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Dai manicomi alle prigioni: quando il cambiamento non è sinonimo di miglioramento

È necessario cambiare atteggiamento e smettere di vedere le persone affette da malattie mentali come intrinsecamente pericolose, affinché si possa iniziare a considerarle – e a trattarle – come esseri umani bisognosi di aiuto.

Tratto da The Truth About the Deinstitutionalization di Alisa Roth

 

In America, quando una persona incorre in una crisi di natura mentale, è un agente delle forze dell’ordine a rispondere alla sua chiamata. Al giorno d’oggi, la polizia, e di conseguenza l’incarcerazione, hanno sostituito le cure di emergenza per la salute mentale, specialmente nelle comunità afroamericane e ciò ha fatto sì che, in molte prigioni, la percentuale di persone con malattie mentali salisse considerevolmente. Inoltre, secondo un database del Washington Post, quasi un quarto delle sparatorie della polizia coinvolge una persona con malattia mentale.

Come se non bastasse, a seguito dell’ingresso all’interno della prigione, la tipologia di cura che una persona generalmente riceve è estremamente inadeguata e i tassi di suicidio sono estremamente alti.

Il quesito sorge spontaneo: come si è arrivati fin qui?

Alisa Roth, in un articolo pubblicato nella testata The Atlantic, ha esposto la spiegazione più popolare che attribuisce la colpa al processo di “deistituzionalizzazione”, ovvero alla chiusura degli ospedali psichiatrici. Al fine di poter comprendere tale fenomeno è necessario fare un passo indietro.

Il primo ospedale psichiatrico è stato fondato nel 1773. Nel 1841, Dorothea Dix visitò una prigione del Massachusetts e rimase sconvolta dalle condizioni in cui vivevano le persone affette da malattie mentali. I residenti erano tenuti in gabbia, “incatenati, nudi e frustati fino all’obbedienza”. Di lì ebbe inizio la sua propaganda che ebbe come esito l’istituzione di più di 30 strutture ospedaliere in tutto il paese. Nel 1955, circa mezzo milione di persone vivevano in strutture psichiatriche statali che erano state progettate al fine di poter essere luoghi sicuri e terapeutici che, occasionalmente, hanno funzionato.

Il problema fu che, pian piano, le strutture iniziarono a superare la loro capacità e il personale faticava a stare al passo con i bisogni dei pazienti. Il problema peggiorò significativamente durante la Seconda guerra mondiale, quando molti medici furono arruolati, lasciando gli ospedali a corto di personale e le condizioni risultanti erano notevolmente simili a quelle che si vedono oggi nelle prigioni. Ciò diede inizio alla fine del sistema ospedaliero statale ed altri fattori lo accelerarono. Tra questi vi fu la diffusione dell’antipsicotico clorpromazina. La sua apparente capacità di controllare le psicosi, unita ad una considerevole campagna di marketing, contribuì a promuovere l’idea che la malattia mentale potesse essere curata con i farmaci e che gli ospedali psichiatrici non fossero più necessari.

Quasi un decennio dopo, il presidente John F. Kennedy affermò che “le istituzioni mentali di custodia” sarebbero state sostituite da centri di salute mentale comunitari, permettendo così ai pazienti di vivere e ricevere cure psichiatriche nelle loro comunità. Nel 1965, la creazione di Medicaid ha accelerato il passaggio dal ricovero alle cure ambulatoriali. La suddetta legislazione, inoltre, stabiliva che il governo federale non avrebbe pagato per le cure ospedaliere.

In realtà, però, furono costruiti pochi centri di salute mentale comunitari, creando un’estrema carenza di sostegno sanitario.

Così, il sogno dell’assistenza comunitaria si è rivelato in gran parte un fallimento (Alisa Roth, 2021). Mentre la popolazione nei manicomi si riduceva costantemente, il numero di persone incarcerate cresceva. Verrebbe dunque da pensare che, se la mancanza di strutture di degenza ha spinto un gran numero di persone con malattie mentali nei penitenziari, allora presumibilmente la costruzione di più ospedali e centri di salute mentale comunitari risolverebbe il problema. Ma, in realtà, anche in questo caso la soluzione è ben più complessa. Difatti, anche nel 1950, solo un terzo delle persone con malattie mentali viveva in ospedali psichiatrici, mentre più della metà viveva con la famiglia o per conto proprio. Dunque, scrive la Roth, non sarà il mero aumento delle strutture ospedaliere a mettere fine al fenomeno dell’incarcerazione delle persone affette da malattie mentali. Inoltre, la stragrande maggioranza delle persone incarcerate con malattie mentali appartiene a un sottoinsieme della popolazione che probabilmente non sarebbe mai stato accolto negli ospedali psichiatrici statali in passato.

Allo stesso tempo, l’avvento della polizia delle “broken windows” negli anni ‘80 – l’idea che per prevenire crimini più grandi, la polizia deve reprimere i crimini di basso livello – ha colpito in modo sproporzionato le persone con malattia mentale. Basti pensare che una persona che si comporta in modo irregolare potrebbe essere accusata di condotta disordinata, o una persona senza accesso al bagno potrebbe essere accusata di minzione pubblica.

Dunque, in primo luogo, vi dovrebbe essere un cambiamento di mindset, ovvero sarebbe necessario scardinare “quell’assunzione persistente che le persone con malattie mentali sono pericolose e devono essere tenute lontane dalle strade per proteggere il resto di noi” (Alisa Roth, 2021). Anche perché, come sottolinea la Roth, le persone con malattie mentali sono molto più propense ad essere vittime che carnefici e, dato che la polizia è il primo soccorritore di default, non è una sorpresa che le persone con malattie mentali abbiano più probabilità di essere arrestate.

È dunque necessario cambiare atteggiamento e smettere di vedere le persone affette da malattie mentali come intrinsecamente pericolose, affinché si possa iniziare a considerarle – e a trattarle – come esseri umani bisognosi di aiuto. Fortunatamente, negli ultimi anni, i dipartimenti di polizia hanno istituito programmi di formazione per insegnare agli agenti come rispondere alle persone in difficoltà psichiatrica. Il modello più comune, il Crisis Intervention Team, è usato in più di 2.500 comunità in tutta la nazione. Ma basteranno poche ore di formazione a far sì che vengano superate determinate pratiche che comportano il ricorso alla violenza?

Alcune giurisdizioni hanno fatto un passo avanti, invitando gli operatori della salute mentale a rispondere alle chiamate del 911.

Inoltre, sarebbe bene separare l’assistenza psichiatrica dal sistema di giustizia penale. È facile pensare che se le persone con malattie mentali potessero essere ospitate in manicomi o istituzioni simili, non sarebbero incarcerate con tassi così alti. Ma è importante ricordare che quegli ospedali, e le condizioni che li caratterizzavano, sono assimilabili alle peggiori strutture correzionali di oggi. Invece, è necessario affrontare di petto il problema dell’incarcerazione di massa, instituendo un sistema di cura della salute mentale adeguato che effettivamente non esiste in quanto: “nessun nostalgico sguardo al passato cambierà la situazione” (Alisa Roth, 2021).

 

Emozioni incontrollabili: l’aiuto dei genitori e dei familiari

L’incontro Emozioni incontrollabili: l’aiuto dei genitori e dei familiari è stato pensato proprio per tutti quei genitori e parenti di persone che hanno problematiche nel capire e trovare modi utili per affrontare le proprie emozioni.

 

La difficoltà a regolare le proprie emozioni può determinare a volte comportamenti impulsivi o comportamenti evitanti o controllanti, volti tutti a scappare dai propri stati emotivi.

Durante l’incontro organizzato dal CIP Modena sono state approfondite e descritte le caratteristiche di tale problematica e le teorie maggiormente riconosciute. Sono state analizzate le possibili aree critiche ed esplicitate le linee guida e le tecniche per la gestione delle difficoltà di regolazione emotiva. Sono state inoltre evidenziate le modalità di supporto per sostenere le persone con tali difficoltà e migliorare il clima familiare in cui vivono.

Pubblichiamo oggi, per i lettori di State of Mind, il video dell’evento.

EMOZIONI INCONTROLLABILI: L’AIUTO DEI GENITORI E DEI FAMILIARI

Guarda il video del webinar:

 

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I “Core Beliefs” del Relationship Obsessive Compulsive Disorder

Il Disturbo Ossessivo Compulsivo da Relazione (ROCD) può essere considerato come un costrutto o una dimensione del disturbo ossessivo compulsivo (Melli, Bulli, Doron & Carraresi, 2018).

Introduzione

I temi delle ossessioni, le credenze di base, i pensieri automatici, le vulnerabilità personali e gli stili di attaccamento che possono generare il RODC, mantenerlo e rinforzarlo possono essere svariati. In questo breve elaborato mi pongo l’obbiettivo di prendere in considerazione e discutere le due tipologie di ROCD, i fattori cognitivi di mantenimento, di rinforzo delle credenze di base nel RDOC ed i relativi strumenti diagnostici ad esso associati, ed infine i fattori di vulnerabilità nel paziente che possono agire come fattori di rischio nella genesi del disturbo e nella formazione delle credenze di base disfunzionali.

Relationship – related obsessive-compulsive disorder: relationship centred, and partner focused

Il disturbo ossessivo compulsivo da relazione può essere considerato come un costrutto o una dimensione del disturbo ossessivo compulsivo (Melli, Bulli, Doron & Carraresi, 2018). Come costrutto è risultato essere altamente indipendente dall’oggetto della relazione (Doron, Derby & Szepsenwol, 2014) e dunque può manifestarsi per esempio: nella relazione del paziente con Dio, con i genitori o con il proprio partner. Dati i numerosi aspetti della vita relazionale in cui può verificarsi, da ora in poi – è bene chiarire – mi riferirò con il termine ROCD unicamente al disturbo ossessivo compulsivo centrato sulla relazione con il proprio partner. Le manifestazioni del ROCD possono essere raggruppate in due macro categorie concettuali: relationship centred (cioè focalizzate sulla relazione stessa) e partner focused (cioè focalizzate sul partner). Ci riferiremo con la dicitura “ROCD type I” al primo, e con la dicitura “ROCD type II” al secondo. Sebbene sia una distinzione puramente teorica, poiché spesso i pazienti mostrano sintomi di entrambe le macro categorie, concettualizzare e schematizzare le due manifestazioni può aiutare gli psicologi clinici nella pianificazione del trattamento (Doron & Derby, 2017).

I sintomi principali del tipo I includono dubbi, ossessioni e preoccupazioni eccessive e pervasive – spesso completamente contrarie a quanto il paziente pensa o prova – collegate ai propri sentimenti nei confronti del partner, ai sentimenti del partner verso il paziente e alla correttezza della relazione (Melli et all. 2018). É importante sottolineare e rimarcare l’ego distonia delle ossessioni in questo disturbo perché essa ci consente di distinguere e di svolgere una corretta diagnosi differenziale tra le ossessioni ed alcune tipologie di worry a contenuto relazionale, per esempio: “Mi preoccupo per te e non dormo, perché ti voglio troppo bene” (Doron, Derby, Szepsenwol, Nahaloni & Moulding, 2016).

I sintomi principali del tipo II invece includono dubbi, ossessioni, attenzione eccessiva e preoccupazioni, nei confronti dei difetti fisici o caratteriali del partner, delle sue qualità sociali o morali o delle sue capacità intellettive (Doron, Derby, Szepsenwol, & Talmor, 2012). Entrambe le forme – spesso coesistenti – provocano un aumento progressivo del distress generale, sono associate ad episodi depressivi, si accompagnano spesso all’urgenza inderogabile di lasciare il proprio partner, e provocano un disagio estremamente forte e pervasivo nella vita del paziente (Riggs, Hiss, & Foa, 1992).

TAF (Thought Action fusion), ossessioni e compulsioni

Nucleo psicopatologico principale di entrambe le forme del disturbo – seppur maggiormente visibile nel ROCD a sfondo religioso – è il TAF (Thought Action Fusion): cioè la tendenza a considerare i normali pensieri automatici negativi non tanto come oggetti della mente, ma come dati di realtà (Rachman, 1993). Il paziente, per esempio, come vedremo meglio in seguito, tenderà a considerare dei normali pensieri negativi automatici (come ad esempio: “che noia questa serata!”) in una situazione sociale con il proprio partner, come dati di realtà incontrovertibili, e quindi, assolutamente pericolosi e deleteri.

A questo punto probabilmente inizierà la disputa (ir)razionale del pensiero automatico a causa dell’attivazione dell’assunto generale “Non dovrei annoiarmi se sono insieme al mio partner. Se lo amo, allora dovrei essere sempre euforica e felice”, che rimanda inevitabilmente ad una credenza di base di “perfezionismo” e/o di “intolleranza dell’incertezza”.

Frasi come: “Mi assicuro continuamente di amare il mio partner” e/o “Lo amo davvero?”, “Mi chiedo continuamente se questa relazione sia giusta per me” e/o “E se stessi sbagliando tutto con lui/lei?” , “Non riesco a smettere di chiedermi se lui/lei mi ami” e/o “Mi ama ancora?”, e/o “Non riesco a smettere di pensare al suo naso storto” e/o “Non è abbastanza intelligente per stare con me”, e/o “è cosi egoista”, possono essere dubbi e frasi che i pazienti si ripetono anche per diverse ore nel corso della giornata sotto forma di pensieri automatici attivati anche dalla semplice vista di una coppia apparentemente felice per strada, dalla visione di una commedia romantica alla televisione, dall’incontro del partner a casa, o da un periodo particolarmente duro e stressante. (Doron et all. 2016).

Le risposte disfunzionali che i pazienti provano a fornirsi per ristabilire un equilibrio ed un benessere psicologico al presentarsi delle ossessioni possono essere di natura sia mentale che comportamentale. Sottolineare che l’urgenza della risposta nasca da un sentimento di colpa, rimorso o ansia provata dai pazienti per la forte ego distonia delle proprie ossessioni non è banale “Io sono consapevole che quello che penso non ha senso! Io lo amo!”; perché – come vedremo meglio in seguito – sarà la chiave sia per accedere alle credenze di base, sia per comprendere la teoria della doppia ipotesi nelle relazioni di attaccamento come principale fattore di rischio per il disturbo (Doron, Szepsenwol, Karp, & Gal, 2013).

Tutte le compulsioni, esattamente come nel DOC, producono un forte decremento dell’ansia e del senso di colpa nel breve periodo, rinforzando allo stesso tempo però la ricomparsa dei pensieri intrusivi. Tra di esse includiamo il checking, il monitoraggio degli stati interni, la neutralizzazione, la comparazione, la rassicurazione, l’auto critica e l’evitamento. Cercare informazioni sulle relazioni o sulle qualità del partner su internet o nei forum (scrivendo, ad esempio: “Non sono sicura di stare ancora col mio partner, sono ancora innamorata?” oppure “Non sono certa che il mio partner sia realmente empatico e mi comprenda”), oppure testare come in un esperimento i comportamenti e le reazioni emotive del partner, (come, ad esempio: “Mi ha risposto abbastanza intelligentemente?” e/o “Oggi sto pensando al mio partner a sufficienza?”) sono tutte forme di checking.

Chiedersi continuamente “Mi sento bene con lui per ora? Sono attratta da lui per ora?” invece, rientra all’interno del monitoraggio degli stati interni. Solitamente tutte queste compulsioni sono accompagnate o dalla neutralizzazione (richiamare il pensiero esattamente opposto oppure cercare di ricordare situazioni dove si fosse felici insieme al proprio partner) o dalla comparazione (equiparare, ricordare, confrontare le qualità del proprio partner con quelle dei partner passati). Forme comportamentali come l’evitamento di situazioni sociali o particolari attività per non scatenare le ossessioni, sono ugualmente comuni e presenti tra i pazienti (Doron et all. 2017). Potrebbe essere interessante approfondire una conseguenza del monitoraggio degli stati interni: in recenti ricerche Shapira, Gundar – Goshen, Liberman e Dar (2013) hanno scoperto come il continuo monitoraggio degli stati interni, dei sentimenti e delle emozioni da parte dei pazienti può indurre una chiusura progressiva nei confronti delle relazioni intime e paradossalmente anche un minore accesso proprio alle emozioni e ai sentimenti.

Infine, per concludere la presentazione del disturbo ritengo necessario e doveroso accennare almeno agli strumenti psicodiagnostici validati nel corso del tempo da Doron e colleghi per la ricerca e la diagnosi del disturbo.

Gli strumenti psicodiagnostici

Il ROCI (“Relationship Obsessive Compulsive Inventory”) ed il PROCSI (“Partner Related Obsessive Compulsive Inventory”) come suggeriscono già i loro nomi, sono stati creati per l’assessment delle due tipologie di manifestazione del disturbo. Il ROCI è stato costruito nello specifico per misurare la severità delle ossessioni (preoccupazioni e dubbi) e delle compulsioni (checking e ricerca di rassicurazioni) su tre dimensioni relazionali: i propri sentimenti verso il partner (“Penso continuamente se amo il mio partner”), i sentimenti del partner verso sé stessi, e l’appropriatezza e correttezza percepita della relazione. Il PROCSI invece è stato costruito per misurare la gravità delle ossessioni e delle neutralizzazioni del paziente indotte dalla percezione dei difetti del partner in sei domini specifici: apparenza fisica, socialità, moralità, stabilità emozionale, intelligenza e competenza (Doron et all. 2012). Gli strumenti psicodiagnostici utilizzati durante l’assessment al fine di valutare la severità, la pervasività ed il grado di importanza per il paziente delle credenze di base sono: il RECAT (Relationship Catastrophization Scale), l’EXL (Extreme Love Beliefs), il FMPS (Frost Multidimensional Perfectionism Scale), ed il FOR (Fear of Anticipated Regret), che, come suggeriscono i nomi dei questionari, valutano: la catastrofizzazione, le credenze irrealistiche sull’amore, il perfezionismo e la paura del rimorso. Per valutare, invece, quanto il paziente fondi la propria autostima sul partner o sulla relazione, gli psicoterapeuti durante l’assessment potranno utilizzare il RCSW (Relationship Contingent self-esteem) o il PVCSW (Partner Value Contingent self esteem). Il primo utile per valutare la correlazione tra autostima del paziente e importanza data alla relazione sentimentale, il secondo invece per valutare quanto l’autostima del paziente correli con il valore percepito del partner (Doron,G. & Derby,D. 2017).

Credenze di base

Possiamo affermare dalle evidenze che qualora il partner decida di agire l’ossessione di lasciare il proprio partner, i sintomi del disturbo non cesserebbero. I sintomi andrebbero immediatamente “ad infettare” il prossimo partner relazionale, portando anche ad un aumento della loro gravità (Doron et all. 2014). Probabilmente sia la credenza di base di rimorso e rimpianto per il passato partner relazionale (“Ho perso, ho lasciato andare lui. LUI. L’uomo della mia vita. Quello giusto”) sia quella di insicurezza verso il nuovo partner relazionale si attiverebbero contemporaneamente, portando alla tipica sensazione di intrappolamento spesso riportata dai pazienti con ROCD.

Ma come si sviluppano queste credenze di base? Esistono dei fattori di rischio? Diversi autori abbastanza recentemente hanno proposto che le ossessioni diventino tali, solo se i pensieri intrusivi a cui fanno riferimento inizialmente sfidano le percezioni sulle caratteristiche strutturali del sé (Aardema & Connor, 2007; Bhar & Kyrios, 2007; Clark & Purdon, 1993). Tale ipersensibilità a determinati aspetti del sé nel dominio relazionale, paiono essere estremamente collegati con i sintomi del ROCD. Ci aspetteremmo, quindi, che persone la cui autostima è altamente connessa e dipendente dalle relazioni intime intrattenute, saranno ipervigili nella relazione e nei confronti del proprio partner. Molti autori tra cui Doron, Moulding, Nedeljkovic, Mikulincer e Sar-El (2012) sostengono che questa ipervigilanza nei confronti delle relazioni sottenda e nasconda un modello di attaccamento insicuro/ansioso.

