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Un nuovo “strumento” per valutare la dipendenza da sesso e la “discordanza” della comunità scientifica, un dialogo ancora aperto

È stato recentemente pubblicato (Soraci et al., 2021) uno studio che valida, nel territorio Italiano, un nuovo strumento che “misura” la dipendenza da sesso (utilizzabile sia “online” che “offline”, ed indipendentemente dal genere e/o dall’oriamento sessuale).

 

Questo strumento, seppur con tutti i limiti derivanti dal campione scelto e dal non unanime consenso sull’esistenza effettiva di questa dipendenza, (e.g. Schaefer & Ahlers, 2017) è basato sui sei criteri principali delle “addictions” proposte da Griffiths nel 2005: salienza, eccessiva preoccupazione per il sesso o desiderio sessuale; modifica dell’umore, usando il sesso per modificare lo stato d’animo; tolleranza, aumentando la quantità di sesso nel tempo per mantenere alti i livelli di soddisfazione; ritiro, sintomi emotivi e fisici spiacevoli quando non si può avere rapporti sessuali; conflitto, compromettendo tutti gli ambiti della vita a causa del sesso (ad es. relazioni, occupazione/istruzione, attività sociali, ecc.); e ricaduta, ritorno a precedenti modelli problematici di comportamento sessuale dopo un periodo di astinenza o controllo (Soraci et al., 2021; Griffiths, 2005).

Questo strumento, ha delle sufficienti proprietà psicometriche, e, secondo quanto affermano gli autori, può essere utile nel campo della ricerca (non in quello clinico, almeno al momento). La scala, composta da sei item su scala likert (1 a 5, dove 1 è in totale disaccordo, 5 è in totale accordo) è la seguente:

  1. Ti è capitato di trascorrere molto tempo pensando al sesso/masturbazione o a pianificare i tuoi incontri sessuali?
  2. Ti è capitato di provare un forte desiderio di masturbarti/fare sesso sempre di più?
  3. Ti è capitato di usare il sesso/masturbazione per dimenticare/fuggire dai tuoi problemi personali?
  4. Hai provato a ridurre il tempo trascorso a masturbarti/fare sesso senza riuscirci?
  5. Ti è capitato di diventare triste/irrequieto/ansioso/arrabbiato o agitato quando ti è stato proibito di fare sesso o masturbarti?
  6. Ti è capitato di avere un’attività sessuale intensa che ha messo a rischio o a compromesso le tue relazioni sentimentali, il tuo lavoro, i tuoi risparmi, la tua salute, o i tuoi studi? (Soraci et al., 2021)

Delineato questo, è utile accennare alla “discordanza”, presente attualmente in letteratura, sull’esistenza o meno di questo tipo di dipendenza e se, in futuro, sia utile inserirla tra i disturbi mentali elencati nei manuali diagnostici, come ad esempio, il DSM 5 (APA, 2013 ; Schaefer & Ahlers, 2017).

Difatti, allo stato attuale, esistono diverse “nomenclature” riguardo al sesso eccessivo/problematico e solo il CSBD (Compulsive Sexual Behavior Disorder) è inserito nell’International Classification of Disease for Mortality and Morbidity Statistics (ICD-11). In letteratura e nelle varie ricerche pubblicate, infatti, spesso si incontrano termini come Sesso eccessivo (Hypersex), Sesso compulsivo, Dipendenza da sesso etc., questo non facilita certo il “lavoro” dei clinici e può generare confusione. Certamente, non è sempre necessario “etichettare” tutto e tutti, ma come è ormai noto, per poter dialogare in maniera più efficace e con un linguaggio condiviso tra diversi professionisti, all’interno della comunità scientifica, si rende necessaria la creazione di categorie ben definite, con “criteri” specifici e comuni.

Ma quali sono, allo stato attuale, le principali differenze tra varie etichette diagnostiche sul sesso problematico? Come accennato, in letteratura, troviamo i seguenti termini: Sesso Eccessivo (Hypersex) che è caratterizzato da un desiderio intenso e inarrestabile di impegnarsi in un’attività sessuale al fine di aumentarne gradualmente l’intensità per mantenere la stessa soddisfazione (Kafka, 2010). Il CSBD, invece, è caratterizzato dai seguenti criteri: si manifesta in uno o più dei seguenti modelli comportamentali: (i) attività sessuali ripetitive che sono diventate il fulcro della vita dell’individuo al punto che l’individuo arriva a trascurare la salute, la cura personale e le attività e responsabilità occupazionali/educative; (ii) l’individuo ha compiuto numerosi sforzi per controllare o ridurre significativamente il comportamento sessuale ripetitivo, ma senza successo; (iii) l’individuo continua ad avere comportamenti sessuali ripetitivi nonostante le conseguenze negative in diversi ambiti della propria vita (es. attività sociali, lavoro); e (iv) l’individuo continua a impegnarsi in comportamenti sessuali ripetitivi anche quando ne trae poca o nessuna soddisfazione (Kraus et al., 2018; ICD-11). La dipendenza da sesso, come accennato precedentemente, si caratterizza da: salienza, eccessiva preoccupazione per il sesso o desiderio sessuale; modifica dell’umore, uso del sesso per modificare lo stato d’animo; tolleranza, aumento della quantità di sesso nel tempo per mantenere alti i livelli di soddisfazione; ritiro, sintomi emotivi e fisici spiacevoli quando non si può avere rapporti sessuali; conflitto, compromissione di tutti gli ambiti della vita a causa del sesso (ad es. relazioni, occupazione/istruzione, attività sociali, ecc.); e ricaduta, ritorno a precedenti modelli problematici di comportamento sessuale dopo un periodo di astinenza o controllo (Soraci et al., 2021; Griffiths, 2005).

Vista la “discordanza” nelle nomenclature, al momento, alcuni autori hanno proposto di utilizzare il termine ombrello “Sesso problematico eccessivo”, nel quale includere un po’ tutte le proposte date al sesso problematico (Schaefer & Ahlers, 2017).

Nonostante questo disaccordo, i caratteri chiave distintivi di tutte le concettualizzazioni di “sesso problematico eccessivo” derivano da comportamenti sessuali ossessivi, compulsivi, impulsivi e/o fuori controllo (ad es. Miner et al., 2019). Inoltre, sono tutti caratterizzati da preoccupazioni ripetitive e intense per fantasie, impulsi e comportamenti sessuali che sono angoscianti per l’individuo e/o sfociano in un rischio psicosociale (Derbyshire & Grant, 2015, p.37).

Sebbene, dunque, i termini siano spesso usati in modo intercambiabile e sovrapponibile, in molte ricerche, secondo diversi autori, sesso compulsivo, dipendenza dal sesso e ipersessualità sono costrutti diversi. Come Andreassen et al. (2018) notano: “C’è stato molto dibattito per molti anni sul fatto che questo comportamento sia meglio concettualizzato come un disturbo ossessivo-compulsivo, una dipendenza o un disturbo del controllo degli impulsi, e di conseguenza sia stato spiegato secondo diversi modelli concettuali” (p.2).

Diversi autori, inoltre, hanno evidenziato una correlazione tra depressione, ansia (Staff, 2007) e sesso problematico eccessivo [che include tutte le tipologie di sesso problematico elencate sopra, come ad esempio la dipendenza da sesso o il sesso complusivo] (Lewczuk et al., 2017; Soraci et al, 2021). Inoltre, studi precedenti hanno rivelato che i tratti della personalità “Big Five” (cioè estroversione, nevroticismo, gradevolezza, coscienziosità e apertura) hanno associazioni con un sesso eccessivamente problematico. Più specificamente, Shimoni et al. (2018) hanno osservato che: “gli individui altamente estroversi hanno intrapreso un’attività sessuale fin dalla tenera età, hanno molti partner sessuali, una varietà di attività sessuali e un’attività sessuale pericolosa e negligente rispetto agli individui introversi. Il nevroticismo è stato associato a visioni liberali sul sesso, al sesso non sicuro, ad un discontrollo degli impulsi e ad emozioni negative, come ansia, depressione e rabbia. Gli individui con bassa gradevolezza e coscienziosità in genere sono gratificati nel praticare sesso non sicuro, hanno la tendenza al liberalismo sessuale e comportamenti impulsivi di assunzione di rischi rispetto a quelli con alta gradevolezza e coscienziosità. Infine, gli individui con bassa apertura tendono tendono a sviluppare comportamenti sessuali pericolosi, come infedeltà e comportamenti sessuali promiscui” (Shimoni et al., 2018, p.1016). Nella letteratura esistente, tratti di personalità specifici (ad es. nevroticismo e scarsa coscienziosità) sono stati associati positivamente a diversi tipi di dipendenza, inclusa la dipendenza dal sesso (Badii et al., 2020; Soraci et al., 2021). Tra gli aspetti della personalità correlati alla dipendenza dal sesso (Karila et al., 2014), sono stati riportati alti livelli di estroversione e nevroticismo e bassi livelli di coscienziosità (Pinto et al., 2013; Rettenberger et al., 2016; Schmitt, 2004; Walton et al., 2017), così come si è riscontrata un’associazione positiva con il narcisismo (Kafka, 2010; Kasper et al., 2015) e l’associazione negativa con l’autostima (e.g. Badii et al., 2020).

Inoltre, il crescente uso della tecnologia (in particolare l’uso di Internet) ha portato a un coinvolgimento più diversificato nel sesso come il cybersex e il sesso telefonico. Nonostante l’elevata importanza sociale e la crescente attenzione, l’interesse per il sesso eccessivamente problematico è rimasto ai margini della ricerca scientifica sistematica e della classificazione psichiatrica. In attesa di chiarezza sulla terminologia “corretta” da utilizzare, i ricercatori e i clinici, hanno svolto e stanno tuttora svolgendo un’eccellente lavoro nel panorama di quello che può già definirsi, almeno empiricamente, un “disturbo da sesso problematico”.

 

Il culto del feto. Come è cambiata l’immagine della maternità (2020) di Piontelli A. – Recensione

Il soggetto del testo Il culto del feto è dato dal feto, analizzato da tre punti di vista: storico, scientifico, culturale.

 

Non è possibile parlare di feti in termini astratti, necessitando esso per esistere dell’incontro di un uomo e di una donna e, nello specifico, di uno spermatozoo e di un ovocita.

A partire dagli anni Sessanta, l’autrice, neurologa e psichiatra, nonché studiosa del comportamento fetale, analizza i cambiamenti sociali, tecnologici, scientifici, che hanno caratterizzato le diverse epoche, mettendo a fuoco i diversi atteggiamenti adottati nei confronti del feto.

Da tale analisi si evince come i feti non sono cambiati, ma le società sì!

La principale rivoluzione degli anni ’60-’70 è data dall’utilizzo della “pillola”, grazie alla quale, per la prima volta nella storia dell’umanità, sesso e riproduzione vengono scissi. Le donne prendono in mano la loro sessualità, potendo liberamente scegliere di avere rapporti sessuali per piacere, amore, lussuria, controllando eventuali gravidanze indesiderate.

Allo stesso tempo, l’autorevolezza di cui gode la medicina e l’euforia legata a diverse scoperte farmaceutiche, portano a somministrare alle donne incinte i più disparati medicinali, al fine di curare o lenire disturbi del sonno, dell’appetito, di ansia. Il vino e i superalcolici erano raccomandati per rilassarsi, così come il fumo, e la birra era vista positivamente, in quanto favoriva la produzione del latte. A livello alimentare le credenze vigenti osannavano latte non pastorizzato, formaggi, carne cruda, salumi, sgombri, sarde e sardine: tutti cibi oggi altamente sconsigliati alle donne gravide.

Oggigiorno l’attenzione è interamente volta al feto, visto quasi come “un cittadino”, da tutelare e proteggere dal contenitore utero, dannoso per la sua salute. Divenuti una preoccupazione dell’intera società, atteggiamenti materni poco amorevoli e responsabili, quali fumare o bere durante i nove mesi di gestazione, vengono denunciati ed etichettati come indegni.

Se in passato la gravidanza era qualcosa da nascondere con abiti morbidi, poco appariscenti, oggi la donna incinta si è riappropriata dell’eleganza e della bellezza che la contraddistingue: il pancione non viene più occultato ma mostrato in modo fiero.

Complici del cambiamento di rotta le campagne pubblicitarie guidate dalle star della TV: nel 1991 sulla copertina di Vanity Fair, per la prima volta, è ritratta Demi Moore, nuda, sexy e incinta.

Rispetto alla figura del padre, se in passato all’uomo erano proibiti atteggiamenti amorevoli nei confronti della donna e dei bambini, almeno in pubblico, oggi i futuri papà sono protagonisti attivi dell’intero percorso, partecipano a tutte le visite ginecologiche e generalmente assistono al parto, tenendo la mano alle proprie compagne.

La gravidanza non è più un tabù e le donne amano parlarne e condividere pareri, consigli, paure.

Un’indubbia rivoluzione tecnologica fa capolino negli anni Ottanta, cambiando drasticamente il modo di intendere i feti: gli ultrasuoni.

Dopo millenni, il lato misterioso e nascosto della gravidanza può essere osservato in modo non invasivo: la sola idea di una finestra “dal vivo” sulle nostre origini è di per sé profondamente emozionante e intensamente eccitante.

L’idea di un utero trasparente viene però ben presto delusa e le prime immagini sono poco chiare, confuse ed incomprensibili ad un occhio non esperto.

Alle immagini 2D, si affiancano, negli anni Novanta, le immagini 3D e 4D e negli album di famiglia compare il bambino “fotografato” in utero.

Gli ultrasuoni hanno favorito conoscenze approfondite sui movimenti fetali e sulle loro funzioni. Ad oggi sappiamo che il feto compie movimenti generalizzati, ovvero periodiche esplosioni di movimento, che riguardano tutto il corpo, a partire dalle 7-8 settimane. Col procedere della gravidanza tali movimenti divengono meno frequenti, meno frammentati e più prolungati nel tempo.

I movimenti generalizzati giocano un ruolo fondamentale nel formare e plasmare il sistema scheletrico e quello muscolare, che subiscono profonde trasformazioni durante la gravidanza. Sono anche essenziali per la formazione delle ossa, dei muscoli e dei tendini e per la loro differenziazione e allungamento. Inoltre prevengono l’atrofia muscolare che deriverebbe dal mancato uso dei muscoli.

Detti movimenti impediscono d’altro canto l’adesione alla parete uterina della cute estremamente sottile del feto. I movimenti locali, al contrario, coinvolgono singoli distretti corporei e, a differenza dei movimenti generalizzati, non sono prevedibili, ma agiti a seconda del bisogno del momento.

