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Forze del destino. Psicoanalisi e idioma umano – Recensione del libro

Bollas nel suo volume Forze del destino. Psicoanalisi e idioma umano presenta il suo tentativo di integrare, confrontare, di spingersi oltre l’orizzonte conoscitivo sino a questo momento conquistato.

 

Cristopher Bollas, psicoanalista britannico, noto per i numerosi contributi nel panorama psicoanalitico internazionale, ci presenta Forze del destino. Psicoanalisi e idioma umano, il suo contributo più recente, edito ancora una volta da Cortina, in cui propone al lettore, in un tentativo originale e finemente articolato, di illuminare il destino del vero sé, la sua teoria sulla “forza del diventare”.

Il tema scelto per questo libro racconta senz’altro l’ambizioso compito di Bollas di rendere dicibile quella parte del lavoro analitico che può essere difficilmente restituita e del suo rapporto con l’enigmatico nucleo della personalità dell’uomo. Si tratta del frutto di una lunga analisi, com’è lui stesso a rivelarci, nata da un controverso intrecciarsi di teoria, clinica e vita personale, che tenta di aprire uno spazio di riflessione sull’uso che il paziente fa in analisi dell’analista come oggetto.

Bollas crede che la strada migliore per seguire questo proposito sia quella di partire da qualcosa che conosciamo, attingere ai contributi di eminenti esponenti del panorama psicoanalitico per poterne arricchire, ampliare e innovare le visioni. Con un’attenzione particolare ai concetti di vero e falso sé di Winnicott, della percezione endopsichica freudiana e della preconcezione di Bion, contributi che non siamo riusciti ad utilizzare per questo scopo, Bollas presenta il suo tentativo di integrare, confrontare, di spingersi oltre l’orizzonte conoscitivo sino a questo momento conquistato.

È una proposta intrigante quella che ci viene offerta, e al richiamo “Vero sé da questa parte!”, non possiamo che rispondere avanzando lungo la strada che sembra aver tracciato per noi, alla ricerca di una cura per la nostra unicità danneggiata. Di fatto, che quest’ultima possa essere stata poco riconosciuta, mal colta, ignorata, è una questione nota e molto probabilmente assai comune, meno nota è la storia, lo sono le peculiarità, gli itinerari, le coordinate spazio-temporali, le forze benefiche e ostili, le persone e le risorse che ne determinano il suo esprimersi.

Chi sarà disposto a lasciarsi guidare, dalla periferia al centro, nelle trame sempre più fitte del suo discorso potrà abbracciare con una chiarezza crescente la funzione della psicoanalisi di salvaguardare e accompagnare l’unicità della persona al suo compimento.

Partendo dal processo analitico, del quale l’autore mette in risalto la procedura decostruttiva e rielaborativa, nonché la necessaria posizione analitica e ricettiva dell’analista, quest’ultima riscontrabile proprio nel momento in cui l’analista viene usato come oggetto nel transfert, Bollas ne evidenza la loro necessaria integrazione affinché il paziente possa entrare in contatto e dare al suo vero sé la possibilità di esprimersi.

Il suo nucleo, che chiama “idioma”, non può che essere dipendente dalle prime esperienze del bambino con una madre ricettiva e facilitante e che promuove la sua articolazione, il suo procedere. Si tratta di una madre capace di amare il suo bambino nel senso più profondo che possiamo attribuirgli, che corrisponde al riconoscimento pieno di quello che egli è, l’unico necessario per essere se stesso.

Come sostiene Bollas (2021), infatti, “L’armonia tra genitore e bambino determinerà notevolmente l’evoluzione del bambino in termini di compimento del proprio destino (vero Sé) o il fatto che la sua vita sembri dominata dagli interventi del fato (falso Sé)” (p.101).

Se avessimo la possibilità di sfruttare una prospettiva longitudinale per osservare quanto egli afferma, le sue parole sembrerebbero più immediatamente comprensibili. Quello che intende dire è che ci troviamo di fronte a due condizioni, influenzate dalle cure materne, in divenire, la prima, immobile, la seconda. Quest’ultima, dominata dal fato, ci racconta di un soggetto impotente e incapace di agire attivamente sulla sua vita, svuotato di opzioni future e che si fa testimonianza della perdita di tutti i sé potenziali che non hanno avuto la possibilità di esprimersi.

Ci potremmo chiedere a questo punto cosa spinga il soggetto a compiere il destino del vero sé. Secondo Bollas, esiste in ognuno di noi una forza, che chiama in modo assolutamente acuto “pulsione del destino”, che si palesa attraverso l’uso di oggetti nel corso dell’esistenza e, come lui stesso sostiene, “[…] ogni tanto il perturbante connubio tra idioma e oggetto che si incontrano in un momento preciso, ci trasformerà” (Bollas, 2021, p.43). Come si può intuitivamente comprendere, uno di questi oggetti è proprio l’analista, la cui presenza farà emergere il desiderio nel soggetto.

A mio avviso, però, il frammento, in cui Bollas chiarisce meglio e condensa il significativo legame tra la pulsione del destino e psicoanalisi è quello in cui afferma:

La psicoanalisi è particolarmente adatta all’analisi e alla facilitazione dell’idioma del vero Sé perché l’analista, che “fornisce” al paziente un campo di oggetti (elementi della personalità dell’analista, elementi della procedura psicoanalitica, elementi di concetti psicoanalitici), crea un universo di oggetti talora osservabili nel quale il paziente si muove. Usando e organizzando gli oggetti, il paziente può vivere il vero Sé in queste esperienze (Ivi, pp. 98-99).

Bollas fa partire, dunque, la sua riflessione, “sull’uso dell’oggetto”, dall’uso che il bambino fa della madre, recuperando i contributi di Winnicott, e ricordando che, laddove le cure materne riusciranno a sostenere il senso di illusione del bambino, egli potrà evolversi. Facilitando in lui l’uso dell’oggetto transizionale, un oggetto reale che consentirà al bambino la distinzione tra il me e il non me, la madre gli permetterà di accedere a quell’area dell’esperienza che è intermedia tra quella interna e quella esterna.

Viceversa, un’esperienza opposta, fatta di cure materne insufficienti e poco responsive, contribuirà alla creazione, come ricorda Bollas, di uno spazio immaginario, uno spazio alternativo. In esso il bambino collocherà tutti gli oggetti alternativi, che Bollas ci presenta come spettri, proprio per restituirci la loro vitalità perduta.

Analizzare il rapporto che il bambino intrattiene con questi fantasmi, ci aiuta a riconoscere la loro funzione. Ricorrevi, infatti, consente al bambino di mantenersi distante dal mondo reale e dal rapporto con le persone reali che lo popolano. Sarebbe un errore, però, considerare il mondo alternativo, un mondo patologico di per sé, infatti, come Bollas (2021) ci ricorda, “[…] tutti abbiamo una linea spettrale e nutriamo lo spirito di un oggetto (come nel lutto)” (p.129), è, invece, il suo ostacolare in modo definitivo l’instaurarsi dello scambio tra il dentro e il fuori, a renderlo tale.

La solidità dell’amore del bambino per la madre rappresenta, possiamo dirlo, la sua garanzia perché la distruzione o le ripetute distruzioni possano non compromettere il suo uso. Qui la distruzione, come accade nell’uso dell’oggetto analista da parte del paziente, deve essere colta nella sua accezione positiva; è creativa e appartenente a quelli che comunemente chiamiamo istinti di vita.

Per Bollas, l’analista può essere promotore di questa esperienza a patto che manifesti la sua disponibilità e la sua comunicazione ad essere utilizzato in questo senso. Più nel dettaglio, egli si riferisce alla possibilità che l’analista conceda elementi della sua personalità per favorire l’articolarsi del vero sé del paziente, il conosciuto non pensato, proprio in quello spazio intermedio in cui sarà la libertà di gioco a influenzare l’esperienza.

Se quindi da una parte il discorso di Bollas ci conduce verso lo spazio condiviso, dall’altra il suo interesse non smette mai di essere focalizzato sull’analista, oltre che sul paziente. Un motivo di accurata riflessione in tal senso è rappresento dalla sensibilità analitica e dalla consapevolezza dell’analista di occupare la controversa posizione di essere oggetto e soggetto allo stesso tempo all’interno dell’analisi.

La consapevolezza di quest’ultima posizione, in particolare, è ciò che consente all’analista di prestare attenzione a ciò che dice e sente, di correggere le sue associazioni, laddove ne riscontri l’inadeguatezza, dare spazio dunque al disaccordo del paziente e sentirsi libero di comunicargli la discrepanza con la sua visione. Scontrarsi, allora, e in seguito incontrarsi con il non sapere rappresenta per l’analista il suo punto di arrivo; riservare a questa capacità il prezioso valore che possiede, significa riconoscergli la capacità di generare uno spazio potenziale in cui il vero sé del paziente possa esprimersi.

Ecco che: “Essere ignoti a noi stessi non è necessariamente una carenza: abbiamo bisogno dell’inconscio per fare un uso creativo del conscio” (Bollas, 2021, p.62), e questo è quanto mai vero nel lavoro interpretativo, che non può che essere costruito dalla “dialettica dei due sistemi inconsci”, quello del paziente e dell’analista.

Agli analisti chiede, infatti, “intelligenza analitica”, ossia la capacità di analizzare gli istinti di morte e di vita, impedendo il verificarsi del fenomeno secondo cui, l’affetto, l’amore, la creatività del paziente, scarsamente affrontati o avvicinati con la prudenza con cui ci si avvicina a un armamentario difensivo, finiscano per essere oscurati dalle forze opposte, in fondo, e a dispetto delle apparenze, un oggetto più agevole di studio.

La conversazione con il lettore si fa a questo punto più intima, e per dare voce, proprio a ciò che viene dimenticato, Bollas introduce il concetto di “celebrazione dell’analizzando”, ponendo in primo piano il ponte che questo intervento dell’analista è in grado di introdurre tra la vita reale e mondo interiore.

Più nel dettaglio, con la celebrazione dell’analizzando l’analista risponde affettivamente con i suoi commenti agli aspetti del vero sé del paziente che trovano in questo modo lo spazio per essere riconosciuti ed elaborati. Il suo richiamo all’umorismo, il suo riconoscersi un “cretino”, nelle esperienze con i suoi pazienti, ecco che diventano terreno di conoscenza, uno spazio reciprocamente in-formativo e creativo.

Facendoci accedere alla stanza d’analisi, affollata di pazienti compromessi da ambienti affettivi deprivanti, Bollas ci presenta il differente uso dell’oggetto e del lavoro analitico compiuto da paziente e analista.

Mentre i pazienti spettrali sconvolti dalla vitalità dell’analista lo ingaggiano in una lotta per far prevalere la morte sulla vita, i pazienti tossicodipendenti rendono instabile la capacità dell’analista di restare sul qui e ora, il loro tentativo è quello di portarlo altrove, nel loro viaggio allucinato.

Tuttavia, Bollas individua in queste persone, in cui è interrotto il contatto tra la psiche e l’Io, una luce oltre il buio – a quegli aspetti del sé che non sono stati elaborati – che chiama processo conservativo: “[…] il bambino conserva un’esperienza relativamente immutata e non trasformata nella speranza che un giorno o l’altro possa essere rivissuta alla presenza di un oggetto trasformante (amico, amante o analista)” (Bollas, 2021, p.137).

Differente è l’esperienza dell’antinarcisista, il paziente che, più di altri, sembra offrirgli l’occasione per analizzare quanto la pulsione del destino possa essere osteggiata dalla persona che gli si oppone con la distruttività delle sue idee, che sono mosse da un falso sé necessario all’occultamento di quello vero.

Ognuno dei pazienti che Bollas ci consente di conoscere, attraverso la sua esperienza, reca la testimonianza dell’emblematica forza che spinge l’uomo nel corso della sua esistenza a spodestare il fato, e la sua definitiva sentenza, proprio per consentire al vero sé di esprimersi.

Nei tre temi che seguono, il trauma dell’incesto, il legame tra gli ordini di tempo, materno, paterno e psicobiologico e il ruolo della memoria nella conservazione degli stati del sé, Bollas conclude e completa la lunga analisi.

Partendo dal trauma dell’incesto, è alla più devastante violazione della mente, oltre che del corpo, il luogo a cui Bollas vuole condurre l’attenzione del lettore. Del padre, che entra “sotto la pelle psichica della madre” e che sostituisce nella bambina la realtà dove prima c’era l’immaginazione, Bollas segnala come comprometta severamente la strutturazione della sua psiche. Dove non c’è un contenitore buono, anche l’esperienza analitica può essere vissuta come un’esperienza che attacca il sé; questo è vero almeno all’inizio dell’analisi.

Possiamo a questo punto chiederci se il vero sé si esprima all’interno di coordinate spazio-temporali. Ecco, allora, che un episodio comune, quella vita familiare, può diventare occasione per riflettere sul modo in cui nel bambino possa verificarsi in modo adeguato, o viceversa, l’integrazione dei tre ordini di tempo materno, paterno e psicobiologico necessari per la sua organizzazione psichica.

La prima esperienza del bambino è di un tempo atemporale, quello materno – come è intuibile – tutto rispondente ai bisogni del bambino e molto differente dal tempo paterno, del dovere e della socialità. Ma il bambino, che vive l’atemporalità del tempo materno, inizia piano piano a sperimentare anche la sua temporanea assenza, ed è verso questi movimenti che Bollas convoglia la sua attenzione, nel tentativo di chiarire in che modo possano facilitare l’integrazione dei tre ordini di tempo.

Quando questa integrazione risulta difficile, il bambino non mancherà di dimostrarlo e il suo timore che il padre possa non fare ritorno nel tempo della casa, dal tempo del lavoro, rifletterà la sua preoccupazione per quelle parti del sé che sente fragili e incapaci di integrare questi tre ordini di tempo.

Nella vita adulta continuiamo a mediare la natura di questi diversi ordini temporali. La temporalità e l’atemporalità si uniscono sempre più nel ricordo, in cui colleghiamo i due ordini in quello che chiamiamo il passato: un luogo che collega l’atemporale con il temporale. E il nostro tempo corporeo, dovuto allo svolgersi dei suoi progressi, alla fine ci informa della morte che sarà il nostro tempo finale, forse quel momento in cui tutti gli ordini del tempo si riconoscono e si unificano (Bollas, 2021, p.178).

Come avevo anticipato, Bollas conclude la sua analisi proprio riservando uno spazio specifico all’indagine sul ruolo ricoperto della memoria nel compimento dell’unicità della persona. Quello che intende mettere in risalto della memoria è la sua funzione operativa, introducendo il concetto di serie storica e mostrando il suo incontro con la psicoanalisi.

Le serie storiche sono biblioteche interiori che mettono le esperienze del Sé a disposizione del lavoro futuro” (Bollas, 2021, p.193). In sostanza, contengono le esperienze precedenti del sé che sono state conservate per poter essere elaborate successivamente. Quindi, se da una parte il processo conservativo è ciò che consente al paziente di non perdere questi sé, come ci ricorda Bollas, “È a partire dal processo ricettivo e dalla procedura evocativa che gli stati conservati del Sé vengono vissuti in presenza dell’analista” (Ivi, p.187).

Ecco, allora, che l’incontro tra paziente e analista consente il realizzarsi della loro doppia funzione, di conservazione e di elaborazione degli stati del sé, “il dipanarsi del discorso dell’inconscio”.

Tuttavia, le serie storiche contengono anche tutto ciò che non può essere comunicato, proprio perché appartenente all’esperienza specifica di ognuno, alla sua solitudine.

Il vero sé, infatti, come sostiene Bollas (2021): “[…] non può essere descritto completamente. Non somiglia tanto all’articolazione dei significati in parole che consentono di isolare un’unità di significato, come nella localizzazione di un significante, quanto al moto della musica sinfonica. Ma anche questa analogia non fa giustizia all’effimera formazione dell’esperienza del vero Sé. Ognuno inizia la vita con un vero Sé. È un potenziale ereditario che viene alla luce in seguito alle stimolazioni dell’esperienza” (p. 99); così come il suo corso in analisi “è questa esperienza del momento”.

 

10.000 passi al giorno a beneficio della salute mentale

A partire dalle evidenze dei miglioramenti fisici associati all’attività fisica, e nello specifico al percorrere 10.000 passi giornalieri, l’indagine di Hallam et al. (2018) ne ha valutato l’impatto sui fattori psicologici quali benessere, stress, ansia e depressione.

 

Si prevede che entro il 2030, la malattia mentale impatterà globalmente a livello economico per oltre 6 miliardi di dollari, diventando più dispendiosa delle malattie cardiovascolari, delle malattie respiratorie croniche, del cancro e del diabete (Bloom et al., 2011).

La psicopatologia comporta un rischio elevato di morbilità e mortalità precoce per problemi di salute (De Hert et al., 2011), ulteriormente aggravato dall’impiego di psicofarmaci impiegati per farvi fronte (Correll et al., 2015). La carenza di specialisti della salute mentale nei paesi a basso e medio reddito, oltre alla non equità di accesso al trattamento nei paesi a basso reddito, testimoniato dal 75%-85% delle persone con problemi di salute mentale che non viene trattato (Funk et al., 2012), sono solo alcuni dei motivi che rendono rilevante il ruolo della prevenzione primaria e degli interventi a livello di popolazione per migliorare la salute mentale ed il benessere.

Sebbene l’attività fisica sia in grado di prevenire alcune patologie fisiche, è stata poco presa in considerazione nel contesto della malattia mentale e per la salute mentale (Booth et al., 2002; Callaghan, 2004; Stanton et al., 2015). Studi epidemiologici dimostrano che un’adeguata attività fisica riduce i sintomi depressivi (Lucas et al., 2011) e, viceversa, se insufficiente, può essere un fattore di rischio per l’insorgenza della sintomatologia depressiva (Hiles et al., 2017). Infatti Cooney et al. (2014) hanno riscontrato che l’attività fisica in individui clinicamente depressi può essere un importante trattamento aggiuntivo, in grado di ridurre moderatamente i sintomi depressivi.

L’attività fisica agisce sull’umore riducendo l’attività del sistema nervoso simpatico e la reattività dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene nel cervello (Rimmele et al., 2007). Inoltre, incrementa i livelli di serotonina e noradrenalina, similmente ai farmaci antidepressivi (Meeusen& De Meirleir, 1995), oltre a favorire il rilascio del fattore neurotrofico derivato dal cervello (BDNF), comportando miglioramenti cognitivi, emotivi e comportamentali (Meeusen & De Meirleir, 1995). Smits et al. (2008), hanno dimostrato che un minimo di sei sessioni di 20 minuti su tapis roulant consente di ottenere in due settimane miglioramenti anche a livello dell’ansia.

Prevenire l’ansia e la depressione, e quindi l’impatto dello stress, è rilevante al fine di limitare l’insorgenza di una psicopatologia. Svolgere attività fisica comporta un maggiore benessere in quanto riduce l’impatto dello stress sulla salute fisica e mentale (Brown et al., 2012; Fletcher et al., 1996).

L’Organizzazione Mondiale della Sanità considera preziosi gli interventi sul posto di lavoro che promuovono il miglioramento della salute dei lavoratori (Proper& Van Mechelen, 2007). I programmi basati sull’impiego del pedometro possono contribuire ad incentivare l’attività fisica, riducendo il peso corporeo, i lipidi nel sangue ed il rischio di diabete (Faghri et al., 2008; Ganesan et al., 2016; Glance et al., 2016). Il benessere raggiunto, grazie a questi programmi, ha impattato positivamente sullo stress dei partecipanti (Glance et al., 2016).

Nei programmi basati sui passi, l’obiettivo di percorrerne 10.000 al giorno (8 km) supera di gran lunga i 150 minuti di attività fisica a settimana raccomandati dall’OMS. A partire dalle evidenze dei miglioramenti fisici associati al percorrere 10.000 passi giornalieri, Hallam et al. (2018) hanno proposto ai soggetti del loro studio di partecipare a un programma di 10.000 passi per 100 giorni, valutandone l’impatto sui fattori psicologici quali benessere, stress, ansia e depressione.

Partendo dal presupposto che gli individui trascorrono almeno metà della vita lavorando, il presente studio ha effettuato l’indagine sul luogo di lavoro, ambiente significativo per promuovere il cambiamento della salute e favorire il benessere (Conn et al., 2009).

Sono stati monitorati i passi giornalieri dei partecipanti, mentre prima e a seguito dei 100 giorni sono stati valutati i sintomi depressivi, ansiosi (Depression, Anxiety Stress Scales, DASS; Lovibond & Lovibond, 1995) e l’indice di benessere (Warwick-Edinburgh Mental Wellbeing Scale, WEMWBS; Bass et al., 2016).

