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Quanto siamo influenzati dalle recensioni online – Psicologia Digitale

Le recensioni online sono una forma di passaparola digitale che permette ai consumatori di formarsi un’idea e delle aspettative ed influenza la loro intenzione di acquisto.

PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr. 23) Quanto siamo influenzati dalle recensioni online

 

Quando ci troviamo a scegliere un ristorante, un hotel, se acquistare o meno un prodotto, immancabilmente finiamo col leggere le recensioni. Oltre ad altri indicatori che orientano le nostre scelte (è lontano? È facilmente raggiungibile? Quanto costa?), un peso maggiore di quanto immaginiamo lo hanno i giudizi espressi da altri che ci sono passati prima di noi.

Le recensioni possono essere in varia forma: testuali, fotografiche, con un voto espresso in numeri o stelline; ma quello che realmente ci importa è che ci siano, tanto che quando non ne troviamo passiamo subito oltre.

L’importanza delle recensioni

Innanzitutto è importante notare che, a prescindere dal fatto che le recensioni siano negative o positive, basta che ci siano. Infatti sono ritenute un indicatore di popolarità, danno la percezione che il servizio o prodotto sia conosciuto, forniscono informazioni aggiuntive, incrementano fiducia e reputazione del brand, riducono l’incertezza e il rischio percepito e innescano l’effetto ‘go with the crowd’, ovvero la tendenza a fare quello che fanno tutti gli altri, a seguire la massa insomma (De Pelsmacker et al., 2018).

Le recensioni online sono una forma di passaparola digitale (electronic word-of-mouth, eWOM) che permette ai consumatori di formarsi un’idea e delle aspettative ed influenza la loro intenzione di acquisto. Questo meccanismo riguarda qualsiasi prodotto o servizio: libri, film, giochi, hotel, ristoranti, ecc. L’opinione di altri consumatori che pubblicano le loro esperienze tramite recensioni online fornisce informazioni da una fonte che viene percepita come più indipendente e degna di fiducia rispetto alle indicazioni rese disponibili nella scheda prodotto.

Perché ci basiamo così tanto sulle recensioni: le euristiche

Secondo la teoria del doppio processo di Kahneman e Tversky (1979) i nostri processi decisionali si basano su due sistemi: il primo automatico ed involontario ed il secondo invece razionale e volontario. Anche se in linea di massima possiamo affermare che vengono usati entrambi i sistemi, molto più spesso di quanto immaginiamo è proprio il primo che viene chiamato in causa. Questo perché il secondo sistema richiede uno sforzo cognitivo di gran lunga superiore: scelte ponderate e razionali, basate sull’analisi dei dati a disposizione, sul soppesare pro e contro, sulla stima degli effetti futuri, richiedono un grande dispendio di energie che non potremmo permetterci per ogni singola decisione. Ed ecco perché utilizziamo le euristiche di pensiero che sono delle scorciatoie mentali, dei processi intuitivi ed immediati, che ci permettono di formarci una idea o un giudizio su qualcosa senza troppi sforzi cognitivi.

Se dovessimo ogni volta soppesare in maniera razionale e ponderata ogni valutazione faremmo molta più fatica, mentre, grazie alle euristiche, riusciamo a procedere in maniera veloce.

Anche quando si tratta di recensioni sono proprio alcune di queste scorciatoie che utilizziamo.

I consumatori si affidano alle recensioni già solo per il fatto che ci sono: l’euristica di disponibilità (availability heuristic) è proprio quel meccanismo per cui diamo più rilevanza alle informazioni immediatamente disponibili e di facile accesso.

Entrano in gioco anche l’effetto primary e recency: le persone ricordano più facilmente le informazioni presentate inizialmente o alla fine di una lista o pagina. Per lo stesso motivo, per esempio, i motori di ricerca posizionano gli annunci a pagamento sopra o sotto i risultati di ricerca e solo raramente in mezzo a questi ultimi. Questi effetti fanno da cornice ai nostri giudizi e ci permettono di ‘inquadrare’ il contesto facilmente: i contenuti nella parte superiore o inferiore della pagina sono più accessibili dato che tipicamente per visualizzare ulteriori informazioni su una pagina web partiamo dall’alto e scorriamo verso il basso. Inoltre, se le recensioni negative vengono visualizzate per prime è più probabile che l’utente non proceda con l’acquisto.

Ma non tutte le recensioni sono uguali né è sufficiente la loro posizione per determinare le nostre preferenze. Esiste infatti un effetto asimmetria: le recensioni negative attirano di più la nostra attenzione rispetto a quelle positive e sono più importanti anche di altri fattori come il prezzo. Per esempio, tra un hotel con più recensioni positive ed uno con più recensioni negative gli utenti preferiscono il primo anche se costa molto di più (De Pelsmacker et al., 2018).

Questa asimmetria viene spiegata dal principio dell’avversione alla perdita teorizzato da Kahneman e Tversky (1979; 2011): quando dobbiamo effettuare una scelta siamo più attenti e diamo più peso alle perdite che ai guadagni. Tendiamo quindi ad evitare possibili rischi: le recensioni negative ci fanno intravedere lo spettro di un investimento sbagliato e di una perdita di denaro e per questo sono molto più salienti.

Le caratteristiche di una recensione affidabile

Siamo sulla pagina di un e-commerce, stiamo valutando se comprare o meno un prodotto. Le recensioni sono tante, così come molte sono quelle di altri prodotti simili per tipologia e prezzo. Ebbene, a questo punto cosa per noi è più rilevante nella scelta? Perché alla fine sceglieremo proprio quello?

Oltre alle euristiche anche il formato con cui le recensioni ci vengono proposte orienta le nostre preferenze (De Pelsmacker et al., 2018).

L’ideale è che ogni recensione sia accompagnata da una parte testuale, una o più immagini e una valutazione (rating).

Una recensione testuale esprime una valutazione qualitativa ed approfondita che viene ritenuta più utile se confrontata con i rating presi da soli (Noone & McGuire, 2014). È però importante che, oltre al testo, le recensioni abbiano anche dei punteggi espressi in numeri o graficamente (per esempio, da 1 a 10 oppure stelline) perché richiedono poco sforzo cognitivo. Alcuni ecommerce adottano il sistema delle valutazioni a stelle, come per esempio Amazon e TripAdvisor, mentre altri come Booking.com utilizzano punteggi numerici: tra le due tipologie sono preferite le valutazioni a stelle in quanto sono più immediate. Anche per le immagini vale lo stesso discorso: la componente visuale dà un feedback immediato e aiuta a familiarizzare col prodotto o servizio. Le foto, in particolare quando accompagnano una recensione positiva, hanno un effetto persuasivo maggiore rispetto al contenuto che comprende solo la parte scritta (Blondé e Girandola, 2016).

Quando le recensioni sono false

Ci affidiamo sempre di più alle recensioni online per fare le nostre valutazioni prima di un acquisto; le recensioni ci danno l’idea di affidabilità ed imparzialità ed esprimono un giudizio di qualcuno che, prima di noi, ha provato quel prodotto o servizio. Ci dicono qualcosa di più sull’esperienza, sulle caratteristiche e sui possibili pregi e difetti del prodotto.

L’importanza delle recensioni nel processo decisionale di acquisto è noto a brand e venditori che sanno molto bene quanto sia importante monitorarle. Accanto a strategie di gestione lecite, in primis dando un feedback a chi ha opinioni negative, sono diffuse anche pratiche fraudolente, come pubblicare false recensioni positive oppure cancellare o nascondere quelle negative. Ci sono poi anche le recensioni incentivate, per esempio attraverso carte regalo, bonus o rimborso sull’acquisto in cambio della pubblicazione di una recensione positiva e completa (testo e foto).

Questo fenomeno è noto alle piattaforme di e-marketplace che adottano diverse misure per filtrare account e recensioni falsi; nonostante questo il fenomeno delle recensioni false è sempre più diffuso.

Come possiamo tutelarci? Secondo un recente studio di Zhuang e colleghi (2018) ci sono degli indizi che ci possono suggerire se una recensione è manipolata o incentivata. Per esempio, quando ci accorgiamo che un prodotto ha un numero di recensioni positive nettamente superiore rispetto a quelle negative possiamo cominciare a farci venire qualche dubbio sulla veridicità di alcune di esse; soprattutto se, ad un’occhiata più attenta, leggiamo valutazioni eccessivamente positive con un linguaggio generico, stereotipato e troppo entusiasta. Altro indizio è se queste recensioni vengono da utenti che hanno profili poco completi o che pubblicano recensioni solo positive: la possibilità che sia un account creato ad hoc per pubblicare recensioni false aumenta. Quando la distribuzione delle valutazioni è asimmetrica può anche voler dire che le recensioni negative vengono cancellate. La notorietà del brand o del venditore è un altro indizio: quando le recensioni polarizzate appartengono a prodotti di brand sconosciuti è più probabile che parte di essere siano false.

Il consumatore consapevole

Quando si tratta di compiere una scelta, ancor di più di se una scelta di acquisto, non siamo esseri del tutto razionali. Utilizziamo delle scorciatoie di pensiero – le euristiche – e alcuni indizi del contesto per orientarci. Siamo implicitamente proiettati a ricercare questi indizi per ridurre lo sforzo cognitivo. Possiamo considerare le recensioni proprio questo, un indizio del contesto.

Per noi sono un importante aiuto che supporta le nostre scelte anche se sappiamo che potrebbero non essere veritiere. In generale però la pratica di manipolarle non porta lontano: se nel breve termine pratiche fraudolente possono aumentare le vendite, nel lungo termine (soprattutto quando si tratta di un marchio sconosciuto) sarà inevitabile seminare degli indizi sospetti e generare mancanza di fiducia da parte degli utenti, portando ad un decremento delle vendite e una cattiva reputazione. D’altra parte i consumatori sono sempre più abili ed esperti negli acquisti online: scovare e filtrare recensioni vere da quelle false diverrà più facile (Zhuang e colleghi, 2018).

Negli ambienti online – così come in quelli offline – valutiamo simultaneamente più aspetti ed attiviamo più euristiche. È indubbio però che specifiche caratteristiche delle recensioni guidano il nostro giudizio ed è fondamentale comprendere come utilizzarle al meglio ed in maniera chiara e trasparente.

 

Fragilità e antifragilità nei malati con dolore cronico

L’antifragilità non è l’opposto della fragilità, semmai è una caratteristica che si può sviluppare proprio quando ci si trova in una condizione di particolare vulnerabilità. Per esempio, le persone affette da malattie autoimmuni e/o da dolore cronico smettono di comunicare la loro sofferenza perché, invece di ricevere supporto e comprensione, si sentono svalutati, derisi e a volte, persino, disprezzati.

Emanuela Taraschi – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Viviamo in un’epoca in cui si è titolati a vivere solo se perfetti. Ogni insufficienza, ogni debolezza, ogni fragilità sembra bandita” (A. D’Avenia, 2016). Sarà per questo che il termine antifragilità coniato in ambito economico da Taleb (2012), ha avuto successo ed è stato ripreso da Vercelli (2016; 2021) nell’ambito della psicologia della prestazione sportiva. Tuttavia, l’antifragile non è l’opposto del fragile, semmai è una caratteristica che si può sviluppare proprio quando ci si trova in una condizione di particolare vulnerabilità. Durante la pandemia da Covid-19 tutti ci siamo sentiti un po’ più fragili, sebbene, alcuni sono stati inclusi ufficialmente nella categoria dei “fragili”. Per esempio, le persone affette da malattie autoimmuni, tra i cui sintomi si annoverano senso di fatica, malessere generale e dolore cronico. Quando la problematica fisica non è particolarmente evidente, accade più facilmente di sottovalutare il problema dell’altro che soffre, tanto che alcune di queste persone smettono di comunicare la loro sofferenza, perché, invece di ricevere supporto e comprensione, si sentono svalutati, derisi e a volte, persino, disprezzati.

Certo, come ci insegna Epitteto non sono le cose a farci stare bene o male, ma quello che pensiamo di esse, come le interpretiamo. Le tecniche REBT, per esempio, aiutano a disputare e ristrutturare le credenze disfunzionali, migliorando la percezione della propria efficacia e interrompendo il ciclo vizioso tra nocicezione, dolore, distress e disabilità. Le emozioni, però, ci informano (e informano l’altro) su come stiamo interpretando la realtà. In particolare, l’emozione di disprezzo ci dice che stiamo valutando un’altra persona inferiore a noi per qualche comportamento e/o caratteristica personale. Ci dice anche che nutriamo sfiducia sulla sua possibilità di miglioramento. Così, quando disprezziamo siamo maggiormente inclini a prendere in giro, ad offendere, e poi a distaccarci dalla persona disprezzata, in quanto ritenuta un soggetto non utile per un proficuo scambio sociale. A volte, persone affette da dolore cronico riferiscono di essere stati derisi attraverso battute allusive, sentendosi larvatamente accusare di esagerare i sintomi, di essere pigri, deboli, di fare le vittime. Miceli e Castelfranchi (2018) spiegano bene come l’espressione di disprezzo può nascondersi sotto un linguaggio non verbale (per es. alzando gli occhi al cielo) o in battute sottili e divertenti. Quando ciò accade è molto più difficile per il bersaglio difendersi. Difatti, se il bersaglio rende esplicito il significato dispregiativo, chi disprezza può affermare che non intendeva dire o fare nulla di irrispettoso e che il bersaglio è permaloso o non capisce le battute, o entrambe le caratteristiche negative; segni chiari di mancanza di intelligenza o mancanza di senso dell’umorismo, e così finisce per offendere ulteriormente l’altro. In questo modo, al dolore fisico si aggiunge ulteriore sofferenza psichica. Ma cos’è il dolore? In base all’eziologia il dolore è diviso in:

  • nocicettivo (danno ai tessuti, dolore circoscritto che viene definito come pulsante, costrittivo, pungente, per es. lesioni, fratture…);
  • neuropatico (lesioni a livello del sistema nervoso centrale e/o periferico, riferito come un dolore diffuso, costante, snervante, invalidante, per es. post ictus, sclerosi multipla ecc.)
  • misto (per es. dolore alla schiena in malati oncologici).

Il dolore è stato definito dall’International Association for the Study of Pain (IASP) come: “un’esperienza sensoriale ed emotiva spiacevole associata o simile a quella associata a un danno tissutale effettivo o potenziale”. Nello specifico:

  • Il dolore è sempre un’esperienza personale che è influenzata in vari gradi da fattori biologici, psicologici e sociali.
  • Il dolore e la nocicezione sono fenomeni diversi. La nocicezione è la trasmissione dell’informazione di un danno tissutale, che dai recettori periferici, viene trasmessa fino alla corteccia e all’area limbica.
  • Il dolore non può essere dedotto esclusivamente dall’attività nei neuroni sensoriali.
  • Apprendiamo il concetto di dolore attraverso le esperienze di vita.
  • Il resoconto di un’esperienza come dolorosa dovrebbe essere sempre rispettata.
  • Sebbene il dolore di solito svolga un ruolo adattativo, può avere effetti negativi sulla funzionalità e sul benessere sociale e psicologico.
  • La descrizione verbale è solo uno dei numerosi comportamenti per esprimere dolore.
  • L’incapacità di comunicare non nega la possibilità che una persona o un animale provi dolore. (Raja et al., 2020).

Rispetto alla capacità di comunicare dolore è interessante l’associazione tra attaccamento, trauma e dolore. Si è visto che bambini con attaccamento insicuro di tipo evitante mostrano meno segnali di dolore, questi bambini “silenziano” il corpo, mostrando una comunicazione non verbale e verbale molto povera rispetto al proprio dolore fisico. Al contrario, i bambini con un attaccamento insicuro ambivalente, tendono a manifestare moltissimo disagio e agitazione. Conoscere le cause di questi diversi modi di manifestare il dolore, può consentire di mediare in modo funzionale l’esperienza del dolore, sviluppando buone pratiche per la sua gestione. Difatti, nei bambini i traumi irrisolti comprendono anche singoli o multipli esperienze di dolore acuto o cronico non alleviato. Le conseguenze negative di un dolore non alleviato possono essere permanenti (Failo, Giannotti, Venuti, 2019).

Il dolore cronico “è una condizione caratterizzata da un’esperienza sensoriale ed emotiva che perdura oltre alla normale guarigione e/o comunque ricorre oltre i sei mesi ed erode la qualità della vita di un individuo, rappresentando una significativa fonte di stress, quale minaccia sia per la sua integrità corporea che esistenziale” (in Failo, Mazzoldi, 2020). Inoltre ha un impatto sui loro familiari e costi elevati per la società, in quanto il numero delle persone che ne soffre supera la somma delle persone malate di cancro, diabete e malattie cardiache.

La variabilità individuale rispetto al fronteggiamento del dolore cronico è legata non solo a caratteristiche fisiche e temperamentali, ma anche a come l’ambiente ha risposto e risponde a queste. Si rimanda alla Teoria Polivagale di Porges (vd Deb Dana, 2018; 2019) per approfondire i meccanismi di mentalizzazione dell’esperienza corporea.

Allora è utile pensare allo sviluppo dell’antifragilità nelle persone con dolore cronico?

In effetti, il costrutto dell’antifragilità comprende 4 dimensioni (Anti Fragility Questionnaire, Giunti, 2019) che mi pare siano tutte legate ad un tipo d’azione generativa:

  • Adattamento proattivo: capacità di reagire in modo proattivo di fronte a situazioni impreviste, cogliendone i vantaggi e trasformando i limiti in opportunità per evolvere. Mi ci trovo e ballo sotto la pioggia.
  • Evoluzione agonistica: motivazione verso situazioni nuove con curiosità per il cambiamento, ricercando sfide in cui contemplare anche il fallimento, alla scoperta di nuove possibilità. Mi ci metto, esploro, esponendomi a piccoli stress.
  • Agilità emotiva: capacità di riconoscere e stare a contatto con le proprie emozioni e trasformare il vissuto emotivo in energia o distaccandosi emozionalmente per gestire al meglio se stessi, cioè regolare le emozioni in modo funzionale.
  • Distruttività consapevole: capacità di superare il condizionamento della conoscenza
    eliminando consapevolmente i vincoli mentali disfunzionali al superamento della sfida. Flessibilità cognitiva, pensiero divergente.

Specifico subito, cosa, secondo me, non è antifragile. A mio avviso, l’antifragile non è un eroe semi-infrangibile, né un cinico, distaccato dagli altri, impermeabile alle emozioni, concentrato solo sul suo guadagno e che rischia sì, ma sulla pelle degli altri, tantomeno un sensation seeker sconsiderato che compulsivamente insegue nuove sensazioni.