L’ambiente acquatico dell’utero permette posture e movimenti che il neonato potrà eseguire solamente dopo diverso tempo, a causa dell’impatto della forza di gravità: si può allora vedere il feto saltellare su una gamba, stare in posizione semieretta, con le ginocchia divaricate, o seduto senza supporto. I bambini prematuri che nascono alla stessa età gestazionale in cui i feti compiono i loro movimenti “miracolosi” sono del tutto incapaci di compiere gli stessi movimenti. I prematuri gravi sono quasi completamente incapaci di muoversi.

Ciascun movimento eseguito in utero funge da preparazione ed allenamento per le funzioni che il neonato svilupperà in seguito alla nascita.

Tale principio si applica anche ai movimenti “respiratori”, che allenano i polmoni ad introiettare ossigeno ed espellere anidride carbonica: il feto non ha bisogno di questo tipo di respirazione, dal momento in cui l’ossigeno gli viene fornito attraverso la placenta ed il cordone ombelicale.

Altre funzioni vitali per la sopravvivenza dopo la nascita sono la suzione e la deglutizione, così come il poter girare il capo; il neonato sarà, alla nascita, equipaggiato dei diversi movimenti di riflesso, che gli permetteranno di attaccarsi al seno ed alimentarsi.

Nella parte finale del libro l’autrice illustra usi e costumi di diverse culture, che oramai popolano l’Italia, in riferimento alla gravidanza e al modo di intendere il feto.

Se in linea di principio gli immigrati sembrano ben integrati con la cultura italiana, allo stesso tempo preservano le proprie credenze ed i propri rituali, spesso superstiziosi. Ciò è particolarmente evidente in materia di misure contraccettive e riti per raggiungere la fertilità.

Scritto in modo scorrevole e corredato da testimonianze reali, che l’autrice ha raccolto negli anni lavorativi, il testo ben illustra l’ascesa del feto, lasciando intravedere scenari futuri, non troppo lontani, dove al feto verranno riconosciuti diritti legali.

 

Recensione del libro “Questa è la mia guerra” (2021) di Chiara Mansi

Questa è la mia guerra è un intimo diario autobiografico nel quale Chiara Mansi, ventenne di Viterbo, delinea uno spaccato crudo, sincero e realistico del suo malessere. La quarta di copertina tratteggia in poche parole il contenuto del libro – “storia di un adolescente e del suo disturbo alimentare” – ma è molto di più.

 

Inquadramento diagnostico

I disturbi dell’alimentazione rappresentano un campo di indagine e di intervento di notevole interesse per la psicologia.

Si tratta di disturbi collegabili all’azione del “mangiare” e del “nutrirsi”, un atto che possiede forti implicazioni “simboliche”, oltre che “caloriche”, e che quindi riguarda l’unità mente-corpo nella sua totalità, intesa come mezzo di relazione, di espressione e di comunicazione (Molinari, 2020).

L’anoressia nervosa è stato il primo disturbo alimentare descritto, diffuso in vari periodi storici e presente in tutte le culture. È caratterizzato da una restrizione dell’apporto calorico, da un’intensa paura di ingrassare e dall’alterata percezione del proprio corpo.

Il disturbo alimentare dell’anoressia nervosa ha un esordio tipico nel corso dell’adolescenza, è più diffusa tra le donne, con una prevalenza variabile, generalmente tra lo 0,3 e l’1% della popolazione, con un’incidenza  maggiore nei Paesi Occidentali rispetto a quelli Orientali, sebbene sia rintracciabile un aumento generalizzato del disturbo a partire dal 1990 sino ai giorni nostri (Qian et al., 2013); a questo proposito, interessanti ricerche  evidenziano l’incremento dell’anoressia mentale, quindi delle magrezze patologiche, nei Paesi in via di sviluppo in concomitanza con l’arrivo dei media (Becker et al., 2011; Terhoeven et al., 2020).

È proprio l’anoressia nervosa, tra gli altri disturbi alimentari, a presentare gli indici di mortalità più elevati; in base alla metanalisi condotta da Arcelus et al. (2011), su 12.808 soggetti, 639 hanno perso la vita (circa il 5,1% dei soggetti ogni 10 anni), dei quali 1/5 ha commesso suicidio (Arcelus et al., 2011).

Dati recenti rilevano come sia cruciale lavorare con il paziente anoressico tenendo conto di un quadro eziopatogenetico complesso (De Vos et al., 2014), in quanto i disturbi alimentari sono caratterizzati da una elevata comorbidità con altri sintomi psichici quali depressione, ansia, perfezionismo e tratti ossessivo-compulsivi (De Vos et al., 2014). Oltre a lavorare sulle variabili psicologiche e sugli aspetti emotivi (Abbate et al., 2011; Lombardo et al., 2014; Fox & Power, 2009), è necessario prendere in considerazione l’aspetto genetico e neuro-biologico nonché il contesto familiare-sociale, secondo un approccio sistemico e trigenerazionale (Palazzoli, Boscolo, Cecchin, & Prata, 2003).

La storia di Chiara

La storia di Chiara ha inizio il 15 marzo del 2013, nella data che soltanto un anno prima fu indicata come “Giornata Nazionale del Fiocchetto Lilla”, promossa dall’Associazione “Mi Nutro di Vita”, per sensibilizzare la popolazione alla tematica dei disturbi alimentari; in quel simbolico giorno, durante una cena in compagnia, Chiara decise “semplicemente di non mangiare”.

In modo chiaro e tagliente, descrive l’escalation di un disturbo che, tra pasti saltati e calorie ossessivamente calcolate, stava lentamente divorando la sua vita.

Le restrizioni alimentari diventavano sempre più insostenibili, i digiuni più forti, l’attività fisica più lunga. Il mio corpo si stava sgretolando, il mio umore era a frantumi e la mia vita si stava spegnendo come una lampadina.

Da lì, nel 2017, avvenne il ricovero presso il Policlinico Umberto I di Roma e l’inizio di una fase di degenza estremamente difficile e pesante nella sua monotonia, scandita da sveglie che ricordavano gli integratori da prendere, le terapie farmacologiche da seguire, e il cibo da assumere, e caratterizzata, ogni giorno, dalla misura del peso mattutino. Da quel piccolo numero sulla bilancia dipendeva l’intera giornata, l’approvazione o meno dei dottori, il numero di integratori da assumere, il senso di insoddisfazione o la felicità effimera.

È semplice cadere nel tranello di considerare un semplice nesso causale tra il disturbo alimentare e il cibo, ma non è esattamente così, in quanto non si tratta soltanto di un rapporto disfunzionale con il cibo. Di fronte a un comportamento alimentare scorretto, c’è da chiedersi che valore abbia il cibo per quella persona e, nel caso dell’anoressia, che cosa stia rifiutando veramente.

La stessa Chiara specifica:

un disturbo alimentare non riguarda il cibo. Riguarda il desiderio di annullarsi e riuscirci solo attraverso il corpo.

Il corpo – martoriato, ferito, dimenticato – costituisce, quindi, un canale privilegiato di comunicazione con l’esterno che trova nel cibo, dilazionato e rifiutato in ogni modo, il miglior mediatore.

Urlavo le mie sofferenze per far capire al mondo che esistevo, che avevo bisogno di aiuto, che avevo bisogno di protezione.

Simbolicamente, Chiara era una lunga pausa di silenzio in attesa di una parola giusta.

La patologizzazione della sofferenza e la fine della “guerra”

Sebbene la diagnosi nosografica, fatta con sensibilità e adeguato addestramento, sia estremamente utile nella pianificazione del trattamento e nella prognosi, vi è spesso una tendenza a etichettare il paziente e reificarne il disagio, attribuendo doppie o triple diagnosi e alimentando una differenziazione astratta che non riesce a orientare davvero l’intervento di cura.

Di questa pericolosa quanto frequente patologizzazione della sofferenza, ci racconta, tra le righe, Chiara:

Ero quasi affascinata dai copioni che ogni volta riuscivo a proporre. Sono entrata in ricovero nascosta da diagnosi. In un certo periodo della mia vita ero anoressica e bulimica. Borderline e bipolare. Ansiosa e depressa. Mi nascondevo nelle diagnosi.

L’etichetta diagnostica che puntualmente le veniva assegnata – o che lei stessa si conferiva – era diventata un muro dietro cui trincerarsi, una gabbia dentro cui rinchiudersi.

Se ho una diagnosi e sono malata, nessuno può aspettarsi altro da me, posso permettermi il lusso di fare quello che voglio.

Uscendo, a piccoli passi, da questo copione, Chiara è riuscita gradualmente a riconoscere quanto dei suoi bisogni insoddisfatti ci fosse dietro il suo disfunzionale rapporto col cibo:

Anche il mio disturbo alimentare non è altro che un’eterna fame d’amore che, razionalmente, non posso continuare a ricercare in cose e persone sbagliate.

A conclusione del suo ricovero di circa 7 mesi, gli obiettivi del trattamento sono stati raggiunti: il ripristino di un BMI normopeso, la riduzione dei rischi di mortalità e di gravi complicazioni fisiche (amenorrea, caduta dei capelli), l’introduzione e il mantenimento di un sano piano alimentare, il miglioramento dell’autostima e della percezione dell’immagine corporea (Bruch,1973; Guidano, 1991; Hudson et al., 2007; Selvini, 1988; Ugazio, 1998)

Così, quella che lei definiva la “guerra contro il cibo”, un conflitto intorno al quale la sua vita si è sviluppata per anni, ha lasciato spazio alla “guerra contro la malattia”, una lotta faticosamente vinta, con il premio finale più bello: la possibilità di “abbuffarsi di vita”.

– E la felicità, Chiara, cosa significa?
– La guerra è finita.

 

 

 


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Contraccettivi orali: la loro assunzione può incrementare il rischio di suicidio nelle giovani donne?

Circa il 20% delle donne tra i 15 e 29 anni ha fatto uso di contraccettivi orali tra il 2015 ed il 2017 (Daniels & Daugherty, Abma, 2018).

 

Nonostante siano efficaci nel prevenire le gravidanze ed alleviare i sintomi mestruali (Oinonen & Mazmanian, 2002), non sono privi di potenziali effetti collaterali.

Poiché gli ormoni sessuali influiscono sull’umore e sul comportamento (McEwen & Milner, 2017), la ricerca ha indagato prevalentemente l’associazione tra contraccettivi orali, sintomi depressivi e rischio suicidario.

Nonostante alcune evidenze in contrasto (Beral et al., 1999; Colditz, 1994) secondo Charlton et al. (2014), l’impiego dei contraccettivi orali aumentava significativamente le morti per suicidio; mentre Skovlund et al. (2018) rilevano un incremento del rischio di attuare comportamenti suicidari (sia tentativi che suicidio compiuto). In questa ricerca, il rischio di attuare un primo tentativo di suicidio era maggiore nelle donne tra i 15 e 19 anni, e più pronunciato entro i due mesi dall’assunzione del contraccettivo, permanendo per almeno 1 anno. Inoltre, l’associazione tra contraccettivi orali e rischio suicidario si attenuava considerando il ruolo potenziale della depressione. Infatti, nei casi in cui vengono impiegati contraccettivi ormonali per alleviare i sintomi mestruali legati all’umore (Pagano et al., 2016), il rischio di comportamento suicidario può essere ricondotto al disturbo psichiatrico sottostante.

In alcuni campioni, l’uso di contraccettivi orali era emerso in associazione alla depressione (Duke et al., 2007; Skovlund et al., 2016), mentre altri studi non hanno riportato alcun legame con essa (E. Toffol et al., 2011; Elena Toffol et al., 2012).

Dato l’impiego diffuso dei contraccettivi orali e le incongruenze presenti in letteratura, si rende necessaria una comprensione chiara dei loro potenziali rischi. L’indagine di Edwards et al. (2020), ha raccolto da registri nazionali svedesi, dati di 216 702 donne di età compresa tra 15 e 22 anni, indagando l’associazione tra l’uso di contraccettivi ormonali orali e rischio di comportamento suicidario (tentativo di suicidio o morte).

Secondo i risultati, il comportamento suicidario è più comune tra le donne che impiegano contraccettivi orali, rispetto a coloro che non li assumono. Inoltre, il rischio di suicidio diminuisce in modo non lineare con l’aumento della loro assunzione nel tempo.

Nonostante questo decremento, il rischio suicidario rimaneva significativamente alto per un anno e mezzo nelle donne che assumevano pillole a base di solo progestinico (senza estrogeni), rispetto a coloro che facevano uso di pillole combinate, che non riportavano comportamento suicidario.

Da questo ne deriva che, entro il primo anno di utilizzo dei contraccettivi ormonali da parte delle giovani donne, è necessario allertarsi nel caso di insorgenza di cambiamenti comportamentali, dell’umore o di altri indicatori che fanno presagire un rischio di suicidio.

L’impatto degli ormoni sessuali sull’umore spiegherebbe l’incremento conseguente del comportamento suicidario tra coloro che assumono contraccettivi (McEwen & Milner, 2017). Tuttavia non sempre l’impiego di contraccettivi comporta aumento di sintomi depressivi (Keyes et al., 2013; E. Toffol et al., 2011; Elena Toffol et al., 2012; Worly et al., 2018; Zethraeus et al., 2017). Inoltre, secondo le evidenze in letteratura, sono le donne con una storia di disturbi d’ansia e depressivi ad assumere maggiormente contraccettivi orali.

Date le evidenze che rendono complicato mettere in risalto il contributo unico dei contraccettivi orali sul rischio suicidario, gli autori hanno cercato di comprenderlo al netto della patologia pregressa (ansiosa e depressiva) e a prescindere dalla storia familiare di suicidio (Brent & Mann, 2005; Pedersen & Fiske, 2010).

I risultati riportano che l’uso di contraccettivi orali si associa ad un aumento del rischio di comportamento suicidario anche in assenza di disturbi internalizzanti ansiosi o depressivi, e indipendentemente dalla variabile familiare associata al comportamento suicidario.

Inoltre, le donne che interrompevano il contraccettivo orale, rispetto a coloro che continuavano ad assumerlo, avevano segnalato, nei tre mesi precedenti la sospensione, maggiori disturbi d’ansia e depressivi. Sempre le ex utilizzatrici riportavano un rischio suicidario maggiore dopo l’interruzione, suggerendo che l’esposizione agli ormoni non sia necessariamente il fattore causale, sebbene possa esacerbare una disposizione sottostante in alcune donne.

Concludendo, l’uso di contraccettivi ormonali orali si associa ad un rischio moderato di incremento del comportamento suicidario, nonostante in letteratura sia più pronunciata l’associazione tra malattia mentale e comportamento suicidario, rispetto ai rischi trasmessi dall’uso di contraccettivi orali.