I risultati evidenziano alcuni effetti positivi sia sugli aspetti psicologici che sul benessere generale derivanti dall’effettuare un’attività programmata di passi giornalieri, indipendentemente dal numero medio di passi raggiunti. In particolare, il programma ha migliorato i livelli di stress dell’8,9%, i sintomi di depressione del 7,6%, l’ansia del 5,0% ed il benessere del 2,1%. Camminare svolge un ruolo significativo per il benessere non solo fisico ma anche mentale, sebbene considerare il valore soglia dei 10.000 passi sia emerso come poco significativo.

Tale mancanza di risultato dose-dipendente, evidenzia la presenza di fattori concomitanti che possono contribuire al miglioramento del benessere mentale, come il divertimento, il supporto interpersonale e la connessione costituita dalla partecipazione di gruppo alla sfida (LaMontagne et al., 2014). Inoltre, le attività di promozione della salute spesso incentivano cambiamenti comportamentali a livello di dieta, in grado di migliorare potenzialmente i risultati.

Ulteriori ricerche dovranno individuare la combinazione di fattori interni ed esterni associata ad un cambiamento maggiore in questo tipo di programmi e verificarne la sostenibilità nel tempo. Una valutazione di follow-up eseguita otto mesi dopo un intervento simile, ha riscontrato un miglioramento dei fattori di rischio legati alle malattie croniche nel lungo periodo (Freak-Poli et al., 2013).

Programmi di questo genere possono apportare benefici nel contesto lavorativo, prevenendo l’assenteismo, la spesa sanitaria dell’azienda, il turnover, favorendo la produttività ed in generale la qualità di vita, la soddisfazione e la salute mentale dei lavoratori.

Chi sono e chi vorrei essere: differenze tra sé reale e sé ideale

Il concetto di Sé Reale e Sé Ideale è stato introdotto dallo psicologo statunitense Carl Rogers (Rogers, 1951). Secondo Carl Rogers, l’immagine di sé e il sé ideale possono essere congruenti o incongruenti. Quando c’è congruenza vuol dire che tra l’immagine di sé e il sé ideale c’è una discreta quantità di sovrapposizione e ciò porta alla sensazione di autorealizzazione, cioè a sentirsi appagati da ciò che si fa.

 

“Cosa mi aspetto dal domani?” dicevano i Lunapop. Questa è una domanda che un po’ tutti ci facciamo ad un certo tratto della nostra vita. Vi svelo un segreto, per quanto mi riguarda in qualità di professionista, una cosa è certa, il lavoro che farò sarà sempre volto non alla cura, ma al prendersi cura dell’altro.

Vi ricordate quando da piccoli ci chiedevano: “Cosa vuoi fare da grande?”, difficilmente qualcuno di noi rispondeva il centralinista o l’imbianchino, io di solito ho sempre risposto la rock star e molti dei miei compagni di classe ambivano ad essere dei supereroi come Zorro o Superman. Che significa questo? Che quando siamo piccoli abbiamo una grande immaginazione e una scarsa consapevolezza delle risorse a disposizione, del contesto in cui viviamo, degli ostacoli che possiamo incontrare, delle nostre capacità.

Secondo lo psicologo sovietico Vygotskij (Vygotskij, 1925) l’immaginazione è strettamente interconnessa con l’esperienza pertanto, quanto più un bambino avrà accesso a esperienze di vita significative, tanto più sarà prolifera la sua immaginazione, viceversa un bambino che vive in un contesto culturale con pochi stimoli avrà una capacità più ristretta di andare oltre il dato concreto.

Grazie a quel lato incosciente che ci permette di andare oltre, abbiamo la possibilità di provare a metterci alla prova in qualcosa che non siamo e che mai nessuno ci ha detto che potremmo diventare. Pian piano che cresciamo l’immaginazione diminuisce e aumenta la consapevolezza, si arriva a un momento in cui aspettativa e realtà iniziano a combaciare. Ci succede che siamo costretti a scontrarci con le difficoltà economiche, con un sistema spesso poco meritocratico, che fa sì che finiamo spesso per accettare un lavoro che non ci appaga. L’importante è portare lo stipendio a casa, ci hanno insegnato i nostri nonni, portare il pane, saziare i nostri figli e riuscire a campare.

L’ambizione, invece, guardare oltre gli orizzonti, è qualcosa che non deve abbandonarci mai, il Sé Ideale (ciò che vogliamo essere) è la nostra guida, il nostro motore a dare sempre di più.

Il concetto di Sé Reale e Sé Ideale è stato introdotto dallo psicologo statunitense Carl Rogers (Rogers, 1951). Per Sé Reale intendiamo tutto ciò che sentiamo di rappresentare, di aver raggiunto grazie alle nostre forze e di poter raggiungere concretamente, mentre per Sé Ideale intendiamo tutto ciò a cui tendiamo, ciò che vorremmo realizzare ma che non siamo sicuri di riuscire a fare. Secondo Carl Rogers, l’immagine di sé e il sé ideale possono essere congruenti o incongruenti. Quando c’è congruenza vuol dire che tra l’immagine di sé e il sé ideale c’è una discreta quantità di sovrapposizione e ciò porta alla sensazione di autorealizzazione, cioè a sentirsi appagati da ciò che si fa.

Ma cosa succede quando, invece, c’è troppa discrasia (incongruenza) tra Sé Reale e Sé ideale?L’incongruenza può avvenire in positivo o in negativo. Alcuni soggetti possono avere progetti di vita irreali e non corrispondenti alla realtà, avere quindi un Sé Ideale troppo “gonfiato”, o, viceversa, altri possono avere un’immagine troppo scarsa del proprio sé, che li porta a essere poco ambiziosi. Quando il soggetto non riesce a realizzare i propri sogni inizia ad avere momenti di conflitto interiore, a vivere stati di tristezza per non riuscire a raggiungere i propri scopi. Sentimenti come ansia e depressione diventano sempre più incombenti, il che può portare ad abbandonare i propri progetti, impigrirsi e rimanere in uno stato di stallo emotivo e lavorativo dal quale poi è difficile uscire, i giorni passano e non ce ne accorgiamo e ogni giorno ci affossiamo in un baratro dal quale poi risalire diventa quasi impossibile.

Per avere un Sé Ideale sempre al passo, mai addormentato e nemmeno troppo vispo, vi è uno slogan che dovrebbe essere sempre il faro del nostro cammino, sto parlando del CO.CO.MI (Robbins, 1992), un acronimo che sta per: CONTINUO, COSTANTE MIGLIORAMENTO. Secondo Robbins, ognuno di noi trova la sua felicità nella ricerca del miglioramento costante e nel percorso che segue nel raggiungere nuovi obiettivi personali; il che significa che ognuno di noi dovrebbe cambiare prospettiva, ovvero dovremmo iniziare ad avere un modo diverso di vedere la nostra crescita emotiva e personale: la vita dev’essere vissuta come un processo in continuo divenire, un approccio continuo da mettere in atto ogni giorno a lavoro e nelle relazioni sociali, ma che, a poco a poco, al contempo, si armonizzerà a pieno con la nostra quotidianità.

La nostra ottica di vita può così essere basata sull’assunto che “non si smette mai di imparare”, bisogna essere in costante formazione, per poter dare il meglio di sé, non bisogna mai sentirsi arrivati, bisogna avere sempre lo stimolo a fare un passettino in più rispetto a quello che già sappiamo. Per formazione non si intende la mera formazione didattica, ma formazione personale, culturale, emotiva, che ci dia la possibilità di: Sapere, Saper Fare e Saper Essere.

Mi piace il futuro perché lì possiamo essere forti e delicati e pieni di sogni e di vento in faccia.
E ci sono strade mai viste e fiori colorati e stagioni che soffiano giorni nuovi e polvere di stelle che si deposita sulle mani. (Fabrizio Caramagna)

 

La relazione tra Intolleranza all’Incertezza, Disregolazione Emotiva e Affettività Negativa in individui con Disturbo da uso di sostanze

Questo lavoro evidenzia come le differenze individuali nella regolazione delle emozioni possano precedere lo sviluppo di un Disturbo da Uso di Sostanze, e possano quindi essere concettualizzate come un fattore di rischio che predice l’insorgenza della malattia.

Pamela Filiberto – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Mestre

 

Il Disturbo da Uso di Sostanze è frequentemente associato a deficit nella regolazione delle emozioni. La domanda che gli studi spesso si sono posti è: “Questi deficit precedono lo sviluppo del disturbo, in modo che possano essere considerati un fattore di rischio?” La risposta sembra essere di sì.

A partire dai classici esperimenti del “test del marshmallow” negli anni ’60 di Mischel e colleghi, l’ipotesi che è stata proposta dai ricercatori consiste nel considerare la capacità di ritardare la gratificazione, e di regolare uno stato affettivo come il desiderio, un elemento cruciale nel determinare le traiettorie di sviluppo dei bambini (Mischel, Ayduk, Berman, Casey, Gotlib, et al., 2011). In questi studi sperimentali ormai famosi, ai bambini in età prescolare veniva presentato un dolcetto gustoso e veniva detto loro che potevano mangiarlo subito o, in alternativa, ricevere due dolcetti in un secondo momento, se fossero riusciti ad aspettare e, quindi, ritardare la gratificazione. Nella descrizione dell’esperimento, Mischel riferisce che i bambini differiscono nella loro capacità di ritardare la gratificazione, che va dal non essere assolutamente in grado di aspettare, all’aspettare tutto il tempo previsto dallo sperimentatore (utilizzando anche una varietà di strategie spontanee per rendere più tollerabile l’attesa). Successivamente Mischel (2011) ha riferito che i bambini in età prescolare che sono stati in grado di ritardare la gratificazione più a lungo (aspettando una ricompensa più grande piuttosto che cedere immediatamente alla ricompensa più piccola) in seguito hanno ottenuto punteggi più alti ai test accademici, hanno avuto un migliore adattamento socio-cognitivo ed emotivo durante l’adolescenza e, cosa importante, avevano meno probabilità di usare sostanze come, in particolare, cocaina in età adulta. Questo lavoro evidenzia come le differenze individuali nella regolazione delle emozioni possano precedere lo sviluppo di un Disturbo da Uso di Sostanze, e possano quindi essere concettualizzate come un fattore di rischio che predice l’insorgenza della malattia.

Negli anni successivi alla pubblicazione del lavoro di Mischel e colleghi, sono stati raccolti altri dati sperimentali che suggeriscono come lo scarso autocontrollo in età infantile possa effettivamente essere un fattore di rischio per l’uso di sostanze e l’insorgenza di un Disturbo da Uso di Sostanze in età adulta. Per esempio, Moffitt e colleghi (2011) hanno seguito 1.000 bambini dalla nascita ai 32 anni. Durante l’infanzia, i partecipanti sono stati valutati su varie misure di autocontrollo relative alla regolazione delle emozioni, tra cui labilità emotiva, tolleranza alla frustrazione e persistenza. Gli autori riferiscono che le differenze individuali nella capacità di autocontrollo erano significativamente predittive degli esiti di salute in età adulta, tra cui l’uso e la dipendenza da sostanze, fino a 30 anni dopo.

La Disregolazione delle Emozioni

La Disregolazione delle Emozioni è un costrutto multidimensionale, che descrive l’incapacità dell’individuo di controllare o modulare gli stati emotivi (Gratz & Roemer, 2004), e rappresenta un fattore transdiagnostico per molte psicopatologie.

Diversi modelli esplicativi del Disturbo da Uso di Sostanze considerano la Disregolazione delle Emozioni come una caratteristica implicata nell’uso continuativo di sostanze e uno degli elementi responsabili delle ricadute, giocando quindi un ruolo significativo sia come fattore di rischio precoce (Moffitt et al., 2011) che come fattore di mantenimento (Kober e Gross, 2014). Ad esempio, il Modello di Prevenzione delle Ricadute (Marlatt & Witkiewitz, 2005), il Modello del Rinforzo Negativo (Baker, Piper, McCarthy, Majeskie, & Fiore, 2004), e il Modello del Self Medication (Khantzian, 1985), tra gli altri, chiamano direttamente in causa il processo di regolazione carente come motivo chiave e primario nella spiegazione di un uso problematico di sostanze e della ricaduta.

Spesso i consumatori di sostanze sviluppano aspettative positive riguardo l’uso, per esempio “se bevo, mi sentirò bene”, che sono associate a un maggiore utilizzo e a un maggiore rischio di sviluppare un vero e proprio disturbo (Jones, Corbin, & Fromme, 2001). Oltre alle aspettative riguardo alle emozioni positive, diverse sostanze sono associate a un decremento degli stati emotivi negativi, come l’ansia con l’alcol e i farmaci ansiolitici, la tristezza e la depressione con gli stimolanti come la cocaina e le anfetamine, il dolore con l’eroina, la morfina e altri oppiacei sintetici. In considerazione di ciò, è stato proposto che gli effetti di riduzione dell’Affettività Negativa da parte delle sostanze funzionino da rinforzo negativo, aumentando così la probabilità di un successivo utilizzo (Koob & Le Moal, 2008).

Questa idea è stata inizialmente resa popolare dal Modello del Self Medication proposto da Khantzian (1985), caratterizzato da due componenti principali: (1) gli stati affettivi spiacevoli predispongono gli individui all’uso di sostanze, e (2) quelli con una particolare predisposizione agli stati affettivi negativi hanno maggiori probabilità di sviluppare un Disturbo da Uso di Sostanze verso una sostanza in grado di invertire su quei particolari stati affettivi.

Sebbene l’ipotesi dell’automedicazione sia stata messa in discussione, diverse linee di ricerca supportano l’ipotesi che l’uso di sostanze serva a regolare l’affettività negativa. In primo luogo, il Disturbo da Uso di Sostanze frequentemente co-occorre con una serie di altri disturbi psichiatrici, in particolare i disturbi dell’umore e dell’ansia. Inoltre, le diagnosi psichiatriche preesistenti aumentano la probabilità che un individuo sviluppi successivamente un Disturbo da Uso di Sostanze (Kessler et al., 2005). In secondo luogo, le persone con dolore cronico sembrano avere molte più probabilità di sviluppare Disturbo da Uso di Sostanze rispetto alla popolazione generale, soprattutto per quanto riguarda i farmaci antidolorifici come gli oppiacei (Morasco et al., 2011). In terzo luogo, anche livelli tipici di affettività negativa sono correlati all’uso di droghe. Per esempio, i livelli di rabbia e ansia di tratto sono correlati al desiderio di bere negli alcolisti (Litt, Cooney, & Morse, 2000). Infine, gli stati affettivi negativi possono essere considerati alcuni dei fattori scatenanti del craving nel contesto d’uso sia occasionale che problematico di sostanze.

L’Intolleranza all’Incertezza

L’Intolleranza all’Incertezza è definita come “la capacità dispositiva di un individuo di sopportare la reazione avversa innescata dalla assenza percepita di informazioni chiave e sufficienti, e sostenuta dalla percezione associata di incertezza” (Carleton, 2016) e, in maniera simile alla Disregolazione delle Emozioni, è considerata un fattore di vulnerabilità transdiagnostica per diversi disturbi emotivi.

In circostanze incerte, le persone con un alto livello di intolleranza all’incertezza sperimentano pensieri ed emozioni negative che le spingono a mettere in atto comportamenti che portano alla riduzione dell’incertezza. Le persone intolleranti all’incertezza sono inclini a sperimentare difficoltà nell’identificare quali emozioni provano, e tendono a interpretare con ambiguità le emozioni come fastidiose e indesiderabili. L’intolleranza all’incertezza potrebbe inoltre promuovere un comportamento impulsivo in risposta all’incertezza: a lungo termine, la cessazione immediata dell’incertezza e del relativo disagio potrebbe rafforzare strategie di coping impulsivo e le stesse credenze di intolleranza.

Per quanto riguarda la relazione tra Intolleranza all’Incertezza e l’uso di sostanze per regolare le emozioni, Kraemer et al. (2015) e Oglesby et al. (2015) hanno indagato l’associazione tra Intolleranza all’Incertezza e i motivi dell’uso di alcol in laureati non clinici; entrambi gli studi hanno mostrato che l’Intolleranza all’Incertezza prediceva il bere come modalità per gestire o evitare emozioni negative.

Garami et al. (2017) hanno scoperto che i pazienti dipendenti da oppioidi, sottoposti a terapia di mantenimento con metadone, avevano un tasso di Intolleranza all’Incertezza più elevato rispetto agli individui non clinici.

In conclusione, l’uso problematico di sostanze e il Disturbo da Uso di Sostanze potrebbe essere considerato una strategia di coping maladattivo che ha lo scopo di ridurre l’affettività negativa in assenza di strategie di regolazione delle emozioni più adeguate. L’approccio della CBT consente di incrementare le abilità di riconoscimento e padroneggiamento dell’esperienza emotiva soggettiva attraverso una serie di tecniche cognitive e comportamentali di comprovata efficacia, come il dialogo socratico, l’automonitoraggio, le tecniche di distrazione, gli esperimenti comportamentali, la gestione delle contingenze, il monitoraggio delle attività.

 

Imprinting tra etologia e neuroscienze

In etologia, ancora oggi con il termine imprinting si indica una particolare forma di apprendimento precoce, con cui un animale concentra la sua preferenza sociale verso un oggetto a cui è stato esposto subito dopo la nascita.

 

Cosa è l’imprinting?

L’imprinting è uno dei costrutti più rilevanti per gli studiosi del comportamento.

Inizialmente fu studiato dal naturalista inglese Spalding nel 1873 e, in seguito, fu ripreso dall’etologo austriaco Konrad Lorenz per indicare quel fenomeno per cui gli uccelli appena usciti dal guscio seguono il primo oggetto che vedono in movimento comportandosi nei suoi confronti come con la madre (Galimberti, 2018).

In etologia, ancora oggi con questo termine si indica una particolare forma di apprendimento precoce, con cui un animale concentra la sua preferenza sociale verso un oggetto a cui è stato esposto subito dopo la nascita, in una breve fase indicata come “periodo sensibile” o “periodo critico”. È riscontrabile specialmente negli uccelli ma anche nei mammiferi, i quali riconoscono e seguono la madre o un surrogato di questa, che può essere un altro animale o un qualsiasi oggetto in movimento. Ciò ha una funzione legata alla sopravvivenza, in quanto permette di riconoscere e rimanere vicini al genitore, così da evitare di essere attaccati (McCabe, 2013).

L’imprinting può essere relativamente irreversibile e influisce anche sullo sviluppo dell’animale nella maturità, esercitando un ruolo fondamentale perfino sul comportamento della vita adulta per quanto riguarda il rapporto del genitore con la prole e la vita sessuale: infatti, l’oggetto dell’imprinting verrà corteggiato in età adulta, anche nel caso di un oggetto, come se si trattasse di un proprio conspecifico (McCabe, 2013; Galimberti 2018).

Dai primi studi di Lorenz sull’oca Martina a ipotesi più recenti

Quando si parla di imprinting non si può non far riferimento a Konrad Lorenz, al quale è stato assegnato il Premio Nobel proprio per i suoi studi su questo fenomeno.

L’oca Martina, di cui l’autore ha raccontato nella sua celebre opera “L’anello di re Salomone”, è divenuta simbolo delle sue ricerche: Lorenz, infatti, racconta di come Martina avesse identificato in lui la propria madre, seguendolo ovunque per mesi fino all’età adulta.

Lorenz elaborò sin dal 1935 il concetto di imprinting, che poi ha definito come «la fissazione di un istinto innato su un determinato oggetto», osservando che «nelle anatre selvatiche il processo di imprinting che ferma l’azione del seguire è ridotto a poche ore. Proprio per essere circoscritto a una determinata fase di sviluppo e per la sua irrevocabilità l’imprinting si differenzia da altre forme d’apprendimento» (Lorenz et al., 1990).

Ma per quale motivo differisce dalle altre tipologie di apprendimento? Per tre aspetti fondamentali: in primis non necessita di ricompensa, non è soggetto alla generalizzazione dello stimolo e, infine, non muta per tutto il ciclo di vita.

Tuttavia, studi più recenti contestano l’irreversibilità dell’imprinting, che in condizioni particolari può essere sostituito da un nuovo stimolo. Si ipotizza, inoltre, che la durata del periodo critico non sia fissa, bensì differisca a seconda della specie e delle condizioni ambientali.

Recentemente l’ipotesi è stata estesa altresì al comportamento umano fino a supporre che l’assenza di stimoli adeguati nel periodo sensibile possa essere alla base di alcune forme di ritardo mentale (Bateson, 1966; Lorenz, 2012; Galimberti 2018).

Le basi neurali dell’imprinting

Da studi sul pulcino domestico sono state ottenute informazioni sui meccanismi neurali alla base dell’imprinting filiale a uno stimolo visivo o uditivo.

