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Stigma verso i disturbi mentali: quali effetti?

La stigmatizzazione dei disturbi mentali è un problema importante nelle scienze sociali e uno dei più importanti ostacoli nel campo dell’assistenza alla salute mentale pubblica.

 

Cosa vuol dire stigma?

Il punto di partenza per definire lo stigma del disturbo mentale è la definizione di Goffman (1963), che definisce lo stigma come un attributo che produce un profondo discredito. Il riconoscimento di questo attributo conduce la persona stigmatizzata ad essere “declassata da persona completa, dotata di un valore e a cui siamo comunemente abituati, a persona segnata, screditata” (p. 636). Questo presenta lo stigma come la relazione tra l’attributo e lo stereotipo.

Nei termini di Goffman (1963), gli attributi possono essere classificati in tre gruppi principali:

  • difetti fisici (es. disabilità fisica o deformità visibile);
  • imperfezioni di carattere individuale, (es. malattia mentale, condanna penale);
  • stigmi tribali (es. etnia, genere, età.).

Quali effetti ha la stigmatizzazione dei disturbi mentali?

La letteratura indica che la stigmatizzazione delle persone con disturbi mentali è piuttosto diffusa nella popolazione generale (Crisp, Gelder, Goddard, & Meltzer, 2005; Link, Phelan, Bresnahan, Stueve, & Pescosolido, 1999). Tuttavia, esiste una variazione significativa a seconda delle diverse componenti dello stigma che sono state considerate (Corrigan, 2004).

Lo stigma ha molti effetti negativi sulle persone che vivono con un disturbo mentale, tra cui: assenza o ritardo nel ricercare supporto o un trattamento, diminuzione della qualità della vita, minori opportunità di lavoro, aumento della solitudine, minore possibilità di ottenere un alloggio, e diminuzione dell’autostima (Corrigan, 2004; Hansson, Stjernswärd, & Svensson, 2014; Lawrie, 1999; Link, Phelan, Bresnahan, Stueve, & Pescosolido, 1999). Inoltre, lo stigma non ha soltanto un impatto sulle persone che soffrono di un disturbo mentale, ma anche sui loro parenti e su chi si prende cura di loro (Muralidharan, Lucksted, Medoff, Fang, & Dixon, 2016). Diversi studi hanno rilevato che un aumento dello stigma è associato all’“etichettare” una persona come mentalmente malato, inoltre il riconoscimento dei disturbi mentali risulta essere piuttosto basso nella popolazione (Jorm, 2000; Martin, Pescosolido, & Tuch, 2000; Peluso & Blay, 2009). Secondo Jorm e colleghi (1997) alla base dello stigma è presente una bassa conoscenza dei disturbi mentali; introducono inoltre il termine “Mental Health Literacy” (MHL), con cui si fa riferimento ad aspetti di riconoscimento dei disturbi mentali, di ricerca di informazioni sulla salute mentale, alla conoscenza dei fattori e delle cause di rischio (ad esempio, biomedico, psicosociale), dei trattamenti (cioè farmaci o psicoterapia) e della prognosi. Per di più, MHL è essenziale per promuovere la diagnosi precoce e il trattamento dei problemi di salute mentale, quindi, portando a migliori risultati a lungo termine (Jorm, 2000; Wright et al., 2005).

Nello studio di Serra e colleghi (2013) è stato dimostrato che, per gli studenti delle scuole superiori italiane, la conoscenza dei disturbi mentali era positivamente correlata con la disponibilità a fornire aiuto a persone con un disturbo mentale, ed entrambi erano correlati ad atteggiamenti più positivi verso le persone con psicosi. Questo conferma che una conoscenza della salute mentale è correlata sia ad uno stigma inferiore sia ad una ridotta distanza sociale dalle persone con gravi disturbi mentali. Gli studenti sono risultati avere una sufficiente conoscenza dei disturbi mentali, tuttavia, sebbene abbiano mostrato dubbi sulla natura psicopatologica dei disturbi, gran parte degli studenti rimaneva piuttosto scettica riguardo l’efficacia del trattamento o sulla possibilità di recupero delle persone con gravi disturbi mentali. In questo studio, i soggetti con punteggi di stigma più alto erano anche meno disposti a fornire aiuto a qualcuno con un disturbo mentale. Le studentesse hanno mostrato una maggiore conoscenza dei disturbi mentali rispetto agli studenti maschi ed erano più propense a offrire un supporto volontario a persone con disturbi mentali, in accordo con quanto sostenuto da Horowitz (1982). Tuttavia, è emersa un’alta tendenza di atteggiamenti non stigmatizzanti in quei soggetti che hanno avuto una storia familiare di psicosi. Questo potrebbe indicare che l’esposizione diretta alla psicosi può abbassare lo stigma e ridurre la distanza sociale da persone con disturbo mentale (Serra et al., 2013). Tuttavia, il grado di stigma dipende largamente dal disturbo a cui è attribuito. Uno stigma maggiore è correlato ai disturbi mentali più gravi, in particolare alla schizofrenia e alla psicosi (Angermeyer & Matschinger, 1997; Norman, Sorrentino, Windell, & Manchanda, 2008). I pazienti con diagnosi di psicosi hanno maggiore probabilità di venire emarginati e discriminati a causa dello stigma correlato (Buizza et al., 2007).

A questo proposito vari studi hanno rilevato che il livello dello stigma aumenta in modo esponenziale a partire dalla depressione, per poi passare alla schizofrenia fino a raggiungere il picco con i disturbi da uso di sostanze. Il forte stigma nei confronti di persone con disturbi da uso di sostanze potrebbe essere spiegato in diversi modi. Per esempio, lo stigma può verificarsi più frequentemente perché le persone possono essere considerate molto più deboli e responsabili per la loro condizione rispetto alle persone con schizofrenia o depressione. Inoltre, sia i soggetti con disturbi da uso di sostanze che soggetti con schizofrenia sono stati etichettati come pericolosi e imprevedibili. La pericolosità percepita è stata identificata come un mediatore molto importante della stigmatizzazione; di fatto può rafforzare il rifiuto e la distanza, aumentando così la discriminazione e l’emarginazione causate dallo stigma (Crisp, Gelder, Goddard, & Meltzer, 2005; Hengartner et al., 2012; Link, Phelan, Bresnahan, Stueve, & Pescosolido, 1999; Pescosolido et al., 2010). A sua volta la paura dell’emarginazione può rafforzare la stigmatizzazione interiorizzata nelle persone con un disturbo mentale e può anche ridurre l’accesso alle cure.

Le persone spesso si astengono dal ricercare supporto e cure di cui hanno bisogno per paura di venire etichettati negativamente da parte di amici o parenti per la loro condizione mentale (Angermeyer & Matschinger, 2003; Thornicroft, 2008). Inoltre, lo stigma interiorizzato riduce l’autostima. Gli atteggiamenti negativi sono particolarmente forti contro chi fa uso di farmaci per trattare i disturbi mentali (Jenkins & Carpenter-Song, 2009; Sorsdahl & Stein, 2010). Ad esempio, l’utilizzo di antidepressivi per il trattamento del Disturbo Depressivo Maggiore è spesso percepito come un segno di debolezza emotiva e incapacità ad affrontare i problemi (Castaldelli-Maia et al., 2011). Oltre ciò, la stigmatizzazione di per sé esercita un’influenza negativa sia sul decorso che sull’esito del trattamento del disturbo (Van Zelst, 2009). Ci sono prove che lo stigma contro i disturbi mentali incide seriamente sulla volontà dei giovani di cercare aiuto per risolvere la propria condizione (Fröjd, Marttunen, Pelkonen, von der Pahlen, & Kaltiala-Heino, 2007; Mukolo, Heflinger, & Wallston, 2010; Pescosolido, Martin, Lang, & Olafsdottir, 2008; Quinn, Wilson, MacIntyre, & Tinklin, 2009; Yap & Jorm, 2011). In particolare, i giovani maschi sembrano essere maggiormente influenzati da atteggiamenti stigmatizzanti, determinando così una riduzione nella ricerca di supporto sociale (Eisenberg, Downs, Golberstein, & Zivin, 2009; Gonzalez, Alegria, & Prihoda, 2005). Qui di seguito possiamo menzionare brevemente due conseguenze deleterie della stigmatizzazione.

In primo luogo, lo stigma pubblico si traduce, nella vita di tutti i giorni, in discriminazioni nelle interazioni interpersonali e negli stereotipi e con immagini negative riguardanti i disturbi mentali nei media (Wahl, 1995). Secondo, la discriminazione strutturale include istituzioni private e pubbliche che intenzionalmente o involontariamente limitano le opportunità delle persone con disturbi mentali (Corrigan, Markowitz, & Watson, 2004).

Come riportato da Thornicroft, Rose, Kassam, e Sartorius (2007), per quanto riguarda lo stigma verso le persone con disturbi mentali, l’obiettivo finale degli interventi non è solo aumentare la conoscenza e migliorare gli atteggiamenti (ridurre il pregiudizio), ma anche migliorare il comportamento reale (ridurre la discriminazione).

 

L’arte dell’essere imperfetti: onore agli errori e agli sbagli

L’assenza di errori non è desiderabile: il perfezionismo patologico, infatti, è come un tarlo che deteriora la salute mentale.

 

Come mai, se sbagliando si impara, si cerca di evitare gli errori?

Sarà forse perché, fin da piccoli, si ricevono messaggi che, implicitamente o esplicitamente, suggeriscono che sbagliare è sbagliato? Forse perché l’errore, nei temi di italiano, veniva cerchiato con una penna rosso fuoco, e più volte sottolineato? O forse perché solamente il compagno che svolgeva un compito in classe eccellente meritava un dieci? Ma è davvero compito della scuola insegnare agli studenti che una prestazione è ottimale soltanto se perfetta?

Naturalmente, non c’è niente di male nell’osannare un successo: è giusto che, ad ogni merito, corrisponda un’adeguata ricompensa. Il lavorar sodo non è di certo criticabile.

Il problema è un altro, e sta nella condanna degli sbagli e dell’imperfezione.

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, è stato dimostrato che eludere totalmente gli errori nei processi di apprendimento è sconveniente in quanto, se seguiti da un feedback correttivo, diventano vantaggiosi per i discenti (Metcalfe; 2016): del resto, non serve dire agli altri se hanno torto o ragione, senza giustificarne il perché. Dunque, piuttosto che incoraggiare gli studenti a non fallire mai, li si dovrebbe aiutare a considerare gli insuccessi scolastici come nuove opportunità di sviluppo.

Al di là del mondo accademico, qual è il senso della corsa soffocante finalizzata al raggiungimento della massima prestazione?

In verità, l’assenza di errori non è desiderabile: il perfezionismo patologico, infatti, è come un tarlo che deteriora la salute mentale.

Non a caso, secondo l’OMS, l’aumento vertiginoso della sintomatologia ansiosa e depressiva tra i più giovani, è dovuto, anche e in parte, a prototipi di perfezione inesistenti con cui ci si confronta, a standard sociali eccessivamente elevati, ad aspettative irrealistiche sui risultati accademici e professionali raggiungibili (Curran, Hill; 2018).

Purtroppo, la tendenza al perfezionismo è sempre più comune nell’attuale società narcisistica, e va da sé che, quando la precisione suprema è l’unica meta desiderabile, ogni fallimento diventa devastante (Metcalfe; 2016). L’ossessione per la meticolosità assoluta porta a rimuginare in maniera cronica sui propri insuccessi, sulle proprie carenze, sulle parole e sul comportamento più giusto da adottare, nel luogo giusto e al momento giusto; tutto ciò può provocare la sperimentazione di Ansia, Depressione, Disturbi alimentari, Autolesionismo, Fobia e Ansia sociale, Marcata Autocritica, Sensi di colpa e timore per il giudizio altrui. Il perfezionismo patologico impedisce di ragionare su ciò che è concretamente realizzabile e, piuttosto che far apprezzare i traguardi raggiunti, obbliga il soggetto a focalizzare l’attenzione su ciò che non ha ancora compiuto al meglio.

Si dovrebbe, dunque, far comprendere ai più giovani che non è attraverso una prestazione impeccabile che si dimostra il proprio valore, ma piuttosto, che è necessario onorare gli errori come i più veri tra i maestri. In fondo, non è dal rigore, ma dall’imperfezione, che può nascere qualcosa di straordinario: si pensi agli errori compiuti in laboratorio, che hanno portato a nuove scoperte, o a quelli che hanno aperto nuove linee di pensiero (Shallenberger; 2015). A chi non è mai capitato, sbagliando, di far meglio qualcosa? Di trovare una via d’uscita?

E poi, soltanto attraverso una più sincera imprecisione si può essere autentici.

 

Recensione di: “Invidia del pancione. Una guida per riconoscere le proprie emozioni e affrontare la ricerca di un figlio” di Beatrice Corsale

In un’intervista dedicata alla presentazione del testo viene chiesto all’autrice il motivo della scelta legata ad un titolo forse un po’ “forte”: Invidia del pancione.

 

Condivido, si tratta di un’espressione molto forte. Forte perché vera. Reale. Tanto vera da sottolineare la necessità di poterla esternare: soltanto dando un nome alle emozioni è possibile riordinarle, integrarle.

Nel 2017 le coppie ricorse alla PMA – Procreazione Medicalmente Assistita – sono 78.366 (Relazione del Ministro della Salute al Parlamento sullo stato di attuazione della legge contenente norme in materia di procreazione medicalmente assistita -L. 19 febbraio 2004, n. 40, articolo 15- anno 2019). Lo scorso Giugno, la Regione Toscana, leader nel supporto al servizio pubblico sanitario dedito a procedure di PMA, rischiava di ridurre i rimborsi offerti.

La società contemporanea è costellata di coppie che convivono, spesso per anni, con problematiche legate al concepimento. Un disagio unito sovente ad emozioni quali vergogna e colpa nei confronti di quello stesso modello sociale all’interno del quale sembra ancora molto difficile condividere un simile vissuto.

Personalmente mi occupo di PMA da diversi anni e sono stato, mio malgrado, io stesso paziente. La diagnosi di infertilità mette a dura prova l’equilibrio della coppia. Fornirsi sostegno reciproco e concedersi supporto esterno rappresentato i migliori strumenti utili a costruire e ri-costruire una dinamica sana e resiliente tra i partner. Le tecniche di PMA, sempre più numerose ed efficienti, restano processi stressanti e invasivi sia da un punto di vista fisico -in particolar modo per la donna- che psicologico: senso di colpa, depressione, perdita del controllo, tristezza, rabbia, ritiro sociale, senso di inadeguatezza e shock. Una paziente un giorno mi disse: “ma perché mi è stata negata la cosa più naturale del mondo!”. Il tutto associato a visite mediche programmate, sessualità programmata, famiglie d’origine che non sempre trovano lo spazio per comprendere e una famiglia fantasmatica anch’essa programmata ma che tarda ad arrivare.

L’intero mondo della PMA, con tutte le sue tonalità emotive e le dinamiche proprie di una coppia alla quale sembra negata la possibilità di procreare, viene perfettamente esplicitato in Invidia del pancione della dott.ssa Beatrice Corsale.

Diversi sono i testi presenti in letteratura in riferimento al percorso PMA, alcuni incentrati principalmente su contenuti normativi in riferimento alle linee guida contenenti le indicazioni delle procedure e delle tecniche di procreazione medicalmente assistita in materia ‘attività di consulenza e sostegno rivolta alla coppia’ (Art. 7 – Legge n. 40/2004 LINEE GUIDA 2015), e altri di natura puramente clinica. Ciò che ho apprezzato di più di questo scritto è stata l’audacia dell’autrice nel non limitarsi a far luce sull’insieme di emozioni negative che si presentano durante l’iter diagnostico e terapeutico ma concedere al lettore la possibilità di lavorare attivamente su quell’insieme di stati d’animo. Il testo fornisce la descrizione sia di tecniche specifiche -quali ad esempio la Mindfulness– sia schede illustrate utili alla validazione e normalizzazione delle emozioni “in vivo”, incentivando l’elemento centrale al buon esito di una qualsiasi buona psicoterapia di coppia: “fare insieme” e condividere.

Il tutto condito da uno storytelling in grado di permettere una lettura fluida, viva, di un testo tecnico-pratico e, per questo, utile.

 

Confronto tra il trattamento dei disturbi alimentari in adulti e adolescenti: Enhanced Cognitive Behavioural Therapy paragonata ad altre terapie

Con un trattamento unificato come la CBT-E, i pazienti possono essere traslati tra i diversi livelli di cura senza complicanze e senza mutare la natura della terapia stessa.

 

In alcune nazioni, i servizi clinici per adolescenti e adulti con disturbo alimentare (DA) sono distinti, al fine di offrire un trattamento specifico e tarato sul target di riferimento. Cambiamenti nella natura del trattamento si verificano spesso anche quando i pazienti devono passare da cure meno intensive (es. regime ambulatoriale) a un percorso intensivo (es. regime di day-hospital/ospedaliero) e viceversa. Queste transizioni possono creare discontinuità nel percorso di cura e disorientare i pazienti e i loro caregiver sulle strategie e procedure utilizzate per affrontare la problematica alimentare (Dalle Grave et al., 2020). Oggigiorno sono disponibili diverse psicoterapie individuali per adulti con disturbi alimentari supportate empiricamente, tra queste la Terapia Cognitivo-Comportamentale Migliorata (Enhanced Cognitive BehaviouralTherapy; CBT-E) risulta essere adatta a tutte le sotto-categorie del DA (Fairburn et al., 2015). Questo dato non è stato raggiunto da nessun altro trattamento.

A tal proposito l’evidenza scientifica suggerisce che due terzi dei pazienti con bulimia nervosa (BN) mostrano una totale remissione a seguito del trattamento CBT-E, con il restante terzo che manifesta comunque un miglioramento significativo, seppur in misura minore (Fairburn et al., 2015). In merito al confronto tra CBT-E e altri trattamenti psicoterapici sui DA, dalla letteratura è emerso che: (a) la CBT-E si è dimostrata più potente nel confronto diretto con una psicoterapia dominante per adulti con BN, ovvero la psicoterapia interpersonale (IPT); (b) 20 sessioni di CBT-E sono risultate essere più efficaci in BN rispetto a 100 sessioni di psicoterapia psicoanalitica erogata per oltre 2 anni (Poulsen et al., 2014). In merito all’anoressia nervosa (AN), in un trial clinico randomizzato (RCT) che paragona la rispettiva efficacia della CBT-E con il modello Maudsley (MANTRA) e lo Specialist Supportive Clinical Management (SSCM), non è emersa alcuna differenza significativa tra i 3 trattamenti in termini di effetti sull’Indice di Massa Corporea (IMC), psicopatologia e compromissione della qualità di vita, a 1 anno di follow-up, nonostante la CBT-E abbia garantito una maggiore percentuale di recupero ponderale in minor tempo (Byrne, Wade, Hay et al., 2017).

In merito, invece, al target d’età adolescenziale, una tipologia specifica di terapia familiare, chiamato trattamento basato sulla famiglia (Family Based Treatment, FBT), risulta essere l’intervento più empiricamente supportato per adolescenti con disturbi alimentari (Lock & Le Grange, 2015). Nonostante ciò, anche gli adolescenti sembrano rispondere in maniera proficua alla CBT-E, il cui razionale transdiagnostico prevede l’efficacia su tutte le sotto-categorie diagnostiche del disturbo alimentare, sia su adulti, che adolescenti, in tutto lo spettro di cura. Infatti, nonostante alcune differenze fisiche e psicosociali distintive, adolescenti e adulti sembrano condividere il medesimo nucleo psicopatologico del disturbo alimentare (Fairburn et al., 2009). Inoltre, un trattamento unificato potrebbe potenzialmente trascendere molteplici limiti generati da servizi clinici generalmente frammentati per il trattamento dei DA. Invece, con un trattamento unificato come la CBT-E, i pazienti possono essere traslati tra i diversi livelli di cura senza complicanze e senza mutare la natura della terapia stessa (Dalle Grave et al., 2020).

