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I tic e la Sindrome di Tourette (2021) di Termine, Cavanna e Selvini – Recensione

I tic e la Sindrome di Tourette di Termine, Cavanna e Selvini offre un quadro clinico-epidemiologico di indubbia completezza sulla sindrome di Tourette, cui unisce una corposa descrizione degli aspetti socio-relazionali direttamente implicati nel disturbo.

 

Il risultato è un’opera che, pur tenendo fede ad un inquadramento scientifico rigoroso, si rivolge con lucidità e chiarezza espositiva non soltanto ai professionisti del settore, ma anche ai soggetti direttamente coinvolti dalla patologia, offrendo prospettive di analisi variegate e multiformi.

In apertura ampio spazio viene dedicato alla descrizione di quello che costituisce il focus patologico della sindrome di Tourette, ovvero l’emissione incoercibile e iterativa di tic motori o vocali; nello specifico il tic si presenta come un agito intrusivo e incontrollabile che, allo stesso modo di una compulsione, espone al rischio di un agito inadeguato al contesto, con profonde ricadute in ambito relazionale.

Il paziente agisce il tic ogni volta che ne avverte la necessità, non riuscendo a controllarsi neppure nei casi in cui la condotta ticcosa si esprima a mezzo di ecolalie, ecoprassie o, ancor peggio, di coprolalie.

Nella sintomatologia aspecifica è riscontrabile un deficit delle funzioni esecutive, invalidate da incapacità di organizzazione e integrazione della memoria di lavoro, impossibilità di mantenere un’attenzione selettiva e sostenuta su stimoli esterni e di maturare consapevolezza metacognitiva e controllo degli impulsi. Il richiamo all’ADHD è piuttosto immediato, tanto da richiedere lo stabilimento di criteri diagnostici specifici per effettuare le opportune diagnosi differenziali in riferimento a sindromi che, oltretutto, si presentano spesso in comorbilità.

La sindrome di Tourette mostra significative affinità – sintomatologiche e neurobiologiche- anche con i disturbi dello spettro ossessivo, specie con il DOC: studi di brain imaging hanno messo in evidenzia una disfunzionalità dei gangli della base e della corteccia fronto-striatale in entrambe le patologie, mentre la somiglianza neurobiologica con l’ADHD, altresì presente, è relativa ad un anomalo livello di dopamina e glutammato e ad una perdita dell’asimmetria del globus pallidus.

Attualmente la terapia d’elezione è considerata quella farmacologica, effettuata tramite l’assunzione di antidopaminergici, neurolettici e antipsicotici atipici, utili soprattutto per la remissione dei tic. La prescrizione dei farmaci, destinata ad una categoria di pazienti perlopiù giovane o addirittura in età pediatrica, viene spesso sostituita o integrata con l’utilizzo di programmi rieducativi di matrice cognitivo-comportamentale, aventi la finalità precipua di limitare l’incoercibilità della condotta e il contenimento della pratica massiva. Il riferimento va all’Habit Reversal Training, finalizzato a conferire al paziente una maggiore consapevolezza circa le sensazioni premonitrici del tic, all’ERP, esposizione allo stimolo con prevenzione della risposta, già utilizzato con successo nel DOC, a programmi con approccio di reward system, training di rilassamento, tecniche psicoeducative. Tutti descritti nel testo.

Non manca un riferimento all’impatto sociale della sindrome, di cui vengono messe in evidenza le ricadute, sostanzialmente negative, nei diversi contesti relazionali: l’ansia, la scarsa capacità di autoregolazione, le condotte agite e stereotipate, l’inflessibilità di condotta e l’incapacità adattativa espongono il paziente a vissuti di isolamento, esclusione e rifiuto da parte dei pari.

Ma anche la famiglia può mostrare incapacità di gestione della sindrome e vissuti stressogeni circa la tolleranza della sintomatologia. In particolare l’elevato grado di frequenza e la stereotipia con cui viene agito il tic può rendere difficile l’interazione con il paziente, contribuendo a dar vita ad un circolo vizioso capace soltanto di accrescere il reciproco disagio; questo soprattutto ove si consideri che l’emissione dei tic risulta aggravata da una condizione stressogena che il paziente, proprio attraverso la condotta ticcosa, cerca di controllare.

A tal proposito si sottolinea l’importanza di una genitorialità empatica e affettiva, che sia in grado di limitare l’impatto con la sindrome: aspetti come lo stress, le aspettative disilluse, l’incapacità di spezzare definitivamente il legame idealizzato con il bambino nella mente, per il quale si prospettavano progetti resi irrealizzabili dalla malattia, devono essere piuttosto rielaborate in una direzione assertiva, volta alla costruzione di un vissuto relazionale realistico ed accettante.

In egual modo, in ambito scolastico è richiesta al docente la tenuta di uno stile relazionale-comunicativo equilibrato ed assertivo, in grado di costruire una didattica strutturata con cui trasmettere all’allievo una maggiore consapevolezza del Sé e degli obiettivi da raggiungere. Il tutto, unito all’adozione di un PDP specifico, dovrebbe mostrarsi sufficiente a limitare le ricadute patologiche nel contesto classe e ad evitare “etichette diagnostiche” preclusive del benessere psico-fisico.

Gli autori non tralasciano di analizzare una potenziale rilevanza della malattia in ambito medico-legale, affermando come, in caso di non trattabilità del disturbo, di resistenza al trattamento o di peggioramento delle condizioni, il paziente possa ottenere un certificato di dichiarazione di handicap o di invalidità civile. Questo in una finalità indubbiamente garantista verso i soggetti colpiti, che si vedono così legittimati a ricevere una compensazione, anche patrimoniale, per il detrimento e la limitazione cui la patologia li costringe.

Il concetto di qualità della vita subisce un’innegabile limitazione dall’insorgenza della malattia dei “mille tic”: il testo prova a quantificarne l’entità tramite la somministrazione di una scala, riportata in appendice, e avente come oggetto proprio l’indagine psicometrica della qualità della vita del paziente a ridosso della diagnosi. Si tratta della C&A-GTS-QOL, Gilles de La Tourette Syndrome -Quality of Life Scale for Children and Adolescents, composta da 27 item in scala Likert 1-4, somministrabile in due versioni: una self-report per ragazzi dai 13 ai 18 anni e una etero -somministrata per bambini dai 6 ai 12 anni, entrambe inserite.

Del testo colpiscono la completezza, la versatilità espositiva e la capacità di passare dall’analisi rigorosa di dati scientifici e protocolli terapeutici alla descrizione empatica delle limitazioni socio-relazionali imposte dalla patologia. Il tutto in un linguaggio che, seppur costruito sulla base di una scientificità oggettiva, non manca di comprensibilità e accessibilità semantica.

All’interno di ogni capitolo è sempre la persona a risultare protagonista- si tratti dell’insegnante, del genitore, del paziente, è all’individuo che ci si rivolge principalmente; se ne origina un contesto di analisi soggettivizzante, in cui l’aspetto individuale della sindrome viene privilegiato rispetto a quello clinico-nosologico, pur presente e completo.

Agli autori va il merito di aver coniugato rigore scientifico e finalità empirica in un’opera agile e ampiamente fruibile, il cui fine principale risulta quello di fornire contenuti psicoeducativi attendibili su di una sindrome non ancora sufficientemente nota.

Il risultato è un vademecum completo e versatile, indubbiamente utile per la gestione clinica e relazionale delle varie limitazioni comportate dal disturbo. Nel tentativo, ben raggiunto ad avviso di chi scrive, di stemperarne l’impatto negativo, con un metodo che miri essenzialmente alla terapia e al recupero.

 

Il ruolo della dieta mediterranea nella salute mentale e sui sintomi depressivi

La depressione è uno dei disturbi mentali che provoca maggiore disabilità in termini di anni di vita persi, costituendo un grave onere in tutto il mondo con tremendi esiti personali, psicosociali e finanziari (Vos et al., 2015).

 

La depressione è anche un fattore di rischio rilevante per l’insorgenza di malattie cardiovascolari, (Rudisch & Nemeroff, 2003), ed entrambe le patologie condividono un rischio biologico sottostante costituito da infiammazione (Dowlati et al., 2010), bassi livelli di acidi grassi omega-3 (Frasure-Smith et al., 2004; Sinn & Howe, 2008) e dieta povera.

Comunemente, individui che soffrono di una psicopatologia tendono ad avere una dieta più scarsa ed una minore comprensione del ruolo che riveste lo stile di vita sulla salute e sul benessere mentale (Parletta, Aljeesh, et al., 2016).

La dieta mediterranea, protettiva verso l’insorgenza di patologie cardiovascolari (Nordmann et al., 2011) ed associata ad un minor rischio di depressione (Psaltopoulou et al., 2013), è caratterizzata da un elevato apporto di alimenti vegetali (verdura, frutta, legumi, noci, semi, olive, cereali integrali), olio extra vergine di oliva come principale grasso, moderato apporto di pesce, basso consumo di dolciumi, carni rosse e alimenti elaborati (Bach-Faig et al., 2011).

Cambiare i comportamenti dietetici ormai consolidati nella popolazione è una sfida, soprattutto per alcuni fattori secondari, come una dipendenza da cibi ad alto contenuto di grassi e zuccheri (Johnson & Kenny, 2010). Inoltre le società occidentalizzate promuovono il consumo di cibo d’asporto e ultra-elaborato che, non solo provoca conseguenze disastrose sulla salute, ma influisce sulla possibilità per le persone di trarre benefici dall’intero processo di produzione e consumazione del pasto in contesto conviviale. Con l’incremento delle malattie fisiche e croniche, tornare alle origini promuovendo abilità culinarie e pasti in famiglia, potrebbe essere un approccio potente ai fini preventivi.

Promuovere una dieta mediterranea non apporta unicamente benefici alla salute, ma essendo altamente appetibile, è sostenibile, contribuendo ad uno stile di vita sano nel tempo (Bach-Faig et al., 2011).

Parletta et al. (2019), hanno indagato l’impatto della dieta mediterranea sul miglioramento della salute mentale e qualità della vita in un campione di 152 adulti che soffrivano di sintomi depressivi. Poiché gli individui affetti da psicopatologia tendono ad avere livelli particolarmente bassi di acidi grassi polinsaturi omega-3 (Parletta, Zarnowiecki, et al., 2016), la dieta è stata integrata con olio di pesce.

Gli individui sono stati randomizzati in due gruppi per 3 mesi: uno che seguiva il regime mediterraneo con laboratori di cucina, interventi di educazione nutrizionale ed integrazione con olio di pesce; l’altro, ovvero il gruppo di controllo, che frequentava gruppi sociali, durante i quali venivano forniti cibi meno salutari.

Alla baseline, 3 e 6 mesi dopo sono stati valutati: gli stati emotivi negativi di depressione, ansia e stress (Depression Anxiety Stress Scale), la qualità della vita (Assessment of Quality of Life), le emozioni positive e negative (Positive and Negative Affect Scale), il livello di aderenza alla dieta mediterranea (Mediterranean diet questionnaire), la varietà del consumo di frutta e verdura ed il livello di acidi grassi omega-3.

In tre mesi, i soggetti del gruppo sperimentale avevano incrementato l’assunzione di verdura (inclusa maggiore varietà), frutta, cereali integrali, noci, legumi, riducendo l’assunzione di snack industriali e carne/pollo, migliorando complessivamente la qualità della dieta per 6 mesi.

Sebbene per 6 mesi la salute mentale era migliorata sia nel gruppo sperimentale che di controllo, coloro che avevano aderito alla dieta mediterranea riportavano miglioramenti significativamente maggiori nei sintomi depressivi e nella qualità della vita correlata alla salute mentale. L’entità del beneficio è stata piuttosto ampia: il 60% delle persone ha riportato una riduzione della gravità della depressione, il 72% di ansia e il 69% di stress percepito. Questi esiti sono in stretta associazione al miglioramento dietetico, in particolare grazie alla varietà di verdura e frutta, l’assunzione di legumi e noci, e più globalmente all’aderenza alla dieta mediterranea con un consumo ridotto di snack, cibo da asporto e carne.

Il miglioramento della salute mentale emerso in entrambi i campioni è in parte attribuibile alla componente di coinvolgimento sociale, ovvero l’esposizione a laboratori collettivi e grazie alla dinamica di aiuto reciproco che si era instaurata. Infatti, il supporto tra pari nel gruppo è efficace nel trattamento della depressione similmente alla psicoterapia (Pfeiffer et al., 2011).

Facilitatore del cambiamento di abitudini dietetiche è stata la fornitura di cibo gratuito, che ha ridotto al minimo le resistenze, ma al contempo impostato valori predefiniti e desiderabili (Loewenstein et al., 2007).

Oltre alla definizione degli obiettivi, l’esposizione continua aumentava la familiarità verso cibi considerati più sani, e quindi il loro gradimento e preferenza (Cooke, 2007).

Anche l’apprendimento delle abilità culinarie di base e delle ricette aveva sostenuto il cambiamento, potenzialmente mantenibile nel lungo termine, incentivando scelte alimentari più sane (Larson et al., 2006).

Nell’indagine non era emersa alcuna correlazione significativa tra l’aumento di omega-3 e il miglioramento dei sintomi depressivi. Probabilmente, ottimizzare l’intera dieta apporta benefici di gran lunga maggiori nella salute mentale rispetto a qualsiasi nutriente impiegato da solo (Parletta et al., 2013).

Il miglioramento della salute mentale legato alla dieta rimanda a meccanismi biologici sottostanti, che sono stati ampiamente descritti. I nutrienti (vitamine, minerali, grassi polinsaturi e amminoacidi), oltre a supportare una vasta quantità di funzioni biologiche (come sintesi dei neurotrasmettitori, segnalazione cellulare, mantenimento della guaina mielinica, metabolismo del glucosio e dei lipidi, funzione mitocondriale e prevenzione dell’ossidazione), sono essenziali per la struttura cerebrale ed il funzionamento sano della mente (Kaplan et al., 2007, 2015).

Inoltre, alla base di una cattiva salute fisica ci sono fattori correlati all’alimentazione come infiammazione, intolleranza al glucosio, alterazioni del flusso sanguigno e stress ossidativo, che influiscono sul benessere mentale (Kaplan et al., 2015; Parletta et al., 2013; Sinn & Howe, 2008).

Nonostante siano necessari ulteriori studi per valutare la sostenibilità a lungo termine dei cambiamenti dietetici e nella riduzione dei sintomi depressivi, questa indagine ha messo in luce l’importante ruolo della dieta nel mantenimento della salute mentale.

 

Mind wandering: vagabondare con la mente rende più creativi?

Il fenomeno del mind wandering, in italiano “il vagabondare della mente”, è un’esperienza che consiste nell’avere dei pensieri che non rimangono fissi su un unico contenuto ma vagano, appunto, in diverse direzioni e senza una meta precisa.

 

L’attenzione si sposta dai pensieri focalizzati sul compito in corso e/o eventi nell’ambiente esterno, a pensieri autogenerati senza che vi sia alcuna forma di controllo.

Il fenomeno del mind wandering ha cominciato ad essere oggetto di studio nella prima metà degli anni ’90, periodo in cui l’ambito delle neuroscienze cognitive si affermava progressivamente nel panorama scientifico. Nacque dunque un interesse per ciò che fino a quel momento, soprattutto nei contesti sperimentali, veniva considerato rumore di fondo generato nei momenti in cui il soggetto non era impegnato in alcun compito cognitivo (Christoff, 2016). Immaginando un continuum, il mind wandering si pone all’esatto opposto di quello che è il pensiero volontario che nasce in seguito alla presentazione di uno stimolo o durante lo svolgimento di un compito.

William James nella sua opera “Principi di Psicologia” (1890), descrisse il pensiero e il flusso di coscienza paragonandolo metaforicamente al volo di un uccello: così come gli uccelli alternano il volare all’appollaiarsi su un ramo, così fa il pensiero. È come se la mente fosse continuamente soggetta a un movimento oscillatorio tra uno stato di attenzione esternalizzata e uno in cui l’attenzione è rivolta ai propri stati interni (Goncalves, 2018); questa seconda condizione è una forma di pensiero svincolata dall’ambiente circostante che corrisponde al fenomeno del mind wandering.

Mind wandering e day-dreaming sono sinonimi?

In letteratura non è raro trovare affiancati i termini mind wandering e day-dreaming (traducibile con “sogno ad occhi aperti”), due termini apparentemente simili che erroneamente vengono usati talvolta come sinonimi. Il primo fenomeno, come illustrato precedentemente, consiste in una sequenza di pensieri incontrollata che si sposta da un oggetto all’altro, il secondo, invece, può essere considerato come un processo di pensiero caratterizzato da una forte componente intenzionale che consiste nella proiezione volontaria di determinati scenari o rappresentazioni mentali sorrette spesso da una struttura narrativa.

Di solito la sequenza erratica di pensieri che si ha durante il mind wandering non è molto lunga, tuttavia in un primo momento non sono immediatamente accessibili tutti i vari passaggi, che possono essere visti come nodi di una rete che hanno portato dalla fine di un pensiero alla nascita del successivo. Questi pensieri possono essere identificati attraverso una ricostruzione a posteriori da parte del soggetto, ovvero una rievocazione monitorata che permetta di risalire alle origini di ogni singolo pensiero episodico (Dorsch, 2014).

Mind wandering: le aree cerebrali coinvolte

Nel corso degli ultimi anni il mind wandering è stato oggetto di numerosi studi condotti nell’ambito delle neuroscienze cognitive che hanno tentato di risalire alle aree cerebrali coinvolte in questo tipo di attività (Mittner et al., 2016). La Default Mode Network (DMN) comprende una serie di aree quali la corteccia cingolata posteriore e la corteccia prefrontale mediale, il precuneo ed entrambe le circonvoluzioni angolari (Mason, 2007; Raichle, 2001). Alcune di queste aree cerebrali sono anche coinvolte in alcuni processi mentali associati al pensiero creativo, ad esempio si attivano di più durante la creazione di storie a partire da una lista di parole sconnesse (Wiggins, 2014). In uno studio di Takeuchi et al. (2011) si è osservata un’attivazione maggiore del precuneo durante prestazioni maggiormente creative in un compito di memoria di lavoro. La DMN, inoltre, è strettamente legata ai processi di rievocazione della memoria episodica, al pensiero autobiografico rivolto al futuro e alla mentalizzazione (Mittner et al., 2016; Christoff, 2016; Beaty, 2015). Anche il lobo temporale, e in particolare l’ippocampo, sembra avere un ruolo fondamentale nel mind wandering. Infatti, sembra che la sua attivazione sia associata all’immaginazione di nuovi scenari o possibili esperienze future (Schacter, 2008).

Mind wandering e creatività

Sia il mind wandering che il pensiero creativo più in generale sfruttano la capacità di immaginare attraverso il cosiddetto “occhio della mente”. Quando l’attenzione viene rivolta unicamente all’osservazione dei processi interni, la codifica degli stimoli provenienti dall’ambiente esterno è momentaneamente sospesa riducendo le potenziali distrazioni circostanti; il risultato è quello di una maggior concentrazione dell’attenzione verso i propri pensieri.

