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I pensieri intrusivi e le ossessioni. Cosa sono e come gestirli?

Quando le intrusioni mentali diventano molto frequenti e costanti, stressanti e interferenti con la vita quotidiana e l’individuo mette in atto profusi sforzi e strategie fallimentari per eliminarli dalla coscienza, esse diventano vere e proprie ossessioni.

Antonella Danesi – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Vi è mai sorto l’improvviso dubbio di non aver spento bene il gas una volta usciti di casa o di aver dimenticato di chiudere l’auto, oppure di aver investito qualcuno mentre state alla guida o ancora di aver rubato nel supermercato senza esservene accorti?

È frequente pensare di aver commesso un’orribile azione senza sapere esattamente cosa.

Stiamo parlando di intrusioni mentali definite da Rachman come “ogni pensiero ricorrente, inaccettabile, indesiderato, accompagnato da un soggettivo disagio emotivo”.

È necessario partire dal presupposto che gli esseri umani, per natura, hanno più di mille pensieri in un solo giorno. A volte il loro contenuto è razionale, degno, realistico e sensato, alle volte invece è irrazionale, insolito e disfunzionale. Tali pensieri insorgono così rapidamente che la loro comparsa appare indipendente dal nostro controllo. Per tali ragioni appaiono pericolosi, spaventosi e inaccettabili. Entrano nella coscienza in maniera automatica, senza alcun invito di accesso. Intrudono inavvertitamente interferendo con l’attività comportamentale, catturando risorse cognitive e attivando delle emozioni piuttosto intense.

Clinicamente la presenza di questi pensieri e il relativo contenuto non rilevano il funzionamento e la personalità di una persona. Come dimostra la letteratura, sono esperienze comuni facenti parte della natura umana, non rappresentano necessariamente una sintomatologia relativa a quadri psicopatologici.

Secondo Rachman e De Silva (1978) i pensieri intrusivi e le ossessioni sono indistinguibili, anzi costituiscono il medesimo fenomeno e sono riportati dal 90% dei soggetti. La differenza tra i due sarebbe di natura puramente cognitiva e non fenomenica.

Ciò che li rende problematici e disturbanti, tanto da trasformarli in ossessioni, è la frequenza di comparsa, la valutazione di questi pensieri come pericolosi ed inaccettabili e le strategie applicate per eliminarli dalla coscienza. Un ulteriore elemento cognitivo è l’attenzione che viene data al contenuto dei pensieri attraverso domande autodirette relative allo stesso pensiero: “come mai sto pensando questo?” “Se penso questo allora non sono una persona normale” “perché voglio farmi del male?” “allora sono una persona cattiva”. In tal modo, si attiva e alimenta una catena di pensieri, focalizzata sul pensiero intrusivo avuto e finalizzata alla formulazione di un giudizio sullo stesso. Ciò non fa altro che aumentarne la salienza caricando il pensiero di realtà.

Al fine di eliminare il pensiero dalla coscienza, vengono messe in atto strategie volontarie di soppressione del pensiero. Non è altro che l’universale sforzo che facciamo di non pensare a qualcosa. Tra le strategie di soppressione sono molto adoperate la distrazione, ovvero la tendenza a spostare il focus attentivo su stimoli o attività alternativi, e le azioni di verifica, vale a dire quelle azioni rassicuranti volte a confermare o disconfermare il dubbio sorto. Talvolta la risoluzione di quest’ultimo può essere anche ricercata “attraverso l’altro” con richieste di rassicurazioni o domande finalizzate alla risoluzione del dubbio.

L’applicazione delle suddette strategie, apparentemente funzionali, in realtà produce un effetto paradossale che si traduce con una maggiore facilitazione di accesso delle intrusioni nella nostra coscienza ed un aumento della frequenza delle stesse. Il meccanismo controproducente della soppressione dei pensieri implica sia il tentativo volontario di distrarsi sia un processo di monitoraggio costantemente attivo per verificare che il pensiero non sia più presente e, di conseguenza, che lo scopo di eliminazione del pensiero sia stato raggiunto.

Il meccanismo di monitoraggio non fa altro che produrre un effetto rimbalzo: attenzionando eventuali pensieri automatici connessi con il contenuto da sopprimere, lo rafforza facilitandone l’emersione. Come risultato del processo messo in atto, avremo un intenso consumo di risorse cognitive, l’inevitabile fallimento della regolazione emotiva e la frustrazione legata allo stesso.

A renderli futili e meno attivanti, quindi, è la nostra capacità di lasciarli andare ovvero la capacità di non reagire di fronte alla loro intrusione quindi di non attribuir loro un significato degno di attenzione prolungata.

Quindi, dal momento in cui le intrusioni mentali diventano molto frequenti e costanti, stressanti e interferenti con la vita quotidiana e l’individuo mette in atto profusi sforzi e strategie fallimentari per eliminarli dalla coscienza, esse diventano vere e proprie ossessioni.

Secondo il DSM le ossessioni sono idee, pensieri, impulsi o immagini ricorrenti, persistenti e angosciosi, vissuti come intrusivi e inappropriati. Essi causano un’elevata attivazione emotiva e sono difficili da ignorare e allontanare.

La differenza rispetto alle intrusioni non è di tipo qualitativo bensì quantitativo: nei pazienti con un Disturbo Ossessivo Compulsivo, le ossessioni appaiono assiduamente, assorbono molte energie e sono considerate pericolose, inaccettabili per il contenuto, vissuto come contrario al modo di essere, e incontrollabili. Per tale ragione vengono messi in atto titanici tentativi per neutralizzare e controllare tali pensieri, immagini e impulsi con altri pensieri o azioni.

Alcuni dei temi più frequenti delle ossessioni sono l’ordine e la simmetria (Ordering) per cui vi è una rigida tendenza a puntualizzare la posizione di alcuni oggetti in un certo modo. Queste persone sperimentano elevati livelli di stress nel momento in cui i loro oggetti vengono spostati, toccati, o messi in modo disordinato o non simmetrico.

L’ossessione di contaminazione (Washers/Cleaners) si basa sul timore di potersi ammalare o di morire a causa di un agente contaminante ad esempio entrando in contatto con lo sporco, i germi o materiali disgustosi, pertanto è associata a rituali di evitamento e pulizia.

Un’ulteriore tipologia di ossessione è il danneggiamento (Checkers) per cui si sentono iper-responsabili di procurare inavvertitamente danni a sé o ad altri. Essi pensano di dover fare di tutto pur di evitare un eventuale evento negativo. Di conseguenza sono necessariamente portati a dubitare sull’effettiva sicurezza ogniqualvolta compiono un’azione potenzialmente rischiosa ad esempio chiudere il gas o la porta di casa. Tutto ciò inevitabilmente accresce il livello di attivazione ansiosa che viene ridotta attuando una serie di rigidi controlli o azioni ritualistiche.

Anche l’aggressività e l’impulsività sono tipologie di ossessioni secondo cui vi è una persistente preoccupazione di perdere il controllo e di agire in modo sconsiderato e perverso.

Le compulsioni sono quei comportamenti ripetitivi, talvolta osservabili, “overt”, ad esempio lavarsi le mani, riordinare, controllare, talvolta invece non visibili, “covert”, come le azioni mentali che il soggetto si sente obbligato a mettere in atto in risposta ad un’ossessione o secondo rigide regole da applicare. Esempi frequenti di quest’ultime, che avvengono esclusivamente a livello cognitivo, sono le formule magiche mentali, contare, ripetersi frasi o parole secondo un certo ordine, rassicurarsi o ripercorrere mentalmente una sequenza di azioni per rassicurarsi di non aver causato danni.

Il fine ultimo delle compulsioni è prevenire o ridurre l’ansia o la paura e scongiurare che possano verificarsi eventi temuti. I comportamenti o le azioni mentali appaiono eccessivi e irragionevoli poiché sono completamente slegati da ciò che deve essere neutralizzato o evitato. Infatti chi soffre di DOC, consapevole dell’illogicità dei pensieri ossessivi, prova vergogna e tende a nasconderli.

Riuscire ad allontanarli, tuttavia, risulta estremamente difficile, specie quando si presentano improvvisamente e con elevata frequenza; per tali ragioni paura, disgusto e colpa sono le emozioni maggiormente provate.

L’Organizzazione psicopatologica del DOC è mantenuta da credenze cognitive disfunzionali che consentono di comprenderne il funzionamento. La prima valutazione su cui è necessario porre l’attenzione è il senso ipertrofico di responsabilità che sentono di avere nel prevenire eventi sgradevoli sebbene non vi sia alcuna remota possibilità di influenzarli.

Sembra che gli ossessivi sentano di avere il potere di influenzare un evento sia nel determinarlo sia nel prevenirlo (Salkovskis, 1996), anche semplicemente a causa di omissioni per cui “se non ho fatto il possibile per evitare il danno, questo equivale ad averlo compiuto e quindi ad esserne responsabile”.

Inevitabilmente vi è una ricerca continua della certezza assoluta di fronte al dubbio di essere colpevole. Il senso di colpa lo pone di fronte ad una condizione di indegnità e di disprezzo. Queste premesse rendono comprensibili l’ipercontrollo attuato per identificare ogni possibile minaccia e la tendenza a ricercare la soluzione perfetta per ogni problema.

Difatti, nei pazienti ossessivi vi è la ferma convinzione che i pensieri possano avere un impatto sugli eventi reali “Se penso ad un evento spiacevole probabilmente accadrà”, “pensare a qualcosa equivale a farla”. Per tali ragioni attribuiscono un significato di pericolosità e di minaccia ai pensieri e avvertono, di conseguenza, la necessità di controllarli.

Questi controlli risultano essere, purtroppo, tentativi vani e illusori poiché non fanno altro che accrescere l’intensità delle ossessioni e ostacolano la possibilità di scoprire che esse sono solo pensieri e che, per loro natura, non hanno alcun potere di condizionare gli eventi, la realtà o l’azione.

Il trattamento psicoterapeutico di elezione per la gestione del DOC, è quello cognitivo-comportamentale in quanto permette di riconoscere e distinguere i pensieri funzionali da quelli irrazionali e disfunzionali.

La terapia si serve di tecniche finalizzate alla messa in discussione di specifiche credenze che mantengono il problema. È necessario modificare la maniera con cui ci si relaziona con il proprio mondo interiore. Per fronteggiare in modo efficace i propri pensieri senza averne il timore è indubbiamente utile la capacità di distaccarsi da essi comprendendo la loro natura rappresentazionale e accettandone il contenuto. Vedere sé stessi semplicemente come produttori di pensieri e separare il senso di sé da essi è l’obiettivo della Mindfulness, disciplina che insegna ad osservare i pensieri e a lasciarli andare senza reagire ad essi con rituali o azioni mentali, considerandoli semplicemente come eventi mentali. Una delle tecniche maggiormente facilitanti nella gestione del pensiero intrusivo è proprio l’accettazione della sua esistenza. Dopo aver imparato ad osservare dall’esterno il pensiero nel “qui ed ora”, interrompendo qualsiasi valutazione, giudizio o interpretazione, sarà più facile vederlo mentre si allontana dalla nostra mente.

È un po’ come paragonare la nostra mente ad una stazione, affollata di transiti ferroviari, i pensieri non sono altro che tanti treni in corsa che l’attraversano ma poi vanno via. Restiamo lì a guardarli passare da lontano senza cercare di prenderli o di fermarli.

Forze del destino (2021) di Christopher Bollas – Recensione del libro

Tra gli oggetti di ricerca privilegiati di Bollas rimangono il tema delle origini del vero sé e della funzione dell’esperienza psicoanalitica, in particolare quello sui rapporti oggettuali nel transfert e nel controtransfert, in grado di far rivivere con il linguaggio ciò che è conosciuto ma non ancora pensato. Proprio ad essi è dedicato Forze del destino

 

Christopher Bollas, nato nel 1943 a Washington, ha concluso negli Stati Uniti la prima parte della sua formazione avviandovi poi la sua attività professionale sia come docente universitario in materie letterarie che come psicoanalista. Successivamente si è trasferito a Londra dove tuttora vive, perfezionando il suo iter formativo presso la Tavistock. È considerato uno psicoanalista “indipendente” della British Psychoanalytic Society, ovvero la sua posizione teorica si situa a metà (middle group) tra quella di Melanie Klein e quella di Anna Freud. È stato uno dei curatori dei testi di Winnicott e la sua produzione scritta è particolarmente prolifica e apprezzata. In Italia, le sue opere sono state pubblicate da Angeli, Astrolabio, Borla. In seguito si è fortemente rafforzato il connubio con l’editore Cortina con la pubblicazione di Isteria (2001), La mente orientale (2013), Se il sole esplode (2016), L’ombra dell’oggetto (Nuova edizione, 2018), L’età dello smarrimento (2018), Essere un carattere (2020).

Il suo testo più importante è L’ombra dell’oggetto, reputato un classico della letteratura psicoanalitica. In esso, Bollas propone una descrizione di come il soggetto umano registri le proprie esperienze iniziali dell’oggetto. L’oggetto può gettare la sua ombra prima ancora che il bambino sia in grado di elaborare questo rapporto con rappresentazioni mentali o con il linguaggio, come avviene per esempio quando un genitore usa il bambino per contenere le identificazioni proiettive, e tale ombra ricade sull’Io lasciando tracce della sua esistenza nell’adulto.  Sebbene possiamo sapere qualcosa del carattere dell’oggetto che ci influenza, possiamo non averlo ancora pensato. Da adulto, il lavoro della psicoanalisi clinica sarà in parte centrato sulla possibilità di far emergere nel pensiero i ricordi più antichi dell’individuo e del mettersi in rapporto con essi.

Tra le opere precedenti, merita la menzione anche il piccolo volume La mente orientale, che parte dalla considerazione secondo cui migliaia di anni fa la cultura indoeuropea si è divisa in due modi di pensare, che si sono sviluppati uno a Occidente e l’altro a Oriente. Secondo Bollas assistiamo attualmente alla possibilità che queste due mentalità possano di nuovo convergere, in particolare proprio nell’esercizio psicoanalitico. Egli confronta la pratica clinica di Donald Winnicott e Masud Khan con la tradizione poetica orientale, improntata al taoismo, per mostrare come entrambe privilegino la capacità di stare da soli e forme di comunicazione non verbale. Infine, suggerisce la vicinanza del pensiero di autori quali Jung, Bion e Rosenfeld con l’etica di Confucio, che pone al centro  la dimensione collettiva della mente individuale.

Tuttavia, tra gli oggetti di ricerca privilegiati di Bollas rimangono il tema delle origini del vero sé e della funzione dell’esperienza psicoanalitica, in particolare quello sui rapporti oggettuali nel transfert e nel controtransfert, in grado di far rivivere con il linguaggio ciò che è conosciuto ma non ancora pensato. Proprio ad essi è dedicato Forze del destino, già pubblicato nel nostro paese da Borla nel 1991 e riproposto aggiornato da pochi mesi da Cortina.

In particolare, in esso esamina e si interroga su alcune questioni fondamentali: cosa c’è di tanto unico nelle persone? Come si costituisce e si manifesta questa unicità nella personalità, nella vita, nelle relazioni? Infine, come agisce il processo psicoanalitico per favorire l’emergenza di tale unicità individuale?

Bollas introduce i concetti classici di “fato” e “destino” osservando come quest’ultimo abbia una connotazione più positiva e favorevole all’individuazione personale, mentre il primo termine rimanda ad un intervento esterno quasi sempre negativo. Ma il vero punto di partenza è l’ipotesi di Winnicott del Vero Sé, che utilizza per ripresentare la propria nozione di idioma umano, in modo da spiegare come gli esseri umani elaborino – sia con la creatività sia nel corso dell’analisi – la “dialettica della differenza”. Ogni individuo è unico e il vero Sé è un idioma organizzativo che necessita dell’incontro con l’oggetto per dare vita al proprio mondo personale. Tale nucleo profondo costituisce l’unicità di ciò che è ciascuno di noi, è determinato geneticamente ed esiste prima del mettersi in contatto con gli oggetti. Rappresenta un potenziale perché, per la sua evoluzione, dipende innanzitutto dalle cure materne. Nessun essere umano, dunque, può essere solo “vero Sé”. Ciascuna disposizione ereditaria s’incontra con il mondo reale e uno dei prodotti della dialettica tra idioma personale e cultura umana è proprio la vita psichica.

Quando il soggetto vede un campo potenziale di oggetti, vede oggetti che gli interessano e questa procedura esige l’inconsapevole rifiuto di alcuni oggetti a favore degli oggetti del desiderio. Elaborato tale concetto, nella seconda parte del libro egli si apre alla pratica psicoanalitica interrogandosi sul modo in cui i pazienti, andando oltre alla già nota dinamica transfert e contro-transfert, sono in grado di usare aspetti della personalità dell’analista per esprimere il proprio idioma e la propria pulsione del destino. Di nuovo, il punto di partenza delle sue riflessioni è l’intuizione che la teoria del vero Sé di Winnicott possa essere usata come base concettuale per qualcosa che avviene in seduta: l’uso spontaneo dell’analista come oggetto da parte del paziente. Ciò gli serve per articolare ed elaborare il proprio idioma, un risultato che dipende dalla presentazione adeguata degli oggetti d’uso da parte dell’ambiente. In psicoanalisi, gli oggetti d’uso sono il setting, il processo, i diversi elementi della personalità dell’analista e le idee che questi contiene come concetti psicoanalitici.

La spinta all’elaborazione del vero Sé, in pratica, porta il soggetto nel mondo degli oggetti, che svolge una funzione fondamentale per consentire l’elaborazione del nostro potenziale individuale. Se invece il discorso fa riferimento al contesto relazionale dello spazio clinico psicoanalitico, egli ipotizza che quando l’analizzando usa elementi della personalità dell’analista attraverso i quali mobilitare un potenziale, l’abilità dell’analista costituisce un fattore molto rilevante per l’articolazione del Sé del suo interlocutore. Una delle forze del destino nella psicoanalisi, quindi, ha sede nell’uso intelligente dell’analista, che gli consente di entrare a far parte dell’elaborazione del vero Sé dell’analizzando. Il libro fornisce molti indizi su come deve operare l’analista per individuare la presenza del vero Sé del paziente.

In tal modo, la psicoanalisi rimane fedele al suo progetto iniziale e si costituisce come una pratica promuovente l’autenticità degli individui. Il libro è corredato da molti esempi clinici che, oltre a rendere più leggera la lettura, hanno proprio lo scopo di validare le ipotesi dell’autore.

Bollas ancora una volta conferma la sua propensione ad avere fiducia sia nella unicità della personalità di ognuno, racchiusa nell’idioma personale che si esplicita nei rapporti comunicativi e oggettuali del mondo, sia nell’efficacia del processo analitico, per quanti scelgono di accedere a tale esperienza relazionale.

