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Il microbiota influenza il comportamento sociale attraverso i neuroni dello stress

Il microbiota è un ecosistema complesso che influenza, modula ed è continuamente influenzato e modulato da molti sistemi attraverso il cosiddetto asse “microbiota-intestino-cervello”.

 

Una recente ricerca non solo ha confermato la forte connessione tra la composizione del microbiota ed i comportamenti sociali espressi dall’organismo ma ha anche identificato nei topi sia lo specifico gruppo di neuroni sensibili alle influenze del microbiota (nucleo paraventricolare dell’ipotalamo) sia il particolare ceppo di batteri (Enterococcus faecalis) che ne modulano il funzionamento neurale e comportamentale.

Il ruolo del microbiota nell’organismo

Fino a pochi anni fa le scienze biomediche consideravano il microbiota semplicemente come un insieme piuttosto passivo e statico di microorganismi (batteri, virus, funghi) che parassitavano il nostro organismo senza attribuire loro alcuna funzione vantaggiosa per le cellule umane.

Molto recentemente però, grazie soprattutto allo sviluppo della tecnologia necessaria a sequenziare i genomi dei batteri che fanno parte di questo complesso ecosistema (metagenomica, trascriptomica e metabolomica), si è cominciato a comprendere il ruolo imprescindibile (e per alcuni versi quasi disorientante rispetto ad alcuni assunti precedenti) del microbioma anche per la fitness umana.

La stima della massa totale del microbiota è circa un kilogrammo e, anche se è presente in tutte le superfici interne ed esterne del nostro corpo (pelle, bocca, stomaco, intestino, polmoni, ecc.), si trova maggiormente concentrata nel tratto dell’intestino tenue e del colon per il suo ruolo strategico sia per quanto riguarda l’elaborazione alimentare che per quanto riguarda il nostro sistema immunitario.

L’organismo umano è costituito da circa 30 mila miliardi di cellule che contengono DNA umano che convivono in maniera generalmente simbiotica con un numero almeno pari o superiore (probabilmente di circa un terzo) di cellule appartenenti al microbiota (Sender, Fuchs, & Milo, 2016).

Diversamente da quanto creduto in passato è quindi lecito domandarsi se, quando ci riferiamo al “nostro” organismo, intendiamo esclusivamente l’insieme di cellule che condividono il DNA della specie umana o stiamo invece considerando il concetto di olobionte che include il complesso ecosistema che comprende anche tutte le cellule con un DNA “extra” umano che ci permettono di sopravvivere e prosperare (Agnoletti, 2021a).

Molecole biologiche fondamentali per il funzionamento del nostro organismo quali, ad esempio, la serotonina e la dopamina, non sono sintetizzate da cellule con il DNA umano ma da organismi che appartengono al microbiota.

Il microbiota ha quindi un ruolo di assoluto protagonista della “nostra” fitness anche se finora è stato grandemente sottostimato.

Ormai sia le scienze biomediche con gli studi ad esempio sulla celiachia, sull’obesità o la colite ulcerosa, che quelle psicologiche con gli studi sull’ansia, la depressione e molte psicopatologie quali l’autismo, la schizofrenia ed altre ancora (Caio et al., 2019; Cheung et al., 2019; Kelly et al. 2016; Li & Zhou, 2016; Sharon et al., 2019; Foster & McVey Neufeld; 2013; Garrett et al. 2007; Mangiola et al., 2016; Rodrigues-Amorim et al., 2018; Simpson et al., 2021) rendono facilmente prevedibile, nel prossimo futuro, un radicale cambiamento di molti paradigmi di entrambi questi settori scientifici (Agnoletti, 2021b; Agnoletti, 2021c).

Grazie alle ricerche molto recenti sul microbiota sappiamo ad esempio che soprattutto i primi anni di vita dell’organismo sono fondamentali per il benessere e la qualità di vita psicofisica di tutto l’arco temporale umano perché ci sono particolari esperienze quali il parto, l’allattamento, la presenza di altri esseri viventi con i quali siamo in stretto contatto (per esempio animali domestici), l’assunzione o meno di antibiotici, la tipologia di stress psicosociale percepito, etc. (Koenig et al., 2011; Ottman et al., 2012) che determinano il particolare assetto e composizione del microbiota e quindi il suo impatto nell’intero organismo.

Il microbiota è un ecosistema complesso che interagisce in maniera biunivoca con molti sistemi cellulari costituiti da DNA umano nel senso che influenza, modula ed è continuamente influenzato e modulato da molti sistemi attraverso il cosiddetto asse “microbiota-intestino-cervello” (Cryan et al., 2019).

Effetti dei trapianti di microbiota

Esistono in letteratura già numerosi studi relativi a trapianti di microbiota (tra modelli animali, da modelli umani ad animali e tra umani) che dimostrano, per esempio, che trapiantando il microbiota di un ratto stressato negativamente al punto di renderlo ansioso o depresso, all’interno dell’intestino di un topolino né ansioso né depresso, si inducono velocemente (nel giro di pochi giorni) in quest’ultimo comportamenti ansiosi o depressivi simili al donatore (Kelly et al., 2016; Winter et al., 2018).

Anche il trapianto nella direzione opposta, trapiantando cioè il microbiota di un topolino non ansioso e non depresso nell’organismo di uno ansioso o depresso, si riscontrano significativi miglioramenti sulla qualità di vita e la salute del topolino ricevente questa componente biologica che non fa parte del DNA dei topolini.

Microbiota e comportamento sociale

Già alcune ricerche quindi avevano dimostrato nei topi una connessione tra il loro microbiota ed il comportamento sociale che esprimevano (Buffington et al. 2016; Desbonnet, 2014; Rogers, G. B. et al. 2016; Sharon, Sampson, Geschwind & Mazmanian, 2016), ma solo attraverso uno studio molto recente, pubblicato sulla prestigiosa rivista Nature, si è identificato il meccanismo specifico attraverso il quale avviene questa dinamica (Wu et al. 2021).

Questa ricerca ha dimostrato infatti che il microbiota modula l’attività neuronale di specifiche regioni del cervello dei topi dedicate al meccanismo di gestione dello stress ed i comportamenti sociali.

Il comportamento sociale dei topi privi di microbiota e trattati con antibiotici è associato ad elevati livelli di cortisolo che viene prodotto principalmente dall’attivazione dell’asse endocrino ipotalamo-ipofisi-surrene (il cosiddetto asse HPA dall’inglese hypothalamic–pituitary–adrenal axis).

In questo studio si è visto che l’adrenalectomia (operazione chirurgica che consiste nell’asportazione di uno o entrambe le ghiandole surrenali), la funzione antagonista dei recettori glucocorticoidi e l’inibizione farmacologica indotta nella sintesi del cortisolo correggono tutti efficacemente i comportamenti sociali espressi dai topolini causati dalla situazione disfunzionale del microbioma.

Anche l’intervento di silenziamento genetico indotto per ridurre l’attività dei recettori dei glucocorticoidi in specifiche regioni del cervello e l’inattivazione chemogenetica dei neuroni nel nucleo paraventricolare dell’ipotalamo (quelli che producono il rilascio della corticotropina, CRH, che induce a sua volta la produzione surrenalica di cortisolo) migliorano significativamente i disturbi sociali espressi nei topi trattati con antibiotici (somministrati precedentemente per indurre uno stato disbiotico, di disequilibrio, nel microbiota).

A conferma di quanto già rilevato, lo studio condotto da Wu e colleghi, ha dimostrato che l’attivazione specifica dei neuroni che esprimono corticotropina nel nucleo paraventricolare induce deficit sociali nei topi con un normale microbiota.

Attraverso la profilazione del microbiota ed un intervento in vivo, questi ricercatori hanno anche identificato una specie batterica, l’Enterococcus faecalis, che promuove l’attività sociale nei topi riducendo i livelli di cortisolo indotti attraverso uno stress psicosociale.

Questi studi suggeriscono che specifici batteri intestinali possono limitare l’attivazione dell’asse HPA e mostrano come il microbiota possa influenzare i comportamenti sociali attraverso specifici circuiti neuronali del sistema nervoso centrale che mediano la gestione psicofisica dello stress.

I risultati presentati in questo lavoro molto recente indicano la necessità di esplorare dinamiche simili anche nelle persone per il ruolo sempre più importante attribuito all’asse intestino cervello nel determinare i comportamenti umani.

Anche se deve essere ancora dimostrato sperimentalmente nei suoi dettagli umani, le evidenze già presenti in letteratura lasciano supporre la definizione di nuovi paradigmi interpretativi legati allo sviluppo dei disturbi d’ansia, relativi alla depressione ma anche a tutti quelli stress correlati.

 

Mostri di casa (2021) di Eleonora Marton – Recensione del libro

Mostri di casa è un albo illustrato rivolto ai bambini dai 4 agli 8 anni.

 

Eleonora Marton, autrice di numerosi libri per l’infanzia, ha realizzato una storia ironica e divertente per aiutare i piccoli lettori a superare una tra le paure più diffuse, la paura del buio.

Ludovica, la protagonista, ci fa entrare nella sua casa che di giorno è un posto tranquillo, mentre di notte è popolata da creature minacciose acquattate nell’oscurità.

Ludovica conosce l’aspetto e i nomi di questi temibili nemici: nell’ingresso appare il minaccioso Barabao dalle unghie affilate, nel soggiorno c’è Sbobb lingua bavosa, Cucinosauro regna in cucina, Sgorgo è il cattivissimo mostro dello sgabuzzino, Walter si nasconde nel bagno mentre Tenebro vive nella stanza degli ospiti.

Solo la camera di Ludovica e quella dei suoi genitori sono libere da mostri, sono i posti sicuri della casa. Ma come mai, si domanda Ludovica, i mostri compaiono solo di notte? Di giorno che fine fanno? Per venire a capo del mistero non resta che arrivare fino alla fine dell’albo illustrato, quando Ludovica scopre una inattesa verità.

Il libro, con le sue spiritose illustrazioni, è molto utile per aiutare i bambini a sdrammatizzare le proprie paure senza, però, correre il rischio di operare una svalutazione; può, in questo, rappresentare un utile aiuto anche per l’adulto che vuole sostenere il bimbo, accompagnandolo nella crescita.

Il timore di ciò che non riusciamo a vedere, a conoscere e, di conseguenza, a controllare, è insito in tutti noi; è per questo che è importante imparare a convivere con le nostre paure più recondite, imparando, come il libro invita a fare, ad andare oltre le apparenze.

 

Esordi psicotici: un’attenzione particolare ai processi di recovery

Il decorso del disturbo nei casi di psicosi è fortemente condizionato dalla tempestività della presa in carico e dall’adeguatezza degli interventi integrati attuati nei primi due anni successivi all’esordio psicotico.

Annalisa D’Errico – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Mestre

 

Resta comunque ancora molta strada da fare. Anche se gli antipsicotici di seconda generazione riescono finalmente a colpire il cuore biologico della malattia, non potranno però mai trovare al paziente un lavoro o degli amici: nessuna molecola sarà mai così potente da donargli magicamente la capacità di sviluppare d’un colpo rapporti sociali normali. Questa è una prerogativa che spetterà sempre all’uomo: al medico, al familiare e, da oggi in poi, anche al malato stesso (L’Enciclopedia – Dizionario Medico, Roma, La biblioteca di Repubblica, 2004, pag. 1178)

Cosa s’intende con il termine psicosi ed esordio psicotico?

Il termine psicosi indica una vasta gamma di disturbi psichiatrici che si manifestano con severi sintomi di varia natura, in cui l’individuo sperimenta una distorsione o una perdita di contatto con la realtà, ossia un’incapacità di distinguere il proprio mondo interiore dalla realtà esterna. La psicosi può essere intesa come un cambiamento radicale che ha effetti sconvolgenti sul sé causando il deragliamento, l’interruzione o la paralisi della traiettoria di sviluppo della persona.

I disturbi psicotici hanno un’età di insorgenza compresa tra i 14 e i 35 anni, si manifestano con sintomi positivi (inizialmente dispercezioni, fino a franchi deliri ed allucinazioni) e negativi (ritiro sociale, apatia, rallentamento, appiattimento emotivo). In sintesi, comprendono disorganizzazione del pensiero e del linguaggio, bizzarrie comportamentali, disturbi affettivi e marcato calo del funzionamento (APA, 2013). Inoltre, possono essere presenti altri sintomi quali deflessione dell’umore, ansia, disturbi del sonno, disturbi dell’attenzione, della concentrazione e della memoria che comportano spesso scarsa prestazione scolastica o lavorativa. I principali disturbi psicotici o forme di psicosi sono: Schizofrenia, Disturbo delirante, Disturbo schizofreniforme, Disturbo schizoaffettivo e Disturbo psicotico breve.

L’esordio psicotico (FEP – First Episode Psychosis) avviene in genere prima dei 30 anni, l’insorgenza in età adolescenziale, con esordio prima dei 18 anni, è stimata del 18% (Davi, 2014). Si presenta come un evento apparentemente improvviso ma in realtà è preceduto da fasi prodromiche (della durata media di cinque anni), durante le quali avvengono una serie di cambiamenti e anomalie psicologiche e comportamentali (Larson et al, 2010; Heiden& Hafner, 2000). L’esordio psicotico può comportare la riduzione dei movimenti verso l’autonomia dalla famiglia e inibire la formazione dell’identità e la padronanza di sé.

L’importanza della presa in carico precoce degli esordi psicotici

Come precedentemente sottolineato, diverse ricerche svolte durante gli anni ‘90, hanno mostrato come fosse possibile rintracciare nella storia di vita di pazienti psicotici una serie di segnali e sintomi predittivi dello sviluppo patologico, la cui presenza in ragazzi giovani determina uno Stato Mentale a Rischio (ARMS – At Risk Mental State) (McGorry& Singh, 1995;  Yung et al, 1996). L’intervento precoce e tempestivo nei confronti di questi casi può avere effetti positivi sul decorso stesso della patologia, ritardando o prevenendo il primo episodio psicotico (Cozzi, 2017).

Diventa quindi fondamentale effettuare una corretta raccolta anamnestica volta a individuare i fattori di rischio che possono avere un ruolo nello sviluppo della psicosi. E’ stata riscontrata una frequente comorbidità dell’abuso di sostanze nei giovani, in particolare di sesso maschile, con recente esordio psicotico; si è ipotizzato che la tendenza ad usare droghe sia un tentativo di mitigare i sintomi psicotici negativi, la depressione o il disagio derivante dalle conseguenze del disturbo. Nonostante il sollievo soggettivo che può portare, l’abuso di sostanze ha spesso effetti deleteri sulla psicosi: peggiora la sintomatologia, aumenta le ricadute ed i conseguenti ricoveri ripetuti e incrementa la violenza e i suicidi (Smith e Hucker,1994). Il periodo in cui si manifestano i primi sintomi senza essere adeguatamente trattati è definito DUP (Duration of Untreated Psychosis), la sua durata è una variabile importante nella prognosi del disturbo, in particolare per quanto riguarda la remissione dei sintomi positivi (Norman, Lewis & Marshall, 2005).

Le ricerche ed evidenze scientifiche hanno portato dunque allo sviluppo di nuovi ed efficienti approcci e modelli di riconoscimento ed intervento, focalizzati sulle fasi prodromiche del disturbo, approcci che vengono definiti Interventi Precoci (EarlyIntervention). Si è assistito sempre più ad una visione ottimistica riguardo agli esiti nel trattamento delle psicosi. Le ragioni si possono riconoscere in due aspetti: nello sviluppo di farmaci antipsicotici di nuova generazione che hanno dimostrato una maggiore efficacia e minori effetti collaterali e nella consapevolezza che un intervento nelle fasi precoci della malattia potesse garantire una migliore qualità di vita al paziente ed ai suoi familiari e una prognosi maggiormente favorevole.

Un intervento precoce efficace dovrebbe essere (Malla e Norman, 2001) tempestivo, adattato a persone giovani che spesso vivono con le loro famiglie e che non hanno familiarità con i servizi e avere i seguenti obiettivi (Spencer, Birchwood, &McGovern, 2001): ridurre il tempo di DUP, accelerare il processo di guarigione attraverso efficaci interventi biopiscosociali, ridurre l’impatto negativo della psicosi sull’individuo e massimizzare il funzionamento sociale e lavorativo, prevenire le ricadute e la resistenza al trattamento farmacologico.

Situazione italiana: Programma 2000 e programma strategico GET UP

La letteratura internazionale e l’esperienza clinica hanno evidenziato come il decorso del disturbo, che presenta un’elevata variabilità in termini prognostici, sia fortemente condizionato dalla tempestività della presa in carico e dall’adeguatezza degli interventi integrati attuati nei primi due anni successivi all’esordio.

La prima e pionieristica esperienza organica di prevenzione secondaria delle psicosi nata in Italia è rappresentata dal “Programma 2000®”, programma di individuazione e intervento precoce all’esordio di patologie mentali che, dopo un iter burocratico e di definizione organizzativa e concettuale iniziato nel 1997 da un’idea di Angelo Cocchi e Anna Meneghelli, ha avviato l’attività sul campo nel 1999 come iniziativa sperimentale regionale, attuata dal Dipartimento di Salute Mentale dell’Azienda Ospedaliera Ospedale Niguarda Ca’ Granda di Milano. Anche alla luce dei risultati ottenuti il Programma è stato reiterato a partire dal gennaio 2002, rendendo possibile un assetto più esteso e più articolato. Attualmente ha sede operativa presso il Centro Psicosociale di via Livigno 3 a Milano, DSM Psichiatria 2.

Il Programma 2000® nasce come una possibile risposta preventiva di fronte alle usuali abitudini terapeutiche prevalentemente riparative, ed ha come destinatari giovani al primo episodio psicotico, o comunque al primo contatto con il Servizio e con una durata della psicosi non trattata (DUP) inferiore a 2 anni, e giovani considerati, per una combinazione di fattori e di evidenti segnali, ad alto rischio di psicosi.

Nell’ambito del “Programma 2000®” sono stati condotti, in un quadro di stretti collegamenti e collaborazioni internazionali, alcuni filoni di ricerca strategici, oltre ad aver sviluppato nel tempo un preciso e personalizzato modello di cura e intervento nelle psicosi all’esordio riconosciuto e valorizzato in ambito nazionale e internazionale. Un esempio di come l’esperienza e la competenza maturate in questo campo dall’équipe clinica di Programma 2000® ha potuto coinvolgere la partecipazione di docenti, esercitatori e supervisori all’interno della grande ricerca nazionale denominata Programma Strategico GET UP (Genetics, Endophenotypes and Treatment: Understanding early Psychosis), finanziato dal ministero Della Salute nell’ambito della Ricerca sanitaria finalizzata nazionale e promosso dall’università di Verona che si fonda sull’attuazione precoce di specifici interventi farmacologici e psicosociali, inclusivi di una psicoterapia ad orientamento cognitivo-comportamentale per il paziente, di un intervento psicoeducativo con le famiglie e di un’organizzazione dell’assistenza secondo il modello del case management che coinvolga tutte le figure professionali del dipartimento. Consta di 4 progetti e si pone l’obiettivo di testare l’efficacia di interventi innovativi per soggetti all’esordio di psicosi e per le loro famiglie, attuato in 115 centri di salute mentale dislocati tra Veneto, Emilia Romagna, le provincie di Bolzano, Firenze e Milano. Gli operatori che hanno ricevuto la formazione agli interventi specifici hanno acquisito competenze organizzative e cliniche che hanno modificato le pratiche attuate nei servizi. Sono entrati inoltre a far parte del programma dai 400 agli 800 soggetti all’esordio psicotico, che sono stati valutati al baseline e con un follow-up a breve termine in cui è stato raccolto DNA e materiale biologico che, con alcuni dati clinici d’esordio, ha costituito una biobanca di notevole importanza per l’identificazione di marcatori evolutivi.

Riabilitazione e Recovery: dalla malattia alla persona

La Disabilità è da dove partiamo, la Recovery è la nostra destinazione e la Riabilitazione la strada che percorriamo (Liberman, 2008)

Oltre all’individuazione dei fattori potenzialmente predittivi della possibilità di un esordio psicotico, come abbiamo fin qui visto, è diventato fondamentale anche l’aspetto riabilitativo ed il recupero in giovani che hanno avuto almeno un esordio psicotico. La riabilitazione psichiatrica è quell’insieme di interventi mirati a migliorare il funzionamento di persone con disabilità psichiche, in modo di essere in grado di svolgere un ruolo con successo e soddisfazione nell’ambiente di vita scelto con il minor sostegno continuativo possibile (Anthony, Farkas, Cohen, Gagne, 2002).

Un altro termine che ha preso piede da qualche anno e sul quale ci si concentra è quello di recovery, dal verbo inglese to recover che significa riaversi, riprendersi, recuperarsi, indica il percorso o processo che si compie nel superamento della psicosi. Il termine non significa necessariamente guarigione clinica, ma enfatizza il viaggio compiuto da ciascuno nel costruirsi una vita al di là della malattia. A differenza della parola “guarire”, recovery implica un’idea di processo, di percorso evolutivo e di viaggio che non ha una vera e propria fine; non si tratta dunque di un esito coincidente al ritorno alla condizione precedente al problema, quanto più di un percorso volto alla attivazione di risorse che permettono al soggetto di vivere in maniera piena la sua vita (Coleman, 1999).