Nella vita di tutti i giorni questo tipo di attività mentale si può riscontrare in una varietà di situazioni. Ad esempio mentre si guida l’auto, o si è assorti nell’osservare il panorama fuori dal finestrino di un treno, o quando si è alle prese con una lettura noiosa (Dorsch, 2014).

Sebbene l’attività del mind wandering sembri avere origine dalle normali fluttuazioni nell’attività cerebrale e nei processi cognitivi degli esseri umani, alcuni ricercatori hanno individuato degli aspetti potenzialmente negativi legati ad essa. Ad esempio, sembra che il mind wandering possa essere spesso associato a stati dell’umore depressivi, può rendere più difficile comprendere il significato di un testo, e provocare dei rallentamenti nella rievocazione dei ricordi e nei riflessi con conseguenze potenzialmente dannose nel caso di attività che necessitano di elevate risorse attentive, come guidare l’auto in mezzo al traffico (Smallwood, 2015; Yamaoka, 2019).

In conclusione, dai dati emersi in letteratura sembra evidente che vagabondare con la mente possa promuovere nelle persone la creazione di nuove idee. Ciononostante, al fine di limitare i potenziali effetti collaterali di un eccessivo mind wandering, potrebbe essere utile apprendere abilità di mindfulness o di meta-consapevolezza utili ad osservare ed a regolare l’attività mentale spontanea (Smallwood, 2015).

 

Il percorso per diventare tecnico RBT ABA

Come si diventa tecnico RBT ABA? Quali sono i ruoli e i gradi di formazione che una persona può intraprendere all’interno del meraviglioso mondo dell’ABA?

Ilaria Cester e Cinzia Marcuzzo – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Mestre

 

L’acronimo ABA sta per Applied Behavior Analysis, ovvero l’analisi del comportamento applicata. L’ABA può essere presentato come un insieme di procedure di intervento intensivo precoce, basate su principi comportamentali Skinneriani. Famosa soprattutto per la sua applicazione con soggetti con Sindrome dello Spettro dell’Autismo, sarebbe riduttivo considerare questo metodo esclusivo per tali problematiche. L’ABA, infatti, può essere applicata nei più disparati contesti in cui ci si ritrovi ad affrontare una problematica comportamentale.

Numerosi studi (N. Peters-Scheffer & al., 2011; C. M. Anderson & D. Kincaid, 2005; Moderato, P. Copelli, C.,2010) sostengono l’efficacia dell’applicazione del metodo ABA con soggetti aventi diverse problematiche (Spettro dell’autismo, difficoltà comportamentali, DOP, disabilità intellettiva,..).

Appurata la validità e l’efficacia relativa all’implementazione di tale metodologia, come si diventa tecnico RBT ABA? Quali sono i ruoli e i gradi di formazione che una persona può intraprendere all’interno del meraviglioso mondo dell’ABA?

Ogni intervento ABA, degno di tale nome, prevede la supervisione di un BCBA (Board Certified Behavior Analyst) che è il responsabile della direzione, supervisione e gestione del caso. Progetta e coordina l’intervento, creato ad hoc per il singolo soggetto. L’implementazione vera e propria dell’intervento ABA si sviluppa sul campo grazie alla presenza di tecnici RBT (Registered Behavior Technician). A volte, potrebbe esserci anche la figura BCaBA (Board Certified Assistant Behavior Analyst), che è il responsabile del supporto alla gestione del caso, sempre sotto la supervisione di un BCBA, non può in alcun caso operare da solo. Il ruolo del BCaBA è quello di supervisionare l’operato dell’RBT (Fig. 1).

Applied Behavior Analysis il percorso per diventare tecnico RBT ABA Fig 1

Fig. 1: Schema gerarchia dei ruoli nell’implementazione del metodo ABA

Chiunque operi in nome dell’ABA, deve seguire un codice etico preciso, reperibile sul sito ufficiale del BOARD, in cui vengono affrontate tematiche quali: la condotta dell’analista del comportamento, i suoi obblighi nei confronti della famiglia del cliente, del soggetto stesso protagonista dell’intervento, di altri colleghi.

Per diventare tecnico RBT ABA è necessario anzitutto essere maggiorenni ed avere raggiunto almeno il diploma di scuola superiore. È necessario, poi, frequentare un corso definito Assesment delle competenze della durata di 40 ore, condotto da un BCBA certificato e riconosciuto dal Board. Durante il corso verranno affrontati argomenti che vanno dell’etica e condotta che l’RBT deve tenere nello svolgimento della sua professione, all’approfondimento teorico sul comportamentismo e sulle principali patologie in cui è possibile applicare l’ABA (Spettro dell’autismo, DOP,..). Fino ad arrivare a toccare con mano le tecniche di gestione dei comportamenti problema, le modalità di rinforzo e di estinzione, le tecniche volte allo sviluppo di capacità e autonomie e le diverse possibilità per la presa dati, fondamentale per l’implementazione di un buon progetto ABA.

Al termine del corso, il futuro tecnico RBT dovrà sostenere un esame scritto e un colloquio orale con il responsabile del corso e fornire alcuni video a dimostrazione dell’uso delle tecniche presentate durante le ore di lezione.

Superato l’esame finale sarà possibile iscriversi al Board e, attraverso il canale ufficiale, sostenere un successivo esame in lingua inglese per ottenere il titolo di RBT certificato.

Applied Behavior Analysis il percorso per diventare tecnico RBT ABA Fig 2

Fig. 2: Schema tratto dal sito del board con le fasi per diventare tecnico RBT

A partire dal 2020, vista la situazione COVID, è stata data la possibilità ai futuri RBT di sostenere l’esame online, accedendo ad un’interfaccia autorizzata dal Pearson VUE, sito che si occupa dell’aspetto valutativo delle competenze dei tecnici RBT. In precedenza, per poter sostenere l’esame come RBT era necessario recarsi a Roma, unica sede del Pearson VUE in Italia.

L’esame ha una durata massima di 90 minuti ed è composto da 85 domande (10 delle quali sono item pilota), a scelta multipla. Tutte le domande prevedono quattro alternative di risposta.

Per prepararsi all’esame, oltre alla frequentazione del corso per l’assesment delle competenze, è consigliabile consultare manuali quali:

  • Theisen B. & Bird Z. (2015): “RBT credential workbook“. Bx Dynamic Press; Vol. 3.
  • Martin G. & Pear J. (2000): “Strategie e tecniche per il cambiamento”.   McGraw-Hill Education; 6° edizione. Traduzione italiana a cura di Moderato P. & Rovetto F.
  • Ricci C. & al. (2014): “Manuale ABA-VB. Applied behavior analysis and verbal behavior. Fondamenti, tecniche e programmi di intervento”. Erickson.

Utile potrebbe essere, inoltre, consultare i siti delle riviste JABA e JEAB in cui sono raccolti articoli basati sulle ricerche di analisi applicata del comportamento.

Per potersi esercitare in vista dell’esame con il Board navigando nel web si possono trovare alcuni siti utili.

A conclusione dell’articolo, abbiamo pensato potesse essere interessante dare la parola a un’esperta. La Dott.ssa Lucia Piccin è un noto BCBA che lavora nel mondo dell’ABA da moltissimi anni.

Informazioni sulla Dott.ssa Lucia Piccin

Analista del Comportamento BCBA. Lavora in questo campo da 18 anni, dapprima in UK sotto la supervisione dello UKYAP (United Kingdom Young Autism Project) poi in Italia.

Si occupa:

  • della presa in carico, della valutazione, delle progettazione e supervisione di interventi individualizzati A.B.A. per bambini e ragazzi con ASD;
  • della formazione di terapisti/e e delle figure responsabili in relazione all’implementazione degli interventi;
  • della formazione dei genitori;
  • della formazione attraverso docenza di corsi inerenti ASD e l’Analisi Applicata del Comportamento.

Intervistatrice (I): Quando ha sentito per la prima volta parlare di ABA?

Dott.ssa Lucia Piccin (LP): Per la prima volta ho sentito parlare di ABA nel Dicembre del 2002 quando ho letto un annuncio su una bacheca universitaria che cercavano una terapista per un intervento ABA, per una bambina di 2 anni. Io al tempo non sapevo nemmeno cosa fosse. Ho partecipato alle selezioni, poi alla formazione e sono state scelta tra i vari candidati per la creazione del team.

I: Che cosa le è piaciuto dell’ABA da convincerla a renderlo il suo lavoro?

LP: Riferendomi sempre al mio primissimo caso, mi è piaciuto innanzitutto il fatto di poter arrivare a relazionarmi e a comunicare con una bambina piccola, con problematiche comportamentali gravi e un deficit cognitivo importante. Tali caratteristiche rendevano apparentemente le modalità di relazione e di comunicazione con lei scarse e limitate.

Il metodo ABA non è un intervento mirato allo sviluppo di una determinata area di competenza, ma è un intervento globale ed intervenire in tutte le aree, prendendo in considerazione punti di forza e di debolezza della persona, trasformando i primi in risorsa, mentre i secondi in ambiti nei quali è necessario promuovere nuove competenze.

Nel tempo ho potuto apprezzare l’impatto che un intervento A.B.A. può avere non solo nella vita della persona a cui è rivolto il progetto, ma anche su tutto il suo ambiente circostante, la sua famiglia e anche all’interno dei contesti sociali, come ad esempio la scuola.

Ritengo la componente relazionale di fondamentale importanza, tanto da affiancarla al pari degli obiettivi di apprendimento all’interno di un progetto ABA. L’importanza dell’aspetto relazione e del ruolo del gioco nel miglioramento delle competenze di bambini nello Spettro dell’autismo, per me è tale che nel 2005 è stato l’argomento della mia tesi di laurea “Can play be transformed into a powerful instrument helping the development and learning of autistic children?”

I: Com’è stato il suo percorso di formazione per diventare BCBA?

LP: Dopo aver conseguito la laurea presso l’University of Wales Swansea, Swansea, in Inghilterra, ho frequentato presso la medesima università un Master di II livello in Child Welfare and Applied Childhood Studies.

Durante tutto questo periodo ho praticato come tutor ABA, sotto la supervisione dei consulenti dell’UK IAP.

Successivamente, ho deciso di frequentare presso l’Istituto Europeo per lo Studio del Comportamento Umano (IESCUM), a Parma, un Master di II livello su “L’analisi del comportamento: aspetti teorico-metodologici e applicazioni al disturbo autistico”. Tale master dà diritto di accesso all’esame di certificazione da parte del BACB  per divenire Assistente Analista del Comportamento Certificato (BCaBA) e Analista del Comportamento Certificato (BCBA).

I: L’ABA, oltre ad essere applicabile a soggetti con Spettro dell’Autismo, porta risultati efficaci anche con altre problematiche come il disturbo oppositivo provocatorio o soggetti con disabilità intellettiva. Qual è la sua opinione in merito?

Innanzi tutto, è prioritario precisare che l’A.B.A. non è e non nasce come intervento specifico per l’autismo. L’A.B.A. è una scienza volta alla modificazione del comportamento, può essere applicata ad una varietà di situazioni, disturbi e patologie e non ci sono limiti di età. È vero però che c’è ampia evidenza scientifica dagli anni 70 ad oggi che ne prova l’efficacia nell’insegnamento di importanti comportamenti e abilità a bambini con autismo e ne evidenzia la particolare efficacia in relazione ad interventi precoci.

Nello specifico, l’A.B.A. è una scienza che, attraverso l’utilizzo di tecniche e procedure derivate dai principi del comportamento, mira, da un lato, ad incrementare comportamenti socialmente significativi e, dall’altro, a ridurre i comportamenti problematici e, quindi, disadattivi. Il tutto comprovabile attraverso la sistematica registrazione dei dati.

 

Il dialogo interno come strumento per mantenere la capacità di pensare e agire nelle situazioni difficili

Il dialogo interno può essere un potente strumento di autoregolazione del comportamento, del pensiero e delle emozioni.

 

A volte capitano situazioni in cui ci sentiamo completamente in balia degli eventi, e questi sembrano avere un impatto talmente potente su di noi che ci sembra di perdere completamente la facoltà di ‘stare lì, nel momento’. Quando ciò accade, sembra che la nostra capacità di riflettere, valutare e prendere decisioni subisca un tracollo e, successivamente, ci troviamo a pensare alla situazione vissuta con confusione, a volte con sgomento.

Alcuni dei principali autori di orientamento cognitivo-comportamentale, Ellis (1977), Beck (Beck, Rush, Shaw & Emery, 1979) e Meichenbaum (1977), con il loro lavoro ci informano che anche nelle situazioni più stressanti e caotiche è sempre presente una componente di pensiero discorsivo, esplicito o meno, che tende a guidare le nostre reazioni in termini di pensieri, emozioni e comportamenti che agiamo. Questo pensiero discorsivo deriverebbe da schemi disadattivi che distorcono l’elaborazione delle informazioni prese dall’ambiente in modi disfunzionali in relazione agli obiettivi dell’individuo (Beck et al., 1979).

Questo dialogo interno può presentarsi in diverse forme, fino a raggiungere quella di un vero e proprio dibattito con se stessi, più o meno articolato: “Starò facendo la cosa giusta?”; “Non fare così, fa’ così piuttosto”; “Stai attento che questa situazione ti è già capitata e sai come andrà a finire”… l’elenco delle cose che diciamo silenziosamente a noi stessi nelle più svariate circostanze è potenzialmente infinito, e si applica sia alle situazioni piacevoli che a quelle spiacevoli, che siano vissute intensamente oppure no.

Quando questo dialogo con noi stessi si presenta in modi che mettono in discussione la nostra autostima, la nostra capacità di fare e le aspettative positive rispetto a quanto stiamo vivendo, la nostra capacità di agire nella specifica situazione può venire pregiudicata in maniera più o meno ampia, possiamo sperimentare emozioni spiacevoli anche molto intense e, infine, subire una limitazione della nostra possibilità di agire, con il risultato di non essere in grado di esprimere pienamente noi stessi e di perseguire i nostri obiettivi in modo ottimale. Il disagio psicologico che ne deriva può essere più o meno intenso, fino anche alla possibilità a lungo termine di sviluppare un disturbo psichiatrico vero e proprio (Wann, Brennen & Holte, 2006).

D’altra parte, però, il dialogo interno può essere un potente strumento di autoregolazione del comportamento, del pensiero e delle emozioni, funzionale a mantenersi focalizzati sul compito da eseguire e sugli obiettivi da raggiungere, oltre che a permetterci di mantenere la calma (o motivarci) in situazioni competitive o stressanti (ad esempio, Malouff & Murphy, 2006). Non a caso l’addestramento all’uso del dialogo interno è una strategia utilizzata ampiamente nell’ambito della terapia cognitivo-comportamentale per il trattamento di depressione e ansia (Dush, Hirt & Schroeder, 1983), per il miglioramento della prestazione mentale (Schleser, Meyers & Cohen, 1981), per il trattamento dell’impulsività (Nelson & Birkimer, 1978) e dei disturbi del comportamento nell’infanzia (Dush, Hirt & Schroeder, 1989).

Un regime di trattamento che fa ampio uso del dialogo interno al fine di fornire uno strumento per fronteggiare le situazioni stressanti è lo Stress Inoculation Training (Meichenbaum, 1985). Sviluppato come paradigma di addestramento semistrutturato e clinicamente sensibile, è applicabile a un’ampia varietà di situazioni problematiche e stressanti (ad esempio nella gestione della rabbia e dell’ansia sociale) fino a situazioni estreme nelle quali la stabilità psicologica individuale è messa a dura prova e vi è il rischio di sviluppare sintomatologia post-traumatica (problemi gravi di salute, stupro, attacchi terroristici), tra le quali rientrano a pieno titolo l’ambito militare e, in generale, le professioni che richiedono all’individuo di sviluppare la capacità di funzionare bene in situazioni estreme.

Il training è composto da tre fasi: una fase di concettualizzazione della domanda di trattamento, una fase di acquisizione delle abilità funzionali alla risoluzione del problema e ripetizione a scopo di apprendimento, e infine una fase di applicazione delle abilità e completamento del trattamento (follow-through).

Il dialogo interno che promuove il funzionamento ottimale sotto stress, nella forma di affermazioni su di sé, è un’abilità oggetto di apprendimento nella seconda fase del trattamento e può essere utilizzato in diversi momenti relativi alla situazione stressante. Nello specifico, l’autore (Meichenbaum, 1985) distingue in relazione ad essa quattro momenti: quando ci stiamo preparando a fronteggiare una situazione stressante che prevediamo si presenterà, quando tentiamo di gestirla una volta presente, quando ci sentiamo travolti da essa e, infine, quando riflettiamo sugli sforzi che abbiamo profuso nel tentativo di fronteggiarla. In ognuno di essi abbiamo la possibilità di sfruttare il dialogo interno per prestare attenzione maggiore alle circostanze presenti e mantenere un atteggiamento proattivo e focalizzato sui nostri obiettivi.

Ecco alcuni esempi di affermazioni che possiamo utilizzare:

  • Quando ci stiamo preparando a fronteggiare la situazione stressante: “Cosa dovrò fare?”,”Posso farmi un piano per gestire la situazione”, “Smettila di preoccuparti. Preoccuparsi non serve a nulla”, “Mi sento un po’ teso, ma è una cosa naturale”;
  • Quando stiamo tentando di gestire la situazione stressante: “Un passo alla volta”, “Non pensare allo stress, pensa alle cose che devi fare”, “Guarda al positivo. Non saltare alle conclusioni”, “Questa tensione può essere un alleato, un segnale per trovare un modo di agire”;
  • Quando ci sentiamo travolti dalla situazione stressante: “Fermati un momento e rifletti su cosa sta accadendo”,”Non cercare di eliminare lo stress, gestiscilo solamente”, “Rilassati e rallenta”, “É il momento di risolvere il problema”;
  • Quando riflettiamo sugli sforzi di fronteggiamento e ci ricompensiamo (anche solo per avere tentato): “Non è andata male come pensavo”, “Non ha funzionato. Va bene lo stesso”; “Vediamo cosa posso imparare da questa storia”; “L’ho gestita abbastanza bene”.

Ma come utilizzare concretamente queste suggestioni? Innanzitutto dobbiamo trovare quali affermazioni ci sembrano più efficaci in relazione alla situazione stressante che ci accingiamo a incontrare, e di cui quelle indicate sono semplici piste per costruire le proprie. Una volta individuate le proprie possiamo, attraverso l’esercizio e la ripetizione (cognitive rehearsal), creare il nostro repertorio di affermazioni da dire a noi stessi quando ci troviamo in situazioni stressanti, che provvederemo a tenere presenti alla nostra mente, anche scrivendole da qualche parte, per portarle con noi. Il loro utilizzo in situazioni reali ci permetterà, poi, di acquisirle in pianta stabile nelle nostre abitudini di pensiero, in modo da garantirne l’uso anche in situazioni nuove, fornendoci così da noi stessi quella focalizzazione sul compito e quella percezione di controllo, che tanta parte hanno nell’adattamento e nella promozione del benessere per l’individuo lungo tutto l’arco della sua vita.