La sertralina è una strategia farmacologica efficace per la disregolazione emotiva?

Un ampio filone di ricerca ha permesso di concludere che le disfunzioni a carico della trasmissione serotoninergica sono generalmente associate alla disregolazione emotiva e/o comportamentale (Coccaro et al., 2015; Manchia et al., 2017).

 

L’ipotesi serotoninergica è, però, integrata in un modello esplicativo più ampio per spiegare la propensione alla disregolazione, il quale considera l’importanza di tale sistema neurotrasmettitoriale, ma anche le sue interazioni con altri sistemi neurobiologici (es. vasopressina, ossitocina, adrenalina, noradrenalina ecc.), fattori ormonali, fattori contestuali (status socio-economico, qualità di vita ecc.) e risorse individuali, come empatia, resilienza e problem solving (Romero-Martínez et al., 2019). Pertanto, le sostanze che aiutano a regolare il sistema serotoninergico potrebbero offrire un’interessante opportunità per favorire e massimizzare il controllo emotivo e comportamentale. A questo proposito, è stato suggerito che gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI) potrebbero ridurre la tendenza alla disregolazione (Bouvy & Liem, 2012), con una tempistica media di circa otto settimane di trattamento continuo.

Sebbene gli SSRI presentino un meccanismo d’azione relativamente comune, è noto che questa famiglia di psicofarmaci differisce in diversi aspetti, come l’efficacia e la tollerabilità; motivo che rafforza l’importanza di analizzare ciascuno di questi antidepressivi separatamente. Ad esempio, la fluoxetina è uno degli SSRI più noti, ma la sertralina è generalmente meglio tollerata e i suoi effetti tendono a presentarsi anticipatamente e con minor effetti collaterali rispetto alla fluoxetina. Sorprendentemente è stato dimostrato che, a seguito del trattamento farmacologico con sertralina, i pazienti hanno riportato livelli di rabbia e aggressività inferiori rispetto a quelli che hanno ricevuto fluoxetina, rafforzando la necessità di focalizzare l’attenzione in modo specifico sulla sertralina (Cipriani et al., 2018). L’aumento della disponibilità di serotonina per un periodo di tempo prolungato comporta numerosi cambiamenti cerebrali adattativi, implicando, dunque, una maggiore trasmissione serotoninergica. Infine, va notato che, rispetto ad altri SSRI, la sertralina non presenta effetti sedativi, a causa dell’assenza di affinità per i recettori H1 muscarinici e istaminici cerebrali (Mnie-Filali et al., 2013).

Da una cospicua revisione della letteratura, è emersa l’unanimità nel concludere che un’ampia percentuale di pazienti con elevata disregolazione ha risposto in modo soddisfacente al trattamento con sertralina, con significativo decremento di rabbia e irritabilità dopo diverse settimane di trattamento (circa 2 settimane). Risulta, tuttavia, necessario aumentare le dosi dopo mesi di trattamento, per evitare di esaurirne gli effetti. I risultati emersi confermano l’ipotesi che la sertralina sia una strategia farmacologica efficace per la disregolazione emotiva e/o comportamentale in un ampio spettro della psicopatologia e non soltanto nei disturbi depressivi (disturbo depressivo maggiore, disturbo depressivo persistente, ecc.), come ad esempio: disturbi dello spettro autistico, disturbi di personalità (in particolar modo disturbo borderline di personalità), disturbo da stress post-traumatico e molte altre categorie diagnostiche (Romero-Martínez et al., 2019).

Ha senso immaginare che i miglioramenti dei livelli di rabbia possano essere spiegati dalla remissione delle fasi depressive o dagli effetti sedativi degli SSRI, ma in realtà svariati studi hanno dimostrato che la stabilizzazione timica spiega solo una piccola percentuale del cambiamento nei livelli di rabbia (Fann, Uomoto & Katon, 2000). Sono emersi risultati positivi anche in merito all’efficacia del farmaco sulla criminalità: è stata registrata non soltanto una diminuzione dell’aggressività, ma anche dell’impulsività. Pertanto, risulta eticamente e metodologicamente doveroso condurre ricerche in circostanze controllate, al fine di verificare se il trattamento è efficace o meno e facilitare il reinserimento di una popolazione ‘violenta’ (Romero-Martínez et al., 2019). Oltre a questa categoria di popolazione specifica, più in generale è emerso che la sertralina presenta risultati proficui nel controllo di rabbia e irritabilità in un’ampia percentuale di bambini e adulti caratterizzati da ricorsivi episodi di disregolazione, acuzie d’ira e agitazione psico-motoria. Un dosaggio ridotto (25-50 mg/die circa) per l’età evolutiva e uno maggiore per la popolazione adulta (da 100 a 150 mg/die circa) sono risultati appropriati ai fini dei risultati attesi, pur sempre considerando le peculiarità di ciascun paziente. Per quanto riguarda la variabile ‘genere’, non sono emerse differenze significative in merito alla sensibilità agli effetti benefici o collaterali del farmaco.

In conclusione, la revisione sistematica della letteratura in oggetto dimostra l’importanza di considerare la sertralina come uno psicofarmaco efficace al fine di ridurre la disregolazione emotiva e/o comportamentale in un’ampia popolazione (Romero-Martínez et al., 2019). Ad ogni modo, sebbene la somministrazione di SSRI sembri essere una strategia farmacologica funzionale per ridurre l’attivazione rabbiosa, risulta sempre opportuno considerare l’integrazione di una psicoterapia come coadiuvante, al fine di massimizzare l’efficacia del trattamento e la sua durata a lungo termine.

 

“Nel Profondo Veneto” e l’instabilità della società della prestazione

Il singolo di Vasco Brondi Nel Profondo Veneto racconta delle incertezze di una ragazza veneta che si trasferisce a Milano ed è un inno all’arte dell’accontentarsi.

 

Nel Profondo Veneto è un brano che fa parte dell’album Terra, di Vasco Brondi (alias Le Luci della Centrale Elettrica), uscito nel 2017. L’album tratta diversi temi, il cui filo conduttore è quel pianeta, chiamato appunto Terra “anche se come noi è quasi soltanto acqua”, come ricorda in uno dei più apprezzati brani del disco dal titolo profetico, Coprifuoco. Il disco è riuscito ad entrare nella ristretta cerchia degli album che ascolterei senza saltare nemmeno una canzone, annoverando grandi pezzi come Waltz degli scafisti, il waltz degli spostamenti umani che ci sono e ci saranno nella storia dell’umanità, oppure Iperconnessi, che tratta la tematica del digitale e della tecnologia, Qui, che è un elogio alla fragilità (“è un superpotere essere vulnerabili“).

Una delle cose che più mi colpisce del ferrarese Vasco Brondi è la capacità di mettere in risalto a più riprese le immagini di un’Italia secondaria e dimenticata, quella delle periferie e dei paesini, come quel Veneto “senza traffico, dove il cielo come te è sempre pallido”, quasi a tracciare un parallelismo fra lo stato d’animo della protagonista e il contesto ambientale in cui questa è cresciuta. Una scelta voluta a partire dal nome del progetto musicale, Le luci della centrale elettrica, che richiama la centrale elettrica in periferia di Ferrara che si intravede all’uscita del casello autostradale, o in un brano di un precedente album intitolato Nei garage di Milano Nord, che descrive con immensa potenza evocativa una zona di Milano periferica e sconosciuta ai più. L’autore della canzone stessa ha dichiarato che:

‘Nel profondo Veneto’ è una canzone sul crollo delle illusioni e su quanto questo possa essere benefico. Uscire da questa corsa senza senso e senza fine verso il futuro, di obiettivo in obiettivo. Non esiste quella cosa lì. Non c’è, è una specie di miraggio il futuro. Il disco si chiama Terra anche perché è l’accettazione della realtà di quello che c’è.

Il brano in questione racconta di una studentessa di un piccolo paesino veneto, dove ci sono solo “due bar una farmacia ed una chiesa” e “non c’è niente da dire, niente da spiegare, niente da capire, c’è solo da esistere”.  La ragazza non resiste più a questa monotonia e decide di andare a studiare all’università, a Milano. Le cose però iniziano a non andare bene, non si ambienta con i compagni, nella realtà cittadina. Non riesce a trovare una relazione affettiva nonostante “facevi l’amore tutte le sere”, risente del contesto cittadino competitivo e troppo legato alle apparenze.

Le difficoltà arrivano fino a quella che gli psichiatri chiamano “ideazione suicidaria”: “Ti leggeranno in faccia/ la data del giorno/ in cui stavi pensando/ di volerti ammazzare, ma non lo diremo a nessuno, non ti preoccupare”, che descrive tutte le difficoltà di ambientamento della giovane protagonista nella metropoli milanese, unite al profondo disagio di riferire le proprie difficoltà ai genitori. Questo pezzo di brano viene cantato a più voci, evocando con ancora maggiore efficacia il tormento interiore della ragazza.

L’unica soluzione che la protagonista riesce a trovare è ritornare al proprio paesino “sconfitta e contenta”, dove è possibile “non pensare alla tua immagine ed essere più trasparente”.

Colpisce molto la contrapposizione fra la melodia allegra e ritmata con il testo della canzone, molto diretto e a tratti crudo.

Il parallelismo provincia-metropoli milanese è una tematica spesso trattata dai cantautori contemporanei: Brunori Sas, artista calabrese, nel brano Lamezia Milano descrive il contrasto fra “una metropoli che ancora incanta e la provincia ferma agli anni ‘80”, dove “c’è un lupo della Sila fra i piccioni del duomo, c’è un vecchio ragazzino dentro al corpo di un uomo”.

Viviamo ormai in una società che il sociologo Han definisce “della prestazione”, dove il non raggiungere un obiettivo prefissato costituisce un fallimento e il “poter fare” si identifica con il “poter essere”. Giovanni Stanghellini, in una relazione chiamata La melancolia del manager. Il narcisismo del XXI secolo, descrive un imperativo morale molto comune nella nostra società, il “io posso”, seguito da quella figura che Michel Focault definisce “homo economicus”, che vive per raggiungere obiettivi e i cui valori principali sono appunto la prestazione e l’ottimizzazione. Nella società della prestazione anche le relazioni assumono una finalità utilitaristica, e l’altro diventa un “bene di consumo”. Tali concetti si rivedono bene nel viaggio andata e ritorno della nostra protagonista e nel suo “fallimento”, che la porta ad interrompere gli studi e tornare nel piccolo paese dove è nata e cresciuta.

Penso di fare parte di una generazione di ragazzi (ormai direi più adulti) forse più immatura di quella precedente, che si sta realizzando un po’ più tardi ed abiterà sempre più spesso lontano dai propri genitori. Una generazione girovaga di ragazzi che viaggiano “con la chitarra e il computer” (come recita la strofa di un’altra canzone brondiana, 40 km) che spesso cambiano città o nazione per provare ad inseguire il proprio sogno lavorativo, l’amore di una vita o per scappare da dei problemi che pensavano fossero esterni e invece erano interni a loro, ma che spesso hanno bisogno di quel cambiamento, quello spostamento per comprenderlo, che forse a volte si fanno troppo condizionare dal “io posso”. Una generazione che a volte in questo processo “ce la fa” e realizza i propri obiettivi, a volte “non ce la fa” e “fallisce”, come nel caso della protagonista di questa canzone, sempre in cerca del proprio “centro di gravità almeno momentanea“, come recita la strofa di un altro pezzo brondiano, la Terra, l’Emilia, la luna.

Vasco Brondi in questa e in altre canzoni racconta di tutto questo, dello spaesamento dei ventenni e ormai trentenni di fronte all’instabilità del futuro, a quella che Baumann definisce “società liquida”, dove lavoro, amicizie e relazioni sono sempre meno solidi.

La “sconfitta” del personaggio brondiano de Nel Profondo Veneto è anche la sconfitta di una società che vuole che si raggiungano subito i propri scopi, anteponendo forse troppo a tutti i valori morali il raggiungere traguardi lavorativi, economici e relazionali.

Ritengo che Brondi, insieme a Brunori SAS e pochi altri rappresenti uno dei capostipiti dei cantautori italiani nella scena attuale italiana: un cantautorato che canta sempre di più di instabilità e incertezza, dove l’ascoltatore cerca sempre di meno un riferimento morale ed ideale e sempre di più un riferimento emotivo.

Ho ascoltato questa canzone almeno un centinaio di volte e l’ho amata ed odiata in momenti diversi: ciò che mi colpisce di più in assoluto è la vicinanza di due aggettivi nella prima strofa, “sconfitta e contenta”: quanto spesso nella mia vita ho associato la sconfitta alla contentezza?

Quando questo “centro di gravità almeno momentanea” di cui Brondi parla e in cui mi ritrovo profondamente tenderà ad un minimo di permanenza?

 

NEL PROFONDO VENETO – Ascolta il brano:

 

Il controllo e i Disturbi Alimentari

Il controllo è una funzione estremamente utile per l’essere umano. Tutti gli individui possiedono un livello di controllo che può essere più o meno elevato, oscillando tra il polo del discontrollo emotivo e/o comportamentale e il polo dell’iper-controllo: ciò che risulta importante è muoversi tra la mediana di questo continuum ed esercitare il controllo in modo flessibile.

 

Il termine controllo in ambito psicologico può declinarsi in molte definizioni. Con controllo cognitivo, ad esempio, si indicano i processi implicati nel coordinamento di pensieri e azioni con l’obiettivo di mettere in atto un comportamento flessibile e orientato allo scopo, che sia coerente con gli obiettivi dell’individuo e le richieste dell’ambiente circostante (Puddu, 2021).

Uno dei primi autori a teorizzare il concetto di controllo in psicologia è stato lo psicologo statunitense James B. Rotter nel 1954; egli, in particolare, conia il termine Locus of control. Il locus of control di un individuo definisce la tendenza soggettiva a identificare le cause degli eventi che si verificano nella propria vita all’interno, ovvero in relazione ai propri comportamenti e azioni, oppure all’esterno, in relazione a fattori indipendenti dalla sua volontà. Secondo questa teoria, chi è in possesso di un locus of control interno sarà più propenso a considerarsi in grado di agire per modificare situazioni ed eventi, esercitando un controllo attivo sulla propria vita; chi, invece, colloca le cause degli eventi che si verificano nella propria vita all’esterno, sarà maggiormente propenso a vivere e affrontare le situazioni con atteggiamento passivo (Redazione, Locus Of Control, State of Mind).

Il controllo inteso come la capacità di inibire comportamenti indesiderati, col fine di perseguire obiettivi a lungo termine, viene invece definito autocontrollo. Esso rappresenta una qualità ritenuta di grande valore nella maggior parte delle società, in quanto consente alle persone di agire in maniera attiva e focalizzata sulla programmazione di obiettivi a lungo termine, rinunciando a quelli a breve termine, anche se questi ultimi potrebbero portare a benefici immediatamente disponibili (De Filippis, 2021).

A questo proposito, lo psicologo Walter Mischel, verso la fine degli anni ’60, ha condotto, presso l’Università di Stanford, uno degli studi più famosi al mondo sul tema del controllo, basato sul cosiddetto Test del Marshmallow. Lo studio valutava la capacità di gratificazione differita, vale a dire la capacità di resistere a una gratificazione immediata per riceverne una più grande in un secondo momento, in un campione di bambini in età prescolare. Le condizioni sperimentali erano le seguenti: il bambino riceveva un marshmallow, successivamente veniva lasciato da solo in una stanza e gli veniva chiesto di resistere dal mangiarlo; se ci fosse riuscito, ne avrebbe successivamente ricevuto un secondo. Dallo studio è emerso come i bambini, per raggiungere l’obiettivo, siano ricorsi ad ogni genere di strategia: allontanarsi dal dolcetto, non guardarlo, passare il tempo giocando o cantando una canzone.

Una parte dei soggetti sperimentali è stata poi, anni dopo, testata attraverso lo Scholastic Aptitude Test (SAT), ovvero il test attitudinale impiegato per accedere ai college statunitensi. I risultati ottenuti hanno mostrato come il comportamento assunto dai bambini durante il test sembrasse essere predittivo della tipologia di adulti che essi sarebbero divenuti, in termini di risultati scolastici e professionali (Mischel, 2014). Inoltre, un maggiore autocontrollo dimostrato durante l’esperimento correlava con un indice di massa corporea minore, livelli più alti di autostima e una maggiore capacità di tollerare la frustrazione, con una conseguente aumentata capacità di gestione dello stress, in età adulta (Mannelli, 2020).

Quando il controllo diventa un problema: ipercontrollo vs discontrollo

Si può quindi pensare al controllo come una caratteristica positiva dell’essere umano; tutti possiedono un livello di controllo più o meno presente, che oscilla tra l’estremo del discontrollo, che caratterizza le persone impulsive, tendenti a sperimentare emozioni intense e maggiormente propense a mettere in atto comportamenti rischiosi, e quello dell’iper-controllo, dove si collocano persone più introverse ed inibite, che tendono a controllare l’espressività emotiva. Ciò che sembra essere importante è la capacità di spostarsi all’interno di questo continuum, esercitando un controllo più o meno intenso a seconda delle situazioni (Alpinoli, 2021).

L’ipercontrollo è un paradigma multifattoriale complesso, veicolato da diversi fattori: biologici, ambientali e individuali, questi ultimi intesi come le differenti strategie di coping che gli individui possono mettere in campo. La tendenza a ipercontrollare può portare a reagire agli eventi di vita in modo rigido, con maggiori difficoltà a flessibilizzare il proprio comportamento al modificarsi delle condizioni ambientali esterne. L’ipercontrollo è quindi spesso associato ad una serie di conseguenze negative, come ad esempio una scarsa ricettività e una difficoltà di apertura alla novità. La persona ipercontrollante tenderà infatti a ricercare struttura e ordine e ad evitare condizioni incerte o situazioni rischiose non pianificate; può inoltre essere presente una difficoltà a tollerare le critiche, un alto livello di perfezionismo, la tendenza a pianificare rigidamente ed infine la propensione ad abbracciare rigide regole morali. Bisogna inoltre citare le possibili conseguenze a livello emotivo, come un’inibizione dell’emotività e una difficoltà a comprendere – anche su di sé – e ad esprimere le emozioni. Questo può a sua volta avere effetti a livello sociale: scarse capacità empatiche possono creare difficoltà nel socializzare e nel costruire relazioni intime, esitando in relazioni poco profonde e distaccate, che possono portare a sperimentare una sensazione di estraneità (Alpinoli, 2021).