I modelli di attaccamento e lo sviluppo delle credenze di base

Esattamente come teorizzato da Bowlby nel 1982 le relazioni con le figure di attaccamento modellano e plasmano quelli che saranno i modelli operativi interni. A tal proposito Doron, Szepsenwol, Derby e Nahaloni scrivono: “Ricerche indicano che le relazioni di attaccamento potrebbero essere schematizzate in due dimensioni ortogonali, rappresentanti i due pattern principali di attaccamento: ansia ed evitamento (Brennan, Clark & Shaver, 1998; reviewed by Mikulincer & Shaver, 2007). La prima dimensione, attaccamento ansioso, riflette il grado con cui un individuo si preoccupa che un suo legame significativo non sarà disponibile o adeguatamente responsivo nel momento del bisogno, e l’estensione con cui l’individuo adotta strategie di attaccamento iperattivate […]. La seconda dimensione, definita attaccamento evitante, riflette l’estensione con cui una persona non crede ai buoni propositi del partner relazionale e lotta per mantenere l’autonomia e la distanza emotiva da lui o da lei.” (p.77)

Tale ipotesi – poi confermata – definita “Teoria della doppia ipotesi di vulnerabilità” afferma che persone con uno stile di attaccamento ansioso tenderanno a richiedere continue rassicurazioni al partner sul fatto di essere amate per riuscire ad attenuare l’ansia che sperimentano nel rapporto. Persone invece con uno stile di attaccamento evitante tenderanno ad usufruire di strategie di de-attivazione emozionale come la soppressione dei pensieri e delle emozioni, continuando a negare l’importanza per loro delle relazioni. Si autoimporranno degli standard molto elevati, irrealistici e rigidi di eccellenza e proietteranno proprio questi ultimi sul loro partner relazionale al fine di autoconvincersi di non avere bisogno di alcuna persona vicino a loro (Doron et all. 2013).

Oggi, sappiamo che la tendenza a richiedere continue rassicurazioni al partner e controllare gli stati interni per “sapere di essere amati”, potrebbe predisporre ed esporre l’individuo ad una insicurezza profonda e pervasiva nei confronti della relazione con il partner, e quindi allo sviluppo di un ROCD di tipo I. Allo stesso modo, la tendenza a proiettare le proprie imperfezioni e caratteristiche negative sugli altri potrebbe aumentare vertiginosamente le preoccupazioni, i dubbi e la probabilità di sviluppare ossessioni ricorrenti sui difetti del proprio partner; ed esattamente come nella prima dimensione, questa tendenza potrebbe predisporre allo sviluppo di un ROCD di tipo II. Entrambe queste propensioni favoriscono lo sviluppo ed il mantenimento di due credenze di base specifiche – che insieme ad altre – costituiscono il principale nucleo psicopatologico del disturbo: l’intolleranza all’incertezza per la prima dimensione di attaccamento e il perfezionismo per la seconda dimensione. Entrambe hanno in comune come credenza intermedia, l’importanza dei pensieri, ovvero, il T.A.F ed il loro controllo, una irrealistica credenza di come dovrebbe essere l’amore (“L’amore dovrebbe rendermi sempre felice”) ed infine, la paura di intrappolamento. Credenza di base derivante dai due assunti di base contrapposti: “Se sto in una relazione di cui non sono sicura, sono una persona immorale e cattiva” e “Se lascio il mio partner, lo rimpiangerò per tutta la vita” (Melli et all. 2018). Tutte le credenze di base vengono continuamente rinforzate in maniera spesso inconsapevole attraverso dei bias cognitivi che finiscono col declinare anche la forma verbale delle assunzioni che generano i pensieri automatici. Questi ultimi sono l’interpretazione catastrofica e l’iper-attenzione verso la minaccia; mentre il primo è presente in entrambe le tipologie del disturbo, quest’ultimo è maggiormente visibile nel ROCD di tipo II, dove i pazienti sono ipervigili nei confronti dei difetti del partner.

Credenze di base: analisi, differenze e nuove linee di ricerca

Così come anticipato precedentemente, non tutte le credenze di base sono attive nei pazienti con ROCD. Di fatto, così come dimostrato da precedenti ricerche (Melli,G., Carraresi, C., & Doron, G. 2015) una preoccupazione eccessiva per le scelte sbagliate nella relazione era associata più a dei sintomi di ROCD di tipo I, e solo moderatamente correlata con dei sintomi di ROCD di tipo II; inoltre, è da sottolineare come questa forma di perfezionismo fosse l’unica dimensione ad emergere come un valido predittore del disturbo ossessivo compulsivo centrato sulla relazione. Da successive analisi – contrariamente a quanto ci si aspettava – nessuna forma di perfezionismo del FMPS era esclusivamente collegata al Relationship OCD centrato sul partner (Melli et all. 2018). Queste considerazioni ci portano a concludere che quando le tendenze perfezioniste – provenienti dai modelli operativi interni di tipo evitante – vengono applicate alle relazioni intime, non fanno altro che incrementare anche i sintomi del ROCD di tipo I. Il Relationship Obsessive compulsive disorder di tipo I invece, è collegato maggiormente alla propensione ad utilizzare l’interpretazione catastrofica nelle diverse sfumature sintomatiche del disturbo. Attraverso l’analisi delle dimensioni del RECATS è stato notato come i costrutti maggiormente interessati fossero: l’interpretazione di essere nella relazione sbagliata e la paura di rimanere solo e separato dal proprio partner. La tendenza ad interpretare in modo catastrofico il primo costrutto – “essere in una relazione sbagliata” – pare essere l’unico predittore valido per i sintomi del ROCD di tipo II; tuttavia, interpretare in modo catastrofico entrambi i costrutti risulta essere dalle analisi statistiche svolte, l’unico predittore valido del ROCD di tipo I. Una spiegazione valida potrebbe consistere nel fatto che le infiltrazioni tra i due disturbi dipendano non solo da una comorbilità, ma anche da un rinforzo reciproco nelle credenze di base. Per esempio: i sintomi del ROCD di tipo I potrebbero promuovere lo sviluppo dei sintomi del tipo II quando identificare i deficit, gli errori e i difetti del proprio partner è una strategia emozionale utilizzata per controllare l’andamento della relazione o i sentimenti riguardo al partner stesso (“Riesco ancora a sopportare il suo terribile naso, lo amo ancora!”).

Per molti pazienti, così come dimostrato da Liberman e Dar (2009), identificare questi difetti sembrava essere l’unica chance per mantenere un equilibrio psicologico. In questo modo riuscivano infatti a giustificare l’ego distonia, i loro dubbi e paure, attenuando anche il senso di colpa e l’ansia ad essi connessa. D’altro canto tutti i pazienti con ROCD molto spesso riportano la paura di sentirsi intrappolati in una relazione che gli ricorda la relazione disfunzionale dei genitori. Questa paura – spesso collegata con la teoria della doppia ipotesi – può aumentare vertiginosamente l’attenzione selettiva verso le memorie, i particolari e le esperienze negative nelle relazioni, portando inevitabilmente a perpetuarle (Doron & Derby, 2017). Probabilmente entrambe le forme di manifestazione del ROCD sono collegate e condividono sicuramente dei fattori di mantenimento e di sviluppo. Nonostante questo, però, differiscono di molto nella loro fenomenologia (Doron, Derby et all. 2014) e più studi sono necessari al fine di individuare altre credenze di base per il relationship obsessive compulsive disorder partner focused. Nuove linee di ricerca dovrebbero focalizzarsi sulle paure di abbandono spesso provate da questi pazienti. Si crede (Doron et all. 2009) che esse, oltre a dipendere dai modelli operativi interni interiorizzati dalle relazioni di attaccamento, possano essere un buon gancio per i primi esperimenti comportamentali per aumentare la tolleranza dell’incertezza nel paziente e la sua autostima.

Comorbilità

Le paure di abbandono si ipotizza che siano strettamente connesse – come abbiamo visto – con una relazione di attaccamento di tipo ansioso e quindi con il ROCD di tipo I. Successive ricerche saranno utili per comprendere anche la relazione esistente tra il disturbo da dismorfismo corporeo, i modelli operativi interni evitanti ed i sintomi del relationship obsessive compulsive disorder partner focused (Doron & Szepsenwol, 2014).

 

La Sudden Infant Death Syndrome: definizione, fattori di rischio e strategie preventive

L’articolo propone un approfondimento sulla Sindrome della Morte Improvvisa Infantile (SIDS): ne fornisce una definizione, elenca i principali fattori di rischio e indica alcuni accorgimenti che, secondo la letteratura, concorrono a diminuirne la frequenza.

 

La Sudden Infant Death Syndrome: definizione, fattori di rischio e strategie preventive

 La Sudden Infant Death Syndrome (SIDS – Sindrome della Morte Infantile Improvvisa), conosciuta anche come Morte in Culla o Morte Bianca, consiste nell’improvvisa e inaspettata morte, che avviene solitamente durante il sonno, di un lattante entro l’anno di età in apparenza sano, senza che sia possibile spiegare la causa del decesso anche dopo un’indagine approfondita (Krous, Beckwith, Byard, Rognum, Bajanowski, Corey, et al., 2004; Goldstein, Blair, Sens, Shapiro-Mendoza, Krou, Rognum, et al., 2019). La SIDS si diagnostica quindi per esclusione: è una sindrome che viene utilizzata come inquadramento diagnostico quando non è possibile trovare alcuna spiegazione del decesso (Duncan, Byard, 2018). L’incidenza della SIDS, benché diminuita nel corso del tempo grazie alla diffusione di norme di prevenzione, presenta ancora numeri degni di nota: in Italia si stima infatti un’incidenza dello 0,5-1% (ISS, 2021). Questa sindrome si configura come un fenomeno improvviso, inaspettato e incomprensibile, che ha forti ricadute sul sistema familiare e che molto frequentemente conduce a un lutto complicato.

SIDS: quale distinzione con la SUID e la SUDC

È opportuno distinguere la SIDS da altre morti che incorrono nei primi tempi della vita, come la Sudden Unexpected Infant Death (SUID – Morte Improvvisa Inaspettata Infantile), la Sudden Unexplained Death in Children older than a year (SUDC – Morte Improvvisa e Inspiegabile in Bambini maggiori di un anno) o la Perinatal Death (Morte Perinatale).

Proviamo a fare chiarezza.

La SUID si riferisce a tutte le morti improvvise e inaspettate di bambini sotto l’anno di età, sia quelle inspiegabili (SIDS), sia quelle per cui è possibile rilevare una causa, che può essere malattia, soffocamento, asfissia, infezione, trauma, disfunzioni metaboliche, patologie preesistenti, incidenti, abusi o avvelenamenti (Shapiro-Mendoza, Camperlengo, Ludvigsen, Cottengim, Anderson, Andrew, et al., 2014). La SUID raggruppa dunque tutte le morti impreviste di bambini sotto l’anno di età (Duncan, Byard, 2018) e permette di vedere la SIDS come una sua sottocategoria (Shapiro-Mendoza, Camperlengo, Ludvigsen, Cottengim, Anderson, Andrew, et al., 2014).

Simile alla SIDS è la SUDC, che riguarda le morti improvvise e inspiegabili di bambini più grandi di un anno di età. Oltre alla differenza relativa al tempo di vita, la SUDC è inoltre un fenomeno più raro della SIDS (Krous, Chadwick, Crandall, Nadeau-Manning, 2005) e questa sua caratteristica la rende una sindrome poco conosciuta e trattata, specie in Italia dove non è possibile appurarne l’incidenza.

Infine, la Morte Perinatale fa riferimento alla morte di un neonato durante il parto o entro sette giorni dalla nascita (WHO).

SIDS: quali cause?

Nel corso del tempo è stato possibile indagare sempre più a fondo la SIDS, e benché le sue cause rimangano ignote si è portati a pensare che all’origine potrebbero esserci anomalie nella zona cerebrale che controlla i ritmi sonno-veglia, abbassamenti respiratori durante il sonno, difetti di maturazione dei circuiti cerebrali che gestiscono la capacità del risveglio nei bambini soprattutto in condizioni pericolose come la carenza di ossigeno e anomalie cardiache provocate da malformazioni che però non è possibile individuare. Tuttavia, nulla è stato dimostrato con sicurezza e questa sindrome rimane l’incubo di numerosi neogenitori, per il suo essere improvvisa e imprevedibile (Duncan, Byard, 2018).

 Pur non essendo possibile scongiurare le cause della SIDS, esistono alcuni accorgimenti che si possono adottare per prevenirla, sulla maggior parte dei quali la letteratura internazionale è concorde. Esistono infatti fattori di rischio conosciuti come: la giovane età della madre al momento della gravidanza; l’uso di alcol, di stupefacenti o di fumo nel periodo gestazionale; una gravidanza complicata; la nascita prematura (ibidem).

Anche gli atteggiamenti di cura nei confronti del neonato sono importanti e possono incidere sulla SIDS, perciò è fondamentale che i genitori, o chi si prende cura del bambino, facciano attenzione a alcuni aspetti. La temperatura dell’ambiente dove dorme il bambino non dovrebbe superare i 20°C. Il bambino dovrebbe dormire supino. La culla o il lettino non dovrebbero avere un materasso troppo soffice che rischi di avvolgere il bambino e allo stesso modo non dovrebbero esserci intorno a lui oggetti morbidi o coperte ingombranti. Si dovrebbe evitare che il bambino condivida il letto con genitori, fratelli o animali domestici. I genitori dovrebbero controllare attentamente l’ambiente, tenendolo libero da fumo o vapori. Si dovrebbe prediligere, quando possibile, l’allattamento al seno (Moon, Darnall, Feldman-Winter, Goodstein, Hauck, 2016; Duncan, Byard, 2018).

Non si riscontra invece accordo in letteratura sulla pratica del bed-sharing: alcuni considerano la condivisione del letto come una modalità naturale e facilitante per il rapporto fra madre e figlio nei primi mesi di vita, mentre altri la ritengono una possibile fonte di pericolo per il bambino e uno dei fattori di rischio per la SIDS (McKenna, 2011; Carpenter, McGarvey, Mitchell, Tappin, Vennemann, Smuk, Carpenter, 2013).

In conclusione, se da un lato la ricerca ha evidenziato che esistono comportamenti e scelte che si sono rivelati efficaci per prevenire la SIDS, dall’altro ancora molta strada deve essere fatta per ampliare la ricerca sui fattori di rischio e per diminuirne la numerosità. Poiché conoscere i fattori di rischio aiuta a evitare comportamenti che possono favorire l’avvento della SIDS, è fondamentale che un’informazione corretta e puntuale raggiunga un numero sempre maggiore di neogenitori e persone che si prendono cura dei bambini.

 

Il ruolo dell’interocezione nel disturbo da uso di sostanze: dal ruolo dell’insula alle implicazioni cliniche

L’interocezione consiste nella percezione dei segnali provenienti dal nostro corpo, costituisce un elemento essenziale per l’omeostasi e influenza i processi cognitivi ed emotivi. Le alterazioni interocettive sono associate a diversi disturbi psicologici, diverse ipotesi riguardano un suo coinvolgimento nella spiegazione e trattamento del Disturbo Correlato a Uso di Sostanze.

 

Attualmente la diagnosi di Disturbo da Uso di Sostanze (Substance Use Disorder, SUD) del DSM-5 si riferisce a schemi comportamentali e cognitivi patologici caratterizzati dall’uso continuato di una sostanza o la messa in atto di un determinato comportamento nonostante i significativi problemi associati (APA, 2013). Negli ultimi anni, la ricerca sui modelli animali ha permesso di delineare gli aspetti neurobiologici della dipendenza da sostanze, focalizzandosi sul ruolo del sistema dopaminergico in relazione all’assunzione compulsiva di sostanze (Koob et al. 2004). Tali modelli pongono l’accento sul ruolo degli effetti gratificanti delle sostanze d’abuso che si consolidano a causa del rilascio cronico di dopamina da parte dei neuroni del sistema mesolimbico, alterando di conseguenza il “sistema di ricompensa” deputato alla percezione del piacere (Wise & Bozarth, 1987; Berke & Heyman, 2000).

Negli anni, la ricerca scientifica ha progressivamente riconosciuto l’importanza dei meccanismi di feedback corporeo – e più specificamente dell’interocezione – nei modelli di dipendenza patologica, contribuendo all’elaborazione di spiegazioni plausibili dei meccanismi psicologici e neurali sottostanti al disturbo (Verdejo-Garcia, Clark & Dunn, 2012).

Con il termine interocezione si intende la percezione della condizione fisiologica del corpo, la rappresentazione cosciente dello stato interno nel contesto delle attività in corso e l’avvio di un’azione motivata per regolare omeostaticamente lo stato corporeo interno (Craig 2007). Comprende una serie di meccanismi attraverso i quali i segnali fisiologici periferici vengono inviati al cervello e processati. Essa sottostà alla consapevolezza riguardo le proprie sensazioni corporee (es. dolore, tatto, temperatura), consentendoci di rispondere alla domanda “Come mi sento?” (Craig, 2002).

Considerando i cambiamenti marcati nella fisiologia corporea che le droghe d’abuso apportano nell’individuo, e gli effetti dell’interocezione sui sistemi emotivi, di ricompensa, controllo emotivo e decision-making (Paulus & Stewart, 2014), la comunità scientifica ritiene attualmente plausibile un coinvolgimento dell’interocezione nello sviluppo e mantenimento della dipendenza.

Interocezione e dipendenze: il ruolo dell’insula

Lo studio dell’interocezione per la caratterizzazione della psicopatologia può essere inserito nell’area della cosiddetta embodied cognition, un insieme di teorie fondate sul principio che l’elaborazione cognitiva e affettiva superiore sia radicata nelle esperienze sensoriali e motorie dell’organismo (Winkielman, 2009). In tale maniera, un determinato stato emotivo rimane intrinsecamente associato ad un determinato stato corporeo interno.

Alla base di tali meccanismi di apprendimento e percezione si trova la corteccia insulare, nota come hub interocettivo (Paulus & Stewart, 2014). L’insula può essere divisa in almeno due regioni con due funzioni differenti: mentre l’insula anteriore è attivata tramite uno sforzo cognitivo, l’area posteriore viene sollecitata da interocezione ed emozioni (Paulus & Stewart, 2014). I segnali sensoriali convergono nel sistema nervoso centrale tramite le vie periferiche che confluiscono nella parte destra dell’insula anteriore. Quest’ultima integra le interocezioni con gli stati emotivi, con le motivazioni e con la consapevolezza corporea, poiché le fibre nervose efferenti dell’insula si interconnettono con svariate strutture implicate in emozioni e ricompensa tra cui l’amigdala e il nucleus accumbens (Navqi & Bechara, 2009), formando un complesso network di circuiti cerebrali.

Considerando che l’attivazione insulare avviene principalmente quando vengono sperimentati stati emotivi intensi – sia positivi che negativi – (Damasio et al., 2000) ed è implicata nel decision-making in situazioni di stress e rischio (Clark et al., 2008; Preuschoff et al., 2008), è stato ipotizzato che il feedback corporeo influenzi significativamente i processi cognitivo-affettivi.