Condurre una vita produttiva e soddisfacente anche in presenza delle limitazioni imposte dalla malattia mentale. È lo sviluppo, personale e unico, di nuovi significati e propositi man mano che le persone evolvono oltre la catastrofe della malattia mentale (Anthony, 1993)

Esistono diversi tipi di recovery (Anthony, 1993):

  • Recovery clinico (criteri oggettivi e misurabili): consiste nella remissione prolungata dei sintomi che costituiscono la diagnosi, presenti ad un livello subclinico per frequenza ed intensità; riduzione delle ospedalizzazioni e delle recidive; aderenza terapeutica.
  • Recovery funzionale/sociale (criteri oggettivi e misurabili): coinvolgimento a tempo pieno o parziale in un’attività che presuppone l’esercizio di un ruolo valido – come il lavoro o la scuola – che sia costruttiva e appropriata all’età. Una vita parzialmente o totalmente indipendente dalla supervisione da parte della famiglia o dei servizi, in modo che l’individuo sia responsabile per le esigenze quotidiane nella gestione del denaro, dei beni personali, dei famaci, degli appuntamenti nel fare la spesa e preparare da mangiare. Buoni rapporti con i familiari. Attività ricreative in luoghi e contesti normali in cui è richiesto il rispetto di regole. Relazioni soddisfacenti con i pari, caratterizzate dal curare in modo attivo le amicizie più strette e il mantenere una rete sociale di conoscenti.
  • Recovery personale (criteri soggettivi e oggettivi in parte misurabili): consiste nella crescita personale e nella riappropriazione delle proprie esperienze di vita, una speranza realistica per un futuro migliore che deriva dal fronteggiare i sintomi e la disabilità in maniera attiva, recuperando un senso di sé positivo. Empowerment che deriva dal successo nel raggiungere i propri obiettivi, dalla partecipazione al trattamento e dal trovare per sé nuovi ruoli soddisfacenti e socialmente validi. Si focalizza sul processo attivo di costruzione di un’esperienza di vita significativa, così come definita dalle persone stesse.

Sebbene il termine recovery comprenda aspetti appartenenti a tutte e tre queste categorie, esso implica in primo luogo un processo di cambiamento personale e di riappropriazione del potere e del controllo della propria vita al di là della remissione sintomatologica.

Dal punto di vista pratico è fondamentale nel recovery agire tempestivamente su più livelli:

  • Biologico: assumere regolarmente la terapia, fare attività fisica all’aperto, controllare la propria dieta, evitare l’assunzione di alcool e droghe.
  • Psicologico: instaurare un’alleanza e un dialogo continuo con un operatore del Centro di Salute Mentale (psichiatra, infermiere, psicologo, assistente sociale o tecnico della riabilitazione) poichè conosce questo disturbo e sa come aiutare nell’affrontare i pensieri e le difficoltà che accompagnano la psicosi.
  • Sociale: riprendere gli studi, cercare un lavoro con l’aiuto dei tecnici della riabilitazione, riallacciare i rapporti con gli amici o risperimentarsi al più presto in nuove occasioni di incontro e svago. L’interruzione di alcuni di questi passaggi può rallentare la ripresa o favorire una ricaduta.

Secondo l’approccio del recovery, quindi, radicalmente diverso da quello proposto dalla medicina tradizionale occidentale, fenomeni inusuali, tra cui udire le voci, non vengono considerati come un sintomo di malattia o di perdita di contatto con la realtà, ma come esperienze significative e reali per chi le vive e quindi dotate di senso ed integrabili nella vita della persona (Casadio, 2014).

Nel mese di marzo 2012, l’amministrazione dei servizi per l’abuso di sostanze e la salute mentale (SAMHSA) ha annunciato una definizione aggiornata di “recupero” dai disturbi mentali. Definiscono la recovery come “un processo di cambiamento attraverso il quale gli individui migliorano la loro salute e benessere, vivono una vita autodiretta e si sforzano di raggiungere il loro pieno potenziale”. Sulla base della visione del recupero come diritto, la cura della salute mentale orientata al recovery è concettualizzata come una collaborazione tra utenti del servizio e fornitori che deve essere guidata dalla visione del tipo di vita che una persona vorrebbe condurre.

Servizi di salute mentale orientati al recovery

In passato, la diagnosi di una grave malattia mentale, come può essere la psicosi, era associata ad una vita di disabilità (Frese, Knight, & Saks, 2009). I trattamenti per la malattia mentale erano focalizzati principalmente sull’uso di farmaci per ridurre i sintomi, con disabilità a lungo termine sia attesa che accertata (Dipartimento della salute e dei servizi umani degli Stati Uniti, 2003). Gli utenti del servizio, i membri della famiglia ed i professionisti della salute mentale hanno sostenuto una visione più ampia di recupero che non si limitava al sollievo dai sintomi, ma che includeva un ripristino dei vari domini per i quali la maggior parte delle persone riteneva importante la propria salute mentale e il proprio benessere. Tali domini includevano sicurezza e alloggi a prezzi accessibili, occupazione significativa, sostegno tra pari/sociale/familiare, sviluppo personale e arricchimento e impegno con la comunità, attività e organizzazioni. Approcci precoci alla cura della salute mentale o non avevano riconosciuto l’importanza di questi domini del tutto, o non erano riusciti ad affrontarli efficacemente.

L’aumento delle evidenze scientifiche per l’implementazione di pratiche e sistemi orientati al recovery ha portato ad un maggior riconoscimento e consenso (Compagni et al., 2007). Tuttavia, è necessario identificare con maggiore chiarezza il contributo che i servizi di salute mentale possono dare in questo senso (Slade et al., 2011) e come queste pratiche possano essere integrate comportando un cambiamento all’interno dei sistemi di cura dei Paesi anziché rimanere realtà singole ed isolate che non si contaminano.

Il paradigma del recovery propone un riorientamento ed una trasformazione delle politiche di salute mentale, in grado di dialogare con il modello di psichiatria inaugurato in Italia con la legge 180 e allo stesso tempo in grado di promuovere una modalità di trattamento multidisciplinare, flessibile, personalizzata che fa affidamento ridotto sui farmaci e include la partecipazione dell’utente e della sua famiglia, enfatizzando il ruolo del contesto e riducendo pratiche coercitive e di ricovero ospedaliero. Lo scopo dei professionisti è quello di dotare la persona di risorse, informazioni, abilità, reti sociali e supporti per gestire la loro condizione e per aiutarli ad accedere alle risorse di cui ritengono di avere bisogno per vivere le loro vite. Ciò implica una relazione tra i professionisti e le persone che essi servono radicalmente diversa da quelle tradizionale in termini di potere e dipendenza (Casadio, 2016).

Questo significa che i servizi di salute mentale devono essere molto più interessati al benessere e alla salute complessiva della persona e devono fornire supporti per dare la possibilità alle persone di funzionare come cittadini nella loro comunità.

Ci sono diversi modi in cui il sistema di cure può supportare la ripresa di persone affette da disagio mentale e questo avviene promuovendo relazioni, benessere e offrendo trattamenti che migliorino le possibilità di inclusione sociale (Slade, 2009).

Gli obiettivi dei «servizi di salute mentale orientati al recovery» sono pertanto diversi dagli obiettivi dei «servizi tradizionali di trattamento e di cura». Passaggio: da uno staff che è sentito lontano, perchè considerato in una posizione di “esperto” che ha una “autorità”, a qualcuno che si comporta più come un “personal coach o trainer”, mettendo a disposizione le proprie abilità e conoscenze professionali, mentre nel contempo impara dagli utenti e conferisce loro un valore, che è esperto attraverso l’esperienza (Robert & Wolfson, 2004). Poichè gli individui con malattia mentale possono condurre vite relativamente normali e realizzate anche se sono vulnerabili alle ricadute e devono essere seguiti per un tempo indefinito, i servizi devono diventare, da un posto dove gli utenti ricevono assistenza e trattamento, a posti che li dotano di strumenti per gestire se stessi e per costruire le loro vite dove e come desiderano farlo. Tali servizi tendono ad andare oltre la tradizionale assistenza clinica per aiutare la persona con malattia mentale a reinserirsi nel tessuto sociale, incorporando nel concetto di guarigione gli esiti raggiunti nelle dimensioni della qualità di vita, del lavoro, dell’abitazione, dell’amicizia e della vita sociale (Appleby, 2007).

I principi dei servizi di salute mentale orientati al recovery dovrebbero essere:

  • Unicità dell’individuo
  • Scelte individuali e indipendenti
  • Diritti e atteggiamento proattivo
  • Dignità e rispetto
  • Comunicazione e partnership con i Servizi
  • Continua valutazione e misurazione della pratica clinica orientata alla recovery
    (Herefordshire partnership NHS Foundation Trust «Recovery Principles in the UK)

Soprattutto nei paesi anglosassoni, negli ultimi 30 anni una serie di fattori concomitanti hanno determinato la nascita e lo sviluppo del “Recovery Movement” che si articola in diversi criteri tra cui: la deistituzionalizzazione e l’integrazione nella vita comunitaria, il desiderio degli utenti psichiatrici di avere maggior controllo sul proprio destino, il crescente movimento per i diritti umani, la disponibilità di psicofarmaci meglio tollerati.

In sintesi, nella pratica orientata al Recovery (Davidson et al., 2009) i criteri da considerare sono:

  • Primarietà della partecipazione
  • Favorire l’accesso e il coinvolgimento
  • Garantire la continuità della cura
  • Utilizzare una valutazione basata sui punti di forza
  • Offrire una pianificazione individualizzata del percorso di Recovery
  • Fungere da “guida per il Recovery”
  • Conoscere e sviluppare l’inclusione comunitaria
  • Identificare e affrontare le barriere al Recovery

Ogni servizio o trattamento o intervento o supporto deve essere valutato in questi termini: quanto aiuta il paziente a raggiungere i suoi obiettivi di guarigione?

È possibile misurare il recovery?

Grazie ad un maggior riconoscimento del concetto di recovery nel trattamento della malattia mentale, si è dato via alla progettazione di diversi strumenti per valutare sia il recovery personale che l’orientamento in questa direzione dei servizi sanitari. Infatti, la necessità di orientare i servizi di salute mentale verso il recupero personale richiede l’utilizzo di misure che consentano di valutare sia il processo di recupero individuale degli utenti sia quanto un particolare programma, agenzia o sistema nel suo insieme sia efficace nel promuovere tale recupero (White, 2006).

In letteratura si trovano diverse review che hanno cercato di fare una rassegna dei principali strumenti utilizzati attualmente. Al riguardo, nonostante l’esistenza di definizioni comunemente accettate, la variabilità relativa alla concettualizzazione di un processo tanto soggettivo, complesso e multidimensionale come il recupero personale ostacola la creazione e selezione di misure oggettive per la sua valutazione. Inoltre, c’è una grande variabilità per quanto riguarda le dimensioni utilizzate dagli attuali strumenti valutativi.

Uno strumento ad oggi utilizzato per la maggiore è il RAS (Recovery Assessment Scale) che misura il recovery personale. I fattori psicologici indagati sono:

  • Fiducia in sé stessi e speranza
  • Disponibilità a chiedere aiuto
  • Orientamento ad obiettivi ed al successo
  • Fiducia negli altri
  • Non sentirsi dominati dai sintomi

Il RKI (Recovery Knowledge Inventory) (Bedregal et al. 2006) valuta le attitudini e le conoscenze dei professionisti della salute mentale riguardo al recovery. Le aree valutate sono:

  • Ruoli e responsabilità nel Recovery
  • Non linearità del processo di Recovery
  • I ruoli della autodefinizione e dei pari nel Recovery
  • Aspettative rispetto al Recovery

Possiamo concludere evidenziando come sia necessario specificare, unificare e chiarire il concetto ed il modello di recovery. Questo è l’unico modo per raggiungere il consenso sui domini che lo compongono; ciò consentirà a sua volta di selezionare gli strumenti più appropriati per valutare tale concetto. Nello stesso modo, se gli elementi che contribuiscono al processo di recovery sono compresi e specificati, sarà possibile scegliere gli strumenti che servono per valutare i servizi di salute mentale e, quindi, sarà possibile migliorare il processo e l’approccio attuato nei confronti della persona.

 

La Fiaba: un racconto solo per bambini?

Tutti abbiamo, almeno una volta nella vita, avuto la possibilità di entrare in contatto con la narrazione delle fiabe. Tradizioni tramandate di generazione in generazione, dai più grandi ai più piccoli.

 

Ma chi in età adulta, con il senno di poi, con l’acquisizione di una struttura di personalità più matura, si è mai domandato od incuriosito sui significati profondi ed intrinsechi racchiusi nel racconto?

La Sirenetta

Alcuni di questi concetti li possiamo facilmente ‘interpretare’ e incorporare all’interno di una delle famose Fiabe dello scrittore danese Hans Christian Andersen, La Sirenetta, successivamente reinterpretata nel 1989 nel film d’animazione prodotto da Walt Disney Feature Animation.

Quando accadrà no non lo so…ma del tuo mondo parte farò, guarda e vedrai che il sogno mio si avvererà! [cit. Ariel de La Sirenetta]

Il soddisfacimento del desiderio si può manifestare sotto diverse forme, assumere diversi aspetti, varie interpretazioni possono spingere l’uomo al compimento di azioni e/o reazioni.

Nella realtà odierna, ancora oggi basata su concezioni e fondamenti etici e morali, può risultare complesso riuscire ad appagare i propri istinti più reconditi, giungendo in alcune occasioni ad una condizione di mancata accettazione del sé od impossibilità nel mostrarla, fattore di grande importanza ai fini del raggiungimento di uno stato di benessere psicofisico.

Il senso di autorealizzazione, presente in ognuno di noi, viene amplificato o ridotto in base alla motivazione e perseveranza del singolo. In alcune circostanze si assiste ad un vero e proprio ricercare il compromesso pur di ottenere il desiderato. Azione, quest’ultima, che spinge la protagonista della Fiaba, nonché Ariel, a rinunciare alla sua suadente voce, donandola alla Strega del Mare, in cambio di arti umani.

Non pretendo molto, un compenso del tutto simbolico…una sciocchezza! Una cosa di cui puoi fare a meno. Quello che voglio da te è….la tua voce. [cit. Ursula de La Sirenetta]

Una continua ricerca verso l’emancipazione, un allontanarsi dalle restrizioni e costrizioni dettate dal contesto esterno, per poter finalmente approdare sull’isola della libertà, così come Ariel desiderosa di lasciare per sempre la pinna e poter godere di gambe umane che le permettessero di affrontare nuove avventure, lontana dagli stereotipi e dalle pressioni del Regno.

Mi sono sempre reputato un tritone ragionevole. Ho stabilito certe regole e pretendo che quelle regole vengano rispettate da tutti. [cit. Tritone de La Sirenetta]

Un Re del mare che si oppone al carattere ribelle della propria figlia, cercando di dissuaderla nel suo voler esplorare la terra ferma, entrare in contatto con gli umani e varcare la sua tanto sicura comfort zone.

Quello che viene riportato nel mondo immaginario altro non è che una trasposizione della realtà, anche la fantasia può celare un significato profondo, che verrà rivelato solo ad occhi attenti.

Lo vede? E poi non mi dica che l’avevo avvertita, Maestà. I giovani devono essere lasciati liberi di scegliersi il loro avvenire. [cit. Sebastian de La Sirenetta].

Fiaba e Realtà

Innumerevoli gli ostacoli incontrati duranti il percorso di vita, a volte demoralizzanti e ostili, altre coinvolgenti e portatori di novità. Fattori che non vengono però elicitati nel film di animazione della Disney, in quanto Ariel e il principe Eric alla fine della storia si sposano vivendo finalmente ‘Felici e Contenti’.

La società odierna, nonostante il suo continuo evolversi, in alcuni casi tende a camuffare quello che per molte persone può risultare un’avversità, una difficoltà nell’esprimere se stessi cercando di negare ciò che in realtà provano.

Nella Fiaba originale di Andersen possiamo riscontrare questo cammino impervio. Ariel, fortemente innamorata, sceglie di non utilizzare il pugnale donatole dalle sorelle per uccidere il principe così da continuare a vivere, ma decide di accasciarsi su uno scoglio e bagnata dall’acqua salina concludere la sua vita da Sirena tramutandosi in schiuma di mare.

La comunità, può, dunque volontariamente o involontariamente infrangere il desiderio del singolo, il quale stigmatizzandosi è costretto ad adeguarsi al contesto, al conformarsi all’etica, rinunciando all’esser libero.

Notiamo, dunque, un forte significato che in questo caso l’autore ha voluto lasciare in eredità al mondo.

Un aspetto psicologico che può inficiare il benessere psicofisico dell’individuo, la mancata realizzazione del sé, il contrasto con l’esterno e la morale e quanto questo possa influenzare le nostre decisioni, incidere sui nostri pensieri ed atteggiamenti. Non bisogna racchiudere la propria voce all’interno di una conchiglia, ma esprimerla, facendo sentire al mondo che esisti e puoi creare valore anche andando al di là dei confini della realtà.

Andersen conclude il suo racconto con la salvezza, la rinascita di Ariel, ripagando la sua purezza.

Invisibile baciò la sposa sulla fronte, sorrise al principe e salì con le altre figlie dell’aria su una nuvola rosa che navigava nel cielo. Fra trecento anni entreremo nel regno di Dio! [cit. Hans Christian Andersen]

In conclusione, la protagonista prende in mano la sua vita, affrontando scelte ardue ma personali, nonostante le barriere imposte dai profondi Abissi del mare.

Ma nella realtà, tutti riescono a gestire tali fattori ostacolanti od incapacità nel giunge ad uno sblocco interno? E se Ariel avesse avuto al suo fianco il supporto di uno Psicologo?

 

Report dal Congresso della International Society for the Study of Personality Disorders

Si è appena concluso il congresso della International Society for the Study of Personality Disorders (Società Internazionale per lo studio dei Disturbi di Personalità, ISSPD), organizzato in collaborazione con l’ospedale universitario di Oslo, ma svoltosi interamente online.

 

Nel corso di 3 giorni si sono alternati numerosi relatori affrontando temi centrali nel dibattito internazionale (e italiano) sui disturbi di personalità (DP) e sulla psicoterapia in genere. Particolare attenzione è stata infatti dedicata al rapporto della psicoterapia con l’evidence-based practice e alle prospettive evolutive (epistemi trust, unmet needs, etc.) e dimensionali (fattore p, tratti, etc.) della personalità. Ne emerge un quadro caratterizzato da marcate contraddizioni, ma anche da una significativa propensione ad innovare una disciplina che ambisce ad una visione sovraordinata e comprensiva dell’esperienza umana.

L’eredità di Theodore Millon

Chiunque lavori nell’ambito della personalità non può non confrontarsi con l’opera di Theodore Millon, la cui eredità è centrale nella ISSPD. Nell’aprire il congresso, Carla Sharp, presidentessa in carica della ISSPD, ha evidenziato una lettura critica di questa eredità che ha trovato il suo naturale esito nella prima keynote sul tema dell’evidence-based practice.

L’elaborazione del pensiero di Millon nella ISSPD sembra procedere lungo due linee. Primo, nel riconoscerne il ruolo fondativo, si pone l’accento non sul modello prototipico dei disturbi di personalità, quanto sul concetto di “personality-guided synergistic therapy” (lett. terapia sinergica guidata dalla personalità) con cui questi aprì il primo congresso della società nel 1984 (Ronningstam et al., 2021). L’idea è quella di perseguire una psicoterapia in cui, a prescindere dal target e dal format, la comprensione della personalità guida l’agire clinico secondo una prospettiva che supera la tradizionale definizione di integrazione. L’integrazione diviene infatti non un generico approccio eclettico tra scuole di pensiero, quanto piuttosto un processo di personalizzazione in cui tratti e sintomi specifici della persona orientano la scelta di obiettivi e interventi. Secondo, si riconosce un limite nella quasi esclusiva focalizzazione da parte di Millon su un metodo empirico e deduttivo, che diviene limitante nel fronteggiare una disciplina in cui si intersecano numerose variabili e che rischia di polarizzare sterilmente il dibattito tra approcci quantitativi e qualitativi (Pincus & Krueger, 2015).

Questa visione critica di Millon aiuta forse a capire il razionale del programma in cui la prima lettura magistrale si è focalizzata sulle metodologie meta-analitiche e in cui centrali sono stati gli interventi personality-guided. Da un lato la prima keynote tenuta da Pim Cuijpers ha mostrato quello che possiamo apprendere dagli studi sulla depressione per implementare in chiave evidence-based i trattamenti sui disturbi di personalità. Notevole interesse ha suscitato il database open-access METAPSY (Cuijpers et al., 2019) in cui è possibile visionare e condurre online meta-analisi sui trial esistenti sulla depressione. Dall’altro lato gli approcci più ricorrenti nei simposi rientrano chiaramente in una prospettiva personality-guided per come suggerita da Millon. Tra questi oltre a Mentalization Based Treatment (MBT), Dialectical Behavior Therapy (DBT) e Schema Therapy (ST) troviamo anche la Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI), rappresentata da Giancarlo Dimaggio in due simposi rispettivamente su cognizione sociale e disturbo evitante. La TMI si inserisce pienamente in questa prospettiva presentando un intervento transdiagnostico di gruppo (Popolo et al., 2021) e un tentativo di integrazione con la MBT per pazienti evitanti (Simonsen et al., 2021).

La prospettiva evolutiva dei disturbi di personalità

Per quanto numerose siano le differenze, tutti i modelli di diagnosi e trattamento dei disturbi di personalità rimarcano un’età di insorgenza precoce e un decorso di lunga durata. Non stupisce dunque che la quasi totalità delle psicoterapie personality-guided presenti al congresso ponessero l’accento su meccanismi evolutivi di vulnerabilità o resilienza. Il simposio più seguito del primo giorno ha cercato ad esempio di rispondere alla domanda: quali fattori promuovono la resilienza nei confronti dei disturbi di personalità? Tra gli speaker Patrick Luyten e Arnoud Arntz che hanno presentato rispettivamente la prospettiva della MBT sull’epistemic trust e della ST sugli unmet needs. Al di là delle differenze terminologiche e cliniche entrambi gli approcci riconoscono l’impatto di bisogni e relazioni primarie in età evolutiva nel predire successive problematiche alla base dei disturbi di personalità (Caspi et al., 2016). Luyten ha portato buone evidenze neurofisiologiche su come i pattern disfunzionali nella relazione con i genitori creino un deficit nella regolazione dell’arousal e conseguentemente della mentalizzazione (Luyten & Fonagy, 2015). I dati clinici sull’efficacia nel targetizzare la relazione genitoriale per migliorare la salute mentale del paziente sono invece ancora parziali (Barlow et al., 2015). Arntz ha optato per mostrare la complessa articolazione di bisogni insoddisfatti, schemi maladattivi e modes della più recente formulazione della ST (Arntz et al., 2021), suggerendo come favorire una comprensione e prevenzione di parenting disfunzionali.