A questo proposito, la ricerca scientifica, negli ultimi anni, si è focalizzata maggiormente sui disturbi di personalità caratterizzati da disregolazione emotiva, a discapito della psicopatologia con caratteristiche di ipercontrollo e inibizione. Uno studio ha però dimostrato come la presenza di eccessivo controllo e perfezionismo sia fortemente correlata alla maggior parte dei disturbi di personalità e alla loro gravità complessiva. Anche l’inibizione emotiva è risultata presente in modo significativo in disturbi di personalità specifici, ovvero evitante, dipendente, depressivo e paranoide e anch’essa correlava con la gravità complessiva del quadro clinico (Dimaggio et al., 2018).

Il polo opposto a quello dell’ipercontrollo, quello del discontrollo, è tendenzialmente associato alla messa in atto di comportamenti impulsivi, vale a dire azioni non pianificate espresse senza un’accurata valutazione delle possibili conseguenze; essi si associano spesso, quindi, a risultati indesiderabili.

In ambito psicologico l’ambito della disregolazione emotiva e degli impulsi è stato largamente analizzato da diversi punti di vista (evolutivo, sociale, clinico, psicopatologico e neuroscientifico). La letteratura scientifica ha individuato un’ampia varietà di fattori (biologici, evolutivi, relazionali, socio-culturali e ambientali) implicati nel processo di regolazione e disregolazione delle emozioni (Matarazzo, Zammuner, 2009).

Questa caratteristica è inoltre considerata un elemento transdiagnostico implicato nella psicopatologia di numerosi disturbi mentali (Moeller et al., 2001; Stanford et al., 2009; Pasino, 2021).

Le caratteristiche fondamentali dei disturbi correlati al discontrollo sono:

  • L’incapacità o la difficoltà di resistere ad un impulso o ad un desiderio, con la messa in atto di azioni pericolose per sé o per gli altri;
  • Una sensazione di tensione crescente che precede l’atto;
  • Un’esperienza soggettiva di gratificazione o sollievo sperimentati nel momento in cui viene messo in atto il comportamento stesso; questo viene spesso vissuto come ego-sintonico e quindi dipendente dalla volontà della persona;
  • Emozioni di rimorso, dispiacere o senso di colpa, che possono essere presenti una volta compiuta l’azione (Gualtieri et al., 2019).

Il controllo – o l’eccesso di controllo – in psicopatologia: un esempio incentrato sui DA

Ipercontrollo e discontrollo sembrano quindi essere agli antipodi, due modalità completamente opposte di pensare e agire. Le stesse considerazioni si potrebbero applicare, nella sfera dei disturbi alimentari, per quanto riguarda le diagnosi di Anoressia e Disturbo da Alimentazione Incontrollata; l’uno, infatti, è caratterizzato dal controllo e dalla restrizione alimentare estremamente rigidi, mentre l’altro, come dice il nome stesso, da frequenti abbuffate e perdita di controllo sulla propria alimentazione. Questa antitesi percepita nell’immaginario comune ha anche portato alla creazione di programmi TV incentrati proprio su questo. Nel programma TV americano Magri contro grassi, ad esempio, gli episodi si articolano intorno ad uno scambio di diete tra due protagonisti: una persona sottopeso, malnutrita, si trova a scambiare il proprio regime alimentare con una persona sovrappeso.

Tuttavia, nella clinica, se si osservano da vicino queste due situazioni si può notare un elemento che accomuna entrambi, ed è proprio il controllo.

Prima di tutto, un elemento che precede l’esordio del disturbo alimentare è la necessità di autocontrollo. La teoria cognitivo comportamentale dei disturbi dell’alimentazione afferma che uno dei comportamenti caratterizzanti la comparsa della maggior parte dei disturbi dell’alimentazione sia la restrizione alimentare, la quale dipende a sua volta da due elementi principali, che possono essere presenti contemporaneamente. Il primo si riscontra negli individui che sperimentano il bisogno di attuare un controllo in vari ambiti della propria vita, come ad esempio nel lavoro, nella scuola, nelle relazioni e in altri interessi; a un certo punto e in alcune circostanze particolari, queste persone cominciano a incanalare i propri tentativi di controllo nel campo dell’alimentazione. Il secondo elemento è “l’eccessiva valutazione del peso e della forma del corpo”, sperimentata dagli individui che hanno interiorizzato l’ideale di magrezza. “In tutti i casi, il risultato è l’adozione di una restrizione dietetica estrema e rigida che a sua volta rinforza la necessità di controllo in generale e del peso e della forma del corpo in particolare (Dalle Grave, 2018).”

Il fatto che i disturbi dell’alimentazione abbiano in comune la maggior parte delle caratteristiche cliniche e che nel tempo tendano a cambiare senza esitare in disturbi differenti, ha portato gli studiosi a ipotizzare che essi siano connessi ad un substrato di processi comuni. Da questo è stata elaborata la “Teoria transdiagnostica”, sviluppata in particolare da Christian Fairburn e colleghi presso l’Università di Oxford. Tale teoria colloca i disturbi dell’alimentazione in un’unica categoria diagnostica, piuttosto che concepirli come tre disturbi distinti e afferma che, per diagnosticare un disturbo dell’alimentazione, devono essere rilevati nell’individuo i seguenti elementi:

  • “Disturbi del comportamento alimentare e/o di comportamenti di controllo del peso e della forma del corpo per almeno tre mesi
  • Eccessiva valutazione del peso e/o della forma del corpo e/o del controllo dell’alimentazione
  • Danni alla salute fisica e al funzionamento psicosociale causati dai disturbi del comportamento alimentare e/o dai comportamenti di controllo del peso e della forma del corpo
  • I disturbi del comportamento alimentare e/o di comportamenti di controllo del peso e della forma del corpo non devono essere secondari a qualsiasi condizione medica generale e psichiatrica conosciuta (Dalle Grave, 2018).”

Negli individui affetti da Anoressia Nervosa, caratterizzati dal tentativo costante di controllare la propria alimentazione e di restringerla in modo rigido ed estremo, non è infrequente che questo porti a perdere il controllo sulla propria alimentazione, esitando in vere e proprie abbuffate – nel DSM-5, a questo proposito, è presente la specificazione “Anoressia Nervosa con abbuffate” – o in altri tipi di alimentazione “non pianificata”, come alimenti introdotti fuori pasto, spiluccamenti ecc. In entrambi i casi, questi episodi portano la persona a sperimentare una perdita di controllo sulla propria restrizione dietetica, con conseguente senso di colpa, e al tentativo successivo di restringere ulteriormente l’alimentazione. Questo circolo vizioso tende a ripetersi nella quotidianità e spesso a far sentire i pazienti intrappolati tra l’eccessivo bisogno di controllo e la sua perdita, interpretata come mancanza di forza di volontà, debolezza e sensazione di fallimento, risolvibile, dal loro punto di vista, solo attraverso l’applicazione di controllo ulteriore (Dalle Grave, 2018).

Le diagnosi di Bulimia Nervosa e di Disturbo da Alimentazione Incontrollata sono, invece, caratterizzate da frequenti abbuffate. Uno dei due criteri che definisce un’abbuffata è proprio la sensazione di perdere il controllo sull’atto di mangiare. Conseguentemente all’abbuffata l’individuo tenta di “ripristinare il controllo” sulla propria alimentazione, spesso in maniera rigida, ipercontrollando, con diete rigide ed estreme per porre rimedio ed evitare così un possibile aumento di peso. Il principale processo che porta ai successivi episodi di abbuffata è questo tentativo di restringere l’alimentazione, di ripristinare il controllo, con scopo di porre rimedio all’accaduto, indipendentemente dal fatto che questo determini una riduzione effettiva delle calorie assunte. Negli individui affetti da Bulimia Nervosa sono presenti anche condotte di eliminazione o compensazione, vale a dire comportamenti (vomito, abuso di lassativi o diuretici o altri farmaci, esercizio fisico eccessivo) mirati all’eliminazione del cibo assunto per evitare di aumentare di peso (Dalle Grave, Sartirana e Calugi, 2020).

“Le persone con un disturbo alimentare hanno quindi la tendenza a reagire al discontrollo con il controllo estremo, e a reagire negativamente quando rompono le loro rigide regole dietetiche, interpretando le minime trasgressioni alimentari come l’evidenza della loro mancanza di autocontrollo. Ciò favorisce a sua volta, successivamente, l’abbandono dello sforzo di controllare l’alimentazione e la comparsa dell’abbuffata, che li porta a vivere in un circolo vizioso continuo di alternanza tra controllo-discontrollo (Dalle Grave, 2018).”

Alla luce di quanto descritto e di questi esempi, la ricerca del controllo costante e rigido sul proprio comportamento, alimentare e non, può essere descritta con la seguente metafora.

Cercare di esercitare sempre e comunque il controllo estremo è come vivere con un elastico tirato fino al suo estremo. Cosa accadrebbe nel momento in cui, per qualsiasi motivo, fossimo costretti a mollare l’elastico? Esso ritornerebbe indietro, non solo alla sua condizione iniziale, ma in maniera più violenta, sconfinando nel verso opposto, ovvero quello del discontrollo.

 

Tutto quello che non riesci a controllare ti sta insegnando a lasciar andare.
Jackson Kiddard.

 


Considerazioni teoriche per accompagnare gli adolescenti con disturbo dello spettro autistico alla sessualità

Il disturbo dello spettro autistico (ASD) è un insieme eterogeneo di disturbi del neurosviluppo che sono caratterizzati da un esordio precoce nei primi anni dello sviluppo.

 

Il disturbo dello spettro autistico (ASD Autism Spectrum Disorder), rientra nella sezione del DSM-5 (APA, 2014) dei disturbi del neurosviluppo ed è codificato con il numero 299.00, che corrisponde al codice F84.0 del manuale ICD-10 (WHO, 2007). Nel DSM IV-TR e nelle versioni precedenti era invece classificato come disturbo pervasivo dello sviluppo (APA, 2001). Il disturbo dello spettro autistico (ASD) è un insieme eterogeneo di disturbi del neurosviluppo che sono caratterizzati da un esordio precoce nei primi anni dello sviluppo e per essere diagnosticati devono essere presenti entro i tre anni.

Sono caratterizzati da tre aree sintomatologiche che, prima dell’avvento del DSM-5, ricoprivano la triade. (i) In primo luogo, è presente una compromissione qualitativa dell’interazione sociale. (ii) In secondo luogo, abbiamo la compromissione qualitativa della comunicazione ovvero i bambini avranno difficoltà a capire quello che l’altro dice e a far capire all’altro quello che pensano e come si sentono. (iii) Infine, si caratterizzano per modalità di comportamento, interessi e attività ristretti, ripetitivi e stereotipati caratterizzati dalla sameness, ovvero per loro tutto deve sempre essere identico a se stesso e nulla può essere cambiato perché il cambiamento e l’uscire dalle stereotipie e le routine genera frustrazione e intolleranza. Con l’avvento del DSM-5 le aree divengono due dove il deficit comunicativo e quello di reciprocità sociale vengono uniti nel “deficit di comunicazione sociale” e viene confermato il gruppo dei comportamenti ripetitivi (APA, 2014). Le persone con ASD possono avere un quoziente intellettivo (QI) minore di 70, oppure essere ad alto funzionamento (HFA) e dunque con un quoziente intellettivo oltre il 70, un linguaggio verbale adeguato e un soddisfacente funzionamento adattivo generale, caratterizzato però da abilità bizzarre, innate, con limitato utilizzo pratico (Vicari & Caselli, 2017).

I termini adolescenza e pubertà sono spesso utilizzati in riferimento al periodo di transizione dall’infanzia all’età adulta (Gabriels & Bourgondien, 2007); questa transizione include la maturazione sessuale delle caratteristiche fisiche come ad esempio la crescita scheletrica, lo sviluppo degli organi riproduttivi e le caratteristiche sessuali secondarie (Gabriels & Bourgondien, 2007). La sessualità comprende molto di più del comportamento sessuale, infatti essa include anche: l’immagine di sé, le emozioni, i valori, le abitudini, le credenze, i comportamenti e le relazioni (Koller, 2000).

Questo periodo, dunque, si associa altamente alle competenze sociali, che nei soggetti con disturbi dello spettro autistico risultano compromesse (Chan & John, 2012). Spesso le persone con autismo si ritrovano ad affrontare barriere legate all’espressione stessa della propria sessualità (Koller, 2000). Inoltre, la letteratura sulla sessualità degli individui con il disturbo dello spettro autistico, suggerisce che gli ostacoli riscontrati includono: miti sociali, conoscenza insufficiente, sconforto personale e limitato accesso a risorse educative disponibili e appropriate (Koller, 2000).

Negli adolescenti con sviluppo tipico, i cambiamenti cognitivi coinvolgono un aumento nelle capacità per il pensiero astratto, riflessione e comprensione sociale su cosa le altre persone possano pensare o provare. Allo stesso tempo, è possibile intravedere che i cambiamenti psicologici e sociali si riflettono nel maggior coinvolgimento degli adolescenti stessi nello sviluppo di amicizie e incontri sentimentali e questi li aiutano a dare un senso alle proprie transizioni fisiche, ai propri bisogni e desideri (Gabriels & Bourgondien, 2007). D’altro canto, gli individui con disturbo dello spettro autistico sperimentano tutti gli aspetti di maturazione fisica e sessuale sopra menzionati, all’incirca nello stesso periodo della popolazione generale, tenendo in considerazione però che la natura delle compromissioni core dell’autismo possono impedire il progredire dello sviluppo cognitivo e psicosociale che coincide tipicamente con la maturazione fisica (Gabriels & Bourgondien, 2007). Le comuni caratteristiche dell’autismo come, per esempio, il fallimento nello sviluppo del linguaggio o altre forme di comunicazione sociale, permangono in adolescenza e la problematica si riscontra nella difficoltà ad acquisire e comprendere le regole alla base dell’interazione sociale e nello sviluppo dell’empatia (Koller, 2000). La presenza di anomalie comunicative per lo sviluppo sessuale nelle persone con autismo include l’abilità di etichettare o parlare di termini sessuali pur avendo poca o nessuna comprensione del loro significato, avendo la tendenza a ripetere semplicemente i termini sessuali precedentemente sentiti, indipendentemente dal contesto sociale (Gabriels & Bourgondien, 2007). I deficit a livello sociale nelle persone con autismo possono interferire non solamente nell’area delle abilità individuali nello sviluppo di relazioni di amicizia e sentimentali, ma anche nell’abilità individuale di utilizzare il giudizio sociale per determinare cosa dovrebbe essere svolto in un setting pubblico e cosa privatamente, come e perché gestire la propria igiene personale e come evitare lo sfruttamento sessuale da parte degli altri (Gabriels & Bourgondien, 2007). Di conseguenza a quanto appena riportato, gli adolescenti con autismo sono esposti ad un maggior rischio di problemi legali derivanti da comportamenti inappropriati.

I genitori di adolescenti con disturbi dello spettro autistico sono preoccupati che i loro figli possano comportarsi inadeguatamente con gli altri e questo potrebbe condurre a problemi legali, incluso essere etichettati come giovani “sex offenders” (Chan & John, 2012).

In aggiunta ai deficit sociali e comunicativi è inoltre da tenere in considerazione il deficit del comportamento, dal momento che gli individui con autismo tendono ad avere un repertorio comportamentale limitato. Il loro coinvolgimento in attività auto-stimolative, come la masturbazione, può divenire una delle poche attività che una persona con autismo è in grado di svolgere, di conseguenza questo può impattare sul tempo speso per altre attività. Tuttavia, il tempo speso per la masturbazione può essere ridotto insegnando al ragazzo altre attività d’interesse (Gabriels & Bourgondien, 2007).

Un’altra problematica riscontrata è che bambini e adolescenti con una diagnosi di disturbo dello spettro autistico sono esposti ad un rischio maggiore per l’abuso emotivo, fisico e sessuale. A seconda del livello di severità dell’autismo, queste persone potrebbero avere bisogno di assistenza nelle attività quotidiane, che può includere il fatto che i loro corpi vengano toccati da adulti per soddisfare i loro bisogni personali. Tuttavia, spesso questi ragazzi non vengono educati sulla prevenzione degli abusi sessuali, ed è proprio questo a porli in una condizione di maggior rischio (Chan & John, 2012). A fronte di tutte queste problematiche, negli adolescenti con autismo è fondamentale sviluppare e allenare le competenze sociali; è necessario valutare le risorse della comunità per indirizzare i genitori verso uno specialista comportamentale o psicologo in grado di utilizzare metodi di insegnamento speciali al fine di aiutare i ragazzi con autismo ad apprendere comportamenti appropriati (Chan & John, 2012).

Per i giovani con disturbo dello spettro autistico con un QI <70, al di sotto della media, le aspettative romantiche e sessuali dei genitori erano correlate alla gravità del disturbo e all’educazione sessuale e relazionale da parte dei genitori. Sia la gravità dell’ASD che l’educazione relazionale e sessuale giocano un ruolo primario nel fatto che i genitori comunichino sulla sessualità con i giovani con ASD e sugli argomenti che scelgono di trattare. A causa dei sintomi del loro bambino, i genitori di giovani con ASD hanno aspettative incerte o basse sul fatto che il loro bambino si innamorerà, si sposerà o avrà un rapporto sessuale e questo influisce a sua volta, sulla misura in cui i genitori forniscono ai loro figli un’educazione sessuale e relazionale completa (Ballan, 2012).

Ricerche recenti suggeriscono che gli individui con ASD potrebbero non ricevere un’educazione sessuale e relazionale efficace dai loro genitori o da altre fonti credibili (Mehazabin & Stokes, 2011). Ad oggi, ci sono pochi studi empirici che esaminano i fattori legati alla comunicazione sessuale genitore-figlio nell’ASD. Quello che però risulta chiaro è che i caregiver svolgono un ruolo fondamentale nell’educare i giovani con autismo sul sesso e le relazioni (Teti, et al., 2018) e allo stesso tempo famiglie delle persone autistiche necessitano di supporto per trasmettere conoscenze e valori legati alla sessualità (Holmes, et al., 2020). Di conseguenza l’obiettivo finale dovrebbe essere quello di rendere l’autismo un problema di diversità e non di disabilità, arrivando ad una progettazione di un intervento su misura anche per la salute sessuale dei soggetti con disturbo dello spettro autistico.

In conclusione, i soggetti con disturbo dello spettro autistico risultano essere particolarmente vulnerabili nel periodo adolescenziale, è importante tenere a mente che nonostante essi abbiano bisogni speciali, risultano avere lo stesso sviluppo sessuale e sociale dei loro coetanei con sviluppo tipico.