Se colui che assume la posizione resiliente, resiste, affronta e supera gli eventi negativi, si piega senza spezzarsi e conserva le sue caratteristiche, colui che assume la posizione antifragile mira ad evolvere, a migliorare, a superare una condizione molto negativa, partendo dal problema stesso e trasformandolo in opportunità. Riesce a fare questo, non solo accettando l’imprevedibilità della vita, gli ostacoli, i problemi e la fragilità, ma ricercando attivamente sfide, rischi ed esponendosi a piccoli stress. Quando sviluppiamo uno stato mentale antifragile, percepiamo tutta la nostra fragilità e siamo consapevoli che i rischi presi, ci mettono in una posizione di reale incertezza e aumentata probabilità di fallire, tuttavia sappiamo, o meglio, speriamo e abbiamo fiducia che l’esperienza sarà comunque un’occasione di apprendimento generativa. Magari non ci porterà nel punto programmato, dove volevamo arrivare, ma chissà, potrebbe condurci in un punto anche migliore rispetto a quello che potevamo prevedere. Quindi l’antifragile, non si espone agli stress e all’incertezza per masochismo né per costrizione, piuttosto perché è mosso da una passione, una forte motivazione intrinseca, che lo spinge a cambiare, ad esplorare spazi nuovi e a visualizzare scenari possibili. La passione potrebbe portare a sfruttare un altro fenomeno ben conosciuto nella prestazione sportiva e che è stato individuato studiando l’atto creativo degli artisti: lo stato di flow. Lo stato di flow è quello stato di coscienza in cui si è massimamente concentrati nello svolgere un’attività con una motivazione intrinseca così alta, da sperimentare un’espansione dei confini del sé, a partire da una destrutturazione dell’esperienza temporale e da un incremento della percezione di controllo nei confronti dell’attività che si sta svolgendo (cfr. Muzio, Riva, Argenton, 2012). In questo stato di coscienza, in cui c’è una perfetta integrazione mente-corpo, finalizzata all’azione, il dolore, per esempio, potrebbe essere confinato automaticamente in secondo piano, nella periferia della propria attenzione e del proprio campo d’azione, almeno in alcuni momenti della giornata. Da quanto sopra emerge che molte tecniche (biofeedback, neurofeedback, rilassamento ecc.) e terapie cognitive e comportamentali (CBT; REBT; ACT; Terapia basata sulla Teoria Polivagale ecc.) possano essere messe al servizio delle persone con dolore cronico per sviluppare anche le componenti dell’antifragilità.

Concludo con D’Avenia (2006) che ci indica un antifragile per eccellenza, che, a sua volta, ci invita ad apprezzare la propria e l’altrui fragilità: “C’è un altro modo per mettersi in salvo, ed è costruire, come te, Giacomo, un’altra terra, fecondissima, la terra di coloro che sanno essere fragili.

La Psicoterapia funziona? Le Neuroscienze ci hanno spiegato come

Ma come può un complesso di attività e tecniche basate per lo più sulla parola, come la Psicoterapia, essere efficace al punto di indurre modificazioni nei convincimenti e nel comportamento altrui?

 

Alzi la mano chi non si è mai posto questa domanda oppure si è ma sentito porre un tale interrogativo; ebbene, è dimostrato ormai da tempo, con una enorme quantità di studi scientifici basati su dati empirici, che la Psicoterapia funziona, in una considerevole percentuale di casi, sia nell’immediato, nel breve periodo, sia anche dopo molto tempo dalla sua conclusione. La Psicologia e le pratiche Psicoterapeutiche non hanno perciò bisogno di essere difese né tantomeno questa può essere la sede per farlo e confermare la loro validità.

Ma come può un complesso di attività e tecniche basate per lo più sulla parola essere efficace al punto di indurre modificazioni nei convincimenti e nel comportamento altrui? Semplice suggestione? Assolutamente No, e le Neuroscienze lo hanno dimostrato. Tre gli argomenti chiave: plasticità sinaptica, plasticità cerebrale, epigenetica.

In principio era Kandel, neurologo, psichiatra e neuroscienziato statunitense premio Nobel per la Medicina nel 2000; lo vedremo tra poco, ma la storia inizia anche prima.

Che il nostro cervello non fosse un ingranaggio rigido ma avesse qualcosa di modificabile lo intuì per primo in maniera scientifica Donald Hebb, psicologo canadese. Studiando i processi psichici della ritenzione delle esperienze, del recupero dei ricordi e quindi dell’apprendimento, nel 1949 propose la “Teoria dell’Assemblea Cellulare”, meglio conosciuta semplicemente come “Legge di Hebb” (Hebb, 1949).

In sintesi Hebb propose ed affermò che se l’assone del neurone A e quello del neurone B, nella loro connessione (sinapsi), si attivano ripetutamente (oggi diremmo “proiettano”, “sparano” segnali elettrochimici) durante un evento, si verificheranno modifiche strutturali o metaboliche tali da aumentare l’efficacia di tale sinapsi conservando nel tempo il ricordo di quell’evento. In altre parole, sostenne la capacità del sistema nervoso di modificare la natura e la forza delle connessioni tra i neuroni che consentono la trasmissione di impulsi elettrochimici. Implicitamente quindi postulò la plasticità sinaptica.

Le ricerche di Taub, Elbert e colleghi nel 1995 (Elbert, 1995) misero in luce che la rappresentazione corticale delle dita della mano sinistra dei suonatori di violino (destrorsi) era più grande che la rappresentazione della mano destra e di quella dei controlli. Ossia i loro studi suggerirono l’ipotesi, poi confermata dalle evidenze scientifiche successive, che la rappresentazione di diverse parti del corpo nella corteccia somatosensoriale primaria degli esseri umani dipende dall’uso e dai cambiamenti per conformarsi ai bisogni e alle esperienze attuali dell’individuo. Da quella ricerca fu quindi dimostrata la plasticità cerebrale.

Parallelamente, negli ultimi 30 anni del secolo scorso, la ricerca neurobiologica avviò una serie di ricerche sulla riproduzione cellulare nel cervello dei mammiferi prima e dell’uomo poi.

Fino alla metà degli anni Sessanta del secolo scorso si presumeva che il sistema nervoso centrale dei mammiferi diventasse strutturalmente stabile subito dopo la nascita e rimanesse tale per tutta la vita (Gould, 2002).

Un aspetto fondamentale di questa stabilità era che nessun nuovo neurone veniva aggiunto al cervello in età adulta (Gross, 2000). In quel periodo cominciò ad essere pubblicata tutta una serie di ricerche che iniziarono a mettere in dubbio questa visione: Altman (1962; 1963; 1966; 1967), Altman & Das (1965; 1966). Negli anni ’90 ci furono diversi sviluppi che finalmente appurarono l’esistenza della produzione di nuove cellule nel sistema nervoso centrale dei roditori adulti, ossia la neurogenesi di alcune particolari cellule nel cervello di questi mammiferi (Goud, 2002). Le prime ricerche furono quelle di Cameron (Cameron, 1993), di Okano  (Okano, 1993) e quelle di Seki e Arai (1993). Tali studi trovarono nuovi neuroni, specificatamente cellule granulari, in una varietà di strutture nel ratto e nel gatto adulti, in particolare nel bulbo olfattivo, nel giro dentato dell’ippocampo e in alcune zone della corteccia cerebrale. Alla fine del ventesimo secolo la neurogenesi, per alcune regioni del cervello dei mammiferi adulti, è universalmente accettata dalla comunità scientifica (Gould, 2002).

Già dagli esperimenti sui meccanismi di apprendimento della lumaca di mare Aplysia californica, condotti negli anni Ottanta del ventesimo secolo, Carew, Hawkins e Kandel (Carew, 1983) osservarono che, con il ripetersi della presentazione dello stimolo, la serotonina ha un effetto indiretto non solo a livello della permeabilità della membrana cellulare, ma anche a livello di DNA e quindi sull’espressione di specifici geni (Pagani, 2019).

Molto grossolanamente e in estrema sintesi: sappiamo che un gene è fatto non soltanto della sua regione codificante, che contiene il suo codice, ossia ciò che ereditiamo dai nostri genitori e dai nostri avi, ma ha anche altre due regioni: una chiamata promotore del gene, e una chiamata enhancer. Entrambe queste due ultime regioni, con delle modalità e delle valenze diverse, sono delle regioni regolatorie. Ossia regolano la produzione di proteina della regione codificante del gene. Kandel e collaboratori (Carew, 1983) dimostrarono che queste proteine dette regolatorie e altri enzimi (ad esempio l’RNA polimerasi), che sono all’interno del nucleo cellulare, possono essere attivati o disattivati da molteplici stimoli: alcuni sono stimoli di natura enzimatica, (tipicamente CMP ciclico), altri sono stimoli di natura neurotrasmettitoriale (per esempio la serotonina, 5-HT), ma anche da stimoli di natura ambientale e non farmacologica.

Sulla base di questa scoperta e dei successivi studi, nel 1998 Kandel E.R. (1998) pubblicò un articolo, questo era un ampliamento del discorso che egli stesso aveva pronunciato in occasione di un convegno di Psichiatri nel 1997 in cui l’illustre scienziato si proponeva di dare un fondamento neurobiologico alle terapie psichiatriche non biologiche, come per esempio la psicoanalisi e le psicoterapie (Pagani, 2019).

Egli spiegò chiaramente che le modificazioni del DNA all’interno di qualsiasi cellula, comprese quindi quelle cerebrali, non sono solamente frutto del nostro patrimonio genetico ma dipendono anche da variabili di natura ambientale, come per esempio il fatto di essere sottoposti ad un ambiente particolarmente stimolante e che stimola per esempio le nostre funzioni di memoria. Questo è l’esatto punto, a livello molecolare, in cui avviene la vera interazione tra patrimonio genetico dell’individuo e ambiente. Il livello epigenetico (Pagani, 2019).

Grazie a queste scoperte ora siamo maggiormente consapevoli di come e quanto parole, gesti, comportamenti, in una parola, l’ambiente che circonda ognuno di noi, influisce e modifica ogni essere vivente.

 

La pulsione aggressiva e la guerra in psicoanalisi (2021) – Recensione del libro

Diviso in tre sezioni, Casi clinici, Aspetti della decisione nell’analisi dei bambini e La teoria nella clinica, La pulsione aggressiva e la guerra in psicoanalisi offre un cambio di prospettiva sulle differenti vicende esposte.

 

Il sapere della pulsione concorre a determinare la realtà per l’inconscio, che non coincide con il senso di realtà, una contrapposizione che può esaurire l’energia vitale del soggetto.

Scrivere un libro sulla psicoanalisi, sembra una cosa relativamente passata, il che può far entrare i meno esperti nella palude dello scetticismo. Le mutate condizioni storiche, nonché l’avvento di altre forme di psicoterapia, ne denotano una messa in discussione, come se un certo pensiero psicologico sia agganciato necessariamente al suo aspetto spazio-temporale.

Al di là del rivoluzionarismo in psicologia, molto spesso quello che conta, oltre l’approccio utilizzato, è la plasticità con la quale vengono esposti i casi ma, soprattutto, è importante che la didattica della narrazione li esalti da una zona pedagogica “elettrizzata” in cui si comprende, punto per punto, l’iter che sfocia nel comportamento deviante e che, di frequente, ha radice nell’educazione ricevuta nella nostra infanzia, vista come tra i protagonisti dell’andamento delle nostre pulsioni.

Il libro La pulsione aggressiva e la guerra in psicoanalisi, di Mario Rivardo e Maddalena M. Treccani, tratta della pulsione aggressiva e si costituisce nella trattazione di una serie di casi interessanti.

Diviso in tre sezioni: Casi clinici, Aspetti della decisione nell’analisi dei bambini e La teoria nella clinica, offre un cambio di prospettiva sulle differenti vicende esposte (per l’ampia estensione delle circostanze riportate mi concentrerò su quelle che mi hanno maggiormente colpito).

Immerso totalmente nella lettura non ho potuto che apprezzarne i fatti eccezionali, l’approfondimento del senso del “proprio posto nel mondo” dei soggetti coinvolti, il ripensamento di vicende comuni nonché tratti che possono toccare da vicino il lettore dato lo spirito acuto di osservazione e il modo “empatico” di considerarli. Si noti, del resto, l’indirizzo psicoanalitico degli autori:

Come si colloca [..] la decisione? In quale momento, come e perché una persona in analisi prende una decisione? È importante distinguere quando una decisione è un atto senza essere un passaggio all’atto, un movimento che sembra in avanti e in realtà è un movimento all’indietro in cui il soggetto viene respinto alla centralità del suo Io e su una posizione caratterizzata dal narcisismo.

Gli autori utilizzano una frase significativa che ci accompagnerà in tutti gli interessanti casi descritti in questo libro: «a prevalere sono le esigenze che ispirano i criteri di una economia domestica volta al mantenimento dei legami incestuosi». Come se le nostre decisioni siano ancorate ad altre, specificamente ai legami che hanno intessuto le fasi sensibili della nostra vita; per tale motivo è insita una forma di energia (pulsione) che tende a farsi autorità nell’individuo.

Le pulsioni esistono in virtù di un intrinseco dettame originario, e possono contrastare, ribellarsi ad un precostituito e contrario dispositivo educativo-sociale insito nelle relazioni familiari.

Doverosa la spiegazione di incestuosità, di cui, molto spesso, si evade l’intimo significato:

L’incesto non è “un fatto”, un accadimento, ma quell’impregnazione costante che costituisce per ciascuno il più forte vincolo, nel senso di catena, a fare, della propria vita, una vita propria. Una vita che non ricalchi, attraverso le vie dell’amore o attraverso quelle dell’odio, in un riferimento costante, aspetti della storia dei propri genitori nelle forme inconsce con cui essa è giunto al soggetto. Che al vincolo inconsciamente subito si sostituisca un legame d’amore liberamente scelto, è del resto una possibile apertura offerta da un’analisi giunta a compimento.

La pulsione aggressiva si prefigge come arma di combattimento e di preservamento dell’individuo, e può essere e può configurarsi, come dicevamo, in base ai legami familiari: genitori ambiziosi, rifiutanti, prepotenti, apatici, slavati o senza slanci di impulso o sentimenti o che, proponendo ai figli miraggi troppo concreti e angusti, mortificano le iniziative o si espongono al dolore di un prematuro distacco “spirituale” che immerge il proprio figlio in percorsi psicologicamente sdoppianti, vivendo in una immaginifica caccia “alla ricerca del paradiso perduto”. Apprezzabili gli effetti dello squilibrio per eccesso: la pulsione aggressiva si amplifica, come nel caso in cui il padre prepotente costringe i figli a regolare l’esistenza secondo principi non sentiti e pertanto sfibra il loro carattere disponendoli al servilismo, ne conseguono fermenti di ribellione, conati di dominio, bisogno di evasione, ansia di prove egoistiche; come nel caso di Marco menzionato nel libro, in cui, il padre una persona che, nell’ira, perde facilmente il controllo. Marco fa il bravo bambino, parla sensato, dice che è stato buono, si è pentito di aver fatto arrabbiare il papà, gli dispiace di aver picchiato un compagno «ma è stato per sbaglio, non per colpa mia». Ci vorrà del tempo perché si cominci a manifestare quanto di conflittuale, e di mirato, il “per sbaglio” ricopre.

I genitori amatissimi dei figli possono finire per diventare i loro carnefici. I genitori ambiziosi considerano i figli in funzione propria, come un’appendice o la cute dei loro insuccessi, dei tentativi sociali mancati.

In tale prospettiva si racconta il linguaggio dell’inconscio tra passaggi logici e una perfetta analisi in cui emerge la fascinazione di venire a conoscenza di una realtà nascosta nelle “nostre” decisioni; una realtà che crediamo ci appartenga e di cui si crede si abbia un perfetto controllo ma che, per comprenderla, ci obbliga a mettere i riflettori sul nostro passato. Ed è così che alcuni tratti possono essere associati ad altri, come in uno dei primi episodi descritti nel libro che narra la separazione dal coniuge. È il caso di una donna che, dopo aver lasciato il marito, rivive nuovamente la stessa circostanza con l’amante colto in flagrante con un’altra donna. La comparsa di questo tipo di decisione appare qui strettamente connessa con una serie di sintomi collocabili nell’ambito del tradimento – “non posso vivere senza sapere” – lungo cui corre, a distanza, il filo della ripetizione del legame con un padre infedele alla propria moglie.

Rimanendo in tema di padri, interessante il paragrafo su come si diventa handicappati: Carlo, vittima di un incidente, pone il padre in profondi sensi di colpa per non aver consentito al figlio di salire in un’auto così “troppo potente”. Così il senso di colpa del padre è un primo elemento che rende “handicappato” Carlo in quanto il padre, attraverso la “grande” decisione di interrompere la propria attività di avvocato e di dedicarsi completamente al figlio, non solo si è appropriato della sua responsabilità personale rispetto all’incidente ma, con il dedicargli gran parte della propria vita lo ha reso dipendente da lui. L’interessante caso continua con la minuzia di particolari tra cui una forma di atteggiamento ostile nei confronti dei genitori sotto forma di ossessione per lo studio e per il lavoro. Le parole dell’inconscio: «io non voglio studiare, voi mi obbligate a studiare, io studio troppo, sto male, e vi faccio star male».

Un messaggio opposto, descritto successivamente, riguarda l’utilizzo della droga come strumento di unione per rendere ancora più stretto il suo legame con la madre.

Seguono altrettanti casi interessanti sull’analisi del disegno nei bambini, sulle opere letterarie di Francisco Coloane «Capo Horn» e «Vita e destino» di Vasilij Grossman, in cui la pulsione aggressiva teorizzata da Sigmund Freud trova vita.

 

Gli effetti a lungo termine delle relazioni sorte in età adolescenziale

Il termine “relazioni tra pari” racchiude in sé molteplici tipologie di affiliazioni, dagli ampi gruppi sociali e conoscenze casuali alle amicizie diadiche.

 

Una distinzione fondamentale tra i diversi tipi di interazioni tra pari risiede nel grado in cui le interazioni si concentrano su amicizie strette rispetto allo stabilire il successo con un gruppo di pari più ampio, che può essere composto da conoscenti o amici più occasionali.

In generale, il possedere amicizie di qualità è stato associato a risultati positivi durante l’adolescenza. I giovani con livelli più alti di attaccamento ai loro migliori amici sembrano avere una migliore salute psicologica, nonché un miglior adattamento psicosociale (Wilkinson, 2010). Difatti, all’interno dei gruppi più ampi, è più difficile ricevere quell’attenzione che porta un soggetto a sentirsi unico nel suo genere. Nonostante l’essere inseriti all’interno dei gruppi determini lo sviluppo di determinate competenze sociali, che comportano a loro volta alcuni benefici durante l’adolescenza, come una maggiore autostima (Larson et al., 2007), una maggiore capacità assertiva e una minore aggressività (Asher & McDonald, 2009), solo la vicinanza tra due persone è stata collegata ad una maggior motivazione e al successo scolastico (Larson et al., 2007).

I comportamenti che rendono un giovane più “popolare” come il bere, fumare, il far uso di droghe, la frequente attività sessuale, non sono sempre visti in maniera positiva in età adulta (Moffitt, 1993). Durante l’adolescenza, al contrario, ci sono una varietà di benefici concomitanti nel guadagnare, attraverso questi atti, ammirazione da parte dei pari. Tuttavia, alcuni studi hanno scoperto che il raggiungimento dell’ammirazione da parte dei pari, all’inizio dell’adolescenza, può essere collegato, a breve termine, ad un aumento dell’incidenza di comportamenti sia positivi che negativi. Difatti, da un lato, questa popolarità aumenta la probabilità che vengano attuati comportamenti ancor più problematici, dall’altro, talvolta, consente la regressione di comportamenti come l’ostilità e l’aggressività (Balsa et al., 2010). Inoltre, coloro i quali sono concentrati sul successo all’interno del gruppo di pari – al punto da esser disposti a compromettere i loro valori per essere ammirati – mostrano maggiormente un comportamento problematico durante la fase avanzata dell’adolescenza (Fuligni et al., 2001).

Oltre ai comportamenti delinquenziali ed esternalizzanti, le interazioni all’interno dei gruppi possono avere un impatto sui sintomi internalizzanti, come la sintomatologia depressiva e sintomi dell’ansia sociale.

Di contro, si è visto che, dinanzi ad una serie di fattori stressanti tipici dell’adolescenza, i giovani hanno meno probabilità di sviluppare sintomi di ansia sociale se sono in grado di sviluppare amicizie strette di alta qualità (La Greca & Harrison, 2005).