L’attenzione al dialogo interno sotto stress non solo potrebbe portarci a risultati insperati di fronte alle avversità, ma potrebbe anche fornirci una dose maggiore di fiducia nelle nostre capacità, assieme a un nuovo slancio per tentare imprese mai tentate e imboccare percorsi di vita desiderati ma che ci siamo sempre preclusi da noi stessi, attraverso le parole che ci diciamo.

L’amo o non l’amo? Vincere le ossessioni sulla relazione e sul partner (2021) di Marta Venturini Drabik e Gabriele Melli – Recensione del libro

L’amo o non l’amo? è un manuale di auto-aiuto che ha lo scopo primario di far comprendere il DOC da relazione a chi si trova a soffrirne.

 

In un rapporto di coppia, specie a lungo termine, è normale avere dei dubbi riguardanti la relazione o le caratteristiche del partner e avere dei momenti di conflitto, incomprensione o distanza.

Per chi soffre invece di Disturbo Ossessivo-Compulsivo da relazione, noto anche come R-OCD (Relationship Obsessive-Compulsive Disorder), i dubbi sono vissuti come più intensi e pervasivi, come qualcosa da cui non ci si riesce a liberare. Inoltre, non riuscendo la persona con DOC da relazione a tollerare le normali oscillazioni insite in ogni relazione, si arrovella con pensieri intrusivi e indesiderati cercando di capire se sia il caso di portare avanti il rapporto. Tutto ciò interferisce significativamente sulla qualità della relazione, producendo sofferenza anche nel partner e nelle persone intorno, interpellate incessantemente per avere rassicurazione.

“L’amo o non l’amo?”, infatti, è il dilemma quotidiano di chi soffre di DOC da relazione, a cui cerca disperatamente di dare risposta, sperimentando invece che più affannosamente prova a cercarla, più essa sfugge, alimentando l’ansia e peggiorando la situazione. Questo accade perché, in realtà, una risposta certa a tale interrogativo non esiste e lo spiega bene il libro L’amo o non l’amo? Vincere le ossessioni sulla relazione e sul partner, manuale di auto-aiuto che ha lo scopo primario di far comprendere il DOC da relazione a chi si trova a soffrirne, partendo dal presupposto importante che il primo passo fondamentale del cambiamento è capire il nemico con cui si ha a che fare.

L’amo o non l’amo?: capire il DOC da relazione

Nella prima parte del libro, vengono descritti i meccanismi coinvolti nella genesi e nel mantenimento delle ossessioni sulla relazione e sul partner.

I primi a individuare il DOC da relazione come quadro sintomatologico ben preciso, pur in parte sovrapponibile al Disturbo Ossessivo-Compulsivo, sono stati due psicologi israeliani, Guy Doron e Danny Derby.

Il disturbo ossessivo-compulsivo da relazione si caratterizza per la presenza di dubbi ossessivi ricorrenti, intrusivi e persistenti circa la “giustezza” della propria relazione o circa le caratteristiche del proprio partner (ad esempio dubbi se la relazione va bene o meno, se i sentimenti provati sono abbastanza intensi o sufficientemente costanti, se il proprio partner è quello giusto o no, se è abbastanza intelligente o attraente ecc.).

Il DOC da relazione è distinto in due categorie, in base alla natura e al tipo di ossessione predominante: DOC da relazione con ossessioni circa la relazione e DOC da relazione con ossessioni circa le qualità e le caratteristiche del partner.

L’elemento fondamentale da considerare è che ciò che innesca la risposta ossessiva non è la carenza di un reale coinvolgimento emotivo o di un sentimento d’affetto o amore, ma la presenza di alcune specifiche credenze irrazionali su come dovrebbe essere una relazione e su come dovremmo sentirci in essa. Le credenze disfunzionali centrali nel DOC da relazione, derivanti dagli apprendimenti e dalle esperienze di vita, sono: estremizzazione o visione bianco e nero (“In una relazione soddisfacente, il sentimento provato per il partner non dovrebbe mai variare di intensità”), catastrofizzazione (“Una volta che si è preso un impegno, non si può più tornare indietro”), intolleranza del rischio e dell’incertezza (“Rimanere in uno stato di incertezza è intollerabile”), fusione pensiero-azione (“Pensare, desiderare, immaginare una cosa è grave quanto farla nella realtà”).

Tipici momenti in cui  possono emergere o aumentare le ossessioni di tipo relazionale sono quelle situazioni in cui si delinea la possibilità di un cambiamento verso un maggiore investimento relazionale (ad esempio convivenza, matrimonio, nascita di figli, ma anche una vacanza o una spesa condivisa), che comportano un conseguente aumento delle eventuali ripercussioni reali o presunte nel caso in cui la relazione si interrompesse. Non a caso nelle storie delle persone che soffrono di disturbo ossessivo-compulsivo da relazione i temi connessi all’integrità morale e al perfezionismo risultano centrali.

Allo scopo di placare l’incertezza relazionale e l’ansia da essa derivante, si genera tutta una serie di strategie compulsive, riparative e preventive. Le principali e più comuni descritte nel libro sono: evitamento, controllo dei pensieri, auto-rassicurazioni e richiesta di rassicurazioni, confessione, disinvestimento relazionale. Tali strategie vengono attuate con l’obiettivo di raggiungere un grado soddisfacente di certezza circa la stabilità dei propri sentimenti e la “giustezza” della relazione e delle caratteristiche del proprio partner. Tuttavia, essendo il grado di certezza desiderato irrazionalmente alto e quindi irraggiungibile, tali strategie inevitabilmente falliscono, andando ad aumentare la frequenza e l’intensità del pensiero ossessivo.

L’amo o non l’amo?: autovalutazione e cambiamento

Nella seconda parte del libro, gli autori offrono compiti di auto-osservazione e questionari per comprendere la natura del proprio DOC da relazione. Inoltre, ampio spazio viene dato a consigli, esercizi e tecniche tratte dalla terapia cognitivo-comportamentale da mettere in pratica nella vita di tutti i giorni, per affrontare i sentimenti di colpa e auto-biasimo verso la propria condizione, per evidenziare l’irrazionalità e l’inutilità delle credenze disfunzionali (con esercizi di ristrutturazione cognitiva) e per contrastare attivamente le strategie preventive e riparative che contribuiscono al mantenimento del disturbo (attraverso esercizi di esposizione con prevenzione della risposta).

Il programma e le istruzioni proposte mirano non solo a un cambiamento che possa far sentir significativamente meglio la persona, ma anche alla prevenzione e gestione delle ricadute che spesso si manifestano.

Nel libro ci si concentra sui dubbi ossessivi sulle relazioni sentimentali, che caratterizzano la forma più comune di DOC da relazione, ma questo disturbo può svilupparsi anche con altre tipologie di relazioni significative (ad esempio tra genitore e figlio) con manifestazioni analoghe.

È presente inoltre un’appendice, dove sono raccolte indicazioni utili anche per i partner e i familiari delle persone con DOC da relazione, il cui coinvolgimento è importante e spesso indispensabile per un cambiamento duraturo.

Concludendo, L’amo o non l’amo? Vincere le ossessioni sulla relazione e sul partner, è un manuale di auto-aiuto utile e chiaro anche per la presenza di schede e descrizioni di casi clinici che, tuttavia, non vuole sostituirsi a un percorso di psicoterapia, necessario – come specificano gli autori – qualora si voglia analizzare ed elaborare i nuclei problematici alla radice del DOC da relazione e la componente emotiva delle credenze disfunzionali, che originano dalla propria storia di vita.

 

Il razzismo interiorizzato: quando le discriminazioni sociali entrano a far parte dell’individuo

Due manifestazioni particolarmente importanti che indicano la presenza di razzismo interiorizzato consistono nell’alterazione dell’aspetto fisico e il cambiamento dei capelli.

 

La discriminazione razziale è un’esperienza pervasiva (Hope, Hoggard, & Thomas, 2015) ed è stata associata ad esiti negativi come disturbi dell’umore (Paradies et al., 2015), diminuzione dell’autostima (Yip, 2015) e malattie cardiovascolari (DeLilly & Flaskerud, 2012). Quando i giovani afroamericani passano all’età adulta e iniziano a frequentare ambienti come le università o i posti di lavoro, possono sperimentare una maggiore discriminazione razziale (Mouzon et al., 2017). Esistono fattori socioculturali che rendono alcuni individui particolarmente vulnerabili rispetto agli effetti psicologici negativi della discriminazione.

Se molte ricerche hanno esaminato i correlati psicologici della discriminazione razziale (Carter et al., 2018), poco si sa sull’influenza moderatrice del razzismo interiorizzato nel tempo. Risulta dunque importante indagare quali fattori si combinano con la discriminazione razziale per comprendere quali individui siano più vulnerabili agli effetti di tale fenomeno (Paradies, 2006b). Per questo motivo, si è scelto di prendere in esame uno studio che ha osservato se il razzismo interiorizzato moderasse la relazione tra la discriminazione razziale e i sintomi ansiosi.

Due modelli teorici sono alla base di questa ricerca. Il primo, il modello biopsicosociale del razzismo di Clark, Anderson, Clark e Williams (1999), sostiene che la percezione di uno stimolo ambientale come razzista porti a risultati negativi per la salute con effetti che possono essere moderati da fattori psicologici e/o comportamentali. Il secondo è il modello del rischio e della resilienza (Rutter, 1987): tale modello sostiene che anche se i fattori di rischio possono portare a risultati disadattivi, esistono variazioni individuali nella risposta al rischio. In particolare, la vulnerabilità e i processi protettivi possono rispettivamente, intensificare o migliorare la risposta al rischio.

Quando si esaminano le correlazioni tra discriminazione razziale, razzismo interiorizzato e disagio dovuto ai sintomi ansiosi, è importante considerare anche l’età. La prima età adulta rappresenta una fase critica dello sviluppo, contraddistinta da un’esplorazione dell’identità all’interno di nuovi contesti universitari (Arnett & Brody, 2008). Purtroppo, per i giovani afroamericani, questo stadio è anche associato a una maggiore esposizione alla discriminazione razziale (Hope et al., 2015).

La discriminazione razziale può aumentare i sintomi d’ansia, in parte perché le esperienze discriminatorie possono aumentare la sensibilità nelle interazioni interpersonali (Neblett et al., 2016) e ridurre l’autostima (Yip, 2015).

La concettualizzazione di Bailey et al. (2011) rappresenta il primo tentativo di operazionalizzare il razzismo interiorizzato in dimensioni misurabili. L’alterazione dell’aspetto fisico e il cambiamento dei capelli possono essere due dimensioni particolarmente importanti del razzismo interiorizzato.

L’alterazione dell’aspetto fisico riflette la misura in cui i partecipanti desiderano alterare il loro aspetto fisico per conformarsi a un’estetica eurocentrica. Il cambiamento dei capelli esprime la misura in cui i partecipanti preferiscono i capelli lisci (cioè trattati chimicamente) ai capelli naturali. I lineamenti anglosassoni, la pelle più chiara e i capelli lisci sono standard culturali di attrattività fisica che vengono trasmessi attraverso le generazioni delle famiglie afroamericane (Parmer et al., 2004). Il continuo confronto di sé con gli ideali della società e la convinzione che il proprio valore sia collegato al proprio aspetto, può aumentare la vergogna e l’ansia (Buchanan et al.,2008).

Attualmente, solo due studi hanno esaminato l’influenza del razzismo interiorizzato sul legame tra discriminazione razziale e sintomi psicologici, e da queste premesse nasce la necessità di effettuare ulteriori approfondimenti.

Il primo obiettivo dello studio preso in esame è stato quello di valutare longitudinalmente gli effetti della discriminazione razziale sui sintomi ansiosi, ipotizzando che tale fenomeno sarebbe stato associato ad un aumento della suddetta sintomatologia. Il secondo obiettivo prevedeva di dimostrare che il razzismo interiorizzato moderasse il legame tra la discriminazione e i sintomi ansiosi. Inoltre, gli autori hanno previsto che l’alterazione dell’aspetto fisico e il cambiamento dei capelli sarebbero emersi come moderatori.

Il campione era costituito da 157 studenti universitari di colore.

Coerentemente con la ricerca precedente, la discriminazione razziale era un predittore significativo dei sintomi d’ansia nel tempo.

Inoltre, le analisi hanno rivelato che la relazione tra discriminazione razziale e disagio psicologico può dipendere dal razzismo interiorizzato. Un’associazione significativa è stata trovata tra la discriminazione razziale e l’interiorizzazione degli stereotipi negativi, ciò significa che la discriminazione razziale è stata associata ad un aumento dei sintomi ansiosi per gli individui con livelli moderati ed elevati di interiorizzazione degli stereotipi negativi. Questo risultato suggerisce che gli individui con alti livelli di interiorizzazione hanno accettato stereotipi negativi sulle persone di colore. Date queste credenze, i soggetti possono avere opinioni negative verso sé stessi e avere livelli di autostima inferiori. Di conseguenza, le esperienze di discriminazione razziale confermano queste opinioni negative, incrementando i sintomi psicologici e fisiologici dell’ansia.

È stata scoperta un’associazione significativa anche tra la discriminazione razziale e il cambiamento dei capelli, così che ai fenomeni di razzismo è stato associato un aumento dei sintomi ansiosi per gli individui con livelli moderati ed elevati di cambiamento dei capelli. Questo risultato suggerisce che gli individui che sostengono affermazioni come “i capelli lisci sono migliori dei miei capelli” sono più propensi a riportare esperienze di disagio psicopatologico.

Le analisi non hanno rivelato alcuna interazione significativa tra discriminazione razziale e alterazione dell’aspetto fisico.

Per ciò che concerne le implicazioni cliniche, questo studio sottolinea la necessità che le esperienze di discriminazione razziale vengano considerate ed elaborate nel contesto terapeutico. In secondo luogo, i risultati suggeriscono che l’interiorizzazione del razzismo può esacerbare gli effetti nocivi della discriminazione.

Erotomania: il delirio d’amore tra storia, clinica e cinema

L’erotomania presenta un quadro clinico caratterizzato da un persistente delirio erotico, che porta il paziente a costruire delle false credenze di natura amorosa su un’altra persona, le cui azioni non vengono interpretate in modo corretto. 

 

 L’erotomania, conosciuta anche come Sindrome di de Clerambault, dallo psichiatra francese Gaëtan Gatian de Clerambault (1872–1934), che nel 1921 pubblicò un trattato sull’argomento (Les psychoses passionelles), si configura come una condizione clinica caratterizzata dalla convinzione infondata, frutto del delirio del paziente, che un’altra persona nutra dei sentimenti d’amore nei suoi riguardi (Anderson et al., 1998).

Cenni storici

Il termine erotomania deriva dal greco “ερωτομανία”, che significa “amore folle”.

I primi riferimenti a questo quadro clinico sono già riscontrabili nelle opere di antichi autori greci e romani, quali Plutarco, Platone, Galeno e Valerio Massimo. Nel corso dei secoli la definizione di erotomania è stata oggetto di numerose rivalutazioni (Berrios et al., 2002):

  1. nei secoli compresi tra l’età antica e l’inizio del XVIII secolo emerge una visione dell’erotomania come un malessere generale causato da un amore non corrisposto. I medici greci, come Areteo e Galeno, raccontano nei loro scritti di giovani donne e uomini affetti da vari sintomi fisici e psichici conseguenti al “mal d’amore”. Il latino Celio Aureliano scrive che “molti medici ritengono che l’amore sia il rimedio alla follia, ma non sanno che in molti casi ne è la causa”;
  2. dalla metà del XVIII secolo fino ai primi anni del XIX secolo l’erotomania inizia a tratteggiarsi come una forma di follia generata da un eccesso di appetito sessuale che determina indiscriminati atti sessuali. Ninfomania e satiriasi sono considerate delle tipologie di questa condizione;
  3. tra la prima metà del XIX secolo e l’esordio del XX secolo appare una nuova concezione dell’erotomania, la quale viene interpretata come un disturbo mentale provocato da un amore non ricambiato. Non si tratta più di ninfomania e satiriasi, inquadrati come disturbi fisici, bensì di un di un disturbo dell’immaginazione accompagnato da un errore di giudizio. Laurent scrive che “come l’astronomo che, dopo aver scoperto una nuova stella, non riesce a smettere di vederla con l’occhio della mente, l’erotomane non è in grado di cessare di vedere la persona amata”;
  4. a partire dai primi anni del XX secolo si afferma quella che anche allo stato attuale è impiegata come definizione di erotomania, la quale è descritta come convinzione delirante di essere amati da qualcun altro.

Inquadramento clinico

Nel DSM-5 l’erotomania si classifica come un sottotipo di disturbo delirante. Non è molto comune e si riscontra con maggiore prevalenza nel sesso femminile, anche se il sesso maschile non ne è escluso. Alcuni studiosi ritengono che si manifesti da sola (sindrome primaria), mentre altri che sia una componente di un disturbo più generale (sindrome secondaria), di solito una schizofrenia paranoide o un disturbo bipolare (Anderson et al., 1998).

Il quadro clinico è caratterizzato dalla presenza di un persistente delirio erotico, che porta il paziente a costruire delle false credenze di natura amorosa su un’altra persona, le cui azioni non vengono interpretate in modo corretto.

L’individuo oggetto del delirio erotomane del paziente è spesso di uno status sociale ed economico più elevato, può essere persino un personaggio famoso; il paziente può conoscerlo direttamente e in maniera approfondita oppure aver avuto un minimo contatto o addirittura nessuno (Oliveira et al., 2016).

L’erotomane rivolge le sue attenzioni a una persona cui si sente legata sentimentalmente e che, a suo dire, lo ricambia. Si convince che il presunto amante si sia fatto avanti per primo e che comunichi attraverso messaggi, sguardi e vari altri segnali; mostra il proprio affetto e contraccambia quello dell’ipotetico partner mediante telefonate, lettere, regali e visite, convinto che sia lui stesso a volerlo. Ogni rifiuto viene inteso come tentativo di nascondere la relazione al resto del mondo come conseguenza della difficoltà a rendere ufficiale il rapporto (Anderson et al., 1998).

Per il paziente l’oggetto d’amore diventa il pensiero più importante: trascorre le giornate attendendo un segnale, seguendolo o osservandolo. Nei casi più gravi il delirio erotomane può spingere il soggetto a commettere atti e/o comportamenti gravi e penalmente perseguibili, ad esempio stalking e aggressioni, rivolti all’ipotetico amante o alle persone vicine. Chiunque si frapponga tra lui/lei e la persona amata viene percepito come un pericoloso ostacolo e diventa, pertanto, bersaglio di collera e odio (Jordan et al., 2006).