La prospettiva evolutiva emerge come fondamentale nella comprensione dei disturbi di personalità anche nel simposio della seconda mattina sul futuro dei trattamenti. Peter Fonagy pone da subito l’accento sia sulla dimensione evolutiva che dimensionale. La psicoterapia del futuro deve superare i limiti di un modello nomotetico e orientare l’intervento a partire da una comprensione della traiettoria evolutiva e delle caratteristiche di personalità individuali. A questa visione concorrono gli sviluppi della DBT (con in particolare l’approccio trauma-focused di Martin Bohus), della Transference Focused Psychotherapy (TFP; sottolineandone la prospettiva transdiagnostica con John Clarkin) e ovviamente della MBT (speaker Anthony Bateman). Tutti i relatori concordano su un modello evolutivo della vulnerabilità che converge su un fattore generale di psicopatologia in linea con l’ambizione “sinergica” di Millon e della ISSPD. In molti hanno utilizzato il costrutto di epistemic trust per come formulato da Fonagy sottintendendo una relazione diretta tra vulnerabilità evolutiva e psicopatologia generale. Tale costrutto vuole portare avanti il lavoro della MBT su un’altra importante funzione dell’attaccamento (oltre alla mentalizzazione): ovvero una fiducia nell’autenticità e rilevanza personale della conoscenza trasmessa interpersonalmente, che rappresenterebbe un fattore centrale di resilienza (Fonagy & Campbell, 2017).

La prospettiva dimensionale dei disturbi di personalità

Fonagy ha più volte citato nei suoi interventi la necessità di ripensare la psicoterapia a partire dagli studi sul fattore p o in genere sui modelli dimensionali (Alternative Model of personality Disorders – AMPD) o gerarchici (Hierarchical Taxonomy of Psychopathology – HiTOP) di psicopatologia (Caspi et al., 2013). E questo tema ha dominato i maggiori simposi della seconda giornata e non solo. Se in molti dibattiti nazionali la prospettiva dimensionale o gerarchica sembra ancora fronteggiare gli stessi dubbi che portarono l’APA ad inserirli in una sezione a parte del DSM-5, nel programma congressuale rappresentano la posizione maggioritaria. Simili dubbi, per quanto giustificati dalla iniziale utilità di una descrizione prototipica del paziente, contrastano fortemente con la mole dei dati raccolti e con un approccio che come sopra riportato non vuole contrapporre quantità a qualità quanto piuttosto promuovere interventi personalizzati basati però su evidenze (Pincus & Krueger, 2015; Ronningstam et al., 2021).

Il criterio A dell’AMPD, ovvero il livello generale di funzionamento della personalità, è il tema di un simposio coordinato da Donna Bender, nonché il risultato di un lavoro quasi ventennale di revisione delle teorie psicopatologiche (Bender et al., 2011). Al di là dei diversi modelli di concettualizzazione e label utilizzati, tutti gli approcci personality-guided presuppongono dei fattori generali di funzionamento che rappresentano il fulcro stesso della terapia (es. la mentalizzazione per la MBT; la metacognizione per la TMI; la disregolazione emotiva nella DBT). Ma soprattutto, è difficile sostenere che un modello psicopatologico tanto flessibile e idiografico come il criterio A (o il fattore p) sminuisca l’unicità di pazienti e terapeuti come spesso affermano i suoi detrattori (Sharp & Wall, 2020).

Segue poi un simposio attesissimo sulla convergenza tra AMPD e HiTOP, praticamente la criptonite per gli avversari di dimensioni e tratti. Leonard Simms (affettività negativa), Thomas Widiger (distacco), Donald Lynam (antagonismo), Stephanie Sweatt (disinibizione) e David Cicero (psicoticismo) discutono lo sviluppo teorico e clinico delle dimensioni di personalità. Particolare attenzione è dedicata alla validazione in corso di nuovi strumenti psicometrici per promuovere sempre più una connessione tra ricerca e pratica (Ringwald et al., 2021).

Da segnalare infine l’intrigante prospettiva gerarchica di Dan McAdams (2013) sullo sviluppo della personalità secondo il suo modello a tre fattori e il metodo dinamico di analisi delle situazioni interpersonali di Hopwood e colleghi (2019), presentati rispettivamente il secondo e il terzo giorno.

Tra contraddizioni e innovazioni

Provando a trarre un bilancio emergono molti entusiasmanti filoni di ricerca, ma ancora notevoli contraddizioni. Tra i primi dobbiamo sicuramente annoverare gli studi sui modelli dimensionali e gerarchici e i primi tentativi di applicare in psicoterapia tali modelli secondo un’ottica sinergica ed evidence-based. Nel comprendere le contraddizioni conviene invece riflettere su tre indicatori. Il primo è linguistico ed ha come emblema il disturbo borderline di personalità che imperversa in ogni simposio e presentazione. Quasi a ricordarci che le categorie sono dure a morire, soprattutto se associate a grant e progetti di rilievo. Il secondo è sostanziale ed emerge dalla difficoltà a passare da una teoria integrativa e dimensionale ad una pratica che richiede un atteggiamento anti-ideologico e quasi buddistico nei confronti delle proprie amate teorie. Il terzo è fortemente umano e riguarda le resistenze personali che ognuno di noi mostra verso i cambiamenti. Per quanto siano ormai oltre 20 anni che si mette in discussione il modello categoriale, vi è una strenua resistenza all’emergere di una nuova generazione di ricercatori e modelli che si teme, forse, possano spazzare via il passato. Credo che il taglio assai equilibrato con cui è stato scritto il position paper della ISSPD possa rassicurarci a riguardo. Personalmente, per quanto mi definisca un fervente sostenitore dei modelli dimensionali, ritengo che le descrizioni prototipiche di Millon siano sempre di aiuto per quanto non conclusive. E conviene a tal proposito ricordare un detto taoista che recita: impara i riti, dimentica i riti.

 

La malattia oncologica in età pediatrica: qualità di vita del bambino e della sua famiglia

Per offrire una buona qualità di vita al bambino con malattia oncologica e al suo nucleo familiare occorre elaborare una rete di lavoro che coinvolga anche le associazioni dei genitori, i volontari, le istituzioni e l’intera società. 

 

La malattia terminale è stata sempre affrontata con atteggiamenti di rifiuto e vergogna che fanno sì che il malato e la famiglia diventino responsabilità esclusiva della Struttura Ospedaliera, conducendo a una medicalizzazione della fase finale della vita che potrebbe sfociare nelle forme di un vero e proprio accanimento terapeutico.

Un bambino con malattia oncologica costituisce una realtà estremamente spaventosa soprattutto per i genitori che sviluppano una forte paura per il futuro unita al senso di impotenza e perdita della speranza per cui diventa fondamentale la possibilità di contare sul supporto offerto dalle figure significative nel contesto di vita, ma anche e soprattutto dagli operatori sanitari che hanno in carico il bambino che dovrebbero attuare strategie rispondenti sia ai bisogni di cura sia ai bisogni psichici dei protagonisti (Jankovic, 2013). In questo contesto ricordiamo la nuova filosofia di cura proposta dal dottor Momcilo Jankovic, (onco-ematologo pediatrico noto per la presenza e disponibilità costante che offre ai propri pazienti) che riconosce l’accompagnamento, l’ascolto e il rispetto come i 3 elementi chiave del lavoro terapeutico (Scaccabarozzi, 2017): l’accompagnamento, inteso come condivisione, richiede che il clinico sia in grado di mostrare il proprio interesse nei confronti del paziente, stimolando il genitore a trasformare il proprio dolore in fonte di energia; l’ascolto è fondamentale nel percorso di cura: il terapeuta deve essere in grado di “ascoltare” e comprendere anche i silenzi del paziente, prestando particolare attenzione al linguaggio del corpo che, spesso, rivela informazioni preziose che il paziente non vuole o non riesce a esprimere a parole; il silenzio, invece, può essere estremamente dannoso: ci sono situazioni in cui le persone che gravitano attorno al paziente hanno una paura tale della perdita da non riuscire ad affrontare l’argomento, facendo finta che nulla sia cambiato, atteggiamento che non aiuta la persona malata, che non trova nelle persone vicine qualcuno con cui sfogarsi; la solitudine e l’abbandono, infatti, sono aspetti che compromettono il benessere del paziente e del suo nucleo familiare, forse ancor di più rispetto ai sintomi fisici della malattia (Jankovic, 2020). È necessario stabilire un approccio integrato che valuti l’essere umano nella sua completezza, elaborando una rete di lavoro che coinvolga anche le associazioni dei genitori, i volontari, le istituzioni e l’intera società, per il raggiungimento dell’obiettivo comune: offrire una buona qualità di vita sia al paziente che al suo nucleo familiare.

L’impatto della malattia oncologica sul bambino, i genitori e i fratelli

I genitori, soprattutto nelle fasi iniziali di malattia, proveranno disagio nel vedere il figlio allettato, calvo e pallido, per cui devono essere supportati dal personale sanitario fin quando l’abitudine permetterà loro di provvedere autonomamente alle necessità del bambino (Zilli, 1987); già dalla pre-adolescenza, si sviluppa un forte senso di privacy che conduce il giovane a provare imbarazzo e vergogna a mostrare il proprio corpo e le proprie debolezze ai genitori, per cui diventa fondamentale istruire i pazienti al riconoscimento di sintomi che potrebbero suggerire l’eventuale presenza di patologie anche gravi (es. ingrossamento delle ghiandole di gola, inguine e ascelle) (Grootenhuis, 2003). I genitori, dunque, devono essere in grado di offrire la loro vicinanza intesa come capacità di prendersi cura anche di se stessi e dei propri interessi, dimostrando ai figli che non bisogna farsi annullare dalla malattia. Il bisogno maggiormente espresso dai ragazzi oncologici, infatti, è proprio quello di ottenere una “normalità di vita”: per questo motivo, nella maggior parte degli ospedali pediatrici è presente una sezione dedicata all’istruzione dei piccoli pazienti. La scuola in ospedale impegna il paziente per circa un’ora al giorno e si avvale di un approccio diverso rispetto a quello tradizionale poiché la malattia comporta una maggiore stanchezza per cui si sostituiscono i classici compiti scolastici con schede da compilare e con la visione di video registrazioni che motivino maggiormente l’attenzione del bambino (Hodges, 2010). Altro aspetto fondamentale è cercare di mantenere continuità con gli insegnamenti della scuola d’appartenenza di modo da favorire il successivo rientro scolastico del paziente, cercando di eliminare eventuali atteggiamenti di pietismo e favorendo atteggiamenti inclusivi finalizzati a supportare il compagno al fine di ottenere nuovamente una normalità di vita (Alderfer, 2010).

Il tumore pediatrico viene riconosciuto come una malattia familiare per cui diviene fondamentale guidare la famiglia allo sviluppo della resilienza, ponendo particolare attenzione alle reazioni dei fratelli più piccoli che potrebbero sviluppare una sorta di autosufficienza unita ad emozioni negative (es. gelosia, rabbia e rifiuto verso genitori troppo impegnati nella cura del figlio malato) che, nel corso dell’adolescenza, si trasformano in cattivo adattamento a causa dello sviluppo di senso di colpa, paura della morte e angoscia. I fratelli più piccoli, inoltre, avvertono l’abbandono e l’inganno dei genitori, arrivando a perdere la fiducia nei loro confronti e allo sviluppo di numerose problematiche relazionali che, in adolescenza, lasciano spazio a disturbi internalizzanti (evidenti soprattutto nelle sorelle) e ad un atteggiamento protettivo verso i fratelli malati (Long, 2010).

I bambini ricoverati, invece, sembrano crescere più velocemente: riconoscono la paura dei genitori, spesso si sentono in colpa nei loro confronti e provano a dimostrare la loro riconoscenza, cercando di mostrarsi più forti per non farli preoccupare (Jankovic, 2020).

Diventa fondamentale una buona comunicazione della diagnosi che, soprattutto in età infantile, deve seguire delle caratteristiche precise: deve essere chiara e non traumatica per il bambino e spesso si avvale di strumenti quali diapositive esplicative (es. metafora di un giardino fiorito minacciato da erbacce) (Scaccabarozzi, 2017). La comunicazione avviene in assenza dei genitori ma in presenza dei fratelli per riuscire a far emergere le preoccupazioni principali, affrontarle e superarle, fornire informazioni adeguate su eventuali interventi e si preferisce non parlare degli effetti collaterali delle malattie, se non esplicitamente richiesti dai bambini.

Talvolta succede che i genitori, sopraffatti dalle loro ansie, diventano inefficaci nel loro ruolo di fruitori di cura, conducendo a conseguenze negative non solo per il bambino malato ma anche per gli altri figli ‘sani’, i quali potrebbero assumere le vesti di ‘giovani caregivers’, termine che indica ragazzi di età inferiore ai 18 anni che decidono di assumersi delle responsabilità di cura normalmente associate agli adulti, sviluppando una serie di problematiche in adolescenza (es. atteggiamenti adultomorfi) che conducono anche alla social closure con problemi nella gestione di emozioni disturbanti e lo sviluppo di un disequilibrio tra cura, amicizia e tempo libero, che incidono anche nell’ambientazione scolastica, conducendo spesso questi ragazzi al drop-out. A queste problematiche si potrebbero associare anche eventuali malattie cardiovascolari (es. ipertensione da stress) (Zavagli, 2012). Stando ai risultati di una ricerca del Censis, infatti, sembra che i giovani caregivers lamentino un senso di svuotamento (38,9%); problemi familiari (41%); uso di ansiolitici e antidepressivi (56%); vissuto di rinuncia (58%); forte impatto nella vita sociale e privata (60%). Il caregiving, infatti, è un compito molto impegnativo che occupa il soggetto per circa 18 ore al giorno, conducendolo ad avere a disposizione soltanto 4 ore da dedicare al tempo libero nelle fasi più avanzate, senza dimenticare nemmeno che il prendersi cura di un familiare si presenti come uno dei principali motivi di disoccupazione dei giovani italiani tra i 15 e i 30 anni (Italia Lavoro, 2014). Di contro, però, bisogna riconoscere che il caregiving conduce anche a conseguenze positive poiché permette a questi giovani di sperimentare maggiormente il loro senso di responsabilità, di diventare più maturi e di aumentare la propria autostima, per cui la presenza di un fratello con malattia non conduce necessariamente a problemi di adattamento dei giovani caregivers: il tutto dipende dal funzionamento familiare e dalla sua capacità di far fronte ai problemi. La situazione migliore sembra presentarsi in famiglie numerose (in cui è possibile dividere adeguatamente i compiti di cura), con uno status socioeconomico elevato (che permetta ai genitori di far fronte alle esigenze di tutto il nucleo familiare) e con prevalenza di figli maschi (meno inclini allo sviluppo di disturbi internalizzanti), senza dimenticare l’importanza della resilienza che aumenta nei nuclei familiari che godono di un buon supporto sociale.

Altro aspetto da non trascurare è il dolore oncologico che, se non adeguatamente trattato, conduce a conseguenze estremamente negative per la qualità di vita dei pazienti, per cui oggi si ricorre spesso alle cure palliative pediatriche, riconosciute come trattamenti terapeutici atti alla soppressione dei sintomi, e nello specifico del dolore, che non vanno a intaccare quantitativamente la durata della vita del paziente, ma hanno l’obiettivo di migliorarla qualitativamente; il ricovero rappresenta un altro aspetto critico che conduce a sensazioni negative (stress, paura e minaccia) e costringe ad un cambiamento delle abitudini quotidiane con conseguenze che sembrano peggiorare nel percorso di crescita del paziente: nella prima infanzia si assiste spesso a problematiche nel legame di attaccamento per cui si opta per l’ospedalizzazione congiunta madre-bambino (Moroni, 2007); nella seconda infanzia, invece, i ragazzi ricoverati iniziano a sentirsi a disagio, sviluppando un comportamento aggressivo; in adolescenza, infine, la mancanza del gruppo dei pari e la perdita delle autonomie precedentemente ottenute, conduce i ragazzi a fenomeni di chiusura e isolamento (Benini, 2007). Il luogo di cura elettivo nelle cure Palliative pediatriche, dunque, è il contesto domestico, per permettere al paziente di rimanere inserito all’interno del proprio contesto di vita, facilitando inoltre anche il ruolo di cura dei genitori che, però, devono essere affiancati da un’équipe multidisciplinare composta da pediatra, servizi territoriali, ospedale e palliativisti. Nonostante ciò è importante sottolineare l’utilità dei trattamenti complementari, ossia un insieme di tecniche volte a promuovere il benessere psicofisico del malato per rendere la malattia più accettabile: queste strategie (tecniche basate sul rilassamento e sui massaggi, clown terapia, pet therapy, musicoterapia, gioco libero) permettono di diminuire i livelli di cortisolo (ormone dello stress) con rilascio di beta endorfine che agiscono sul dolore. Le malattie oncologiche spesso conducono a condizioni di osteonecrosi (distruzione del tessuto osseo a causa delle elevate quantità di cortisone previste dalla terapia), per cui si sottolinea l’importanza della sport-therapy nelle malattie oncologiche: considerando che il movimento accelera la vascolarizzazione, la sport therapy può riuscire a ridurre gli effetti tossici, spesso provocati dalle cure oncologiche (Jankovic, 2020). L’importanza dei trattamenti complementari viene sancita nel 2007 con l’inaugurazione del “Dynamo Camp” (primo Camp di Terapia Ricreativa in Italia) per offrire un periodo di svago e divertimento a soggetti di età compresa tra i 7 e i 17 anni, affetti da patologie gravi e croniche (oncologiche, ematologiche, neurologiche), ma anche ai loro fratelli sani, basandosi sulla consapevolezza che la malattia non interessi solo il singolo, ma coinvolga l’intero nucleo familiare. Una delle particolarità del Camp è quella di farsi carico del bambino in assenza dei genitori poiché essi spesso per paura che il bambino possa star male decidono di privargli lo svolgimento di alcune attività (es. andare a cavallo) che potrebbero regalargli attimi di svago e di serenità. Altro motivo per cui si decide di escludere i genitori dalla permanenza al Camp è quello di permettere loro di avere un “momento di pausa” dal ruolo di caregivers e nel contempo di accrescere la loro speranza nel vedere che per il figlio sia ancora possibile ottenere una normalità di vita che gli permetta di divertirsi in un contesto sicuro e protetto: il Dynamo Camp, dunque, può essere riconosciuto anche come una possibile soluzione per limitare il Caregiver burden (Scaccabarozzi, 2017). Nelle situazioni più gravi, in cui si giunge alla morte del piccolo paziente, il clinico non deve interrompere bruscamente la relazione con i familiari (che probabilmente saranno maggiormente inclini allo sviluppo di disturbi importanti come la depressione maggiore o il PTSD), ma dovrebbe riuscire a colmare il loro bisogno di vicinanza affettiva, supportandoli nell’elaborazione e accettazione del lutto, invitandoli a partecipare a programmi di death education, volti ad aumentare consapevolezza e competenza nella gestione della propria o altrui morte, trasformando la paura in un sentimento positivo di accoglienza, riconoscendo la morte come parte finale del ciclo vitale (Bobbo, 2004).

La perdita di un figlio per malattia oncologica

Il dolore per la perdita di un figlio è talmente forte da spingere i genitori a rimanere legati al centro di cura attraverso l’organizzazione di raccolte fondi e associazioni che vogliono finanziare l’ambiente sanitario allo scopo di far progredire la ricerca e aiutare altri bambini a vincere la loro battaglia (Oberti, 2015). A tal proposito ricordiamo da un lato i B Live, associazione composta da ragazzi che hanno combattuto o stanno combattendo contro una patologia tumorale e decidono di raccontare le proprie esperienze nel “Bullone” (giornale a cui essi hanno dato vita) di modo da offrire forza, coraggio e disponibilità ad altri ragazzi che ancora lottano con la malattia (Scaccabarozzi, 2017); dall’altro il Centro Maria Letizia Verga, quarto centro al mondo che si propone di unire la ricerca e la cura in un’unica struttura; è stato elaborato da Giovanni Verga (in seguito alla perdita della figlia leucemica Maria Letizia Verga) con lo scopo di migliorare l’assistenza clinica e psicosociale da offrire a bambini con leucemia, massimizzando le loro possibilità di guarigione: si tratta di un insieme di misure volte ad umanizzare l’ospedale, rendendolo un ambiente più adatto ai bambini, infatti le 25 camere ospedaliere presentano pareti colorate che seguono una logica specifica: il blu viene utilizzato negli spazi di accoglienza, l’arancione delinea gli spazi di svago e gioco, il giallo gli spazi per la scuola, il rosso contraddistingue gli ambulatori degli assistenti sociali (Scaccabarozzi, 2017).

 

Attacchi e Disturbo di Panico (2019) di Ezio e Francesco Sanavio – Recensione

Il testo Attacchi e Disturbo di Panico appartiene ad una collana diretta da Daniele Berto ed intitolata 100 domande, nella quale attraverso l’uso di 100 domande, vengono approfondite caratteristiche, diagnosi e trattamento di alcuni disturbi.

 

Precisamente, il manuale qui considerato approfondisce il tema degli attacchi di panico e del disturbo di panico in tre parti separate: caratteristiche e definizioni, diagnosi e trattamento.

Più volte gli autori sottolineano quanto sia importante separare gli attacchi di panico dal disturbo di panico. Infatti, i primi possono essere considerati come momenti (massimo 20-30 minuti) di paura incontrollata, in cui fanno comparsa una pluralità di sintomi. A scopo diagnostico devono comparire almeno quattro tra: palpitazioni, sudorazione, tremori fini o a grandi scosse, dispnea o sensazioni di soffocamento, sensazioni di asfissia, dolore o fastidio al petto, nausea o disturbi addominali, vertigine, brividi o vampate di calore, parestesie, derealizzazione o depersonalizzazione, paura di perdere il controllo, paura di morire. Nel caso in cui i sintomi siano meno di quattro possiamo parlare di attacchi paucisintomatici. Ora, gli attacchi di panico non sono sempre inaspettati, ma possono esservene anche di attesi o situazionali (ossia attacchi previsti perché si verificano in situazioni simili). Solitamente i primi attacchi sono casuali, ma poi il paziente inizia a creare collegamenti tra i luoghi/situazioni e gli attacchi non esistenti. Si tratta comunque di un’esperienza molto diffusa: 28,3% della popolazione riporta attacchi di panico isolati. È importante sottolineare comunque che sperimentare un attacco di panico non è indice di un disturbo mentale: secondo alcuni studi il 10% della popolazione normale presenta un attacco all’anno senza per questo riportare particolari conseguenze. L’elevata diffusione degli attacchi di panico non corrisponde ad un’alta prevalenza del disturbo di panico (0.9% nei maschi e 2.2% nelle femmine).