Si è scoperto che una regione ristretta all’interno del proencefalo è fondamentale per l’imprinting di uno stimolo visivo. Tale area originariamente nota come parte intermedia e mediale dell’iperstriato ventrale (IMHV), è stata successivamente definita mesopallio intermedio e mediale (IMM) (Horn, 1985; Reiner et al., 2004).

L’ablazione bilaterale, ossia l’asportazione in entrambi gli emisferi, dell’IMM prima dell’esposizione a uno stimolo di imprinting impedisce l’acquisizione della preferenza e lo stesso intervento fino a tre ore dopo l’avvenuto imprinting rende i pulcini amnesici per lo stimolo dell’imprinting (McCabe et al., 1982).

Per quanto riguarda gli stimoli uditivi, invece, i pulcini domestici sviluppano una preferenza per il richiamo materno di una gallina e per gli stimoli dal tono ritmico in seguito all’esposizione a questi. Cambiamenti neurali successivi all’imprinting agli stimoli tonali sono stati rilevati nel mediorostrale nidopallium/mesopallium (MNM; precedentemente il medio-rostrale neostriatum/hyperstriatum ventrale o MNH), e comprendono un aumento dell’assorbimento di 2-fluorodesossiglucosio, riduzione della densità numerica delle sinapsi, e cambiamenti nel rilascio di glutammato e nell’attività elettrofisiologica (Maier & Scheich, 1983; Wallhauser &, Scheich, 1987; Bredenkotter & Braun, 2000).

Evidentemente l’elaborazione della memoria dopo l’esposizione allo stimolo coinvolge diverse regioni del cervello, a seconda della modalità impiegata per la procedura di imprinting (McCabe, 2013).

Ma cosa sappiamo delle basi neurali dell’imprinting nei mammiferi?

Nei mammiferi si parla di fenomeni di apprendimento precoce di tipo imprinting, ma non è stata identificata un’area “imprinting-specifica”.

Studi condotti sui topi mostrano come il riconoscimento della madre si basi principalmente su stimoli olfattivi, pertanto gioca un ruolo centrale il bulbo olfattivo.

Infatti, lo sviluppo dell’attaccamento alla madre è su base olfattiva nel ratto, con cambiamenti neurali a livello del bulbo olfattivo a seguito della presentazione di un odore legato al nido, sia naturale che artificiale.

È importante perfino la noradrenalina: un’infusione di quest’ultima a livello del bulbo olfattivo durante la presentazione di uno stimolo odoroso è sufficiente ad indurre l’acquisizione della preferenza per quell’odore nel piccolo di ratto. Un effetto analogo si ottiene accoppiando un odore con la stimolazione elettrica delle afferenze noradrenergiche al bulbo olfattivo.

Viceversa, il blocco dei recettori ß per la noradrenalina a livello del bulbo olfattivo o le lesioni del locus coeruleus impediscono un normale condizionamento associativo su base olfattiva (Marazziti, Roncaglia, Piccinni, 2008).

Concludendo, l’imprinting è stato ampiamente studiato non solo dal punto di vista dell’etologia, ma anche della psicologia sperimentale e delle neuroscienze. Inoltre, continua a contribuire a tutte queste discipline, dimostrandosi rilevante nello studio dei meccanismi neurali dell’apprendimento e della memoria (McCabe, 2013).

Cyberbullismo e sexting (2020) di Andrea Bilotto e Iacopo Casadei – Recensione

Il cyberbullismo deriva da cyberbullying, ossia bullismo digitale; rispetto al bullismo cambia il mezzo attraverso cui la vittima viene colpita da messaggi colmi di ogni forma denigratoria, offensiva e lesiva per la sua reputazione.

 

Il mondo virtuale, proprio per le sue caratteristiche aleatorie, potrebbe trarre in inganno molti di noi adulti e farci credere di essere superficiale, proprio perché non reale.

Grandissimo errore che può davvero costare la salute, in alcuni casi addirittura la vita, dei nostri figli o nipoti, spesso aggrappati ad un mondo fittizio, per svariati motivi: noia, mancanza o carenza di relazioni affettive, moda, paura, identità fragile. Ma se da una parte la connessione permette di superare il limite di tempo e spazio, dall’altra abitua le persone a non cercare più il vero contatto con l’altro, bensì uno schermo, attraverso cui sentirsi liberi di essere anche chi non si è. In questa era dell’illusorio, quelle forme già complesse di conflitto tra giovani, come il bullismo, possono davvero diventare pericolose per la stessa vita. Trasferire tale fenomeno nel web porta a conseguenze molto più gravose, soprattutto per la velocità della trasmissione delle informazioni e per la facilità con cui si può raggiungere la persona che si desidera colpire; persona che rimane letteralmente invischiata e incapace di liberarsi dalla tela costruita da questo macchinoso mondo virtuale che spesso, anziché placare, stimola quella forma di aggressività insita in ogni essere umano, che, se pur digitalizzata, è in grado di sferzare i colpi più duri e più pericolosi.

Quanto può essere potente la comunicazione?

In letteratura esistono numerose conferme a riguardo, ma attenzione che questo strumento così efficace può “far male più delle botte” (parole scritte da Carolina Picchio, citata nel testo, che ne ha pagate le conseguenze, suicidandosi all’età di 14 anni), se sfrutta il canale dei social, la cui presenza invasiva è ormai indiscussa.

Il cyberbullismo deriva da cyberbullying, ossia bullismo digitale, termine coniato dal canadese Bill Belsey nel 2004. Rispetto al bullismo cambia il mezzo attraverso cui la vittima viene colpita da messaggi colmi di ogni forma denigratoria, offensiva e lesiva per la sua reputazione. Mezzo attraverso cui si può diffondere a macchia d’olio un sms o un’immagine o addirittura un filmato sicuramente in maniera intenzionale, intenzionalità che sfugge, però, perfino all’autore dell’atto, diventando una potente arma contro l’altro, incapace di difendersi. In effetti il mezzo, ovvero il web, sfrutta la sua popolarità e la sua influenza, per diffondere male contro chi, magari per ingenuità, si ritrova ad essere il bersaglio in un preciso istante che diventa però, per lui, un’eternità. Gli autori, partendo dalle origini del bullismo, analizzano il contesto dell’era moderna, ormai immerso in un magma di follower, spesso dipendenti dalla stessa realtà illusoria (si parla, infatti, di Social Network Addiction o Friendship Addiction), realtà che mette in luce un profondo disagio nei giovani adolescenti, più propensi a chiedersi dove sia finito il proprio cellulare, piuttosto che farsi carico di domande esistenziali da sempre poste dall’uomo, sulla propria identità. Tale dipendenza, spiegano gli autori, mette in luce il forte senso di insicurezza dei giovani d’oggi che tentano di soffocarlo nell’apparenza delle cose, attraverso quella forma nuova di narcisismo digitale, in cui quel che conta è il numero di follower o i “mi piace” dei social. Ossia la mia identità dipende dal numero di click che ricevo, anche a scapito dell’altro, perché sono colpito da quel desiderio irrefrenabile di esibizione che prevarica su ogni forma di rispetto e di comprensione. Il mio essere preferisce vivere all’apparenza piuttosto che cercare la sostanza, galleggia sulla superficie per paura della profondità. D’altronde, come ben si mette in evidenza nel testo, su quel «Colosseo globale» rappresentato dai social, una persona apparentemente sicura di sé colpisce un’altra, anche in maniera spietata, ricevendo perfino il supporto diretto o indiretto di una massa di individui anonimi e frustrati che non fa che alimentare il fuoco della cattiveria e dell’aggressività. Perché, non si sa per quale arcano motivo, le persone in rete amano stare più dove prevalgono liti, polemiche e conflitti, piuttosto che in contesti dove si diffondono messaggi positivi e sani.

Nel primo capitolo, a partire dall’analisi delle origini dell’aggressività e del bullismo, si mette in evidenza quanto accade quando quest’ultimo viene portato sulla rete, informando il lettore su quei fenomeni di cyberbullismo nati proprio in questo mondo virtuale, che colpiscono maggiormente il genere femminile: dal sexting, ossia l’inviare foto in pose sexy, spesso in unione a messaggi o video dai contenuti sessualmente espliciti,-sempre testimonianza della fragilità adolescenziale e del bisogno di mettersi in mostra per essere ed esserci- al Revenge porn purtroppo il passo è breve. Quell’imprudente sexting si trasforma in una potente arma contro la stessa ragazza che ritrova le sue foto sul web, diffuse in un nano secondo, magari dal suo stesso ex fidanzato, allo scopo di danneggiarne la reputazione. Un fenomeno altamente preoccupante, indice di allarme sia per i genitori che per gli educatori. E su questo punto gli autori tornano più volte, mettendo in evidenza la necessità, in un momento storico così confuso, di un’educazione sana e profonda ai sentimenti, un’alfabetizzazione emotiva che deve partire dall’infanzia, per far sì che il bambino impari a conoscere i propri stati mentali, ma anche quelli altrui, unica maniera per riuscire a “mettersi nei panni dell’altro” e costruire così relazioni sane e reali. Un messaggio importante traspare dalla lettura del testo, ossia la ricerca della propria identità e della propria felicità in sé stessi e non negli altri, la costruzione del proprio essere attraverso la qualità e non la quantità effimera di amici, molto semplicemente meglio “pochi ma buoni”.

Nel secondo capitolo si affronta l’analisi della figura del bullo e di quella della vittima, del cyberbullo e della cybervittima, cercando di delineare anche le principali caratteristiche presenti nelle famiglie di origine. Se si pensa, bullo e vittima potrebbero essere definiti come le due facce di una stessa medaglia, in quanto entrambi risentono fortemente di un’identità poco definita ed estremamente fragile. Da una parte il bullo, nella definizione del proprio status adolescenziale, tenta di ottenere una conferma nella sua posizione sociale attraverso le sue malefatte, non rendendosi conto della futilità dei vantaggi perseguiti. Dall’altro la vittima, spesso ha difficoltà relazionali con i compagni di classe, un senso di non appartenenza al gruppo dei pari e anche possibili problematiche di carattere psicosomatico o ansia e depressione; tutto questo porta la stessa, presa in giro dai suoi coetanei, a rispondere in maniera aggressiva o offensiva, incapace di gestire quella rabbia repressa che spesso sfocia in altrettanta cattiveria. Per quanto concerne le famiglie delle due parti, ben si evidenzia nel testo quali fattori possano interagire con le singole caratteristiche dell’individuo e del contesto, contribuendo a formare le due figure citate. Nella famiglia della vittima si evidenziano una scarsa comunicazione, spesso uno stile genitoriale troppo permissivo ed una eccessiva preoccupazione per il proprio figlio, che possono essere considerati fattori predittivi della condizione di vittima. Nella famiglia del bullo la letteratura evidenzia atteggiamenti dei caregiver privi o carenti di affetto e coinvolgimento, scarsa coesione e mancata comunicazione (Bowers, Smith e Binney, 1992), ma anche possibili tendenze paranoidi, attacchi verso l’altro, assenza di senso di colpa (Patterson et al., 1984; Ross, 1996). Proprio in virtù di questa analisi approfondita, gli autori sottolineano la necessità da parte dei famigliari e della scuola di un intervento atto a far comprendere e definire i limiti da non superare, senza atteggiamenti estremamente coercitivi, ma nemmeno troppo permissivi, in continua armonia ed accordo tra le due parti, ponendo l’accento su quella «sintonizzazione emotiva» fondamentale nello sviluppo e nella crescita del singolo individuo. Oltre a tali figure, viene anche delineato il profilo dell’osservatore, che nelle varie declinazioni, ossia sostenitore, spettatore neutrale, difensore della vittima, è presente sullo scenario come partecipante e dunque fattore interagente nei fenomeni di bullismo e cyberbullismo.

Nel terzo capitolo i due autori propongono un metodo di intervento definito «metodo antibullismo 7C», dove regna sovrana la capacità genitoriale ed educativa di saper insegnare ai bimbi, fin dalle elementari, a gestire le emozioni, anche rispetto a probabili prese in giro che caratterizzano la quotidianità, affinché apprendano a gestire anche piccole frustrazioni, momenti di difficoltà relazionale, per non divenire succubi degli eventi. Tutto questo, però, come ben sottolineano gli autori, deve partire innanzitutto dalla famiglia, un modello essenziale che il bambino prende come punto di riferimento e che pertanto non può caricarsi di contraddizioni, ma deve essere essa stessa capace di lavorare sulle proprie emozioni. Il metodo antibullismo 7C si caratterizza da parole chiave come consapevolezza, mantenere la calma, avere conoscenza di sé, comprensione dell’altro, ristrutturazione cognitiva della presa in giro, creatività e importanza nel far leva sul gruppo classe, anche attraverso dei piccoli giochi di role playing sia a casa che a scuola, che permettono al bambino di imparare a gestire situazioni di difficoltà, cercando di mantenere un atteggiamento empatico, gentile e assertivo.

Nel quarto e ultimo capitolo gli autori, a partire dal concetto di Losada Line, così definito dal nome dello psicologo cileno Marcia Losada che collaborò in una ricerca in ambito lavorativo con Barbara Fredrickson, puntano sulla presa di coscienza da parte del lettore della necessità di una maggior numero di pensieri positivi per riuscire a controbilanciare quelli negativi. La società attuale, in effetti, è concentrata su quelle che sono notizie di cronaca nera, scandali, violenza, che ricevono maggior audience da parte delle persone, con il rischio che gli stessi giovani finiscano per prediligere comportamenti volti alla trasgressione e alla violenza. È necessario, spiegano i due autori, poggiare su una psicologia positiva che cerchi di «immunizzare i figli dal bullismo». Un metodo che, sulla base di quanto detto, punti sulla prevenzione da fenomeni come il bullismo e il cyberbullismo, attraverso buoni insegnamenti come il fare bene agli altri, cercando nel possibile di non essere mai prevenuti o avere pregiudizi rispetto ai comportamenti altrui e, dunque, cercando di imparare a gestire e a trattenere gli istinti e l’irrazionalità a favore di un maggiore desiderio di conoscenza dell’altro, di una maggiore propensione a fare del bene, ispirati dalla voglia di cogliere nella vita quello che di bello esiste e non fossilizzandosi su quanto di negativo ci circonda. Vorrei riportare una frase del libro attraverso cui gli autori, citando A. de Botton, riassumono in maniera incantevole quanto di importante è stato analizzato in questo capitolo: «La notte è ancora più riccamente colorata del giorno… Se solo vi presti attenzione, ti avvedi che talune stelle sono giallo limone, altre emettono un chiarore rosato, altre irradiano aloni verdastri, azzurrini e blu nontiscordardimé».

Si tratta di un testo sicuramente rivolto a tutti, esperti e non, che permette al lettore di approfondire problematiche fortemente attuali, allo scopo di comprenderle e aiutare i nostri figli, nipoti, alunni a rendersene «immuni».

Le miocarditi da vaccino Covid sono rarissime, molto peggio quelle causate dal Virus. Vaccinarsi è fondamentale – Comunicato Stampa

Noi adulti siamo cavalieri con lo scudo, siamo l’unico scudo per proteggere i nostri figli, per questo fare il vaccino contro il Covid è fondamentale.

Comunicato Stampa

 

I medici della Cardiologia e Cardiochirurgia pediatrica dell’IRCCS Policlinico di S. Orsola in occasione della Giornata Mondiale del Cuore: “Dobbiamo proteggere i nostri bambini, con il vaccino.” “Le mamme incinta, cardiopatiche? Devono vaccinarsi”. “Il rischio di miocarditi da vaccino? E’ rarissimo”. “Molto peggio contrarre la malattia ed avere a seguito un interessamento cardiaco”.

“Vaccino sì. Terza dose, assolutamente sì”.

La dott.ssa Emanuela Angeli, cardiochiururgo pediatrico presso le Unità Operative di Cardiologia e Cardiochirurgia Pediatrica e dell’Età evolutiva dell’IRCCS Policlinico di Sant’Orsola a Bologna, non ha dubbi al riguardo.

“Il rischio delle miocarditi causate dal Covid è sicuramente più elevato rispetto al rischio delle miocarditi a cui può dare seguito il vaccino”. “Se i reparti oggi non sono in crisi – aggiunge il dott. Luca Ragni, cardiologo pediatrico presso le stesse Unità Operative – è proprio grazie al vaccino. Senza vaccino, con la variante Delta saremmo tornati ad una situazione drammatica. Questo è un dato oggettivo. La nostra indicazione è che il vaccino si deve fare, la terza dosa si deve fare: la probabilità di avere una miocardite a causa del vaccino o di avere complicanze è rarissima, è molto peggio contrarre la malattia ed avere a seguito un interessamento cardiaco. Questa è un’informazione reale”.

Dalla letteratura – spiega la dott.ssa Angeli  – emerge che la frequenza delle miocarditi a seguito del vaccino equivale ad 1 ogni 6 mila bambini. La frequenza delle miocarditi che si verificano nei pazienti che contraggono il Covid è indubbiamente molto più elevata.

Per promuovere la Giornata Mondiale del Cuore, il dott. Ragni e la dott.ssa Angeli hanno preso parte domenica 26 settembre ad un incontro sul tema “vaccini e cardiopatie”, organizzato dall’associazione Piccoli Grandi Cuori insieme all’IRCCS Policlinico di Sant’Orsola per sensibilizzare rispetto all’importanza della vaccinazione e chiarire alcuni dubbi in merito. “Rispondere con coscienza come medici è il massimo che possiamo fare” sottolinea la dott.ssa Angeli. Al momento non esiste ancora una letteratura esaustiva su questo argomento, ci sono tanti dati ed esperienze satellite, che sui media hanno una cassa di risonanza enorme.”

Nel corso di questi mesi di emergenza sanitaria la dott.ssa Angeli e il dott. Ragni hanno ricevuto centinaia e centinaia di e mail dai pazienti stessi e dai genitori dei pazienti cardiopatici: l’idea, come spiega la presidente Piccoli Grandi Cuori Paola Montanari – ci è venuta proprio per fornire un servizio in più alle nostre famiglie, grazie alla disponibilità dei nostri dottori. Per le famiglie è stato molto rassicurante sapere di poter chiamare in qualsiasi momento in Reparto e prendere contatto con il medico di riferimento.

“In questi mesi siamo stati sommersi dalle richieste di genitori – sottolinea il dott. Ragni –  che non sapevano assolutamente come orientarsi, occupandoci di cuore le domande sono molto centrate poiché si sentono notizie sul fatto che i vaccini possono causare miocardite o risentimenti cardiaci, ma laddove siano mirate ad altri temi ci avvaliamo di colleghi infettivologi e immunologi che ci forniscono le risposte più appropriate da fornire”.

Un bambino cardiopatico ha la stessa probabilità di prendere l’infezione di un bambino non cardiopatico?

“Assolutamente sì, – risponde il dott. Ragni – il sistema immunitario funziona allo stesso modo. I bambini cardiopatici si possono contagiare allo stesso modo di quelli non cardiopatici, il problema è che se il cardiopatico a seguito del contagio dovesse avere degli esiti importanti come la broncopolmonite interstiziale, quel cuore non riuscirebbe a far fronte alla malattia come un cuore “normale”. E quindi la guarigione sarebbe molto più complessa”.

Una donna incinta cardiopatica deve vaccinarsi? “Assolutamente sì”.

Paura della trombosi? “Molti pazienti cardiopatici fanno terapie anticoagulanti croniche e non ci sono mai stati problemi col vaccino”.

“Grazie all’analisi di queste domande e ai dati raccolti, – spiega la dott.ssa Angeli – stiamo cercando di capire quale sia l’incidenza del Covid sui bambini post operati e anche come si sono contagiati. Per noi è interessante capire di che cosa hanno avuto bisogno quando hanno contratto il Covid, quanti di loro sono stati ricoverati, quanti con patologie gravi, quanti hanno gestito la malattia a casa. Dal nostro studio interno è emerso che su un campione di 1.000 pazienti cardiopatici operati, di età eterogenea, l’8,6% ha avuto il Covid.

Se ci soffermiamo sui ragazzi e bambini al di sotto dei 18 anni, il 5% ha contratto il Covid. I nostri pazienti che hanno avuto il Covid tutto sommato sono stati bene, durante le visite ambulatoriali, in molti casi, il fatto di aver contratto il virus è emersa come informazione marginale. In questi mesi durante i colloqui cardiochirurgici mi è capitato che genitori chiedessero “dottoressa, ma io mi devo vaccinare per mio figlio?”. La mia risposta è sempre stata affermativa. Do loro la risposta che ho pensato per me stessa quando lavoravamo sotto emergenza totale e c’era tanto Covid: noi medici e adulti siamo cavalieri con lo scudo, siamo l’unico scudo che rimane per proteggere i nostri figli. Avere dubbi sul vaccino è lecito, ma in questo momento è l’unica arma che abbiamo, e non c’è tempo. Soprattutto se parliamo di bambini sotto i 12 anni, che non hanno gli strumenti per “difendersi”, l’unico scudo di protezione siamo noi adulti. Credo che ogni perplessità debba decadere nel momento in cui si sappiamo che vaccinarsi significa proteggere i nostri figli e quelli degli altri”.