L’erotomania può articolarsi secondo tre fasi (D’Urso, 2020):

  • fase della speranza: il paziente spera e attende che la persona amata dichiari il suo sentimento;
  • fase della delusione: in seguito ai continui rifiuti, il soggetto va incontro a depressione, aggressività e/o tentativi di suicidio;
  • fase del rancore: l’aggressività viene esasperata e può condurre all’omicidio dell’individuo oggetto del delirio erotomane.

I pazienti affetti da erotomania non sviluppano obbligatoriamente tutte e tre le fasi; possono anche rimanere fermi alla prima senza mai passare alle successive.

Trattamento

 La prognosi varia da soggetto a soggetto. La terapia farmacologica prevede l’utilizzo di farmaci antipsicotici come il Pimozide e il Risperidone. Tra i trattamenti non farmacologici risultano efficaci la terapia elettroconvulsivante (TEC) e la psicoterapia.

Gli antipsicotici e la TEC aiutano ad attenuare i deliri, mentre la psicoterapia, soprattutto  se associata a interventi familiari, consente di migliorare la qualità della vita, di correggere i bias cognitivi alla base del delirio erotomane e di imparare a gestire i possibili comportamenti aggressivi (Jordan et al., 2006; Seeman, 2016).

Film sull’erotomania

Attenzione! Il paragrafo può contenere spoiler

È presente una discreta filmografia sull’erotomania (Salvai, 2004). In Obsessed – Passione fatale, film del 2009 diretto da Steve Shill, Derek è uno stimato uomo d’affari felicemente sposato, che un giorno conosce Lisa, la nuova segretaria del suo ufficio. Dapprima mostratasi cordiale, la donna diventa in seguito sempre più invadente e in numerose occasioni cerca di sedurre Derek, provando a convincerlo che sono destinati l’uno all’altra. Di fronte all’ennesimo rifiuto, Lisa dichiara pubblicamente la loro ipotetica relazione e tenta il suicidio, mettendo Derek nei guai con la polizia e la moglie, fino al tragico colpo di scena finale.

Nel film del 2004 di Roger Michell, L’amore fatale, il romantico picnic dello scrittore Joe e della fidanzata viene interrotto da un tragico incidente in cui rimarrà ucciso un uomo. Da quel momento il protagonista inizia a ricevere continue visite e telefonate da parte di un altro dei soccorritori che ha partecipato quel giorno alle attività di salvataggio, di nome Jed, il quale insiste che Joe gli stia inviando dei segnali d’amore. Non sarà facile convincerlo del contrario e placarne i comportamenti violenti e aggressivi che metteranno in pericolo la vita di Joe e della sua fidanzata.

Il talento di Mr. Ripley (1999) di Anthony Minghella racconta la vicenda di Tom, un giovane musicista, la cui vita si intreccia con quella di Dikie, il viziato figlio di un ricco imprenditore, di cui diventa presto amico. Tom sviluppa un delirio erotomane nei confronti di Dikie: si convince che quest’ultimo si sia innamorato di lui e ne fraintende le azioni e le parole, interpretandole come segnali che provano l’amore che li lega. Di fronte al drastico rifiuto dell’amico, la delusione di Tom sarà talmente intensa da spingerlo a commettere il più terribile degli atti.

In M’ama non m’ama (2002), con regia di Laetitia Colombani, la medesima storia viene raccontata presentando due punti di vista differenti: da un lato quello di Angelique, una giovane e tranquilla studentessa, e dall’altro quello di Loic, affermato cardiologo già sposato. Nella prima parte della storia viene tratteggiata quella che sembra una relazione tra i due protagonisti e si assiste ai tentativi della ragazza di convincere l’amante a rendere pubblico il loro rapporto. A un certo punto il film viene “riavvolto” e ricomincia da capo; si scopre che, in realtà, Angelique è affetta da erotomania e che la storia tra lei e il medico è frutto del suo delirio. La ragazza inizierà a essere molto aggressiva e la vicenda terminerà con un finale inaspettato.

La frase conclusiva del film M’ama non m’ama, scritta da una paziente erotomane, riassume tutta la complessità della condizione clinica dell’erotomania:

Sebbene il mio amore sia folle, la mia ragione calma i dolori troppo acuti del mio cuore, dicendogli di essere paziente e di sperare sempre. 

 

Recensione del testo “Lividi d’angoscia” (2020) di Elena Cardona

Nella raccolta di poesie Lividi d’angoscia, l’autrice riporta in modo intenso, ma nondimeno umile, il proprio vissuto, con il proposito di dare voce a più parti di sé, aprendosi non soltanto agli altri ma anche a se stessa.

 

Nell’introduzione scrive: “Verrete travolti da sensazioni, pensieri, angoscia e insoddisfazione, vuoto e sbalzi d’umore, per sfiorare con i sensi la sofferenza di chi abita nel buio. O forse vi sentirete capiti e meno soli, lì in quell’oscurità”. In ciò si ravvisa quello che, a mio avviso, rappresenta l’aspetto fondante di tutto il testo, ovvero l’incontro con l’altro. Sicuramente emerge anche il tentativo di sensibilizzare al disturbo borderline con tutte le sue manifestazioni. Manifestazioni che, in quanto tali, variano in base all’esperienza dell’individuo e che quindi, anche se leggermente a discapito del senso di controllo e padronanza dei professionisti, non possono essere racchiuse in etichette, senza un’esperienza che tocchi l’altro in maniera profondamente umana.

L’autrice inizia ad entrare nella propria esperienza sintomatologica, raccontando il proprio vissuto in merito al terrore di venire improvvisamente abbandonata, quello che nel DSM 5, viene presentato come “angoscia di separazione” . Scrive: “La rassicurazione incessante è un’urgenza” e poi: “ rimango sul bordo, lacerata dalla paura di perderti e nuotare da sola”. In particolare, nelle prime pagine del libro emergono quelli che, a mio avviso, rappresentano i tentativi di compensare la presenza di un vuoto, la presenza di una costante assenza nelle relazioni con gli altri, e nella relazione con il partner. Il tutto carico di un’imprevedibilità angosciante. Emerge una relazione fondata sul bisogno. Il bisogno di costanti conferme e rassicurazioni da parte dell’altro, il bisogno della costante presenza fisica, un carico enorme di pressione interpersonale, paura, ipervigilanza e diffidenza. Una relazione che rimane bloccata sul tema della sopravvivenza, sul bisogno dell’altro come contenitore di stati emotivi e mentali, la cui esperienza rimane sospesa, non integrata all’interno di un vissuto con una continuità tra il passato, il presente e il futuro. Scrive: “Ti penso con il timore della tua partenza, so che accadrà, la titubanza mi danza nel petto e sprofondo nei ricordi di me bambina in quella stanza vuota; ferite senza cicatrice non smettono di sanguinare e condizionano le mie cadute” e “impulsi che mentono senza scrupolo mi sussurrano frasi false e sento di essere sola, anche se sola non sono. Esisto soltanto in sensazioni di cui non posso fidarmi”. “Impulsi che mentono” e “la titubanza mi danza nel petto”, sembrano esporre un vissuto di sensazioni viscerali e di conseguenti rappresentazioni di sé e dell’altro incentrate su quella che Fonagy definisce “ipervigilanza controllante” nei confronti degli altri e della realtà esterna, in cui il soggetto vive un senso di sé estremamente confuso e una spinta ad evacuare all’esterno di sé stati della mente, in cui l’esperienza della realtà è sopraffatta da un dolore intollerabile. La “titubanza” di fronte ad un’ossessione dubitativa tra ciò che sia reale o meno, di fronte a questo monologo con fantasmi di sé che reclamano il diritto di avere voce in capitolo, alimentano ulteriormente un senso di isolamento, un’amara consapevolezza che diventa una realtà innegabile di rifiuto da parte degli altri, di disprezzo verso sé stessa e di chiusura nei confronti del mondo. Scrive: “Ho costruito dei muri intorno a me per sopravvivere al dolore di venire abbandonata; sorridevo con l’amaro sulle labbra e la consapevolezza di sentirmi rifiutata” e “È difficile non allontanare tutti quando l’unica cosa che provo è paura del rigetto”. In altre parti del testo viene raccontata quella che si manifesta come una profonda labilità affettiva e una percezione della partner estremamente instabile. Scrive: “È un mare di emozioni che sovrasta le mie azioni; boccheggio sommersa dai sentimenti prepotenti; sento troppo, sento il doppio, sento oltre quello che io stessa possa tollerare; Il mio corpo a stento contiene lo spettro dei colori così intensi da ingannare la vista e distorcere la realtà“.

La mancanza di continuità nell’esperienza di questa partner, si evince in particolare in alcune parti: “mi nutro della tua dolcezza, rispecchi la perfezione e in te m’incanto; se sbagli ti odio con ogni fibra del corpo, travolta dalla delusione e umiliata dai gemiti; indosso degli occhiali speciali con lenti in bianco e nero, vedo la tua aureola radiosa, ti tendo la mano e inconsapevolmente smetti di splendere, mi parli con lingua biforcuta sputando veleno; incastrato nella mente ho un interruttore che gestisce la corrente dei miei pensieri; Sei la mia salvezza o la mia debolezza?“.

Viene raccontata una storia senza soluzione di continuità, con immagini, sensazioni, emozioni, pensieri che, come l’autrice scrive, sono guidati da un interruttore il cui pilota automatico le incastra in compartimenti che non comunicano tra loro e che si attivano in automatico di fronte a stimoli interni o esterni. L’altro viene idealizzato, viene investito di una perfezione non umana, un salvatore celeste per poi mutare radicalmente. E lei, in tutto questo, si sperimenta come vittima delle circostanze, è un qualcosa che le accade e da cui viene travolta, ritrovandosi a sguazzare nell’impotenza.

Ciò si evince anche da quanto scrive, raccontando della propria impulsività: “I miei gesti sono istinti fatali che privano del libero arbitrio il pensiero; non possiedo il tempo di dire no, mossa dall’impulso di controllare il dolore; sono modi di sopravvivere che trasformano l’occasione in abitudine e non lasciano scelta; confusione, sciame di impulsi condotti dalla mancanza di comunicazione“. Vive un costante senso di precarietà, non sente di essersi individuata nel mondo, di avere dato forma alla propria forza vitale. Il suo senso di sé, la sua autostima, vengono avvolte da una nebbia, che avanza e soffoca, comprime le esperienze che non vengono accolte, integrate ma rimangono sospese. La propria esistenza dipende da istanti di verità, inghiottiti in frammenti di realtà, in cui viene meno il contatto autentico con le altre persone. Scrive: “Vedo il falso, la mente schernisce l’idea di realtà”.

Ne esce una relazione abortita con il mondo, con sè stessa e con gli altri, in cui la propria esistenza viene mortificata. Scrive: “Chi sono? Una domanda in un abisso di incertezze abitato da spazi troppo vasti in cui regna il silenzio; oscillo tra l’alta autostima e il rifiuto di essere; angosciata soddisfo le aspettative degli altri perché altro non posso fare; indosso un mantello bianco sul quale tutti camminano e lasciano impronte; il mio nome non è mio, appartiene al mondo che mi plasma ad immagine idilliaca per me irraggiungibile; non riconosco la mia forma in quest’abisso cronico”.

L’autoannullamento che vive, quest’inerzia infinita, travolta dalla paura, dalla rabbia, dalla vergogna, dall’angoscia viene, a mio avviso, chiaramente espressa in questa parte: “Come posso uccidermi se non sto vivendo? Esisto e soffro in un’agonia infinita, sperando ogni minuto sia l’ultimo, necessito di una pausa dal presente amaro; forse sono già morta, sto solo aspettando che il corpo mi raggiunga; il suicidio mi avvolge come una coperta calda, conforta l’angoscia e trasmette sicurezza, è salvezza; esigenza di spegnere la sofferenza impossibile da sostenere”.

L’autrice sembra esprimere il bisogno coatto di evacuare questi vissuti intollerabili, memorie traumatiche cariche di impotenza, terrore, odio attraverso il fantasticare sul suicidio, attraverso il passaggio all’atto come il tagliarsi o buttarsi a capofitto sull’alcool e sulle sostanze stupefacenti, tutte modalità la cui principale funzione sta nel controllo di una sofferenza interna insopportabile. Un senso di vuoto opprimente si fa avanti, quello che viene definito dall’autrice come “narcotico emotivo esperto nell’annientare il suo essere umana”. Un’atroce esperienza di distacco tra isole del suo sé, che la priva di un senso di appartenenza e connessione psichica e che la porta, in questo, a sperimentare stati dissociativi: “La materia si distacca dall’animo guasto che incerto fluttua; scruto dall’esterno la mia figura vagare assente, parlo ma lei non sente”. Scrive anche: “Semplicemente sono un contenitore di ossa e di pelle, con un cuore intorpidito che fiacco batte spogliato d’amore; sono mancanze che pesano più di presenze”; “Il mondo si allontana e io, isola attonita, percepisco l’impersonalità dell’essere viva”.

La rabbia, l’odio nei confronti di se stessa e degli altri, un senso di urgenza in risposta a fantasmi che strangolano e cui è possibile rispondere soltanto attraverso grida che, violente e prepotenti, irrompono dilagando nella logica oltraggiata. Scrive: “Reagisco all’istante per proteggere le ferite dalla paura di sanguinare ancora”. La paura di sperimentare un’impotenza assoluta, di sentirsi vittima di ingiustizie e di altri inaffidabili, che seducono e tradiscono. Il tutto, in preda a pensieri paranoidi che nel caos di un senso di sè precario, la portano a distorcere la realtà, passando dal sentirsi vittima al reagire impulsivamente a quelle che percepisce come umiliazioni. Scrive: “È un inganno delle sensazioni, che produce concezioni distorte, errori d’esistenza che mi proiettano in un mondo illusorio”.

La parte finale del libro viene intitolata “Rinascita”. L’autrice scrive: “Eclissata dal dolore, esiste la consapevolezza di ciò che potrei essere, fiammella flebile che racchiude la mia vera essenza, le mie potenzialità diventano fuoco indomabile divorando il buio. Le ceneri rendono fertile la terra; gli alberi si aggrapperanno al suolo con profonde radici dove scorrerà nuova linfa. E tornerà certo la notte con i brividi, e sarò pronta ad acccoglierla, allargano le braccia per confortarla e accettarla senza paura, con le mie cicatrici, lasciando scorrere la vergogna e trasformando in arte la mia sensibilità”.

Come ho accennato all’inizio di questo articolo, a mio modo di vedere, il tema centrale di questa raccolta è incentrato sull’incontro. L’autrice fa un percorso in cui l’incontro con l’altro e con se stessa è incastrato sul tema della sopravvivenza, sul bisogno, e in cui tutto è subordinato a presenze interne ingombranti, buchi neri senza fine. Ma il suo percorso sembra evolversi verso l’esplorazione di se stessa e dei propri talenti, nonché verso la scoperta di un senso di appartenenza, prendendo probabilmente consapevolezza che il proprio potenziale per l’amore esista dentro di sé e che non possa dipendere da agenti esterni. L’incontro quindi comincia a prendere forma in un’apertura, prima ancora che verso altro, verso se stessa e verso un’intimità permanente.

Autismo in età adulta. Tra comunicazione e socializzazione, l’esperienza dell’Associazione di Promozione Sociale “Il Tortellante”

L’Associazione di Promozione Sociale “Il Tortellante” ha lo scopo di avvicinare le persone con autismo a un lavoro vero e proprio prendendo in considerazione ogni fragilità e andando a lavorare sulle autonomie, la comunicazione e la socializzazione.

Alessandro Rebuttini e Martina Rossetti – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

 

Autismo

L’autismo, o disturbo dello spettro autistico, consiste in un disturbo del neurosviluppo biologicamente determinato che si traduce in un funzionamento mentale atipico, insorge nei primi anni di vita della persona e accompagna il soggetto per tutto l’arco di vita (SINPIA, 2005). È caratterizzato da una compromissione nel corso dello sviluppo di una serie di abilità comunicative, di socializzazione, e sono in generale associati a comportamenti insoliti, ripetitivi o stereotipati, e difficoltà di astrazione e generalizzazione (ISS, 2011).

Le caratteristiche essenziali del disturbo sono la compromissione persistente della comunicazione sociale e dell’interazione sociale in molteplici contesti (Criterio A): le persone con autismo possono manifestare deficit nella reciprocità socio-emotiva, con un approccio sociale anormale e il fallimento nella normale reciprocità della conversazione; un ridotto coinvolgimento nella condivisione di interessi, emozioni o sentimenti; un’incapacità a dare inizio o rispondere a interazioni sociali anche semplici (APA, 2013). Possono presentare poi un deficit nel comportamento comunicativo non verbale utilizzati nelle interazioni sociali (ad esempio anomalie nel contatto visivo e nel linguaggio del corpo, difficoltà nel comprendere e utilizzare gesti, mancanza di espressività facciale). Possono anche presentare difficoltà nella gestione e comprensione delle relazioni interpersonali, mostrandosi ad esempio incapaci di adattare il proprio comportamento ai diversi contesti sociali, di condividere il gioco immaginativo e di fare amicizia, manifestando un’assenza di interesse verso i coetanei. Un secondo criterio diagnostico per tale disturbo è relativo alla presenza di pattern di comportamento, interessi o attività ristretti e/o ripetitivi (Criterio B): movimenti, uso degli oggetti o eloquio stereotipati; rigida aderenza alla routine quotidiana con espressioni di estremo disagio di fronte a cambiamenti o fasi di transizione; interessi limitati e a volte anomali; iper- o iporeattività in risposta a stimoli sensoriali o interessi insoliti verso elementi sensoriali presenti nell’ambiente (ad esempio particolari avversioni verso consistenze tattili specifiche, essere affascinati da luci o suoni, …). Questi sintomi si manifestano nella prima infanzia e limitano o compromettono il funzionamento adattivo generale della persona (Criteri C e D). Le espressioni del disturbo variano molto in base al livello di gravità della condizione, al livello di sviluppo e all’età cronologica; da qui il termine Spettro (APA, 2013).

Il deficit di comunicazione e interazione sociale (Criterio A) risulta quindi essere uno dei due criteri diagnostici centrali per il disturbo dello spettro autistico.

Comunicazione, socializzazione e interventi

Per comunicazione si intende un processo di trasmissione di messaggi da un emittente a un ricevente, attraverso uno stesso canale e sistema di segni per comprendere il contenuto del messaggio (Anolli, 2006). La comunicazione è diversa dal linguaggio, in quanto quest’ultimo è uno strumento del comunicare, ovvero ciò che consente di veicolare un messaggio in modo verbale (orale o scritto) oppure non verbale (mimica, gesti, postura). Tutti i bambini prima ancora di sviluppare il linguaggio e denominare gli oggetti attraverso etichette verbali (parole), utilizzano gesti per indicare ciò che gli interessa e per relazionarsi con l’adulto. A 10 mesi sono già in grado di utilizzare gesti deittici dichiarativi o richiestivi per mostrare oggetti di interesse o fare richieste. Successivamente tra i 12 e i 18 mesi questi gesti lasciano gradualmente spazio ad altri più rappresentativi, che vengono anch’essi utilizzati dal bambino per raccontare o chiedere all’altro, per poi approdare allo sviluppo delle prime parole (Schiavi, 2019). Fin da piccolo quindi l’essere umano partecipa a scambi comunicativi con l’altro, manifestando le proprie intenzioni, e interessi, avvia episodi di attenzione congiunta, con l’adulto prima e con i coetanei poi, e di vera e propria interazione sociale.