Il disturbo di panico è una condizione per cui:

  • sono presenti attacchi di panico ricorrenti e inaspettati
  • almeno uno degli attacchi è stato seguito per almeno un mese dall’una o dall’altra o da entrambe queste manifestazioni: 1. persistente ansia anticipatoria; 2. evitamenti e significative alterazioni della propria routine.
  • gli attacchi non sono attribuibili ad una droga, farmaco o malattia fisica
  • gli attacchi non sono meglio spiegabili con un altro disturbo.

Gli attacchi di panico sono quindi tipici del disturbo di panico, ma non per questo non possono essere riscontrati in altri disturbi, come fobie, disturbo d’ansia sociale, disturbo d’ansia generalizzata, disturbi da stress post-traumatico, depressione, disturbo bipolare, disturbi di personalità e da dipendenza da sostanze. L’età media dell’esordio si aggira attorno ai 24 anni, tuttavia possiamo identificare una distribuzione bimodale con picchi tra 15-24 anni e tra 45-54 anni.

Tipicamente possono essere identificate tre fasi nello svilupparsi del disturbo di panico:

  • attacchi inaspettati vissuti con crescente paura
  • ansia anticipatoria
  • sviluppo di evitamenti che limitano l’autonomia e la qualità della vita.

Sebbene il DSM non consideri la frequenza degli attacchi nella diagnosi del disturbo di panico, l’ICD-10 considera il disturbo moderato quando si verificano almeno 4 attacchi in un mese e grave con almeno quattro alla settimana.

Alcuni studi hanno esaminato la possibile familiarità del disturbo di panico che sembrerebbe essere elevata, tanto per cui figli di individui con disturbo di panico hanno una probabilità 5-8 volte superiore di sviluppare anche loro il disturbo di panico. L’alta familiarità può essere spiegata sia in termini di trasmissione genetica che di ambiente familiare. Tuttavia, studi identificanti geni responsabili della vulnerabilità al disturbo di panico non sono molti e la maggior parte identifica geni corrispondenti alla predisposizione di altri disturbi come d’ansia e dell’umore. Sicuramente rilevante è comunque la componente ambientale, a causa dell’uso di modelli per lo stile educativo e gli eventi di vita non esattamente sani.

Per effettuare una valutazione psicodiagnostica degli attacchi di panico e di un possibile disturbo di panico possono essere usati diversi metodi, come:

  • osservazione diretta, durante le prove d’induzione e test di evitamento. Tra le prove d’induzione vanno citate la prova d’iperventilazione o qualsiasi altra prova tra le nove prove di Andrews. In caso di esito negativo, si potrebbe passare alla somministrazione di prove di evitamento.
  • diari e schede di automonitoraggio: la scheda di automonitoraggio andrebbe compilata immediatamente dopo l’attacco inserendo data e durata, luogo e situazione, prevedibilità, eventi antecedenti, eventuale associazione agli eventi precedenti, persone presenti, sensazioni fisiche avvertite, pensieri che sono passati per la testa, intensità, livello massimo di paura esperito. Tuttavia, non sempre i pazienti possono essere disposti a compilare accuratamente la scheda di automonitoraggio magari perchè timorosi che il pensare al precedente attacco possa provocarne un altro (comportamento di evitamento). Tuttavia, anche in caso di mancata compilazione la scheda può risultare di estrema rilevanza rivelando insight relativi allo stile e atteggiamento del soggetto in modo da poter intervenire.

Inoltre, è bene somministrare il Beck Anxiety inventory (BAI) ogni 7-15 giorni in modo da poter monitorare l’andamento dell’ansia.

Per quanto riguarda il trattamento del disturbo di panico esistono alcune linee guida. Ad esempio, secondo il NICE (National Institute for Health and Clinical Excellence) gli interventi che hanno dato buona prova su lunghe distanze sono:

  • terapia psicologica: più precisamente a) preferibile CBT; b) per via di professionisti; c) durata ottimale di 7-14 ore; d) sedute settimanali di 1-2 ore e dovrebbe completarsi entro un massimo di quattro mesi. I protocolli sono principalmente appartenenti a due filoni: inglese – muove dalla constatazione che un terzo dei pazienti ha immagini intrusive catastrofiche, motivo per cui vengono usate tecniche della terapia cognitiva classica, in modo flessibile; americano – basato sull’esposizione enterocettiva, ristrutturazione cognitiva, breathing training, esposizione situazionale (per 15 sedute)
  • terapia farmacologica: i farmaci in prima linea sono gli SSRI, quindi gli antidepressivi e non gli ansiolitici. Tuttavia, ancora oggi molti individui fanno uso di benzodiazepine per il panico. Trattamenti combinati psicologici-farmacologici non sembrano aumentare la velocità del trattamento, anzi in caso di mancata coordinazione tra specialisti potrebbero anche ostacolare la remissione.
  • auto-aiuto attraverso l’uso di manuali suggeriti dal clinico (è consigliato comunque un contatto personale col clinico almeno ogni 4-8 settimane).

Le ultime domande sono invece dedicate a comportamenti da adottare nel momento in cui si incorre in qualcuno con un attacco di panico, tra questi la tecnica della respirazione diaframmatica è consigliata. Essa consiste nel porsi davanti al soggetto e mettere la sua mano all’altezza del proprio diaframma per poi inspirare ed espirare lentamente, invitandolo a fare lo stesso. Per facilitare il rallentamento della respirazione è utile contare ad alta voce “uno…due…tre” durante l’inspirazione e “quattro… cinque… sei” durante l’espirazione. Oltre ad aiutare la respirazione lenta, altri comportamenti utili sono comprimere il torace, spostare l’attenzione su qualcosa, allontanare le persone in ansia e mantenere la calma.

All’interno del testo sono presenti anche delle chiarificazioni relative al rapporto tra iperventilazione e attacchi di panico, agorafobia, ansia da malattia (precedentemente chiamata ipocondria) e i comportamenti di sicurezza.

Nel complesso il manuale risulta essere di estrema chiarezza grazie alla sua struttura che permette di trovare subito le risposte alle domande che man mano emergono dalla lettura. Proprio per questo potrebbe essere molto utile per poter diffondere conoscenze relative ad esperienze comuni, quali sono gli attacchi di panico, in modo che più persone possibili possano essere pronte a reagire nel modo più adeguato nel momento del bisogno.

 

Uno, nessuno, centomila: i molteplici volti delle emozioni umane nelle differenti culture

L’attenzione di ciascun popolo a un particolare aspetto delle emozioni è specchio del suo passato e della sua collocazione geografica, degli eventi storici ed economici e dei processi culturali che lo hanno caratterizzato.

Eliana Berra – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, Milano

 

Le emozioni sono fenomeni complessi e affascinanti, frutto di un processo multifattoriale, innescato da una molteplicità di eventi, correlato ai più svariati pensieri e credenze, associato a sensazioni e sintomi fisici e scatenante innumerevoli reazioni e comportamenti. Nonostante da decenni siano oggetto di attenzione e di studi volti a chiarirne le caratteristiche e categorizzarle, spesso continuano a sorprenderci per la varietà delle loro apparentemente indefinibili sfumature. Nel corso delle epoche storiche, tutti i popoli hanno cercato di avvicinarsi ad esse e dare loro un nome, talora cogliendone particolari per noi tanto illuminanti quanto inaspettati.

Nell’Atlante delle Emozioni Umane, viene effettuato un curioso excursus sui termini più particolari attribuiti a specifiche sensazioni e pensieri correlati alle emozioni nelle diverse tradizioni del mondo. L’attenzione di ciascun popolo a un particolare aspetto delle emozioni è specchio del suo passato e della sua collocazione geografica, degli eventi storici ed economici e dei processi culturali che lo hanno caratterizzato. Mappando le differenze affettive tra i popoli, questa singolare panoramica ci porta inevitabilmente a comprendere come il caleidoscopio lessicale paradossalmente rispecchi l’universalità di ciò che tutti gli esseri umani sono in grado di provare. Scoprendo vocaboli che ci appariranno strani o impronunciabili, ci scopriremo incredibilmente vicini a coloro che li hanno coniati per la prima volta, seppur a secoli o a migliaia di chilometri di distanza da noi.

Abhiman

Il termine Abhiman viene citato per la prima volta nei Veda ed è noto ancora oggi in tutto il subcontinente indiano. Composti in sanscrito intorno al XVI secolo a.C., i Veda sono tra i più antichi testi sacri e costituiscono la base spirituale dell’Induismo. Il significato letterale di abhiman è “orgoglio di sé”, “dignità”. Ma un indizio sul suo significato più profondo sta in un’altra parola del sanscrito, di cui abhiman conserva qualche eco: balam (forza). L’abhiman, intraducibile con un unico sinonimo, evoca il dolore e la rabbia causati dal torto subito da parte di una persona che amiamo, o da cui ci aspettiamo di venire trattati con gentilezza. Alla sua origine c’è la tristezza, che presto si trasforma in un impeto di orgoglio, di offesa e talora di moto vendicativo. Spesso viene tradotta con “dignità ferita” e in India rappresenta una reazione accettabile, persino attesa, e ostinata. A livello sociale, la consapevolezza dell’abhiman come reazione inevitabile implica che la rottura dei taciti patti di amore e rispetto tra le famiglie e gli alleati rappresenti un tradimento della massima serietà.

Amae

Negli anni settanta, gli antropologi occidentali si dedicarono con grande entusiasmo a studiare l’amae, termine coniato in Giappone: per loro era la prova che anche le nostre emozioni più intime sono influenzate dalle strutture politiche ed economiche delle società in cui viviamo.

In Giappone, l’amae indica una resa temporanea in totale sicurezza, come l’impulso ad abbracciare una persona cara per essere coccolati e rassicurati o come l’affidarsi a qualcuno che ci possa aiutare incondizionatamente. L’amae è generalmente riconosciuta come parte di ogni relazione umana. La si prova non soltanto tra membri della stessa famiglia, ma anche tra amici e colleghi di lavoro, e rappresenta un ritorno ai piaceri e all’accudimento incondizionato dell’infanzia. È il collante che permette alle relazioni stabili di prosperare, il simbolo della fiducia più profonda.

Gli antropologi sostengono che l’amae si sia sviluppata nella cultura tradizionalmente collettivista del Giappone e sia sintomatica della maniera in cui la società giapponese continua a celebrare la dipendenza da un gruppo rispetto all’individualismo.

Compersione

La comune Kerista, fondata nell’Haight-Ashbury di San Francisco nel 1971, si proponeva di ribaltare molti dei capisaldi della tradizione americana circa la famiglia, la proprietà e la monogamia. Quest’ultimo fu l’aspetto che le diede maggiore fama, poiché i membri della comune Kerista praticavano il poliamore e venivano incoraggiati ad avere più di un partner sessuale alla volta. Alcune di queste relazioni avevano vita breve, altre più lunga, ma nessuna prevedeva l’esclusività. Per spiegare come la gelosia per loro non fosse un problema, i keristani coniarono il termine “compersione”. Variante di “compassione”, la compersione indicava l’eccitazione indiretta provata nello scoprire che una persona amata era attratta da qualcun altro.

Il termine “compersione”, che fa da antagonista a gelosia, viene ancora utilizzato sia negli Stati Uniti che in Europa e non ha sinonimi, ad eccezione che in Inghilterra, dove, per indicare la stessa sensazione, si usa il termine “The Frubbl”.

Gezelligheid

Non a sorpresa, molte delle lingue nordeuropee hanno coniato una parola specifica per esprimere la sensazione dell’appagamento legato alla comodità e all’accoglienza. L’inglese “cozy” (accogliente) viene dal gaelico “còsag”, letteralmente un piccolo buco in cui ci si può rifugiare. E tutti, quando inizia l’inverno e fuori piove o nevica, ci troviamo a desiderare quello che i danesi chiamano “gezelligheid”. Gezelligheid denota sia una situazione fisica – come lo starsene al caldo in un posto confortevole, circondati da buoni amici (non si può provare gezelligheid da soli) – sia lo stato emotivo del sentirsi “abbracciati” e confortati da qualcuno. Sulla stessa linea ci sono il danese “hygge” (vicinanza), il tedesco “gemütlichkeit”, che indica una sensazione legata alla cordialità e alla compagnia, e il finlandese “kodikas” (accogliente). Al contrario, nelle lingue del caldo Mediterraneo, sarà molto difficile trovare vocaboli caratterizzati da una simile combinazione di vicinanza fisica, calore e conforto.

Fago

Negli anni ‘80, vivendo a contatto con la popolazione di Ifaluk, un atollo corallino delle Isole Caroline del Pacifico, l’antropologa Catherine Lutz rimase colpita dalla definizione di una sensazione che lei per istinto riconosceva ma per cui non esisteva un termine equivalente in inglese, né in altre lingue.Il fago è un singolare termine emozionale che unisce la compassione, la tristezza e l’amore. È la pietà provata per le persone in difficoltà, che ci spinge a occuparci di loro, ma che è anche pervasa dalla forte sensazione di precarietà, fragilità, correlata alla consapevolezza che un giorno potremmo perderle. Il fago spesso è una sensazione improvvisa, intensa, che sfocia nella commozione. Secondo Lutz, era significativo come tale termine fosse stato coniato proprio da una popolazione famosa per la propria non belligeranza. «La parola fago», scriveva Lutz, «viene pronunciata quando si prende atto che il dolore è ovunque e, con uno spirito vigorosamente ottimista, si crede che lo sforzo umano, specie quando si tratta di occuparsi degli altri, possa limitare i danni di quel dolore emotivo”.

Glee

Quando i vichinghi arrivarono in Inghilterra portando con sé il loro linguaggio, “glý”, o “glíw”, o “glew” significavano sia “passatempo” che “presa in giro”. Glew era anche il testo di una canzone cantata a squarciagola da ubriachi, e chamber-glew era il modo più breve per indicare un comportamento osceno. L’essere guidati da golde e glie era frequente fonte di disprezzo, poiché significava vivere in cerca di denaro e piaceri dissoluti. Nel corso del Seicento, glee perse buona parte della sua connotazione negativa quando il termine venne utilizzato dai maestri di coro per descrivere un tipo di canto polifonico non accompagnato da strumenti, una versione più austera di quello poi adottato dai glee clubs dei licei americani. Ad oggi, la parola conserva sfumature poco raccomandabili: indica, infatti, la sensazione di gioia e piacere nel festeggiare la propria fortuna a scapito di qualcun altro. Non a caso, dopo il “datagate” del 2013, il capo dei servizi segreti inglesi aveva immaginato i terroristi di Al-Qaida intenti a «rubbing their hands with glee»-“sfregarsi le mani per la felicità”.

Going postal

Gli Stati Uniti degli anni ’80 videro susseguirsi numerose sparatorie di massa, i cui autori erano impiegati postali scontenti del proprio lavoro. Da qui, l’espressione “going postal” cominciò a essere utilizzata per indicare un attacco di rabbia e violenza avvenuto sul posto di lavoro, e poi, più in generale, come sinonimo di “andare su tutte le furie”.

Hiraeth

La parola gallese “hiraeth” rivela un profondo legame con il proprio paese natale, esprimendo la tristezza nostalgica, venata di apprensione, di chi vorrebbe rimanere nella propria terra ma sa di doverla lasciare. Probabilmente la lunga occupazione da parte degli inglesi può spiegare perché gli abitanti del Galles abbiano tanta familiarità con la combinazione tra l’amore per la patria e la percezione della sua vulnerabilità – un’emozione che gioca un ruolo chiave nella retorica della “gallesità”. Oggi il termine hiraeth è associato soprattutto alla sensazione di precarietà provata dagli emigrati, così come da coloro che temporaneamente ritornano a casa, sapendo che presto arriverà il momento di ripartire.

Hwyl

In inglese, Hwyl è il termine con cui si indica la vela di una barca. È una parola gallese, onomatopeica,  che evoca uno stato di esuberanza o eccitazione, come se si venisse spinti da una folata di vento. La si usa per descrivere un lampo di ispirazione, un impeto di entusiasmo o di buonumore. Ma, paradossalmente, Hwylè anche la parola dell’addio:  “Hwyl fawr”–“Vai con il vento in poppa”.

Matutolypea

Il solenne vocabolo Matutolypea (si pronuncia matutolipia) deriva da una combinazione tra “Mater Matuta”, la dea dell’alba per gli antichi romani, e “lype”, il termine greco per “avvilimento”. Indica, infatti, la sensazione provata al suonare della sveglia quando, prendendo consapevolezza del nuovo giorno che sta per iniziare, ci si sente sopraffatti da tristezza, ansia, malumore. Si potrebbe tradurre, con una certa solennità, in “tristezza mattutina”.

Mudita

Per Siddhārtha Gautama, meglio noto come il Buddha, vissuto tra il V e il IV secolo a.C., la gioia non era una risorsa limitata su cui litigare o a cui avevano diritto soltanto pochi fortunati, ma era infinita, illimitata. Per Siddhārtha, la parola “mudita” esprimeva la piena esperienza di felicità, priva di invidia o risentimento, provata dinanzi alla gioia o alle fortune altrui. Secondo lui, il puro fatto di poter provare mudita era la prova che la felicità degli altri non diminuisce la propria, ma la aumenta.

Nakhes

L’eccesso di orgoglio genitoriale è un tipico luogo comune dell’umorismo ebraico. E in yiddish esiste una parola speciale per l’emozione di felicità e soddisfazione dei genitori di fronte ai piccoli traguardi dei loro figli: nakhes (si pronuncia nà-khez, con il kh aspirato).

Nginyiwarrarringu

Quando un’emozione diventa predominante ed essenziale per la sopravvivenza di un popolo o la sua conoscenza del mondo, è possibile che di essa vengano coniati numerosi termini volti a coglierne le più fini peculiarità. Per i pintupi, abitanti dei deserti dell’Australia occidentale, esistono quindici diversi tipi di paura. “Ngulu” è il timore di essere oggetto di una vendetta; “kamarrarringu” è la tensione provata nell’accorgersi che qualcuno si sta lentamente avvicinando alle nostre spalle; “kanarunvtju” è il terrore del possibile arrivo di spiriti maligni nella notte, tanto potente da provocare insonnia; “nginyiwarrarringu” è l’improvvisa e potente sensazione di allarme che ci fa balzare in piedi e guardarci attorno, cercando di capire cosa l’ha provocato.

 

Il paradosso dell’obesità: cosa ci dicono i topi più obesi al mondo

Nonostante l’incessante incremento del tasso di obesità, nel 2018 pari al 42% della popolazione statunitense adulta (Hales et al., 2020), negli ultimi tempi medici e ricercatori stanno promuovendo un approccio volto a non demonizzare il grasso, quanto a favorirne una comprensione più profonda.

 

Essere obesi, difatti, non sembrerebbe sempre sinonimo di malattia, ragion per cui risulta doveroso valutare singolarmente caso per caso, persona per persona, approcciandovisi spogli da pregiudizi.

Partiamo da un interrogativo, motore che ha determinato il diffondersi di numerosi studi nell’ambito di obesità, metabolismo e salute: “Si può essere considerati sani pur pesando 270 chilogrammi?”.

Secondo il ricercatore americano Philip Scherer, del Southwestern Medical Center, ed i suoi topi, i più grassi del mondo, sì (Lee et al., 2014). La loro caratteristica principale era quella di essere nati da genitori ingegnerizzati. Ad alcuni di questi è stato soppresso l’ormone leptina, fondamentale per regolare il senso di sazietà, mentre altri sono stati indotti a sovra produrre adiponectina, responsabile di un buono stato di salute metabolica. Dal loro incrocio, i topi di Scherer mangiavano e ingrassavano senza sviluppare patologie metaboliche, risultando quindi estremamente sovrappeso ma incredibilmente sani. I roditori infatti, a differenza dei loro simili carenti di leptina, presentavano livelli di colesterolo e glicemia nella norma. Tuttavia, a dispetto del buono stato metabolico, a causa della mole eccessiva, i topi erano spesso impossibilitati nel muoversi e finivano per capovolgersi, morendo disidratati (Asterholm et al., 2007).

Seppur quella dei roditori del laboratorio texano sia una storia senza lieto fine, porta con sé un messaggio importante: peso e salute metabolica possono non necessariamente procedere sullo stesso binario, considerabili talvolta come due concetti disgiunti. Sulla stessa lunghezza d’onda di Scherer si colloca anche la genetista Ruth Loos, dell’Università di Copenaghen. La ricerca dell’équipe danese è iniziata quando una striscia di DNA li ha condotti su di una strada inaspettata.

Hanno difatti scoperto che nelle persone più predisposte all’incremento ponderale erano identificabili distinti tratti di DNA, uno in particolare responsabile dell’accumulo di grasso localizzato su fianchi e cosce. Questo filamento appariva però puntualmente accanto ad un gene chiamato IRS1, noto per ridurre il rischio di sviluppare malattie cardiovascolari e diabete (Kilpeläinen et al., 2011).

Sulla base di questa scoperta Loos e Scherer hanno esaminato, attraverso modelli animali ed umani, come determinati fattori quali la distribuzione del grasso corporeo o la natura del grasso stesso, potessero aggravarne o attenuarne gli effetti sulla salute.

I primi ad offrire un indizio su tali differenze sono stati proprio i topi di Scherer: il loro adipe era prevalentemente immagazzinato a livello sottocutaneo e non viscerale, quest’ultimo più dannoso in quanto tendenzialmente associato all’infiammazione di organi e muscoli, quali pancreas e fegato.

Il modello animale in esame calza perfettamente con quanto riscontrato nell’essere umano: ampi studi hanno accertato che le persone con una percentuale più alta di grasso viscerale sono maggiormente soggette a problemi di salute, rispetto a quanto non accada in quelle con accumuli adiposi sottocutanei (Paiman et al., 2020). Il ruolo giocato dal grasso viscerale è stato approfondito anche da Zinman, endocrinologo dell’Università di Toronto (Kramer et al., 2013). Attraverso i suoi studi, ha dimostrato che è proprio l’adipe viscerale a generare le molecole infiammatorie responsabili di molte patologie metaboliche, particelle che agiscono prevalentemente a livello pancreatico. Di contro, quello sottocutaneo può renderci più sani, fungendo sia da riserva energetica che da cuscinetto a protezione di muscoli ed ossa. In aggiunta, quadri clinici connotati da insufficienza cardiaca ed alcune tipologie di cancro, fra cui quello mammario, traggono beneficio dall’accumulo di grasso sottocutaneo (Bradshaw et al., 2019).

