente la reazione emotiva associata ai suoni acuti.

È interessante notare che gli anglofoni, i tedeschi e gli statunitensi non utilizzano un concetto analogo al grima (Studio 5) ma, nonostante ciò, sembrano riconoscere e usare i concomitanti fisiologici per riferirsi alla sua corrispondente reazione affettiva.

Dunque, l’esperienza aversiva etichettata come grima è una semplice riflesso? I riflessi sono tradizionalmente definiti come risposte semplici – e inevitabili – a specifici stimoli (Konorski, 1948). Si ritiene che essi non possano essere soppressi volontariamente, nonostante possano essere modulati da fattori come l’apprendimento (Lang et al., 1990). In linea con la ricerca sulla regolazione delle emozioni (Webb et al., 2012), i risultati del quarto studio suggeriscono che il grima possa essere regolato formando intenzioni di attuazione e, di conseguenza, potrebbe non essere considerato un riflesso. Un supporto indiretto all’ipotesi che il termine spagnolo grima si riferisca a un’esperienza emotiva piuttosto che a un riflesso, può essere trovato anche nel secondo studio dove si è visto come il grima possa essere suscitato da diversi stimoli e sembri coinvolgere anche processi cognitivi. Quindi, se accettiamo che le emozioni richiedono valutazioni cognitive, il grima non può essere considerato come un semplice riflesso o un insieme di risposte corporee.

Tuttavia, al fine di poter sostenere con fermezza che il grima sia un’emozione a sé stante, saranno necessari ulteriori studi.

Un segmento educativo: il nido

Al nido l’esperienza di ambientamento si costituisce come una situazione complessa di vissuti e relazioni interpersonali che lega educatore, genitori e bambino.

 

Dall’accudimento del bambino alla cultura per l’infanzia

I servizi per la prima infanzia (da 0 a 3 anni), nati con finalità custodialistiche e assistenziali, iniziano a essere pensati in Italia come educativi solo a partire dagli anni Settanta, periodo che ha contrassegnato lo sviluppo delle politiche sociali. È in questo contesto che viene approvata la legge n.1044 del 1971 che sancisce, per la prima volta, l’impegno da parte dello Stato a intervenire nell’educazione della prima infanzia, tradizionalmente delegata alla famiglia e in particolare alla donna. Nata, soprattutto, sotto la pressione dei movimenti femministi e in concomitanza con l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro, la legge che istituisce gli asili nido, evidenzia ancora un’impronta assistenziale, in quanto individua nella madre il soggetto principale, lasciando in secondo piano i bisogni psicologici del bambino e le potenzialità educative del servizio. Infatti, negli anni di iniziale costituzione degli asili nido, “sembra che la consapevolezza dei bisogni educativi del bambino da 0 a 3 anni fosse del tutto assente, nella legge n.1044/1971 si contempla che << il nido ha lo scopo di provvedere alla temporanea custodia del bambino per facilitare l’ingresso della donna al lavoro >> (art.2): il bambino non compare” (Bondioli, Mantovani, 1987). Nel corso del tempo, le diverse esperienze di asilo nido hanno consentito un’idea sempre più chiara nel definire appropriate soluzioni organizzative e nuovi modelli educativi, pertanto, l’intento del nido in quanto servizio non è stato solo quello di costruire strutture, ma “di inventare la loro qualità attraverso una organizzazione interna, di curarne la promozione, di riflettere sulle migliori forme di intervento pedagogico, di garantire agli operatori una formazione adeguata” (Ghedini, 1987). Gli anni Settanta sono stati quindi per l’asilo nido anni di approfondimento, di dibattito culturale e di ricerca, dai quali è emerso un preciso quadro teorico sullo sviluppo infantile che ha reso ipotizzabile, per i più piccoli, interventi formativi al di fuori della famiglia. “Si giunge, infatti, a una immagine nuova del bambino, attivo fin dalla nascita, con competenze sociali precoci, capace di stabilire relazioni significative con figure diverse da quelle familiari e con i coetanei, relazioni che hanno una funzione importante per le attività mentali” (Ugazio, 1993). In altri termini, l’infanzia inizia ad affermarsi come un periodo della vita dotato di potenzialità che necessitano di contesti adeguati per emergere, e il nido a connotarsi come “servizio educativo e non, come luogo di custodia” (Savio, 2015).

Gli strumenti dell’azione educativa

Ambientamento

Il concetto di bambino competente, che emerge dall’esperienza quotidiana dei servizi dedicati alla prima infanzia, ha consentito un’evoluzione terminologica in base alla quale “inserimento” è stato sostituito da “ambientamento”. Nello specifico, il termine “inserimento” richiama l’idea di includere un elemento nuovo in un insieme già completo/compiuto, all’interno di un’organizzazione che tiene, prevalentemente, conto del ruolo dell’educatore per favorire l’entrata al nido del bambino (Mantovani, Saitta, Bove, 2000). Il termine “ambientamento” invece sembra essere più adatto a indicare un’esperienza particolarmente significativa che vede sulla scena: diversi attori, ambiente nuovo, adulti nuovi, bambini nuovi, che progressivamente entreranno in relazione, aggiustandosi vicendevolmente, in un tempo e in uno spazio da costruire su bisogni differenti (Restiglian, 2018). Nello specifico, l’esperienza di “ambientamento si costituisce come una situazione complessa di vissuti e relazioni interpersonali che lega educatore, genitori e bambino, come un processo emotivo e psicologico che consente il passaggio dalla relazione madre-bambino a uno spazio comunicativo più allargato in cui più interlocutori agiscono”, con modalità diverse, “assecondando il percorso di separazione tra madre e bambino, allargando la dimensione relazionale e influendo su questo momento transitorio” (Galardini, 2010). Ed è proprio per questo che, come la presenza del genitore al nido insieme al bambino diviene essenziale, in quanto facilita la separazione e media una realtà sconosciuta, allo stesso modo, la capacità dell’educatore di osservare la relazione madre bambino risulta di primaria importanza nel percorso di ambientamento. In altri termini “le interazioni madre-bambino realizzano una drammatizzazione che rivela il copione” (Cramer,1992), e secondo Restuccia Saitta (2018), l’educatore dovrà leggere correttamente tale copione per potersi inserire nella relazione senza intrusività alcuna, evitando di suscitare resistenze e opposizioni da parte del bambino o gelosie e sentimenti di rivalità nella madre.

Routine

Routine è un termine francese che indica un’abitudine e il suo ritmo monotono e ripetitivo. Al nido, con tale termine, si indicano i momenti che si ripetono nel corso della giornata in modo costante, individuati a livello “biologico”, nel cambio, nell’igiene, nel pasto, nel riposo; “organizzativo”, nell’accoglienza e nel ricongiungimento; “funzionale”, nell’organizzazione degli spazi e nella gestione dei materiali (Restuccia Saitta, 2018). Storicamente, le routine sono state connotate da modalità assistenziali, in quanto ci si focalizzava solo su aspetti igienico-sanitari che occupavano gran parte della giornata, costringendo il personale ad acquisire il ruolo di sostituto della madre senza alcuna connotazione educativa. Ad oggi, invece, “le routine costituiscono veri e propri contenitori spaziali e temporali entro i quali i bambini si riconoscono e si ritrovano”, stabiliscono relazioni e si avviano allo sviluppo di competenze e alla conquista dell’autonomia. Esse scandiscono i tempi della giornata al nido e non possono essere intese in senso meccanicistico, poiché proprio la ripetizione di determinate azioni permette ai bambini di comprendere la realtà che li circonda e di controllarla, attraverso l’abitudine al fare; non si tratta di comportamenti standard stabiliti, ma adattati ai ritmi e allo stile del bambino. Non sono azioni volte solo al soddisfacimento di bisogni primari, ma sono da intendersi come gesti di cura, di sostegno fisico e psichico, pensati per soggetti non ancora autonomi e in fase di adattamento al nuovo contesto e, soprattutto, finalizzati allo sviluppo percettivo, comunicativo, cognitivo, relazionale ed emotivo-affettivo (Restiglian, 2018).

Tempi

Le diverse esperienze al nido evidenziano che, soprattutto nella fase di ambientamento, i tempi personali dei bambini vengono considerati riservando una precisa organizzazione degli orari, che continua per i più piccoli, ma che per gli altri converge in una dimensione comunitaria, entro la quale ciascuno rispetta i tempi dell’altro. In altri termini, è importante che tutti i bambini “arrivino a determinati apprendimenti e che il nido riesca ad assecondare i ritmi personali di ciascuno, nel rispetto delle differenze” (Restiglian, 2018).

Spazi e attività

Il nido è un luogo in cui il bambino è stimolato e incoraggiato al fare, pertanto la predisposizione degli spazi non solo deve essere pensata con intenzionalità educativa, ma soprattutto deve rispettare le diverse attività proposte, promuovendo l’utilizzo di materiali diversi. Il bambino, secondo Musatti (2010), è “sintonizzato” su ciò che accade nell’ambiente, e tale meccanismo gli consente di porre attenzione a ciò che fanno gli altri, traendo stimoli anche per la propria attività. La qualità del contesto determina la direzione di questo meccanismo, di conseguenza gli spazi non possono ostacolare i percorsi di conoscenza e scoperta, così come non possono essere dispersivi o stressanti, cioè con rumori di fondo e confusione. Inoltre, “il bambino ha bisogno di luoghi circoscritti in cui sentirsi rassicurato e protetto, luoghi “tana” in cui può scegliere di stare da solo o con gli altri per riposarsi, giocare, parlare e in cui lasciare e ritrovare le proprie tracce” (Restiglian, 2018). Anche i materiali devono rispondere a precisi criteri quali “la funzionalità, la praticità, l’igiene, la sicurezza e la bellezza”, di fatto, la scelta del materiale, la modalità con la quale viene messo a disposizione e l’utilizzo orientano l’attività del bambino (Stradi, 2000).

Sezioni

La sezione (Bortoletto, 2018) è lo spazio entro il quale il bambino può esprimere il proprio essere, condividendo esperienze e routine con il gruppo. Al suo interno si trova la zona dedicata all’igiene, al pranzo, al riposo, alle attività in piccoli gruppi; infatti, per consentire al bambino di sentirsi libero di esplorare e di esprimersi attraverso tutti i linguaggi del corpo, è indispensabile organizzare questi spazi in angoli o atelier.

Doverosa a questo punto la differenza con il “laboratorio”, in cui l’educatore si aspetta determinati risultati sulla base dei materiali predisposti e degli obiettivi prefissati in un ambito inizialmente individuato (Restiglian, 2018). L’“atelier” invece, “è un luogo in cui il bambino diventa protagonista” (Padoan, Paperini, 2010); costituisce, secondo il Reggio Approach di Malaguzzi, “la possibilità quotidiana di avere più punti di vista e dove il bello, la scelta estetica, non vengono considerati un optional ma una necessità del pensare del vivere” (Vecchi, 2010); definisce un contesto che stimola il bambino a produrre, offrendo materiali e presentando tecniche, ma lasciandolo libero di seguire la sua creatività e la sua curiosità.

Non ci sono quindi “obiettivi prefissati, quanto piuttosto un coinvolgimento personale e intenzionale del bambino che conduce a una sua scoperta individuale”, evidenziando il proprio “bagaglio di conoscenze e ragionamenti, con i quali cerca di dare risposte a teorie da lui stesso elaborate”. In tal senso, l’attenzione si orienta al processo “del fare”, connotato dal piacere e dal gusto estetico, anziché all’obiettivo così come stabilito e atteso (Restiglian, 2018).

Inoltre, nel sottolineare l’importanza dei tempi nel processo evolutivo dei bambini, secondo Bortoletto (2018), è necessario che l’organizzazione degli spazi/sezione segua una distinzione tra lattanti, al cui interno è previsto un gruppo di bambini che ancora non deambula, semi-divezzi e divezzi; sezioni composte invece da gruppi di bambini che hanno raggiunto una certa autonomia fisica e di movimento, tale da poter esplorare lo spazio in tutte le sue parti. L’educatore, osservando il gruppo e individuando i bisogni che naturalmente evolvono durante il processo di crescita, modificherà la composizione e la disposizione degli angoli, proponendo un ambiente sempre ricco di stimoli, utili al loro sviluppo sociale, cognitivo e motorio.

In altri termini, la complessa strutturazione di una sezione al nido è il risultato di un’efficace “osservazione”, di una continua e attenta “offerta di stimoli e di situazioni di gioco libero e strutturato”, di una necessaria “capacità di comprendere quando per il bambino è indispensabile giocare da solo e quando invece ha bisogno di un co-attore”, ossia dell’educatore, “che lo accompagni in esperienze diverse e in nuove ricerche” (Bortoletto, 2018).

Famiglia e nido

I rapporti tra famiglia e nido si sono modificati nel tempo, con modalità diverse: da un’iniziale partecipazione sociale a un coinvolgimento al progetto educativo, sino a giungere, ad oggi, a un’attiva collaborazione alla vita del nido.

“Il dialogo con la famiglia non deve essere a corrente alternata ma a corrente sistemica cioè a corrente forte” (Malaguzzi, 1991).

Il bambino è affidato al servizio nido, in un momento delicato della sua crescita nel quale la famiglia ha un ruolo imprescindibile; pertanto diviene fondamentale la conoscenza del sistema famiglia al fine di predisporre e strutturare, una qualsivoglia azione educativa.

“Per educare un bambino è necessario […] trovare tempo e spazio […] per i genitori e con i genitori” (Milani, 2008).

Ciascun bambino, possiede caratteristiche proprie che lo rendono unico e diverso dall’altro; pertanto valorizzare il sapere dei genitori, attraverso il riconoscimento della loro esperienza, consente di adeguare e/o migliorare il proprio agire educativo. “Dal sapere dell’esperienza, nasce il sapere della cura” (Zucchi, 2018).

In altri termini affidare un bambino alle cure di un servizio esterno alla famiglia, nonostante le convinzioni sulla positiva funzione educativa, non è una scelta semplice; è infatti il primo incontro che la famiglia realizza in un contesto sociale esterno. “Aspettative, ansie e sentimenti contradditori nascono dall’inevitabile conflitto tra la volontà di affidare il bambino e il timore di perdere qualcosa durante la temporanea separazione”. Diviene dunque necessaria la consapevolezza che “accogliere un bambino al nido significa accogliere anche una famiglia con le sue peculiarità”, di fatto “ogni intervento non si esaurisce nel solo ed esclusivo rapporto con il bambino, ma si colloca in una dinamica relazionale che coinvolge la madre e il padre e il tipo di relazione che questi hanno con il proprio figlio” (Galardini, 2018).

Il nido in quanto segmento educativo

Un servizio nido non è intrattenimento, ogni azione educativa proposta è il risultato di un’attenta, puntuale e sistematica osservazione e si connota di intenzionalità, in quanto focalizzata esclusivamente sul bambino. Essa, in termini di progettazione, diviene elemento indispensabile per l’educatore, che, partendo da ipotesi non definite a monte, ma risultanti dalla conoscenza del contesto in essere, traduce i suoi saperi, adeguandoli alle competenze del bambino, alla sua età, alla sua storia, ai suoi bisogni e alle sue caratteristiche individuali. In altre parole, il bambino diviene protagonista in un ambiente piacevole, rassicurante e favorevole all’acquisizione di conoscenze e di competenze, attraverso routine pensate e strutturate ad hoc. Ed è proprio rispetto all’acquisizione di conoscenze e competenze che il nido pone le basi per il successivo percorso formativo alla scuola dell’infanzia. “Significa, quindi, pensare al nido come segmento educativo” (A.de Gaetano, 2020)

 

Social skills e caregiving: migliorare il processo di cura e assistenza, la relazione ed il benessere soggettivo

I caregiver socialmente responsabili con buone capacità interpersonali tendono ad avere una qualità superiore di vita rispetto ai caregiver con un repertorio limitato di abilità sociali.

Annalisa D’Errico – OPEN SCHOOL, Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Mestre

Cosa s’intende per caregiver e caregiver burden?

La parola caregiver deriva dalla lingua inglese e letteralmente significa “colui che presta le cure”. Si possono distinguere due tipologie di caregiver: informale, si identifica normalmente con un famigliare del paziente (più frequentemente un figlio o un coniuge) o altre volte può essere un amico; formale, si identifica con un professionista come il medico o l’infermiere. In generale, dunque, colui che viene riconosciuto come caregiver assume il ruolo di responsabile attivo nella presa in carico di un secondo individuo, e si impegna inoltre a svolgere una funzione di supporto e cura nei confronti di una persona che si trova in condizione di difficoltà. Nel caso del caregiver informale quindi, colui che all’interno di un nucleo famigliare si assume il compito principale di cura e assistenza, va a rivestire un ruolo fondamentale nella storia della malattia del proprio caro (Fasinelli, 2005).

Il termine caregiver burden è un concetto multidimensionale riferito all’impatto complessivo che il carico assistenziale di un malato comporta sul benessere di tipo fisico, psicologico ed emozionale del caregiver; comprende inoltre disagi di ordine sociale e finanziario. Zarit e colleghi (1980) lo hanno definito come: “La misura in cui i caregiver percepiscono che il caregiving ha avuto un effetto negativo sul loro funzionamento emotivo, sociale, finanziario, fisico e spirituale”. Questa definizione sottolinea il pedaggio multidimensionale che l’assistenza può avere sugli operatori sanitari e sui familiari e anche che il caregiving è un’esperienza altamente individualizzata.

In molti Paesi le famiglie sono chiamate ad erogare un’assistenza sempre più complessa ai congiunti malati. I trattamenti migliori e che hanno prolungato la durata della vita della maggior parte dei pazienti con malattie croniche, sono quelli che hanno richiesto il coinvolgimento del caregiver (Given et al., 2001). Tale pratica richiede un livello di conoscenze e capacità assistenziali senza precedenti a persone estranee all’ambiente sanitario (Barg et al., 1998). Benché le abilità richieste ai familiari in varie situazioni cliniche siano state descritte (Grobe, 1981), e anche gli interventi atti ad accrescerle (Archbold et al., 1995), le abilità di caregiving familiare non sono ancora state sviluppate formalmente come concetto. Lo sviluppo concettuale delle abilità di caregiving familiare è essenziale nell’era attuale dell’assistenza. Poiché le famiglie diventano sempre più responsabili dell’assistenza a propri membri gravemente malati, gli interventi destinati ad assisterle devono fondarsi su basi teoriche solide.