“È un fatto di responsabilità”, aggiunge il dott. Ragni. “Ogni giorno ci troviamo di fronte a bambini piccolissimi e genitori che lottano per la sopravvivenza, è inconcepibile pensare che ci possano essere dubbi e che, qualcosa che ti può far stare bene, non sia presa in considerazione” conclude la dott.ssa Angeli.

 

Il ruolo del perfezionismo e della percezione del controllo nello stress post-traumatico

Per il sottoinsieme di persone con PTSD associato a perfezionismo socialmente prescritto, potrebbe essere vantaggioso effettuare un focus esplicito sul perfezionismo e sui temi ad esso associati.

 

La ricerca epidemiologica ha indicato che l’esposizione a eventi traumatici è relativamente comune, con stime che vanno dal 20% all’83% attualmente in crescita, a seguito della pandemia da COVID-19 (Breslau et al., 1998; Molnar et al., 2020). Tuttavia, la prevalenza del disturbo da stress post-traumatico (PTSD) tende ad essere relativamente bassa, con tassi di prevalenza che vanno dal 1% al 9% in Italia (EMDRia, 2020). Questi dati si aggiungono al corpus di evidenze sulla base del quale è stato ipotizzato che l’esperienza di eventi traumatici non sia sempre il principale fattore eziologico nello sviluppo del disturbo da stress post-traumatico (Johnson e Thompson 2008). Alla luce delle prove che suggeriscono che i tratti della personalità svolgono un ruolo importante nella vulnerabilità alla sintomatologia del disturbo da stress post-traumatico (Jaksic et al. 2012), Molnar e colleghi hanno cercato di esaminare le associazioni tra le dimensioni del perfezionismo di tratto e i sintomi del disturbo da stress post-traumatico (PTSD) in un campione comunitario di adulti che avevano subito almeno un evento traumatico (Molnar et al., 2020). Gli autori si sono inoltre proposti di determinare se le associazioni tra le dimensioni del perfezionismo di tratto e la sintomatologia del disturbo da stress post-traumatico variassero in funzione del grado di controllo percepito da ciascun soggetto. Il campione era composto da 161 adulti (57% donne; M = 33,24 anni) che avevano sperimentato almeno un evento traumatico nella loro vita. Essi hanno completato questionari di autovalutazione relativi a: perfezionismo di tratto, controllo percepito, personalità e sintomatologia da stress post-traumatico.

I risultati delle analisi statistiche hanno portato alla luce una particolare declinazione del perfezionismo, ovvero quello socialmente prescritto, vale a dire la convinzione che gli altri possano avere standard elevati sulla propria persona, mostrando come questo fosse associato a livelli più elevati di sintomatologia da stress post-traumatico. Questa scoperta è stata confermata dalla rilevazione di una significativa interazione con il controllo percepito, tale per cui livelli più elevati di perfezionismo socialmente prescritto erano associati a una maggiore sintomatologia da stress post-traumatico solo in condizioni di basso controllo percepito (Molnar et al., 2020). Questa interazione è comprensibile, in quanto la ricerca sull’argomento ha stabilito che individui con livelli più alti di perfezionismo socialmente prescritto tendono anche a mostrare un deficit nelle capacità di regolazione cognitivo-emotiva, mostrando abilità di coping disadattive (Rudolph et al. 2007). Queste persone tendono a sentirsi controllate dalle aspettative degli altri e spesso si trovano di fronte alla consapevolezza di non essere all’altezza delle elevate aspettative che percepiscono come imposte loro. Gli individui in questa situazione che sentono di non avere il controllo, e il cui senso di autoefficacia è presumibilmente diminuito, sono persone che, con ogni probabilità, si sentono sopraffatte dal precedente stress traumatico esperito, affrontando la credenza di non essere in grado di soddisfare standard sociali elevati (Molnar et al., 2020).

Lo studio del team di Molnar presenta implicazioni pratiche per il trattamento del PTSD. Per il sottoinsieme di persone con PTSD associato a perfezionismo socialmente prescritto, potrebbe essere vantaggioso effettuare un focus esplicito sul perfezionismo e sui temi ad esso associati. Poiché la terapia cognitivo-comportamentale è una delle terapie più raccomandate per il disturbo da stress post-traumatico, i risultati di Molnar indicano che i terapeuti trarrebbero beneficio dal prestare particolare attenzione alle cognizioni disadattive associate al perfezionismo prescritto dalla società. Inoltre, sono stati evidenziati benefici della promozione della consapevolezza tra i perfezionisti vulnerabili (Flett et al., 2020), per questo motivo, gli autori propongono anche interventi di tipo mindfulness per questo particolare problema (Molnar et al., 2020).

In conclusione, i risultati suggeriscono che gli individui con un più alto perfezionismo socialmente prescritto potrebbero essere particolarmente vulnerabili ai sintomi del PTSD dopo aver subito un trauma. Presumibilmente, questi individui trarrebbero beneficio dai tentativi di rafforzare i loro livelli di resilienza prima di essere esposti a situazioni di vita che potrebbero comportare l’esperienza di fattori di stress traumatici.

Quanto siamo influenzati dalle recensioni online – Psicologia Digitale

Le recensioni online sono una forma di passaparola digitale che permette ai consumatori di formarsi un’idea e delle aspettative ed influenza la loro intenzione di acquisto.

PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr. 23) Quanto siamo influenzati dalle recensioni online

 

Quando ci troviamo a scegliere un ristorante, un hotel, se acquistare o meno un prodotto, immancabilmente finiamo col leggere le recensioni. Oltre ad altri indicatori che orientano le nostre scelte (è lontano? È facilmente raggiungibile? Quanto costa?), un peso maggiore di quanto immaginiamo lo hanno i giudizi espressi da altri che ci sono passati prima di noi.

Le recensioni possono essere in varia forma: testuali, fotografiche, con un voto espresso in numeri o stelline; ma quello che realmente ci importa è che ci siano, tanto che quando non ne troviamo passiamo subito oltre.

L’importanza delle recensioni

Innanzitutto è importante notare che, a prescindere dal fatto che le recensioni siano negative o positive, basta che ci siano. Infatti sono ritenute un indicatore di popolarità, danno la percezione che il servizio o prodotto sia conosciuto, forniscono informazioni aggiuntive, incrementano fiducia e reputazione del brand, riducono l’incertezza e il rischio percepito e innescano l’effetto ‘go with the crowd’, ovvero la tendenza a fare quello che fanno tutti gli altri, a seguire la massa insomma (De Pelsmacker et al., 2018).

Le recensioni online sono una forma di passaparola digitale (electronic word-of-mouth, eWOM) che permette ai consumatori di formarsi un’idea e delle aspettative ed influenza la loro intenzione di acquisto. Questo meccanismo riguarda qualsiasi prodotto o servizio: libri, film, giochi, hotel, ristoranti, ecc. L’opinione di altri consumatori che pubblicano le loro esperienze tramite recensioni online fornisce informazioni da una fonte che viene percepita come più indipendente e degna di fiducia rispetto alle indicazioni rese disponibili nella scheda prodotto.

Perché ci basiamo così tanto sulle recensioni: le euristiche

Secondo la teoria del doppio processo di Kahneman e Tversky (1979) i nostri processi decisionali si basano su due sistemi: il primo automatico ed involontario ed il secondo invece razionale e volontario. Anche se in linea di massima possiamo affermare che vengono usati entrambi i sistemi, molto più spesso di quanto immaginiamo è proprio il primo che viene chiamato in causa. Questo perché il secondo sistema richiede uno sforzo cognitivo di gran lunga superiore: scelte ponderate e razionali, basate sull’analisi dei dati a disposizione, sul soppesare pro e contro, sulla stima degli effetti futuri, richiedono un grande dispendio di energie che non potremmo permetterci per ogni singola decisione. Ed ecco perché utilizziamo le euristiche di pensiero che sono delle scorciatoie mentali, dei processi intuitivi ed immediati, che ci permettono di formarci una idea o un giudizio su qualcosa senza troppi sforzi cognitivi.

Se dovessimo ogni volta soppesare in maniera razionale e ponderata ogni valutazione faremmo molta più fatica, mentre, grazie alle euristiche, riusciamo a procedere in maniera veloce.

Anche quando si tratta di recensioni sono proprio alcune di queste scorciatoie che utilizziamo.

I consumatori si affidano alle recensioni già solo per il fatto che ci sono: l’euristica di disponibilità (availability heuristic) è proprio quel meccanismo per cui diamo più rilevanza alle informazioni immediatamente disponibili e di facile accesso.

Entrano in gioco anche l’effetto primary e recency: le persone ricordano più facilmente le informazioni presentate inizialmente o alla fine di una lista o pagina. Per lo stesso motivo, per esempio, i motori di ricerca posizionano gli annunci a pagamento sopra o sotto i risultati di ricerca e solo raramente in mezzo a questi ultimi. Questi effetti fanno da cornice ai nostri giudizi e ci permettono di ‘inquadrare’ il contesto facilmente: i contenuti nella parte superiore o inferiore della pagina sono più accessibili dato che tipicamente per visualizzare ulteriori informazioni su una pagina web partiamo dall’alto e scorriamo verso il basso. Inoltre, se le recensioni negative vengono visualizzate per prime è più probabile che l’utente non proceda con l’acquisto.

Ma non tutte le recensioni sono uguali né è sufficiente la loro posizione per determinare le nostre preferenze. Esiste infatti un effetto asimmetria: le recensioni negative attirano di più la nostra attenzione rispetto a quelle positive e sono più importanti anche di altri fattori come il prezzo. Per esempio, tra un hotel con più recensioni positive ed uno con più recensioni negative gli utenti preferiscono il primo anche se costa molto di più (De Pelsmacker et al., 2018).

Questa asimmetria viene spiegata dal principio dell’avversione alla perdita teorizzato da Kahneman e Tversky (1979; 2011): quando dobbiamo effettuare una scelta siamo più attenti e diamo più peso alle perdite che ai guadagni. Tendiamo quindi ad evitare possibili rischi: le recensioni negative ci fanno intravedere lo spettro di un investimento sbagliato e di una perdita di denaro e per questo sono molto più salienti.

Le caratteristiche di una recensione affidabile

Siamo sulla pagina di un e-commerce, stiamo valutando se comprare o meno un prodotto. Le recensioni sono tante, così come molte sono quelle di altri prodotti simili per tipologia e prezzo. Ebbene, a questo punto cosa per noi è più rilevante nella scelta? Perché alla fine sceglieremo proprio quello?

Oltre alle euristiche anche il formato con cui le recensioni ci vengono proposte orienta le nostre preferenze (De Pelsmacker et al., 2018).

L’ideale è che ogni recensione sia accompagnata da una parte testuale, una o più immagini e una valutazione (rating).

Una recensione testuale esprime una valutazione qualitativa ed approfondita che viene ritenuta più utile se confrontata con i rating presi da soli (Noone & McGuire, 2014). È però importante che, oltre al testo, le recensioni abbiano anche dei punteggi espressi in numeri o graficamente (per esempio, da 1 a 10 oppure stelline) perché richiedono poco sforzo cognitivo. Alcuni ecommerce adottano il sistema delle valutazioni a stelle, come per esempio Amazon e TripAdvisor, mentre altri come Booking.com utilizzano punteggi numerici: tra le due tipologie sono preferite le valutazioni a stelle in quanto sono più immediate. Anche per le immagini vale lo stesso discorso: la componente visuale dà un feedback immediato e aiuta a familiarizzare col prodotto o servizio. Le foto, in particolare quando accompagnano una recensione positiva, hanno un effetto persuasivo maggiore rispetto al contenuto che comprende solo la parte scritta (Blondé e Girandola, 2016).

Quando le recensioni sono false

Ci affidiamo sempre di più alle recensioni online per fare le nostre valutazioni prima di un acquisto; le recensioni ci danno l’idea di affidabilità ed imparzialità ed esprimono un giudizio di qualcuno che, prima di noi, ha provato quel prodotto o servizio. Ci dicono qualcosa di più sull’esperienza, sulle caratteristiche e sui possibili pregi e difetti del prodotto.

L’importanza delle recensioni nel processo decisionale di acquisto è noto a brand e venditori che sanno molto bene quanto sia importante monitorarle. Accanto a strategie di gestione lecite, in primis dando un feedback a chi ha opinioni negative, sono diffuse anche pratiche fraudolente, come pubblicare false recensioni positive oppure cancellare o nascondere quelle negative. Ci sono poi anche le recensioni incentivate, per esempio attraverso carte regalo, bonus o rimborso sull’acquisto in cambio della pubblicazione di una recensione positiva e completa (testo e foto).

Questo fenomeno è noto alle piattaforme di e-marketplace che adottano diverse misure per filtrare account e recensioni falsi; nonostante questo il fenomeno delle recensioni false è sempre più diffuso.

Come possiamo tutelarci? Secondo un recente studio di Zhuang e colleghi (2018) ci sono degli indizi che ci possono suggerire se una recensione è manipolata o incentivata. Per esempio, quando ci accorgiamo che un prodotto ha un numero di recensioni positive nettamente superiore rispetto a quelle negative possiamo cominciare a farci venire qualche dubbio sulla veridicità di alcune di esse; soprattutto se, ad un’occhiata più attenta, leggiamo valutazioni eccessivamente positive con un linguaggio generico, stereotipato e troppo entusiasta. Altro indizio è se queste recensioni vengono da utenti che hanno profili poco completi o che pubblicano recensioni solo positive: la possibilità che sia un account creato ad hoc per pubblicare recensioni false aumenta. Quando la distribuzione delle valutazioni è asimmetrica può anche voler dire che le recensioni negative vengono cancellate. La notorietà del brand o del venditore è un altro indizio: quando le recensioni polarizzate appartengono a prodotti di brand sconosciuti è più probabile che parte di essere siano false.

Il consumatore consapevole

Quando si tratta di compiere una scelta, ancor di più di se una scelta di acquisto, non siamo esseri del tutto razionali. Utilizziamo delle scorciatoie di pensiero – le euristiche – e alcuni indizi del contesto per orientarci. Siamo implicitamente proiettati a ricercare questi indizi per ridurre lo sforzo cognitivo. Possiamo considerare le recensioni proprio questo, un indizio del contesto.

Per noi sono un importante aiuto che supporta le nostre scelte anche se sappiamo che potrebbero non essere veritiere. In generale però la pratica di manipolarle non porta lontano: se nel breve termine pratiche fraudolente possono aumentare le vendite, nel lungo termine (soprattutto quando si tratta di un marchio sconosciuto) sarà inevitabile seminare degli indizi sospetti e generare mancanza di fiducia da parte degli utenti, portando ad un decremento delle vendite e una cattiva reputazione. D’altra parte i consumatori sono sempre più abili ed esperti negli acquisti online: scovare e filtrare recensioni vere da quelle false diverrà più facile (Zhuang e colleghi, 2018).

Negli ambienti online – così come in quelli offline – valutiamo simultaneamente più aspetti ed attiviamo più euristiche. È indubbio però che specifiche caratteristiche delle recensioni guidano il nostro giudizio ed è fondamentale comprendere come utilizzarle al meglio ed in maniera chiara e trasparente.

 

Fragilità e antifragilità nei malati con dolore cronico

L’antifragilità non è l’opposto della fragilità, semmai è una caratteristica che si può sviluppare proprio quando ci si trova in una condizione di particolare vulnerabilità. Per esempio, le persone affette da malattie autoimmuni e/o da dolore cronico smettono di comunicare la loro sofferenza perché, invece di ricevere supporto e comprensione, si sentono svalutati, derisi e a volte, persino, disprezzati.

Emanuela Taraschi – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Viviamo in un’epoca in cui si è titolati a vivere solo se perfetti. Ogni insufficienza, ogni debolezza, ogni fragilità sembra bandita” (A. D’Avenia, 2016). Sarà per questo che il termine antifragilità coniato in ambito economico da Taleb (2012), ha avuto successo ed è stato ripreso da Vercelli (2016; 2021) nell’ambito della psicologia della prestazione sportiva. Tuttavia, l’antifragile non è l’opposto del fragile, semmai è una caratteristica che si può sviluppare proprio quando ci si trova in una condizione di particolare vulnerabilità. Durante la pandemia da Covid-19 tutti ci siamo sentiti un po’ più fragili, sebbene, alcuni sono stati inclusi ufficialmente nella categoria dei “fragili”. Per esempio, le persone affette da malattie autoimmuni, tra i cui sintomi si annoverano senso di fatica, malessere generale e dolore cronico. Quando la problematica fisica non è particolarmente evidente, accade più facilmente di sottovalutare il problema dell’altro che soffre, tanto che alcune di queste persone smettono di comunicare la loro sofferenza, perché, invece di ricevere supporto e comprensione, si sentono svalutati, derisi e a volte, persino, disprezzati.

Certo, come ci insegna Epitteto non sono le cose a farci stare bene o male, ma quello che pensiamo di esse, come le interpretiamo. Le tecniche REBT, per esempio, aiutano a disputare e ristrutturare le credenze disfunzionali, migliorando la percezione della propria efficacia e interrompendo il ciclo vizioso tra nocicezione, dolore, distress e disabilità. Le emozioni, però, ci informano (e informano l’altro) su come stiamo interpretando la realtà. In particolare, l’emozione di disprezzo ci dice che stiamo valutando un’altra persona inferiore a noi per qualche comportamento e/o caratteristica personale. Ci dice anche che nutriamo sfiducia sulla sua possibilità di miglioramento. Così, quando disprezziamo siamo maggiormente inclini a prendere in giro, ad offendere, e poi a distaccarci dalla persona disprezzata, in quanto ritenuta un soggetto non utile per un proficuo scambio sociale. A volte, persone affette da dolore cronico riferiscono di essere stati derisi attraverso battute allusive, sentendosi larvatamente accusare di esagerare i sintomi, di essere pigri, deboli, di fare le vittime. Miceli e Castelfranchi (2018) spiegano bene come l’espressione di disprezzo può nascondersi sotto un linguaggio non verbale (per es. alzando gli occhi al cielo) o in battute sottili e divertenti. Quando ciò accade è molto più difficile per il bersaglio difendersi. Difatti, se il bersaglio rende esplicito il significato dispregiativo, chi disprezza può affermare che non intendeva dire o fare nulla di irrispettoso e che il bersaglio è permaloso o non capisce le battute, o entrambe le caratteristiche negative; segni chiari di mancanza di intelligenza o mancanza di senso dell’umorismo, e così finisce per offendere ulteriormente l’altro. In questo modo, al dolore fisico si aggiunge ulteriore sofferenza psichica. Ma cos’è il dolore? In base all’eziologia il dolore è diviso in:

  • nocicettivo (danno ai tessuti, dolore circoscritto che viene definito come pulsante, costrittivo, pungente, per es. lesioni, fratture…);
  • neuropatico (lesioni a livello del sistema nervoso centrale e/o periferico, riferito come un dolore diffuso, costante, snervante, invalidante, per es. post ictus, sclerosi multipla ecc.)
  • misto (per es. dolore alla schiena in malati oncologici).

Il dolore è stato definito dall’International Association for the Study of Pain (IASP) come: “un’esperienza sensoriale ed emotiva spiacevole associata o simile a quella associata a un danno tissutale effettivo o potenziale”. Nello specifico:

  • Il dolore è sempre un’esperienza personale che è influenzata in vari gradi da fattori biologici, psicologici e sociali.
  • Il dolore e la nocicezione sono fenomeni diversi. La nocicezione è la trasmissione dell’informazione di un danno tissutale, che dai recettori periferici, viene trasmessa fino alla corteccia e all’area limbica.
  • Il dolore non può essere dedotto esclusivamente dall’attività nei neuroni sensoriali.
  • Apprendiamo il concetto di dolore attraverso le esperienze di vita.
  • Il resoconto di un’esperienza come dolorosa dovrebbe essere sempre rispettata.
  • Sebbene il dolore di solito svolga un ruolo adattativo, può avere effetti negativi sulla funzionalità e sul benessere sociale e psicologico.
  • La descrizione verbale è solo uno dei numerosi comportamenti per esprimere dolore.
  • L’incapacità di comunicare non nega la possibilità che una persona o un animale provi dolore. (Raja et al., 2020).