Sulla base di quanto suggerisce la scienza non è errato affermare che un leggero sovrappeso, rispetto ad una corporatura più esile, può avere in alcuni casi una certa utilità. È sempre il ricercatore di Toronto ad affermare che in assenza di una zona in cui accumulare i depositi di grasso in eccesso, quest’ultimo si dirigerebbe pericolosamente nella regione viscerale. Le persone affette da sindromi da lipodistrofia ne sarebbero l’esempio vivente: la loro impossibilità di accumulare grasso sottocutaneo le fa apparire estremamente magre, a dispetto di elevatissimi livelli di grasso collocati però attorno agli organi, che li predispongono allo sviluppo di malattie gravi, fra cui anche il diabete di tipo 2 (Nagayama et al., 2021).

Ad appannaggio di queste ricerche anche gli effetti di alcuni farmaci per il diabete introdotti alla fine degli anni ’90: i tiazolidinedioni.

La loro azione di riduzione dei livelli di glucosio nel sangue ha curiosamente portato i pazienti ad accumulare peso. Diversi studi hanno dimostrato che questi farmaci aiutano a convertire le cellule precursori del grasso in cellule adipose sottocutanee mature. I pazienti che hanno ottenuto questo effetto collaterale, sviluppavano in media meno infiammazioni, rivelandosi meno insulinoresistenti (Natali & Ferrannini, 2006).

Obesità metabolicamente sana

Dal proliferare di studi in tale ambito, si evince chiaramente l’affermarsi di un nuovo campo di ricerca scientifica, impegnata nell’indagare una condizione tutt’oggi poco definita, ma parecchio frequente fra gli esseri umani: l’MHO, ossia la metabolically healthy obesity (obesità metabolicamente sana) (Gómez-Zorita et al., 2021). Imprescindibile in questo settore, affermano gli esperti, è stabilirne i confini ed esaminare quanto possa essere comune o per quanto tempo possa persistere la MHO prima che degeneri in patologica. Difatti, è buona prassi ricordare che sussiste una chiara correlazione tra incremento ponderale e diabete di tipo 2, seppur tale patologia non si manifesti immediatamente. Inoltre, l’obesità si associa a numerosi altri problemi di salute inclusi artrosi da usura, sovraccarico delle articolazioni e vari tipi di cancro (Abdelaal et al., 2017).

Se tuttavia tramite queste indagini, da un lato, si procede contro la demonizzazione del grasso, dall’altro la nostra società corre nella direzione opposta. Così le persone obese, nella maggior parte dei casi discriminate, possono ritrovarsi bersaglio degli stessi medici, che frequentemente finiscono per ridurre un qualsivoglia indizio di malattia ad un problema di peso, senza procedere con altri approfondimenti (Puhl & Brownell, 2001). Il numero sulla bilancia e la circonferenza vita costituiscono, oggigiorno, un vero e proprio stigma sociale, che induce ad approcci superficiali e stereotipati.

Obesità e stigma

A sensibilizzare la popolazione scientifica e non relativamente a questa tematica è il fisiologo Lindo Bacon, Università della California, nonché fermo sostenitore della Body Positivity. Egli afferma che tartassare le persone con consigli volti al dimagrimento si rivela spesso un grosso errore, talvolta addirittura controproducente (Bacon, L. 2010). Appellandosi alle teorie sopracitate, definisce oggettivo il fatto che esistano molte persone appartenenti alla categoria degli obesi che in realtà conducono vite lunghe e sane, senza alcun segno di malattie metaboliche.

Seppur concorde con il pensiero comune che associa l’obesità ad uno status di cattiva salute, Bacon insiste sul fatto che il grasso, in sé, non è il vero colpevole di determinate patologie. I reali colpevoli andrebbero cercati anche tra povertà, discriminazione e disomogenee opportunità di accesso ai cibi sani. Infatti, come dimostrato, le persone obese che non presentano disfunzioni metaboliche, sono spesso benestanti e più istruite rispetto a quelle nelle quali si presentano le patologie.

Oltre alla povertà, altra imputata è l’etnia: da uno studio del 2020, condotto nel Regno Unito su quasi 3 milioni di adulti monitorati per 11 anni, l’Obesity Science and Pratice ha evinto che le persone con BMI compreso tra 30 e 35 correvano il rischio di sviluppare il diabete di tipo 2 con una probabilità ben cinque volte superiore rispetto a coloro con un indice di massa corporea nella norma. I soggetti con un BMI tra 40 e 45 il rischio era 12 volte più elevato (Tillin et al., 2015).

Lo studio ha evidenziato in aggiunta che il campione composto da soggetti con obesità era anche più propenso a soffrire di malattie cardiache, apnea notturna, ictus, osteoartrite e cancro.

Nonostante questi dati piuttosto allarmanti, Antonio Vidal-Puig, esperto in malattie metaboliche, riconosce la presenza di molte persone che, nonostante il peso in eccesso, mantengono livelli di colesterolo e glicemia perfettamente in norma, contrariamente ad altri pazienti normopeso.

Tale tendenza sembrerebbe proprio ascrivibile all’etnia. Ad esempio, secondo altri studi, le persone di origine sud asiatica sarebbero più predisposte a sviluppare patologie metaboliche anche se non obese (Stanford et al., 2019).

Questa variabile, insieme alla localizzazione del grasso corporeo e alla sua natura, amplierebbe ulteriormente il numero di fattori da tenere in considerazione in caso di insorgenza di tali patologie.

Obesità e fibrosi

È proprio dalla collaborazione fra Vidal-Puig e la genetista Loos, entrambi operativi presso l’Università di Cambridge, che nascono nuovi interrogativi volti a comprendere meglio un altro aspetto molto interessante in merito alla relazione che intercorre tra infiammazioni e malattie metaboliche: la fibrosi. Definibile come l’inspessimento o cicatrizzazione del tessuto connettivo, essa promuove quella serie di infiammazioni dannose responsabili della scarsa salute di alcuni organi, fra cui il fegato. Queste fibrosi, molto frequenti nell’adipe di pazienti obesi, portano gli autori a ribadire la loro reticenza nel considerare l’obesità non pericolosa per la salute (Loos & Kilpeläinen, 2018). Come confermano i topi oversize di Scherer, le fibrosi riducevano nei roditori la produzione endogena di adiponectina, ormone che sembrerebbe fungere da protettore per malattie metaboliche. Uno degli studi più esaurienti relativo all’effetto delle cicatrizzazioni sull’uomo è quello condotto da Samuel Klein, direttore del Nutrition Obesity Research Center presso la Washington University di St. Luis. Dal 2016 lui e i suoi colleghi hanno eseguito una serie di test su tre gruppi, così composti: 45 persone obese metabolicamente sane, 45 persone obese metabolicamente malate e 25 persone normopeso, magre (Cifarelli et al., 2020). I partecipanti sono stati sottoposti a diverse diete, randomizzate, tra le quali una mediterranea ed una a base vegetale. Periodicamente, i ricercatori hanno somministrato ai soggetti iniezioni di insulina, effettuando successivamente delle biopsie sia su massa grassa che muscolare. Inoltre, un prelievo di sangue permetteva loro di comprendere come l’ormone iniettato regolasse il metabolismo del glucosio nei diversi tessuti e nel flusso ematico.

L’obiettivo principe di Klein era proprio quello di comprendere il motivo per cui alcune persone con obesità appaiono “resistenti” ai suoi aspetti negativi, nonché valutare se sussistono differenze tra il grasso sottocutaneo delle persone obese sane rispetto a quello dei soggetti con patologie. Ha recentemente riscontrato che la grande differenza tra questi due gruppi è da attribuirsi alla maggiore produzione di tessuto fibroso e di conseguenti infiammazioni nella controparte “malata”. Questo studio, prosegue l’equipe di ricerca, apre la strada ad una quantità infinita di domande che trovano risposta, molto probabilmente, nel codice genetico delle persone prese a campione.

Tuttavia, i dati ottenuti rafforzano il punto di vista di studiosi come Loos: ossia che esistano persone geneticamente predisposte all’obesità seppur con basso rischio di sviluppo di malattie cardiovascolari o metaboliche, quindi annoverabili nella sopracitata definizione di obesità metabolicamente sana.

Conclusioni

Per appartenere a questa categoria, dice la scienza, è necessario avere al massimo due tra i molti fattori di rischio che caratterizzano la sindrome metabolica; fra questi: girovita ampio, ipertensione, colesterolo HDL basso, trigliceridi e glicemia elevati (Donataccio et al., 2021). Inoltre, le donne, i giovani e le persone con BMI inferiore a 35 avrebbero maggiori probabilità di soddisfare i criteri di una MHO.

Nonostante questi risultati, l’epidemiologo direttore del programma di prevenzione dell’obesità presso l’Harvard T.H. Chan School of Public Health, Frank Hu, è perentorio nell’affermare che le persone obese metabolicamente sane ad un certo punto cominciano comunque a sviluppare delle patologie (Eckel et al., 2018). Basandosi su esami eseguiti su oltre 90.000 donne selezionate dal Nurse Health Study, i ricercatori hanno avviato un progetto decennale nato per raccogliere dati riguardanti lo status di salute e lo stile di vita. È stato così scoperto che l’84% delle donne obese considerate metabolicamente sane finivano prima o poi per manifestare sintomi di patologie cardiovascolari o metaboliche, portando Hu ad affermare la transitorietà della MHO.

Giunti fin qui, risulterà chiaro che i risvolti degli studi citati sono molteplici e notevolmente complessi. Nonostante ciò, non si può certo ignorare il messaggio implicito sotteso a tutte le indagini: quando si affrontano pazienti sovrappeso, è quanto mai necessario spostare il focus dal semplice calcolo del BMI a fattori più complessi e articolati. Per Bilik e Vidal-Puig focus dell’attenzione medica dovrebbero essere i marcatori cardiaci e metabolici, come pressione e trigliceridi. Ancora, Bozello e Vanzo (2020) sottolineano l’importanza del rapporto vita/fianchi, facilmente misurabile da chiunque (Bosello & Vanzo, 2021).

Fil rouge di queste evidenze è l’importanza attribuita all’esercizio fisico, principale responsabile di una migliore risposta all’insulina e a capo della riduzione dei livelli di grasso viscerale. “Non si tratta di grasso, si tratta di essere in forma!”, questo il mantra che Vidal-Puig fa imparare a memoria ai suoi pazienti. Pertanto, il trattamento dell’obesità non dovrebbe mirare esclusivamente alla perdita di peso, quanto più a favorire anche il miglioramento metabolico del paziente.

Secondo Bacon la domanda che dovrebbe porsi ogni medico di fronte ad un paziente sovrappeso è: “Che tipo di consigli darei ad una persona più magra?” ed aggiunge: “Per allontanarsi dal pregiudizio sul peso, una delle prima cose che i medici possono fare, è eliminarlo dal quadro clinico…prima di prenderlo in considerazione”.

 


 

Oltre il contesto educativo: motivazione intrinseca e abitudini di lettura durante la pandemia da COVID19

Un’indagine spagnola ha esplorato la relazione tra motivazione intrinseca alla lettura e frequenza di lettura prima della pandemia, durante le prime settimane di lockdown e dopo qualche settimana di lockdown (De Sixte et al., 2021).

 

La diffusione del virus SARS-CoV-2, a causa della sua contagiosità, ha costretto le persone a confinarsi entro le loro abitazioni. Tutte o buona parte delle attività lavorative e del tempo libero sono state spostate all’interno delle case: ciò ha modificato il modo di vivere la quotidianità. Diverse ricerche confermano i cambiamenti delle dinamiche routinarie in questo periodo di pandemia, dallo stile alimentare (Pérez-Rodrigo et al., 2020), al consumo di TV e al tempo dedicato ai videogiochi e all’esercizio fisico (Balluerka et al., 2021). La lettura è una delle attività che più ha risentito di questo momento storico (Salmerón et al., 2020), ma da cosa dipendono veramente questi cambiamenti?

Le abitudini di lettura e la quantità di tempo dedicato ai diversi tipi di lettura (lettura per svago, per lavoro/studio, per l’aggiornamento sugli eventi, ecc…) sono influenzati da fattori individuali (Scales & Rhee, 2001; Schutte & Malouff, 2007; Garces-Bacsal & Yeo, 2017). La motivazione intrinseca è un fattore che gioca un ruolo fondamentale nella quantità di tempo trascorso a leggere. Ad esempio, lo studio di Schiefele (2012) riporta una relazione positiva tra motivazione intrinseca e tempo trascorso alla lettura, una relazione che si mostra più forte nel tipo di lettura per svago (Schiefele et al., 2012). Il ruolo di tale motivazione è stato indagato anche in relazione alle differenze di genere: le femmine hanno più alti livelli di motivazione intrinseca alla lettura (Wigfield e Guthrie, 1997; Swalander e Taube, 2007; Vansteenkiste et al., 2009) e, pertanto, investono più tempo in questa attività rispetto ai maschi (Scales e Rhee, 2001). Un altro importante fattore individuale che determina le nostre abitudini di lettura, soprattutto alla luce dei forti cambiamenti dell’attuale periodo, è il distress. La pandemia da COVID19 ha generato un forte disagio psicologico con conseguenze sui nostri comportamenti (Ingram et al., 2020; Stanton et al., 2020). Lo studio di Guo (2021) dimostra infatti che il distress sperimentato in questo periodo in Cina è associato, soprattutto nelle donne, ad un aumento del tempo dedicato alla lettura di informazioni relative al COVID (Guo et al., 2021).

Dunque, diversi fattori possono spiegare il cambiamento nelle abitudini di lettura ma l’interazione a tre vie tra abitudini di lettura, motivazione alla lettura e distress risulta ancora inesplorata. Alla luce dell’eccezionale situazione che stiamo vivendo, ci si potrebbe chiedere quindi se le motivazioni che sostengono l’attività di lettura si siano modificate in questa condizione di isolamento che le persone sono state costrette a vivere.

La risposta arriva finalmente da uno studio spagnolo che esamina l’interazione di tali fattori nel contesto dell’attuale pandemia da COVID-19 in un campione di 3.849 adulti tra i 18 e i 65 anni, prevalentemente femminile, giovane e mediamente istruito (De Sixte et al., 2021). In questa ricerca, gli autori si sono focalizzati sulla motivazione alla lettura abituale che “… denota la disponibilità relativamente stabile di una persona a iniziare particolari attività di lettura” (Schiefele et al., 2012, p. 429). Prima di esaminare in dettaglio i risultati dello studio, verranno discussi di seguito i principali studi nel campo della motivazione. È importante sottolineare che la maggior parte di questi studi fa riferimento al contesto educativo. Le letteratura di seguito esposta dovrebbe pertanto farci riflettere sull’importanza e la necessità di andare oltre al contesto educativo per indagare le motivazioni e le abitudini degli adulti in situazioni diverse da quelle generalmente esaminate.

Studi precedenti sulla motivazione alla lettura

Secondo Schiefele et al. (2012), la più importante distinzione nel costrutto della motivazione alla lettura è quella che si osserva tra la motivazione intrinseca ed estrinseca: la prima è definita come la volontà di leggere poiché si ritiene l’attività di lettura soddisfacente per sé; la seconda si riferisce alle situazioni in cui la lettura è motivata dalle conseguenze attese, come ad esempio ottenere risultati positivi o evitare quelli negativi (Wigfield & Guthrie, 1997; Becker et al., 2010; de Naeghel et al., 2012, 2014; Schiefele et al., 2012, 2016). Una delle teorie più accreditate sulla motivazione, la SDT (Self Determination Theory), postula che i due tipi di motivazione alla lettura possono essere ordinati su un continuum dell’autodeterminazione (Howard et al., 2017; Ryan e Deci, 2020) che varia da un’assenza di autodeterminazione a comportamenti parzialmente autodeterminati, fino a giungere ai comportamenti più autodeterminati. In tal senso, le motivazioni intrinseche sono sempre autodeterminate, mentre le motivazioni estrinseche possono essere categorizzate, lungo il continuum, come più o meno autodeterminate: si definisce così la regolazione esterna, introiettata, identificata e integrata (Ryan e Deci, 2019, 2020; Howard et al., 2021). La regolazione esterna si riferisce ai comportamenti guidati da ricompense e punizioni imposte dall’esterno (ad esempio, leggere per evitare una punizione); la regolazione introiettata si manifesta quando l’obiettivo è quello di ottenere l’approvazione di sé o degli altri, mentre la regolazione identificata e quella integrata sono le più autodeterminate tra le motivazioni estrinseche: gli individui sono guidati da una regolazione identificata quando i loro comportamenti sono coerenti con i loro valori e significati personali, a prescindere dal godimento che può derivare dall’attuazione del comportamento stesso; nella regolazione integrata, gli individui assimilano quel comportamento nel loro senso di sé in modo che quello stesso comportamento diventi parte pienamente congruente con la loro identità.

Tenendo conto di questo continuum, lo studio spagnolo si concentra sul tipo più autodeterminato di motivazione, ossia la motivazione intrinseca alla lettura, definita come il desiderio psicologico di eseguire dei comportamenti (leggere, in questo caso) al solo scopo di ottenere soddisfazione, piacere o eccitazione che derivano dall’attuazione del comportamento stesso (Ryan e Deci, 2019). In altre parole, la lettura è attività intrinsecamente motivante nella misura in cui soddisfa i bisogni psicologici di competenza e autonomia (Ryan e Deci, 2009).

Diversi studi hanno ormai confermato la relazione tra motivazione intrinseca alla lettura e il comportamento di lettura (Wang e Guthrie, 2004; Unrau e Schlackman, 2006; Law, 2008, 2009; Becker et al., 2010; Retelsdorf et al., 2011). Tale relazione indica che le persone che leggono per il piacere di leggere dedicano più tempo a questa attività, rispetto a persone estrinsecamente motivate. Altri studi hanno trovato che il genere gioca un ruolo importante nella relazione tra motivazione alla lettura e la frequenza e/o il tipo di lettura: le ragazze sono più intrinsecamente motivate a leggere, ciò è associato ad una maggior frequenza di lettura (de Naeghel et al., 2012). Inoltre, una maggiore motivazione intrinseca delle ragazze verso compiti accademici è positivamente correlata ai loro risultati e all’apprendimento (Ratelle et al., 2007; Vansteenkiste et al., 2009).

I risultati elencati sulla motivazione alla lettura e gli effetti del genere sembrano abbastanza convalidati. Tuttavia, in una situazione eccezionale come quella che stiamo sperimentando, potrebbero emergere altri fattori che influenzano la relazione tra motivazione, genere e abitudini di lettura. Alzueta e colleghi (2021), ad esempio, hanno analizzato l’impatto psicologico della pandemia in 59 paesi del mondo: una proporzione significativa di intervistati ha riportato sintomi di depressione e ansia, soprattutto tra donne e giovani adulti, probabilmente perché più vulnerabili agli effetti psicologici della pandemia come conseguenza di una maggiore esposizione ai media. Ancora, Guo e colleghi (2021) hanno evidenziato che la quantità di tempo che le persone trascorrevano sui social media a leggere informazioni riguardanti il COVID-19 rappresenta un predittore dello stress psicologico.

Gli effetti della pandemia sulla lettura

Alla luce degli studi menzionati e dell’importanza del distress in situazioni emotivamente salienti, la sfida di questa indagine spagnola consiste nell’esplorare la relazione tra motivazione intrinseca alla lettura e frequenza di lettura in tre momenti diversi: prima della pandemia, durante le prime settimane di lockdown e dopo qualche settimana di lockdown (De Sixte et al., 2021).

Nello specifico, gli autori ipotizzano una relazione positiva tra motivazione intrinseca alla lettura (IRM, Intrinsic Reading Motivation) e frequenza di lettura (RF, Reading Frequency) ossia che le persone con IRM più alta mostreranno maggiore RF rispetto a quelle che riferiscono una bassa IRM (Schiefele et al., 2012). Gli autori ipotizzano inoltre che la relazione tra IRM e RF sia più forte nella lettura per studio/lavoro e per svago, rispetto alla lettura di social e di news in quanto questi due tipi di lettura, considerate le ricerche precedenti, non sembrano essere i mezzi principali per soddisfare il piacere associato alla lettura stessa. Gli autori si pongono altresì l’obiettivo di indagare le differenze di genere: ipotizzano una IRM più alta nelle femmine rispetto ai maschi e pertanto si aspettano che le femmine trascorrano più tempo a leggere. Questo è uno studio condotto durante il periodo pandemico perciò si tiene conto della situazione di isolamento e del distress che gli individui hanno vissuto in questo momento. Gli autori si aspettano quindi che i fattori di distress condizionino in misura minore la RF nelle persone con maggiore IRM, soprattutto per la lettura per svago.

Per indagare la motivazione intrinseca alla lettura, gli autori hanno utilizzato una versione adattata del questionario SRQ -Reading Motivation (de Naeghel et al., 2012). La RF è stata indagata chiedendo ai partecipanti di ricordare quanto tempo ogni giorno dedicavano ai diversi tipi di lettura: lettura per svago, lettura per lavoro/studio, lettura di news e lettura dei social (Scales e Rhee, 2001; Torppa et al., 2020). I partecipanti hanno completato la scala precedente (frequenza di lettura per ogni tipo di lettura) tre volte: all’inizio, ricordando l’ultima volta (prima del lockdown) che avevano trascorso alcuni giorni a casa, ad esempio in vacanza o durante un fine settimana, successivamente hanno completato la scala ricordando le prime 2 settimane di lockdown ed infine hanno riflettuto sul periodo attuale, dopo che alcune settimane di lockdown erano passate.

Per indagare il distress è stata utilizzata la subscala del personal distress (PD) dell’Interpersonal Reactivity Index (IRI) (Davis, 1980) adattata e convalidata in spagnolo (Escrivá et al., 2004).