Molti caregiver familiari riferiscono di non avere le competenze e le conoscenze necessarie per fornire assistenza continua a una persona malata, quindi mancano di fiducia e si sentono impreparati. I caregiver dicono di ricevere poche indicazioni da parte dei professionisti, che non hanno familiarità con il tipo e l’importo di cure necessarie e che non sanno come fare per accedere e utilizzare le risorse. Tutto ciò, compresi i sentimenti di incertezza, contribuiscono alla loro angoscia.

Sono disponibili poche informazioni sulle conoscenze e le abilità di cui i caregiver familiari hanno bisogno per fornire assistenza o su come le loro conoscenze e abilità influiscano sull’assistenza. La maggior parte degli studi non organizza o classifica gli interventi in base ai compiti dei caregiver o alle conoscenze e abilità di cui hanno bisogno, ma queste informazioni sono vitali per pianificare e attuare interventi che li aiuteranno. I concetti di padronanza, preparazione e competenza sono stati considerati come componenti necessarie per un processo decisionale efficace e per la risoluzione dei problemi da parte dei caregiver familiari (Archbold et al., 1995), ma il sistema di cura formale ha prestato poca attenzione a queste componenti.

La capacità del caregiver familiare di fornire assistenza di qualità e contribuire alla gestione delle malattie croniche è una risorsa sanitaria vitale. Gli operatori sanitari dovrebbero essere di supporto a caregiver familiari e aiutarli ad acquisire conoscenze e competenze al fine di massimizzare la qualità della cura. I professionisti devono aiutare i caregiver familiari a sviluppare capacità di problem solving, organizzazione e capacità di comunicazione.

Social skills e caregiving

Il caregiving comporta richieste di abilità sociali che possono contribuire a minimizzare i conflitti e massimizzare la qualità della vita dei caregiver, dei pazienti e di altre persone coinvolte nel contesto assistenziale. Nonostante la mancanza di studi sulle abilità sociali di chi si prende cura, ricerche condotte in altri contesti indicano che le persone con abilità sociali ben sviluppate, hanno maggiori probabilità di stabilire relazioni di buona qualità, portando a una salute e ad un benessere migliore (Bandeira, 2014; Lima, 2014; Pinto &Barham, 2014). Il concetto di abilità sociali si riferisce a comportamenti che esistono nel repertorio di un individuo e che vengono utilizzati in interazioni con altre persone (Del Prette & Del Prette, 2013).

Una persona socialmente competente in un ruolo professionale, potrebbe non essere altrettanto competente nel contesto dell’assistenza e della cura e viceversa. Le abilità sociali coinvolgono varie classi di comportamento sociale, tra cui: espressione di sé, capacità di coping, espressione delle emozioni positive, comunicazione assertiva, stabilire nuove relazioni o adattarsi a nuove situazioni e controllare le reazioni aggressive. In termini di prove riguardanti l’importanza di abilità sociali nei caregiver, i ricercatori hanno dimostrato che i caregiver socialmente responsabili con buone capacità interpersonali tendono ad avere una qualità superiore di vita rispetto ai caregiver con un repertorio limitato di abilità sociali (Bandeira et al., 2014; Pinto &Barham, 2014).

Per essere socialmente competenti, i caregiver potrebbero aver bisogno di usare un maggiore autocontrollo per evitare di reagire in modo aggressivo ad ostilità da parte dell’altra persona, per identificare i fattori che contribuiscono al problema e calmare l’altra persona e se stessi, in modo che possano decidere il modo migliore per risolvere il problema. A seconda dell’eccitazione emotiva delle persone durante un conflitto ed errori di attribuzione causale, basati su storie familiari, il caregiver potrebbe non essere in grado di analizzare il problema e pensare subito alle soluzioni migliori. Come alternativa, ritirarsi dal conflitto e tornare al problema dopo il tempo di riflessione può essere più efficace, oppure una risposta socialmente più adeguata. Anche le abilità sociali, così come i comportamenti disadattivi (come evitare contatti sociali, non esprimere opinioni, attaccare le idee degli altri), sono comportamenti appresi (Del Prette & Del Prette, 2008, 2013). I comportamenti disadattivi possono anche generare risultati positivi, ma a breve termine, come ridurre l’ansia dei caregiver e frustrazioni momentanee (Gresham, 2010), ma questi comportamenti non portano a soluzioni a medio o lungo termine.

In due studi sugli effetti della formazione sulle abilità sociali per i caregiver di persone anziane (Robinson, 1988; Robinson & Yates, 1994), le persone che hanno partecipato a programmi di formazione hanno dimostrato comportamenti socialmente più competenti nella loro vita quotidiana. Quindi, sembra che buone abilità sociali, che si traducono in comportamenti socialmente competenti, possono influenzare positivamente il benessere di chi si prende cura degli anziani e la qualità delle loro relazioni interpersonali. Tuttavia, c’è ancora poca informazione su questo contesto. Questo studio mirava ad identificare i principali conflitti coinvolti nel caregiving, per identificare le abilità sociali considerate importanti quando si ha a che fare con questo compito, che aiutano a ridurre al minimo i conflitti.

Quindi, possiamo concludere dicendo che ci sarebbe la necessità di individuare le esatte abilità sociali atte a migliorare il processo di caregiving e fornire una solida base teorica. Ciò avrebbe ripercussione anche sugli interventi professionali che hanno l’obiettivo di aumentare le abilità sociali nei caregiver avendo impatto positivo non solo sulla persona stessa, ma anche sulla relazione con il proprio caro e sulla patologia, aumentando la qualità di vita, migliorando quindi il processo di cura e assistenza, la relazione ed il benessere soggettivo.

 

Disturbo dell’orgasmo femminile: quanto ne sa la scienza? – FluIDsex

Il disturbo dell’orgasmo femminile viene classificato all’interno del DSM-5 (APA, 2013) nell’area nosografica delle disfunzioni sessuali.

 

Tutti i disturbi classificati all’interno di quest’area sono caratterizzati da un’anomalia nel processo che comporta il ciclo di risposta sessuale, o sono caratterizzati da un dolore associato al rapporto sessuale.

Il disturbo dell’orgasmo femminile viene definito dal DSM-5 (APA; 2013) come un marcato ritardo, o addirittura l’assenza, del raggiungimento dell’orgasmo in una normale fase di eccitazione sessuale. Questo tipo di disturbo viene considerato tale se la donna presenta una difficoltà nel raggiungimento dell’orgasmo anche con la masturbazione. Inoltre questo disagio deve perdurare per almeno 6 mesi ed essere clinicamente significativo.

Diversi studi mostrano come la difficoltà orgasmica colpisca il 16-28% delle donne negli USA, in Europa, nell’America centrale-meridionale, arrivando fino al 46% nella Cina continentale e in altri paesi asiatici (Laan et al., 2013; Zhang et al., 2017).

Questa difficoltà può dipendere da diversi fattori tra cui l’età e lo stato ormonale della donna, la salute e la sua esperienza sessuale. È inoltre importante tenere in considerazione la qualità del rapporto sessuale; in particolare se la stimolazione è adeguata durante l’attività sessuale, se l’attività sessuale è svolta in coppia o meno, e considerare la natura della relazione diadica (ad esempio, se il rapporto sessuale è occasionale o se avviene all’interno di una relazione continuativa) (Armstrong et al., 2012; Smith et al., 2014).

Il disturbo dell’orgasmo femminile può essere classificato in base al momento di insorgenza del disturbo: viene definito permanente se la donna non ha mai sperimentato un orgasmo né da sola, né con il partner con qualsiasi tipo di stimolazione; è acquisito, se invece la donna ha sviluppato il disturbo dopo aver provato l’orgasmo in passato. Questo disturbo, inoltre, può essere “generalizzato” se l’impossibilità di raggiungere l’orgasmo si ha in ogni contesto, oppure viene definito “situazionale” se la difficoltà si presenta solo in determinate situazioni (APA, 2013).

A causare il disturbo dell’orgasmo femminile sono coinvolti diversi fattori fisiologici, neurologici e psicosociali. Disfunzioni muscolari del pavimento pelvico, cambiamenti ormonali causati ad esempio dalla menopausa o da contraccettivi ormonali, malattie croniche come il diabete o la sclerosi multipla o lesioni ed interventi chirurgici che colpiscono i nervi (Meston et al., 2004).

Da un punto di vista clinico, per una donna che soffre del disturbo dell’orgasmo è importante indagare anche il contesto sociale e le sue esperienze di vita, questo perché divieti culturali o religiosi, atteggiamenti negativi verso il piacere sessuale, mancanza di informazioni sulla sessualità o esposizioni ad abusi o esperienze sessuali traumatiche potrebbero aver contribuito all’insorgenza sintomatologica di questo disturbo (Heiman & Lo Piccolo, 1988; Meston et al., 2004).

Alcune donne che sperimentano difficoltà a raggiungere l’orgasmo, o addirittura non lo hanno mai raggiunto, mostrano ansia e vergogna associate all’insoddisfazione per i propri rapporti sessuali. Tali condizioni psicologiche risultano essere l’effetto dell’anorgasmia, ma, in una sorta di circolo vizioso, sono considerate anche alcune delle cause di tale disturbo (Meston et al., 2004; Laan et al., 2013; Tavares et al., 2018).

Personalità e difficoltà nel raggiungere l’orgasmo

Diversi studi (Bridges et al., 1985; Loos et al., 1987; Mah & Binik, 2001; Harris et al., 2008) hanno inoltre mostrato come la difficoltà nel raggiungimento dell’orgasmo sia associata a particolari tratti di personalità come il bisogno di controllo e la paura di perderlo, emozioni represse, maggiore dipendenza dall’altro, apprensione e negatività, instabilità emotiva e il non essere aperti a nuove esperienze. Tavares e colleghi (2018) hanno valutato il ruolo di personalità, inibizione ed eccitazione sessuale, e delle credenze sessuali nel predire il verificarsi dell’orgasmo femminile. È emerso che la personalità non gioca un ruolo significativo nella regolazione dell’orgasmo femminile, ad esclusione del tratto di estroversione, che ha una relazione positiva con la frequenza dell’orgasmo. Inoltre, è emerso che l’inibizione sessuale associata alla paura del fallimento della prestazione predicono negativamente l’orgasmo femminile.

Si può dire quindi che oltre ai fattori organici, ad influenzare lo sviluppo di questo disturbo siano coinvolti anche fattori socioculturali, emotivi e psicologici che interessano donne di tutte le età.

In un altro studio del 2019 (Gruenwald et al.) si sono indagati i possibili deficit sensoriali nelle donne con disturbo dell’orgasmo femminile.

Deficit sensoriali e disturbo dell’orgasmo femminile

I risultati della ricerca hanno mostrato come le donne con disturbo dell’orgasmo femminile richiedano intensità più elevate di stimolazione clitoridea per raggiungere le soglie, rispetto alle donne con altre disfunzioni sessuali, in cui però l’anorgasmia non è la loro difficoltà principale.

Secondo questo studio, quindi, le donne con disturbo dell’orgasmo femminile soffrono di un’iposensibilità clitoridea, ed il clitoride gioca dunque un ruolo importante nel raggiungimento dell’orgasmo sessuale (Gruenwald et al, 2019).

Trattamenti per il disturbo dell’orgasmo femminile

Per quanto riguarda i trattamenti, tre sono le categorie di trattamenti psicologici individuate, utilizzate per la cura del disturbo dell’orgasmo femminile: (i) la masturbazione diretta, (ii) la desensibilizzazione sistemica ed (iii) il focus sensoriale (Meston et al., 2004; Marchand, 2020).

La masturbazione diretta è una tecnica cognitivo comportamentale mindfulness-based che comporta l’esposizione graduale alla stimolazione genitale utilizzando strumenti psicologici per migliorare l’attenzione agli stimoli sessuali e per ridurre l’ansia sperimentata. Questo tipo di tecnica è risultato essere molto utile anche per le donne con un disturbo dell’orgasmo permanente e generalizzato (LoPiccolo & Lobitz, 1972; Heiman & LoPiccolo, 1988; Heiman, 2002; Laan et al., 2013).

La desensibilizzazione diretta è invece una terapia basata sull’esposizione ad un’ansia specifica in cui si crea una gerarchia di esperienze temute, esponendosi a ciascuna di esse. Alcune di queste potrebbero essere, ad esempio, un bacio prolungato con il partner o essere spogliati dal partner (Lazarus, 1963).

Infine, la tecnica del focus sensoriale è una tecnica comportamentale mindfulness-based utilizzata per ridurre l’ansia, in cui si accompagna il paziente a focalizzarsi sulle sensazioni fisiche durante l’attività in coppia (Weiner & Avery-Clark, 2014). Questa tecnica, sviluppata da Master e Johnson (1970), consiste in uno scambio di carezze sul corpo da parte dei partner in un contesto di non richiesta. Inizialmente viene escluso il contatto con i genitali o il seno, successivamente vengono integrate anche queste aree in base all’acquisizione di comfort da parte dei partner e delle loro capacità di attenzione verso le sensazioni corporee. Il focus sensoriale è un trattamento utilizzato soprattutto per il disturbo dell’orgasmo femminile situazionale in un contesto di coppia (Carney et al., 1978).

Futuri sviluppi per quanto riguarda il disturbo dell’orgasmo femminile

In generale, si può affermare che il disturbo dell’orgasmo femminile interessi una buona parte della popolazione generale femminile, e le ricerche future potrebbero basarsi su un campione più ampio rispetto ai campioni su cui sono basati gli attuali studi scientifici. Inoltre, basandosi sui risultati ottenuti si potrebbe migliorare anche l’informazione a livello mediatico, con lo scopo di aumentare la consapevolezza rispetto ad un tema che è molto più comune di quel che si pensa, e che spesso non viene affrontato perché considerato ancora un tabù nella società odierna.

 


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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

 

La moglie di Darwin -L’arte di prendere decisioni lungimiranti (2021) di Steven Johnson – Recensione

“Esiste un’abilità più importante di quella di compiere scelte difficili?” Questo è il quesito posto da Steven Johnson nel libro La moglie di Darwin.

 

Dan e Chip Heath, autori del libro Decisive, fanno notare che “La gran parte delle organizzazioni sembra seguire lo stesso processo decisionale di un adolescente in preda agli ormoni” (Heath e Heath, 2013).

Chi non vorrebbe compiere scelte migliori?

In qualsiasi ambito, sia personale che professionale e in ogni fase della vita, saper prendere decisioni risulta essenziale. Non c’è bisogno di avere in mente una carriera particolarmente importante e ambiziosa per trovare utile la conoscenza di questo strano superpotere. La facoltà di prendere decisioni a lungo termine è una delle poche caratteristiche, insieme ad altre, davvero esclusive dell’Homo sapiens.

Vista l’importanza sarebbe utile che diventasse un percorso pedagogico, cardine della nostra istruzione e tra i vari vantaggi lo studio del processo decisionale offre un prezioso ponte tra le scienze e le discipline umanistiche. Daniel Kahneman (2011) nel libro Pensieri lenti e veloci ha introdotto l’idea del cervello suddiviso in due sistemi distinti, entrambi coinvolti nel processo decisionale.

Il libro La moglie di Darwin attinge dalla ricerca scientifica sul processo decisionale e dagli studi che ci aiutano a vedere oltre i nostri preconcetti, pregiudizi e prime impressioni. Analizza diversi contesti socio-politici, storici e biografici che spesso si intrecciano, come nel caso personale di Darwin, tracciando il processo decisionale adottato ed esamina le conseguenze di tali decisioni.

In questo percorso è necessario abbracciare l’incertezza, come lo descrive Richard Feynman nel suo libro Il senso delle cose:  “…Il dubbio ci spinge a guardare in nuove direzioni e cercare nuove idee…Se non si potesse, o volesse, guardare in nuove direzioni, se non si avessero dubbi, o non si riconoscesse il valore dell’ignoranza, non si riuscirebbe ad avere idee nuove” (Feynman, 1999, p. 36).

Quasi tutte le strategie descritte in questo volume perseguono, fondamentalmente, lo stesso obiettivo: aiutarci a vedere la situazione da nuove prospettive, forzare i limiti della razionalità e considerare un’ingente quantità di strategie che possono evitarci decisioni inadeguate.

I primi tre capitoli descrivono le tecniche per effettuare le decisioni di gruppo, seguendo in generale la sequenza di molti percorsi decisionali come:

  • Mappatura
  • Previsione
  • Compimento della scelta

I capitoli successivi sviluppano aspetti decisionali che riguardano questioni di più ampia portata e le decisioni personali, come quella con cui era alle prese Darwin.

Mappare

Il modo migliore di cominciare il viaggio di una scelta difficile è avere una buona mappa. Ma mappare non equivale a decidere. Ciò che la mappa dovrebbe svelare è un insieme di vie potenziali. I teorici delle decisioni hanno sviluppato uno strumento per schematizzare questi tipi di scelte: i diagrammi di influenza. Prendere decisioni complesse non significa solo mappare il terreno che influenzerà ciascuna scelta, è anche questione di scoprire nuove alternative, come ha evidenziato lo studio di Paul Nutt (2002).

Prevedere

Nel 1995 Adreasen osservò che quando il cervello/la mente pensa liberamente, senza vincoli, utilizza le sue parti più umane e complesse e grazie alla tomografia PET è emerso quanta energia richieda sognare a occhi aperti. Molti studi hanno messo in evidenza che il cervello si è rivelato essere più attivo a riposo rispetto a quando dovrebbe presumibilmente essere attivo. Quando lasciamo viaggiare la mente, questa comincia spontaneamente a passare al vaglio scenari immaginari su quello che ci attende.  Gli scienziati hanno denominato questo ricorrente pattern di attività “rete di default”.

Decidere

Mappare, prevedere, simulare: sommati tra loro non equivalgono a decidere. Una volta mappato il paesaggio, stabilita una gamma completa di opzioni e simulati gli esiti di quelle opzioni con la massima certezza possibile, come si fa, dunque, a scegliere?

Dalla prima descrizione dell’“algebra morale” di Benjamin Franklin sono stati escogitati sistemi sempre più elaborati per prendere decisioni.

Tuttavia l’incertezza, come Herbert Simon ha notoriamente dimostrato, è un fattore inevitabile in qualsiasi decisione complessa e dedicare troppo tempo a sondare l’incertezza rischia di lasciarci in un limbo amletico di indecisione. Per questo motivo Jeff Bezos, fondatore di Amazon, è famoso per seguire la “regola del 70%”.