Rispetto alla capacità di comunicare dolore è interessante l’associazione tra attaccamento, trauma e dolore. Si è visto che bambini con attaccamento insicuro di tipo evitante mostrano meno segnali di dolore, questi bambini “silenziano” il corpo, mostrando una comunicazione non verbale e verbale molto povera rispetto al proprio dolore fisico. Al contrario, i bambini con un attaccamento insicuro ambivalente, tendono a manifestare moltissimo disagio e agitazione. Conoscere le cause di questi diversi modi di manifestare il dolore, può consentire di mediare in modo funzionale l’esperienza del dolore, sviluppando buone pratiche per la sua gestione. Difatti, nei bambini i traumi irrisolti comprendono anche singoli o multipli esperienze di dolore acuto o cronico non alleviato. Le conseguenze negative di un dolore non alleviato possono essere permanenti (Failo, Giannotti, Venuti, 2019).

Il dolore cronico “è una condizione caratterizzata da un’esperienza sensoriale ed emotiva che perdura oltre alla normale guarigione e/o comunque ricorre oltre i sei mesi ed erode la qualità della vita di un individuo, rappresentando una significativa fonte di stress, quale minaccia sia per la sua integrità corporea che esistenziale” (in Failo, Mazzoldi, 2020). Inoltre ha un impatto sui loro familiari e costi elevati per la società, in quanto il numero delle persone che ne soffre supera la somma delle persone malate di cancro, diabete e malattie cardiache.

La variabilità individuale rispetto al fronteggiamento del dolore cronico è legata non solo a caratteristiche fisiche e temperamentali, ma anche a come l’ambiente ha risposto e risponde a queste. Si rimanda alla Teoria Polivagale di Porges (vd Deb Dana, 2018; 2019) per approfondire i meccanismi di mentalizzazione dell’esperienza corporea.

Allora è utile pensare allo sviluppo dell’antifragilità nelle persone con dolore cronico?

In effetti, il costrutto dell’antifragilità comprende 4 dimensioni (Anti Fragility Questionnaire, Giunti, 2019) che mi pare siano tutte legate ad un tipo d’azione generativa:

  • Adattamento proattivo: capacità di reagire in modo proattivo di fronte a situazioni impreviste, cogliendone i vantaggi e trasformando i limiti in opportunità per evolvere. Mi ci trovo e ballo sotto la pioggia.
  • Evoluzione agonistica: motivazione verso situazioni nuove con curiosità per il cambiamento, ricercando sfide in cui contemplare anche il fallimento, alla scoperta di nuove possibilità. Mi ci metto, esploro, esponendomi a piccoli stress.
  • Agilità emotiva: capacità di riconoscere e stare a contatto con le proprie emozioni e trasformare il vissuto emotivo in energia o distaccandosi emozionalmente per gestire al meglio se stessi, cioè regolare le emozioni in modo funzionale.
  • Distruttività consapevole: capacità di superare il condizionamento della conoscenza
    eliminando consapevolmente i vincoli mentali disfunzionali al superamento della sfida. Flessibilità cognitiva, pensiero divergente.

Specifico subito, cosa, secondo me, non è antifragile. A mio avviso, l’antifragile non è un eroe semi-infrangibile, né un cinico, distaccato dagli altri, impermeabile alle emozioni, concentrato solo sul suo guadagno e che rischia sì, ma sulla pelle degli altri, tantomeno un sensation seeker sconsiderato che compulsivamente insegue nuove sensazioni.

Se colui che assume la posizione resiliente, resiste, affronta e supera gli eventi negativi, si piega senza spezzarsi e conserva le sue caratteristiche, colui che assume la posizione antifragile mira ad evolvere, a migliorare, a superare una condizione molto negativa, partendo dal problema stesso e trasformandolo in opportunità. Riesce a fare questo, non solo accettando l’imprevedibilità della vita, gli ostacoli, i problemi e la fragilità, ma ricercando attivamente sfide, rischi ed esponendosi a piccoli stress. Quando sviluppiamo uno stato mentale antifragile, percepiamo tutta la nostra fragilità e siamo consapevoli che i rischi presi, ci mettono in una posizione di reale incertezza e aumentata probabilità di fallire, tuttavia sappiamo, o meglio, speriamo e abbiamo fiducia che l’esperienza sarà comunque un’occasione di apprendimento generativa. Magari non ci porterà nel punto programmato, dove volevamo arrivare, ma chissà, potrebbe condurci in un punto anche migliore rispetto a quello che potevamo prevedere. Quindi l’antifragile, non si espone agli stress e all’incertezza per masochismo né per costrizione, piuttosto perché è mosso da una passione, una forte motivazione intrinseca, che lo spinge a cambiare, ad esplorare spazi nuovi e a visualizzare scenari possibili. La passione potrebbe portare a sfruttare un altro fenomeno ben conosciuto nella prestazione sportiva e che è stato individuato studiando l’atto creativo degli artisti: lo stato di flow. Lo stato di flow è quello stato di coscienza in cui si è massimamente concentrati nello svolgere un’attività con una motivazione intrinseca così alta, da sperimentare un’espansione dei confini del sé, a partire da una destrutturazione dell’esperienza temporale e da un incremento della percezione di controllo nei confronti dell’attività che si sta svolgendo (cfr. Muzio, Riva, Argenton, 2012). In questo stato di coscienza, in cui c’è una perfetta integrazione mente-corpo, finalizzata all’azione, il dolore, per esempio, potrebbe essere confinato automaticamente in secondo piano, nella periferia della propria attenzione e del proprio campo d’azione, almeno in alcuni momenti della giornata. Da quanto sopra emerge che molte tecniche (biofeedback, neurofeedback, rilassamento ecc.) e terapie cognitive e comportamentali (CBT; REBT; ACT; Terapia basata sulla Teoria Polivagale ecc.) possano essere messe al servizio delle persone con dolore cronico per sviluppare anche le componenti dell’antifragilità.

Concludo con D’Avenia (2006) che ci indica un antifragile per eccellenza, che, a sua volta, ci invita ad apprezzare la propria e l’altrui fragilità: “C’è un altro modo per mettersi in salvo, ed è costruire, come te, Giacomo, un’altra terra, fecondissima, la terra di coloro che sanno essere fragili.

La Psicoterapia funziona? Le Neuroscienze ci hanno spiegato come

Ma come può un complesso di attività e tecniche basate per lo più sulla parola, come la Psicoterapia, essere efficace al punto di indurre modificazioni nei convincimenti e nel comportamento altrui?

 

Alzi la mano chi non si è mai posto questa domanda oppure si è ma sentito porre un tale interrogativo; ebbene, è dimostrato ormai da tempo, con una enorme quantità di studi scientifici basati su dati empirici, che la Psicoterapia funziona, in una considerevole percentuale di casi, sia nell’immediato, nel breve periodo, sia anche dopo molto tempo dalla sua conclusione. La Psicologia e le pratiche Psicoterapeutiche non hanno perciò bisogno di essere difese né tantomeno questa può essere la sede per farlo e confermare la loro validità.

Ma come può un complesso di attività e tecniche basate per lo più sulla parola essere efficace al punto di indurre modificazioni nei convincimenti e nel comportamento altrui? Semplice suggestione? Assolutamente No, e le Neuroscienze lo hanno dimostrato. Tre gli argomenti chiave: plasticità sinaptica, plasticità cerebrale, epigenetica.

In principio era Kandel, neurologo, psichiatra e neuroscienziato statunitense premio Nobel per la Medicina nel 2000; lo vedremo tra poco, ma la storia inizia anche prima.

Che il nostro cervello non fosse un ingranaggio rigido ma avesse qualcosa di modificabile lo intuì per primo in maniera scientifica Donald Hebb, psicologo canadese. Studiando i processi psichici della ritenzione delle esperienze, del recupero dei ricordi e quindi dell’apprendimento, nel 1949 propose la “Teoria dell’Assemblea Cellulare”, meglio conosciuta semplicemente come “Legge di Hebb” (Hebb, 1949).

In sintesi Hebb propose ed affermò che se l’assone del neurone A e quello del neurone B, nella loro connessione (sinapsi), si attivano ripetutamente (oggi diremmo “proiettano”, “sparano” segnali elettrochimici) durante un evento, si verificheranno modifiche strutturali o metaboliche tali da aumentare l’efficacia di tale sinapsi conservando nel tempo il ricordo di quell’evento. In altre parole, sostenne la capacità del sistema nervoso di modificare la natura e la forza delle connessioni tra i neuroni che consentono la trasmissione di impulsi elettrochimici. Implicitamente quindi postulò la plasticità sinaptica.

Le ricerche di Taub, Elbert e colleghi nel 1995 (Elbert, 1995) misero in luce che la rappresentazione corticale delle dita della mano sinistra dei suonatori di violino (destrorsi) era più grande che la rappresentazione della mano destra e di quella dei controlli. Ossia i loro studi suggerirono l’ipotesi, poi confermata dalle evidenze scientifiche successive, che la rappresentazione di diverse parti del corpo nella corteccia somatosensoriale primaria degli esseri umani dipende dall’uso e dai cambiamenti per conformarsi ai bisogni e alle esperienze attuali dell’individuo. Da quella ricerca fu quindi dimostrata la plasticità cerebrale.

Parallelamente, negli ultimi 30 anni del secolo scorso, la ricerca neurobiologica avviò una serie di ricerche sulla riproduzione cellulare nel cervello dei mammiferi prima e dell’uomo poi.

Fino alla metà degli anni Sessanta del secolo scorso si presumeva che il sistema nervoso centrale dei mammiferi diventasse strutturalmente stabile subito dopo la nascita e rimanesse tale per tutta la vita (Gould, 2002).

Un aspetto fondamentale di questa stabilità era che nessun nuovo neurone veniva aggiunto al cervello in età adulta (Gross, 2000). In quel periodo cominciò ad essere pubblicata tutta una serie di ricerche che iniziarono a mettere in dubbio questa visione: Altman (1962; 1963; 1966; 1967), Altman & Das (1965; 1966). Negli anni ’90 ci furono diversi sviluppi che finalmente appurarono l’esistenza della produzione di nuove cellule nel sistema nervoso centrale dei roditori adulti, ossia la neurogenesi di alcune particolari cellule nel cervello di questi mammiferi (Goud, 2002). Le prime ricerche furono quelle di Cameron (Cameron, 1993), di Okano  (Okano, 1993) e quelle di Seki e Arai (1993). Tali studi trovarono nuovi neuroni, specificatamente cellule granulari, in una varietà di strutture nel ratto e nel gatto adulti, in particolare nel bulbo olfattivo, nel giro dentato dell’ippocampo e in alcune zone della corteccia cerebrale. Alla fine del ventesimo secolo la neurogenesi, per alcune regioni del cervello dei mammiferi adulti, è universalmente accettata dalla comunità scientifica (Gould, 2002).

Già dagli esperimenti sui meccanismi di apprendimento della lumaca di mare Aplysia californica, condotti negli anni Ottanta del ventesimo secolo, Carew, Hawkins e Kandel (Carew, 1983) osservarono che, con il ripetersi della presentazione dello stimolo, la serotonina ha un effetto indiretto non solo a livello della permeabilità della membrana cellulare, ma anche a livello di DNA e quindi sull’espressione di specifici geni (Pagani, 2019).

Molto grossolanamente e in estrema sintesi: sappiamo che un gene è fatto non soltanto della sua regione codificante, che contiene il suo codice, ossia ciò che ereditiamo dai nostri genitori e dai nostri avi, ma ha anche altre due regioni: una chiamata promotore del gene, e una chiamata enhancer. Entrambe queste due ultime regioni, con delle modalità e delle valenze diverse, sono delle regioni regolatorie. Ossia regolano la produzione di proteina della regione codificante del gene. Kandel e collaboratori (Carew, 1983) dimostrarono che queste proteine dette regolatorie e altri enzimi (ad esempio l’RNA polimerasi), che sono all’interno del nucleo cellulare, possono essere attivati o disattivati da molteplici stimoli: alcuni sono stimoli di natura enzimatica, (tipicamente CMP ciclico), altri sono stimoli di natura neurotrasmettitoriale (per esempio la serotonina, 5-HT), ma anche da stimoli di natura ambientale e non farmacologica.

Sulla base di questa scoperta e dei successivi studi, nel 1998 Kandel E.R. (1998) pubblicò un articolo, questo era un ampliamento del discorso che egli stesso aveva pronunciato in occasione di un convegno di Psichiatri nel 1997 in cui l’illustre scienziato si proponeva di dare un fondamento neurobiologico alle terapie psichiatriche non biologiche, come per esempio la psicoanalisi e le psicoterapie (Pagani, 2019).

Egli spiegò chiaramente che le modificazioni del DNA all’interno di qualsiasi cellula, comprese quindi quelle cerebrali, non sono solamente frutto del nostro patrimonio genetico ma dipendono anche da variabili di natura ambientale, come per esempio il fatto di essere sottoposti ad un ambiente particolarmente stimolante e che stimola per esempio le nostre funzioni di memoria. Questo è l’esatto punto, a livello molecolare, in cui avviene la vera interazione tra patrimonio genetico dell’individuo e ambiente. Il livello epigenetico (Pagani, 2019).

Grazie a queste scoperte ora siamo maggiormente consapevoli di come e quanto parole, gesti, comportamenti, in una parola, l’ambiente che circonda ognuno di noi, influisce e modifica ogni essere vivente.

 

La pulsione aggressiva e la guerra in psicoanalisi (2021) – Recensione del libro

Diviso in tre sezioni, Casi clinici, Aspetti della decisione nell’analisi dei bambini e La teoria nella clinica, La pulsione aggressiva e la guerra in psicoanalisi offre un cambio di prospettiva sulle differenti vicende esposte.

 

Il sapere della pulsione concorre a determinare la realtà per l’inconscio, che non coincide con il senso di realtà, una contrapposizione che può esaurire l’energia vitale del soggetto.

Scrivere un libro sulla psicoanalisi, sembra una cosa relativamente passata, il che può far entrare i meno esperti nella palude dello scetticismo. Le mutate condizioni storiche, nonché l’avvento di altre forme di psicoterapia, ne denotano una messa in discussione, come se un certo pensiero psicologico sia agganciato necessariamente al suo aspetto spazio-temporale.

Al di là del rivoluzionarismo in psicologia, molto spesso quello che conta, oltre l’approccio utilizzato, è la plasticità con la quale vengono esposti i casi ma, soprattutto, è importante che la didattica della narrazione li esalti da una zona pedagogica “elettrizzata” in cui si comprende, punto per punto, l’iter che sfocia nel comportamento deviante e che, di frequente, ha radice nell’educazione ricevuta nella nostra infanzia, vista come tra i protagonisti dell’andamento delle nostre pulsioni.

Il libro La pulsione aggressiva e la guerra in psicoanalisi, di Mario Rivardo e Maddalena M. Treccani, tratta della pulsione aggressiva e si costituisce nella trattazione di una serie di casi interessanti.

Diviso in tre sezioni: Casi clinici, Aspetti della decisione nell’analisi dei bambini e La teoria nella clinica, offre un cambio di prospettiva sulle differenti vicende esposte (per l’ampia estensione delle circostanze riportate mi concentrerò su quelle che mi hanno maggiormente colpito).

Immerso totalmente nella lettura non ho potuto che apprezzarne i fatti eccezionali, l’approfondimento del senso del “proprio posto nel mondo” dei soggetti coinvolti, il ripensamento di vicende comuni nonché tratti che possono toccare da vicino il lettore dato lo spirito acuto di osservazione e il modo “empatico” di considerarli. Si noti, del resto, l’indirizzo psicoanalitico degli autori:

Come si colloca [..] la decisione? In quale momento, come e perché una persona in analisi prende una decisione? È importante distinguere quando una decisione è un atto senza essere un passaggio all’atto, un movimento che sembra in avanti e in realtà è un movimento all’indietro in cui il soggetto viene respinto alla centralità del suo Io e su una posizione caratterizzata dal narcisismo.

Gli autori utilizzano una frase significativa che ci accompagnerà in tutti gli interessanti casi descritti in questo libro: «a prevalere sono le esigenze che ispirano i criteri di una economia domestica volta al mantenimento dei legami incestuosi». Come se le nostre decisioni siano ancorate ad altre, specificamente ai legami che hanno intessuto le fasi sensibili della nostra vita; per tale motivo è insita una forma di energia (pulsione) che tende a farsi autorità nell’individuo.

Le pulsioni esistono in virtù di un intrinseco dettame originario, e possono contrastare, ribellarsi ad un precostituito e contrario dispositivo educativo-sociale insito nelle relazioni familiari.

Doverosa la spiegazione di incestuosità, di cui, molto spesso, si evade l’intimo significato:

L’incesto non è “un fatto”, un accadimento, ma quell’impregnazione costante che costituisce per ciascuno il più forte vincolo, nel senso di catena, a fare, della propria vita, una vita propria. Una vita che non ricalchi, attraverso le vie dell’amore o attraverso quelle dell’odio, in un riferimento costante, aspetti della storia dei propri genitori nelle forme inconsce con cui essa è giunto al soggetto. Che al vincolo inconsciamente subito si sostituisca un legame d’amore liberamente scelto, è del resto una possibile apertura offerta da un’analisi giunta a compimento.

La pulsione aggressiva si prefigge come arma di combattimento e di preservamento dell’individuo, e può essere e può configurarsi, come dicevamo, in base ai legami familiari: genitori ambiziosi, rifiutanti, prepotenti, apatici, slavati o senza slanci di impulso o sentimenti o che, proponendo ai figli miraggi troppo concreti e angusti, mortificano le iniziative o si espongono al dolore di un prematuro distacco “spirituale” che immerge il proprio figlio in percorsi psicologicamente sdoppianti, vivendo in una immaginifica caccia “alla ricerca del paradiso perduto”. Apprezzabili gli effetti dello squilibrio per eccesso: la pulsione aggressiva si amplifica, come nel caso in cui il padre prepotente costringe i figli a regolare l’esistenza secondo principi non sentiti e pertanto sfibra il loro carattere disponendoli al servilismo, ne conseguono fermenti di ribellione, conati di dominio, bisogno di evasione, ansia di prove egoistiche; come nel caso di Marco menzionato nel libro, in cui, il padre una persona che, nell’ira, perde facilmente il controllo. Marco fa il bravo bambino, parla sensato, dice che è stato buono, si è pentito di aver fatto arrabbiare il papà, gli dispiace di aver picchiato un compagno «ma è stato per sbaglio, non per colpa mia». Ci vorrà del tempo perché si cominci a manifestare quanto di conflittuale, e di mirato, il “per sbaglio” ricopre.

I genitori amatissimi dei figli possono finire per diventare i loro carnefici. I genitori ambiziosi considerano i figli in funzione propria, come un’appendice o la cute dei loro insuccessi, dei tentativi sociali mancati.

In tale prospettiva si racconta il linguaggio dell’inconscio tra passaggi logici e una perfetta analisi in cui emerge la fascinazione di venire a conoscenza di una realtà nascosta nelle “nostre” decisioni; una realtà che crediamo ci appartenga e di cui si crede si abbia un perfetto controllo ma che, per comprenderla, ci obbliga a mettere i riflettori sul nostro passato. Ed è così che alcuni tratti possono essere associati ad altri, come in uno dei primi episodi descritti nel libro che narra la separazione dal coniuge. È il caso di una donna che, dopo aver lasciato il marito, rivive nuovamente la stessa circostanza con l’amante colto in flagrante con un’altra donna. La comparsa di questo tipo di decisione appare qui strettamente connessa con una serie di sintomi collocabili nell’ambito del tradimento – “non posso vivere senza sapere” – lungo cui corre, a distanza, il filo della ripetizione del legame con un padre infedele alla propria moglie.

Rimanendo in tema di padri, interessante il paragrafo su come si diventa handicappati: Carlo, vittima di un incidente, pone il padre in profondi sensi di colpa per non aver consentito al figlio di salire in un’auto così “troppo potente”. Così il senso di colpa del padre è un primo elemento che rende “handicappato” Carlo in quanto il padre, attraverso la “grande” decisione di interrompere la propria attività di avvocato e di dedicarsi completamente al figlio, non solo si è appropriato della sua responsabilità personale rispetto all’incidente ma, con il dedicargli gran parte della propria vita lo ha reso dipendente da lui. L’interessante caso continua con la minuzia di particolari tra cui una forma di atteggiamento ostile nei confronti dei genitori sotto forma di ossessione per lo studio e per il lavoro. Le parole dell’inconscio: «io non voglio studiare, voi mi obbligate a studiare, io studio troppo, sto male, e vi faccio star male».

Un messaggio opposto, descritto successivamente, riguarda l’utilizzo della droga come strumento di unione per rendere ancora più stretto il suo legame con la madre.

Seguono altrettanti casi interessanti sull’analisi del disegno nei bambini, sulle opere letterarie di Francisco Coloane «Capo Horn» e «Vita e destino» di Vasilij Grossman, in cui la pulsione aggressiva teorizzata da Sigmund Freud trova vita.