Nonostante l’attuale disponibilità di trattamenti per i DA basati sull’evidenza scientifica, sia per gli adolescenti, che per gli adulti, permangono molteplici frontiere cliniche da affrontare. In particolare, poiché molteplici servizi clinici ancora non forniscono ai pazienti trattamenti psicologici basati sull’evidenza, o si affidano a terapeuti che si discostano dai protocolli evidence-based, persiste un urgente bisogno di promuovere la diffusione della CBT-E, della FBT e di altri modelli clinici basati sull’evidenza. A tal fine, l’erogazione di programmi di formazione progettati per formare terapeuti su ampia scala, in diversi paesi contemporaneamente, potrebbe essere una potenziale soluzione. Infine, la ricerca dovrebbe continuamente cimentarsi nella scoperta e nell’implementazione di strategie e procedure di trattamento efficaci. A tal proposito, anche con il più efficace dei trattamenti disponibili fino ad oggi, solo il 50% dei pazienti raggiunge una remissione completa e duratura, e in una porzione di pazienti persiste una cronicità del disturbo per gran parte della vita e nei casi più estremi alcuni, purtroppo, muoiono prematuramente. Questi dati stimolano ricercatori e clinici a proseguire la ricerca nella direzione di individuare e garantire strategie e procedure terapeutiche sempre più efficaci e tarate sulle caratteristiche ed esigenze del singolo paziente (Dalle Grave et al., 2020).

 


Deputazione di storia patria dell’Abruzzo: storia e personaggi famosi

La deputazione di storia patria è un istituto a carattere locale che in genere è sostenuto dallo Stato. Le varie deputazioni sono nate nelle differenti regioni italiane nel XIX secolo, soprattutto dopo che si è formato il territorio del Regno d’Italia. Molto interessante è la deputazione di storia patria degli Abruzzi, fondata nel 1838 come società di storia patria A.L. Antinori.

 

La deputazione di storia patria è un istituto a carattere locale che in genere è sostenuto dallo Stato. Le varie deputazioni sono nate nelle differenti regioni italiane nel XIX secolo, soprattutto dopo che si è formato il territorio del Regno d’Italia. La loro funzione principale è quella di promuovere degli studi di carattere storico relativamente agli Stati italiani prima dell’unità d’Italia. Inoltre le deputazioni di storia patria si occupano di pubblicare opere storiche e lavorano anche per la messa a punto di periodici. La prima regia deputazione sopra gli studi di storia patria è stata fondata a Torino da re Carlo Alberto nel 1883. Poi Vittorio Emanuele II con l’unità d’Italia estese la fondazione di un’altra deputazione di storia patria in Lombardia. In Emilia Romagna ne furono costituite altre tre. Nel 1862 sono state istituite quelle per la Toscana e poi man mano nel corso del tempo le altre per le differenti regioni. Nel 1883 è stato creato l’Istituto storico italiano, che aveva il compito di coordinare le attività delle varie deputazioni. Questo istituto nel 1934 è stato sostituito dalla Giunta centrale per gli studi storici.

La deputazione di storia patria dell’Abruzzo

Molto interessante è la deputazione di storia patria degli Abruzzi, fondata nel 1838 come società di storia patria A.L. Antinori. Dal 1889 si occupa di pubblicare il Bullettino. In questa deputazione si distinguono dei personaggi importanti, come per esempio, proprio da quella abruzzese, lo storico e professore Vittorio Casale. Vittorio Casale è attualmente titolare della cattedra di Storia della critica d’arte presso l’Università di Roma Tre. Ha insegnato anche in altri atenei, come l’Università di Chieti e presso l’Università di Salerno come professore straordinario di Storia dell’arte moderna.

Le ricerche e gli studi di Vittorio Casale

Vittorio Casale si è occupato soprattutto di studi e ricerche sulla storia dell’arte relativa a Roma e all’Italia centrale nei secoli XVII e XVIII. Ha partecipato ad un’attività di ricognizione della pittura del Sei e del Settecento in Umbria, che ha dato vita ad una mostra che si è svolta a Spoleto nel 1989. Ha curato la pubblicazione di due busti inediti di Gian Lorenzo Bernini da lui ritrovati nel Duomo di Foligno. Ha definito la produzione artistica per canonizzazioni, ha analizzato le opere d’arte di Pescocostanzo e ha definito i principi fondamentali della poetica del Barocco.

Il percorso della deputazione di storia patria degli Abruzzi

La deputazione di storia patria degli Abruzzi è stata fondata all’Aquila il 26 settembre del 1888. Con il regio decreto numero 264 del 1910 è stata elevata al rango di regia deputazione di storia patria. Sempre con regio decreto è stato approvato il relativo statuto, che è stato controfirmato dall’allora ministro della Pubblica Istruzione Daneo. Successivamente è stata la volta di un aggiornamento dello statuto, approvato con un decreto del Presidente della Repubblica Luigi Einaudi. Il nuovo statuto, quello tutt’ora vigente, è stato approvato dall’assemblea l’8 novembre 2015 ed è stato validato dalla Prefettura il 24 febbraio del 2016.

I vari nomi illustri che operarono nella deputazione

Ci sono vari personaggi illustri che si distinsero all’interno della deputazione degli Abruzzi, nomi famosi di persone che operarono attivamente. Per esempio fra questi personaggi possiamo ricordare Benedetto Croce, che fu anche presidente onorario dell’associazione e che l’ha rappresentata all’interno dell’Istituto storico italiano. Poi ricordiamo anche Filippo Masci, Giulio de Petra, Vincenzo Balzano e Vincenzo de Bartholomaeis. Non possiamo fare a meno di ricordare Ernesto Monaci, che ha scoperto a Napoli il Laudario Aquilano e la Leggenda di Santa Caterina. De Bartholomaeis ha svolto un’intensa attività volta al reperimento di manoscritti in archivi pubblici e privati.

L’attività istituzionale della deputazione di storia patria dell’Abruzzo

Secondo lo statuto all’articolo 1 la finalità caratteristica della deputazione consiste nella ricerca delle fonti e nella ricostruzione della storia d’Abruzzo. I risultati della ricerca confluiscono nel Bullettino, la cui pubblicazione è iniziata nel 1989 e prosegue ancora oggi. Il Bullettino consiste in una serie di volumi con diverse monografie, dalla buona metodologia e di elevato taglio critico. Ma l’attività istituzionale della deputazione non si risolve soltanto con questo periodico, visto che fin dall’inizio sono stati pubblicati contributi in serie libera, come per esempio le opere del De Bartholomaeis e del De Caesaris.

La collana Documenti per la storia d’Abruzzo

Nel 1977 è nata la collana Documenti per la storia d’Abruzzo, sempre facente parte dell’attività istituzionale della deputazione. La collana è stata da subito destinata ad accogliere la pubblicazione di documenti e regesti. Il primo volume è stato il Regesto Antinoriano, che è stato realizzato a cura di Salvatore Piacentino. Poi nel tempo sono sorte altre sette serie monografiche o miscellanee e al Bullettino è stata affiancata dal 1994 una newsletter con cadenza semestrale. La newsletter si chiama Notizie DASP e l’istituzione della storia patria si occupa anche di fornire il parere riguardo ad intitolazioni di toponomastica delle amministrazioni pubbliche.

La biblioteca e le riunioni dei soci

La deputazione ha molto a cuore la sua biblioteca, che consiste in 36.000 volumi tra monografie e periodici. La biblioteca aderisce al polo aquilano del Servizio Bibliotecario Nazionale. I soci della deputazione di storia patria d’Abruzzo si riuniscono due volte l’anno. Un incontro avviene in primavera e poi l’assemblea si svolge in autunno. Sono organizzati in queste occasioni importanti convegni di studio. Molte attività sono ospitate in varie città dell’Abruzzo che si avvalgono della collaborazione della deputazione per lo svolgersi di varie attività culturali. L’associazione arriva a coinvolgere anche altri territori di competenza, come per esempio quello del Molise.

 

Dolore e Regolazione Emotiva nella Fibromialgia. Dati a favore dell’intervento terapeutico

La fibromialgia o sindrome fibromialgica (FMS) è una malattia cronica caratterizzata da dolore muscoloscheletrico diffuso e persistente che colpisce prevalentemente le donne (tra il 61% e il 90%) e ha una prevalenza stimata del 2%-4% nella popolazione generale.

 

Altri sintomi associati sono affaticamento, insonnia, rigidità mattutina, depressione e ansia. La fibromialgia è spesso accompagnata da altre condizioni mediche e sintomi come sindrome dell’intestino irritabile, mal di testa, febbre, diarrea, ulcere orali, secchezza oculare, vomito, stitichezza, eruzioni cutanee, difficoltà uditive, perdita di capelli, minzione dolorosa e frequente, ecc.

Alcuni fattori sembrano predisporre gli individui alla FMS, come incidenti (stradali, infortuni sul lavoro, fratture, politraumatismi), interventi medici e complicazioni (chirurgici e infezioni) e traumi emotivi (abuso sessuale, fisico e abbandono). In generale, alcuni studi hanno evidenziato un’associazione tra traumi durante l’infanzia e l’adolescenza (non solo abuso o violenza, ma anche negligenza e altri eventi negativi della vita) e lo sviluppo della patologia.

Un ruolo importante è stato affidato a meccanismi disadattativi di risposta allo stress: stress prolungato o eventi traumatici ripetuti a partire dell’età infantile sembrano influenzare negativamente i sistemi di modulazione del cervello, sia del dolore che delle emozioni.

A tal proposito è stato mostrato che i pazienti con fibromialgia presentano una ridotta reattività dell’HPA (ipotalamo-ipofisi-surrene) (in particolare a livello ipofisario), che porta a una risposta inadeguata del cortisolo allo stress o alle attività della vita quotidiana con maggior coinvolgimento emotivo.

Quando parliamo di emozioni nei pazienti FMS, facciamo riferimento ad uno stato generale di angoscia dettato da una miscela di stati emotivi avversi come tristezza, paura, senso di colpa e rabbia verso se stessi, il dolore o gli altri.

Un paziente ha descritto le sue emozioni in questo modo:

Ho costantemente paura del mio dolore perché so quanto possa diventare grave. Questo mi fa preoccupare e pensarci tutto il tempo, il che provoca rabbia e tristezza perché sto sprecando la mia vita. Non so come affrontarlo. Ma a volte le emozioni sono più difficili da affrontare rispetto al dolore stesso. Questo mi stressa.

Le emozioni vengono spesso gestite attraverso modalità non sempre efficaci. Ad esempio la ruminazione rabbiosa è una delle strategie più utilizzate da questi pazienti. Essa implica un pensare, ripensare, ripetere, immaginare, rivivere e “rimasticare”, un evento vissuto con contenuto rabbioso con conseguente incremento dello stato emotivo e delle sensazioni spiacevoli dolorose.

I pazienti FMS sperimentano emozioni e credenze catastrofiche rispetto al proprio dolore, vale a dire un esagerato orientamento negativo verso lo stesso che provoca paura e disagio e aumenta le stesse percezioni dolorose.

Tutti questi meccanismi di risposta emotiva sono frequentemente associati ad un peggioramento dei sintomi, compresi quelli cognitivi.

L’intensità delle emozioni negative è infatti positivamente associata all’aumento dell’intensità del dolore, all’irritabilità, alla tensione fisica e mentale, alle limitazioni funzionali, al numero di punti sensibili, a insonnia, ai deficit cognitivi, all’affaticamento e all’impatto della malattia sulla qualità della vita . Questi pazienti si sentono spesso isolati, incompresi o rifiutati da parenti, amici, operatori sanitari e in generale dal proprio contesto sociale.

Fibromialgia e regolazione delle emozioni: quale legame?

Il successo dell’adattamento al dolore cronico richiede quindi la capacità di autoregolarsi o esercitare il controllo sui propri sintomi corporei, sui pensieri, sulle emozioni e sui comportamenti (Solberg Nes et al.,  2010). In particolare, si è ritenuto che la regolazione delle emozioni sia fondamentale nell’adattamento al dolore cronico (Hamilton et al.,  2005).

Koechlin et al. (2018) suggeriscono che questo collegamento potrebbe essere dovuto al fatto che una regolazione emotiva non riuscita possa mantenere o addirittura peggiorare il dolore e limitare il funzionamento generale della persona. Ciò può a sua volta alimentare nuovamente il proprio livello di instabilità affettiva e, come tale, diventare un circolo vizioso di rinforzo. Tuttavia, può anche essere che il dolore persistente e la disregolazione emotiva condividano meccanismi sottostanti simili (Linton,  2013 ). Ad esempio, il pensiero ripetitivo negativo, potrebbe operare come fattore transdiagnostico, vale a dire, fungere da driver per problemi emotivi e correlati al dolore (Flink et al.,  2013 ; Linton,  2013). Quando questa modalità di pensiero ripetitivo diventa una forma di problem solving inefficace, guida lo sviluppo di problemi emotivi e fisici (Eccleston & Crombez,  2007 ; Linton,  2013 ).

Nello specifico, lo stress associato all’esperienza del dolore cronico riduce il glutammato, un neurotrasmettitore eccitatorio, nella corteccia prefrontale mediale, con conseguente disregolazione emotiva. Questi risultati si allineano con modelli animali di dolore cronico, per cui meccanismi di stress come l’aumento dei livelli di glucocorticoidi con l’insorgenza di dolore cronico, portano a un declino del glutammato nella corteccia prefrontale mediale con conseguente cambiamento nei modelli di comportamento emotivo. Complessivamente, questi risultati dimostrano che i processi neurobiologici sono alla base della disregolazione emotiva nel dolore cronico.

Il dolore cronico presenta sfide costanti alla persona fibriomialgica, e necessita di adeguate strategie di coping. A causa di queste sfide costanti è probabile che in alcuni casi, l’adattamento flessibile delle strategie di coping al contesto fallisca o che, dopo continue sfide per affrontare il dolore cronico e/o problemi correlati, il soggetto non riesca a far fronte a queste sfide, con conseguente variabilità di emozioni negative (Solberg Nes et al., 2009).

Questi dati ci suggeriscono la possibilità di introdurre all’interno del trattamento di pazienti fibromialgici, l’apprendimento di abilità per migliorare la regolazione delle emozioni spesso inerenti alla presenza di dolore cronico.

Fibromialgia: i trattamenti indicati

Recenti ricerche, seppur limitate, hanno studiato l’applicazione della DBT (terapia dialettica comportamentale) su pazienti con dolore cronico, mostrando esiti positivi sulla riduzione dell’intensità del dolore insieme a minore disgregolazione emotiva.

La terapia comportamentale dialettica (DBT) è un tipo specifico di CBT sviluppato da Marsha Linehan, originariamente per individui altamente suicidi con elevata disregolazione emotiva per apprendere abilità nel gestire in modo più efficace le proprie emozioni. La DBT aiuta le persone a far fronte a pensieri ed emozioni dolorose, paurose, preoccupanti e negative, e ha dimostrato di alleviare i sintomi emotivi negativi negli individui che presentano alti stati emotivi. Nel contesto del dolore cronico, Linton ha mostrato in uno studio con una donna di 52 anni con dolore muscoloscheletrico cronico che la DBT riduce la disregolazione emotiva e l’intensità del dolore. Inoltre, in uno studio pilota con chi soffre di dolore cronico (n=6), un programma DBT di 8 settimane ha migliorato l’intensità del dolore e i sintomi di ansia e depressione.

Una componente fondamentale della pratica DBT basata sull’evidenza è la formazione delle competenze su diverse aree chiave, come la regolazione emotiva e la consapevolezza, per aiutare le persone a regolare in modo più efficace le cognizioni e le emozioni negative. L’addestramento alle abilità fornisce all’individuo la capacità di identificare i fattori scatenanti che stimolano gli stati emotivi negativi e di applicare le abilità di coping alla sequenza di pensieri, sentimenti e comportamenti avversi.

Attualmente non esiste un protocollo specifico di intervento alla fibromialgia. Il trattamento multidisciplinare è quello maggiormente privilegiato, in cui la terapia Cognitivo Comportamentale ha un ruolo centrale, includendo tecniche di trattamenti di terza generazione.

La complessità della fibromialgia necessita di porre attenzione ai vari aspetti della patologia optando per un trattamento che, a step, possa permettere di agire secondo i principali bisogni del paziente. In tutto ciò, acquisire abilità di regolazione emotiva e allo stesso tempo ridurre il dolore, può rappresentare una priorità al fine di migliorare la qualità della vita della persona.

L’ACT a supporto della genitorialità. La terapia dell’accettazione e dell’impegno per aumentare la flessibilità psicologica dei genitori di bambini ed adolescenti con patologie

In questo contributo viene presentata una sintesi delle più recenti revisioni sistematiche con le quali è stata valutata l’efficacia degli interventi basati sull’ACT a supporto di genitori di bambini e adolescenti in condizioni di particolare disagio.

 

Introduzione

I genitori di bambini che vivono una condizione di compromissione cronica della propria salute, dopo aver ricevuto la notizia di una diagnosi simile, affrontano situazioni molto complesse, come rischi medici correlati, regimi di trattamento impegnativi e compiti quotidiani molto articolati (Cousino e Hazen, 2013). Anche se alcuni genitori possono mostrare una maggiore resilienza di fronte a tali sfide, pur con un sostegno adeguato (Cousineau et al., 2019), le continue preoccupazioni per la salute e la vita futura dei loro bambini, l’ulteriore carico di cura o la perdita della propria libertà possono avere un impatto negativo, causando un disagio psicologico (Kazak, 1989) che, in alcuni genitori, si manifesta con alti livelli di depressione, ansia e stress (Couusino e Hazen, 2013; Pinquart, 2019). Il disagio emotivo può persistere fino a 5 anni dopo la diagnosi ricevuta, influenzando in maniera significativa il benessere dei genitori (Vrijmoet-Wiersma et al., 2008). Le difficoltà psicologiche negative sono correlate a comportamenti genitoriali disadattavi (Pinquart, 2013) e associate a condizioni peggiori per i bambini, compresi un incremento dei sintomi medici, emozioni negative e problemi comportamentali (Law et al., 2019). Studi recenti hanno associato un elevato distress psicologico dei genitori e comportamenti genitoriali disadattavi ad una bassa flessibilità psicologica (Chong et al., 2019; Corti et al., 2018). La flessibilità psicologica è un costrutto della Terapia dell’Accettazione e dell’Impegno (ACT – Acceptance anch Commitment Therapy) e si riferisce alla capacità di un individuo di accettare tutte le esperienze psicologiche, mentre ci si impegna in comportamenti basati su valori personali (Hayes et al., 2006). Da questo punto di vista gli eventi che caratterizzano la malattia di un bambino o i sentimenti negativi che ne derivano non sono problematici, ma sono malsani i tentativi di evitare o controllare queste esperienze, che rischiano di esacerbare il disagio psicologico e determinare comportamenti disadattavi (Hayes, 2006; Hayes et al, 1996). Ad esempio, i genitori di bambini con autismo possono evitare di partecipare ad eventi sociali a causa delle percezioni negative degli altri (Hahs et al., 2019); oppure i genitori di bambini con l’asma possono limitare i loro figli nelle attività fisiche o manifestare comportamenti iperprotettivi, nel tentativo di gestire o sopprimere il dolore psicologico associato alle difficoltà dei figli (Chong, 2018), invece di intraprendere comportamenti appropriati, sostenuti da azioni di valore. A differenza degli approcci cognitivo-comportamentali tradizionali, l’ACT pone un’attenzione specifica sui valori che aumentano la sostenibilità del cambiamento comportamentale, in quanto questo è guidato da azioni di valore, piuttosto che dall’evitamento di esperienze spiacevoli (Coyne et al., 2011). Per procedere in questa direzione è fondamentale incrementare la flessibilità psicologica attraverso i sei processi che costituiscono l’Hexaflex nell’ACT: accettazione, defusione cognitiva, contatto con il momento presente, sé come contesto, valori ed azione impegnata (Fletcher e Hayes 2005; Hayes 2016). Ogni processo può aiutare i genitori ad affrontare la difficile situazione che stanno vivendo. L’accettazione può essere usata per contrastare l’evitamento esperienziale; essa rappresenta una disponibilità attiva e consapevole degli eventi che incontriamo lungo il nostro percorso di vita, senza cercare di cambiarli (Hayes et al. 2012). La defusione cognitiva ci consente di considerare e trattare le esperienze intime (pensieri, emozioni, immagini) come semplici esperienze soggettive e non come realtà oggettiva. Essere in contatto con il momento presente significa orientare l’attenzione a ciò che sta accadendo nel momento presente, come sensazioni e stimoli esterni e interni. Sé come contesto significa essere in grado di fare un passo indietro e connettersi con il nostro osservatore interno, inteso come una parte di noi che è testimone di pensieri, sentimenti ed azioni, senza esserne intrappolati. Permette quindi di non essere invischiato in concetti sul sé, specialmente in quelli negativi (Fung et al. 2018). Per tali motivi, l’ACT potrebbe essere considerato un approccio promettente per i genitori di bambini che vivono particolari condizioni di disagio fisico e psichico.