L’influenza della corteccia insulare nei disturbi da addiction è stata evidenziata in studi di neuroimaging su campioni di tossicodipendenti, i quali hanno individuato una iperattività della corteccia insulare in presenza di stimoli esterni associati a sostanze (Volkow et al., 2010), e una sua ipo-funzione durante il controllo dei processi cognitivi (Kaufman et al., 2003; Paulus et al., 2005; Hester et al., 2009). Nello specifico, studi su lesioni dell’insula – tendenzialmente in seguito a ictus – in campioni di pazienti affetti da tabagismo hanno rilevato una propensione maggiore alla remissione totale dalla dipendenza di tale campione rispetto al gruppo di controllo che non riportava danni insulari (Navqi et al. 2007), oltre che a esperienze di craving e astinenza più attenuate.

È stata dunque avanzata l’ipotesi che l’insula sia una struttura neurale chiave nella rappresentazione degli effetti interocettivi connessi all’utilizzo di droghe, tra cui gli effetti sensoriali e autonomi delle vie aeree per quanto riguarda fumo di sigaretta, il gusto dell’alcol, gli effetti simpaticomimetici della cocaina e il dolore dell’iniezione endovenosa (Navqi & Bechara, 2009).

La mappatura degli effetti interocettivi dell’uso di droghe all’interno dell’insula costituirebbe quindi una fase di elaborazione neurale necessaria che dà luogo all’apprezzamento consapevole di questi effetti.

Implicazioni cliniche

In ambito clinico, il ruolo dell’interocezione nei disturbi da uso di sostanze è stato studiato per via della sua funzione regolatrice degli stati emotivi legati a piacere e ricompensa nei casi in cui questi ultimi permettano un ritorno ad uno stato di omeostasi.

Uno degli elementi chiave nel mantenimento del disturbo sarebbe dunque un’alterazione dell’interocezione, caratterizzata dalla generazione di marker somatici associati ad azioni come l’assunzione di una sostanza d’abuso. In tal senso, determinate sensazioni corporee (cambiamenti della frequenza cardiaca, sudorazione, tensione muscolare) andrebbero a creare previsioni e simulazioni nel cervello di ciò che ci si aspetta che accada nel corpo (Verdejo-Garcia et al., 2014), alterando considerevolmente la percezione del rischio associato al consumo e, di conseguenza, i processi cognitivi di decision making.

Da un punto di vista clinico, la letteratura scientifica converge sul fatto che valutare la sensibilità dell’interocezione individuale orienterebbe al meglio i pazienti affetti da disturbo da uso di sostanze nella scelta di un trattamento terapeutico tra i diversi approcci esistenti. Si ipotizza che un’elevata interocezione renderebbe il paziente più propenso a sperimentare un’intensa esperienza di craving, un notevole stato umorale negativo e un’intensa percezione dello stress, aumentando significativamente la vulnerabilità dell’individuo alle ricadute (Verdejo-Garcia et al., 2014). In tal senso, interventi mirati alla distinzione tra stati interocettivi negativi comuni da quelli correlati alle sostanze e all’astinenza apporterebbero una maggiore consapevolezza del proprio corpo, ridimensionando il più possibile i bias cognitivi nella valutazione dei propri stati interni.

Per quanto riguarda invece gli interventi volti a modificare l’interocezione, negli ultimi decenni sono stati proposti interventi di biofeedback – orientati verso l’auto-regolazione e al controllo delle funzioni corporee involontarie – e di terapia di esposizione interocettiva per la prevenzione delle ricadute in situazioni di stress elevato (Sokhadze et al., 2008).

Ad oggi, il disturbo da uso di sostanze resta una patologia notevolmente complessa per via dell’eterogeneità della sua eziologia e a causa degli svariati fattori di mantenimento associati ad essa. Considerando che non sono state ancora ottenute prove dirette di possibili deficit di interocezione nelle dipendenze, la letteratura scientifica e il lavoro clinico necessitano ancora ulteriori ricerche e approfondimenti. In particolare, è necessario porre maggiore attenzione sulla effettiva relazione mente-corpo nelle dipendenze, in modo tale da delineare in che misura l’interocezione agisce sul mantenimento del disturbo e sulle ricadute. La ricerca permetterebbe di evidenziare elementi specifici della consapevolezza corporea – spesso trattata in maniera parziale – da integrare in interventi mirati nelle attuali procedure terapeutiche.

 

I geni della creatività (2021) di Simon Baron Cohen – Recensione del libro

Nel testo I geni della creatività l’autore si focalizza sulla capacità “unicamente umana” di inventare, di creare, di trasformare il mondo, ponendosi domande affascinanti.

 

Come si inventa? Che cosa succede nella mente umana quando inventiamo? L’uomo è l’unica specie in grado di inventare? Qual è l’affascinante legame con l’autismo? A che punto dell’evoluzione abbiamo iniziato ad inventare?

Cohen propone che alla base dell’invenzione umana vi sia un interessante meccanismo noto come “di sistematizzazione” che permette di cogliere il reale nell’ottica di “sistemi di funzionamento” attraverso una particolare spinta a cercare schemi “se e allora”. Questo meccanismo presenta un’elevatissima sintonizzazione nella mente autistica, orientata al controllo, alla predicibilità, alla ricerca di coerenza e contingenze con il mondo esterno. Nel primo capitolo, viene raccontata la storia di Jonah, che a due anni non parlava ancora e passava ore a sperimentare ossessivamente. Quando inizia a parlare lo fa con lo sguardo abbassato, non rivolgendosi all’interlocutore e utilizza il gesto indicativo, non per condividere l’esperienza, ma semplicemente per se stesso, per dare agli oggetti un nome, per classificarli. Nominava le cose con parole molto precise, riferendosi alla marca, al modello, all’anno di fabbricazione (per esempio con le macchinine). Jonah si sedeva rapito davanti alla televisione, a guardare le previsioni del tempo e a vedere cosa fosse cambiato. Passava ore a spegnere la luce da un determinato interruttore, senza toccare gli altri interruttori, per verificare che quell’interruttore controllasse davvero la luce nel corridoio del piano inferiore. Stava inoltre seduto davanti alla lavatrice per ore, ad aspettare di sentire quel preciso clic o ronzio, che si aspettava di sentire a fine del ciclo. E diventava euforico quando raggiungeva un particolare punto di prevedibilità nella sequenza. A scuola Jonah non tollerava i movimenti degli altri bambini perché per lui erano imprevedibili. Sembrava avere una perfetta comprensione intuitiva del mondo degli oggetti ma le interazioni sociali per lui erano incomprensibili. Viene descritta inoltre la storia di Edison che, come Jonah, era alla ricerca di schemi e di variabili da controllare e negli Stati Uniti inventò tecnologie innovative. Per questi due bambini, la ripetitiva sistematizzazione era guidata da una curiosità di fondo, in cui ciò che acquisiva importanza era la ricerca della verità. Volevano spiegazioni complete, senza lacune, guardando il mondo in modo nuovo, non influenzati dalle convenzioni sociali. Jonah è autistico, ed è stato seguito da Cohen. Non è diventato un inventore famoso come Edison e tutt’ora cerca schemi prevedibili. Oggi è affascinato dagli schemi della superficie nell’oceano. Ha un grande talento per individuare schemi, una memoria straordinaria (impermnesia), ma fa molta fatica a trovare un amico. Cohen afferma che tale ricerca di schemi “se e allora” può portare ad inventare, e talvolta a diventare grandi inventori. L’ipotesi precedentemente presentata dall’autore è che nell’autismo vi sia un’iper-sistematizzazione, quindi con un livello molto alto di SQ (meccanismo di sistematizzazione) in quella che viene presentata come una curva a campana dallo UK BRAIN TYPES STUDY, ma un livello basso di empatia, in particolare di empatia cognitiva, ovvero la capacità di immaginare un’altra mente e in particolare ciò che una persona, un animale o un altro tipo di essere potrebbe sentire, credere, desiderare. In particolare l’autore presenta uno studio in cui viene dimostrato che i geni dell’autismo e dell’iper sistematizzazione siano gli stessi.

Nell’ambito dell’Autism and math study, si è chiesto agli studenti di matematica dell’Università di Cambridge se avessero un fratello autistico, scoprendo che il tasso di autismo tra questi fratelli era più altro del tasso di autismo tra i fratelli degli studenti di scienze umanistiche. Ciò suggerisce una base genetica condivisa tra l’autismo e la sistematizzazione, poiché i fratelli in media condividono il 50% dei geni. La carenza da parte dei soggetti autistici nell’empatia cognitiva influisce parecchio nella loro esclusione sociale e nel loro senso di alienazione. Molti risultano essere estremamente diretti nella loro comunicazione e possono non vedere nulla di sbagliato in ciò. Seguono semplicemente le loro regole in quella che rappresenta per loro “la ricerca della verità” e la perfezione del sistema. Motivo per cui hanno anche un senso della moralità molto alto. Inoltre molti presentano un’estrema difficoltà nel comprendere quello che risulta loro all’interno delle interazioni con gli altri come un linguaggio segreto e criptico. Trovano la conversazione confusa, non sanno di cosa parlare quando è il loro turno. Jonah, il ragazzo di cui accennato prima, racconta di non essere in grado di capire l’umorismo. Ciò va al di fuori delle informazioni fattuali, e di ciò che può essere sistematizzato. Nota che le altre persone si scambiano sguardi, scrollano le spalle e non ha la minima idea di come interpretare questo linguaggio. Tutte difficoltà che hanno a che fare con la carenza di empatia cognitiva. Jonah viene però descritto da altre persone come molto premuroso, in grado di sintonizzarsi con le ingiustizie e desideroso di fare qualcosa per aiutare gli altri. Ciò ha a che fare con l’empatia affettiva presentata da Cohen anche in altri testi, la quale risulta intatta in molti autistici e che insieme ad un perseguimento ossessivo di schemi porta proprio a quel senso di moralità e ad una forte fiducia nella giustizia e nell’equità.

Cohen, inoltre, considera l’autismo come l’immagine speculare della psicopatia, nel senso che nello psicopatico si trova un livello di empatia cognitiva molto elevato, ciò che d’altronde consente di rappresentare mentalmente bisogni, credenze, emozioni e sentimenti e che in questo caso, in mancanza di empatia affettiva, e nell’esposizione a contesti traumatici cumulativi, viene utilizzata per manipolare l’altro in scopi e progetti personali. Si fa riferimento a ciò che Robert Hare, nel testo “La psicopatia” definisce metaforicamente come capacità dello psicopatico di “conoscere le parole, ma non sentire la musica”. Jonah, durante uno degli incontri con Cohen, lamenta la sua estrema difficoltà di inserimento, oltre che in un contesto sociale di relazione tra pari, anche lavorativo. Ciò rappresenta una difficoltà di fondo di molti ragazzi autistici, che pur avendo talenti straordinari e costituendo una risorsa enorme in termini di invenzione generativa, vengono esclusi dalla comunità e in questo anche impossibilitati nel coltivare il loro stesso talento. Descrive due circuiti che rappresentano la rivoluzione cognitiva avvenuta 70,000 anni fa, ovvero il meccanismo di sistematizzazione e il circuito dell’empatia. Entrambi hanno avuto un grande ruolo nell’invenzione del linguaggio. In particolare, la sintassi si fonda su schemi “se e allora” e quindi con una base sistematizzante e le interazioni sociali complesse richiedono l’utilizzo dell’empatia cognitiva, che permette di utilizzare simboli condivisi che si riferiscono a qualcosa “là fuori nel mondo” e il riconoscimento di un’intenzionalità in uno stato della mente, di aree intermedie di esperienza condivisa tra il mondo esterno e l’interno e quindi di credenze, emozioni, sensazioni, sentimenti, pensieri nell’altro. Si fa riferimento ad una teoria della mente, la quale permette quello che Winnicott definiva “gioco con la realtà o di finzione”, tramite cui è possibile l’inganno e quindi il cercare di far credere a qualcuno che qualcosa è vero quando non lo è, e perciò la consapevolezza che gli altri abbiano delle credenze. Secondo Cohen, l’inganno flessibile ha rappresentato una grande risorsa in termini di selezione naturale e sopravvivenza, instillando false credenze nella mente delle vittime e consentendo di variare il tutto a seconda del contesto. Il vantaggio di disporre di una teoria della mente ha anche permesso un insegnamento flessibile, tramite la capacità di tenere a mente ciò che una persona sappia o abbia bisogno di sapere. E permette inoltre una comunicazione referenziale flessibile, e quindi, come accennato sopra, simboli condivisi. Uno dei primi segni di comunicazione referenziale flessibile, si ha durante la comparsa del “gesto indicativo”. In questo gesto si esprime l’intenzione di influenzare il punto di vista dell’interlocutore e quindi anche di comprensione che l’altro abbia una mente e che sia possibile coinvolgerlo. L’avere una teoria della mente ha permesso di apprezzare altri punti di vista, di produrre e apprezzare l’umorismo, di inventare e comprendere il cinema, il teatro, la narrativa, e quindi di far capire al pubblico l’intenzione di rappresentare una cosa per un’altra. Inoltre ha anche consentito una cooperazione sociale efficace in vista del raggiungimento di un obiettivo condiviso.

Come accennato sopra, l’ipotesi dell’autore è che ciò che caratterizza l’invenzione umana, quella che Cohen definisce “inventività generativa”, risulta il meccanismo di sistematizzazione, tipicamente umano e caratterizzato da una forte curiosità e spinta alla sperimentazione, il tutto però orientato ai dati fattuali, al mondo degli oggetti e degli strumenti, i quali possono essere sottoposti a controlli ripetuti e in cui l’imprevedibilità, caratteristica delle relazioni sociali, può essere ridotta al minimo. La maggior parte dei comportamenti umani non si adatta a questo meccanismo. Infatti quando si sperimentano emozioni, queste non riemergeranno sempre allo stesso modo, con le stesse sensazioni, e all’interno degli stessi stati mentali e con gli stessi fattori scatenanti. Né le nostre convinzioni rimangono sempre le stesse, in quanto vengono cambiate dalla nostra esperienza. Tentativi di sottoporre la realtà ad un controllo totalizzante attraverso la sistematizzazione si possono trovare nella mente ossessiva. Il pensiero ossessivo porta a mettere in dubbio tutte le possibili alternative. Mancini, nel suo testo “La mente ossessiva”, propone l’ipotesi che, nel pensiero ossessivo, si possa dar credito ad idee bizzarre, non perché si aderisca a tali idee, ma perché non si può essere certi che siano false (Mancini, 2016). Cohen infatti, nel testo, fa riferimento a quanto il “DOC” si riscontri in tassi elevati nelle persone autistiche e a quanto il pensiero ossessivo sia incentrato su meccanismi “se e allora”, che tentano di confermare e disconfermare compulsivamente un’idea: “Se ci son germi sulle mie mani, e non mi lavo le mani in una rigorosa sequenza di azioni, allora contaminerò gli altri. Se contamino una persona, e quella persona muore, allora sarà tutta colpa mia”. In questo caso, il meccanismo di sistematizzazione, regolato nel contesto di un’ansia di fondo, del timore di una colpa inaccettabile e della paura di non aver fatto abbastanza per neutralizzare le credenze attraverso dei rituali adeguati, può generare disabilità psichiatrica. Di fatto quindi, per ciò che concerne le relazioni sociali, l’uomo non dipende dal meccanismo di sistematizzazione. La sistematizzazione però ha portato all’invenzione di nuovi strumenti e tecniche: nella musica, nell’arte, nella matematica, nella scienza, nell’ingegneria.

Cohen, esaminando i dati di scansione cerebrale con Mike Lombardo in compiti che implicavano attenzione ai dettagli, apprendimento delle regole, controllo degli errori, riconoscimento di regole, ha scoperto che tutti questi aspetti della sistematizzazione utilizzano le aree sensoriali-percettive del cervello e in particolare il solco intraparietale. Si è accennato al fatto che questo meccanismo si basi su schemi “se e allora”. Nello specifico Cohen, analizza come queste tre parole si combinino all’interno del meccanismo. Egli prende un esempio di sistematizzazione proveniente dalla quotidianità, con ciò per dissipare l’idea che la sistematizzazione sia presente soltanto all’interno di campi scientifici: “Se prendo un uovo e lo faccio bollire per 8 minuti, allora il tuorlo sarà duro e giallo”. La parola “se” ha un significato ipotetico, come in “se x è vero”, antecedente come in “se x avviene per primo” o denota semplicemente l’input. La parola “e” viene definita magica dall’autore, che al massimo della sua potenza si riferisce ad una operazione causale: “Se il ghiaccio è in una ciotola e la ciotola è su una fiamma, allora il ghiaccio si trasforma in acqua”. La parola “allora”, può rappresentare la conseguenza ”allora ne segue y”, la conclusione “allora y è vero” o semplicemente l’output. Ciò che a detta dell’autore risulta stupefacente in questo meccanismo, è la possibilità di inventare ripetutamente, creare nuove varianti e perfezionare gli strumenti precedenti. Ed è ciò che, secondo l’autore, tipicamente differenzia l’apprendimento associativo guidato dalla ricompensa che si può trovare nelle scimmie come in altri animali, dall’invenzione generativa. Secondo Cohen, il comportamento degli osservatori umani guidati dal meccanismo di sistematizzazione ha una ricompensa intrinseca, ovvero il piacere di aver soddisfatto la curiosità e di confermare lo schema “se e allora”. Gli animali possono riconoscere schemi semplici come facevano anche gli ominidi, del tipo “A è ASSOCIATO a B”. L’autore fa l’esempio dell’uso di strumenti semplici da parte degli antenati ominidi, come di pietre per rompere un guscio e prenderne il cibo all’interno. O di asce di pietra per raschiare a tagliare. In questo caso però, seppure l’utilizzo di questi strumenti possa far pensare ad un principio di invenzioni, l’ipotesi dell’autore è che ciò che guidava gli ominidi era l’associazione tra stimolo e risposta e una mera relazione tra elementi osservabili. Nel caso in questione, avevano imparato ad associare a quello specifico movimento con la pietra la rottura del guscio e la ricompensa in cibo. Ma non era presente nessun tipo di sistematizzazione, di ricerca di variabili rilevanti (anche in assenza di conoscenza), di schema, o legge. Non si vedono scimmie aggiungere spezie o altri ingredienti al loro cibo per sperimentarne il gusto, né vediamo animali sperimentare il movimento o la causalità. In particolare, l’autore definisce le scimmie, come altri animali e i primi ominidi come “ciechi ai sistemi”.  E inoltre, tesi centrale di Cohen, non vi è la capacità di escogitare un nuovo strumento più di una volta. Uno strumento inventato da un animale potrebbe saltare fuori per caso, guidato appunto dall’apprendimento associativo: l’animale ripete la sequenza di azioni perché porta ad una ricompensa. Con una capacità generativa, l’animale non si limita a costruire lo stesso semplice percussore o ascia, ma è in grado di creare centinaia di nuovi progetti. Una vera invenzione dovrebbe essere come un linguaggio: una volta che si è in grado di produrre una frase, si possono produrre centinaia di nuove frasi. Si può ipotizzare un inizio di inventività generativa, a partire dall’homo sapiens, e un esempio è l’arco con le frecce. L’inventore deve aver sperimentato il miglior tipo di legno, la lunghezza della corda, e il materiale più adatto alla punta della freccia, tutti elementi che permettono di ottimizzare distanza e velocità e che quindi considerano la combinazione di variabili spaziali e temporali, non limitandosi pertanto alle sole relazioni associative osservabili. È un indice di utilizzo di pensiero “se e allora”: “Se collego una freccia ad una fibra elastica, e rilascio la tensione nella fibra, allora la freccia volerà”. Altro esempio risulta l’utilizzo dell’incisione da parte dei Sapiens: “Se prendo una pietra liscia, e uso un utensile con una lama sottile, allora posso incidere delle forme”. Altri esempi sono le abitazioni costruite, le imbarcazioni e gli aghi in osso. Si consideri inoltre l’invenzione del ritmo e della musica. La musica rappresenta una sequenza di schemi (ritmici e tonali), che possiamo variare in modo intenzionale, usando le regole “se e allora”, i quali possono avere uno straordinario impatto emotivo. Il “fare musica” in questi termini richiede anche l’utilizzo del circuito dell’empatia affettiva e cognitiva e quindi di sintonizzarsi emotivamente e rappresentarsi mentalmente credenze, sentimenti ed emozioni. Ma prima di poter avere l’esperienza emotiva, bisogna essere in grado di riconoscere la musica in termini di schemi. Usiamo il meccanismo di sistematizzazione per riconoscere che qualcun altro sta variando intenzionalmente gli schemi “se e allora” del ritmo o per produrli. Gli uccelli producono suoni melodici ma con una stessa sequenza, la quale può certamente influenzare positivamente o negativamente il cervello di chi l’ascolta. Non vi è una variazione intenzionale e sistematica delle note per esplorare gli schemi sonori “se e allora”. I bambini sono magneticamente attratti dalla musica, che potranno in modo spontaneo imitare o variare, come sono magneticamente attratti dall’esplorazione, dalla ricerca di sistemi di qualunque tipo. Ciò si osserva con estrema rigidità nell’autismo, come in una sorta di paraocchi, e può portare anche a non valutare eventuali pericoli, come nel caso Lauri Love, presentato da Cohen, che rischiò di essere estradato negli Stati Uniti con l’accusa di aver violato la rete di computer militari americani. Cohen, dopo un attento approfondimento, comprese che Lauri non era un criminale, intenzionato ad approfittarsi degli altri, ma piuttosto il suo fine, seppure perseguito in modo ossessivo e guidato da una certa rigidità, era prettamente etico. Cercava di tutelare quello che credeva essere l’interesse pubblico.