Se questo è ciò che caratterizza lo sviluppo della comunicazione in un bambino normotipico, lo stesso può non accadere in bambini con disturbo dello spettro autistico nei quali la comunicazione risulta essere in molti casi altamente deficitaria. Tra i 12 e i 24 mesi infatti si possono scorgere le prime atipie nella comunicazione non verbale: è presente una scarsa integrazione tra gesto e sguardo, i gesti deittici vengono utilizzati con minore frequenza rispetto alla popolazione normotipica o comunque con la sola funzione richiestiva e non di condivisione di interessi (Baron-Cohen, Leslie & Frith, 1985), i gesti rappresentativi vengono emessi con una minore frequenza a causa di una mancanza di abilità di decontestualizzazione e astrazione. Tutto ciò ha evidenti effetti sullo sviluppo comunicativo, cognitivo e linguistico del bambino e, di conseguenza, sullo sviluppo sociale e relazionale (Schiavi, 2019). Il grado di compromissione del deficit di comunicazione varia da bambino a bambino; esistono infatti casi in cui non si sviluppa alcun tipo di comunicazione verbale, altri in cui è presente solo parzialmente, altri in cui, pur in assenza del linguaggio, si sviluppano forme di comunicazione non verbale.

Nelle Linee guida per l’autismo (SINPIA, 2005) e nelle Linee Guida 21 dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS, 2011) viene data particolare importanza all’attivazione di progetti terapeutici di intervento che vadano a lavorare sul deficit di comunicazione. In particolare, le Linee Guida 21 raccomandano “l’utilizzo di interventi a supporto della comunicazione nei soggetti con disturbi dello spettro autistico, come quelli che utilizzano un supporto visivo alla comunicazione” allo scopo di incrementare l’imitazione spontanea e i comportamenti di comunicazione sociale. Una riconosciuta ed efficace strategia per intervenire sullo sviluppo della comunicazione è la Comunicazione Aumentativa Alternativa (CAA), che consiste in una qualunque forma di comunicazione che sostituisce o contribuisce ad aumentare l’emissione di linguaggio verbale. È aumentativa perché, a partire dalle competenze del soggetto, fornisce strategie utili a incrementare le modalità comunicative senza limitarsi a sostituirle o proporne di nuove; è alternativa perché va oltre le normali modalità comunicative e può avvalersi anche di immagini o ausili tecnologici avanzati. Studi di letteratura (Schlosser & Wendt, 2008; Ganz, 2015) riferiscono l’efficacia degli interventi di CAA nel trattamento abilitativo di bambini con disturbo dello spettro autistico. La CAA, applicabile a tutte le età, non preclude in alcun modo lo sviluppo del linguaggio verbale anzi, può stimolare le naturali abilità del bambino a sviluppare una comunicazione verbale dove possibile. Esistono diversi strumenti di cui la CAA si avvale, questo la rende per definizione multimodale. Può avvalersi di ausili esterni (CAA assistita) quali ad esempio disegni, immagini PECS (Picture Exchange Communication System), agende, software di comunicazione, app su smartphone o tablet; o può essere utilizzata senza alcun tipo di ausilio esterno (CAA non assistita), e servirsi esclusivamente del corpo tramite linguaggio dei segni o gesti. Le PECS sono molto utilizzate negli interventi di Comunicazione Aumentativa Alternativa e consistono in un sistema di comunicazione per scambio di immagini e simboli; l’insegnamento all’utilizzo di tali immagini avviene attraverso un percorso graduale e si avvale di tecniche cognitivo-comportamentali per educare il bambino agli scambi comunicativi e portarlo ad esprimere le proprie esigenze e bisogni (Charlop-Christy, Carpenter, LeBlanc & Kelley, 2002).

Altrettanto importanti e necessari sono poi gli interventi a supporto della comunicazione sociale, al fine di sostenere le persone con autismo nell’apprendere quelle basi dell’interazione sociale reciproca che risultano essere deficitarie per via della loro condizione, e favorire un loro adattamento e inserimento nella comunità di riferimento. Ciò può avvenire anche grazie l’ausilio della tecnologia che può facilitare e migliorare la comunicazione tra persone a sviluppo tipico e persone con autismo (Papapicco, 2021).

Viste le notevoli difficoltà comunicative, di lettura e comprensione degli stati mentali nelle persone con disturbo dello spettro autistico sono stati introdotti nel corso degli anni numerosi interventi che si focalizzano su questi elementi (Ferri, Candria, & Mezzaluna, 2020). Come suggerito dalle linee guida dell’Istituto Superiore di Sanità gli interventi consigliati sono di tipologia cognitivo-comportamentale. In particolare, viene seguito un approccio comportamentale che pone le fondamenta sulla metodologia di Analisi Applicata del Comportamento (ABA). L’ABA è un metodo utilizzato per ridurre i comportamenti problematici, migliorare gli apprendimenti e aumentare la comunicazione (U.S. Department of Health and Human Services; 1999). Gli interventi abilitativi e riabilitativi, anche quelli rivolti alla comunicazione e interazione sociale, dovrebbero essere mantenuti costanti nell’intero arco di vita della persona con autismo non svolgendosi solamente nei primi anni di vita in quanto, crescendo, le richieste ambientali e sociali aumentano diventando sempre più complesse e diversificate. Al tempo stesso la persona con autismo conserva le medesime caratteristiche tipiche della propria sindrome soprattutto per ciò che riguarda la sfera sociale (Cottini, 2009). Oltre a ciò, è necessario fornire alle persone con autismo per tutta la vita occasioni di socializzazione e di interazione sociale al fine di eliminare o attenuare questa dimensione che contraddistingue questa condizione di vita (ISS, 2011). A tale scopo presso l’Istituto Superiore di Sanità è stato costituito l’Osservatorio Nazionale Autismo con diversi obiettivi, tra cui favorire interventi finalizzati a garantire la tutela della salute, il potenziamento delle condizioni di vita e l’inserimento sociale delle persone con disturbo dello spettro autistico.

Al fine di rendere più efficaci tutti i trattamenti, ma in particolare quelli sulla comunicazione e la socializzazione, è necessaria l’organizzazione del lavoro in équipe multidisciplinari in cui ogni professionista apporta le proprie conoscenze teoriche e pratiche. Sia per soggetti in giovane età che per adolescenti e giovani adulti con autismo il gruppo di lavoro dovrebbe essere composto da psichiatri e neuropsichiatri infantili, psicologi e psicoterapeuti, tecnici della riabilitazione psichiatrica, terapisti occupazionali, logopedisti, neuropsicomotricisti, infermieri ed educatori professionali (NICE, 2012). Queste figure professionali non hanno un ruolo solo nella fase diagnostica, ma in tutta la presa in carico con la necessità di procedere occupandosi della costruzione di un profilo funzionale, della messa in atto degli interventi abilitativi personalizzati e dei monitoraggi degli esiti (ISS, 2011). Gli interventi devono essere strutturati basandosi sulle competenze, i punti di forza e di debolezza, delle persone con autismo. Per fare ciò è necessario avere dati e informazioni provenienti dalle osservazioni, dai colloqui e dalla testistica somministrata direttamente o indirettamente ovvero a persone che conoscono bene il soggetto con autismo come genitori, caregivers o insegnanti (Cavagnola, Pilone & Fioriti, 2006).

Di seguito sono riportati alcuni test che possono essere utilizzati per indagare le capacità comunicative in differenti fasi nell’arco della vita:

  • VB-MAPP, Verbal Behavior Milestones Assessment and Placement Program (Sundberg, 2008): valuta lo sviluppo del linguaggio verbale e delle abilità sociali in bambini con disturbo dello spettro autistico nei primi mesi di vita. Vengono presi in considerazione i prerequisiti linguistici e comunicativi basilari per lo sviluppo del comportamento verbale, secondo la classificazione skinneriana, che individua tre tipi principali di linguaggio: mand, tact e intraverbale. In base alle informazioni raccolte, il VB-MAPP consente la definizione e la creazione di un Piano Educativo Individualizzato (PEI), realizzato prendendo in considerazione i punti di forza e di debolezza dimostrati dal soggetto;
  • CCC-2, Children’s Communication Checklist – Second Edition (Bishop, 2003): valuta la presenza di problemi di linguaggio o comunicativi in bambini e ragazzi. In particolare, attraverso questa checklist è possibile individuare i problemi comunicativi di natura pragmatica e difficilmente riscontrabili con i test tradizionali. Lo strumento è composto da 70 item a scelta multipla suddivisi in 10 scale. Le scale prese in esame sono: Eloquio, Sintassi, Semantica, Coerenza, Inizio Appropriato, Linguaggio stereotipato, Uso del contesto, Comunicazione non verbale, Relazioni sociali e Interessi. Mediante le scale è possibile calcolare due punteggi globali, il Punteggio globale di comunicazione (GCC) e il Punteggio globale di discrepanza dell’interazione sociale (SIDC);
  • VABS-II, Vineland Adaptive Behavior Scales- 2nd edition (Sparrow, Cicchetti & Balla, 2005): valutano il comportamento adattivo (CA), ossia le attività che l’individuo abitualmente svolge per rispondere alle attese di autonomia personale e responsabilità sociale proprie di persone di pari età e contesto culturale. Di grande interesse per le persone con autismo e degne di nota sono la scala della Comunicazione (si declina nelle sottoscale Ricezione, Espressione e Scrittura) e la scala della Socializzazione (a sua volta composta dalle sottoscale Relazioni interpersonali, Gioco e tempo libero e Regole sociali);
  • CARS-2 ST, Childhood Autism Rating Scale Second Edition Standard Version (Schopler, Van Bourgondien, Wellman & Love, 2014): è una scala che identifica soggetti con disturbo dello spettro autistico a partire dai 2 anni di età. Nel test sono presenti gli item Relazione con le persone, Imitazione, Uso del corpo, Comunicazione Verbale, Comunicazione non verbale;
  • SRS, Social Responsiveness Scale (Costantino & Gruber, 2010): è un questionario composto da 65 item che valuta il comportamento sociale reciproco, la comunicazione e comportamenti ripetitivi e stereotipati caratteristici dei disturbi dello spettro autistico;
  • SCQ, Social Communication Questionnaire (Rutter, Bailey & Lord, 2003): è uno strumento di screening adatto a soggetti di qualsiasi età superiore ai 4 anni. È un test che valuta le capacità comunicative e sociali del soggetto. Ha un punteggio cut-off di 15 che conferma un quadro diagnostico con caratteristiche comunicative tipiche di un disturbo nello spettro autistico;
  • POS, Personal Outcomes Scale (Van Loon, Van Hove, Schalock & Claes, 2017): è lo strumento più conosciuto nell’ambito della disabilità e validato anche in Italia. Esso prevede la presa in esame degli otto domini di Qualità della Vita basati sull’ICF (sistema Internazionale di Classificazione del Funzionamento): sviluppo personale, autodeterminazione, relazioni interpersonali, integrazione sociale, diritti, benessere emozionale, benessere fisico, benessere materiale;
  • SIS, Support Intensity Scale (Thompson, Bryant, Campbell, Craig, Hughes & Rotholz, 2004): è un’intervista semi-strutturata, somministrata a persone con un’età tra 16-72 anni, che valuta la tipologia e l’intensità dei bisogni di sostegno necessari a consentire al soggetto di condividere ambienti e svolgere le attività quotidiane, e di conseguenza a raggiungere un livello di miglior funzionamento autonomo. È composta da tre sezioni a loro volta composte da differenti scale. Nella prima sezione vengono esaminate 6 sottoscale tra cui una che riguarda la socializzazione;
  • SAFE, Social Adaptive Functioning Evaluation (Harvey, Davidson, Mueser, Parrella, White & Powchik, 1997): è una scala di osservazione-valutazione utilizzata per esaminare la severità dei deficit nelle aree relative alle abilità sociali, strumentali e funzionali dell’individuo. Il test contiene 19 items che valutano la cura del sé, le abilità domestiche, le competenze sociali e di adattamento, la capacità di controllo dell’impulsività, la cooperatività, l’abilità nell’uso del telefono, e il rispetto della proprietà.

L’esperienza della Associazione ‘Il Tortellante’ di Modena

L’Associazione di Promozione Sociale “Il Tortellante” è nata nel 2018 a Modena e ha lo scopo di avvicinare le persone con autismo a un lavoro vero e proprio prendendo in considerazione ogni fragilità e andando a lavorare sulle autonomie, la comunicazione e la socializzazione dei soggetti che frequentano questa realtà.

“Il Tortellante” è un laboratorio terapeutico – abilitativo dove giovani e adulti con disturbi dello spettro autistico imparano a produrre pasta fresca fatta a mano. Il progetto, avviato a gennaio 2016 e integrato da attività abilitative e formative per migliorare le autonomie, si è dimostrato una buona pratica di inclusione, coinvolgendo tutta la comunità (Rebuttini & Rossetti, 2020). Nel corso del 2016 e 2017 si è svolto presso il primo progetto pilota, con 21 ragazzi tra i 15 e 27 anni, con diversi livelli di abilità, che hanno partecipato alle attività per due ore a settimana divisi su tre gruppi. Prendendo spunto dalla passione dei ragazzi, dal talento e dalla manualità dimostrata si è strutturato al piano terra il laboratorio di pasta fresca. Al giorno d’oggi è stato possibile aumentare il numero di soggetti coinvolti passando da 21 a 25 utenti sempre con diagnosi di disturbo dello spettro autistico o tratti autistici. Dalle valutazioni qualitative e quantitative realizzate durante il percorso si è ricavato che i ragazzi hanno potenziato la propria immagine di sé, aumentato l’autonomia e incrementato diversi aspetti fino ad allora critici come lavorare e comunicare in team, rispettare le regole, gestire i tempi di attesa e socializzare con altre persone più o meno conosciute. Tutto ciò è stato possibile grazie a un’équipe scientifica altamente formata sull’autismo guidata da Franco Nardocci (neuropsichiatra infantile e psichiatra), due psicologi coordinatori e il lavoro di 15 operatori che, con diverse professionalità come tecnici della riabilitazione psichiatrica, educatori, terapisti occupazionali e psicologi, hanno dato il loro contributo nello svolgimento delle attività e nel lavorare sugli obiettivi specifici di ciascun soggetto. Per i ragazzi afferenti all’Associazione è stato definito dall’équipe quello che a tutti gli effetti si può definire un Progetto di Vita (PdV) a breve o medio termine (Rebuttini & Rossetti, 2020). Al laboratorio di pasta fresca, elemento cardine dei progetti dell’Associazione, si alternano le attività sulle autonomie individuali: al piano superiore della sede è situata la “palestra delle autonomie” ovvero una vera e propria “casa” per allenare i ragazzi al raggiungimento di un numero sempre maggiore di autonomie personali, con focus particolare allo sviluppo di competenze per la gestione della vita quotidiana. Accanto alle attività laboratoriali e a quelle incentrate sulle autonomie si sono create importanti occasioni, da quelle più individuali a quelle più di gruppo, per lavorare maggiormente sulla comunicazione e sulla socializzazione dei ragazzi che frequentano l’Associazione. In particolare, nell’ultimo periodo è stato possibile ampliare il numero di ore che i ragazzi trascorrono presso la struttura e la qualità delle attività proposte. I progetti ad oggi in corso d’opera sono:

  • Stasera UsciaMo. Uscite serali in gruppo in centro a Modena o nella sede dell’Associazione per permettere ai ragazzi di allenare la propria comunicazione, la partecipazione al gruppo e la condivisione di momenti di vita con i coetanei. In queste occasioni i ragazzi con autismo fanno un pasto tutti insieme e poi trascorrono la serata in compagnia facendo una passeggiata, interagendo tramite giochi di società o facendo il cineforum.
  • Progetto Social Skills Training. Seguendo il manuale Social Skills Training (Bellack, Mueser, Gingerich & Agresta, 2003) gli adolescenti e giovani adulti con autismo imparano le basi della comunicazione interpersonale e si allenano tra loro a emettere un comportamento sociale e comunicativo adeguato alla situazione che si trovano a vivere. Successivamente tali competenze verranno generalizzate all’esterno del gruppo e dell’Associazione.
  • Progetto denaro. I ragazzi insieme al personale imparano il significato dei soldi, il loro valore, imparano a contare e a pagare al supermercato interagendo con il personale dei negozi in cui vengono fatti acquisti. Tale generalizzazione è possibile solo dopo aver acquisito queste abilità mediante simulazioni e role playing.
  • Progetto emozioni. I ragazzi insieme agli operatori del centro stanno seguendo un percorso di alfabetizzazione emotiva, durante il quale imparano a riconoscere le caratteristiche delle emozioni primarie, comprendono quando si attivano nella loro quotidianità e ad esprimerle. Tutto questo viene svolto tramite videochiamate e in un gruppo di 4 ragazzi per volta. L’obiettivo a lungo termine è che imparino a riconoscerle e a gestirle in maniera adeguata e funzionale nella loro quotidianità.

Grazie a questi progetti sono stati notati dall’équipe scientifica e dai famigliari numerosi cambiamenti nei ragazzi; partecipano più volentieri alle attività proposte e manifestano a parole o con il comportamento il piacere di sentirsi parte di un gruppo. Le interazioni e gli scambi comunicativi tra i ragazzi sono aumentati anche durante le sessioni di lavoro laboratoriale, segno del fatto che sta avvenendo la generalizzazione di comportamenti acquisiti in momenti di training strutturato. L’importanza di continuare a proporre a persone con disturbo dello spettro autistico opportunità di crescita, miglioramento e stimolazione è al centro del lavoro dell’Associazione “Tortellante”, allo scopo di trasformare sempre più i punti di debolezza di ciascun ragazzo in punti di forza, aumentando le competenze comunicative e sociali utili a un migliore adattamento e inserimento nella comunità in vista di un futuro anche al di fuori dalle proprie famiglie.

 

Mutismo selettivo: una panoramica della condizione e dell’eziologia. L’assenza di parola è solo la punta dell’iceberg?

Il mutismo selettivo, definito dalla più recente classificazione diagnostica (DSM-5; APA, 2013) come l’incapacità di parlare solo in situazioni specifiche (es. scuola) o con determinate persone, appartiene allo spettro dei disturbi d’ansia.

 

L’insorgenza del mutismo selettivo (MS) nella prima infanzia può compromettere il neurosviluppo e influire negativamente sui risultati scolastici e sulla qualità di vita del bambino. Risulta, dunque, essenziale che psichiatri, logopedisti, infermieri e insegnanti abbiano familiarità con questo disturbo, poiché l’inizio precoce del trattamento è associato a una prognosi migliore. La complessità eziologica di tale disturbo raro suggerisce fortemente un approccio multimodale nel processo diagnostico e terapeutico (Rozenek et al., 2020). Non è tutt’ora chiaro se il mutismo selettivo sia un disturbo d’ansia primario o una manifestazione comportamentale di evitamento appreso (Muris & Ollendick, 2015).

