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Robotica Psico-sociale: i progressi nell’interazione Uomo-Macchina

Qual è il compito dei robot? Uno dei compiti è sicuramente quello di sostituire l’uomo, ma non con il progetto di eliminarlo, bensì per evitare lavori pericolosi o stancanti.

 

Le persone sono da tempo interessate alle macchine che simulano i processi naturali, in particolare alle tecnologie che replicano il comportamento e/o l’aspetto umano. Questo desiderio ha radici antiche: partendo dalla creazione di una varietà di ‘simulacri’ in Egitto circa 2000 anni fa, fino alla costruzione di dispositivi altamente sofisticati, creati utilizzando le conoscenze scientifiche (Richter, 2015). Altri esempi impressionanti di simulazioni umane includono prime forme di androidi costruiti nel XVI, XVII e XVIII secolo in Europa, dove sono state costruite una varietà di macchine, in grado di simulare attività umane, come la scrittura o la danza. Da questi primi interventi di simulazione nasce l’ambiziosa sfida tecnologica e scientifica del tentativo di replicare la flessibilità e l’adattabilità dell’intelligenza umana (Breazeal, 2004).

In questa veloce evoluzione, a delinearsi è un dilemma morale: e se l’uomo fosse sostituito dalle macchine? Questa domanda è sempre più esasperata in relazione al progresso dell’Intelligenza Artificiale (IA) fino alla comparsa dei robot. In risposta a questo dilemma morale, invero, alcune parti della cultura contemporanea reagiscono infondendo un rifiuto e una paura apocalittica. Questo è visibile anche da scenari trasmessi dal cinema, dove il robot è rappresentato come uno schiavo meccanico, che si ribella e conquista il mondo eliminando il nemico umano. Ciò che, infatti, spaventa di più la società contemporanea è l’autonomia, ovvero la capacità di ragionare, apprendere e risolvere i problemi in maniera autonoma.

Ma cosa sono i robot? La parola “robot” deriva dal ceco ‘robota’, ovvero ‘lavoro servile’, con cui lo scrittore cèco Karel Čapek denominava gli automi che lavorano al posto degli operai nel suo dramma fantascientifico R.U.R., del 1920. Al di là di questa immagine fantascientifica di Čapek, è evidente che i robot fanno parte della nostra vita: pensiamo alle aspirapolveri automatiche, capaci di mappare il territorio ed evitare gli ostacoli. Qual è, quindi, il compito dei robot? Uno dei compiti è sicuramente quello di sostituire l’uomo, ma non con il progetto di eliminarlo, bensì per evitare lavori pericolosi o stancanti. Il fatto che, con l’evoluzione tecnologica, ci siano più generazioni di robot (dal doll-like allo human-like) non ci deve far dimenticare che il robot non è in grado di attribuirsi da sé “stati mentali”, che restano sotto il controllo esterno ed estraneo (Damiano et al., 2019, p. 21), in genere di chi lo programma, ovvero dell’essere umano.

Questo modo di risignificare il robot come “sostituto”, per cercare di rispondere al dilemma etico, ci fa comprendere che è necessario anche ripensare il rapporto Uomo-Macchina, o meglio, Uomo-Robot. La ricerca scientifica, soprattutto, psico-sociale non si limita a prendere una posizione nel dibattito sulla natura della mente, ma i robot diventano strumenti di una trasformazione sociale (Damiano et al., 2019, p 22). In questa trasformazione sociale, ad esempio, i robot possono interagire con i bambini per aiutarli nella raccolta differenziata (De Carolis et al., 2019) o ad “empatizzare” con persone anziane (Garcia et al., 2017). La logica, quindi, non è quella di sostituzione di figure professionali, che interagiscono con i bambini o con gli anziani, ma quella di supportare, ad esempio gli operatori, magari oberati di lavoro, nella pratica clinica o educativa. Da queste premesse, risulta necessaria la branca della psicologia che si occupa di interazione Uomo-Robot, verso una robotica psico-sociale, capace, ad esempio, di interrogarsi sull’interazione emotiva Uomo-Robot, dando, magari, avvio ad una generazione di Robot con Intelligenza Emotiva Artificiale (Papapicco, 2021).

 

Il funzionamento sessuale nei disturbi di personalità – FluIDsex

Collazzoni e colleghi (2017) hanno lavorato ad una review che raccoglie i risultati di una serie di studi che hanno indagato il funzionamento sessuale delle persone con disturbi di personalità.

 

Nelle interazioni con gli altri gioca un ruolo fondamentale la personalità, ovvero come da definizione di Castronguay e Oltmanns (2016) la modalità con cui un individuo tende ad esprimere le proprie emozioni, a pensare a se stesso e agli altri e ad interpretare la realtà circostante. Tale modalità può portare a vivere frequentemente situazioni conflittuali, provoca difficoltà a formare o mantenere legami con gli altri, interferisce con la realizzazione di un piano di vita, portando a rigidità e difficoltà persistenti e dispendiose a livello sociale (Castonguay & Oltmanns, 2016). La disfunzione sociale è uno degli aspetti più rilevanti dei disturbi di personalità, in quanto il malessere soggettivo e la menomazione della vita sociale interferiscono in modo significativo con il senso di efficacia e di realizzazione personale e sociale degli individui (Castonguay & Oltmanns, 2016).

Generalmente esistono diverse ragioni e scopi sottostanti alle relazioni sentimentali e sessuali che le persone intrecciano (Jonason, 2013). Le principali motivazioni indagate sono: supporto socio-emotivo, incremento dell’autostima, raggiungimento di una gratificazione sessuale o semplicemente distrazione dalla noia (Jonason, 2013). In base agli scopi relazionali si distinguono relazioni romantiche, amicizie o relazioni principalmente sessuali ed episodi di sesso occasionale. È necessario partire dal presupposto che gli individui con disturbo di personalità presentano tendenzialmente livelli alterati di empatia e ricerca di intimità (Collazzoni et al., 2017), ma con differenze che possono dipendere dalla tipologia specifica di disturbo. Difatti, purtroppo, la letteratura che indaga la sfera sessuale e seduttiva di questi disturbi è inconsistente e per lo più focalizzata sul disturbo borderline di personalità (Collazzoni et al., 2017). L’analisi della letteratura può dunque risultare limitata.

Collazzoni e colleghi (2017) hanno lavorato ad una review che raccoglie i risultati degli studi pubblicati tra il 2000 ed il 2016, che hanno indagato il funzionamento sessuale delle persone con disturbi di personalità.

Disturbi di personalità del Cluster A: Gelosia e Disinteresse

Le caratteristiche più diffuse nei disturbi di Cluster A di personalità sono una forte incapacità di instaurare relazioni, disinteresse affettivo e gelosia. Inoltre, studi recenti hanno riscontrato una correlazione fra disturbi di personalità di Cluster A e predisposizione ad ideologie omofobiche e transfobiche.

Paranoide: nella letteratura è emerso che individui che presentano il disturbo paranoide di personalità nutrono rabbia, sospettosità e gelosia nei confronti dei loro partner, a volte rischiando di sfociare in episodi violenti (Disney et al., 2012)

Schizoide: per quanto riguarda il disturbo schizoide di personalità generalmente vi è una mancanza di interesse ad entrare in intimità con altre persone che può condurre ad una vera e propria asessualità (Holtzman & Strube, 2013).

Schizotipico: la sfera intima legata al disturbo schizotipico di personalità appare variegata in quanto, nonostante la tendenza all’isolamento ed una pervasiva paura dell’altro, la desuetudine comportamentale ed ideologica tipica di questo disturbo sembra influire positivamente sulle opportunità di attirare partner sessuali. Difatti, è stata riscontrata una correlazione fra impulsività (che motiva la ricerca attiva di un partner) e desiderio di esperienze sessuali inusuali (Nettle & Clegg, 2005).

Disturbi di personalità del Cluster B: Sofferenza, Confusione ed Insoddisfazione

L’intimità degli individui con un disturbo di Cluster B è tendenzialmente caratterizzata da confusione, sofferenza ed indifferenza.

Borderline: il disturbo di personalità maggiormente studiato, per quanto riguarda l’ambito relazionale e sessuale, è il disturbo borderline di personalità (BPD). Essendo il disturbo borderline associato ad instabilità emotiva e deficit nella rappresentazione del sé, le persone che soffrono di questo disturbo tendono ad esperire una forte precarietà relazionale collegabile anche ad insoddisfazione, episodi di violenza, matrimoni precoci e gravidanze indesiderate (Daley et al., 2000). Alcuni studi hanno riscontrato che la sensibilità empatica di uomini con diagnosi di disturbo borderline risulta alterata in quanto tendono ad equivocare le espressioni emotive delle proprie partner. Un esempio di fraintendimento empatico riscontrato negli studi è lo scambiare la felicità per disgusto che sfocia in una forte paura abbandonica con conseguenze comportamentali (Marshall & Holtzworth-Munroe, 2010).

Gli uomini con disturbo borderline di personalità possono presentare una comorbidità con disturbi parafilici, specialmente nei casi in cui essi soffrano di una disfunzione sessuale (Prunas et al., 2016). Le donne con disturbo borderline di personalità che hanno subito un evento traumatico, quale l’abuso sessuale, possono sviluppare disfunzioni sessuali o comportamenti sessualmente rischiosi quali prostituzione e promiscuità sessuale non protetta con rischio di contrarre malattie veneree (Harned et al., 2011). Il disturbo borderline di personalità ha un ruolo anche nella determinazione dell’orientamento sessuale in quanto le persone con BPD tendono a dichiarare di essere omosessuali o bisessuali più frequentemente rispetto agli individui con altri disturbi di personalità (Sansone & Sansone ,2011).

Antisociale: le persone con disturbo antisociale di personalità mostrano una preferenza per le relazioni a breve termine. L’intimità tendenzialmente consiste in chiamate notturne a possibili partner sessuali con lo scopo esclusivo di soddisfare i propri bisogni sessuali, oppure in pratiche sessuali violente (Jonason et al., 2012).

Narcisistico: i soggetti con disturbo narcisistico di personalità tendono a preferire rapporti sessuali occasionali o friends with benefits (“amici di letto”) piuttosto che relazioni a lungo termine. Queste due preferenze sembrano essere più collegate agli uomini con questo disturbo, mentre le donne tendono a frequentare persone con tratti di personalità simili ai loro (Jonason et al., 2012). L’infedeltà è la caratteristica maggiormente riscontrata negli individui narcisisti poiché, non entrando in intimità con i partner in quanto iperfocalizzati su di sé, spesso subentra la noia che porta a cercare nuovi stimoli più soddisfacenti.

Istrionico: rimanendo nel Cluster B, le donne istrioniche tendono ad essere sessualmente seduttive ambendo ad una costante attenzione sessuale per attrarre diversi partner (Disney et al., 2012). È stata, inoltre, riscontrata un’alta frequenza di sexting correlata a tratti istrionici (Ferguson, 2010).

Disturbi di personalità del Cluster C: Ambiguità e Comfort Zone

La sfera intima del Cluster C presenta un insieme di elementi contrastanti quali paura, insoddisfazione e bisogno degli altri.

Ossessivo-compulsivo: il perfezionismo tipico del disturbo ossessivo compulsivo di personalità correla con costanti momenti di stress ed insoddisfazione coniugale (Porcerelli et al., 2004).

Dipendente: gli individui con disturbo dipendente di personalità sono iperfocalizzati sull’evitamento dell’abbandono, attuando però comportamenti morbosi che portano ad ottenere l’effetto opposto (Okuda et al., 2015).

Evitante: per quanto riguarda le persone con disturbo evitante di personalità, è stata riscontrata una tendenza a prediligere rapporti sessuali e relazioni con persone che sentono simili a loro o con fobia sociale, per sentirsi a proprio agio (Isomura et al., 2014).

Conclusioni

In conclusione, l’organizzazione della personalità sembrerebbe essere strettamente collegata alla sexual function, definita da Collazzoni e colleghi (2017) come l’intenzione legata a tutte le strategie di seduzione ed i comportamenti sessuali; di conseguenza, la personalità ha una forte influenza sulla vita relazionale ed intima in svariati modi.

 


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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

 

Genitori come pilastri dell’infanzia. “Aspettando Chandra” di Rossano Crotti – Recensione del libro

Chandra è un bambino indiano in attesa di essere adottato. Rossano Crotti, già padre di Mansi, racconta in una narrazione autobiografica, in Aspettando Chandra, il periodo che va dalla scelta di accogliere un secondo figlio fino al primo incontro e all’arrivo a casa.

 

Una realtà non ci fu data e non c’è, ma dobbiamo farcela noi,
se vogliamo essere: e non sarà mai una per tutti,
una per sempre, ma di continuo
e infinitamente mutabile

Luigi Pirandello

Chandra è un nome maschile e femminile, significa “lucente come la luna”. Chandra è un bambino indiano in attesa di essere adottato. Rossano Crotti, già padre di Mansi, racconta in una narrazione autobiografica, il periodo che va dalla scelta di accogliere un secondo figlio fino al primo incontro e all’arrivo a casa.

Fra paure e titubanze, riflessioni sul futuro incerto del mondo e attese che sembrano non finire, su tutto, vince il desiderio. Il desiderio di avere un secondo figlio, di permettere alla prima di avere un fratello e di vivere quella “fratellanza” che né lui né la moglie, in quanto figli unici, hanno mai sperimentato. Ma c’è anche la speranza di vedersi un uomo felice. Non solo quell’anelito a rappresentare per il nuovo arrivato il “pilastro dell’infanzia”, a garantirgli il grado di felicità maggiore possibile, ma fuori da dimensioni legate al sacrificio, l’autore è alla ricerca anche della propria, di fortuna.

Dai giorni nostri ai ricordi d’infanzia, dalla gratitudine per le donne che hanno concepito i suoi figli, alle domande sul ruolo di genitore, l’autore racconta la vicenda personale attraverso uno stile che sembra muoversi fra prosa e poesia. Nell’attesa di diventare di nuovo padre, non può non ricordare cosa significhi essere stato figlio e anche rispetto a questa trasformazione di ruoli, induce delle domande che sono significative per noi psicoterapeuti, per i genitori adottivi e per quelli naturali. È un romanzo che ha a che fare anche con lo “stare in relazione con”. Con il diverso, con lo sconosciuto, con chi arriva avendo una storia da raccontare o che non vuol essere raccontata. I primi incontri con i due bambini indiani, nella loro terra di origine, sono fatti di silenzi, colori, sguardi accennati, brevi contatti, ma c’è già quel tentativo di sintonizzarsi con l’altro che è alla base di tutte le relazioni che funzionano.

Tante le emozioni suscitate nel lettore, in particolare quando il futuro padre, dopo una visita, rivolge al figlio un pensiero: voglio che “tu creda che torneremo”. Non può dirlo perché non parlano la stessa lingua, ma in qualità di psicoterapeuti, noi sappiamo che ai figli fa bene essere pensati, stare al centro di quel contenitore che è la mente, se la fantasia è luogo di accoglienza, di accettazione, di comprensione dell’alterità.