Per quanto riguarda le prime ipotesi, in linea con le aspettative teoriche e gli studi citati, i dati dimostrano che i partecipanti con maggiore IRM investono più tempo nella lettura rispetto ai partecipanti con IRM inferiore (Schiefele et al., 2012). Questa relazione si è mantenuta in tutti i momenti: prima, all’inizio e dopo qualche settimana di lockdown. Per quanto concerne il tipo di lettura, le relazioni più forti tra IRM e RF si osservano nella lettura per svago e per lavoro/studio. Questo può significare che questi tipi di lettura riescono meglio a soddisfare i bisogni di competenza e di autonomia (de Naeghel et al., 2012). Al contrario, questo effetto si mostra più debole per quanto concerne la lettura di notizie, almeno nella situazione di confinamento analizzata. Il fatto che la lettura di notizie non è stata influenzata così tanto dall’IRM potrebbe indicare che la lettura di notizie può soddisfare la persona solo per la sensazione di essere informata, non per la lettura in sé. Parallelamente, la relazione tra la lettura dei social e l’IRM era negativa. È possibile che la lettura dei social faciliti un senso di appartenenza in alcune situazioni (Pintrich e Schunk, 2006), ma potrebbe non rappresentare il metodo più appropriato per soddisfare tale bisogno. Infatti, tutti i partecipanti hanno ridotto il loro tempo dedicato alla lettura dei social dopo qualche settimana di lockdown. Per gli individui che amano la lettura in sé, sembra logico dedicare il loro tempo libero alla lettura (che è quella con più forte relazione positiva con l’IRM in questo studio), poiché tale attività potrebbe essere il tipo di lettura più appropriato per soddisfare la motivazione di leggere e basta, senza altri scopi, quale l’essere informati o connettersi con altre persone.

Anche la seconda ipotesi risulta confermata: le femmine erano più intrinsecamente motivate a leggere rispetto agli uomini, come dimostrato anche da altri studi (Ratelle et al., 2007; Vansteenkiste et al., 2009). A questo proposito, precedenti ricerche hanno suggerito la possibilità che le donne con maggiore motivazione autonoma potrebbero essere più efficienti nell’investire il loro tempo per concentrarsi sui loro studi (per esempio, Vallerand et al., 1997). Questo può spiegare perché le donne di questo studio hanno mostrato una RF più alta per studio/lavoro rispetto agli uomini, prima del lockdown. I maschi invece hanno mostrato un RF più alta per il lavoro/studio rispetto alle femmine nelle prime settimane di lockdown, a condizione che presentassero un’alta IRM. Questo dato è molto interessante, poiché suggerisce che le differenze di genere nella RF possono essere influenzate dal contesto, in questo caso di lockdown.

Infine, in riferimento alla terza ed ultima ipotesi, la motivazione intrinseca alla lettura sembra giocare un ruolo diverso nel comportamento di lettura quando si considera il distress e il tipo di lettura. Nel caso specifico della lettura per studio/lavoro, il distress sembra ridurre la RF anche se gli individui hanno un’alta IRM: è possibile pensare che l’interazione tra il distress e il contenuto di queste letture in qualche modo prevalga sul peso della motivazione intrinseca. Per quanto concerne la lettura di social e di news, le persone con alta IRM leggono di più quando entra in gioco il distress. Per il tipo di lettura dei social, tale interazione può essere spiegata dalla potenziale dipendenza che i social media possono creare in situazioni di stress come la pandemia da COVID-19 (Zhao e Zhou, 2021). Per quanto riguarda la lettura di notizie invece, allo stesso livello di motivazione e stress, il tempo dedicatovi sembra avere un impatto sul comportamento di lettura. È possibile che, all’inizio del lockdown, le persone fossero più motivate a leggere le notizie per il bisogno di percepire un certo controllo o autonomia in un contesto in cui iniziavano a non averne. Questo effetto cessa man mano che il confinamento progredisce. Dai risultati descritti, sembra quindi che il distress abbia un impatto diverso a seconda del tipo di lettura che si considera: quando l’attività non rappresenta una richiesta o un’esigenza (per esempio, lettura dei social o per studio/lavoro) o non è legata a stimoli stressanti (per esempio, la lettura di news), la motivazione intrinseca alla lettura rappresenta una protezione contro il distress. Tuttavia, quando il tipo di lettura è più impegnativo, il distress ha un impatto negativo e possono verificarsi eventi paradossali, come i risultati di questo studio che mostrano come i partecipanti con IRM più alta per la lettura di studio/lavoro dedicano meno tempo a quel tipo di lettura se presenti elevati livelli di distress.

Conclusioni

Concludendo, i risultati indicano che i comportamenti di motivazione intrinseca e, come tali, autodeterminati, hanno un impatto positivo durante i periodi di chiusura obbligatoria. In tal senso, le persone con una più alta IRM sono riuscite a proteggere le loro abitudini di lettura indipendentemente dal contesto stressante che l’attuale pandemia ha rappresentato. Tuttavia, non tutti i tipi di lettura riescono a soddisfare le esigenze di base associate all’IRM. Come dimostra questo studio, in alcuni casi, un’alta IRM è collegata ad una più alta RF ma anche ad un più alto livello di distress. Quando la lettura comporta richieste o esigenze da parte del lettore e viene eseguita in un ambiente stressante come l’isolamento, la relazione tra IRM e RF può non essere necessariamente positiva, poiché un aumento di RF può essere associato ad un maggiore distress e, quindi, ad un minore benessere.

Questi risultati suggeriscono la necessità di indagare queste variabili al di là di un contesto educativo. La motivazione alla lettura è un tema molto affrontato nel contesto della ricerca educativa, ma sarebbe interessante rivolgere l’attenzione a popolazioni adulte e ad altri contesti. I risultati di questo studio sottolineano l’importanza dello sviluppo di una motivazione intrinseca alla lettura fin dalla più tenera età: essa ha impatti positivi sull’apprendimento e sul rendimento, e nei contesti che vanno al di là del contesto educativo, ossia in tutte quelle situazioni legate alla salute, al benessere degli individui e alla capacità di gestire situazioni stressanti o difficili.

 

ACT: Acceptance and Commitment Therapy (2020) di Paolo Moderato, Giovambattista Presti, Francesco Dell’Orco – Recensione

L’Acceptance and Commitment Therapy (ACT), come in molti ben sanno, è un intervento psicoterapico di ultima generazione.

 

Alcuni anni fa, durante una lezione all’istituto di psicoterapia con il Prof. Miselli, citato nel libro, ho avuto la possibilità di affacciarmi all’ACT. Sono subito rimasta affascinata da tale approccio che definirei, in poche parole, profondo e autentico.

Ritengo che questo testo sia uno dei vari manuali indispensabili per svolgere un lavoro così complesso e delicato come quello dello psicoterapeuta.

ACT significa “Acceptance and Commitment Therapy”, ossia “terapia dell’accettazione e dell’impegno”. Ovviamente, come dico spesso ai pazienti che seguo, il termine “accettare” ha una connotazione piuttosto negativa in italiano rispetto all’inglese, tanto che il libro offre un sinonimo più adatto: lasciare spazio. Anche se smettere di cercare di allontanare ciò che non piace, piuttosto che lasciargli spazio, solitamente non è un processo automatico, aiuta a crescere. È così che questo tipo di intervento psicoterapico insegna alle persone a smettere di combattere contro se stesse, ossia contro i propri stati d’animo, le parti di sé che non accettano, le emozioni che non tollerano, ecc., per evolvere.

Il termine “impegno” si riferisce invece a delle vere e proprie azioni finalizzate ad andare incontro a ciò che conta davvero nella propria vita. Qui ci colleghiamo ai valori, quindi a ciò che dà importanza alla nostra esistenza. Si tratta pertanto di allinearsi con se stessi, cosa tutt’altro che scontata in un mondo così caotico e capace di mettere a dura prova la nostra attenzione. Ogni persona infatti, chi più e chi meno, rema contro se stessa mettendo in atto i cosiddetti “evitamenti”. Si tratta di strategie disfunzionali che in alcuni casi precludono addirittura la possibilità di vivere una vita soddisfacente, mentre in altri casi sono soltanto limitanti. Se bastasse sapere che affrontando si smette di evitare, ci riuscirebbero facilmente tutti, ma non è così automatico e nemmeno semplice. Ciascuno di noi nella quotidianità mette in atto evitamenti che, con un po’ di pratica, può imparare a riconoscere e superare. Ad esempio io evitavo di preparare tale recensione con l’idea che potrebbe non essere abbastanza esaustiva, ma poi, come vedete, l’ho fatta!

Il manuale inizialmente spiega in modo molto esaustivo che cosa è l’ACT per poi approfondire i concetti chiave, concetti che richiedono pratica in quanto è come imparare un nuovo sport. Non è infatti sufficiente spiegare verbalmente a un paziente che cosa deve fare affinché possa apprendere delle nuove abilità, esattamente come non è sufficiente spiegare solamente la teoria a una persona che intende imparare a sciare.

Tramite l’ACT il paziente ha infatti modo di fare pratica perché viene istruito e modellato dal terapeuta, nonché rinforzato automaticamente quando comprende le conseguenze benefiche derivate dalle sue azioni. Diventare persone più flessibili, capaci di vivere in linea con i propri valori e di osservare i pensieri prodotti automaticamente dal cervello senza diventarne parte, sono alcuni dei principali vantaggi che si possono acquisire tramite l’utilizzo dell’approccio ACT.

Una delle parti del testo che ritengo fondamentali riguarda il clima relazionale; viene messa in luce la possibile difficoltà del terapeuta del restare nel presente, in contatto aperto e compassionevole col paziente, come sarebbe invece opportuno. Ci sono numerosi spunti di riflessione utili a migliorare il proprio operato. Per concludere trovo che questo manuale sull’ACT, terapia con efficacia scientifica, sia un fondamento importante per i terapeuti che tendono a utilizzare un approccio integrato.

Anziani e adulti in età lavorativa a confronto: chi risponde meglio al trattamento psicologico?

La letteratura sostiene una simile efficacia tra gli anziani e gli adulti in età lavorativa degli interventi psicologici per la depressione, sebbene gli anziani potrebbero beneficiare meno di un trattamento specifico per i disturbi d’ansia.

 

Un quarto degli anziani sopra i 65 anni, soffre di un disturbo mentale depressivo o ansioso (Evans & Mottram, 2000; Gowling et al., 2016) particolarmente associato a questa età ad esiti negativi, come deterioramento cognitivo, demenza (Byers & Yaffe, 2011; Kazmi et al., 2021) e mortalità precoce (Saz & Dewey, 2001).

Sebbene la terapia cognitivo comportamentale (CBT) si sia dimostrata efficace (NICE, 2011), comportando meno effetti collaterali negativi dell’impiego di psicofarmaci (Carvalho et al., 2016), in molte parti del mondo, gli antidepressivi vengono impiegati più delle terapie psicologiche per il trattamento di ansia e depressione (Maust et al., 2017; Tamblyn et al., 2019), soprattutto tra gli anziani (Sanglier et al., 2011).

Probabilmente, alla base vi è la convinzione tra i medici che gli interventi psicologici in questo gruppo di pazienti siano meno efficaci (Mental Health Taskforce, 2016), mentre dall’altra parte sono gli stessi anziani che non credono di poter beneficiare della psicoterapia (Laidlaw et al., 2008).

Un confronto tra anziani e adulti in età lavorativa

La letteratura sostiene una simile efficacia tra gli anziani e gli adulti in età lavorativa degli interventi psicologici per la depressione (Cuijpers et al., 2018), sebbene gli anziani potrebbero beneficiare meno di un trattamento specifico per i disturbi d’ansia (Gould et al., 2012). Ulteriori indagini non sono state in grado di valutare l’impatto dell’età sull’esito della psicoterapia (Cuijpers et al., 2018) a causa del ridotto campione di studio e l’impossibilità di generalizzare i risultati perché studiati in contesti differenti. In generale, le prove sull’efficacia dei trattamenti psicologici di routine per gli anziani è limitata.

Eventuali differenze negli esiti delle terapie psicologiche tra anziani e adulti in età lavorativa, possono essere ricondotte alle condizioni di salute a lungo termine tra gli anziani, come l’artrite, il diabete, l’ipertensione, i problemi cardiaci e le malattie polmonari, tutte associate a menomazioni funzionali e impattanti sulla terapia (Callahan, 2001; Laidlaw et al., 2008). Queste problematiche vengono spesso diagnosticate in comorbilità ai disturbi mentali depressivo e ansiosi (Djernes, 2006), che possono insorgere dopo o essere già presenti, aumentando il rischio di prognosi infausta (Callahan, 2001).

Una ragione per cui gli anziani che afferiscono ai servizi di salute mentale abbandonano la terapia potrebbe rimandare alla presenza di tali condizioni fisiche comuni nella tarda età, che spiegano i peggiori esiti di trattamento rispetto alla popolazione di adulti in età lavorativa.

Valutazioni recenti effettuate nei servizi di trattamento psicologico in Inghilterra, dimostrano come gli over 65 abbiano tassi di recupero significativamente più alti (64,4%) dopo la terapia psicologica rispetto agli adulti in età lavorativa (50,2%) (Callahan, 2001).

A fronte di una previsione dell’aumento di circa il 60% degli over 65 entro il 2030 (He et al., 2016), è necessario comprendere l’efficacia della psicoterapia routinaria per gli anziani affetti da depressione ed ansia.

Anziani e psicoterapia: esiti post trattamento

Saunders et al. (2021) hanno valutato le differenze negli esiti post trattamento tra i pazienti più anziani (over 65 anni) e gli adulti in età lavorativa affetti da ansia e depressione, entrambi trattati con terapie psicologiche evidence based (come auto-aiuto guidato, terapia cognitivo-comportamentale o consulenza; Clark, 2018). Inoltre, è stato valutato l’impatto della comorbilità con una condizione fisica a lungo termine sull’esito della terapia.

Rispetto al campione totale (N= 100 179), le persone anziane che sono afferite tra il 2008 e il 2019 ai servizi di salute mentale in Inghilterra, erano solo il 3,8% e piuttosto sottorappresentate (Office of National Statistics, 2021). Complessivamente, le condizioni di disagio mentale riportate dagli over 65, erano meno gravi rispetto a quelle emerse negli adulti in età lavorativa. Inoltre, rispetto agli adulti più giovani, avevano una probabilità di 1,33 volte superiore di ottenere un recupero affidabile post trattamento, mentre il rischio di peggioramento era alquanto basso.

Sebbene la ricerca suggerisca che la presenza negli anziani di una condizione problematica di salute insorta in età tardiva in concomitanza ad una psicopatologia ansiosa o depressiva influisca negativamente a livello psicologico (Callahan, 2001), sorprendentemente, questa indagine ha riscontrato differenze minime negli esiti post trattamento tra gli over 65 con e senza una patologia fisica. Inoltre, l’impatto psicologico era maggiore tra gli individui in età lavorativa, che avevano ottenuto un recupero funzionale minore rispetto agli anziani. Il miglioramento era maggiore tra gli anziani con problematiche fisiche in comorbilità con un disturbo d’ansia per il quale richiedevano il trattamento.

Ne consegue che una patologia fisica concomitante non dovrebbe essere considerata un ostacolo all’ingresso di anziani in trattamento e nel raggiungimento di esiti psicologici favorevoli. Viceversa si tratta di una condizione più delicata per gli adulti in età lavorativa. Probabilmente, gli anziani sono in grado di adattarsi meglio alle condizioni fisiche avverse insorte in tarda età rispetto agli adulti più giovani, nei quali l’insorgenza di tali problematiche è certamente più inaspettata.

È emerso che il campione di anziani aveva una probabilità maggiore di ricevere interventi ad alta intensità ed una valutazione più dettagliata in fase preliminare che, rispetto agli adulti in età lavorativa, garantiva loro un intervento maggiormente su misura. Nonostante abbiano ricevuto meno sessioni, gli esiti positivi ottenuti dagli anziani enfatizza il valore di un trattamento che sia al contempo informato.

Sebbene da un lato alcuni medici ritengano che la psicoterapia per l’ansia e la depressione siano meno efficaci negli anziani (Mental Health Taskforce, 2016), e dall’altro gli anziani stessi credano di non beneficiarne (Laidlaw et al., 2008), i risultati dell’attuale studio sono preziosi nel contribuire a disconfermare la credenza che gli anziani siano intrinsecamente inflessibili e incapaci di cambiare.

Riuscire ad esplorare ed abbattere i potenziali ostacoli nei medici e negli stessi anziani per l’accesso ai servizi di cura, offrendo al contempo un supporto adatto alla persona, aumenterebbe l’accesso alla terapia psicologica per questa fascia delicata della popolazione.

Sarebbe interessante che la futura ricerca indaghi quali interventi si adattano al meglio alle condizioni fisiche insorte nella tarda età, per ridurre il rischio di ricaduta post trattamento e favorire una prognosi più favorevole.

Sticazzi, la suprema via della leggerezza – Recensione del libro

In un testo sincero ed aperto, l’autore ci espone la sua personale filosofia di vita. Non delle più bon ton, il mantra dello “sticazzi” diventa un refrain liberatorio ed emancipante.

 

Sono molte le barriere che una società, specialmente una da sempre avversa al rischio come quella italiana, impone ai suoi figli. Ogni tanto c’è bisogno di prendere le distanze rispetto alle aspettative, alle paure, separare quello che veramente conta per noi e cosa invece si può lasciare correre.

Il metodo “sticazzi” può essere usato, un po’ come il parmigiano, per spolverare le situazioni più varie della quotidianità e della vita, ma attenzione: non per ribellarsi mandando tutti a quel paese, ma per comprendere, liberare se stessi e rendere un piatto più buono, saporito, nutriente.

Mi perdonerà l’autore, chiaramente romano, per aver citato il parmigiano e non il pecorino. Il che ci rimanda direttamente al capitolo 4, nel quale l’autore ci racconta, purtroppo senza dovizia di particolari, come applicando il metodo “sticazzi”, cito testualmente: “ho avuto moltissimi rapporti occasionali”.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO L’IMMAGINE:

Sticazzi 2021 di Andrea Pietrangeli Recensione del libro Fig 1

 

In questo periodo molti hanno avuto modo, o sono stati costretti, a fermarsi e riconsiderare se la propria vita quotidiana corrisponda a quello che davvero vogliono. Il libro di Pietrangeli può essere un simpatico test, per vedere quanto siamo in fase con noi stessi e i nostri valori e anche una guida, leggera, per vivere più serenamente.

Personalmente in certe parti l’ho trovato un po’ diretto, nel senso che l’autore dice “é cosi, te lo garantisco” (non testuale). Ma la filosofia “Sticazzi” consiste proprio nel farsi scivolare addosso questo genere di dichiarazioni prescrittive; è ok prenderne atto, ma anche giusto e lecito metterci la dovuta distanza per osservarle da fuori. È in effetti uno strumento molto potente.

 

Vaccino anti Covid-19: una riflessione sul funzionamento della mente in situazioni critiche

Nel momento storico attuale il tema principale è il vaccino anti COVID-19 e anch’esso ha portato con sé implicazioni che dobbiamo affrontare.

 

Questo articolo propone una riflessione sul possibile funzionamento della nostra mente quando ci troviamo ad affrontare eventi critici, che potrebbero innescare alti livelli di tensione emotiva. La pandemia COVID-19 ha rappresentato e rappresenta a tutti gli effetti un evento critico; profonde conseguenze si sono verificate progressivamente su ogni aspetto della nostra vita, ogni campo della nostra esistenza è stato travolto da significativi e dolorosi cambiamenti.

Nel momento storico attuale il tema principale è la vaccinazione anti COVID-19 e anch’essa ha portato con sé implicazioni che dobbiamo affrontare. Le istituzioni sono impegnate da mesi a raggiungere, attraverso la vaccinazione di massa, l’immunità di gruppo, che appare essere l’unica soluzione per sconfiggere il COVID-19. L’approvazione dei vaccini da parte dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) e dell’EMA (Agenzia Europea per i Medicinali), i dati scientifici divulgati, l’appello alla responsabilità civile, i miti anti-vaccinali sfatati e, in ultima battuta, l’introduzione del green pass, hanno diminuito in parte il numero delle persone che non intendono vaccinarsi, senza però, purtroppo, azzerarlo. È interessante, a tale riguardo, poter far luce e riflettere sui potenziali meccanismi di funzionamento della mente in questa peculiare situazione. In particolare, l’attenzione viene qui posta sul funzionamento della mente borderline (Cancrini, 2006; Kernberg, 1984) e di come essa possa attivarsi in situazioni che percepiamo come avverse e che generano elevati livelli di tensione.

Il funzionamento della mente borderline è caratterizzato dal fornire giudizi estremi (“o bianco o nero”) su noi stessi e sulla realtà esterna; tale meccanismo di difesa è conosciuto come scissione. La mente che presenta questo meccanismo giudica tutto buono o tutto cattivo, senza nessuna sfumatura, ha difficoltà a intercettare i gradi di positività e negatività di una persona o di un oggetto esterno (Cancrini,2006; Kernberg, 1984). La mente funziona in questo mondo per il bambino fino ai 15-21 mesi: una madre presente è la nutrice buona e disponibile che lo rende felice e riconoscente, mentre una madre assente viene vissuta come cattiva e lo rende pieno di rabbia e di odio. È soltanto verso i 3 anni, quando il piccolo può ricordare con chiarezza la madre che c’era e immaginare quella che ci sarà, che questa fase critica ha termine. Il superamento dell’angoscia di separazione segnala la raggiunta stabilità con l’oggetto d’amore; essa indica la capacità acquisita del bambino di integrare l’immagine della madre cattiva (assente) con quella buona (presente), preparandolo agli aspetti maturativi della separazione che seguirà la sua reale nascita psicologica (Mahler et al., 1975).

Nello sviluppo normale, la capacità di integrare le rappresentazioni buone e cattive aumenta gradualmente con l’età e dovrebbe raggiungere i massimi livelli nell’età adulta. Gli individui maturi fondano il loro equilibrio sulla consapevolezza profonda della propria e altrui imperfezione, possono interrogarsi con sospetto (“mi sto arrabbiando troppo?”), con ironia (“forse mi sto arrabbiando troppo”) o con aperto compiacimento (“quando vado allo stadio posso arrabbiarmi o entusiasmarmi troppo”) allo sviluppo di emozioni unilaterali (“tutto bianco” o “tutto nero”). La tendenza a regredire verso posizioni più primitive, tuttavia, può presentarsi in situazioni di particolare tensione, come nei passaggi evolutivi critici (preadolescenza, adolescenza, nascita di un figlio, etc.), nel momento del lutto e della perdita (cui si reagisce, per un lasso di tempo, in modo borderline), negli entusiasmi basati sull’identificazione proiettiva con un ideale, nell’innamoramento (Cancrini, 2006).