Sulla base di quanto appena esplicitato, la domanda rilevante a questo punto è: quali effetti hanno le diverse tipologie di relazioni in età adulta? Nonostante sia chiaro che possedere un’abbondanza di relazioni possa determinare degli effetti benefici a breve termine, l’aver rinunciato a relazioni più strette, potrebbe essere problematico in età adulta.

Difatti, come si è detto, una volta che i comportamenti devianti che vengono lodati dal gruppo durante l’adolescenza smettono di essere visti come positivi, gli adolescenti che si basano sulle deboli fondamenta di quei comportamenti per raggiungere il successo – senza sviluppare amicizie strette – possono trovarsi persi in età adulta.

Lo studio preso in esame è stato condotto su un campione di giovani dai 15 ai 25 anni, al fine di estendere la comprensione delle conseguenze a breve e lungo termine date dalle differenti tipologie di interazioni. In primo luogo, i ricercatori hanno ipotizzato che la preferenza per i gruppi più ampi e la qualità delle interazioni diadiche avrebbero predetto, ciascuno in modo univoco, una diminuzione dei sintomi depressivi, un aumento dell’autostima e l’aumento della percezione dell’accettazione sociale in tarda adolescenza. In secondo luogo, è stato ipotizzato che la qualità dell’amicizia stretta avrebbe predetto un miglioramento della salute mentale in età adulta. È stato ipotizzato che la preferenza per le conoscenze più superficiali non avrebbe portato a simili guadagni a lungo termine, a causa della natura mutevole delle competenze necessarie per il successo interpersonale nel tempo.

Il campione era costituito da 169 studenti.

Come ipotizzato, la qualità dell’amicizia stretta e la preferenza di affiliazione tra pari durante gli anni dell’adolescenza hanno predetto in modo univoco i cambiamenti, a livello della salute mentale, dalla metà dell’adolescenza alla prima età adulta. In particolar modo, la qualità delle interazioni diadiche è stata associata a dei miglioramenti sia a breve che a lungo termine. In questo studio, gli adolescenti che hanno riferito di avere relazioni più strette hanno mostrato un aumento dell’autostima e dell’accettazione sociale l’anno successivo. La preferenza di affiliazione tra pari, tuttavia, non ha predetto cambiamenti a breve termine nei sintomi internalizzanti.

È possibile che le amicizie strette durante l’adolescenza forniscano esperienze positive che rafforzano il concetto di sé degli adolescenti nel tempo. Esse possono al contempo offrire delle opportunità di sviluppare un attaccamento sicuro con un coetaneo, oltre ai membri della famiglia o altri adulti. Inoltre, è stato dimostrato che le occasioni che permettono alle persone di assumere ruoli di aiuto hanno un impatto positivo sul benessere e sulla soddisfazione generale (Weinstein & Ryan, 2010).

Al contrario, la preferenza per i gruppi più ampi non è stata associata a nessun cambiamento significativo a breve termine nel funzionamento, ma ha predetto un aumento dei livelli di ansia sociale in età adulta.

Secondo gli autori non è la preferenza per l’affiliazione verso i gruppi di pari in sé ad essere problematica nel tempo. I giovani che possiedono una certa popolarità possiedono naturalmente una serie di abilità sociali apprezzate dai pari, ma il punto è che mantenere la preferenza per questa popolarità, piuttosto che concentrarsi sulla costruzione di amicizie più significative, potrebbe successivamente determinare delle difficoltà per alcuni giovani (Nangle, et al., 2003).

Questi risultati, se replicati, potrebbero avere implicazioni nel guidare genitori e insegnanti nella comprensione e nell’incoraggiamento delle relazioni adolescenziali, così come per una varietà di interventi focalizzati sull’interpersonalità che cercano di migliorare la salute mentale degli adolescenti e/o le relazioni strette.

 

La storia di Charles McGill, prestigioso avvocato affetto da Radio-Fobia. Analisi in chiave clinica del racconto tratto dalla serie televisiva “Better call Saul”

Nel corso dell’articolo proverò a raccontarvi la storia di Charles McGill, osservandone con leggerezza gli aspetti più umani e caratteristici, la sua relazione particolare con il fratello James, e cercherò infine di delineare un breve quadro clinico che descriva e spieghi alcuni dei sintomi e dei comportamenti raccontati.

Attenzione – L’articolo contiene spoiler!

 

Introduzione

Viviamo in un periodo storico dove la pandemia ha influenzato negativamente molte delle nostre abitudini, costringendoci a chiuderci in casa e ad evitare il più possibile l’esposizione all’ambiente esterno e alle relazioni interpersonali. Per fortuna la situazione sembra destinata a migliorare e la speranza di riappropriarci delle nostre sane abitudini ci appare sempre più realizzabile.

Purtroppo però ci sono persone che erano costrette a rimanere chiuse in casa già prima della pandemia e che lo rimarranno anche al termine della stessa poiché sono colpite da qualche forma di psicopatologia che ne compromette le capacità sociali e lavorative.

Non è così facile sentir parlare di casi del genere all’interno del mondo dei mass-media poiché è ancora presente un certo grado di ignoranza e vergogna rispetto a questo tema (sia da parte dei giornalisti che da parte delle persone portatrici del disagio).

Purtroppo però, chi come me lavora nel settore della salute mentale, può testimoniare come il numero di persone coinvolte in queste gravi forme psicopatologiche è più alto di quello che generalmente si crede.

È importante dunque sdoganare il tema della malattia mentale senza tuttavia fare troppa pressione sulle persone coinvolte e “costringerle” a mettersi in gioco personalmente.

Ma è davvero possibile raggiungere questo compromesso?

La risposta sembra essere affermativa e, come spesso accade, anche in questo caso l’arte e lo spettacolo possono venirci in aiuto.

Obiettivo e contenuto dell’articolo

Proprio durante la scorsa quarantena, ho avuto modo di guardare la famosa serie televisiva dal titolo “Better call Saul”, lo spin-off/prequel dell’ancora più conosciuta serie tv “Breaking Bad”, trasmesse entrambe su Netflix. Sono delle serie tv che non hanno assolutamente nulla a che vedere con il tema della salute mentale, tuttavia in “Better call Saul” è stato dedicato molto spazio alla narrazione della vita di Charles McGill, prestigioso avvocato di successo affetto da una grave forma di “Ipersensibilità Elettromagnetica”.

Nel corso dell’articolo proverò a raccontarvi la storia di Charles, osservandone con leggerezza gli aspetti più umani e caratteristici, la sua relazione particolare con il fratello James, e cercherò infine di delineare un breve quadro clinico che descriva e spieghi alcuni dei sintomi e dei comportamenti raccontati.

Due piccole precisazioni prima della lettura

  • L’articolo contiene numerosi spoiler della serie tv;
  • Il presente lavoro ha uno scopo di intrattenimento e non è da intendersi come un articolo scientifico poiché le informazioni su cui baserò alcune delle considerazioni cliniche sono parziali e frutto della mia libera interpretazione dell’opera televisiva.

Informazioni sulla vita di Charles McGill

Charles McGill, detto Chuck, ha 57 anni ed è il socio fondatore di uno dei più grandi e influenti studi legali di Albuquerque (USA). Vive da solo da diversi anni dopo aver divorziato da Rebecca. Nell’ambiente lavorativo è molto apprezzato per le sue doti diplomatiche, la sua lunga esperienza, la dedizione alla legge, che studia e pratica con professionalità, ma soprattutto per la sua rettitudine morale.

Chuck è il fratello maggiore di James, detto Jimmy (protagonista della serie), anche lui avvocato, ma caratterialmente agli antipodi del fratello maggiore.

Jimmy ha sempre vissuto di espedienti. A differenza di Chuck è inaffidabile ed imprevedibile. Non si fa troppi scrupoli ad infrangere la legge pur di continuare la sua improbabile scalata al successo. Jimmy è una persona molto ambiziosa e disposta proprio a tutto. Puntualmente si mette nei guai e per uscirne ha spesso bisogno dell’aiuto dei suoi cari, incluso Chuck, che è sfiancato ed irritato da questi ripetuti comportamenti inappropriati da parte del fratello minore. Chuck infatti ha passato la sua intera vita a cercare di rimediare agli errori di Jimmy, ad esempio tirandolo fuori dal carcere e dandogli una grande opportunità lavorativa come addetto allo smistamento della posta nel suo studio legale.

Tuttavia, andando avanti con la serie, si scoprirà che Chuck nei confronti di Jimmy non ha agito sempre e solo guidato dall’amore fraterno, anzi, ha segretamente e per lungo tempo messo i bastoni tra le ruote a Jimmy, soprattutto rispetto al suo tentativo di avanzare nella carriera di avvocato, poiché non crede abbia meritato questo titolo e possa in alcun modo onorare la professione.

Chuck certamente prova dei sentimenti negativi nei confronti di Jimmy, sentimenti che poi nella serie tv saranno esplicitati e che comprendono principalmente l’odio (perché considera suo fratello responsabile della malattia e della successiva morte prematura del padre) e invidia (non capisce perché Jimmy, nonostante il suo agire da incosciente, susciti negli altri una certa forma di simpatia e venga apprezzato da molte persone, inclusa la sua ex-moglie Rebecca).

La malattia

Chuck da circa 2 anni soffre di una condizione che viene comunemente definita ipersensibilità elettromagnetica e consiste in un insieme di sintomi fisici e psicologici, che le persone le quali si dichiarano affette da tale condizione attribuiscono all’esposizione a campi elettromagnetici. L’Organizzazione Mondiale della Sanità però non ha riconosciuto questa condizione come una malattia poiché mancano le evidenze scientifiche e sembrerebbe piuttosto trattarsi di uno stato di disagio psicologico che prende la suddetta forma.

È importante precisare, però, che la “battaglia” sul riconoscimento o meno di tale malattia non è ancora conclusa e che in tutto il mondo esistono associazioni di persone affette da questa che considerano una vera e propria malattia, e lottano affinché essa venga riconosciuta anche dall’OMS come tale.

Riguardo al nostro Chuck, però, non sembrano esserci grossi dubbi, il suo è un problema di natura psichica. Lo si può affermare poiché, oltre ad essersi sottoposto a numerosi esami medici oggettivi ottenendo sempre esito negativo, Chuck è stato più volte astutamente ingannato, facendolo venire a contatto, a sua insaputa, con delle forti fonti elettromagnetiche e si è visto che esse non gli provocavano reazioni di alcun tipo, dimostrando di fatto la natura psicologica del problema, anche se Chuck si rifiuterà di accettarlo.

Ad ogni modo, la natura psicologica del problema non significa che esso sia meno grave, tant’è che il disturbo diventa progressivamente sempre più invalidante, conducendo a momenti di forte crisi, tali da rendere necessari dei ricoveri ospedalieri. Inoltre, il ritiro sociale e lavorativo di Chuck, è ormai un fatto consolidato (sono passati 18 mesi da quando si è messo in aspettativa dal lavoro) e le persone a lui più vicine fanno di tutto per dargli una mano e supportarlo in questa sua difficoltà.

Chuck presso la sua abitazione ha disdetto la fornitura di energia elettrica. Ha eliminato ogni oggetto che funzioni con una batteria o che possa produrre campi elettromagnetici. Chiunque voglia entrare in casa sua deve lasciare tutti i dispositivi dotati di batteria nella cassetta della posta collocata a molti metri di distanza dall’abitazione. Inoltre l’ospite prima di entrare in casa deve “decontaminarsi” toccando con il dito un marchingegno creato ad hoc che scarica a terra l’eventuale energia elettrostatica accumulata nel corpo umano.

Chuck vive nel buio e nella solitudine, ma non sembra rammaricato per questo, per lui la cosa più importante è proteggersi dalle radiazioni poiché i sintomi che accuserebbe sarebbero troppo intensi e dolorosi ed è convinto che possano condurlo alla morte. Quando ha provato ad uscire di casa o quando è stato costretto a venire a contatto con dei campi elettromagnetici, ha avvertito una lunga serie di fastidiosi sintomi: intorpidimento, dolore o sensazione di formicolio agli arti, sensazione di bruciore cutaneo, tachicardia, sudorazione, tremore, acufene, vista annebbiata, nausea e vertigini con tendenza all’instabilità e allo svenimento.

Passa le sue giornate monotone leggendo libri e giornali illuminato da una piccola lanterna a gas. Ogni tanto suona il pianoforte. Il cibo è conservato in una grande scatola termica che ogni giorno ha bisogno di essere riempita con del nuovo ghiaccio. Da quando ha saputo che in città hanno installato dei nuovi generatori elettrici, spesso accusa dei blandi sintomi della sua “malattia” e ha bisogno di coprirsi con una coperta isotermica attingendo dalla sua vasta scorta di materiale radio-protettivo.

Chuck però non è del tutto solo, tutti i giorni Jimmy va a fargli visita consegnandogli la spesa, il ghiaccio e il giornale. Jimmy è estremamente premuroso nei confronti di Chuck, lo assiste con rispetto, pazienza e una preservata ammirazione nei suoi confronti. Non è del tutto convinto della natura medica del disturbo di Chuck, tuttavia lo rispetta e forse lo teme troppo per dirglielo esplicitamente, anche se spesso lo invita ad uscire di casa e a smetterla di prendere tutte quelle precauzioni. Chuck approfitta delle visite che Jimmy gli fa per controllare suo fratello minore e assicurarsi che non si metta in guai troppo grossi come è solito fare.

Anche il suo amico di vecchia data, nonché socio in affari Howard, frequentemente si reca da Chuck per fargli un saluto, aggiornarlo sull’andamento dello studio legale di cui condividono la proprietà e per ribadirgli la sua stima e la sua vicinanza e disponibilità sia in termini professionali che affettivi.

I sintomi riflettono l’andamento della vita relazionale di Chuck

Il problema di Chuck ha degli alti e bassi. Ci sono momenti in cui sembra stare meglio ed altri in cui peggiora drasticamente. Vediamone alcuni esempi.

Un giorno Jimmy, dopo essere finito sui giornali locali per una bravata delle sue, con l’intento di non far preoccupare Chuck decide di inventarsi una scusa e di non consegnare tale giornale al fratello. Chuck non se la beve, capisce che c’è qualcosa che non va e, armandosi di coraggio (e coperta isotermica), decide di uscire di casa, seppure solo per qualche secondo, e di “rubare” il giornale dei suoi vicini. Una volta letta la notizia Chuck sta male e nel suo volto si legge una grande tristezza e preoccupazione. I sintomi della sua malattia sembrano peggiorare.

La situazione però è destinata ad aggravarsi ulteriormente poiché i vicini di casa hanno avvertito la polizia del furto del giornale e due agenti si recano immediatamente presso l’abitazione di Chuck, che non è assolutamente disposto ad aprire se prima i due poliziotti non si sottopongono al solito iter di decontaminazione. I poliziotti ritengono di non poter assecondare la richiesta di Chuck e agiscono con la forza sfondando la porta e usando il taser contro di lui.

Non riesco ad immaginare arma più letale che il taser per una persona che si ritiene affetta da ipersensibilità elettromagnetica.

Di fatto Chuck finisce in ospedale, dove viene visitato dalla Dott.ssa Cruz, psichiatra, che si rende subito conto della gravità del problema di Chuck. La Dottoressa informa i familiari sulla natura di tipo psicologico del problema e propone un ricovero perché, nonostante descriva Chuck come una persona estremamente colta ed intelligente, ritiene che le sue attuali condizioni di vita mettano a repentaglio la sua e altrui incolumità. Jimmy decide di non accettare il ricovero assecondando la volontà di Chuck, che si rifiuta categoricamente di riconoscere la natura psicologica del problema.

Tornati a casa, Jimmy farà una sentita promessa a Chuck, per il bene di suo fratello d’ora in avanti eviterà di combinare altri guai. “Miracolosamente” Chuck comincia subito a sentirsi meglio e nei giorni a seguire proverà a suo modo ad affrontare il problema uscendo sempre più spesso fuori di casa e cercando di crearsi una progressiva tolleranza alle onde elettromagnetiche.

La risalita

Ha inizio il periodo migliore per Chuck da quando si è ammalato. Jimmy lo convince a collaborare con lui ad una causa e Chuck riacquista entusiasmo e crescente voglia di rimettersi in gioco a livello lavorativo.

Chuck comincia a tornare a lavoro presso lo studio legale di cui è socio fondatore, anche se, le poche volte che lo fa, deve mettersi in moto una vera e propria macchina di prevenzione. Chuck infatti prima di recarsi a lavoro esige ed ottiene che vengano staccati i contatori e ritirati tutti i dispositivi elettronici del personale.

Nonostante le bizzarrie che caratterizzano la vita di Chuck, questo è un periodo che potremmo definire di convivenza positiva con la malattia. È vero che la convinzione irrazionale è tuttora presente, ma è altresì vero che la sintomatologia sembra pian piano regredire e che Chuck riesce, seppur con notevole sforzo, a recarsi a lavoro.

La verità viene a galla

Purtroppo proprio sul lavoro succede qualcosa di molto spiacevole. Jimmy viene a sapere che Chuck negli ultimi anni ha agito di nascosto per ostacolare la sua carriera professionale. Ne scaturisce un acceso confronto tra i due fratelli che fa emergere vecchi rancori e risentimenti soprattutto da parte di Chuck nei confronti di Jimmy. La loro incompatibilità caratteriale sembra destinata a far allontanare i due fratelli.

Il conflitto ha inizio

Da questo momento in poi i fratelli McGill cercheranno di evitarsi il più possibile ed entrambi in segreto architetteranno dei modi per ostacolare il successo dell’altro. Ne verrà fuori una gara senza esclusione di colpi ma, si sa, quando c’è da giocare sporco Jimmy non ha rivali ed infatti, facendo letteralmente carte false, riesce a far sì che Chuck risulti colpevole di una grave negligenza lavorativa che gli provocherà un’enorme perdita sia economica che di reputazione.

Chuck tutte le volte che subisce un duro colpo da parte di Jimmy finisce per stare male manifestando una riacutizzazione dei sintomi e ritiro sociale. Questi aggravamenti della salute di Chuck puntualmente determinano un riavvicinamento da parte di Jimmy, che si sente in colpa e non riesce a voltare le spalle al fratello, soprattutto in virtù di questo suo stato di sofferenza psichica. Ma proprio quando Jimmy è spinto da compassione e affetto verso il fratello, Chuck contrattacca e sferra i suoi colpi con astuzia e cinismo arrivando persino a far incarcerare suo fratello.

In questa fase della storia sembra proprio che sia la rivalità con suo fratello Jimmy a rappresentare la principale motivazione per Chuck a riprendersi dalla malattia. Preso dalla “lotta” contro suo fratello, Chuck riesce ormai a svolgere quasi tutte le attività della vita quotidiana: va a lavoro di giorno senza la necessità di prendere misure protettive, è riuscito a tornare in tribunale e partecipa attivamente a tutte le riunioni a cui viene invitato.

Jimmy però, da quando è stato arrestato è cambiato. Adesso non sembra più disposto a perdonare Chuck e a farsi impietosire dalla sua fragilità psicologica. Durante un intervento pubblico di Chuck, Jimmy gli sferra un duro colpo dimostrando davanti a tutti che il problema di Chuck non è frutto di una condizione medica ma bensì di un disturbo mentale.