È fondamentale, dunque, essere consapevoli di queste loro vulnerabilità e diverse capacità di apprendimento e dare loro il supporto di cui hanno bisogno per affrontare con successo l’adolescenza; questo può realizzarsi lavorando collaborativamente con i genitori/caregivers e gli specialisti dei programmi di supporto (Chan & John, 2012).

 


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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

 

Antidepressivi e dipendenza: il difficile percorso di interruzione dello psicofarmaco

I tassi di prescrizione degli antidepressivi sono molto alti e in continua crescita nonostante l’evidenza di massicci effetti avversi, inclusi sintomi di astinenza.

 

Recenti dati, indicano che in Italia, il 6% della popolazione ha ricevuto almeno una prescrizione di tali farmaci nell’arco della vita (Agenzia Italiana del Farmaco, 2017). Tassi così alti sembrano essere spiegabili in termini di uso prolungato e di ripetizione della prescrizione, piuttosto che di aumento della depressione o di nuovi pazienti con disturbi dell’umore.

La ricerca di Read e colleghi riporta i dati rilevati da un campione di 752 individui britannici che avevano assunto antidepressivi nei due anni precedenti. Nella sperimentazione, i soggetti hanno completato la Medications for Mental Health Survey, ovvero l’indagine inglese sull’utilizzo di psicofarmaci (Mind, 2019). I risultati della sperimentazione hanno messo in luce le problematiche relative all’uso continuativo e prolungato di psicofarmaci. Sebbene la maggior parte dei partecipanti in esame avesse smesso di assumere antidepressivi (34%) o avesse provato e fallito (36%), di quelli che ancora li assumevano, il 76% lo faceva da almeno un anno e il 36% da cinque anni o più. Il 26% dei soggetti aveva dichiarato di aspettarsi di doverli prendere per sempre, e circa la metà (48%) non aveva fatto revisionare i propri farmaci dal medico ogni tre mesi. La maggior parte dei soggetti (65%) non aveva mai valutato l’interruzione del trattamento farmacologico con il medico prescrittore, infatti quasi la metà di coloro che avevano interrotto i farmaci (45%) lo aveva fatto senza consultare il professionista di riferimento. Tuttavia, la maggioranza di coloro che avevano interrotto le cure dopo aver consultato il proprio medico (65%), aveva riconosciuto il supporto fornito da quest’ultimo. I risultati dello studio di Read sono dunque coerenti con l’idea che alti tassi di utilizzo di antidepressivi siano in gran parte spiegabili dall’uso cronico, che a sua volta è parzialmente spiegato dai sintomi di astinenza.

L’uso cronico di psicofarmaci in numeri così elevati è infatti probabilmente causato dalla comparsa di sintomi di astinenza a seguito dell’interruzione della cura. Infatti, un sondaggio britannico ha rilevato che su 817 persone che avevano interrotto l’assunzione di antidepressivi, il 63% aveva manifestato sintomi di astinenza (Royal College of Psychiatrists, 2012). Tale risultato è stato confermato dal più ampio sondaggio neozelandese di Read, che ha rilevato che il 55% dei soggetti aveva manifestato sintomi di astinenza a seguito della sospensione dello psicofarmaco (Read et al., 2018).

Tali evidenze permettono quindi di ipotizzare che gli antidepressivi possano creare dipendenza. Nel sondaggio di Read e Williams, infatti, il 27% delle persone che utilizzavano antidepressivi aveva riferito di esserne dipendente (Read & Williams, 2018), ed assieme ad esso, numerosissimi studi minori avevano confermato che molti utenti che fanno uso di antidepressivi ritenevano che tali farmaci potessero creare dipendenza (Bogner et al., 2009; Gibson et al., 2014; Hoencamp et al., 2002; Kessing et al., 2005). Una revisione del Nordic Cochrane Center ha inoltre affermato che le reazioni di astinenza dagli antidepressivi siano simili a quelle delle benzodiazepine (Nielsen et al., 2012).

Una soluzione a tale problematica è rappresentata dalle tapering strips, strisce per la sospensione graduale degli antidepressivi che riducono il farmaco a piccole frazioni della dose terapeutica minima, e che sembrano sostenere il consumatore nel processo di interruzione dello psicofarmaco. In un recente studio olandese, il 71% di 895 persone che desideravano interrompere il proprio trattamento a base di antidepressivi è riuscito a ridurre totalmente lo psicofarmaco, utilizzando una media di due strisce in otto settimane (Groot e van Os, 2018). Congiuntamente alle tapering strips, sarebbe auspicabile che i medici prescrittori prestassero attenzione agli aspetti di dipendenza ed astinenza che gli antidepressivi possono causare. Quando si prescrivono antidepressivi, si dovrebbero stabilire rapporti di collaborazione attiva in cui i pazienti siano pienamente informati sugli effetti di dipendenza e astinenza, e dovrebbero anche essere esplorate e valutate le loro opinioni su inizio, fine e durata del trattamento.

 

La mindfulness per l’ADHD e i disturbi del neurosviluppo. Applicazione clinica della Meditazione Orientata alla Mindfulness – MOM

La mindfulness per l’ADHD e i disturbi del neurosviluppo. Applicazione clinica della Meditazione Orientata alla Mindfulness – MOM è un libro curato da Cristiano Crescentini, ricercatore in Psicobiologia e Psicologia fisiologica presso l’Università degli Studi di Udinee e Deny Menghini, psicologa, psicoterapeuta presso l’UOC di Neuropsichiatria Infantile dell’IRCCS, Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma.

 

Il libro, ben schematizzato, parte descrivendo la pratica Mindfulness e i suoi ambiti d’applicazione per il perseguimento del benessere psicologico in generale e poi osservandone l’applicazione in età evolutiva nonché nei bambini con ADHD. Vengono ripercorse le origini storiche, filosofiche, spirituali e psicologiche e descritte le tipologie e le caratteristiche delle pratiche meditative inserite nel metodo MOM, nonché gli effetti neurobiologici e psicologici della pratica della consapevolezza sulla regolazione dell’attenzione e delle emozioni, sulla consapevolezza del corpo e sulla rappresentazione del sé e la personalità dei praticanti.

Il volume prosegue esponendo i protocolli sviluppati ad oggi in merito alla mindfulness nell’età evolutiva, esaminando le modalità, i programmi e gli effetti che le pratiche meditative ispirate alla consapevolezza hanno sui bambini e adolescenti a sviluppo tipico e segue osservando l’applicazione in ambito dei disturbi dell’età evolutiva e dell’ADHD.

Il manuale, utile per gli esperti del settore, si conclude esponendo dettagliatamente il protocollo ed il training MOM e l’intervento applicato su un gruppo di bambini con ADHD. Nella sezione finale del capitolo sono illustrati i risultati sugli effetti psicologici e neuropsicologici dello studio.

 

L’invecchiamento patologico: la demenza e le vulnerabilità – Video del webinar

Video dal webinar L’invecchiamento patologico: la demenza e le vulnerabilità a cura della Dott.ssa Sciore Roberta – Psicologa, Psicoterapeuta, Esperta in Psicologia dell’Invecchiamento e Co-didatta presso Studi Cognitivi.

 

L’invecchiamento è un processo di sviluppo evolutivo che coinvolge con preponderanza soprattutto l’ultima parte dell’arco di vita della persona. Questo può caratterizzarsi da un punto di vista cognitivo e di capacità funzionali residue in una vasta eterogeneità di condizioni di vulnerabilità che vanno dal decadimento cognitivo lieve ai gradi avanzati di demenza. Tali differenti condizioni sono caratterizzate da specifici quadri clinici, possibilità differenti di trattamento farmacologico e non, e bisogni peculiari dell’anziano e di chi se ne prende cura.

Pubblichiamo oggi, per i nostri lettori, il video dell’interessante webinar sull’argomento.

 

L’INVECCHIAMENTO PATOLOGICO: LA DEMENZA E LE VULNERABILITA’ 

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Disturbo da gioco d’azzardo: aspetti neuropsicologici e prospettive terapeutiche

La maggior parte dei giocatori con Disturbo da Gioco d’Azzardo riferiscono la presenza di pensieri intrusivi e di impulsi a giocare in quantità tale da interferire significativamente con la loro efficienza lavorativa e sulla loro vita sociale e familiare.

Fabio Pastore e Concetta Di Gioia – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, San Benedetto del Tronto

 

Il Disturbo da Gioco d’Azzardo è inserito nel DSM 5 tra i Disturbi da Dipendenza e correlati a Sostanze e viene identificato attraverso nove criteri:

  • Necessità di giocare una quantità crescente di denaro con lo scopo di raggiungere l’eccitazione desiderata;
  • È irritabile o irrequieto quando si tenta di ridurre o interrompere il gioco d’azzardo;
  • Ha effettuato ripetuti sforzi infruttuosi per controllare, ridurre o interrompere il gioco;
  • Spesso è preoccupato per il gioco d’azzardo;
  • Gioca spesso nei momenti di difficoltà;
  • Dopo aver avuto perdite economiche al gioco, torna un altro giorno;
  • Ricorre a bugie per nascondere il proprio coinvolgimento nel gioco d’azzardo;
  • Ha messo a rischio o ha perso una relazione significativa o il lavoro a causa del gioco d’azzardo;
  • Cerca supporto economico altrui per alleviare le condizioni finanziare causate dal gioco d’azzardo.

Il DSM 5 distingue tre livelli di gravità nel Disturbo da Gioco d’Azzardo:

  • Lieve, se vengono soddisfatti 4 o 5 criteri;
  • Moderato, se vengono soddisfatti 6 o 7 criteri;
  • Grave, se vengono soddisfatti 8 o 9 criteri.

La sintomatologia del Disturbo da Gioco d’Azzardo ha elementi tipici e ricorrenti che rendono tale disturbo molto simile alla dipendenza da sostanze: il bisogno costante di dover giocare (craving), il nervosismo e l’irrequietezza sperimentata quando non è possibile giocare d’azzardo (sindrome di astinenza) e la necessità di aumentare la frequenza del gioco.

Se alcuni giocatori sviluppano un Disturbo da Gioco d’Azzardo sin dalle prime giocate, altri giocatori strutturano una dipendenza da gioco più gradualmente senza averne piena coscienza. Con l’aumentare dell’importo delle giocate e del tempo dedicato ad esse si aggiungono poi la preoccupazione di recuperare il denaro perso per poter continuare a giocare. Progressivamente la vita e le attenzioni del giocatore ruotano principalmente attorno al gioco d’azzardo e il tono dell’umore diventa sempre più modulato e condizionato dal comportamento del gioco. Il giocatore che sviluppa tale disturbo sperimenta frustrazione, irritabilità o senso di disperazione qualora non riesca a giocare, per mancanza di possibilità economiche o altro. Spesso il gioco d’azzardo diventa un modo per sfuggire dai problemi della vita quotidiana e i giocatori patologici ne diventano pienamente assorbiti per raggiungere l’eccitazione desiderata, fino a perdere il controllo sul proprio comportamento di gioco.

La maggior parte dei giocatori con Disturbo da Gioco d’Azzardo riferiscono la presenza di pensieri intrusivi e di impulsi a giocare in quantità tale da interferire significativamente con la loro efficienza lavorativa e sulla loro vita sociale e familiare. Non sono rari la presenza di pensieri suicidari nei casi più severi.

Il comportamento tipico e più osservato nei giocatori con Disturbo da Gioco d’Azzardo consiste nell’ “inseguire la perdita”, ovvero nello scommettere sempre più frequentemente somme di denaro sempre più elevate con lo scopo di recuperare le perdite subite (fenomeno del chasing). L’esperienza della vincita saltuaria (rinforzo intermittente), anche a seguito di grandi perdite, viene interpretata come la prova che prima o poi si vince e determina un rinforzo maggiore sul comportamento di gioco. Le ricompense (le vincite al gioco) vengono interpretate più positivamente rispetto alle perdite. Ad influire sullo sviluppo del Disturbo da Gioco d’Azzardo vi sono delle distorsioni cognitive circa le credenze erronee sulle probabilità di vincita e sulla propria possibilità di avere un ruolo consistente nell’esito del gioco rispetto al solo caso.

Nell’ultimo ventennio si è assistito ad un crescente interesse in ambito di ricerca verso il Disturbo da Gioco d’Azzardo. Da una prima identificazione del 1980 in cui si definiva tale disturbo come un disordine nel controllo degli impulsi si è arrivati oggi a considerarlo come una problematica complessa e multi-componenziale.

Sono stati avanzati diversi modelli per la comprensione e l’eziologia del Disturbo da Gioco d’Azzardo (il modello BioPsicoSociale di Engel, 1977; il modello di Williams et al., 2007; la teoria cognitiva-psicobiologica del DGA di Sharpe, 2004; il modello pathways di Blazszczynski e Nower, 2002). Le diverse teorie concordano nell’identificare nel Disturbo da Gioco d’Azzardo una alterazione tra i sistemi di rinforzo e piacere (sistema della ricompensa) e i sistemi di controllo prefrontale, con il coinvolgimento del sistema propriocettivo e emotivo-motivazionale.

Il sistema della ricompensa si basa principalmente sul neurotrasmettitore dopamina implicato nel desiderio, nell’eccitazione e nella gratificazione comportamentale. Tale circuito della ricompensa ha le sue basi neurologiche nell’interazione e connessione tra il nucleo accumbens, situato all’interno del corpo striato, e l’area tegmentale ventrale situata nel mesencefalo, in cui sono presenti centri coinvolti nei meccanismi del piacere. I neuroni dell’area tegmentale ventrale sintetizzano dopamina che viene poi trasmessa al nucleo accumbens. Il funzionamento anomalo di tale sistema comporta un’anomala regolazione del neurotrasmettitore della dopamina, comportando un’alterata sensibilità alla ricompensa da vincita e alla perdita. Uno studio del 2010 (Hewig et al., 2010) ha misurato la risposta neurale in correlazione al processo decisionale nel gioco d’azzardo mostrando come i soggetti giocatori patologici con maggiori comportamenti di rischio durante il gioco abbiano presentato un’attivazione mesencefalica maggiore a risultati rari e di successo rispetto ai soggetti di controllo.

Il sistema di controllo fa riferimento all’attivazione della corteccia prefrontale ventromediale e al sistema serotoninergico, implicati nella capacità cognitiva di pianificare pensieri e azioni complesse e di modulare il proprio comportamento attuando un “controllo” sociale (sopprimendo pensieri e comportamenti socialmente inaccettabili). Il corretto funzionamento del sistema di controllo consente ad un giocatore di interrompere l’attività di gioco dopo una forte perdita economica o dopo la valutazione del tempo trascorso a scapito delle attività lavorative e relazionali. Alcuni studi hanno osservato come i soggetti con Disturbo da Gioco d’Azzardo hanno una minore attivazione della corteccia prefrontale rispetto ai soggetti di controllo in compiti di soppressione di risposte automatiche (Potenza e coll, 2003; Tanabe et al., 2007).

L’area cerebrale di maggiore rilevanza per il sistema enterocettivo è l’insula, situata all’interno del solco laterale che separa il lobo temporale dalla corteccia parietale inferiore. Tale area mappa gli stati viscerali associati a esperienze emozionali e gioca un ruolo nella valutazione della significatività delle sensazioni enterocettive emozionali esperite. L’insula, dopo aver elaborato questo percetto, invia informazioni all’ippocampo, deputato all’elaborazione delle informazioni mnesiche, e all’amigdala, implicata nell’elaborazione dei vissuti emozionali e nei processi legati alla rabbia e alla frustrazione. Durante la formazione di una traccia mnesica di un vissuto la componente emotiva riveste un ruolo cardine nella modulazione della traccia mnesica stessa: l’emozione legata alla situazione di perdita o vincita svolge un ruolo fondamentale nella valutazione soggettiva e nella possibilità di ripetizione del comportamento. Nei giocatori patologici può essere presente una distorsione nel ricordo di una esperienza o nell’elaborazione emozionale del vissuto ad essa collegato.

Dai dati emersi dalla letteratura si evince come il sistema della ricompensa dopaminergica e quello dell’inibizione e del controllo prefrontale serotoninergico funzionino parallelamente e in modalità sinergica, integrati da bias motivazionali ed edonici (Nussbaum, 2010). Nel Disturbo da Gioco d’Azzardo l’intero processo di integrazione tra gli aspetti attivazionali, ricadute motivazionali e decision making si alterano comportando disfunzionalità cognitive caratteristiche dei giocatori patologici come l’impulsività, la compulsività e deficit attenzionali (Morris e Voon, 2006).

Considerando la complessità e la compromissione che il Disturbo da Gioco d’azzardo reca nel giocatore, secondo la letteratura internazionale (Korn e Shaffer 2004) e autorevoli linee guida (NIDA,2012; Ministero della Salute, 2017) i percorsi di cura più efficaci ed in grado di garantire un maggiore risultato nel trattamento sono caratterizzati da:

  • Interventi a carattere multidisciplinare, data la natura multifattoriale del DGA. Il complesso quadro sintomatologico che spesso presenta il paziente con DGA giustifica il contributo integrato di più professionisti di diverse competenze;
  • Fondamentale è il coinvolgimento delle famiglie. Le dinamiche familiari costituiscono un elemento significativo non solo nella fase di sviluppo e mantenimento del disturbo ma anche nella fase critica del bilancio delle conseguenze del disturbo e/o nella fase della richiesta di trattamento. Nella maggior parte dei casi, la presa in carico del paziente affetto da DGA prevede la presa in carico dell’intera famiglia per l’elevato livello di sofferenza che esso presenta. Dunque supportando e trattando l’intera famiglia si può influire in modo decisivo, sicuramente, sulla buona riuscita del trattamento. I familiari possono costituire per l’équipe che ha in carico il paziente, dei validi alleati, soprattutto dal momento in cui si sviluppa in loro un buon livello di consapevolezza e si realizza una condivisione sia della concettualizzazione del disturbo che degli obiettivi terapeutici individuati;
  • Programmi intensivi ed integrati in base alle specifiche esigenze del paziente, in relazione alle sue caratteristiche di personalità, alla gravità del disturbo, alle condizioni familiari, sociali e lavorative;
  • Offerte terapeutiche articolate e differenziate per poter adattare il percorso di cura alle specificità e ai bisogni del paziente.