La genitorialità adottiva è diversa da quella naturale. I bambini adottati vivono sapendo di avere quattro genitori, il periodo dell’attesa è caratterizzato da esperienze differenti e l’attaccamento con la famiglia che accoglie spesso non si costituisce alla nascita. Può essere però un’esperienza che permette al genitore di sentirsi pienamente padre o madre, fortemente affettiva, anch’essa come quella naturale, caratterizzata da certezze e insicurezze. Rossano Crotti non fa riferimento nello specifico all’esperienza della paternità, che negli ultimi anni è sempre più osservata e studiata (Recalcati, 2017), ma a quella della “genitorialità” nel senso più ampio del termine.

È un libro che si rivolge ai genitori ponendo loro implicitamente una domanda: quando una genitorialità può definirsi buona e sicura per il figlio che la riceve? Quando invece preoccuparsi? Per il proprio benessere. Per il benessere del bambino. L’identità personale si forma grazie ad un riconoscimento sociale che avviene principalmente all’interno della famiglia. I bambini devono sentire accettazione, disponibilità alla comprensione, sintonizzazione sui bisogni e sulle caratteristiche tipiche dell’età che stanno attraversando. Laddove il figlio manifesti comportamenti che suscitano emozioni negative nell’adulto, è preferibile che quest’ultimo risponda con la riflessione. La mentalizzazione da parte dell’adulto rispetto a quello che sta accadendo nella relazione, favorisce anche il benessere del figlio. In una fase di disaccordo, è la comprensione del punto di vista dell’altro a permetterci di incidere in modo affermativo nella conversazione, di giocare un ruolo nella relazione con chi si ha davanti. Solo dopo aver capito, possiamo esprimere eventualmente la nostra disapprovazione, senza giudicare, senza ferire. Ed è proprio la frequenza e il modo con cui un genitore pensa, sente, esprime le emozioni negative a costituire uno degli anelli più difficili della genitorialità.

Un rapporto che funzioni, è una strada vissuta da entrambi come piacevole e sicura, in cui la reciprocità garantisce la diversità, la fusione lascia progressivamente spazio all’affermazione di sé, il disaccordo ha un ruolo trasformativo che in qualche modo ha la possibilità di ridefinire entrambi. Una relazione in cui il genitore, pronto a mettere in discussione se stesso, è disponibile ad osservare i cambiamenti di chi ha davanti con uno sguardo sulla sua unicità, sulle sue risorse, sulle sue difficoltà.

Un romanzo che racconta una storia di adozione, ci permette di osservare due costrutti teorici e la relazione che intercorre fra questi: quello di “Modello Operativo Interno” formulato da Bowlby (1973, pp. 259-260) e il “Corollario della Socialità” elaborato da Kelly (2004, pp. 87-94). Il primo ha a che fare con la tematica dell’attaccamento, il secondo con la capacità di comprendere gli altri. Sono due tematiche intimamente legate nei percorsi di adozione perché il bambino ha delle dimensioni di attaccamento che il genitore adottivo non conosce, già parzialmente formate, già parzialmente strutturate, quando l’incontro non avviene alla nascita. Ciò richiede particolari capacità di comprensione dell’altro da parte del genitore adottivo al fine di poter instaurare una buona relazione. I Modelli Operativi Interni del bambino sono influenzati dalla relazione che ha instaurato con la madre sin dalla nascita o con altri caregiver, e sono rappresentati da un insieme di emozioni, immagini comportamenti più o meno consapevoli che raccontano le modalità di relazione messe in atto  dal bambino stesso con gli adulti significativi. Sono una specie di mappa affettiva che  gli permette di entrare in contatto con chi si prende cura, sulla base delle sue esperienze pregresse. Un bambino che ha dovuto affrontare la separazione dalla madre in età precoce e che è stato affidato a degli educatori di cui non conosciamo le qualità di care giving, ha dei modelli operativi interni, un modo di mettersi in relazione con gli adulti che è frutto della sua storia. Ed è qui che assume un particolare significato il “Corollario della Socialità” :

Per avere un ruolo di comprensione nella relazione con un’altra persona, occorre che in qualche modo si riesca a costruire la prospettiva di quella persona. (…) è necessario non tanto costruire gli eventi nello stesso modo, ma costruire il modo di vedere gli eventi dell’altra persona. (p. 87)

Possiamo sintetizzare affermando che il genitore adottivo si trova davanti ad una sfida particolare: il bambino adottato se non è un neonato, ha già dei Modelli Operativi Interni, ha già un suo modo di porsi in relazione con i caregiver, condizionato da separazioni e da modalità di cura pregresse. Il genitore dovrà essere dotato dunque di buone capacità di comprensione dell’altro per capire la prospettiva del bambino, il suo modo di interagire, la ragione di alcuni stati emotivi. Non gli saranno utili solo alcune qualità empatiche ma anche delle ottime capacità di costruire il punto di vista dell’altro. Per questa ragione, i genitori che hanno adottato un figlio, dovrebbero avere la possibilità di fare riferimento a psicoterapeuti attraverso una modalità gratuita, laddove ne sentissero la necessità.

 

Emicrania ed ansia: esplorazione del legame tra le due patologie

L’emicrania è un disturbo neurologico molto comune in tutto il mondo, più frequente nelle donne in età fertile rispetto ai maschi.

 

Precedenti studi hanno spesso dimostrato la comorbilità dell’emicrania con altri disturbi psichici, ma una revisione sistematica in particolare si è focalizzata sulla comorbilità dell’emicrania con l’ansia, e sulla sua distribuzione tra i sessi.

La revisione di Karimi e colleghi includeva studi di prevalenza e studi clinici che riportavano la frequenza dell’emicrania con l’ansia all’interno del campione dello studio. A seguito di una prima fase di screening, sono stati selezionati undici studi che avevano come campione partecipanti di età pari o superiore a 16 anni con diagnosi di emicrania provenienti da Canada, Stati Uniti, Turchia, Cina, India, Corea, Europa e Brasile (Karimi, 2020).

I principali risultati della revisione hanno mostrato come l’ansia sia una delle principali comorbilità dell’emicrania in tutto il mondo, con un ampio intervallo di prevalenza (16-83%) e una media di circa 43% dei pazienti manifestanti sintomi in comorbilità, il che è coerente con gli studi precedenti (Beghi et al., 2010, Breslau, 1998). I sintomi di ansia percepiti sembrano essere maggiori tra i maschi rispetto alle femmine, e ciò potrebbe essere attribuibile a differenti predisposizioni ambientali, ormonali, o genetiche.

I risultati hanno mostrato che la prevalenza delle donne con emicrania era significativamente più alta rispetto ai maschi, cosa ben consolidata da studi precedenti (Seneratne et al., 2010; Peres et al., 2017). Tuttavia, la prevalenza dell’emicrania con ansia era molto più alta tra gli uomini rispetto alle donne. Nonostante le diverse impostazioni di studio, paesi, età e altre caratteristiche individuali, l’evidenza di una maggiore prevalenza nei maschi era coerente in 9 studi su 11, vale a dire nella maggior parte degli studi inclusi nella revisione.

In presenza di tali differenze di genere, è opportuno considerare il fatto che molte donne soffrono di emicrania durante il ciclo mestruale, arrivando ad aspettarsi questo sintomo come un evento mensile; a ciò consegue che la consapevolezza di tale previsione può ridurre i livelli di ansia percepita. D’altronde, è possibile che i maschi trovino l’emicrania socialmente insolita e quindi più “preoccupante”. È interessante notare come uno studio abbia evidenziato che la comorbilità di emicrania e ansia nei maschi sia accompagnata da bassi livelli di testosterone (Shields et al., 2019).

I risultati della revisione evidenziano inoltre l’importanza che il personale sanitario dovrebbe attribuire all’elevata prevalenza di ansia ed emicrania in concomitanza nei contesti clinici. L’identificazione precoce delle condizioni di comorbilità può contribuire a migliorare la qualità della prognosi e della cura dei soggetti (Ratcliffe et al., 2009).

Le cause della comorbilità di emicrania ed ansia non sono attualmente disponibili in letteratura. Pertanto, ricerche future potrebbero identificare le caratteristiche cliniche associate a queste condizioni complesse, come le predisposizioni genetiche e le caratteristiche neurologiche dei pazienti. I risultati di tali studi porterebbero a una migliore comprensione delle strategie terapeutiche per le condizioni e alla progettazione di migliori strategie di trattamento. Ad esempio, nei casi in cui l’ansia funge da innesco per attacchi di emicrania frequenti, o viceversa, strategie di trattamento comportamentale mirate alla gestione dell’ansia potrebbero portare a miglioramenti nella gestione dell’emicrania.

Ad ogni modo, la revisione del team di Karimi, ha portato in luce l’importante relazione tra ansia ed emicrania in donne e uomini, aprendo la possibilità ad una ridefinizione degli obiettivi diagnostici e delle modalità terapeutiche correlate.

 

Victim Blaming: quando la vittima diventa colpevole

Il termine Victim Blaming indica la tendenza a colpevolizzare, in toto o in parte, le vittime di violenza, in quanto corresponsabili dei trattamenti loro inflitti.

 

Victim Blaming e inversione dei ruoli di vittima e colpevole

Biasimare chi subisce un’aggressione fisica, sessuale o verbale, significa non soltanto giustificare la condotta di chi schiaccia, picchia, tortura o uccide l’altro, ma anche incrementare la responsabilità della stessa vittima per l’accaduto e, di conseguenza, ridurre quella del carnefice. È come se i ruoli si invertissero: l’errore commesso viene trasferito dall’oppressore all’oppresso, che avrebbe agito in maniera tale da meritare quel torto, quello schiaffo, quel pugno, quell’insulto, quella morte.

Nonostante gli studi sul fenomeno abbiano indagato per lo più le questioni relative alla violenza carnale (Garland, Policastro, Richards, Miller; 2016), è possibile parlare di Victim Blaming anche in riferimento ai banchi di scuola: si pensi a quando la colpa di una rissa non viene attribuita al bullo, ma a chi, dopo aver stuzzicato il can che dormiva, è stato morso.

Victim Blaming nei casi di violenza sessuale o domestica

Purtroppo, la questione interessa prevalentemente le vittime di violenza sessuale e/o domestica (Gravelin, Biernat, Bucher; 2019): in entrambi i casi, il martire è di solito una donna che, secondo il parere di chi le punta il dito contro, è troppo distante dall’idea stereotipata di “vittima indifesa, autentica, vera, leale” e peccherebbe di credibilità (Randall; 2016) in quanto, a causa del suo comportamento o atteggiamento provocatorio, del suo abbigliamento inopportuno e provocante, ha dato fuoco alla miccia. Tutto ciò, non soltanto aumenta la sofferenza di chi già patisce, ma ne raddoppia anche l’umiliazione (Johnson, Nadal, Sissoko, King; 2021).

Nel caso specifico dei soprusi sulle donne, è chiaro quanto la tendenza a condannare chi non è in difetto sia alimentata, in parte e non solo, dagli stereotipi di genere (Johnson, Nadal, Sissoko, King; 2021), ovvero da un “insieme rigido di credenze condivise e trasmesse socialmente su quelli che sono e devono essere i comportamenti, il ruolo, le occupazioni, i tratti e l’apparenza fisica di una persona, in relazione alla sua appartenenza di genere”; tali credenze influenzano negativamente gli atteggiamenti e i pensieri della società nei confronti di chi subisce violenza, specie a sfondo passionale, e portano a formulare pensieri e frasi del tipo “Se la donna avesse tenuto un comportamento da donna, se non fosse stata tanto sconsiderata, allora non avrebbe fatto quella fine”.

Come se si scegliesse di soccombere alla violenza altrui. Come se una ferita fosse causata da chi riceve il colpo, e non da chi impugna il coltello.

 

Cosa può dirci la neuroestetica sul legame tra bellezza e movimento

Neuroestetica: le arti visive offrono alle neuroscienze cognitive un’interessante opportunità di studio dei processi con cui il valore soggettivo di bellezza, intesa come piacevolezza estetica, viene costruito a partire da rappresentazioni supportate da diversi sistemi neurali.

 

 In un recente studio (2021) condotto da Humphries, Rick, Weintraub e Chatterjee presso il Penn Center for NeuroAesthetics (University of Pennsylvania), i ricercatori hanno osservato che in pazienti con morbo di Parkinson la degenerazione della funzione motoria provoca effetti anche sulla percezione del movimento nelle opere d’arte astratte, che risulta significativamente peggiore se paragonata a quella di un gruppo di controllo. Non è inappropriato parlare di movimento per le opere d’arte, poiché anche quando implicito, il nostro sistema nervoso lo elabora (ad esempio nelle pennellate di un dipinto) e lo utilizza per la valutazione estetica soggettiva.

Nel caso specifico, i ricercatori hanno esaminato l’esperienza estetica di pazienti e soggetti non patologici nella valutazione di 10 dipinti di Jackson Pollock e 10 di Piet Mondrian, utilizzando diverse categorie (come piacevolezza, bellezza, familiarità, complessità, saturazione) attraverso la somministrazione di scale Likert a 7 punti. I dipinti di Piet Mondrian, nonostante l’assenza delle pennellate, possono evocare rappresentazioni astratte del movimento piuttosto che simulazioni corporee specifiche, mediate tra gli altri dai neuroni specchio, come più probabilmente accade per la visione dei lavori di Jackson Pollock, in cui il metodo di applicazione della pittura e il numero crescente di colori sovrapposti evocherebbero sensazioni “riflesse” di movimento.

I pazienti con Parkinson hanno dimostrato preferenze stabili e internamente coerenti per l’arte astratta, ma la loro percezione del movimento nei dipinti è risultata significativamente inferiore rispetto ai soggetti di controllo in entrambe le condizioni (low-motion e high-motion art, rispettivamente Mondrian e Pollock). Questo risultato va a confermare la letteratura in merito: il sistema motorio del nostro cervello è senz’altro coinvolto nella traduzione di informazioni non rappresentative da segnali visivi statici nell’immagine in rappresentazioni di movimento, che vengono utilizzate anche per la valutazione estetico-affettiva degli stimoli.

Una ricerca precedente (Battaglia, Lisanby e Freedberg, 2011) aveva utilizzato, tra altri, l’Espulsione dal Paradiso di Michelangelo come stimolo per valutare gli effetti sul sistema motorio, indagati tramite i potenziali evocati motori (MEP) e il periodo corticale silente (CSP) con la stimolazione magnetica transcranica (TMS). L’eccitabilità cortico-motoria riferita a un particolare muscolo del braccio (extensor carpi radialis longus destro) aumenta quando i partecipanti osservano un certo movimento ritratto nel dipinto, in fotografia o immaginato, ma non quando osservano lo stesso muscolo a riposo. Gli autori attribuiscono questo fenomeno all’attività dei neuroni specchio.

 La ricerca in neuroestetica suggerisce sempre di più che l’apprezzamento estetico correla con una facilitazione percettiva e un’amplificazione sensoriale che derivano dall’interazione tra le dinamiche sensoriali del percettore e le caratteristiche del percetto. Sarasso e colleghi (2019) dell’Università degli Studi di Torino hanno indagato la relazione tra apprezzamento estetico e modulazione dei processi attenzionali, individuando una correlazione sia a livello comportamentale che a livello neurofisiologico. Ramachandran e Hirstein in passato (1999) hanno proposto che le esperienze sensoriali estetiche siano prodotte da stimoli che “attivano in modo ottimale le aree visive del cervello”, e numerosi altri autori concordano nel descrivere la percezione della bellezza come uno stato mentale in cui l’attenzione è focalizzata sulle caratteristiche percettive dello stimolo.