L’evoluzione del meccanismo di sistematizzazione ha quindi portato all’invenzione della scrittura, della matematica, all’uso controllato del fuoco, della religione e quindi a sistemi di ogni tipo e utilizzando strumenti in modo sistematico. La combinazione del meccanismo di sistematizzazione e del circuito dell’empatia, ha reso l’homo sapiens insuperabile. La combinazione di questi due sistemi ha dato vita al linguaggio, alla musica e alla possibilità di renderli estendibili e condivisibili. La sistematizzazione ci permette di capire le regole del linguaggio e della musica, l’empatia ci consente invece di leggere tra le righe l’intenzionalità di un qualcosa che viene detto, e quindi il significato inteso o sotto-inteso, e permette inoltre esperienze di connessione psichica con l’altro. L’empatia e la teoria della mente permettono di spiegare perché i primi esseri umani sperimentassero l’arte, la scultura, la musica, ma da sole queste non consentono di comprendere il “come” di tale sperimentazione, il quale, come è possibile evincere dal testo, si radica nel meccanismo di sistematizzazione. Risulta interessante notare come l’assenza di empatia cognitiva possa portare grandi talenti ad inventare in preda ad una spinta ossessiva, senza tenere conto della reale utilità dello strumento in questione e dell’impatto emotivo che possa avere, mancando quindi il coinvolgimento dell’altro. Cohen fa l’esempio di Edison (anche se non gli fu mai fatta una diagnosi di autismo, anche per la mancanza di strumenti di quel periodo), che inventò la bambola Edison parlante che alle bambine non piaceva. Aveva una procedura complicata, per cui bisognava sostituire il disco fonografico con un altro e oltretutto una voce monotona e acuta che poteva addirittura risultare terrificante. Tutti elementi che non aveva previsto, immerso nel suo bisogno compulsivo  di inventare.

L’autore si focalizza anche sulla correlazione tra linguaggio e sistematizzazione, domandandosi se effettivamente la presenza del linguaggio abbia contribuito all’invenzione umana. Vengono presentate alcune caratteristica fondamentali del linguaggio, quali la ricorsività e la sintassi. In particolare, nella ricorsività, si vede come sia possibile annidare locuzioni per costruire strutture linguistiche sempre più complesse e permette, con un numero finito di parole, di creare un numero infinito di enunciati. Ma la proprietà ricorsiva del linguaggio, secondo Cohen, non rappresenta una teoria rivale dell’invenzione umana. Innanzitutto, la ricorsività si trova anche nella musica e gli individui che perdono il linguaggio possono essere comunque grandi musicisti. Inoltre, i bambini piccoli, seppur senza linguaggio, sono in grado di cogliere schemi “se e allora”. Inoltre la sintassi, seppur rappresenti una proprietà chiave del linguaggio, sta comunque alla base del meccanismo di sistematizzazione. “Se” la frase è il cane morde l’uomo “e” la prima e l’ultima parola vengono scambiate, “allora” la frase diventa “l’uomo morde il cane”. Quindi il processo è guidato dal meccanismo di sistematizzazione. Il meccanismo di sistematizzazione ha quindi permesso l’invenzione infinita, riorganizzando le variabili in qualsiasi sistema. Si è inoltre accennato ad una possibile correlazione tra linguaggio e meccanismo di sistematizzazione nell’invenzione umana, perché indubbiamente il linguaggio permette di mettere nuove idee in parole, di giocare con le parole stesse, generando pertanto nuove idee e facilitando quindi il ragionamento “se e allora”. Ciò, però, non va ad intaccare il fatto che linguaggio e sistematizzazione siano indipendenti, aspetto comprovato anche da una presenza, a volte minimale, del linguaggio nei Savant autistici, i quali però risultano super-sistematizzatori. Per esempio, Cohen fa riferimento a Nadia che sapeva disegnare i cavalli da qualsiasi prospettiva, pur essendo priva di linguaggio. Si è fatto cenno all’importanza del “gioco di finzione” all’interno del circuito dell’empatia, come aspetto fondamentale della capacità di rappresentare una cosa per un’altra e quindi in termini di “rappresentazioni mentali” e anche della capacità di immaginare in quelle che Fonagy presenta come modalità “come se”. Si prenda l’esempio: “La luna è fatta di formaggio”. In termini di gioco con la realtà, alla base vi è uno stato mentale che permette di immaginare una realtà “come se”, di meta-rappresentarla come afferma Cohen, consentendo quindi di “far finta. In particolare, Fonagy nei suoi studi sulla mentalizzazione, fa riferimento alla modalità del “far finta”, che evolutivamente comincia a presentarsi intorno ai 18 mesi e che consente al bambino di differenziare i pensieri e le fantasie dalla realtà esterna (Fonagy, 2005). Cohen prosegue domandandosi se la finzione possa spiegare la capacità di inventare. Si può immaginare e fare umorismo quanto si vuole ma per inventare occorre il pensiero “se e allora”. Il pensiero di finzione fornisce soltanto il “se” del meccanismo. Abbiamo bisogno anche della parte “e”, come componente della causalità e abbiamo bisogno della parte “allora”, che permette di vedere i risultati dell’osservazione o della sperimentazione. Viene posto anche il quesito riguardante la memoria di lavoro e l’eventualità che possa fornire spiegazioni alla capacità di inventare. Sicuramente la memoria di lavoro consente di attuare piani futuri, di progettare. Per esempio, Cohen fa riferimento all’uso delle trappole che richiede questo tipo di memoria: “si dispone la trappola, si guarda e si aspetta per poi tornare e vedere se ha funzionato”. Ma consente appunto di pianificare nel tempo, non di generare, che invece necessita della sistematizzazione: “Se attacco una molla ad una barra di metallo, e faccio scattare la molla, allora la barra di metallo si chiuderà a scatto”. Il meccanismo di sistematizzazione, oltre a spiegare il come dell’invenzione, rende chiaro un aspetto fondamentale del perché, che, come si è accennato sopra, risulta il puro piacere di farlo e quindi la curiosità.

Si è accennato sopra all’ipotesi dell’autore in merito alla correlazione tra autismo e iper-sistematizzazione. In particolare viene presentato uno studio in cui si è dimostrato che i geni dell’autismo e dell’iper sistematizzazione siano gli stessi. Nell’ambito dell’Autism and math study, si è chiesto agli studenti di matematica dell’università di Cambridge se avessero un fratello autistico, scoprendo che il tasso di autismo tra questi fratelli era più altro del tasso di autismo tra i fratelli degli studenti di scienze umanistiche. Ciò suggerisce una base genetica condivisa tra l’autismo e la sistematizzazione, poiché i fratelli in media condividono il 50% dei geni. Inoltre viene presentato il quesito se effettivamente le persone che lavorano nel campo STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics) che richiede un livello elevatissimo di sistematizzazione, abbiano maggiori probabilità di avere un figlio autistico. In particolare, la predizione fa riferimento al fatto che padri e nonni di bambini autistici, avrebbero avuto maggiori probabilità di lavorare in campi super-sistematizzanti come l’ingegneria, l’informatica, l’economia. È stato riscontrato più del doppio delle probabilità di essere ingegneri o di lavorare nel campo dell’economia, rispetto ai padri o ai nonni di bambini senza diagnosi di autismo. Uno degli aspetti, a mio avviso, più essenziali che viene colto nel testo di Cohen, risulta l’importanza di coltivare questo tipo di talenti super-sistematizzanti. A tal proposito, l’autore introduce il concetto di neurodiversità e di come sia stato essenziale nell’evoluzione. Le menti delle persone super-sistematizzanti, che siano autistiche o che abbiano tratti autistici, rappresentano uno dei tanti tipi naturali di cervello che si sono evoluti e che contribuiscono alla neurodiversità umana. Questa concezione implica che vi siano vie diverse nello sviluppo e diversi tipi di cervello, i quali probabilmente si adattano meglio a particolari nicchie ambientali. Cohen riporta nel libro una frase tratta dagli scritti di Einstein: “Tutti sono dei geni, ma se si giudica un pesce dalla sua capacità di arrampicarsi su un albero, si passerà la vita a credere che sia stupido”. Cohen fa anche riferimento a Bloom, il quale ha esplorato l’idea che la neurodiversità possa essere tanto cruciale quanto la biodiversità. Egli afferma: “Chi può dire quale tipo di cervello si rivelerà migliore in un dato momento?” Secondo Cohen, quindi, il livello di disabilità che si riscontra nell’autismo, derivante da difficoltà di comunicazione, di socializzazione e di reazione a cambiamenti inaspettati e che può quindi intaccare il loro inserimento in contesti lavorativi, può essere ampiamente ridotto se ci si pone nell’ottica di coltivare il loro talento attraverso un equilibrio ottimale con l’ambiante di riferimento. Viene, ad esempio, citata la storia di Thorkil, fondatore dell’azienda Specialisterne, che nota il talento del figlio autistico nel costruire architetture complesse con i lego, e nel tentativo di promuovere il talento del figlio e di tanti altri autistici, ha avuto una brillante idea per ridurre il livello di ansia sociale che molti di loro sperimentano durante un colloquio lavorativo, il quale richiede empatia cognitiva. Ha quindi proposto ai candidati autistici di costruire robot lego, in modo da poter valutare le loro capacità in merito a ricerca di schemi e problem solving. Cohen invita ad immaginare un sistema educativo che tenga in considerazione i punti di forza di queste persone e in cui, oltre al curriculum generale, con ambiti di studio rivolti alla maggior parte dei bambini, sia presente un curriculum ristretto, volto ai super sistematizzatori. Il curriculum generale non funzionerebbe per i ragazzi autistici, perché porterebbe a cambiamenti troppo frequenti, con il rischio di disperdere la loro passione. Nelle giuste condizioni quindi, la super-sistematizzazione può manifestarsi sotto forma di punti di forza e talenti notevoli e, secondo l’autore, l’aumento dell’occupazione assistita può rivelarsi un intervento molto più efficace di qualsiasi trattamento medico, conferendo un senso di dignità, di inclusione sociale e valorizzazione di ciò che vi è di  “particolare” in queste persone.

 

La diverse fasi del ciclo mestruale influenzano l’interpretazione dei comportamenti maschili?

Il ciclo mestruale costituisce un insieme di processi psicofisici che si verificano nella maggior parte della popolazione femminile. Tale fenomeno può incidere su molti ambiti della vita quotidiana, tra cui i processi decisionali.

 

Partendo da tale presupposto, alcuni scienziati hanno formulato un quesito di particolare interesse: esiste una specifica fase del ciclo mestruale durante la quale le donne tendono a scegliere un partner poiché interpretano i suoi comportamenti maschili come più attraenti? L’incidenza delle varie fasi del ciclo mestruale nelle preferenze di scelta dei partner maschili è stata oggetto di controversie.

Esistono prove secondo le quali, quando le donne si trovano in fase fertile, e quindi in corrispondenza dei giorni di ovulazione, interpretano specifici segnali comportamentali degli uomini come più attraenti rispetto a quando sono in fase luteale, ovvero quando si trovano tra la fase di ovulazione e l’inizio delle mestruazioni. Ciò è asserito, ad esempio, da Gangestad e colleghi, i quali hanno ipotizzato il Good-Genes-Ovulatory-Shift Hypothesis – GGOSH, che sostiene che le preferenze di partner nelle donne differirebbero a seconda del contesto di accoppiamento. Il modello GGOSH, sostiene che quando le donne si trovano in fase fertile, preferiscono uomini con caratteristiche che indicano la presenza di buoni geni, e che quindi garantirebbero una potenziale prole sana; queste preferenze dovrebbero invece risultare assenti nella fase luteale (Gangestad et al.2007).

Diversi studi hanno inoltre evidenziato che le preferenze per gli uomini che mostrano dominanza comportamentale, sicurezza e presenza sociale cambiano durante il ciclo ovulatorio (Gangestad et al., 2007; Lukaszewski&Roney, 2009). Ad esempio, sembrerebbe che le donne che si trovano in fase fertile mostrino preferenze per le espressioni facciali di flirt (Morrison et al., 2010).

Tuttavia, recenti ricerche hanno messo in dubbio tali risultati. Tra queste, due meta-analisi sono giunte a conclusioni sorprendentemente divergenti sull’esistenza di effetti del ciclo (Gildersleeve et al., 2014; Wood et al., 2014).

Proprio per questo motivo, Stern, Gerlach e Penke hanno realizzato uno studio che ha affrontato questo dibattito avvalendosi di misurazioni dei livelli ormonali nelle due fasi del ciclo in oggetto.

Centocinquantasette partecipanti di sesso femminile eterosessuali hanno valutato l’attrattività percepita dalla visione di video di interazioni di coppia. In ogni video figuravano un partecipante di sesso maschile che conversava con un’attraente compagna di sesso femminile. Ciascun video è stato filmato da una telecamera posta sopra la spalla dell’attrice.

Gli autori dello studio hanno ipotizzato che avrebbero osservato negli uomini differenti tipi di comportamento, tra cui l’attrattività, l’autoesposizione, il contatto visivo. L’attrattività comportamentale può essere vista come uno sforzo da parte degli uomini per apparire attraenti in un modo più sottile e indiretto rispetto al flirt. I comportamenti di autoesposizione possono essere visti come un tentativo di impressionare la partner durante la conversazione, indicizzando comportamenti simili al corteggiamento, e sono correlati a livelli di testosterone più elevati (Roney, Lukaszewski e Simmons, 2007; Roney, Mahler e Maestripieri, 2003). È stato altresì riportato che la quantità di contatto visivo sia un indicatore di presenza sociale che può incidere sulle preferenze femminili (Gangestad et al., 2004). Inoltre, il dominio maschile, l’arroganza, l’assertività, la rispettabilità sociale e la probabilità di vincere una lotta fisica sono variabili che possono incidere sulle preferenze femminili durante alcune fasi del ciclo (Gangestad et al., 2007).

I confronti multilivello tra gli ormoni relativi alle due fasi del ciclo rilevati dopo la visione dei video hanno indicato che le preferenze relative alla scelta del partner basata sui comportamenti attuati dagli uomini non sono variate nelle due fasi per alcun tipo di comportamento maschile messo in atto. I livelli ormonali delle donne e lo stato della relazione in cui si trovavano non hanno influenzato questi risultati (Stern, Gerlach&Penke, 2020).

Pertanto, gli esiti dell’attuale studio non forniscono prove a supporto del modello GGOSH, dimostrando che la fase del ciclo in cui una donna si trova non necessariamente influenza l’interpretazione di comportamenti maschili durante la scelta del partner.

La Psicologia dei Meme: il caso della vittoria dell’Italia

Il Meme diventa un modo per veicolare umorismo perché mira alla creazione di un “prodotto socio-culturale virale”, al fine di convertire la tipica risata del viso nelle comunicazioni faccia a faccia in reazioni (like o cuori) all’interno dei social network.

 

I social network e la Rivoluzione Digitale hanno fornito agli utenti nuove possibilità per comunicare in maniera umoristica. Nella comunicazione umana, l’umorismo ha una funzione principalmente emotiva, aiutando l’umorista a creare un rapporto di fiducia e di comprensione con il pubblico. In letteratura psicologica, ci sono molte teorie cognitive ed emotive che mirano a spiegare le funzionalità dell’umorismo, tra le più importanti c’è la “teoria dell’incongruenza” (Meyer, 2000), secondo cui l’umorismo è il risultato della rivelazione di una situazione inaspettata e incoerente con le premesse enunciative e/o con il proprio pensiero su un dato contesto.

Secondo queste teorie, quindi, le persone ridono se si trovano in situazioni inattese o, più precisamente, nel caso in cui, nell’atto comunicativo, è violata la massima della qualità della comunicazione e della relazione (Grice, 1975), in modo da veicolare il contenuto del messaggio in maniera velata. Quindi puntare sull’assurdità, sull’insensatezza e sulla sorpresa diventa vitale per comunicare in maniera umoristica.

Dal momento, perciò, che i sistemi di User Generated Content, come i social, amplificano la possibilità di praticare l’umorismo, quali sono gli strumenti che gli utenti usano per far ridere? Invero, i Social Network, come Facebook o Instagram, amplificano la possibilità di creare contenuti, assicurandosi che questi raggiungano un vasto pubblico. Infatti, ogni utente, anche non esperto, può generare contenuti online (foto, post, video), condividerli o imitarli. A partire dalla possibilità di imitare un contenuto virtuale, si sta diffondendo sempre più il fenomeno virale dei “Meme”. Concettualmente, il Meme è “l’unità culturale minima in grado di replicarsi” (Shifman, 2014, 341). Il termine “Meme” è stato coniato, per la prima volta, da Richard Dawkins (1976), riferendosi alla nascita di un’idea che si diffonde rapidamente: prendendo come riferimento una metafora biologica, il meme è paragonato ad un gene replicatore.

Declinato nel contesto virtuale e, in particolare, dei Social Network, il Meme può assumere diverse forme. Una delle funzioni tipiche dei Meme, in particolare su Facebook e Instagram, è l’imitazione di immagini semi-serie accompagnate da frasi. Il Meme, quindi, diventa un modo per veicolare umorismo perché mira alla creazione di un “prodotto socio-culturale virale”, al fine di convertire la tipica risata del viso nelle comunicazioni faccia a faccia in reazioni (like o cuori) all’interno dei social network. Un esempio attuale di artefatto culturale è il prodotto dell’evento sportivo della partita finale dell’Europeo di calcio, da cui sono stati creati e replicati, in maniera virale e veloce, i Meme relativi a diversi momenti, che vanno dalla reazione dei duchi di Cambridge al gesto di Chiellini verso il giocatore inglese. In questi casi, ad esempio, l’elemento replicato sono i protagonisti, che, in genere, sono posti al centro dell’immagine. A modificarsi, invece, sono i contesti, che sono, in parte o totalmente, ricostruiti, con il riferimento a quadri famosi come sfondo o a contesti incongrui rispetto a quello calcistico.