Il termine ‘mutismo’ designa la mancanza di contatto verbale, in assenza di danni a carico dell’abilità di linguaggio. La specifica ‘selettivo’, invece, denota che l’incapacità di parlare si verifica solo in determinati contesti sociali o solo con determinate persone; mentre in altri contesti (solitamente a casa, verso i familiari più stretti) il paziente non sperimenta tale incapacità e non mostra sintomi di mutismo (Bilikiewicz et al., 2007). Secondo il DSM-5, questa sindrome psicopatologica può essere diagnosticata a qualsiasi stadio dello sviluppo, se non meglio spiegata da un disturbo della comunicazione o altre patologie psichiatriche/neurologiche (APA, 2013). Il mutismo selettivo si manifesta più comunemente durante la prima infanzia, spesso in coincidenza con l’inizio dell’istruzione prescolare o primaria. Ciò è legato all’emergere delle prime grandi difficoltà sociali ed educative che il bambino deve affrontare (Rozenek et al., 2020); per accertare la presenza di una patologia, i criteri diagnostici richiedono, però, che l’assenza selettiva della parola persista per almeno un mese (APA, 2013).

Mutismo selettivo: prevalenza ed eziologia

Il mutismo selettivo è un disturbo d’ansia relativamente raro, tuttavia è difficile valutare con precisione la sua prevalenza, a causa dei criteri diagnostici incoerenti e della scarsa numerosità campionaria riportata negli studi (Rozenek et al., 2020); sono, però, disponibili dati in merito ad una significativa familiarità del disturbo e ad una maggiore frequenza (circa il doppio) nel genere femminile (Steinhausen et al., 2006) e nelle persone bilingue (Cohan, Price & Stein, 2006). La frequente presenza intrafamiliare del mutismo selettivo ha spinto i ricercatori ad identificare i geni associati a questo disturbo: è stato dimostrato che il polimorfismo del gene CNTNAP2 è associato ad un maggior rischio di manifestazione del mutismo selettivo durante l’infanzia e ad un maggior rischio di sperimentare un aumento dell’ansia sociale durante l’età adulta (Stein et al., 2011). Anche l’influenza che il genitore esercita sul figlio può predisporre al mutismo selettivo: è stata riscontrata, infatti, una maggiore possibilità di esordio del disturbo nelle famiglie con genitori iper-protettivi e iper-controllanti; ciò si traduce nello sviluppo dell’interdipendenza nella diade genitore-figlio e si manifesta come mancanza di fiducia verso l’ambiente extra-familiare sotto forma di mutismo (Edison et al., 2011).

Un’altra variabile predisponente è lo status di immigrato: studi epidemiologici hanno mostrato che il mutismo selettivo si è verificato negli immigrati quattro volte più spesso (2,2% contro 0,5%), rispetto alle famiglie autoctone (Elizur & Perednik, 2003). La timidezza, intesa come la tendenza a sentirsi a disagio durante gli scambi interpersonali, può essere considerata come un aspetto sociale dell’inibizione comportamentale. La timidezza si riscontra, infatti, nell’85% dei bambini con mutismo selettivo (Steinhausen & Juzi, 1996). Viene, dunque, suggerito di svolgere test di screening che consentano la prevenzione precoce del MS nei bambini con evidente inibizione comportamentale (Gensthaler et al., 2016).

Mutismo selettivo e ansia

In conclusione di tale estratto, è possibile affermare che il mutismo selettivo è un disturbo del neurosviluppo strettamente associato all’eziopatologia dell’ansia. Disturbi del neurosviluppo coesistenti (es. disturbi del linguaggio e/o della comunicazione linguistica), un temperamento specifico (inibizione comportamentale), fattori ambientali (es. pattern di comportamento di evitamento in famiglia) sono descritti in letteratura come fattori predisponenti all’esordio dei disturbi d’ansia, in particolar modo del mutismo selettivo. Secondo la psicopatologia dello sviluppo, i fattori genetici e le interazioni tra le suddette predisposizioni possono, con il tempo, portare alla manifestazione del mutismo selettivo nel periodo critico. L’eziologia multifattoriale necessita di un approccio multimodale nel processo diagnostico e terapeutico, che dovrebbe essere intrapreso il più rapidamente possibile; al fine di prevenire ritardi secondari nello sviluppo cognitivo e sociale del bambino. Si può, quindi, presumere che la prognosi e il decorso del mutismo selettivo possano dipendere dai disturbi associati.

Il trattamento più efficace per il mutismo selettivo, come per la maggior parte dei disturbi del neurosviluppo, risulta essere la psicoterapia cognitivo-comportamentale, raccomandata come intervento di prima linea.

Riassumendo, i fattori che possono aumentare il rischio di mutismo selettivo nella prima infanzia sono i seguenti: genere femminile, polimorfismo del gene CNTNAP2, genitori con tendenze a comportamenti di evitamento, iperprotezione ed eccessivo controllo parentale, difficoltà educative e/o di contatto con i coetanei dovute a disturbi della comunicazione e/o ritardo dello sviluppo e/o compromissione dell’elaborazione uditiva, status di immigrato, timidezza e inibizione comportamentale. Sono, tuttavia, necessari ulteriori studi finalizzati ad esaminare se il mutismo selettivo sia un disturbo d’ansia conclamato o semplicemente una manifestazione comportamentale di evitamento, derivata da emozioni negative e difficoltà comunicative (Rozenek et a., 2020).

 

Duct Tape Bikini

Con i Duct Tape Bikini si fa riferimento a una forma di arte sul corpo che trova nell’utilizzo del nastro adesivo il proprio mezzo.

 

Sbatto la porta di casa e mi fiondo sul divano, giornata lavorativa estenuante! Non mi resta che un po’ di zapping su youtube prima di cena. Scorro veloce la mia playlist quando inaspettatamente resto ammaliato da uno stilista che fa video sfilate di bikini hot in modo decisamente innovativo.

Joel Alvarez, ‘the king of tape’, esordisce circa dieci anni fa come fotografo occupandosi di immortalare modelle in abiti da spiaggia quando, per caso, ha l’intuizione di utilizzare del nastro adesivo come sostituto del guardaroba femminile: da qui alla creazione della ‘Black Tape Project’, azienda con sede a Miami, il passo è breve.

È successo immediato alla ‘Fashion Week’ di New York nel 2019 ripetuto alla ‘Miami Swim Week’ di questo 2021 (Redazione, 2019)

Alvarez esprime la sua creatività utilizzando delle strisce di nastro adesivo con le quali, letteralmente decora le proprie modelle così da creare veri e propri costumi da bagno.

L’aspetto artistico sta nello scegliere in maniera preferenziale le parti da coprire o scoprire e nell’utilizzo di figure sia di tipo geometrico che tribale.

Una vera e propria forma di arte sul corpo che trova nell’utilizzo del nastro adesivo il proprio mezzo.

Il nastro adesivo, protagonista indiscusso di questo concetto artistico, ad un’attenta analisi risulta essere il prodotto decisamente più appropriato.

Uno dei suoi primi utilizzi fu proposto da Vesta Stoudt nel ’43 per l’imballaggio di casse di munizioni da parte della U.S. Navy, pertanto è probabile che l’uso suggerito da Alvarez richiami proprio il carattere fortemente iconico di questo materiale che un tempo sigillava armi mentre ad oggi ricopre ed impreziosisce l’intimità femminile, dunque, come dire, un design esplosivo? (Gurowitz, 2012)

Forse, resta il fatto che l’artista utilizza non del semplice nastro adesivo, ma del nastro telato ricoperto da una pellicola di plastica metallica che nelle sue opere si carica dei colori più disparati e luminosi così da abbellire ed esaltare l’estetica delle sue modelle seguendo le linee del loro corpo.

Una cosa si nota subito: le modelle di Alvarez non descrivono temi legati a condotte anoressizzanti, dai più giustamente criticate nel corso degli anni, al contrario le modelle sono tutte normopeso, appartenenti a vari gruppi etnici ed orgogliose del loro ruolo.

Dal punto di vista psicologico questa forma d’arte può essere inquadrata nella ‘Body Art’ dalla quale tuttavia si discosta circa i contenuti di protesta femminista tipici dei movimenti sessantottini (Ciciarelli, 2020), avvicinandosi invece maggiormente a tematiche legate all’estetica e alla trasformazione.

La mirabile attività creativa di Alvarez prende le distanze dalla cultura del tattoo che usa la pelle per esprimere valori destinati ad essere raffigurati in maniera indelebile, per viceversa avvicinarsi ad una forma narrante che vede l’identità del soggetto come un qualcosa di mutevole, volta al cambiamento; difatti, gli stessi nastri adesivi possono esser utilizzati in tempi diversi su linee diverse delle medesime modelle e dunque delineare stati mentali sempre nuovi, dei veri stati di coscienza aggiornabili nel ‘qui ed ora’, sempre attuali e pertanto fortemente descrittivi il presente.

Interessante sarebbe la recensione di Desmond Morris, autore di ‘La Scimmia Nuda’, etologo, divulgatore scientifico ma anche pittore surrealista e sociobiologo, chissà come commenterebbe un ‘Duct Tape Bikini’: una probabile rappresentazione tangibile di tutte le sue teorie? (Morris, 1968)

Infine, di particolare apprezzabilità è l’utilizzo del metallo sui nastri, spesso vivacemente colorato, così da conferire non solo colore e luce, ma anche un effetto magnetico che esalta la capacità attrattiva e dunque guida l’osservatore nella lettura di quella che forse non è più una semplice modella, ma una vera opera d’arte contemporanea.

Astinenza, Stile di Vita Sobrio e Aggressività musicata: la correlazione con lo stile di vita sano e lo sport nell’Hardcore Punk 


Negli anni ottanta, assieme allo sviluppo del genere più duro dal punto di vista sonoro del punk rock, ovvero l’hardcore punk, si indirizzò la ribellione verso il versante opposto, ovvero protestare contro lo Status Quo attraverso una vita fatta di astensione radicale dall’uso di droghe, alcol e incontri sessuali occasionali

 

Il Punk è uno stile di musica ribelle nella cui cultura, soprattutto nella corrente originale, è previsto uno stile di vita sregolato e segnato dagli eccessi.

Al contrario, nella sua corrente più dura, l’Hardcore Punk, si è sviluppata, grazie ad atti come Henry Rollins, i Minor Threat ed i Cro-Mags, una visione di musicista che aderisce come segno di protesta o elemento distintivo ad uno stile di vita sano spesso basato sull’attività fisica.

Il punk rock, soprattutto nella sua forma originaria, sviluppatosi grazie ad atti come i Sex Pistols, Ramones e The Clash nella prima fase di carriera, è un genere di rock nato come ribellione nei confronti del sistema attraverso atti di stampo nichilista e iconoclastico (Hanscomb, 2016). Di fatto il punk rock, oltre per la velocità delle canzoni ed il vestiario costituito da chiodi di pelle e spille da balia, è noto per i comportamenti controversi dei musicisti icone del genere come l’autolesionismo (Pipitone, 2017).

Nato come reazione al conformismo della società, il punk rock originale è stato il genere nel quale gli adolescenti degli anni settanta, disillusi dalla realtà dei fatti e cinici nei confronti del sistema sociale, si ribellavano e cercavano la loro identità attraverso la musica di breve durata e prendendo esempio dalle vite, ancora più brevi, dei musicisti chiave del genere, come Sid Vicious e G.G. Allin (2017).

Negli anni ottanta, assieme allo sviluppo del genere più duro dal punto di vista sonoro del punk rock, ovvero l’hardcore punk, si indirizzò la ribellione verso il versante opposto, ovvero protestare contro lo Status Quo attraverso una vita fatta di astensione radicale dall’uso di droghe, alcol e incontri sessuali occasionali.

Infatti, l’Hardcore Punk, nato in America verso gli anni ottanta, prese una piega ampiamente diversa dalla corrente originale, sostituendo la vena autodistruttiva con l’indirizzare la propria rabbia verso cause sociali, culturali ed etiche (Lesley Edu, 2016). Spesso l’oggetto di discussione degli artisti appartenenti al sottogenere è stato lo stile conformista della società statunitense, spesso obbligante a seguire rigidi schemi socioculturali dannosi nei confronti della salute psicofisica, come il bere e fare uso di sostanze causanti dipendenza (Grinnel College).

Un primo esempio noto di questa scelta di vita artistica e personale è Herny Rollins: il musicista, attore e artista di spoken word statunitense, famoso per esser stato il leader dei Black Flag e della Henry Rollins Band, ha sempre indicato come uno stile di vita regolare e la solida attività fisica, nel suo caso il sollevamento pesi, lo abbiano aiutato creativamente, fisicamente e mentalmente (Rollins, 2014).

Un altro esempio è la band dei Cro-Mags: la band della costa est, oltre per la propria musica rabbiosa esponente i problemi e le frustrazioni dei bassifondi di New York, è nota per il suo coinvolgimento nel mondo dello sport dei suoi membri ed ex membri, soprattutto gli sport di combattimento ed il triathlon (Harder, 2013).

Infine, l’esempio più noto di questo tipo di attitudine: la corrente dello Straight-Edge. Prendendo nome da una canzone dei Minor Threat scritta dall’ex cantante Ian MacKaye, il movimento si basa su un completo rifiuto dell’uso di droghe, alcol, tabacco ed in alcuni casi estremi caffeina (Guzzetti, 2019). Lo Straight Edge, oltre che per questo stile di vita radicale, è noto per collegarsi spesso a cause come la lotta per l’ambiente ed il veganismo.

La storia di questo legame indica prima di tutto la dimostrazione che la ribellione, determinata già dalla letteratura accademica e sul campo come un elemento sano per la costruzione del proprio sé e della propria identità, soprattutto nelle fasi di sviluppo (Andreoli, 2006), può attuarsi anche adottando, in maniera controintuitiva, uno stile di vita sano, senza però cadere nelle trappole radicali della parte opposta (Martin -Iverson, 2017).

ACT: Acceptance and Commitment Therapy (2020) di Moderato, Presti e Dell’Orco – Recensione del libro

Questo nuovo libro racchiude con pienezza espositiva i principi fondanti dell’ACT, fornendo spunti di riflessione e mantenendo uno stile semplice ed immediato per l’applicazione nella pratica clinica quotidiana.

 

Il nuovo manuale “ACT: Acceptance and Commitment Thearpy” pubblicato dalla collana piscologica “100 domande” di Hogrefe editore, affronta in profondità i principi fondanti dell’ACT e la loro applicazione, fornendo costantemente spunti di riflessione ed esercitazioni da integrare alla pratica clinica; mantenendo una semplicità ed accuratezza espositiva.

Gli autori, illustri professionisti già conosciuti per le loro opere in ambito psicologico:

  • Paolo Moderato, professore ordinario di Psicologia alla Libera Università di Lingue e Comunicazione IULM, Milano, presidente dell’Istituto Europeo per lo Studio del Comportamento Umano (IESCUM), fellow dell’Association for Contextual Behavioral Science (ACBS), past president della European Association for Behavior and Cognitive Therapies, presidente di CBT-Italia, e autore di oltre duecento pubblicazioni scientifiche.
  • Giovambattista Presti, Medico, psicoterapeuta e ACT peer reviewed trainer, e professore associato di Psicologia generale all’Università di Enna Kore. E past president dell’Association for Contextual Behavioral Science (ACBS), membro fondatore e primo tesoriere della European Association for Behaviour Analysis (EABA) e presidente della Società Italiana degli Analisti del Comportamento in campo Sperimentale e Applicato (SIACSA).
  • Francesco Dell’Orco, Psicologo e psicoterapeuta, dottore di ricerca, e membro del consiglio direttivo di ACT Italia. Si occupa di ricerca clinica presso lo IESCUM.

Il libro è organizzato in 100 “domande-risposte” in cui gli autori sapientemente tentano di spiegare con semplicità espositiva i principi verso cui si muove l’ACT con riflessioni ed applicazioni esperienziali, il tutto integrato da tabelle, vignette e casi clinici.

L’Acceptance and Commitment Therapy rappresenta uno dei più recenti sviluppi nel panorama dei modelli di psicoterapia cognitivo-comportamentale di terza generazione. Affonda le sue radici epistemologiche nel contestualismo funzionale e le sue fondamenta teoriche ed empiriche nell’analisi del comportamento verbale e dei processi cognitivi della Relational Frame Theory (RFT) teoria originata, sulla scorta della visione operante skinneriana, alla fine del secolo scorso dopo anni di ricerche empiriche in laboratorio. La particolarità del modello ACT è, da un lato, quella di adempiere all’obiettivo delle scienze empiriche, dall’altro, quella di offrire una lettura integrata del fenomeno della sofferenza umana, secondo un continuum dal funzionamento normale a quello patologico e dei meccanismi che portano alle manifestazioni psicopatologiche e che le mantengono. Al cuore dell’ACT, è il costrutto della flessibilità psicologica, definita come la capacità di essere nel qui e ora, facendo esperienza, e accogliendo, quanto accade (dentro e fuori noi) e di muoversi verso i nostri valori più profondi (Moderato, Presti and Dell’Orco, 2020).

Gli autori, poi, continuano descrivendo i sei processi interconnessi, alla base della flessibilità psicologica, presentando l’Hexaflex ed esplorando poi la moltitudine dei principi che compongono l’ACT, tentando di risolvere qualsiasi possibile incertezza con risposte mirate e approfondite.

Proseguendo nella lettura, si viene indirizzati con alternanza, dalla teoria alla pratica, stimolando processi riflessivi sia sul soggetto sia sulle sue relazioni con il mondo. Oltre al paziente, anche il terapeuta è invitato a una maggiore riflessione su sé stesso, come persona e come professionista. Di fatto l’approccio esperienziale utilizzato permette all’individuo, attraverso varie esercitazioni, di sperimentare in prima persona i principi dell’ACT.

Infine, gli autori prendono accuratamente in esame varie tematiche connesse, riportando le evidenze scientifiche a supporto dell’ACT e di come questa possa essere considerata un approccio transdiagnostico, per dipiù utilizzabile anche in età evolutiva.

Inoltre, per completezza, al termine del libro sono presenti le versioni italiane dei maggiori test psicologici utilizzati dall’ACT.

Possiamo concludere che questo manuale per la sua esaustività di contenuto unita alla semplicità e all’ immediatezza stilistica – data dalla sapiente capacità degli autori nel calibrare bene le parole – ma anche dalla presenza di esercizi pratici, si possa collocare tra i libri più interessanti e completi dell’argomento, risultando essere di evidente utilità sia per i professionisti nella pratica clinica quotidiana sia per le persone che si approcciano per la prima volta a tale argomento.