Dunque, prima di vagliare l’assunzione di tali contraccettivi, è necessario considerare non solo l’età della paziente e la durata dell’uso, ma anche la storia di malattia mentale, poiché insieme agli altri fattori contribuisce ad incrementare il rischio di esiti negativi.

 

Congresso SITCC 2021 Bologna: la seconda e terza giornata

Si è tenuto a Bologna e in modalità online, dal 16 al 19 Settembre, il XX Congresso Nazionale SITCC (Società Italiana Terapia Cognitivo Comportamentale). Pubblichiamo per i nostri lettori il report della seconda e terza giornata.

La seconda e terza giornata del congresso della Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva (SITCC), conclusosi domenica 19 settembre a Bologna, ha mostrato maggiore varietà rispetto alla giornata inaugurale. Mentre la prima aveva privilegiato le passioni tipiche della SITCC, l’interesse per gli aspetti interpersonali, evolutivi ed evoluzionistici, nelle giornate successive sono emersi temi alternativi. Abbiamo potuto assistere così a una presentazione di Nicola Petrocchi, Nicola Marsigli, Emanuele Rossi e Fabrizio Didonna sul processualismo di terza ondata, un argomento che per la SITCC rimane un oggetto misterioso e sempre un po’ sottovalutato. E infatti il discussant Giorgio Rezzonico ha ammesso nel suo commento che in passato lui ha nutrito opinioni perplesse su questi nuovi sviluppi.

La sessione successiva ha visto un ritorno ai cavalli di battaglia, il confronto tra Bruno Bara e Giancarlo Dimaggio sulle principali direzioni che sta intraprendendo la SITCC: quella relazionale e interpersonale rappresentata da Bara e quella esperienziale e corporea di Dimaggio. Rimane in Dimaggio un’attenzione per il sintomo che ne denuncia in lui il permanere di un marchio cognitivo più evanescente in Bara.

Segue Marco del Giudice con un modello neurobiologico ed evoluzionista che prosegue il modello di Liotti, a conferma un’altra passione della SITCC, quella per gli aspetti viscerali della cognizione. Nel pomeriggio Mancini nella sua plenaria ha parlato di accettazione, proponendo la sua personale sintesi tra cognitivismo classico e processualismo di terza ondata. Su questa riga ha proseguito il simposio successivo, dedicato alle linee guida e alle buone pratiche evidence based, che talvolta sono vissute con un certo disagio nella SITCC ma che invece in questo caso hanno prodotto una panoramica esauriente della situazione, con Giovanni Fassone che ha parlato delle linee guida NICE per la depressione, Giuseppe Nicolò per il disturbo di personalità borderline e antisociale e Mario Reda per i disturbi di personalità mentre Mancini che ha portato dei dubbi sul verdetto di Dodo e battendosi per gli effetti specifici e infine Dimaggio e Farina hanno fatto da discussant.

La domenica mattina ha presentato gli ultimi strascichi di un congresso ricco, con Bara e Reda che si sono confrontati su una simulazione del caso, una modalità sempre stimolante con Bara di nuovo riproponendo il suo stile interpersonale mentre Reda più attento alla ricostruzione della storia di vita e dei significati personali. Il simposio di Farina, Veglia e Lambruschi ha proposto riflessioni sul trauma, raccomandando un benvenuto ridimensionamento del concetto, ultimamente estesosi  troppo. Infine in chiusura, una discussione sul rapporto tra identità e integrazione, con Giancarlo Dimaggio, Silvio Lenzi, Francesco Sibilia e me stesso a discutere un po’ e un po’ a essere d’accordo che, nel bene e nel male, l’identità della terapia cognitiva in fondo è quella di una terapia integrativa.

Abuso infantile e psicoterapia: quale approccio risulta essere il più efficace?

I bambini reagiscono in modo diversificato all’abuso, in quanto alcuni di essi non mostrano effetti negativi, mentre altri sviluppano gravi sintomi psichiatrici.

Messi Francesca e Miotto Cristina – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Mestre

 

Cosa si intende per abuso infantile?

Per abuso nell’infanzia si intende ogni atto rivolto al minore che può attentare “alla sua integrità corporea, al suo sviluppo fisico, affettivo, intellettivo e morale, le cui manifestazioni sono la trascuratezza e/o le lesioni di ordine fisico e/o psichico e/o sessuale da parte di un familiare o di altri che hanno cura del bambino”.

L’argomento dell’abuso nell’infanzia è sicuramente un tema che negli ultimi anni viene altamente trattato e discusso, sia perché si pone una maggiore attenzione nel prevenire i maltrattamenti e le violenze sui bambini sia perché si sta cercando di arginare l’aumento delle false denunce di abusi sessuali sui minori, che portano a conseguenze devastanti, anche dal punto di vista psicologico, nella persona accusata di tali reati.

Nella maggior parte dei casi, l’abuso infantile avviene all’interno delle mura domestiche, e può caratterizzarsi da maltrattamenti fisici, maltrattamenti psicologici, incurie o ipercurie (come la sindrome di Münchausen), e abusi sessuali. Quest’ultimo tipo di abuso infantile può essere a sua volta suddiviso in intra o extrafamiliare, a seconda che l’abusante sia un familiare oppure una persona estranea, e manifesto o mascherato, a seconda che riguardi comportamenti di contatto oppure pratiche genitali inconsuete. Ciò che ha aumentato inoltre l’attenzione su questo argomento, è il crescente aumento degli abusi sessuali di gruppo, volti a minori, soprattutto di sesso femminile, perpetuati solitamente dai coetanei.

Un certo numero di psicologi clinici spesso utilizzano tecniche come l’ipnosi, l’immaginazione guidata o l’interpretazione dei “ricordi del corpo” per aiutare i propri pazienti a recuperare nella memoria i casi sospetti di abuso sessuale infantile. Sebbene queste tecniche abbiano lo scopo di aiutare i propri pazienti, molto spesso vengono creati dei ricordi illusori o false credenze di abuso sessuale.

Quali sono gli effetti dell’abuso sessuale sui minori?

Diverse ricerche suggeriscono che i bambini reagiscono in modo diversificato all’abuso, in quanto alcuni di essi non mostrano effetti negativi, mentre altri sviluppano gravi sintomi psichiatrici (Kendall-Tackett, Williams e Finkelhor, 1993). Inoltre, non è necessariamente detto che i bambini che nell’infanzia non sviluppano una sintomatologia, poi non sviluppino un disturbo psichiatrico in età adulta (Fergusson, Horwood & Lynskey, 1996; Glaser, 1991; Mullen, Martin, Anderson, Romans & Herbison, 1996; Saunders, Kilpatrick, Hansen, Resnick e Walker, 1999; Silverman, Reinherz e Giaconia, 1996; Wido, 1999).

Come per ogni esperienza traumatica, gli effetti sul bambino possono essere mediati dal suo livello di vulnerabilità e di resilienza, oltre che dal suo temperamento, dal suo stile di attaccamento, dal funzionamento dei propri genitori e dalla possibilità di avere o meno le risorse economiche adeguate per poter avviare un trattamento psicoterapeutico. Si può quindi ipotizzare la presenza di 4 diversi gruppi di bambini: quelli che non hanno difficoltà rilevabili a livello di comportamento e non presentano sintomatologia; bambini che presentano alcuni sintomi come disagio emotivo, ansia e bassa autostima; bambini con gravi sintomi psichiatrici come depressione (Shapiro, Leifer, Martone e Kassere, 1990), ansia (Kolko, Moser e Weldy, 1988), comportamento sessualizzato (Friedrich et al., 1992), aggressività (Friedrich, Beilke e Urquiza, 1987), abuso di sostanze (Hibbard, Ingersoll e Orr, 1990), disturbi o distorsioni cognitive (Wolfe et al., 1989); infine bambini che soddisfano i criteri del PTSD, della depressione maggiore, dell’ansia eccessiva e dei disturbi del sonno (McLeer et al., 1992).

L’utilizzo della CBT nell’abuso infantile

Obiettivo della ricerca odierna è di comprendere quale sia la forma di trattamento più efficace nei bambini. Tuttavia, per questa categoria di pazienti è molto complesso comprendere effettivamente se un trattamento risulta efficace o meno in quanto non sono sempre affidabili su quanto viene riportato rispetto ai propri stati mentali. Inoltre, sono in una fase della propria vita in cui le abilità metacognitive sono ancora in fase di sviluppo.

Dalle diverse ricerche è emerso come la terapia cognitivo-comportamentale (CBT) sembri essere la terapia più efficace, in seguito ad esperienze di abuso, nel trattamento dell’ansia e della depressione infantile e nel supporto alla genitorialità, in caso di problemi di aggressività, tramite l’utilizzo del problem solving. Nel 1996 Cohen e Mannarino hanno sviluppato una terapia CBT specifica sul trauma infantile, che si occupa di quattro dinamiche principali: il trauma sessuale, la stigmatizzazione, il sentimento di impotenza e il senso di tradimento. L’intervento con il bambino consiste nell’utilizzo di tecniche di coping, nell’elaborazione di ricordi traumatici e nell’utilizzo della psicoeducazione sull’abuso infantile, la sessualizzazione sana e la sicurezza del corpo. A ciò si aggiungono tecniche cognitivo-comportamentali standard come l’esposizione graduale, la desensibilizzazione sistematica, training di rilassamento e la ristrutturazione cognitiva. L’efficacia di questo approccio specifico viene evidenziata nuovamente rispetto al trattamento dell’ansia, della depressione e dei problemi comportamentali. Inoltre, da uno studio di Deblinger (Deblinger et al., 1996), viene sottolineato come l’intervento cognitivo-comportamentale è ancora più efficace se viene rivolto anche ai familiari e alla comunità.

Il trattamento con Eye Movement Desensitization and Reprocessing (EMDR)

Molte ricerche empiriche riportano che nel lavoro con i minori vittime di abuso, oltre al trattamento di tipo cognitivo-comportamentale, vi sono altri approcci che risultano efficaci, tra cui l’EMDR (Adler Tapia & Settle 2012, Bisson & Andrew 2007, Bradley et al. 2005, Shapiro 2014, Ribchester et al. 2010, Tarquinio et al. 2012). La terapia EMDR segue un protocollo di otto fasi (Shapiro 2001, 2002, Hasa noviü 2014). Le prime due consistono nel raccogliere la storia del paziente e porre le basi per il trattamento, cercando di creare una buona relazione e definendo gli obiettivi. La terza fase si concentra sui ricordi legati al trauma che sono alla base delle risposte disfunzionali della persona maltratta. Per rendere la terapia maggiormente efficace, il terapeuta deve, innanzitutto, identificare l’evento traumatico che ha posto le basi per la sintomatologia. Il ricordo bersaglio può essere costituito da un’immagine che rappresenta l’esperienza più disturbante, cognizioni negative sul sé attuali (es. “Io sono debole”, “È stata colpa mia”), cognizioni positive desiderate (es. “Sono forte”, “Posso farcela”), emozioni (tipicamente di paura, rabbia e tristezza) e sensazioni fisiche (es. nausea, stanchezza, tensione, che possono accompagnare quel determinato ricordo). Conclusa la fase di assessment, si procede con la quarta fase di elaborazione attiva del trauma (desensibilizzazione), condotta con una serie di movimenti oculari rapidi bilaterali. La quinta fase consiste nell’associare l’immagine del ricordo traumatico, le emozioni e le sensazioni fisiche con lo stato cognitivo positivo desiderato (installazione); segue la fase di consapevolezza delle sensazioni corporee (body scan). Nella settima fase si cerca di eliminare eventuali sofferenze residue, e non appena esse non vengono più segnalate, si conclude il protocollo, stabilizzando il paziente. Al termine, si ripropone una valutazione di follow-up volta ad indagare l’effettivo risultato terapeutico.

Per il trattamento di bambini vittime di traumi complessi il protocollo EMDR (Adler-Tapia & Settle, 2017) è stato lievemente modificato. Per ottenere la remissione dei sintomi e dei disturbi, il trattamento si focalizza sui problemi o sulle preoccupazioni presentate dal bambino, evitando quindi l’elaborazione diretta dei ricordi dell’abuso, in quanto si presuppone che alla base vi siano le sofferenze legate all’evento in sé. Durante il protocollo con i bambini, si propongono diversi disegni e giochi, volti anche alla valutazione del trattamento stesso. Nella fase di preparazione, ad esempio, si chiede al bambino di raffigurare un luogo per lui sicuro. Tale esercizio viene poi utilizzato all’inizio e alla fine di ogni sessione. Di fondamentale importanza è l’alleanza e il coinvolgimento dei genitori, con i quali spesso è opportuno effettuare un lavoro in parallelo. La storia di vita del bambino viene raccolta dal racconto dei genitori, mentre al bambino si chiede di disegnare una linea temporale della sua vita (sotto forma di arcobaleno, sentiero e binario ferroviario), in cui gli viene chiesto di inserire i suoi compleanni, le esperienze di vita più salienti, gli eventi spiacevoli e le esperienze che pensa possano accadere in futuro. Prima di iniziare la fase di desensibilizzazione è importante stabilire con il paziente un segnale di arresto per mettere in pausa i movimenti bilaterali. La valutazione di follow-up consiste nel chiedere al bambino e ai genitori se ci sono stati dei miglioramenti nella sintomatologia rispetto alla seduta precedente.

In letteratura sono state riscontrate differenze significative a favore della terapia EMDR rispetto a quella cognitivo-comportamentale nel migliorare la sintomatologia legata al trauma (Arabia et al. 2011, de Roos et al. 2011, Ironson et al. al. 2002, Jaberghader et al. 2004, Karatzias et al. 2007, Nijdam et al. 2012, Potenza et al. 2002).

L’utilizzo dell’approccio psicodinamico

La psicoterapia di tipo psicoanalitica e psicodinamica ha origini nell’opera di Freud (1856-1939); per l’infanzia e l’adolescenza, questo approccio deriva dall’interesse di Anna Freud e Melanie Klein. Secondo questo approccio, le persone cercano aiuto quando sono in conflitto su aspetti riguardo a se stessi o alle loro relazioni. Generalmente i conflitti derivano da difficoltà relazionali o legate ad esperienze passate (ad esempio, l’abuso sessuale), i quali possono causare ansia o dolore psichico e venire poi esclusi dalla coscienza attraverso l’uso di meccanismi di difesa (Bateman, Brown e Pedder, 2000). La psicoterapia psicoanalitica/psicodinamica tenta di esplorare attraverso il dialogo, il gioco (con bambini più piccoli) e la relazione terapeutica, come le esperienze precedenti vadano ad influenzare pensieri, sentimenti, comportamenti e relazioni attuali (McQueen, Kennedy, Sinason e Maxted,2008). Questa terapia, quindi, mira ad aiutare le persone ad avere una migliore comprensione delle proprie difficoltà inconsce e questo dovrebbe consentire la risoluzione dei loro problemi. L’insight (comprensione consapevole) dei conflitti inconsci è considerato particolarmente importante (Traux e Wittmer, 1973); questa intuizione è acquisita attraverso le interpretazioni del terapeuta sulla base di ciò che racconta e fa il paziente. Questo approccio ritiene che il paziente si comporti inconsciamente con il terapeuta allo stesso modo con cui ha sperimentato alcune sue relazioni (ad esempio, con un genitore o un abusante). Il trasferimento dei sentimenti al terapeuta (transfer) permette a quest’ultimo di ipotizzare quali siano i conflitti inconsci e i meccanismi di difesa messi in atto dal paziente, in modo da aiutarlo a raggiungere una buona consapevolezza degli stessi.