In questo contributo viene presentata una sintesi delle più recenti revisioni sistematiche con le quali è stata valutata l’efficacia degli interventi basati sull’ACT a supporto di genitori di bambini e adolescenti in condizioni di particolare disagio. Nello specifico, sono state incluse 4 revisioni, di seguito riportate, identificate nelle banche dati PsycArticles, Psychology & Behavioral Sciences Collection, PsycInfo, PubMed, attraverso una ricerca effettuata usando i termini “Acceptance and Commitment Therapy” e “Parents” (per un approfondimento, ved. bibliografia).

  • “A systematic review of the use of acceptance and commitment therapy in supporting parents”, pubblicata da Gary Byrne, Áine Ní Ghráda, Teresa O’Mahony, Emma Brennan, il 13 Maggio 2020.
  • “Acceptance and Commitment Therapy for psychological and behavioural changes among parents of children with chronic health conditions: A systematic review” pubblicata da Xiaohuan Jin, Cho Lee Wong, Huiyuan Li, Jieling Chen, Yuen Yu Chong, Yang Bai, il 24 Febbraio 2021.
  • “A Systematic Review: Acceptance and Commitment Therapy for the Parents of Children and Adolescents with Autism Spectrum Disorder” pubblicata da Julie Juvin, Serine Sadeg, Sabrina Julien-Sweerts e Rafika Zebdi, il 26 Febbraio 2021;
  • “Acceptance and Commitment Therapy for Children with Special Health Care Needs and Their Parents: A Systematic Review and Meta-Analysis” pubblicata da Arpita Parmar, Kayla Esser, Lesley Barreira, Douglas Miller, Leora Morinis, Yuen-Yu Chong, Wanda Smith, Nathalie Major, Paige Church, Eyal Cohen e Julia Orkin, il 3 Agosto 2021.

Le revisioni sistematiche in sintesi: metodi di ricerca, obiettivi e caratteristiche del campione

La prima revisione sistematica, dal titolo tradotto “Una revisione sistematica dell’uso della terapia di accettazione e impegno nel sostegno ai genitori”, ha incluso 27 studi, comprendenti in totale 1155 partecipanti. L’intento è stato quello di individuare studi che si sono posti l’obiettivo di verificare l’efficacia della terapia ACT destinata a genitori di bambini ed adolescenti con differenti disturbi, per promuovere repertori di comportamento ampi e flessibili e per neutralizzare quei processi psicologici identificati come responsabili di molte delle sofferenze umane. I documenti sono stati identificati in 4 banche dati (Scopus, Psichinfo, Medline e Webof Science), individuando studi pubblicati fino al mese di Gennaio 2020 e l’analisi è stata svolta seguendo la dichiarazione Preferred Reporting Items for Systematic Review and Meta – Analysis (PRISMA – Moher et al., 2009). Undici degli studi hanno incluso interventi per genitori di bambini con disturbi del neurosviluppo, disturbi dello sviluppo neurologico o disturbo dello spettro autistico (40,7%). Altri sei studi hanno incluso genitori di bambini con dolore cronico (22,2%). Sette interventi si sono concentrati su genitori di bambini in pericolo di vita o con gravi compromissioni della salute fisica (25,9%) e due hanno incluso l’analisi dei disturbi di salute mentale dei genitori (7,4%). Uno studio si è concentrato specificamente sui disturbi d’ansia (3,7%). Gli autori hanno volutamente scelto di includere studi con un’ampia gamma di problematiche presentate, proprio per la peculiare caratteristica dell’ACT, quale modello transdiagnostico e quindi caratterizzato da una vasta applicabilità (Dindo et al., 2017). Diversi studi hanno confrontato l’ACT con un’altra forma di terapia: combinando l’ACT con la CBT; combinandola con il programma Stepping Stones Triple P (SSTP – Sanders, 2008) e confrontandola con il Triple P presentato singolarmente; combinando l’ACT all’Early Intensive Behavioural Interventions (EIBI – Rogers e Dawson, 2010) e confrontandola con l’EIBI sottoposto singolarmente. Altri studi hanno confrontato l’ACT con trattamenti generici, quali psicoeducazione, consulenza generale o anche con liste d’attesa. Un unico studio ha confrontato l’ACT individuale con l’ACT di gruppo. Per quanto riguarda il campione, la dimensione prevista è stata compresa tra i 3 ed i 193 soggetti. Solo sei studi hanno avuto campioni superiori a 50 partecipanti. La maggior parte degli studi (dieci) ha avuto luogo negli Stati Uniti; quattro sono stati condotti in Australia, tre in Svezia, due ciascuno in Iran, Canada e India; uno studio è stato condotto in Italia, uno in Giappone, uno nel Regno Unito e uno ad Hong Kong. La maggior parte degli studi ha riportato dei miglioramenti nella condizione di stress riportata dai genitori, nelle condizioni di depressione e di ansia. Dei miglioramenti sono stati identificati anche in alcuni processi tipici dell’ACT, quali la consapevolezza, l’accettazione e la defusione cognitiva.

La seconda revisione sistematica, dal titolo tradotto “La Terapia dell’Accettazione e dell’Impegno per i cambiamenti psicologici e comportamentali tra i genitori di bambini con patologie croniche: Una revisione sistematica” ha incluso 8 studi che hanno coinvolto 485 genitori. I database consultati sono stati 9 (MEDLINE, PubMed, Embase, Cochrane Library, CINAHL, PsychINFO, Web of Science, China National Knowledge Infrastructure and WanFang Data) e sono stati ricercati documenti fino all’Ottobre 2019. Altri articoli rilevanti sono stati ricercati su siti web di interesse, quale quello dell’Association for Contextual Behavioural Science. Tutti gli studi sono stati pubblicati dopo il 2014 e sono stati condotti in luoghi differenti: due in Australia, due in Iran, uno negli Stati Uniti, uno in Svezia, uno in Italia ed uno ad Honk Kong. Tale revisione ha mirato a valutare l’applicazione dell’ACT nei genitori di bambini in condizione di compromissione cronica della salute, sulla base di studi randomizzati controllati e di studi clinici controllati disponibili, e a valutare l’efficacia dell’ACT sulla flessibilità psicologica, sul disagio psicologico e sul comportamento dei genitori; le compromissioni croniche si riferiscono a qualsiasi condizione fisica, mentale, comportamentale che abbia una durata maggiore di tre mesi, che influenzi la normale attività di un bambino e per la quale è necessaria la richiesta di un intervento da parte dei servizi sanitari (Mokkink et al., 2008). Degli otto studi inclusi, uno si è rivolto a differenti tipologie di patologia cronica (diabete e menomazione funzionale); altri si sono concentrati su una singola tipologia, quali l’autismo, l’asma, la paralisi cerebrale, le lesioni cerebrali acquisite ed i problemi di udito. Degli otto studi, quattro hanno utilizzato l’ACT come trattamento indipendente per il gruppo sperimentale e la lista d’attesa o interventi generici (quali educazione, consulenza generale e follow up) per il gruppo di controllo; altri quattro hanno combinato l’ACT con diversi interventi specifici per la malattia, come l’educazione all’asma, lo Stepping Stones Triple P (SSTP) e l’Early Intensive Behavioural Intervention (EIBI). La maggior parte degli studi non ha utilizzato più di cinque sessioni per la presentazione di un intervento ACT e la durata degli incontri è stata di circa 1,5 – 2 ore. In tutti gli studi gli incontri sono stati svolti in presenza ed in gruppo, ad eccezione di un unico studio, che ha utilizzato una modalità a distanza. Relativamente ai risultati, l’efficacia degli interventi ACT è stata significativamente maggiore dei trattamenti generici, nel migliorare la flessibilità psicologica dei genitori nel post intervento e nei follow up di uno e sei mesi. Significativi sono stati anche gli effetti dell’ACT, nel ridurre il disagio psicologico (ansia, depressione e stress), rispetto ai trattamenti generici. Non è stata trovata una particolare significatività rispetto ai trattamenti SSTP e EIBI. Per quanto riguarda il miglioramento del comportamento genitoriale, l’ACT ha mostrato un effetto significativamente maggiore rispetto ai trattamenti generici ed alla lista d’attesa.

La terza revisione sistematica, dal titolo tradotto “Una revisione sistematica: Terapia dell’Accettazione e dell’Impegno per i genitori di bambini e adolescenti con un disturbo dello spettro autistico”, ha incluso 8 ricerche (condotte fino all’Ottobre 2020) individuate in 5 banche dati: PsychInfo, CINAHL, PubMed, Science Direct, e Psychology and Behavioral Sciences. Questa revisione ha indagato l’efficacia della terapia dell’accettazione e dell’impegno per i genitori di bambini ed adolescenti con disturbo dello spettro autistico, con l’obiettivo di fornire una migliore comprensione dell’utilità di tale intervento per i genitori che vivono una simile condizione. Nello specifico, i disturbi considerati sono stati: il disturbo autistico, la sindrome di Asperger e il disturbo pervasivo dello sviluppo non altrimenti specificato. Sette degli otto studi hanno previsto sessioni ACT di gruppo, un solo studio incontri individuali. La durata degli interventi è variata in maniera significativa, per cui gli otto studi sono stati divisi in due gruppi: “interventi lunghi”, che hanno compreso cinque ricerche nelle quali gli incontri sono stati svolti in diverse settimane, con un numero di sessioni che è variato dai i 4 ai 12 incontri e workshop durati tra i 90 minuti e le 14 ore; “interventi brevi”, nei quali sono rientrati tre studi con in media 2 workshop della durata di 2 ore ciascuno. Il campione è stato caratterizzato da un minimo di 3 ad un massimo di 42 soggetti; in cinque studi i partecipanti sono stati solo madri, mentre i tre studi rimanenti hanno incluso sia le madri che i padri. Sette degli otto studi hanno valutato l’impatto dell’intervento ACT sulla salute mentale dei genitori (stress, depressione, ansia e disagio psicologico); due studi hanno valutato il suo impatto su tratti di salute mentale come il locus of control e l’autocompassione; uno ha valutato l’impatto di avere un figlio diversamente abile in vari aspetti della vita (lavoro, relazioni sociali, tempo, spese, relazioni familiari); un altro ha valutato il benessere dei genitori dopo gli incontri, prendendo in considerazione la qualità della vita; infine, uno degli otto studi ha esaminato l’effetto dell’ACT sulla salute e sull’isolamento. In tutte le ricerche è stato esaminato quanto l’ACT fosse efficace nel miglioramento di uno o più dei sei processi dell’Hexaflex. In quattro studi su cinque, in cui è stata valutata la flessibilità psicologica, è stato registrato un miglioramento significativo; tre lavori hanno esaminato l’effetto dell’intervento sui valori ed in tutti è stato registrato un aumento significativo dell’importanza ad essi collegata, da parte dei genitori; nei due studi che si sono concentrati sull’evitamento esperienziale, c’è stata una diminuzione significativa tra il pre-test ed il post-test; quattro studi hanno indagato la fusione cognitiva ed in tre è stata registrata una significativa diminuzione della stessa; due studi si sono concentrati sulle abilità di mindfulness e solo in uno è stato registrato un miglioramento di tali abilità; in un solo studio è stata valutata l’autocompassione, registrandone il miglioramento. Per quanto riguarda gli effetti sulla salute mentale e sulla qualità della vita, in tutti gli studi si è registrata una diminuzione dei problemi psicologici rilevati (bassa autostima, scarso coping, somatizzazione, sintomi depressivi, stress ed ansia).

La quarta revisione sistematica, dal titolo tradotto “Terapia dell’accettazione e dell’impegno per bambini con bisogni sanitari speciali e i loro genitori: Una revisione sistematica e meta-analisi”, ha incluso 10 studi, da Gennaio 2000 ad Aprile 2021, attraverso una ricerca condotta nelle seguenti banche dati: PubMed, Web of Science, Ovid/EMBASE and PsycINFO. Dei 10 studi individuati, 7 hanno interessato interventi ACT orientati a bambini e 3 ai genitori. Data la specificità di interesse di questo contributo, sono state prese in considerazione le tre ricerche il cui gruppo sperimentale è stato composto dai genitori dei bambini nelle condizioni individuate. Nello specifico, in uno il campione è stato rappresentato da genitori di bambini con asma, in un altro da genitori di bambini con autismo e nel terzo da genitori di bambini con problemi di udito o sordità. Dei tre studi di interesse in questa sede, uno è stato condotto ad Honk Kong, uno negli Stati Uniti, uno in Iran. Tra i principali criteri di inclusione degli studi, è stata identificata una condizione fondamentale: l’ACT è stata somministrata in modo indipendente e non in combinazione con altre terapie ed interventi ed il gruppo di controllo ha previsto solo trattamenti generici o lista d’attesa. In tutti sono stati indagati i sei processi dell’Hexaflex, sintomi depressivi ed ansia, a distanza di una settimana dall’inizio della prima sessione per uno studio, di quattro settimane per il secondo, e sei mesi dopo l’intervento ACT per il terzo. I risultati hanno dimostrato un miglioramento significativo della flessibilità psicologica, ma non nei sintomi depressivi e nell’ansia.

Conclusioni

Le quattro revisioni sistematiche presentate hanno evidenziato l’utilità dell’ACT nel supportare i genitori nell’affrontare le difficoltà associate alla cura di un figlio con diverse patologie: autismo, dolore cronico, difficoltà fisiche, patologie croniche e bisogni sanitari speciali. Coerenti risultati indicano che l’ACT porta a miglioramenti della flessibilità psicologica, e quindi anche nell’adattamento alle sfide affrontate quotidianamente dai genitori. L’ACT può essere utile nel far fronte ad avversità ed eventi immutabili e per i quali c’è la necessità, da parte dei genitori, di accettare pensieri e sentimenti difficili, associati alla condizione dei loro bambini (Biglan et al., 2008; Losada et al., 2015); è ragionevole pensare che l’aumento dell’accettazione delle difficoltà dei loro figli non solo porta ad un miglioramento della loro salute mentale, ma anche della disponibilità ad accogliere il dolore dei bambini (Kemani et al., 2018). La relazione tra l’inflessibilità psicologica dei genitori e la salute dei loro figli può essere spiegata dal Modello dello Stress Familiare (Conger et al., 1992; Daks et al., 2020), che evidenzia che i fattori di stress esterni, come ad esempio la malattia di un bambino, possono influenzare direttamente il benessere del genitore; ciò influisce sulla loro capacità di prendersi cura del bambino stesso. I risultati hanno dimostrato una significativa efficacia dell’ACT rispetto alla lista d’attesa ed ai trattamenti standard, non solo nella flessibilità psicologica, ma anche nell’alleviare i sintomi psicologici depressivi, d’ansia e di stress dei genitori. Tuttavia i risultati sono da tutti considerati preliminari, essendo l’ACT una terapia relativamente nuova e trovandoci di fronte a studi ancora limitati, che non presentano procedure standard, ma che sono necessari poiché possono andare a sostenere le capacità di cura del genitore e, di conseguenza, la salute del figlio. In futuro, la ricerca dovrebbe essere volta a creare una procedura standard per il training ACT, per migliorare l’affidabilità e la validità. Potrebbero essere inclusi campioni più grandi in studi controllati, inserendo un numero adeguato di padri, oltre che di madri. La ricerca futura beneficerebbe anche di periodi di follow up più lunghi, per poter esplorare gli effetti sia a breve che a lungo termine. E si potrebbe condurre la nostra comprensione sugli effetti dell’ACT, non solo in relazione a trattamenti generici, ma anche ad interventi specifici, come la terapia cognitivo-comportamentale o la terapia di problem-solving o l’Applied Behavioral Analysis.

 

Analisi della psicologia di Will Hunting – Genio ribelle

Will Hunting è un film del 1997, con Matt Damon e Robin Williams. Il film ha come protagonista un ragazzo, un genio della matematica e una persona particolarmente acculturata, che ha conoscenze che spaziano dalla filosofia fino alla bio-chimica.

 

Anziché sfruttare il suo talento però, Will passa il suo tempo conducendo una vita frivola, fatta di litri di birra la sera, in compagnia degli amici e di lavori precari. È proprio mentre svolgeva uno di questi lavori precari, precisamente il manutentore presso il M.I.T. di Boston, che risolve un problema esposto pubblicamente come sfida agli studenti, ma decide di non palesarsi. Viene apposto un secondo problema e mentre Will lo risolve viene scoperto, inizialmente il suo gesto viene frainteso e interpretato come atto vandalico. Il professore Lambeau, che aveva affisso entrambi i problemi, una volta accortosi che in realtà Will ha risolto entrambi i problemi, cerca di reperirlo. Lo troverà partecipe di un udienza nei suoi confronti. Il professore Lambeau lo farà inserire in un programma di recupero supervisionato da lui. Dopo aver incontrato svariati psicologi che hanno gettato la spugna con lui, incontra lo psicologo Sean McGuire, interpretato da Robin Williams; come con gli altri psicologi, Will non ha alcuna intenzione di aprirsi e come ha sempre fatto si protegge con inconsci meccanismi di difesa. Un meccanismo di difesa, secondo la psicoanalisi freudiana, è una funzione propria dell’Io attraverso la quale l’io si protegge da eccessive richieste libidiche o da esperienze di pulsioni troppo intense che non è in grado di gestire direttamente. Il primo meccanismo che ci viene mostrato si manifesta con il rifiuto alla collaborazione; quando Will va dallo psicologo Sean si guarda intorno, osserva un punto debole del suo avversario e quando lo psicologo inizia a fare domande personali per ottenere gradualmente fiducia, Will cambia discorso. Questo meccanismo di difesa è detto Evitamento, ossia il soggetto fugge dalla fonte di angoscia, in questo caso dalla possibile creazione di un legame. Altri meccanismi di difesa li osserviamo nel colloquio di lavoro di Will e nella sua relazione con Skylar; nel colloquio con l’NSA (National Security Agencies) ci viene mostrato un meccanismo di difesa chiamato razionalizzazione, Will per non dover affrontare il problema costruisce delle ragioni basate sulla razionalità e sulla logica, e alla persona che stava facendo il colloquio risponde così:

Diciamo che lavoro all’N.S.A. e mettono sulla mia scrivania un codice che nessuno sa decifrare, e forse ci provo e magari ci riesco e sono fiero di me perché ho fatto bene il mio lavoro ma forse indica la località di un esercito ribelle in Nord Africa o in Medio Oriente. Ottenuta la località bombardano il villaggio dove i ribelli si nascondono, 1500 persone con le quali non ho mai avuto problemi restano uccise. Ora i politici dicono: oh spedite i marines a sorvegliare la zona perché non gliene frega niente, non ci sarà un loro figlio a farsi sparare come non c’erano loro quando era il momento perché erano in gita nella Guardia Nazionale, ci sarà un tipo di Southy a prendersi una sventagliata nel sedere, torna in patria per scoprire che la fabbrica in cui lavora è stata esportata nel paese da cui è arrivato e quello che gli ha sbridellato il culo ora sta al suo posto e lavora per 15 centesimi al giorno e non va mai a pisciare. Nel frattempo capisce che la ragione per cui l’avevano mandato a combattere era installare un governo che ci avrebbe venduto il petrolio a buon prezzo ed è chiaro che le compagnie hanno usato quella scaramuccia lontana per addomesticare i prezzi, un aiutino notevole per i loro profitti, ma non aiuta il mio amico a 2 dollari e 50 a gallone. Ci vanno con molta calma a reimportare il petrolio, magari si prendono fino anche un alcolizzato skipper a cui piace bere martini e fare pazzi slalom tra gli iceberg finisce che ne centra uno, sparge il petrolio e uccide la vita del Nord Atlantico e così il mio amico ora è senza posto e non può permettersi l’auto e va a piedi a fare i colloqui di lavoro e si sfrange perché la sventagliata nel sedere gli ha procurato le emorroidi, nel frattempo muore di fame perché ogni volta che cerca di mangiare la sola prospettiva è un merluzzo del Nord Atlantico intriso di petrolio salato. Allora cos’ho pensato? Mi conservo per qualcosa di meglio. Ci rifletto cazzo mentre aspetto perché non uccido il mio amico, gli frego il posto, lo do al suo peggior nemico, alzo i prezzi della benzina, bombardo un villaggio, ammazzo le foche, fumo hashish e vado nella Guardia Nazionale. Potrei essere eletto presidente.