Dunque, al di là delle specificità di ogni paziente, gli elementi importanti per il percorso di cura sono:

  • Colloquio motivazionale per sostenere la persona nella decisione di aderire al trattamento o almeno per tenerlo in contatto con il servizio;
  • Psicoeducazione per far conoscere ai pazienti i meccanismi di avvio e di mantenimento del disturbo, in particolare le trappole cognitive legate al gioco d’azzardo e le emozioni legate ad esso;
  • Psicoterapia individuale per indagare i fattori motivazionali e di mantenimento del DGA, per la modificazione/correzione delle distorsioni cognitive, per operare la ristrutturazione cognitiva, per potenziare le abilità di coping, di problem solving e per prevenire le ricadute;
  • Psicoterapia di gruppo per aumentare la compliance e per potenziare e rinforzare la ristrutturazione cognitiva;
  • Eventualmente, terapia farmacologica;
  • Coinvolgimento dei familiari, per renderli consapevoli della natura del disturbo, e per far convergere le loro azioni in direzione del superamento del problema del paziente, per esplorare la presenza eventuale di dinamiche correlate allo sviluppo del DGA;
  • Inserimento in programmi residenziali intensivi qualora il trattamento ambulatoriale si rivelasse insufficiente a produrre un’interruzione del comportamento compulsivo;
  • Partecipazione a gruppi Self Help nella fase After Care e a scopo di prevenzione delle ricadute;
  • Prevenzione delle ricadute come intervento specificatamente mirato ad addestrare il paziente a riconoscere e gestire il craving e le situazioni ad alto rischio che possono innescarlo.

Disturbo da gioco d azzardo aspetti neuropsicologici e trattamento Fig 1

I behavioristi ritengono che il DGA sia un comportamento appreso, avviato e mantenuto mediante il rinforzo positivo costituito dall’eccitazione, dall’evento “vincita” o da entrambi, o dal rinforzo negativo costituito dal sollievo da uno stato emotivo negativo come ansia, depressione, noia ecc ecc.

Per condizionamento classico il giocatore associa l’eccitazione piacevole con il gioco d’azzardo, mentre nel condizionamento operante questa eccitazione, insieme a qualche vincita saltuariaria, rinforza il comportamento di gioco e rende più probabile il ripetersi del comportamento stesso. Sharpe e Tarrier (1993) sostengono che il comportamento di gioco è rinforzato, secondo uno schema di rinforzo intermittente, da una combinazione di premi (vincite) e da un piacevole stato di arousal. Il giocatore acquisisce lo schema secondo cui le vincite sono saltuarie, persistendo cosi nel comportamento di gioco nella convinzione che, anche se in modo intermittente, esse si verificheranno.

La terapia cognitivo comportamentale si basa essenzialmente sull’assunto secondo cui molti disturbi psichici sono dovuti alle particolari e complesse relazioni esistenti tra pensieri, emozioni e comportamenti. Attraverso questo modello si riesce a far comprendere ai pazienti affetti da DGA e non solo che è il pensiero che attiva le nostre emozioni e cosa scatta all’interno della loro mente in modo tale da riuscire a sensibilizzarli ulteriormente. L’impulsività è uno dei fattori trigger per il paziente ed è importante svolgere psicoeducazione su essa in quanto è uno dei fattori responsabili delle persistenza delle distorsioni cognitive in presenza di elementi di realtà più che evidenti. Il fattore impulsività risulta essere correlato ad un pensiero del tipo o tutto o nulla (distorsione cognitiva) o ad una eccessiva personalizzazione delle esperienze negative (Mobini et al., 2007) Il modello dell’ABC si rileva molto utile per l’individuazione dei pensieri automatici erronei e disfunzionali, responsabili di stati d’animo negativi molto spesso antecedenti al comportamento di gioco d’azzardo. Dunque, secondo l’approccio cognitivo comportamentale, la caratteristica centrale e ricorrente dei giocatori con DGA è rappresentata dalle distorsioni cognitive riguardanti il gioco d’azzardo, in particolare da un’erronea percezione del concetto di casualità (Ladouceur e Walker, 1996; Gaboury e Ladouceur, 1989). Quando il giocatore sperimenta la perdita in seguito ad una previsione di vincita, si crea in breve tempo una dissonanza cognitiva, una sostanziale distanza tra ciò che si crede e la realtà dei fatti, che evidenzia come aumenta la probabilità di vincere del giocatore. Di conseguenza, tali distorsioni cognitive portano al giocatore una errata valutazione dei risultati del gioco, la cui conseguenza è il continuare a credere che nel tempo i risultati saranno in qualche modo pareggiati. Alla luce di quanto detto, la terapia cognitiva-comportamentale si propone come obiettivo primario quello di mettere in discussione queste credenze erronee allo scopo di indurre il giocatore a modificare il comportamento attraverso l’acquisizione e comprensione della nozione di “caso”, identificazione delle credenze erronee, addestramento alla verbalizzazione adeguata dei pensieri irrazionali ed addestramento alla correzione cognitiva delle verbalizzazioni adeguate e disfunzionali talvolta utilizzando anche una registrazione sonora. È solo grazie al cambiamento dei pensieri automatici e dei relativi schemi cognitivi sottostanti che è possibile la cura e il trattamento del disturbo del gioco d’azzardo.

Vivere con grinta (grit): passione e perseveranza per ottenere ciò che desideriamo

La ricerca sulla grinta sembra dare supporto alla sua relazione positiva con la performance, anche in contesti particolarmente provanti.

 

Correre l’ultimo metro, scrivere l’ultimo articolo, chiudere l’ultima pratica d’ufficio, studiare ancora un’altra ora… cosa distingue le persone che perseverano fino ad eccellere nel loro campo, dagli altri individui? Cosa contraddistingue gli elite performers, persone i cui risultati eccezionali ci piacerebbe emulare e raggiungere?

Mettendo da parte l’aura di fascino che spesso ai nostri occhi circonda queste persone, possiamo chiederci se vi siano, al di là dei generici discorsi sulle ‘qualità innate’ che si tende ad attribuire loro, aspetti della personalità da cui origina l’eccellenza e che possano essere oggetto di indagine ed, eventualmente, di miglioramento. Se esistessero, allora potremmo impegnarci a coltivarli per migliorare la nostra prestazione negli ambiti di vita di nostro interesse (lavoro, sport, tempo libero) e, di riflesso, aumentare la nostra soddisfazione di vita e il nostro benessere percepito.

Le teorie motivazionali ci forniscono i concetti per rispondere a queste domande e inquadrare i processi o i tratti di personalità sottostanti gli sforzi individuali verso il raggiungimento di un risultato desiderato. In questa prospettiva, la persona è sempre orientata verso scopi e risultati finali, per raggiungere i quali pone in atto, consapevolmente o meno, forme organizzate di comportamento (Ryan, 2012): sceglie i propri scopi, fa progetti per raggiungerli, implementa piani d’azione proiettati nel futuro, cerca di anticipare eventuali condizioni avverse nel loro compimento, e li esegue.

La grinta (grit; Duckworth, Peterson, Matthews, Kelly, 2007) è un costrutto che tenta di cogliere quelle disposizioni individuali, di tipo non cognitivo, che promuovono il perseguimento degli obiettivi a lungo termine. Mossa da passione e interesse per il compito, e dalla perseveranza per gli obiettivi che si pone, la persona grintosa affronta le sfide e mantiene alti sia i livelli di impegno che di interesse nonostante possibili fallimenti e momentanei arresti; dimostra di possedere un alto grado di resistenza, e vede la noia e lo sconforto come dei segnali che le indicano di andare avanti, con costanza e dedizione. In base a queste premesse, secondo gli autori le due dimensioni della grinta sarebbero alla base della performance di alto livello in molti campi dell’esperienza umana.

In uno dei primi lavori sul costrutto (Duckworth et al., 2007) gli autori cercano di supportare queste idee tramite alcuni studi in base ai quali i punteggi individuali sulla grinta sembrano in grado di predire il livello di istruzione posseduto dai partecipanti, la loro media accademica, la probabilità che continuassero un corso di addestramento militare altamente selettivo e, infine, il successo in una gara nazionale di spelling.

Studi successivi hanno rilevato associazioni di questo tipo in una varietà di ambiti. Nello sport, per esempio, gli atleti più grintosi in genere competono a livelli superiori, possiedono la tendenza a cercare di accrescere la propria competenza, e sono maggiormente focalizzati sugli obiettivi (Albert, Petrie, Moore, 2020). Sul lavoro e nei contesti organizzativi, maggiori livelli di grinta sono associati a maggiore soddisfazione per il proprio lavoro e a un’etica dell’impegno (Meriac, Slifka, LaBat, 2015), alla capacità di fronteggiare meglio lo stress (Mullen, Crowe, 2018) e a una migliore prestazione lavorativa (Zhong et al., 2018). Nel contesto universitario, infine, tenendo in considerazione la presenza di molte variabili in grado di spiegare il successo accademico (ad esempio la coscienziosità, il seguire le lezioni, l’autoregolazione etc.), la grinta è un buon predittore dei risultati che verranno ottenuti negli anni di corso (per una rassegna, vedi Credé, Tynan, Arms, 2017).

In sintesi, la ricerca sulla grinta sembra dare supporto alla sua relazione positiva con la performance, anche in contesti particolarmente provanti, come ad esempio l’addestramento di selezione degli ufficiali in ambito militare (Kelly, Matthews, Bartone, 2014).

Nel corso del tempo molti autori si sono interessati al costrutto anche nei termini dei suoi addentellati con il benessere psicologico. Infatti, se consideriamo la felicità (Seligman, Ernst,  Gillham, Reivich, Linkins, 2009) come il provare piacere per ciò che si fa (pleasure), impegnarsi genuinamente in esso (engagement), e sapere perché lo facciamo (meaning), le due dimensioni della grinta, ovvero passione e interesse per il compito, e perseveranza nel raggiungere gli obiettivi, potrebbero rappresentare ciò che permette la realizzazione concreta di questi tre stati interni desiderabili (Von Kulin,Tsukuyama, Duckworth, 2014). Questa idea è confermata dalla ricerca che rileva alcune relazioni tra grinta e salute, e che indica, ad esempio, come ad alti livelli di grinta si associno maggiori livelli di percezione generalizzata di benessere soggettivo, speranza e ottimismo (Moen & Olsen, 2020), come anche livelli inferiori di stress, ansia e depressione (Özhan, Boyaci, & Anadolu 2018).

Come beneficiare della conoscenza di queste relazioni nella nostra quotidianità? Possiamo estrapolare alcune indicazioni operative da uno dei questionari disponibili per misurare il costrutto in un campione italiano (ad esempio: Sulla, Renati, Bonfiglio, Rollo, 2018), in modo da fornirci delle linee guida per fare entrare i benefici della grinta nella nostra vita:

  • Focalizzarsi sul progetto che in quel momento ha la priorità su tutti gli altri e, nel caso si abbiano più progetti in corso, perseguire solo quelli tra loro compatibili;
  • Mantenersi concentrati sui progetti che abbiamo deciso di perseguire, anche se sappiamo che ne vedremo i risultati solo tra qualche tempo;
  • Aver ben chiaro davanti a sé per quali motivi un progetto ci interessa e ci alletta. Se non troviamo buone ragioni, o quelle che troviamo ci sembrano superficiali, il progetto potrebbe essere ragionevolmente scartato;
  • Comprendere che lo scoramento di oggi è un segnale per cercare un modo diverso di fare le cose, oppure semplicemente per prendersi una momentanea pausa per recuperare le energie e riprendere il lavoro successivamente;
  • Fissarsi degli orari di lavoro e rispettarli. Stesso discorso valga per le pause;
  • Portare a termine ciò che iniziamo;
  • Essere diligenti: preparare l’ambiente di lavoro, farsi una lista delle cose da fare e rispettarla, tagliare fuori le distrazioni (smartphone, rumori, social network etc.) e concentrarsi sul compito attuale;
  • Sapere se e quando ci convenga disimpegnarci da un compito che stiamo portando avanti senza successo, per evitare di perseverare in percorsi di azione improduttivi e senza sbocchi. Se riusciamo a tenere sotto controllo questo lato negativo della grinta, allora potremo dedicarci a progetti magari di minore difficoltà, ma più produttivi (Lucas, Gratch, Cheng, Marsella, 2015).

E ricordiamoci di premiarci ogni volta che portiamo a termine qualcosa di impegnativo… ce lo saremo meritato!

La mente depressa. Comprendere e curare la depressione con la psicoterapia cognitiva (2018) di Antonella Rainone e Francesco Mancini – Recensione

La Mente depressa contiene un’attenta analisi di aspetti che spesso vengono trascurati, quali le risorse e i fattori che contribuiscono alla resilienza personale.

 

L’approccio cognitivista lavora da sempre per sviluppare trattamenti psicoterapeutici efficaci per la depressione, in quanto disturbo mentale più diffuso al mondo e con esiti molto gravi (tanto che gli autori definiscono la depressione come un’emergenza mondiale).

Ora, il depresso si sente triste e vuoto, si lamenta continuamente. Tutto è ridotto: interessi, desideri, attività, affetti. Un fortissimo meccanismo di rinforzo e mantenimento è il “problema secondario” ossia il fatto che il soggetto giudica inadeguata, indegna e colpevole la sua stessa reazione (essere depresso) e per questo si svaluta e si colpevolizza. Il volume prospetta un ottimo modello teorico della trappola depressiva, in cui si trova il paziente. Rainone e Mancini infatti analizzano molto dettagliatamente i fattori di mantenimento e la genesi del fenomeno depressivo, al fine di comprendere come l’individuo possa passare da un dolore naturale alla sofferenza patologica depressiva. Inoltre, dopo aver descritto il ruolo della ruminazione depressiva, propongono un modello esplicativo dei paradossi della depressione: qui, quelle che sembrano resistenze al cambiamento sono definite come scopi perseguiti e credenze disfunzionali. Infatti, i meccanismi responsabili dell’accettazione di eventi avversi (come perdite o fallimenti) sono compromessi nella depressione.

Negli ultimi anni sono stati proposti, nell’ambito della terapia cognitivo comportamentale, innumerevoli nuovi protocolli per il trattamento della depressione. All’interno del manuale oltre che la descrizione degli interventi standard della CBT (Terapia Cognitivo Comportamentale), viene proposto l’uso di altri procedimenti come la Schema Therapy, l’Acceptance and Commitment Therapy, la Compassion Focused Therapy e la Mindfulness.

La terapia cognitiva della depressione consta tipicamente di due fasi principali:

  • ridurre i sintomi acuti e stabilire una buona alleanza terapeutica: si individuano i pensieri automatici, le convinzioni schematiche, gli stati emotivi, le sensazioni e i comportamenti del paziente, in quanto ottimi indicatori del funzionamento del problema riportato. Dopo si procede per cercare di interrompere i meccanismi che mantengono e contribuiscono all’aggravarsi della depressione (ovviamente il tutto bilanciato sulla gravità del quadro depressivo). Di fatto si prova a diminuire il livello di passività della persona, cercando di programmare delle attività che servono a farla riattivare a livello pratico e comportamentale, al fine di contrastare i sintomi. Talvolta si utilizza il diario settimanale delle attività, per monitorare e stabilire il livello di attività attuale e il programma delle attività con assegnazione graduale dei compiti a casa. Dal momento in cui la persona sta meglio, si comincia poi a lavorare più direttamente sui pensieri automatici negativi, sulle distorsioni di pensiero e sulle credenze alla base del disturbo.
  • prevenzione delle ricadute: in questa fase, iniziabile solo dopo aver ridotto i sintomi acuti, si pone maggiore attenzione sull’origine e sullo sviluppo degli schemi, sulle difficoltà interpersonali e sugli esercizi esperienziali.

D’altra parte, La Mente depressa contiene anche un’attenta analisi di aspetti spesso trascurati quali le risorse e i fattori che contribuiscono alla resilienza personale. Questi vengono approfonditi attraverso la descrizione della Well-Being Therapy, utile per ridurre le ricadute depressive.

Il libro, infine, si conclude con un approfondimento della Terapia Interpersonale e delle sue similitudini con la Terapia Cognitivo Comportamentale. La psicoterapia ad orientamento interpersonale è una terapia nata negli anni ‘80 di dimostrata efficacia rivolta ai bisogni delle persone depresse. L’idea fondamentale è che la depressione sia determinata, oltre che da fattori biologici costituzionali, anche e soprattutto da difficoltà nella costruzione delle relazioni interpersonali (messe in primo piano dall’approccio terapeutico in questione). Oltre che per la depressione, la terapia interpersonale si è rivelata efficace anche per molti altri disturbi che comprendono delle difficoltà relazionali (come il disturbo bipolare, DBP, la distimia, la tossicodipendenza, la bulimia, la fobia sociale, gli attacchi di panico). Comunque, relativamente alla cura della depressione, lo scopo iniziale, come nella terapia cognitiva, è la riduzione dei sintomi depressivi, ma lo scopo più generale è quello di migliorare le relazioni interpersonali e il funzionamento sociale del paziente. Quindi, l’IPT si pone di: aiutare il paziente a conquistare un senso di padronanza, lottare contro l’isolamento sociale, ripristinare un senso di appartenenza al gruppo, dare un significato alla propria vita. In altre parole, l’IPT si propone di cambiare il modo in cui il paziente pensa, sente e agisce in relazioni interpersonali problematiche.

Anche l’IPT, come la terapia cognitivo-comportamentale, si occupa dei pensieri disfunzionali del paziente a proposito di sé e degli altri, e delle proprie possibilità di scelta; ma, a differenza di essa, l’IPT non si propone di individuare sistematicamente i pensieri disfunzionali e non tenta di aiutare il paziente a formarsi modelli alternativi di pensiero mediante la prescrizione di una pratica o l’uso di “compiti a casa”, prassi della terapia cognitiva.

Concludendo, il manuale, oltre a distinguersi per un elevato valore scientifico, si presta in maniera versatile a diversi usi e soddisfa diversi bisogni formativi: da un lato è un ottimo manuale di riferimento nella sua globalità, pur soddisfacendo anche interessi più circoscritti se vengono considerati i capitoli indipendentemente; dall’altro è fruibile anche a coloro che si approcciano per la prima volta al tema della depressione e intendono approfondirlo.

Narcisismo grandioso, vulnerabile e strategie di regolazione emotiva.

Tendenzialmente, pensando al narcisismo, si tende a descrivere un individuo con una visione ipertrofica di sé, egoista, dominante e tendente allo sfruttamento interpersonale. Tali caratteristiche, tuttavia, trascurano il narcisismo vulnerabile, connotato da ipersensibilità interpersonale, tendenza alla depressione ed al ritiro sociale (Pincus & Lukowitsky, 2010).

 

Secondo la ricerca, le manifestazioni di narcisismo vulnerabile e grandioso sembrano impiegare stili differenti di regolazione emotiva ed avere esiti diversi sulla salute mentale (Kaufman et al., 2020; Kealy et al., 2012; Krizan & Herlache, 2018). Krizan & Herlache (2018), hanno suggerito la presenza di uno spettro narcisistico, caratterizzato da tendenze individuali dimensionali, che variano per gravità e presentazione clinica. Mentre i due poli maggiori, grandiosità e vulnerabilità riflettono due stili di orientamento ben distinti, rispettivamente all’approccio e all’evitamento; entrambi hanno un nucleo comune caratterizzato dal ruolo dell’importanza attribuita al sé.