 

La diagnosi nel bambino: descrivere, comprendere

La diagnosi nel bambino: cosa significa diagnosticare le difficoltà di un bambino? Come avviene il processo diagnostico e su quali elementi si basa? Come differenziare la diagnosi nei diversi tipi di famiglia?

 

La diagnosi descrittiva nei bambini tra vantaggi e limiti

Il processo attraverso il quale si effettua una diagnosi potrebbe essere facilmente compreso con una metafora: come di fronte alla volta celeste attribuiamo un nome ad un insieme di stelle lontane anni luce le une dalle altre, allo stesso modo quando effettuiamo una diagnosi nel bambino, attribuiamo un significato ad aspetti che, se presi singolarmente, sembrano non avere correlazione tra loro (Gandolfi, Martinelli 2008).

Quando un bambino presenta delle difficoltà nel contesto familiare, scolastico o in entrambi, egli viene solitamente inviato in un centro specializzato, dove un professionista valuta i suoi sintomi e li raggruppa in una diagnosi.

Sulla base dell’etichetta diagnostica ricevuta, egli potrà essere reinserito nel proprio contesto di appartenenza, dove riceverà degli ausili, una didattica personalizzata e intraprenderà un progetto riabilitativo.

Grazie alla diagnosi descrittiva si sono potuti compiere passi in avanti nell’aiutare i bambini in difficoltà: in un passato non troppo lontano, essi venivano considerati svogliati, non interessati alla scuola o addirittura “cattivi”. La diffusione di un processo finalizzato all’individuazione della diagnosi ha invece permesso di riconoscere che i bambini presentano problematiche indipendenti dal loro controllo, che vanno dunque affrontate e non giudicate.

L’iter diagnostico descrittivo, tuttavia, presenta alcuni limiti: esso si focalizza più sui deficit che sulle risorse; è eccessivamente standardizzato, tanto da non permettere di cogliere le specificità di ciascun bambino; non si focalizza sul contesto di appartenenza, aspetto particolarmente rilevante nei piccoli pazienti che da esso dipendono; in esso si pone l’accento sugli aspetti tecnici, a discapito degli aspetti emotivi e relazionali.

Integrare la diagnosi descrittiva con la diagnosi sistemico-relazionale

Con la proposta sistemico-relazionale (Gandolfi, Martinelli 2008) ci si focalizza sulle risorse del bambino e del suo contesto di appartenenza, cogliendo la particolarità di ciascuna situazione e inserendola in un contesto di significati più ampio: le difficoltà del bambino non vengono dunque lette unicamente come deficit suoi, ma in rapporto a come egli interagisce con le figure di accudimento e con la fratria.

Quando la famiglia è convivente, la proposta diagnostica sistemico-relazionale si articola in tre sedute:

  • una seduta anamnestica con i genitori, in cui si procede alla raccolta della storia clinica non solo del bambino, ma di tutto il contesto familiare, con una particolare attenzione alla trigenerazionalità;
  • una seduta di gioco con tutta la famiglia che ha lo scopo di cogliere le difficoltà e le risorse del bambino, in interazione con i propri familiari. L’osservazione delle dinamiche relazionali avviene attraverso il coinvolgimento dei fratelli oltre che dei genitori, poiché le relazioni tra pari all’interno del contesto familiare sono tanto importanti quanto quelle tra le generazioni;
  • un colloquio finale con i genitori, in cui lo psicoterapeuta propone un’ipotesi sistemica sulla base del materiale raccolto durante le prime due sedute. Durante quest’ultimo incontro è possibile mostrare ai genitori il video della seconda seduta, precedentemente videoregistrata, al fine di permettere loro di entrare meglio in contatto con alcuni aspetti che normalmente si verificano nel contesto relazionale.

L’obiettivo di questi incontri è quello di fornire ai genitori una nuova costellazione di significati, che permetta loro di guardare alle difficoltà in un’ottica evolutiva e di sentirsi parte attiva di tale processo e non semplice osservatori della riabilitazione che viene proposta al loro figlio.

Quando i genitori sono separati: un nuovo mondo di significati

Oggi la separazione tra i genitori è un evento diffuso, quindi è necessario che i terapeuti si pongano il problema di come condurre una consultazione efficace con famiglie che hanno questa caratteristica.

È innanzitutto fondamentale che essi assumano un punto di vista il più possibile neutrale, evitando di considerare la separazione tra i genitori come un problema tout court, ma, all’opposto, di ignorare i possibili effetti che tale evento ha sull’intero sistema di riferimento.

Un ulteriore aspetto risulta particolarmente importante: non tutte le separazioni sono uguali.

In generale, è possibile distinguere tra separazioni conflittuali e separazioni in cui viene mantenuto un certo livello di collaborazione tra i coniugi: è dunque fondamentale che il terapeuta sviluppi una sensibilità clinica sufficiente per cogliere le caratteristiche della situazione che sta affrontando, tenendo conto che la distinzione tra famiglie conflittuali e collaborative non è dicotomica, ma si colloca lungo un continuum.

A questo proposito, non va dimenticata l’importanza della telefonata (Di Blasio, Fisher e Prata, 1986; Perini, 2020), strumento fondamentale che permette al clinico di capire le caratteristiche della famiglia prima di incontrarla e, di conseguenza, di scegliere la convocazione più opportuna.

Quando la separazione tra i genitori è conflittuale

Nel caso in cui la famiglia del bambino sia caratterizzata da una separazione conflittuale tra i genitori, può talvolta essere preferibile proporre una consultazione totalmente separata.

Questa proposta potrebbe apparire come non ottimale negli interessi del bambino, poiché il clinico dovrebbe lavorare nell’ottica di aiutare i genitori a collaborare il più possibile alla cura dei figli. Pur condividendo con alcuni autori (Marinello e Sacchelli, 2018) l’importanza di ridurre la distanza tra gli ex coniugi con l’obiettivo di evitare la demonizzazione reciproca, ritengo che nei casi di grave conflittualità di coppia gli incontri congiunti potrebbero far perdere di vista l’obiettivo per cui è stata chiesta la consultazione, ovvero le difficoltà del bambino, trasformandosi in un’inutile riedizione dell’esperienza conflittuale (Cigoli, Galimberti, Mombelli 1998). Credo dunque che il clinico debba, almeno nelle fasi iniziali della terapia, porsi il ragionevole obiettivo di aiutare entrambi i genitori ad affrontare, ciascuno secondo le proprie possibilità, le difficoltà del figlio, rimandando ad un secondo momento l’obiettivo della collaborazione.

La proposta, pertanto, è la seguente:

  • il primo incontro viene svolto separatamente: una seduta con la madre e una con il padre;
  • il secondo incontro prevede una seduta con la madre e il/i figlio/i, ed una, svolta in un momento diverso, con il padre e il/i figlio/i;
  • anche il terzo incontro viene svolto separatamente: una seduta con la madre, in cui vengono visionati gli spezzoni della seduta che lei ha svolto con i figli; una seduta con il padre, in cui vengono visionati gli spezzoni della seduta che lui ha svolto con i figli.

Quando tra i genitori è presente collaborazione

I bambini che vivono in famiglie in cui i genitori si separano senza un grave conflitto esplicito, vivono un’esperienza senza dubbio diversa dai precedenti, forse più funzionale, ma non sempre priva di criticità. Non sono infrequenti le situazioni di apparente collaborazione, in cui è presente un conflitto latente, che può però avere una notevole influenza sull’intero sistema. Se, come detto, il compito del clinico è quello di attribuire significato all’esperienza del bambino, egli dovrà fare in modo che tutti gli aspetti che lo riguardano, compresi quelli non evidenti, vengano a galla, quindi…

  • …svolgere la seduta anamnestica con entrambi i genitori nella stessa stanza può essere strategicamente vantaggioso, perché permette, se gli ex partners sono realmente in sintonia, di avviare un percorso di collaborazione. In assenza di sintonia reale, è possibile portare alla luce e “significare” l’eventuale conflittualità latente;
  • la seconda seduta di gioco, preferibilmente, viene divisa in due: da un lato viene svolto un incontro con il padre e i figli, dall’altro uno con la madre e i figli. Questa divisione permette di cogliere le relazioni del bambino con ciascun genitore, alla luce del fatto che, in seguito alla separazione, egli trascorrerà momenti in autonomia con il padre e momenti in autonomia con la madre. Nei casi in cui il processo di separazione affettiva tra i coniugi è ancora in transizione, tale metodologia offre l’opportunità di valorizzare le capacità di ciascuno e quindi favorire la conclusione del processo separativo. Non va infatti dimenticato che spesso le situazioni in cui i due coniugi si separano “a metà”, potenzialmente generano confusione e sofferenza nei figli;
  • anche il colloquio finale con i genitori può essere svolto congiuntamente.

Vantaggi dell’iter sistemico

Come mostrato da quanto esposto finora e dagli esempi riportati, l’iter diagnostico sistemico permette di uscire dalla standardizzazione e cogliere la particolarità di ciascun bambino e del contesto ambientale a cui egli appartiene.

Esso si focalizza non tanto sul comportamento del singolo, quanto piuttosto su come il bambino interagisce nei differenti contesti relazionali che fanno part del suo mondo. Come dimostrato dagli esempi, è possibile che il bambino inserito in un ambiente familiare con separazione tra i genitori si comporti in maniera diversificata con la madre e con il padre. Il processo di consultazione sistemico, attraverso l’osservazione dell’individuo nei vari contesti di vita, permette di cogliere tali differenze, nell’ottica di ottenere una panoramica globale sulla sua vita e sulle sue relazioni.

Conclusioni

Attraverso le sue difficoltà, il bambino ci comunica qualcosa su se stesso e sul contesto a cui appartiene: è fondamentale andare oltre l’etichetta diagnostica e la sola considerazione degli aspetti problematici, deficitari, carenti. Attraverso l’iter diagnostico sistemico-relazionale è possibile cogliere il mondo di significati che sta intorno al disagio del bambino e progettare dunque un percorso efficace, breve ed incentrato sull’attenuazione delle difficoltà e sulla valorizzazione delle risorse.

 

Adolescenti con emozioni intense. Come gestire con la DBT le sfide emotive e comportamentali di tuo figlio – Recensione

Il testo Adolescenti con emozioni intense, scritto da Pat Harvey e Britt H. Rathbone (2021), è un manuale di autoaiuto basato sulla Dialectical Behavior Therapy (DBT), rivolto a quei genitori che si trovano alle prese con emozioni intense e comportamenti poco adattivi dei figli adolescenti.

 

La DBT, sviluppata da Marsha M. Linehan tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni’90, nasce per la terapia di adulti con condotte suicidarie e disregolazione emotiva, ma da oltre 15 anni è stata adattata da Alec Miller e colleghi per il trattamento di ragazzi con le stesse problematiche e delle loro famiglie.

Il manuale parla rivolgendosi direttamente ai genitori e, fin dal principio, esprime verso essi grande empatia per la fatica e per i sentimenti che possono provare di fronte agli atteggiamenti dei figli. In questo clima di solidarietà, prende voce la grande difficoltà provata sia dai ragazzi sia dalle famiglie che si trovano in queste criticità, ed è illustrato il principio (fondamentale per la DBT) che “ognuno fa il meglio che può con le capacità che ha” per fronteggiare il problema, capacità che possono però essere potenziate o sostituite con altre più efficaci.

Il riferimento primario del manuale è alla fase adolescenziale, ma è spiegato come gli stessi principi possano essere applicati anche ai preadolescenti e ai giovani adulti. L’obiettivo è quello di dare supporto ai genitori e di insegnare loro strategie per aiutare i figli a sostituire comportamenti distruttivi e autolesivi con comportamenti adattivi e sani. La dialettica accettazione-cambiamento, cardine della DBT, viene esplicitata con il principio secondo cui le persone prima di tutto devono essere accettate per poter cambiare e che cambiare è faticoso.

Sulla base di tali premesse, il libro si struttura in diverse parti, che accompagnano i lettori in un percorso che va dalla conoscenza e consapevolezza al mutamento. Ogni sezione fornisce concetti teorici e pratici, con particolare riguardo al proporre ai genitori strumenti e strategie da utilizzare per loro stessi, per i figli e per entrambi. Ai lettori è chiesto di mettersi alla prova con esercizi concreti e di impegnarsi attivamente nel cambiamento, il che è un aspetto considerevole, in quanto aumenta il senso di efficacia e di padronanza personali, in situazioni che sembrano sfuggire dal controllo. Seguendo l’andamento del libro, il lettore incontra gli esercizi in modo del tutto lineare, costruendo man mano le proprie abilità, da quelle base a quelle più articolate. Altro elemento positivo è la presentazione di casi esemplificativi, che permettono ai genitori non solo di comprendere al meglio come la teoria si possa manifestare nel comportamento dei ragazzi, ma anche di sentirsi accumunati con tante altre famiglie dalle stesse difficoltà. La presenza alla fine di ogni capitolo di un riepilogo e di una sintesi in punti chiave, inoltre, rende l’utilizzo del libro agile e intuitivo.

La prima parte del manuale, “Concetti e strategie per comprendere gli adolescenti e rispondere in modo efficace”, è centrata sulla conoscenza e sulla comprensione di ciò che avviene realmente negli adolescenti al di sotto del comportamento manifesto. Fin dall’inizio sono proposti concetti di mindfulness, come l’attenzione consapevole e l’osservazione non giudicante, condizioni imprescindibili per un cambiamento consapevole.  Sono poi passati in rassegna ed illustrati vari aspetti, temperamentali e ambientali, che secondo la teoria biosociale concorrono nello strutturare un comportamento problematico e viene mostrato come questo non sia un fenomeno tutto-nulla, ma sia frutto di passaggi sequenziali e di una multicausalità di fattori, sui quali è possibile intervenire. Per fare questo i lettori sono accompagnati a diventare genitori efficaci, genitori cioè in grado di prendere decisioni sagge e di mettere in atto strategie funzionali al cambiamento, di comunicare in modo adeguato e di utilizzare un pensiero dialettico, che ammetta cioè “validità nelle diverse prospettive”, l’esistenza al contempo di concetti e di punti di vista anche apparentemente contraddittori. Una risposta efficace, è precisato, non permette sempre di ottenere ciò che si desidera, ma getta le fondamenta per attuare il cambiamento.

La seconda parte, “Rispondere ai problemi comportamentali”, si suddivide in diversi capitoli focalizzandosi su alcune categorie di comportamenti problema.

La prima sezione è dedicata a quelle condotte descritte dagli autori come una delle esperienze più angoscianti per i genitori: gli agiti autolesivi (ad esempio tagli), le minacce di suicidio e i tentativi di suicidio. Gli autori evidenziano da subito la necessità di comprendere la motivazione sottostante simili gesti e di mettere i ragazzi in condizioni di sicurezza e, per questo, sottolineano l’importanza di affidarsi a figure professionali. Non mancano tuttavia suggerimenti e strategie su come rispondere in modo efficace a manifestazioni di questo tipo.

Il manuale passa poi a concentrarsi su comportamenti dirompenti (come l’aggressività) e rischiosi (come furti) e sull’abuso di sostanze. Gli autori passano in rassegna gli atteggiamenti più comuni che rientrano in queste categorie, spiegano quali risposte dall’ambiente circostante possano mantenere il problema e propongono ai genitori risposte differenti e più funzionali, anche se maggiormente difficili da mettere in atto.

Il capitolo successivo è dedicato all’ansia e alle sue manifestazioni intense negli adolescenti, ai conseguenti comportamenti eccessivi di controllo ed evitamento, che limitano le scelte di vita, e alle problematiche che ne derivano nei diversi ambiti famigliare, scolastico, relazionale, di realizzazione personale. Il focus è sull’aiutare i genitori ad essere efficaci trovando l’equilibrio tra protezione e spinta e tra “accettazione (riconoscendo che sperimenta un’ansia reale e difficile da gestire) e cambiamento (incoraggiando risposte più efficaci all’ansia)”.

Gli autori passano poi ai comportamenti problematici riguardanti l’alimentazione, come il rifiuto del cibo o le abbuffate, le condotte di compensazione, l’eccessiva attenzione sul peso e sulla forma corporea. Anche in questo caso non mancano di rimarcare l’importanza di contattare una figura professionale in caso di sintomi importanti, che rischiano di compromettere la salute. Viene spiegato come criticità di questo tipo possano anche emergere attraverso comportamenti più sottili, come il bisogno assoluto di fare esercizio fisico (quindi l’esagerazione di una componente sana della vita di un adolescente), e difficili da identificare, come il mascherato conteggio delle calorie o l’evitamento di situazioni sociali. Di fronte a qualsiasi tipo di alimentazione disregolata, il testo guida i genitori ad essere efficaci prima di tutto gestendo la propria ansia per la salute, ricordandosi che i figli hanno problemi con le emozioni dolorose e che traggono beneficio dalla validazione, promuovendo comportamenti alimentari sani senza ingaggiare lotte per il cibo.

La terza parte, “Prendersi cura di sé e della famiglia”, riconosce le molteplici difficoltà con cui i genitori di adolescenti emotivi hanno a che fare continuamente e li invita a occuparsi anche del proprio benessere. Oltre alle problematiche derivanti dalla gestione dei figli, infatti, gli autori comprendono bene come i rapporti con gli altri famigliari (stretti e lontani), con le scuole e con altri genitori, con le istituzioni e con altre figure professionali siano carichi aggiuntivi alla fatica già presente. Vengono quindi proposte strategie per sospendere i giudizi verso se stessi e per ridurre lo stress, ed è spiegato come adottare atteggiamenti adeguati soprattutto nei confronti di eventuali fratelli, per renderli consapevoli delle dinamiche in atto e al contempo per non farli sentire trascurati.

Il manuale si conclude con una guida riassuntiva e con la proposta di risorse per i genitori, sintesi utile per avere un quadro complessivo del percorso di lettura fatto.

Il testo presentato può essere un valido aiuto per i genitori, prima di tutto perché offre loro la possibilità di rispecchiarsi nelle parole lette e quindi di normalizzare il proprio vissuto, riducendo giudizi personali negativi e ulteriori sentimenti gravosi. Certamente non sostituisce l’aiuto di un professionista, ma fornisce una guida pratica e alcuni punti di riferimento in situazioni intrise di confusione e incertezza, quegli elementi essenziali per recuperare la forza e la fiducia necessarie per perseguire la strada del benessere.

 

Disturbo da stress post-traumatico: una considerazione diagnostica differenziale per i sopravvissuti al COVID-19

La ricerca sull’impatto neuropsicologico del COVID-19 si colloca attualmente a uno stadio preliminare: dati recenti suggeriscono che SARS-CoV-2 può influenzare il sistema nervoso centrale (SNC) e il successivo funzionamento neuropsicologico per vie dirette e indirette.

 

Mentre le prime prove da studi di casi di COVID-19 suggeriscono che questi sopravvissuti possono presentare un’ampia gamma di deficit neurocognitivi (a carico di funzioni esecutive, memoria verbale e attenzione sostenuta), derivanti da gravi condizioni neurologiche legate alla malattia o al suo trattamento (tra cui ictus, lesioni cerebrali ipossiche, encefalopatie, encefalite e disseminazione acuta encefalomielite) (Ashrafi et al., 2020), è probabile che la capacità di discernere i deficit oggettivi da quelli soggettivi sia complicata da comorbidità psichiatriche.