Nella relazione con Skylar, Will assume più di un meccanismo di difesa, innanzitutto Will ha idealizzato la figura Skylar.

Will sostiene: «Si ma questa ragazza, insomma, è bellissima, intelligente, divertente, diversa dalle le altre con cui sono stato». Sean ribatte: «E allora chiamala, Romeo», al che Will replica: «Così mi rendo conto che non è poi tanto intelligente? Che mi rompe i coglioni? Si, insomma, ecco, questa ragazza, cazzo! È perfetta ora, non voglio rovinare questo».

Will proietta su Skylar una perfezione che non c’è, con lo scopo di nascondere l’aggressività che prova nei suoi confronti. Quando la relazione con Skylar si fa seria, lei gli propone di andare a vivere insieme in California, ma Will rifiuta accampando scuse, Skylar obbliga Will a vedere il reale problema ossia l’attaccamento di Will alla sua zona sicura.

«Beh, cos’è che non ti spaventa? Tu vivi nel tuo mondo tranquillo dove nessuno ti pungola e sei spaventato perché devi fare qualcosa che è diverso da quello che fai di solito» ma Will non è ancora pronto ad avere una catarsi perciò si allontana da Skylar con un freddo e brutale «Non ti amo più».

Questo in psicologia è noto come regressione ovvero l’Io per difendersi torna ad uno stadio precedente, poiché quello attuale provoca troppo dolore. Will regredisce all’ultimo stato in cui stava bene, ovvero di quando passava le serate a bere in compagnia dei suoi leali amici. Difatti solo quando il suo amico Chuckie lo sprona:

…Ah, non posso saperlo. Beh, ti dico quello che so. Ogni giorno passo a casa tua a prenderti con la macchina, usciamo, ci facciamo qualche birra, qualche risata, ed è fico. Sai qual è la parte migliore della mia giornata? Sono circa dieci secondi, da quando volto l’angolo fino a quando arrivo alla tua porta. Perché penso che magari arrivo là, busso alla porta e tu non ci sei più. Niente addio, niente arrivederci, niente. Sparito, via. Non so molte cose, ma questa la so.

Will abbassa le difese e, nel suo ultimo colloquio. Will ha la sua catarsi, che si manifesta in un pianto liberatorio tra le braccia del suo psicologo Sean, o meglio tra le braccia del padre che non ha avuto.

Will Hunting è un film che ti scuote anche se a tratti scontato e ti lascia il dubbio se Will sia felice, dopo aver soddisfatto le aspettative sociali che avevano verso di lui. Che l’io di Will, come scrive Anna Freud in L’Io e i suoi meccanismi di difesa, sia vittorioso: «L’Io è vittorioso quando le sue prestazioni difensive hanno successo, cioè quando riesce a limitare con il loro aiuto lo sviluppo di angoscia e dispiacere, ad assicurare all’individuo anche in circostanze difficili un godimento pulsionale, mediante le necessarie trasformazioni pulsionali, e a instaurare insieme, per quanto è possibile, un’armonia fra Es, Super-io e forze del mondo esterno

 

La pulsione aggressiva e la guerra in psicoanalisi (2021) di M. Rivardo e M. Muzio Treccani – Recensione

Il ruolo dell’aggressività viene posto in primo piano in La pulsione aggressiva e la guerra in psicoanalisi, che afferma come all’interno di un setting terapeutico, possa aver luogo una guerra, portata avanti con vigore narcisistico da parte del paziente che si nega alla guarigione.

 

Il testo di Muzio Treccani e Rivardo mette in evidenza l’importanza della decisione nella clinica psicoanalitica, laddove con questo termine si intende la scelta di mettere in discussione il disagio psichico e tutto quanto ha contribuito alla sua formazione e perpetuazione, accettando di modificare e lasciarsi modificare da una nuova alleanza- quella col terapeuta- che aiuti il paziente ad abbandonare i precedenti legami, e ad aprirsi con spirito di iniziativa ad un’esistenza fatta di significati nuovi, curiosi, e per questo indubbiamente coraggiosi.

La rassegna dei casi clinici presentati ha il sapore di un dialogo che gli autori fanno con i lettori, con i pazienti e anche con se stessi, cercando di ricomporre frammenti di esistenze che hanno perso la propria simmetria e  che, nel setting clinico, chiedono di ricevere una “nuova disposizione”.

Ma si tratta di una richiesta che non va esente da conflitti tormentosi. Emerge la presenza del no come resistenza aggressiva da parte di un paziente che, prigioniero nella propria immobilità, porta avanti una vera e propria battaglia contro l’analista, impedendogli di portare alla luce ciò che, a mezzo di controinvestimenti dolorosi, nasconde nelle trame dell’inconscio.

Il ruolo dell’aggressività viene posto in primo piano in un testo che afferma come all’interno di un setting terapeutico, non meno che in un campo di battaglia, possa aver luogo una vera e propria guerra, portata avanti con vigore narcisistico da parte del paziente che si nega alla guarigione, armato di quella coazione a ripetere che lo induce a perpetrare il sintomo (Freud, 1915-17; 1920; Green, 1983) nell’intento patologico di sedimentarne gli effetti, renderli irreversibili, pietrificarli fino a lasciarsene fagocitare.

Il profondo e spesso inconscio disagio per cui si accede alla terapia, rappresenta il frutto di una scelta il cui fine resta essenzialmente quello di proteggere il Sé da attacchi esterni. Il paziente si è condannato al dolore, e dunque alla patologia, soltanto per salvarsi. Si è identificato con l’aggressore, ha scelto di perpetuare l’esperienza traumatica in un dolore muto e pietrificante in cui l’aggressività ferina – rivolta alternativamente al Sé o all’altro – diventa l’unica alternativa per sopravvivere (Kernberg, 2016).

La grande decisione, sintetizzabile nella resa incondizionata alla patologia, diventa allora il frutto “necessario” di una sofferenza insostenibile. Una scelta dilemmatica in cui le alternative appaiono severamente dicotomiche: distruggere o lasciarsi distruggere. Ma la vittima è in ogni caso il Sé, e le storie cliniche lo dimostrano: l’aggressività endogena si scaglia contro il corpo, impedendogli l’evoluzione, la libera espressione, il processo trasformativo.

Ostaggio di un masochismo alternato a sadismo, il paziente prende a lottare contro tutti i possibili invasori del suo spazio, coloro che vogliono impedirgli di portare a termine una battaglia di cui la coazione a ripetere rappresenta al contempo l’arma e il vessillo. E la perseveranza patologica si esprime con l’ostinazione nella dipendenza, nel rifiuto del cibo, della novità, del miglioramento. Nel rifiuto dell’altro, e infine del Sé. Ma soprattutto, il paziente pervicacemente legato a Tanatos rifiuta il setting, per rimanere ostaggio di blocchi evolutivi che impediscono la revoca delle “grandi decisioni”, e condannano ad un destino di involuzione ed impotenza.

Il significato dell’arte nella decisione e nella resistenza

Il parallelismo con l’arte ricorre efficacemente in tutto il corpo del testo, divenendo una suggestiva metafora in grado di evidenziare quanto profondo sia il legame tra universo interiore ed espressione grafica, e quanto proprio quest’ultima, con le sue simbologie e le morfologie dense di significato psichico, costituisca -anche nel setting- un prezioso strumento di conoscenza.

Il riferimento al linguaggio espressivo si fa ancor più esplicito nell’ultima parte del testo, in cui vengono riportate storie di pazienti infantili le cui vicissitudini cliniche non trovano espressione soltanto attraverso lo strumento semantico, ma anche e soprattutto attraverso il linguaggio dei colori e delle linee.

È allora possibile vedere come, grazie all’immediatezza e alla genuinità dell’arte grafica, i disegni riescano a rendersi messaggeri dell’inconscia conflittualità tra la volontà di revoca e di prosecuzione della scelta, che nel bambino si rende ancora più tormentosa e inesprimibile.

Da questa guerra tutta interiore emergono esecuzioni grafiche in cui le linee traboccano di sofferenza, gli scarabocchi diventano ruvide espressioni di un’oppositività inconscia, gli spazi e gli orientamenti delle figure fungono da assetti di guerra, le asimmetrie nel foglio e le stesse lettere dell’alfabeto agiscono alla stregua di messaggi di attacco, mentre i colori e la pressione del tratto si trasformano in armi con cui portare avanti una battaglia tutta tesa alla difesa del proprio no. Un no narcisisticamente e inconsapevolmente legato a Tanatos, che disegna il miraggio di una salvezza laddove c’è soltanto distruzione (Green, 1983). Sono i casi nei quali la terapia non riesce a fare il suo corso, a disegnare quelle brecce salvifiche che feriscono sì, ma per recare beneficio. Come un balsamo sulla ferita.

Il coraggio della scelta

Il testo evidenzia come la guerra che il paziente deve portare avanti sia prima di tutto con se stesso, e come sia finalizzata a sconfiggere il no che lo sottrae al mutamento direzionale. Alla messa in discussione del prima, del mai, e dunque alla nuova decisione.

Da qui l’obbligo inesorabile della scelta: se continuare lungo il cammino dei propositi mortiferi, dolorosi ma rassicuranti perché ormai sin troppo noti; se aggrapparsi a quei meccanismi di difesa patologici che hanno limitato ma anche protetto dal proprio universo pulsionale e dal mondo esterno; se ostinarsi nel no e sottrarsi a quell’oggetto trasformativo che affascina ma fa anche tanta paura (Bollas, 1987)… O se al contrario cedere alla lusinghe di Eros e decidere di percorrere assieme al terapeuta una direzione nuova, incerta ma potenzialmente salvifica. Per convertire l’aggressività di morte in energia vitale.

È questa la grande scelta da compiere, prima e durante la psicoanalisi. E da qui in avanti trovare il coraggio di guardare le proprie incertezze, accettando di fronteggiare le conflittualità motivazionali che faranno del setting ora un luogo di salvezza ora una fonte di distruzione, e del terapeuta ora un generoso salvatore, ora un elemento persecutorio.

Il coraggio di trovare i luoghi della fobia e di lasciarli emergere- ( p. 165) è rappresentato efficacemente tramite il riferimento ad una tecnica pittorica mutuata dalla fotografia- il cliché-verre- incisione di un’immagine applicata su di un vetrino sporco di bitume, grazie alla quale la luce può penetrare l’oscurità creando un pregevole effetto visivo: “Il motto è dunque ora sia fatta luce. E così mi avvio lentamente verso il nuovo mondo della tonalità” (p. 173), sono le parole del pittore Klee, che nei suoi lavori ne faceva un largo impiego.

Tramutare il nero in bianco, portare la luce laddove c’è buio: la metafora evocativa di una luce che penetra l’oscurità di un vetro, e col suo apporto luminoso riesce a costruire autentiche immagini, richiama l’idea di un paziente che si affida all’Io ausiliario del terapeuta e gli consente di far luce nel suo mondo oscuro e inconoscibile, fendendo quelle difese, ostinate e aggressive, che costituiscono le sbarre di una prigione travestita di libertà.

Lo scopo, in pittura come in terapia, diventa allora l’avvento del bianco, nella cui dimensione ogni fragore si annulla, e il resto dei colori viene inghiottito per lasciare il posto ad un silenzio creativo e chiarificante che consente la fuga verso infinite nuove possibilità.

Costruito sul filo ambivalente di un disordine che, mentre si afferma ostinatamente, chiede di essere disconfermato, il testo di Rivardo e Muzio Treccani analizza la simbologia espressiva dei pazienti con coraggio e chiarezza, contribuendo a portare la luce laddove, in apparenza, sembra esistere la sola oscurità. L’espressione mortifera del no può così diventare, come nel vetro scuro di Klee, una fenditura significante in grado di sostituire il bianco di Eros al nero di Tanatos. In vista di una trasformazione, un’evoluzione pacificante e produttiva che in ogni guerra rappresenta la sola autentica vittoria.

 

Grima: una nuova emozione o un semplice riflesso?

I ricercatori si sono recentemente interessati al grima e, in un primo studio, si sono proposti di definire il grima, al fine di testare se vi fossero somiglianze anche rispetto ad altre espressioni emotive come il disgusto.

 

Alcuni stimoli uditivi, quei suoni acuti e striduli come il rumore del gesso, possiedono caratteristiche fisiche che innescano direttamente risposte avverse che, attualmente, non sono ancora state esplorate.

Mentre alcune lingue occidentali, come l’inglese, sembrano non avere un termine specifico per questa esperienza, gli spagnoli la definiscono grima.

Differenti approcci contemporanei considerano le emozioni come qualitativamente diverse l’una dall’altra. Da questo punto di vista, le emozioni di base sono associate a specifiche risposte fisiologiche e comportamentali. Di conseguenza, ogni emozione è un membro distinto della famiglia delle emozioni di base. Al contrario, le teorie dell’appraisal e l’approccio costruttivista mettono in discussione la visione delle emozioni come un repertorio limitato di categorie. Secondo le teorie dell’appraisal, è la valutazione dello stimolo emotigeno che consente di differenziare le emozioni (Ellsworth & Scherer, 2003). Si presume, così, che valutazioni diverse suscitino emozioni differenti (Roseman & Smith, 2001). Allo stesso modo, circostanze diverse possono provocare la stessa emozione quando sono generate dalla medesima valutazione sottostante.

Ulteriormente, secondo Russell, le emozioni non sono fenomeni unitari e oggettivi con una chiara definizione in termini di caratteristiche necessarie e sufficienti, ma un insieme di reazioni esperienziali, fisiologiche e comportamentali indipendenti – i cosiddetti “episodi emotivi” – (Russell, 2014) che possono verificarsi in alcune circostanze specifiche.

La ricerca sostiene l’ipotesi che il disgusto possa non essere un concetto unitario e omogeneo. Un recente studio di Han et al. (2015) ha mostrato che gli anglofoni usano la parola “disgusto” per riferirsi al disgusto rispetto al sangue, agli eventi sessuali inappropriati e alle violazioni morali. Al contrario, i coreani utilizzano questo concetto per riferirsi solo ad alcune di queste condizioni.

Nei casi in cui non esistono singole parole equivalenti per descrivere alcune esperienze emotive, le persone in alcune culture possono affidarsi a diverse espressioni colloquiali per riferirsi ad esse.

Uno studio preso in esame ha mostrato come questo sia il caso del termine grima utilizzato in spagnolo.

In un primo studio, gli autori si sono proposti di definire il grima, al fine di testare se vi fossero somiglianze anche rispetto ad altre espressioni emotive come il disgusto. L’obiettivo del secondo studio era esplorare il concetto quotidiano di grima, per poter evidenziare le sue caratteristiche più prototipiche. Inoltre, i ricercatori hanno analizzato se la differenziazione concettuale tra grima e disgusto, fosse supportata anche dalle risposte fisiologiche associate ad esse, come la frequenza cardiaca e la risposta di conduttanza cutanea (studio 3).

Nel quarto studio, gli autori hanno valutato se vi fosse una differenziazione tra grima e disgusto anche per ciò che concerne la loro regolazione. Per questo motivo, i ricercatori hanno chiesto ai partecipanti di formulare delle intenzioni di attuazione, dopo aver udito dei suoni grima-elicitanti (Gollwitzer, 1999). Si tratta di piani “se- allora” che specificano quando, dove e come un obiettivo stabilito dovrebbe essere messo in atto (“Se sento un suono grima-elicitante, allora lo ignorerò”). Esse si differenziano dalle semplici intenzioni di obiettivo, che definiscono gli stati finali desiderati dall’individuo (“Intendo ignorare il suono!”). La suddetta scelta si è basata sul fatto che la ricerca precedente abbia dimostrato come la formulazione di intenzioni di attuazione aiuti le persone a raggiungere i loro obiettivi in diversi domini, come la promozione di comportamenti desiderati o, ancora, come sia efficace nella regolazione delle esperienze emotive come il disgusto, la paura (Schweiger Gallo et al., 2009) e l’ansia (Varley et al., 2011).

Sulla base di questi risultati, gli autori hanno ipotizzato che, ammettendo che il grima fosse un’esperienza a sé stante, differente dal disgusto, i soggetti sarebbero stati in grado di regolare quest’ultima attraverso la formulazione di intenzioni di attuazione.

Infine, il quinto studio si è proposto di verificare se la reazione affettiva aversiva evocata da rumori acuti, sia concettualmente assimilabile ad altre reazioni aversive in quelle lingue che non possiedono un’unica etichetta linguistica specifica per descrivere tale esperienza.

L’esistenza di un termine specifico per questa reazione solleva una serie di domande teoriche interessanti: il grima è un’esperienza emotiva a sé stante o un semplice riflesso?

Gli studi analizzati hanno dimostrato come il concetto di grima differisca dal disgusto, sia per quanto riguarda i suoi tipici trigger, che per ciò che concerne le risposte fisiologiche.

Inoltre, i risultati del quarto studio hanno fornito una prova preliminare di come il grima possa essere regolato emotivamente. Difatti, i partecipanti a cui era stato chiesto di formulare delle intenzioni di attuazione sono stati in grado di ridurre selettivamente la reazione emotiva associata ai suoni acuti.

È interessante notare che gli anglofoni, i tedeschi e gli statunitensi non utilizzano un concetto analogo al grima (Studio 5) ma, nonostante ciò, sembrano riconoscere e usare i concomitanti fisiologici per riferirsi alla sua corrispondente reazione affettiva.

Dunque, l’esperienza aversiva etichettata come grima è una semplice riflesso? I riflessi sono tradizionalmente definiti come risposte semplici – e inevitabili – a specifici stimoli (Konorski, 1948). Si ritiene che essi non possano essere soppressi volontariamente, nonostante possano essere modulati da fattori come l’apprendimento (Lang et al., 1990). In linea con la ricerca sulla regolazione delle emozioni (Webb et al., 2012), i risultati del quarto studio suggeriscono che il grima possa essere regolato formando intenzioni di attuazione e, di conseguenza, potrebbe non essere considerato un riflesso. Un supporto indiretto all’ipotesi che il termine spagnolo grima si riferisca a un’esperienza emotiva piuttosto che a un riflesso, può essere trovato anche nel secondo studio dove si è visto come il grima possa essere suscitato da diversi stimoli e sembri coinvolgere anche processi cognitivi. Quindi, se accettiamo che le emozioni richiedono valutazioni cognitive, il grima non può essere considerato come un semplice riflesso o un insieme di risposte corporee.

Tuttavia, al fine di poter sostenere con fermezza che il grima sia un’emozione a sé stante, saranno necessari ulteriori studi.

Un segmento educativo: il nido

Al nido l’esperienza di ambientamento si costituisce come una situazione complessa di vissuti e relazioni interpersonali che lega educatore, genitori e bambino.

 

Dall’accudimento del bambino alla cultura per l’infanzia

I servizi per la prima infanzia (da 0 a 3 anni), nati con finalità custodialistiche e assistenziali, iniziano a essere pensati in Italia come educativi solo a partire dagli anni Settanta, periodo che ha contrassegnato lo sviluppo delle politiche sociali. È in questo contesto che viene approvata la legge n.1044 del 1971 che sancisce, per la prima volta, l’impegno da parte dello Stato a intervenire nell’educazione della prima infanzia, tradizionalmente delegata alla famiglia e in particolare alla donna. Nata, soprattutto, sotto la pressione dei movimenti femministi e in concomitanza con l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro, la legge che istituisce gli asili nido, evidenzia ancora un’impronta assistenziale, in quanto individua nella madre il soggetto principale, lasciando in secondo piano i bisogni psicologici del bambino e le potenzialità educative del servizio. Infatti, negli anni di iniziale costituzione degli asili nido, “sembra che la consapevolezza dei bisogni educativi del bambino da 0 a 3 anni fosse del tutto assente, nella legge n.1044/1971 si contempla che << il nido ha lo scopo di provvedere alla temporanea custodia del bambino per facilitare l’ingresso della donna al lavoro >> (art.2): il bambino non compare” (Bondioli, Mantovani, 1987). Nel corso del tempo, le diverse esperienze di asilo nido hanno consentito un’idea sempre più chiara nel definire appropriate soluzioni organizzative e nuovi modelli educativi, pertanto, l’intento del nido in quanto servizio non è stato solo quello di costruire strutture, ma “di inventare la loro qualità attraverso una organizzazione interna, di curarne la promozione, di riflettere sulle migliori forme di intervento pedagogico, di garantire agli operatori una formazione adeguata” (Ghedini, 1987). Gli anni Settanta sono stati quindi per l’asilo nido anni di approfondimento, di dibattito culturale e di ricerca, dai quali è emerso un preciso quadro teorico sullo sviluppo infantile che ha reso ipotizzabile, per i più piccoli, interventi formativi al di fuori della famiglia. “Si giunge, infatti, a una immagine nuova del bambino, attivo fin dalla nascita, con competenze sociali precoci, capace di stabilire relazioni significative con figure diverse da quelle familiari e con i coetanei, relazioni che hanno una funzione importante per le attività mentali” (Ugazio, 1993). In altri termini, l’infanzia inizia ad affermarsi come un periodo della vita dotato di potenzialità che necessitano di contesti adeguati per emergere, e il nido a connotarsi come “servizio educativo e non, come luogo di custodia” (Savio, 2015).