Da uno studio recente condotto in ambito psicologico (Papapicco & Mininni, 2020), infatti, si dimostra come l’umorismo derivante dai Meme sia proprio il risultato di un’incongruenza tra soggetti rappresentati e conosciuti a tutti perché replicati e il contesto di enunciazione, che viene ricostruito.

Gli stati della mente nell’incontro con la realtà fisica

Lo stato della mente sembra essere un work in progress, una scoperta ed un arricchimento continui.

 

L’elaborazione e la coordinazione delle informazioni rappresentano due funzioni, che a partire dalle fasi iniziali della propria crescita risentono di un contributo relazionale ed ambientale, i quali a loro volta consentono di acquisire una prima chiave di lettura.

La mente infatti non solo è soggetta a continui cambiamenti e sviluppi, ma è capace di costruire ogni singolo momento della realtà, apportando ulteriori modifiche, siano esse positive o negative. Quello che emerge è uno “stato della mente”, che permette al cervello di raggiungere una coesione funzionale, adattiva e sempre pronta ad arricchirsi.

Tale concetto lo si può definire come l’insieme dei pattern di attivazione all’interno del cervello in un determinato momento (Siegel, J. D., 2001). Quasi come vi fosse una sincronia volta al raggiungimento di un’omeostasi, connotata dalla collaborazione di più centri nervosi uniti nel fornire una base o meglio ancora un supporto. Infatti si vengono a riscontrare processi in sinergia tra loro e che risultano assemblati in uno stato di attività temporaneo, che consente di massimizzare la loro efficacia e la loro efficienza (Plaut, D., 2010, Thagard, P., 2002).

Gli stati della mente sono inoltre funzionali perché permettono un adattamento costante e progressivo da parte del soggetto nei confronti dell’ambiente.

Infatti in relazione al significato che ricopre durante lo sviluppo, lo si può concepire come una grande risorsa dalla quale attingere sempre più strumenti e soprattutto come una realtà o una dimensione che permette l’incontro. Grazie al contributo del fisico Carlo Rovelli (2015), infatti, si può intendere tale incontro come un’influenza reciproca, come un’evoluzione e mai come qualcosa di statico.

Come sostenuto dall’autore “il mondo delle cose esistenti è ridotto al mondo delle interazioni possibili”, sottolineando come la nostra identità non venga tanto descritta nella sua semplice essenza, quanto come il risultato di fluttuazioni, cambiamenti ed imprevisti, resi possibili grazie a questo scambio.

La realtà non solo è “ridotta” a interazione ma essa è soprattutto relazione. Sotto quest’ultimo profilo la realtà sembra dunque acquisire non solo caratteristiche esterne nell’ottica di uno scambio, ma anche qualcosa di interno, di intimo, che grazie alle nostre capacità di rappresentazione ci è possibile ridefinire entrando in relazione con noi stessi, entrando in relazione con quello che è la nostra chiave interpretativa del mondo e della nostra identità rispetto ad esso, dando vita, come detto prima, ad uno stato della mente.

Considerando quindi la realtà come vero e proprio incontro, si delinea una chiave di lettura più specifica ed è su questa lunghezza d’onda che Rovelli richiama l’attenzione sul concetto della velocità, che in breve descrive non tanto come una semplice proprietà fisica, bensì come un fattore, meglio ancora come una risorsa. Questa risorsa infatti non la si può tracciare solo su di un oggetto, ma acquisisce valore e dinamismo, dunque la sua qualità di moto, se ad esser presente è un oggetto rispetto ad un altro oggetto.

Le caratteristiche di un oggetto sembrano esistere solo rispetto ad altri oggetti, ovvero nell’incontro con l’altro (Rovelli, C., 2015).

Risulta possibile inoltre riconnettere tale principio alla sfera relazionale, in quanto è grazie alle relazioni che si disegnano e si designano gli spazi e i tempi, per crescere, arricchirsi della propria esperienza e per valorizzare le nostre chiavi di lettura: i nostri stati della mente.

Questa connessione tra la dimensione della fisica quantistica e la neurobiologia riflette e conferma il significato che la relazione assume rispetto al mondo esterno e al mondo intrapsichico, di cui ciascuno di noi è il proprio custode. È utile perché permette di capire come “non sono le cose che possono entrare in relazione, ma sono le relazioni che danno origine alla nozione di cosa”, permettendo l’acquisizione del simbolo, del significato. Viene così a delinearsi il concetto di “processo” collegabile con il concetto dello “stato della mente” in quanto il comune denominatore che li collega altri non è che l’interazione e il passaggio da una fase all’altra (Rovelli, C., 2015, Siegel, J. D., 2001).

Un passaggio promotore di arricchimento e di cambiamenti, come già detto, sia a livello intrapsichico che neurobiologico.

Se il punto di vista fisico serve a capire come l’incontro poggi le sue basi su una dimensione esterna, al contempo quello neurobiologico riflette come esso modifichi ciò che di più interno è in ciascuno di noi.

Infatti è possibile notare come, sotto quest’ultima dimensione, i circuiti cerebrali determinino lo sviluppo di pattern di attivazione che corrispondono a simboli e che prendono il nome di rappresentazioni.

Questi pattern non solo contengono delle informazioni ma allo stesso tempo determinano altri processi che a loro volta rappresentano ulteriori informazioni aggiuntive. Al di là del profilo di eccitazione viene a prendere forma l’elaborazione dell’informazione da parte della mente. Infatti viene a delinearsi, prevalentemente in base alla funzione svolta dai caregiver, una concatenazione di ulteriori attivazioni neurali che riflettono non solo un dinamismo ma anche la funzione di “processo” che arricchisce e co-costruisce la nostra identità rispetto a quanto ci circonda e a come percepiamo.

Le diverse forme di rappresentazione derivano da pattern di eccitazione che trovano la loro localizzazione in zone differenti dei circuiti neurali. L’aspetto peculiare risiede nel fatto che la localizzazione conferisce una specificità alla propria esperienza delle rappresentazioni mentali, che, da una parte plasmano il contenuto delle informazioni e la loro qualità soggettiva, ma dall’altra non sempre risentono di un buon collegamento funzionale e adattivo (Anders, S. L., 2008).

Ciò che emerge sono quindi due chiavi di lettura rispetto alle quali il soggetto si trova inserito. Due linee guida che permettono di capire quello che tutti noi vorremmo ottenere.

Infatti l’obiettivo che ciascun soggetto vorrebbe raggiungere si riflette in un’omeostasi e dunque un equilibrio, caratterizzato dalla coordinazione di “un’ampia gamma di attività cerebrali”. Quello che viene da chiedersi è se le varie funzioni, sia superiori che inferiori, risentano di una buona maturazione e di una buona coordinazione. Nondimeno un ulteriore aspetto riguarda non tanto il tempo, quanto la temporaneità o meglio ancora l’apparente simultaneità, con cui venendosi a creare un’associazione ed un collegamento, si determina uno stato della mente (Beer, J., 2006).

Infatti la coordinazione sembra richiamare in causa il concetto di “temps perdu” introdotto da H.V. Helmoltz (1850), tramite il quale si può avere la sensazione dello scorrere del tempo, correlabile ad una maturazione delle funzioni cerebrali che permettono una rapida elaborazione dell’informazione (Benini, A., 2017).

Inoltre questa serie di collegamenti non solo riflette la “simultaneità” ma anche l’influenza rispetto alle nostre interazioni con gli altri.

Più nello specifico, lo stato mentale sembra essere un work in progress, una scoperta ed un arricchimento continui che, a partire dalle prime fasi dello sviluppo, risente del ruolo del “grado” e della “direzione” del coinvolgimento affettivo e soprattutto della coordinazione temporale.

Quest’ultimo aspetto risulta interessante perché mette in evidenza un ulteriore concetto, quello del “timing”. Esso riflette il livello di corrispondenza degli schemi temporali fra i rispettivi partner, ma contemporaneamente il grado di maturazione delle nostre rispettive funzioni, alimentate e “nutrite” dalle modalità relazionali ed interpersonali che si iniziano ad acquisire e che evidenziano sempre più il concetto di “processo”.

Per l’appunto gli schemi temporali fanno riferimento a quattro fattori quali la velocità, le pause, il tempo di reazione, l’interruzione e l’alternanza dei turni. In riferimento a questi ingredienti viene da chiedersi se vi sia una buona coordinazione del “timing interpersonale”, in cui ad emergere non è soltanto la sequenza di comportamenti paralleli, ma anche le capacità di autoregolazione e, come detto prima, il grado di maturazione delle proprie funzioni che nel loro incontro permettono uno sviluppo sempre più dinamico.

La coordinazione serve inoltre a sottolineare una delle modalità principali con cui le relazioni sociali iniziano ad essere organizzate ed è essenziale per comprendere il funzionamento delle rappresentazioni pre-simboliche.

Come sottolineato da Beebe e Lachmann (2005) viene ad emergere una “impronta temporale” dell’interazione in cui ciascun attore della relazione stessa valuta i ritmi dell’altro, che gli consentono di attribuire un significato ai propri.

Lo stato della mente sembra quindi acquisire una prospettiva multi-fattoriale, in cui ad esser chiamati in causa sono i processi percettivi, il tono e la regolazione delle emozioni, i processi di memoria, i modelli mentali e infine le risposte comportamentali. Nel loro insieme rappresentano dei fattori che assumono un significato ed una collocazione all’interno di una cornice fatta di ricordi, percezioni, sentimenti, pensieri e soprattutto credenze. Una cornice che tende a strutturarsi sulla base delle relazioni interpersonali e in base alle rispettive rappresentazioni.

 

Quando le emozioni diventano cibo. Psicoterapia cognitiva del binge eating disorder (2007) di Vinai e Todisco – Recensione del libro

Il libro Quando le emozioni diventano cibo introduce e approfondisce clinicamente il Binge Eating Disorder, un disturbo dell’alimentazione caratterizzato da episodi ricorrenti di abbuffata, senza l’uso regolatore degli inappropriati comportamenti compensatori caratteristici della bulimia nervosa (DSM-IV).

 

Le abbuffate sono momenti in cui il soggetto percepisce un senso di perdita di controllo sul cibo, mangiandone grandi quantità in poco tempo e in solitudine. Ciò spesso determina, successivamente all’episodio, forte senso di colpa e vergogna. Il disturbo è facilmente confondibile con la bulimia, un disturbo alimentare caratterizzato da abbuffate e comportamenti compensatori (alimentazione restrittiva, vomito…). La differenza sostanziale sta nel fatto che il BED non è caratterizzato da comportamenti compensatori, in quanto a seguito dell’abbuffata l’individuo si guarda indietro con atteggiamento passivo, constatando semplicemente la propria sconfitta. Nella bulimia, invece, il soggetto decide di prendere in mano la situazione attraverso comportamenti restrittivi che possano dare un maggior senso di controllo sul cibo. Questa breve introduzione al disturbo, soprattutto confrontato con la bulimia, è argomento del primo capitolo di Quando le emozioni diventano cibo.

Il secondo capitolo, invece, approfondisce l’inquadramento nosografico del BED, osservando come spesso l’individuazione di una categoria specifica in cui inserire il disturbo possa essere difficile. Tra i diversi modelli nosografici, vengono citati:

  • Bulimia nervosa senza comportamenti compensatori.
  • Bulimia nervosa non purging
  • Forma più lieve di bulimia
  • DCA NAS (classificazione che spesso porta al considerare il BED come un disturbo in grado di regredire spontaneamente senza trattamento).
  • DCA  a sé stante: tale posizione è fortemente sostenuta da alcune caratteristiche uniche del BED, quali l’atteggiamento nei confronti del cibo (è un alleato scomodo che consola nei momenti tristi/ansiosi e gratifica in quelli di gioia, ma determina anche senso di colpa dopo l’abbuffata. Per le Bulimiche invece il cibo è solo un nemico da combattere) e il comportamento dopo l’abbuffata (BED è passivo).

Il capitolo terzo approfondisce i vari fattori di rischio e la loro influenza sull’intervento terapeutico. Tra quelli citati possiamo ricordare:

  • fattori genetici (importante non sopravvalutarli per evitare che il paziente si senta impotente)
  • squilibri neuroendocrini (utile spiegare al paziente il meccanismo endocrino sottostante alla fame, minimizzabile con un’attenta dieta e/o una corretta farmacoterapia per il diabete).
  • evolutivi-attaccamentali (con paziente minorenne meglio ridurre il coinvolgimento della famiglia in modo da evitare che il paziente percepisca il terapeuta come un alleato dei genitori; con paziente maggiorenne non si nega il contatto con i genitori, ma si comunica che il contenuto della conversazione verrà integralmente riferito al figlio). Ad esempio, sembrerebbero essere fattori di rischio ambienti critici, madri iperprotettive ma iposensibili, maggiore colpevolizzazione e abusi di alcol, attaccamento insicuro, dinamiche familiari incentrate sul potere, alessitimia (difficoltà a riconoscere le emozioni, il che porterebbe il soggetto a riconoscere l’ansia come fame oppure la depressione come assenza di forze).
  • sociali, quali la preoccupazione e l’insoddisfazione per l’immagine corporea e il peso e il frequente ricorso a diete. L’abuso fisico e il bullismo subito rappresentano fattori in grado di influire specificamente nel BED, mentre violenze sessuali e discriminazione sociale avrebbero un ruolo differente a seconda nel gruppo etnico di appartenenza (importante spiegare al paziente che esistono ipotesi alternative per confrontarsi con i bulli non basate sul confronto fisico e che la svalutazione non deve passare necessariamente attraverso l’autodenigrazione).
  • predisposizione all’obesità

Il quarto capitolo è molto interessante per comprendere effettivamente come il BED è vissuto dai soggetti che sono intrappolati nel suo meccanismo. Gli autori, infatti, elaborano un interessante excursus all’interno della mente del Binge Eater approfondendo i meccanismi di mantenimento, i fattori scatenanti, il rapporto con il sè e il corpo, le relazioni interpersonali e con il cibo.

Per quanto riguarda i fattori scatenanti, viene sottolineata la centralità delle emozioni negative superanti la soglia soggettiva di tolleranza. L’individuo può trovarsi a dover gestire una qualsiasi emozione negativa (ansia, tristezza, disperazione, noia, rabbia) e, credendo di non poterla gestire altrimenti e sottovalutando gli effetti negativi a lungo termine (miopia metacognitiva), ricade nelle abbuffate, identificando il cibo come l’unica consolazione possibile. Contribuisce anche la tendenza a voler fronteggiare in modo autonomo il malessere. Dietro le abbuffate possono nascondersi pensieri, stati d’animo simbolici personali anche molto differenti, come un equivalente affettivo, un’autopunizione, un modo di affermare la propria indipendenza, il trovare nell’obesità un capro espiatorio per le problematiche relazionali. Da quest’ultimo punto è possibile collegarsi anche al modo in cui le relazioni interpersonali sono vissute dai Binge Eaters. Innanzitutto la famiglia del BED è spesso caratterizzata da un clima relazionale ambivalente e ipercritico, il che porta i BE a trasferire questi pattern anche in altre relazioni. Il capitolo cita anche alcuni dei modelli interpretativi cognitivo-comportamentali:

  • fuga dalla consapevolezza (durante l’abbuffata il paziente percepisce perdita di controllo)
  • modello del blocco emozionale (l’abbuffata serve ad allontanare dalla coscienza le emozioni negative focalizzando il soggetto su quelle positive indotte al cibo, per cui è strettamente connesso ad alte soglie di percezione e una bassa soglia di intolleranza delle emozioni).
  • finestra emozionale stretta: tre convinzioni disfunzionali inducono a ricercare il blocco dell’emozione, cioè: ritenere le emozioni intollerabili, interpretare le sensazioni corporee dovute alle emozioni come premonitori di imminenti eventi nefasti sul fisico e sulla psiche, pensare che ci si possa difendere innalzando la soglia di consapevolezza più che quella di tolleranza.
  • incapacità di riconoscere le emozioni.

Dal quinto capitolo viene descritto l’approccio terapeutico. Viene quindi specificata l’importanza di intervenire alla base del costrutto disfunzionale che causa e mantiene la patologia, facendo comprendere al paziente che il sintomo è una modalità che egli usa per affrontare i problemi, modificabile con impegno e costanza, non una caratteristica della sua personalità. Inoltre, bisogna intervenire al fine di creare delle aspettative realistiche e alla portata del paziente (spesso le aspettative irrealistiche sono anche alla base dell’abbandono da parte del paziente della terapia). Quindi, durante la prima seduta verrà specificata l’azione a due livelli: controllo dell’alimentazione e gestione delle problematiche alla base delle abbuffate che verranno gestite attraverso un’equipe multidisciplinare. Dopo aver creato un’alleanza terapeutica, è importante dare inizio alla ristrutturazione cognitiva osservando man mano l’atteggiamento del paziente, valutandone attentamente la motivazione (anche attraverso strumenti specifici).

Il sesto capitolo approfondisce l’assessment multidimensionale e focalizzato sulle aree critiche cruciali nel BED (peso, rapporto con il corpo, autostima, relazioni interpersonali, caratteristiche dell’alimentazione, aspetti motivazionali). Per l’assessment si può far ricorso a diverse scale, quali il Binge Scale Questionnaire, il BEDQ, interviste cliniche, self-report, Questionnaire on eating and weight patterns, Binge Eating Scale, Three Factor Eating Questionnaire (restrizione alimentare, disinibizione, fame). Il capitolo sesto approfondisce anche la comorbilità psichiatrica osservando come spesso il BED si manifesta in concomitanza ad altri disturbi psichiatrici. Tra le patologie concomitanti al BED possiamo citare la depressione maggiore, l’abuso di alcool e il disturbo d’ansia. Se le due patologie (primaria e secondaria) hanno lo stesso substrato psicopatologico e non presentano una particolare gravità solitamente sono gestibili da un unico clinico. Comunque è importante effettuare sia un assessment delle condizioni mediche generali sia un assessment nutrizionale e far ricorso ad un’equipe multidisciplinare.

Il capitolo settimo definisce invece gli strumenti terapeutici cognitivo-comportamentali utilizzabili nel corso della terapia. Precedentemente abbiamo citato la ristrutturazione cognitiva come una fase fondamentale della terapia. Precisamente questa può avvenire attraverso l’uso di alcuni metodi come l’identificazione delle aree disfunzionali del paziente, il dialogo socratico, la riformulazione delle convinzioni oppure una revisione del processo (ossia ripercorrere i passaggi cruciali per modificare le convinzioni disfunzionali). In questo modo è possibile agire direttamente sulla fuga dalla consapevolezza. Un altro strumento molto utile è il diario emozionale: di fatto viene chiesto al paziente di scrivere tutti gli episodi in cui si è sentito a disagio, in modo che possano poi essere analizzati in seduta esplorando gli atteggiamenti messi in atto per tollerare il disagio emotivo e le possibili alternative (più funzionali), anche attraverso role playing. Inizialmente è meglio evitare di far tenere anche il diario nutrizionale, in modo da non far associare unicamente al cibo la sofferenza del paziente, ma successivamente questo può tornare utile. E’ importante esplicitare al paziente comunque che il diario alimentare non è la terapia, ma è utile per monitorare i progressi e le difficoltà alimentari, emotive e cognitive.