Anche la terapia psicoanalitica/psicodinamica con i minori prevede un lavoro in parallelo con i genitori. Il bambino si esprime attraverso il gioco e il disegno, comunicando attraverso di essi i suoi conflitti inconsci e fornendo al terapeuta una finestra per comprendere ansie, conflitti e difese. In tal senso, sono molto utilizzati i programmi basati sullo psicodramma (MacKay, Gold,e Gold, 1987) e sulla terapia del gioco (Scott, Burlingame, Starling, Porter e Lilly, 2003).

Fino ad oggi, non c’è stata una revisione sistematica di prove di alta qualità (studi controllati randomizzati) sulla psicoterapia psicoanalitica/psicodinamica per bambini e adolescenti che hanno subito abusi sessuali. Questo è in contrasto con una maggiore disponibilità di ricerche relative all’efficacia di altre psicoterapie (soprattutto CBT). Tuttavia, è importante ricordare che negli ultimi anni sono presenti un maggior numero di sperimentazioni, molte delle quali ancora in corso, volte a verificare l’efficacia della psicoterapia psicoanalitica/psicodinamica nel trattamento di bambini e adolescenti (ad es. Goodyer et al., 2011) e adulti che hanno subito abusi sessuali in età evolutiva.

Conclusioni

Gli studi empirici evidenziano una maggiore efficacia della CBT rispetto alle terapie non comportamentali (Kazdin & Weisz, 1998), tuttavia ciò non significa che siano sempre le migliori per tutti i tipi di bambini. È importante sottolineare che le terapie come la psicodinamica, la terapia familiare o i trattamenti di gruppo spesso non godono dello stesso supporto empirico della CBT. Detto ciò, l’efficacia della terapia CBT nell’abuso infantile riguarda soprattutto il trattamento di sintomi di tipo ansioso, depressivo o comportamentali di aggressività. L’esito a lungo termine non è stato ad oggi ancora molto studiato, pertanto non si conosce esattamente il ruolo del trattamento nella prevenzione delle ricadute e nella prevenzione dei sintomi in età adulta. Ciò che emerge dalle ricerche riguarda l’importanza di includere negli studi fin da subito tutti i bambini che hanno sperimentato un abuso nell’infanzia, soprattutto coloro che non presentano sintomatologia. In questo modo si potrebbe determinare se l’intervento precoce, attraverso la psicoeducazione e lo sviluppo di strategie di coping adattive, possa prevenire l’insorgenza di disturbi psichiatrici in età adulta.

Infine, dagli studi in letteratura emerge che le terapie che utilizzano un approccio cognitivo-comportamentale incentrato sul trauma in combinazione con terapie di supporto ed elementi psicodinamici, mostrano i risultati più efficaci nel tempo.

 

Chi ha paura delle varianti? La paura del Covid-19, riconoscerla per promuovere l’adattamento

La paura del Covid-19, quando molto intensa, può risultare altamente disorganizzante sia per il pensiero che per il comportamento, ed essere considerata a tutti gli effetti una reazione peritraumatica. Ma come riconoscerla?

 

Come noto, in queste ultime settimane il Governo italiano ha varato alcune misure volte alla tutela della sanità pubblica. Una parte consistente di esse sembra girare attorno alla necessità di possedere una certificazione, nota come ‘green pass’, che attesti, in sostanza, l’immunità dal virus responsabile della pandemia in corso. Sorvolando sulle questioni di diritto che sembrano attualmente infiammare i giornali, la ragione principale di queste misure sembra risiedere nell’elevata contagiosità della cosiddetta ‘variante delta’ del virus e sul rischio, conseguente, che un’eventuale e ulteriore ondata epidemica costringa a ritornare alle restrizioni di qualche mese fa, con consistente danno per l’individuo e la collettività.

Per molti la pandemia sta nuovamente mostrando la sua faccia più minacciosa. Di conseguenza potrebbe essere utile tornare a fare una riflessione sulle reazioni individuali di fronte al rischio di ammalarsi di Covid-19, in modo da poterle riconoscere in noi al fine di adottare le misure necessarie a contrastarle nel caso che non ci permettano di mantenere adeguati livelli di benessere.

Quali sono le caratteristiche generali del rischio Covid-19 che ci spaventano? Come riconoscere una reazione eccessiva di paura del Covid-19?

Una definizione del rischio utile ai nostri scopi ci viene fornita dall’enciclopedia Treccani Online, che lo definisce come l’«eventualità di subire un danno connessa a circostanze più o meno prevedibili». Dal punto di vista psicologico la percezione del rischio è un processo complesso, che concerne la valutazione delle conseguenze immediate e future legate all’esposizione del soggetto a un evento pericoloso, valutate sia sul piano razionale (probabilità che ognuna di esse si verifichi e gravità del danno relativo), sia sul piano cognitivo-emozionale (personalità del soggetto, processi cognitivi ed emotivi coinvolti etc.; Bonini, Rumiati, & del Misser, 2008).

Gli studi sulla percezione del rischio ci forniscono gli elementi oggettivi in base ai quali le persone valutano un evento come minaccioso. In uno studio seminale, Slovic e colleghi (Slovic, Fischoff, & Lichtenstein, 1980) rilevano che le categorie principali che costituiscono tale valutazione sono fondamentalmente tre: conoscenza del rischio (il rischio è osservabile? gli effetti nocivi sono immediati? è conosciuto dalla scienza e da chi vi è esposto? etc); controllabilità (il rischio è terrificante, catastrofico, prodotto involontariamente etc.?); numero di persone coinvolte. In base a queste coordinate e al senso comune potremmo dedurne che un rischio meno è conosciuto, meno è controllabile e più persone coinvolge, più è considerato minaccioso. Potremmo anche andare oltre e ipotizzare che il Covid-19 sia percepito dalla maggior parte delle persone come una grave minaccia.

Nella valutazione di un rischio, alle sue caratteristiche oggettive si aggiunge poi l’impatto delle variabili di personalità, di quelle sociodemografiche e le visioni del mondo individuali. Esse, da un lato, influenzano a monte la valutazione dell’evento minaccioso, dall’altro, influenzano gli effetti che tale valutazione ha sul soggetto stesso (per una rassegna, vedi Raue, Lermer, & Streicher, 2018). Così il rischio percepito influenza i comportamenti, i pensieri e le emozioni del soggetto che vi si trova coinvolto.

Quanto detto finora permette di capire come dalla percezione di un evento minaccioso possano derivare conseguenze anche gravi per il soggetto. Infatti le risposte individuali di fronte a esperienze che minacciano la stabilità psicologica e l’integrità fisica del soggetto (le cd. ‘esperienze potenzialmente traumatiche’) permettono di dare ragione dello sviluppo di sintomi di disagio psicologico più o meno intenso, fino alla morbosità conclamata. Tali risposte comprendono (Gorman, Engel-Rebitzer, Ledoux, Bovin, &Marx, 2016):

  • la valutazione del significato dell’evento in termini di minaccia/opportunità e la valutazione della disponibilità di risorse per fronteggiarlo (appraisal);
  • l’esperienza emotiva soggettiva: le emozioni (impotenza, vergogna, orrore, paura, rabbia, tristezza, disgusto), l’esperienza di ottundimento emotivo e l’intensità dei vissuti;
  • cognizioni peritraumatiche: processi cognitivi tipici di queste situazioni, come l’utilizzo della sola informazione sensoriale; la perdita della coscienza riflessa e dell’integrazione dell’evento nella memoria autobiografica; contenuti e processi mentali non integrati che causano una diminuita consapevolezza dei propri stati interni e comportamenti (dissociazione);
  • reazioni fisiologiche: aumento della frequenza cardiaca e della pressione sanguigna, vertigini, affanno, vampate di calore, nausea, sudorazione copiosa, reazioni endocrine;
  • comportamenti di tipo attivo (come l’attacco-fuga) o passivo (come l’immobilità tonica, connotata da tensione) e il fronteggiamento appropriato/inappropriato in relazione alle circostanze attuali.

In questa prospettiva la paura del Covid-19, quando molto intensa, può risultare altamente disorganizzante sia per il pensiero che per il comportamento, ed essere considerata a tutti gli effetti una reazione peritraumatica. Ma come riconoscerla?

Un aiuto può esserci fornito dalle diverse scale sviluppate dagli studiosi per cogliere questa specifica dimensione dell’esperienza umana. Una di esse, breve e di immediata comprensione è la Fear of Covid Scale (FCV-19S; Soraci et al., 2020), che si può trovare in fondo all’articolo. Rispondendo alle domande, il lettore interessato potrà facilmente rilevare il proprio livello di paura del Covid-19.

Per fare ciò è necessario innanzitutto rispondere ad ogni domanda presente utilizzando un punteggio intero tra 1 (‘Completamente in disaccordo’) e 5 (‘Completamente d’accordo’). Una volta risposto a tutte le domande si effettui la media, rilevando così l’intensità delle proprie reazioni emotive e fisiologiche in relazione al Covid-19. Considerando dove il proprio punteggio si situa tra un minimo di 7 e un massimo di 35, il lettore avrà così un punto di riferimento che gli permetterà di decidere se la propria paura del Covid-19 sia eccessiva oppure no, e prendere le eventuali decisioni del caso, potendo scegliere anche di rivolgersi eventualmente allo psicologo o al centro di salute mentale di riferimento, per la gestione delle proprie reazioni e la comprensione delle dinamiche psicologiche ad esse sottostanti.

Capire come pensiamo e viviamo la nostra paura del virus ci permetterà così di fare le nostre scelte di salute e di vita con maggiore libertà, oltre che fornirci la possibilità di una prospettiva più equilibrata sulla pandemia in corso e sui nostri vissuti. Ciò ci permetterà, infatti, di evitare di cadere preda di reazioni emotive e fisiologiche eccessive e, quindi, fuorvianti.

Il pericolo è presente, indipendentemente dal numero delle varianti in giro, ma non per questo dobbiamo sentirci spaventati da esso.

Fear of Covid Scale:

  1. Ho molta paura del coronavirus-19.
  2. Mi rende inquieto (ansioso/nervoso) pensare al coronavirus-19.
  3. Le mie mani iniziano a sudare quando penso al coronavirus-19.
  4. Ho paura di perdere la vita a causa del coronavirus-19.
  5. Quando guardo le notizie e le storie sul coronavirus-19 sui social media, divento nervoso o ansioso.
  6. Non riesco a dormire perché mi preoccupo di contrarre (o avere) il coronavirus-19.
  7. Il mio cuore batte forte o palpita quando penso di poter contrarre il coronavirus-19.

Attacchi e disturbo di panico (2019) di Sanavio & Sanavio – Recensione del libro

Il volume Attacchi e disturbo di panico parte dalla definizione dell’attacco di panico e delle sue caratteristiche per portare ad una maggiore comprensione del disturbo, mentre nei capitoli successivi approfondisce gli aspetti eziologici e diagnostici ed infine quelli trattamentali.

 

Sebbene in Italia la richiesta di aiuto per i disturbi mentali sia inferiore rispetto alla media europea (Sanavio & Sanavio, 2019), la vita sempre più frenetica e lo stato di incertezza economica degli ultimi anni hanno causato un peggioramento nei livelli di benessere psicologico nazionale, con un aumento della tendenza a sviluppare sintomi ansiosi e depressivi (Moscone et al., 2016) e tale condizione è stata ulteriormente inasprita, nell’ultimo periodo, dalla pandemia da COVID-19 (Rossi et al., 2020). In quest’ottica risulta sempre più necessario, per ogni professionista nell’ambito della salute mentale, formarsi al fine di poter rispondere in modo efficace alle richieste di intervento di un’utenza sempre più afflitta da manifestazioni ansiose.

Tra i disturbi d’ansia, spiccano gli Attacchi di Panico e il Disturbo di Panico; i primi sono caratterizzati dalla rapida insorgenza di sentimenti di paura e sensazioni spiacevoli, che raggiungono il picco in pochi minuti. Il Disturbo di Panico, invece, è una condizione caratterizzata da ricorrenti attacchi di panico, dei quali almeno uno seguito da preoccupazioni e/o da cambiamenti nel proprio stile di vita abituale (APA, 2013). Il libro oggetto della presente recensione, Attacchi e disturbo di panico (Sanavio &  Sanavio, 2019), fa parte della collana “100 Domande”, diretta da Daniele Berto, e sopperisce in modo scorrevole, ma non per questo meno completo, alla necessità di formazione ed approfondimento dei professionisti della salute mentale circa queste tematiche. Attraverso le domande e le relative risposte, agili ed esaurienti, il lettore viene trasportato da una visione più globale delle manifestazioni di panico ad un sempre maggior grado di approfondimento. La prima parte dell’opera è dedicata ad un’introduzione a tali fenomeni; partendo dalla definizione dell’attacco di panico e delle sue caratteristiche salienti, si arriva gradualmente ad una maggior comprensione del disturbo e delle sensazioni che lo caratterizzano, delle sue possibili e sfaccettate manifestazioni, nonché delle basi biologiche e dei fattori situazionali che possono favorirne la comparsa.

La seconda parte del volume è invece dedicata agli aspetti eziologici e diagnostici, con particolare attenzione all’insorgenza ed evoluzione del disturbo e alla frequente presenza di altre condizioni psicopatologiche in comorbidità: in tale sezione vengono forniti al lettore strumenti, corredati di esempi pratici, utili per procedere ad una corretta valutazione ed approfondimento delle manifestazioni di panico e delle eventuali condizioni ad esso associate. Viene inoltre approfondita l’importanza del ruolo del paziente nel processo di riduzione dei sintomi e, dunque, la necessità di coinvolgerlo.