Se abbiamo fatto un lavoro accurato in tutte le fasi di mappatura e previsione, la scelta vera e propria spesso diventa lampante. Le fasi di mappatura e previsione di una scelta complessa servono a dare alla rete di default più materiale da elaborare.

Il capitolo dedicato alla scelta globale affronta il tema dei supercomputer che hanno cominciato ad assumere il ruolo che nell’antichità spettava agli oracoli: ci consentono di sbirciare nel futuro. A mano a mano che la loro capacità di preveggenza cresce, facciamo sempre maggiore affidamento su queste macchine perché ci assistano nelle scelte difficili, e forse persino perché le compiano al nostro posto.

Queste macchine possono essere pericolose?

Immaginiamo di programmare una AI con quello che, all’apparenza, è l’obiettivo più innocuo immaginabile: la massima felicità del maggior numero possibile di persone. Fissiamo quello come valore generale e lasciamo decidere alla macchina l’approccio migliore per convertirlo in realtà.

L’ AI potrebbe benissimo elaborare uno scenario che, tecnicamente, raggiungerebbe l’obiettivo, ma che potrebbe risultare immediatamente inaccettabile per gli esseri umani.

La gran parte del dibattito intorno alla AI superintelligente è dedicata a sviscerare il cosiddetto “problema di contenimento” ossia come mantenere il genio della AI dentro la bottiglia pur continuando ad attingere ai suoi poteri, magistralmente rappresentato nel film Ex Machina di Alex Garland.

Se il punto è calcolare la massima felicità del maggior numero possibile di persone, quale migliore abilità può esserci se non quella di prevedere la presenza o assenza di felicità nella mente di altre persone?

L’autore suggerisce l’empatia, così descritta: “… quel talento di saper sbirciare nella mente di un’altra persona e immaginare l’effetto che un certo evento teorico potrebbe avere su di essa, è quasi per definizione una delle virtù più importanti quando si tratta di prendere decisioni complesse”.

Inoltre diverse ricerche hanno confermato che l’abitudine alla lettura della narrativa letteraria è in forte correlazione con una migliore capacità di teorizzare la mente. Come scrive Rebecca Mead:

“…se davvero mi importa di te — se cerco di calarmi nella tua posizione e nel tuo orientamento —, allora il mio mondo viene migliorato da quello sforzo di interpretazione e comprensione” (Mead, 2014, p. 223).

In un certo senso possiamo concepire il romanzo stesso come un tipo di tecnologia, analogamente alla gran parte delle tecnologie si sviluppa a partire da abilità già possedute per potenziarle; insieme ad altre forme d’arte come i film e le narrazioni seriali televisive, è una versione amplificata della narrazione istintuale della rete di default. Il romanzo sta ai sogni a occhi aperti della rete di default come il telescopio Hubble sta al nostro apparato visivo. Sono tutti strumenti che ci permettono di vedere più lontano e più in profondità.

Nel capitolo dedicato alla scelta personale l’autore si riferisce alla decisione personale di Darwin riguardante la scelta di sposarsi o meno. Darwin considerò pro e contro e in base ai suoi valori, tuttavia vengono prese in considerazione varie opzioni, come l’algoritmo morale. Anche se può risultare riduttivo prendere una decisione complessa ed emotiva comprimendola in una formula matematica, tuttavia vengono presi in esame alcuni calcoli che possono essere di aiuto a ridurre l’elenco alle sole alternative che valga la pena di tenere in considerazione.

Inoltre, considerando che non possiamo avere una visione perfetta delle conseguenze a valle delle nostre scelte, il fattore incertezza è inevitabile e quindi Johnson si sofferma sulle strategie disponibili per attenuarla. Un’altra decisione sconvolgente che dovette affrontare Darwin riguardò la possibilità di pubblicare o meno la sua radicale teoria dell’evoluzione. Decisione molto delicata perché i valori profondi in gioco che riguardavano lo sviluppo della teoria e quelli personali erano sostanzialmente inconciliabili.

Il libro è il frutto di un lavoro di raccolta di esperienze e riflessioni dell’autore durato circa 10 anni fino ad arrivare alla sua completa realizzazione. Oltre alla creatività, l’empatia, la resilienza, Johnson colloca la capacità di prendere decisioni complesse vicino alla cima della classifica delle capacità più importanti dell’essere umano, è il nocciolo di ciò che intendiamo con la parola “saggezza”.

 

Binge drinking e binge eating: esiste una relazione tra assunzione eccessiva di alcol e di cibo?

Capita spesso nel settore psicologico di sentir parlare di binge eating e di binge drinking, ma la relazione tra i due viene considerata piuttosto raramente.

 

L’eccessivo consumo di alcol e l’abbuffata sono due comportamenti disfunzionali che possono tradursi rispettivamente nel disturbo da uso di alcol e nei disturbi alimentari (APA, 2013). È ormai noto che questi comportamenti disfunzionali siano associati ad un disagio psicologico di fondo, che può portare ad abitudini disadattive di vario tipo. Capita spesso nel settore psicologico di sentir parlare di binge eating e di binge drinking, ma la relazione tra i due viene considerata piuttosto raramente. Proprio per questo motivo Azevedo e colleghi hanno scelto di realizzare una revisione sull’argomento (Azevedo et al., 2021). La revisione integrativa ha incluso ricerche sull’argomento pubblicate dal 2015 al 2019, per un totale di 964 articoli, i quali hanno indicato l’esistenza di una relazione tra abbuffate ed elevato consumo di alcol, evidenziando come alcuni fattori siano stati associati a questa comorbilità.

Per quanto riguarda le caratteristiche della popolazione di riferimento, è stato confermato che le donne tendono ad avere episodi di binge eating e binge drinking in numero maggiore rispetto agli uomini (Souza da Silva et al., 2016, Fouladi, 2015; Freitas, 2015). Per ciò che concerne il fattore età, è stata rilevata una maggiore frequenza di consumo di alcol nei giovani adulti fino a 38 anni (Martin et al., 2015; Freitas, 2015).

Dal punto di vista clinico, l’indagine ha evidenziato come il consumo di alcol sia spesso associato a disturbi alimentari con episodi di abbuffate, come bulimia nervosa (Rolland et al., 2017, Chapa, 2018; Martin et al., 2015); Fouladi, 2015], binge eating disorder (Rolland et al., 2017; Chapa et al., 2018; Fouladi, 2015), ed anoressia nervosa di tipo purging, vale a dire con condotte di eliminazione (Fouladi, 2015). Uno studio longitudinale sulla salute complessiva che aveva come campione 15.074 adulti, ha mostrato come il 6,5% dei soggetti riportasse 2 o più episodi di abbuffate a settimana ed utilizzasse elevate dosi di alcol una o due volte a settimana (8,9%) (Souza da Silva et al., 2016). Altri studi hanno mostrato come persone che svolgevano eccessivo esercizio fisico (Castañeda, 2019, Martin et al., 2015), diete restrittive (Castañeda, 2019; Martin et al., 2015), digiuno o condotte di eliminazione, erano più soggette al consumo problematico di alcol (Martin et al., 2015).

Per ciò che concerne il peso e l’immagine corporea, è stato rilevato che le donne che consumavano alcol erano insoddisfatte del proprio peso (36%) e del proprio corpo (34%), avevano sensi di colpa durante i pasti (45,5%), paura di perdere il controllo sulla propria dieta (30%), nonché un forte desiderio di perdere peso (50%) (Cranford et al., 2010). Un altro studio che ha indagato la differenza tra i sessi nella cooccorrenza di binge drinking e binge eating, ha rilevato come tra le donne l’uso eccessivo di alcol fosse associato a insoddisfazione per il peso e alimentazione compulsiva, mentre tra gli uomini fosse correlato ad eccesso di peso, vomito e uso di lassativi (Stickley, 2015).

Per quanto riguarda i fattori genetici e ambientali, l’influenza genetica sullo sviluppo dei sintomi bulimici e sul consumo di alcol è chiara e riconosciuta in letteratura (APA, 2013; Hilbert, 2019; Baker, 2017). I geni possono predeterminare le caratteristiche di una persona che portano direttamente o indirettamente a comportamenti a rischio come un’alimentazione disordinata e il consumo disregolato di alcol, e si ritiene che entrambe le condizioni abbiano percorsi neurali comuni (Baker, 2017). Entrando nel dettaglio, uno studio condotto negli USA con adolescenti tra i 16 e i 17 anni ha identificato correlazioni fenotipiche e genetiche tra coinvolgimento nell’uso di alcol, desiderio di un corpo magro e insoddisfazione del corpo, che erano significativamente più elevate nelle femmine (Baker, 2017). Un altro studio ha trovato risultati differenti, secondo cui l’associazione tra consumo di alcol e sintomi bulimici era quasi il doppio nei gemelli monozigoti rispetto ai gemelli dizigoti; questa ricerca ha anche dimostrato una significativa associazione tra uso di alcol e sintomi bulimici nei maschi. Questi risultati suggeriscono che i fattori genetici hanno una forte influenza sulle abbuffate e sul consumo di alcol (Baker, 2017).

Per quanto riguarda la sfera emotiva e l’impulsività, è noto che le abbuffate e il consumo di alcol siano comportamenti legati alla disregolazione emotiva (Pisetsky, 2016), all’impulsività (Sysko, 2017) o ad entrambi (Stojek et al., 2014; Mikheeva&Tragesser, 2016). Questa comorbidità può inoltre essere ulteriormente associata a ideazione suicidaria e tentativi di suicidio, ansia e disturbi dell’umore. A conferma di ciò, Pisetsky et al. hanno valutato le emozioni positive e negative in 133 donne con bulimia nervosa, scoprendo che il 33,8% di loro ha auto-riferito almeno un episodio di intossicazione da alcol durante il periodo studiato, e che l’assunzione di alcol era preceduta e seguita da tristezza (Pisetsky, 2016). Questi risultati suggeriscono che l’alcol non funge da meccanismo di regolazione emotiva. I ricercatori hanno anche notato che il consumo di alcol e/o cibo può essere una strategia di regolazione emotiva per affrontare la sofferenza, e che l’azione impulsiva è spesso una strategia per tentare di evitare o deviare tali emozioni negative (Mikheeva & Tragesser, 2016). Le emozioni negative e la tendenza ad agire impulsivamente sono quindi comportamenti comuni legati al binge eating e al binge drinking (Kim, 2018). In effetti, gli individui che bevono alcol hanno maggiori probabilità di adottare azioni affrettate, come il binge eating, quando provano emozioni negative (Kim, 2018).

I risultati del presente studio hanno indicato che esiste una relazione tra abbuffate e consumo di alcol, che è influenzata da molte variabili. L’indagine ha mostrato che le caratteristiche sociodemografiche, nutrizionali, genetiche, ed emotive dei campioni analizzati sono rilevanti in questo fenomeno. Questi risultati possono supportare azioni e strategie terapeutiche per l’identificazione dei casi e trattamenti più efficaci per soddisfare le esigenze biopsicosociali degli individui.

La solitudine che è in noi: un’esperienza esistenziale di profonda libertà e potenziale creativo

Gli individui sono spesso isolati dagli altri o da parti di loro stessi, ma ciò non va confuso con la solitudine esistenziale. Essa si riferisce ad un abisso incolmabile tra un individuo e ogni altro essere, ma anche ad un isolamento più fondamentale, una separazione tra l’individuo e il mondo.

 

Il verbo esistere (ex-istere, staccarsi), implica un processo di separazione e differenziazione da un altro, un altro che durante le prime fasi dello sviluppo rappresenta una fonte di protezione assoluta e nondimeno indispensabile per la sopravvivenza (Yalom, 1980). Più avanti, nel corso dello sviluppo, si possono cercare sicurezza e protezione in un genitore, in un insegnante, in un partner, che in condizioni di pervasività e persistenza, possono portare ad una forte stagnazione della qualità di vita e dell’esperienza dell’individuo. Secondo lo psicoanalista Otto Rank, il soggetto, durante il percorso di vita, si trova a fronteggiare due tipi di paure: la paura della vita e la paura della morte. La prima fa riferimento alla paura di separarsi, di dover fronteggiare la vita come esseri autonomi, di affermarsi e realizzare il proprio potenziale e che comporta, se presente in maniera pervasiva e persistente, una quota di angoscia di morte, un senso di abbandono e pericolo rispetto alla possibilità e al diritto di affermare le proprie opinioni, i propri desideri e bisogni. Casi tipici di estremo sacrificio di sé, di immolazione, di autoannullamento, si possono ritrovare nelle personalità masochistiche, dove la persona, durante la propria vita, sviluppa la credenza che, tollerare il dolore e la sofferenza, come lo stare in relazioni estremamente precarie, talvolta pericolose, e totalmente non reciproche, comporti il raggiungimento di un qualche bene maggiore, una qualche ricompensa. Ciò, da un punto di vista esistenziale, emerge da un estremo bisogno di sicurezza, dove la forza del legame nasce dal terrore di rimanere soli e dal bisogno di un essere potente e magico, da cui ricevere protezione, approvazione e ricompensa a qualunque costo. A tal proposito, si fa riferimento a soggetti cresciuti in ambienti abusanti con ripetute esperienze traumatiche (trauma relazionale) dove la costanza dell’oggetto non è stata raggiunta, dove i vissuti legati alle esperienze di attaccamento risultano separati nel tempo e dove nel senso di continuità nella percezione del caregiver (spaventante-spaventato), “sicuro” può anche diventare un ambiente abusante, all’interno del quale però la persona impara in maniera implicita e automatica, come esercitare strategie di controllo, volte ad anticipare l’eventuale pericolo. Il bambino avrà bisogno di impiegare risorse sproporzionate per comprendere il comportamento del genitore, alle spese però della percezione della realtà in termini di stati mentali e della loro relativa intenzionalità. Emergono, in questi casi, dinamiche in cui, non potendo trovare un continuum spazio-temporale tra più stati della mente, un senso di continuità e coerenza, il soggetto estende all’altro rappresentazioni di sé aliene e incongruenti, attraverso schemi rigidi e ripetitivi che permettono di avere un controllo contingente sulla realtà e un senso, seppur precario ed estremante disfunzionale, di sicurezza. La paura, quale una delle emozioni dominanti in esperienze traumatiche cumulative, viene autoindotta, attraverso per esempio il meccanismo di difesa primitivo dell’identificazione proiettiva e ciò permette di trovare conferme all’esterno di ciò che non può essere mentalizzato. Dominante in queste esperienze, oltre alla paura, è l’odio. Come afferma Gabbard, in pazienti in cui l’odio risulta un’emozione dominante, odiare ed essere odiati, è preferibile all’essere ignorati o abbandonati (Gabbard, 2003). In organizzazioni borderline di personalità, quindi, l’oscillazione dell’esperienza di sé e dell’altro, altro che funge da contenitore per un senso di sé precario e da regolatore per un affettività scissa e non integrata, porta a relazionarsi all’altro in modalità estremante costrittive e ripetitive, in cui l’individuo si priva della spontaneità e della libertà di scelta, e l’altro viene utilizzato come un innesto, come uno strumento per mantenere un certo livello di sicurezza nella propria rappresentazione di sé. Si relaziona pertanto solo a quella parte che serve a mantenere lo status quo in modalità rigide e pervasive di funzionamento, ma soprattutto a non prendere contatto con una possibilità di scelta e libertà estremamente angosciante che, qualora accolta, porterebbe a sperimentare un’intensa vacuità e assenza di senso.

La seconda si riferisce alla paura dell’estinzione, della perdita di una propria individualità, dove l’individuo tenta in tutti i modi di evitare una fondamentale angoscia della vita, l’angoscia del limite, dello stare in una comunità, in un legame intimo con un altro e che porta spesso all’immergersi in attività frenetiche nel tentativo di controllare la vita e la quota di incertezza che comporta. Per esempio individui totalmente orientati al potere, a distinguersi, al loro senso di specialità, trovano insopportabile qualunque tipo di sensazione di immobilità e, come accennato prima, di intimità nel rapporto con sé stessi e con l’altro. Persone freneticamente impegnate nel lavoro e in una sessualità promiscua e compulsiva, si ritrovano però durante il loro percorso a contatto con la solitudine, con l’angoscia di morte e con una fondamentale mancanza di protezione inerente l’individuazione (si pensi, per esempio durante i viaggi d’affari), la quale, seppur bramata, viene soffocata da una profonda inautenticità nello stare con l’altro. Rank sosteneva inoltre che queste due modalità appena descritte (paura della vita e paura della morte) durante il percorso di vita si alternassero in maniera più o meno pervasiva e persistente (Yalom, 1980). Yalom, nel suo testo “Psicoterapia esistenziale”, fa riferimento ad alcuni pazienti in cui tali dinamiche si presentano entrambe e che spesso portano a quello che emerge come un blocco nella fase descritta dalla Mahler di separazione-individuazione. La persona si è separata ma non si è individuata, alla costante ricerca di oggetti tramite cui mantenere un senso di sé precario, per cui le rappresentazioni di sé e dell’altro vengono sperimentate senza soluzione di continuità. Lena, per esempio, cercava di evitare l’angoscia rimanendo bloccata nell’adolescenza. Cercava di fondersi con qualche salvatore, tuttavia era spesso terrorizzata dalla propria situazione: si aggrappava agli altri e si ribellava costantemente, oscillando spesso dalla posizione di vittima, bisognosa di un salvatore, alla posizione di persecutrice, in cui, sperimentando costrizione nella relazione con gli altri (si poneva in un modo che portava gli altri a non prenderla sul serio e a trattarla come una bambina), era spinta a sentirsi ulteriormente vittimizzata, a provare rabbia e a reagire impulsivamente per il torto subito, allontanando gli altri con i suoi comportamenti. Cercava la pace, il conforto, la sicurezza, e tuttavia quando li aveva, veniva fagocitata dall’angoscia di morte. Restare inglobati dentro un altro, come anche separarsi da tutto attraverso il rifiuto dell’intimità e di qualsiasi legame, sottopone al rischio di perdere se stessi, al fallimento dell’esplorazione e dello sviluppo di potenzialità all’interno del sé, al soffocamento della propria crescita che avviene attraverso un’immersione profonda nel mondo, in cui si comincia da se stessi, allo scopo di non doversi preoccupare di sé, di trascendere il sé, iniziando pertanto ad accogliere l’altro.