Gli strumenti dell’azione educativa

Ambientamento

Il concetto di bambino competente, che emerge dall’esperienza quotidiana dei servizi dedicati alla prima infanzia, ha consentito un’evoluzione terminologica in base alla quale “inserimento” è stato sostituito da “ambientamento”. Nello specifico, il termine “inserimento” richiama l’idea di includere un elemento nuovo in un insieme già completo/compiuto, all’interno di un’organizzazione che tiene, prevalentemente, conto del ruolo dell’educatore per favorire l’entrata al nido del bambino (Mantovani, Saitta, Bove, 2000). Il termine “ambientamento” invece sembra essere più adatto a indicare un’esperienza particolarmente significativa che vede sulla scena: diversi attori, ambiente nuovo, adulti nuovi, bambini nuovi, che progressivamente entreranno in relazione, aggiustandosi vicendevolmente, in un tempo e in uno spazio da costruire su bisogni differenti (Restiglian, 2018). Nello specifico, l’esperienza di “ambientamento si costituisce come una situazione complessa di vissuti e relazioni interpersonali che lega educatore, genitori e bambino, come un processo emotivo e psicologico che consente il passaggio dalla relazione madre-bambino a uno spazio comunicativo più allargato in cui più interlocutori agiscono”, con modalità diverse, “assecondando il percorso di separazione tra madre e bambino, allargando la dimensione relazionale e influendo su questo momento transitorio” (Galardini, 2010). Ed è proprio per questo che, come la presenza del genitore al nido insieme al bambino diviene essenziale, in quanto facilita la separazione e media una realtà sconosciuta, allo stesso modo, la capacità dell’educatore di osservare la relazione madre bambino risulta di primaria importanza nel percorso di ambientamento. In altri termini “le interazioni madre-bambino realizzano una drammatizzazione che rivela il copione” (Cramer,1992), e secondo Restuccia Saitta (2018), l’educatore dovrà leggere correttamente tale copione per potersi inserire nella relazione senza intrusività alcuna, evitando di suscitare resistenze e opposizioni da parte del bambino o gelosie e sentimenti di rivalità nella madre.

Routine

Routine è un termine francese che indica un’abitudine e il suo ritmo monotono e ripetitivo. Al nido, con tale termine, si indicano i momenti che si ripetono nel corso della giornata in modo costante, individuati a livello “biologico”, nel cambio, nell’igiene, nel pasto, nel riposo; “organizzativo”, nell’accoglienza e nel ricongiungimento; “funzionale”, nell’organizzazione degli spazi e nella gestione dei materiali (Restuccia Saitta, 2018). Storicamente, le routine sono state connotate da modalità assistenziali, in quanto ci si focalizzava solo su aspetti igienico-sanitari che occupavano gran parte della giornata, costringendo il personale ad acquisire il ruolo di sostituto della madre senza alcuna connotazione educativa. Ad oggi, invece, “le routine costituiscono veri e propri contenitori spaziali e temporali entro i quali i bambini si riconoscono e si ritrovano”, stabiliscono relazioni e si avviano allo sviluppo di competenze e alla conquista dell’autonomia. Esse scandiscono i tempi della giornata al nido e non possono essere intese in senso meccanicistico, poiché proprio la ripetizione di determinate azioni permette ai bambini di comprendere la realtà che li circonda e di controllarla, attraverso l’abitudine al fare; non si tratta di comportamenti standard stabiliti, ma adattati ai ritmi e allo stile del bambino. Non sono azioni volte solo al soddisfacimento di bisogni primari, ma sono da intendersi come gesti di cura, di sostegno fisico e psichico, pensati per soggetti non ancora autonomi e in fase di adattamento al nuovo contesto e, soprattutto, finalizzati allo sviluppo percettivo, comunicativo, cognitivo, relazionale ed emotivo-affettivo (Restiglian, 2018).

Tempi

Le diverse esperienze al nido evidenziano che, soprattutto nella fase di ambientamento, i tempi personali dei bambini vengono considerati riservando una precisa organizzazione degli orari, che continua per i più piccoli, ma che per gli altri converge in una dimensione comunitaria, entro la quale ciascuno rispetta i tempi dell’altro. In altri termini, è importante che tutti i bambini “arrivino a determinati apprendimenti e che il nido riesca ad assecondare i ritmi personali di ciascuno, nel rispetto delle differenze” (Restiglian, 2018).

Spazi e attività

Il nido è un luogo in cui il bambino è stimolato e incoraggiato al fare, pertanto la predisposizione degli spazi non solo deve essere pensata con intenzionalità educativa, ma soprattutto deve rispettare le diverse attività proposte, promuovendo l’utilizzo di materiali diversi. Il bambino, secondo Musatti (2010), è “sintonizzato” su ciò che accade nell’ambiente, e tale meccanismo gli consente di porre attenzione a ciò che fanno gli altri, traendo stimoli anche per la propria attività. La qualità del contesto determina la direzione di questo meccanismo, di conseguenza gli spazi non possono ostacolare i percorsi di conoscenza e scoperta, così come non possono essere dispersivi o stressanti, cioè con rumori di fondo e confusione. Inoltre, “il bambino ha bisogno di luoghi circoscritti in cui sentirsi rassicurato e protetto, luoghi “tana” in cui può scegliere di stare da solo o con gli altri per riposarsi, giocare, parlare e in cui lasciare e ritrovare le proprie tracce” (Restiglian, 2018). Anche i materiali devono rispondere a precisi criteri quali “la funzionalità, la praticità, l’igiene, la sicurezza e la bellezza”, di fatto, la scelta del materiale, la modalità con la quale viene messo a disposizione e l’utilizzo orientano l’attività del bambino (Stradi, 2000).

Sezioni

La sezione (Bortoletto, 2018) è lo spazio entro il quale il bambino può esprimere il proprio essere, condividendo esperienze e routine con il gruppo. Al suo interno si trova la zona dedicata all’igiene, al pranzo, al riposo, alle attività in piccoli gruppi; infatti, per consentire al bambino di sentirsi libero di esplorare e di esprimersi attraverso tutti i linguaggi del corpo, è indispensabile organizzare questi spazi in angoli o atelier.

Doverosa a questo punto la differenza con il “laboratorio”, in cui l’educatore si aspetta determinati risultati sulla base dei materiali predisposti e degli obiettivi prefissati in un ambito inizialmente individuato (Restiglian, 2018). L’“atelier” invece, “è un luogo in cui il bambino diventa protagonista” (Padoan, Paperini, 2010); costituisce, secondo il Reggio Approach di Malaguzzi, “la possibilità quotidiana di avere più punti di vista e dove il bello, la scelta estetica, non vengono considerati un optional ma una necessità del pensare del vivere” (Vecchi, 2010); definisce un contesto che stimola il bambino a produrre, offrendo materiali e presentando tecniche, ma lasciandolo libero di seguire la sua creatività e la sua curiosità.

Non ci sono quindi “obiettivi prefissati, quanto piuttosto un coinvolgimento personale e intenzionale del bambino che conduce a una sua scoperta individuale”, evidenziando il proprio “bagaglio di conoscenze e ragionamenti, con i quali cerca di dare risposte a teorie da lui stesso elaborate”. In tal senso, l’attenzione si orienta al processo “del fare”, connotato dal piacere e dal gusto estetico, anziché all’obiettivo così come stabilito e atteso (Restiglian, 2018).

Inoltre, nel sottolineare l’importanza dei tempi nel processo evolutivo dei bambini, secondo Bortoletto (2018), è necessario che l’organizzazione degli spazi/sezione segua una distinzione tra lattanti, al cui interno è previsto un gruppo di bambini che ancora non deambula, semi-divezzi e divezzi; sezioni composte invece da gruppi di bambini che hanno raggiunto una certa autonomia fisica e di movimento, tale da poter esplorare lo spazio in tutte le sue parti. L’educatore, osservando il gruppo e individuando i bisogni che naturalmente evolvono durante il processo di crescita, modificherà la composizione e la disposizione degli angoli, proponendo un ambiente sempre ricco di stimoli, utili al loro sviluppo sociale, cognitivo e motorio.

In altri termini, la complessa strutturazione di una sezione al nido è il risultato di un’efficace “osservazione”, di una continua e attenta “offerta di stimoli e di situazioni di gioco libero e strutturato”, di una necessaria “capacità di comprendere quando per il bambino è indispensabile giocare da solo e quando invece ha bisogno di un co-attore”, ossia dell’educatore, “che lo accompagni in esperienze diverse e in nuove ricerche” (Bortoletto, 2018).

Famiglia e nido

I rapporti tra famiglia e nido si sono modificati nel tempo, con modalità diverse: da un’iniziale partecipazione sociale a un coinvolgimento al progetto educativo, sino a giungere, ad oggi, a un’attiva collaborazione alla vita del nido.

“Il dialogo con la famiglia non deve essere a corrente alternata ma a corrente sistemica cioè a corrente forte” (Malaguzzi, 1991).

Il bambino è affidato al servizio nido, in un momento delicato della sua crescita nel quale la famiglia ha un ruolo imprescindibile; pertanto diviene fondamentale la conoscenza del sistema famiglia al fine di predisporre e strutturare, una qualsivoglia azione educativa.

“Per educare un bambino è necessario […] trovare tempo e spazio […] per i genitori e con i genitori” (Milani, 2008).

Ciascun bambino, possiede caratteristiche proprie che lo rendono unico e diverso dall’altro; pertanto valorizzare il sapere dei genitori, attraverso il riconoscimento della loro esperienza, consente di adeguare e/o migliorare il proprio agire educativo. “Dal sapere dell’esperienza, nasce il sapere della cura” (Zucchi, 2018).

In altri termini affidare un bambino alle cure di un servizio esterno alla famiglia, nonostante le convinzioni sulla positiva funzione educativa, non è una scelta semplice; è infatti il primo incontro che la famiglia realizza in un contesto sociale esterno. “Aspettative, ansie e sentimenti contradditori nascono dall’inevitabile conflitto tra la volontà di affidare il bambino e il timore di perdere qualcosa durante la temporanea separazione”. Diviene dunque necessaria la consapevolezza che “accogliere un bambino al nido significa accogliere anche una famiglia con le sue peculiarità”, di fatto “ogni intervento non si esaurisce nel solo ed esclusivo rapporto con il bambino, ma si colloca in una dinamica relazionale che coinvolge la madre e il padre e il tipo di relazione che questi hanno con il proprio figlio” (Galardini, 2018).

Il nido in quanto segmento educativo

Un servizio nido non è intrattenimento, ogni azione educativa proposta è il risultato di un’attenta, puntuale e sistematica osservazione e si connota di intenzionalità, in quanto focalizzata esclusivamente sul bambino. Essa, in termini di progettazione, diviene elemento indispensabile per l’educatore, che, partendo da ipotesi non definite a monte, ma risultanti dalla conoscenza del contesto in essere, traduce i suoi saperi, adeguandoli alle competenze del bambino, alla sua età, alla sua storia, ai suoi bisogni e alle sue caratteristiche individuali. In altre parole, il bambino diviene protagonista in un ambiente piacevole, rassicurante e favorevole all’acquisizione di conoscenze e di competenze, attraverso routine pensate e strutturate ad hoc. Ed è proprio rispetto all’acquisizione di conoscenze e competenze che il nido pone le basi per il successivo percorso formativo alla scuola dell’infanzia. “Significa, quindi, pensare al nido come segmento educativo” (A.de Gaetano, 2020)

 

Social skills e caregiving: migliorare il processo di cura e assistenza, la relazione ed il benessere soggettivo

I caregiver socialmente responsabili con buone capacità interpersonali tendono ad avere una qualità superiore di vita rispetto ai caregiver con un repertorio limitato di abilità sociali.

Annalisa D’Errico – OPEN SCHOOL, Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Mestre

Cosa s’intende per caregiver e caregiver burden?

La parola caregiver deriva dalla lingua inglese e letteralmente significa “colui che presta le cure”. Si possono distinguere due tipologie di caregiver: informale, si identifica normalmente con un famigliare del paziente (più frequentemente un figlio o un coniuge) o altre volte può essere un amico; formale, si identifica con un professionista come il medico o l’infermiere. In generale, dunque, colui che viene riconosciuto come caregiver assume il ruolo di responsabile attivo nella presa in carico di un secondo individuo, e si impegna inoltre a svolgere una funzione di supporto e cura nei confronti di una persona che si trova in condizione di difficoltà. Nel caso del caregiver informale quindi, colui che all’interno di un nucleo famigliare si assume il compito principale di cura e assistenza, va a rivestire un ruolo fondamentale nella storia della malattia del proprio caro (Fasinelli, 2005).

Il termine caregiver burden è un concetto multidimensionale riferito all’impatto complessivo che il carico assistenziale di un malato comporta sul benessere di tipo fisico, psicologico ed emozionale del caregiver; comprende inoltre disagi di ordine sociale e finanziario. Zarit e colleghi (1980) lo hanno definito come: “La misura in cui i caregiver percepiscono che il caregiving ha avuto un effetto negativo sul loro funzionamento emotivo, sociale, finanziario, fisico e spirituale”. Questa definizione sottolinea il pedaggio multidimensionale che l’assistenza può avere sugli operatori sanitari e sui familiari e anche che il caregiving è un’esperienza altamente individualizzata.

In molti Paesi le famiglie sono chiamate ad erogare un’assistenza sempre più complessa ai congiunti malati. I trattamenti migliori e che hanno prolungato la durata della vita della maggior parte dei pazienti con malattie croniche, sono quelli che hanno richiesto il coinvolgimento del caregiver (Given et al., 2001). Tale pratica richiede un livello di conoscenze e capacità assistenziali senza precedenti a persone estranee all’ambiente sanitario (Barg et al., 1998). Benché le abilità richieste ai familiari in varie situazioni cliniche siano state descritte (Grobe, 1981), e anche gli interventi atti ad accrescerle (Archbold et al., 1995), le abilità di caregiving familiare non sono ancora state sviluppate formalmente come concetto. Lo sviluppo concettuale delle abilità di caregiving familiare è essenziale nell’era attuale dell’assistenza. Poiché le famiglie diventano sempre più responsabili dell’assistenza a propri membri gravemente malati, gli interventi destinati ad assisterle devono fondarsi su basi teoriche solide.

Molti caregiver familiari riferiscono di non avere le competenze e le conoscenze necessarie per fornire assistenza continua a una persona malata, quindi mancano di fiducia e si sentono impreparati. I caregiver dicono di ricevere poche indicazioni da parte dei professionisti, che non hanno familiarità con il tipo e l’importo di cure necessarie e che non sanno come fare per accedere e utilizzare le risorse. Tutto ciò, compresi i sentimenti di incertezza, contribuiscono alla loro angoscia.

Sono disponibili poche informazioni sulle conoscenze e le abilità di cui i caregiver familiari hanno bisogno per fornire assistenza o su come le loro conoscenze e abilità influiscano sull’assistenza. La maggior parte degli studi non organizza o classifica gli interventi in base ai compiti dei caregiver o alle conoscenze e abilità di cui hanno bisogno, ma queste informazioni sono vitali per pianificare e attuare interventi che li aiuteranno. I concetti di padronanza, preparazione e competenza sono stati considerati come componenti necessarie per un processo decisionale efficace e per la risoluzione dei problemi da parte dei caregiver familiari (Archbold et al., 1995), ma il sistema di cura formale ha prestato poca attenzione a queste componenti.

La capacità del caregiver familiare di fornire assistenza di qualità e contribuire alla gestione delle malattie croniche è una risorsa sanitaria vitale. Gli operatori sanitari dovrebbero essere di supporto a caregiver familiari e aiutarli ad acquisire conoscenze e competenze al fine di massimizzare la qualità della cura. I professionisti devono aiutare i caregiver familiari a sviluppare capacità di problem solving, organizzazione e capacità di comunicazione.

Social skills e caregiving

Il caregiving comporta richieste di abilità sociali che possono contribuire a minimizzare i conflitti e massimizzare la qualità della vita dei caregiver, dei pazienti e di altre persone coinvolte nel contesto assistenziale. Nonostante la mancanza di studi sulle abilità sociali di chi si prende cura, ricerche condotte in altri contesti indicano che le persone con abilità sociali ben sviluppate, hanno maggiori probabilità di stabilire relazioni di buona qualità, portando a una salute e ad un benessere migliore (Bandeira, 2014; Lima, 2014; Pinto &Barham, 2014). Il concetto di abilità sociali si riferisce a comportamenti che esistono nel repertorio di un individuo e che vengono utilizzati in interazioni con altre persone (Del Prette & Del Prette, 2013).

Una persona socialmente competente in un ruolo professionale, potrebbe non essere altrettanto competente nel contesto dell’assistenza e della cura e viceversa. Le abilità sociali coinvolgono varie classi di comportamento sociale, tra cui: espressione di sé, capacità di coping, espressione delle emozioni positive, comunicazione assertiva, stabilire nuove relazioni o adattarsi a nuove situazioni e controllare le reazioni aggressive. In termini di prove riguardanti l’importanza di abilità sociali nei caregiver, i ricercatori hanno dimostrato che i caregiver socialmente responsabili con buone capacità interpersonali tendono ad avere una qualità superiore di vita rispetto ai caregiver con un repertorio limitato di abilità sociali (Bandeira et al., 2014; Pinto &Barham, 2014).

Per essere socialmente competenti, i caregiver potrebbero aver bisogno di usare un maggiore autocontrollo per evitare di reagire in modo aggressivo ad ostilità da parte dell’altra persona, per identificare i fattori che contribuiscono al problema e calmare l’altra persona e se stessi, in modo che possano decidere il modo migliore per risolvere il problema. A seconda dell’eccitazione emotiva delle persone durante un conflitto ed errori di attribuzione causale, basati su storie familiari, il caregiver potrebbe non essere in grado di analizzare il problema e pensare subito alle soluzioni migliori. Come alternativa, ritirarsi dal conflitto e tornare al problema dopo il tempo di riflessione può essere più efficace, oppure una risposta socialmente più adeguata. Anche le abilità sociali, così come i comportamenti disadattivi (come evitare contatti sociali, non esprimere opinioni, attaccare le idee degli altri), sono comportamenti appresi (Del Prette & Del Prette, 2008, 2013). I comportamenti disadattivi possono anche generare risultati positivi, ma a breve termine, come ridurre l’ansia dei caregiver e frustrazioni momentanee (Gresham, 2010), ma questi comportamenti non portano a soluzioni a medio o lungo termine.

In due studi sugli effetti della formazione sulle abilità sociali per i caregiver di persone anziane (Robinson, 1988; Robinson & Yates, 1994), le persone che hanno partecipato a programmi di formazione hanno dimostrato comportamenti socialmente più competenti nella loro vita quotidiana. Quindi, sembra che buone abilità sociali, che si traducono in comportamenti socialmente competenti, possono influenzare positivamente il benessere di chi si prende cura degli anziani e la qualità delle loro relazioni interpersonali. Tuttavia, c’è ancora poca informazione su questo contesto. Questo studio mirava ad identificare i principali conflitti coinvolti nel caregiving, per identificare le abilità sociali considerate importanti quando si ha a che fare con questo compito, che aiutano a ridurre al minimo i conflitti.