L’ultimo capitolo del libro è, infine, dedicato agli aspetti trattamentali, con una dissertazione sulle terapie e sulle tecniche maggiormente efficaci, di stampo sia psicoterapico che farmacologico, oltre che sugli esercizi da insegnare al paziente, affinché egli possa diventare progressivamente più abile nel controllare e gestire autonomamente le sgradevoli sensazioni associate agli attacchi di panico. Una parte della terza ed ultima sezione è inoltre dedicata all’Agorafobia, la quale rappresenta una delle possibili evoluzioni del Disturbo di Panico, qualora esso non riceva adeguato trattamento. Interessanti ed utili risultano anche il glossario e le tre “Appendici”, situati alla fine del volume, oltre ai vari “Box” di approfondimento, disseminati nel corso dello stesso, ricchi di spiegazioni e di esempi concreti, utili per la pratica clinica. In conclusione, la lettura dell’opera Attacchi e disturbi di panico (Sanavio & Sanavio, 2019) risulta al contempo scorrevole e formativa, mantenendo un linguaggio semplice e chiaro nonostante i frequenti riferimenti scientifici, fondamentali ai fini della comprensione delle basi fisiologiche e neurologiche delle manifestazioni di panico. Il risultato è una guida sia teorica che applicativa, accessibile anche ai “non addetti ai lavori” e preziosa per i professionisti della salute mentale.

 

È possibile ridurre l’auto-stigma e la vergogna che affliggono le donne tossicodipendenti?

Uno studio preso in esame ha perseguito l’obbiettivo di sviluppare un programma educativo per ridurre l’auto-stigma e la vergogna tra le donne affette da una tossicodipendenza.

 

L’abuso di sostanze è un problema rilevante all’interno della società che determina innumerevoli ripercussioni negative sulla vita, gravando anche sulle spese pubbliche nazionali. La dipendenza colpisce diversi processi cerebrali, compresi quelli coinvolti nella ricompensa e nella motivazione, nell’apprendimento, nella memoria e nella regolazione del comportamento inibitorio. A seconda del rapporto tra corredo genetico, età di esposizione alle droghe ed altri fattori ambientali, alcune persone risultano essere più vulnerabili di altre a divenire dipendenti.

L’abuso di sostanze è stato a lungo considerato come un problema prettamente maschile ma, in realtà, non è così. Come alcolista o tossicodipendente, una donna deve affrontare ripercussioni sociali e stigmi pericolosi. Talvolta sono le stesse famiglie che si rifiutano di offrire il proprio sostegno e ciò determina un’angoscia emotiva e psicologica per le donne che ne sono affette. Molti di questi stigmi conducono le donne ad abitudini pericolose, ad attività sessuali non sicure e minano la loro stima, nonché la loro identità (Sharon, 2017). Inoltre le donne che abusano di sostanze affrontano una varietà di sfide che differiscono per estensione e natura rispetto a quelle affrontate dagli uomini (Joshi & Rathore, 2017).

Lo stigma è un meccanismo psicologico in cui la persona è socialmente sanzionata e svalutata a causa di una presunta caratteristica. L’auto-stigma, invece, implica un processo di auto-svalutazione messo in atto dal soggetto, che finisce con il far proprio il pensiero che la società ha nei suoi confronti (Tatjana, Dusan & Evite, 2016).

Senso di colpa, vergogna, bassa autostima e scarsa autoefficacia sono correlati ad alti livelli di auto-stigma (Picco et al., 2017). Talvolta esso può minare l’aderenza alle linee guida per il trattamento e ridurre la ricerca di aiuto.

L’aumento dei sentimenti di vergogna incrementa drammaticamente la sensibilità ai comportamenti di dipendenza, in particolare l’abuso di droghe (Rahim & Patton, 2014).

Un recente campo di studi sta dimostrando come le principali risorse utilizzabili per ridurre lo stigma e la vergogna associati alla dipendenza, siano l’educazione e la consapevolezza. Per le persone con dipendenza, è importante rendersi conto che l’abuso di sostanze è una malattia e non un fallimento personale che, come tale, è possibile curarlo. Per chi abusa di sostanze, è davvero importante ricevere un trattamento e non lasciare che la paura di essere stigmatizzati impedisca loro di cercare sostegno (Luoma et al., 2016).

La psicoeducazione o la psicoeducazione combinata alla ristrutturazione cognitiva risultano essere le strategie d’intervento di maggior successo per ridurre l’auto-stigma (Mittal et al., 2014).

Naturalmente, gli interventi educativi sviluppati si differenziano tra loro. Per esempio, vi è chi ha incoraggiato i partecipanti a condividere esperienze personali ed esplorare strategie comportamentali o, ancora, sono stati progettati interventi che miravano ad educare i partecipanti ad accettare l’esperienza del disturbo, a ridurre al minimo i comportamenti auto-stigmatizzanti, a promuovere l’ottimismo e a raggiungere obiettivi di vita positivi. Ulteriormente, un approccio prettamente medico è stato utilizzato affinché i partecipanti fossero edotti sulla loro condizione, sui sintomi dell’abuso, sulla gestione delle crisi e dello stress e sulle loro capacità assertive (Mittal et al, 2014).

Uno studio preso in esame ha perseguito l’obbiettivo di sviluppare un programma educativo per ridurre l’auto-stigma e la vergogna tra le donne affette da una tossicodipendenza. I ricercatori si sono proposti, in prima battuta, di valutare la conoscenza delle donne riguardo alla riduzione dell’auto-stigma e della vergogna, valutare la loro sensazione di vergogna e, di conseguenza progettare e implementare un programma educativo per ridurre tale sensazione e il processo di auto-svalutazione.

Gli autori hanno ipotizzato che, al termine del programma educativo, si sarebbe assistito ad un considerevole miglioramento degli aspetti sopracitati e i risultati hanno confermato le aspettative.

Difatti, a seguito dell’intervento, i livelli di auto-stigma e vergogna delle 30 donne partecipanti, si erano notevolmente ridotti. Questi risultati possono essere dovuti all’aumento della consapevolezza del campione, nonché al fatto che le sessioni del programma hanno fornito alle donne informazioni tipiche sull’abuso di sostanze, sull’auto-stigma e sulla vergogna, come le cause della dipendenza, le tipologie di stigma e le strategie utilizzabili per ridurre quest’ultimo.

Inoltre, è stato possibile ridurre i sentimenti di vergogna, grazie ai meccanismi di ristrutturazione cognitiva, che hanno consentito alle donne di imparare a modificare i pensieri automatici negativi e di sostituirli con pensieri adattivi.

Lo studio ha dunque dimostrato come questo protocollo possa essere una strategia di intervento efficace per ridurre la vergogna interiorizzata ed aiutare gli individui a decifrare la differenza tra “sto provando vergogna ora” e il “devo vergognarmi di me stesso”.

Gli autori hanno sottolineato come sia necessario implementare il programma sviluppato su una scala più ampia, al fine di poter confermare i suoi effetti positivi e il suo miglioramento.

La mindfulness per l’ADHD e i disturbi del neurosviluppo. Applicazione clinica della Meditazione Orientata alla Mindfulness – MOM  a cura di Cristiano Crescentini e Deny Menghini

I curatori di La mindfulness per l’ADHD e i disturbi del neurosviluppo hanno voluto descrivere come l’applicazione della Meditazione Orientata alla Mindfulness (MOM) può essere utile in clinica per il trattamento di bambini ed adolescenti affetti da ADHD.

 

Il disturbo da deficit di attenzione ed iperattività (ADHD) ha come caratteristica un’attenzione di breve durata e una irrequietezza ed impulsività che interferiscono, nel bambino, con le funzioni dello sviluppo.

La MOM risulta, però, altresì particolarmente adatta in ambito scolastico ed educativo per favorire la concentrazione dei bambini anche in assenza di qualsiasi tipo di disturbo.

Secondo Jon Kabat-Zinn, biologo, scrittore statunitense e fondatore della Stress Reduction Clinic e del Center for Mindfuness in Medicine, la Mindfulness è “porre attenzione in un modo particolare: intenzionalmente, nel momento presente e in modo non giudicante”, è quindi una disciplina che aiuta a conoscere se stessi ed il mondo circostante consentendo di vivere a pieno il presente e di controllare lo stress. Si tratta di una pratica basata sulla meditazione. La MOM è una forma di meditazione, che s’ispira alle antiche pratiche meditative orientali.

Esistono numerosi lavori che provano gli effetti positivi che questo tipo di meditazione ha nella popolazione adulta, anche in chi è affetto da disturbi neuropsicologici.

Meno indagato è l’effetto della meditazione orientata alla Mindfulness in ambito neuroinfantile.

Cristiano Cresentini, psicologo, ricercatore universitario e psicoterapeuta e Deny Menghini, psicoterapeuta con attività clinica svolta presso l’Ospedale pediatrico Bambin Gesù, nel volume da loro curato, riportano alcuni lavori che riguardano l’applicazione della MOM in età adulta e nel terzo e quinto capitolo si soffermano sulle applicazioni in età evolutiva e per il trattamento dell’ADHD. Si fa riferimento ad un tipo di meditazione che prevede sessioni che arrivano a durare circa 30 minuti. Ci si attiene al protocollo MOM, in cui i trenta minuti di meditazione sono suddivisi in tre step, che riguardano la meditazione sul respiro, sul corpo e sugli stati mentali.

Il linguaggio utilizzato nel testo è specifico, scientifico nella descrizione delle situazioni cliniche, ma diviene più semplice e divulgativo nella descrizione della meditazione orientata alla Mindfulness.

Si tratta di un volume utile per i professionisti che operano in ambito neuropsichiatrico ed educativo, ma interessante per tutti coloro che vogliono comprendere la mindfulness, il protocollo MOM e conoscere lo stato dell’arte delineato dai lavori scientifici.

 

Congresso SITCC 2021 Bologna: la prima giornata

Si è tenuto a Bologna e in modalità online, dal 16 al 19 Settembre, il XX Congresso Nazionale SITCC (Società Italiana Terapia Cognitivo Comportamentale). Pubblichiamo per i nostri lettori il report della prima  giornata. 

 

La prima giornata del congresso della Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva ne ha confermato le qualità peculiari: l’interesse per gli aspetti interpersonali, evolutivi ed evoluzionistici. La rievocazione iniziale in plenaria del percorso dei due padri fondatori, Vittorio Guidano e Gianni Liotti, conferma questo interesse.

Le presentazioni, rispettivamente di Georgianna Gardner e Benedetto Farina, ne mostrano somiglianze e differenze dei percorsi, con una maggiore attenzione per il Sé e la narrazione in Guidano e per l’aspetto evoluzionista in Liotti ma anche confermando il forte interesse per gli aspetti interpersonali.

La plenaria successiva con Peter Fonagy prosegue questa direzione. Fonagy declina il suo modello in termini significativamente evoluzionistici e mostrando così un’elevata convergenza con le riflessioni più teoriche di Liotti. Anche la presentazione finale di Patricia Crittenden non cambia direzione, sebbene finalmente con maggiore capacità di parlare degli aspetti clinici oltre che dei modelli teorici. Vero è che, almeno in platea, la Crittenden è stata anche criticata per una possibile eccessiva semplicità del suo modello. Probabilmente è il prezzo che paga per la sua maggiore applicabilità clinica.

Infine, segnalo il faccia a faccia che ho sostenuto personalmente con Giovanni Fassone sul confronto tra modelli protocollati e personalizzati (tailored). Naturalmente in questi confronti si tende, anche correttamente, a cercare dei punti di contatto, andando oltre i momenti di incomprensione che dipendono anche dai limiti della terminologia e del linguaggio. È chiaro che in ogni trattamento personalizzato ci deve essere un aspetto tecnico replicabile così come in ogni protocollo formalizzato ci deve essere la capacità clinica di adattarsi al paziente. Tuttavia, al di là di queste convergenze pratiche, occorre anche tenere presenti le diverse sensibilità, con una maggiore attenzione da una parte per gli aspetti non replicabili e personalizzati e dall’altra per le componenti invece controllabili e formalizzate.

“Ecofenotipo” climatico: quanto è influenzata la nostra salute mentale dai cambiamenti climatici?

Si può ipotizzare che in futuro, con l’accentuarsi del cambiamento climatico, aumenteranno anche le persone che, a causa di disastri naturali, sperimenteranno conseguenze sulla salute mentale come l’eco-ansia.

 

Gli eventi causati dal cambiamento climatico si stanno verificando in tutto il pianeta, con gravi conseguenze dirette ed indirette su numerosi ambiti, compreso quello della salute mentale. Riconoscere e curare gli effetti psicologici principali del cambiamento climatico, come ad esempio l’eco-ansia, diventerà sempre più importante nei prossimi anni.

L’impatto psicologico del cambiamento climatico

L’idea che il clima abbia una influenza sul nostro modo di vivere e pensare risale all’antica Grecia; Ippocrate, Aristotele, Platone, Polibio avevano infatti elaborato teorie circa l’influenza dei fattori geoclimatici sulla psicologia umana (Issa, A. 1992). Montesquieu fu il primo a illustrare in modo sistematico, nel libro De l’esprit des lois (Mercier, R. 1953), la teoria di come il clima influenzi la società, considerandolo uno dei principali fattori capaci di influire sulla genesi dei determinanti sociali. Nel corso degli anni, di generazione in generazione, nazioni differenti hanno determinato la loro cultura e tradizione comportamentale e alimentare tramite un legame sinciziale con le condizioni geoclimatiche dell’area di pertinenza. L’identità soggettiva e collettiva di ogni area è pertanto indissolubilmente legata alle relative condizioni geoclimatiche che sono più o meno stabili da migliaia di anni. È lecito dunque chiedersi cosa potrebbe succedere se queste condizioni iniziassero repentinamente e irreversibilmente a cambiare in modo drastico, se regioni nordiche come il Canada o la Siberia sperimentassero temperature estive di 47 gradi, se popolazioni con una cultura basata sulla pesca si ritrovassero a perdere gradualmente i pesci del loro mare. Quale potrebbe essere l’entità del danno psicologico collettivo se ciò si verificasse? Che impatto un cambiamento di questo tipo potrebbe avere su scala mondiale? Un numero sempre maggiore di studiosi sta iniziando a porsi domande come queste, che tuttavia non sono purtroppo ancora entrate nella coscienza collettiva.

Sappiamo che l’impatto psicologico di qualsiasi forma di disastro supera di 40:1 i danni fisici e che dal 2000 la frequenza dei cambiamenti climatici, disastri meteorologici correlati è aumentata del 46% (Links, J. 2017). Catastrofi naturali improvvise che determinano morti umane e animali, perdita di risorse, interruzione del supporto sociale e delle reti sociali, migrazioni forzate, possono determinare la comparsa di alterazioni psicopatologiche di varia entità fino al disturbo da stress post-traumatico (PTSD), la depressione, l’ansia generalizzata, l’aumento del rischio suicidario e del consumo di sostanze (Washington: U.S Global Change Research Program, 2016). Si può dunque ipotizzare che in futuro, quando la frequenza di eventi climatici estremi aumenterà ulteriormente a causa del surriscaldamento globale, aumenteranno anche le persone che, a causa di disastri naturali, sperimenteranno conseguenze sulla salute mentale.