 

Gli effetti a lungo termine delle relazioni sorte in età adolescenziale

Il termine “relazioni tra pari” racchiude in sé molteplici tipologie di affiliazioni, dagli ampi gruppi sociali e conoscenze casuali alle amicizie diadiche.

 

Una distinzione fondamentale tra i diversi tipi di interazioni tra pari risiede nel grado in cui le interazioni si concentrano su amicizie strette rispetto allo stabilire il successo con un gruppo di pari più ampio, che può essere composto da conoscenti o amici più occasionali.

In generale, il possedere amicizie di qualità è stato associato a risultati positivi durante l’adolescenza. I giovani con livelli più alti di attaccamento ai loro migliori amici sembrano avere una migliore salute psicologica, nonché un miglior adattamento psicosociale (Wilkinson, 2010). Difatti, all’interno dei gruppi più ampi, è più difficile ricevere quell’attenzione che porta un soggetto a sentirsi unico nel suo genere. Nonostante l’essere inseriti all’interno dei gruppi determini lo sviluppo di determinate competenze sociali, che comportano a loro volta alcuni benefici durante l’adolescenza, come una maggiore autostima (Larson et al., 2007), una maggiore capacità assertiva e una minore aggressività (Asher & McDonald, 2009), solo la vicinanza tra due persone è stata collegata ad una maggior motivazione e al successo scolastico (Larson et al., 2007).

I comportamenti che rendono un giovane più “popolare” come il bere, fumare, il far uso di droghe, la frequente attività sessuale, non sono sempre visti in maniera positiva in età adulta (Moffitt, 1993). Durante l’adolescenza, al contrario, ci sono una varietà di benefici concomitanti nel guadagnare, attraverso questi atti, ammirazione da parte dei pari. Tuttavia, alcuni studi hanno scoperto che il raggiungimento dell’ammirazione da parte dei pari, all’inizio dell’adolescenza, può essere collegato, a breve termine, ad un aumento dell’incidenza di comportamenti sia positivi che negativi. Difatti, da un lato, questa popolarità aumenta la probabilità che vengano attuati comportamenti ancor più problematici, dall’altro, talvolta, consente la regressione di comportamenti come l’ostilità e l’aggressività (Balsa et al., 2010). Inoltre, coloro i quali sono concentrati sul successo all’interno del gruppo di pari – al punto da esser disposti a compromettere i loro valori per essere ammirati – mostrano maggiormente un comportamento problematico durante la fase avanzata dell’adolescenza (Fuligni et al., 2001).

Oltre ai comportamenti delinquenziali ed esternalizzanti, le interazioni all’interno dei gruppi possono avere un impatto sui sintomi internalizzanti, come la sintomatologia depressiva e sintomi dell’ansia sociale.

Di contro, si è visto che, dinanzi ad una serie di fattori stressanti tipici dell’adolescenza, i giovani hanno meno probabilità di sviluppare sintomi di ansia sociale se sono in grado di sviluppare amicizie strette di alta qualità (La Greca & Harrison, 2005).

Sulla base di quanto appena esplicitato, la domanda rilevante a questo punto è: quali effetti hanno le diverse tipologie di relazioni in età adulta? Nonostante sia chiaro che possedere un’abbondanza di relazioni possa determinare degli effetti benefici a breve termine, l’aver rinunciato a relazioni più strette, potrebbe essere problematico in età adulta.

Difatti, come si è detto, una volta che i comportamenti devianti che vengono lodati dal gruppo durante l’adolescenza smettono di essere visti come positivi, gli adolescenti che si basano sulle deboli fondamenta di quei comportamenti per raggiungere il successo – senza sviluppare amicizie strette – possono trovarsi persi in età adulta.

Lo studio preso in esame è stato condotto su un campione di giovani dai 15 ai 25 anni, al fine di estendere la comprensione delle conseguenze a breve e lungo termine date dalle differenti tipologie di interazioni. In primo luogo, i ricercatori hanno ipotizzato che la preferenza per i gruppi più ampi e la qualità delle interazioni diadiche avrebbero predetto, ciascuno in modo univoco, una diminuzione dei sintomi depressivi, un aumento dell’autostima e l’aumento della percezione dell’accettazione sociale in tarda adolescenza. In secondo luogo, è stato ipotizzato che la qualità dell’amicizia stretta avrebbe predetto un miglioramento della salute mentale in età adulta. È stato ipotizzato che la preferenza per le conoscenze più superficiali non avrebbe portato a simili guadagni a lungo termine, a causa della natura mutevole delle competenze necessarie per il successo interpersonale nel tempo.

Il campione era costituito da 169 studenti.

Come ipotizzato, la qualità dell’amicizia stretta e la preferenza di affiliazione tra pari durante gli anni dell’adolescenza hanno predetto in modo univoco i cambiamenti, a livello della salute mentale, dalla metà dell’adolescenza alla prima età adulta. In particolar modo, la qualità delle interazioni diadiche è stata associata a dei miglioramenti sia a breve che a lungo termine. In questo studio, gli adolescenti che hanno riferito di avere relazioni più strette hanno mostrato un aumento dell’autostima e dell’accettazione sociale l’anno successivo. La preferenza di affiliazione tra pari, tuttavia, non ha predetto cambiamenti a breve termine nei sintomi internalizzanti.

È possibile che le amicizie strette durante l’adolescenza forniscano esperienze positive che rafforzano il concetto di sé degli adolescenti nel tempo. Esse possono al contempo offrire delle opportunità di sviluppare un attaccamento sicuro con un coetaneo, oltre ai membri della famiglia o altri adulti. Inoltre, è stato dimostrato che le occasioni che permettono alle persone di assumere ruoli di aiuto hanno un impatto positivo sul benessere e sulla soddisfazione generale (Weinstein & Ryan, 2010).

Al contrario, la preferenza per i gruppi più ampi non è stata associata a nessun cambiamento significativo a breve termine nel funzionamento, ma ha predetto un aumento dei livelli di ansia sociale in età adulta.

Secondo gli autori non è la preferenza per l’affiliazione verso i gruppi di pari in sé ad essere problematica nel tempo. I giovani che possiedono una certa popolarità possiedono naturalmente una serie di abilità sociali apprezzate dai pari, ma il punto è che mantenere la preferenza per questa popolarità, piuttosto che concentrarsi sulla costruzione di amicizie più significative, potrebbe successivamente determinare delle difficoltà per alcuni giovani (Nangle, et al., 2003).

Questi risultati, se replicati, potrebbero avere implicazioni nel guidare genitori e insegnanti nella comprensione e nell’incoraggiamento delle relazioni adolescenziali, così come per una varietà di interventi focalizzati sull’interpersonalità che cercano di migliorare la salute mentale degli adolescenti e/o le relazioni strette.

 

La storia di Charles McGill, prestigioso avvocato affetto da Radio-Fobia. Analisi in chiave clinica del racconto tratto dalla serie televisiva “Better call Saul”

Nel corso dell’articolo proverò a raccontarvi la storia di Charles McGill, osservandone con leggerezza gli aspetti più umani e caratteristici, la sua relazione particolare con il fratello James, e cercherò infine di delineare un breve quadro clinico che descriva e spieghi alcuni dei sintomi e dei comportamenti raccontati.

Attenzione – L’articolo contiene spoiler!

 

Introduzione

Viviamo in un periodo storico dove la pandemia ha influenzato negativamente molte delle nostre abitudini, costringendoci a chiuderci in casa e ad evitare il più possibile l’esposizione all’ambiente esterno e alle relazioni interpersonali. Per fortuna la situazione sembra destinata a migliorare e la speranza di riappropriarci delle nostre sane abitudini ci appare sempre più realizzabile.

Purtroppo però ci sono persone che erano costrette a rimanere chiuse in casa già prima della pandemia e che lo rimarranno anche al termine della stessa poiché sono colpite da qualche forma di psicopatologia che ne compromette le capacità sociali e lavorative.

Non è così facile sentir parlare di casi del genere all’interno del mondo dei mass-media poiché è ancora presente un certo grado di ignoranza e vergogna rispetto a questo tema (sia da parte dei giornalisti che da parte delle persone portatrici del disagio).

Purtroppo però, chi come me lavora nel settore della salute mentale, può testimoniare come il numero di persone coinvolte in queste gravi forme psicopatologiche è più alto di quello che generalmente si crede.

È importante dunque sdoganare il tema della malattia mentale senza tuttavia fare troppa pressione sulle persone coinvolte e “costringerle” a mettersi in gioco personalmente.

Ma è davvero possibile raggiungere questo compromesso?

La risposta sembra essere affermativa e, come spesso accade, anche in questo caso l’arte e lo spettacolo possono venirci in aiuto.

Obiettivo e contenuto dell’articolo

Proprio durante la scorsa quarantena, ho avuto modo di guardare la famosa serie televisiva dal titolo “Better call Saul”, lo spin-off/prequel dell’ancora più conosciuta serie tv “Breaking Bad”, trasmesse entrambe su Netflix. Sono delle serie tv che non hanno assolutamente nulla a che vedere con il tema della salute mentale, tuttavia in “Better call Saul” è stato dedicato molto spazio alla narrazione della vita di Charles McGill, prestigioso avvocato di successo affetto da una grave forma di “Ipersensibilità Elettromagnetica”.

Nel corso dell’articolo proverò a raccontarvi la storia di Charles, osservandone con leggerezza gli aspetti più umani e caratteristici, la sua relazione particolare con il fratello James, e cercherò infine di delineare un breve quadro clinico che descriva e spieghi alcuni dei sintomi e dei comportamenti raccontati.

Due piccole precisazioni prima della lettura

  • L’articolo contiene numerosi spoiler della serie tv;
  • Il presente lavoro ha uno scopo di intrattenimento e non è da intendersi come un articolo scientifico poiché le informazioni su cui baserò alcune delle considerazioni cliniche sono parziali e frutto della mia libera interpretazione dell’opera televisiva.

Informazioni sulla vita di Charles McGill

Charles McGill, detto Chuck, ha 57 anni ed è il socio fondatore di uno dei più grandi e influenti studi legali di Albuquerque (USA). Vive da solo da diversi anni dopo aver divorziato da Rebecca. Nell’ambiente lavorativo è molto apprezzato per le sue doti diplomatiche, la sua lunga esperienza, la dedizione alla legge, che studia e pratica con professionalità, ma soprattutto per la sua rettitudine morale.

Chuck è il fratello maggiore di James, detto Jimmy (protagonista della serie), anche lui avvocato, ma caratterialmente agli antipodi del fratello maggiore.

Jimmy ha sempre vissuto di espedienti. A differenza di Chuck è inaffidabile ed imprevedibile. Non si fa troppi scrupoli ad infrangere la legge pur di continuare la sua improbabile scalata al successo. Jimmy è una persona molto ambiziosa e disposta proprio a tutto. Puntualmente si mette nei guai e per uscirne ha spesso bisogno dell’aiuto dei suoi cari, incluso Chuck, che è sfiancato ed irritato da questi ripetuti comportamenti inappropriati da parte del fratello minore. Chuck infatti ha passato la sua intera vita a cercare di rimediare agli errori di Jimmy, ad esempio tirandolo fuori dal carcere e dandogli una grande opportunità lavorativa come addetto allo smistamento della posta nel suo studio legale.

Tuttavia, andando avanti con la serie, si scoprirà che Chuck nei confronti di Jimmy non ha agito sempre e solo guidato dall’amore fraterno, anzi, ha segretamente e per lungo tempo messo i bastoni tra le ruote a Jimmy, soprattutto rispetto al suo tentativo di avanzare nella carriera di avvocato, poiché non crede abbia meritato questo titolo e possa in alcun modo onorare la professione.

Chuck certamente prova dei sentimenti negativi nei confronti di Jimmy, sentimenti che poi nella serie tv saranno esplicitati e che comprendono principalmente l’odio (perché considera suo fratello responsabile della malattia e della successiva morte prematura del padre) e invidia (non capisce perché Jimmy, nonostante il suo agire da incosciente, susciti negli altri una certa forma di simpatia e venga apprezzato da molte persone, inclusa la sua ex-moglie Rebecca).

La malattia

Chuck da circa 2 anni soffre di una condizione che viene comunemente definita ipersensibilità elettromagnetica e consiste in un insieme di sintomi fisici e psicologici, che le persone le quali si dichiarano affette da tale condizione attribuiscono all’esposizione a campi elettromagnetici. L’Organizzazione Mondiale della Sanità però non ha riconosciuto questa condizione come una malattia poiché mancano le evidenze scientifiche e sembrerebbe piuttosto trattarsi di uno stato di disagio psicologico che prende la suddetta forma.

È importante precisare, però, che la “battaglia” sul riconoscimento o meno di tale malattia non è ancora conclusa e che in tutto il mondo esistono associazioni di persone affette da questa che considerano una vera e propria malattia, e lottano affinché essa venga riconosciuta anche dall’OMS come tale.

Riguardo al nostro Chuck, però, non sembrano esserci grossi dubbi, il suo è un problema di natura psichica. Lo si può affermare poiché, oltre ad essersi sottoposto a numerosi esami medici oggettivi ottenendo sempre esito negativo, Chuck è stato più volte astutamente ingannato, facendolo venire a contatto, a sua insaputa, con delle forti fonti elettromagnetiche e si è visto che esse non gli provocavano reazioni di alcun tipo, dimostrando di fatto la natura psicologica del problema, anche se Chuck si rifiuterà di accettarlo.

Ad ogni modo, la natura psicologica del problema non significa che esso sia meno grave, tant’è che il disturbo diventa progressivamente sempre più invalidante, conducendo a momenti di forte crisi, tali da rendere necessari dei ricoveri ospedalieri. Inoltre, il ritiro sociale e lavorativo di Chuck, è ormai un fatto consolidato (sono passati 18 mesi da quando si è messo in aspettativa dal lavoro) e le persone a lui più vicine fanno di tutto per dargli una mano e supportarlo in questa sua difficoltà.

Chuck presso la sua abitazione ha disdetto la fornitura di energia elettrica. Ha eliminato ogni oggetto che funzioni con una batteria o che possa produrre campi elettromagnetici. Chiunque voglia entrare in casa sua deve lasciare tutti i dispositivi dotati di batteria nella cassetta della posta collocata a molti metri di distanza dall’abitazione. Inoltre l’ospite prima di entrare in casa deve “decontaminarsi” toccando con il dito un marchingegno creato ad hoc che scarica a terra l’eventuale energia elettrostatica accumulata nel corpo umano.

Chuck vive nel buio e nella solitudine, ma non sembra rammaricato per questo, per lui la cosa più importante è proteggersi dalle radiazioni poiché i sintomi che accuserebbe sarebbero troppo intensi e dolorosi ed è convinto che possano condurlo alla morte. Quando ha provato ad uscire di casa o quando è stato costretto a venire a contatto con dei campi elettromagnetici, ha avvertito una lunga serie di fastidiosi sintomi: intorpidimento, dolore o sensazione di formicolio agli arti, sensazione di bruciore cutaneo, tachicardia, sudorazione, tremore, acufene, vista annebbiata, nausea e vertigini con tendenza all’instabilità e allo svenimento.

Passa le sue giornate monotone leggendo libri e giornali illuminato da una piccola lanterna a gas. Ogni tanto suona il pianoforte. Il cibo è conservato in una grande scatola termica che ogni giorno ha bisogno di essere riempita con del nuovo ghiaccio. Da quando ha saputo che in città hanno installato dei nuovi generatori elettrici, spesso accusa dei blandi sintomi della sua “malattia” e ha bisogno di coprirsi con una coperta isotermica attingendo dalla sua vasta scorta di materiale radio-protettivo.

Chuck però non è del tutto solo, tutti i giorni Jimmy va a fargli visita consegnandogli la spesa, il ghiaccio e il giornale. Jimmy è estremamente premuroso nei confronti di Chuck, lo assiste con rispetto, pazienza e una preservata ammirazione nei suoi confronti. Non è del tutto convinto della natura medica del disturbo di Chuck, tuttavia lo rispetta e forse lo teme troppo per dirglielo esplicitamente, anche se spesso lo invita ad uscire di casa e a smetterla di prendere tutte quelle precauzioni. Chuck approfitta delle visite che Jimmy gli fa per controllare suo fratello minore e assicurarsi che non si metta in guai troppo grossi come è solito fare.

Anche il suo amico di vecchia data, nonché socio in affari Howard, frequentemente si reca da Chuck per fargli un saluto, aggiornarlo sull’andamento dello studio legale di cui condividono la proprietà e per ribadirgli la sua stima e la sua vicinanza e disponibilità sia in termini professionali che affettivi.

I sintomi riflettono l’andamento della vita relazionale di Chuck

Il problema di Chuck ha degli alti e bassi. Ci sono momenti in cui sembra stare meglio ed altri in cui peggiora drasticamente. Vediamone alcuni esempi.

Un giorno Jimmy, dopo essere finito sui giornali locali per una bravata delle sue, con l’intento di non far preoccupare Chuck decide di inventarsi una scusa e di non consegnare tale giornale al fratello. Chuck non se la beve, capisce che c’è qualcosa che non va e, armandosi di coraggio (e coperta isotermica), decide di uscire di casa, seppure solo per qualche secondo, e di “rubare” il giornale dei suoi vicini. Una volta letta la notizia Chuck sta male e nel suo volto si legge una grande tristezza e preoccupazione. I sintomi della sua malattia sembrano peggiorare.

La situazione però è destinata ad aggravarsi ulteriormente poiché i vicini di casa hanno avvertito la polizia del furto del giornale e due agenti si recano immediatamente presso l’abitazione di Chuck, che non è assolutamente disposto ad aprire se prima i due poliziotti non si sottopongono al solito iter di decontaminazione. I poliziotti ritengono di non poter assecondare la richiesta di Chuck e agiscono con la forza sfondando la porta e usando il taser contro di lui.

Non riesco ad immaginare arma più letale che il taser per una persona che si ritiene affetta da ipersensibilità elettromagnetica.

Di fatto Chuck finisce in ospedale, dove viene visitato dalla Dott.ssa Cruz, psichiatra, che si rende subito conto della gravità del problema di Chuck. La Dottoressa informa i familiari sulla natura di tipo psicologico del problema e propone un ricovero perché, nonostante descriva Chuck come una persona estremamente colta ed intelligente, ritiene che le sue attuali condizioni di vita mettano a repentaglio la sua e altrui incolumità. Jimmy decide di non accettare il ricovero assecondando la volontà di Chuck, che si rifiuta categoricamente di riconoscere la natura psicologica del problema.

Tornati a casa, Jimmy farà una sentita promessa a Chuck, per il bene di suo fratello d’ora in avanti eviterà di combinare altri guai. “Miracolosamente” Chuck comincia subito a sentirsi meglio e nei giorni a seguire proverà a suo modo ad affrontare il problema uscendo sempre più spesso fuori di casa e cercando di crearsi una progressiva tolleranza alle onde elettromagnetiche.

La risalita

Ha inizio il periodo migliore per Chuck da quando si è ammalato. Jimmy lo convince a collaborare con lui ad una causa e Chuck riacquista entusiasmo e crescente voglia di rimettersi in gioco a livello lavorativo.

Chuck comincia a tornare a lavoro presso lo studio legale di cui è socio fondatore, anche se, le poche volte che lo fa, deve mettersi in moto una vera e propria macchina di prevenzione. Chuck infatti prima di recarsi a lavoro esige ed ottiene che vengano staccati i contatori e ritirati tutti i dispositivi elettronici del personale.

Nonostante le bizzarrie che caratterizzano la vita di Chuck, questo è un periodo che potremmo definire di convivenza positiva con la malattia. È vero che la convinzione irrazionale è tuttora presente, ma è altresì vero che la sintomatologia sembra pian piano regredire e che Chuck riesce, seppur con notevole sforzo, a recarsi a lavoro.

La verità viene a galla

Purtroppo proprio sul lavoro succede qualcosa di molto spiacevole. Jimmy viene a sapere che Chuck negli ultimi anni ha agito di nascosto per ostacolare la sua carriera professionale. Ne scaturisce un acceso confronto tra i due fratelli che fa emergere vecchi rancori e risentimenti soprattutto da parte di Chuck nei confronti di Jimmy. La loro incompatibilità caratteriale sembra destinata a far allontanare i due fratelli.

Il conflitto ha inizio

Da questo momento in poi i fratelli McGill cercheranno di evitarsi il più possibile ed entrambi in segreto architetteranno dei modi per ostacolare il successo dell’altro. Ne verrà fuori una gara senza esclusione di colpi ma, si sa, quando c’è da giocare sporco Jimmy non ha rivali ed infatti, facendo letteralmente carte false, riesce a far sì che Chuck risulti colpevole di una grave negligenza lavorativa che gli provocherà un’enorme perdita sia economica che di reputazione.