L’idea che la valutazione affettiva dell’esperienza estetica abbia un effetto facilitatore sull’apprendimento è dibattuta da secoli, ma recentemente, convergenze multidisciplinari hanno evidenziato un netto collegamento tra i due processi, in cui gioca un ruolo chiave anche l’inibizione dell’attività motoria. In altre parole, le emozioni legate all’esperienza estetica emergerebbero di pari passo con un’inibizione del comportamento motorio (ad esempio, con un rallentamento o riduzione al minimo delle azioni), promuovendo inoltre un miglioramento del processamento percettivo a livello delle cortecce sensoriali – e di conseguenza, dell’apprendimento. È possibile quindi che l’apprezzamento estetico rappresenti un feedback di tipo edonico relativo ai processi di apprendimento, che motiva il soggetto a inibire le routine motorie nel tentativo di acquisire ulteriore conoscenza. A conferma di ciò, lo stesso gruppo di ricerca ha individuato una forte associazione tra le esperienze estetiche e l’attivazione del sistema dopaminergico della ricompensa (Sarasso et al, 2020).

 

Il tragico dilemma del narcisista – REPORT dell’intervento del Prof. Gabbard al Convegno Internazionale di Suicidologia e Salute pubblica, XIX Edizione

Spesso si tende a pensare che un soggetto con disturbo narcisistico di personalità passi la vita a creare disagio all’altro, quando in realtà il disagio permea nella sua struttura ed essenza. Il Prof. Glen Gabbard ha trattato questa difficile tematica e la relazione tra narcisismo e suicidio.

 

 Comunemente si pensa al narcisista come ad un soggetto tutt’altro che sofferente. In effetti, nella sua accezione come aggettivo, si associa a termini negativi come persona estremamente presuntuosa o arrogante.

“In realtà questo è un mito da sfatare”

Così esordisce il Prof. Glen Gabbard in un esemplare intervento il 10 settembre 2021, invitato dal Prof. Maurizio Pompili, responsabile scientifico del Convegno Internazionale di Suicidologia e Salute Pubblica, XIX edizione, evento totalmente gratuito accreditato ECM.

In effetti, si pensa che un soggetto con disturbo narcisistico di personalità passi la vita a creare disagio all’altro, quando in realtà il disagio permea nella sua struttura ed essenza, catapultandolo in una vita intrisa di un profumo apparente, con il solo scopo di sviare sé stesso e l’altro da quella che è la sua tragica realtà. In uno studio condotto da Eaton et al. (2017) su un campione di 34.365, soggetti il disturbo narcisistico di personalità viene definito come un disturbo del disagio sia in donne che uomini, disagio oscurato da meccanismi di difesa come la grandiosità e il disprezzo.

Questi soggetti conducono spesso una vita caratterizzata da una frastornante disperazione, buona parte della quale nasce dal fatto che non ricevono sempre quel riscontro positivo che si aspettano dagli altri. Non esiste un vero contatto con l’altro, perché la loro principale preoccupazione è quella di essere ammirati costantemente per il loro valore e la loro unicità, rendendo dunque impossibile un vero collegamento relazionale. Il loro desiderio è prevalentemente di uno sfrenato controllo onnipotente sull’altro con l’obiettivo di sentirsi al sicuro, dietro un’apparente e accecante unicità. La leggenda di Narciso esplica questo bisogno di costruire ad hoc un’immagine seducente di sé che prenda le veci del suo vero sé. Una spasmodica ossessione che lo porta a rimanere aggrappato in tutti i modi ad una costruzione che non giunge mai ad una vera definizione, rimanendo sospesa nella potenzialità di essere e di fare, ma mai capace di vera esistenza e di vera azione. Spasmodica ossessione che ripara nella costante tentazione di riflettere la propria immagine senza alcuna sbavatura negli occhi degli altri. Occhi di cui mai coglie l’essere Altro da Sé, occhi dunque per lui senza emozioni ed intenzioni, occhi da non perlustrare, ma semplicemente oggetto del suo desiderio di primeggiare. Un dilemma che non si consuma nell’essere o non essere, ma nell’errore di voler far coincidere il proprio Sé con quel Se ideale desiderato ardentemente, ma vivo solo nella sua costruzione illusoria. C’è una sorta di craving verso quell’immagine riflessa in uno specchio d’acqua con la convinzione di poterne immortalare un’eterea bellezza fiabesca. Un dilemma accentuato da quella compulsione ad emergere presente nella società moderna digitalizzata, che permette a chiunque di filtrare a piacimento la propria forma, in nome di un ideale estetico impossibile.

Del resto l’uomo, in generale, risulta essere un po’ narcisista e allora il Prof. Gabbard mette ben in evidenza la possibilità di ipotizzare la presenza di una linea di continuum che metta, ad un polo, un narcisismo definito sano che caratterizza ognuno di noi propenso a sentirsi bene, gratificato e rispettato nel proprio lavoro o nella propria vita privata, ma, dall’altro, un narcisismo patologico, caratterizzato da un’ossessione compulsiva verso mete irraggiungibili.

Ma dove sta la linea di confine tra i due opposti?

Impossibile da definire e da delimitare e dunque solo arbitraria.  Arbitraria rispetto alle differenze individuali, arbitraria rispetto alle varie fasi evolutive, arbitraria già solo nel fatto che assuma molto frequentemente un’accezione peggiorativa sempre proiettata all’esterno. E qui emerge quell’ipocrisia nell’etichettare l’altro con il termine narcisista, mai collegandolo ad un significato gratificante, come la stima, ma sempre in tono dispregiativo. D’altronde si vive in una società che già Lasch definiva negli anni ’70 sempre più propensa ad una cultura del Narciso, aggrappata e sottomessa alla richiesta di rimanere in superficie nella forma più accattivante e attraente possibile, cancellando ogni segno di imperfezione, soffocato nell’abisso oscuro della profondità, come se fosse maligno.

Molto significativa la rappresentazione che il Prof. Gabbard fa del narcisista: viene paragonato a Hýdra, un leggendario mostro della mitologia greca e romana, descritto come un serpente marino a nove teste, pleomorfo, capace di cambiare forma, di avere caratteristiche diverse nei diversi soggetti, caratteristiche che possono far incorrere in diagnosi errate, se non considerato attentamente.

Da un punto di vista descrittivo, lungo il continuum descritto in precedenza, nell’area patologica, ad un estremo è presente colui che è definito “narcisista inconsapevole”, dall’altro un “narcisista ipervigile” (Gabbard, 1989), tenendo conto nello specifico dello stile di interazione prevalente, sia nella vita che nel transfert con il terapeuta. Il primo si avvicina molto più ai criteri diagnostici definiti dal DSM-5 (APA, 2013), ossia caratterizzato da un pattern pervasivo di grandiosità nel pensiero e nel comportamento, assorbito da fantasie di successo, potere, fascino, desideroso di eccessiva ammirazione, incapace di provare empatia nei confronti dell’altro. Nel “narcisista ipervigile”, invece, ritroviamo un’immagine lontana da quanto descritto, in quanto il soggetto è sorprendentemente sensibile al modo in cui l’altro possa reagire nei suoi confronti e, dunque, profondamente suscettibile alle offese altrui. Nel core di questo tipo ipervigile permea un assordante senso di vergogna legato alla propria svalutazione rispetto agli standard desiderati e a un’assillante sensazione di essere inadeguato e imperfetto. I due opposti possono essere correlati rispettivamente ai sottogruppi di narcisismo manifesto e narcisismo celato di Wink (1991), attraverso un’analisi accurata delle componenti delle sei scale sul narcisismo che sono presenti nel Minnesota Multiphasic Personality Inventory (MMPI).

 Un contributo importante giunge da una ricerca di Rus et al.(2008) che, utilizzando una classificazione in base alla rigorosa scala Shedler-Westen Assessment Procedure-II (SWAPP-II), coinvolgendo 1200 professionisti nel campo della salute mentale tra psichiatri e psicologi e un totale di 255 pazienti corrispondenti ai criteri diagnostici del disturbo narcisistico di personalità secondo il DMS-IV, hanno individuato un terzo sottotipo definito “narcisismo ad alto funzionamento/esibizionistico”, caratterizzato da un’alta percezione della propria grandiosità, ma in grado di avere relazioni con gli altri, in quanto affascinante, attraente e apparentemente interessato a comprendere l’altro, anche se poi, nella relazione terapeutica emerge tutta la propria finzione e il proprio egocentrismo.

Si tratta, come già osservato, solo di una classificazione descrittiva, in quanto la variabilità riscontrata in ambito clinico supera ogni aspettativa; inoltre non bisogna dimenticare che spesso in comorbilità è possibile trovare tendenze ossessivo-compulsive, masochistiche, organizzazione borderline, abuso di sostanze, sex addiction, disturbi dell’umore o disturbi d’ansia che non vanno trascurate nella diagnosi (Stinson et al., 2008).

Addentrandosi nel tema centrale del Congresso, il Prof. Gabbard fa delle interessanti considerazioni sul tema della suicidalità nei soggetti con disturbo narcisistico di personalità. A riguardo in letteratura non si hanno ancora contributi importanti, in quanto la tematica viene spesso respinta o comunque non verbalizzata dai pazienti narcisistici, perché è troppo alto il senso di vergogna e di imbarazzo rispetto a quella che viene definita una debolezza. Links (2013) cerca di analizzare in profondità la tematica, rilevando dai suoi studi che il desiderio di uccidersi può essere presente anche in assenza di uno stato depressivo e, dunque, completamente discordante dalla linea comunemente seguita rispetto al suicidio. L’ ideazione suicidaria può scaturire proprio dal disagio stesso del narcisista, soffocato dalla disperazione di proteggere la propria autostima e di confermare quell’autoimmagine patologica di perfezione pervasiva ed invasiva da cui non riesce a liberarsi. Proprio dall’impossibilità di raggiungere standard così elevati potrebbe scaturire l’idea di morire come unica opzione disponibile. Il sentimento di umiliazione potrebbe raggiungere un’intensità tale da non permettere valutazioni ragionevoli da parte del narcisista, costretto nella morsa di un Super-Io così rigido da non riuscire a respirare.

In realtà, ancora non può essere confermato chi realmente è più vulnerabile al suicidio, proprio per l’incapacità comunicativa del soggetto narcisista che oscura la propria vergogna e qualsiasi altra debolezza nel profondo. Sicuramente da qui scaturisce l’importante necessità da parte del terapeuta di una valutazione accurata ed attenta e di un’esplicazione diretta della tematica suicidaria, esplicazione che davvero può salvare molte vite. In effetti, è risaputo che il comportamento suicidario è causa di una mortalità significativa dal punto di vista clinico, ma sottostimata e sottovalutata nei disturbi di personalità. In una ricerca di Blasco-Fontecilla et al.(2010) è emerso che in un campione di 446 soggetti che avevano tentato il suicidio ben 254 avevano avuto diagnosi di disturbo di personalità del cluster B; se valutati in termini di impulsività e letalità prevista secondo il the Beck Suicidal Intent Scale (BSIS) e il the Barratt Impulsivity Scale-11 (BIS-11) gli stessi soggetti risultavano meno impulsivi, ma con un’alta percentuale di letalità, in quanto l’esperienza era vissuta in maniera così soffocante da rimanerne completamente travolti.

E nell’Amore?

Ben spiega il Prof. Gabbard quanto sia tragica l’esperienza vissuta dal soggetto narcisista, in quanto occasione troppo sfuggente e impalpabile: l’amore risulta tanto desiderato quanto impossibile, proprio per la visione distorta che ne ha. Il desiderio di essere sentito dall’altro come perfetto risulta irrealistico; la sensazione di non provare quell’Amore unico fantasmatico porta il soggetto ad un ardente desiderio di controllare l’altro per plasmarlo secondo la propria volontà, con l’unico risultato di rendere l’altro ancora più sfuggente ed irraggiungibile.

A questo punto è ben chiaro il tragico destino del narcisista: la ricerca di una perfetta fusione primaria all’oggetto perfetto porta solamente alla disfatta e alla frammentazione dello stesso, da qui l’ambivalenza idealizzazione/svalutazione in cui vive il soggetto narcisista, catapultato da un polo all’altro senza mai riprendere fiato, in uno stato di perenne potenzialità sospesa, bloccata in un destino senza azioni, alla ricerca di quella stella accecante di successo e di bellezza che non ha mai un lieto fine.

In effetti, afferma Gabbard, la parte più triste di questo tragico destino è che questi soggetti, spesso, invecchiano da soli.

 

Credenze metacognitive nel Binge Eating – PARTECIPA ALLA RICERCA

Partecipa allo studio sul valore che attribuiamo alla metacognizione sul cibo. Questo permetterà una migliore comprensione dei pensieri sui nostri pensieri relativi al cibo e di sviluppare interventi adeguati per le persone la cui metacognizione ha un impatto significativamente negativo sulla loro vita.

 

 Gentile partecipante,

stiamo conducendo una ricerca sulle metacognizioni relative al cibo, ovvero sui pensieri sui nostri pensieri relativi al cibo. La partecipazione è volontaria e non ti costerà nulla se non un po’ di tempo.

Binge Eating Disorder e Metacognizione

Il Binge Eating Disorder è caratterizzato da ricorrenti episodi di abbuffata, che consistono nel mangiare in un dato periodo di tempo una quantità di cibo maggiore rispetto a quanto la maggior parte degli individui mangerebbe nello stesso tempo e in circostanze simili; l’abbuffata è caratterizzata dalla sensazione di perdere il controllo durante l’episodio e spesso è associata a disgusto verso se stessi, depressione o senso di colpa dopo l’episodio (APA, 2013).

In letteratura sono stati proposti numerosi modelli psicologici per i disturbi alimentari e in particolare per il Binge Eating Disorder, molti dei quali focalizzati sul ruolo del limite di quantità alimentare, sulla scarsa autostima, sulla scarsa tolleranza alla sofferenza, su una sopravvalutazione del proprio peso corporeo e della propria forma, e sulle specifiche metacognizioni che invalidano la persona. È perciò particolarmente importante valutare e riconoscere le convinzioni metacognitive che stanno alla base dello sviluppo e del mantenimento del Binge Eating Disorder, affinché il trattamento psicologico possa essere utile ed efficace nel tempo (Covolan, 2020).

L’intervento rivolto a questi pazienti non può essere semplicemente nutrizionale o chirurgico, ma è necessario un intervento integrato che preveda anche un percorso psicoterapeutico, volto a intervenire sulle aree più problematiche utilizzando le strategie cognitive e/o le tecniche comportamentali più opportune nei diversi momenti della terapia (Tosi, 2017). Per poter condurre un intervento efficace è però necessario ampliare le conoscenze ad oggi disponibili sul disturbo attraverso ricerche sperimentali come quella oggetto dello studio in corso.

Perché dovresti partecipare?

 Mentre i comportamenti sul cibo sono un argomento ampiamente studiato, questo studio esamina il valore che attribuiamo alla metacognizione sul cibo. Sviluppando una migliore comprensione dei pensieri sui nostri pensieri relativi al cibo, possiamo sviluppare interventi adeguati per le persone la cui metacognizione ha un impatto significativamente negativo sulla loro vita.