Yalom, nel suo libro “Terapia allo specchio”, riporta assieme alla paziente Ginny una raccolta di riassunti delle relative sedute, in cui emergono molte delle tematiche viste fino ad ora. Ginny entra in terapia con un profondo transfert positivo nei confronti di Yalom, nutrendo aspettative irrealistiche verso di lui, manifestando quindi il bisogno di percepirlo come un terapeuta onnisciente e protettivo. Ciò le permetteva di mantenere uno status quo, tra l’altro presente in molte delle relazioni nella propria vita quotidiana (la relazione con Karl, con la sorella, con le amiche) rispetto alla responsabilità per la propria vita, per le proprie scelte, per i propri diritti. Arrancava in una posizione di “animazione sospesa”, in cui le cose le accadevano, in cui sguazzando nella propria impotenza, delegava le responsabilità agli altri, non prendeva decisioni e rinforzava la convinzione di essere vittima delle circostanze. Stava con gli altri, non per crescere, ma per mantenere un senso di sicurezza, una fede in quello che Yalom definisce “un salvatore ultimo”, in un “fuori” magico in cui tutto le accadeva dall’esterno e lei negava quello che poteva essere la propria scelta, il proprio contributo al fatto che le situazioni accadano, il proprio atteggiamento interpersonale e il proprio ruolo nel ricreare le situazioni. Prima di passare agli incontri di terapia individuale con Yalom, frequentava una terapia di gruppo per stare con lui, in cui il parlare dei propri problemi personali aveva il principale vantaggio di guadagnarsi la sua approvazione. Nella relazione con Karl, il suo fidanzato, aveva spesso la fantasia di essere improvvisamente abbandonata da lui, fantasia che sperimentava spesso dopo il sesso (Yalom, 1974).  Spesso in terapia si lamentava della propria incapacità di godere del sesso e di raggiungere l’orgasmo. Si concentrava su quello che avrebbe potuto far piacere a Karl durante l’atto, trascurando però il proprio corpo e il proprio godimento. A tal proposito, Yalom, la invitava a coinvolgere attivamente Karl in proprie richieste: “Cosa avrebbe potuto fare lui per aiutarla a sentirsi coinvolta nel sesso?” (Yalom, 1974). La invitava anche a coinvolgere l’altro “chiedendo”, volgendosi all’incontro autentico piuttosto che ad un monologo egocentrico ed autoreferenziato. Cercava di incoraggiare quella che è stata prima menzionata come “trascendenza del sé”, una possibilità di rispettare i propri diritti nel mondo e di andare oltre l’incontro basato sulla sicurezza e sul controllo di “immagini di sé”, ma piuttosto orientato all’esperienza di sé, dell’altro e all’esplorazione. Lei in questo arrancava, come arrancava nella possibilità di riconoscersi anche un margine di possibilità e di scelta, di propri desideri e quindi anche la possibilità che potesse essere lei ad vere il bisogno, nonché il diritto, di chiudere questa relazione. Si preoccupava invece di possibili abbandoni da parte di Karl per la propria inadeguatezza, e stava in questa relazione in cui lui spesso la umiliava e la criticava, continuando in ciò a dargli il permesso di farlo. In una parte del libro, scrive: “Inoltre, nel profondo, oltre il senso disperato di abbandono, c’è la sensazione che sia giusto così, che in realtà desideravo che io e Karl non stessimo insieme, che volessi in qualche modo uscirne e che fremevo all’idea, speravo in una sua decisone ma, come al solito, un’inerzia sconcertante fatta di pietà e paura mi aveva trattenuto in quella situazione”. In quest’estratto del testo, si manifesta in modo particolare il suo dislocare la responsabilità all’altro e quanto il suo definirsi attraverso la sottomissione, l’immolazione di sé, l’impotenza, il sentirsi vittima, abbandonata, avesse a che fare con un’angoscia di morte, con la paura di vivere senza un altro, con la paura che assumendo un comportamento adulto, scegliendo, desiderando, avrebbe potuto perdere la propria sicurezza (in particolare, lei aveva due relazioni che rappresentavano rispettivamente quello che Liotti-Farina (2011), rifacendosi a Karpmann, definiscono come triangolo drammatico: Yalom (Salvatore); Karl (Persecutore); lei come vittima. In genere, in organizzazioni borderline di personalità con esperienze di trauma complesso, l’oscillazione tra i poli risulta molto marcata, ma, in questo caso, è relativamente evidente. L’odio verso sé stessa si manifestava principalmente nel “non darsi permessi e diritti”, nel soffocare la propria crescita stando in relazioni “abortite” e non reciproche, nell’esprimere la quota di rabbia che aveva attraverso modalità passivo-aggressive che non coinvolgevano direttamente l’altro. L’espressione della rabbia in queste modalità risulta evidente in alcune parti del libro: Karl si lamentava della sua incompetenza in casa, della sua passività e della sua mancanza di praticità, aspetti che durante la terapia con Yalom emergono anche come piccoli tentativi, da parte sua, di fare imbestialire Karl e di punirlo; si presentavano inoltre modalità simili nella terapia, in cui lei, non appena si avvicinava, sotto “forte guida e incoraggiamento” da parte di Yalom, a modalità più sane di stare con se stessa e con gli altri, cadeva in stati depressivi, in preda a forti sentimenti di pessimismo e impotenza. C’era una forte pressione interpersonale, da parte sua, nel far sì che l’altro assumesse degli atteggiamenti attivi, incoraggianti e persino autoritari, arrivando persino a fare esplicita richiesta a Yalom di punirla, ma quando lui assumeva una posizione particolarmente attiva, quasi da “coach”, focalizzandosi sul comportamento e suggerendole cosa fare e come farlo, da un’iniziale stato di euforia ed eccitazione, sprofondava e sprofondavano nell’impotenza. Quindi Yalom, arrivò a considerare, quanto un atteggiamento del genere non facesse altro che infantilizzarla, deresponsabilizzarla e renderla inoltre ulteriormente dipendente, e soprattutto quanto ciò fosse anche legato ad un’immagine di sé e ad un senso di padronanza che, a livello controtransferale, alimentava un innesto tra rappresentazioni di sé e dell’oggetto da parte di entrambi. Ciò che Gabbard (2003) definisce come identificazione proiettiva e controidentificazione proiettiva – nello specifico, Gabbard fa riferimento ad un “controtransfert erotico”, in cui il paziente diventa il contenitore della rappresentazione di sé e dell’oggetto idealizzato che salverà il terapeuta dalla disperazione. Sandler (1987), descrivendo esperienze di “collusione” in terapia, avverte che sia estremamente rischioso presumere una corrispondenza puntuale tra ciò che avviene nel terapeuta e ciò che avviene nel paziente. Perciò accenna al concetto di “risonanza di ruolo”, associata da Sandler stesso al controtransfert complementare di Racker, in cui emerge una formazione di compromesso tra le personali tendenze del terapeuta e l’accettazione del ruolo che il paziente gli sta imponendo. Tale dinamica risulta connessa a quello che è stato in precedenza definito come “innesto”.  Yalom scrive: “Per più di quindici anni sono stato un risanatore; la terapia è diventata una parte essenziale dell’immagine che ho di me; mi offre significato, industriosità, padronanza. Ho dovuto trasformarla, riuscire dove altri avevano fallito, e riuscirci in un periodo di tempo relativamente breve. Colui che realizza miracoli. L’ho tenuta sotto pressione senza posa, ho dato voce alla mia frustrazione quando si fermava o si consolidava anche solo per poche ore. “Guarisca” le gridavo “Guarisca per il suo bene, non per il bene di sua madre o di Karl- guarisca per se stessa!” (Yalom, 1974). Ma molto piano, dicevo anche: “Guarisca per me, mi aiuti ad essere un risanatore, uno che fa i miracoli.” In tutto questo però, emergono aspetti fondamentali che hanno a che fare con la soggettività, con la trascendenza del sé e con il creativo in terapia. Yalom, scrive: “Ginny non sarà mai una che sceglie attivamente, tuttavia è così affascinante che verrà sempre scelta”; Ginny non poteva essere se stessa in molte altre maniere. Le ho chiesto di mostrarmi tutto nel “qui ed ora” della relazione tra di noi. “Ci provi” dicevo “io starò con lei, l’ascolterò, l’accetterò nella sua totalità”. Inoltre viene coltivato un talento, ovvero la scrittura, che Yalom coglieva in Ginny, proponendole la stesura, da parte di entrambi, di riassunti sulle sedute, non escludendo però in questo incoraggiamento, la propria dimensione controtransferale, legata alle proprie aspirazioni da scrittore. Yalom dava molta importanza all’aspetto dell’autorivelazione: “Speravo che Ginny, nella pace della propria solitudine, riuscisse a dar voce ad alcune parti soffocate di sé. Speravo in particolare che lei, rendendosi conto delle mie debolezze, del disorientamento e dello scoraggiamento, modificasse l’irrealistica sopravvalutazione che aveva di me. Il suo sguardo da bambina che alza gli occhioni stupiti, spesso mi faceva sentire incapace e solo. Volevo che si tirasse fuori da quel canale antidiluviano e mi guardasse, mi toccasse, parlasse con me faccia a faccia. Se avesse potuto farlo, e se fossi riuscito a mostrarle che potevo accettare o meglio accogliere le parti nascoste di lei mentre, una dopo l’altra, infilavano timidamente la testa attraverso il reticolo della sua autocancellazione, sapevo che avrei potuto aiutarla a crescere”. Ginny, scrive: “In effetti penso che tutte queste similitudini, tutte queste metafore che le ho gettato addosso nelle mie relazioni e nelle nostre conversazioni siano una cosa, e io un’altra. Le ho usate come un velo, fino a quando non ho potuto parlare direttamente con lei” (Yalom, 1974). La relazione terapeutica, con Yalom, ha permesso a Ginny di trasformarsi con “l’altro” (in questo caso Yalom) e non per l’altro (soffocandosi per mantenere un “altro dominante” come aveva fatto in passato). È stata risanatoria, in quanto è andata oltre una modalità “come sé” facilitatrice di altre potenziali relazioni, ma ha rappresentato un incontro autentico. Ciò mette in luce quello che Winnicott (1965) definisce come “fenomeno transizionale”, in cui attraverso relazioni “sufficientemente buone” con i caregivers, che prevedono un iniziale adattamento attivo ai bisogni del bambino, quest’ultimo acquista gradualmente la capacità di accettare dei limiti e tollerare i risultati della frustrazione. In particolare il bambino impara che esiste un limite al tempo della frustrazione, acquisendo un senso crescente del processo e la possibilità di integrare passato, presente e futuro. Si viene quindi a creare un equilibrio tra illusione e delusione, in cui il caregiver, con il suo adattamento iniziale quasi perfetto, dà la possibilità al bambino di illudersi, finchè non sarà possibile che cominci a svilupparsi la capacità di una relazione con la realtà esterna. Winnicott riferisce: “La madre colloca il seno reale esattamente là dove il bambino è pronto a crearlo, e al momento giusto” (Winnicott, 1965). Ciò presuppone un’area intermedia tra la creatività primaria e la percezione oggettiva basata sulla prova di realtà, ma, come sostiene Winnicott, senza sufficienti occasioni di illusione non c’è per nessun essere umano nessun significato nell’idea di una relazione con un oggetto che è percepito dagli altri come a lui esterno. Quest’area intermedia di esperienza, se evolutivamente andata a buon fine, viene coltivata costantemente durante il percorso di vita, e rappresenta pertanto una dimensione indiscussa dell’esperienza come base fondante della creatività. Winnicott (1965), infatti, scrive: “Si suppone quindi che il compito dell’accettazione della realtà non sia mai terminato, che nessun essere umano si liberi dallo sforzo di collegare la realtà esterna con quell’interna, e che tale sforzo venga alleviato da quest’area intermedia” (Winnicott, 1965). Quest’area intermedia rappresenta l’inizio della relazione del bambino con il mondo e l’unica possibilità per l’autore di incontrare la realtà dell’altro. Hillmann (1997) afferma: “essere è in primo luogo essere visibili”. Il lasciarci passivamente vedere apre una possibilità di benedizione. Perciò noi cerchiamo amanti e mentori, affinché possiamo essere visti ed essere benedetti”. L’immagine che un mentore scorge in un allievo non è né tutta davanti, né quel che è nascosto dietro; non esiste alcun me reale se non la realtà di me nella mia immagine. Il mentore percepisce le pieghe di una complessità, quelle curve dentro/fuori, sotto/sopra dell’implicito che sono la verità dell’immaginazione in ogni sua forma, per cui possiamo ben definire l’immagine: “il come globale del presentarsi di una cosa”. “In questa esperienza di terapia appena descritta, avviene quello che Mitchell (1988) concettualizza come passaggio da una dimensione oggettuale della relazione ad una soggettuale. Una dimensione oggettuale, che si ravvisa in un bisogno “di riconoscimento”, sicurezza e controllo da parte di entrambi e, se si vuole, “ricompensa” nella relazione con l’altro, ma porta nondimeno con sé una dimensione soggettuale e trasformativa, dove Yalom, prendendo consapevolezza di quello che fosse un proprio bisogno di mantenere lo status quo nella relazione terapeutica, arriva a percepire l’essenza di ciò che è la propria immagine e l’essenza dell’immagine di Ginny, riconosce la propria libertà e la libertà della paziente e, soprattutto, “vede” Ginny, conferendole il dono della fede e accogliendone quella che Hillamnn chiama “ciascunità” e quello che Recalcati definisce “particolare”. L’immaginazione è una parte fondante della terapia e del ruolo di mentore per Hillmann. In generale però, la “componente erotica”, l’innamorarsi della fantasia di un altro, il portare alla vita qualcosa nell’altro, il dare forza alla forma, alla forza della vita per dirla con Recalcati, sono aspetti fondamentali del processo creativo e di un modo di amare maturo.

Emerge quindi ciò che Winnicott (1971) riporta come un “fare uso dell’oggetto”, che non implica una strumentalità nelle relazioni e un utilizzo dell’altro in quanto funzione di sé, ma invece la capacità di trascendere il sé, di utilizzare aree intermedie di esperienza, una “ripresa singolare” nella ripetizione (relazioni oggettuali), a detta di Recalcati (2019), una ripetizione che può trasfigurarsi in una decisione inedita e aprire il campo della contingenza illimitata dell’esistenza. Nel gioco di Eros ritroviamo il grande “Si”, con il quale Nietzsche proclama la forza del desiderio come separata dalla serietà metafisica di valori morali che pre-esistono alla vita, intralciando così l’accesso al suo gioco. Recalcati (2017) scrive: “Così leggo la liberazione della vita dal peso del sacrificio e dalla dedizione seriosa e risentita al “dio oscuro” della causa”. Una rinuncia di sé che si costituisce come dono, offerta di sé assoluta e responsabilità verso l’altro. L’enorme potenziale generativo che deriva dal toccare gli altri in maniera profondamente umana, dall’umanizzare la vita, dall’esplorare cosa si voglia dall’altro e come si contribuisca, in questo, alla vita dell’altro, mette a contatto con la propria solitudine esistenziale. Il che significa che l’esistenza è gettata nella propria libertà, o meglio nella responsabilità assoluta della propria libertà. Che atto sarebbe, quello che rimanesse subordinato all’iniziativa dell’altro? Come potrebbe, un atto degno di questo nome, trovare il suo fondamento, appoggiarsi, sostenersi, reggersi sulla volontà dell’altro? Un atto infatti è tale se trova il suo fondamento in sé stesso. Solo in questo modo può svelare la totale inesistenza dell’Altro o, come direbbe Sartre, il nostro essere soli e senza scuse, consegnati al peso di una responsabilità illimitata. Come visto fino ad ora, gli individui terrorizzati dalla propria solitaria vulnerabilità tentano di mitigare il terrore attraverso modalità interpersonali rigide e coatte: hanno bisogno degli altri per affermare la propria esistenza; bramano di essere incorporati da altri più grandi di loro; cercano di alleviare l’angoscia incorporando gli altri, legami sessuali multipli, frenesia nel lavoro e bisogno di costante movimento. L’individuo si fa avanti non perché vuole ma perché deve, cosicché la relazione rimanga bloccata sul tema della sopravvivenza, trascurandone invece la crescita. Gli individui, sono spesso isolati dagli altri o da parti di loro stessi, ma ciò non va confuso con la solitudine esistenziale. Essa si riferisce ad un abisso incolmabile tra un individuo e ogni altro essere, ma anche ad un isolamento più fondamentale, una separazione tra l’individuo e il mondo. Nella misura in cui si è responsabili della propria vita, si è soli. L’esserne consapevole significa abbandonare la credenza che ci sia un altro a proteggerci e a crearci. Ciò implica un’esperienza di profonda impotenza, dettata da quello che Heidegger (1927) definiva come “essere gettati soli” nell’esistenza. Nessuna relazione può eliminare la solitudine. Ciascuno di noi è solo nella sua esistenza. Yalom (1980) afferma: “Se siamo in grado di riconoscere le nostre situazioni isolate nell’esistenza, saremo in grado di rivolgerci amorevolmente verso gli altri. Se siamo sopraffatti dal terrore, davanti all’abisso della solitudine, non porgeremo la mano agli altri, ma invece ci sbracceremo scomposti per non annegare nel mare dell’esistenza”. Una parte fondamentale del percorso terapeutico, perciò, risulta proprio aiutare il paziente a confrontarsi con la propria solitudine, con la propria libertà e con la propria responsabilità. Clark Moustakas (1961), affermava: “Nell’essere solo, l’individuo si realizza nella solitudine, e crea un senso di relazione fondamentale con gli altri”. La solitudine, invece di separare l’individuo o di causare una rottura o una divisione del sé, espande la sua interezza, la sua percettività, sensibilità e umanità. L’individuo sperimenta nuovi aspetti di sé, si relaziona agli altri in quanto persone reali, impara che il potenziale per l’amore esiste dentro di sé, aprendosi non soltanto all’altro, ma anche a sé stesso. Nell’esperienza di terapia, non importa che la relazione sia temporanea, ma quando l’esperienza dell’intimità è permanente anche l’esperienza della scoperta di sé lo sarà altrettanto e non potrà mai essere eliminata. Esiste nel proprio mondo interiore a ricordare il potenziale di ciascuno per raggiungere l’intimità. Quando l’esperienza dell’intimità è permanente, l’individuo riconosce i limiti della relazione, ovvero ciò che si può ottenere dagli altri, ciò che non si può ottenere, ma soprattutto incontra l’altro su un piano umano come fratello con cui condividere un irrevocabile solitudine.