Questo evento getta Chuck nello sconforto più totale, ma prova ancora a trovare la forza di rialzarsi e decide di contattare la Dottoressa Cruz, con cui inizia un percorso di psicoterapia. Durante uno dei colloqui con la psichiatra, Chuck esprime chiaramente il suo disagio nel cominciare a considerare l’eventualità che sia davvero affetto da un disturbo psichico, di seguito riporto uno stralcio della seduta:

Chuck: ho avuto un incidente. È successo in pubblico, davanti alla gente… È stata la peggiore esperienza della mia vita. Mi è stata data una prova, in pubblico e senza alcuna ombra di dubbio, che c’era una batteria caricata al massimo molto vicina al mio corpo quasi da 2 ore… e non ho sentito niente.

Dott.ssa Cruz: cosa significa per lei?

Chuck: … questa patologia, per me è reale quanto lo è quella sedia, reale come questa casa, reale quanto lei, ma… ma se invece non lo fosse? Se fosse solo nella mia testa? E se così fosse, se non fosse reale… allora che cosa ho fatto?

Grazie al lavoro con la Dottoressa Cruz, Chuck impara sempre di più a gestire i sintomi della sua malattia, ma appena sta per rimettersi in piedi subisce un altro duro colpo da parte di Jimmy e questa volta purtroppo sarà il colpo di grazia.

Epilogo

Jimmy sparge la voce che Chuck sia psicologicamente instabile facendogli aumentare il premio dell’assicurazione professionale. Chuck è intenzionato ad intentare causa contro la Compagnia assicurativa, ma Howard, il suo amico e socio di vecchia data, in questa occasione gli volta le spalle. La storia di amicizia e collaborazione tra i due è arrivata al capolinea. Howard ormai ritiene Chuck non più in grado di portare avanti l’attività lavorativa e, temendo un crollo dell’immagine dello studio legale, prima propone a Chuck di ritirarsi in pensione e poi, di fronte al rifiuto di quest’ultimo, trama contro di lui arrivando ad ottenere, grazie alla maggioranza dei voti degli associati, il suo allontanamento ed estromissione dagli affari dello studio.

Chuck torna a rinchiudersi in casa e, dopo aver avuto l’occasione di parlare per l’ultima volta con Jimmy, si aggrava come mai prima. Arriva a smantellare le pareti della propria abitazione convinto che ci sia nascosta da qualche parte una fonte di onde elettromagnetiche che gli causa enorme dolore.

Chuck si è lasciato andare ed ormai non riesce più a trovare motivazioni per rialzarsi. Una sera, stanco e solo, Chuck guarda i suoi giornali e la sua lampada da campeggio, decide di far divampare un incendio e si lascia morire tra le fiamme.

Questo triste epilogo deve farci riflettere e metterci in guardia da una società dove un individuo preferisce togliersi la vita pur di fare i conti con la malattia mentale, come se questa fosse una colpa, un segno di debolezza o comunque qualcosa di cui vergognarsi.

Analisi in chiave clinica

Non è possibile elaborare una vera e propria diagnosi clinica poiché mancano troppe informazioni rilevanti che non emergono dalla serie tv, ma che invece sarebbe stato necessario approfondire. Tuttavia, ai fini dell’intrattenimento e della divulgazione, nella seguente sezione cercherò di presentare una breve concettualizzazione del caso di Charles McGill da un punto di vista psicologico. I principali riferimenti teorici che seguirò sono:

  • La Teoria dell’Attaccamento di John Bowlby (1972, 1975, 1983)
  • Il Modello Dinamico Maturativo di Patricia Crittenden (2008)
  • La Teoria delle Organizzazioni di Significato Personale di Vittorio Guidano e Giovanni Liotti (1983)
  • Il Modello a 3 Assi per la formulazione del caso secondo la prospettiva cognitivo-costruttivista ed evolutiva di Furio Lambruschi (2018).

Diagnosi descrittiva ed esplicativa

Secondo il DSM-5, che è un manuale pubblicato dall’Associazione Americana di Psichiatria e serve a fare diagnosi seguendo dei parametri oggettivi, Charles McGill sembrerebbe essere affetto da Fobia Specifica con Disturbo Delirante di natura somatica e continuativa.

È un paziente che a lungo è riuscito a sopperire al suo grave disturbo mentale grazie a delle spiccate doti intellettive, culturali e sociali anche se, tuttavia, mostra delle difficoltà metacognitive “in prima persona” ossia delle difficoltà ad osservare e riflettere adeguatamente sulla propria attività mentale.

Nei suoi atteggiamenti si scorge un’organizzazione di Significato Personale di tipo misto Fobica/Ossessiva. Nelle relazioni interpersonali, in particolar modo con le figure affettive più significative, Charles sembra alternare due Strategie di Attaccamento di tipo C-7 (nascostamente minaccioso con l’ossessione per la vendetta) e C-8 (paranoico).

Analisi storica

L’insorgenza della malattia pare collocabile nel periodo immediatamente successivo al divorzio (voluto principalmente da Rebecca per ragioni non specificate). Una crisi relazionale di questo tipo è potenzialmente in grado di produrre uno squilibrio affettivo e richiede una rielaborazione in chiave identitaria che probabilmente Charles non è mai riuscito a fare. Il nostro protagonista non ha avuto modo di integrare quell’esperienza con i suoi contenuti più emotivi, che sono rimasti invece inascoltati. Questo deficit integrativo ha prodotto una disregolazione emotiva “in eccesso” producendo dei sintomi fobici e di ritiro sociale.

Analisi funzionale

Il Disturbo che Charles ha sviluppato probabilmente gli permetteva di spiegarsi la sua solitudine e il suo graduale distacco dalla società come una “scelta forzata” o comunque come un qualcosa che gli era capitato senza che lui ne avesse alcuna responsabilità. Potrebbe essere stato un accomodamento identitario che nel momento in cui è avvenuta la separazione con Rebecca era forse l’unico realizzabile con gli strumenti mentali che Charles possedeva.

La manifestazione spontanea di questi sintomi che Charles con un delirio cercava di spiegarsi, gli consentiva inoltre di “controllare” la relazione con la sua unica figura familiare ancora in vita ossia il fratello James. Abbiamo avuto modo di vedere nel corso del racconto che tutte le volte che Charles stava male, James smetteva di combinare guai e correva da suo fratello maggiore impegnandosi con tutte le sue energie a garantirgli vicinanza e supporto. Quest’ultimo è un aspetto rilevante in chiave clinica poiché consente di produrre una diagnosi funzionale del problema ovvero rispondere alla domanda “quali sono i vantaggi diretti o indiretti che produce il sintomo?” Individuare questi elementi che vengono definiti fattori di mantenimento del problema è fondamentale per risolvere un caso di questo tipo. Non credo sia frutto della coincidenza infatti che la malattia sia peggiorata drasticamente proprio quando James ha smesso di rispondere a queste “chiamate” di Charles che, a quel punto, ha perso il controllo dell’unica strategia che fino ad allora gli aveva permesso di garantirsi la vicinanza affettiva dell’ultima figura d’attaccamento che gli era rimasta.

Intervento clinico

Quando Charles si è rivolto alla psichiatra ha iniziato un percorso di terapia a stampo cognitivo comportamentale che, per mezzo di un lavoro di auto-osservazione su un diario e su delle schede chiamate ABC, gli aveva permesso di cominciare a fronteggiare i sintomi della malattia. Questo è considerato uno degli obiettivi iniziali di una terapia. Il raggiungimento di tale traguardo ha prodotto, come previsto, un aumento dell’autostima e dell’auto-efficacia percepita. Successivamente la terapia avrebbe dovuto pian piano passare ad una fase successiva dove il problema viene affrontato a più ampio raggio, comprendendone le cause scatenanti, facendo emergere delle modalità disfunzionali di lettura del mondo e producendo una profonda conoscenza di sé stessi e della propria storia di vita.

Un lavoro così fatto dovrebbe portare come risultato sia una remissione dei sintomi sia una riduzione della probabilità di ricaduta.

Sfortunatamente Charles non ha avuto l’opportunità di arrivare fino in fondo alla terapia e non sapremo mai come sarebbe andata a finire se quella sera non avesse deciso di accendere un fuoco e spegnere la sua vita.

Conclusione

Ho deciso di raccontare la storia di Chuck perché nella forma, e purtroppo anche nell’epilogo, è simile ad altre drammatiche storie di vita reale. Gli autori della serie TV Vince Gilligan e Peter Gould, con maestria hanno narrato una storia tristemente realistica facendo emergere alla perfezione la personalità e il disagio del protagonista, dimostrandosi sensibili al tema della salute mentale e affrontandolo con coraggio ed originalità.

 

Memoria Autobiografica e Schizofrenia: un focus su uno dei maggiori deficit cognitivi della malattia

Una review prodotta da Zhang, Kuhn, & Jobson (2019) si è occupata della raccolta e dell’analisi qualitativa dei risultati di 57 articoli inerenti la descrizione dei deficit nella memoria autobiografica presentati da pazienti affetti da schizofrenia.

 

Stando a quanto riportato dalla letteratura scientifica, la memoria autobiografica è definibile come una complessa miscela di ricordi inerenti eventi singoli, estesi o ricorrenti, i quali vengono progressivamente integrati in una storia coerente del nostro Sé, creata e valutata attraverso le pratiche socioculturali (Fivush et al., 2017, p. 119). Più semplicemente, tale sistema di memoria parrebbe fungere da mero organizzatore di quel complesso insieme di conoscenze dichiarative riguardanti fatti ed episodi provenienti dalla nostra storia di vita. A tal proposito, secondo Sir Francis Galton (1879), l’insieme delle informazioni contenute nella memoria autobiografica formerebbe il bagaglio di conoscenza in possesso di ogni essere umano, il quale sarà conseguentemente stato determinato dalle esperienze da lui effettuate nel corso della propria esistenza. Se, da un lato, un corretto funzionamento della memoria autobiografica è considerabile come tipico di individui ‘sani’, d’altra parte, essa risulta altamente compromessa in soggetti affetti da alcune malattie psichiatriche. Più di ogni altra condizione psicopatologica, i disturbi dello spettro della schizofrenia sembrerebbero implicare gravi disfunzioni cognitive a carico di tale sistema di memoria (Berna et al., 2016). Si tratta infatti di pazienti che, a partire dall’esordio della malattia, o persino dai prodromi della stessa, mostrano un marcato decremento del proprio funzionamento cognitivo, il quale andrebbe ad intaccare in maniera selettiva i seguenti domini: la memoria autobiografica, la memoria di lavoro, la velocità di elaborazione dell’informazione e la teoria della mente (Forbes et al., 2009; Barch, & Ceaser, 2012; Hoe et al., 2012).

Una review prodotta da Zhang, Kuhn, & Jobson (2019) si è occupata della raccolta e dell’analisi qualitativa dei risultati di 57 articoli inerenti alla descrizione dei deficit nella memoria autobiografica presentati da pazienti affetti da schizofrenia. All’interno di molteplici studi è emerso come costoro tendessero a recuperare delle memorie autobiografiche meno specifiche e meno numerose rispetto ai gruppi di controllo (e.g. Danion et al., 2005; Mehl et al., 2010; Potheegadoo et al., 2012). In particolare, la specificità delle memorie autobiografiche recuperate da individui aventi una diagnosi di schizofrenia sembrerebbe distribuirsi lungo un pattern a forma di U, in quanto l’accuratezza del ricordo recuperato risulterebbe decisamente maggiore nei casi in cui esso riguardi l’infanzia e gli ultimi anni di vita, mentre calerebbe drasticamente nel momento in cui si tratti di un evento appartenete alla prima età adulta (Boeker et al., 2006; McLeod, Wood, & Brewin, 2006). Inoltre, pazienti affetti da schizofrenia parrebbero mostrare un reminiscence bump temporalmente anticipato rispetto ai controlli, in quanto apparentemente incapaci di recuperare dei ricordi dettagliati che riguardino la loro adolescenza o la prima età adulta (Cuervo-Lombard et al., 2007). I due risultati sopra menzionati evidenziano come l’esordio dei sintomi psicotici acuti abbia probabilmente portato ad una diminuzione del recupero di memorie autobiografiche provenienti da questi periodi di vita (Vourdas et al., 2003).

Degno di nota è anche il fatto che l’identità della persona parrebbe prendere forma proprio durante l’adolescenza e la prima età adulta (Erikson, 1950). Da una parte, in un individuo che attraversa un normale processo di sviluppo, avrà luogo una codifica privilegiata di molti degli eventi che si verificano durante questo periodo, i quali verranno poi integrati nella narrativa personale dell’individuo stesso migliorandone così l’accessibilità più avanti nella vita (Munawar, Kuhn, & Haque, 2018). Dall’altra, è possibile ipotizzare che nel caso in cui un individuo presenti dei sintomi di schizofrenia durante l’adolescenza e la prima età adulta, gli eventi che si verificano in quel momento riceveranno un’attenzione decisamente ridotta e probabilmente non verranno integrati all’interno della narrativa personale dello stesso (Zhang et al., 2019). Queste informazioni, poiché mal processate, saranno di conseguenza anche difficilmente recuperabili dal soggetto in un secondo momento nel caso in cui gli venga richiesto di farlo (Zhang et al., 2019).

Secondo il Self-Memory-Sistem (SMS) introdotto da Conway & Pleydell-Pearce (2000), il recupero di memorie autobiografiche vaghe e generali che caratterizza i pazienti affetti da schizofrenia sarebbe determinato da una compromissione del cosiddetto Working Self, ovvero dall’alterazione degli obiettivi rilevanti del Sé nel momento in cui viene effettuata la rievocazione del ricordo (Conway, Singer, & Tagini, 2004). Tale compromissione impedirebbe infatti la costruzione di memorie precise e dettagliate a partire dall’Autobiographical Knowledge Base (Conway, Singer, & Tagini, 2004). Dal momento in cui avviene l’esordio di sintomi psicotici acuti tra l’adolescenza e la prima età adulta, si verrebbe a creare secondo gli autori un’eccessiva discrepanza tra il Sé attuale ed il Sé ideale dell’individuo, la quale va, da una parte, a compromettere la naturale formazione dell’identità dello stesso e, dall’altra, a generare un ciclo di feedback negativi atto ad inibire lo sforzo che egli emette al fine di accedere alla propria Autobiographical Knowledge Base (Conway, 2005). Questa disfunzione può progredire fino a provocare un mero blocco dell’intero SMS portando la persona ad esprimere deliri, confabulazioni, deragliamenti e tangenzialità (Conway, 2005).

Alcuni studi suggeriscono che il recupero di memorie autobiografiche vaghe ed aspecifiche da parte dei pazienti schizofrenici rappresenti un tentativo estremo di ridurre la discrepanza interiore di cui sono vittime (Schoofs, Hermans, & Raes, 2012). A ben vedere, questo concetto risulta decisamente simile a quello di meccanismi protettivi riportato all’interno del modello CaR-FA-X introdotto da J. Mark Williams (2006). Tali meccanismi svolgerebbero in questo caso la funzione di ridurre la sofferenza emotiva vissuta dall’individuo attraverso la soppressione delle memorie autobiografiche indesiderate e, alle volte, provocando anche la cancellazione delle stesse (Hu et al., 2015). Inoltre, questo processo patogeno non sarebbe rintracciabile solamente nei disturbi dello spettro della schizofrenia, ma anche all’interno di altri quadri psicopatologici come, ad esempio, quelli apparenti al cluster C dei disturbi della personalità (Spinhoven et al., 2009). Un tentativo estremo volto a minimizzare la discrepanza tra i Sé potrebbe essere costituito, ad esempio, da un paziente che, di fronte ad un terapeuta che gli chiede di fornirgli ulteriori chiarificazioni circa il suo rapporto con i genitori durante l’adolescenza, risponde: “Non lo so” o “Non ricordo affatto”. In questo caso, si potrebbe azzardare che, stando a quanto detto fino ad ora, l’obiettivo del Working Self sia quello di non recuperare alcun ricordo dettagliato dell’evento così da poter mantenere un certo grado di coerenza interna (Conway et al., 2004). Secondo il modello CaR-FA-X i deficit cognitivi mostrati da individui affetti da schizofrenia potrebbero essere attribuiti anche ad una compromissione delle funzioni esecutive, le quali risulterebbero necessarie al fine di effettuare un’accurata ricerca a livello dell’Autobiographical Knowledge Base (Williams et al., 2007; Conway, 2000). Tale impedimento porterebbe i pazienti a mostrare una ridotta capacità di costruire memorie autobiografiche specifiche (Ricarte et al., 2017). Infine, è possibile menzionare alcuni studi i quali sostengono che individui affetti da schizofrenia sono spesso preoccupati da pensieri disorganizzati o immagini intrusive tali da provocare loro un alto livello di ansia o depressione (Upthegrove et al., 2010; Hall, 2017). In questi casi il rimuginio può arrivare ad occupare una parte considerevole della capacità di memoria di lavoro del soggetto, portandolo dunque a sperimentare una riduzione delle proprie risorse cognitive ed impedendogli così di formare memorie autobiografiche adeguate (Williams et al., 2007).

Per lungo tempo, i deficit cognitivi sono stati considerati erroneamente come sintomi aventi una rilevanza secondaria nel quadro psicopatologico della schizofrenia, in quanto l’attenzione veniva principalmente riservata ai sintomi positivi del medesimo disturbo, quali deliri ed allucinazioni. Appare chiaro come essi siano invece da considerare come sintomi primari data la loro persistenza anche quando la fase acuta della malattia si esaurisce (Medalia, & Revheim, 2002). Malgrado i considerevoli deficit cognitivi mostrati dagli individui affetti da schizofrenia, esistono dei programmi di intervento che consentirebbero un parziale miglioramento della specificità e della coerenza delle memorie autobiografiche recuperabili dagli stessi. Un esempio, potrebbe essere la Cognitive Remediation Therapy (CRT; Blairy et al., 2008), la quale consiste tra l’altro nell’esercitare il recupero di tali memorie attraverso la scrittura di un diario personale. Tuttavia, i processi cognitivi sottostanti a tali interventi rimangono, ad oggi, ignoti così come non sembra possibile sapere se essi migliorino la percezione che l’individuo ha di sé stesso o se riducano la discrepanza presente tra i Sé della persona (Zhang et al., 2019).

 

La gestione psicosociale e i ritmi circadiani quali elementi chiave per il benessere psicofisico

I fattori responsabili dell’accelerazione e del rallentamento delle lancette del nostro orologio biologico, cioè i nostri telomeri, sono identificabili dall’alimentazione, dall’attività motoria, dalla qualità del sonno, dalla rete sociale che abbiamo e dal nostro benessere psicologico.

 

L’adattamento richiesto al nostro organismo, sia in termini di contesti di vita molto distanti rispetto agli scenari evoluzionistici che hanno definito l’architettura dei nostri meccanismi fisiologici, che in termini di elevato stress psicosociale che dobbiamo affrontare quotidianamente, si traduce in uno sforzo adattativo del nostro organismo che può essere gestito solo attraverso una visione olistica integrata dove gli aspetti psico-neuro-endocrino-immunologici vengono letti all’interno di un’ottica bio-psico-sociale.

Questo periodo legato alla gestione biologica, psicologica e sociale della pandemia ha esacerbato le difficoltà già presenti nella società della maggior parte delle nazioni relative ai sostenuti ritmi di vita lavorativa combinati ad un’estrema e diffusa incertezza nei confronti del futuro (psicologica, sociale ed economica), sia sul piano personale che professionale.

In questo contesto generale, il ripristino di corretti ritmi circadiani, abbinati ad una più efficace capacità di gestione dello stress psicosociale, rappresentano dei fattori chiave per ripristinare una migliore qualità di vita ed un benessere psicofisico.