La nostra zona geografica sta iniziando solo recentemente ad entrare in contatto con gli effetti diretti del cambiamento climatico tramite incendi, ondate di calore o alluvioni, ma ancora è troppo presto per valutarne l’impatto psicologico diretto. Ciò che inizia ad essere oggettivabile è l’effetto psicosociale rappresentato dalla preoccupazione per ciò che sta accadendo ma soprattutto per ciò che avverrà. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) stima un aumento di 250.000 morti in eccesso all’anno tra il 2030 e il 2050 a causa dell’impatto del cambiamento climatico” (Watts, N., Adger, W. N., Agnolucci, et al. 2015). Già considerando questo, risulta evidente il senso di angoscia e di impotenza che questo argomento provoca.

L’eco-ansia

Nonostante la letteratura scientifica sia ancora poco attenta alla correlazione tra cambiamento climatico e salute mentale, sono stati coniati alcuni termini per definire le reazioni psicologiche al Climate Change, il più diffuso ed utilizzato dei quali è eco-ansia, definita dall’American Psychological Association (APA) una “paura cronica della rovina ambientale” (Schreiber,  M. Marzo 2021). Quando parliamo di ansia ci riferiamo ad un sentimento proiettato verso un futuro idealizzato in modo irrealisticamente ed eccessivamente catastrofico. Il cambiamento climatico invece è una minaccia reale che non è solo futura ma anche passata e presente. È un nemico strisciante che accompagna le nostre vite mettendoci in una condizione di costante allerta. Difficile è anche la gestione: non è possibile distrarsi poiché il problema è reale, persistente ed ubiquitario. Molti rispondono cambiando il loro stile di vita partendo dalla assunzione di comportamenti pro-ambientali, che richiedono sforzi importanti e non danno effetti tangibili, fino ad arrivare a vari gradi di attivismo, che genera spesso isolamento, discriminazione, incomprensione, senso di solitudine e rabbia. I soggetti maggiormente esposti sono i giovani poiché sono i più informati e coloro che hanno più futuro da vivere di tutti. Negli adolescenti, confrontarsi con l’idea di un futuro instabile e imprevedibile, perché stravolto dai devastanti effetti del cambiamento climatico, può rendere più complesso il processo di costruzione di una propria identità, dato che tale identità non è più coerente alla propria origine e tradizione geoclimatica, ma contraddistinta da un senso di incertezza e paura del destino proprio, dei propri cari e delle sorti del mondo intero.

Affrontare l’eco-ansia: tra adattività del sintomo e terapia

Come si cura l’eco-ansia? Il tema è oggetto di dibattito. Se partiamo dal presupposto che questo tipo di ansia è innescata da una minaccia reale, essa può essere intesa come un fenomeno fisiologico che ha pertanto una valenza evoluzionistica e protettiva che non deve essere curata bensì favorita. Dall’altra parte dobbiamo anche contare che uno stato di attivazione continuo accompagnato da un senso di impotenza e catastrofismo possano ripercuotersi sulla salute mentale a lungo termine. L’approccio psicologico all’eco-ansia deve considerare due aspetti distinti. Da una parte deve occuparsi di validare ed accogliere le preoccupazioni, utilizzandole dall’altra per spingere l’assistito ad attuare comportamenti proattivi che possano implementare il senso di efficacia e di utilità alla causa. Gli aspetti da favorire sono le condotte pro-ambientali, la partecipazione in attività ecologiche autonome o promosse da associazioni, l’impegno nella divulgazione di informazioni atta ad aumentare la consapevolezza collettiva ed infine la partecipazione a gruppi, che può aiutare a trovare persone con cui condividere le preoccupazioni climatiche. Dall’altra parte gli operatori dovranno gestire le preoccupazioni quando esse diventano eccessivamente invalidanti, incoraggiando la distrazione su altri argomenti, rassicurando, cercando di distogliere il pensiero della persona dalle immagini catastrofiche, facendola concentrare su ciò che di bello la natura ancora riesce ad offrire e stimolando il contatto con essa. Invitare gli assistiti a coltivare ed implementare il rapporto con la natura, proponendo attività sportive in essa, aumentando il contatto con gli animali, o praticando giardinaggio. Tutti questi sono esempi di attività che possono favorire il benessere del soggetto affetto da eco-ansia. Il cambiamento climatico sta gradualmente diventando un fattore centrale in tutti i settori della società moderna e presto diverrà permeante gli aspetti della salute, compresa quella mentale. L’eco-ansia non è stata ancora inserita nel DSM né riconosciuta come patologia psichiatrica ed attualmente è esclusivamente ritenuta un’aggravante in grado di peggiorare disturbi già esistenti (ad esempio ansia e depressione). Riteniamo però che nei prossimi anni, con l’aumentare in frequenza ed intensità degli eventi climatici avversi e delle loro gravi conseguenze, potrà assumere una rilevanza psicologica sociale anche maggiore. Pertanto, conoscere le cause, i meccanismi e le eventuali cure diventerà centrale nella nostra professione.

 

Sviluppo dell’identità e videogiochi online durante la pandemia COVID-19. Quali rischi?

Negli ultimi decenni l’utilizzo dei videogiochi è costantemente aumentato tra bambini e adolescenti; seppur abbiano dimostrato di essere validi strumenti in grado di favorire l’apprendimento, le ricerche sui loro effetti sulla salute sono ancora in corso di attuazione.

Concetta Bellomo –  OPEN SCHOOL, Psicoterapia e Scienze Cognitive Genova

 

La pandemia COVID-19 ha sicuramente favorito lo sviluppo dei rischi associati ai videogiochi, infatti secondo il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia (UNICEF), milioni di bambini sono attualmente esposti ai crescenti rischi associati al mondo virtuale.

Il gioco e la cultura

Ogni essere umano nasce all’interno di un contesto sociale al quale deve adattarsi, fa esperienza di relazioni con altre persone in grado di arricchire e dare significato alla propria vita. Tramite il gioco i bambini possono, oltre che acquisire abilità specifiche importanti per la loro cultura di appartenenza, imparare a comprendere regole e ruoli sociali adeguando il proprio comportamento. Il filosofo tedesco Karl Groos (1898, 1901), fu tra i primi ad analizzare il gioco infantile secondo una prospettiva darwiniana dell’evoluzione, sostenendo come questo sia comune anche tra i piccoli di mammiferi e utile ai fini della sopravvivenza a alla riproduzione.

Nella prospettiva dell’antropologo Johan Huizinga (1944), il gioco veniva considerato come fondamentale per l’organizzazione sociale, “la civiltà umana si sviluppa e sorge nel gioco, come gioco“. La guerra, l’arte, la religione e le scienze, sono nate e si sono sviluppate come esperienze ludiche, emergono e sono vissute dai soggetti prima ancora della loro costruzione identitaria e della comprensione della realtà.

L’era del videogioco

L’introduzione delle nuove tecnologie ha rappresentato importanti punti di svolta ed instaurato profondi cambiamenti nelle società, cambiando stili di vita e modificando modalità comunicative. I nuovi dispositivi tecnologici si sono diffusi a livello globale con una rapidità senza precedenti, creando divari all’interno delle diverse società sempre più evidenti, si pensi ad esempio ai paesi sottosviluppati. Si è passati dunque, a un nuovo concetto di gioco, che si è configurato nella possibilità di raggiungere sempre più utenti in diversi parti del mondo.

Vi è però una differenza sostanziale tra gioco e videogioco, il videogioco raggiunge livelli di coinvolgimento maggiori per cui si arriva a sostenere che

chi interagisce con i videogiochi vive […] immerso in una realtà che ha tutti i connotati di una realtà tradizionale, non secolarizzata, con alcuni dei principali caratteri magico-religiosi che la contraddistinguono (Pecchinenda, 2003, p. 120).

Nei videogiochi si partecipa tramite un processo di identificazione con un uno diverso da sé, portando a sperimentare oltre che a costruire un’identità.

La psicologia moderna non riconosce l’idea di un Sé chiuso, oggi diverse prospettive come la psicologia discorsiva e della comunicazione (Billing,1987; Mininni, 1995), la psicologia dell’educazione (Bruner, 1988), la psicologia sociale (Serino, 2001) e la psicologia culturale (Cole, 2004) concordano che è fondamentale l’incontro con il mondo esterno, l’altro e con gli strumenti utilizzati.

Rischi e opportunità

I bambini delle ultime generazioni, nati a partire dagli anni 80’ interagiscono con i coetanei molto spesso ma sono cambiati gli spazi e le opportunità di socializzazione, rispecchiando i cambiamenti nella sfera sociale; si pensi al tasso di crescita che è notevolmente diminuito. Dimezzando le nascite, in media molte famiglie hanno un solo figlio, dunque limitando l’interazione con fratelli, cugini e altri adulti all’interno della rete parentale.

Gli spazi esterni sono carenti o inadeguati e gli adulti appaiono preoccupati a lasciarvi i bambini. Si è mutata la concezione del bambino, tutelato come un bene prezioso.

Secondo Satta (2017), gioco e svago si sono configurati come pari all’importanza sociale e a quella scolastica. Se da un lato il bambino è in grado costruire rapporti e di interagire con gli altri proprio come nel passato, in alcuni casi ciò può contribuire alla perdita di competenze relazionali con il rischio di non acquisire un adeguato sistema di autoregolazione come ad esempio può non svilupparsi appieno la tolleranza alla frustrazione (Venuti, 2017).

Durante la pandemia COVID-19, questi spazi di socializzazione sono sempre più venuti a mancare limitando ancora di più i contesti di socializzazione.

La socialità dei bambini è cambiata e continua ad evolversi in una direzione mediata dagli adulti. La strutturazione della personalità dipende dal grado in cui il bambino mostra libertà di espressione e di sperimentare se stesso all’interno del mondo in cui vive.

Gli effetti sulla prevalenza dell’uso di videogiochi durante la pandemia COVID-19 è stata analizzata in un recente studio (De Pasquale, C.; Chiappedi, M.; Sciacca, F.; Martinelli, V.; Hichy, Z. 2021), condotto su un campione di bambini italiani.

Sono stati indagati i sintomi di ansia di stato e di tratto e il possibile aumento legato alla pandemia COVID-19 in associazione all’uso di videogiochi. Il campione era formato da 162 bambini tra gli 8 e i 10 anni, a cui è stata somministrata la Scala di dipendenza da videogiochi per bambini (VASC), il test di Ansia e depressione (TAD) e il misuratore di ansia dei bambini – Stato (CAM-S).

I risultati mostravano come l’ansia di stato costituiva un fattore di rischio all’utilizzo problematico dei videogiochi; è emerso dunque quanto sia importante monitorare i sintomi dell’ansia e la loro intensità come strategia preventiva.

Le conseguenze dell’uso dei videogiochi online dipendono dalla frequenza e dalla durata di esposizione. Studi più recenti (Zhang, et al., 2021) dimostrano come l’esposizione a videogiochi violenti possa comunque favorire la messa in atto di agiti aggressivi soprattutto nei maschi. Mentre è stato dimostrato (Yousef, et al., 2014; De Pasquale, et al.,2018) come l’eccessivo e il compulsivo uso di videogiochi può contribuire alla manifestazione di difficoltà di attenzione, comportamenti aggressivi, criminalità e problemi sociali.

La dipendenza da videogiochi online condivide molti elementi della dipendenza da sostanze, dalla variazione dei circuiti neurotrasmettitoriali (alterazione del sistema dopaminergico legato al rinforzo) alle alterazioni comportamentali (controllo degli impulsi, inibizione e controllo cognitivo).

Per valutare l’effetto dei videogiochi sui bambini, secondo alcuni studiosi (Van Rooij, A.J.; Schoenmakers, T.M.; van de Mheen, D.; 2017), occorre valutare la quantità di tempo trascorso a giocare (senza alcuna pausa), il contenuto del videogioco, il contesto di gioco, la struttura del gioco e le meccaniche di gioco. I videogiochi possono portare a comportamenti non salutari, tra cui uno stile di vita sedentario (rischio di sviluppo di sovrappeso), una riduzione del tempo dedicato all’apprendimento scolastico con conseguente mancanza di concentrazione nello svolgimento dei compiti scolastici.

Conclusioni

È evidente che gran parte della ricerca scientifica si è concentrata nell’individuare i possibili effetti negativi dei videogiochi online.

Recentemente, l’indagine si sta dirigendo anche verso uno studio degli effetti positivi del gioco online (Dwairej, et al., 2020; Del Rio, et al., 2019; Travers, et al., 2018; Ghanouni et al., 2020; Bioulac. et al., 2018), i dati riscontrati evidenziano infatti, come possono esser utili alla distrazione dell’ansia preoperatoria o nel trattamento motivazionale dell’obesità, nei casi di autismo e di disturbi psichiatrici.

Appare come fondamentale un contributo in termini di prevenzione, che deve esser fornito a partire dall’ambito scolastico attraverso maggiore promozione all’educazione digitale e ad una collaborazione delle famiglie nel definire le regole del gioco in termini di durata e di accesso ai dispositivi, oltre che monitorare i sintomi dell’ansia e l’intensità con cui può manifestarsi.

L’era digitale ha portato con sé cambiamenti nello stile di vita coinvolgendo indifferentemente adulti, bambini ed anziani. I cambiamenti sono stati veloci e spesso i loro effetti non sempre sono stati prevedibili nel tempo.

Oggi, è chiaro però che, attraversando alcune fasi del ciclo di vita (infanzia, adolescenza, età adulta e vecchiaia), inevitabilmente si attraversano possibili criticità, spesso la presenza di alcuni fattori di vulnerabilità personologica può sfociare in tentativi di evitamento sociale. Gli effetti di questi comportamenti espongono a una maggiore predisposizione a sviluppare comportamenti di addiction.

Se da un lato l’espressione del gioco è stata culturalmente fondamentale nella costruzione della società, oggi come tale andrebbe riconosciuta, monitorata e salvaguardata in tutte le sue forme, senza però trascurare il ruolo dei genitori in primis e degli insegnanti/educatori nel loro accesso e mediazione.

 

Trauma cranico: valutazione e intervento psicologico

Per effettuare una valutazione clinica del trauma cranico vengono considerati vari elementi, tra i quali: età, reattività motoria, agitazione psicomotoria, riflessi del tronco cerebrale, profondità e durata del coma, sindrome di Kluver-Bucy e durata dell’amnesia post traumatica.