Narcisismo vulnerabile e grandioso a confronto

Individui con maggiori livelli di narcisismo grandioso, tendono al soddisfacimento di obiettivi auto-glorificanti e gratificanti: concentrandosi sul miglioramento personale, adottano comportamenti sociali assertivi, arroganti ed esibizionistici (Krizan & Herlache, 2018).

Secondo la ricerca, la grandiosità si lega ad elevata estroversione, dominanza, eccessiva sicurezza e affettività positiva (Cain et al., 2008; Kaufman et al., 2020; Miller et al., 2011)

Soggetti con elevato narcisismo vulnerabile, al contrario, tendono a monitorare e combattere eventuali minacce alla propria immagine, adottando risposte di attacco-fuga. Impiegano stili autoregolativi focalizzati sulla protezione del sé, adottando un comportamento sociale sprezzante, timido e sfuggente (Krizan & Herlache, 2018). Tale inibizione comportamentale può portare ad una frustrazione dei bisogni narcisistici di ammirazione e successo (Krizan & Herlache, 2018). La vulnerabilità comporta spesso scarsa autostima, ansia, nevroticismo e depressione (Kaufman et al., 2020), ed è stata collegata all’ideazione omicida, al comportamento parasuicidario ed ai tentativi di suicidio (Pincus & Lukowitsky, 2010).

Narcisismo e regolazione delle emozioni

In generale, una capacità adeguata nella regolazione delle emozioni concorre nel mantenere una buona salute mentale (Aldao et al., 2010; Werner & Gross, 2010). La rivalutazione (Reappraisal), impiegata nella terapia cognitivo comportamentale, rimanda alla capacità di mutare il pensiero legato ad una situazione, al fine di trasformare la risposta emotiva, rendendola adattiva (Gross & Thompson, 2007). Intervenendo nelle prime fasi del processo di genesi dell’emozione (Gross & Thompson, 2007), si rivela efficace nel favorire gli affetti positivi, ridurre le risposte emotive negative  (Troy et al., 2018; Webb et al., 2012) e migliorare la salute psicologica (Kraaij et al., 2002). Chi impiega abitualmente la rivalutazione, mostra una minore reattività fisiologica in risposta all’induzione della rabbia (Mauss et al., 2007).

La rivalutazione ed in generale la regolazione delle emozioni, sono state poco studiate nel narcisismo. Zhang et al. (2015) hanno riscontrato nel narcisismo vulnerabile una difficoltà generale nella regolazione emotiva, non accettazione delle risposte emotive, difficoltà nel controllo degli impulsi, accesso limitato alle strategie di regolazione delle emozioni e mancanza di chiarezza emotiva. Gli individui grandiosi, viceversa, possedevano maggiore consapevolezza e chiarezza emotiva.

L’indagine di Loeffler et al. (2020) ha valutato in un campione di 60 individui sani, il legame tra narcisismo vulnerabile e grandioso e regolazione delle emozioni, concentrandosi in particolare sulla strategia della rivalutazione. Gli autori hanno distinto tra uso quotidiano della rivalutazione e la capacità di impiegare la strategia su richiesta. Inoltre, è stata valutata la relazione tra narcisismo vulnerabile / grandioso e sintomi depressivi.

Dai risultati emerge che il narcisismo (sia grandioso che vulnerabile) non si associa alla capacità di regolare le emozioni e all’uso abituale della rivalutazione. L’assenza di quest’ultima evidenza, potrebbe rimandare al campione senza alcuna psicopatologia pregressa, mentre l’impiego della rivalutazione caratterizzerebbe esclusivamente i campioni clinici. Similmente, sia il narcisismo grandioso che il narcisismo vulnerabile, non correlavano con la capacità di rivalutazione, dimostrando uno scarso impiego di tale strategia nel regolare le emozioni abituali.

Una maggiore vulnerabilità narcisistica (e non grandiosità) era legata all’insorgenza di sintomi depressivi e all’utilizzo abituale della soppressione come strategia regolativa.

Narcisismo vulnerabile e soppressione emotiva

La soppressione, consiste nell’inibire una reazione emotiva, come l’espressione facciale stessa, una volta che l’emozione completa è stata suscitata (Gross & Thompson, 2007). Sia per la conseguente limitazione dell’emotività soggettiva, che per l’indesiderato aumento dell’attivazione cardiovascolare (Gross & Levenson, 1997), la soppressione è considerata piuttosto disadattiva.

In tal senso, il narcisismo vulnerabile, rispetto a quello grandioso, sembra essere associato a maggiori disturbi nella regolazione dell’emotività. L’utilizzo di determinate strategie maladattive, non indica necessariamente una regolazione disfunzionale delle emozioni poiché in contesti particolari, la soppressione della risposta emotiva può rivelarsi desiderabile. Le difficoltà insorgono ogni qualvolta la strategia venga impiegata con rigidità, inflessibilità e in modo inappropriato al contesto.

I risultati sull’impiego della soppressione sono in linea con Krizan & Herlache, (2018): mentre i narcisisti vulnerabili sono orientati all’evitamento e sensibili alle minacce (e quindi adottano maggiormente tale strategia), i narcisisti grandiosi sono orientati all’approccio, sensibili alle ricompense e non sopprimono i sentimenti positivi.

Coerentemente con indagini precedenti (Given-Wilson et al., 2011; Zhang et al., 2015), il narcisismo vulnerabile, ma non il narcisismo grandioso, si associava ai sintomi depressivi autoriferiti e alla presenza di anedonia. In letteratura, il narcisismo vulnerabile si associa alla depressione ed in particolare a caratteristiche cliniche che predispongono all’insorgenza di problemi mentali, come la bassa autostima (Boldero et al., 2015) ma anche all’impiego di strategie di regolazione basate sulla soppressione emotiva (Ehring et al., 2010). Questo suggerisce che l’impiego delle strategie di regolazione disadattive, sono caratteristiche del narcisismo vulnerabile e più in generale della psicopatologia.

L’attuale studio ha fornito un contributo rilevante nella comprensione dei processi di regolazione delle emozioni nel narcisismo vulnerabile e grandioso, sottolineando l’importanza di esaminare entrambi i fenotipi per comprenderne le differenti strategie di regolazione emotiva impiegate e i problemi di salute mentale associati.

Sebbene il narcisismo vulnerabile e grandioso possano rappresentare due poli di un’unica dimensione, considerare entrambi i fenotipi sia in contesti di ricerca che nell’assistenza sanitaria, consente di ridurre la probabilità che il narcisismo vulnerabile venga sotto-diagnosticato, ma anche il rischio di una diagnosi distorta e, nel peggiore dei casi, un trattamento non ottimale.

 

La diagnosi differenziale nella Sindrome di Asperger: un confronto con l’ADHD

Il tema della diagnosi differenziale nella Sindrome di Asperger è molto dibattuto tra i clinici.

Federica Galvan – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Mestre

 

Questo articolo nasce dal tentativo di fare un po’ di chiarezza sull’argomento, a partire da una delle tante distinzioni possibili tra la Sindrome di Asperger (AS) ed altre categorie diagnostiche: in particolare, prenderemo in considerazione la diagnosi differenziale con il Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività (ADHD), trattandosi di una categoria che si sovrappone per diverse caratteristiche al funzionamento Asperger e che spesso può trovarsi in comorbidità (Taurines et al. 2012).

Possiamo ancora parlare di Sindrome di Asperger?

Innanzitutto, è doveroso chiarire che nel DSM-5 (American Psychiatric Association, 2013) la sindrome di Asperger è stata assorbita da una categoria dimensionale e più ampia, ovvero quella dei Disturbi dello Spettro Autistico. Tuttavia, il termine Asperger continua ad essere utilizzato per convenzione, infatti questo fenotipo non è sparito dalla realtà clinica. Come ha affermato Tony Atwood in un’intervista, “questo termine, per molti, rappresenta un’identificazione culturale positiva, offrendo comprensione, letteratura e ricerca”.

Il panorama delle neurodiversità

Le difficoltà nell’ambito diagnostico della Sindrome di Asperger nascono dal fatto che non è rara una sovrapposizione tra i sintomi di questa condizione e quelli di altre categorie diagnostiche che si collocano nell’ampio spettro delle neurodiversità, come nel caso dell’ADHD (Rommelse et al., 2010; Leitner, 2014). Numerosi studi, infatti, riconoscono che nel funzionamento di Asperger possano manifestarsi anche segni dell’ADHD (Antshel, Zhang-James e Faraone 2013; Berenguer-Forner et al. 2015; Ghirardi et al. 2018; Joshi et al. 2017; Polderman et al. 2014; Sokolova et al. 2017).

Infatti, molto spesso accade che nella storia evolutiva della persona sia presente una diagnosi di ADHD, che può essere rivalutata alla luce di ulteriori caratteristiche emerse nel tempo, costituendo un punto di partenza per una nuova diagnosi di Sindrome di Asperger (Atwood, 2019).

Inoltre, la situazione si complica perché le due diagnosi non si escludono a vicenda e possono coesistere in comorbidità (Simonoff et al. 2008). A conferma di ciò, diverse ricerche suggeriscono che tra il 40 e il 70% dei bambini con Sindrome di Asperger presenta anche un profilo di abilità di apprendimento indicativo di una diagnosi aggiuntiva di disturbo da deficit di attenzione (Jensen & Steinhausen, 2015; Mansour et al., 2017).

Da un punto di vista clinico, di fronte ad una persona con un deficit nell’area dell’attenzione e dell’impulsività/iperattività, una delle prime ipotesi diagnostiche potrebbe essere quella di ADHD. Tuttavia, alla luce dei dati appena esposti, sarebbe opportuno porre la Sindrome di Asperger in diagnosi differenziale, tenendo in considerazione che le caratteristiche di disattenzione e iperattività assumono sfumature differenti tra le due categorie; inoltre, nel processo diagnostico, risulta fondamentale considerare anche altre aree del funzionamento, che costituiscono un profilo insolito nelle persone Asperger e che difficilmente potrebbe essere spiegato solamente da un deficit attentivo.

Pertanto, per compiere una diagnosi differenziale accurata tra ADHD e Sindrome di Asperger, è importante indagare diverse aree: non solo il funzionamento dell’attenzione, l’impulsività e l’iperattività, ma anche le caratteristiche cognitive, le abilità sociali, le competenze emotive e quelle linguistiche (Atwood, 2019).

Il funzionamento attentivo

Il deficit attentivo si presenta come la caratteristica principale dell’ADHD e si manifesta attraverso la mancata capacità di prestare attenzione ai dettagli, di mantenere l’attenzione per tempi prolungati su un compito e di impegnarsi in attività che richiedono uno sforzo protratto nel tempo; inoltre, un bambino o adulto con ADHD talvolta non sembra ascoltare il suo interlocutore, potrebbe non portare a termine le istruzioni ricevute, distrarsi facilmente e risultare sbadato nelle attività quotidiane, oltre a perdere frequentemente gli oggetti.

L’attenzione nel funzionamento Asperger in parte assume queste caratteristiche, tuttavia ha un andamento peculiare.

Durante alcune attività, la persona può apparire distratta rispetto al contesto circostante, come se fosse assorta “in un suo mondo”. Allo stesso tempo, però, può dedicarsi alle attività associate ai suoi interessi speciali con un livello di attenzione nella norma, o addirittura eccessivo: questa condizione viene definita di iper-focus, e si manifesta con un’altissima concentrazione rivolta a determinati compiti, che può far sì che la persona non colga gli stimoli ambientali che sono attorno a lei, come ad esempio essere chiamato da qualcuno, e non si accorga del tempo che passa mentre è assorbito nella attività.

Il bambino o adulto con AS, inoltre, può avere difficoltà nel porre l’attenzione agli aspetti salienti di un compito, non sapendo automaticamente cosa prendere in considerazione e lasciandosi così distrarre da particolari irrilevanti: può quindi emergere un “rapporto ambivalente” con i dettagli, per cui sembra che la persona con Asperger sia poco precisa e attenta. Tuttavia, la ragione può essere che l’attenzione non sia assente, ma semplicemente venga posta sugli aspetti meno rilevanti (Atwood, 2019).

Impulsività e iperattività

Il secondo pattern di comportamenti tipici nell’ADHD riguarda le caratteristiche di impulsività e iperattività. Questa componente comporta un’eccessiva attività motoria, tamburellamenti, loquacità, azioni estremamente affrettate e che avvengono all’istante. L’impulsività può esprimere un desiderio di immediata ricompensa, manifestandosi anche con comportamenti invadenti.

In un bambino con AS, possono essere presenti caratteristiche di impulsività e iperattività, come l’incapacità di stare fermi o di svolgere giochi tranquillamente: tuttavia, queste caratteristiche possono essere più plausibilmente spiegate non da un deficit di impulsività e iperattività, ma piuttosto come risposte ad alti livelli di stress e ansia, che si manifestano soprattutto in situazioni nuove (Atwood, 2019).

Inoltre, accade spesso che la persona con Asperger dimostri movimenti ripetitivi e apparentemente afinalistici, come il muovere in modo ritmato mani o gambe, il toccare ripetitivamente alcune parti del corpo o alcuni oggetti. Anche questa caratteristica potrebbe essere confusa con un sintomo di iperattività; tuttavia, nella sindrome di Asperger, l’insieme di questi comportamenti è definito “stimming” e ha uno scopo diverso, ovvero quello di auto-stimolazione e di riduzione della tensione in contesti stressanti (Nolan & McBride, 2015).

Un altro aspetto interessante, e che potrebbe essere confuso come una caratteristica di impulsività, riguarda alcuni atteggiamenti nella comunicazione, come l’inserirsi in una conversazione al momento sbagliato, interrompendo l’interlocutore e non rispettando il proprio turno. In realtà, nel funzionamento Asperger, questo comportamento non si associa all’impulsività, ma è spiegato da un deficit nella pragmatica della comunicazione, che non consente alla persona di cogliere i segnali comunicativi sottintesi utili per comprendere quando intervenire opportunamente (Tantam, 2000). Un’altra motivazione che giustifica la tendenza dei bambini o adulti Asperger a interrompere gli altri durante una conversazione è la fragilità nella memoria di lavoro, per cui la persona sente la necessità di dire quello che ha in mente, per timore di dimenticarsene (Atwood, 2019).

Funzioni esecutive

Un’alterazione delle funzioni esecutive è in parte implicata in entrambe le aree di compromissione dell’ADHD: infatti, le funzioni esecutive influenzano le abilità di mantenimento dell’attenzione e di esecuzione di un compito, oltre che le capacità di controllo dei comportamenti impulsivi. Una difficoltà di funzionamento esecutivo emerge anche nella Sindrome di Asperger (Antshel et al., 2016; Craig et al., 2016; Corbett et al., 2009), tuttavia, la compromissione dei domini esecutivi si manifesta diversamente tra le due categorie diagnostiche.

Infatti, generalmente, nella AS le fragilità esecutive riguardano le abilità di pianificazione del comportamento e di flessibilità cognitiva (Bramham et al., 2009; Corbett et al., 2009). In particolare, le persone Asperger hanno difficoltà a considerare strategie alternative di risoluzione dei problemi e a imparare dai loro errori e questo li porta spesso a utilizzare strategie non corrette. Inoltre, presentano spesso problemi nell’organizzazione e nella pianificazione dei compiti, facendo fatica a stabilire le priorità in un’attività e a gestire il proprio tempo. Un altro aspetto critico riguarda la difficoltà di ragionamento astratto, che può presentarsi assieme a problemi di autoriflessione, comportando fatica nel “conversare” mentalmente per risolvere un problema (Atwood, 2019).

Diversamente, il dominio maggiormente compromesso nell’ADHD è quello del controllo inibitorio, con abilità di pianificazione e shifting relativamente preservate (Gargaro et al., 2011).

Clinicamente, una persona con ADHD potrebbe manifestare delle difficoltà esecutive nella gestione di alcune attività, ad esempio facendo fatica a seguire delle istruzioni o lasciando incompleti alcuni compiti: tuttavia, è possibile ipotizzare che questa fragilità sia principalmente dovuta ad un deficit nell’attenzione sostenuta e nel controllo inibitorio, piuttosto che ad una mera compromissione esecutiva nei processi di pianificazione ed esecuzione (Corbett & Constantine, 2006).

Abilità sociali e comunicative

L’area delle competenze sociali e comunicative è centrale nella diagnosi della sindrome di Asperger, infatti le sue caratteristiche peculiari costituiscono il primo criterio per la diagnosi di Disturbo dello spettro autistico secondo il DSM-5.

Proprio perché queste particolarità definiscono il pattern di comportamento tipico della AS, si tratta di una delle aree da valutare attentamente al momento della diagnosi differenziale con l’ADHD.

Il criterio A per il Disturbo dello spettro autistico fa riferimento alle difficoltà nella comunicazione sociale e nell’interazione sociale in diversi contesti, che potrebbe manifestarsi attraverso diverse problematiche:

  • Difficoltà nella reciprocità socio-emotiva: la persona fatica a “leggere” le situazioni sociali e, pertanto, potrebbe relazionarsi agli altri in modo anomalo, avere difficoltà nel condividere interessi ed emozioni e nel dare inizio o rispondere a interazioni sociali. Si osservano particolarità nella comunicazione, in particolare nella pragmatica del linguaggio: spesso le persone con Asperger tendono a condurre monologhi o a non rispettare i turni conversazionali, interpretano in modo letterale alcune espressioni, non colgono i sottintesi alla base dell’ironia o del sarcasmo o delle bugie e possono avere una prosodia inusuale;
  • Difficoltà nei comportamenti comunicativi non verbali utilizzati per l’interazione sociale, come anomalie nel contatto oculare, nel linguaggio del corpo e nell’espressività facciale;
  • Difficoltà nello sviluppo, nella gestione e nella comprensione delle relazioni, per cui la persona può fare fatica ad adattare il proprio comportamento a diversi contesti o ad iniziare o portare avanti in modo soddisfacente le interazioni con i propri coetanei.

Questi aspetti sono raramente presenti nelle persone con ADHD e quando si manifestano non costituiscono un pattern così caratteristico come nelle persone Asperger. In particolare, in un bambino con funzionamento ADHD, si potrebbe notare una difficoltà nell’instaurare amicizie e la tendenza all’isolamento, ma ciò si associa principalmente ad una difficoltà di integrazione da parte dei coetanei di un bambino spesso irruento e impulsivo. Inoltre, potrebbe essere presente una difficoltà nel riconoscimento delle emozioni altrui, che tuttavia non si lega ad una compromissione della Teoria della Mente (come potrebbe accadere nell’AS), quanto piuttosto alle difficoltà attentive, che non permettono un’analisi completa delle espressioni facciali (Rommelse et al. 2010).