Quindi, possiamo concludere dicendo che ci sarebbe la necessità di individuare le esatte abilità sociali atte a migliorare il processo di caregiving e fornire una solida base teorica. Ciò avrebbe ripercussione anche sugli interventi professionali che hanno l’obiettivo di aumentare le abilità sociali nei caregiver avendo impatto positivo non solo sulla persona stessa, ma anche sulla relazione con il proprio caro e sulla patologia, aumentando la qualità di vita, migliorando quindi il processo di cura e assistenza, la relazione ed il benessere soggettivo.

 

Disturbo dell’orgasmo femminile: quanto ne sa la scienza? – FluIDsex

Il disturbo dell’orgasmo femminile viene classificato all’interno del DSM-5 (APA, 2013) nell’area nosografica delle disfunzioni sessuali.

 

Tutti i disturbi classificati all’interno di quest’area sono caratterizzati da un’anomalia nel processo che comporta il ciclo di risposta sessuale, o sono caratterizzati da un dolore associato al rapporto sessuale.

Il disturbo dell’orgasmo femminile viene definito dal DSM-5 (APA; 2013) come un marcato ritardo, o addirittura l’assenza, del raggiungimento dell’orgasmo in una normale fase di eccitazione sessuale. Questo tipo di disturbo viene considerato tale se la donna presenta una difficoltà nel raggiungimento dell’orgasmo anche con la masturbazione. Inoltre questo disagio deve perdurare per almeno 6 mesi ed essere clinicamente significativo.

Diversi studi mostrano come la difficoltà orgasmica colpisca il 16-28% delle donne negli USA, in Europa, nell’America centrale-meridionale, arrivando fino al 46% nella Cina continentale e in altri paesi asiatici (Laan et al., 2013; Zhang et al., 2017).

Questa difficoltà può dipendere da diversi fattori tra cui l’età e lo stato ormonale della donna, la salute e la sua esperienza sessuale. È inoltre importante tenere in considerazione la qualità del rapporto sessuale; in particolare se la stimolazione è adeguata durante l’attività sessuale, se l’attività sessuale è svolta in coppia o meno, e considerare la natura della relazione diadica (ad esempio, se il rapporto sessuale è occasionale o se avviene all’interno di una relazione continuativa) (Armstrong et al., 2012; Smith et al., 2014).

Il disturbo dell’orgasmo femminile può essere classificato in base al momento di insorgenza del disturbo: viene definito permanente se la donna non ha mai sperimentato un orgasmo né da sola, né con il partner con qualsiasi tipo di stimolazione; è acquisito, se invece la donna ha sviluppato il disturbo dopo aver provato l’orgasmo in passato. Questo disturbo, inoltre, può essere “generalizzato” se l’impossibilità di raggiungere l’orgasmo si ha in ogni contesto, oppure viene definito “situazionale” se la difficoltà si presenta solo in determinate situazioni (APA, 2013).

A causare il disturbo dell’orgasmo femminile sono coinvolti diversi fattori fisiologici, neurologici e psicosociali. Disfunzioni muscolari del pavimento pelvico, cambiamenti ormonali causati ad esempio dalla menopausa o da contraccettivi ormonali, malattie croniche come il diabete o la sclerosi multipla o lesioni ed interventi chirurgici che colpiscono i nervi (Meston et al., 2004).

Da un punto di vista clinico, per una donna che soffre del disturbo dell’orgasmo è importante indagare anche il contesto sociale e le sue esperienze di vita, questo perché divieti culturali o religiosi, atteggiamenti negativi verso il piacere sessuale, mancanza di informazioni sulla sessualità o esposizioni ad abusi o esperienze sessuali traumatiche potrebbero aver contribuito all’insorgenza sintomatologica di questo disturbo (Heiman & Lo Piccolo, 1988; Meston et al., 2004).

Alcune donne che sperimentano difficoltà a raggiungere l’orgasmo, o addirittura non lo hanno mai raggiunto, mostrano ansia e vergogna associate all’insoddisfazione per i propri rapporti sessuali. Tali condizioni psicologiche risultano essere l’effetto dell’anorgasmia, ma, in una sorta di circolo vizioso, sono considerate anche alcune delle cause di tale disturbo (Meston et al., 2004; Laan et al., 2013; Tavares et al., 2018).

Personalità e difficoltà nel raggiungere l’orgasmo

Diversi studi (Bridges et al., 1985; Loos et al., 1987; Mah & Binik, 2001; Harris et al., 2008) hanno inoltre mostrato come la difficoltà nel raggiungimento dell’orgasmo sia associata a particolari tratti di personalità come il bisogno di controllo e la paura di perderlo, emozioni represse, maggiore dipendenza dall’altro, apprensione e negatività, instabilità emotiva e il non essere aperti a nuove esperienze. Tavares e colleghi (2018) hanno valutato il ruolo di personalità, inibizione ed eccitazione sessuale, e delle credenze sessuali nel predire il verificarsi dell’orgasmo femminile. È emerso che la personalità non gioca un ruolo significativo nella regolazione dell’orgasmo femminile, ad esclusione del tratto di estroversione, che ha una relazione positiva con la frequenza dell’orgasmo. Inoltre, è emerso che l’inibizione sessuale associata alla paura del fallimento della prestazione predicono negativamente l’orgasmo femminile.

Si può dire quindi che oltre ai fattori organici, ad influenzare lo sviluppo di questo disturbo siano coinvolti anche fattori socioculturali, emotivi e psicologici che interessano donne di tutte le età.

In un altro studio del 2019 (Gruenwald et al.) si sono indagati i possibili deficit sensoriali nelle donne con disturbo dell’orgasmo femminile.

Deficit sensoriali e disturbo dell’orgasmo femminile

I risultati della ricerca hanno mostrato come le donne con disturbo dell’orgasmo femminile richiedano intensità più elevate di stimolazione clitoridea per raggiungere le soglie, rispetto alle donne con altre disfunzioni sessuali, in cui però l’anorgasmia non è la loro difficoltà principale.

Secondo questo studio, quindi, le donne con disturbo dell’orgasmo femminile soffrono di un’iposensibilità clitoridea, ed il clitoride gioca dunque un ruolo importante nel raggiungimento dell’orgasmo sessuale (Gruenwald et al, 2019).

Trattamenti per il disturbo dell’orgasmo femminile

Per quanto riguarda i trattamenti, tre sono le categorie di trattamenti psicologici individuate, utilizzate per la cura del disturbo dell’orgasmo femminile: (i) la masturbazione diretta, (ii) la desensibilizzazione sistemica ed (iii) il focus sensoriale (Meston et al., 2004; Marchand, 2020).

La masturbazione diretta è una tecnica cognitivo comportamentale mindfulness-based che comporta l’esposizione graduale alla stimolazione genitale utilizzando strumenti psicologici per migliorare l’attenzione agli stimoli sessuali e per ridurre l’ansia sperimentata. Questo tipo di tecnica è risultato essere molto utile anche per le donne con un disturbo dell’orgasmo permanente e generalizzato (LoPiccolo & Lobitz, 1972; Heiman & LoPiccolo, 1988; Heiman, 2002; Laan et al., 2013).

La desensibilizzazione diretta è invece una terapia basata sull’esposizione ad un’ansia specifica in cui si crea una gerarchia di esperienze temute, esponendosi a ciascuna di esse. Alcune di queste potrebbero essere, ad esempio, un bacio prolungato con il partner o essere spogliati dal partner (Lazarus, 1963).

Infine, la tecnica del focus sensoriale è una tecnica comportamentale mindfulness-based utilizzata per ridurre l’ansia, in cui si accompagna il paziente a focalizzarsi sulle sensazioni fisiche durante l’attività in coppia (Weiner & Avery-Clark, 2014). Questa tecnica, sviluppata da Master e Johnson (1970), consiste in uno scambio di carezze sul corpo da parte dei partner in un contesto di non richiesta. Inizialmente viene escluso il contatto con i genitali o il seno, successivamente vengono integrate anche queste aree in base all’acquisizione di comfort da parte dei partner e delle loro capacità di attenzione verso le sensazioni corporee. Il focus sensoriale è un trattamento utilizzato soprattutto per il disturbo dell’orgasmo femminile situazionale in un contesto di coppia (Carney et al., 1978).

Futuri sviluppi per quanto riguarda il disturbo dell’orgasmo femminile

In generale, si può affermare che il disturbo dell’orgasmo femminile interessi una buona parte della popolazione generale femminile, e le ricerche future potrebbero basarsi su un campione più ampio rispetto ai campioni su cui sono basati gli attuali studi scientifici. Inoltre, basandosi sui risultati ottenuti si potrebbe migliorare anche l’informazione a livello mediatico, con lo scopo di aumentare la consapevolezza rispetto ad un tema che è molto più comune di quel che si pensa, e che spesso non viene affrontato perché considerato ancora un tabù nella società odierna.

 


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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

 

La moglie di Darwin -L’arte di prendere decisioni lungimiranti (2021) di Steven Johnson – Recensione

“Esiste un’abilità più importante di quella di compiere scelte difficili?” Questo è il quesito posto da Steven Johnson nel libro La moglie di Darwin.

 

Dan e Chip Heath, autori del libro Decisive, fanno notare che “La gran parte delle organizzazioni sembra seguire lo stesso processo decisionale di un adolescente in preda agli ormoni” (Heath e Heath, 2013).

Chi non vorrebbe compiere scelte migliori?

In qualsiasi ambito, sia personale che professionale e in ogni fase della vita, saper prendere decisioni risulta essenziale. Non c’è bisogno di avere in mente una carriera particolarmente importante e ambiziosa per trovare utile la conoscenza di questo strano superpotere. La facoltà di prendere decisioni a lungo termine è una delle poche caratteristiche, insieme ad altre, davvero esclusive dell’Homo sapiens.

Vista l’importanza sarebbe utile che diventasse un percorso pedagogico, cardine della nostra istruzione e tra i vari vantaggi lo studio del processo decisionale offre un prezioso ponte tra le scienze e le discipline umanistiche. Daniel Kahneman (2011) nel libro Pensieri lenti e veloci ha introdotto l’idea del cervello suddiviso in due sistemi distinti, entrambi coinvolti nel processo decisionale.

Il libro La moglie di Darwin attinge dalla ricerca scientifica sul processo decisionale e dagli studi che ci aiutano a vedere oltre i nostri preconcetti, pregiudizi e prime impressioni. Analizza diversi contesti socio-politici, storici e biografici che spesso si intrecciano, come nel caso personale di Darwin, tracciando il processo decisionale adottato ed esamina le conseguenze di tali decisioni.

In questo percorso è necessario abbracciare l’incertezza, come lo descrive Richard Feynman nel suo libro Il senso delle cose:  “…Il dubbio ci spinge a guardare in nuove direzioni e cercare nuove idee…Se non si potesse, o volesse, guardare in nuove direzioni, se non si avessero dubbi, o non si riconoscesse il valore dell’ignoranza, non si riuscirebbe ad avere idee nuove” (Feynman, 1999, p. 36).

Quasi tutte le strategie descritte in questo volume perseguono, fondamentalmente, lo stesso obiettivo: aiutarci a vedere la situazione da nuove prospettive, forzare i limiti della razionalità e considerare un’ingente quantità di strategie che possono evitarci decisioni inadeguate.

I primi tre capitoli descrivono le tecniche per effettuare le decisioni di gruppo, seguendo in generale la sequenza di molti percorsi decisionali come:

  • Mappatura
  • Previsione
  • Compimento della scelta

I capitoli successivi sviluppano aspetti decisionali che riguardano questioni di più ampia portata e le decisioni personali, come quella con cui era alle prese Darwin.

Mappare

Il modo migliore di cominciare il viaggio di una scelta difficile è avere una buona mappa. Ma mappare non equivale a decidere. Ciò che la mappa dovrebbe svelare è un insieme di vie potenziali. I teorici delle decisioni hanno sviluppato uno strumento per schematizzare questi tipi di scelte: i diagrammi di influenza. Prendere decisioni complesse non significa solo mappare il terreno che influenzerà ciascuna scelta, è anche questione di scoprire nuove alternative, come ha evidenziato lo studio di Paul Nutt (2002).

Prevedere

Nel 1995 Adreasen osservò che quando il cervello/la mente pensa liberamente, senza vincoli, utilizza le sue parti più umane e complesse e grazie alla tomografia PET è emerso quanta energia richieda sognare a occhi aperti. Molti studi hanno messo in evidenza che il cervello si è rivelato essere più attivo a riposo rispetto a quando dovrebbe presumibilmente essere attivo. Quando lasciamo viaggiare la mente, questa comincia spontaneamente a passare al vaglio scenari immaginari su quello che ci attende.  Gli scienziati hanno denominato questo ricorrente pattern di attività “rete di default”.

Decidere

Mappare, prevedere, simulare: sommati tra loro non equivalgono a decidere. Una volta mappato il paesaggio, stabilita una gamma completa di opzioni e simulati gli esiti di quelle opzioni con la massima certezza possibile, come si fa, dunque, a scegliere?

Dalla prima descrizione dell’“algebra morale” di Benjamin Franklin sono stati escogitati sistemi sempre più elaborati per prendere decisioni.

Tuttavia l’incertezza, come Herbert Simon ha notoriamente dimostrato, è un fattore inevitabile in qualsiasi decisione complessa e dedicare troppo tempo a sondare l’incertezza rischia di lasciarci in un limbo amletico di indecisione. Per questo motivo Jeff Bezos, fondatore di Amazon, è famoso per seguire la “regola del 70%”.

Se abbiamo fatto un lavoro accurato in tutte le fasi di mappatura e previsione, la scelta vera e propria spesso diventa lampante. Le fasi di mappatura e previsione di una scelta complessa servono a dare alla rete di default più materiale da elaborare.

Il capitolo dedicato alla scelta globale affronta il tema dei supercomputer che hanno cominciato ad assumere il ruolo che nell’antichità spettava agli oracoli: ci consentono di sbirciare nel futuro. A mano a mano che la loro capacità di preveggenza cresce, facciamo sempre maggiore affidamento su queste macchine perché ci assistano nelle scelte difficili, e forse persino perché le compiano al nostro posto.

Queste macchine possono essere pericolose?

Immaginiamo di programmare una AI con quello che, all’apparenza, è l’obiettivo più innocuo immaginabile: la massima felicità del maggior numero possibile di persone. Fissiamo quello come valore generale e lasciamo decidere alla macchina l’approccio migliore per convertirlo in realtà.

L’ AI potrebbe benissimo elaborare uno scenario che, tecnicamente, raggiungerebbe l’obiettivo, ma che potrebbe risultare immediatamente inaccettabile per gli esseri umani.

La gran parte del dibattito intorno alla AI superintelligente è dedicata a sviscerare il cosiddetto “problema di contenimento” ossia come mantenere il genio della AI dentro la bottiglia pur continuando ad attingere ai suoi poteri, magistralmente rappresentato nel film Ex Machina di Alex Garland.

Se il punto è calcolare la massima felicità del maggior numero possibile di persone, quale migliore abilità può esserci se non quella di prevedere la presenza o assenza di felicità nella mente di altre persone?

L’autore suggerisce l’empatia, così descritta: “… quel talento di saper sbirciare nella mente di un’altra persona e immaginare l’effetto che un certo evento teorico potrebbe avere su di essa, è quasi per definizione una delle virtù più importanti quando si tratta di prendere decisioni complesse”.

Inoltre diverse ricerche hanno confermato che l’abitudine alla lettura della narrativa letteraria è in forte correlazione con una migliore capacità di teorizzare la mente. Come scrive Rebecca Mead:

“…se davvero mi importa di te — se cerco di calarmi nella tua posizione e nel tuo orientamento —, allora il mio mondo viene migliorato da quello sforzo di interpretazione e comprensione” (Mead, 2014, p. 223).

In un certo senso possiamo concepire il romanzo stesso come un tipo di tecnologia, analogamente alla gran parte delle tecnologie si sviluppa a partire da abilità già possedute per potenziarle; insieme ad altre forme d’arte come i film e le narrazioni seriali televisive, è una versione amplificata della narrazione istintuale della rete di default. Il romanzo sta ai sogni a occhi aperti della rete di default come il telescopio Hubble sta al nostro apparato visivo. Sono tutti strumenti che ci permettono di vedere più lontano e più in profondità.

Nel capitolo dedicato alla scelta personale l’autore si riferisce alla decisione personale di Darwin riguardante la scelta di sposarsi o meno. Darwin considerò pro e contro e in base ai suoi valori, tuttavia vengono prese in considerazione varie opzioni, come l’algoritmo morale. Anche se può risultare riduttivo prendere una decisione complessa ed emotiva comprimendola in una formula matematica, tuttavia vengono presi in esame alcuni calcoli che possono essere di aiuto a ridurre l’elenco alle sole alternative che valga la pena di tenere in considerazione.

Inoltre, considerando che non possiamo avere una visione perfetta delle conseguenze a valle delle nostre scelte, il fattore incertezza è inevitabile e quindi Johnson si sofferma sulle strategie disponibili per attenuarla. Un’altra decisione sconvolgente che dovette affrontare Darwin riguardò la possibilità di pubblicare o meno la sua radicale teoria dell’evoluzione. Decisione molto delicata perché i valori profondi in gioco che riguardavano lo sviluppo della teoria e quelli personali erano sostanzialmente inconciliabili.

Il libro è il frutto di un lavoro di raccolta di esperienze e riflessioni dell’autore durato circa 10 anni fino ad arrivare alla sua completa realizzazione. Oltre alla creatività, l’empatia, la resilienza, Johnson colloca la capacità di prendere decisioni complesse vicino alla cima della classifica delle capacità più importanti dell’essere umano, è il nocciolo di ciò che intendiamo con la parola “saggezza”.

 

Binge drinking e binge eating: esiste una relazione tra assunzione eccessiva di alcol e di cibo?

Capita spesso nel settore psicologico di sentir parlare di binge eating e di binge drinking, ma la relazione tra i due viene considerata piuttosto raramente.

 

L’eccessivo consumo di alcol e l’abbuffata sono due comportamenti disfunzionali che possono tradursi rispettivamente nel disturbo da uso di alcol e nei disturbi alimentari (APA, 2013). È ormai noto che questi comportamenti disfunzionali siano associati ad un disagio psicologico di fondo, che può portare ad abitudini disadattive di vario tipo. Capita spesso nel settore psicologico di sentir parlare di binge eating e di binge drinking, ma la relazione tra i due viene considerata piuttosto raramente. Proprio per questo motivo Azevedo e colleghi hanno scelto di realizzare una revisione sull’argomento (Azevedo et al., 2021). La revisione integrativa ha incluso ricerche sull’argomento pubblicate dal 2015 al 2019, per un totale di 964 articoli, i quali hanno indicato l’esistenza di una relazione tra abbuffate ed elevato consumo di alcol, evidenziando come alcuni fattori siano stati associati a questa comorbilità.

Per quanto riguarda le caratteristiche della popolazione di riferimento, è stato confermato che le donne tendono ad avere episodi di binge eating e binge drinking in numero maggiore rispetto agli uomini (Souza da Silva et al., 2016, Fouladi, 2015; Freitas, 2015). Per ciò che concerne il fattore età, è stata rilevata una maggiore frequenza di consumo di alcol nei giovani adulti fino a 38 anni (Martin et al., 2015; Freitas, 2015).

Dal punto di vista clinico, l’indagine ha evidenziato come il consumo di alcol sia spesso associato a disturbi alimentari con episodi di abbuffate, come bulimia nervosa (Rolland et al., 2017, Chapa, 2018; Martin et al., 2015); Fouladi, 2015], binge eating disorder (Rolland et al., 2017; Chapa et al., 2018; Fouladi, 2015), ed anoressia nervosa di tipo purging, vale a dire con condotte di eliminazione (Fouladi, 2015). Uno studio longitudinale sulla salute complessiva che aveva come campione 15.074 adulti, ha mostrato come il 6,5% dei soggetti riportasse 2 o più episodi di abbuffate a settimana ed utilizzasse elevate dosi di alcol una o due volte a settimana (8,9%) (Souza da Silva et al., 2016). Altri studi hanno mostrato come persone che svolgevano eccessivo esercizio fisico (Castañeda, 2019, Martin et al., 2015), diete restrittive (Castañeda, 2019; Martin et al., 2015), digiuno o condotte di eliminazione, erano più soggette al consumo problematico di alcol (Martin et al., 2015).