 

Tempo lib(e)ro che promuove benessere

Alcuni studi considerano identificazione e catarsi due fasi delle dinamiche della biblioterapia, cui fa seguito, come terza fase, il meccanismo psicologico dell’introspezione.

 

La biblioterapia, ossia la terapia attraverso la lettura di testi letterari, di saggistica, di auto-aiuto, rappresenta uno strumento relazionale (di supporto al piano terapeutico di base) e una tecnica psicoeducativa, che favoriscono una crescita culturale di persone e gruppi e l’acquisizione di una consapevolezza più mirata ad attivare un’autentica cura di sé in particolari situazioni di disagio psichico, fisico, sociale.

Diversi studi confermano infatti l’efficacia della lettura nel migliorare la resilienza, la mindfulness, la qualità della vita e come ausilio nella gestione terapeutica, sia di alcune patologie psichiatriche (ad esempio il disturbo depressivo e il disturbo d’ansia generalizzato) sia di patologie organiche ad evoluzione cronica.

Se dunque è ormai provato che un libro scelto e “somministrato” ad hoc da un biblioterapista clinico possa stimolare la giusta presa di coscienza per rielaborare costruttivamente il proprio rapporto con la malattia e modificare uno stile di vita inadeguato, è altrettanto diffusa e condivisibile l’opinione comune di molti lettori abituali. Ognuno di questi lettori – anche chi scrive, al di là del ruolo professionale – lo sa, perché ne fa esperienza di continuo: un libro calma ed attenua le preoccupazioni, gli assilli quotidiani, quello sterile ed ossessivo rimuginio che talvolta arpiona un pensiero per costringerlo a girare su se stesso. Un libro, insomma, può aiutare a guarire.

Ciò premesso e in accordo con le finalità della health literacy (“alfabetizzazione sanitaria”), riconosciuta dall’OMS come una fondamentale strategia di empowerment nella promozione della salute, appare utile favorire l’implemento e la diffusione della biblioterapia non solo in ambito clinico, ma più in generale all’interno di webinar e di gruppi di lettura come una delle modalità di approccio alla lettura ricreativa o di svago.

Webinar e gruppi di lettura possono allora diventare uno spazio e un tempo di incontro privilegiati con l’oggetto libro, e ovviamente con chi ne condivide la lettura, che promuovono crescita culturale, sviluppo di abilità psicologiche e sociali e benessere dell’individuo.

Ma quali sono i meccanismi psicologici che motivano l’uso della lettura (indirizzata soprattutto ad una letteratura di qualità) come strumento potenzialmente efficace dal punto di vista della prevenzione e della cura di alcuni dei più comuni disagi del vivere quotidiano?

Per citarne alcuni, sono: il soddisfacimento di un connaturato bisogno di conoscenza, l’identificazione, la catarsi, l’introspezione, la teoria della mente.

Cominciamo col dire che la lettura risponde alla necessità di soddisfare il bisogno di conoscenza: conoscenza di sé, prima di tutto, dell’altro, del mondo.

Un buon romanzo, un testo letterariamente curato sotto il profilo contenutistico, stilistico, verbale, in cui l’autore sia riuscito ad esplorare, interpretare e descrivere in modo non superficiale l’ordito polisemico dell’esistenza, aiuta il lettore a conoscere e a conoscersi di più e meglio. Del resto, come ha scritto Marcel Proust:

ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L’opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che è offerto al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso.

Quella di cui si parla è una conoscenza trasmessa per via estetica, una conoscenza cioè che non passa attraverso il ragionamento, ma attraverso il piacere di essere testimoni di un’opera della creazione umana, attraverso i sensi, l’intuizione, l’immedesimarsi con un personaggio letterario.

Ed eccoci dunque all’immedesimazione o identificazione, il meccanismo attivo allorché chi legge partecipa emotivamente alle vicende del personaggio di finzione, avvertendo un senso di affinità con la personalità dello stesso, approvandone o disapprovandone pensieri, scelte, azioni.

È proprio il gioco del confronto con le emozioni della pagina scritta a determinare il meccanismo della catarsi: quando la lettura rievoca alcune esperienze personali, il lettore si trova a rivivere e a sfogare le emozioni represse, legate a quelle esperienze, e a raggiungere una sorta di vera e propria purificazione da esse.

Alcuni studi di settore considerano identificazione e catarsi due fasi delle dinamiche della biblioterapia, cui fa seguito, come terza fase, il meccanismo psicologico dell’introspezione.

Il “movimento” introspettivo comporta la presa di coscienza di alcune conferme o di nuove consapevolezze su se stessi, sul proprio vissuto, sul mondo, rendendo ragione di due funzioni della letteratura: la funzione pacificatoria, che conforta i lettori nella loro condivisa umanità, e la funzione sovversiva, che sfida costantemente i loro pregiudizi, le loro radicate abitudini, il loro autocompiacimento.

L’introspezione diventa il punto di partenza per raggiungere una maggiore apertura mentale, per scoprire aspetti inediti della propria personalità, per assimilare pensieri e valori più funzionali al vivere quotidiano. Stimola anche il gusto intellettuale della ricerca di risposte di senso, compito imprescindibile ai fini della salute mentale, se si pensa che il significato attribuito alla propria persona e alla propria vita è l’elemento integratore in grado di conferire valore a tutti gli aspetti della personalità e che la malattia mentale e il disagio psichico rappresentano, forse, la massima espressione della perdita di significato del vivere.

La lettura implementa infine la ‘teoria della mente’, che consiste nella capacità cognitiva di riuscire ad attribuire stati mentali, ovvero credenze, emozioni, desideri, intenzioni, pensieri, a sé e agli altri e assumere, sulla base di questi presupposti, il proprio e l’altrui comportamento (secondo la definizione di Sempio et al., 2005).

Come è evidente questo meccanismo rispecchia il più noto concetto di empatia, ossia la capacità di comprendere immediatamente lo stato d’animo dell’altra persona con una controllata partecipazione emotiva.

Approcciarsi ai libri secondo le finalità e i metodi propri della biblioterapia significa dunque vivere i libri stessi come veicolo di libertà. Libertà di inventare, di esprimersi, di tracciare percorsi di vita più consapevoli e in sintonia con le fonti interiori della personalità, libertà di non smettere di porre e di porsi domande.

Non dimentichiamo che, come afferma Miro Silvera, chi cerca risposte nei libri quasi sempre le incontra a propria misura. Perché i libri curano ogni male, compreso quello più imbarazzante di tutti: il male di vivere.

 

 

Attività Assistita con gli Animali ai tempi del Covid-19: è possibile in telematica?

L’Attività Assistita con gli Animali può addurre benefici in termini motivazionali, educativi, ricreativi e/o terapeutici per migliorare la qualità della vita di bambini, adulti e anziani in condizioni di salute eterogenee.

 

Negli ultimi decenni, la ricerca ha dimostrato che gli interventi con gli animali possono migliorare la salute psicosociale di individui affetti da patologie croniche, nello spettro autistico, con problematiche comportamentali ed emotive (Nimer & Lundhal, 2007). In particolare una recente meta-analisi di Feng e collaboratori (2021) mostra benefici mirati relativi all’attività assistita con gli animali per i bambini e gli adolescenti ospedalizzati, in termini di diminuzione della frequenza di sintomi ansiosi e depressivi.

Nella letteratura scientifica contemporanea, Kruger e Serpell (2006) hanno identificato 20 diverse definizioni che sono state utilizzate per descrivere l’attività assistita con gli animali (AAA) e più di 12 parole chiave associate alle AAA nei database scientifici. A fronte di tale eterogeneità, la Delta Society ha pubblicato le best-practice e linee guida per le attività e la terapia assistite dagli animali nel tentativo di creare una nomenclatura standardizzata.

Generalmente, questo tipo di interventi ha come obiettivo il miglioramento del funzionamento fisico, sociale, emotivo e/o cognitivo di bambini e adulti (Delta Society, 2005) e può essere perseguito solo attraverso l’azione di specialisti propriamente certificati. Internazionalmente, gli specialisti AAA devono aver completato un corso di formazione e relativo esame come coadiutore dell’animale. Secondo gli studi scientifici, questi professionisti hanno diversi background: possono essere infermieri, medici, pediatri, fisioterapisti, assistenti sociali, psicologi, educatori, counselor (Delta Society, 2005; Kruger & Serpell, 2006).

L’ attività assistita con gli animali può addurre benefici in termini motivazionali, educativi, ricreativi e/o terapeutici per migliorare la qualità della vita di bambini, adulti e anziani in condizioni di salute eterogenee (Delta Society, 2005). Nella cornice di tali attività, gli operatori fanno visita agli utenti presso ospedali o case di cura con i propri animali. Tuttavia, gli operatori propriamente formati possono intervenire in una varietà di ambienti, tra cui scuole, strutture sanitarie, riformatori, residenze per anziani e, in alcuni casi, il domicilio della persona a cui è rivolto l’intervento.

Per quanto riguarda gli animali implicati in questo intervento la Delta Society (2005) ha stabilito che cani, gatti, porcellini d’india, cacatua, pappagalli grigi africani, cavalli, capre, polli, asini, maiali e lama, possono essere coinvolti in questo tipo di intervento. Edwards e Beck (2002) e Antonioli e Reveley (2005) hanno identificato anche i benefici di interventi AAA effettuati con delfini e cetacei presso gli acquari attrezzati alla visita di persone con patologia.

Con l’avvento della pandemia, le restrizioni socio-comportamentali per prevenire il contagio da Covid-19 hanno reso difficile la pratica degli interventi AAA dal vivo. Non sono mancate, tuttavia, le strategie di adattamento dell’intervento nel mondo online: in questo senso, il gruppo di coadiutrici del Porto dei Piccoli (Genova) e i loro amici a quattro zampe rappresentano uno dei primi gruppi di lavoro con AAA su piattaforma telematica.

Il progetto si chiama “Gimmie Five Online” e offre interventi di attività assistita con gli animali. Gli interventi sono rivolti a bambini e adolescenti con disabilità o patologie croniche, i quali, con l’aiuto dei caregiver, sono collegati tramite Skype, Meet, Zoom o altre piattaforme, alle coadiutrici e ai loro cani. L’approccio online comporta un setting in differita, dove il coadiutore e il bambino sono contemporaneamente collegati dalle stanze della propria abitazione (o dalla stanza dell’ospedale). Alcune attività chiave della seduta in presenza (come le attività di condotta al guinzaglio), non possono essere praticate a distanza. Tuttavia, utilizzando il coadiutore come “tramite”, il bambino può realizzare attività di accudimento, rivolgere comandi di base all’animale, seguirlo in percorsi, ricerche e giochi interattivi. Gli effetti a breve e lungo termine delle sessioni telematiche sono ancora in corso di investigazione scientifica, ma l’intervento è stato accolto con un alto grado di soddisfazione da parte dei bambini e delle famiglie, ponendo le basi per un futuro studio pilota sull’esperienza.

 

Forze del destino. Psicoanalisi e idioma umano – Recensione del libro

Bollas nel suo volume Forze del destino. Psicoanalisi e idioma umano presenta il suo tentativo di integrare, confrontare, di spingersi oltre l’orizzonte conoscitivo sino a questo momento conquistato.

 

Cristopher Bollas, psicoanalista britannico, noto per i numerosi contributi nel panorama psicoanalitico internazionale, ci presenta Forze del destino. Psicoanalisi e idioma umano, il suo contributo più recente, edito ancora una volta da Cortina, in cui propone al lettore, in un tentativo originale e finemente articolato, di illuminare il destino del vero sé, la sua teoria sulla “forza del diventare”.

Il tema scelto per questo libro racconta senz’altro l’ambizioso compito di Bollas di rendere dicibile quella parte del lavoro analitico che può essere difficilmente restituita e del suo rapporto con l’enigmatico nucleo della personalità dell’uomo. Si tratta del frutto di una lunga analisi, com’è lui stesso a rivelarci, nata da un controverso intrecciarsi di teoria, clinica e vita personale, che tenta di aprire uno spazio di riflessione sull’uso che il paziente fa in analisi dell’analista come oggetto.

Bollas crede che la strada migliore per seguire questo proposito sia quella di partire da qualcosa che conosciamo, attingere ai contributi di eminenti esponenti del panorama psicoanalitico per poterne arricchire, ampliare e innovare le visioni. Con un’attenzione particolare ai concetti di vero e falso sé di Winnicott, della percezione endopsichica freudiana e della preconcezione di Bion, contributi che non siamo riusciti ad utilizzare per questo scopo, Bollas presenta il suo tentativo di integrare, confrontare, di spingersi oltre l’orizzonte conoscitivo sino a questo momento conquistato.

È una proposta intrigante quella che ci viene offerta, e al richiamo “Vero sé da questa parte!”, non possiamo che rispondere avanzando lungo la strada che sembra aver tracciato per noi, alla ricerca di una cura per la nostra unicità danneggiata. Di fatto, che quest’ultima possa essere stata poco riconosciuta, mal colta, ignorata, è una questione nota e molto probabilmente assai comune, meno nota è la storia, lo sono le peculiarità, gli itinerari, le coordinate spazio-temporali, le forze benefiche e ostili, le persone e le risorse che ne determinano il suo esprimersi.

Chi sarà disposto a lasciarsi guidare, dalla periferia al centro, nelle trame sempre più fitte del suo discorso potrà abbracciare con una chiarezza crescente la funzione della psicoanalisi di salvaguardare e accompagnare l’unicità della persona al suo compimento.

Partendo dal processo analitico, del quale l’autore mette in risalto la procedura decostruttiva e rielaborativa, nonché la necessaria posizione analitica e ricettiva dell’analista, quest’ultima riscontrabile proprio nel momento in cui l’analista viene usato come oggetto nel transfert, Bollas ne evidenza la loro necessaria integrazione affinché il paziente possa entrare in contatto e dare al suo vero sé la possibilità di esprimersi.

Il suo nucleo, che chiama “idioma”, non può che essere dipendente dalle prime esperienze del bambino con una madre ricettiva e facilitante e che promuove la sua articolazione, il suo procedere. Si tratta di una madre capace di amare il suo bambino nel senso più profondo che possiamo attribuirgli, che corrisponde al riconoscimento pieno di quello che egli è, l’unico necessario per essere se stesso.

Come sostiene Bollas (2021), infatti, “L’armonia tra genitore e bambino determinerà notevolmente l’evoluzione del bambino in termini di compimento del proprio destino (vero Sé) o il fatto che la sua vita sembri dominata dagli interventi del fato (falso Sé)” (p.101).

Se avessimo la possibilità di sfruttare una prospettiva longitudinale per osservare quanto egli afferma, le sue parole sembrerebbero più immediatamente comprensibili. Quello che intende dire è che ci troviamo di fronte a due condizioni, influenzate dalle cure materne, in divenire, la prima, immobile, la seconda. Quest’ultima, dominata dal fato, ci racconta di un soggetto impotente e incapace di agire attivamente sulla sua vita, svuotato di opzioni future e che si fa testimonianza della perdita di tutti i sé potenziali che non hanno avuto la possibilità di esprimersi.

Ci potremmo chiedere a questo punto cosa spinga il soggetto a compiere il destino del vero sé. Secondo Bollas, esiste in ognuno di noi una forza, che chiama in modo assolutamente acuto “pulsione del destino”, che si palesa attraverso l’uso di oggetti nel corso dell’esistenza e, come lui stesso sostiene, “[…] ogni tanto il perturbante connubio tra idioma e oggetto che si incontrano in un momento preciso, ci trasformerà” (Bollas, 2021, p.43). Come si può intuitivamente comprendere, uno di questi oggetti è proprio l’analista, la cui presenza farà emergere il desiderio nel soggetto.

A mio avviso, però, il frammento, in cui Bollas chiarisce meglio e condensa il significativo legame tra la pulsione del destino e psicoanalisi è quello in cui afferma:

La psicoanalisi è particolarmente adatta all’analisi e alla facilitazione dell’idioma del vero Sé perché l’analista, che “fornisce” al paziente un campo di oggetti (elementi della personalità dell’analista, elementi della procedura psicoanalitica, elementi di concetti psicoanalitici), crea un universo di oggetti talora osservabili nel quale il paziente si muove. Usando e organizzando gli oggetti, il paziente può vivere il vero Sé in queste esperienze (Ivi, pp. 98-99).

Bollas fa partire, dunque, la sua riflessione, “sull’uso dell’oggetto”, dall’uso che il bambino fa della madre, recuperando i contributi di Winnicott, e ricordando che, laddove le cure materne riusciranno a sostenere il senso di illusione del bambino, egli potrà evolversi. Facilitando in lui l’uso dell’oggetto transizionale, un oggetto reale che consentirà al bambino la distinzione tra il me e il non me, la madre gli permetterà di accedere a quell’area dell’esperienza che è intermedia tra quella interna e quella esterna.

Viceversa, un’esperienza opposta, fatta di cure materne insufficienti e poco responsive, contribuirà alla creazione, come ricorda Bollas, di uno spazio immaginario, uno spazio alternativo. In esso il bambino collocherà tutti gli oggetti alternativi, che Bollas ci presenta come spettri, proprio per restituirci la loro vitalità perduta.

Analizzare il rapporto che il bambino intrattiene con questi fantasmi, ci aiuta a riconoscere la loro funzione. Ricorrevi, infatti, consente al bambino di mantenersi distante dal mondo reale e dal rapporto con le persone reali che lo popolano. Sarebbe un errore, però, considerare il mondo alternativo, un mondo patologico di per sé, infatti, come Bollas (2021) ci ricorda, “[…] tutti abbiamo una linea spettrale e nutriamo lo spirito di un oggetto (come nel lutto)” (p.129), è, invece, il suo ostacolare in modo definitivo l’instaurarsi dello scambio tra il dentro e il fuori, a renderlo tale.

La solidità dell’amore del bambino per la madre rappresenta, possiamo dirlo, la sua garanzia perché la distruzione o le ripetute distruzioni possano non compromettere il suo uso. Qui la distruzione, come accade nell’uso dell’oggetto analista da parte del paziente, deve essere colta nella sua accezione positiva; è creativa e appartenente a quelli che comunemente chiamiamo istinti di vita.

Per Bollas, l’analista può essere promotore di questa esperienza a patto che manifesti la sua disponibilità e la sua comunicazione ad essere utilizzato in questo senso. Più nel dettaglio, egli si riferisce alla possibilità che l’analista conceda elementi della sua personalità per favorire l’articolarsi del vero sé del paziente, il conosciuto non pensato, proprio in quello spazio intermedio in cui sarà la libertà di gioco a influenzare l’esperienza.