Risulta fondamentale considerare in maniera integrata questi due aspetti della nostra vita perché, diversamente, adottando una visione più riduzionistica, si correrebbe il rischio di impattare sulla salute e sulla qualità di vita in maniera molto meno efficace se non addirittura dannosa.

A confermare quanto appena descritto basta consultare la letteratura relativa alla scienza dei telomeri che ci dimostra quanto possa essere inutile e potenzialmente dannoso intervenire esclusivamente in uno, o più, dei macro aspetti che determinano la nostra salute tralasciando gli altri.

Ad esempio intervenire unicamente sui ritmi circadiani (attività motoria, alimentazione, qualità del sonno, etc.) senza considerare anche la gestione psicologica dello stress può non solo essere poco efficace ma anche potenzialmente pericoloso (Agnoletti, 2018; Blackburn, 2010).

Da notare, dal punto di vista del professionista, quante competenze trasversali richiede questo approccio ben più complesso e dinamico rispetto quello più tradizionale fondato sulla iper-specializzazione formativa settoriale.

Il cosiddetto “effetto imbuto” o “collo di bottiglia” della dinamica dei telomeri (Agnoletti, 2019a) suggerisce infatti che, a modulare l’attività degli enzimi della telomerasi, gli agenti biologici che riparano i telomeri (le strutture cromosomiche che determinano la nostra longevità e la propensione a sviluppare malattie), sono diversi processi convergenti e in parte indipendenti.

In altre parole, concentrarsi quindi in maniera esclusiva solo su uno di questi aspetti (motorio, nutrizionale, del sonno, di gestione dello stress psicologico, etc.) non risulta essere una strategia efficace, ma anzi potenzialmente pericolosa, per i rischi conseguenti la sottovalutazione dell’area che in quel momento sta impattando più sfavorevolmente sui telomeri stessi.

Un supporto professionale ideale dovrebbe quindi eventualmente partire dall’analisi della situazione delle singole aree che impattano sui telomeri individuando quella, o quelle, maggiormente deficitarie al fine di stabilire quindi la priorità temporale della sequenza dell’intervento stesso.

Da questa dinamica emerge la profonda e complessa trasversalità di competenze che dovrebbe possedere il professionista per assistere la persona in maniera integrata ed olistica.

I fattori responsabili dell’accelerazione e del rallentamento delle lancette del nostro orologio biologico, cioè i nostri telomeri, sono identificabili dall’alimentazione, dall’attività motoria, dalla qualità del sonno, dalla rete sociale che abbiamo e dal nostro benessere psicologico (Epel et al., 2004; Jang & Serra, 2014).

Alla luce del moderno paradigma epigenetico, i ritmi circadiani sono un meccanismo di adattamento basato sull’apprendimento previsionale, finalizzato a regolare ed ottimizzare il funzionamento dell’organismo nella sua globalità psico-neuro-endocrino-immunologica.

Nel 2017 tre premi Nobel sono stati assegnati a Jeffrey C. Hall, Michael Rosbash e Michael W. Young per l’individuazione del meccanismo genetico dei ritmi circadiani responsabile dell’andamento oscillatorio che determina, in maniera autonoma, un cambiamento ciclico nella modalità di funzionamento cellulare. Questi ritmi circadiani sono regolati epigeneticamente attraverso stimoli che provengono dall’ambiente esterno (principalmente dalla luce e dalla temperatura) e tramite i comportamenti (o stili di vita) legati al sonno, all’alimentazione, all’attività motoria ed alla gestione dello stress psicosociale.

Tutte queste attività diverse impattano in maniera convergente sulla regolazione circadiana dell’organismo determinandone la sincronia o l’asincronia con i ritmi ambientali (giornalieri, stagionali, etc.) che percepiamo.

Sia il “quanto” che il “quando” siamo esposti alla luce, il “cosa”, la quantità ed il quando ci alimentiamo, la specifica attività motoria che pratichiamo (e naturalmente quando la eseguiamo) oltre al tipo di gestione dello stress che percepiamo, condizionano la nostra qualità di vita e la predisposizione a generare disturbi o patologie nel tempo piuttosto che promuovere un equilibrato e solido benessere psicofisico.

La luce (o meglio, lo spettro di frequenze che caratterizza la luce solare) che percepiamo durante il giorno, attraverso la stimolazione di un gruppo di circa ventimila neuroni dedicati che si trovano nel nucleo sopra-chiasmatico del nostro cervello, determinano un settaggio sia neurale che endocrino, di tutte le cellule del nostro corpo (Mohawk, Green, & Takahashi, 2012; National Institute of General Medical Sciences, 2020).

Addormentarsi oltre la mezzanotte (magari finendo di cenare poco prima) genera, per esempio, una disorganizzazione dei ritmi circadiani perché l’attività alimentare e la qualità del sonno risultano compromesse per il fatto che non sono coordinate e coerenti con ciò che viene elaborato dal master clock (nucleo sopra-chiasmatico) per ottimizzare l’attività predittiva generale (Acosta-Galvan et al., 2011; Antle & Silver, 2005; Patel et al., 2012).

Quindi da una parte i ritmi circadiani sono fortemente condizionati dall’esposizione alla luce, dall’alimentazione, dalla qualità del sonno e dell’attività motoria, dall’altra anche il benessere psicologico può, ad esempio, determinare un cambiamento della qualità del sonno (inducendo ad esempio una produzione di cortisolo notturno che contrasta funzionalmente la produzione di melatonina che promuove invece il sonno).

Oltre a tendere ad un corretto ritmo circadiano, agendo sul “cosa” e sul “quando” mettere in pratica un’abitudine positiva (praticare attività motoria, mangiare in maniera sana, adottare una valida igiene del sonno), occorre agire anche al fine di limitare i danni da stress negativo prodotto da una poco efficace gestione delle dinamiche psicosociali, così preponderanti nella nostra società.

In questo senso esistono già comprovate strategie utili ed efficaci per arginare i danni da stress negativo (si veda ad esempio l’attività meditativa o le semplici respirazioni diaframmatiche che possiamo applicare quotidianamente), come esiste la tipologia di esperienze emotivamente positive (vedi ad esempio le cosiddette esperienze “ottimali” o di “flow”) che generano benessere psicofisico rinforzando anche il sistema immunitario (Agnoletti, 2019b; Agnoletti & Formica, 2021).

In questa visione olistica e integrata chiaramente il rapporto tra benessere psicologico e dinamiche biologiche è bidirezionale, quindi se è vero che un degradato benessere emotivo influenza i ritmi circadiani alterando alcuni processi neuro-endocrini, è altrettanto vero che la regolarizzazione nutrizionale, dell’igiene del sonno, dell’attività motoria e l’esposizione ad una più significativa e positiva socialità, favoriscono, a loro volta, il recupero di una qualità di vita psicologica temporaneamente compromessa.

Dalla letteratura psico-neuro-endocrino-immunologica presente risulta quindi efficace adottare abitudini finalizzate a ripristinare corretti ritmi circadiani attraverso l’attività motoria, l’alimentazione, la qualità del sonno oltre ad una sana rete sociale ed un solido benessere psicologico.

 

Lo stato mentale di coppia. Il modello Tavistock Relationships (2021) – Recensione

Morgan nel volume Lo stato mentale di coppia ripropone le nozioni fondamentali della psicoanalisi e mostra come vanno utilizzate per comprendere le fondamenta inconsce della relazione di coppia.

 

Mary Morgan è una psicoanalista e psicoterapeuta psicoanalitica di coppia, membro della British Psychoanalytical Society, di Tavistock Relationships e della Polish Society for Psychoanalytic Psychotherapy. È stata lettrice e direttrice del corso magistrale in psicoterapia psicoanalitica di coppia presso la Tavistock Relationships. Ha scritto nel campo della psicoanalisi di coppia, insegna e supervisiona a livello internazionale e ha una pratica analitica privata. Il suo libro: “A Couple State of Mind: Psychoanalysis of Couples – the Tavistock Relationships Model”, pubblicato nel 2018 da Routledge è uscito da poche settimane per le edizioni di Cortina nella traduzione italiana.

Il libro descrive ed esemplifica il modello della psicoterapia psicoanalitica di coppia del Tavistock Relationships, ispirandosi alla storia ma anche alle ricerche recenti di questa istituzione che, pur modificando più volte negli anni la propria denominazione, da oltre 70 anni costituisce un punto di riferimento assoluto in ambito psicoanalitico e non solo, innanzitutto per il trattamento infantile e di coppia.

La relazione di coppia, fortemente evocativa delle relazioni primarie, è intesa come luogo elettivo ove i partner, con movimenti reciproci e complementari, si ingaggiano reciprocamente in quella che Dicks (1967), uno dei primi autori ad occuparsi di coppia in chiave analitica, facendo riferimento al matrimonio, ebbe a definire una “relazione terapeutica naturale”. Nel senso che la scelta del partner rappresenta sul piano inconscio anche un tentativo di risoluzione di alcune difficoltà personali. In tal modo la coppia, in una dinamica di mutuo aiuto, può essere una potente esperienza trasformativa ed evolutiva, in un gioco felice di equilibrio tra contenimento e meccanismi difensivi. Tuttavia, in un certo numero di casi, i motivi personali di difficoltà prevalgono sul tentativo di evoluzione e la “terapia naturale” fallisce. Anzi, la relazione di coppia può divenire un amplificatore delle difficoltà individuali.

Tornando al testo, Morgan ripropone le nozioni fondamentali della psicoanalisi e mostra come vanno utilizzate per comprendere le fondamenta inconsce della relazione di coppia. La posizione psicoanalitica che il clinico assume in relazione alla coppia costruisce, all’interno della relazione di transfert e controtransfert, un setting terapeutico in cui i partner in trattamento possono sperimentare e modificare le dinamiche che impediscono l’evoluzione della loro relazione.

Per l’autrice compito primario del terapeuta è mantenere uno “stato mentale di coppia”. Tale funzione è essenziale nel suo modello e consiste nel conservare contemporaneamente nella propria mente sia la presenza di entrambi i partner sia delle loro modalità relazionali. Questa capacità consente al terapeuta di comprendere e restituire un po’ alla volta alla coppia le aree tematiche in cui si svolgono i conflitti e in cui risiedono le loro angosce condivise e le fantasie inconsce. In una coppia disfunzionale, infatti, gli stessi partner non riescono a vedere la loro “relazione” e percepiscono soltanto i bisogni individuali, propri e dell’altro, senza accorgersi che hanno dato vita anche ad un organismo diadico, con funzionamento autonomo (Filippi, S. 2003).

In pratica utilizzare tale costrutto ci invita a interrogarci sull’uso che viene fatto della relazione in quanto tale, ciò che Norsa e Zavattini hanno definito la qualità del “Senso del Noi” (Norsa, Zavattini 1997) di cui la coppia è portatrice e che sta a indicare come, accanto ai sentimenti di differenziazione sempre messi in evidenza nella modellistica psicoanalitica, bisogna dare importanza anche al sentimento di appartenenza reciproca. In tal modo la logica dell’intervento del terapeuta presuppone un superamento della lettura meramente individuale assumendo quello che già in un precedente lavoro era stato concettualizzato come lo “stato mentale di coppia” (Morgan, 2001).

Infatti, secondo il suo modello, il più importante fattore di contenimento della coppia è rappresentato da questo particolare assetto interno del terapeuta, che comporta molto più del tenere entrambi i partner in mente. Si tratta piuttosto di tenere in mente la relazione, ossia assumere una posizione interna che permette di essere soggettivamente coinvolti con entrambi i partner, ma anche, al tempo stesso, di porsi esternamente alla relazione e osservare la coppia nella sua interazione.

Successivamente lo “stato mentale di coppia” del terapeuta sollecita gradualmente la formazione di un analogo stato mentale nei membri della coppia, nella misura in cui per ognuno di essi sarà possibile iniziare a percepire se stesso, i bisogni dell’altro e la relazione tra loro. Questo è senz’altro uno degli obiettivi della terapia di coppia ed il suo perseguimento può comportare un alleggerimento delle reciproche e rigide identificazioni proiettive che avevano costituito sia un elemento di paralisi degli aspetti creativi della coppia, sia un elemento intrusivo, o comunque dotato di forte potenzialità negativa, nella psiche degli eventuali figli (Zavattini, G. 2006).

I capitoli centrali del volume sono dedicati alle aree fondamentali della teoria e della tecnica del lavoro analitico di coppia. In particolare, sono descritti i concetti di fantasie inconsce, il tema del narcisismo, il transfert e controtransfert, il ruolo della sessualità, l’identificazione proiettiva, le interpretazioni, tutti declinati secondo il particolare setting di coppia. L’ultimo capitolo è infine dedicato al tema della conclusione della terapia e ai suoi obiettivi. A questo riguardo va detto che in questo tipo di terapia l’eventualità della separazione dei partner è spesso possibile. Riguardo ai suoi scopi, analogamente a una terapia individuale analitica, una terapia di coppia può dirsi felicemente conclusa quando la funzione analitica, ovvero lo “stato mentale di coppia” è stato adeguatamente introiettato dai partner. L’incontro con il terapeuta che possiede tale assetto saldamente presente come posizione interna consente gradualmente ai partner di confrontarsi con i meccanismi ad incastro della relazione di coppia. In tal modo, può avvenire un graduale insight secondo cui nessuno pensa più che il problema sia l’altro e ci si sofferma maggiormente su ciò a cui insieme si è dato vita. L’obiettivo terapeutico deve essere quindi inteso come possibilità di ripristinare la corretta funzionalità della relazione, ovvero garantire un “Senso del Noi” collegato alle esperienze più costruttive e riparative del Sé e degli schemi che caratterizzano la collusione, in modo da favorire un Sé autonomo e più integrato, nonché una comprensione più profonda di ciò che viene affidato alla relazione come senso di appartenenza (Zavattini, G. 2006).

 

Autoefficacia e benessere psicologico in un campione di studenti universitari italiani con e senza disturbo specifico dell’apprendimento

Il seguente elaborato è finalizzato a focalizzare l’attenzione su un gap della letteratura sul tema DSA: una notevole mole di ricerche riguarda i disturbi specifici dell’apprendimento nell’infanzia (Matteucci, Scalone, Tomasetto, Cavrini e Selleri, 2019), ma mancano studi che ne esplorino i correlati nell’arco di vita, come ad esempio negli studenti universitari con DSA.

 

Lo spettro dei Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA) concerne una classe di disturbi del neurosviluppo caratterizzati da difficoltà significative e persistenti nella sfera dell’apprendimento, che possono includere la lettura, la scrittura e il calcolo. Il rendimento dell’individuo nelle abilità scolastiche interessate è nettamente inferiore a quello atteso per l’età cronologica, implicando una compromissione significativa del funzionamento psicosociale (Matteucci & Soncini, 2021). La classe diagnostica dei disturbi specifici dell’apprendimento è considerata di natura evolutiva, il cui esordio si manifesta tendenzialmente durante i primi anni della scuola primaria. Tuttavia, si tratta di condizioni irreversibili e permanenti, in quanto non si fa riferimento ad un disturbo in senso stretto, bensì ad una modalità di funzionamento differente da quella normotipica; in termini di neurodiveristà e non di deficit neurologico/cognitivo. La connotazione life-time dei DSA, se non adeguatamente diagnosticati e trattati, può implicare significative difficoltà che possono persistere nel corso della vita in svariate aree, come ad esempio: nell’ambito dell’istruzione, nel mondo lavorativo (Motimore & Crozier, 2006) e in generale a carico del benessere psicosociale (Eloranta, Na ̈rhi, Ahonen, & Aro, 2019).

Il seguente elaborato è finalizzato a focalizzare l’attenzione su un gap della letteratura sul tema: una notevole mole di ricerche riguarda i DSA nell’infanzia (Matteucci, Scalone, Tomasetto, Cavrini e Selleri, 2019), ma mancano studi che ne esplorino i correlati nell’arco di vita, specialmente negli studenti universitari con DSA. Infatti, nonostante un significativo aumento, riconosciuto a livello internazionale, di studenti con diagnosi di DSA nell’istruzione superiore, le stime della prevalenza di DSA nella popolazione studentesca universitaria rimangono ancora imprecise e, di conseguenza, è carente la letteratura sui loro profili psicologici (Longobardi, Fabris, Mendola e Prino, 2019). Sebbene non siano disponibili dati statistici nazionali sulla percentuale di studenti universitari con DSA nelle università private e pubbliche italiane, un recente studio ha stimato il tasso di prevalenza di studenti con DSA nelle università italiane in un range compreso tra lo 0,03 % e lo 0,48 % (Longobardi et al., 2019). Tale gap nella ricerca sugli studenti universitari con DSA in Italia costituisce una lacuna significativa da colmare.

In tale estratto l’attenzione viene focalizzata sull’autoefficacia accademica degli studenti universitari con DSA e sul loro benessere psicologico percepito. Nello studio analizzato, un campione di studenti universitari italiani con DSA è stato confrontato con un gruppo di controllo di studenti senza DSA. Il primo obiettivo è stato quello di esplorare problematiche di natura psico-sociale, verificando le differenze tra studenti con e senza DSA. Come secondo obiettivo, è stata analizzata l’autoefficacia accademica percepita degli studenti universitari con DSA, rispetto a un gruppo di controllo di studenti senza DSA, monitorando anche il loro rendimento scolastico. È stato riscontrato che gli studenti con DSA presentano mediamente una minore autoefficacia rispetto agli studenti senza DSA, tuttavia, analisi approfondite hanno rilevato che gli studenti con scarsi risultati senza DSA non differivano dagli studenti con DSA con risultati accademici comparabili, mentre gli studenti DSA con buoni risultati non hanno dimostrato una differenza significativa dai loro coetanei senza DSA (Matteucci & Soncini, 2021).

Questi risultati suggeriscono che molte difficoltà di natura motivazionale e di autostima negli studenti con disturbi specifici dell’apprendimento possono non essere specifici della condizione di DSA. In questo senso è possibile ipotizzare un confortante contribuito da parte della politica di didattica inclusiva del sistema educativo italiano. Pertanto, una possibile deduzione è che in tale contesto gli studenti potrebbero non sperimentare la stigmatizzazione, la quale implicherebbe vissuti emotivi negativi e potrebbe inficiare il rendimento accademico (Daley & Rappolt-Schlichtmann, 2018). Per quanto riguarda le differenze nel benessere psicologico tra studenti con e senza DSA, i risultati emersi sono in linea con studi precedenti che non hanno riscontrato differenze significative tra la salute mentale (sintomatologia ansiosa, depressiva e sintomi somatici) di studenti con DSA e il gruppo di controllo (Jordan, McGladdery, & Dyer, 2014). Piuttosto, secondo gli autori, gli studenti con DSA mostrano un livello di benessere psicologico inferiore, rispetto ai controlli, solo in merito all’ambito accademico, senza un impatto pervasivo sulla qualità di vita generale: è presente un maggiore rischio di sviluppare auto-percezioni negative di sé come studenti, ma non a carico della loro autostima complessiva (Gibby-Leversuch, Hartwell e Wright, 2019). I risultati suggeriscono che la presenza di una diagnosi di DSA non è necessariamente un predittore significativo di convinzioni negative su se stessi e difficoltà socio-emotive, tuttavia, sono necessarie ulteriori ricerche sulle caratteristiche psicologiche degli studenti universitari con DSA e in particolare sul ruolo protettivo delle caratteristiche personali, sociali e contestuali. Tuttavia, i risultati suggeriscono comunque di implementare interventi psicologici rivolti a tutti gli studenti che, al di là della diagnosi di DSA, potrebbero aver bisogno di supporto.