Per ciò che concerne il peso e l’immagine corporea, è stato rilevato che le donne che consumavano alcol erano insoddisfatte del proprio peso (36%) e del proprio corpo (34%), avevano sensi di colpa durante i pasti (45,5%), paura di perdere il controllo sulla propria dieta (30%), nonché un forte desiderio di perdere peso (50%) (Cranford et al., 2010). Un altro studio che ha indagato la differenza tra i sessi nella cooccorrenza di binge drinking e binge eating, ha rilevato come tra le donne l’uso eccessivo di alcol fosse associato a insoddisfazione per il peso e alimentazione compulsiva, mentre tra gli uomini fosse correlato ad eccesso di peso, vomito e uso di lassativi (Stickley, 2015).

Per quanto riguarda i fattori genetici e ambientali, l’influenza genetica sullo sviluppo dei sintomi bulimici e sul consumo di alcol è chiara e riconosciuta in letteratura (APA, 2013; Hilbert, 2019; Baker, 2017). I geni possono predeterminare le caratteristiche di una persona che portano direttamente o indirettamente a comportamenti a rischio come un’alimentazione disordinata e il consumo disregolato di alcol, e si ritiene che entrambe le condizioni abbiano percorsi neurali comuni (Baker, 2017). Entrando nel dettaglio, uno studio condotto negli USA con adolescenti tra i 16 e i 17 anni ha identificato correlazioni fenotipiche e genetiche tra coinvolgimento nell’uso di alcol, desiderio di un corpo magro e insoddisfazione del corpo, che erano significativamente più elevate nelle femmine (Baker, 2017). Un altro studio ha trovato risultati differenti, secondo cui l’associazione tra consumo di alcol e sintomi bulimici era quasi il doppio nei gemelli monozigoti rispetto ai gemelli dizigoti; questa ricerca ha anche dimostrato una significativa associazione tra uso di alcol e sintomi bulimici nei maschi. Questi risultati suggeriscono che i fattori genetici hanno una forte influenza sulle abbuffate e sul consumo di alcol (Baker, 2017).

Per quanto riguarda la sfera emotiva e l’impulsività, è noto che le abbuffate e il consumo di alcol siano comportamenti legati alla disregolazione emotiva (Pisetsky, 2016), all’impulsività (Sysko, 2017) o ad entrambi (Stojek et al., 2014; Mikheeva&Tragesser, 2016). Questa comorbidità può inoltre essere ulteriormente associata a ideazione suicidaria e tentativi di suicidio, ansia e disturbi dell’umore. A conferma di ciò, Pisetsky et al. hanno valutato le emozioni positive e negative in 133 donne con bulimia nervosa, scoprendo che il 33,8% di loro ha auto-riferito almeno un episodio di intossicazione da alcol durante il periodo studiato, e che l’assunzione di alcol era preceduta e seguita da tristezza (Pisetsky, 2016). Questi risultati suggeriscono che l’alcol non funge da meccanismo di regolazione emotiva. I ricercatori hanno anche notato che il consumo di alcol e/o cibo può essere una strategia di regolazione emotiva per affrontare la sofferenza, e che l’azione impulsiva è spesso una strategia per tentare di evitare o deviare tali emozioni negative (Mikheeva & Tragesser, 2016). Le emozioni negative e la tendenza ad agire impulsivamente sono quindi comportamenti comuni legati al binge eating e al binge drinking (Kim, 2018). In effetti, gli individui che bevono alcol hanno maggiori probabilità di adottare azioni affrettate, come il binge eating, quando provano emozioni negative (Kim, 2018).

I risultati del presente studio hanno indicato che esiste una relazione tra abbuffate e consumo di alcol, che è influenzata da molte variabili. L’indagine ha mostrato che le caratteristiche sociodemografiche, nutrizionali, genetiche, ed emotive dei campioni analizzati sono rilevanti in questo fenomeno. Questi risultati possono supportare azioni e strategie terapeutiche per l’identificazione dei casi e trattamenti più efficaci per soddisfare le esigenze biopsicosociali degli individui.

La solitudine che è in noi: un’esperienza esistenziale di profonda libertà e potenziale creativo

Gli individui sono spesso isolati dagli altri o da parti di loro stessi, ma ciò non va confuso con la solitudine esistenziale. Essa si riferisce ad un abisso incolmabile tra un individuo e ogni altro essere, ma anche ad un isolamento più fondamentale, una separazione tra l’individuo e il mondo.

 

Il verbo esistere (ex-istere, staccarsi), implica un processo di separazione e differenziazione da un altro, un altro che durante le prime fasi dello sviluppo rappresenta una fonte di protezione assoluta e nondimeno indispensabile per la sopravvivenza (Yalom, 1980). Più avanti, nel corso dello sviluppo, si possono cercare sicurezza e protezione in un genitore, in un insegnante, in un partner, che in condizioni di pervasività e persistenza, possono portare ad una forte stagnazione della qualità di vita e dell’esperienza dell’individuo. Secondo lo psicoanalista Otto Rank, il soggetto, durante il percorso di vita, si trova a fronteggiare due tipi di paure: la paura della vita e la paura della morte. La prima fa riferimento alla paura di separarsi, di dover fronteggiare la vita come esseri autonomi, di affermarsi e realizzare il proprio potenziale e che comporta, se presente in maniera pervasiva e persistente, una quota di angoscia di morte, un senso di abbandono e pericolo rispetto alla possibilità e al diritto di affermare le proprie opinioni, i propri desideri e bisogni. Casi tipici di estremo sacrificio di sé, di immolazione, di autoannullamento, si possono ritrovare nelle personalità masochistiche, dove la persona, durante la propria vita, sviluppa la credenza che, tollerare il dolore e la sofferenza, come lo stare in relazioni estremamente precarie, talvolta pericolose, e totalmente non reciproche, comporti il raggiungimento di un qualche bene maggiore, una qualche ricompensa. Ciò, da un punto di vista esistenziale, emerge da un estremo bisogno di sicurezza, dove la forza del legame nasce dal terrore di rimanere soli e dal bisogno di un essere potente e magico, da cui ricevere protezione, approvazione e ricompensa a qualunque costo. A tal proposito, si fa riferimento a soggetti cresciuti in ambienti abusanti con ripetute esperienze traumatiche (trauma relazionale) dove la costanza dell’oggetto non è stata raggiunta, dove i vissuti legati alle esperienze di attaccamento risultano separati nel tempo e dove nel senso di continuità nella percezione del caregiver (spaventante-spaventato), “sicuro” può anche diventare un ambiente abusante, all’interno del quale però la persona impara in maniera implicita e automatica, come esercitare strategie di controllo, volte ad anticipare l’eventuale pericolo. Il bambino avrà bisogno di impiegare risorse sproporzionate per comprendere il comportamento del genitore, alle spese però della percezione della realtà in termini di stati mentali e della loro relativa intenzionalità. Emergono, in questi casi, dinamiche in cui, non potendo trovare un continuum spazio-temporale tra più stati della mente, un senso di continuità e coerenza, il soggetto estende all’altro rappresentazioni di sé aliene e incongruenti, attraverso schemi rigidi e ripetitivi che permettono di avere un controllo contingente sulla realtà e un senso, seppur precario ed estremante disfunzionale, di sicurezza. La paura, quale una delle emozioni dominanti in esperienze traumatiche cumulative, viene autoindotta, attraverso per esempio il meccanismo di difesa primitivo dell’identificazione proiettiva e ciò permette di trovare conferme all’esterno di ciò che non può essere mentalizzato. Dominante in queste esperienze, oltre alla paura, è l’odio. Come afferma Gabbard, in pazienti in cui l’odio risulta un’emozione dominante, odiare ed essere odiati, è preferibile all’essere ignorati o abbandonati (Gabbard, 2003). In organizzazioni borderline di personalità, quindi, l’oscillazione dell’esperienza di sé e dell’altro, altro che funge da contenitore per un senso di sé precario e da regolatore per un affettività scissa e non integrata, porta a relazionarsi all’altro in modalità estremante costrittive e ripetitive, in cui l’individuo si priva della spontaneità e della libertà di scelta, e l’altro viene utilizzato come un innesto, come uno strumento per mantenere un certo livello di sicurezza nella propria rappresentazione di sé. Si relaziona pertanto solo a quella parte che serve a mantenere lo status quo in modalità rigide e pervasive di funzionamento, ma soprattutto a non prendere contatto con una possibilità di scelta e libertà estremamente angosciante che, qualora accolta, porterebbe a sperimentare un’intensa vacuità e assenza di senso.

La seconda si riferisce alla paura dell’estinzione, della perdita di una propria individualità, dove l’individuo tenta in tutti i modi di evitare una fondamentale angoscia della vita, l’angoscia del limite, dello stare in una comunità, in un legame intimo con un altro e che porta spesso all’immergersi in attività frenetiche nel tentativo di controllare la vita e la quota di incertezza che comporta. Per esempio individui totalmente orientati al potere, a distinguersi, al loro senso di specialità, trovano insopportabile qualunque tipo di sensazione di immobilità e, come accennato prima, di intimità nel rapporto con sé stessi e con l’altro. Persone freneticamente impegnate nel lavoro e in una sessualità promiscua e compulsiva, si ritrovano però durante il loro percorso a contatto con la solitudine, con l’angoscia di morte e con una fondamentale mancanza di protezione inerente l’individuazione (si pensi, per esempio durante i viaggi d’affari), la quale, seppur bramata, viene soffocata da una profonda inautenticità nello stare con l’altro. Rank sosteneva inoltre che queste due modalità appena descritte (paura della vita e paura della morte) durante il percorso di vita si alternassero in maniera più o meno pervasiva e persistente (Yalom, 1980). Yalom, nel suo testo “Psicoterapia esistenziale”, fa riferimento ad alcuni pazienti in cui tali dinamiche si presentano entrambe e che spesso portano a quello che emerge come un blocco nella fase descritta dalla Mahler di separazione-individuazione. La persona si è separata ma non si è individuata, alla costante ricerca di oggetti tramite cui mantenere un senso di sé precario, per cui le rappresentazioni di sé e dell’altro vengono sperimentate senza soluzione di continuità. Lena, per esempio, cercava di evitare l’angoscia rimanendo bloccata nell’adolescenza. Cercava di fondersi con qualche salvatore, tuttavia era spesso terrorizzata dalla propria situazione: si aggrappava agli altri e si ribellava costantemente, oscillando spesso dalla posizione di vittima, bisognosa di un salvatore, alla posizione di persecutrice, in cui, sperimentando costrizione nella relazione con gli altri (si poneva in un modo che portava gli altri a non prenderla sul serio e a trattarla come una bambina), era spinta a sentirsi ulteriormente vittimizzata, a provare rabbia e a reagire impulsivamente per il torto subito, allontanando gli altri con i suoi comportamenti. Cercava la pace, il conforto, la sicurezza, e tuttavia quando li aveva, veniva fagocitata dall’angoscia di morte. Restare inglobati dentro un altro, come anche separarsi da tutto attraverso il rifiuto dell’intimità e di qualsiasi legame, sottopone al rischio di perdere se stessi, al fallimento dell’esplorazione e dello sviluppo di potenzialità all’interno del sé, al soffocamento della propria crescita che avviene attraverso un’immersione profonda nel mondo, in cui si comincia da se stessi, allo scopo di non doversi preoccupare di sé, di trascendere il sé, iniziando pertanto ad accogliere l’altro.

Yalom, nel suo libro “Terapia allo specchio”, riporta assieme alla paziente Ginny una raccolta di riassunti delle relative sedute, in cui emergono molte delle tematiche viste fino ad ora. Ginny entra in terapia con un profondo transfert positivo nei confronti di Yalom, nutrendo aspettative irrealistiche verso di lui, manifestando quindi il bisogno di percepirlo come un terapeuta onnisciente e protettivo. Ciò le permetteva di mantenere uno status quo, tra l’altro presente in molte delle relazioni nella propria vita quotidiana (la relazione con Karl, con la sorella, con le amiche) rispetto alla responsabilità per la propria vita, per le proprie scelte, per i propri diritti. Arrancava in una posizione di “animazione sospesa”, in cui le cose le accadevano, in cui sguazzando nella propria impotenza, delegava le responsabilità agli altri, non prendeva decisioni e rinforzava la convinzione di essere vittima delle circostanze. Stava con gli altri, non per crescere, ma per mantenere un senso di sicurezza, una fede in quello che Yalom definisce “un salvatore ultimo”, in un “fuori” magico in cui tutto le accadeva dall’esterno e lei negava quello che poteva essere la propria scelta, il proprio contributo al fatto che le situazioni accadano, il proprio atteggiamento interpersonale e il proprio ruolo nel ricreare le situazioni. Prima di passare agli incontri di terapia individuale con Yalom, frequentava una terapia di gruppo per stare con lui, in cui il parlare dei propri problemi personali aveva il principale vantaggio di guadagnarsi la sua approvazione. Nella relazione con Karl, il suo fidanzato, aveva spesso la fantasia di essere improvvisamente abbandonata da lui, fantasia che sperimentava spesso dopo il sesso (Yalom, 1974).  Spesso in terapia si lamentava della propria incapacità di godere del sesso e di raggiungere l’orgasmo. Si concentrava su quello che avrebbe potuto far piacere a Karl durante l’atto, trascurando però il proprio corpo e il proprio godimento. A tal proposito, Yalom, la invitava a coinvolgere attivamente Karl in proprie richieste: “Cosa avrebbe potuto fare lui per aiutarla a sentirsi coinvolta nel sesso?” (Yalom, 1974). La invitava anche a coinvolgere l’altro “chiedendo”, volgendosi all’incontro autentico piuttosto che ad un monologo egocentrico ed autoreferenziato. Cercava di incoraggiare quella che è stata prima menzionata come “trascendenza del sé”, una possibilità di rispettare i propri diritti nel mondo e di andare oltre l’incontro basato sulla sicurezza e sul controllo di “immagini di sé”, ma piuttosto orientato all’esperienza di sé, dell’altro e all’esplorazione. Lei in questo arrancava, come arrancava nella possibilità di riconoscersi anche un margine di possibilità e di scelta, di propri desideri e quindi anche la possibilità che potesse essere lei ad vere il bisogno, nonché il diritto, di chiudere questa relazione. Si preoccupava invece di possibili abbandoni da parte di Karl per la propria inadeguatezza, e stava in questa relazione in cui lui spesso la umiliava e la criticava, continuando in ciò a dargli il permesso di farlo. In una parte del libro, scrive: “Inoltre, nel profondo, oltre il senso disperato di abbandono, c’è la sensazione che sia giusto così, che in realtà desideravo che io e Karl non stessimo insieme, che volessi in qualche modo uscirne e che fremevo all’idea, speravo in una sua decisone ma, come al solito, un’inerzia sconcertante fatta di pietà e paura mi aveva trattenuto in quella situazione”. In quest’estratto del testo, si manifesta in modo particolare il suo dislocare la responsabilità all’altro e quanto il suo definirsi attraverso la sottomissione, l’immolazione di sé, l’impotenza, il sentirsi vittima, abbandonata, avesse a che fare con un’angoscia di morte, con la paura di vivere senza un altro, con la paura che assumendo un comportamento adulto, scegliendo, desiderando, avrebbe potuto perdere la propria sicurezza (in particolare, lei aveva due relazioni che rappresentavano rispettivamente quello che Liotti-Farina (2011), rifacendosi a Karpmann, definiscono come triangolo drammatico: Yalom (Salvatore); Karl (Persecutore); lei come vittima. In genere, in organizzazioni borderline di personalità con esperienze di trauma complesso, l’oscillazione tra i poli risulta molto marcata, ma, in questo caso, è relativamente evidente. L’odio verso sé stessa si manifestava principalmente nel “non darsi permessi e diritti”, nel soffocare la propria crescita stando in relazioni “abortite” e non reciproche, nell’esprimere la quota di rabbia che aveva attraverso modalità passivo-aggressive che non coinvolgevano direttamente l’altro. L’espressione della rabbia in queste modalità risulta evidente in alcune parti del libro: Karl si lamentava della sua incompetenza in casa, della sua passività e della sua mancanza di praticità, aspetti che durante la terapia con Yalom emergono anche come piccoli tentativi, da parte sua, di fare imbestialire Karl e di punirlo; si presentavano inoltre modalità simili nella terapia, in cui lei, non appena si avvicinava, sotto “forte guida e incoraggiamento” da parte di Yalom, a modalità più sane di stare con se stessa e con gli altri, cadeva in stati depressivi, in preda a forti sentimenti di pessimismo e impotenza. C’era una forte pressione interpersonale, da parte sua, nel far sì che l’altro assumesse degli atteggiamenti attivi, incoraggianti e persino autoritari, arrivando persino a fare esplicita richiesta a Yalom di punirla, ma quando lui assumeva una posizione particolarmente attiva, quasi da “coach”, focalizzandosi sul comportamento e suggerendole cosa fare e come farlo, da un’iniziale stato di euforia ed eccitazione, sprofondava e sprofondavano nell’impotenza. Quindi Yalom, arrivò a considerare, quanto un atteggiamento del genere non facesse altro che infantilizzarla, deresponsabilizzarla e renderla inoltre ulteriormente dipendente, e soprattutto quanto ciò fosse anche legato ad un’immagine di sé e ad un senso di padronanza che, a livello controtransferale, alimentava un innesto tra rappresentazioni di sé e dell’oggetto da parte di entrambi. Ciò che Gabbard (2003) definisce come identificazione proiettiva e controidentificazione proiettiva – nello specifico, Gabbard fa riferimento ad un “controtransfert erotico”, in cui il paziente diventa il contenitore della rappresentazione di sé e dell’oggetto idealizzato che salverà il terapeuta dalla disperazione. Sandler (1987), descrivendo esperienze di “collusione” in terapia, avverte che sia estremamente rischioso presumere una corrispondenza puntuale tra ciò che avviene nel terapeuta e ciò che avviene nel paziente. Perciò accenna al concetto di “risonanza di ruolo”, associata da Sandler stesso al controtransfert complementare di Racker, in cui emerge una formazione di compromesso tra le personali tendenze del terapeuta e l’accettazione del ruolo che il paziente gli sta imponendo. Tale dinamica risulta connessa a quello che è stato in precedenza definito come “innesto”.  Yalom scrive: “Per più di quindici anni sono stato un risanatore; la terapia è diventata una parte essenziale dell’immagine che ho di me; mi offre significato, industriosità, padronanza. Ho dovuto trasformarla, riuscire dove altri avevano fallito, e riuscirci in un periodo di tempo relativamente breve. Colui che realizza miracoli. L’ho tenuta sotto pressione senza posa, ho dato voce alla mia frustrazione quando si fermava o si consolidava anche solo per poche ore. “Guarisca” le gridavo “Guarisca per il suo bene, non per il bene di sua madre o di Karl- guarisca per se stessa!” (Yalom, 1974). Ma molto piano, dicevo anche: “Guarisca per me, mi aiuti ad essere un risanatore, uno che fa i miracoli.” In tutto questo però, emergono aspetti fondamentali che hanno a che fare con la soggettività, con la trascendenza del sé e con il creativo in terapia. Yalom, scrive: “Ginny non sarà mai una che sceglie attivamente, tuttavia è così affascinante che verrà sempre scelta”; Ginny non poteva essere se stessa in molte altre maniere. Le ho chiesto di mostrarmi tutto nel “qui ed ora” della relazione tra di noi. “Ci provi” dicevo “io starò con lei, l’ascolterò, l’accetterò nella sua totalità”. Inoltre viene coltivato un talento, ovvero la scrittura, che Yalom coglieva in Ginny, proponendole la stesura, da parte di entrambi, di riassunti sulle sedute, non escludendo però in questo incoraggiamento, la propria dimensione controtransferale, legata alle proprie aspirazioni da scrittore. Yalom dava molta importanza all’aspetto dell’autorivelazione: “Speravo che Ginny, nella pace della propria solitudine, riuscisse a dar voce ad alcune parti soffocate di sé. Speravo in particolare che lei, rendendosi conto delle mie debolezze, del disorientamento e dello scoraggiamento, modificasse l’irrealistica sopravvalutazione che aveva di me. Il suo sguardo da bambina che alza gli occhioni stupiti, spesso mi faceva sentire incapace e solo. Volevo che si tirasse fuori da quel canale antidiluviano e mi guardasse, mi toccasse, parlasse con me faccia a faccia. Se avesse potuto farlo, e se fossi riuscito a mostrarle che potevo accettare o meglio accogliere le parti nascoste di lei mentre, una dopo l’altra, infilavano timidamente la testa attraverso il reticolo della sua autocancellazione, sapevo che avrei potuto aiutarla a crescere”. Ginny, scrive: “In effetti penso che tutte queste similitudini, tutte queste metafore che le ho gettato addosso nelle mie relazioni e nelle nostre conversazioni siano una cosa, e io un’altra. Le ho usate come un velo, fino a quando non ho potuto parlare direttamente con lei” (Yalom, 1974). La relazione terapeutica, con Yalom, ha permesso a Ginny di trasformarsi con “l’altro” (in questo caso Yalom) e non per l’altro (soffocandosi per mantenere un “altro dominante” come aveva fatto in passato). È stata risanatoria, in quanto è andata oltre una modalità “come sé” facilitatrice di altre potenziali relazioni, ma ha rappresentato un incontro autentico. Ciò mette in luce quello che Winnicott (1965) definisce come “fenomeno transizionale”, in cui attraverso relazioni “sufficientemente buone” con i caregivers, che prevedono un iniziale adattamento attivo ai bisogni del bambino, quest’ultimo acquista gradualmente la capacità di accettare dei limiti e tollerare i risultati della frustrazione. In particolare il bambino impara che esiste un limite al tempo della frustrazione, acquisendo un senso crescente del processo e la possibilità di integrare passato, presente e futuro. Si viene quindi a creare un equilibrio tra illusione e delusione, in cui il caregiver, con il suo adattamento iniziale quasi perfetto, dà la possibilità al bambino di illudersi, finchè non sarà possibile che cominci a svilupparsi la capacità di una relazione con la realtà esterna. Winnicott riferisce: “La madre colloca il seno reale esattamente là dove il bambino è pronto a crearlo, e al momento giusto” (Winnicott, 1965). Ciò presuppone un’area intermedia tra la creatività primaria e la percezione oggettiva basata sulla prova di realtà, ma, come sostiene Winnicott, senza sufficienti occasioni di illusione non c’è per nessun essere umano nessun significato nell’idea di una relazione con un oggetto che è percepito dagli altri come a lui esterno. Quest’area intermedia di esperienza, se evolutivamente andata a buon fine, viene coltivata costantemente durante il percorso di vita, e rappresenta pertanto una dimensione indiscussa dell’esperienza come base fondante della creatività. Winnicott (1965), infatti, scrive: “Si suppone quindi che il compito dell’accettazione della realtà non sia mai terminato, che nessun essere umano si liberi dallo sforzo di collegare la realtà esterna con quell’interna, e che tale sforzo venga alleviato da quest’area intermedia” (Winnicott, 1965). Quest’area intermedia rappresenta l’inizio della relazione del bambino con il mondo e l’unica possibilità per l’autore di incontrare la realtà dell’altro. Hillmann (1997) afferma: “essere è in primo luogo essere visibili”. Il lasciarci passivamente vedere apre una possibilità di benedizione. Perciò noi cerchiamo amanti e mentori, affinché possiamo essere visti ed essere benedetti”. L’immagine che un mentore scorge in un allievo non è né tutta davanti, né quel che è nascosto dietro; non esiste alcun me reale se non la realtà di me nella mia immagine. Il mentore percepisce le pieghe di una complessità, quelle curve dentro/fuori, sotto/sopra dell’implicito che sono la verità dell’immaginazione in ogni sua forma, per cui possiamo ben definire l’immagine: “il come globale del presentarsi di una cosa”. “In questa esperienza di terapia appena descritta, avviene quello che Mitchell (1988) concettualizza come passaggio da una dimensione oggettuale della relazione ad una soggettuale. Una dimensione oggettuale, che si ravvisa in un bisogno “di riconoscimento”, sicurezza e controllo da parte di entrambi e, se si vuole, “ricompensa” nella relazione con l’altro, ma porta nondimeno con sé una dimensione soggettuale e trasformativa, dove Yalom, prendendo consapevolezza di quello che fosse un proprio bisogno di mantenere lo status quo nella relazione terapeutica, arriva a percepire l’essenza di ciò che è la propria immagine e l’essenza dell’immagine di Ginny, riconosce la propria libertà e la libertà della paziente e, soprattutto, “vede” Ginny, conferendole il dono della fede e accogliendone quella che Hillamnn chiama “ciascunità” e quello che Recalcati definisce “particolare”. L’immaginazione è una parte fondante della terapia e del ruolo di mentore per Hillmann. In generale però, la “componente erotica”, l’innamorarsi della fantasia di un altro, il portare alla vita qualcosa nell’altro, il dare forza alla forma, alla forza della vita per dirla con Recalcati, sono aspetti fondamentali del processo creativo e di un modo di amare maturo.