Il funzionamento della mente borderline è un riflesso difensivo molto significativo nella misura in cui consente al singolo e al gruppo di darsi una spiegazione di quello che sta accadendo evitando lo smarrimento depressivo di chi è sopraffatto da eventi “incomprensibili”. Ciò non esclude che possano esserci singoli o gruppi di persone che riescono a mantenere un funzionamento normale anche in situazioni caratterizzate da alti livelli di tensione, che vivono esprimendo un dubbio o una mancanza di certezze su ciò che sta realmente accadendo. Se la crisi vissuta è particolarmente intensa e drammatica, se le pressioni esterne sono particolarmente forti, può accadere che gli individui vengano travolti da ondate di funzionamento borderline, cercando di trovare rinforzi positivi per le proprie convinzioni e per i propri atteggiamenti. Coloro che esprimono dei dubbi vengono rapidamente assimilati a dei nemici. Si potrebbe, a questo punto, osservare l’utilizzo del meccanismo di difesa dell’idealizzazione per quanto riguarda l’interno (chi appartiene alla stessa corrente di pensiero) e di svalutazione per l’esterno (coloro che non vi aderiscono). L’esterno e l’interno appaiono, in tal modo, scissi e viaggiano su binari estremi opposti: il “buono” e il “cattivo”. Tale pervasività di funzionamento borderline è un fenomeno che tende ad autoalimentarsi. Mentre nelle situazioni in cui la crisi e la tensione viene sperimentata in modo meno drammatico, una parte cospicua di persone e di gruppi riesce a mantenere la propria capacità di riflessione e può opporsi in modo funzionale allo sviluppo di un’ulteriore pervasività del funzionamento borderline, in quest’ultimo caso ad autoalimentarsi è la tendenza a organizzare un pensiero maggiormente strutturato. Quello che appare più verosimile, e che trova conferma negli studi di Freud (1921) sulla psicologia delle masse, è l’idea che in tali circostanze si stabilisca una regressione a livelli primitivi di funzionamento di un numero rapidamente crescente di individui che si “contagiano” l’uno con l’altro. Il rinforzo della regressione è connesso ai messaggi che provengono dallo schieramento opposto all’interno di sequenze comunicative caratterizzate dalla escalation progressiva dei toni, delle minacce, delle accuse e delle aggressioni reciproche (Cancrini, 2006).

Tale funzionamento della mente borderline potrebbe essersi attivato di fronte all’evento critico della pandemia e, in particolare, nel caso della vaccinazione anti COVID-19: le tensioni emotive a cui siamo soggetti potrebbero aver attivato un funzionamento mentale primitivo, legato a meccanismi difensivi arcaici, come quello della scissione, dell’idealizzazione e della svalutazione, lasciando, in tal modo, poco spazio a un funzionamento psichico più maturo, caratterizzato da un pensiero maggiormente strutturato e non soggetto a giudizi totalizzanti. Risulta, a mio avviso, pertanto importante poter effettuare una lettura complessa del fenomeno della vaccinazione che prenda in esame anche i risvolti psicologici e il potenziale funzionamento mentale sottostante, in modo tale che questa lettura possa essere una guida e un ausilio ai potenziali interventi da mettere in opera in questo delicato momento storico.

 

Il concetto di olobionte umano-microbiota e l’effetto imbuto dei telomeri

Il concetto di olobionte implica una mente umana quale sistema integrato che, non solo cerca di soddisfare le teleonomie bio-psico-sociali implementate dal DNA della specie umana, ma include anche le teleonomie dell’ecosistema.

 

Il settore scientifico del microbiota ha fatto emergere la necessità di introdurre il concetto di olobionte mentre la scienza dei telomeri ha evidenziato la natura convergente di molti aspetti psicofisici umani. La mente, in questo scenario complesso, assume un ruolo nuovo di mediatore tra esigenze bio-psico-sociali umane e degli altri microorganismi che ospitiamo.

Abstract

L’epigenetica e lo studio del microbiota supportano il concetto di olobionte cioè di organizzazione formata da un ecosistema di agenti biologici che non condividono il medesimo DNA, ma che interagiscono simbioticamente al fine di massimizzare la fitness dell’unità globale. In questo contesto la velocità di consumo dei telomeri, le strutture cromosomiche che determinano la nostra longevità e qualità di vita complessiva, assumono un significato nuovo e ancora più complesso. Mentre il concetto relativo l’“effetto imbuto” (detto anche “a collo di bottiglia”) dei telomeri ben rappresenta la dinamica estremamente convergente ed in parte indipendente delle teleonomie umane e non, la mente assume il ruolo di spazio in cui queste eterogenee teleonomie convergono in maniera integrata per essere negoziate all’interno dei processi decisionali umani.

Il microbiota

Sulla nostra pelle, all’interno della nostra bocca e delle vie respiratorie, ma soprattutto nell’intestino, il complesso ecosistema di microorganismi con un DNA diverso dal nostro chiamato microbiota svolge un ruolo fondamentale ed indispensabile per la nostra salute e la nostra sopravvivenza.

Seppur largamente sottostimato fino a pochi anni fa anche dalle scienze biomediche, oggi sappiamo finalmente che dalle funzioni digestive a quelle metaboliche o immunitarie, il microbiota è essenziale per il funzionamento del nostro organismo sia nei suoi aspetti più strettamente fisiologici che psicologici.

Il ruolo e l’impatto del microbiota, ossia l’insieme di microorganismi (batteri, virus e funghi) che coabitano con le nostre cellule, finora non ha mai trovato il suo reale spazio logico perché fino a pochi anni fa era considerato solo come un insieme di agenti biologici tollerati dal nostro organismo, ma che parassitavano le cellule umane senza apportare alcun beneficio.

Attualmente, in considerazione delle conoscenze emerse dal settore del microbiota, occorre cambiare paradigma per incorporare le teleonomie espresse da questo vasto ecosistema che vive in simbiosi con le cellule umane, soprattutto perché siamo sempre più coscienti che la loro interazione con le teleonomie bio-psico-sociali che caratterizzano la specie umana è fondamentale ed imprescindibile (Agnoletti, 2021a).

Il microbiota risulta indispensabile per capire l’eziologia di molte problematiche di natura sia fisiologica (si veda ad esempio la celiachia, l’obesità o la colite ulcerosa) che psicologica come l’ansia, la depressione e molte psicopatologie quali l’autismo, la schizofrenia, etc. (Caio et al., 2019; Cheung et al., 2019; Kelly et al. 2016; Li & Zhou, 2016; Foster & McVey Neufeld; 2013; Garrett et al. 2007; Koenig et al., 2011; Mangiola et al., 2016; Ottman et al., 2012; Rodrigues-Amorim et al., 2018; Sharon et al., 2019; Simpson et al., 2021).

Questa considerazione comporta dei cambiamenti piuttosto radicali dei paradigmi delle scienze biomediche e psicologiche perché aumentano notevolmente la complessità dei fenomeni da analizzare, anche se offre contemporaneamente tutta una serie originale di processi esplicativi finora mai considerati scientificamente (Agnoletti, 2021b; Agnoletti, 2021c).

L’olobionte

In passato, anche prima di quella che viene attualmente chiamata “microbiota revolution” per il suo forte impatto sulle scienze biomediche, alcuni biologi evoluzionisti e microbiologi avevano già sentito l’esigenza di parlare di “olobionte”, per meglio descrivere un organismo caratterizzato dalla convivenza simbiotica di agenti biologici che non condividono lo stesso DNA.

La famosa biologa Lynn Margulis propose in passato la teoria dell’endosimbiosi in riferimento soprattutto a strutture biologiche intracellulari (si veda ad esempio il ruolo dei mitocondri), introducendo anche il concetto di olobionte come entità in cui vari organismi cellulari che non possiedono lo stesso DNA condividono una prossimità spaziale e funzionale, pur mantenendo una propria autonomia cellulare (non si trovano cioè all’interno della stessa cellula come nel caso dell’endosimbiosi).

Il concetto di olobionte implica necessariamente una mente umana quale sistema integrato che, non solo cerca di soddisfare le teleonomie bio-psico-sociali implementate dal DNA della specie umana, ma include anche le teleonomie dell’ecosistema rappresentato dall’insieme di microorganismi del microbiota che non condividono il nostro DNA ma che globalmente possiamo considerare all’interno un’unità olobiontica (Agnoletti, 2021b).

Un esempio pratico di questa interazione complessa e bidirezionale può essere rappresentato dal fatto che, ad esempio, una corretta quantità di serotonina o dopamina può non essere sintetizzata in una situazione disbiotica (di perdita cioè dell’equilibrio stabilito nel microbiota) con tutte le conseguenze esperienziali, motivazionali ed emotive del caso, così come la consapevolezza di alcune conoscenze riguardo gli stessi argomenti di questo scritto può condurre a decidere di alimentarsi in una maniera favorevole al ristabilirsi di una situazione eubiotica (in cui si recupera l’equilibrio all’interno del microbiota introducendo il Lactobacillus Rhamnosus) riportando quindi vantaggi anche a livello psicologico.

È chiaro quindi che il ripristinare un certo tipo di benessere psicologico passi inevitabilmente dal considerare e favorire la teleonomia di alcuni ceppi specifici di batteri, decidendo di effettuare delle scelte alimentari (intervenendo quindi a livello mentale) favorevoli la loro proliferazione.

La transizione da una teleonomia all’altra (rispettivamente da quella biologica di specie microbiotiche a quella biologica umana a quella psicologica e culturale e “ritorno”) è necessaria, in questo esempio, per descrivere la dinamica complessiva del fenomeno.

Il legame tra olobionte e telomeri

Se da una parte il microbiota richiama il concetto di olobionte implicando una visione della mente quale dominio dove le varie teleonomie convergono per essere continuamente negoziate al fine di ottimizzare la fitness complessiva, l’altrettanto recente scienza dei telomeri ci offre un punto di vista diverso e sotto certi aspetti ancora più sfidante, perché rappresenta un altro luogo dove convergono tutte queste teleonomie.

In estrema sintesi i telomeri sono il nostro orologio biologico perché la loro lunghezza determina la nostra aspettativa di vita residua nel senso che la lunghezza assoluta di queste strutture molecolari che si trovano sulle estremità terminali dei nostri cromosomi definiscono la nostra longevità e, di conseguenza, la nostra probabilità di sviluppare problematiche e malattie legate all’invecchiamento cellulare.

La letteratura esistente relativa alla scienza dei telomeri evidenzia che diversi fattori incidono quantitativamente sulla dinamica che determina l’attivazione degli enzimi della telomerasi (gli enzimi responsabili della ricostruzione strutturale dei telomeri stessi).

Queste “macchinette” biologiche sono deputate a ricostruire i telomeri contrastando, almeno in parte, il fisiologico consumo e quindi l’invecchiamento globale cellulare e dell’intero organismo.

Più è efficace il lavoro di manutenzione fatto sugli stessi telomeri per opera della telomerasi, più lunga è la vita residua della cellula e migliore sarà la sua fitness globale.

Per la stessa logica, minore è la lunghezza assoluta dei telomeri, più la cellula tenderà ad avere problemi d’invecchiamento fino al punto limite in cui i telomeri, non riuscendo più a soddisfare il loro ruolo strutturale nei confronti del resto del cromosoma, avviano il processo di disgregazione decretando il declino irreversibile di tutta la struttura e la funzione cellulare (Andrews & Cornell, 2017; Blackburn, 2010).

Dopo una certa soglia specifica, pari a circa 5000 basi azotate, l’accorciamento telomerico predispone quindi a molte malattie di natura cardiocircolatoria, immunitaria ed oncologica (Prinz, 2011).

L’invecchiamento cellulare determinato dalla lunghezza dei telomeri ha quindi una proprietà plastica “esperienza dipendente” nel senso che può essere accelerato o rallentato in base alla tipologia di esperienza epigenetica che influenza l’attività della telomerasi e, in ultima analisi, della lunghezza assoluta dei telomeri.

I fattori responsabili dell’accelerazione od il rallentamento dell’attività della telomerasi, e quindi dell’invecchiamento cellulare, sono stati ben identificati dalla letteratura scientifica.

La nutrizione, l’attività motoria, la qualità del sonno, della rete sociale che percepiamo ed il benessere psicologico, contribuiscono tutti a modificare l’attività della telomerasi (in senso positivo o negativo) influenzando in ultima analisi la lunghezza assoluta dei telomeri.

In altre parole gli aspetti psicologici, motori, del sonno, nutrizionali e relativi le relazioni sociali hanno la medesima capacità di modificare le dinamiche della telomerasi e quindi della lunghezza assoluta dei telomeri determinando la longevità potenziale residua dell’organismo intero.

Tutti questi fattori sociologici, psicologici, fisiologici, nutrizionali e motori, con le loro rispettive teleonomie, “bersagliano” quindi in maniera convergente ed almeno in parte indipendente i telomeri perché tutte queste “esperienze” epigenetiche vengono “tradotte” in codici biologici che si esprimono, in ultima analisi, in termini di attività della telomerasi.

Quanto appena descritto sottolinea chiaramente la natura almeno in parte indipendente e convergente che coinvolge molti livelli delle nostre teleonomie bio-psico-sociali e che hanno importanti implicazioni pratiche relative il nostro benessere psicofisico (Agnoletti, 2018a; Agnoletti, 2018b).

Ho chiamato “effetto imbuto” o “effetto collo di bottiglia” telomerico questa dinamica dei telomeri appunto per descrivere l’evidente convergenza di molti processi parzialmente indipendenti, che influenzano l’attività della telomerasi, determinando cambiamenti nella longevità e nella qualità di vita cellulare.

Le implicazioni, anche cliniche, di questo concetto sono rilevanti per quanto riguarda il benessere psicofisico e la salute umana e rappresentano un cambiamento piuttosto radicale rispetto gli standard applicati attualmente (Agnoletti, 2018b; Agnoletti, 2019).

Nel contesto descritto precedentemente, che prevede il concetto di olobionte caratterizzato dalla convivenza di teleonomie umane e relative i microorganismi del microbiota, il livello d’analisi dei telomeri rappresenta uno spazio particolare dove il grado di negoziazione tra queste diverse teleonomie viene in qualche modo sintetizzato sia attraverso l’attività della telomerasi che attraverso la lunghezza totale dei telomeri.

Risulta particolarmente importante sottolineare il fatto che questo livello di analisi è oggettivo e già misurabile in maniera sufficientemente affidabile, anche se è prevedibile che nel prossimo futuro si svilupperà una ancora maggiore precisione ed affidabilità.

Quindi riassumendo abbiamo uno spazio mentale (conscio e non), dove le teleonomie umane e non umane si incontrano per essere negoziate globalmente all’interno dei processi decisionali che dirigono i nostri comportamenti, ed uno spazio rappresentato dai telomeri, dove queste scelte vengono sostanziate in termini di fitness biologica di tutte queste scelte globali.

Lo spazio psicologico umano è il dominio caratterizzato dall’incontro dell’oggettività e della soggettività, dall’incontro delle dinamiche che caratterizzano la nostra specie, così come le particolarità individuali derivanti dalla nostra storia personale in tutti i suoi aspetti bio-psico-sociali.

Lo spazio dei telomeri è un luogo biologico, oggettivabile, perché definito da una natura digitale, e quindi misurabile, in cui convergono tutte le dinamiche dello spazio psicologico espresse in comportamenti psico-neuro-endocrino-immunologici.

Il nostro concetto di benessere psicofisico non può ormai prescindere da questi macro concetti che la scienza ha identificato, e che ho provato a descrivere sinteticamente in questo testo, perché la consapevolezza delle loro dinamiche si declina in aspetti pratici sia per i professionisti del benessere (nel modo di supportare i loro assistiti) sia per tutte le persone che vogliono migliorare la propria salute e la loro qualità di vita.

 

“Redenzione” il primo singolo tratto da “Essenziale”, il nuovo album di Massimo Priviero uscito il 1 ottobre

Redenzione nasce nel pieno della pandemia, quando il mondo ha trovato conforto nella musica che ha aiutato a sentire ed amplificare un sentimento di condivisione, facendoci sentire meno soli, uniti ad affrontare un nemico comune. Uniti e per questo più forti.

 

Lo spazio temporale della canzone è quello post Covid, di un paese che sta cercando di ripartire dopo lo sconvolgimento causato dalla pandemia. Si cerca di guardare avanti pur non essendo ancora liberi dai vincoli e dai timori che sono nostri compagni ormai da un anno e mezzo.

All’inizio, nel febbraio 2020, nessuno aveva immaginato quello che stava per travolgerci, la sorpresa e il senso di disorientamento erano più forti della paura.

Nella primavera 2020 – racconta Massimo Priviero – mi ritrovai forzatamente chiuso in casa. Naturalmente, come gran parte del mondo. Confesso che all’inizio mi sentissi molto più sorpreso che terrorizzato. Ovviamente, parecchio intristito dalla quantità di quotidiane vittime innocenti a seguito di quel che abbiamo vissuto. Scrivere e comporre era quanto di più naturale potesse accadermi. Allo stesso modo, chiaro che hai tanto tempo per riflettere, per guardare dentro di te.

Con il passare delle settimane, poi dei mesi, si è fatta strada l’idea che quello che stava succedendo ci stava soverchiando. Ci siamo sentiti sempre più piccoli e impotenti in balia di qualcosa di incontrollabile che stava ridimensionando in modo irreversibile quell’eterno desiderio di onnipotenza che ci portiamo dentro. Cominciano a emergere debolezze, contrasti e fragilità che forse senza che nemmeno ce ne accorgessimo ci stanno dominando.

Avevo spesso questi pensieri mentre scrivevo, parlavo a me stesso, mettevo in fila immagini, tante immagini, fatti che ben sapete, poveri sempre più poveri, sempre di più, pezzi di mondo emarginati in mille modi, crisi ambientali come non ne abbiamo mai viste, trionfo dell’indifferenza, generazioni schiave di tecnologia e di rapporti umani falsati, drammi sul colore della nostra pelle.

​Apri anima e testa per sentire di più
Non lo vedi tuo figlio che cerca un lavoro
E il tuo benessere a debito che fotte il futuro
Globalizzati e ubriachi di tecnologia
Figli di grandi fratelli e bella democrazia
Te li immagini i cristi davanti a un confine
Con esistenze dal costo di un pezzo di pane
Tra volontari di pace perseguitati ogni giorno
Mentre gli idioti contenti qui ballano intorno

Da qui il pensiero che forse, in qualche modo, questo mondo deve finire, finire per poter ricominciare attraverso una sorta di redenzione umana:

Ma sembra la fine, sembra la fine
Sembra la fine del mondo che abbiamo visto noi

È in questo preciso momento, con questo stato d’animo, che nasce Redenzione:

La rabbia, la paura, la denuncia, il bisogno di amore e di purificazione. Il menestrello solo nel mezzo di una strada che suona e canta quel che i suoi occhi vedono e quel che la sua penna scrive da sola, invitando il mondo ad aprire la sua finestra. La finestra della mente e finestra dell’anima.

Eppure le contraddizioni del mondo sembrano non attenuarsi nemmeno con la pandemia. Su una presa di coscienza seria e un’onesta autocritica sembra prevalere una voglia di leggerezza sterile:

Lo vedi bene anche tu cosa siam diventati
​Indifferenti al mercato finché siamo scaduti
​Uomini senza le facce che chiamiamo gente
​Intossicati dal troppo, dal troppo di niente
​Governati da inetti e nullità senza fine
Banditi del tuo domani e senza bene comune
Terrorizzati dal gioco dell’economia
Contiamo morti innocenti di un’epidemia

Strano però, scrivevo strofe su strofe, anche cariche di peso, di denuncia di rabbia, di fame di giustizia, dategli voi il nome. È una cosa difficile da fare oggi, in un tempo in cui parliamo di bisogno di leggerezza che il più delle volte è desiderio di non vedere, è una grande bugia che ci raccontiamo, il fatto è che abbiamo fatto coincidere la leggerezza con l’indifferenza e spesso col cinismo.

Sento molto dire: “Con quel che abbiamo passato vuoi che non sia ora di divertirci e di metterci tutto alle spalle”, bene avremmo un mondo libero di essere più scemo e pure più criminale giustificato da quello che abbiamo passato, oppure verrà un giorno in cui cercheremo una nuova strada e una nuova salvezza, soprattutto per chi verrà dopo di noi.

Siamo schiavi del mercato, schiavi dei soldi, siamo uomini contenti di vivere senza alcuna idealità, senza domani, uomini illusi di vivere senza domani, non lo vediamo neanche il domani.

C’è l’amara considerazione che di questo fardello d’indifferenza e superficialità non siamo ancora riusciti a liberarci, ma resta anche viva la speranza che almeno per alcuni si possa essere aperto uno spiraglio di consapevolezza, magari proprio attraverso la musica.

Non ho creduto per un solo momento che il mondo sarebbe uscito migliore da quel che ha vissuto. La mia resistente idealità non è illusione. Credo, questo sì, che alcune minoranze possano aver trovato invece nuova forza dentro a una tragedia. Il bisogno di redenzione e se volete di conoscenza, oltreché essere un fatto molto individuale, riguarda essenzialmente loro.

Eppure mi sono trovato assurdamente felice mentre scrivevo e incidevo redenzione, eppure mi aspettavo e mi aspetto ancora che una minoranza di pazzi o di santi possa sentire la chiamata a raccolta del menestrello (…) aspettando altre voci che si aggiungano alla mia, come succede alla fine di questa canzone che inizia da sola in mezzo a una piazza vuota ma che poi si riempia di suoni, di altre voci, di altre menti, di altre anime.

L’ascolto di Redenzione innesca un processo che recupera i ricordi e contribuisce a creare la colonna sonora della nostra vita.

L’arte, e la musica nello specifico, è fonte di benessere emotivo e nutrimento interiore, ha potere salvifico, specie nei momenti di sofferenza.