 

Il Trauma cranico-encefalico (TCE) è causato da un impatto sul cranio di forza sufficiente per causare danni al cervello, indipendentemente dalla presenza di lesioni immediatamente obiettivabili, i cui esiti variano di paziente in paziente: è possibile riscontrare problemi motori, deficit di memoriadisturbi dell’umore e del comportamento, deficit di attenzione o disturbi del linguaggio (Lunardi & Ghetti, 2009).

La principale causa è determinata dagli incidenti stradali, tranne che nell’infanzia e nell’età avanzata, in cui le cause più frequenti sono le cadute accidentali e gli incidenti domestici.

I gravi traumi cranici, in particolare quelli causati da incidenti stradali, rappresentano la prima causa di disabilità nella popolazione giovane (15-35 anni). Soprattutto nei paesi industrializzati i traumi della strada si presentano come la prima causa di morte sotto i 40 anni e in Europa i traumi cranici sono responsabili di più anni di disabilità rispetto a qualsiasi altra causa (Jennett & Frankowski, 1990; Maas, Stocchetti, Bullock, 2008).

I sopravvissuti possono riportare deficit neurologici e neuropsicologici, con una complessa combinazione di effetti immediati e ritardati e di lesioni focali e diffuse, pertanto la mortalità legata agli incidenti stradali rappresenta soltanto uno dei molti aspetti da considerare: il peso socio-sanitario della morbosità e dell’invalidità associate a questi eventi è rilevante e in gran parte legato a traumi cranici evitabili mediante l’utilizzo di dispositivi di sicurezza, come casco e cintura di sicurezza (Formisano et al., 2001).

Le fasi principali

La fase acuta, il periodo immediatamente successivo alla fase di emergenza, permane fino alla stabilizzazione delle condizioni generali. Pertanto, è necessaria un’ospedalizzazione con ricovero in un reparto di cure intensive, al fine di ristabilire i parametri vitali del paziente limitando i possibili danni ed evitando eventuali complicazioni.

Nella fase post-acuta inizia l’attività di riabilitazione, in un primo momento durante l’ospedalizzazione  e successivamente aiutando il paziente a confrontarsi con attività quotidiane più complesse, coinvolgendo anche i caregivers, ossia le persone che si prenderanno cura del paziente.

La fase degli esiti è finalizzata al reinserimento sociale e familiare del paziente o al trasferimento in strutture specializzate.

Valutazione

Tra gli strumenti utilizzabili per la valutazione del trauma cranico vi è una distinzione tra quelli più indicati a un paziente in fase acuta o in fase riabilitativa.

In fase acuta possiamo utilizzare la tomografia computerizzata (TC) e la risonanza magnetica nucleare (RMN): la prima è un esame neuroradiologico con cui evidenziare lesioni emorragiche e discriminare precocemente casi con indicazione neurochirurgica, mentre la seconda dimostra edemi cerebrali più precocemente (Formisano et al., 2001).

Al fine di effettuare una valutazione clinica vengono considerati vari elementi, tra i quali: età, reattività motoria, agitazione psicomotoria, riflessi del tronco cerebrale, profondità e durata del coma, sindrome di Kluver-Bucy e durata dell’amnesia post traumatica. Ciascuno di questi aspetti citati costituisce un importante fattore prognostico (Formisano et al., 2001).

Le scale di valutazione maggiormente utilizzate nel trauma cranico includono le scale per il coma della fase acuta e le scale di outcome per la valutazione degli esiti.

La scala di valutazione della gravità del coma più diffusa è la Glasgow Coma Scale (GCS), in cui si assegna un valore numerico a tre segni clinici, ossia apertura degli occhi, risposta motoria e verbale, consentendo di formulare un giudizio prognostico.

Sulla base del punteggio ottenuto in questa scala i traumi cranici sono classificati in: traumi cranici lievi (GCS 14-15), traumi cranici moderati (GCS 9-13), traumi cranici gravi (GCS 3-8) (Sangiovanni et al., 2003; Lunardi & Ghetti, 2009).

Nello stato di coscienza minima, in cui il paziente è capace di eseguire ordini semplici in maniera incostante e fluttuante, si possono utilizzare alcuni strumenti standardizzati (Formisano et al., 2001), come Western Neurosensory Stimulation Profile (Ansell & Keenan, 1989) e Coma Recovery Scale (Giacino et al., 1991). Il primo, una misura affidabile e valida della funzione cognitiva, è formato da 32 items che valutano l’arousal/attenzione dei pazienti, la comunicazione espressiva e la risposta alla stimolazione uditiva, visiva, tattile e olfattiva (Ansell & Keenan, 1989). La Coma Recovery Scale, descritta inizialmente da Giacino et al. (1991), consiste in 25 items che comprendono 6 sottoscale per i processi uditivi, visivi, motori, oromotori, di comunicazione e arousal, con un punteggio dato dalla presenza o assenza di specifiche risposte comportamentali a stimoli somministrati in maniera standardizzata (Giacino, Kalmar, Whyte, 2004).

Tra le scale di valutazione degli esiti a distanza del trauma cranico, la più diffusa è la Glasgow Outcome Scale (GOS). Il punteggio va da 1 a 5, dove il massimo indica un buon recupero, ossia il paziente è in grado di riprendere le attività quotidiane sia lavorative che sociali (Formisano et al., 2001). Tra i vantaggi di tale strumento abbiamo la semplicità, la presenza di versioni sia per bambini che per adulti e la possibilità di somministrarlo in vari modi, ossia mediante un’intervista faccia a faccia o telefonica, per mail e in condizioni di ricovero (utilizzando una versione modificata) (McMillan et al., 2016).

Intervento psicologico

Lo psicologo durante il colloquio indaga i vari aspetti relativi alla consapevolezza, all’orientamento, alla dimensione cognitiva, sensoriale ed emotiva del paziente. Inoltre, il professionista pone attenzione ai comportamenti connessi alla “Sindrome frontale”, frequente in seguito a un trauma cranico.

Per quanto possibile, al paziente ed ai familiari si forniscono informazioni riguardanti le finalità e le modalità dell’approccio psicologico e neuropsicologico.

È importante trattare anche i problemi psicologici emersi durante la riabilitazione neuropsicologica, che possono essere tipicamente connessi agli esiti del trauma cranico, reattivi allo stato di malattia o legati a disturbi e/o situazioni conflittuali premorbose (Callegari et al., 2004).

 

La moglie di Darwin. L’arte di prendere decisioni lungimiranti (2021) di Steven Johnson – Recensione del libro

La moglie di Darwin. L’arte di prendere decisioni lungimiranti, titolo intrigante, che ci porta immediatamente nel cuore del tema centrale del libro, ossia i processi decisionali della nostra mente.

 

La nota a mio avviso più originale del testo risiede nell’aver citato variegate situazioni, da quelle meno note a tutti noi tra le quali, ad esempio, come Darwin giunse alla scelta di sposarsi, il trasferimento per la malattia della figlia… a situazioni invece più note all’ampio pubblico e di fama mondiale come ad esempio sviluppare la giusta strategia per la cattura di Bin Laden e non solo.

Le situazioni citate nel testo non si esauriscono a quelle sopra esposte e vengono dettagliatamente riprese e descritte dall’autore al fine di approfondire i diversi meccanismi mentali coinvolti nei diversi processi decisionali estesi ai vari settori di vita dell’uomo come ad esempio famiglia, lavoro, vita sociale, scelte politiche, scelte finanziarie.

Non un testo specialistico ma un libro divulgativo sull’arte di prendere decisioni lungimiranti!

I vari processi decisionali coinvolti vengono distribuiti nei capitoli del testo, ma vediamone sinteticamente alcuni, iniziamo con la costruzione di mappe mentali

Questo può avvenire in modo più astratto oppure concretamente studiando e rappresentandoci ad esempio soggetti coinvolti nella situazione e le possibili variabili in gioco. Ma mappare è solo un punto di partenza, all’interno del quale la nostra mente gravita e viaggia alla ricerca di “ancore” o elementi a cui appigliarsi in sintonia con i propri valori.

L’autore ci riporta non soltanto spiegazioni ma anche dei suggerimenti utili per favorire un processo decisionale più funzionale, efficace ed efficiente.

Uno di questi è il diagramma di influenza. Secondo l’autore, e non soltanto, infatti rappresentare graficamente una scelta o delle decisioni difficili potrebbe aiutare a ridurre la complessità dell’operazione.

Altro aspetto utile, la varietà, ossia riuscire ad osservare le situazioni da punti di vista differenti.

Sempre l’autore ci mette in guardia però da possibili trappole della nostra mente come il sopravvalutare e/o il sottovalutare e, come per i metereologi, una buona strategia sarebbe quella di contemplare anche un cono di incertezza per poter cogliere anche possibili incognite o informazioni altamente utili trascurate.

Quindi non soltanto dovremmo muoverci alla ricerca di certezze ma anche di dubbi, perché è grazie a quest’ultimi che possiamo aprirci al nuovo.

Altro aspetto messo in luce è la capacità della nostra mente di prevedere eventi futuri. Tale abilità a volte può avere effetti positivi nelle nostre scelte e decisioni così come essere un elemento interferente. Per ogni aspetto e processo sopra citato, l’autore ne offre una dettagliata spiegazione ed esempi tratti da aneddoti più o meno famosi avvenuti nel mondo.

Ed ancora l’uso del gioco per la scelta delle tattiche militari, creare ed elaborare scenari, simulare… ma tutto ciò non equivale ancora a decidere, spiega l’autore.

E ritorniamo ad un aspetto essenziale già individuato da Vicktor Franklin, ossia il valutare costi e benefici delle nostre eventuali scelte/non scelte e soprattutto che le stesse siano in sintonia con i nostri valori.

Ma nella storia dell’uomo ed anche nella storia di ciascuno di noi, sono state sempre prese scelte utili e funzionali?

Purtroppo no! E poi la scienza e la tecnologia… siamo sempre in grado di utilizzarle a nostro vantaggio?

Il giornalista e scrittore statunitense Steven Johnson, autore del libro in questione, mette in luce dunque come il prendere decisioni sia un’arte che può essere allenata, sviluppata, ed il suo testo risulta un interessante suggerimento in tal senso, ma non solo. Un testo che fornisce tante interessanti spiegazioni ma anche spazi di riflessione.

 

Stile genitoriale elicottero e adattamento universitario nei figli

Una maggiore genitorialità elicottero si associa a sintomi depressivi e ad una minore autoefficacia tra i giovani adulti, che a loro volta comportano livelli inferiori di adattamento accademico e sociale all’università.

 

Rispetto al passato, la transizione verso l’età adulta ed il raggiungimento di una piena indipendenza economica ed emotiva dalla propria famiglia di origine, avviene in tempi più dilazionati (Furstenberg, 2015).

Anche il controllo e coinvolgimento genitoriale, essenziale nelle fasi precoci dello sviluppo per l’adattamento cognitivo, sociale ed emotivo del bambino (Pomerantz et al., 2007), può permanere fino al raggiungimento della tarda adolescenza e durante il periodo universitario. In questa fase, che richiede una crescita dell’autonomia e della fiducia in sé, con una solida genitorialità sullo sfondo (Furstenberg, 2015), genitori eccessivamente coinvolti possono portare ad esiti negativi, come depressione e ansia (Creswell et al., 2008; Gibbs, 2009; Lemoyne & Buchanan, 2011), vulnerabilità e incompetenza di fronte a fattori di stress (Gibbs, 2009).

La percezione del proprio figlio vulnerabile, aumenterà il coinvolgimento per prevenire qualsiasi forma di disagio (Creswell et al., 2008), anche se tale intrusività finirà per ostacolare lo sviluppo di meccanismi di coping, sottraendo al giovane studente il controllo sulla propria vita (Schiffrin et al., 2014) ed alimentando lo stress percepito (Segrin et al., 2013).

Questo stile è noto come helicopter parenting (genitori elicottero), che rimanda al librarsi dei genitori sui propri figli, assumendosi la responsabilità delle loro decisioni e risolvendo i loro problemi (Lemoyne & Buchanan, 2011).

I genitori elicottero combinano unicamente stili genitoriali comuni: alto calore, sostegno e reattività (tipiche dei genitori autorevoli), alto controllo e bassa autonomia (Padilla-Walker & Nelson, 2012).

Sebbene la preoccupazione verso le capacità dei propri figli di raggiungere un buon adattamento nella vita sia comune, i genitori elicottero sentono il bisogno di accollarsi i compiti dei loro figli, per garantire loro il successo (Lemoyne & Buchanan, 2011).

Rilevante nel determinare gli esiti di sviluppo, è il grado in cui fin da bambini viene accolto questo tipo di coinvolgimento. Mentre alcuni figli di genitori elicottero riportano una minore soddisfazione verso la vita familiare (Segrin et al., 2012), in altri casi si ha una percezione del genitore come emotivamente solidale (Padilla-Walker & Nelson, 2012).

In questo clima di crescita, i giovani adulti verranno ostacolati nell’indipendenza e autonomia. Un alto grado di indipendenza promosso dai genitori, così come lo stabilirsi di un rapporto basato sulla reciprocità, aiutano nell’adattamento all’università (Klein & Pierce, 2009), mentre l’overparenting comporta bassi livelli di autoregolazione, bassa impostazione di obiettivi (Hong et al., 2015) e scarsa autoefficacia (Bradley-Geist & Olson-Buchanan, 2014).

Questa mancanza di controllo, di autonomia e di fiducia in sé, può comportare problemi nell’adattamento sociale degli studenti al college: difficoltà a relazionarsi con compagni, ad impegnarsi in attività extracurriculari (Klein & Pierce, 2009), allontanamento dai coetanei per un senso di alienazione e scarsa di fiducia nei pari (Van Ingen et al., 2015).

Per spiegare in che modo la genitorialità elicottero induce esiti negativi tra gli studenti universitari, si può impiegare la teoria dell’autodeterminazione (Deci & Ryan, 2008). Gli autori identificano tre bisogni critici per uno sviluppo e funzionamento ottimali: (1) il bisogno fondamentale di autonomia (2) il bisogno di competenza, o fiducia nelle proprie capacità, e (3) il bisogno di relazione, ovvero sentirsi parte di relazioni premurose. Queste tre componenti si associano a bassi livelli di depressione (Wei et al., 2005) e maggiore soddisfazione di vita (Meyer et al., 2007). Tuttavia, se assenti, come conseguenza della genitorialità elicottero, può emergere disagio psicologico e scarso adattamento tra gli studenti universitari.