L’ottavo capitolo invece approfondisce un tema importantissimo, quale è il drop-out, ossia la possibilità che il paziente decida di abbandonare la seduta. A tal proposito vengono citate alcune frequenti cause come:

  • aspettative irrealistiche sulla perdita di peso e sui suoi effetti.
  • pensiero dicotomico sulla perdita di peso
  • incapacità di accettare gli insuccessi
  • timore del giudizio del terapeuta

Nel libro vengono anche citati alcuni segni premonitori che possono essere utili per identificare una tendenza ad abbandonare la terapia, quali: assenza a una seduta, mancata compilazione del diario alimentare, rimurginii sull’inutilità della terapia, dubbi sulla possibilità di risolvere il problema, mutacismi in seduta o lunghe digressioni su argomenti poco attinenti, aggressività verbale, cambi dell’umore non giustificati. Di fronte a questi segnali è importante che il terapeuta intervenga al fine di far rinascere la motivazione in crisi, ad esempio attraverso un lavoro sull’autoattribuzione, l’affronto dei pensieri disfunzionali, la focalizzazione sui vantaggi a breve e a lungo termine, così come la definizione degli obiettivi realistici.

Come definito nel capitolo nono, infine, la terapia potrà essere portata a compimento una volta che le abbuffate siano state interrotte e i meccanismi cognitivo-comportamentali di mantenimento interrotti ed individuati. È possibile anche stabilire delle sedute di follow-up al fine di accertarsi della stabilità degli effetti della terapia (ponendo attenzione alla differenza tra una “scivolata” ed una ricaduta).

Nel complesso, quindi, il testo si presenta come un ottimo modo per comprendere e approfondire in modo adeguato il BED, anche per individui senza conoscenze particolari relative al disturbo, infatti l’introduzione del primo capitolo è molto utile per comprendere i capitoli successivi.

 

Relazione tra disturbo schizoide di personalità e disturbi dello spettro autistico: possibile continuità evolutiva?

Sebbene ampiamente concepiti come condizioni cliniche distinte, il disturbo dello spettro autistico (ASD) ad alto funzionamento e il disturbo schizoide di personalità (DP schizoide) condividono una psicopatologia a tratti analoga e sovrapponibile.

 

Il presente estratto è, dunque, finalizzato ad approfondire la relazione tra le due categorie diagnostiche focalizzando l’attenzione su relativi punti di congiunzione e criteri di demarcazione (Cook, Zhang & Constantino, 2020). L’isolamento sociale e il distacco emotivo sono i sintomi cardine che costituiscono una diagnosi di disturbo schizoide di personalità, originariamente derivato dai criteri diagnostici per la schizofrenia (Michels et al., 1989). Il disturbo schizoide di personalità colpisce circa il 3-5% della popolazione, sebbene comune nell’età adulta, viene raramente diagnosticato nell’infanzia (American Psychiatric Association, 2013). Il disturbo dello spettro autistico mostra, invece, un modello di prevalenza quasi opposto, in cui la diagnosi è sempre più prevalente nell’infanzia, ma tradizionalmente rara nell’età adulta; specialmente per coorti di adulti nati prima dell’aumento esponenziale della prevalenza del disturbo tra gli anni ’90 e il 2000 (Zablotsky et al., 2015). A seguito della concettualizzazione dimensionale del disturbo autistico, concepito in termini di spettro, l’accresciuto riconoscimento dei casi di disturbo dello spettro autistico ad alto funzionamento ha permesso di formulare delle ipotesi in merito all’ipotetico ruolo predittivo dei tratti autistici nel concorrere ad una diagnosi di disturbo schizoide di personalità in età adulta (Cook, Zhang &Constantino, 2020).

La sovrapposizione dei rispettivi quadri sintomatologici del disturbo schizoide di personalità e dello spettro autistico in età adulta è stata ampiamente riconosciuta, infatti, la quinta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5) evidenzia la complessità della diagnosi differenziale in maniera esplicita (APA, 2013). Un recente studio con ampia numerosità campionaria ha mostrato, tuttavia, che questi costrutti sono per natura altamente correlati, non solo nella popolazione clinica conclamata, ma anche in termini di tratti subclinici nella popolazione generale (Frazier et al., 2014). Verranno di seguito riportati i risultati del primo studio prospettico longitudinale che ha impiegato metodi quantitativi per esaminare esplicitamente la relazione tra una diagnosi infantile di ASD e una diagnosi adolescenziale di disturbo schizoide, in cui sono stati esaminati tratti schizoidi in adolescenti con e senza disturbo dello spettro autistico durante la loro transizione all’età adulta (Cook, Zhang &Constantino, 2020).

In questo campione è emerso che la condizione di disturbo dello spettro autistico è fortemente associata a un distinto aumento dei sintomi tipici del disturbo schizoide nell’adolescenza, mostrando, dunque, un ruolo sostanziale della sintomatologia ASD nell’amplificare i tratti schizoidi. La stabilità dei tratti autistici in questo campione riflette pienamente la loro marcata cronicità, che è stata osservata a lungo nella letteratura precedente sul tema (Wagner et al., 2019). I risultati suggeriscono una sovrapposizione causale e/o una continuità evolutiva tra lo spettro autistico e il disturbo schizoide nell’adolescenza: il livello di compromissione dettato dal disturbo dello spettro autistico nell’infanzia è direttamente proporzionale a quello della sintomatologia schizoide nell’adolescenza (Cook, Zhang &Constantino, 2020). Di seguito vengono riportati i criteri di demarcazione tra disturbo dello spettro autistico e disturbo schizoide di personalità emersi dallo studio, utili ai fini di una diagnosi differenziale: (i) i bambini con disturbo dello spettro autistico sono inibiti nell’instaurare legami significativi non perché non li desiderino, ma piuttosto perché riscontrano difficoltà a formarli (Petrina et al., 2017); (ii) l’assenza di interesse sessuale, allo stesso modo, è stata riportata solo da una minoranza di soggetti con disturbo dello spettro autistico, a differenza del disturbo schizoide di personalità in cui è stata riportata dalla totalità (Cheak-Zamora et al., 2019). Comprendere, dunque, la differenza tra la motivazione a perseguire una connessione sociale e la capacità di attuarla può essere fondamentale nel differenziare le traiettorie del disturbo dello spettro autistico rispetto al disturbo schizoide di personalità, specialmente ai fini della pianificazione del trattamento, per massimizzare un funzionamento psicosociale adattivo (Cook, Zhang &Constantino, 2020).

È concepibile che gli interventi clinici erogati a bambini e adolescenti con ASD ad alto funzionamento nell’era contemporanea abbiano operato al fine di evitare il rischio della piena manifestazione del disturbo schizoide di personalità in età adulta (Cook, Zhang &Constantino, 2020). I trattamenti/interventi che hanno costantemente dimostrato la loro efficacia per adolescenti con autismo includono: la formazione sulle abilità sociali (Lordo et al., 2016), la terapia cognitivo- comportamentale (Sukhodolsky et al., 2013) e gli approcci psicofarmacologici per mediare irritabilità e aggressività (Parikh et al., 2008). Questi interventi terapeutici rappresentano potenziali opportunità per affrontare la menomazione sociale nel disturbo schizoide di personalità, intervenendo precocemente quando i tratti autistici vengono identificati nell’adolescenza. L’aumento esponenziale della prevalenza dell’autismo è stato accompagnato da dati che confermano la natura cronica della condizione (Wagner et al., 2019). Storicamente, la prevalenza del disturbo dello spettro autistico è stata ritenuta molto più bassa di quella del disturbo schizoide di personalità, ma la coorte di bambini diagnosticati negli ultimi vent’anni, e che potrebbero non essere stati diagnosticati durante l’infanzia, si sta ora avvicinando all’età adulta. Molti di questi individui mostrano la sintomatologia tipica del disturbo schizoide di personalità e possono spiegare i casi di disturbo schizoide di cui storicamente si presumeva un esordio nell’età adulta. Questi dati supportano la possibile continuità evolutiva tra le due condizioni e possono aiutare a riconciliare i contrasti storici nella loro rispettiva prevalenza life-time (Cook, Zhang &Constantino, 2020).

Post-pandemia+Arte, intervista a Meisam Seraj Intervista a Cura di Antonio Quaranta

Questa Pandemia ha rotto tutte le regole, per il mondo dell’Arte è stata completamente destabilizzante. Da qui nasce il progetto Post-pandemia+Arte di Meisam Seraj.

 

Se osserviamo il mondo di oggi attraverso gli occhi di un uomo del 2019 vedremo un mondo distopico, in cui oltre ai soliti conflitti (guerre, intolleranza, maschilismo, prevaricazione sociale, razzismo, eccetera…) ci troveremo di fronte ad una società in rapidissima ascesa tecnologica, dove l’uomo raggiunge livelli scientifici di incomparabile livello che lo portano ad un senso di onnipotenza… per poi scoprire che un microscopico virus (se consideriamo la bomba atomica come un macroscopico virus) ha fatto sprofondare l’umanità in una palude senza fondo. Sono passati due anni, siamo nel 2021 e lunghi mesi di lockdown hanno eretto muri nei nostri cuori. Ora ci ritroviamo prigionieri di celle da cui sembra impossibile evadere. La tecnologia al servizio di governi totalitari ha stretto il controllo sulla popolazione rendendo sempre più difficile anche il banale vivere quotidiano. Cose che un tempo erano semplici come fare il turista, dedicarsi all’arte, o anche concedersi un semplice giro attraverso il centro della città, sono diventati azioni difficili e rivoluzionarie. Il progetto Post-pandemia+ARTE, organizzato da Meisam Seraj, giornalista, filosofo e artista Iraniano, che ha studiato Arte e Pedagogia a Milano, porterà un gruppo di sei artisti di fama internazionale dall’Italia all’Iran. Con il patrocinio del Consolato Iraniano, il gruppo di artisti viaggerà per due settimane attraverso luoghi simbolo dell’Iran realizzando mostre, conferenze, performance sia in interni, come gallerie e musei, che in esterni nei monumenti di grande rilevanza storica, come Persepolis. Queste attività artistiche saranno costantemente videoriprese per realizzare un documentario che sarà presentato in diversi festival del cinema, come Locarno e Venezia. Grazie alla globalizzazione virtuale, abbiamo anche la possibilità di ottenere visualizzazioni nei social networks. Durante il viaggio della durata di due settimane a fine Agosto 2021, farà parte del gruppo anche un team di medici, professionisti informatici ed elettronici per far fronte agli eventi non prevedibili. Attraverso quest’opera vogliamo diminuire i confini tra i Paesi e gli esseri umani per costruire un mondo più semplice e ancora più bello.

In questa surreale estate del 2021 il caldo pare non dare tregua. Ci troviamo nel giardino interno di un antico palazzo nel centro di Milano, l’ombra pare stabilire una zona franca dove si ha un po’ di sollievo dal caldo. Il mio interlocutore mi porge un bicchiere colmo di una sostanza ambrata e densa, con dei semini in sospensione. Meisam Serajizadeh Mohammadabadi, in arte Meisam Seraj, sorride e mi invita a berla, pare che sia un antico rimedio iraniano per il caldo. Chiedo se funziona. Il caldo non andrà via, risponde Meisam, ma tu ti sentirai meglio… un po’ come l’Arte: non risolve i problemi del mondo ma rende la vita unica.

Mesiam Seraj, poeta, scrittore e artista, ha lo sguardo profondo, i modi garbati e i gesti veloci, di chi è abituato ad arrivare subito al punto con eleganza: in effetti siamo qui per parlare di Arte, di Iran e di Arte.

Post-pandemia Arte il progetto artistico di Meisam Seraj - Intervista IMM.1

Antonio (A): Meisam, so che stai portando avanti un nuovo progetto Artistico: Post-Pandemia+ARTE, cosa significa questo nome?

Mesiam (M): Esiste un proverbio, di cui non ricordo le origini, che recita Metà delle risposte si trovano celate nelle domande stesse. Realizzare ARTE in un mondo Post pandemia, con Arte scritto tutto maiuscolo perché mai come oggi il ruolo dell’Arte è diventato necessario.

A: In concreto di cosa si tratta?

M: Siamo un gruppo di 6 artisti che spaziano tra diversi campi, come il teatro, la pittura, la scrittura… Partiremo dall’Italia alla scoperta dell’Iran. Durante il mese di agosto, per un periodo di due settimane, allestiremo mostre, terremo conferenze, realizzeremo performance. Uno degli aspetti chiave del progetto sarà il documentario di tutto ciò che realizzeremo per raccontare al mondo intero delle suggestioni artistiche che prendono vita in un Paese misterioso e affascinante come l’Iran.

A: Chi sostiene il vostro progetto?

M: Ci sono degli sponsor molto importanti che credono in Post-pandemia+ARTE, ma tra tutti è stato fondamentale il supporto del Consolato Iraniano.

A: Perché proprio in Iran?

M: Questa Pandemia ha rotto tutte le regole, per il mondo dell’Arte è stata completamente destabilizzante. Noi che viviamo di Arte ci siamo trovati di punto in bianco smarriti. Se ne parla poco ma il lockdown per gli artisti, che vivono di interazioni sociali e scambi culturali è stato un disastro. Sentivo l’esigenza di ripartire, con un progetto artistico ambizioso. Ho riflettuto molto su che tipo di progetto dovesse essere. Ho guardato dentro di me e ho capito che le mie radici culturali potevano essere una grande risorsa. Partiamo dall’Iran perché sono Iraniano e penso che la mia Madre Patria dai tempi di Shahrazād abbia ancora molte storie da raccontare.

A: Pensi che lo stop forzato indotto dalla pandemia abbia influito non solo sul modo di fare Arte ma anche sul modo di pensare l’Arte?

M: Purtroppo l’umanità non è nuova a questo tipo di esperienze, basti pensare a quando, circa un secolo fa, l’epidemia di febbre “spagnola” ha tenuto in scacco il mondo per due anni. E anche allora come oggi il principale rimedio erano le mascherine e i guanti. Ma non dimentichiamo che proprio in quel periodo l’Arte ha generato opere immortali, per esempio cito Amedeo Modigliani, che tra il 1918 e il 1920 ha creato le sue opere migliori, o Marcel Proust che scrisse À la recherche du temps perdu.

Ad ogni Tempesta segue un silenzio, e in quel tempo immobile si può sentire il respiro del mondo. Ed è allora che se chiudiamo gli occhi e apriamo la mente troveremo la forza per modificare e migliorare la realtà. E chi può indicarci meglio la via se non la “Signora Arte”?

A: Senza prospettive stabili per il futuro la “Signora Arte” si troverà di fronte ad un compito molto difficile, non credi?

M: Sicuramente sarà più difficile rispetto al 2019, ma meno arduo del 1945! L’Europa, che da secoli era la culla dell’Arte, si ritrovò alla fine della Seconda Guerra Mondiale coperta dalle ceneri di opere bruciate, artisti e scrittori morti, architetture e monumenti ridotti in macerie. Uno tra tutti, il pilota e scrittore Antoine De Saint-Exupery, che in una notte nera si inabissò nel Mediterraneo con il suo velivolo. E così, a causa della guerra, abbiamo perduto il nostro Petit Prince con una fumata nera nel cielo. Quanti Piccoli Principi abbiamo già perso in questa pandemia? Quanti sogni interrotti? Se vogliamo cambiare il mondo dobbiamo smetterla di cercare eroi e dobbiamo rimboccarci le maniche!

A: Durante il lockdown invernale le grandi abbuffate di cultura pop e intrattenimento sono servite a riempire la surreale bolla di tempo che si era creata, ma oggi, che si ritorna all’aperto e a frequentare i luoghi pubblici, l’Arte sarà in grado di recuperare il tempo e lo spazio perduto nei cuori della gente?

M: Se guardiamo agli ultimi anni, a prima della pandemia e ai danni del lock-down, risulta evidente che l’Arte non era stata in grado di riempire quei buchi neri che intendi tu. Ora purtroppo risulta un compito anche più arduo. Penserai che sono molto pessimista, ma se guardi l’utilizzo di piattaforme social come Instagram, Tik Tok, Tinder, Facebook ecc. probabilmente sarai d’accordo con me. Ed è esattamente per questo motivo, come ho già detto, che non dobbiamo cercare eroi, ma dobbiamo essere eroi: perché i buchi neri ci saranno sempre! E noi, con la forza della “Signora Arte” possiamo cambiarne il colore.

A: Siamo figli dei tempi che viviamo, lo vediamo nei giovani in cui i lunghi periodi di clausura hanno minato le capacità relazionali, quasi anestetizzando la curiosità verso un mondo che a loro è stato precluso. Quanto questo si riflette nell’Arte?

M: Ho l’impressione che abbiamo una mentalità molto simile e questo mi fa piacere. Se l’Arte si allontana dal mercato, e se la politica smette di interferire, i giovani ritorneranno all’epoca d’oro dell’Arte. Per “epoca d’oro” intendo un mondo in cui un giovane anziché cercare l’acquisto della famosa consolle di videogiochi del momento cercherà un volo per viaggiare, dove invece di scaricare Tinder comprerà un libro con poesie d’amore per il proprio partner. Purtroppo stiamo vivendo un’evoluzione tecnologica che sta modificando la mente della popolazione. La nostra era non è più l’era dell’umanità e degli umani, ma stiamo entrando nell’era della Post-umanità e dei Post-umani, quindi dobbiamo aggiornare le nostre armi in questa guerra. E se le nostri armi sono le nostre menti, dobbiamo modificare il modo in cui vediamo il mondo.

A: Uno spettacolo per essere definito tale ha bisogno del pubblico, quanto è importante oggi, secondo te, il ruolo dello spettatore nell’Arte, e soprattutto quanto sono influenti i social?

M: Ogni opera o pensiero che si crea nella mente di un artista prende vera vita solo negli occhi di uno spettatore o di un lettore. Nessuno crea o scrive senza desiderare che la propria opera sia letta, vista o vissuta. Se invece parliamo di comunicazione e marketing allora dobbiamo cambiare i metodi di esporre. Se per motivi o pregiudizi sociali e culturali limitiamo l’accesso di una galleria d’arte ad un gruppo ristretto di persone, allora staremo tradendo l’Arte stessa. Privando il mondo delle opere che per esso sono state create. Ecco forse è proprio qui l’essenza del nostro viaggio: cambiamo il modo di esporre l’Arte!

A: Hai detto che durante il viaggio verrà registrato un documentario per raccontare questa esperienza. Dove sarà possibile vederlo?

M: Presenteremo il documentario in diversi festival del cinema, nei musei. Alcune importanti aziende, che si sono offerte come sponsor, hanno già detto di voler inserire alcune scene nei loro video promozionali. Stiamo ricevendo molte proposte di collaborazione e il nostro team le sta vagliando per identificare quelle più congeniali al progetto.

A: Realizzare questa impresa, soprattutto a livello organizzativo, non deve essere facile, ma sappiamo che il tuo entusiasmo ha smosso l’interesse anche ad alti livelli: chi vorresti ringraziare?

M: Ringrazierei prima di tutto te, poi il Consolato e l’Ambasciatore dell’Iran, l’Ambasciatrice dell’Arte di Cuba. Un doveroso riconoscimento va anche all’azienda internazionale BMW che da subito ha mostrato interesse al progetto decidendo di supportarlo. Ovviamente non posso fare a meno di citare tutto il gruppo di lavoro qui in Italia, e il team in Iran costituito da medici, truccatori cinematografici, informatici. Un ultimo ma non meno importante ringraziamento va agli artisti che prenderanno parte al progetto, ai politici che daranno il loro supporto e agli altri eventuali sponsor.

A: Il team tecnico del documentario comprende diverse professionalità iraniane, vuoi parlarci di questi ragazzi?

M: Un progetto itinerante di questa complessità si avvarrà di diverse squadre tecniche nelle diverse location, ognuna specializzata per il tipo di riprese che dovranno essere realizzate. Si tratta di giovani professionisti che alle spalle hanno un ricco bagaglio di esperienza. Siamo tutti molto entusiasti e non vediamo l’ora di metterci all’opera.

E in questo vetusto cortile il tempo è volato via, le ombre della sera si sono allungate e devo ammettere che la bevanda di Meisam, con lo zafferano, l’acqua di rosa e i semini in sospensione, anche se non ha portato via il caldo, ci ha regalato un’oasi di freschezza.