A volte, nei mesi passati, richiusi tra quattro mura, abbiamo assistito a esibizioni improvvisate e concerti in streaming, talvolta spinti più dalla voglia di apparire e riappropriarsi di un palcoscenico che da una reale esigenza artistica. Ma la MUSICA è altro, la musica ha bisogno del contatto col pubblico, non si può fare da soli, in casa. È collettività e fisicità.

La musica ha bisogno di tornare nelle piazze e nei teatri, ed è li che troveremo Redenzione.

 

Guarda il video di Essenziale, di Massimo Priviero:

 

Il disturbo ossessivo-compulsivo nello spettro autistico: implicazioni nella diagnosi differenziale e nel trattamento

I disturbi dello spettro autistico (ASD) e il disturbo ossessivo-compulsivo (DOC), secondo recenti studi epidemiologici, presentano dei tassi di prevalenza dall’1% al 2% e dall’1% al 3%, rispettivamente (Pazuniak & Pekrul, 2020).

 

Introduzione

Il DOC è caratterizzato dall’interrelazione tra pensieri intrusivi (ossessioni) e azioni fisiche e/o mentali intenzionali (compulsioni), finalizzate a ridurre l’ansia causata dall’ossessione (APA, 2013). Il profilo dei disturbi dello spettro autistico, invece, presenta: iper- o iporeattività sensoriale, carenza di reciprocità socio-emotiva, mancanza di espressività facciale con anomalie del contatto visivo, stereotipie, scarsa flessibilità cognitiva e gamma di interessi limitata (APA, 2013).

Prima della pubblicazione della 4° edizione revisionata del Manuale Diagnostico e Statistico dei disturbi mentali (DSM-IV-TR; APA, 2000), i criteri diagnostici dell’ASD e del DOC precludevano la diagnosi dell’altro disturbo (Jiujias, Kelley & Hall, 2017). Questi criteri di esclusione erano in parte basati sull’idea che il comportamento ripetitivo e ristretto, nonché gli interessi limitati e stereotipati riscontrati nell’ASD, sembravano essere simili alle ossessioni e alle compulsioni riscontrate nel DOC.

Tuttavia, la ricerca suggerisce che esistono differenze nel comportamento ripetitivo e limitato tra i due disturbi (Pazuniak & Pekrul, 2020). Inoltre, gli studi indicano che bambini e adolescenti con ASD e DOC in comorbilità (ASD-DOC) possono presentare una sintomatologia differente rispetto ai pazienti con ASD senza DOC.

La diagnosi differenziale tra autismo e DOC

Date le differenze negli approcci terapeutici con ASD e DOC, è importante che il clinico riconosca un criterio di demarcazione tra i due disturbi, al fine di implementare gli interventi terapeutici più appropriati ed efficaci (Pazuniak & Pekrul, 2020).

Inoltre, i bambini e gli adulti nello spettro autistico possono presentare un’ampia variazione in termini di gravità: da quelli con significative disabilità linguistiche e a basso funzionamento, a quelli considerati più ‘funzionali’; nonostante siano tutti accomunati da una difficoltà pervasiva, più o meno marcata, nella comunicazione e manifestazione dei loro stati interni (Postorino et al., 2017).

L’identificazione di situazioni e stati mentali, che precedono episodi di disregolazione emotiva e comportamentale, può anche aiutare nella diagnosi di DOC nell’ASD: una delle caratteristiche chiave per distinguere i comportamenti ripetitivi primari dell’ASD dal quadro clinico del DOC, è che soltanto nello spettro autistico i comportamenti sono egosintonici e finalizzati alla ricerca sensoriale, mentre nel DOC sono spesso ego-distonici, causano angoscia e sono principalmente guidati dall’ansia (Pazuniak & Pekrul, 2020). Inoltre, i sintomi del disturbo ossessivo compulsivo possono apparire come nuovi comportamenti e diversi da quelli stereotipati di base che gli individui con autismo potrebbero aver manifestato per lunghi periodi di tempo, prima dell’insorgenza del disturbo ossessivo compulsivo.

L’attitudine verso l’accumulo di oggetti, in un bambino o adolescente con ASD, può indicare una diagnosi di comorbidità ASD-DOC. Si raccomandano, però, maggiori studi per discernere quali ossessioni e compulsioni sono più comuni nella popolazione con ASD, in quanto perseverano risultati contrastanti in merito alla diagnosi differenziale.

Trattamento del DOC in persone con autismo

Per quanto riguarda il trattamento, se a un paziente con disturbo dello spettro autistico è stato diagnosticato il DOC, si consiglia di seguire le linee guida cliniche standard per il DOC con alcune modifiche. Ad esempio, si consiglia di iniziare con una Terapia Cognitivo-Comportamentale (Cognitive Behavioural Therapy, CBT) modificata per gli individui con ASD ad alto funzionamento e/o con buone capacità di linguaggio espressivo-ricettivo. In particolare, la prevenzione dell’esposizione e delle ricadute può essere utile, specialmente con adattamenti per bambini e adulti con ASD. Tali adattamenti possono includere sessioni a domicilio, per aumentare la generalizzabilità della terapia, con una maggiore attenzione sull’identificazione affettiva e una minor enfasi sulla modulazione dello schema cognitivo.

Sebbene in letteratura non sia dimostrata un’efficacia conclamata per un farmaco specifico per il trattamento del disturbo ossessivo compulsivo nei pazienti con ASD, ci sono alcune prove a sostegno dell’uso di clomipramina, fluoxetina e fluvoxamina. Tuttavia, poiché le persone con ASD tendono a presentare tassi più elevati di effetti collaterali con i farmaci psicotropi, viene raccomandato di iniziare con un inibitore selettivo della ricaptazione della serotonina (SSRI), che ha evidenza di efficacia solo nel DOC (Skapinakis et al., 2016), partendo gradualmente e a basso dosaggio.

Sebbene si raccomandi di iniziare con la CBT e di integrare un trattamento farmacologico solo nei casi di scarsa o parziale aderenza alla terapia, con alcuni pazienti con disturbi dello spettro autistico, specialmente quelli con un basso funzionamento e/o un significativo ritardo del linguaggio, risulta necessario iniziare sincronicamente con un trattamento psicoterapico e farmacologico. Per questi pazienti potrebbe essere utile iniziare con un intervento psicotropo, in aggiunta agli interventi comportamentali standard per l’ASD. Qualora il trattamento di prima linea con un inibitore selettivo della ricaptazione della serotonina risultasse inefficace o dimostrasse solo una risposta parziale, potrebbe essere necessario provare la clomipramina. Se la clomipramina non viene tollerata, è inefficace o mostra una risposta parziale, il medico può considerare di aumentare o sostituire questi farmaci con un antipsicotico di seconda generazione, che abbia evidenza di efficacia nel disturbo ossessivo compulsivo, come ad esempio risperidone o aripiprazolo (Dold et al., 2015). Tuttavia, risulta doveroso ribadire che sono emersi risultati contrastanti in merito all’utilizzo di risperidone e aripiprazolo nei casi di comorbidità di ASD e DOC.

Conclusioni

Il confine di demarcazione diagnostico tra le due categorie di disturbi costituisce un’area che necessita ulteriori approfondimenti in ambito clinico e di ricerca. A tal proposito, gli argomenti suggeriti per la ricerca futura includono: (1) l’eventuale identificazione di sottogruppi specifici all’interno della macro-categoria ‘comorbilità DOC-ASD’, in quanto questa vasta popolazione clinica costituisce un raggruppamento eterogeneo che può implicare manifestazioni sintomatologiche e trattamenti diversi; (2) elaborare ulteriori adattamenti nel protocollo CBT per i diversi livelli di funzionamento dello spettro autistico (3) e ulteriori studi randomizzati e controllati che valutano l’efficacia degli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina e degli antipsicotici (Pazuniak & Pekrul, 2020).

Rimuginio e timidezza nell’ansia sociale: fattori di rischio o di mantenimento?

L’ansia sociale è riportata come la seconda più comune condizione ansiosa, con una prevalenza nel corso della vita di circa il 10% (Kessler et al., 2014).

OPEN SCHOOL – Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Mestre

 

Caratteristiche dell’ansia sociale

 Si caratterizza per la presenza di un’intensa paura nelle situazioni sociali in cui si è sottoposti allo sguardo e alla valutazione di altre persone. Il tema centrale di questa difficoltà è rappresentato dalla convinzione di essere continuamente sottoposti al giudizio degli altri, e il conseguente timore è quello di essere oggetto di una valutazione negativa (Grimaldi, 2018).

Pertanto, l’apprensione di chi ne soffre è strettamente legata alla rappresentazione di come è percepito e valutato dalle altre persone. Diverse sono le situazioni temute dalle persone con ansia sociale, tra cui generalmente tutte le situazioni nuove o quelle in cui si è chiamati a difendere i propri diritti o a sostenere un’opinione diversa da quella di un’altra persona. Questo porta chi ne soffre a evitare molte delle situazioni sociali per paura di possibili giudizi negativi e per la preoccupazione di potersi sentire sotto osservazione. In questa prospettiva, si è continuamente alla ricerca di un giudizio positivo, in uno scenario, tuttavia, in cui la paura di poter subire un rifiuto tende a innescare un circolo vizioso che può gradualmente portare ad un peggioramento dell’ansia stessa (Grimaldi, 2018).

Fattori di mantenimento dell’ansia sociale

Una delle caratteristiche più rilevanti così è la necessità di voler dare sempre una buona impressione durante le interazioni sociali, cercando di evitare di ricevere giudizi negativi. L’ansia sociale, tuttavia, è una condizione che viene mantenuta ed alimentata da diversi fattori, tra cui: tratti di personalità caratterizzati da introversione e timidezza, una forte ansia anticipatoria che precede le azioni da eseguire in pubblico e un costante rimuginio. Più di altri disturbi d’ansia è mantenuta da pensieri di autosvalutazione, che si generano automaticamente, in corrispondenza di una situazione temuta e che fanno perdere alla persona il focus sulla situazione in cui si trova, facendola concentrare soltanto sui propri timori. Questo porta così a rappresentarsi già l’esito negativo della propria prestazione, sociale o individuale, facendo emergere di riflesso l’emozione della vergogna, che nell’ansia sociale si caratterizza per essere un tratto distintivo.

Un altro fattore di mantenimento, inoltre, sono i comportamenti di evitamento che la persona mette in atto nel tentativo di proteggersi. La persona con ansia sociale, sottraendosi alle situazioni sociali temute, evita non solo un’eventuale valutazione negativa, ma anche le possibili disconferme dei propri timori. Si innesca così un circolo vizioso dove, evitando le situazioni sociali temute per paura di essere criticati, si finisce per far realizzare il proprio timore attraverso una profezia che si autoavvera. Un fattore determinante al mantenimento della problematica, infine, è rappresentato dal fatto che la persona con ansia sociale, raffigurandosi di continuo l’esito negativo delle proprie prestazioni, rimugina costantemente sulle proprie prestazioni. Ovvero, anticipa anzitempo i problemi che gli si potrebbero presentare, riflette sulle situazioni future in una prospettiva spesso catastrofica, richiamando anche alla memoria tutti i fallimenti passati.

Il rimuginio, così, non solo non aiuta la persona ad affrontare meglio le situazioni sociali, ma fa anche sì che si possa riproporre sempre lo stesso scenario negativo.

Rimuginio fattore di rischio? Il circolo vizioso dell’ansia

Il rimuginare, ovvero il preoccuparsi insistentemente rispetto a una situazione futura, è un aspetto caratteristico presente nelle persone con ansia sociale ed è presente in generalmente in due momenti: prima e dopo l’evento ansioso. Il rimuginio, che tende ad essere vissuto prima dell’evento ansioso, è dovuto al fatto che le persone con ansia sociale tendono a preoccuparsi a lungo della situazione che stanno per vivere, focalizzando la propria attenzione su tutti i potenziali problemi che potrebbero presentarsi. Tali riflessioni, compiute in modo prolungato, possono ad esempio riguardare tutte le conversazioni che potrebbero avvenire o i comportamenti sociali che la persona con ansia sociale teme possano esserci (Wells et al, 1995). Per evitare le conseguenze temute, l’ansioso sociale mette in atto comportamenti protettivi che in realtà altro non fanno che incrementare l’ansia e i pensieri di poter essere valutato negativamente, con la possibilità che i comportamenti protettivi che mette in atto possano influenzare negativamente la situazione sociale, facendo apparire la persona meno amichevole e disponibile (Wells e Clark, 1995).

Quando l’evento sociale giunge al suo termine, l’esposizione agli aspetti negativi non è ancora finita, dal momento che il rimuginio si focalizza sul comportamento messo in atto.

Le persone con ansia sociale si preoccupano così, in maniera insistente, su possibili aspetti giudicati potenzialmente come negativi, e passando anche interi giorni a rivivere l’episodio nei minimi dettagli, enfatizzano piccoli o grandi errori e ripensando alla performance sociale come fossero i protagonisti di un film, il tutto in un profondo stato di angoscia. Questo tipo di rimuginio, cosiddetto “post”, oltre a non fornire alcuna nuova informazione utile, rafforza i pensieri che c’erano prima dell’evento sociale e li intensifica nel tempo, rappresentando una fonte di nuovi interrogativi e dubbi alla persona con ansia sociale (Clark e Wells, 1997).
Se quindi da un lato il rimuginio che si verifica prima dell’evento sociale può rappresentare un fattore di rischio per la comparsa e l’incremento dell’ansia sociale, il rimuginio che avviene una volta trascorso l’evento sociale mantiene il circolo vizioso dell’ansia, rafforzandola nel tempo e causando un forte senso di timidezza.

La timidezza: tra desiderio di avvicinamento e di fuga

Zimbardo, studioso di psicologia, all’alba del 1997, metteva in luce come nelle persone timide, il fatto che i propri stati emotivi possano emergere di fronte ad altre persone, tende a generare un forte stato di allarme e preoccupazione, rispetto a come si è percepiti dagli altri (Zimbardo, 1997). Jones (2014) ha approfondito questa tematica, evidenziando come la timidezza sia caratterizza, da un lato, per la presenza di una “preoccupazione ansiosa” in risposta a situazioni sociali reali o immaginate, e, dall’altro, per la tendenza all’evitamento di situazioni sociali, per il timore di essere oggetto di valutazione da parte di altre persone. La possibilità di poter ricevere un giudizio negativo contraddistingue il comportamento delle persone timide all’interno di un gruppo, in cui pur essendoci un forte desiderio di farne parte, è anche presente una evidente fatica a fare la prima mossa. Alcune volte, le persone con ansia sociale aspettano un cenno prima di provare a inserirsi in una conversazione, mentre altre volte attendono un giudizio positivo che consenta loro di fare parte di un gruppo. Si innesca così un meccanismo per cui il desiderio di inserirsi in un contesto relazionale e la tendenza all’evitamento coesistono simultaneamente all’interno di uno stile di pensiero spesso orientato a una forte preoccupazione su ciò che gli altri potrebbero pensare. All’interno di questa prospettiva secondo studi recenti la timidezza rappresenterebbe un fattore che potrebbe predisporre all’ansia sociale. Diversi studi, tra cui (per primi) quello di Chavira e Malcarne (2002), hanno cercato di analizzare se la timidezza rappresentasse un fattore di rischio o di mantenimento, mettendo in luce come il livello di ansia sociale fosse molto più alto nei gruppi di persone “particolarmente timide”, rispetto a un campione timido nella norma. Questo tenderebbe a verificarsi ancor di più quando c’è una forte paura del giudizio altrui ed è allo stesso tempo presente un’intensa emozione di vergogna in seguito ad eventi sociali vissuti.

La vergogna e la paura del giudizio nell’ansia sociale

La vergogna è un’emozione molto complessa che può insorgere nei momenti di interazione sociale. Si caratterizza in particolare per un insieme di pensieri e comportamenti a valenza negativa, che fanno riferimento a una propria svalutazione e inadeguatezza in contesti socio – relazionali, in cui le altre persone sono percepite come migliori. L’emozione della vergogna, tuttavia, ha uno scopo specifico, che è quello di segnalare alla persona che vi può essere un possibile attacco alla propria autostima o ad il proprio status sociale. In particolare, è connessa a determinati canoni della cultura di riferimento, può assumere diverse sfaccettature e riguardare diversi ambiti. La persona che la prova può percepire, ad esempio, di non aver fatto bene in una determinata prestazione o, proprio come avviene nel caso dell’ansia sociale, può vergognarsi di ricevere dei complimenti poiché crede di non meritarli. Quest’emozione può diventare disfunzionale a seguito di determinate esperienze vissute nel corso dell’età evolutiva, in particolare quando le figure di riferimento, come genitori e insegnanti, espongono il bambino a valutazioni negative globali di sé, anche attraverso umiliazioni o mancati apprezzamenti. Crescendo, poi, si formano delle credenze che possono mantenere quest’emozione. In particolare quando si inizia a concepire come non degno di stima o ad essere estremamente attento ai giudizi altrui. Così, il timore del giudizio da parte dell’altro può emergere con elevata intensità, in particolar modo, ad esempio, quando la persona deve mettere in atto una prestazione in pubblico. La persona sperimenta così una profonda sofferenza nelle situazioni che teme, finendo spesso per evitarle. Altre volte, mette in atto strategie che ritiene possano proteggerla dal giudizio altrui, come nascondersi il viso, parlare il meno possibile e molto velocemente quando si deve intervenire in una discussione di gruppo, o ancora evitare del tutto di esprimere la propria opinione, dando sempre ragione all’altro (Caccico, 2019). Il timore di essere giudicato in modo negativo dagli altri, per le proprie prestazioni, fa sì che si generi una profonda angoscia nel momento in cui la persona si trova a svolgere in pubblico determinate azioni, che potrebbero essere giudicate negativamente.

La terapia metacognitiva di Wells come intervento di cura per l’ansia sociale

Fino agli anni ’80 del secolo scorso, il disturbo d’ansia sociale era un disturbo del quale si sapeva poco e i trattamenti per la cura di questa problematica erano pochi, come erano anche carenti le ricerche che ne davano prova di effettiva efficacia. Attualmente la situazione per quanto riguarda gli interventi per la cura della fobia sociale è radicalmente cambiata. Vi sono infatti diversi studi che riportano l’efficacia degli interventi cognitivi-comportamentali per la riduzione dei sintomi connessi (Wells & McMillan, 2004).

La terapia cognitivo comportamentale (CBT) è risultata efficace nel mantenimento dei miglioramenti anche nel lungo termine rispetto ad altri interventi psicoterapici o agli psicofarmaci (Studi Cognitivi, n.d.).

La CBT va a migliorare, sul piano cognitivo, i processi disfunzionali che mantengono il disturbo, mentre dal punto di vista comportamentale, attraverso esposizioni graduali, fa affrontare al paziente le situazioni temute, utilizza inoltre tecniche di rilassamento e training per apprendere abilità sociali (Rapee & Heimberg, 1997). Tuttavia grazie all’avvento della terza ondata della terapia cognitiva, vi sono nuovi interventi che si sono rivelati anche per certi versi migliori rispetto alla terapia cognitivo-comportamentale standard. Il nuovo trattamento cognitivo di Clark e Wells, la Terapia Metacognitiva (MCT) si focalizza direttamente sui meccanismi psicologici che mantengono la sintomatologia e secondo gli studi produce maggiori livelli di riduzione del sintomo rispetto ai precedenti trattamenti psicologici, compresa la CBT. Stando alle ricerche, l’MCT darebbe risultati superiori per quanto riguarda la riduzione dei sintomi anche rispetto agli SSRI, il trattamento farmacologico di prima linea per la fobia sociale (Wells &McMillan, 2004). Il focus dell’intervento non è sul contenuto dei pensieri disfunzionali del paziente, come avviene nella CBT standard, quanto piuttosto alle modalità di pensiero che risultano inflessibili e ricorrenti, come avviene nel processo del rimuginio. Assunto base dell’MCT è che alla genesi delle psicopatologie, tra cui la fobia sociale, vi siano degli stili di pensiero disfunzionale che prende il nome di CAS: sindrome cognitivo attentiva. La CAS si caratterizza per la presenza del rimuginio come stile di pensiero e per la focalizzazione della propria attenzione su stimoli interni o esterni alla persona considerati minacciosi, che mantengono lo stesso stato ansioso. La CAS, secondo gli autori, non ha origine da credenze su di sé e sul mondo, bensì da metacredenze riguardo le proprie modalità di pensiero. Queste possono essere a valenza positiva: “se ripenso costantemente all’evento riuscirò a fare bella figura”, che fanno riferimento sostanzialmente all’utilità di focalizzare la propria attenzione su determinati stimoli, oppure a valenza negativa: “prima o poi impazzirò a forza di ripensarci su”, che invece si riferiscono all’incapacità di gestire i propri pensieri ed emozioni. Nella terapia metacognitiva, all’opposto della CAS si ha la DM, ovvero la Detached Mindfulness, che è l’obiettivo finale di questa terapia. Detached Mindfulness, si traduce con: consapevolezza distaccata. Il termine fa riferimento alla modifica delle modalità con cui le persone si approcciano ai propri pensieri, sviluppando capacità di flessibilità cognitiva e di controllo dei processi attentivi. La consapevolezza distaccata è sostanzialmente la capacità di non farsi invischiare in tutti quei processi cognitivi disfunzionali che mantengono la sintomatologia ansiosa, in particolare il rimuginio. La persona, gradualmente, diviene in grado, grazie ad essa, di discostarsi da questi processi, non eliminandoli, ma prendendone consapevolezza e imparando a gestirli.

In conclusione, obiettivi terapeutici della Terapia Metacognitiva sono la rimozione della CAS, che si ha modificando le modalità di pensiero e le strategie utilizzate per gestirlo, la modifica delle metacredenze sia a valenza positiva che negativa e l’apprendimento di nuove modalità di orientare il proprio flusso di pensieri grazie alla DM (Melli, 2018).

L’MCT si prefigura come trattamento di intervento innovativo e d’elezione per il trattamento della fobia sociale, consente di ridurre i circoli viziosi che incatenano le persone con questa psicopatologia, consentendo di aumentare in loro il senso di autoefficacia e sentirsi di nuovo parte attiva nei contesti sociali. Diviene così possibile poter condurre una vita più appagante e maggiormente caratterizzata da interazioni relazionali piuttosto che da stati di rimuginio ed isolamento.

 


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