Chuck tutte le volte che subisce un duro colpo da parte di Jimmy finisce per stare male manifestando una riacutizzazione dei sintomi e ritiro sociale. Questi aggravamenti della salute di Chuck puntualmente determinano un riavvicinamento da parte di Jimmy, che si sente in colpa e non riesce a voltare le spalle al fratello, soprattutto in virtù di questo suo stato di sofferenza psichica. Ma proprio quando Jimmy è spinto da compassione e affetto verso il fratello, Chuck contrattacca e sferra i suoi colpi con astuzia e cinismo arrivando persino a far incarcerare suo fratello.

In questa fase della storia sembra proprio che sia la rivalità con suo fratello Jimmy a rappresentare la principale motivazione per Chuck a riprendersi dalla malattia. Preso dalla “lotta” contro suo fratello, Chuck riesce ormai a svolgere quasi tutte le attività della vita quotidiana: va a lavoro di giorno senza la necessità di prendere misure protettive, è riuscito a tornare in tribunale e partecipa attivamente a tutte le riunioni a cui viene invitato.

Jimmy però, da quando è stato arrestato è cambiato. Adesso non sembra più disposto a perdonare Chuck e a farsi impietosire dalla sua fragilità psicologica. Durante un intervento pubblico di Chuck, Jimmy gli sferra un duro colpo dimostrando davanti a tutti che il problema di Chuck non è frutto di una condizione medica ma bensì di un disturbo mentale.

Questo evento getta Chuck nello sconforto più totale, ma prova ancora a trovare la forza di rialzarsi e decide di contattare la Dottoressa Cruz, con cui inizia un percorso di psicoterapia. Durante uno dei colloqui con la psichiatra, Chuck esprime chiaramente il suo disagio nel cominciare a considerare l’eventualità che sia davvero affetto da un disturbo psichico, di seguito riporto uno stralcio della seduta:

Chuck: ho avuto un incidente. È successo in pubblico, davanti alla gente… È stata la peggiore esperienza della mia vita. Mi è stata data una prova, in pubblico e senza alcuna ombra di dubbio, che c’era una batteria caricata al massimo molto vicina al mio corpo quasi da 2 ore… e non ho sentito niente.

Dott.ssa Cruz: cosa significa per lei?

Chuck: … questa patologia, per me è reale quanto lo è quella sedia, reale come questa casa, reale quanto lei, ma… ma se invece non lo fosse? Se fosse solo nella mia testa? E se così fosse, se non fosse reale… allora che cosa ho fatto?

Grazie al lavoro con la Dottoressa Cruz, Chuck impara sempre di più a gestire i sintomi della sua malattia, ma appena sta per rimettersi in piedi subisce un altro duro colpo da parte di Jimmy e questa volta purtroppo sarà il colpo di grazia.

Epilogo

Jimmy sparge la voce che Chuck sia psicologicamente instabile facendogli aumentare il premio dell’assicurazione professionale. Chuck è intenzionato ad intentare causa contro la Compagnia assicurativa, ma Howard, il suo amico e socio di vecchia data, in questa occasione gli volta le spalle. La storia di amicizia e collaborazione tra i due è arrivata al capolinea. Howard ormai ritiene Chuck non più in grado di portare avanti l’attività lavorativa e, temendo un crollo dell’immagine dello studio legale, prima propone a Chuck di ritirarsi in pensione e poi, di fronte al rifiuto di quest’ultimo, trama contro di lui arrivando ad ottenere, grazie alla maggioranza dei voti degli associati, il suo allontanamento ed estromissione dagli affari dello studio.

Chuck torna a rinchiudersi in casa e, dopo aver avuto l’occasione di parlare per l’ultima volta con Jimmy, si aggrava come mai prima. Arriva a smantellare le pareti della propria abitazione convinto che ci sia nascosta da qualche parte una fonte di onde elettromagnetiche che gli causa enorme dolore.

Chuck si è lasciato andare ed ormai non riesce più a trovare motivazioni per rialzarsi. Una sera, stanco e solo, Chuck guarda i suoi giornali e la sua lampada da campeggio, decide di far divampare un incendio e si lascia morire tra le fiamme.

Questo triste epilogo deve farci riflettere e metterci in guardia da una società dove un individuo preferisce togliersi la vita pur di fare i conti con la malattia mentale, come se questa fosse una colpa, un segno di debolezza o comunque qualcosa di cui vergognarsi.

Analisi in chiave clinica

Non è possibile elaborare una vera e propria diagnosi clinica poiché mancano troppe informazioni rilevanti che non emergono dalla serie tv, ma che invece sarebbe stato necessario approfondire. Tuttavia, ai fini dell’intrattenimento e della divulgazione, nella seguente sezione cercherò di presentare una breve concettualizzazione del caso di Charles McGill da un punto di vista psicologico. I principali riferimenti teorici che seguirò sono:

  • La Teoria dell’Attaccamento di John Bowlby (1972, 1975, 1983)
  • Il Modello Dinamico Maturativo di Patricia Crittenden (2008)
  • La Teoria delle Organizzazioni di Significato Personale di Vittorio Guidano e Giovanni Liotti (1983)
  • Il Modello a 3 Assi per la formulazione del caso secondo la prospettiva cognitivo-costruttivista ed evolutiva di Furio Lambruschi (2018).

Diagnosi descrittiva ed esplicativa

Secondo il DSM-5, che è un manuale pubblicato dall’Associazione Americana di Psichiatria e serve a fare diagnosi seguendo dei parametri oggettivi, Charles McGill sembrerebbe essere affetto da Fobia Specifica con Disturbo Delirante di natura somatica e continuativa.

È un paziente che a lungo è riuscito a sopperire al suo grave disturbo mentale grazie a delle spiccate doti intellettive, culturali e sociali anche se, tuttavia, mostra delle difficoltà metacognitive “in prima persona” ossia delle difficoltà ad osservare e riflettere adeguatamente sulla propria attività mentale.

Nei suoi atteggiamenti si scorge un’organizzazione di Significato Personale di tipo misto Fobica/Ossessiva. Nelle relazioni interpersonali, in particolar modo con le figure affettive più significative, Charles sembra alternare due Strategie di Attaccamento di tipo C-7 (nascostamente minaccioso con l’ossessione per la vendetta) e C-8 (paranoico).

Analisi storica

L’insorgenza della malattia pare collocabile nel periodo immediatamente successivo al divorzio (voluto principalmente da Rebecca per ragioni non specificate). Una crisi relazionale di questo tipo è potenzialmente in grado di produrre uno squilibrio affettivo e richiede una rielaborazione in chiave identitaria che probabilmente Charles non è mai riuscito a fare. Il nostro protagonista non ha avuto modo di integrare quell’esperienza con i suoi contenuti più emotivi, che sono rimasti invece inascoltati. Questo deficit integrativo ha prodotto una disregolazione emotiva “in eccesso” producendo dei sintomi fobici e di ritiro sociale.

Analisi funzionale

Il Disturbo che Charles ha sviluppato probabilmente gli permetteva di spiegarsi la sua solitudine e il suo graduale distacco dalla società come una “scelta forzata” o comunque come un qualcosa che gli era capitato senza che lui ne avesse alcuna responsabilità. Potrebbe essere stato un accomodamento identitario che nel momento in cui è avvenuta la separazione con Rebecca era forse l’unico realizzabile con gli strumenti mentali che Charles possedeva.

La manifestazione spontanea di questi sintomi che Charles con un delirio cercava di spiegarsi, gli consentiva inoltre di “controllare” la relazione con la sua unica figura familiare ancora in vita ossia il fratello James. Abbiamo avuto modo di vedere nel corso del racconto che tutte le volte che Charles stava male, James smetteva di combinare guai e correva da suo fratello maggiore impegnandosi con tutte le sue energie a garantirgli vicinanza e supporto. Quest’ultimo è un aspetto rilevante in chiave clinica poiché consente di produrre una diagnosi funzionale del problema ovvero rispondere alla domanda “quali sono i vantaggi diretti o indiretti che produce il sintomo?” Individuare questi elementi che vengono definiti fattori di mantenimento del problema è fondamentale per risolvere un caso di questo tipo. Non credo sia frutto della coincidenza infatti che la malattia sia peggiorata drasticamente proprio quando James ha smesso di rispondere a queste “chiamate” di Charles che, a quel punto, ha perso il controllo dell’unica strategia che fino ad allora gli aveva permesso di garantirsi la vicinanza affettiva dell’ultima figura d’attaccamento che gli era rimasta.

Intervento clinico

Quando Charles si è rivolto alla psichiatra ha iniziato un percorso di terapia a stampo cognitivo comportamentale che, per mezzo di un lavoro di auto-osservazione su un diario e su delle schede chiamate ABC, gli aveva permesso di cominciare a fronteggiare i sintomi della malattia. Questo è considerato uno degli obiettivi iniziali di una terapia. Il raggiungimento di tale traguardo ha prodotto, come previsto, un aumento dell’autostima e dell’auto-efficacia percepita. Successivamente la terapia avrebbe dovuto pian piano passare ad una fase successiva dove il problema viene affrontato a più ampio raggio, comprendendone le cause scatenanti, facendo emergere delle modalità disfunzionali di lettura del mondo e producendo una profonda conoscenza di sé stessi e della propria storia di vita.

Un lavoro così fatto dovrebbe portare come risultato sia una remissione dei sintomi sia una riduzione della probabilità di ricaduta.

Sfortunatamente Charles non ha avuto l’opportunità di arrivare fino in fondo alla terapia e non sapremo mai come sarebbe andata a finire se quella sera non avesse deciso di accendere un fuoco e spegnere la sua vita.

Conclusione

Ho deciso di raccontare la storia di Chuck perché nella forma, e purtroppo anche nell’epilogo, è simile ad altre drammatiche storie di vita reale. Gli autori della serie TV Vince Gilligan e Peter Gould, con maestria hanno narrato una storia tristemente realistica facendo emergere alla perfezione la personalità e il disagio del protagonista, dimostrandosi sensibili al tema della salute mentale e affrontandolo con coraggio ed originalità.

 

Memoria Autobiografica e Schizofrenia: un focus su uno dei maggiori deficit cognitivi della malattia

Una review prodotta da Zhang, Kuhn, & Jobson (2019) si è occupata della raccolta e dell’analisi qualitativa dei risultati di 57 articoli inerenti la descrizione dei deficit nella memoria autobiografica presentati da pazienti affetti da schizofrenia.

 

Stando a quanto riportato dalla letteratura scientifica, la memoria autobiografica è definibile come una complessa miscela di ricordi inerenti eventi singoli, estesi o ricorrenti, i quali vengono progressivamente integrati in una storia coerente del nostro Sé, creata e valutata attraverso le pratiche socioculturali (Fivush et al., 2017, p. 119). Più semplicemente, tale sistema di memoria parrebbe fungere da mero organizzatore di quel complesso insieme di conoscenze dichiarative riguardanti fatti ed episodi provenienti dalla nostra storia di vita. A tal proposito, secondo Sir Francis Galton (1879), l’insieme delle informazioni contenute nella memoria autobiografica formerebbe il bagaglio di conoscenza in possesso di ogni essere umano, il quale sarà conseguentemente stato determinato dalle esperienze da lui effettuate nel corso della propria esistenza. Se, da un lato, un corretto funzionamento della memoria autobiografica è considerabile come tipico di individui ‘sani’, d’altra parte, essa risulta altamente compromessa in soggetti affetti da alcune malattie psichiatriche. Più di ogni altra condizione psicopatologica, i disturbi dello spettro della schizofrenia sembrerebbero implicare gravi disfunzioni cognitive a carico di tale sistema di memoria (Berna et al., 2016). Si tratta infatti di pazienti che, a partire dall’esordio della malattia, o persino dai prodromi della stessa, mostrano un marcato decremento del proprio funzionamento cognitivo, il quale andrebbe ad intaccare in maniera selettiva i seguenti domini: la memoria autobiografica, la memoria di lavoro, la velocità di elaborazione dell’informazione e la teoria della mente (Forbes et al., 2009; Barch, & Ceaser, 2012; Hoe et al., 2012).

Una review prodotta da Zhang, Kuhn, & Jobson (2019) si è occupata della raccolta e dell’analisi qualitativa dei risultati di 57 articoli inerenti alla descrizione dei deficit nella memoria autobiografica presentati da pazienti affetti da schizofrenia. All’interno di molteplici studi è emerso come costoro tendessero a recuperare delle memorie autobiografiche meno specifiche e meno numerose rispetto ai gruppi di controllo (e.g. Danion et al., 2005; Mehl et al., 2010; Potheegadoo et al., 2012). In particolare, la specificità delle memorie autobiografiche recuperate da individui aventi una diagnosi di schizofrenia sembrerebbe distribuirsi lungo un pattern a forma di U, in quanto l’accuratezza del ricordo recuperato risulterebbe decisamente maggiore nei casi in cui esso riguardi l’infanzia e gli ultimi anni di vita, mentre calerebbe drasticamente nel momento in cui si tratti di un evento appartenete alla prima età adulta (Boeker et al., 2006; McLeod, Wood, & Brewin, 2006). Inoltre, pazienti affetti da schizofrenia parrebbero mostrare un reminiscence bump temporalmente anticipato rispetto ai controlli, in quanto apparentemente incapaci di recuperare dei ricordi dettagliati che riguardino la loro adolescenza o la prima età adulta (Cuervo-Lombard et al., 2007). I due risultati sopra menzionati evidenziano come l’esordio dei sintomi psicotici acuti abbia probabilmente portato ad una diminuzione del recupero di memorie autobiografiche provenienti da questi periodi di vita (Vourdas et al., 2003).

Degno di nota è anche il fatto che l’identità della persona parrebbe prendere forma proprio durante l’adolescenza e la prima età adulta (Erikson, 1950). Da una parte, in un individuo che attraversa un normale processo di sviluppo, avrà luogo una codifica privilegiata di molti degli eventi che si verificano durante questo periodo, i quali verranno poi integrati nella narrativa personale dell’individuo stesso migliorandone così l’accessibilità più avanti nella vita (Munawar, Kuhn, & Haque, 2018). Dall’altra, è possibile ipotizzare che nel caso in cui un individuo presenti dei sintomi di schizofrenia durante l’adolescenza e la prima età adulta, gli eventi che si verificano in quel momento riceveranno un’attenzione decisamente ridotta e probabilmente non verranno integrati all’interno della narrativa personale dello stesso (Zhang et al., 2019). Queste informazioni, poiché mal processate, saranno di conseguenza anche difficilmente recuperabili dal soggetto in un secondo momento nel caso in cui gli venga richiesto di farlo (Zhang et al., 2019).

Secondo il Self-Memory-Sistem (SMS) introdotto da Conway & Pleydell-Pearce (2000), il recupero di memorie autobiografiche vaghe e generali che caratterizza i pazienti affetti da schizofrenia sarebbe determinato da una compromissione del cosiddetto Working Self, ovvero dall’alterazione degli obiettivi rilevanti del Sé nel momento in cui viene effettuata la rievocazione del ricordo (Conway, Singer, & Tagini, 2004). Tale compromissione impedirebbe infatti la costruzione di memorie precise e dettagliate a partire dall’Autobiographical Knowledge Base (Conway, Singer, & Tagini, 2004). Dal momento in cui avviene l’esordio di sintomi psicotici acuti tra l’adolescenza e la prima età adulta, si verrebbe a creare secondo gli autori un’eccessiva discrepanza tra il Sé attuale ed il Sé ideale dell’individuo, la quale va, da una parte, a compromettere la naturale formazione dell’identità dello stesso e, dall’altra, a generare un ciclo di feedback negativi atto ad inibire lo sforzo che egli emette al fine di accedere alla propria Autobiographical Knowledge Base (Conway, 2005). Questa disfunzione può progredire fino a provocare un mero blocco dell’intero SMS portando la persona ad esprimere deliri, confabulazioni, deragliamenti e tangenzialità (Conway, 2005).

Alcuni studi suggeriscono che il recupero di memorie autobiografiche vaghe ed aspecifiche da parte dei pazienti schizofrenici rappresenti un tentativo estremo di ridurre la discrepanza interiore di cui sono vittime (Schoofs, Hermans, & Raes, 2012). A ben vedere, questo concetto risulta decisamente simile a quello di meccanismi protettivi riportato all’interno del modello CaR-FA-X introdotto da J. Mark Williams (2006). Tali meccanismi svolgerebbero in questo caso la funzione di ridurre la sofferenza emotiva vissuta dall’individuo attraverso la soppressione delle memorie autobiografiche indesiderate e, alle volte, provocando anche la cancellazione delle stesse (Hu et al., 2015). Inoltre, questo processo patogeno non sarebbe rintracciabile solamente nei disturbi dello spettro della schizofrenia, ma anche all’interno di altri quadri psicopatologici come, ad esempio, quelli apparenti al cluster C dei disturbi della personalità (Spinhoven et al., 2009). Un tentativo estremo volto a minimizzare la discrepanza tra i Sé potrebbe essere costituito, ad esempio, da un paziente che, di fronte ad un terapeuta che gli chiede di fornirgli ulteriori chiarificazioni circa il suo rapporto con i genitori durante l’adolescenza, risponde: “Non lo so” o “Non ricordo affatto”. In questo caso, si potrebbe azzardare che, stando a quanto detto fino ad ora, l’obiettivo del Working Self sia quello di non recuperare alcun ricordo dettagliato dell’evento così da poter mantenere un certo grado di coerenza interna (Conway et al., 2004). Secondo il modello CaR-FA-X i deficit cognitivi mostrati da individui affetti da schizofrenia potrebbero essere attribuiti anche ad una compromissione delle funzioni esecutive, le quali risulterebbero necessarie al fine di effettuare un’accurata ricerca a livello dell’Autobiographical Knowledge Base (Williams et al., 2007; Conway, 2000). Tale impedimento porterebbe i pazienti a mostrare una ridotta capacità di costruire memorie autobiografiche specifiche (Ricarte et al., 2017). Infine, è possibile menzionare alcuni studi i quali sostengono che individui affetti da schizofrenia sono spesso preoccupati da pensieri disorganizzati o immagini intrusive tali da provocare loro un alto livello di ansia o depressione (Upthegrove et al., 2010; Hall, 2017). In questi casi il rimuginio può arrivare ad occupare una parte considerevole della capacità di memoria di lavoro del soggetto, portandolo dunque a sperimentare una riduzione delle proprie risorse cognitive ed impedendogli così di formare memorie autobiografiche adeguate (Williams et al., 2007).

Per lungo tempo, i deficit cognitivi sono stati considerati erroneamente come sintomi aventi una rilevanza secondaria nel quadro psicopatologico della schizofrenia, in quanto l’attenzione veniva principalmente riservata ai sintomi positivi del medesimo disturbo, quali deliri ed allucinazioni. Appare chiaro come essi siano invece da considerare come sintomi primari data la loro persistenza anche quando la fase acuta della malattia si esaurisce (Medalia, & Revheim, 2002). Malgrado i considerevoli deficit cognitivi mostrati dagli individui affetti da schizofrenia, esistono dei programmi di intervento che consentirebbero un parziale miglioramento della specificità e della coerenza delle memorie autobiografiche recuperabili dagli stessi. Un esempio, potrebbe essere la Cognitive Remediation Therapy (CRT; Blairy et al., 2008), la quale consiste tra l’altro nell’esercitare il recupero di tali memorie attraverso la scrittura di un diario personale. Tuttavia, i processi cognitivi sottostanti a tali interventi rimangono, ad oggi, ignoti così come non sembra possibile sapere se essi migliorino la percezione che l’individuo ha di sé stesso o se riducano la discrepanza presente tra i Sé della persona (Zhang et al., 2019).

 

La gestione psicosociale e i ritmi circadiani quali elementi chiave per il benessere psicofisico

I fattori responsabili dell’accelerazione e del rallentamento delle lancette del nostro orologio biologico, cioè i nostri telomeri, sono identificabili dall’alimentazione, dall’attività motoria, dalla qualità del sonno, dalla rete sociale che abbiamo e dal nostro benessere psicologico.

 

L’adattamento richiesto al nostro organismo, sia in termini di contesti di vita molto distanti rispetto agli scenari evoluzionistici che hanno definito l’architettura dei nostri meccanismi fisiologici, che in termini di elevato stress psicosociale che dobbiamo affrontare quotidianamente, si traduce in uno sforzo adattativo del nostro organismo che può essere gestito solo attraverso una visione olistica integrata dove gli aspetti psico-neuro-endocrino-immunologici vengono letti all’interno di un’ottica bio-psico-sociale.

Questo periodo legato alla gestione biologica, psicologica e sociale della pandemia ha esacerbato le difficoltà già presenti nella società della maggior parte delle nazioni relative ai sostenuti ritmi di vita lavorativa combinati ad un’estrema e diffusa incertezza nei confronti del futuro (psicologica, sociale ed economica), sia sul piano personale che professionale.