La partecipazione alla ricerca comporterà la compilazione di alcuni questionari che non ti dovrebbe richiedere più di 20 minuti. Non saranno richieste informazioni identificabili e tutti i dati rimarranno anonimi e riservati. Se in qualsiasi momento desideri ritirarti dalla partecipazione, puoi semplicemente chiudere il browser prima di completare i questionari e i dati non verranno raccolti.

Ti saremmo molto grati se potessi aiutarci con il nostro progetto. In caso di domande, non esitare a contattarci.

Ti saremmo grati, inoltre, se inoltrassi questo link a colleghi, amici e/o familiari per raggiungere quante più persone possibili.

Ti ringraziamo anticipatamente per il tuo tempo.

 

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Bushido. A Complete History of British Jujutsu (2019) di Simon Keegan – Recensione

Bushido è un libro scritto da Simon Keegan, marzialista figlio d’arte, che si propone in veste di storico contemporaneo nella descrizione del ben noto Jujutsu britannico.

 

Partendo dall’esplicazione dell’etimologia giapponese di Jujutsu come ‘arte della cedevolezza’, nel suo libro l’autore ripropone, passo dopo passo, tutte le tappe evolutive del percorso che ha portato all’attuale stato dell’arte di questa disciplina.

Il suo arrivo in Gran Bretagna, alla fine dell’ottocento, corrisponde al periodo in cui erano protagonisti della letteratura personaggi come l’assassino seriale Jack ‘Lo squartatore’ ed il detective ‘Sherlock Holmes’.

Negli ultimi anni del XIX secolo Edward Willam Barton-Wright, nella capitale inglese, fonda il ‘Bartitsu Club’ in cui veniva insegnata una primitiva forma di autodifesa basata sul jujutsu nipponico miscelato con il wrestling e l’uso del bastone corto di Vigny.

Da Londra a Liverpool, allora una delle città più violente del Regno Unito, il passo fu breve. Qui il Jujutsu diviene ben presto appannaggio delle forze di polizia che lo utilizzano per la gestione dell’ordine pubblico ed in seguito dei corpi militari che serviranno il loro paese sia durante il Primo che nel Secondo Conflitto Mondiale.

Anche il movimento di emancipazione femminile delle suffragette inglesi, guidato da Edith Garrud, entrerà in contatto con questa dottrina, che ben si presta ad una sua pratica nel campo della difesa personale della donna proprio per le sue caratteristiche che limitano l’uso della forza bruta a favore di tecniche che sfruttano flessibilità ed armonia, senza tuttavia ridurre l’efficacia difensiva di quest’arte.

Con il tempo la popolarità del Jujutsu aumenta in maniera esponenziale, nascono così i primi consorzi, in primis la ‘British Jujitsu Association’ (BJA) e poi la ‘World JuJitsu Federation’(WJJF) del Soke Robert Clark,  ancor oggi, dopo varie vicissitudini, icone di questa dottrina.

Un panorama quello del Jujutsu d’oltremanica che, dal punto di vista tecnico, nasce in Giappone per poi evolversi in un qualcosa di nuovo grazie all’integrazione della forma tradizionale con tecniche di combattimento, come la lotta ed il pugilato occidentale, e che vede, come ultimo gradino evolutivo, la nascita dell’MMA ovvero delle attualissime arti marziali miste.

Ma perché dare un titolo come Bushido ad un testo che, pur nel suo estremo rigore storico, fatto di citazioni ed illustrazioni grafiche di alto livello, non tratta praticamente mai aspetti morali?

È risaputo che sarebbe impossibile parlare di filosofia senza inquadrare il pensiero stesso all’interno di un determinato momento storico, ed è proprio quello che Simon Keegan ritengo che sottenda nel suo testo.

Il termine Bushido si riferisce ad un definito codice di condotta morale a cui, nel passato, facevano riferimento le caste guerriere giapponesi. La sua traduzione, in termini occidentali, viene usualmente scomposta in una serie di sette principi: onestà e giustizia, eroico coraggio, compassione, gentile cortesia, completa sincerità, onore, dovere e lealtà. Tuttavia l’ideogramma, ovvero il simbolo grafico che ne rappresenta l‘immagine e dunque il concetto, è semplicemente uno.

Per capire il Bushido dobbiamo dunque ricorrere ad un approccio olistico ovvero al fatto che il tutto possa esser semplicemente descritto da un solo vocabolo rappresentato in un singolo iconogramma che, in questo caso, può risultare molto evocativo e che riflette la storia dell’autore stesso: lui talento ereditario e dunque radice storico-filosofica, nonchè morale, di questa disciplina in Gran Bretagna, il suo paese d’origine.

Il Bushido di Simon Keegan dà forma, dunque, al ‘British Jujutsu’ di cui lui stesso è testimonial: un po’ come dire che l’etica e la morale trovano significato all’interno di un ben definito periodo storico e nel loro rappresentante più emblematico.

Al momento, il testo è scritto in lingua inglese ed unicamente distribuito nel Regno Unito, proponendosi, a mio avviso, come uno dei contributi più significativi in questo campo e definendo, in un qualche modo, un movimento che nel tempo era stato dai più narrato senza tuttavia trovare fino ad oggi una collocazione così ben delineata nella storia inglese contemporanea.

 

Quando la malattia mentale colpisce gli psicoterapeuti: un limite o una risorsa?

La malattia mentale, al pari di qualsiasi altra forma di malattia, può colpire chiunque, compresi i professionisti della salute mentale.

 

Prevalenza della malattia mentale tra i terapeuti

Tuttavia, pochi studi si sono proposti di valutare la prevalenza delle diagnosi di malattia mentale tra i terapeuti, ma gli attuali dati suggeriscono che un numero significativo di professionisti è affetto da una malattia mentale e/o ha cercato una terapia per sé stesso. Uno studio che ha coinvolto 264 psicoterapeuti, ad esempio, ha mostrato che il 57% dei terapeuti ha avuto episodi depressivi, l’11% ha ammesso di aver avuto problemi di tossicodipendenza e il 2% ha dichiarato di aver tentato il suicidio (Deutsch, 1985).

Ulteriormente, una ricerca condotta su un campione di 727 psicoterapeuti ha mostrato che l’84% del campione era stato in terapia almeno una volta nella vita con differenti motivazioni, tra cui problemi coniugali (20%), depressione (13%) e ansia o stress (10%; Bike, Norcross, & Schatz, 2009). In effetti, andare in terapia è così comune tra gli psicoterapeuti che coloro che non l’hanno fatto potrebbero essere in minoranza (Orlinsky et al., 2011).

Stigma verso la malattia mentale

Lo stigma verso le persone con malattia mentale si riferisce alla condivisione di stereotipi negativi e pregiudizi che rafforzano la discriminazione o comportamenti scorretti verso lo stigmatizzato (Corrigan, 2005). Paradossalmente, la ricerca ha dimostrato che alcuni professionisti della salute mentale nutrono atteggiamenti negativi verso le persone con malattia mentale (Henderson et al., 2014). In particolar modo, si è visto come i suddetti atteggiamenti possano variare a seconda della diagnosi psichiatrica. Per esempio, alcuni psicoterapeuti preferiscono astenersi dal lavorare con pazienti schizofrenici (Nordt et al., 2006) o con clienti affetti da un disturbo borderline di personalità (Black et al., 2011).

Ulteriormente, alcune ricerche hanno mostrano che, talvolta, i professionisti della salute mentale accettano di prendere in carico alcuni pazienti e allo stesso tempo, però, giudicano i colleghi che presentano i medesimi disturbi (Zerubavel & Wright, 2012).

Esistono, però, dei potenziali benefici per i terapeuti che hanno vissuto l’esperienza della malattia mentale: difatti, un’esperienza di recupero e di remissione dai sintomi può essere una risorsa sul lavoro (Zerubavel & Wright, 2012). L’autoconsapevolezza può permettere ai terapeuti di comprendere le esperienze dei loro clienti e promuovere la loro guarigione (Hayes, 2002).

Allo stesso tempo, la malattia mentale da cui sono affetti alcuni professionisti può interferire con la loro capacità di praticare la psicoterapia, ad esempio ostacolando la loro capacità di concentrazione (Gilroy et al., 2002).

In sintesi, le malattie mentali colpiscono i professionisti della salute mentale proprio come accade per il resto della popolazione.

Malattia mentale tra i terapeuti: uno studio

Uno studio preso in esame si è proposto di intervistare 12 terapeuti affetti da una malattia mentale. Gli autori hanno riportato come lo scopo originale dello studio fosse quello di “dare voce agli individui che esercitano un ruolo rilevante nella società e che, allo stesso tempo, affrontano i sintomi e lo stigma della loro malattia”.

Le interviste hanno incluso domande sulla salute mentale degli individui, sulla loro carriera, sulle esperienze di esposizione a pregiudizi e discriminazioni, le tendenze a rivelare o nascondere le loro malattie mentali dentro e fuori dal lavoro. Inoltre, ai terapeuti è stato chiesto di discutere come la loro malattia mentale avesse influito sulla loro capacità di trattare i pazienti in terapia.

Rispetto all’esposizione al pregiudizio e alla discriminazione verso le persone con malattia mentale da parte di altri terapeuti, l’esperienza più comune è stata il pregiudizio indiretto, che aveva comportato l’aver sentito altri professionisti esprimere commenti denigratori nei confronti delle persone con malattie mentali. Il pregiudizio diretto e, dunque, esplicito e la discriminazione sono stati relativamente rari, in parte perché si basavano sul fatto che i terapeuti avessero deciso di condividere la loro malattia mentale, ma molti si sono mostrati restii alla condivisione. Solo due terapeuti hanno riportato di essersi aperti con i loro colleghi, la maggior parte ha scelto di condividere solo alcune informazioni, mentre due si sono mostrati completamente riservati. Si trattava di due uomini con posizioni di rilievo, che avevano effettuato la diagnosi autonomamente. Entrambi erano preoccupati di come la divulgazione avrebbe potuto influenzare la loro carriera e temevano che i colleghi avrebbero messo in dubbio la loro idoneità alla pratica professionale.

Indipendentemente dal fatto che i terapeuti fossero aperti con i loro pazienti sulla loro malattia mentale, la condividessero in circostanze specifiche, o non ne avessero mai parlato, 11 dei 12 terapeuti hanno sottolineato come la loro malattia mentale fosse una risorsa preziosa sul lavoro.

Alcuni hanno sottolineato come l’essere affetti da una malattia mentale li avesse aiutati a vedere i loro pazienti come esseri umani, con tutte le capacità necessarie per recuperare e avere successo. I terapeuti hanno spiegato come l’aver vissuto l’esperienza della malattia mentale li abbia aiutati a comprendere il dolore dei loro clienti ma, allo stesso tempo, gli intervistati hanno anche riferito come l’empatia a volte fosse problematica. “Mi immedesimo troppo perché lo capisco”, ha riportato una professionista, “spesso mi sono sentita sopraffatta dalle emozioni e tuttavia è stato molto soddisfacente, perché in parte sentivo di prendermi cura anche di me stessa”.

Conclusioni

Quanto appena esposto mette in luce come gli psicoterapeuti non siano immuni alle malattie mentali e come talvolta essi siano i primi ad essere giudicanti nei confronti di certi temi. Secondo gli autori, i terapeuti affetti da malattie mentali dovrebbero essere consapevoli di non essere soli e di come altri professionisti descrivano la loro malattia come una risorsa.

Per questo motivo, gli autori sottolineano la necessità di programmi di intervento che includano una discussione aperta sulle preoccupazioni dei soggetti, l’analisi dell’impatto della malattia mentale sulla competenza professionale e delle conseguenze derivanti dallo stigma. Tale intervento potrebbe ridurre la necessità di segretezza, permettendo ai terapeuti di essere più consapevoli dei loro punti di forza e delle sfide personali e professionali che potrebbero incontrare sul loro cammino. Inoltre, secondo gli autori, il programma renderebbe i professionisti attivi nella lotta al pregiudizio, per il bene dei loro clienti e di loro stessi.

 

L’11 Ottobre si celebra il Coming Out Day – La differenza tra coming out e outing

Oggi è il Coming Out Day, una giornata che ha l’obiettivo di celebrare le varie sfumature identitarie. Con questo articolo cercheremo di illustrare la differenza tra coming out e outing e capiremo le implicazioni di queste due azioni.

 

Oggi è il Coming Out Day, una giornata che ha l’obiettivo di celebrare le varie sfumature identitarie. “Coming out” e “outing” sono ad oggi divenuti rapidamente termini di uso comune e, come spesso accade quando adottiamo vocaboli stranieri si può inciampare in storpiature di significato. Con questo articolo cercheremo di illustrare la differenza tra coming out e outing e capiremo le implicazioni di queste due azioni.

Coming out e outing: quale differenza

Immaginiamo il caso di un ragazzo di 14 anni, Giovanni, che vive in un piccolo paese e sta iniziando ad esplorare la sua affettività e sessualità. Giovanni, tuttavia, sa che i suoi genitori sono ostili nei confronti delle persone LGBTQ+, perché li sente i loro commenti quando guardano la televisione, e vive la propria esplorazione affettivo-sessuale con grande sofferenza. Un giorno, dopo scuola, decide di fare coming out con Marta, la sua migliore amica. Gli racconta che gli piace Marco, un ragazzo dell’altra classe e che sente di essere bisessuale. Compiendo questa azione, facendo coming out, Giovanni decide dunque di esporre volontariamente il suo orientamento sessuale a Marta e di essere sottoposto ad un possibile rifiuto da parte dell’amica. Marta lo abbraccia forte e gli confessa di essere felice che lui se la sia sentita di condividere con lei questo aspetto della sua vita.

Dopo qualche giorno, Giovanni e Marta sono a casa di un’amica in comune per finire un compito di gruppo che la professoressa di Italiano ha assegnato loro. Ad un certo punto, Marta, senza pensarci troppo, rivela l’orientamento sessuale di Giovanni all’amica. Marta in questo caso ha fatto outing a Giovanni, ovvero ha condiviso a qualcun altro delle informazioni relative all’orientamento sessuale di Giovanni senza il consenso del ragazzo.

In questo piccolo esempio si può intuire come Marta e l’amica non hanno una reazione di rifiuto di fronte all’identità sessuale di Giovanni, eppure rimane comunque “outing”. Qualora la reazione dell’amica fosse stata contraddistinta da un’intensa emotività con polarità negativa sarebbe stato considerabile comunque “outing”. Ed infine, il fatto che Marta abbia condiviso questa informazione relativa all’orientamento di Giovanni senza il suo consenso rimane “outing” nonostante l’intenzione di Marta non fosse quella di ferirlo o di schernirlo.

Questo breve racconto, di fantasia, è normalità per le persone che possiedono uno status minoritario occultabile, come, ad esempio, le persone della comunità LGBTQ+, che possono costantemente valutare se fare coming out o meno a seconda delle circostanze, e del possibile rifiuto o fenomeno discriminatorio (Pachankis, 2007). Quanto appena descritto è ancora più rilevante se si tiene conto del contesto socioculturale in cui la persona vive. Giano e colleghi (2020) hanno, infatti, notato che più una persona che vive in un contesto a bassa urbanizzazione è aperta riguardo al proprio orientamento sessuale, più si amplificano gli effetti deleteri legati al rifiuto a causa dell’orientamento. Fare coming out non è, quindi, la migliore scelta per tutti ed in ogni momento della propria vita, in quanto l’esito dello stesso è strettamente connesso al contesto socioculturale in cui si vive. Molto spesso, la soluzione migliore è quella di un coming out selettivo con le persone di cui ci si fida maggiormente (Giano et al., 2020).