In effetti, la ricerca sulle precedenti epidemie di coronavirus, tra cui la sindrome respiratoria acuta grave (SARS) e la sindrome respiratoria mediorientale (MERS), indica un’alta probabilità di sintomi e disturbi psichiatrici nei sopravvissuti a COVID-19, in particolare sintomi riconducibili a quelli del disturbo da stress post-traumatico (PTSD) (Lee et al., 2019).

La ricerca sull’impatto neuropsicologico del COVID-19 si colloca attualmente a uno stadio preliminare: una piena comprensione degli effetti collaterali a lungo termine della malattia e del suo trattamento potrebbe, dunque, richiedere ancora molti anni per essere catalogata. Gli studi sui precedenti coronavirus umani (HCoV) e un flusso costante di dati recenti suggeriscono che SARS-CoV-2 può influenzare il sistema nervoso centrale (SNC) e il successivo funzionamento neuropsicologico per vie dirette e indirette; SARS-CoV-2 sembra, dunque, essere sia neuroinvasivo che neurovirulento (Li et al., 2016). Un’attenta considerazione delle implicazioni neuropsicologiche associate a COVID-19 deve valutare anche l’impatto del trauma vissuto dai sopravvissuti; tuttavia, sono state riportate scarse informazioni in merito a potenziali esiti psichiatrici (Kaseda & Levine, 2020). Il disturbo da stress post traumatico è definito come lo sviluppo di sintomi legati all’intrusione, all’evitamento, alle alterazioni negative delle cognizioni e dell’umore, all’arousal e alla reattività, in seguito all’esposizione a un evento traumatico; anche tra coloro che non soddisfano i criteri diagnostici completi, è stata registrata compromissione funzionale (Shalev et al., 2017). Sulla base delle informazioni raccolte dai precedenti focolai di coronavirus umano, in particolare SARS e MERS, è possibile prevedere un’elevata incidenza di sintomi da PTSD nei sopravvissuti a COVID-19. Allo stesso modo, quasi il 26% dei sopravvissuti alla SARS ha soddisfatto i criteri diagnostici completi per il PTSD 30 mesi post-trattamento e tutti hanno identificato l’infezione da SARS come evento traumatico elicitante (Mak et al., 2010).

Delineare attualmente i profili cognitivi dei sopravvissuti al COVID-19 risulterebbe complesso, in quanto l’eziologia della disfunzione cognitiva è estremamente eterogenea in questa popolazione di pazienti. Sia i deficit neurocognitivi persistenti, che il declino della salute mentale sono stati osservati nei sopravvissuti alla sindrome da distress respiratorio acuto (ARDS), due anni dopo la dimissione dall’ospedale (Hopkins et al., 2005), e il deterioramento cognitivo è stato associato a una peggiore qualità di vita correlata alle conseguenze della malattia (Rothenhäusler et al., 2001). Inoltre, il 79% dei pazienti con ARDS, trattati in terapia intensiva, ricorda vividi incubi e allucinazioni (Larson et al., 2007). Altre stime suggeriscono che tra un quarto e la metà di tutti i pazienti in terapia intensiva hanno una memoria limitata o nulla del loro trattamento (Kaseda & Levine, 2020).

La disfunzione del sonno è un altro fattore di complicazione all’interno della variegata costellazione di sintomi da PTSD. Lo scarso sonno, tipicamente caratterizzato da veglia, un’alta percentuale di tempo trascorso nel sonno superficiale e una percentuale relativamente bassa di tempo trascorso nel sonno REM, è un elemento frequentemente riscontrato nei sopravvissuti al trattamento in terapia intensiva (Weinhouse et al., 2009) e i problemi del sonno possono persistere anche dopo la dimissione (Dhooria et al., 2016). Pertanto, ci si può aspettare che la disfunzione del sonno sia riscontrabile in un sottogruppo di sopravvissuti a COVID-19 grave, trattati in terapia intensiva. È stata documentata una diminuzione della qualità del sonno anche nei non pazienti durante le ondate di COVID-19, associata a stress e ansia (Marelli et al., 2020). Una scarsa efficienza del sonno, dopo la dimissione dalla terapia intensiva, può contribuire al deterioramento cognitivo post-terapia (Wilcox et al., 2013). Un’altra considerazione, che include i pazienti con anamnesi di malattia lieve, è il ruolo dell’aspettativa di effetti cognitivi nei sopravvissuti a COVID-19. Data la copertura mediatica del coinvolgimento neurologico nel COVID-19 e gli effetti ancora sconosciuti della malattia sulla cognizione, è possibile che i pazienti possano sperimentare effetti iatrogeni. Nel contesto pandemico da COVID-19 potrebbero essere necessari diversi anni prima di poter delineare un confine di demarcazione netto in merito al contributo del PTSD rispetto al danno cerebrale sul funzionamento cognitivo, poiché potrebbero non esserci prove chiare del danno cerebrale, in assenza di un esame neuropatologico dettagliato. Sebbene la valutazione diagnostica di PTSD nei sopravvissuti a COVID-19 possa essere relativamente semplice, determinare il contributo relativo di tali disturbi e della neuropatologia correlata a COVID-19 ai deficit neurocognitivi risulta particolarmente ostico.

Non sono disponibili dati pubblicati sui profili neuropsicologici dei sopravvissuti a COVID-19 e, considerando la miriade di cause indirette, sarebbe improbabile un profilo coerente. È probabile che i deficit noti nell’attenzione, nelle funzioni esecutive e nella memoria, osservati nei pazienti con disturbo da stress post-traumatico, si sovrappongano ai disturbi cognitivi legati al COVID-19. Inoltre, i disturbi cognitivi soggettivi possono essere guidati più da sintomi psichiatrici e aspettative, piuttosto che da effettive neuropatologie sottostanti. A tal proposito, è stato dimostrato che le psicoterapie focalizzate sul trauma di matrice cognitivo-comportamentale migliorano le prestazioni cognitive: la normalizzazione dei sintomi psichiatrici nei sopravvissuti al trattamento in terapia intensiva può essere un primo passo significativo (Kaseda & Levine, 2020). In conclusione, è possibile ribadire quanto il trauma psicologico sia una variabile chiave che va ad impattare il profilo neuropsicologico e la qualità di vita dei sopravvissuti a COVID-19. Indipendentemente dai deficit neuropsicologici oggettivi, l’esperienza soggettiva del deterioramento cognitivo potrebbe anche essere molto angosciante dal punto di vista emotivo per i sopravvissuti e gli specialisti dovrebbero, dunque, considerare attentamente come sia il danno cerebrale secondario a COVID-19, che secondario a PTSD, possono avere un impatto sulla cognizione (Kaseda & Levine, 2020).

L’incidenza dei media nella comunicazione politica: considerazioni sociopsicologiche

Lo studio del linguaggio nei contesti politici è importante non solo per le ripercussioni pratiche, ma anche per le conseguenze sociali che tale miglioramento potrebbe avere sul processo democratico.

 

Oggi viviamo in una società che è stata definita “società dell’informazione”. La vita quotidiana, a tutti i livelli, è ampiamente condizionata dai sistemi di comunicazione; questo è un fenomeno diffuso ovunque e non solo in quello che genericamente viene chiamato mondo occidentale.

Tra i vari aspetti della globalizzazione, emerge soprattutto quello della diffusione in tempo reale delle informazioni, della loro reperibilità e della loro utilizzabilità attraverso i mass media. Come conseguenza c’è un continuo confrontarsi dell’uomo con modelli legittimati dai mass media come attori, influencer, eroi della vita quotidiana.

La nostra, quindi, è una società che comunica intensamente, continuamente con mezzi sempre più versatili e sofisticati, e con finalità innumerevoli, derivate dal suo carattere pluralistico e dalla complessità del sistema sociale. Per questo, il tema comunicazione è un tema ripreso in ogni ambito sociale: se ne discute in politica, in economia, in dibattiti culturali, in famiglia, a scuola e in ogni disciplina. Oggi la comunicazione è diventata oggetto di moda. Da ciò è legittimo ritenere che l’espansione di questo interesse abbia rappresentato una vera rivoluzione che introduce una prospettiva di indagine radicalmente diversa che, a livello tecnologico conduce ai confini della rete internet, e a livello scientifico consente la comparsa di nuove discipline.

Questa condizione di interesse implica come conseguenza che la comunicazione rappresenti oggi un oggetto di studio interdisciplinare. In particolare, molte ragioni spiegano la necessità della comunicazione nella politica. Molti eventi delle cronache politiche, non solo italiane, come le campagne elettorali, gli esiti delle stesse, l’esplosione del fenomeno dei sondaggi politici, la crisi dei servizi pubblici televisivi, le lotte senza quartiere per il controllo dei canali televisivi, le polemiche sull’informazione schierata e conformista, le questioni etiche della professione giornalistica, gli allarmi per i pericoli della “videocrazia” mettono continuamente in cima alle priorità dell’agenda pubblica i problemi del rapporto tra politica e comunicazione.

Un rapporto al tempo stesso ineludibile e difficile, come dimostrano le tensioni che periodicamente si verificano in taluni contesti politici nazionali ed internazionali. La conquista del palcoscenico politico, da parte prima della televisione, oggi della rete dei social, avvenuta rapidamente in concomitanza con radicali cambiamenti della società e nella cultura di massa, ha profondamente cambiato i connotati e lo stesso DNA della politica. Siamo di fronte ad una variante cruciale della necessità della comunicazione, poiché la comunicazione di massa ha amplificato il ruolo della leadership nell’area politica moderna; ha selezionato molta parte delle élite politiche con criteri alieni alle logiche e agli imperativi della competizione politica, ha imposto i registri dello spettacolo alla comunicazione prodotta dagli attori politici e fruita dal pubblico dei cittadini, trasformando la natura dello “spazio pubblico” da luogo del dialogo a ruolo del consumo. Si tratta di processi di grande valenza sociale e politica, che incidono profondamente sull’universo dei rapporti all’interno delle élite politiche, sul funzionamento dei meccanismi democratici della delega e della rappresentanza e sulla qualità dell’esercizio del potere. Per queste ragioni, la comunicazione politica ha progressivamente guadagnato un importante spazio nella ricerca psicologica, ricerca caratterizzata da un elevato spessore teoretico così come da urgenze di natura pratica. Da un lato, infatti, è sicuramente importante chiarire i meccanismi psicologici di base che presiedono alla fruizione della comunicazione politica ma, dall’altro, è altrettanto prioritario mettere la scienza psicologica al servizio delle istituzioni politiche sovra-partitiche, per garantire un monitoraggio della comunicazione politica tesa al supporto della democrazia.

La letteratura si è particolarmente interessata alle dinamiche persuasive ed alle dimensioni identitarie in gioco nella comunicazione politica. Interessante, all’interno di questa tradizione, il filone di studi che fa capo a Cohen (2013) ed alla sua riflessione sui meccanismi che presiedono la costruzione dell’immagine percepita dei candidati, sempre ancorata a dinamiche di difesa del sé e del proprio ingroup.

Alcune evidenze empiriche dimostrano come la televisione, a dispetto del nascente e sempre più determinante ruolo svolto dai social media, rimanga un mezzo di comunicazione preminente per la realizzazione e fruizione della comunicazione politica. In modo particolare, uno studio di Iyengar e Simon (2000) ha dimostrato come le campagne televisive siano determinanti nel disambiguare il voto di quegli elettori indecisi o, come etichettati dai due autori americani, superficiali.

Le interviste televisive dei politici, in particolare, costituiscono una caratteristica importante della campagna politica e per tale ragione hanno da sempre calamitato un certo interesse scientifico.

In Gran Bretagna, ad esempio nei primi anni ’50, l’intervista era considerata principalmente come un mezzo attraverso il quale un politico poteva far conoscere le proprie opinioni, evitando però nel contempo le difficoltà tecniche connesse al parlare di fronte ad una telecamera senza interlocutore; lo stile di queste interviste era estremamente formale e di etichetta. Nel 1955, in conseguenza alla competizione da parte delle pubblicità, la natura delle interviste politiche viene trasformata in qualcosa di molto più aggressivo e di fatto una vera e propria sfida.

Uno dei maggiori esponenti di questo periodo è stato Sir Robyn Day. All’inizio i politici, a detta di Day, si erano trovati non proprio a loro agio, sebbene entro gli anni ’80 i politici acquisirono una sufficiente dimestichezza con questo mezzo comunicativo bastante a rendere molto più difficile la vita all’intervistatore. Di fatto i politici erano diventati molto più competenti nel maneggiare il mezzo televisivo, a prestare molte più attenzioni di prima all’impressione creata nel telespettatore, alle tecniche proprie dell’intervista, alle regole d’ingaggio a mezzo delle quali venivano condotte queste interviste e, non ultimo, nel familiarizzare col set televisivo.

A detta di Jones (1992), si aveva la netta impressione che i politici erano riusciti a mentalizzare gli intervistatori; la minaccia che gli intervistatori ponevano ai politici era stata così di molto ridimensionata. Negli ultimi decenni si è sviluppato tutto un filone di ricerca sull’intervista politica condotta non solo con noti personaggi pubblici, ma anche con persone del pubblico, le quali era la prima volta che venivano intervistate. Eppure, nonostante tutto questo fiorire di ricerca, gli studiosi si sono resi conto che ben scarsa attenzione era stata rivolta alle performances dell’intervistatore. Fa eccezione Claytman (1988-1992), che in due studi ha analizzato le maniere in cui gli intervistatori mantengono la neutralità. Altri ricercatori invece, si sono interessati dell’alternarsi dei turni all’interno delle interviste dei notiziari televisivi.

Lo studio del linguaggio nei contesti politici è importante non solo per le ripercussioni pratiche sui protagonisti e riceventi della comunicazione politica (politici, intervistatori e pubblico) in termini di miglioramento delle loro proprie performances e della loro comprensione del fenomeno, ma anche per le conseguenze sociali che tale miglioramento potrebbe avere sul processo democratico.

Si potrebbe pensare, per esempio, all’influenza che le interviste politiche, le discussioni faccia a faccia e gli altri programmi politici possono avere sull’orientamento del voto dell’elettorato, specialmente del settore degli indecisi.

Od ancora si potrebbe pensare alla rilevanza legislativa che si presenta in alcune nazioni, laddove esistono problemi sociali collegati ad indicatori qualitativi e quantitativi dell’audience, di presenza in televisione e delle diverse rappresentazioni politiche, sia in generale che in periodi pre-elettorali.

Oltre ai parametri sociali e pratici, lo studio del linguaggio politico permette l’utilizzo di test in contesti reali, che saggiano una serie di teorie socio-psicologiche sviluppate a partire da lavori sperimentali (Bavelas, 1983), più tardi poi applicate ad un contesto politico, incrementando così la validità ecologica della ricerca.

Da un punto di vista socio-psicologico, la comunicazione politica è stata affrontata a partire dai suoi legami col fenomeno dell’equivocazione.

Bavelas e collaboratori (1988), ispirati dal concetto della disqualificazione e comunicazione incongruente della scuola di Palo Alto, intendono per equivocazione una forma di comunicazione che sia vaga e tangenziale. Questo include, tra le altre cose, atti linguistici quali il contraddire se stessi, l’incongruenza, il non essere diretti, il cambiamento del soggetto, la mal comprensione, lo stile oscuro e secondo altri autori l’evasione, la circonlocuzione, l’innuendo, i proverbi e le metafore; mentre è ancora dibattuto l’aspetto intenzionale dell’equivocazione.

Quando un politico viene posto in una condizione che Lewin chiama conflitto avoidance-avoidance, il risultato è l’equivocazione. Di fatto, in alcune situazioni, l’oratore è forzato a scegliere tra due alternative indesiderabili: rispondere in maniera semplice ma incompleta, danneggiando in questo modo se stesso e il partito che rappresenta, oppure rispondere in maniera completa ma intricata e complicata, rischiando così di venir considerato evasivo ed inconcludente.

Visto che gli intervistatori politici preferiscono utilizzare proprio questo tipo di domande che mette il politico in una situazione del genere, ne consegue che il politico è forzato ad utilizzare un linguaggio equivoco. Come risultato la spiegazione che molti autori forniscono risulta una spiegazione situazionale, non sono i politici ad essere intrinsecamente evasivi, come ritiene il credo popolare, ma di fatto è la natura della situazione che costringe i politici ad essere equivoci ed evasivi. Tale linguaggio equivoco, non solo permette ai politici di evitare il conflitto avoidance-avoidance, ma anche di raggiungere altri scopi come il salvare la faccia, sia la loro che del partito di appartenenza e degli altri significativi.

Il fenomeno dell’evasione rappresenta uno dei più analizzati aspetti della letteratura socio-psicologica sulle interviste politiche. La prospettiva funzionalista (Bull e Mayer, 1993-94), definisce una domanda in funzione della sua funzione, ovvero quale richiesta di informazione. La conseguenza di questo è che la risposta diventa semplicemente l’effetto della domanda. Solo dopo aver identificato la domanda da un punto di vista di una prospettiva funzionale diventa poi possibile caratterizzare il tipo di domanda e la tipologia della risposta attesa.

Alcuni autori hanno identificato dei criteri generali attraverso i quali le risposte possono essere classificate. I criteri per la formazione dei quattro tipi di domanda (domanda di chiarificazione, domanda sì/no, domanda disgiuntiva, domanda wh), possono variare da una lingua ad un’altra, per esempio, in inglese la domanda dichiarativa si distingue dalla domanda sì/no per la diversa costruzione sintattica; mentre in altre lingue come il portoghese, il greco moderno e l’italiano, l’unico modo per differenziarle è l’intonazione: intonazione ascendente per la dichiarativa, discendente per la domanda sì/no.

Analogamente la tassonomia delle risposte dipende dalle forme base, distinte essenzialmente in risposte e non risposte, che poi dipende dall’aver fornito l’informazione richiesta o meno, a cui vanno aggiunte le risposte per implicazione che, altri autori come Pilips (1984) comunque considerano delle risposte. Le risposte che tradizionalmente vengono chiamate evasioni vengono invece incluse nelle non risposte, anche se comunque l’evasione è una modalità di equivocazione, di cui esistono anche altri tipi.

Questo solo per fare un esempio di come diversi aspetti e sfumature della comunicazione politica possano impattare il comportamento elettorale.

Guardando al futuro, sicuramente la ricerca che si occupa di comunicazione politica dovrebbe approfondire il ruolo che i social hanno in termini di influenza sociale. Alcuni si sono già cimentati nel cercare di capire (vedi, l’interessante articolo su Science uscito a firma di Bakshy e collaboratori qualche anno fa) che tipo di filtri psicologici si attivano per disambiguare notizie divergenti; indubbiamente alcuni dei processi di influenza sociale “dal basso” rimangono inesplorati e meriterebbero una maggiore attenzione.

 

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