In questo senso, un miglioramento dell’autoefficacia accademica sosterrebbe la motivazione, l’apprendimento e i conseguenti risultati accademici (Multon, Brown & Lent, 1991), poiché è stato dimostrato che l’autoefficacia accademica è un predittore significativo del rendimento scolastico. Pertanto, un intervento specifico con insegnanti e tutor per migliorare l’autoefficacia accademica, potrebbe essere particolarmente utile per gli studenti con disturbi specifici dell’apprendimento che affrontano difficoltà di apprendimento durante la loro vita scolastica e accademica. In conclusione, i risultati dello studio analizzato suggeriscono la necessità di monitorare e fornire supporto a tutti gli studenti che potrebbero essere considerati a rischio di abbandono accademico, offrendo interventi psicologici focalizzati sul riconoscimento dei loro punti di forza e sul miglioramento delle loro difficoltà; al fine di sostenere il loro percorso di studi, in un’ottica d’intervento precoce (Matteucci & Soncini, 2021).

 

Dolore cronico: quando curare il corpo non basta

La problematica del dolore cronico affligge buona parte della popolazione mondiale, eppure vi è una certa difficoltà nel delimitare, attraverso una definizione univoca, tale costrutto.

 

Anzitutto, bisogna considerare che la condizione di dolore cronico si costituisce a partire da componenti sia fisiche che psichiche; questo è il motivo per il quale spesso trattamenti esclusivamente medici o farmacologi non contribuiscono alla sua eliminazione. L’Institute of Medicine Commettee on Pain, Disability and Chronic Illness Behavior definisce il dolore cronico come “una percezione complessa, che coinvolge livelli superiori del SNC, stati emozionali e processi mentali di ordine più elevato” (Khouzam, 2000). Esso può essere misurato attraverso strumenti standardizzati, tra cui ad esempio il Chronic Pain Acceptance Questionnaire (CPAQ) (McCracken, Vowles & Eccleston, 2004; Nilgen, Koster & Schmidt, 2007) o l’Affective Acceptance (Dijkstra et al., 2008).

Nonostante il grande impatto di questo fenomeno a livello mondiale, e considerando che il dolore cronico è una delle cause di maggiore impatto che conducono alla disabilità, le statistiche nazionali per questa condizione sono meno sviluppate di altre patologie, come cancro e problemi cardiovascolari (Von Korff et al., 2016). Ciononostante, diversi sono gli sforzi effettuati per fronteggiare tale problematica, ad esempio attraverso la creazione della National Pain Strategy con l’obiettivo di stimare la prevalenza e l’incidenza del dolore cronico nella popolazione, individuare metodi ed interventi standardizzati per la sua cura e valutarne l’efficacia.

Poiché, come si è già accennato, spesso la percezione del dolore in pazienti affetti da tale condizione non viene scalfita o indebolita dall’assunzione di farmaci o da trattamenti tradizionali, la domanda che ad oggi la ricerca scientifica si pone è come migliorare la condizione di vita di questi individui. Partendo dall’intuizione di Brakel (2014), secondo cui i processi psicologici attivati dal dolore cronico sarebbero gli stessi messi in campo per affrontare gli eventi negativi di vita, l’idea di base è dunque di lavorare sull’interpretazione che si fornisce a tale evento. In altre parole, laddove non sia possibile modificare un evento inteso in termini oggettivi, si può comunque modificare l’attribuzione di senso data all’evento, e dunque il proprio atteggiamento verso di esso.

Una lettura interessante rispetto alla gestione del dolore cronico viene fornita in uno studio trasversale di Orfgen & Dijkstra (2016). Gli autori individuano tre strategie, riconducibili a processi di relativizzazione del dolore, che consentono una riformulazione dell’attitudine del paziente con dolore cronico verso il dolore stesso:

  • Comparazione temporale;
  • Comparazione sociale;
  • Comparazione controfattuale.

Gli autori hanno infatti indagato come agisce ciascuno di questi tre meccanismi nel cambiamento di atteggiamento verso il dolore: dallo studio emerge una modificazione del 37% rispetto alla propria condizione. Più specificatamente, andando a lavorare sulla frequenza con cui i pazienti pensano al proprio passato, e confrontando questa percezione con quella attuale – dunque effettuando una paragone temporale -, vi sarebbero delle modificazioni nella percezione di sé. Il confronto con l’altro implicato nel processo di raffronto sociale va a lavorare sulle aree di identificazione e differenziazione con le altre persone, andando a facilitare l’accettazione della malattia, come accade anche in altri studi effettuati, ad esempio, sul diabete (Dijkstra et al., 2008). Infine, il confronto controfattuale, inteso come la prefigurazione mentale di come sarebbe stata la propria vita senza il dolore cronico, andrebbe a modificare l’influenza emotiva delle reazioni ed il significato stesso attribuito agli eventi (Orfgen & Dijkstra, 2016).

La strada per la ricerca sui trattamenti di una patologia così complessa e sfuggente come quella del dolore cronico è ancora in salita, ma ciò che appare evidente è la necessità di un lavoro sinergico attraverso una rete di professionisti della salute, i quali non dovrebbero mai dimenticare la fondamentale continuità tra mente e corpo, evitando di minimizzare, banalizzare o ignorare la condizione e la sofferenza di chi è affetto da questa condizione. Al contrario, sarebbe auspicabile che coloro i quali si fanno carico di un paziente con dolore cronico ispirino il proprio lavoro al principio di trasparenza e chiarezza nell’esposizione delle cause e dell’eventuale prognosi, per non alimentare la preoccupazione del paziente, tenendo bene a mente la necessità di considerarne il vissuto globale nella sua interezza (Callegari, Salvaggio, Gerlini & Vender, 2007).

 

Il distress psicologico dei pazienti oncologici: qual è il ruolo della terapie di terza ondata ACT e MCT?

Tra le terapie utilizzate per il trattamento dei sintomi psicologici del paziente oncologico, la più efficace e raccomandata sembrerebbe la CBT, ma la psiconcologia si sta aprendo all’utilizzo di ACT e MCT.

Fiorenza Fella, Merve Ulku Kulaksiz – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

La patologia oncologica è vissuta come un evento stressante, indipendentemente dalla tipologia di neoplasia. Secondo le linee guida AIOM il 75% dei pazienti manifesta una qualche forma di distress psicologico. Quest’ultimo, associato alla malattia oncologica, ha un impatto psicologicamente negativo che interferisce con la capacità della persona di affrontare la malattia, i sintomi fisici associati ed il percorso di cura (Hall et al. 2018). I sintomi del distress si sviluppano lungo un continuum che va da sentimenti di vulnerabilità, paura, tristezza a sintomi che possono diventare invalidanti, quali ansia, depressione, panico, isolamento sociale e crisi spirituale ed esistenziale (M.Shams et al.2019). Tale sintomatologia riduce la qualità di vita, l’aderenza al trattamento, intensifica i sintomi fisici ed incrementa i costi di assistenza sanitaria. Gli studi in letteratura riportano che circa il 25% dei pazienti oncologici mostra una comorbilità con una sintomatologia psicologica che può condurre a livelli di ansia e depressione significativi (Hoffman et al.2009). Inoltre, a partire dal 6% al 45% della popolazione oncologica possono essere presenti anche i sintomi da Disturbo da Stress Post Traumatico (PTSD); infine il 60% tra i sopravvissuti potrebbe esperire un vissuto di paura di recidiva (Swartzman et al.2017). La comorbilità psicologica incide sulle cure oncologiche in corso in quanto riduce anche la partecipazione agli incontri di follow up previsti dal percorso di cura. A causa delle complicanze accennate sono quindi richiesti interventi specifici di psiconcologia.

Le linee guida nazionali ed internazionali raccomandano l’assistenza psicologica nei pazienti che presentano una sintomatologia psicologica (Falleret al. 2013). Tra le terapie utilizzate per il trattamento dei sintomi psicologici del paziente oncologico, la più efficace e raccomandata sembrerebbe la Terapia Cognitivo Comportamentale (CBT).

Il trattamento CBT si focalizza principalmente sul ruolo dei pensieri, delle emozioni e del comportamento disfunzionali utilizzando metodi per rilevare e modificare tali pattern maladattivi. Dalla revisione della letteratura effettuata, sebbene alcune delle tecniche tipiche della CBT, quali l’intervento sulle distorsioni cognitive e l’analisi dei pensieri automatici negativi, risultino essere valide, sono presenti anche alcuni limiti dal punto di vista clinico. I limiti evidenziati potrebbero essere superati dalle terapie cognitiviste di Terza Ondata. Questi interventi non si focalizzano sul contenuto della cognizione ma si direzionano sull’analisi dei processi psicologici coinvolti. Il focus nelle terapie di Terza Ondata si sposta dall’analisi dei contenuti dei pensieri disfunzionali alla relazione tra la persona e il proprio pensiero. Tali metodi di intervento enfatizzano il ruolo della metacognizione ed approcci esperienziali quali, per citarne alcuni: la mindfulness, l’accettazione, il lavoro sui valori e gli scopi di vita.

Recentemente, anche l’interesse dei ricercatori nell’ambito della psiconcologia internazionale si sta orientando sulla possibilità di trattare gli eventuali disturbi psicologici che emergono nella patologia oncologica attraverso alcuni degli interventi di terza ondata. Tra questi saranno analizzati di seguito gli studi che stanno valutando l’efficacia dell’Acceptance and Commitment Therapy (ACT) di Steven C. Hayes, e la Metacognitive Therapy (MCT) introdotta da Adrian Wells.

ACT

L’Acceptance and Commitment Therapy si fonda su sei pilastri della flessibilità psicologica: il contatto con il momento presente, la defusione cognitiva, l’accettazione, il sé come contesto, i valori e l’azione impegnata. L’ACT, adopera nel suo modello di intervento sia strategie esperienziali di accettazione e mindfulness sia un atteggiamento di impegno all’azione e alla modificazione del comportamento. Il fine è quello di incrementare la flessibilità psicologica della persona ovvero l’essere in contatto consapevolmente con il momento presente agendo in linea con i propri valori. Diversamente dalla CBT consente, anche nel caso del paziente oncologico, di ampliare il proprio repertorio comportamentale e di gestire il proprio disagio con nuove strategie: tolleranza delle problematiche inerenti la malattia, la capacità di stare sul qui ed ora piuttosto che focalizzarsi sulle paure riguardanti il futuro. Questi aspetti aprono la strada ad un approccio mentale di accettazione sull’inevitabilità del disagio correlato alla neoplasia.

Uno studio recente di John et al. (2020) che ha applicato il trattamento ACT a pazienti oncologiche ha dimostrato l’efficacia preliminare anche nel ridurre i pensieri rimuginativi circa la preoccupazione di poter incorrere in una recidiva. Questo studio ha coinvolto 91 donne con carcinoma mammario, le quali avevano completato le cure mediche previste. Le pazienti hanno effettuato sei sessioni settimanali (della durata di due ore) di terapia e hanno partecipato anche ad esercizi di mindfulness oltre che a svolgere homework tra una seduta e l’altra. Le pazienti dopo questo trattamento hanno mostrato una riduzione dei pensieri intrusivi in correlazione alla riduzione delle strategie di evitamento esperienziale. Inoltre, si è visto che lo sviluppo della flessibilità psicologica ha consentito alle pazienti di ottenere una maggiore capacità di adattamento allo stato di malattia.

Un altro studio di E. Mosheret al. (2019) ha sottoposto l’ACT a pazienti con carcinoma avanzato ai polmoni, i quali riportavano almeno uno tra i sintomi più comuni (affaticamento, disturbi del sonno, affanno, dolori, sintomi depressivi, ansia); inoltre in questa ricerca sono stati reclutati anche i caregiver. Lo studio ha coinvolto i partecipanti per sei settimane attraverso delle sessioni telefoniche della durata di cinquanta minuti. L’intervento si è basato principalmente sullo sviluppo di skills di mindfulness e sull’incoraggiamento ad azioni in linea con i propri valori. Nonostante la gravità dei sintomi fisici (fatica, dolore) mostrati dai pazienti, l’intervento attraverso l’ACT sembrerebbe aver dimostrato efficacia nel miglioramento del benessere psicologico di entrambi i gruppi.

Le evidenze suggeriscono che effettuare interventi psicoterapeutici basati sull’ACT possa condurre ad un miglioramento del funzionamento psicosociale in misura maggiore di trattamenti standard (Low et al. 2016).

MCT

La Metacognitive Therapy (MCT) potrebbe essere un altro approccio terapeutico alternativo per trattare i disturbi psicologici in comorbilità (Fisher et al 2019). Esso ha origine da una teoria sulla psicopatologia trans-diagnostica che viene teorizzata attraverso il modello dell’Autoregolazione delle Funzioni Esecutive (S-REF). Tale modello inquadra i disturbi psicologici come derivanti dall’attivazione di uno stile di pensiero negativo chiamato Sindrome Cognitiva-Attenzionale (CAS). Il CAS si contraddistingue da stile di pensiero perseverante (rimuginio o ruminazione); focalizzazione dell’attenzione sulla minaccia; strategie disfunzionali di coping (Wells, 2009). L’intervento MCT non mette in discussione il contenuto dei pensieri riguardanti la malattia, ma è orientata a far comprendere ai pazienti gli effetti deleteri e controproducenti del CAS, rafforzando così la motivazione a sospendere la preoccupazione e la ruminazione. Allo stesso tempo, le credenze metacognitive sull’incontrollabilità della preoccupazione e della ruminazione sono messe in crisi dal paziente insieme al terapeuta (Wells, 2018).

Tra gli studi che stanno valutando l’efficacia della MCT nel trattare la sofferenza psicologica nell’ambito della popolazione oncologica, troviamo uno studio inglese che ha esaminato le potenzialità della MCT attraverso sei sessioni della durata di un’ora. Sebbene si tratti di un trattamento psicoterapeutico breve i pazienti hanno cominciato a riscontrare delle riduzioni nei livelli di ansia, depressione, PTSD ed infine anche una diminuzione dei pensieri rimuginativi (Fisher et al. 2019).

Un altro studio che supporta l’efficacia della MCT in questo ambito è quello del gruppo di ricerca di Cherry et al.(2019) nel quale i pazienti coinvolti hanno lavorato sui processi specifici che mantengono il distress psicologico. Secondo gli autori, se inizialmente i partecipanti allo studio si sentivano particolarmente “sopraffatti” dalle preoccupazioni legate alla malattia, dopo aver effettuato sei sessioni di terapia hanno esperito un maggiore decentramento dai propri pensieri. Dalle interviste semi strutturate effettuate post-intervento, è emerso che la maggior parte dei pazienti coinvolti aveva appreso i principi cardine del trattamento MCT: i pensieri sono “solo pensieri” e i sentimenti di preoccupazione o tristezza sono dei meccanismi essenziali alla sopravvivenza. Infine, le persone coinvolte hanno anche acquisito una maggiore padronanza nel trattare i propri pensieri come dei fenomeni normali della mente e di conseguenza si è rafforzata la tendenza ad esperire un distacco dalle preoccupazioni negative inerenti l’evolversi futuro della malattia.

Per concludere, sulla base degli studi pubblicati fino ad oggi, si evince che l’ACT e l’MCT possono essere dei trattamenti promettenti nella cura dei sintomi psicologici correlati alla malattia oncologica. L’ACT si rivela essere efficace soprattutto nel ridurre le preoccupazioni circa una futura recidiva e nel promuove la riduzione del coping evitante disadattivo. Esso consente quindi una migliore gestione a lungo termine del disagio emotivo correlato alla patologia oncologica (Johns et al. 2020). Nonostante ciò, è necessario che la ricerca futura chiarisca i meccanismi specifici che sono alla base dell’ACT e che proceda con studi ulteriori che consentano una maggiore generalizzabilità dei risultati. Per quanto riguarda invece l’MCT vi sono prove crescenti sul ruolo delle credenze e dei processi metacognitivi come fattori che alimentano il disagio emotivo dei sopravvissuti al cancro (Fisher et al. 2019). Tuttavia, le evidenze presenti in letteratura sono ancora poco numerose anche per la terapia metacognitiva.

Le attuali ricerche nell’ambito della psiconcologia, visti i risultati promettenti, suggeriscono l’utilità di continuare a testare l’efficacia di queste nuove prospettive per trattare il distress e migliorare quindi il benessere psicologico del paziente.

 

La disforia e l’incongruenza di genere ed i disturbi dello spettro autistico – FluIDsex

La maggiore attenzione su disforia di genere, sessualità e autismo potrebbe essere spiegata dai modelli osservati nella popolazione generale, dove i cambiamenti negli atteggiamenti sessuali sono stati massicci negli ultimi decenni.

 

Disforia di genere (DG), come termine descrittivo generale, si riferisce al disagio affettivo/cognitivo in relazione alla differenza tra il genere con cui si identifica la persona ed il genere assegnato biologicamente e/o socialmente. La disforia di genere può essere fonte di grande sofferenza e di confusione di identità, così come di vergogna e di stigmatizzazione.

All’interno dei servizi clinici, c’è stato un numero crescente di persone trans con disturbo dello spettro autistico (ASD), che è stato di grande interesse clinico perché ha implicazioni per la diagnosi e il trattamento (De Vries et al, 2010; Jacobs et al, 2014). Il Disturbo dello Spettro Autistico è un disturbo neurobiologico della traiettoria evolutiva di sviluppo (Grayson et al, 2016). I criteri diagnostici individuati dal DSM-5 (2013) sono cinque e vanno principalmente a sottolineare le difficoltà in ambito comunicativo, nelle interazioni sociali, nella ristrettezza delle aree di interesse, nell’emissione di pattern di comportamento ricorsivi e presenza di idiosincrasie sensoriali più o meno marcate.

La percentuale delle persone con disturbo dello spettro autistico tra le persone transgender è tra il 7,8% e il 23,1% (Shumer et al., 2016; de Vries et al., 2010).

Come detto in precedenza, la prevalenza di Disforia di Genere e la prevalenza disturbo dello spettro autistico sono entrambe in aumento (Arcelus et al. 2015; Lai et al. 2014). Tuttavia, non è chiaro se ciò sia dovuto a un vero aumento o piuttosto a una maggiore visibilità e tolleranza nei confronti delle persone transgender, e l’ampliamento dei criteri diagnostici e il miglioramento dei metodi di rilevamento del disturbo dello spettro autistico (van der Miesen et al. 2016). Inoltre, entrambi i disturbi sono più prevalenti nei maschi rispetto alle femmine [rapporto maschi-femmine 3-5:1 in ASD (Lai et al. 2014)] e MtF rispetto a FtM [2.6:1 in DG (Arcelus et al. 2015)]. Sebbene i rapporti tra i sessi varino tra gli studi e tendano a convergere, Aitken et al. (2014) hanno mostrato che negli adolescenti con DG, il rapporto tra i sessi è cambiato a favore di FtM negli ultimi anni.