Se quindi da una parte il discorso di Bollas ci conduce verso lo spazio condiviso, dall’altra il suo interesse non smette mai di essere focalizzato sull’analista, oltre che sul paziente. Un motivo di accurata riflessione in tal senso è rappresento dalla sensibilità analitica e dalla consapevolezza dell’analista di occupare la controversa posizione di essere oggetto e soggetto allo stesso tempo all’interno dell’analisi.

La consapevolezza di quest’ultima posizione, in particolare, è ciò che consente all’analista di prestare attenzione a ciò che dice e sente, di correggere le sue associazioni, laddove ne riscontri l’inadeguatezza, dare spazio dunque al disaccordo del paziente e sentirsi libero di comunicargli la discrepanza con la sua visione. Scontrarsi, allora, e in seguito incontrarsi con il non sapere rappresenta per l’analista il suo punto di arrivo; riservare a questa capacità il prezioso valore che possiede, significa riconoscergli la capacità di generare uno spazio potenziale in cui il vero sé del paziente possa esprimersi.

Ecco che: “Essere ignoti a noi stessi non è necessariamente una carenza: abbiamo bisogno dell’inconscio per fare un uso creativo del conscio” (Bollas, 2021, p.62), e questo è quanto mai vero nel lavoro interpretativo, che non può che essere costruito dalla “dialettica dei due sistemi inconsci”, quello del paziente e dell’analista.

Agli analisti chiede, infatti, “intelligenza analitica”, ossia la capacità di analizzare gli istinti di morte e di vita, impedendo il verificarsi del fenomeno secondo cui, l’affetto, l’amore, la creatività del paziente, scarsamente affrontati o avvicinati con la prudenza con cui ci si avvicina a un armamentario difensivo, finiscano per essere oscurati dalle forze opposte, in fondo, e a dispetto delle apparenze, un oggetto più agevole di studio.

La conversazione con il lettore si fa a questo punto più intima, e per dare voce, proprio a ciò che viene dimenticato, Bollas introduce il concetto di “celebrazione dell’analizzando”, ponendo in primo piano il ponte che questo intervento dell’analista è in grado di introdurre tra la vita reale e mondo interiore.

Più nel dettaglio, con la celebrazione dell’analizzando l’analista risponde affettivamente con i suoi commenti agli aspetti del vero sé del paziente che trovano in questo modo lo spazio per essere riconosciuti ed elaborati. Il suo richiamo all’umorismo, il suo riconoscersi un “cretino”, nelle esperienze con i suoi pazienti, ecco che diventano terreno di conoscenza, uno spazio reciprocamente in-formativo e creativo.

Facendoci accedere alla stanza d’analisi, affollata di pazienti compromessi da ambienti affettivi deprivanti, Bollas ci presenta il differente uso dell’oggetto e del lavoro analitico compiuto da paziente e analista.

Mentre i pazienti spettrali sconvolti dalla vitalità dell’analista lo ingaggiano in una lotta per far prevalere la morte sulla vita, i pazienti tossicodipendenti rendono instabile la capacità dell’analista di restare sul qui e ora, il loro tentativo è quello di portarlo altrove, nel loro viaggio allucinato.

Tuttavia, Bollas individua in queste persone, in cui è interrotto il contatto tra la psiche e l’Io, una luce oltre il buio – a quegli aspetti del sé che non sono stati elaborati – che chiama processo conservativo: “[…] il bambino conserva un’esperienza relativamente immutata e non trasformata nella speranza che un giorno o l’altro possa essere rivissuta alla presenza di un oggetto trasformante (amico, amante o analista)” (Bollas, 2021, p.137).

Differente è l’esperienza dell’antinarcisista, il paziente che, più di altri, sembra offrirgli l’occasione per analizzare quanto la pulsione del destino possa essere osteggiata dalla persona che gli si oppone con la distruttività delle sue idee, che sono mosse da un falso sé necessario all’occultamento di quello vero.

Ognuno dei pazienti che Bollas ci consente di conoscere, attraverso la sua esperienza, reca la testimonianza dell’emblematica forza che spinge l’uomo nel corso della sua esistenza a spodestare il fato, e la sua definitiva sentenza, proprio per consentire al vero sé di esprimersi.

Nei tre temi che seguono, il trauma dell’incesto, il legame tra gli ordini di tempo, materno, paterno e psicobiologico e il ruolo della memoria nella conservazione degli stati del sé, Bollas conclude e completa la lunga analisi.

Partendo dal trauma dell’incesto, è alla più devastante violazione della mente, oltre che del corpo, il luogo a cui Bollas vuole condurre l’attenzione del lettore. Del padre, che entra “sotto la pelle psichica della madre” e che sostituisce nella bambina la realtà dove prima c’era l’immaginazione, Bollas segnala come comprometta severamente la strutturazione della sua psiche. Dove non c’è un contenitore buono, anche l’esperienza analitica può essere vissuta come un’esperienza che attacca il sé; questo è vero almeno all’inizio dell’analisi.

Possiamo a questo punto chiederci se il vero sé si esprima all’interno di coordinate spazio-temporali. Ecco, allora, che un episodio comune, quella vita familiare, può diventare occasione per riflettere sul modo in cui nel bambino possa verificarsi in modo adeguato, o viceversa, l’integrazione dei tre ordini di tempo materno, paterno e psicobiologico necessari per la sua organizzazione psichica.

La prima esperienza del bambino è di un tempo atemporale, quello materno – come è intuibile – tutto rispondente ai bisogni del bambino e molto differente dal tempo paterno, del dovere e della socialità. Ma il bambino, che vive l’atemporalità del tempo materno, inizia piano piano a sperimentare anche la sua temporanea assenza, ed è verso questi movimenti che Bollas convoglia la sua attenzione, nel tentativo di chiarire in che modo possano facilitare l’integrazione dei tre ordini di tempo.

Quando questa integrazione risulta difficile, il bambino non mancherà di dimostrarlo e il suo timore che il padre possa non fare ritorno nel tempo della casa, dal tempo del lavoro, rifletterà la sua preoccupazione per quelle parti del sé che sente fragili e incapaci di integrare questi tre ordini di tempo.

Nella vita adulta continuiamo a mediare la natura di questi diversi ordini temporali. La temporalità e l’atemporalità si uniscono sempre più nel ricordo, in cui colleghiamo i due ordini in quello che chiamiamo il passato: un luogo che collega l’atemporale con il temporale. E il nostro tempo corporeo, dovuto allo svolgersi dei suoi progressi, alla fine ci informa della morte che sarà il nostro tempo finale, forse quel momento in cui tutti gli ordini del tempo si riconoscono e si unificano (Bollas, 2021, p.178).

Come avevo anticipato, Bollas conclude la sua analisi proprio riservando uno spazio specifico all’indagine sul ruolo ricoperto della memoria nel compimento dell’unicità della persona. Quello che intende mettere in risalto della memoria è la sua funzione operativa, introducendo il concetto di serie storica e mostrando il suo incontro con la psicoanalisi.

Le serie storiche sono biblioteche interiori che mettono le esperienze del Sé a disposizione del lavoro futuro” (Bollas, 2021, p.193). In sostanza, contengono le esperienze precedenti del sé che sono state conservate per poter essere elaborate successivamente. Quindi, se da una parte il processo conservativo è ciò che consente al paziente di non perdere questi sé, come ci ricorda Bollas, “È a partire dal processo ricettivo e dalla procedura evocativa che gli stati conservati del Sé vengono vissuti in presenza dell’analista” (Ivi, p.187).

Ecco, allora, che l’incontro tra paziente e analista consente il realizzarsi della loro doppia funzione, di conservazione e di elaborazione degli stati del sé, “il dipanarsi del discorso dell’inconscio”.

Tuttavia, le serie storiche contengono anche tutto ciò che non può essere comunicato, proprio perché appartenente all’esperienza specifica di ognuno, alla sua solitudine.

Il vero sé, infatti, come sostiene Bollas (2021): “[…] non può essere descritto completamente. Non somiglia tanto all’articolazione dei significati in parole che consentono di isolare un’unità di significato, come nella localizzazione di un significante, quanto al moto della musica sinfonica. Ma anche questa analogia non fa giustizia all’effimera formazione dell’esperienza del vero Sé. Ognuno inizia la vita con un vero Sé. È un potenziale ereditario che viene alla luce in seguito alle stimolazioni dell’esperienza” (p. 99); così come il suo corso in analisi “è questa esperienza del momento”.

 

10.000 passi al giorno a beneficio della salute mentale

A partire dalle evidenze dei miglioramenti fisici associati all’attività fisica, e nello specifico al percorrere 10.000 passi giornalieri, l’indagine di Hallam et al. (2018) ne ha valutato l’impatto sui fattori psicologici quali benessere, stress, ansia e depressione.

 

Si prevede che entro il 2030, la malattia mentale impatterà globalmente a livello economico per oltre 6 miliardi di dollari, diventando più dispendiosa delle malattie cardiovascolari, delle malattie respiratorie croniche, del cancro e del diabete (Bloom et al., 2011).

La psicopatologia comporta un rischio elevato di morbilità e mortalità precoce per problemi di salute (De Hert et al., 2011), ulteriormente aggravato dall’impiego di psicofarmaci impiegati per farvi fronte (Correll et al., 2015). La carenza di specialisti della salute mentale nei paesi a basso e medio reddito, oltre alla non equità di accesso al trattamento nei paesi a basso reddito, testimoniato dal 75%-85% delle persone con problemi di salute mentale che non viene trattato (Funk et al., 2012), sono solo alcuni dei motivi che rendono rilevante il ruolo della prevenzione primaria e degli interventi a livello di popolazione per migliorare la salute mentale ed il benessere.

Sebbene l’attività fisica sia in grado di prevenire alcune patologie fisiche, è stata poco presa in considerazione nel contesto della malattia mentale e per la salute mentale (Booth et al., 2002; Callaghan, 2004; Stanton et al., 2015). Studi epidemiologici dimostrano che un’adeguata attività fisica riduce i sintomi depressivi (Lucas et al., 2011) e, viceversa, se insufficiente, può essere un fattore di rischio per l’insorgenza della sintomatologia depressiva (Hiles et al., 2017). Infatti Cooney et al. (2014) hanno riscontrato che l’attività fisica in individui clinicamente depressi può essere un importante trattamento aggiuntivo, in grado di ridurre moderatamente i sintomi depressivi.

L’attività fisica agisce sull’umore riducendo l’attività del sistema nervoso simpatico e la reattività dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene nel cervello (Rimmele et al., 2007). Inoltre, incrementa i livelli di serotonina e noradrenalina, similmente ai farmaci antidepressivi (Meeusen& De Meirleir, 1995), oltre a favorire il rilascio del fattore neurotrofico derivato dal cervello (BDNF), comportando miglioramenti cognitivi, emotivi e comportamentali (Meeusen & De Meirleir, 1995). Smits et al. (2008), hanno dimostrato che un minimo di sei sessioni di 20 minuti su tapis roulant consente di ottenere in due settimane miglioramenti anche a livello dell’ansia.

Prevenire l’ansia e la depressione, e quindi l’impatto dello stress, è rilevante al fine di limitare l’insorgenza di una psicopatologia. Svolgere attività fisica comporta un maggiore benessere in quanto riduce l’impatto dello stress sulla salute fisica e mentale (Brown et al., 2012; Fletcher et al., 1996).

L’Organizzazione Mondiale della Sanità considera preziosi gli interventi sul posto di lavoro che promuovono il miglioramento della salute dei lavoratori (Proper& Van Mechelen, 2007). I programmi basati sull’impiego del pedometro possono contribuire ad incentivare l’attività fisica, riducendo il peso corporeo, i lipidi nel sangue ed il rischio di diabete (Faghri et al., 2008; Ganesan et al., 2016; Glance et al., 2016). Il benessere raggiunto, grazie a questi programmi, ha impattato positivamente sullo stress dei partecipanti (Glance et al., 2016).

Nei programmi basati sui passi, l’obiettivo di percorrerne 10.000 al giorno (8 km) supera di gran lunga i 150 minuti di attività fisica a settimana raccomandati dall’OMS. A partire dalle evidenze dei miglioramenti fisici associati al percorrere 10.000 passi giornalieri, Hallam et al. (2018) hanno proposto ai soggetti del loro studio di partecipare a un programma di 10.000 passi per 100 giorni, valutandone l’impatto sui fattori psicologici quali benessere, stress, ansia e depressione.

Partendo dal presupposto che gli individui trascorrono almeno metà della vita lavorando, il presente studio ha effettuato l’indagine sul luogo di lavoro, ambiente significativo per promuovere il cambiamento della salute e favorire il benessere (Conn et al., 2009).

Sono stati monitorati i passi giornalieri dei partecipanti, mentre prima e a seguito dei 100 giorni sono stati valutati i sintomi depressivi, ansiosi (Depression, Anxiety Stress Scales, DASS; Lovibond & Lovibond, 1995) e l’indice di benessere (Warwick-Edinburgh Mental Wellbeing Scale, WEMWBS; Bass et al., 2016).

I risultati evidenziano alcuni effetti positivi sia sugli aspetti psicologici che sul benessere generale derivanti dall’effettuare un’attività programmata di passi giornalieri, indipendentemente dal numero medio di passi raggiunti. In particolare, il programma ha migliorato i livelli di stress dell’8,9%, i sintomi di depressione del 7,6%, l’ansia del 5,0% ed il benessere del 2,1%. Camminare svolge un ruolo significativo per il benessere non solo fisico ma anche mentale, sebbene considerare il valore soglia dei 10.000 passi sia emerso come poco significativo.

Tale mancanza di risultato dose-dipendente, evidenzia la presenza di fattori concomitanti che possono contribuire al miglioramento del benessere mentale, come il divertimento, il supporto interpersonale e la connessione costituita dalla partecipazione di gruppo alla sfida (LaMontagne et al., 2014). Inoltre, le attività di promozione della salute spesso incentivano cambiamenti comportamentali a livello di dieta, in grado di migliorare potenzialmente i risultati.

Ulteriori ricerche dovranno individuare la combinazione di fattori interni ed esterni associata ad un cambiamento maggiore in questo tipo di programmi e verificarne la sostenibilità nel tempo. Una valutazione di follow-up eseguita otto mesi dopo un intervento simile, ha riscontrato un miglioramento dei fattori di rischio legati alle malattie croniche nel lungo periodo (Freak-Poli et al., 2013).

Programmi di questo genere possono apportare benefici nel contesto lavorativo, prevenendo l’assenteismo, la spesa sanitaria dell’azienda, il turnover, favorendo la produttività ed in generale la qualità di vita, la soddisfazione e la salute mentale dei lavoratori.

Chi sono e chi vorrei essere: differenze tra sé reale e sé ideale

Il concetto di Sé Reale e Sé Ideale è stato introdotto dallo psicologo statunitense Carl Rogers (Rogers, 1951). Secondo Carl Rogers, l’immagine di sé e il sé ideale possono essere congruenti o incongruenti. Quando c’è congruenza vuol dire che tra l’immagine di sé e il sé ideale c’è una discreta quantità di sovrapposizione e ciò porta alla sensazione di autorealizzazione, cioè a sentirsi appagati da ciò che si fa.

 

“Cosa mi aspetto dal domani?” dicevano i Lunapop. Questa è una domanda che un po’ tutti ci facciamo ad un certo tratto della nostra vita. Vi svelo un segreto, per quanto mi riguarda in qualità di professionista, una cosa è certa, il lavoro che farò sarà sempre volto non alla cura, ma al prendersi cura dell’altro.

Vi ricordate quando da piccoli ci chiedevano: “Cosa vuoi fare da grande?”, difficilmente qualcuno di noi rispondeva il centralinista o l’imbianchino, io di solito ho sempre risposto la rock star e molti dei miei compagni di classe ambivano ad essere dei supereroi come Zorro o Superman. Che significa questo? Che quando siamo piccoli abbiamo una grande immaginazione e una scarsa consapevolezza delle risorse a disposizione, del contesto in cui viviamo, degli ostacoli che possiamo incontrare, delle nostre capacità.

Secondo lo psicologo sovietico Vygotskij (Vygotskij, 1925) l’immaginazione è strettamente interconnessa con l’esperienza pertanto, quanto più un bambino avrà accesso a esperienze di vita significative, tanto più sarà prolifera la sua immaginazione, viceversa un bambino che vive in un contesto culturale con pochi stimoli avrà una capacità più ristretta di andare oltre il dato concreto.

Grazie a quel lato incosciente che ci permette di andare oltre, abbiamo la possibilità di provare a metterci alla prova in qualcosa che non siamo e che mai nessuno ci ha detto che potremmo diventare. Pian piano che cresciamo l’immaginazione diminuisce e aumenta la consapevolezza, si arriva a un momento in cui aspettativa e realtà iniziano a combaciare. Ci succede che siamo costretti a scontrarci con le difficoltà economiche, con un sistema spesso poco meritocratico, che fa sì che finiamo spesso per accettare un lavoro che non ci appaga. L’importante è portare lo stipendio a casa, ci hanno insegnato i nostri nonni, portare il pane, saziare i nostri figli e riuscire a campare.

L’ambizione, invece, guardare oltre gli orizzonti, è qualcosa che non deve abbandonarci mai, il Sé Ideale (ciò che vogliamo essere) è la nostra guida, il nostro motore a dare sempre di più.

Il concetto di Sé Reale e Sé Ideale è stato introdotto dallo psicologo statunitense Carl Rogers (Rogers, 1951). Per Sé Reale intendiamo tutto ciò che sentiamo di rappresentare, di aver raggiunto grazie alle nostre forze e di poter raggiungere concretamente, mentre per Sé Ideale intendiamo tutto ciò a cui tendiamo, ciò che vorremmo realizzare ma che non siamo sicuri di riuscire a fare. Secondo Carl Rogers, l’immagine di sé e il sé ideale possono essere congruenti o incongruenti. Quando c’è congruenza vuol dire che tra l’immagine di sé e il sé ideale c’è una discreta quantità di sovrapposizione e ciò porta alla sensazione di autorealizzazione, cioè a sentirsi appagati da ciò che si fa.