Sebbene diverse ricerche abbiano indagato la relazione tra genitorialità eccessivamente coinvolta e benessere degli studenti universitari, poche si sono occupate di indagare le implicazioni per l’adattamento sociale e accademico.

Darlow et al. (2017), hanno analizzato lo stile genitoriale elicottero per verificare se avrebbe condotto a livelli più alti di depressione, ansia e livelli più bassi di autoefficacia, influenzando negativamente l’adattamento degli studenti al college. È stato esaminato anche il grado di preferenza o obiezione degli studenti verso tale coinvolgimento genitoriale.

Gli autori hanno riscontrato che una maggiore genitorialità elicottero si associa a sintomi depressivi e ad una minore autoefficacia tra i giovani adulti, che a loro volta comportano livelli inferiori di adattamento accademico e sociale all’università.

Come ipotizzato dalla teoria dell’autodeterminazione (Deci & Ryan, 2008), il ruolo dell’autoefficacia nell’adattamento è essenziale, poiché rimanda ad un bisogno di base dello studente, quello di competenza.

Secondo i risultati, gli studenti che segnalavano uno stile genitoriale controllante e protettivo,  tendevano maggiormente a rifiutarlo, poiché lo percepivano come profondamente impattante sul loro senso di autonomia, coerentemente con la teoria dell’autodeterminazione.

È importante evidenziare che gli esiti dell’iper-coinvolgimento erano in contrasto con l’intenzione originaria dei genitori di favorire il successo nella prole, poiché impattavano negativamente sulla loro salute mentale.

Complessivamente, questi risultati possono essere spiegati considerando il costrutto della mentalità, condizionata dai messaggi diretti e indiretti che da sempre i genitori inviano durante le interazioni (Dweck, 2015). Mentre gli studenti orientati alla crescita, percepiscono l’intelligenza come malleabile e perseguono maggiormente le sfide valorizzando lo sforzo, quelli con una mentalità più fissa considerano l’intelligenza immutabile e si arrenderanno con più probabilità di fronte alle difficoltà (Rattan et al., 2015)

Involontariamente, i genitori elicottero avrebbero trasmesso il messaggio che il loro controllo ed intervento sono necessari, poiché vanno a sopperire gli sforzi non sufficienti dei figli. Ciò potrebbe alimentare sentimenti di depressione e ansia nella prole (Dweck, 2015), associati ad una mentalità più fissa e remissiva, diminuzione dell’autoefficacia e conseguente minore adattamento e rendimento all’università.

Concludendo, lo stile genitoriale o, probabilmente, la sua percezione nei figli, condiziona fortemente gli esiti di salute mentale e l’adattamento successivo.

Gli studenti beneficerebbero di interventi volti a promuovere una mentalità di crescita e a sostegno della loro competenza e autonomia, per favorire, nonostante la genitorialità di sfondo particolarmente coinvolta, il successo accademico.

 

Adolescenza: quali reazioni alla pandemia – VIDEO del webinar

Video dal webinar Adolescenza: quali reazioni alla pandemia, organizzato dal centro clinico Studi Cognitivi L’Aquila e condotto dalla Dott.ssa Julianita Anselmini

 

Il Centro Clinico Studi Cognitivi L’Aquila ha organizzato un interessante webinar che ha affrontato il tema dell’adolescenza in relazione alla pandemia di Covid-19. Dalla clinica si è osservato un aumento della sintomatologia psicologica e in particolare delle condotte autolesive a causa di una diminuita, o talvolta assente, interazione con i pari.

Pubblichiamo oggi, per i nostri lettori, il video del webinar.

 

ADOLESCENZA: QUALI REAZIONI ALLA PANDEMIA

Guarda il video del webinar:

 

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Disturbo Borderline di Personalità: sentirsi “vuoti dentro”

Il Disturbo Borderline di Personalità (DBP), per molto tempo e fino a qualche decennio fa, non aveva ricevuto una dignità nosografica precisa a causa di un nome ingannevole proveniente da un’oscura tradizione psicoanalitica.

 

Il quadro clinico sembrava, infatti, non rientrare né nella classe diagnostica delle nevrosi (disturbo psichico più o meno grave) né delle psicosi (i disturbi mentali più gravi, come la schizofrenia), pur mostrando sintomi comuni ad entrambe mantenendosi “al limite tra la normalità e la follia” (Huges, 1884).

Zanarini e colleghi (1990) hanno tentato di definire, attraverso specifici termini operativi e diagnostici, il DBP con caratteristiche che, ad oggi, sono state incorporate nella classificazione dei criteri diagnostici del DBP della quinta edizione revisionata del DSM (APA,2013), con descrizioni più corpose ed articolate del quadro clinico.

Coloro che ricevono diagnosi di DBP presentano un quadro psicopatologico complesso caratterizzato da un pattern pervasivo di instabilità delle relazioni interpersonali, dell’immagine di sé e dell’umore e una marcata impulsività, che inizia nella prima età adulta ed è presente in svariati contesti (APA, 2013).

Un’ampia mole di ricerche scientifiche sui criteri diagnostici del DBP ha esplorato la dimensione psicopatologica dell’impulsività, (Gunderson et al., 2018; Moeller et al., 2001;Sharma et al., 2014), dell’instabilità affettiva (Putnam&Silk, 2005; Koenigsberg, 2010) il rischio suicidario e le condotte autolesive (Brown, 2001; Oumaya et al., 2008; Sher et al., 2016). Al contrario, ad oggi, il “sentimento cronico di vuoto” riportato nel criterio numero 7 del DBP (APA,2013), risulta essere una dimensione poco indagata in letteratura (Millet et al., 2020) nonostante sia uno dei criteri principali che permette di effettuare diagnosi di DBP, presente nel 71-73% dei pazienti con diagnosi di DBP se confrontati con il 26-34% di soggetti psichiatrici senza DBP (Grillo et al., 2001; Johansen et al., 2004). Da una revisione sistematica di letteratura del 2020 (Miller et al., 2020) emerge che la ridotta mole di studi sembrerebbe giustificata dal fatto che:

  • È difficile dare una definizione clinica precisa e valutare il costrutto psicologico di vuoto inteso come “assenza di esperienza”
  • Non è semplice distinguerlo da altri costrutti psicologici noti con i termini anglosassoni di “hopelesness”, “loneliness” o “boredom” (Blasco-Fontecilla et al., 2013; Klonsky, 2008)

Il sentimento di vuoto come caratteristica del DBP

Come affermato poco sopra, il vuoto è tra gli aspetti mentali più complessi da descrivere poiché per sua definizione indica qualcosa che non c’è, ossia assenza di esperienza e di vitalità. È una condizione trans-diagnostica a diversi quadri psicopatologici, riscontrabile, ad esempio, nel Disturbo Narcisistico di Personalità (Kernberg, 1985), nel Disturbo Depressivo Maggiore (Villarroel& Terlizzi, 2020; Klonsky, 2008), nei Disturbi della Nutrizione e dell’Alimentazione (Levine, 2012), nei Disturbi d’Ansia (Mann, Laitman, & Davis, 1989), nella Schizofrenia (Zanderson&Parnas, 2018) e in alcuni stati dissociativi (Rallis, Deming, Glenn, &Nock, 2012). Ricerche preliminari suggeriscono, inoltre, che il vuoto è associato ad una serie di condotte, tra cui comportamenti autolesivi, tentativi di suicidio, abuso di sostanze psicoattive, comportamenti sessuali compulsivi (Bandelow, Schmahl, Falkai, & Wedekind, 2010; Ellison et al., 2016; Klonsky, 2008; Roos, Kirouac, Pearson, Fink, &Witkiewitz, 2015). Ciononostante, il vuoto, pur essendo una dimensione che caratterizza il DBP, trans-diagnostico a diverse condizioni psicopatologiche, soltanto nel DBP viene riportato come criterio diagnostico nel DSM-5 e, quindi, come elemento centrale e caratterizzante del quadro clinico.

Cos’è lo stato di “vuoto interiore”?

Gunderson (2008) ha definito il vuoto come “una sensazione viscerale, percepita a livello dell’addome o del torace senza apparente motivo, scopo o significato”. I soggetti con DBP riferiscono spesso al terapeuta “mi sento vuoto dentro” e descrivono di avvertire costantemente una profonda sensazione di marasma e apatia, un precipizio esistenziale in cui rischiano di precipitare. In effetti, i pazienti borderline esperiscono frequentemente stati mentali di distacco emotivo e di vuoto che sperimentano nel momento in cui si crea un conflitto tra un sé indegno e un sé intollerabile, che porta ad allontanarsi da tutto e da tutti per entrare in una sorta di anestesia emotiva. Non si tratta né di noia né di angoscia perenne; spesso si percepiscono come scollati dalla realtà ed entrano in uno stato penoso di mancanza di scopi (Carcione et al., 2016). È una condizione pericolosa, in quanto in questi stati è frequente il passaggio all’acting out (Ntshingila et al., 2016), per provocare un’attivazione fisiologica che possa far allontanare la persona da questa penosa mancanza di senso, ricorrendo a comportamenti di tipo impulsivo (abbuffate di cibo, abuso di sostanze psicoattive, comportamenti autolesivi e tentativi di suicidio). L’instabilità che caratterizza il quadro clinico del DBP influenza anche l’identità, conducendo ad una frammentazione del senso di sé. Nello specifico, è frequente nei soggetti con DBP una difficoltà ad autodefinirsi, a mantenere un senso di sé coerente e stabile nel tempo, come dimostrato da improvvisi cambiamenti nei loro obiettivi, valori, opinioni, carriere, o relazioni interpersonali. Si riscontra, dunque, una tendenza instabile anche circa una progettualità di obiettivi a lungo termine. Tale condizione che scaturisce da un’instabilità nell’immagine di sé, si traduce in sensazioni croniche“vuoto” e di “smarrimento” interiore (Manning, 2011).

Come i pazienti borderline definiscono lo stato di “vuoto interiore”?

Il vuoto interiore può avere tuttavia connotazioni diverse fra loro. Da uno studio qualitativo condotto da Elsner e colleghi (Elsner et al., 2017), che indagava, attraverso dei trascritti verbatim, come i pazienti borderline descrivono la loro esperienza soggettiva di “vuoto interiore”, è emerso che le loro descrizioni si dividevano in due macro-aree: esperienze somatiche di vuoto cronico ed esperienze esistenziali di vuoto cronico. Di seguito verranno riportati alcuni esempi:

  • “Ho la sensazione di avere un buco dentro di me che mi attraversa dal petto alla schiena”; “Ho una voragine, un vero vuoto, un vuoto, dove è il mio cuore”; “mi fa male il cuore”; “è come un pozzo o una nuvola nera”; “mi sento un guscio vuoto”; “come un guscio d’uovo senza tuorlo”; “è come avere un vuoto nel cervello”;
  • “Disperazione e nichilismo esistenziale”; “un senso di inutilità”; “c’è sempre qualcosa che manca, Sto cercando qualcosa che non c’è”; “è come se avessi il pilota automatico”; “costante disperazione”; “Sento che mi mancano molte cose che hanno gli altri; “Un’angoscia esistenziale, senza scopo né significato”

La base comune e le differenze tra le dimensioni di “vuoto interiore”, “hopelesness”, “solitudine” e “boredom”

Pochi studi in letteratura hanno indagato la relazione esistente tra queste quattro diverse dimensioni, apparentemente molto simili che rappresentano l’esperienza interiore dei pazienti con DBP (Zanarini et al., 2007). In realtà, una revisione sistematica di letteratura ha messo in luce che il vuoto può essere distinto dagli altri tre costrutti. Gli autori hanno ipotizzato che il sentimento cronico di vuoto è un sentimento di disconnessione tra sé stessi e gli altri, “hopelesness” indica essere disconnessi dal significato della vita, e “loneliness” è un senso di allontanamento dal mondo e un sentimento di intolleranza alla solitudine ed incapacità a rimanere soli (Miller et al.,2020). Tutti i costrutti hanno una base comune, riscontrabile nel senso di disconnessione o di distaccamento, ma rappresentano diversi tipi di disconnessione.

Esistono test psicometrici che misurano il costrutto di “vuoto interiore” nel DBP?

Il criterio diagnostico di vuoto interiore, spesso viene valutato attraverso un singolo item contenuto all’interno delle interviste cliniche, da ciò risulta difficile indagare la vera esperienza di vuoto nei pazienti (Miller et al., 2020). La scala UCLA loneliness (Russell, 1996) misura sia il costrutto di solitudine sia quello di vuoto, ma evidenze scientifiche dimostrano una sostanziale differenza tra le due dimensioni. Il test Orbach and Mikulincer Mental Pain Scale (OMMP) indaga il costrutto di vuoto, definito come la perdita di significato soggettivo e personale a causa del dolore mentale, ma non indaga nello specifico l’esperienza cronica di vuoto nei soggetti con DBP. Recentemente, Price e Colleghi (2019) hanno validato la Subjects Emptiness Scale SES che rappresenta un valido contributo che indaga il costrutto di “vuoto interiore” come transdiagnostico ai diversi disturbi mentali. Secondo Miller e Colleghi, nella validazione del test sono stati inclusi pazienti con diverse diagnosi psichiatriche e non soltanto individui con diagnosi di DBP e, pertanto, sarebbe opportuno validarlo in un campione di soggetti borderline per comprendere la severità nei livelli di “vuoto” esperiti dai pazienti.

Perché è importante definire il “senso di vuoto”?

La condizione di vuoto ha una forte rilevanza clinica dato che in essa si verificano più frequentemente gesti suicidari e atti autolesivi, che possono rappresentare sia l’effetto di uno stato di distacco assoluto dal mondo, sia un modo per evocare tale distacco. I pazienti con diagnosi di DBP con questi atti cercherebbero di intervenire sul loro stato di disregolazione emotiva. Per alcune persone, il dolore inflitto attraverso l’autolesionismo è preferibile alla sensazione di vuoto che si avverte; il dolore rappresenta un qualcosa che sostituisce il niente. Sarebbe interessante che altre ricerche indagassero come i pazienti descrivono verbalmente la sensazione di vuoto interiore che spesso esperiscono. Ciò potrebbe rivelarsi utile per comprenderne la natura, per fornire una definizione chiara ed univoca di “senso di vuoto”, al fine di sviluppare strumenti standardizzati di valutazione in grado di misurare tale variabile. Infine, comprendere cosa i pazienti intendono per “vuoto interiore” potrebbe rivelarsi un elemento utile nella pratica clinica per una buona concettualizzazione del caso, per orientare il trattamento con il paziente con DBP e per avere una maggiore chiarezza circa i vissuti interiori descritti dai pazienti stessi nel corso della terapia.

 

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