Gli ultimi anni mostrano un notevole aumento degli studi pubblicati su riviste scientifiche (Glidden et al., 2016). La maggiore attenzione su Disforia di Genere, sessualità e disturbo dello spettro autistico potrebbe essere spiegata dai modelli osservati nella popolazione generale, dove i cambiamenti negli atteggiamenti sessuali sono stati massicci negli ultimi decenni. È plausibile che Internet e la rivoluzione tecnologica, in particolare i social media, abbiano consentito uno scambio più naturale di esperienze vissute per quelle minoranze con diverse sessualità, sofferenze legate al genere e anche per quelle con disturbi dello spettro autistico concomitanti. Ciò ha portato a meno tabù, stigmatizzazione e maggiore emancipazione di queste minoranze, di cui il movimento LGBTQIA+ è un buon esempio. È necessario inoltre considerare il fatto che questi studi sono stati svolti per lo più su campioni provenienti dalla società occidentale. Oltre a fattori come le risorse, la ragione della sovra rappresentanza degli studi del mondo occidentale è dovuta alle diverse credenze culturali e religiose, e ci vorrà del tempo prima di vedere studi su Disforia di Genere e disturbo dello spettro autistico da paesi e regioni più conservatori in cui la religione è forte (Glidden et al., 2016).

La valutazione della disforia di genere negli individui con disturbo dello spettro autistico può diventare più complessa a causa di alcune delle difficoltà che si possono incontrare all’interno dell’autismo (Ahmad et al., 2013). Questi potrebbero includere difficoltà nella comunicazione, la diminuzione o la mancanza della Teoria della Mente e la conseguente potenziale mancanza di riconoscimento di genere bidirezionale (il pensiero interno di una persona, l’esperienza di genere e il riconoscimento di come gli altri percepiscono l’espressione del genere di quella persona) e difficoltà nella costruzione di una relazione terapeutica tra il paziente e il clinico (Drescher et al., 2012). La transizione del ruolo sociale e le componenti funzionali spesso richieste prima di iniziare un eventuale trattamento ormonale, come avere una funzione sociale o lavorativa, possono rendere più difficile la navigazione nel percorso di trattamento.

Queste difficoltà si aggravano ulteriormente se il clinico ha poca esperienza di lavoro con persone con disturbo dello spettro autistico. Tutto ciò può lasciare i medici esperti e qualificati meno sicuri della loro valutazione e trattamento. Ciò avrà implicazioni per il trattamento di persone con disforia di genere e disturbo dello spettro autistico, che vanno da una valutazione incompleta all’incertezza sull’opportunità di iniziare un trattamento potenzialmente irreversibile con terapie ormonalei e procedure chirurgiche di riassegnazione. A sua volta, questo potrebbe far sentire il paziente incompreso e sotto-supportato (Ahmad et al., 2013). Un’ulteriore esperienza nella valutazione e nel trattamento della disforia di genere dei soggetti con disturbo dello spettro autistico potrebbe iniziare ad alleviare gran parte di queste difficoltà. Tuttavia, solo una buona ricerca sulle procedure di valutazione, eventuali adattamenti al percorso di trattamento richiesto e una solida valutazione dell’esito del trattamento miglioreranno la situazione (Zucker et al., 2009). Nel complesso, permangono lacune significative nella comprensione dell’eziologia della potenziale co-occorrenza di disforia di genere e disturbo dello spettro autistico, valutazione e trattamento appropriati e esito del trattamento delle persone transgender con autismo (Glidden et al., 2016).

 


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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

 

La mente autistica. Le risposte della ricerca scientifica all’enigma dell’autismo (2021) di Giacomo Vivanti – Recensione

Vivanti nella seconda edizione del suo libro La mente autistica, ampliata, riveduta ed aggiornata, oltre ad illustrare i nuovi dati scientifici, descrive le numerose prove che la scienza e la società debbono ancora affrontare per riuscire ad avere una comprensione completa della sindrome autistica

 

Giacomo Vivanti si è laureato a Milano in Psicologia Evolutiva ed ha maturato una solida esperienza nella ricerca e nella clinica dell’autismo. Egli ha, inoltre, un vissuto personale di questa sindrome, essendo il fratello maggiore di una coppia di gemelli autistici.

L’enigma dell’autismo è rappresentato proprio dal funzionamento della mente di chi ne soffre. Perché i bambini autistici, a differenza degli altri, non interagiscono, non apprendono per imitazione ed hanno un comportamento stereotipato e ripetitivo?

La ricerca sull’autismo ha prodotto numerosi lavori ed alcuni studi hanno capovolto vecchie convinzioni ed aperto nuove prospettive.

Giacomo Vivanti con il suo libro La mente autistica, le risposte della ricerca scientifica al mistero dell’autismo, pubblicato in prima edizione nel 2010 da Omega, testimonia come la ricerca sull’autismo abbia avuto un significativo incremento a partire dal primo decennio degli anni 2000.

Le nuove acquisizioni hanno portato a concepire ed a percepire l’autismo in modo differente rispetto al passato. Attualmente si utilizzano nuovi parametri per la diagnosi, si hanno nuove informazioni sull’eziologia di questa sindrome, sui suoi aspetti biologici e psicologici e tutto questo modifica gli interventi terapeutici. Il cambiamento sulla percezione dell’autismo è inoltre legato al differente modo con cui la società ha iniziato a considerare le persone che ne soffrono, ritenendole capaci di integrarsi socialmente ed in ambito lavorativo.

Nonostante i tanti progressi, rimangono ancora molti aspetti da chiarire per comprendere a fondo il funzionamento della mente autistica.

Vivanti nella seconda edizione del suo libro, ampliata, riveduta ed aggiornata, oltre ad illustrare i nuovi dati scientifici, descrive le numerose prove che la scienza e la società debbono ancora affrontare per riuscire ad avere una comprensione completa della sindrome autistica.

L’autore fa un’analisi approfondita di come tutto ciò che emerge dai lavori di ricerca debba poter essere utilizzato in clinica ed in riabilitazione, ma anche dai genitori e dalla società. Molto interessante è la trattazione delle traiettorie evolutive che riguardano anche l’età adulta, quella delle ipotesi che si propongono di spiegare le caratteristiche sensoriali e percettive dell’autismo, l’attenzione posta agli studi di neuroimaging e la presentazione delle nuove ipotesi che tentano di spiegare le anomalie che si verificano nell’autismo rispetto all’apprendimento per imitazione e nel comportamento sociale.

Nel libro traspaiono la coerenza ed il rigore metodologico dell’autore, ma anche la sua personale capacità di comprendere le persone affette da autismo.

 

Il tilt nel poker: showdown degli aspetti psicologici del gioco problematico

Il poker è una forma di gioco d’azzardo in cui l’abilità del giocatore può influenzare l’esito del gioco.

 

L’abilità consente ad alcuni giocatori di fare del poker la propria professione ed incoraggia altri a continuare ad impegnarsi per cercare di migliorare le proprie skills. Per giocare ai massimi livelli, i giocatori devono essere in grado di controllare se stessi, le proprie capacità cognitive e le proprie emozioni, ed è anche necessario che abbiano buone capacità di concentrazione (Laakasuo et al., 2014). Il termine tilt, utilizzato nel contesto del poker, descrive un episodio durante il quale il giocatore non può più controllare il proprio gioco con decisioni razionali (Browne et al., 1989). Questo fenomeno porta a disregolazione emotiva e mancanza di controllo sul gioco, nonché a una perdita di denaro (Moreau et al., 2015). Tra le conseguenze, la principale è la distorsione cognitiva, caratterizzata da pensieri del tipo “La fortuna verrà”, “Riavrò indietro i miei soldi” (Moreau et al., 2015). Gli episodi di tilt i possono essere causati da eventi interni, come frustrazione o stanchezza, o eventi esterni, come una perdita improvvisa statisticamente improbabile, o una lunga serie di piccole perdite, che provocano una sensazione di frustrazione (Brochu et al., 2015). Il tilt può essere considerato una forma transitoria di gioco d’azzardo patologico e un gateway per lo sviluppo di un problema più duraturo (Moreau et al., 2015). Sembra che maggiore sia l’abilità del un giocatore, maggiore sia la capacità di regolare il proprio comportamento e le proprie emozioni (Laakasuo et al., 2014). Un giocatore con scarse abilità regolerà più difficilmente emozioni e comportamenti, entrando in tilt, e rischiando, a lungo termine, di sviluppare un disturbo da gioco d’azzardo.

Molti studi hanno identificato alcuni elementi che predicono il gioco d’azzardo problematico nel poker, quali: ansia, depressione, impulsività e ricerca di sensazioni stimolanti (Dufour et al., 2020; Hopley et al., 2010; Barrault et al., 2015). Il team di Moreau, invece, ha incentrato il suo studio sul tilt (Moreau et al., 2020). La prima ipotesi dello studio francese assumeva che la frequenza del tilt, le distorsioni cognitive e l’ansia avrebbero potuto predire il gioco problematico. La seconda ipotesi proponeva che il tilt avesse stretti legami con ansia, impulsività e credenze irrazionali. Il campione dello studio era composto da 291 giocatori di poker online, con un’età media di 33,8 anni. I partecipanti hanno completato un questionario di autovalutazione online, misurando la frequenza di episodi di tilt, distorsione cognitiva, ansia, e impulsività. I risultati hanno indicato che la frequenza degli episodi di tilt e la distorsione cognitiva fossero predittori significativi di un eccessivo gioco d’azzardo online; la frequenza di tilt e la distorsione cognitiva erano fortemente correlate. Inoltre, sono state trovate correlazioni moderate per tilt e ansia e basse per tilt e impulsività (Moreau et al., 2020).

Nel presente studio, l’impulsività non differenzia i giocatori problematici dai giocatori di poker online controllati. Questo risultato è stato confermato dal team di Biolcati, che ha dimostrato che i giocatori di poker non erano più impulsivi della popolazione generale (Biolcati et al., 2014). Questo risultato è in linea con le caratteristiche del poker, gioco che necessita di un’elevata capacità di autoregolazione, e che non sembra compatibile con un profilo di giocatore molto impulsivo.

Il più forte predittore del gioco d’azzardo problematico è la frequenza del tilt. Più frequentemente i giocatori di poker sperimentano il tilt, più è probabile che presentino anche un punteggio di gioco problematico più alto. Sebbene siano noti i collegamenti tra distorsione cognitiva e gioco d’azzardo eccessivo (Barrault et al., 2015), i risultati di questo studio forniscono il primo supporto empirico all’ipotesi di Browne (Browne et al., 1989), secondo la quale il tilt potrebbe essere una porta d’ingresso al gioco problematico. Questi risultati sono anche coerenti con le descrizioni del tilt fornite dai giocatori (Moreau et al., 2015), che tendono a descrivere un episodio di tilt come responsabile di una perdita di controllo e di un forte aumento delle convinzioni irrazionali.

Per limitare il rischio di sviluppare un disturbo da gioco d’azzardo e diventare un giocatore di poker più performante, è necessario imparare a identificare e gestire il verificarsi di episodi di tilt (Laakasuo et al., 2014). I giocatori più esperti affermano che la loro unica difesa contro il tilt è interrompere la sessione di gioco (Moreau et al., 2015). Se un giocatore non è in grado di identificare o gestire il verificarsi di episodi di tilt, aumenterà notevolmente la probabilità di adottare un comportamento di gioco rischioso o addirittura problematico, arrivando ad una condizione di tilt.

Ad oggi, il tilt è stato poco studiato, ma conoscere approfonditamente questo fenomeno potrebbe migliorare la comprensione dei giocatori di poker online, identificando i giocatori d’azzardo a rischio, e facilitando così misure preventive specificamente adattate a questa popolazione.

Il drug checking: una pratica ancora poco diffusa in Italia

Nato in Olanda già negli anni Settanta, il monitoraggio di controllo delle droghe circolanti si è poi diffuso in tutta Europa, arrivando a definire per il 31 marzo di ogni anno una Giornata mondiale di sensibilizzazione sul drug checking.

 

Molti di voi ricorderanno il rave party organizzato in provincia di Viterbo, a cavallo del ferragosto 2021, di cui si è tanto parlato ai tg e sui giornali. In un’area priva di asfalto e cemento, migliaia di giovani europei si sono dati appuntamento. Al centro le limpide acque del Lago di Mezzano, che sommersero alcuni villaggi dell’età del bronzo, consegnandoci poi i reperti paleontologici dell’epoca; a ovest il bosco di Monte Rosso; tutto intorno i pascoli lasciati agli animali, liberi di vivere la terra; più a est il lago di Bolsena. In una zona di confine piuttosto estesa tra Lazio e Toscana, lontana da grandi città come Roma o Firenze, si è svolto un evento dai più considerato come luogo di perdizione.

Da definirsi più precisamente come teknival, si tratta di una festa libera, gratuita e autogestita, dedicata alla musica elettronica, nella quale si danno appuntamento gruppi crew che propongono spazi liberi in cui ballare, ognuno con il proprio muro di casse, luci e proiettori. «Difficile identificare il primo rave party della storia. La figura dei ravers si lega agli anni ’80 e alla nascita della musica elettronica. A Chicago si cominciarono a sperimentare evoluzioni techno della vecchia musica soul e funk, alzando il livello dei bassi e aumentando i bpm. Location dei primi party sono state le fabbriche abbandonate delle metropoli statunitensi, per poi emigrare in Europa. Gran Bretagna, soprattutto, dove ha avuto luogo uno dei più famosi rave della storia, quello di Clink Street, nel 1988» (Huffington Post, 2021).

Denominato comunemente “rave party”, dal verbo inglese che significa “entusiasmarsi”, il teknival potrebbe essere considerato un vero e proprio festival della musica tekno, genere nato proprio durante i free party di inizio anni Novanta, la cui caratterizzazione rispetto alla techno sta in una maggiore velocità del ritmo (dai 170 ai 200 bpm) e nella presenza di un basso pulsante e ripetitivo (chiamato kick drum).

«Sostanzialmente si tratta di una vera e propria città artificiale: il progressivo collocamento di bancarelle, furgoni e auto forma le strade; i soundsystem più grossi fungono da piazze; i boschi punteggiati di tende e furgoni sono i sobborghi. Ogni città ha una sua economia. Quella del teknival è una microeconomia, che ricorda da vicino i suq nordafricani. Ovunque spuntano banchetti che vendono di tutto, dalle bottiglie d’acqua ai monili, dal cous-cous alle sostanze psicotrope» (Santoni, 2012).

Secondo alcuni, fra la musica tekno e le droghe ci sarebbe una certa sinergia, volta a facilitare quella esperienza estetica che, senza l’assunzione di stimolanti, forse sarebbe vissuta con più lucidità, e quindi meno trasporto. Le sostanze più diffuse in un teknival sono quattro: MDMA, LSD, Speed e Ketamina. «I ruoli di ciascuna sono piuttosto definiti. L’MDMA è per eccellenza la droga per ballare: la sua diffusione, che accompagna la nascita del movimento, e il suo effetto empatogeno ed entactogeno contribuisce a creare il clima da fratellanza universale tipico del free party. L’LSD potenzia le percezioni e incrementa la portata mistica dell’esperienza (già il suo creatore, Albert Hofmann, spiegava che l’acido lisergico riproduce le sensazioni ottenibili dopo un ventennio di pratica di meditazione trascendentale). La Speed non è che carburante: metanfetamine per stare svegli, sopportare la fatica e ballare a oltranza, anche quando l’MDMA, che dura solo quattro-cinque ore, va giù. La Ketamina, un anestetico pediatrico e veterinario riscoperto dal popolo dei rave dissocia e crea nuove significanze, oppure rimette in sesto chi è troppo “indurito” dagli stimolanti» (Santoni, 2012).

Da un punto di vista meramente legislativo, in Italia non esiste una normativa che regoli le sanzioni in merito all’organizzazione di raduni di questo tipo, che sì, sono liberi e aperti a chiunque, ma pongono delle questioni serie, quali il loro svolgimento su terreni vincolati dalla proprietà privata, la tutela dell’ambiente (in riferimento ai rifiuti prodotti), la salvaguardia della salute pubblica (non solo relativamente alla diffusione del covid, ma soprattutto all’uso di sostanze che provocano, evidentemente, controindicazioni da non sottovalutare). In attesa di una seria analisi parlamentare intorno ai teknival, professionisti del settore socio-sanitario e qualche istituzione territoriale (stando alla Relazione annuale sul fenomeno delle tossicodipendenze in Italia, «le attività rivolte alla riduzione dei rischi correlati all’assunzione di sostanze stupefacenti di natura “incerta o sconosciuta”, risultano presenti in 8 regioni, e in Lombardia, Toscana e Umbria risultano accessibili alla quasi totalità/maggior parte delle persone che ne hanno bisogno» – Presidenza del Consiglio dei Ministri 2021) si sono attivati per allestire dei siti di drug checking e pill testing in contesti di divertimento – sia autorizzati che non -, quali strumenti di analisi e riduzione del danno. Nato in Olanda già negli anni Settanta, il monitoraggio di controllo delle droghe circolanti si è poi diffuso in tutta Europa, arrivando a definire per il 31 marzo di ogni anno una Giornata mondiale di sensibilizzazione sul drug checking.

Il progetto si propone di conseguire diversi obiettivi: «identificare nuove sostanze psicoattive e comunicarle sia ai Sistemi di Allerta Precoce presenti nei singoli paesi partner che all’Early Warning System europeo; migliorare la conoscenza e la consapevolezza sull’uso di droghe, e sul consumo di Nuove Sostanze Psicoattive (NSP) nello specifico, comunicandone rischi ed effetti alle persone che frequentano contesti di divertimento; comprendere i significati che sottendono l’uso di NSP, conoscerne i pattern di consumo e individuare eventuali retroscena culturali che possono influire sui comportamenti di assunzione di sostanze psicoattive; comunicare e informare i servizi che si occupano di giovani e dipendenze, sia a livello locale che nazionale, sull’identificazione di NSP e circa i fattori culturali che possono influire sul loro utilizzo; creare delle linee guida per esperienze pilota di drug checking che possano essere estese ad altri paesi europei in cui tale strumento non viene ancora utilizzato» (B.A.O.N.P.S., 2017).

Stando ai dati raccolti in Italia tra il 2016 e il 2017 nell’ambito del progetto europeo “B.A.O.N.P.S. – Be Aware On Night Pleasure Safety”: «più della metà delle persone che scopre di non essere in possesso della sostanza attesa, decide di non utilizzare il composto, oppure riflette e considera attentamente la possibilità di evitarne il consumo. In questo senso il servizio di drug checking assume un significato non solo di limitazione dei rischi, ma anche di prevenzione al consumo». Esso «si configura, quindi, come un ottimo strumento di monitoraggio del mercato al dettaglio degli stupefacenti, in grado di identificare rapidamente la comparsa di una NSP (9 sostanze identificate nel corso di 18 mesi di interventi sul campo) e di identificare rapidamente potenziali adulteranti pericolosi per la salute (per esempio farmaci a cui una persona può essere allergica)» (B.A.O.N.P.S., 2017).

La prevenzione rimane, quindi, uno degli strumenti cardine per agganciare soggetti a rischio, attraverso iniziative di conoscenza sui pericoli legati all’assunzione di NPS: il drug checking è infatti associato al counseling, mezzo utile per aiutare chi si ha davanti a focalizzare l’attenzione sull’opportunità o meno di ingerire la sostanza sottoposta ad analisi.

I teknival dovrebbero, così, non essere più considerati come dei luoghi di perdizione, ma quali occasioni per incontrare giovani a rischio, che grazie a una semplicissima analisi potrebbero vedersi salvata la vita. Oltre al monitoraggio sul mercato degli stupefacenti, il drug checking rappresenterebbe davvero un mezzo di grande utilità per la salute psico-fisica di molti, offrendo certezza sul composto chimico da assumere e supporto nella scelta libera di rinunciarvi.

Anoressia: basi genetiche

Con lo sviluppo delle nuove tecnologie per lo studio della genetica, l’anoressia è diventata il centro di numerosi studi di associazione volti ad identificare i fattori di rischio genetici per questa malattia.