Ma cosa succede quando, invece, c’è troppa discrasia (incongruenza) tra Sé Reale e Sé ideale?L’incongruenza può avvenire in positivo o in negativo. Alcuni soggetti possono avere progetti di vita irreali e non corrispondenti alla realtà, avere quindi un Sé Ideale troppo “gonfiato”, o, viceversa, altri possono avere un’immagine troppo scarsa del proprio sé, che li porta a essere poco ambiziosi. Quando il soggetto non riesce a realizzare i propri sogni inizia ad avere momenti di conflitto interiore, a vivere stati di tristezza per non riuscire a raggiungere i propri scopi. Sentimenti come ansia e depressione diventano sempre più incombenti, il che può portare ad abbandonare i propri progetti, impigrirsi e rimanere in uno stato di stallo emotivo e lavorativo dal quale poi è difficile uscire, i giorni passano e non ce ne accorgiamo e ogni giorno ci affossiamo in un baratro dal quale poi risalire diventa quasi impossibile.

Per avere un Sé Ideale sempre al passo, mai addormentato e nemmeno troppo vispo, vi è uno slogan che dovrebbe essere sempre il faro del nostro cammino, sto parlando del CO.CO.MI (Robbins, 1992), un acronimo che sta per: CONTINUO, COSTANTE MIGLIORAMENTO. Secondo Robbins, ognuno di noi trova la sua felicità nella ricerca del miglioramento costante e nel percorso che segue nel raggiungere nuovi obiettivi personali; il che significa che ognuno di noi dovrebbe cambiare prospettiva, ovvero dovremmo iniziare ad avere un modo diverso di vedere la nostra crescita emotiva e personale: la vita dev’essere vissuta come un processo in continuo divenire, un approccio continuo da mettere in atto ogni giorno a lavoro e nelle relazioni sociali, ma che, a poco a poco, al contempo, si armonizzerà a pieno con la nostra quotidianità.

La nostra ottica di vita può così essere basata sull’assunto che “non si smette mai di imparare”, bisogna essere in costante formazione, per poter dare il meglio di sé, non bisogna mai sentirsi arrivati, bisogna avere sempre lo stimolo a fare un passettino in più rispetto a quello che già sappiamo. Per formazione non si intende la mera formazione didattica, ma formazione personale, culturale, emotiva, che ci dia la possibilità di: Sapere, Saper Fare e Saper Essere.

Mi piace il futuro perché lì possiamo essere forti e delicati e pieni di sogni e di vento in faccia.
E ci sono strade mai viste e fiori colorati e stagioni che soffiano giorni nuovi e polvere di stelle che si deposita sulle mani. (Fabrizio Caramagna)

 

La relazione tra Intolleranza all’Incertezza, Disregolazione Emotiva e Affettività Negativa in individui con Disturbo da uso di sostanze

Questo lavoro evidenzia come le differenze individuali nella regolazione delle emozioni possano precedere lo sviluppo di un Disturbo da Uso di Sostanze, e possano quindi essere concettualizzate come un fattore di rischio che predice l’insorgenza della malattia.

Pamela Filiberto – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Mestre

 

Il Disturbo da Uso di Sostanze è frequentemente associato a deficit nella regolazione delle emozioni. La domanda che gli studi spesso si sono posti è: “Questi deficit precedono lo sviluppo del disturbo, in modo che possano essere considerati un fattore di rischio?” La risposta sembra essere di sì.

A partire dai classici esperimenti del “test del marshmallow” negli anni ’60 di Mischel e colleghi, l’ipotesi che è stata proposta dai ricercatori consiste nel considerare la capacità di ritardare la gratificazione, e di regolare uno stato affettivo come il desiderio, un elemento cruciale nel determinare le traiettorie di sviluppo dei bambini (Mischel, Ayduk, Berman, Casey, Gotlib, et al., 2011). In questi studi sperimentali ormai famosi, ai bambini in età prescolare veniva presentato un dolcetto gustoso e veniva detto loro che potevano mangiarlo subito o, in alternativa, ricevere due dolcetti in un secondo momento, se fossero riusciti ad aspettare e, quindi, ritardare la gratificazione. Nella descrizione dell’esperimento, Mischel riferisce che i bambini differiscono nella loro capacità di ritardare la gratificazione, che va dal non essere assolutamente in grado di aspettare, all’aspettare tutto il tempo previsto dallo sperimentatore (utilizzando anche una varietà di strategie spontanee per rendere più tollerabile l’attesa). Successivamente Mischel (2011) ha riferito che i bambini in età prescolare che sono stati in grado di ritardare la gratificazione più a lungo (aspettando una ricompensa più grande piuttosto che cedere immediatamente alla ricompensa più piccola) in seguito hanno ottenuto punteggi più alti ai test accademici, hanno avuto un migliore adattamento socio-cognitivo ed emotivo durante l’adolescenza e, cosa importante, avevano meno probabilità di usare sostanze come, in particolare, cocaina in età adulta. Questo lavoro evidenzia come le differenze individuali nella regolazione delle emozioni possano precedere lo sviluppo di un Disturbo da Uso di Sostanze, e possano quindi essere concettualizzate come un fattore di rischio che predice l’insorgenza della malattia.

Negli anni successivi alla pubblicazione del lavoro di Mischel e colleghi, sono stati raccolti altri dati sperimentali che suggeriscono come lo scarso autocontrollo in età infantile possa effettivamente essere un fattore di rischio per l’uso di sostanze e l’insorgenza di un Disturbo da Uso di Sostanze in età adulta. Per esempio, Moffitt e colleghi (2011) hanno seguito 1.000 bambini dalla nascita ai 32 anni. Durante l’infanzia, i partecipanti sono stati valutati su varie misure di autocontrollo relative alla regolazione delle emozioni, tra cui labilità emotiva, tolleranza alla frustrazione e persistenza. Gli autori riferiscono che le differenze individuali nella capacità di autocontrollo erano significativamente predittive degli esiti di salute in età adulta, tra cui l’uso e la dipendenza da sostanze, fino a 30 anni dopo.

La Disregolazione delle Emozioni

La Disregolazione delle Emozioni è un costrutto multidimensionale, che descrive l’incapacità dell’individuo di controllare o modulare gli stati emotivi (Gratz & Roemer, 2004), e rappresenta un fattore transdiagnostico per molte psicopatologie.

Diversi modelli esplicativi del Disturbo da Uso di Sostanze considerano la Disregolazione delle Emozioni come una caratteristica implicata nell’uso continuativo di sostanze e uno degli elementi responsabili delle ricadute, giocando quindi un ruolo significativo sia come fattore di rischio precoce (Moffitt et al., 2011) che come fattore di mantenimento (Kober e Gross, 2014). Ad esempio, il Modello di Prevenzione delle Ricadute (Marlatt & Witkiewitz, 2005), il Modello del Rinforzo Negativo (Baker, Piper, McCarthy, Majeskie, & Fiore, 2004), e il Modello del Self Medication (Khantzian, 1985), tra gli altri, chiamano direttamente in causa il processo di regolazione carente come motivo chiave e primario nella spiegazione di un uso problematico di sostanze e della ricaduta.

Spesso i consumatori di sostanze sviluppano aspettative positive riguardo l’uso, per esempio “se bevo, mi sentirò bene”, che sono associate a un maggiore utilizzo e a un maggiore rischio di sviluppare un vero e proprio disturbo (Jones, Corbin, & Fromme, 2001). Oltre alle aspettative riguardo alle emozioni positive, diverse sostanze sono associate a un decremento degli stati emotivi negativi, come l’ansia con l’alcol e i farmaci ansiolitici, la tristezza e la depressione con gli stimolanti come la cocaina e le anfetamine, il dolore con l’eroina, la morfina e altri oppiacei sintetici. In considerazione di ciò, è stato proposto che gli effetti di riduzione dell’Affettività Negativa da parte delle sostanze funzionino da rinforzo negativo, aumentando così la probabilità di un successivo utilizzo (Koob & Le Moal, 2008).

Questa idea è stata inizialmente resa popolare dal Modello del Self Medication proposto da Khantzian (1985), caratterizzato da due componenti principali: (1) gli stati affettivi spiacevoli predispongono gli individui all’uso di sostanze, e (2) quelli con una particolare predisposizione agli stati affettivi negativi hanno maggiori probabilità di sviluppare un Disturbo da Uso di Sostanze verso una sostanza in grado di invertire su quei particolari stati affettivi.

Sebbene l’ipotesi dell’automedicazione sia stata messa in discussione, diverse linee di ricerca supportano l’ipotesi che l’uso di sostanze serva a regolare l’affettività negativa. In primo luogo, il Disturbo da Uso di Sostanze frequentemente co-occorre con una serie di altri disturbi psichiatrici, in particolare i disturbi dell’umore e dell’ansia. Inoltre, le diagnosi psichiatriche preesistenti aumentano la probabilità che un individuo sviluppi successivamente un Disturbo da Uso di Sostanze (Kessler et al., 2005). In secondo luogo, le persone con dolore cronico sembrano avere molte più probabilità di sviluppare Disturbo da Uso di Sostanze rispetto alla popolazione generale, soprattutto per quanto riguarda i farmaci antidolorifici come gli oppiacei (Morasco et al., 2011). In terzo luogo, anche livelli tipici di affettività negativa sono correlati all’uso di droghe. Per esempio, i livelli di rabbia e ansia di tratto sono correlati al desiderio di bere negli alcolisti (Litt, Cooney, & Morse, 2000). Infine, gli stati affettivi negativi possono essere considerati alcuni dei fattori scatenanti del craving nel contesto d’uso sia occasionale che problematico di sostanze.

L’Intolleranza all’Incertezza

L’Intolleranza all’Incertezza è definita come “la capacità dispositiva di un individuo di sopportare la reazione avversa innescata dalla assenza percepita di informazioni chiave e sufficienti, e sostenuta dalla percezione associata di incertezza” (Carleton, 2016) e, in maniera simile alla Disregolazione delle Emozioni, è considerata un fattore di vulnerabilità transdiagnostica per diversi disturbi emotivi.

In circostanze incerte, le persone con un alto livello di intolleranza all’incertezza sperimentano pensieri ed emozioni negative che le spingono a mettere in atto comportamenti che portano alla riduzione dell’incertezza. Le persone intolleranti all’incertezza sono inclini a sperimentare difficoltà nell’identificare quali emozioni provano, e tendono a interpretare con ambiguità le emozioni come fastidiose e indesiderabili. L’intolleranza all’incertezza potrebbe inoltre promuovere un comportamento impulsivo in risposta all’incertezza: a lungo termine, la cessazione immediata dell’incertezza e del relativo disagio potrebbe rafforzare strategie di coping impulsivo e le stesse credenze di intolleranza.

Per quanto riguarda la relazione tra Intolleranza all’Incertezza e l’uso di sostanze per regolare le emozioni, Kraemer et al. (2015) e Oglesby et al. (2015) hanno indagato l’associazione tra Intolleranza all’Incertezza e i motivi dell’uso di alcol in laureati non clinici; entrambi gli studi hanno mostrato che l’Intolleranza all’Incertezza prediceva il bere come modalità per gestire o evitare emozioni negative.

Garami et al. (2017) hanno scoperto che i pazienti dipendenti da oppioidi, sottoposti a terapia di mantenimento con metadone, avevano un tasso di Intolleranza all’Incertezza più elevato rispetto agli individui non clinici.

In conclusione, l’uso problematico di sostanze e il Disturbo da Uso di Sostanze potrebbe essere considerato una strategia di coping maladattivo che ha lo scopo di ridurre l’affettività negativa in assenza di strategie di regolazione delle emozioni più adeguate. L’approccio della CBT consente di incrementare le abilità di riconoscimento e padroneggiamento dell’esperienza emotiva soggettiva attraverso una serie di tecniche cognitive e comportamentali di comprovata efficacia, come il dialogo socratico, l’automonitoraggio, le tecniche di distrazione, gli esperimenti comportamentali, la gestione delle contingenze, il monitoraggio delle attività.

 

Imprinting tra etologia e neuroscienze

In etologia, ancora oggi con il termine imprinting si indica una particolare forma di apprendimento precoce, con cui un animale concentra la sua preferenza sociale verso un oggetto a cui è stato esposto subito dopo la nascita.

 

Cosa è l’imprinting?

L’imprinting è uno dei costrutti più rilevanti per gli studiosi del comportamento.

Inizialmente fu studiato dal naturalista inglese Spalding nel 1873 e, in seguito, fu ripreso dall’etologo austriaco Konrad Lorenz per indicare quel fenomeno per cui gli uccelli appena usciti dal guscio seguono il primo oggetto che vedono in movimento comportandosi nei suoi confronti come con la madre (Galimberti, 2018).

In etologia, ancora oggi con questo termine si indica una particolare forma di apprendimento precoce, con cui un animale concentra la sua preferenza sociale verso un oggetto a cui è stato esposto subito dopo la nascita, in una breve fase indicata come “periodo sensibile” o “periodo critico”. È riscontrabile specialmente negli uccelli ma anche nei mammiferi, i quali riconoscono e seguono la madre o un surrogato di questa, che può essere un altro animale o un qualsiasi oggetto in movimento. Ciò ha una funzione legata alla sopravvivenza, in quanto permette di riconoscere e rimanere vicini al genitore, così da evitare di essere attaccati (McCabe, 2013).

L’imprinting può essere relativamente irreversibile e influisce anche sullo sviluppo dell’animale nella maturità, esercitando un ruolo fondamentale perfino sul comportamento della vita adulta per quanto riguarda il rapporto del genitore con la prole e la vita sessuale: infatti, l’oggetto dell’imprinting verrà corteggiato in età adulta, anche nel caso di un oggetto, come se si trattasse di un proprio conspecifico (McCabe, 2013; Galimberti 2018).

Dai primi studi di Lorenz sull’oca Martina a ipotesi più recenti

Quando si parla di imprinting non si può non far riferimento a Konrad Lorenz, al quale è stato assegnato il Premio Nobel proprio per i suoi studi su questo fenomeno.

L’oca Martina, di cui l’autore ha raccontato nella sua celebre opera “L’anello di re Salomone”, è divenuta simbolo delle sue ricerche: Lorenz, infatti, racconta di come Martina avesse identificato in lui la propria madre, seguendolo ovunque per mesi fino all’età adulta.

Lorenz elaborò sin dal 1935 il concetto di imprinting, che poi ha definito come «la fissazione di un istinto innato su un determinato oggetto», osservando che «nelle anatre selvatiche il processo di imprinting che ferma l’azione del seguire è ridotto a poche ore. Proprio per essere circoscritto a una determinata fase di sviluppo e per la sua irrevocabilità l’imprinting si differenzia da altre forme d’apprendimento» (Lorenz et al., 1990).

Ma per quale motivo differisce dalle altre tipologie di apprendimento? Per tre aspetti fondamentali: in primis non necessita di ricompensa, non è soggetto alla generalizzazione dello stimolo e, infine, non muta per tutto il ciclo di vita.

Tuttavia, studi più recenti contestano l’irreversibilità dell’imprinting, che in condizioni particolari può essere sostituito da un nuovo stimolo. Si ipotizza, inoltre, che la durata del periodo critico non sia fissa, bensì differisca a seconda della specie e delle condizioni ambientali.

Recentemente l’ipotesi è stata estesa altresì al comportamento umano fino a supporre che l’assenza di stimoli adeguati nel periodo sensibile possa essere alla base di alcune forme di ritardo mentale (Bateson, 1966; Lorenz, 2012; Galimberti 2018).

Le basi neurali dell’imprinting

Da studi sul pulcino domestico sono state ottenute informazioni sui meccanismi neurali alla base dell’imprinting filiale a uno stimolo visivo o uditivo.

Si è scoperto che una regione ristretta all’interno del proencefalo è fondamentale per l’imprinting di uno stimolo visivo. Tale area originariamente nota come parte intermedia e mediale dell’iperstriato ventrale (IMHV), è stata successivamente definita mesopallio intermedio e mediale (IMM) (Horn, 1985; Reiner et al., 2004).

L’ablazione bilaterale, ossia l’asportazione in entrambi gli emisferi, dell’IMM prima dell’esposizione a uno stimolo di imprinting impedisce l’acquisizione della preferenza e lo stesso intervento fino a tre ore dopo l’avvenuto imprinting rende i pulcini amnesici per lo stimolo dell’imprinting (McCabe et al., 1982).

Per quanto riguarda gli stimoli uditivi, invece, i pulcini domestici sviluppano una preferenza per il richiamo materno di una gallina e per gli stimoli dal tono ritmico in seguito all’esposizione a questi. Cambiamenti neurali successivi all’imprinting agli stimoli tonali sono stati rilevati nel mediorostrale nidopallium/mesopallium (MNM; precedentemente il medio-rostrale neostriatum/hyperstriatum ventrale o MNH), e comprendono un aumento dell’assorbimento di 2-fluorodesossiglucosio, riduzione della densità numerica delle sinapsi, e cambiamenti nel rilascio di glutammato e nell’attività elettrofisiologica (Maier & Scheich, 1983; Wallhauser &, Scheich, 1987; Bredenkotter & Braun, 2000).

Evidentemente l’elaborazione della memoria dopo l’esposizione allo stimolo coinvolge diverse regioni del cervello, a seconda della modalità impiegata per la procedura di imprinting (McCabe, 2013).

Ma cosa sappiamo delle basi neurali dell’imprinting nei mammiferi?

Nei mammiferi si parla di fenomeni di apprendimento precoce di tipo imprinting, ma non è stata identificata un’area “imprinting-specifica”.

Studi condotti sui topi mostrano come il riconoscimento della madre si basi principalmente su stimoli olfattivi, pertanto gioca un ruolo centrale il bulbo olfattivo.

Infatti, lo sviluppo dell’attaccamento alla madre è su base olfattiva nel ratto, con cambiamenti neurali a livello del bulbo olfattivo a seguito della presentazione di un odore legato al nido, sia naturale che artificiale.

È importante perfino la noradrenalina: un’infusione di quest’ultima a livello del bulbo olfattivo durante la presentazione di uno stimolo odoroso è sufficiente ad indurre l’acquisizione della preferenza per quell’odore nel piccolo di ratto. Un effetto analogo si ottiene accoppiando un odore con la stimolazione elettrica delle afferenze noradrenergiche al bulbo olfattivo.

Viceversa, il blocco dei recettori ß per la noradrenalina a livello del bulbo olfattivo o le lesioni del locus coeruleus impediscono un normale condizionamento associativo su base olfattiva (Marazziti, Roncaglia, Piccinni, 2008).

Concludendo, l’imprinting è stato ampiamente studiato non solo dal punto di vista dell’etologia, ma anche della psicologia sperimentale e delle neuroscienze. Inoltre, continua a contribuire a tutte queste discipline, dimostrandosi rilevante nello studio dei meccanismi neurali dell’apprendimento e della memoria (McCabe, 2013).