 

Energy drink e depressione nei giovani adulti

Uno studio ha cercato una correlazione tra la capacità dei giovani di gestire lo stress attraverso le proprie risorse interne, la depressione e il consumo di energy drink.

Livia Costa – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Le bevande analcoliche ad alto contenuto di caffeina sono comparse in Europa e in Asia negli anni ’60 e poi con l’introduzione della Red Bull in Austria nel 1987, la bevanda che “mette le ali”.

Successivamente in Nord America nel 1997 la diffusione di queste bevande è cresciuta in modo esponenziale, diventando un mercato multimiliardario.

Quello che colpisce è che negli ultimi anni il consumo di queste bevande è aumentato significativamente tra adolescenti e giovani adulti, e questo è quanto emerso da studi e sondaggi effettuati in diversi paesi.

Un sondaggio rappresentativo in Australia ha dimostrato che le popolazioni delle scuole elementari e superiori consumano quantità significative di bevande contenenti caffeina, compresi gli energy drink. La prevalenza del consumo di bevande energetiche è aumentata negli ultimi 10-15 anni anche in altri paesi, come in Ungheria, Regno Unito e Stati uniti. Secondo un’indagine europea su 16 Stati membri, tra cui Romania e Ungheria, il 30% degli adulti (18-68 anni) e il 68% degli adolescenti (10-18 anni) intervistati erano consumatori di bevande energetiche.

Nel Regno Unito, il tasso di consumo degli energy drink è cresciuto del 155% tra il 2006 e il 2014 e, negli Stati Uniti, le bevande energetiche sono i secondi integratori alimentari più utilizzati dai giovani; da un ampio campione preso in esame è emerso che il 30% degli studenti delle scuole superiori ammette di essere un consumatore abituale, ed esiste una correlazione con il consumo di alcol e l’abuso di droghe.

Cerchiamo quindi di capire quale è il reale effetto del consumo di questi prodotti e se esiste un’associazione tra il consumo di queste bevante e salute mentale.

Le bevande energetiche, disponibili in commercio, sono un gruppo di bevande che solitamente sono gassate, contengono caffeina, taurina, zuccheri, carboidrati, vitamine, amminoacidi ed altri componenti derivati da erbe medicinali.

Gli effetti favorevoli degli energy drink dipendono dalle combinazioni di questi ingredienti che variano in questi prodotti sia in presenza che in concentrazione.

A seguito dell’incremento del consumo di bevande energetiche rilevato negli ultimi 10-15 anni, uno studio effettuato in Ungheria ha valutato la frequenza, le motivazioni e gli effetti negativi del consumo di bevande energetiche ed ha esaminato come lo sviluppo di una dipendenza in tal senso sia collegato alla capacità di fronteggiare lo stress e ai sintomi della depressione.

Questo studio ha cercato quindi una correlazione tra la capacità dei giovani di gestire lo stress attraverso le proprie risorse interne, la depressione e il consumo di bevande energizzanti.

A tale scopo sono stati presi in esame 631 studenti delle scuole superiori e dei college, valutati utilizzando la Depression Scale (BDS-13) e la Sense of Coherence Scale (SOC-13).

Le motivazioni più comuni al consumo di queste bevande sono risultate legate alla fatica, al gusto e al divertimento.

Dall’analisi dei risultati è, inoltre, emerso che negli intervistati la tendenza alla depressione aveva un’influenza significativa sulle probabilità di sviluppare una dipendenza. Capiremo più avanti come questo possa avvenire.

Difatti la depressione, al contrario di quanto si possa immaginare, è un disturbo molto comune nella popolazione universitaria e negli studenti in generale ed ha ha un impatto significativo sulla percezione che si ha di sé, sul rendimento scolastico e sulla capacità di relazionarsi positivamente con i coetanei.

Questo disturbo è correlato ad un basso livello di autostima e ad un alto rischio suicidario e, sebbene la depressione rappresenti un nemico pericolosissimo ed una grave minaccia tra i giovani, spesso questi non sono spinti a cercare cure e non le richiedono, pur provando un grande disagio nella loro vita quotidiana.

I sintomi sperimentati possono riguardare alterazioni del sonno, affaticamento, difficoltà nel concentrarsi e possono variare sensibilmente. Spesso questi sintomi possono essere celati e presentarsi in modalità subdola, conducendo come abbiamo visto anche al suicidio.

Questo è uno dei motivi per i quali è importantissimo saper riconoscere i sintomi depressivi quando sono lievi, in modo da poter mettere a punto un intervento precoce.

Per riuscire a comprendere meglio questo disturbo bisogna avere chiaro che l’autostima gioca un ruolo importantissimo, rappresentando in alcuni casi un grosso fattore di rischio nello sviluppo di un disturbo depressivo.

Ma come si definisce l’autostima? L’autostima può essere definita come un processo soggettivo attraverso il quale l’individio dà valore alla propria persona sulla base della percezione che questi ha di sé e sulla base di  proprie valutazioni. L’autostima influenza a sua volta le interazioni, i sentimenti verso se stessi e gli altri. Capiamo quindi facilmente quanto nella giovane età l’efficacia interpersonale e il successo sociale giochino quindi un ruolo importantissimo nello sviluppo di una buona autostima.

Prendendo in esame alcuni dati della letteratura scientifica al momento disponibili, derivanti sia dai trial clinici che dalle ricerche farmacologiche, cerchiamo quindi di capire se il consumo di caffeina, componente centrale degli energy drink, rappresenti un tentativo di “automedicazione” del paziente con depressione del tono dell’umore finalizzato ad alleviare la sofferenza soggettiva e le alterazioni di funzionamento che il suo disturbo comporta.

I disturbi depressivi cronici sono collocabili lungo un continuum che va dal temperamento depressivo alla depressione maggiore cronica passando per il disturbo distimico. Questi disturbi presentano alti tassi di comorbilità con i disturbi da abuso di sostanze, tuttavia, non sempre è così semplice comprendere se i comportamenti d’abuso costituiscano semplicemente dei tentativi di autoterapia o siano la conseguenza della concomitanza di due distinte patologie, data la difficoltà a separare i sintomi della patologia dell’umore da quelli attribuibili all’abuso di sostanze psicoattive, e di ordine metodologico generale.

Bisogna, infatti, tener presente che l’abuso di sostanze psicoattive spesso comporta, anche nei soggetti senza precedenti disturbi psicopatologici, cambiamenti nella sfera affettiva, cognitiva e comportamentale sovrapponibili a quelli che si riscontrano nei disturbi dell’umore.

Rimane un dato chiaro in tutto ciò: i ragazzi tra i 12 e i 17 anni sono tra i più importanti consumatori di caffeina e ancor più che per altre sostanze d’abuso, evidenze della letteratura scientifica sottolineano come la caffeina, principale ingrediente degli energy drink, sia utilizzata a scopo auto terapeutico nei pazienti con umore depresso.

La caffeina è ampiamente disponibile, abbondantemente presente sul mercato, ed è riconosciuta come stimolante socialmente accettabile. Essa rappresenta un rimedio particolarmente ricercato dai soggetti che cercano un sollievo dalla fatica quotidiana o da sentimenti negativi di inadeguatezza e di difficoltà di rendimento sul piano prestazionale: può interagire positivamente con aspetti clinici quali l’attenzione, l’arousal (determinando minor sonnolenza e maggior attivazione), diminuendo i tempi di reazione, migliorando le performance psicomotorie e le sensazioni di benessere soggettivo e di energia.

Da un punto di vista farmacologico non sono noti i meccanismi neurobiologici responsabili di tali effetti clinici: l’ipotesi principale è legata alla modulazione della trasmissione dopaminergica per azione sui recettori A2A, ma l’effetto dell’antagonismo dell’adenosina potrebbe implicare anche meccanismi non dopaminergici, come la modulazione del rilascio di acetilcolina e serotonina.

Potremmo concludere che, sebbene il consumo di caffeina sia moderatamente associato ad un certo numero di disturbi psichiatrici, le relazioni sembrano non essere causali e le discrepanze nella letteratura sono abbastanza frequenti.

Alcuni studi hanno osservato anche degli effetti positivi: per esempio, è stato dimostrato che basse dosi di caffeina hanno effetti benefici sull’umore.

Ma quanto è importante il dosaggio in tutto ciò e in che modo i consumatori differiscono dai non consumatori?

L’evidenza suggerisce che effetti negativi o positivi siano determinati dal dosaggio consumato. Sembrerebbe che nei limiti di una certa dose (250 mg) si aumenti l’euforia, mentre una dose eccessiva (500 mg) porti ad un aumento dell’irritabilità.

Ad esempio, in uno studio sul consumo quotidiano di caffeina effettuato tra studenti di psicologia è emerso che i tratti di ansia e depressione erano più alti nei consumatori abituali rispetto agli astemi.

Nonostante sia stata presa in considerazione l’idea che l’uso di bevande energetiche possa causare problemi comportamentali e un impatto negativo sulla salute mentale, è preoccupante scoprire che questi prodotti sono spesso commercializzati in modo aggressivo tra i giovani.

Mescolare gli ED con l’alcol è un’abitudine popolare tra gli adolescenti e tra gli studenti universitari, che si abbina spesso ad  ulteriori comportamenti ad alto rischio come il consumo eccessivo di alcol, il fumo e l’abuso di droghe.

C’è anche chi ha sottolineato acome in realtà i componenti presenti in queste bevande siano stati utilizzati per scopi medicinali in alcuni paesi come il Brasile da centinaia di anni.

Anche nell’ambito doppia diagnosi distimia-disturbo da abuso di sostanze, l’aumentato consumo di caffeina ha dimostrato avere effetti prognostici positivi. Se da una parte la concomitanza della distimia determina esposizione a più droghe rispetto alla sola diagnosi di disturbo da abuso di sostanze, un precoce ed elevato utilizzo di caffeina correla con una “più breve carriera” da abuo di cocaina, amfetamine, oppiacei e cannabis.

Dall’altra parte, bisogna considerare anche gli effetti della caffeina su importanti aspetti psicopatologici dei disturbi depressivi, quali i sintomi d’ansia frequentemente in comorbilità con la deflessione del tono dell’umore, e i disturbi del sonno che spesso possono precederla.

Per quanto riguarda i disturbi d’ansia, e disturbi di panico in particolare, le evidenze scientifiche sottolineano un significativo incremento della quota di ansia percepita, nervosismo, paura, nausea, palpitazioni, irrequietezza e tremori.

In merito ai disturbi del sonno come insonnia e ipersonnia, i risvegli notturni, la sonnolenza giornaliera e l’inversione del ritmo circadiano sonno-veglia, sono stati osservati dei peggioramenti, soprattutto nei soggetti più govani, della qualità e quantità del sonno e problemi correlati alla sonnolenza rispetto ai coetanei che non assumono caffè.

Occorre, infine, considerare, come suggeriscono diversi studiosi la possibilità di viraggi ipomaniacali nell’ambito del disturbo distimico e delle altre forme depressive croniche, come la depressione maggiore cronica e le sindromi depressive residue. Questi disturbi mostrerebbero infatti ampie aree di sovrapposizione con lo spettro bipolare in termini di familiarità, temperamento premorboso e decorso. Non è pertanto da escludere che un consumo aumentato di psicostimolanti, come la caffeina appunto, possa scatenare una sintomatologia contropolare.

È infatti dimostrato che la caffeina può giocare un ruolo significativo nella regolazione affettiva. La caffeina può contribuire ad arousal, ansia e irritabilità, esacerbando così stati emotivi misti.

I soggetti che si automedicano con la caffeina per incrementare lo stato di vigilanza, esperiscono, successivamente alla sospensione della sostanza, un ritorno all’originale stato di bassa energia, che a sua volta può essere contrastato da un incremento ulteriore del consumo di caffè. Questo ciclo potrebbe contribuire a incrementare stati affettivi misti e i sintomi depressivi stessi.

In conclusione, tenendo conto della variabilità individuale, è possibile tracciare un quadro bifasico e in certa misura dose-dipendente degli effetti psicostimolanti della caffeina.

È senza dubbio intrigante sul piano clinico l’osservazione di come la caffeina, assunta in dosi moderate per lungo tempo, possa correlare con una potenziale riduzione del rischio depressivo nei soggetti sani, e un miglioramento delle performance psicomotorie, della vigilanza e dei livelli di energia nei pazienti depressi. Occorre, d’altra parte, non trascurare gli effetti avversi osservabili in caso di assunzione di alte dosi di caffeina, con peggioramenti dei profili circadiani, dei sintomi d’ansia e degli stati affettivi depressivi/misti.

 

Scendere in Campo: quando lo sport diventa famiglia!

Lo sport, attività agonistica e non, che sin dai tempi antichi, portava grandi flussi di gente a riunirsi in un piazzale, in un campetto, in un anfiteatro, in uno stadio, creando forti emozioni sia in chi si cimentava nella pratica sia in chi rimaneva semplice spettatore.

 

Un mix di sensazioni, interesse e curiosità che pian piano accrescevano fino a diventare pura passione (a volte anche ostentata).

Molte volte non ci si sofferma sull’importanza che lo sport apporta nel contesto sociale e nello sviluppo psicofisico dell’individuo. Un gruppo di coetanei che si incontrano per praticare un’attività condivisa, a volte senza neanche conoscersi nel profondo, senza grande riguardo nei confronti del prossimo, e poi, con il passare dei giorni, l’affrontare sfide uno di fianco all’altro, tra sostegno, autocontrollo e reciprocità, ecco che nasce il vero e unico Gruppo, ciò che utilizzando i termini tecnici del Rugby potremmo definire come ‘Scrum’.

Scrum = mischia.

Amici che insieme si supportano, condividono ideali, conoscono pregi e difetti dei compagni di squadra, mossi tutti da un obiettivo comune:

‘Giocare al massimo delle proprie capacità, non come singolo ma come famiglia per raggiungere la tanto desiderata vittoria!’.

Si sviluppa un ‘pensiero comune’, una spinta intrinseca volta alla messa in atto di azioni e reazioni.

Durante gli allenamenti nasce la vera e propria psicologia del gruppo, che raggiunge il proprio apice nel contesto della partita contro l’avversario. Non esiste più il pensiero o la mossa del singolo componente, esistono i membri, coloro che tramite cooperazione e intesa giocheranno per il raggiungimento della linea di meta (Try).

La collettività nasce sul campo da gioco, si condividono emozioni, successi e fallimenti; si assiste al ciclo di vita di un gruppo non solo dal punto di vista della socializzazione ma anche dal punto di vista emozionale.

Il Captain’s run (ultimo allenamento prima della partita, si fa solitamente sul campo in cui si svolgerà l’incontro) è uno dei tanti contesti in cui si può notare il diffondersi nel gruppo di nuove aspettative, delle ansie prepartita, degli scontri e dei confronti tra coetanei, sensazioni indescrivibili che possono esser considerate il ‘Promoter’ dello spirito ed iniziativa di squadra.

Prendendo in riferimento il linguaggio rugbista si potrebbe attingere all’uso del termine Gain Line, per poter meglio rappresentare l’intero percorso, ossia una linea immaginaria in cui si ricerca il vantaggio, un continuum passante dall’esternalizzazione all’interiorizzazione.

Andare al di là delle proprie capacità e giungere al compimento dell’obiettivo condiviso dal gruppo, per l’appunto il vantaggio.

Dall’unitario al collettivo!

Cooperazione, intesa, reciprocità, rispetto, motivazione, atteggiamento proattivo, condivisione, insight collettivo, interdipendenza, sostegno, fattori quest’ultimi che emergono nel giro di pochi minuti.

In quegli 80’ di gioco, si perde la propria ‘unicità’, ci si allontana dall’identità individuale e si apre la strada all’identità di gruppo.

Ogni componente diventa il tassello di un simbolico puzzle senza il quale non si potrebbe parlare di squadra.

Ognuno ha il proprio ‘pezzo’ di terreno da difendere, non per se stesso ma per il gruppo, un senso di fiducia che non verrà meno al primo errore commesso.

Si perde insieme e/o si vince insieme.

Gli avversari non assumono la vera etimologia del termine con cui vengono ‘etichettati’, ma sono percepiti come dei semplici ostacoli, delle difficoltà che possono essere affrontate solo rimanendo uniti.

Per citare il giornalista sportivo Marco Pastonessi:

Il rugby è una voce del verbo dare. A ogni allenamento, a ogni partita, a ogni placcaggio, a ogni sostegno, dai un po’ di te stesso. […]

In conclusione, il gruppo può esser definito come un ‘Breakdown’, punto d’incontro nel quale ‘’si ferma la palla e si fa mucchio’’.

 

Il “genitore nascosto” nei bambini adottati

Jolowicz (1946, cit. in Bowlby, 1963) ha coniato il termine “genitore nascosto” in riferimento all’influenza esercitata da un genitore con il quale i figli hanno avuto scarsi – o nessun contatto affettivo.

 

È tipico dei bambini approcciarsi alla figura del genitore con intento identificativo, volto ad interiorizzare parti della sua personalità e a renderle proprie. Si tratta di un bisogno evolutivo finalizzato a raggiungere uno stato di consapevolezza a sicurezza, ma anche di un modo per scoprire il Sé e per creare con l’oggetto primario una relazione affettiva stabile e differenziante.

Il frutto di questa interiorizzazione è identificabile nell’Ideale dell’Io, sottodimensione superegoica che indica il modello al quale il bambino guarda con velleità imitativa e che, nella maggior parte dei casi, rappresenta proprio la figura genitoriale (Freud, 1914). Il meccanismo di identificazione col genitore -nello specifico con quello dello stesso sesso- consente di ottenere una certezza circa la propria identità sessuale prima dell’inizio della fase di latenza, e offre al contempo una conferma esistenziale che consente di dirigersi con intento più sicuro nella costruzione del Sé.

Il vuoto affettivo – relazionale nei bambini adottati

Costruire un sano modello identificativo, per un bambino abbandonato dai genitori biologici è ben più complesso. Nel caso di abbandono precoce è infatti probabile che un contatto reale col genitore non sia stato neppure sperimentato, o almeno non in tempo sufficiente per venir elaborato e consolidato dal punto di vista mnestico. L’approccio al genitore è dunque simile ad una fantasia, un’immaginazione, un pensiero senza riscontro empirico.

In casi di abbandono più tardivo, quando le capacità mnestiche si sono adeguatamente strutturate, il compito non si preannuncia meno complesso. Il ricordo dell’abbandono è più reale, vivo e cosciente, e per questo doloroso. Inoltre la figura del genitore biologico può essere legata a vissuti traumatici, cui il bambino ha dovuto far fronte mediante idealizzazioni difensive, dissociazioni, rimozioni volte a negare vissuti di persecuzione e aggressività. Nondimeno, in presenza di abusi, trascuratezza e violenza in un periodo precedente l’adozione, è ben possibile riscontrare lo sviluppo di stili di attaccamento evitante o disorganizzato la cui presenza può replicarsi anche nel successivo rapporto con le famiglie adottive, compromettendone la funzionalità (Rutter,1998).

Quello che per gli altri bambini costituisce il ricordo di un vissuto concreto col genitore biologico, nel caso degli adottati si mostra dunque nel duplice aspetto di un vuoto affettivo o di una dimensione traumatica e deteriorante, che in entrambi i casi rischia di trasformarsi in nell’elemento ostativo di un percorso evolutivo sereno e funzionale.