In conclusione, la Sindrome di Asperger e il Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività sono due categorie diagnostiche che presentano diverse sovrapposizioni, per cui è importante effettuare un’accurata diagnosi differenziale ai fini di comprendere la natura dei sintomi e la possibilità di una comorbidità tra le due categorie.

Il processo diagnostico che presupponga l’ipotesi di una di queste due forme di neurodiversità, quindi, non può limitarsi solo alla valutazione di aspetti cognitivi legati all’attenzione e all’area dell’iperattività/impulsività, ma deve includere un’analisi attenta del funzionamento cognitivo, sociale, emotivo e linguistico della persona interessata.

 

Recensione di “Un attimo prima di cadere” e riflessioni su comportamentismo e svolta esperienziale corporea

Un attimo prima di cadere di Giancarlo Dimaggio (2020) è un’opera particolare, a metà tra il caso clinico romanzato e l’autoconfessione.

 

Non è e non vuole essere un libro scientifico, ma può vantare un fondamento scientifico. Appartiene più alla narrativa che alla saggistica ma si mantiene in equilibrio su un margine indefinito tra questi due terreni, perché i personaggi delle storie che racconta sono esplicitamente dei pazienti affetti da disturbi di personalità, che è il campo di competenza professionale e clinico dell’autore. Personaggi, beninteso, che sono il frutto di un rimescolamento di personaggi reali, al fine di proteggerne la privacy. Vi è poi un altro personaggio che è l’autore Dimaggio stesso, narratore che interviene non solo come terapeuta ma anche con la propria vita e i propri dolori tra i più intimi di quelli che possono capitare a qualcuno, confessati con estrema sincerità. Invitiamo chi si sia incuriosito a leggere il libro. Sarà una lettura istruttiva e appassionante.

Tuttavia, non si tratta di un diario personale. Come già detto, l’autore mantiene un sufficiente margine di ambiguità letteraria in cui rappresenta sé stesso come il personaggio narrante di una storia raccontata al caminetto. Non è una cronaca immediata, epperò l’autore/personaggio fa intendere che, come in un diario, tutto (o forse non proprio tutto, ma molto) ciò che racconta è vero. Si tratta insomma di un caso di auto-fiction, una forma di romanzo che è di grande successo da alcuni anni a questa parte. Ne è un esponente a esempio il romanziere francese Emmanuel Carrère. Anche lui scrive romanzi in cui c’è egli stesso come personaggio e in cui racconta fatti che sembrano capitatigli davvero, eppure raccontati in una maniera tale da essere comunque romanzi. Insomma, mantenendo un margine di ambiguità che non riguarda tanto la distinzione tra il vero e il non vero (tendenzialmente, nei romanzi di Carrère è tutto -o quasi- vero; epperò poi pare salti fuori che non tutto sia vero e molti episodi sono inventati) ma raccontato sempre in una maniera tale per la quale quel tutto, pur essendo vero, in fondo lo è come romanzo e tutta la storia in realtà fa parte di un universo parallelo, un altrove che è l’altrove del romanzo e non il qui e ora della realtà.

Qualcuno sostiene che l’auto-fiction è un genere recente ma, a pensarci bene, questo non è così esatto. Ad esempio, alcune opere di Dante sono costruite così. La Vita Nova è un’auto-fiction in cui tutto è vero e tutto è racconto; ma anche la Commedia -sia pure in misura minore data l’ambientazione soprannaturale- ha come personaggio principale Dante stesso che racconta episodi reali della sua vita, facendone romanzo non perché inserisce aspetti fantastici (a parte l’ambientazione soprannaturale) ma per il particolare sguardo da narratore che assume l’autore. E vi sono altri esempi. I romanzi di Primo Levi, a esempio, o anche -uscendo dalla narrativa- i diari di André Gide, i saggi di Montaigne o alcune opere di Kirkegaard sono costruiti allo stesso modo: raccontare sé stessi per fare esplorazione filosofica, scientifica o, nel caso di Un attimo prima di cadere, clinica.

Dimaggio, tuttavia, ci tiene a suggerire che la sua operazione clinica e narrativa sia qualcosa di nuovo. Ammette che l’auto-fiction applicata al personaggio dell’autore stesso non è qualcosa di nuovo, ma qui l’autore (o il personaggio?) ci tiene a dire che nel suo romanzo ci sono anche casi clinici, che da una parte rimangono casi clinici trattati con aderenza al dato reale (ma al tempo stesso correttamente mescolando insieme più casi al fine di proteggere la privacy del paziente stesso) ma poi diventano anche inevitabilmente letteratura perché inseriti in un contesto di racconto, però di auto-fiction, e sono gestiti per creare una trama con una suspence romanzata: e infatti le storie cliniche e del personaggio-autore riservano colpi di scena che è bene non rivelare. No spoiler.

Si può concedere all’autore e personaggio che questo incrocio di più livelli tra la serie di casi clinici per esporre un modello teorico, la storia personale e il romanzo in forma di auto-fiction sia un luogo nuovo e originale. E non è finita. Dalla narrazione si torna alla scienza perché l’autore sembra a volte suggerire che la storia personale del personaggio/autore è esposta con disarmante sincerità (che però è narrazione e non diario; e poi rimane il dubbio che, come in Carrère, salti fuori che non tutto sia vero e alcuni episodi siano inventati) non solo per fini narrativi ma anche scientifici, perché nel modello di Dimaggio (Dimaggio, Ottavi, Popolo e Salvatore, 2019) – che è poi quella terapia metacognitiva interpersonale (TMI, Semerari, 1999)- la self-disclosure, l’auto-rivelazione del terapista, svolge un ruolo clinico chiave, essendo uno degli strumenti di cura. E quindi il libro è una self-disclosure del personaggio/autore e di uno dei teorici della TMI?

Eppure, a pensarci bene anche questa commistione di narrazione e terapia non è del tutto nuova. Freud cosa faceva nell’Interpretazione dei Sogni e altrove se non questo? Anche lui, infatti, raccontava casi clinici in cui c’era anche lui non solo come terapeuta ma anche come personaggio. Basti pensare al suo ruolo di personaggio sia nel piccolo Hans che nel caso di Dora, ma anche in altri casi clinici. L’intera Interpretazione dei Sogni è una gigantesca auto-rivelazione di Freud che in essa recita al tempo stesso i ruoli di narratore, personaggio e perfino paziente di sé stesso. E tuttavia si può ancora una volta concedere un margine di originalità: Freud giocava sul confine mantenendosi però, sia pure a stento, al di qua della fiction, mentre in Un attimo prima di cadere Dimaggio l’autore si posiziona, anch’egli a stento, al di là del confine, più nella fiction che nella clinica. Oppure no? Il libro vuole essere un libro di clinica e vuole raccontare l’evoluzione di un ben preciso paradigma clinico, un paradigma che è quello particolare di Dimaggio, la sua variante di TMI che con lui è diventata anche una terapia esperienziale-corporea, e vuole raccontarne in parte anche le circostanze storiche e scientifiche di questa nascita. E per questo quindi, mettendo da parte le considerazioni sugli aspetti letterari del libro, è giusto parlarne anche come opera scientifica.

Un attimo prima di cadere è anche una testimonianza significativa del percorso peculiare del cognitivismo costruttivista italiano, percorso intrigante ma anche a tratti lontano da quello intrapreso nell’area del cognitivismo clinico di Beck. Una testimonianza che è caratterizzata, ancora una volta, dal fatto che essa è comunicata nella forma del romanzo di auto-fiction. In che senso? Nel senso che l’autore presenta sé stesso non solo come terapista o protagonista di una storia personale dolorosa, ma anche come studioso di psicologia che vuole accompagnare il lettore non esperto in psicoterapia cognitiva a comprendere le evoluzioni storiche di questa disciplina. Un’opera meritoria probabilmente, in un panorama in cui la cultura generale -anche quella elevata e non solo quella popolare- sembra essere incapace di andare oltre Freud e Jung lasciando nell’ombra tutto quello che è accaduto dopo la loro morte sia nella psicoanalisi che nelle psicoterapie non analitiche. Per l’uomo della strada ma anche per un accademico o un intellettuale nomi come quelli di Melanie Klein, Donald Winnicott, Carl Rogers, Abert Ellis o Aaron Beck sembrano non dire niente.

E qui però accade qualcosa nel libro di Dimaggio che rende quest’opera particolarmente adatta a capire la particolare evoluzione del cognitivismo clinico italiano. Qualcosa che dipende in parte dalla natura di questo libro, natura che è -scriviamolo ancora una volta- a cavallo tra fiction, auto-fiction e scienza. Questa natura anfibia aiuta l’autore a esporre l’evoluzione della psicoterapia cognitiva degli ultimi vent’anni non solo come studioso che conosce a fondo la letteratura scientifica della psicoterapia ma anche come psicoterapeuta medio, competente sì, ma che fa le sue scelte di aggiornamento professionale e culturale anche in base a preferenze personali. Infatti, in Un attimo prima di cadere il personaggio Dimaggio è costruito così bene e in maniera così credibile da esporre almeno in parte quelli che sono a nostro parere alcune caratteristiche culturali dell’ambiente clinico cognitivista italiano sì come si è formato a partire dagli anni ’70. E questo rende questo libro particolarmente leggibile non solo per l’uomo della strada ma anche per l’intellettuale però a digiuno di psicoterapia.

Queste caratteristiche culturali dello psicoterapeuta cognitivo costruttivista italiano sono rappresentate nel personaggio narratore con un’audacia che rimane in equilibrio tra la volontaria incoscienza e la consapevole ingenuità. Leggiamo ad esempio la franchezza con cui il personaggio narratore esprime la tipica rivalità tra cognitivismo costruttivista e cognitivismo classico alla Beck:

in Italia non si praticava il cognitivismo iper-protocollato che proveniva dagli studi di efficacia. Sembrava a tutti noi un filo rozzo, riduttivo, ci interessava di più la dimensione del significato personale. Impossibile dire se la declinazione tutta italiana che si praticava fosse meglio o peggio dell’ortodossa anglosassone. Io, in assenza di prove certe che nessuno ha mai raccolto, voto per: meglio noi. (Dimaggio, 2020, p. 37).

L’oscillazione tra personaggio e autore si osserva nella disarmante sincerità di quel chiedersi chi sia meglio tra razionalismo e costruttivismo, tra l’altro spudoratamente declinati etnicamente: uno italiano e l’altro anglosassone. E poi nel proclamare la superiorità del costruttivismo insieme all’ammissione della mancanza del dato empirico. Curioso modo di dare la vittoria a chi non ha giocato la partita. Qui è proprio il personaggio che parla, ma un personaggio che riflette realisticamente il modo di pensare di un praticante del cognitivismo che vive una sorta di rivalità tra il modello di riferimento che domina laggiù in America o in Inghilterra e la pratica che si coltiva in Italia e dà la vittoria al proprio ambiente culturale, in un comprensibile momento di vita vissuta e non di scienza applicata. Da un punto di vista scientifico al massimo si potrebbe accordare medesima efficacia ai due modelli, in cui il costruttivismo usufruisce -per osmosi da parentela- della stessa efficacia empiricamente dimostrata solo per il modello di “cognitivismo iper-protocollato”, ovvero il modello di Beck.

Altrettanto realistico ed espressivo è il fatto che altrove, lo stesso personaggio si rammarica che nel suo e nostro paese non sia possibile condurre studi controllati di efficacia della psicoterapia, rammarico che lascia perplessi dopo aver letto l’elogio della flessibilità non iper-protocollata dei terapeuti italiani, flessibilità sicuramente benemerita ma che però non facilita propriamente quegli studi di efficacia di cui lamenta la mancanza il personaggio narratore. Ma sarebbe errato rimproverare all’autore le contraddizioni del suo personaggio, che anzi vanno a merito dell’abilità dello scrittore di rappresentare realisticamente la relazione ambivalente che il cognitivismo italiano vive con la pratica clinica protocollata e riproducibile che permette la verifica scientifica. Che tutta l’operazione sia consapevole è confermato da altri passaggi narrativi che vanno a merito di Dimaggio, tra cui è da segnalarne almeno uno di vera e ammirevole poesia quando il personaggio racconta la nascita del suo amore davanti a un esercizio di disegno eseguito in coppia.

Eppure forse è possibile temere che queste caratteristiche culturali dello psicoterapeuta cognitivista e costruttivista italiano non sono solo costruiti ad arte per rendere realisticamente le umane contraddizioni della psicologia del personaggio ma siano insiti almeno in parte (beninteso, piccola, come è umanamente possibile e accettabile) nell’autore, ma non per sua responsabilità, ma perché inevitabilmente appresi all’interno di quell’ambiente in cui si è formato, un ambiente che a un certo punto ha tagliato in parte i ponti prima con la radice comportamentale del cognitivismo e poi con quella cognitiva classica, entrambe così anglo-sassoni, troppo anglo-sassoni.

Riflessioni su comportamentismo e svolta esperienziale corporea

Focalizziamoci ora solo sull’incrinatura tra psicoterapia cognitiva e radice comportamentale. Su questo punto che la lettura di Un attimo prima di cadere può essere istruttiva. Questa frattura non è stata un evento accaduto solo in Italia, se pensiamo che un simile percorso sia stato imboccato da Michael Mahoney e da Arnold Lazarus, che da una formazione comportamentista approdarono e anzi fondarono la corrente costruttivista del cognitivismo, ripudiando almeno in parte il comportamentismo. Lazarus nel 1977 si chiedeva se la terapia comportamentale fosse sopravvissuta al suo compito storico. Questo ripudio si ripresenta anche nel cognitivismo italiano nell’introduzione del libro di Guidano e Liotti del 1983, tradotto e finalmente pubblicato in italiano nel 2019, quello che è a fondamento del costruttivismo italiano, in cui si esprimevano dubbi sul funzionalismo del modello comportamentale.

Questa separazione tra cognitivismo e comportamentismo è una storia strana. Nato come evoluzione da una teoria comportamentale ritenuta semplicistica, la psicoterapia cognitiva col tempo è sembrata diventare qualcosa di troppo mentale, di troppo separata dal vissuto emotivo. Di qui varie crisi e soluzioni, particolarmente sentite in Italia, in cui si cerca di recuperare l’aspetto esperienziale ed emotivo aprendosi a integrazioni dapprima relazionali e, ultimamente, appunto esperienziali e corporee. La domanda è: perché non recuperare anche gli aspetti comportamentali? Ed è proprio su questo punto che la lettura di Un attimo prima di cadere è illuminante.

Nel percorso del personaggio autore assistiamo alla rappresentazione di questo percorso culturale: l‘adesione iniziale dell’autore/personaggio alla psicoterapia cognitiva, la crisi generata dall’eccessivo razionalismo mentalistico e la soluzione con la svolta dapprima relazionale e poi esperienziale e corporea. E in tutto questo, un rapporto irrisolto con il comportamentismo. Da una parte, il personaggio/autore nella sua svolta esperienziale e corporea non può fare a meno di ammettere che il comportamentismo ha molto in comune con questa svolta. Cosa c’è di più corporeo ed esperienziale di un comportamento? Dall’altro però il personaggio/autore è comunque erede, ed erede orgoglioso, di una tradizione cognitivista e costruttivista che ha rigettato il comportamentismo non solo dal punto di vista teorico ma anche come pratica clinica e formazione. Lo stesso Dimaggio, con la sua solita disarmante sincerità, ammette poche pagine dopo che le tecniche comportamentiste di esposizione le fanno “in quattro gatti” (Dimaggio, 2020, p. 29). Ancora più stupefacente è che le basi teoriche del comportamentismo così come sono state esposte da Skinner sono rifiutate perché esse, secondo l’autore/personaggio, fanno “ribrezzo” (Dimaggio, 2020, p. 27). Ne consegue che il tributo di Dimaggio sia sentito ma vissuto confusamente, come qualcosa con cui in fondo non si è fatto i conti. Inevitabilmente, la successiva svolta esperienziale e corporea del personaggio/autore è sviluppata non rivolgendosi al modello comportamentale (e cognitivo) ma a una (rispettabilissima) radice umanistica e psicodinamica, soprattutto quella che fa capo a Wilhelm Reich e poi al suo allievo Dara Lowen, l’ideatore del grounding.

Questa sensazione è suggerita dal fatto che il comportamentismo nelle sue varie declinazioni verbali è citato meno del pur interessante e sottovalutato Reich (“comportamentismo”, “comportamentale” e comportamentista” naturalmente da soli e non accoppiati a “cognitivo” -fanno in tutto 10 citazioni contro le 12 che Reich si prende da solo; senza aggiungere i termini, esperienziale, corporeo e così via che sbilancerebbero definitivamente il numero di citazioni a sfavore del comportamentismo). Il numero di citazioni è tuttavia un criterio discutibile. Ciò che sembra meno discutibile è che nel libro il comportamentismo è solo citato e descritto rapidamente (da pagina 29 di parla di esposizione) ma mai trattato nelle sue caratteristiche teoriche costitutive, come l’analisi funzionale, cornice tecnica ben ampia dell’esposizione comportamentale, che è solo una tecnica.

Insomma, la curiosità del personaggio narratore verso la svolta esperienziale corporea è genuina, vissuta e particolareggiata in tutti i suoi aspetti, sia clinici che teorici. L’autore parla con passione di Lowen. Al comportamentismo invece va un tributo doveroso alle tecniche ma senza vera sensibilità per i principi teorici. Il problema non è solo di Dimaggio o degli altri clinici di provenienza costruttivista come Mahoney, Lazarus, Guidano e Liotti. In realtà va detto che il rapporto difficile con il comportamentismo è un problema dell’intero movimento cognitivista anche nel suo ramo cosiddetto razionalista alla Beck, il quale ridusse l’intervento comportamentale a una esposizione prescritta in maniera abbastanza ancillare come appendice conclusiva ma non risolutiva dell’intervento cognitivo. Questa sottovalutazione ha avuto i suoi effetti negativi, tra i quali una lacuna formativa per la generazione successiva di terapeuti cognitivisti e/o costruttivisti dopo Beck, Mahoney, Guidano e Liotti che hanno perso ulteriormente contatto con la tradizione comportamentale.