Cyberbullismo e sexting (2020) di Andrea Bilotto e Iacopo Casadei – Recensione

Il cyberbullismo deriva da cyberbullying, ossia bullismo digitale; rispetto al bullismo cambia il mezzo attraverso cui la vittima viene colpita da messaggi colmi di ogni forma denigratoria, offensiva e lesiva per la sua reputazione.

 

Il mondo virtuale, proprio per le sue caratteristiche aleatorie, potrebbe trarre in inganno molti di noi adulti e farci credere di essere superficiale, proprio perché non reale.

Grandissimo errore che può davvero costare la salute, in alcuni casi addirittura la vita, dei nostri figli o nipoti, spesso aggrappati ad un mondo fittizio, per svariati motivi: noia, mancanza o carenza di relazioni affettive, moda, paura, identità fragile. Ma se da una parte la connessione permette di superare il limite di tempo e spazio, dall’altra abitua le persone a non cercare più il vero contatto con l’altro, bensì uno schermo, attraverso cui sentirsi liberi di essere anche chi non si è. In questa era dell’illusorio, quelle forme già complesse di conflitto tra giovani, come il bullismo, possono davvero diventare pericolose per la stessa vita. Trasferire tale fenomeno nel web porta a conseguenze molto più gravose, soprattutto per la velocità della trasmissione delle informazioni e per la facilità con cui si può raggiungere la persona che si desidera colpire; persona che rimane letteralmente invischiata e incapace di liberarsi dalla tela costruita da questo macchinoso mondo virtuale che spesso, anziché placare, stimola quella forma di aggressività insita in ogni essere umano, che, se pur digitalizzata, è in grado di sferzare i colpi più duri e più pericolosi.

Quanto può essere potente la comunicazione?

In letteratura esistono numerose conferme a riguardo, ma attenzione che questo strumento così efficace può “far male più delle botte” (parole scritte da Carolina Picchio, citata nel testo, che ne ha pagate le conseguenze, suicidandosi all’età di 14 anni), se sfrutta il canale dei social, la cui presenza invasiva è ormai indiscussa.

Il cyberbullismo deriva da cyberbullying, ossia bullismo digitale, termine coniato dal canadese Bill Belsey nel 2004. Rispetto al bullismo cambia il mezzo attraverso cui la vittima viene colpita da messaggi colmi di ogni forma denigratoria, offensiva e lesiva per la sua reputazione. Mezzo attraverso cui si può diffondere a macchia d’olio un sms o un’immagine o addirittura un filmato sicuramente in maniera intenzionale, intenzionalità che sfugge, però, perfino all’autore dell’atto, diventando una potente arma contro l’altro, incapace di difendersi. In effetti il mezzo, ovvero il web, sfrutta la sua popolarità e la sua influenza, per diffondere male contro chi, magari per ingenuità, si ritrova ad essere il bersaglio in un preciso istante che diventa però, per lui, un’eternità. Gli autori, partendo dalle origini del bullismo, analizzano il contesto dell’era moderna, ormai immerso in un magma di follower, spesso dipendenti dalla stessa realtà illusoria (si parla, infatti, di Social Network Addiction o Friendship Addiction), realtà che mette in luce un profondo disagio nei giovani adolescenti, più propensi a chiedersi dove sia finito il proprio cellulare, piuttosto che farsi carico di domande esistenziali da sempre poste dall’uomo, sulla propria identità. Tale dipendenza, spiegano gli autori, mette in luce il forte senso di insicurezza dei giovani d’oggi che tentano di soffocarlo nell’apparenza delle cose, attraverso quella forma nuova di narcisismo digitale, in cui quel che conta è il numero di follower o i “mi piace” dei social. Ossia la mia identità dipende dal numero di click che ricevo, anche a scapito dell’altro, perché sono colpito da quel desiderio irrefrenabile di esibizione che prevarica su ogni forma di rispetto e di comprensione. Il mio essere preferisce vivere all’apparenza piuttosto che cercare la sostanza, galleggia sulla superficie per paura della profondità. D’altronde, come ben si mette in evidenza nel testo, su quel «Colosseo globale» rappresentato dai social, una persona apparentemente sicura di sé colpisce un’altra, anche in maniera spietata, ricevendo perfino il supporto diretto o indiretto di una massa di individui anonimi e frustrati che non fa che alimentare il fuoco della cattiveria e dell’aggressività. Perché, non si sa per quale arcano motivo, le persone in rete amano stare più dove prevalgono liti, polemiche e conflitti, piuttosto che in contesti dove si diffondono messaggi positivi e sani.

Nel primo capitolo, a partire dall’analisi delle origini dell’aggressività e del bullismo, si mette in evidenza quanto accade quando quest’ultimo viene portato sulla rete, informando il lettore su quei fenomeni di cyberbullismo nati proprio in questo mondo virtuale, che colpiscono maggiormente il genere femminile: dal sexting, ossia l’inviare foto in pose sexy, spesso in unione a messaggi o video dai contenuti sessualmente espliciti,-sempre testimonianza della fragilità adolescenziale e del bisogno di mettersi in mostra per essere ed esserci- al Revenge porn purtroppo il passo è breve. Quell’imprudente sexting si trasforma in una potente arma contro la stessa ragazza che ritrova le sue foto sul web, diffuse in un nano secondo, magari dal suo stesso ex fidanzato, allo scopo di danneggiarne la reputazione. Un fenomeno altamente preoccupante, indice di allarme sia per i genitori che per gli educatori. E su questo punto gli autori tornano più volte, mettendo in evidenza la necessità, in un momento storico così confuso, di un’educazione sana e profonda ai sentimenti, un’alfabetizzazione emotiva che deve partire dall’infanzia, per far sì che il bambino impari a conoscere i propri stati mentali, ma anche quelli altrui, unica maniera per riuscire a “mettersi nei panni dell’altro” e costruire così relazioni sane e reali. Un messaggio importante traspare dalla lettura del testo, ossia la ricerca della propria identità e della propria felicità in sé stessi e non negli altri, la costruzione del proprio essere attraverso la qualità e non la quantità effimera di amici, molto semplicemente meglio “pochi ma buoni”.

Nel secondo capitolo si affronta l’analisi della figura del bullo e di quella della vittima, del cyberbullo e della cybervittima, cercando di delineare anche le principali caratteristiche presenti nelle famiglie di origine. Se si pensa, bullo e vittima potrebbero essere definiti come le due facce di una stessa medaglia, in quanto entrambi risentono fortemente di un’identità poco definita ed estremamente fragile. Da una parte il bullo, nella definizione del proprio status adolescenziale, tenta di ottenere una conferma nella sua posizione sociale attraverso le sue malefatte, non rendendosi conto della futilità dei vantaggi perseguiti. Dall’altro la vittima, spesso ha difficoltà relazionali con i compagni di classe, un senso di non appartenenza al gruppo dei pari e anche possibili problematiche di carattere psicosomatico o ansia e depressione; tutto questo porta la stessa, presa in giro dai suoi coetanei, a rispondere in maniera aggressiva o offensiva, incapace di gestire quella rabbia repressa che spesso sfocia in altrettanta cattiveria. Per quanto concerne le famiglie delle due parti, ben si evidenzia nel testo quali fattori possano interagire con le singole caratteristiche dell’individuo e del contesto, contribuendo a formare le due figure citate. Nella famiglia della vittima si evidenziano una scarsa comunicazione, spesso uno stile genitoriale troppo permissivo ed una eccessiva preoccupazione per il proprio figlio, che possono essere considerati fattori predittivi della condizione di vittima. Nella famiglia del bullo la letteratura evidenzia atteggiamenti dei caregiver privi o carenti di affetto e coinvolgimento, scarsa coesione e mancata comunicazione (Bowers, Smith e Binney, 1992), ma anche possibili tendenze paranoidi, attacchi verso l’altro, assenza di senso di colpa (Patterson et al., 1984; Ross, 1996). Proprio in virtù di questa analisi approfondita, gli autori sottolineano la necessità da parte dei famigliari e della scuola di un intervento atto a far comprendere e definire i limiti da non superare, senza atteggiamenti estremamente coercitivi, ma nemmeno troppo permissivi, in continua armonia ed accordo tra le due parti, ponendo l’accento su quella «sintonizzazione emotiva» fondamentale nello sviluppo e nella crescita del singolo individuo. Oltre a tali figure, viene anche delineato il profilo dell’osservatore, che nelle varie declinazioni, ossia sostenitore, spettatore neutrale, difensore della vittima, è presente sullo scenario come partecipante e dunque fattore interagente nei fenomeni di bullismo e cyberbullismo.

Nel terzo capitolo i due autori propongono un metodo di intervento definito «metodo antibullismo 7C», dove regna sovrana la capacità genitoriale ed educativa di saper insegnare ai bimbi, fin dalle elementari, a gestire le emozioni, anche rispetto a probabili prese in giro che caratterizzano la quotidianità, affinché apprendano a gestire anche piccole frustrazioni, momenti di difficoltà relazionale, per non divenire succubi degli eventi. Tutto questo, però, come ben sottolineano gli autori, deve partire innanzitutto dalla famiglia, un modello essenziale che il bambino prende come punto di riferimento e che pertanto non può caricarsi di contraddizioni, ma deve essere essa stessa capace di lavorare sulle proprie emozioni. Il metodo antibullismo 7C si caratterizza da parole chiave come consapevolezza, mantenere la calma, avere conoscenza di sé, comprensione dell’altro, ristrutturazione cognitiva della presa in giro, creatività e importanza nel far leva sul gruppo classe, anche attraverso dei piccoli giochi di role playing sia a casa che a scuola, che permettono al bambino di imparare a gestire situazioni di difficoltà, cercando di mantenere un atteggiamento empatico, gentile e assertivo.

Nel quarto e ultimo capitolo gli autori, a partire dal concetto di Losada Line, così definito dal nome dello psicologo cileno Marcia Losada che collaborò in una ricerca in ambito lavorativo con Barbara Fredrickson, puntano sulla presa di coscienza da parte del lettore della necessità di una maggior numero di pensieri positivi per riuscire a controbilanciare quelli negativi. La società attuale, in effetti, è concentrata su quelle che sono notizie di cronaca nera, scandali, violenza, che ricevono maggior audience da parte delle persone, con il rischio che gli stessi giovani finiscano per prediligere comportamenti volti alla trasgressione e alla violenza. È necessario, spiegano i due autori, poggiare su una psicologia positiva che cerchi di «immunizzare i figli dal bullismo». Un metodo che, sulla base di quanto detto, punti sulla prevenzione da fenomeni come il bullismo e il cyberbullismo, attraverso buoni insegnamenti come il fare bene agli altri, cercando nel possibile di non essere mai prevenuti o avere pregiudizi rispetto ai comportamenti altrui e, dunque, cercando di imparare a gestire e a trattenere gli istinti e l’irrazionalità a favore di un maggiore desiderio di conoscenza dell’altro, di una maggiore propensione a fare del bene, ispirati dalla voglia di cogliere nella vita quello che di bello esiste e non fossilizzandosi su quanto di negativo ci circonda. Vorrei riportare una frase del libro attraverso cui gli autori, citando A. de Botton, riassumono in maniera incantevole quanto di importante è stato analizzato in questo capitolo: «La notte è ancora più riccamente colorata del giorno… Se solo vi presti attenzione, ti avvedi che talune stelle sono giallo limone, altre emettono un chiarore rosato, altre irradiano aloni verdastri, azzurrini e blu nontiscordardimé».

Si tratta di un testo sicuramente rivolto a tutti, esperti e non, che permette al lettore di approfondire problematiche fortemente attuali, allo scopo di comprenderle e aiutare i nostri figli, nipoti, alunni a rendersene «immuni».

Le miocarditi da vaccino Covid sono rarissime, molto peggio quelle causate dal Virus. Vaccinarsi è fondamentale – Comunicato Stampa

Noi adulti siamo cavalieri con lo scudo, siamo l’unico scudo per proteggere i nostri figli, per questo fare il vaccino contro il Covid è fondamentale.

Comunicato Stampa

 

I medici della Cardiologia e Cardiochirurgia pediatrica dell’IRCCS Policlinico di S. Orsola in occasione della Giornata Mondiale del Cuore: “Dobbiamo proteggere i nostri bambini, con il vaccino.” “Le mamme incinta, cardiopatiche? Devono vaccinarsi”. “Il rischio di miocarditi da vaccino? E’ rarissimo”. “Molto peggio contrarre la malattia ed avere a seguito un interessamento cardiaco”.

“Vaccino sì. Terza dose, assolutamente sì”.

La dott.ssa Emanuela Angeli, cardiochiururgo pediatrico presso le Unità Operative di Cardiologia e Cardiochirurgia Pediatrica e dell’Età evolutiva dell’IRCCS Policlinico di Sant’Orsola a Bologna, non ha dubbi al riguardo.

“Il rischio delle miocarditi causate dal Covid è sicuramente più elevato rispetto al rischio delle miocarditi a cui può dare seguito il vaccino”. “Se i reparti oggi non sono in crisi – aggiunge il dott. Luca Ragni, cardiologo pediatrico presso le stesse Unità Operative – è proprio grazie al vaccino. Senza vaccino, con la variante Delta saremmo tornati ad una situazione drammatica. Questo è un dato oggettivo. La nostra indicazione è che il vaccino si deve fare, la terza dosa si deve fare: la probabilità di avere una miocardite a causa del vaccino o di avere complicanze è rarissima, è molto peggio contrarre la malattia ed avere a seguito un interessamento cardiaco. Questa è un’informazione reale”.

Dalla letteratura – spiega la dott.ssa Angeli  – emerge che la frequenza delle miocarditi a seguito del vaccino equivale ad 1 ogni 6 mila bambini. La frequenza delle miocarditi che si verificano nei pazienti che contraggono il Covid è indubbiamente molto più elevata.

Per promuovere la Giornata Mondiale del Cuore, il dott. Ragni e la dott.ssa Angeli hanno preso parte domenica 26 settembre ad un incontro sul tema “vaccini e cardiopatie”, organizzato dall’associazione Piccoli Grandi Cuori insieme all’IRCCS Policlinico di Sant’Orsola per sensibilizzare rispetto all’importanza della vaccinazione e chiarire alcuni dubbi in merito. “Rispondere con coscienza come medici è il massimo che possiamo fare” sottolinea la dott.ssa Angeli. Al momento non esiste ancora una letteratura esaustiva su questo argomento, ci sono tanti dati ed esperienze satellite, che sui media hanno una cassa di risonanza enorme.”

Nel corso di questi mesi di emergenza sanitaria la dott.ssa Angeli e il dott. Ragni hanno ricevuto centinaia e centinaia di e mail dai pazienti stessi e dai genitori dei pazienti cardiopatici: l’idea, come spiega la presidente Piccoli Grandi Cuori Paola Montanari – ci è venuta proprio per fornire un servizio in più alle nostre famiglie, grazie alla disponibilità dei nostri dottori. Per le famiglie è stato molto rassicurante sapere di poter chiamare in qualsiasi momento in Reparto e prendere contatto con il medico di riferimento.

“In questi mesi siamo stati sommersi dalle richieste di genitori – sottolinea il dott. Ragni –  che non sapevano assolutamente come orientarsi, occupandoci di cuore le domande sono molto centrate poiché si sentono notizie sul fatto che i vaccini possono causare miocardite o risentimenti cardiaci, ma laddove siano mirate ad altri temi ci avvaliamo di colleghi infettivologi e immunologi che ci forniscono le risposte più appropriate da fornire”.

Un bambino cardiopatico ha la stessa probabilità di prendere l’infezione di un bambino non cardiopatico?

“Assolutamente sì, – risponde il dott. Ragni – il sistema immunitario funziona allo stesso modo. I bambini cardiopatici si possono contagiare allo stesso modo di quelli non cardiopatici, il problema è che se il cardiopatico a seguito del contagio dovesse avere degli esiti importanti come la broncopolmonite interstiziale, quel cuore non riuscirebbe a far fronte alla malattia come un cuore “normale”. E quindi la guarigione sarebbe molto più complessa”.

Una donna incinta cardiopatica deve vaccinarsi? “Assolutamente sì”.

Paura della trombosi? “Molti pazienti cardiopatici fanno terapie anticoagulanti croniche e non ci sono mai stati problemi col vaccino”.

“Grazie all’analisi di queste domande e ai dati raccolti, – spiega la dott.ssa Angeli – stiamo cercando di capire quale sia l’incidenza del Covid sui bambini post operati e anche come si sono contagiati. Per noi è interessante capire di che cosa hanno avuto bisogno quando hanno contratto il Covid, quanti di loro sono stati ricoverati, quanti con patologie gravi, quanti hanno gestito la malattia a casa. Dal nostro studio interno è emerso che su un campione di 1.000 pazienti cardiopatici operati, di età eterogenea, l’8,6% ha avuto il Covid.

Se ci soffermiamo sui ragazzi e bambini al di sotto dei 18 anni, il 5% ha contratto il Covid. I nostri pazienti che hanno avuto il Covid tutto sommato sono stati bene, durante le visite ambulatoriali, in molti casi, il fatto di aver contratto il virus è emersa come informazione marginale. In questi mesi durante i colloqui cardiochirurgici mi è capitato che genitori chiedessero “dottoressa, ma io mi devo vaccinare per mio figlio?”. La mia risposta è sempre stata affermativa. Do loro la risposta che ho pensato per me stessa quando lavoravamo sotto emergenza totale e c’era tanto Covid: noi medici e adulti siamo cavalieri con lo scudo, siamo l’unico scudo che rimane per proteggere i nostri figli. Avere dubbi sul vaccino è lecito, ma in questo momento è l’unica arma che abbiamo, e non c’è tempo. Soprattutto se parliamo di bambini sotto i 12 anni, che non hanno gli strumenti per “difendersi”, l’unico scudo di protezione siamo noi adulti. Credo che ogni perplessità debba decadere nel momento in cui si sappiamo che vaccinarsi significa proteggere i nostri figli e quelli degli altri”.

“È un fatto di responsabilità”, aggiunge il dott. Ragni. “Ogni giorno ci troviamo di fronte a bambini piccolissimi e genitori che lottano per la sopravvivenza, è inconcepibile pensare che ci possano essere dubbi e che, qualcosa che ti può far stare bene, non sia presa in considerazione” conclude la dott.ssa Angeli.

 

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