 

Pensa agli altri, ci dice la società. Ama il prossimo tuo, ci dice la religione. A quanto pare nessuno si ricorda mai del “come te stesso”. Se è vero che vuoi conseguire la felicità nel presente, proprio questo, invece, dovrai imparare a fare: amare te stesso (Wayne,1976).

Introduzione

L’anoressia nervosa è uno dei disturbi alimentari che si definisce tra le sindromi psichiatriche complesse, multifattoriali, e si caratterizza per anomalie comportamentali, come il rifiuto o l’incapacità di mantenere un peso corporeo adeguato in base ad età ed altezza. Chi è affetto da anoressia manifesta un’intensa paura circa l’aumento corporeo, un’alterata percezione di sé e un maniacale controllo di introito calorico (Gillberg et al., 1988). La fascia più colpita sono le donne dai 15 ai 19 anni.

Le sue cause sono complesse e non del tutto chiare, anche se esistono sempre più dati che evidenziano il ruolo importante della predisposizione genetica e di un ampio numero di fattori di rischio ambientali. Numerose persone che ne soffrono non raggiungono mai l’attenzione clinica e molte iniziano un trattamento dopo molti anni, quando ormai la condizione è diventata cronica. Solo un sottogruppo di pazienti raggiunge la remissione dai sintomi (Dalle Grave et al. 2001).

In alcuni pazienti è stato osservato che la restrizione alimentare e la perdita di peso sono motivate da altri processi psicologici, come per esempio l’ascetismo, la competitività e il desiderio di punire se stessi (Faiburrn et al., 2003).

Il DSM 5 (American Psychiatric Association, Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, 2013) identifica i disturbi del comportamento alimentare in un’unica categoria diagnostica, chiamata disturbi della nutrizione e dell’alimentazione specificando i criteri diagnostici. Per l’anoressia nervosa, nel caso del sottotipo con restrizioni la perdita di peso è ottenuta principalmente attraverso la dieta, il digiuno e/o l’attività fisica eccessiva mentre nel sottotipo con abbuffate/condotte di eliminazione, l’individuo presenta ricorrenti episodi di abbuffata o condotte di eliminazione (cioè, vomito autoindotto o uso inappropriato di lassativi, diuretici o enteroclismi).

Fattori di rischio

Per capire meglio i fattori di rischio dell’Anoressia Nervosa accenniamo a cosa sia un “fattore di rischio”.

Con questo termine si intende un fattore (genetico, familiare, sociale, ambientale, culturale, etc) in grado di aumentare la probabilità (rischio) che un determinato evento-malattia si verifichi. Ad esempio, in ambito medico, è noto che il fumo aumenta il rischio di ammalarsi di cancro polmonare, o il solo fatto di appartenere al sesso femminile è un fattore di rischio per ammalarsi di osteoporosi.

La presenza di un fattore di rischio aumenta la probabilità di ammalarsi, ma non è la sola causa della malattia (non tutti i fumatori si ammalano di tumore e non tutte le donne in menopausa hanno l’osteoporosi).

I fattori di rischio sono molto importanti da tenere in considerazione quando parliamo di malattie complesse come i Disturbi alimentari.

I sintomi ed i segni del disturbo non arrivano mai in modo brusco, ma nella storia del paziente si possono individuare i “semi” della malattia anche molti anni prima dell’esordio. La famiglia, che rappresenta il nucleo primario dove l’individuo si sviluppa, ha un ruolo determinante nell’affrontare al meglio il disagio che si verrà a creare.

Dopo queste premesse possiamo ora valutare i fattori di rischio principali per l’Anoressia Nervosa.

  • L’ambiente socioculturale influenza convinzioni e comportamenti soprattutto nei bambini e negli adolescenti; questo assume un ruolo importante nel comportamento alimentare e nella genesi del disturbo. In particolare la denigrazione del sovrappeso e dell’obesità ed i continui richiami alla magrezza possono contribuire al rischio di Anoressia Nervosa nei soggetti predisposti.
  • Le figure genitoriali determinano il contesto in cui il bambino cresce e si sviluppa e sono in grado di trasmettere insegnamenti e convinzioni così come di influenzare i comportamenti futuri. Infatti le abitudini alimentari dei bambini e adolescenti si strutturano in base alla modalità di accudimento ed educazione nutrizionale trasmesse dei genitori stessi.
  • Presenza di idee errate e dannose nei riguardi del peso e delle forme corporee, spesso patrimonio della cultura del ragazzo, sia familiare che sociale. I soggetti più suscettibili sono donne giovani con bassa opinione di sé e quindi insicure e facilmente influenzabili dal contesto ambientale.
  • L’adolescenza come periodo di cambiamento, il continuo confronto con i mezzi di comunicazione, il desiderio di identificarsi con i propri coetanei, emularne i comportamenti, nel tentativo di trovare la sicurezza che non trovano in se stessi. Vengono considerati accettabili e quindi da seguire i modelli estetici standard ed ideali che la società impone anche all’interno delle famiglie.
  • Sottoporsi a diete dimagranti. Infatti spesso i disturbi esordiscono dopo una dieta dimagrante intrapresa da un soggetto normopeso o con sovrappeso moderato. Il rischio di sviluppare il disturbo aumenta di 18 volte dopo una dieta ferrea e di 5 volte dopo una dieta più leggera.
  • Distorsione dell’immagine corporea, con ciò si intende l’alterazione del modo di vedere il proprio corpo o alcune parti di esso, che appaiono ai nostri occhi sproporzionate rispetto alla realtà. Numerosi studi indicano che circa il 25% delle ragazze fra i 10 e i 15 anni riferisce di sentirsi in sovrappeso o obesa anche se normopeso.
  • L’attività fisica esagerata superiore alle normali abitudini oltre alle reali necessità dev’essere considerata sospetto per Anoressia Nervosa. L’eccessivo allenamento, combinato con cattive abitudini alimentari e spesso anche condotte compensatorie (vomito, farmaci anoressizzanti) ha una ripercussione sulla salute dei soggetti che adottano questi comportamenti.
  • Tra i fattori di rischio bisogna considerare anche gli eventi traumatici come la presenza di lutti o eventi di perdita in famiglia, anche in epoche remote o addirittura durante la gravidanza insieme ad eventi di vita gravi come maltrattamenti e abusi.
  • Alcuni tratti di personalità come la rigidità, il perfezionismo e l’intolleranza alle frustrazioni sono presenti nella maggior parte dei soggetti con disturbi alimentari.
  • Il sesso femminile, già di per sé, aumenta il rischio.
  • L’uso di sostanze, in particolare l’alcolismo.
  • La presenza di depressione.

L’ereditabilità

I fattori biologici possono essere predittivi nello sviluppo dei disturbi alimentari ed in particolare nell’anoressia nervosa.

Gli studi sui gemelli sono un utile strumento che può essere utilizzato negli studi di ricerca per chiarire il ruolo di geni ed ambiente nel determinare la suscettibilità ad un patologia (Kendler 1998). I gemelli omozigoti (MZ) hanno un identico DNA per cui le differenze tra loro nel fenotipo di malattia possono essere attribuite agli effetti dell’ambiente. Al contrario, le somiglianze tra gemelli MZ posso essere dovute alle influenze sia del patrimonio genetico sia del comune ambiente che condividono. I gemelli dizigoti (DZ) invece condividono solo metà del patrimonio genetico e lo stesso ambiente perché condividono la vita intrauterina e molte esperienze alla stessa età (per esempio l’inizio della scuola). Gli studi sui gemelli hanno riportato evidenze di una ereditarietà per AN che va dal 56% nello studio di Bulik fino al 84% in altri campioni (Klump et al, 2001; Wade et al., 2000). La prevalenza in questi studi è stata stimata in circa l’1,2% per le femmine e 0,29% nei maschi (Bulik et al., 2000).
Una maggiore incidenza di AN è stata osservata nei campioni di soggetti più giovani rispetto ad i gruppi di età più avanzata (1,56% nei gemelli nati dopo il 1945 vs 0,65% nei gemelli nati prima del 1945). La prevalenza di malattia determinata nello studio Bulik era inferiore rispetto a quella di altri campioni che hanno analizzato un’altra fascia d’età (gemelli nati 1935-1958).

Gli studi sui fratelli adottati da famiglie diverse (purtroppo molto rari) permettono di distinguere l’effetto della genetica e dell’ambiente. Fino ad oggi è stato condotto solo uno studio sui fratelli adottati nell’ambito dei disturbi dell’alimentazione (Klump et al.,2005).

I partecipanti in questo studio erano coppie di sorelle e, data la bassa prevalenza dell’AN, sono stati analizzati solo alcuni sintomi. L’ereditabilità stimata dei sintomi legati ai disturbi dell’alimentazione andava dal 59 all’82% e confermava sostanzialmente i risultati degli studi sui gemelli.

Gli studi nella popolazione generale hanno evidenziato una incidenza significativamente più alta di AN nei familiari di pazienti con disturbi del comportamento alimentare rispetto ai familiari di soggetti sani; in particolare, nei familiari di primo grado di soggetti con AN è stato evidenziato un rischio life time di ammalarsi di questa patologia pari al 2,69% rispetto allo 0,8% dei familiari di soggetti sani (Palmer et al., 2003).

Studi di linkage

Dalla fine del 1990, con lo sviluppo delle nuove tecnologie per lo studio della genetica, l’AN è diventata il centro di numerosi studi di associazione volti ad identificare i fattori di rischio genetici per questa malattia.

L’approccio classico per la determinazione dei geni di vulnerabilità nelle malattie genetiche sono gli studi di linkage nelle famiglie con più soggetti affetti. Questo approccio è stato estremamente efficace per identificare i geni che causano le malattie di tipo mendeliano, quando sono le mutazioni in un singolo gene a causare la malattia (come nel caso della fibrosi cistica, della malattia di Hungtington o dell’anemia falciforme). Nel caso dei disturbi dell’alimentazione e dell’AN questo approccio diventa più complicato perché la struttura genetica di queste malattie deriva dall’interazione di molte varianti geniche (polimorfismi) che hanno solo un piccolo effetto sul rischio di malattia e quindi sono più difficili da individuare.

Molti studi hanno tentato di individuare i loci cromosomici associati alla suscettibilità ai disturbi dell’alimentazione utilizzando un approccio con marcatori microsatelliti (analizzando i polimorfismi a sequenze ripetute, coppie di basi o triplette generalmente) sull’intero genoma.

Questi studi si sono focalizzati primariamente su coppie di fratelli dal momento che le famiglie multigenerazionali sono rare per l’Anoressia Nervosa.

Grice e colleghi hanno condotto un’analisi di linkage in 192 famiglie in cui almeno uno dei componenti era affetto da Anoressia Nervosa o da altri disturbi dell’alimentazione (Grice et al. 2002).

I risultati prodotti da questo studio riportano solo una modesta associazione di un marker (D4S2367) sul cromosoma 4, mentre una ulteriore analisi in un sottogruppo di 37 famiglie con più di un caso di AN del tipo restrittivo ha evidenziato un’associazione più forte della malattia con un marker (D1S3721) sul braccio corto del cromosoma 1.

Molti studi si sono concentrati sull’analisi delle associazioni di linkage invece che con la diagnosi di Anoressia Nervosa con alcuni dei sintomi psichiatrici e dei tratti di personalità che caratterizzano la malattia.

Uno di questi ha studiato i tratti quantitativi drive-for-thinness della scala sintomatologica Eating Disorders Inventory (EDI) e obsessionality della scala Yale-Brown Obsessive Compulsive Scale (Y-BOCS), nelle 196 famiglie già studiate dal gruppo di Grice e colleghi (2002) (Devlin et al. 2002). Utilizzando un’analisi che considerava molte possibili covariate (es: età del menarca, BMI), in questo studio sono state identificate diverse regioni cromosomiche in linkage con questi sintomi: una sul cromosoma 1 era associata sia al fenotipo drive-for-thinness che all’obsessionality, un’altra sul cromosoma 2 era associata solo con l’obsessionality, mentre una terza sul cromosoma 13 solo con il drive-for-thinness only.

Alcuni geni di interesse per il sistema nervoso centrale sono mappati nelle regioni identificate da questi studi di linkage, in particolare il recettore della serotonina 1D (HTR1D) ed il recettore degli oppioidi (OPRD1) sono presenti nel cromosoma 1, dove Grice e colleghi hanno identificato il picco di linkage con AN.

Per quanto riguarda invece i risultati di Devlin e colleghi, tra i 546 geni presenti nelle regioni cromosomiche in linkage ce ne sono molti legati alle basi eziologiche dell’AN “0”(per esempio HTR1D, o il recettore della serotonina 6 HTR6). Sono coinvolti o nel comportamento alimentare o nei meccanismi di sazietà (esempio: il recettore dei cannabinoidi CNR2), insieme ad altri che regolano importanti processi nel sistema nervoso centrale (Poyastro et al., 2009; 2(2): 153–164).

Geni candidati all’indagine

I geni candidati vengono studiati per chiarire un loro possibile coinvolgimento nella suscettibilità genetica ad una patologia complessa.

Nel caso dell’Anoressia Nervosa molti sono stati gli studi condotti con questo tipo di approccio, anche se pochi di questi hanno portato a risultati confermati in studi indipendenti.

La scelta del gene candidato si basa sulle evidenze presenti in letteratura sulle ipotesi eziologiche, fisiologiche, biochimiche o farmacologiche che indicano un coinvolgimento di un gene specifico con il fenotipo analizzato.

In particolare gli studi di associazione sul gene candidato per i disturbi del comportamento alimentare hanno tenuto in considerazione le seguenti osservazioni cliniche:

  • la prevalenza di Anoressia Nervosa e Bulimia Nervosa è predominante nel sesso femminile (rapporto 9:1),
  • il periodo di manifestazione è prevalentemente la pubertà o la tarda adolescenza,
    circa il 30% dei pazienti con Anoressia Nervosa successivamente sviluppa Bulimia Nervosa; la sequenza opposta è meno frequente.
  • c’è un alto tasso di comorbidità con disturbo ossessivo-compulsivo, depressione maggiore e disturbo d’ansia generalizzato (Kaye et al., 2000; Kaye et al.,1999; Koronyo-Hamaoui et al., 2002)

Sulla base di queste evidenze e delle indagini neurobiologiche i geni più studiati nell’AN sono coinvolti nella regolazione dei sistemi neurotrasmettitoriali, soprattutto dopaminergico e serotoninergico, insieme ai sistemi delle neurotrofine e della regolazione dell’appetito, così come dei sistemi ormonali legati alla pubertà e al sesso femminile.

Conclusioni

Negli ultimi 20 anni, molti studi sono stati condotti per identificare i possibili fattori di rischio genetici per l’Anoressia Nervosa, anche se ad oggi i risultati ottenuti non ci hanno ancora permesso di chiarire il ruolo delle varianti geniche nella patologia. Al momento pare che i candidati più promettenti che possono essere coinvolti nella vulnerabilità genetica appartengano al sistema serotoninergico e alle neurotrofine.

Dagli studi genetici condotti fino ad ora è emersa la necessità di raccogliere collezioni di DNA molto ampi, soprattutto per permettere gli studi GWAS che richiedono un potere campionario molto elevato. Inoltre un’altra strategia potrebbe essere la creazione di gruppi più omogenei all’interno dei pazienti affetti da Anoressia Nervosa, caratterizzati per endofenotipi sintomatologici, biochimici, di neuro imaging, ect, che siano quindi più facilmente studiabili dal punto di vista genetico (Gottesman et al.,2003).

Un endofenotipo è un tratto valutabile che può essere di tipo fisico, cognitivo o neuropsicologico, che è associato al disturbo correlato, è ereditabile ed è indipendente dallo stato di malattia in cui si trova il paziente (Halmi et al.,2003).

Inoltre bisogna considerare che i disturbi dell’alimentazione hanno un alto grado di comorbidità con altri disturbi psichiatrici, inclusi i disturbi affettivi, d’ansia e di personalità che possono contribuire all’eterogeneità clinica dei campioni valutati e spiegare, anche solo parzialmente, gli attuali risultati discordanti (Moffitt  et al.,2005).

Tutto ciò che otterremo in questo campo, combinato con l’identificazione dei predittori molecolari degli esiti del trattamento, aiuteranno i clinici a pianificare strategie e programmi di trattamento preventivi per far sì che sempre più persone affette possano regredire e stare meglio in futuro (A.Tortorella et al.,2009).

 


 

Sale cinematografiche e disturbi mentali: tra informazione e strumentalizzazione del disagio psichico

Quello che il cinema offre al pubblico è, il più delle volte, una caricatura diagnostica, una rappresentazione esagerata e drammatica di un’etichetta clinica che contribuisce a rafforzare lo stigma e gli atteggiamenti discriminatori.

 

Purtroppo, non è ancora scomparso lo stigma paralizzante legato alla malattia mentale (Beachum; 2010), stigma che porta ad applicare, a chi soffre di un certo disturbo, l’etichetta di “pazzo, pericoloso, folle, psicopatico”. Tutt’oggi, gli atteggiamenti nei confronti della persona con problematiche psichiche sono a volte pietistici, o al contrario distanzianti ed evitanti, considerando che, per molti, malattia mentale è sinonimo di comportamento violento.

Spesso, l’affascinante, oscuro, temibile e incomprensibile aspetto del disagio psichico è stato utilizzato dai registi per divertire, intrattenere, sbalordire e far commuovere il pubblico: non è raro, infatti, che in un film, sia il personaggio “fuori di testa” a commettere omicidi, fare uso di alcol o droghe, sentire delle voci, suicidarsi. Quale modo migliore per soddisfare le aspettative degli spettatori, se non quello di presentare protagonisti incompresi, imprevedibili, generatori di suspense e colpi di scena?

In realtà, quello che il cinema offre al pubblico è, il più delle volte, una caricatura diagnostica, una rappresentazione esagerata e drammatica di un’etichetta clinica che contribuisce a rafforzare lo stigma e i pregiudizi, ad incrementare gli atteggiamenti discriminatori nei confronti di chi sta già male (Da Silva, Baldac¸ Fasanella, Palha; 2020), a creare rappresentazioni e credenze errate sulla follia, ad aumentare la paura nei confronti dei matti, fornendo una scusa in più per alienarli dalla comunità (Pathak, Biswal; 2020).

Alcuni esempi di film i cui personaggi presentano disturbi mentali sono Touched with fire (Disturbo Bipolare), Ordinary People (Disturbo Depressivo), Il Solista (Schizofrenia), Rain Man (Disturbo dello Spettro Autistico), La donna dai tre volti (Disturbo Dissociativo di Identità), Il giardino delle vergini suicide (Suicidio), The Aviator (Disturbo Ossessivo-Compulsivo).

Fortunatamente, c’è stato chi ha utilizzato il cinema per accrescere la consapevolezza sulla malattia mentale, valorizzando le potenzialità dei pazienti psichiatrici: si pensi a A Beautiful Mind, il cui protagonista, il leggendario matematico John Nash, è affetto da Schizofrenia (Das, Doval, Mohammed, Dua, Chatterjee; 2017), ma nonostante ciò, riceve il Premio Nobel per l’economia.

Un film, dunque, può essere utilizzato anche a scopo formativo e informativo, e ciò è fondamentale considerando che, senza informazioni e comprensione, ogni stigma non può che rafforzarsi. Soltanto mostrando la vera realtà del disagio psichico attraverso i grandi schermi, si può offrire al pubblico una visione autentica della lotta invisibile che la persona sofferente combatte con sé stessa e con il mondo esterno.

 

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