Ora, rigettare la base teorica del comportamentismo per poi accettarne gli interventi comportamentali può sembrare curioso, eppure in fondo è ciò che sempre ha fatto il cognitivismo, a partire proprio da quel Beck razionalista a sua volta rifiutato da Dimaggio. E invece il problema è tutto lì. Il nocciolo del comportamentismo è un nucleo funzionalista in cui le funzioni mentali sono funzioni e non strutture, gli stati mentali non sono sopraordinati a nulla ma sono in rapporto paritario con l’ambiente e quindi le rappresentazioni mentali sia di tipo dichiarativo concettuale che percettivo motorio hanno sempre un effetto e non hanno mai un significato strutturale o un’essenzialità, come diceva Popper. Insomma, proprio in questo disprezzato funzionalismo comportamentale si potrebbe celare la svolta esperienziale più rigorosa e capace di arrivare alle ultime conseguenze teoriche. In questa declinazione, che poi è quella di Skinner, il comportamentismo si rivela un modello complesso che si presenta in vesti apparentemente scarne e rozze.

 

Stimolazione cognitiva: due tipologie di intervento per la demenza lieve e moderata

A seconda di sottotipo e gravità del disturbo neurocognitivo possono essere impiegate diverse tipologie di intervento: a uno stadio lieve-moderato di malattia è possibile applicare protocolli di stimolazione cognitiva, mentre a uno stadio grave è consigliato focalizzarsi sulla qualità di vita.

 

L’aumento dell’aspettativa di vita e il progressivo invecchiamento della popolazione, oltre a dar vita al fenomeno della longevità, hanno portato a un allarmante incremento dei tassi di prevalenza dei disturbi neurocognitivi. In un rapporto sull’epidemiologia della demenza a cura dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e dell’Alzheimer’s Disease International (Prince et al., 2015) tale patologia è risultata essere una “priorità mondiale di salute pubblica”.

Secondo il recente World Alzheimer Report (Patterson, 2018), attualmente nel mondo ci sono circa 50 milioni di persone che soffrono di disturbi neurocognitivi e si prevede che entro il 2050 i casi saliranno a 152 milioni, con stima di una diagnosi di demenza ogni tre secondi. Tali numeri, chiaramente, comportano rilevanti implicazioni economiche, con un costo attuale della patologia di circa un trilione di dollari l’anno, destinato a raddoppiare entro il 2030.

Il quadro appena descritto ha determinato un incremento in rapida evoluzione delle pubblicazioni scientifiche sui trattamenti farmacologici e psicosociali, con l’obiettivo di permettere un rallentamento della progressione della malattia (De Beni et al., 2015).

Per quanto riguarda il trattamento farmacologico, allo stato attuale vengono impiegati farmaci sintomatici che agiscono sulla sfera cognitiva e/o sui disturbi del comportamento, inducendo però spesso effetti collaterali che peggiorano la percezione di benessere dell’anziano (Fagherazzi et al., 2009). Questo parziale fallimento farmacologico ha aperto, così, la strada a interventi di tipo psicosociale. A seconda del sottotipo e della gravità del disturbo neurocognitivo possono essere impiegate diverse tipologie di intervento psicosociale: a uno stadio lieve-moderato di malattia è possibile agire sulla sfera cognitiva tramite protocolli di stimolazione cognitiva, mentre a uno stadio grave è consigliato focalizzarsi sulla qualità di vita, proponendo strategie gestionali per i disturbi del comportamento, un ambiente protesico e la stimolazione sensoriale.

Relativamente alla stimolazione cognitiva, essa può essere definita come il coinvolgimento di persone con invecchiamento patologico in attività di gruppo e discussione che favoriscono la socializzazione ed effetti positivi sulla qualità di vita, sul benessere e sul funzionamento cognitivo globale tramite la creazione di un ambiente arricchito (Clare & Woods, 2004).

Esistono numerosi protocolli di stimolazione cognitiva che si differenziano per numero e durata delle sessioni oltre che per le attività proposte. Le due tipologie analizzate nel presente articolo sono i “100 Esercizi di stimolazione cognitiva” di Bergamaschi e colleghi (2008), nato nel contesto italiano e conosciuto a livello nazionale, e la Cognitive Stimulation Therapy di Spector e colleghi (2006), conosciuto e validato a livello mondiale.

100 Esercizi di Stimolazione Cognitiva (Bergamaschi et al., 2008)

L’eserciziario “Demenza. 100 esercizi di stimolazione cognitiva” proposto da Bergamaschi e colleghi (2008) è un esempio di intervento restitutivo che utilizza esercizi carta-matita, applicabile in gruppo o individualmente, rivolto a pazienti con Disturbo Neurocognitivo Maggiore di grado lieve-moderato. È composto da 100 esercizi strutturati, suddivisi in cinque macro-aree (orientamento, attenzione, memoria, linguaggio e ragionamento logico), e per ognuno di questi esercizi dà indicazioni sulle funzioni cognitive stimolate, sui materiali necessari, sul grado di difficoltà  e sulle possibili varianti, oltre che una serie di suggerimenti per il riabilitatore.

Lo svolgimento degli esercizi in gruppo permette la stimolazione non solo cognitiva, ma anche della vita sociale dei soggetti, rilevante per il benessere e la qualità di vita, specie nei contesti istituzionalizzati. Gli studi effettuati dimostrano che i migliori risultati si ottengono in un piccolo gruppo (4-5 persone) e omogeneo per stadio di malattia, affinché tutti siano in grado di svolgere i compiti richiesti e ottengano lo stesso livello di attenzione da parte del riabilitatore, prevenendo così demotivazione e drop out (Quaia et al., 2006). È consigliato inoltre proporre le sessioni con regolarità, mantenendo lo stesso giorno della settimana, lo stesso orario e lo stesso luogo, al fine di facilitare la partecipazione e l’orientamento spazio-temporale. Dal lavoro di Mapelli e colleghi (2013) emerge che l’utilizzo di questa tipologia di stimolazione cognitiva comporta maggiori benefici non solo sulla sfera cognitiva ma anche sul comportamento rispetto alla terapia occupazionale e alle attività abituali proposte in RSA. Un aspetto limitante di questo strumento è però l’assenza di indicazioni nel manuale su come strutturare le sessioni, quante proporne e con quale durata.

Cognitive Stimulation Therapy (Spector et al., 2006)

Una seconda tipologia di trattamento è la Cognitive Stimulation Therapy (CST) proposta da Spector e colleghi (2006). In questo caso, la stimolazione cognitiva avviene attraverso il coinvolgimento dei partecipanti in attività a tema e di discussione (Clare & Woods, 2004). La CST prevede un protocollo strutturato con evidenze di efficacia terapeutica, specie nelle fasi iniziali del decadimento cognitivo (Buschert et al., 2010). L’obiettivo è quello di ri-orientare la persona nello spazio, nel tempo e riguardo sé stessa, potenziando il funzionamento cognitivo generale, sociale e relazionale (Spector et al., 2006).

La CST è ormai un approccio usato a livello mondiale, vanta infatti linee guida che permettono di adattarla alle diverse culture (Aguirre et al., 2014). È, inoltre, raccomandata dalle linee guida internazionali (National Institute for Health and Clinical Excellence, NICE, 2018), rappresentando un vero e proprio gold standard. Nata in Inghilterra dove ha ottenuto numerose evidenze di efficacia (Cove et al., 2014) e validata anche in Italia (Gardini et al., 2015; Capotosto et al., 2017), la CST è collocabile in un modello di Cura Centrata sulla Persona (Kitwood, 1997; Spector & Orrell, 2010).

L’adattamento italiano del manuale (Gardini et al., 2015) offre una guida precisa circa i materiali necessari e le attività a tema da proporre a ogni incontro, di difficoltà diversa a seconda che il gruppo di partecipanti abbia una demenza di grado lieve o moderato.

È possibile proporre il programma base, 14 sessioni di 45 minuti due volte la settimana, e il programma di mantenimento, 24 sessioni di 45 minuti una volta la settimana.

Numerosi studi randomizzati controllati hanno evidenziato l’efficacia della CST sul funzionamento cognitivo globale e sulla qualità della vita (Spector et al., 2006; Aguirre et al., 2013), con aumento del benessere psicologico e delle interazioni sociali (Woods et al., 2012) e con una riduzione dei sintomi comportamentali e psicologici (Woods et al., 2006). Sembra che a beneficiare di essa sia in particolare il linguaggio (Chapman et al., 2004; Spector et al., 2010). Di notevole interesse è il fatto che i risultati ottenuti con la CST siano sovrapponibili a quelli ottenuti con gli anticolinesterasici (AchEI) e che i risultati migliori si ottengono con l’azione combinata di stimolazione cognitiva e somministrazione di AchEI (Ballard et al., 2011). È bene prendere in considerazione anche i risultati emersi dalla recente review di Lobbia e colleghi (2018) circa l’efficacia della CST sulla base di dodici studi pubblicati tra il 2001 e il 2017. Emerge, infatti, un moderato livello di evidenza sull’efficacia della CST per quel che riguarda la qualità di vita, il linguaggio e il funzionamento cognitivo generale, mentre sono minori le evidenze sui domini cognitivi specifici (memoria, prassia e orientamento) e non vi è nessun impatto su ansia, attenzione e funzioni esecutive. Infine, ciò che accomuna tutti gli studi è l’assenza di effetti negativi legati al suo utilizzo (Woods et al., 2012) e i costi economici contenuti (Knapp et al., 2006) che fanno della CST un intervento raccomandabile.

La facilità di essere consapevoli. Recensione di “Mindfulness, più focus, meno stress” (2021) di Riccardo Caserini

Il testo Mindfulness, più focus, meno stress inizia con un tratto biografico dell’autore che spiega la sua “conversione” alla mindfulness e i motivi che l’hanno spinto a indagarla e farne uso quotidiano.

 

Ciò che sorprende rispetto agli innumerevoli libri sullo stesso tema, è il taglio semplice ma non banale che Caserini dà alla spiegazione del perché è utile questo atteggiamento (come lui stesso lo definisce) e del come metterlo in pratica: si parte dalla postura, elemento fondante e imprescindibile della pratica formale della mindfulness, per poi passare a una rassegna di esempi su come praticarla in modi differenti. C’è poi la pratica informale ovvero il mettere in atto il processo in ogni momento e situazione. Oltre agli aspetti legati alla pratica meditativa in sé, è interessante tutto il reportage sulle adozioni di questa metodologia da parte di innumerevoli aziende, molto famose, che hanno ottenuto dei benefici enormi.

L’OMS inoltre non parla più tanto di PIL ma di benessere delle persone, o indice della qualità della vita, segno che i tempi stanno cambiando, anche, come spiega l’autore, in seguito agli effetti della pandemia.

Vengono mostrati anche i risultati di ricerche neuroscientifiche che confermano un aumento dello spessore corticale della neocorteccia prefrontale, relativa diminuzione dell’amigdala (legata a emozioni quali ansia e depressione) e aumento conseguente dello spazio decisionale tra stimolo e risposta, depotenziando l’azione intuitiva della parte rettiliana del cervello. Notevole, infine, la spiegazione di come l’evoluzione darwiniana non è più da spiegarsi nel senso della sopravvivenza del più forte, bensì del più adattabile al cambiamento, capacità che la mindfulness contribuisce a creare e potenziare.

Il libro si conclude con una formula sintetica racchiudente tutti i concetti espressi nei capitoli precedenti: dalla mindfulness deriva la consapevolezza, da questa la generosità (avendo capito di possedere molte cose e che è un bene condividerle, insight che subentra dopo aver acquisito maggior consapevolezza), poi la gentilezza che migliora le relazioni sociali e quindi la felicità, strettamente legata al successo. L’importante è creare l’abitudine di praticare il processo e soprattutto l’abilità di spostare l’attenzione dev’essere costantemente allenata per arrivare a introdurre la mindfulness nella quotidianità, e tutto questo, dopo aver letto il libro sembra davvero essere alla portata di tutti. Si tratta infatti di osservare la realtà per quello che è, accettarla, accettare il nostro stato d’animo e focalizzare l’attenzione sulle sensazioni corporee e sul respiro, inspirando ed espirando consapevolmente.

 

La nostalgia: un processo omeostatico di cura del dolore

Il termine nostalgia fu coniato nel 1688 da Johannes Hofer, che ne elaborò una visione disfunzionale e dannosa, visione che è persistita per oltre 300 anni.

 

A cavallo del ventesimo secolo, la nostalgia è stata considerata un’emozione malsana caratterizzata dalla solitudine o dalla tristezza (Batcho, 2013a). Hofer e i suoi contemporanei, tuttavia, commisero un errore inferenziale, ipotizzando un percorso causale dalla nostalgia alla tristezza, basandosi unicamente sulla loro co-occorrenza. Di contro, recenti lavori empirici hanno documentato un percorso inverso: le esperienze sconfortanti evocano la nostalgia, che, a sua volta, opera come risorsa di coping (Sedikides et al., 2015).

Il lutto è un’esperienza caratterizzata da una varietà di sintomi psicologici e fisici angoscianti (Fagundes & Wu, 2020). Le persone che subiscono la perdita di una persona cara possono provare tristezza, senso di colpa, rabbia, ansia (Hogan et al., 2001), nonché mal di testa, vertigini, mal di stomaco e disturbi del sonno (Pennebaker, 1982). Inoltre, esse sono più suscettibili a condizioni psichiatriche, come il Disturbo Depressivo Maggiore, disturbi legati all’ansia e, specialmente nei casi di perdita traumatica o improvvisa, il Disturbo da stress Post-traumatico.

Il lutto è un fenomeno complesso che può prendere vari corsi (Bonanno et al., 2011). Indipendentemente da ciò, anche se le reazioni individuali al lutto possono essere varie, perdere una persona cara è generalmente un’esperienza angosciante che pone gli individui in una condizione di rischio per la salute.

Cosa contribuisce all’angoscia degli individui in lutto? Essi possono impegnarsi in valutazioni negative generali e specifiche dell’evento, rievocando immagini ricorrenti sulla morte del loro caro, così come possono manifestare pensieri ruminativi (Lafarge et al., 2019). Questi ricordi sono associati a un’elevata angoscia e ad una maggior gravità della depressione (Baddeley et al., 2015).

Mentre i processi disadattivi come la ruminazione aumentano l’angoscia, altre forme di valutazione possono essere benefiche. Sia il sense-making (Bogensperger & Lueger-Schuster, 2014) che la nostalgia, sono stati collegati ad una miglior crescita post-traumatica. Difatti, contrariamente a ciò che si potrebbe pensare, la nostalgia può consentire agli individui di mantenere la vicinanza con i defunti, pur rimanendo liberi da risentimenti disadattivi.

La “fantasticheria nostalgica” corrisponde alla riflessione sui momenti significativi del proprio passato e può comportare una progressione da un ricordo di un evento di vita negativo, ad uno positivo (Abeyta et al., 2015).

La nostalgia coinvolge processi emotivi e cognitivi più complessi rispetto alle emozioni di base e determina un impulso a dirigersi verso stimoli positivi, essenziali per un adattamento fisico e psicologico di successo (Elliot, 2008). Inquadrando la nostalgia come uno stato psicologico orientato all’approccio, Sedikides et al. (2015) hanno proposto un modello normativo o omeostatico, secondo il quale la nostalgia opera come un meccanismo correttivo, volto ad alleviare l’impatto negativo determinato da eventi avversi. Batcho (2013b) ha evidenziato la mancanza di una relazione tra la nostalgia e le strategie di evitamento, sottolineando come “le teorie che descrivono la nostalgia come un ritiro in un passato idealizzato e inesistente” siano inaccurate. Piuttosto, l’autore ha sottolineato come la nostalgia favorisca le strategie di coping. La nostalgia, quindi, ha proprietà motivazionali (Abeyta & Routledge, 2016) ed è associata a risposte costruttive, proattive ed orientate al futuro (Batcho, 2013b; Cheung et al., 2019).

Dunque, i risultati empirici indicano che la nostalgia agisce come una risorsa di regolazione in presenza di stati di disagio (Wildschut & Sedikides, 2020). Tuttavia, fino ad oggi, la ricerca non ha esaminato se la nostalgia possa aiutare gli individui a far fronte a un’esperienza estremamente sconfortante come il lutto. Secondo la visione radicata della nostalgia come disadattamento (Sedikides et al., 2004), ci si aspetterebbe che una perdita personale possa far sprofondare gli individui altamente nostalgici in un’ulteriore spirale negativa. Tuttavia, secondo una fiorente letteratura (Sedikides & Wildschut, 2019), alti livelli di nostalgia aiuterebbero gli individui in lutto ad affrontare la loro perdita.

In uno studio longitudinale, alcuni autori hanno valutato la misura in cui le persone in lutto hanno riportato pensieri intrusivi, iperarousal ed evitamento.

I ricercatori hanno ipotizzato che livelli più alti di nostalgia avrebbero predetto riduzioni dell’angoscia relativa alla perdita di una persona cara.

Allo studio hanno preso parte 133 studenti, che avevano subito la perdita di una persona cara nei due anni precedenti.

Coerentemente con quanto ipotizzato, i risultati hanno mostrato che la nostalgia predice riduzioni dell’angoscia tra gli individui in lutto. Gli individui che avevano sperimentato una maggiore nostalgia hanno riportato, nel tempo, una diminuzione dei pensieri intrusivi. Inoltre, l’iperarousal e, dunque l’irritabilità e determinate reazioni fisiche legate alla perdita, è diminuito nel tempo tra gli individui che hanno sperimentato una maggiore nostalgia. Ulteriormente, non si sono verificati cambiamenti nell’evitamento.

In generale, la nostalgia ha aiutato i soggetti tamponando l’impatto del lutto nel tempo senza incoraggiare strategie di fuga. Indipendentemente dal livello iniziale di dolore, livelli più alti di nostalgia prevedevano riduzioni dei pensieri intrusivi.

Gli individui si relazionano al passato attraverso una varietà di mezzi, ma la nostalgia opera come un metodo più positivo e costruttivo di connessione con il passato (Cheung et al., 2018). In questo modo, la nostalgia può aiutare gli individui in lutto a riflettere su una perdita con meno angoscia e perseguire una traiettoria più costruttiva.

Gli individui possono rievocare i ricordi positivi e sono meno propensi a evitare quelli spiacevoli.

I risultati comportano implicazioni cliniche per coloro che lavorano a stretto contatto con le persone in lutto: l’importanza della nostalgia identificata nel presente lavoro è strettamente correlata a varie terapie cognitive di terza generazione, come l’Accepance and Commitment Therapy (Hayes et al., 2009) ed altri approcci basati sulla consapevolezza, che cercano di modificare la propria reazione ai pensieri, piuttosto che cambiare i pensieri stessi. Dunque, i professionisti che assistono le persone in lutto possono essere in grado di aiutare i pazienti ad affrontare meglio la situazione favorendo la nostalgia attraverso sessioni regolari.

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