Le conseguenze dell’outing

Alla luce di quanto detto, ogni persona che fa volontariamente, o meno, outing sta esponendo la persona di cui condivide informazioni ad un possibile rifiuto o fenomeno discriminatorio che può sfociare, purtroppo, anche a gravi conseguenze come il suicidio, la violenza verbale e/o fisica, e l’omicidio (Meyer, 2003; Pachankis, 2007).  Inoltre, è importante considerare che ogni persona con status minoritario viene esposta quotidianamente ad uno stress cronico originato dall’interazione con il gruppo maggioritario che la discrimina e la stigmatizza (Meyer, 2003). Infatti, secondo il Minority Stress Model di Meyer (2003), la persona con status minoritario, tralasciando lo stress generico che ognuno di noi esperisce, è sottoposta a:

  • Stressor distali, che per definizione sono oggettivi e rappresentano le varie forme di discriminazione e stigmatizzazione (stigma interpersonale e strutturale);
  • Stressor prossimali, che dipendono dalla percezione individuale e sono formati dalle risposte affettive, cognitive e comportamentali degli individui allo stigma, come la sensibilità al rifiuto, l’omofobia interiorizzata e la dissimulazione.

Di conseguenza, fare outing a qualcuno vorrebbe dire esporre questa persona a maggiori livelli di stressor distali e prossimali che portano a disturbi d’ansia, specialmente ad ansia sociale, depressione, rischio suicidario e comportamenti autolesionistici, e abuso di alcol e sostanze (Feinstein, 2019).

In conclusione, lo scopo di questo articolo è quello di sensibilizzare chi legge rispetto alle conseguenze dell’outing. Come abbiamo visto ogni persona LGBTQ+ porta con sé tanta sofferenza e può essere sottoposta a gravi rischi psicofisici a causa di una confessione da noi rilasciata ad altri senza il suo consenso.

L’obiettivo del Coming Out Day potrebbe essere quello di comprendere, fare domande, simpatizzare ed empatizzare con una persona LGBTQ+. Dall’altra parte, se si è una persona che appartiene alla comunità LGBTQ+, si potrebbe fare dell’attivismo gentile: essere sé stessi e mostrare l’amore che si ha nella propria vita, agli altri. Buon Coming Out Day!

 

Figli adottivi: caratteristiche emotive, comportamentali e psicopatologia

Il bambino adottato, a causa delle esperienze negative preadottive, può sviluppare un’idea di sé come individuo sbagliato, incapace e non degno di amore. Egli spesso si rappresenta il mondo come un luogo pericoloso e quindi può utilizzare diverse strategie per far fronte alla sensazione di essere una persona fragile che si muove in un mondo minaccioso.

Serena Pierantoni e Mariasilvia Rossetti – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, San Benedetto del Tronto

 

L’incontro adottivo si staglia sullo scenario di una doppia mancanza: a una coppia manca un figlio, a un bambino mancano dei genitori. Se gli attori saranno in grado di colmarla potranno realizzare l’evento intensamente carico di emozioni di una doppia nascita: due esseri che diventano genitori e un essere che diventa persona attraverso la filiazione” (Farri Monaco M. & Castellani P., 1994).

L’adozione è un percorso molto delicato per i genitori e soprattutto per i bambini.

L’attuale ricerca relativa alle adozioni nazionali e internazionali evidenzia come i figli adottivi sono spesso sovra rappresentati nei servizi psichiatrici.

Disturbi psicologici e comportamentali tra i figli adottivi

Le ricerche cliniche che hanno confrontato bambini adottati e non adottati, mostrano che i primi presentano più frequentemente sintomi “internalizzanti” quali somatizzazione, depressione, ansia, disturbi psicotici dagli 1 ai 5 anni. Queste problematiche sembrano essere preponderanti subito dopo l’adozione per poi diminuire gradualmente nel corso del tempo. Dopo i 5 anni sono più frequenti i disturbi “esternalizzanti”: comportamenti aggressivi e/o oppositivi, bugie, fughe da casa, uso di sostanze stupefacenti, comportamenti antisociali. Si rilevano inoltre, con maggiore frequenza nei bambini adottivi, difficoltà di apprendimento, deficit di attenzione, iperattività (D. Bramanti & R. Rosnati, 1998).

Dagli studi non clinici che hanno confrontato campioni di bambini adottati e non adottati scelti dalla popolazione generale si ottengono invece risultati abbastanza contrastanti. Alcuni non hanno rilevato differenze tra i due gruppi; altri evidenziano una maggior frequenza di problemi psicologici e comportamentali e un maggior numero di difficoltà scolastiche. Da alcune ricerche si evince che le differenze tra adottati e non, sono consistenti in età scolare, si riducono in adolescenza per poi scomparire; altre evidenziano invece maggiori problematiche proprio durante il periodo adolescenziale (Miller et al., 2000).

I risultati della ricerca di Barcons-Castel et al. (2011) indicano che, a fronte di un adeguato sviluppo, rispetto ai coetanei, i bambini adottivi presentano più problemi legati alla somatizzazione, all’aggressività e alla depressione. Inoltre, i ragazzi non adottati, in particolare maschi, hanno migliori capacità adattive rispetto agli adottati, differenza che non sembra essere significativa per le ragazze (Barcons-Castel et al., 2011).

Uno studio molto recente di Paine et al. (2021) ha indagato su un campione di 42 bambini dai 4 agli 8 anni il ruolo che può avere la capacità di riconoscimento delle emozioni sui problemi comportamentali e psicologici mostrati dai bambini adottivi.

Comprendere, saper individuare e discriminare le emozioni è fondamentale per un buon adattamento sociale e psicologico. Le difficoltà a riconoscere le emozioni sono associate a rifiuto sociale, vittimismo e sintomi clinici in infanzia. Ad esempio, lo scarso riconoscimento delle emozioni negative come tristezza, paura e rabbia è evidente nei bambini con disturbi comportamentali (Van Goozen SHM, 2015).

La ricerca conferma che in generale i bambini (sia adottivi che non) con problemi emotivi e comportamentali identificano con maggiore precisione le espressioni emotive positive rispetto a quelle negative (tristezza, paura, rabbia). Tuttavia, rispetto ai bambini non adottati, quelli adottati hanno ottenuto risultati significativamente peggiori nella discriminazione di volti tristi, arrabbiati e spaventati (Paine et al., 2021). I risultati suggeriscono che le difficoltà a riconoscere i segnali di angoscia tipici dei volti impauriti, possono ostacolare la capacità di imparare a inibire il comportamento aggressivo. L’evidenza indica che gli interventi basati sulle emozioni potrebbero migliorare le capacità dei bambini adottivi di riconoscere le espressioni emotive e ridurre i loro problemi comportamentali.

Molti studi evidenziano che anche in adolescenza i ragazzi adottati manifestano problemi emotivo/ relazionali, scolastici e comportamenti devianti in misura maggiore rispetto ai propri pari non adottati. Lo studio di Miller et al. (2000) mostra che gli adolescenti adottati, in particolare di sesso maschile, hanno più problemi scolastici (assenteismo, scarsi risultati), di abuso di sostanze, litigi con i genitori, e in generale più problemi psicologici (maggiore sofferenza psicofisica, minore autostima, minore speranza per il futuro) dei non adottati.

Da uno studio di Verhulst et al. (1990) emerge che i soggetti adottivi presentano problematiche comportamentali nel 23% dei casi contro il 10%; problemi con la giustizia in 1,8% dei casi contro lo 0,4%; problemi internalizzanti nel 7,1% dei casi rispetto al 2,2% dei non adottivi (M. Chistolini, 2010).

Altre caratteristiche maggiormente prevalenti negli adottati riguardano comportamenti delinquenziali (Sharma et al.,1998), difficoltà interpersonali, comportamenti oppositivi, comportamenti aggressivi (Austad and Simmons, 1978) e antisociali (Offord et al., 1969).

Una ricerca condotta presso l’Università del Minnesota su un campione di 692 ragazzi adottati e 540 non adottati, ha indagato se lo stato di adozione può rappresentare un fattore di rischio per il tentativo di suicidio. Emerge che la probabilità di tentativo di suicidio è quattro volte superiore negli adottati. La relazione tra tentativo di suicidio e stato di adozione è mediata da fattori noti per essere associati al comportamento suicidario: ambiente familiare, sintomi psichiatrici, tratti di personalità, abbandono scolastico (Keyeset al., 2013).

Uno studio recente di Murray et al. (2021) ha analizzato il ruolo delle esperienze traumatiche sui comportamenti suicidari dei soggetti adottivi rispetto ai coetanei non adottati. Si riscontra un’alta percentuale di esperienze potenzialmente traumatiche tra gli individui adottati (oltre il 93%) e si conferma la maggiore probabilità degli adolescenti adottati di ideazioni o comportamenti suicidari. Tuttavia, quando vengono aggiunti al modello i sintomi del politrauma o trauma, l’adozione non risulta più un predittore significativo per l’ideazione suicidaria. Sebbene l’associazione tra adozione e rischio suicidario sia ancora da approfondire, lo studio attuale indica che lo stress traumatico gioca un ruolo critico (Murray et al., 2021).

Disturbi di personalità tra i figli adottivi

Diversi studi hanno indagato l’adozione come fattore di rischio per specifici disturbi di personalità come il disturbo ossessivo-compulsivo di personalità, il disturbo antisociale, schizotipico, schizoide, paranoide, evitante (Westermeyer, et al., 2015). Tuttavia questi studi non hanno comparato la percentuale di disturbi di personalità tra soggetti adottati e non adottati in un campione nazionale abbastanza rappresentativo.

Westermeyer et al. (2015) hanno confrontato i dati relativi alla storia di vita e alla presenza di disturbi di personalità in adulti adottati e non adottati considerando sette disturbi di personalità: istrionico, antisociale, evitante, paranoico, schizoide, ossessivo-compulsivo e personalità.

I risultati ottenuti mostrano una maggiore probabilità di sviluppare un disturbo di personalità in coloro che sono stati adottati rispetto ai non adottati. In particolare, la correlazione più forte sembrerebbe quella con i disturbi del Cluster B (istrionico e antisociale), meno significativa, ma comunque rilevante, la correlazione con il Cluster A (paranoide e schizoide) e C (evitante e ossessivo-compulsivo). L’unica correlazione che non si è mostrata significativa è con il disturbo dipendente di personalità.

Questi risultati si ottengono in particolare per la fascia di età 18-29 anni, le differenze tra adottati e non adottati diminuiscono invece dai 45 anni in poi (Westermeyer et al., 2015).

I fattori che contribuiscono allo sviluppo di disturbi di personalità negli adottati potrebbero originare da aspetti genetici e non genetici relativi ai genitori biologici (ibidem).

Fattori di rischio per i figli adottivi

Tutti i bambini adottivi provengono da situazioni di abbandono o di separazione dalle famiglie di origine per trascuratezza, povertà, maltrattamento o abuso

Gli effetti negativi sullo sviluppo neuropsicologico dei bambini adottati potrebbero in alcuni casi dipendere da “danni biologici” dovuti a condizioni di vita sfavorevoli: malattie dei genitori, assunzione di sostanze stupefacenti in gravidanza, controlli sanitari assenti, denutrizione.

Possono però anche derivare da esperienze traumatiche vissute nei primi mesi di vita.

Per comprendere i meccanismi e le dinamiche che sono alla base dello sviluppo psicoaffettivo del bambino adottivo è necessario far riferimento alla teoria dell’attaccamento di Bowlby. L’attaccamento è stato definito come un sistema comportamentale, biologicamente predeterminato, che spinge il bambino a cercare un legame affettivo, vicinanza e conforto con una figura specifica, principalmente la madre o, più in generale, tutte quelle figure che interagiscono in modo precoce con il bambino al fine di ottenere protezione, cura e regolazione degli stati emotivi (Bowlby, 1979).

In base alla risposta del caregiver, nel cervello del bambino si formano delle rappresentazioni mentali (Modelli Operativi Interni) di se stesso, della Figura di Attaccamento e della relazione tra sé e l’altro.

I Modelli Operativi Interni si formano alla fine del primo anno di vita e restano abbastanza stabili nel tempo; sono utilizzati per interpretare noi stessi, il mondo, l’altro e per interagire con l’esterno (Liotti, 2001).

I bambini adottati spesso fanno esperienza preadottiva di relazioni di attaccamento che non forniscono loro un senso di sicurezza. Howe (2001) distingue tre storie preadottive e diversi stili di attaccamento insicuro che i bambini adottivi possono aver sviluppato: good start, poor start, institutional care.

I good start, quei bambini che hanno avuto un buon rapporto con i caregiver biologici nei primi anni di vita e solo successivamente hanno vissuto esperienze negative, potrebbero strutturare un attaccamento sicuro con aspetti ansiosi. Potrebbero assumere comportamenti di dipendenza con i genitori adottivi per la paura di perdere di nuovo le figure di attaccamento (Howe, 2001).

I poor start, ossia i bambini che fin dalla nascita hanno sperimentato scarse cure, se non abusi, maltrattamenti e trascuratezza, potrebbero sviluppare uno stile di attaccamento insicuro resistente, evitante o disorganizzato. I bambini resistenti hanno interiorizzato un modello di genitori incostanti, quindi possono mostrarsi richiedenti e possessivi nei confronti dei genitori adottivi. Gli evitanti hanno fatto esperienza di genitori freddi e distaccati che li hanno fatti sentire rifiutati. Questi bambini potrebbero evitare il contatto emotivo per mostrarsi forti e invulnerabili. Infine, i bambini con attaccamento disorganizzato hanno un senso di sé poco chiaro e definito e una rappresentazione dell’altro come spaventato/spaventante. Possono manifestare atteggiamenti volti a controllare emotivamente la relazione oppure atteggiamenti punitivi nei confronti di se stessi.

Infine i bambini institutional care, istituzionalizzati fin dalla nascita, possono sviluppare o ricerca di cura indifferenziata o assenza di legame di attaccamento (Howe, 2001).

L’abbandono o la separazione dai genitori biologici rende il bambino adottivo fragile. Oltre all’esperienza traumatica, gli viene anche richiesto di sviluppare in poco tempo nuovi apprendimenti cognitivi, relazionali, di adattarsi a un nuovo contesto di vita a lui sconosciuto e per di più spesso senza aver sviluppato le capacità necessarie.

Il bambino adottato infatti, a causa delle esperienze negative preadottive, può sviluppare un’idea di sé come individuo sbagliato, incapace e non degno di amore, un’immagine di sé distorta che lo rende particolarmente permaloso e sensibile alle critiche.

Il bambino adottato spesso si rappresenta il mondo come un luogo pericoloso e quindi può utilizzare diverse strategie per far fronte alla sensazione di essere una persona fragile che si muove in un mondo minaccioso. Potrebbe ad esempio cercare di tenere tutto sotto controllo utilizzando una strategia di ipermonitoraggio. Questo aspetto può essere la causa delle difficoltà di attenzione/concentrazione e dei comportamenti oppositivi. Opporsi ai genitori adottivi dà la sensazione al bambino di avere il controllo della situazione.