In questo contesto generale, il ripristino di corretti ritmi circadiani, abbinati ad una più efficace capacità di gestione dello stress psicosociale, rappresentano dei fattori chiave per ripristinare una migliore qualità di vita ed un benessere psicofisico.

Risulta fondamentale considerare in maniera integrata questi due aspetti della nostra vita perché, diversamente, adottando una visione più riduzionistica, si correrebbe il rischio di impattare sulla salute e sulla qualità di vita in maniera molto meno efficace se non addirittura dannosa.

A confermare quanto appena descritto basta consultare la letteratura relativa alla scienza dei telomeri che ci dimostra quanto possa essere inutile e potenzialmente dannoso intervenire esclusivamente in uno, o più, dei macro aspetti che determinano la nostra salute tralasciando gli altri.

Ad esempio intervenire unicamente sui ritmi circadiani (attività motoria, alimentazione, qualità del sonno, etc.) senza considerare anche la gestione psicologica dello stress può non solo essere poco efficace ma anche potenzialmente pericoloso (Agnoletti, 2018; Blackburn, 2010).

Da notare, dal punto di vista del professionista, quante competenze trasversali richiede questo approccio ben più complesso e dinamico rispetto quello più tradizionale fondato sulla iper-specializzazione formativa settoriale.

Il cosiddetto “effetto imbuto” o “collo di bottiglia” della dinamica dei telomeri (Agnoletti, 2019a) suggerisce infatti che, a modulare l’attività degli enzimi della telomerasi, gli agenti biologici che riparano i telomeri (le strutture cromosomiche che determinano la nostra longevità e la propensione a sviluppare malattie), sono diversi processi convergenti e in parte indipendenti.

In altre parole, concentrarsi quindi in maniera esclusiva solo su uno di questi aspetti (motorio, nutrizionale, del sonno, di gestione dello stress psicologico, etc.) non risulta essere una strategia efficace, ma anzi potenzialmente pericolosa, per i rischi conseguenti la sottovalutazione dell’area che in quel momento sta impattando più sfavorevolmente sui telomeri stessi.

Un supporto professionale ideale dovrebbe quindi eventualmente partire dall’analisi della situazione delle singole aree che impattano sui telomeri individuando quella, o quelle, maggiormente deficitarie al fine di stabilire quindi la priorità temporale della sequenza dell’intervento stesso.

Da questa dinamica emerge la profonda e complessa trasversalità di competenze che dovrebbe possedere il professionista per assistere la persona in maniera integrata ed olistica.

I fattori responsabili dell’accelerazione e del rallentamento delle lancette del nostro orologio biologico, cioè i nostri telomeri, sono identificabili dall’alimentazione, dall’attività motoria, dalla qualità del sonno, dalla rete sociale che abbiamo e dal nostro benessere psicologico (Epel et al., 2004; Jang & Serra, 2014).

Alla luce del moderno paradigma epigenetico, i ritmi circadiani sono un meccanismo di adattamento basato sull’apprendimento previsionale, finalizzato a regolare ed ottimizzare il funzionamento dell’organismo nella sua globalità psico-neuro-endocrino-immunologica.

Nel 2017 tre premi Nobel sono stati assegnati a Jeffrey C. Hall, Michael Rosbash e Michael W. Young per l’individuazione del meccanismo genetico dei ritmi circadiani responsabile dell’andamento oscillatorio che determina, in maniera autonoma, un cambiamento ciclico nella modalità di funzionamento cellulare. Questi ritmi circadiani sono regolati epigeneticamente attraverso stimoli che provengono dall’ambiente esterno (principalmente dalla luce e dalla temperatura) e tramite i comportamenti (o stili di vita) legati al sonno, all’alimentazione, all’attività motoria ed alla gestione dello stress psicosociale.

Tutte queste attività diverse impattano in maniera convergente sulla regolazione circadiana dell’organismo determinandone la sincronia o l’asincronia con i ritmi ambientali (giornalieri, stagionali, etc.) che percepiamo.

Sia il “quanto” che il “quando” siamo esposti alla luce, il “cosa”, la quantità ed il quando ci alimentiamo, la specifica attività motoria che pratichiamo (e naturalmente quando la eseguiamo) oltre al tipo di gestione dello stress che percepiamo, condizionano la nostra qualità di vita e la predisposizione a generare disturbi o patologie nel tempo piuttosto che promuovere un equilibrato e solido benessere psicofisico.

La luce (o meglio, lo spettro di frequenze che caratterizza la luce solare) che percepiamo durante il giorno, attraverso la stimolazione di un gruppo di circa ventimila neuroni dedicati che si trovano nel nucleo sopra-chiasmatico del nostro cervello, determinano un settaggio sia neurale che endocrino, di tutte le cellule del nostro corpo (Mohawk, Green, & Takahashi, 2012; National Institute of General Medical Sciences, 2020).

Addormentarsi oltre la mezzanotte (magari finendo di cenare poco prima) genera, per esempio, una disorganizzazione dei ritmi circadiani perché l’attività alimentare e la qualità del sonno risultano compromesse per il fatto che non sono coordinate e coerenti con ciò che viene elaborato dal master clock (nucleo sopra-chiasmatico) per ottimizzare l’attività predittiva generale (Acosta-Galvan et al., 2011; Antle & Silver, 2005; Patel et al., 2012).

Quindi da una parte i ritmi circadiani sono fortemente condizionati dall’esposizione alla luce, dall’alimentazione, dalla qualità del sonno e dell’attività motoria, dall’altra anche il benessere psicologico può, ad esempio, determinare un cambiamento della qualità del sonno (inducendo ad esempio una produzione di cortisolo notturno che contrasta funzionalmente la produzione di melatonina che promuove invece il sonno).

Oltre a tendere ad un corretto ritmo circadiano, agendo sul “cosa” e sul “quando” mettere in pratica un’abitudine positiva (praticare attività motoria, mangiare in maniera sana, adottare una valida igiene del sonno), occorre agire anche al fine di limitare i danni da stress negativo prodotto da una poco efficace gestione delle dinamiche psicosociali, così preponderanti nella nostra società.

In questo senso esistono già comprovate strategie utili ed efficaci per arginare i danni da stress negativo (si veda ad esempio l’attività meditativa o le semplici respirazioni diaframmatiche che possiamo applicare quotidianamente), come esiste la tipologia di esperienze emotivamente positive (vedi ad esempio le cosiddette esperienze “ottimali” o di “flow”) che generano benessere psicofisico rinforzando anche il sistema immunitario (Agnoletti, 2019b; Agnoletti & Formica, 2021).

In questa visione olistica e integrata chiaramente il rapporto tra benessere psicologico e dinamiche biologiche è bidirezionale, quindi se è vero che un degradato benessere emotivo influenza i ritmi circadiani alterando alcuni processi neuro-endocrini, è altrettanto vero che la regolarizzazione nutrizionale, dell’igiene del sonno, dell’attività motoria e l’esposizione ad una più significativa e positiva socialità, favoriscono, a loro volta, il recupero di una qualità di vita psicologica temporaneamente compromessa.

Dalla letteratura psico-neuro-endocrino-immunologica presente risulta quindi efficace adottare abitudini finalizzate a ripristinare corretti ritmi circadiani attraverso l’attività motoria, l’alimentazione, la qualità del sonno oltre ad una sana rete sociale ed un solido benessere psicologico.

 

Lo stato mentale di coppia. Il modello Tavistock Relationships (2021) – Recensione

Morgan nel volume Lo stato mentale di coppia ripropone le nozioni fondamentali della psicoanalisi e mostra come vanno utilizzate per comprendere le fondamenta inconsce della relazione di coppia.

 

Mary Morgan è una psicoanalista e psicoterapeuta psicoanalitica di coppia, membro della British Psychoanalytical Society, di Tavistock Relationships e della Polish Society for Psychoanalytic Psychotherapy. È stata lettrice e direttrice del corso magistrale in psicoterapia psicoanalitica di coppia presso la Tavistock Relationships. Ha scritto nel campo della psicoanalisi di coppia, insegna e supervisiona a livello internazionale e ha una pratica analitica privata. Il suo libro: “A Couple State of Mind: Psychoanalysis of Couples – the Tavistock Relationships Model”, pubblicato nel 2018 da Routledge è uscito da poche settimane per le edizioni di Cortina nella traduzione italiana.

Il libro descrive ed esemplifica il modello della psicoterapia psicoanalitica di coppia del Tavistock Relationships, ispirandosi alla storia ma anche alle ricerche recenti di questa istituzione che, pur modificando più volte negli anni la propria denominazione, da oltre 70 anni costituisce un punto di riferimento assoluto in ambito psicoanalitico e non solo, innanzitutto per il trattamento infantile e di coppia.

La relazione di coppia, fortemente evocativa delle relazioni primarie, è intesa come luogo elettivo ove i partner, con movimenti reciproci e complementari, si ingaggiano reciprocamente in quella che Dicks (1967), uno dei primi autori ad occuparsi di coppia in chiave analitica, facendo riferimento al matrimonio, ebbe a definire una “relazione terapeutica naturale”. Nel senso che la scelta del partner rappresenta sul piano inconscio anche un tentativo di risoluzione di alcune difficoltà personali. In tal modo la coppia, in una dinamica di mutuo aiuto, può essere una potente esperienza trasformativa ed evolutiva, in un gioco felice di equilibrio tra contenimento e meccanismi difensivi. Tuttavia, in un certo numero di casi, i motivi personali di difficoltà prevalgono sul tentativo di evoluzione e la “terapia naturale” fallisce. Anzi, la relazione di coppia può divenire un amplificatore delle difficoltà individuali.

Tornando al testo, Morgan ripropone le nozioni fondamentali della psicoanalisi e mostra come vanno utilizzate per comprendere le fondamenta inconsce della relazione di coppia. La posizione psicoanalitica che il clinico assume in relazione alla coppia costruisce, all’interno della relazione di transfert e controtransfert, un setting terapeutico in cui i partner in trattamento possono sperimentare e modificare le dinamiche che impediscono l’evoluzione della loro relazione.

Per l’autrice compito primario del terapeuta è mantenere uno “stato mentale di coppia”. Tale funzione è essenziale nel suo modello e consiste nel conservare contemporaneamente nella propria mente sia la presenza di entrambi i partner sia delle loro modalità relazionali. Questa capacità consente al terapeuta di comprendere e restituire un po’ alla volta alla coppia le aree tematiche in cui si svolgono i conflitti e in cui risiedono le loro angosce condivise e le fantasie inconsce. In una coppia disfunzionale, infatti, gli stessi partner non riescono a vedere la loro “relazione” e percepiscono soltanto i bisogni individuali, propri e dell’altro, senza accorgersi che hanno dato vita anche ad un organismo diadico, con funzionamento autonomo (Filippi, S. 2003).

In pratica utilizzare tale costrutto ci invita a interrogarci sull’uso che viene fatto della relazione in quanto tale, ciò che Norsa e Zavattini hanno definito la qualità del “Senso del Noi” (Norsa, Zavattini 1997) di cui la coppia è portatrice e che sta a indicare come, accanto ai sentimenti di differenziazione sempre messi in evidenza nella modellistica psicoanalitica, bisogna dare importanza anche al sentimento di appartenenza reciproca. In tal modo la logica dell’intervento del terapeuta presuppone un superamento della lettura meramente individuale assumendo quello che già in un precedente lavoro era stato concettualizzato come lo “stato mentale di coppia” (Morgan, 2001).

Infatti, secondo il suo modello, il più importante fattore di contenimento della coppia è rappresentato da questo particolare assetto interno del terapeuta, che comporta molto più del tenere entrambi i partner in mente. Si tratta piuttosto di tenere in mente la relazione, ossia assumere una posizione interna che permette di essere soggettivamente coinvolti con entrambi i partner, ma anche, al tempo stesso, di porsi esternamente alla relazione e osservare la coppia nella sua interazione.

Successivamente lo “stato mentale di coppia” del terapeuta sollecita gradualmente la formazione di un analogo stato mentale nei membri della coppia, nella misura in cui per ognuno di essi sarà possibile iniziare a percepire se stesso, i bisogni dell’altro e la relazione tra loro. Questo è senz’altro uno degli obiettivi della terapia di coppia ed il suo perseguimento può comportare un alleggerimento delle reciproche e rigide identificazioni proiettive che avevano costituito sia un elemento di paralisi degli aspetti creativi della coppia, sia un elemento intrusivo, o comunque dotato di forte potenzialità negativa, nella psiche degli eventuali figli (Zavattini, G. 2006).

I capitoli centrali del volume sono dedicati alle aree fondamentali della teoria e della tecnica del lavoro analitico di coppia. In particolare, sono descritti i concetti di fantasie inconsce, il tema del narcisismo, il transfert e controtransfert, il ruolo della sessualità, l’identificazione proiettiva, le interpretazioni, tutti declinati secondo il particolare setting di coppia. L’ultimo capitolo è infine dedicato al tema della conclusione della terapia e ai suoi obiettivi. A questo riguardo va detto che in questo tipo di terapia l’eventualità della separazione dei partner è spesso possibile. Riguardo ai suoi scopi, analogamente a una terapia individuale analitica, una terapia di coppia può dirsi felicemente conclusa quando la funzione analitica, ovvero lo “stato mentale di coppia” è stato adeguatamente introiettato dai partner. L’incontro con il terapeuta che possiede tale assetto saldamente presente come posizione interna consente gradualmente ai partner di confrontarsi con i meccanismi ad incastro della relazione di coppia. In tal modo, può avvenire un graduale insight secondo cui nessuno pensa più che il problema sia l’altro e ci si sofferma maggiormente su ciò a cui insieme si è dato vita. L’obiettivo terapeutico deve essere quindi inteso come possibilità di ripristinare la corretta funzionalità della relazione, ovvero garantire un “Senso del Noi” collegato alle esperienze più costruttive e riparative del Sé e degli schemi che caratterizzano la collusione, in modo da favorire un Sé autonomo e più integrato, nonché una comprensione più profonda di ciò che viene affidato alla relazione come senso di appartenenza (Zavattini, G. 2006).

 

Autoefficacia e benessere psicologico in un campione di studenti universitari italiani con e senza disturbo specifico dell’apprendimento

Il seguente elaborato è finalizzato a focalizzare l’attenzione su un gap della letteratura sul tema DSA: una notevole mole di ricerche riguarda i disturbi specifici dell’apprendimento nell’infanzia (Matteucci, Scalone, Tomasetto, Cavrini e Selleri, 2019), ma mancano studi che ne esplorino i correlati nell’arco di vita, come ad esempio negli studenti universitari con DSA.

 

Lo spettro dei Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA) concerne una classe di disturbi del neurosviluppo caratterizzati da difficoltà significative e persistenti nella sfera dell’apprendimento, che possono includere la lettura, la scrittura e il calcolo. Il rendimento dell’individuo nelle abilità scolastiche interessate è nettamente inferiore a quello atteso per l’età cronologica, implicando una compromissione significativa del funzionamento psicosociale (Matteucci & Soncini, 2021). La classe diagnostica dei disturbi specifici dell’apprendimento è considerata di natura evolutiva, il cui esordio si manifesta tendenzialmente durante i primi anni della scuola primaria. Tuttavia, si tratta di condizioni irreversibili e permanenti, in quanto non si fa riferimento ad un disturbo in senso stretto, bensì ad una modalità di funzionamento differente da quella normotipica; in termini di neurodiveristà e non di deficit neurologico/cognitivo. La connotazione life-time dei DSA, se non adeguatamente diagnosticati e trattati, può implicare significative difficoltà che possono persistere nel corso della vita in svariate aree, come ad esempio: nell’ambito dell’istruzione, nel mondo lavorativo (Motimore & Crozier, 2006) e in generale a carico del benessere psicosociale (Eloranta, Na ̈rhi, Ahonen, & Aro, 2019).

Il seguente elaborato è finalizzato a focalizzare l’attenzione su un gap della letteratura sul tema: una notevole mole di ricerche riguarda i DSA nell’infanzia (Matteucci, Scalone, Tomasetto, Cavrini e Selleri, 2019), ma mancano studi che ne esplorino i correlati nell’arco di vita, specialmente negli studenti universitari con DSA. Infatti, nonostante un significativo aumento, riconosciuto a livello internazionale, di studenti con diagnosi di DSA nell’istruzione superiore, le stime della prevalenza di DSA nella popolazione studentesca universitaria rimangono ancora imprecise e, di conseguenza, è carente la letteratura sui loro profili psicologici (Longobardi, Fabris, Mendola e Prino, 2019). Sebbene non siano disponibili dati statistici nazionali sulla percentuale di studenti universitari con DSA nelle università private e pubbliche italiane, un recente studio ha stimato il tasso di prevalenza di studenti con DSA nelle università italiane in un range compreso tra lo 0,03 % e lo 0,48 % (Longobardi et al., 2019). Tale gap nella ricerca sugli studenti universitari con DSA in Italia costituisce una lacuna significativa da colmare.

In tale estratto l’attenzione viene focalizzata sull’autoefficacia accademica degli studenti universitari con DSA e sul loro benessere psicologico percepito. Nello studio analizzato, un campione di studenti universitari italiani con DSA è stato confrontato con un gruppo di controllo di studenti senza DSA. Il primo obiettivo è stato quello di esplorare problematiche di natura psico-sociale, verificando le differenze tra studenti con e senza DSA. Come secondo obiettivo, è stata analizzata l’autoefficacia accademica percepita degli studenti universitari con DSA, rispetto a un gruppo di controllo di studenti senza DSA, monitorando anche il loro rendimento scolastico. È stato riscontrato che gli studenti con DSA presentano mediamente una minore autoefficacia rispetto agli studenti senza DSA, tuttavia, analisi approfondite hanno rilevato che gli studenti con scarsi risultati senza DSA non differivano dagli studenti con DSA con risultati accademici comparabili, mentre gli studenti DSA con buoni risultati non hanno dimostrato una differenza significativa dai loro coetanei senza DSA (Matteucci & Soncini, 2021).

Questi risultati suggeriscono che molte difficoltà di natura motivazionale e di autostima negli studenti con disturbi specifici dell’apprendimento possono non essere specifici della condizione di DSA. In questo senso è possibile ipotizzare un confortante contribuito da parte della politica di didattica inclusiva del sistema educativo italiano. Pertanto, una possibile deduzione è che in tale contesto gli studenti potrebbero non sperimentare la stigmatizzazione, la quale implicherebbe vissuti emotivi negativi e potrebbe inficiare il rendimento accademico (Daley & Rappolt-Schlichtmann, 2018). Per quanto riguarda le differenze nel benessere psicologico tra studenti con e senza DSA, i risultati emersi sono in linea con studi precedenti che non hanno riscontrato differenze significative tra la salute mentale (sintomatologia ansiosa, depressiva e sintomi somatici) di studenti con DSA e il gruppo di controllo (Jordan, McGladdery, & Dyer, 2014). Piuttosto, secondo gli autori, gli studenti con DSA mostrano un livello di benessere psicologico inferiore, rispetto ai controlli, solo in merito all’ambito accademico, senza un impatto pervasivo sulla qualità di vita generale: è presente un maggiore rischio di sviluppare auto-percezioni negative di sé come studenti, ma non a carico della loro autostima complessiva (Gibby-Leversuch, Hartwell e Wright, 2019). I risultati suggeriscono che la presenza di una diagnosi di DSA non è necessariamente un predittore significativo di convinzioni negative su se stessi e difficoltà socio-emotive, tuttavia, sono necessarie ulteriori ricerche sulle caratteristiche psicologiche degli studenti universitari con DSA e in particolare sul ruolo protettivo delle caratteristiche personali, sociali e contestuali. Tuttavia, i risultati suggeriscono comunque di implementare interventi psicologici rivolti a tutti gli studenti che, al di là della diagnosi di DSA, potrebbero aver bisogno di supporto.

In questo senso, un miglioramento dell’autoefficacia accademica sosterrebbe la motivazione, l’apprendimento e i conseguenti risultati accademici (Multon, Brown & Lent, 1991), poiché è stato dimostrato che l’autoefficacia accademica è un predittore significativo del rendimento scolastico. Pertanto, un intervento specifico con insegnanti e tutor per migliorare l’autoefficacia accademica, potrebbe essere particolarmente utile per gli studenti con disturbi specifici dell’apprendimento che affrontano difficoltà di apprendimento durante la loro vita scolastica e accademica. In conclusione, i risultati dello studio analizzato suggeriscono la necessità di monitorare e fornire supporto a tutti gli studenti che potrebbero essere considerati a rischio di abbandono accademico, offrendo interventi psicologici focalizzati sul riconoscimento dei loro punti di forza e sul miglioramento delle loro difficoltà; al fine di sostenere il loro percorso di studi, in un’ottica d’intervento precoce (Matteucci & Soncini, 2021).

 

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