Emerge quindi ciò che Winnicott (1971) riporta come un “fare uso dell’oggetto”, che non implica una strumentalità nelle relazioni e un utilizzo dell’altro in quanto funzione di sé, ma invece la capacità di trascendere il sé, di utilizzare aree intermedie di esperienza, una “ripresa singolare” nella ripetizione (relazioni oggettuali), a detta di Recalcati (2019), una ripetizione che può trasfigurarsi in una decisione inedita e aprire il campo della contingenza illimitata dell’esistenza. Nel gioco di Eros ritroviamo il grande “Si”, con il quale Nietzsche proclama la forza del desiderio come separata dalla serietà metafisica di valori morali che pre-esistono alla vita, intralciando così l’accesso al suo gioco. Recalcati (2017) scrive: “Così leggo la liberazione della vita dal peso del sacrificio e dalla dedizione seriosa e risentita al “dio oscuro” della causa”. Una rinuncia di sé che si costituisce come dono, offerta di sé assoluta e responsabilità verso l’altro. L’enorme potenziale generativo che deriva dal toccare gli altri in maniera profondamente umana, dall’umanizzare la vita, dall’esplorare cosa si voglia dall’altro e come si contribuisca, in questo, alla vita dell’altro, mette a contatto con la propria solitudine esistenziale. Il che significa che l’esistenza è gettata nella propria libertà, o meglio nella responsabilità assoluta della propria libertà. Che atto sarebbe, quello che rimanesse subordinato all’iniziativa dell’altro? Come potrebbe, un atto degno di questo nome, trovare il suo fondamento, appoggiarsi, sostenersi, reggersi sulla volontà dell’altro? Un atto infatti è tale se trova il suo fondamento in sé stesso. Solo in questo modo può svelare la totale inesistenza dell’Altro o, come direbbe Sartre, il nostro essere soli e senza scuse, consegnati al peso di una responsabilità illimitata. Come visto fino ad ora, gli individui terrorizzati dalla propria solitaria vulnerabilità tentano di mitigare il terrore attraverso modalità interpersonali rigide e coatte: hanno bisogno degli altri per affermare la propria esistenza; bramano di essere incorporati da altri più grandi di loro; cercano di alleviare l’angoscia incorporando gli altri, legami sessuali multipli, frenesia nel lavoro e bisogno di costante movimento. L’individuo si fa avanti non perché vuole ma perché deve, cosicché la relazione rimanga bloccata sul tema della sopravvivenza, trascurandone invece la crescita. Gli individui, sono spesso isolati dagli altri o da parti di loro stessi, ma ciò non va confuso con la solitudine esistenziale. Essa si riferisce ad un abisso incolmabile tra un individuo e ogni altro essere, ma anche ad un isolamento più fondamentale, una separazione tra l’individuo e il mondo. Nella misura in cui si è responsabili della propria vita, si è soli. L’esserne consapevole significa abbandonare la credenza che ci sia un altro a proteggerci e a crearci. Ciò implica un’esperienza di profonda impotenza, dettata da quello che Heidegger (1927) definiva come “essere gettati soli” nell’esistenza. Nessuna relazione può eliminare la solitudine. Ciascuno di noi è solo nella sua esistenza. Yalom (1980) afferma: “Se siamo in grado di riconoscere le nostre situazioni isolate nell’esistenza, saremo in grado di rivolgerci amorevolmente verso gli altri. Se siamo sopraffatti dal terrore, davanti all’abisso della solitudine, non porgeremo la mano agli altri, ma invece ci sbracceremo scomposti per non annegare nel mare dell’esistenza”. Una parte fondamentale del percorso terapeutico, perciò, risulta proprio aiutare il paziente a confrontarsi con la propria solitudine, con la propria libertà e con la propria responsabilità. Clark Moustakas (1961), affermava: “Nell’essere solo, l’individuo si realizza nella solitudine, e crea un senso di relazione fondamentale con gli altri”. La solitudine, invece di separare l’individuo o di causare una rottura o una divisione del sé, espande la sua interezza, la sua percettività, sensibilità e umanità. L’individuo sperimenta nuovi aspetti di sé, si relaziona agli altri in quanto persone reali, impara che il potenziale per l’amore esiste dentro di sé, aprendosi non soltanto all’altro, ma anche a sé stesso. Nell’esperienza di terapia, non importa che la relazione sia temporanea, ma quando l’esperienza dell’intimità è permanente anche l’esperienza della scoperta di sé lo sarà altrettanto e non potrà mai essere eliminata. Esiste nel proprio mondo interiore a ricordare il potenziale di ciascuno per raggiungere l’intimità. Quando l’esperienza dell’intimità è permanente, l’individuo riconosce i limiti della relazione, ovvero ciò che si può ottenere dagli altri, ciò che non si può ottenere, ma soprattutto incontra l’altro su un piano umano come fratello con cui condividere un irrevocabile solitudine.

 

Tempo lib(e)ro che promuove benessere

Alcuni studi considerano identificazione e catarsi due fasi delle dinamiche della biblioterapia, cui fa seguito, come terza fase, il meccanismo psicologico dell’introspezione.

 

La biblioterapia, ossia la terapia attraverso la lettura di testi letterari, di saggistica, di auto-aiuto, rappresenta uno strumento relazionale (di supporto al piano terapeutico di base) e una tecnica psicoeducativa, che favoriscono una crescita culturale di persone e gruppi e l’acquisizione di una consapevolezza più mirata ad attivare un’autentica cura di sé in particolari situazioni di disagio psichico, fisico, sociale.

Diversi studi confermano infatti l’efficacia della lettura nel migliorare la resilienza, la mindfulness, la qualità della vita e come ausilio nella gestione terapeutica, sia di alcune patologie psichiatriche (ad esempio il disturbo depressivo e il disturbo d’ansia generalizzato) sia di patologie organiche ad evoluzione cronica.

Se dunque è ormai provato che un libro scelto e “somministrato” ad hoc da un biblioterapista clinico possa stimolare la giusta presa di coscienza per rielaborare costruttivamente il proprio rapporto con la malattia e modificare uno stile di vita inadeguato, è altrettanto diffusa e condivisibile l’opinione comune di molti lettori abituali. Ognuno di questi lettori – anche chi scrive, al di là del ruolo professionale – lo sa, perché ne fa esperienza di continuo: un libro calma ed attenua le preoccupazioni, gli assilli quotidiani, quello sterile ed ossessivo rimuginio che talvolta arpiona un pensiero per costringerlo a girare su se stesso. Un libro, insomma, può aiutare a guarire.

Ciò premesso e in accordo con le finalità della health literacy (“alfabetizzazione sanitaria”), riconosciuta dall’OMS come una fondamentale strategia di empowerment nella promozione della salute, appare utile favorire l’implemento e la diffusione della biblioterapia non solo in ambito clinico, ma più in generale all’interno di webinar e di gruppi di lettura come una delle modalità di approccio alla lettura ricreativa o di svago.

Webinar e gruppi di lettura possono allora diventare uno spazio e un tempo di incontro privilegiati con l’oggetto libro, e ovviamente con chi ne condivide la lettura, che promuovono crescita culturale, sviluppo di abilità psicologiche e sociali e benessere dell’individuo.

Ma quali sono i meccanismi psicologici che motivano l’uso della lettura (indirizzata soprattutto ad una letteratura di qualità) come strumento potenzialmente efficace dal punto di vista della prevenzione e della cura di alcuni dei più comuni disagi del vivere quotidiano?

Per citarne alcuni, sono: il soddisfacimento di un connaturato bisogno di conoscenza, l’identificazione, la catarsi, l’introspezione, la teoria della mente.

Cominciamo col dire che la lettura risponde alla necessità di soddisfare il bisogno di conoscenza: conoscenza di sé, prima di tutto, dell’altro, del mondo.

Un buon romanzo, un testo letterariamente curato sotto il profilo contenutistico, stilistico, verbale, in cui l’autore sia riuscito ad esplorare, interpretare e descrivere in modo non superficiale l’ordito polisemico dell’esistenza, aiuta il lettore a conoscere e a conoscersi di più e meglio. Del resto, come ha scritto Marcel Proust:

ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L’opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che è offerto al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso.

Quella di cui si parla è una conoscenza trasmessa per via estetica, una conoscenza cioè che non passa attraverso il ragionamento, ma attraverso il piacere di essere testimoni di un’opera della creazione umana, attraverso i sensi, l’intuizione, l’immedesimarsi con un personaggio letterario.

Ed eccoci dunque all’immedesimazione o identificazione, il meccanismo attivo allorché chi legge partecipa emotivamente alle vicende del personaggio di finzione, avvertendo un senso di affinità con la personalità dello stesso, approvandone o disapprovandone pensieri, scelte, azioni.

È proprio il gioco del confronto con le emozioni della pagina scritta a determinare il meccanismo della catarsi: quando la lettura rievoca alcune esperienze personali, il lettore si trova a rivivere e a sfogare le emozioni represse, legate a quelle esperienze, e a raggiungere una sorta di vera e propria purificazione da esse.

Alcuni studi di settore considerano identificazione e catarsi due fasi delle dinamiche della biblioterapia, cui fa seguito, come terza fase, il meccanismo psicologico dell’introspezione.

Il “movimento” introspettivo comporta la presa di coscienza di alcune conferme o di nuove consapevolezze su se stessi, sul proprio vissuto, sul mondo, rendendo ragione di due funzioni della letteratura: la funzione pacificatoria, che conforta i lettori nella loro condivisa umanità, e la funzione sovversiva, che sfida costantemente i loro pregiudizi, le loro radicate abitudini, il loro autocompiacimento.

L’introspezione diventa il punto di partenza per raggiungere una maggiore apertura mentale, per scoprire aspetti inediti della propria personalità, per assimilare pensieri e valori più funzionali al vivere quotidiano. Stimola anche il gusto intellettuale della ricerca di risposte di senso, compito imprescindibile ai fini della salute mentale, se si pensa che il significato attribuito alla propria persona e alla propria vita è l’elemento integratore in grado di conferire valore a tutti gli aspetti della personalità e che la malattia mentale e il disagio psichico rappresentano, forse, la massima espressione della perdita di significato del vivere.

La lettura implementa infine la ‘teoria della mente’, che consiste nella capacità cognitiva di riuscire ad attribuire stati mentali, ovvero credenze, emozioni, desideri, intenzioni, pensieri, a sé e agli altri e assumere, sulla base di questi presupposti, il proprio e l’altrui comportamento (secondo la definizione di Sempio et al., 2005).

Come è evidente questo meccanismo rispecchia il più noto concetto di empatia, ossia la capacità di comprendere immediatamente lo stato d’animo dell’altra persona con una controllata partecipazione emotiva.

Approcciarsi ai libri secondo le finalità e i metodi propri della biblioterapia significa dunque vivere i libri stessi come veicolo di libertà. Libertà di inventare, di esprimersi, di tracciare percorsi di vita più consapevoli e in sintonia con le fonti interiori della personalità, libertà di non smettere di porre e di porsi domande.

Non dimentichiamo che, come afferma Miro Silvera, chi cerca risposte nei libri quasi sempre le incontra a propria misura. Perché i libri curano ogni male, compreso quello più imbarazzante di tutti: il male di vivere.

 

 

Attività Assistita con gli Animali ai tempi del Covid-19: è possibile in telematica?

L’Attività Assistita con gli Animali può addurre benefici in termini motivazionali, educativi, ricreativi e/o terapeutici per migliorare la qualità della vita di bambini, adulti e anziani in condizioni di salute eterogenee.

 

Negli ultimi decenni, la ricerca ha dimostrato che gli interventi con gli animali possono migliorare la salute psicosociale di individui affetti da patologie croniche, nello spettro autistico, con problematiche comportamentali ed emotive (Nimer & Lundhal, 2007). In particolare una recente meta-analisi di Feng e collaboratori (2021) mostra benefici mirati relativi all’attività assistita con gli animali per i bambini e gli adolescenti ospedalizzati, in termini di diminuzione della frequenza di sintomi ansiosi e depressivi.

Nella letteratura scientifica contemporanea, Kruger e Serpell (2006) hanno identificato 20 diverse definizioni che sono state utilizzate per descrivere l’attività assistita con gli animali (AAA) e più di 12 parole chiave associate alle AAA nei database scientifici. A fronte di tale eterogeneità, la Delta Society ha pubblicato le best-practice e linee guida per le attività e la terapia assistite dagli animali nel tentativo di creare una nomenclatura standardizzata.

Generalmente, questo tipo di interventi ha come obiettivo il miglioramento del funzionamento fisico, sociale, emotivo e/o cognitivo di bambini e adulti (Delta Society, 2005) e può essere perseguito solo attraverso l’azione di specialisti propriamente certificati. Internazionalmente, gli specialisti AAA devono aver completato un corso di formazione e relativo esame come coadiutore dell’animale. Secondo gli studi scientifici, questi professionisti hanno diversi background: possono essere infermieri, medici, pediatri, fisioterapisti, assistenti sociali, psicologi, educatori, counselor (Delta Society, 2005; Kruger & Serpell, 2006).

L’ attività assistita con gli animali può addurre benefici in termini motivazionali, educativi, ricreativi e/o terapeutici per migliorare la qualità della vita di bambini, adulti e anziani in condizioni di salute eterogenee (Delta Society, 2005). Nella cornice di tali attività, gli operatori fanno visita agli utenti presso ospedali o case di cura con i propri animali. Tuttavia, gli operatori propriamente formati possono intervenire in una varietà di ambienti, tra cui scuole, strutture sanitarie, riformatori, residenze per anziani e, in alcuni casi, il domicilio della persona a cui è rivolto l’intervento.

Per quanto riguarda gli animali implicati in questo intervento la Delta Society (2005) ha stabilito che cani, gatti, porcellini d’india, cacatua, pappagalli grigi africani, cavalli, capre, polli, asini, maiali e lama, possono essere coinvolti in questo tipo di intervento. Edwards e Beck (2002) e Antonioli e Reveley (2005) hanno identificato anche i benefici di interventi AAA effettuati con delfini e cetacei presso gli acquari attrezzati alla visita di persone con patologia.

Con l’avvento della pandemia, le restrizioni socio-comportamentali per prevenire il contagio da Covid-19 hanno reso difficile la pratica degli interventi AAA dal vivo. Non sono mancate, tuttavia, le strategie di adattamento dell’intervento nel mondo online: in questo senso, il gruppo di coadiutrici del Porto dei Piccoli (Genova) e i loro amici a quattro zampe rappresentano uno dei primi gruppi di lavoro con AAA su piattaforma telematica.

Il progetto si chiama “Gimmie Five Online” e offre interventi di attività assistita con gli animali. Gli interventi sono rivolti a bambini e adolescenti con disabilità o patologie croniche, i quali, con l’aiuto dei caregiver, sono collegati tramite Skype, Meet, Zoom o altre piattaforme, alle coadiutrici e ai loro cani. L’approccio online comporta un setting in differita, dove il coadiutore e il bambino sono contemporaneamente collegati dalle stanze della propria abitazione (o dalla stanza dell’ospedale). Alcune attività chiave della seduta in presenza (come le attività di condotta al guinzaglio), non possono essere praticate a distanza. Tuttavia, utilizzando il coadiutore come “tramite”, il bambino può realizzare attività di accudimento, rivolgere comandi di base all’animale, seguirlo in percorsi, ricerche e giochi interattivi. Gli effetti a breve e lungo termine delle sessioni telematiche sono ancora in corso di investigazione scientifica, ma l’intervento è stato accolto con un alto grado di soddisfazione da parte dei bambini e delle famiglie, ponendo le basi per un futuro studio pilota sull’esperienza.

 

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