Strategie più prudenziali sono la compiacenza e il ritiro depressivo. Alcuni bambini per evitare un altro rifiuto, nel nuovo nucleo familiare aderiscono perfettamente alle aspettative dei genitori nascondendo però totalmente le proprie necessità. Il ritiro depressivo e l’autoesclusione allo stesso modo danno la sensazione di essere al sicuro da eventuali fallimenti (Chistolini, 2010). In alternativa, potrebbero reagire con comportamenti di attacco (aggressività) o fuga (agitazione motoria che prepara a scappare o freezing) (ibidem).

In adolescenza i maggiori fattori di rischio da considerare per i disturbi comportamentali riguardano ancora il legame di attaccamento sperimentato con la famiglia biologica e con quella adottiva e le difficoltà incontrate nel tentativo di costruire la propria identità personale. Uno dei compiti di sviluppo di un adolescente è differenziarsi dai propri genitori e metterli in discussione per acquisire una propria individualità e autonomia. Ciascun adolescente necessita di distanziarsi dai genitori e al tempo stesso di essere ancora guidato e contenuto. Per il ragazzo adottato questo processo diventa più difficile perché potrebbe riemergere la paura dell’abbandono e il vissuto di colpa (ibidem). Allo stesso modo potrebbe esser complesso per l’adolescente adottato costruire una propria identità coerente se non ha la possibilità di ricostruire la sua storia preadottiva (Grotevant, Perry e McRoy, 2005).

Fattori protettivi per i figli adottivi

Considerando la fragilità psicologica dei figli adottati, è fondamentale che i genitori adottivi siano capaci di mentalizzare con i figli e di comprendere la sofferenza e la paura dell’abbandono che guidano i loro atteggiamenti. La sicurezza dei Modelli Operativi Interni sembra essere un fattore protettivo, è dunque importante che i genitori adottivi permettano al bambino di sperimentare la presenza di una “base sicura”. Le famiglie adottive dovrebbero aiutare il bambino ad acquisire fiducia nella disponibilità del caregiver, promuovere la riflessività e l’intelligenza emotiva, l’autonomia e la self-efficacy (Santona, Zavattini, 2005).

In particolare, in adolescenza i genitori adottivi dovrebbero riuscire a riconoscere fino a che punto il figlio si sente di appartenere a quella famiglia piuttosto che a quella di origine, favorendo l’accessibilità alle informazioni inerenti il passato. Conoscere la propria storia preadottiva è un fattore protettivo che aiuta il ragazzo a dare un senso a quanto accaduto e a costruire il proprio sé.

Non esistono i problemi dell’adozione. Ma esistono i bisogni degli adottati e questi […] sono il riflesso della loro storia personale” (Anna Genni Miliotti, 2013)

 

La comprensione emotiva e cognitiva negli adolescenti delle risposte dell’autorità giudiziaria nel processo penale minorile

Quali variabili influiscono sulla comprensione, negli imputati minorenni, delle decisioni dell’autorità giudiziaria?

 

In tanti anni di lavoro presso il Tribunale per i Minorenni, mi sono convinta che le variabili sono tante e in stretta interrelazione tra di loro: il contesto giudiziario, l’adolescente e il suo sviluppo cognitivo ed emotivo, la capacità di noi adulti di “far comprendere” cosa accade.

Il processo penale minorile

Il processo penale minorile (DPR 448\88) è stato creato ad hoc per intervenire allorquando un minore, tra i quattordici e i diciotto anni, commette un illecito penale. Le decisioni devono tutte contemplare, ove possibile, una veloce fuoriuscita del minore dal circuito penale.

In questo senso due istituti giuridici, rispettano appieno questo principio: “l’irrilevanza del fatto” art. 27 del DPR 448\88 e il “perdono giudiziale”, art. 169 del Codice Penale.

Il primo, l’art. 27, è una sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto: “Durante le indagini preliminari, se risulta la tenuità del fatto e l’occasionalità del comportamento, il pubblico ministero chiede al giudice sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto quando l’ulteriore corso del procedimento pregiudica le esigenze educative del minorenne”. Questa decisione può essere presa anche nelle fasi successive del processo, nell’udienza preliminare e in dibattimento.

Il secondo è il Perdono Giudiziale per i minori degli anni diciotto: “Se, per il reato commesso dal minore degli anni diciotto la legge stabilisce una pena restrittiva della libertà personale non superiore nel massimo a due anni, ovvero una pena pecuniaria non superiore nel massimo a euro 5 anche se congiunta a detta pena, il giudice può astenersi dal pronunciare il rinvio al giudizio, quando, avuto riguardo alle circostanze indicate nell’art.133, presume che il colpevole si asterrà dal commettere ulteriori reati.[…].Il perdono giudiziale non può essere concesso più di una volta”.

In questa sede non mi dilungherò ulteriormente nella disquisizione puramente giuridica, è solo importante ricordare come anche la giurisprudenza si è fatta carico non solo di assolvere al suo compito sanzionatorio di fronte alla commissione di un reato da parte di imputati minorenni, con un riconoscimento della responsabilità, ma ha tenuto conto, nei principi che hanno ispirato il processo, del soggetto e della necessità di assolvere anche ad un compito educativo, riabilitativo e di veloce fuoriuscita dal circuito penale.

Processo penale minorile, adolescenti e sviluppo cognitivo

Altra variabile è rappresentata dall’adolescente e dal suo sviluppo cognitivo. La differenza più rilevante tra il funzionamento mentale del bambino e quello dell’adolescente sta nella capacità di riflettere sul proprio pensiero. È una conquista sconvolgente: coinvolge le capacità metacognitive del soggetto, cioè quelle abilità che consentono di riflettere sulla propria conoscenza e sulle proprie strategie per operare conoscenza, ricordo e apprendimento.

Sono in esso coinvolti due livelli: quello dichiarativo e quello procedurale. Un importante contributo viene dato da quelle variabili come il livello socio-culturale, di scolarizzazione, le opportunità che l’adolescente può avere di socializzazione e di confrontarsi con il gruppo dei pari, che influenzano lo sviluppo cognitivo e le capacità mentali.

Tutte queste abilità sono soprattutto legate allo sviluppo dell’area prefrontale, individuata come zona di principali stazioni dei circuiti neurali implicati nei processi decisionali. Molti studi effettuati con neuroimaging strutturale, hanno posto in evidenza come queste aree subiscano, nel corso della fase evolutiva dell’adolescenza, profondi cambiamenti sia in termini di connessioni possibili sia in termini di mielinizzazione.

Accade però a volte che quando vengono fatte domande legate al contesto giuridico in cui ci ritroviamo, nello specifico sulla storia penale del ragazzo (sentenze pronunciate in precedenza, eventuali pendenze, e via dicendo), le risposte fanno intendere una mancanza di comprensione delle pronunce dell’autorità giudiziaria, come se poco o nulla fosse rimasto in memoria.

Processo penale minorile e comprensione della sentenza

Ma cosa accade quando un Tribunale pronuncia una sentenza, o di irrilevanza del fatto o di perdono giudiziale per una condotta dell’adolescente che ha richiesto la presenza di fronte al giudice? Quali meccanismi complessi intervengono affinché l’adolescente restituisca quelle risposte? Coinvolgono fattori cognitivi, emotivi?

Di seguito proverò a fare delle riflessioni, forse assurde, ma che sono il frutto della curiosità che nutro per comprendere sempre un po’ di più la fase “dell’età dell’oro”, così definita da Fabbrini e Melucci nel loro libro, l’adolescenza.

La sensazione di non aver inciso nella memoria del ragazzo è anche data dal fatto che lo ritroviamo di fronte a noi in occasione di un nuovo reato commesso dopo la precedente sentenza, oltre che dalle risposte di cui parlavamo prima.

Se consideriamo le parole scelte dal giurista come “irrilevanza” o “perdono”, e le analizziamo dal punto di vista del loro significato nella lingua italiana, potremmo trovarci di fronte, per un soggetto adolescente in crescita e a volte cresciuto in ambienti poco stimolati, in una sorta di “paradosso”, inteso, come riportato da Zingarelli nel vocabolario della lingua italiana, come una “asserzione incredibile, in netto contrasto con la comune opinione”.

Nel dizionario, irrilevanza significa “essere irrilevante”, e il secondo, perdono, “remissione di una colpa e del relativo castigo”.

Già come si può vedere dal loro significato, e in un adolescente in progressiva evoluzione, i termini possono indurre in uno stato di disorientamento e non comprensione profonda di quanto accade, come se ci fosse una dissonanza tra la decisione e il comportamento passato: ho commesso un illecito “è irrilevante?” “mi perdonano?”, “è comunque finita bene, senza alcuna conseguenza?” “non vado in carcere?”.

Ma come accennavamo all’inizio, entrambe le risoluzioni riconoscono una colpevolezza dell’imputato, anche se l’art. 27 non risulta sul certificato penale, mentre l’art. 169 rimane fino al 21 esimo anno di età e ci si deve attivare per la sua eventuale cancellazione.

Mi sembrava interessante a tal proposito la teoria di Leon Festinger, della dissonanza cognitiva. Il giovane potrebbe trovarsi di fronte ad una complessa elaborazione cognitiva in cui credenze, ed io aggiungerei evidenze (il Tribunale si pronuncia con una sentenza di colpevolezza, dunque con un riconoscimento di responsabilità circa il fatto-reato), esplicitate in contemporanea e in contrasto “funzionale” tra loro potrebbero indurlo in confusione.

Vogliamo poi aggiungere il meccanismo di selezione delle informazioni che i soggetti umani operano. Secondo Atkinson e Shiffrin, il meccanismo di selezione, conterebbe di tre sistemi in connessione tra loro ma preposti ognuno a specifiche funzioni e con caratteristiche strutturali anch’esse particolari. I tre sistemi sono la memoria sensoriale, la memoria a breve termine (MBT) e quella a lungo termine (MLT).

Anche in questo caso non voglio dilungarmi sui tre processi, c’è molta letteratura in merito. Quello che ci interessa è il terzo sistema: la memoria a lungo termine, capace di mantenere per un tempo lungo, indeterminato, il materiale proveniente dalla memoria a breve termine. Tra gli infiniti utilizzi che l’uomo fa delle informazioni presenti in questo serbatoio, è bene anche ricordare che questa memoria è capace di attivare meccanismi come l’oblio o il falso ricordo.

Potremmo ipotizzare che per provare a risolvere il conflitto tra le proprie azioni, la risposta dell’autorità giudiziaria e il significato della terminologia usata, il soggetto potrebbe ricorrere a tecniche che neutralizzano quanto contenuto nella pronuncia. Il risultato di questa “operazione” tende ad affievolire, a volte anche ad escludere, il senso di responsabilità individuale attraverso una ridefinizione del senso del proprio agire: è irrilevante, sono stato perdonato…non fa nulla.

È qui che giungiamo all’ultima variabile importante a mio avviso, affinché l’adolescente operi una esperienza educativa: il ruolo ricoperto da noi adulti.

Il ruolo degli adulti nel processo penale minorile

Gli adulti coinvolti nel processo penale, sono tanti, figure diverse, con ruoli e competenze diverse: i magistrati, togati ed onorari, i servizi sociali della giustizia minorile, la difesa, i genitori.

È nostro preciso compito, così dice il DPR 448\88, spiegare e fornire al minore imputato tutte le informazioni e gli elementi per capire dove si trova, perché e cosa accadrà nelle varie fasi del processo.

Il Processo Penale rappresenta un esempio di innovazione, pensata dai nostri legislatori a cui ha fatto riferimento l’Unione Europea per le Garanzie Procedurali per i Minori Penalmente imputati. Coniuga l’obiettivo di dare una risposta al reato con quella di fare attenzione e di proteggere la fase evolutiva del minore.

Altro aspetto interessante del DPR è lo sviluppo di una attitudine “responsabilizzante” per l’imputato. E‘ attraverso questa che si attivano durante tutto il permanere nel circuito penale, competenze autoregolative che si basano su principi condivisi socialmente e che hanno una funzione strutturante per il futuro dello stesso. Assumono dunque anche un aspetto preventivo, dando le coordinate attorno alle quali egli può costruirsi un diverso percorso evolutivo.

Spiegare al minore la decisione presa dall’autorità giudiziaria in merito al suo comportamento “illecito”, sottolineando il riconoscimento di responsabilità e la sanzione che ne consegue, può  aiutare l’adolescente nel faticoso processo, prima di tutto di comprensione e forse poi di immagazzinamento nella memoria, come elemento significativo nella costruzione delle direttive verso la strutturazione di un percorso evolutivo diverso, lontano da comportamenti illeciti, quei comportamenti che hanno contemplato una pronuncia di colpevolezza.

“La memoria, che ci permette di avere ricordi dei fatti del nostro passato, è da considerarsi tra le manifestazione più elevate del nostro cervello umano e tra le più importanti della nostra vita; facoltà straordinaria, tra le più fantastiche che abbiamo, strettamente legata alla coscienza” (G. Maira, p. 145). Sarebbe interessante poter condurre degli studi sulla possibile recidiva in quei giovani che hanno avuto la possibilità di cogliere appieno il significato di istituti come l’art 27 e l’art 169 codice penale.

La Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza sostiene che questo periodo comprende un “processo di responsabilizzazione che porta all’età adulta, che dovrebbe essere l’età delle responsabilità” (art. 29 lettera d, Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza).

Attraversare l’età delle responsabilità significa anche comprendere appieno la relazione tra un comportamento agito, il reato, e la risposta degli adulti, la sentenza del Tribunale. Solo così noi adulti abbiamo assolto al compito di sanzionare, ma anche di far sì che l’esperienza penale rappresenti anche un’esperienza educativa e si trasformi in un utile strumento per la costruzione di un futuro diverso.

 

L’amo o non l’amo. Vincere le ossessioni sulla relazione e sul partner (2021) – Recensione del libro

L’amo o non l’amo. Vincere le ossessioni sulla relazione e sul partner, un testo che approfondisce il dubbio ossessivo circa la propria relazione.

 

Si parla infatti di DOC da Relazione, noto come R-OCD (Relationship Obsessive-Compulsive Disorder).

L’amo o non l’amo? Recita il titolo del libro, è la persona che fa per me? Mi piace ancora come un tempo? Sono ancora attratta fisicamente? Questi alcuni degli interrogativi su cui si incastra senza fine e senza risposte soddisfacenti chi poi sviluppa tale forma di ossessioni.

Diventa difficile per chi sperimenta tali dubbi, individuare e riconoscere gli stessi come sintomi. Spesso si riscontrano in coppie storiche e solide, ma il soggetto che poi attorno a tale dubbio crea le sue ossessioni, approccia tali dubbi in modo rigido, estremo, catastrofico e con tentativi di soluzioni fallimentari.

Il testo offre informazioni e chiarificazioni in tal senso.

Ricercare di rassicurazioni attraverso il confronto con amici, familiari o lo stesso partner al fine di allentare il peso del senso di colpa per avere tali dubbi, mettersi costantemente alla prova sul grado e livello di interesse, amore, attrazione…, essere assorbiti per tante ore e giorni da questi dilemmi, fino a creare una sorta di profezia che si autorealizza, in quanto la relazione non viene più vissuta in modo naturale e spontaneo ma accompagnata da una forte componente ansiosa, interpretata dalla persona come ulteriore conferma che nella propria relazione c’è qualcosa che non funziona come dovrebbe.

Ed ecco che il testo approfondisce tutte le variabili che scatenano e mantengono tale disturbo offrendo anche diversi esempi circa le credenze di base disfunzionali che più frequentemente si riscontrano in persone che si trovano ad affrontare il DOC da Relazione.

Dopo una panoramica generale del DOC e relativi sottotipi, il testo si dedica in modo esclusivo al DOC da Relazione.

A partire dai contributi dei pionieri Doron e Derby, si approfondirà come il dubbio circa la propria relazione, tende ad aumentare ed esasperarsi specie nei momenti in cui all’interno della relazione si delinea la possibilità di un cambiamento più o meno impegnativo (ad esempio prime vacanze insieme, inizio di una convivenza, far conoscere il partner ai propri familiari ed amici, il progetto o la nascita di un figlio…).

Il dubbio può essere centrato sulla natura dei propri sentimenti o di quelli del partner nei propri confronti, quanto circa le qualità e le caratteristiche del partner.

Diverse le credenze disfunzionali che entrano in gioco, come il pensiero polarizzato (tutto/nulla, bianco/nero), estremizzazione, non tolleranza del rischio o dell’incertenza, catastrofismo, fusione pensiero/azione, sopravvalutazione dell’attività del pensiero (ad esempio, se ho guardato un’altra persona allora significa che non sono più attratto/a dal mio partner).

Non è infrequente che il DOC da Relazione si accompagni ad altre forme di ossessioni come ad esempio i così comunemente chiamati pensieri inaccettabili (ossessioni aggressive, paura di poter essere omosessuale, di nutrire fantasie sessuali peccaminose…).

La seconda parte del testo è dedicata all’autovalutazione, corredata di questionari volti ad indagare la presenza dei sintomi caratteristici del DOC da Relazione e di eventuali altre forme di ossessioni e/o compulsioni.

Dalla terza ed ultima parte del testo invece, si entra nel vivo di consigli pratici, indicazioni e strumenti per favorire il cambiamento.

Troveremo il diario dei pensieri, suggerimenti volti ad individuare le strategie utilizzate attualmente ma che peggiorano il problema, come creare una gerarchia di stimoli ansiogeni per lavorare sull’esposizione anziché sull’evitamento, indicazioni utili alla prevenzione delle ricadute…

Un testo dunque utile a chiarire al lettore che non si può controllare il pensiero ma possiamo controllare e lavorare su come rispondiamo allo stesso.

Utile dunque a chi soffre di tali ossessioni, quanto al clinico che lavora su tale ambito come valido strumento da suggerire ai propri pazienti.

 

Tè, cacao, caffè e disturbi affettivi

García-Blanco et al. (2017) hanno effettuato una revisione sistematica della letteratura esaminando il ruolo di tè, cacao e caffè in relazione all’ansia e ai disturbi affettivi come la depressione.

 

Solo nei paesi dell’unione europea, 21 milioni di persone soffrono di depressione e l’80% circa sono uomini (Vigo et al., 2016). Il trattamento della depressione nell’UE, costituisce l’1% dell’economia totale (Trebatická & ɰuračková, 2015) ed è parecchio costoso, con una stima di circa 118 miliardi di euro, ossia 253 euro per abitante.

Poiché la dieta, l’inattività fisica e l’inquinamento (Cohen, 2012) costituiscono i fattori di rischio maggiori per la salute, andare ad agire sulla prevenzione, migliorando lo stile di vita individuale, costituisce un valido supporto al trattamento psicologico.

Il cacao, il tè ed il caffè vengono attivamente studiati poiché ricchi di composti polifenolici, che agiscono sulla salute mentale, modulando plasticità cerebrale, comportamento, umore, depressione e cognizione (Visioli & Burgos-Ramos, 2016). Svolgono inoltre attività biologiche importanti: le loro proprietà antinfiammatorie ed antiossidanti, possono proteggere le cellule dallo stress (Giordano et al., 2014).

García-Blanco et al. (2017) hanno effettuato una revisione sistematica della letteratura esaminando il ruolo tè, cacao e caffè in relazione a disturbi affettivi come depressione e ansia.

Su 17 studi indagati, 12 riportavano un’associazione positiva tra consumo di tè, cacao e caffè, con bassi livelli di depressione.

Mentre alcune indagini non hanno mostrato alcuna associazione tra tè, cacao e riduzione della depressione (Guo et al., 2014), al contrario, gli studi sul caffè riportavano una chiara associazione tra il suo consumo e ridotti livelli di sintomi depressivi (Lucas et al., 2011).

Tè, caffè e cacao sono ricchi di sostanze organiche il cui ruolo nella salute e sul sistema nervoso centrale  (Visioli & Burgos-Ramos, 2016), è stato attivamente indagato.

Per quanto concerne il tè, è stato suggerito che la caffeina e la L-teanina agiscono sull’umore, migliorando anche le capacità attentive e la prontezza auto-riferita (De Bruin et al., 2011). L’L-teanina induce cambiamenti nell’espressione genica nel cervello di ratti, soprattutto agendo su geni implicati in una varietà di disturbi che vanno dall’ansia, ai disturbi dell’umore e alla dipendenza da sostanze (Ceremuga et al., 2014).

Il consumo di tè verde si associa ad un rischio minore di ictus, diabete, miglioramento dei livelli di glucosio, colesterolo, obesità addominale e pressione sanguigna (Helm & Macdonald, 2015).

Tra i polifenoli presenti nel tè, la ricerca mostra che l’epigallocatechina gallato sarebbe in grado di modulare i disturbi affettivi (Oliveira et al., 2016), interagendo con il recettore delle benzodiazepine GABA-A (Vignes et al., 2006).

Inoltre, alcuni studi hanno dimostrato che la somministrazione di estratto di tè verde può diminuire la massa grassa totale e la percentuale di grasso corporeo, favorendo un aumento di massa magra (Amiot et al., 2016).

Considerando il cacao, i suoi effetti sono spesso in contrasto (Visioli et al., 2009). I flavonoidi contenuti possono innescare l’espressione di proteine in grado di modulare alcune regioni del cervello implicate nell’apprendimento, nella memoria e nella cognizione, suggerendo una potenziale azione a breve termine del cacao su questi aspetti, compreso l’umore (Sokolov et al., 2013). Studi sugli animali mostrano che i flavanoli possono attraversare la barriera emato-encefalica, inducendo effetti benefici nel funzionamento e nella circolazione sanguigna cerebrale (Vauzour et al., 2008). Tuttavia, queste evidenze sono supportate da pochi studi, con altri che riportano associazioni tra consumo di cacao e tassi più elevati di suicidio (Lester & Bernard, 1991).

Inoltre, è da tenere in considerazione che il contenuto di flavonoidi nel cacao e nei suoi derivati (come il cioccolato), differisce sostanzialmente in base alla varietà di fave, all’origine geografica, alla coltivazione e alle pratiche agricole e di produzione (Visioli et al., 2009).

La caffeina contenuta nel caffè, oltre che nel tè, è un noto stimolante del sistema nervoso centrale e potrebbe influenzare i disturbi affettivi (Zulli et al., 2016).

Alcuni degli effetti positivi della caffeina, come ridurre la depressione e migliorare l’umore e le prestazioni (Dodd et al., 2015), possono essere contrastati dalle azioni negative che lo stress esercita sulla salute mentale. Tra gli adolescenti, in particolare, l’assunzione settimanale di caffeina incrementa i livelli di ansia e di depressione, soprattutto tra le femmine (Richards & Smith, 2015).

Altri studi che hanno analizzato prospetticamente la relazione tra caffeina e rischio di depressione, non hanno trovato un’associazione tra consumo di caffè e basso rischio di depressione (Lucas et al., 2011).

L’assunzione di caffè, tè, ma soprattutto del cioccolato, viene spesso considerata in termini di conforto o compensazione, quindi ricondotta al mangiare emotivo, che insorge quando non si è fisiologicamente affamati.

Nonostante si è soliti pensare che questi alimenti inducano dipendenza, le sostanze contenute, potenzialmente coinvolte in tale meccanismo, non sono presenti in alte concentrazioni, ad eccezione della caffeina. La caffeina, infatti, eleva i livelli di dopamina e noradrenalina, aumentando l’umore generale (Nehlig, 2016), ma creando dipendenza. D’altra parte una sua astinenza provoca sintomi spiacevoli (Ferré, 2016) innescando un circolo vizioso (Cappelletti et al., 2014).

Sebbene i risultati dello studio indichino un ruolo protettivo del consumo di tè, cacao o caffè contro la depressione, sono necessari ulteriori studi prima promuoverne l’uso nella popolazione generale per tali problematiche. Ad esempio, è necessario considerare il contenuto di zucchero o latte, che potrebbe incidere sugli esiti comportamentali legati all’assunzione di queste bevande (Guo et al., 2014).

Inoltre impiegare tè, cacao o caffè in un contesto di alimentazione emotiva per innalzare l’umore non produce alcun beneficio duraturo e marcato, contribuendo invece ad un’affettività disforica. Se impiegati in una dieta equilibrata non innescano necessariamente circoli virtuosi o viziosi, viceversa, un loro consumo eccessivo o l’evitamento è probabilmente indicatore di abitudini alimentari disturbate come la bulimia (Cartwright & Stritzke, 2008) o l’ortoressia (Herranz Valera et al., 2014).

 

10/09/2021 Pantelleria

Pantelleria. Dal crinale osservo l’inumana nube avvicinarsi e non passano più di pochi secondi affinché l’acqua inizi a cadere dal cielo.

A un mese di distanza dal tragico disastro provocato da un tornado a Pantelleria, pubblichiamo questo intenso contributo per non dimenticare quanto accaduto (ndr). 

 

23.45

Continuo a guardare i lampi. Incandescenti squarciano il cielo stellato di Pantelleria. Osservo la tempesta allontanarsi e nessun suono muove le fronde delle palme. Solo una brezza leggera rimane accompagnando i miei pensieri verso il largo. Tutto tace ed io col tutto.

06.15

L’acqua scroscia giù per l’orrido che sovrasta la mia stanza. Inopportuna bagna i miei piedi scalzi. Non più pesante è l’aria isolana smossa da sferzate di vento violento. Inquieto guardo al mare grigio madreperla. La giornata ha inizio.

13.30

L’entroterra pantesco è ricoperto da fitta vegetazione. Capperi e viti abitano la valle coperta di rugiada. La montagna taglia come lama nuvole veloci quasi fosse scafo di un gozzo su mare in tempesta. La costa nera è battuta da nere onde feroci. Dal crinale osservo l’inumana nube avvicinarsi e non passano più di pochi secondi affinché l’acqua inizi a cadere dal cielo. Non gocce ma fiume in piena scende dall’alto.

19.45

Il sole splende con riflessi di Tunisi. Tutto si è consumato in una manciata di minuti. Dall’altro capo dell’isola giungono le prime voci del disastro. Forte è la tentazione di concedersi a Calipso ed al suo dolce oblio. Ma due corpi giacciono e non c’è incantesimo che tenga. Non conosco i vostri nomi ma non importa. Che abbiate vissuto come principi o pirati su barca in tempesta sono sicuro che vento e nuvola avrete avuto come compagni.

Vento / se arriva l’inverno la primavera non è lontana

 

COME SI RINNOVA LA PSICOTERAPIA

COMUNICATO STAMPA
GRUPPO ARMANDO TESTA E STUDI COGNITIVI

In occasione della Giornata Mondiale della Salute Mentale, il prossimo 10 Ottobre 2021, il Gruppo Studi Cognitivi, protagonista in Italia nel campo della psicoterapia e specializzato nell’alta formazione, nella ricerca, nella divulgazione scientifica e nell’erogazione di servizi clinici per la salute mentale, presenta insieme ad AT Design del Gruppo Armando Testa, il proprio totale rebranding e il lancio di una nuova campagna che partirà l’8 ottobre e verrà pianificata online e stampa.

Il Gruppo Studi Cognitivi si è affidata ad AT Design, la divisione specializzata in graphic design del Gruppo Armando Testa, per ridisegnare la propria immagine e allineare i suoi standard di comunicazione all’eccellenza formativa e clinica che rappresenta.

L’agenzia si è occupata del rebranding totale del network, della riprogettazione della brand architecture del gruppo e della creazione dei nuovi siti internet, per ogni specifica divisione, coordinati dal nuovo logo.
In particolare la divisione inTherapy, la prima rete di psicoterapia fondata su evidenze scientifiche, è stata totalmente ideata ex novo, dal sito internet alla nuova campagna promozionale di lancio, per raccontare il servizio di terapia sempre vicino al paziente con percorsi anche online.

La ricerca del cambiamento e la dinamicità è alla base di questa nuova esplorazione e ha preso vita anche nella campagna social studiata ad hoc che inaugura i nuovi profili Facebook, Instagram e LinkedIn del brand. La creatività della campagna spinge l’utente a riflettere sulla grande importanza di dedicare alla propria mente, le stesse attenzioni che ha ogni giorno per il proprio aspetto fisico. L’obiettivo è di incentivare l’individuo a prendersi cura del proprio benessere mentale, rivolgendosi ai professionisti di inTherapy.

Sandra Sassaroli, Presidente e Fondatore del Gruppo Studi Cognitivi ha definito così la collaborazione con il Gruppo Armando Testa:

“Noi ci abituiamo a soffrire psicologicamente come se fosse un destino, il destino all’ansia, alla melanconia, alla tristezza, invece non c’è un destino alla sofferenza psicologica. Si può vivere meglio. Con inTherapy Studi Cognitivi, grazie all’esperienza ventennale in formazione, ricerca e clinica, vuole dare una risposta alle problematiche psicologiche attraverso un modello basato sull’evidenza scientifica e di rapida efficacia, controllato e supervisionato da Studi Cognitivi e da un Comitato Scientifico di caratura internazionale.

In inTherapy, prima di tutto, ci sono il paziente e la sua storia, poi c’è il metodo con un modello clinico centralizzato e supervisionato e infine ci sono i terapisti, solo psicoterapeuti e psichiatri altamente formati, selezionati e garantiti da Studi Cognitivi.

Studi Cognitivi aveva bisogno di un’agenzia di assoluto livello per comunicare al meglio la missione di inTherapy e garantire un adeguato livello di comunicazione per un servizio di così grande importanza e rilevanza sociale. ll Gruppo Armando Testa ha da subito dimostrato il suo valore, comprendendo perfettamente come veicolare al meglio questo messaggio.”

 

Credits:

Agenzia: Gruppo Armando Testa

Direzione Creativa Esecutiva: Georgia Ferraro e Nicola Cellemme

Design Director: Paolo Cremonesi

Design Team: Lara Aldrighi, Roberta Campagna

Team Creativo: Monica Barbalonga, Elisa Melagrani

Team Account: Emanuele Cicogna Mozzoni, Chiara Simone

Chief Innovation Officer: Alessandro Peroncini

 

Il disturbo selettivo e restrittivo dell’alimentazione (ARFID): possibili cause e trattamenti

Il disturbo selettivo e restrittivo dell’alimentazione (ARFID), è un disturbo che è stato introdotto nel Manuale Diagnostico dei Disturbi Mentali (DSM) solo nel 2013.

Elisa Petetta – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, San Benedetto del Tronto

 

Prima di allora, sebbene l’ARFID non esistesse come diagnosi o condizione formalmente riconosciuta, venivano comunque già documentate le difficoltà dell’alimentazione che comprende. Queste erano conosciute con nomi ed etichette diverse come “neofobia alimentare”, “anoressia infantile”, “avversione sensoriale verso il cibo”, “alimentazione schizzinosa” e molte altre ancora.

La sua inclusione nel capitolo dei Disturbi della Nutrizione e dell’Alimentazione del DSM-5 ha ridotto l’utilizzo delle diagnosi residue e facilitato il processo diagnostico, di ricerca e di trattamento.

Per poter far diagnosi di disturbo selettivo e restrittivo dell’alimentazione secondo il DSM-5 (American Psychiatric Association, 2013), devono essere presenti le seguenti condizioni:

Un persistente fallimento nel soddisfare l’appropriato fabbisogno nutrizionale e/o energetico associato ad una o più delle seguenti caratteristiche:

  • significativa perdita di peso (o mancato raggiungimento dell’aumento ponderale previsto o crescita discontinua nei bambini);
  • significativo deficit nutrizionale;
  • dipendenza dalla nutrizione enterale oppure da supplementi nutrizionali orali;
  • marcata interferenza con il funzionamento psicosociale.

Il mancato appagamento dei bisogni nutrizionali porta il soggetto a sviluppare conseguenze mediche e fisiche significative, in particolar modo durante l’infanzia (Bryant-Waugh & Higgins, 2020). I comportamenti restrittivi comportano esiti negativi che si ripercuotono anche sulla vita sociale dell’individuo, sul suo umore, sul suo apprendimento, e sulla vita dei propri familiari.

È bene sottolineare come alla base delle restrizioni e degli evitamenti alimentari non ci siano motivi riconducibili alla volontà di perdere peso o all’insoddisfazione per le forme corporee.

Il DSM-5 individua tre sottotipi che evidenziano le tre principali cause sottostanti il comportamento evitante che sono:

  • Evitamento o restrizione per apparente mancanza d’interesse per il mangiare o per il cibo.
    Alcune persone possono riportare difficoltà nel ricordarsi di mangiare o nel dedicare tempo all’alimentazione perché molto impegnate in attività ritenute più interessanti o perché non sembrano avvertire adeguate sensazioni di fame e di appetito. Altri invece possono percepire il mangiare come una specie di “dovere” da cui non riescono a trarre alcun piacere né soddisfazione;
  • Evitamento o restrizione a causa delle caratteristiche sensoriali del cibo e delle risposte specifiche dell’individuo a queste. Queste proprietà sensoriali includono consistenza del cibo, temperatura, aspetto, colore, odore e il rumore che si produce quando lo si consuma. Queste persone appaiono molto selettive, possono mangiare solo cibi di una certa consistenza, ad esempio solo cibi morbidi o croccanti, o solo cibi a temperature specifiche. La sensibilità all’olfatto e al sapore è estrema, tanto che alcuni soggetti affetti da disturbo selettivo e restrittivo dell’alimentazione possono essere immaginati come “super-gustatori”. I soggetti arrivano ad escludere dalla loro dieta tutte le pietanze per cui provano disgusto;
  • Evitamento o restrizione del cibo dovuto alle preoccupazioni per le conseguenze avverse o temute del mangiare. Il soggetto si trova a pensare “se mangio questo, succederà qualcosa di brutto” e questo potrebbe includere vomitare, soffocare, stare male, avere la nausea o semplicemente che quel cibo non piacerà (Bryant-Waugh & Higgins, 2020). In questi pazienti sono comuni dolori e gonfiori addominali, nausee e reflussi gastroesofagei.

Sebbene l’ARFID possa affliggere gli individui durante tutto l’arco della vita, i dati sulla prevalenza si concentrano primariamente sulla fascia d’età più giovane. Dopo che è stata stabilita la categoria diagnostica, la prevalenza di questo disturbo, nei programmi di cura terziaria pediatrica nordamericana per disturbi alimentari è stata tra il 5% e il 14% (Katzman, Norris, & Zucker, in press). La prevalenza documentata di disturbo selettivo e restrittivo dell’alimentazione invece, in un programma di trattamento diurno pediatrico per disturbi alimentari è stata del 23% (Pinhas, L., Nicholls, D., & Crosby, R. D, et al. , 2017). In generale i pazienti con l’ARFID risultano essere più giovani rispetto a quelli con altri disturbi alimentari, l’età media rilevata è 12,9 e sembra che vi sia una più alta percentuale di soggetti affetti di sesso maschile (Fisher et al., 2014).

Ad oggi non esiste alcun farmaco specifico per il trattamento dell’ARFID. I farmaci sono utilizzati per curare i sintomi di altri disturbi associati che aggravano o interferiscono negativamente con l’andamento della patologia di base o con gli esiti dei trattamenti. È essenziale che il trattamento farmacologico sia sempre affiancato ad un approccio integrato che preveda interventi nutrizionali, educativi e psicoterapeutici (Quaderni della salute, 2013).

I trattamenti più usati sono il Family-Based Treatment (FBT; Le Grange,  & Lock, 2005) e gli approcci cognitivo-comportamentali.

Ad oggi non è stata individuata una singola causa che permetta di spiegarne l’eziologia.

È probabile che, come nella maggior parte dei disturbi, ci sia una gamma di fattori di rischio. È stato anche evidenziato (Bryant-Waugh & Higgins, 2020) come non ci siano ancora sufficienti anni di ricerca per avere certezze sulle modalità di insorgenza dell’ARFID.

Negli ultimi anni è stata proposta una chiave di lettura differente, la quale conferisce un peso maggiore alla biologia nell’eziologia del disturbo.

Il modello tridimensionale della neurobiologia dell’ARFID di Thomas e colleghi

Contrariamente ai tre sottotipi di disturbo selettivo e restrittivo dell’alimentazione individuati nel DSM-5, Thomas e colleghi (2017) hanno ipotizzato che, come l’ARFID si presenta in un certo individuo, possa essere visto come un singolo punto lungo uno spazio tridimensionale. Questo significa che le tre presentazioni prototipiche variano in gravità e non si escludono a vicenda. Gli studi (Pulumo et al., 2016) evidenziano infatti che spesso l’ARFID varia nel livello di gravità, e che quasi la metà degli individui con ARFID che si presenta per un trattamento psicologico, mostra difficoltà alimentari in più domini.

Coerentemente con l’approccio Research Domain Criteria (RDoC; Insel, 2010), del National Institute of Mental Health, il gruppo di ricerca di Thomas ipotizza che siano le anomalie nella sensibilità sensoriale, nell’appetito omeostatico e nella reattività alla paura, alla base delle tre presentazioni primarie di ARFID, rispettivamente: sensibilità sensoriale, mancanza di interesse per il cibo e paura di conseguenze avverse.

I ricercatori stanno attualmente testando queste ipotesi in uno studio multimodale (Neurobiological and Behavioral Risk Mechanisms of Youth Avoidant/Restrictive Eating Trajectories) su 100 ragazzi e ragazze con disturbo selettivo e restrittivo dell’alimentazione di età compresa tra 10 e 22 anni e 50 soggetti di controllo sani, abbinati per età e sviluppo puberale, per identificare il potenziale contributo neurobiologico alle basi delle tre principali presentazioni. I ricercatori stanno raccogliendo dati in diversi domini, che vanno dalle autovalutazioni, ai livelli ormonali, ai risultati acquisibili con le tecniche di neuroimaging.

A sostegno del loro approccio, i ricercatori sottolineano, in primis, che gli individui con ARFID che presentano sensibilità sensoriale, spesso riferiscono che gli alimenti evitati hanno un sapore fortemente negativo. La spiegazione clinica che è stata tradizionalmente adottata è che gli individui con sensibilità sensoriale mancherebbero di aver fatto sufficiente esperienza con i cibi evitati e che, dopo esposizioni ripetute a questi ultimi, riuscirebbero ad assumerli. Gli autori ipotizzano invece che sia l’ipersensibilità nella percezione del gusto, piuttosto che semplici reazioni cognitive o affettive estreme a determinati sapori, a contribuire all’elevata sensibilità sensoriale di questi soggetti. In effetti, ci sono prove che gli adulti che si autodefiniscono come “mangiatori schizzinosi” valutano sia le soluzioni amare che quelle dolci come significativamente più intense rispetto a quelli che non si identificano come tali (Kauer, Pelcha, Rozin, & Zickgraf, 2015). Allo stesso modo, i bambini descritti dai genitori come “schizzinosi” è probabile che vengano classificati come supergustatori, poiché percepiscono il 6-N-propiltiouracile (PROP) come estremamente amaro, rispetto ai bambini meno esigenti (Golding, Steer, Emmett, Bartoshuk, Horwood & Smith, 2009).

In secondo luogo, gli individui con disturbo selettivo e restrittivo dell’alimentazione che presentano mancanza di interesse per il cibo, spesso descrivono che non hanno fame durante i pasti, dimenticano di mangiare o si sentono sazi più rapidamente degli altri. Ricerche precedenti (Holsen et al., 2012) hanno ipotizzato che le donne con disturbi alimentari che impiegano condotte restrittive, a digiuno, hanno una ridotta attivazione dell’ipotalamo (centro di controllo per l’integrazione dei segnali dell’appetito) e dell’insula anteriore (dove risiede la corteccia gustativa primaria, la quale integra segnali viscerali ed esperienze enterocettive) rispetto ai soggetti di controllo. La mancanza di interesse per il cibo quindi, potrebbe essere associata a differenze nell’attivazione dei centri di regolazione dell’appetito del cervello.

Infine, gli individui con l’ARFID che presentano paura di conseguenze avverse, reagiscono con intensa paura ed evitamento a seguito di un’esperienza traumatica con il cibo. Mentre molte persone possono, durante la vita, sperimentare soffocamento, vomito o dolore addominale dopo aver mangiato, solo una piccola minoranza sviluppa l’ARFID. Questo dato potrebbe suggerire che, questo sottoinsieme più piccolo, potrebbe aver sperimentato l’episodio alimentare traumatico, con una vulnerabilità preesistente, in grado di dar luogo ad una risposta fobica. In linea con le prove che suggeriscono che la reattività psicofisiologica agli stimoli di paura distingue i disturbi d’ansia di tipo fobico (cioè fobie sociali e specifiche) da altri disturbi d’ansia (Lang, & McTeague, 2009), i ricercatori ipotizzano che l’iperattivazione di questo sistema di difesa (cioè, amigdala, cingolato anteriore e corteccia prefrontale ventromediale) potrebbe manifestarsi proprio tra gli individui con l’ARFID.

La terapia cognitiva-comportamentale per l’ARFID (CBT-AR)

Sulla base del loro modello neurobiologico tridimensionale, il team di Thomas ha recentemente sviluppato una nuova forma di terapia cognitivo-comportamentale per l’ARFID (CBT-AR). La CBT-AR è appropriata per bambini, adolescenti e adulti di età pari o superiore a 10 anni, clinicamente stabili, che non presentano gravi disabilità dello sviluppo e non dipendono dall’alimentazione con sondino. Dato che i ricercatori sostengono che gli individui con sensibilità sensoriale percepiscono i sapori, come l’amaro o il dolce, più intensamente, rispetto agli individui senza disturbo selettivo e restrittivo dell’alimentazione, la CBT-AR insegna ai soggetti le abilità per avvicinarsi ai nuovi cibi in modo graduale: guardare, toccare, annusare, assaggiare e infine masticare. Data la loro seconda ipotesi, ossia che gli individui che presentano mancanza di interesse per il cibo sarebbero caratterizzati da anomalie dell’appetito omeostatico, la CBT-AR fa molto leva sul supporto dei genitori per aumentare il volume della dieta per i giovani che sono sottopeso. Infine, poiché ritengono che la paura delle conseguenze avverse del mangiare sia mantenuta da alti livelli di reattività fisiologica, la CBT-AR si basa sull’esposizione sia in vivo che enterocettiva, per gestire le risposte fobiche a esperienze traumatiche come vomito o soffocamento.

La CBT-AR procede attraverso quattro fasi, che includono:

  • psicoeducazione e alimentazione regolare;
  • rialimentazione e pianificazione del trattamento;
  • l’affrontamento dei meccanismi di mantenimento rilevanti (cioè sensibilità sensoriale, mancanza di interesse nel mangiare, paura di conseguenze avverse);
  • prevenzione delle ricadute.

La CBT-AR dura circa 20 sessioni, ma possono essere necessarie fino a 30 sessioni quando il paziente è sottopeso. Le sessioni si svolgono settimanalmente, quindi il trattamento standard di 20 sessioni richiede circa cinque mesi. Per i pazienti sottopeso o malnutriti, il numero totale di sessioni si basa sul grado di ripristino del peso necessario, sul numero dei meccanismi di mantenimento che devono essere affrontati e sul giudizio clinico del terapeuta. La CBT-AR è un trattamento a tempo limitato che può essere erogato in un format individuale o assistito dalla famiglia. La terapia supportata dalla famiglia è generalmente raccomandata per i pazienti di età inferiore ai 16 anni e può essere utilizzata anche per adolescenti più grandi o giovani adulti gravemente sottopeso o per pazienti con lievi disabilità dello sviluppo. Il formato individuale è generalmente consigliato invece per adulti e adolescenti che sono molto motivati ​​e che non hanno un peso significativo da recuperare.

Un recente case report (Thomas, Brigham, Sally, Hazen, & Eddy, in press) descrive l’applicazione della CBT-AR con ottimi risultati ad una bambina di 11 anni con peso ridotto, sensibilità sensoriale, mancanza di interesse per il cibo e paura di conseguenze avverse. Recentemente gli autori (Thomas, et al., 2020) hanno condotto uno studio con lo scopo di valutare la fattibilità e l’accettabilità della CBT-AR nei bambini e negli adolescenti. Di 25 individui eleggibili, 20 hanno iniziato il trattamento, 17 lo hanno completato mentre 3 lo hanno abbandonato. Utilizzando l’analisi intent-to-treat, i medici hanno valutato 17 pazienti (85%) come “molto migliorati”. I punteggi di gravità dell’ARFID misurati attraverso l’intervista strutturata “Pica, ARFID, and Rumination Disorder Interview” (PARDI, Bryant-Waugh et al., 2019) sono significativamente diminuiti, sia per i pazienti, sia per quanto osservato dai genitori dei soggetti dello studio. I pazienti hanno assunto una media di 16,7 (con deviazione standard DS di 12,1) nuovi alimenti dal pre al post-trattamento. Il sottogruppo sottopeso ha mostrato un aumento di peso significativo di 11,5 (con deviazione standard DS di 6,0) libbre, passando dal 10° al 20° percentile per l’indice di massa corporea. Al post-trattamento, il 70% dei pazienti non soddisfaceva più i criteri per porre diagnosi di ARFID.

Questo è il primo studio di un trattamento psicosociale manualizzato ambulatoriale per ARFID negli adolescenti più grandi. I risultati forniscono prove di fattibilità e di accettabilità per la CBT-AR e si auspicano futuri studi randomizzati controllati per poter testare l’efficacia di questa nuova tipologia di trattamento.

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