Il legame col genitore biologico e l’idealizzazione “mortifera” di un dolore abbandonico

Consapevole del rifiuto subito da parte dell’oggetto primario, e tuttavia intenzionato a non riconoscerne l’esistenza per non sentirsi un oggetto rifutato, il bambino preferisce incolpare se stesso dell’abbandono, facendo ricorso al diniego salvifico di una realtà traumatica. Ecco dunque che il vuoto affettivo lasciato dal genitore biologico viene colmato di fantasie preservanti, contaminate da elementi allucinatori e irreali in cui la rabbia sperimentata per l’abbandono viene scotomizzata a favore di un’idealizzazione adorante e devota, in cui il genitore biologico è il solo elemento a non venir distrutto.

È grazie all’idealizzazione che si origina una condizione di pace provvisoria, un compromesso esistenziale attraverso il quale l’IO riesce ad ottenere risposte salienti, per quanto mortifere e autodistruttive.

Una condizione di pensiero prelogico e una minor sopportazione del dolore emotivo-determinate da uno stadio evolutivo immaturo- rendono più probabile l’adozione di meccanismi di difesa idealizzanti, con cui il bambino cerca di fronteggiare l’incapacità rielaborativa dell’abbandono (Nagera, 1970).

Al contempo è noto come il meccanismo idealizzante, tipico di una dimensionalità egoica fragile e poco strutturata, serva a proteggere da vissuti di impotenza e autosvalutazione (Freud, 1936); ma è utile anche ad evacuare vissuti di aggressività inaccettabili verso l’oggetto abbandonico, le cui mancanze vengono così svalutate, minimizzate o del tutto negate. Il pensiero magico svolge in questo caso una funzione assolutoria dell’oggetto d’amore perduto, salvato a dispetto del Sé.

Il “genitore nascosto” nella mente del bambino

Nella dimensione psichica del bambino adottato si verifica un doloroso conflitto di lealtà: il desiderio di rispondere con reciprocità all’amore del genitore adottivo confligge con la consapevolezza che, ove lo facesse, finirebbe col tradire quello biologico, cui sente di appartenere.

Nel tentativo di fronteggiare questo dilemma il bambino si ripara in un rifugio mentale (Steiner, 1993) la cui valenza è da una parte dissociativa- in quanto serve ad allontanarlo da una verità abbandonica inaccettabile- e dall’altra idealizzante, perché necessaria ad ipervalutare un oggetto affettivo rifiutante.

In seguito a questa riparazione il bambino erotizza una pulsione aggressiva idealizzandone il contenuto, e riesce a mantenere un legame libidico con un oggetto primario indispensabile alla sopravvivenza, per quanto rifiutante o mai realmente conosciuto. Se ne origina una sorta di legame fantasticato, tutto costruito nella sua mente, attraverso il quale l’Io riesce ad avvertire la presenza di una figura in realtà assente, riuscendo al contempo a preservarla da ogni contaminazione aggressiva.

Jolowicz (1946, cit. in Bowlby, 1963) ha coniato il termine “genitore nascosto” in riferimento all’influenza esercitata da un genitore con il quale i figli hanno avuto scarsi – o nessun contatto affettivo, e intorno al quale continuano tuttavia ad organizzare molti dei loro pensieri e dei loro schemi affettivi, finendo per idealizzarlo in una relazione mentale segreta. Questa sorta di “genitore nella mente” assume la forma di un fattore psichico non simbolizzato né cognitivamente rielaborato: una sorta di elemento beta, un oggetto ostruente dal quale il bambino non riesce a distaccarsi pur percependone la presenza persecutrice (Bion, 1967).

Il genitore nascosto come lutto non rielaborato: l’ostacolo alla creazione di nuovi legami affettivi

In alcuni casi la creazione di dinamiche familiari flessibili e rassicuranti, all’interno delle famiglie adottive, risulta complicata; la comunicazione viene sostituita da silenzi ed emozioni agite, fraintendimenti che innescano circoli viziosi in grado di ritardare, talvolta di impedire, la costruzione di un legame di attaccamento sicuro.

La motivazione può essere riscontrata nell’ambivalenza affettiva che l’adottato sperimenta nei confronti dei genitori, percependoli da una parte come oggetti affidabili, dall’altra come fonti di tradimento verso il patto inconsciamente stipulato col genitore nascosto.

È quest’ultimo che, con richieste narcisistiche di affetto e lealtà, impedisce la costruzione di nuovi legami e l’evoluzione affettiva dell’IO, tenendo legato il Sé in un crudele legame captativo (Rosenfeld, 1987). Questo elemento psichico persecutorio, presumibilmente, impedirà al bambino di sperimentare un vissuto relazionale attendibile e di costruire un legame duraturo coi genitori adottivi.

Il bambino adottato ha perduto il proprio oggetto d’amore, ed è stato costretto a spezzare vincoli, affettivi e ambientali di vitale importanza per la sopravvivenza del Sé. Il genitore nella mente si pone come primario elemento ostativo alla rielaborazione di questo lutto abbandonico. Il suo tenere legato il bambino ad una fantasia idealizzata alla quale deve amore incondizionato, lo costringe ad un patto di lealtà verso una mera immaginazione, qualcosa che ha soltanto fantasticato per difendersi dal rifiuto e colmare la solitudine.

Un lutto si definisce rielaborato quando l’Io, dopo aver disinvestito ogni legame libidico con l’oggetto perduto, è finalmente libero di investire la pulsione su nuovi oggetti, e quindi di costruire nuovi legami affettivi (Freud, 1917).

Al contrario nel lutto complicato l’Io è vittima di un legame eterno con l’oggetto perduto, che viene introiettato in un’identificazione esclusiva e totalizzante (Freud, 1914): la sua funzione è simile a quella di un Super-Io tirannico che induce sensi di colpa ogni qualvolta il Sé si avvicina ai propri bisogni di dipendenza e di affetto, ammettendo un naturale bisogno di reciprocità e la volontà di costruire nuovi legami (Rosenfeld, 1987). Se ne origina un’autoaggressività persecutoria che costringe a sabotare internamente ogni possibile conato relazionale, appannaggio di una solitudine rabbiosa espressa a mezzo di condotte autopunitive ispirate da un pervasivo odio verso il Sé (Fairbairn, 1946).

È in risposta a questo sabotaggio che il bambino “divorzia” internamente dai propri oggetti buoni, condannandosi ad un’esistenza reietta e solitaria, il cui unico fine è quello di rifiutare, con pervicace aggressività, qualsiasi forma di vicinanza affettiva (Grotstein, 2009).

Così, ogni volta che i genitori adottivi si avvicinano a lui con promesse di amore, l’intento sabotante del Super-Io sadico si pone come unica risposta possibile ad un desiderio d’amore censurato alla stregua di una “colpa”.

La “dissoluzione” del genitore nascosto

La lealtà imposta dal genitore idealizzato non è frutto di un legame affettivo assertivo e reciprocante, ma è il prodotto di una fantasia illusoria, un asservimento unilaterale che impedisce l’evoluzione egoica e il distacco da una fase della vita in cui l’oggetto genitoriale viene vissuto come una parte imprescindibile del Sé. La sua illusoria presenza, ponendosi come frutto di un’idealizzazione difensiva, impedisce anche la creazione di un’ambivalenza in cui la realtà assume caratteristiche di sintesi, e il buono può coesistere col malvagio senza pericolo per la sopravvivenza dell’oggetto.

Solo col dissolvimento dell’idealizzazione il genitore biologico potrà assumere una natura non persecutoria, dando il via alla formazione di un’ambivalenza attraverso la quale sarà possibile riconoscerne le condotte abbandoniche senza sperimentare sensi di colpa.

Dal canto loro i genitori adottivi dovranno sostenere il figlio in questo complesso percorso di ricostruzione affettiva. L’apporto che saranno in grado di fornirgli in termini di empatia, accettazione e vicinanza, si rivelerà un fattore discriminante ai fini del consolidamento di dinamiche relazionali solide e durature, in vista di un funzionale sviluppo socio-emotivo (Juffer e Van Ijzendoorn, 2005).

Il loro affetto, anziché narcisistico e imperante come quello del genitore nascosto, dovrà tuttavia mostrarsi flessibile e paziente, accettando di venir ferito, colpito, talvolta persino distrutto dal Super-Io sadico del bambino: nella consapevolezza che, solo un genitore in grado di rispondere con resilienza a tali attacchi distruttivi verrà percepito come un oggetto capace di amare e di accudire, e al contempo offrirà al figlio la possibilità di vivere fino in fondo le proprie emozioni, acquisendo sulle stesse un’adeguata capacità regolativa  (Winnicott, 1970).

Lealtà affettiva verso il bambino adottato

Per essere definitivamente dissolto nella sua rappresentazione fantasmatica, è necessario che il genitore biologico venga svelato al bambino nella sua oggettività. Anche la psicologia evolutiva sostiene l’opportunità di riferire quante più informazioni possibili sul periodo precedente l’adozione, sull’identità dei genitori biologici, sui traumi subiti, sul lutto abbandonico (Leon, 2002). Naturalmente la rivelazione dovrà essere graduale, congruente allo stato evolutivo del bambino e alle competenze cognitive ed emotive raggiunte, ma è certo che una spiegazione razionale su dimensioni esistenziali così delicate faciliterà il processo interpretativo delle stesse, contribuendo a dissolvere il vissuto autocolpevolizzante e a sviluppare spiegazioni metacognitive e riflessive ben più aderenti alla realtà.

In presenza di dati oggettivi, e dunque di risposte autentiche alle sue domande, il bambino non avvertirà inoltre la necessità di creare informazioni fantasticate, spesso distorte e fuorvianti, con le quali colmare vuoti informativi e contraddizioni circa la sua provenienza. Al contempo si sentirà legittimato a vivere il proprio lutto abbandonico, nella certezza di ricevere un solido supporto emotivo in quest’impresa.

Il bambino che non ottiene risposte, o che non è capace di rielaborare con intento mentalizzante il proprio passato, è anche un bambino privo di strumenti per pianificare il futuro. Per questo sarà importante lavorare con i genitori adottivi ancor più che con il figlio, al fine di fornir loro un supporto emotivo e psicoeducativo che sia in grado di accompagnarli nella costruzione di un modello affettivo stabile e resiliente, in grado di eliminare dai loro bambini un dolore sabotante, il terrore della speranza (Lingiardi e Gazzillo, 2010). E dunque la paura di essere amati.

 

Psicoeducazione di gruppo per il paziente grave. Manuale di intervento sul funzionamento sociale di Popolo e Poliseno – Recensione del libro

Gli autori di Psicoeducazione di gruppo per il paziente grave presentano in questo volume un intervento che prevede 24 sessioni di un’ora e mezzo a cadenza settimanale, per una durata complessiva di 6 mesi, in cui vengono affrontati ed approfonditi 4 moduli.

 

Psicoeducazione di gruppo per il paziente grave. Manuale di intervento sul funzionamento sociale di Popolo e Poliseno è una proposta di terapia gruppale per una popolazione di pazienti molto complessa e allo stesso tempo molto numerosa, di conseguenza difficile da gestire sia da un punto di vista clinico che organizzativo/progettuale, con particolare riferimento al servizio pubblico che, nelle sue diverse sfaccettature, si occupa di salute mentale.

Il volume si apre con la definizione dell’OMS di “salute mentale”, che sottolinea quanto questa sia connotata non solo dall’assenza di malattia, ma dalla presenza di “uno stato di benessere emotivo e psicologico”. La sensazione, leggendo il manuale, è che Popolo e Poliseno abbiano cercato di riempire di contenuti questa distinzione che troppe volte viene percepita come formale e al limite un po’ ipocrita, tra “togliere” qualcosa che non va (la malattia) e “aggiungere” e “ottimizzare” competenze che possono modificare la qualità della vita delle persone. Sia perché a volte non si può ipotizzare in modo idilliaco una guarigione, sia, soprattutto, perché la “guarigione” o il miglioramento sintomatologico sono strettamente legati ad altre componenti della cura che hanno a che fare proprio con le capacità relazionali e di mastery.

Per “pazienti gravi” gli autori guardano a quei pazienti che “pongono difficoltà nella relazione e nell’adesione al trattamento”. Al di là della diagnosi, la gravità viene considerata come “grado di funzionamento interpersonale mostrato dal paziente stesso” e valutata sulla base di diversi assi: quanto e come riesce ad accedere al proprio mondo interno e a quello altrui, a costruire rappresentazioni e ragionarci, a stabilire relazioni costruttive con gli altri tenendosi fuori da cicli interpersonali disfunzionali. I criteri di esclusione dal protocollo di gruppo comprendono il ritardo mentale medio-grave e la dipendenza attiva da sostanze o alcool.

Sembra allora che stiamo parlando di quei pazienti che da una parte faticano ad uscire definitivamente dai percorsi di cura convenzionali, arrivando ad essere considerati in qualche misura cronici, dall’altro, spesso anche alla luce delle proprie difficoltà relazionali, rischiano di “bruciare” gli operatori più in fretta di altri pazienti, arrivando così ad essere contemporaneamente tra i pazienti più bisognosi di aiuto e tra quelli più difficili da aiutare. Ma veniamo al protocollo.

Gli autori hanno previsto 24 sessioni di un’ora e mezzo a cadenza settimanale, per una durata complessiva di 6 mesi, in cui vengono affrontati ed approfonditi 4 moduli. Gli obiettivi della psicoeducazione sono 3: affrontare e discutere il significato personale che il paziente attribuisce alle proprie difficoltà (le credenze soggettive che per lui sono alla base del disturbo); sviluppare un maggior senso di padronanza che consenta, a partire dalle informazioni acquisite, di ottenere un maggiore controllo del proprio disturbo e del proprio funzionamento; proteggere l’autostima del paziente, spesso minacciata dal suo funzionamento e da quello che questo comporta da un punto di vista relazionale e sociale.

Il contesto di gruppo è un setting privilegiato perché consente da una parte il confronto con persone che manifestano difficoltà almeno in parte simili alle proprie, dall’altra una palestra in cui mettere alla prova sia le proprie credenze sia le nuove abilità che si vanno man mano costruendo in un clima di condivisone non giudicante. L’elemento centrale dell’attività sarà infatti non tanto l’informazione appresa, ma il lavoro che questa informazione attiverà all’interno del gruppo.

La conduzione è pensata per due figure: il conduttore e il supervisore. Mentre il primo ha il ruolo più attivo di proporre contenuti, riformularli al termine della sessione e stimolare la partecipazione dei pazienti, il secondo vigila sul funzionamento e sul clima del gruppo, pronto a cogliere e modulare aspetti relazionali che il conduttore potrebbe non cogliere, proprio in quanto parte attiva del contesto di lavoro.

Per quanto riguarda l’organizzazione di ogni seduta, questa è composta da diverse fasi: dopo un primo momento di saluto e di condivisione, il conduttore presenta i contenuti teorici del giorno; questa parte più “pedagogica” viene poi seguita da una discussione libera, in cui viene stimolato il coinvolgimento attivo dei partecipanti chiedendo loro di riportare la propria esperienza personale o riflessioni proprie sul tema proposto. Infine, al termine dell’incontro il conduttore riassume l’argomento trattato rivedendolo alla luce di quanto emerso, integrando alla parte pedagogica i contenuti condivisi dai partecipanti.

I contenuti che gli autori del manuale hanno pensato si possono riassumere in quattro aree tematiche di intervento.

La prima area rappresenta un’introduzione al disagio mentale ed al trattamento e interessa gli aspetti psicopatologici e clinici che influenzano la qualità della vita dei pazienti, con particolare focus sulla sintomatologia depressiva e sui sintomi negativi. Approfondisce aspetti del trattamento farmacologico ed analizza le diverse categorie di farmaci utilizzando un linguaggio non tecnico ma comprensibile e assimilabile dal paziente. Per ciascuna tipologia di farmaco viene descritta la sua natura, le indicazioni, il funzionamento, le avvertenze di uso, gli effetti collaterali e le controindicazioni. All’interno del manuale sono stati inseriti specifici box con proposte di attività di gruppo, utili per una modalità di discussione del tema interattiva e soprattutto calata nel contesto e nella vita dei singoli pazienti.

La seconda area rappresenta un’introduzione al funzionamento mentale e riguarda le funzioni cognitive e metacognitive e il loro ruolo nella quotidianità. È a sua volta composta da cinque sezioni: due per le funzioni cognitive (attenzione e memoria) e tre per le funzioni metacognitive (cognizione sociale, autoriflessività e decentramento). Anche in questo caso, il manuale riporta le sottocategorie specifiche per ogni sezione ed esempi di stralci di sedute che permettono di comprendere in modo concreto come condurre la discussione intorno a questi temi così fondamentali e cruciali per i pazienti con compromissione sintomatologica grave.

La terza area interessa la gestione delle situazioni problematiche. Importante in questo caso sottolineare come le difficoltà non vengano inquadrate in relazione ai disturbi o alle etichette diagnostiche, ma alla luce del paradigma stress-vulnerabilità coping. A sua volta, l’area comprende quattro sezioni: nella prima viene illustrato il concetto di stress, nella seconda il coping, nella terza il problem solving e nella quarta il ciclo interpersonale.

Infine, la quarta ed ultima area riguarda l’elaborazione delle emozioni ed è costituita da quattro sezioni che approfondiscono, rispettivamente, il ruolo svolto dall’emotività, le singole emozioni semplici e complesse, le relazioni che le emozioni hanno con pensieri, immagini mentali e sensazioni e le strategie più funzionali per regolarle. Soprattutto per quanto riguarda questa ultima e importante sezione, il manuale propone diversi box con possibili attività di gruppo mirate ad approfondire la regolazione emotiva e la psicoeducazione in merito.

Infine, il volume si chiude con un’Appendice con materiale psicoeducativo che è possibile utilizzare anche con i pazienti e che introduce in termini molto semplici e comprensibili gli argomenti previsti dal protocollo (funzioni cognitive, metacognitive, il coping, il problem solving, etc.).

A latere, gli autori sottolineano come la presentazione dei diversi argomenti non debba per forza seguire rigidamente l’ordine proposto, ma adattarsi al clima del gruppo ed alle singole situazioni che interessano i partecipanti.

Concludendo, la proposta di Popolo e Poliseno rappresenta una bella sfida, che si propone di utilizzare il setting di gruppo per lavorare con i pazienti proprio sul funzionamento sociale e sulle dimensioni ad esso propedeutiche, come la metacognizione e la regolazione delle emozioni. Un bel presupposto e un bel messaggio per una popolazione di pazienti spesso lasciata indietro dai progetti di cura e dai protocolli sperimentali, che fa venire voglia di dire, come nell’omonimo film, “si può fare”.

 

Tolleranza maschile all’infedeltà omosessuale: quali le differenze tra le varie culture?

L’infedeltà è un fenomeno molto diffuso in tutto il mondo, ed affiora in ogni cultura con peculiarità differenti (Tafoya & Spitzberg, 2007).

 

Le persone di solito reagiscono duramente all’infedeltà effettiva o sospetta dei loro partner, spesso con la cessazione della relazione e, talvolta, con la violenza fisica contro il colpevole (Buss, 2000). Tuttavia, alcune prove suggeriscono che gli uomini eterosessuali mostrano tolleranza all’infedeltà omosessuale delle loro partner femminili, vale a dire che se le loro partner li tradissero con altre donne, questi reagirebbero molto meno negativamente che se li tradissero con altri uomini (Apostolou, 2018; Compton & Bowman, 2017). La ricerca di Wang e Apostoloumira, pertanto, mira ad esplorare tale fenomeno in diversi contesti culturali in un campione composto da 949 soggetti cinesi, 509 greci e 305 britannici.

I potenziali costi dell’infedeltà si traducono in forti pressioni sul partner per sviluppare adattamenti che consentano loro di ridurre questi costi. Tali adattamenti includono emozioni come gelosia, rabbia o tristezza, che si attivano quando sono presenti indizi di infedeltà, consentendo di intraprendere azioni correttive (Buss, 2000). Ad esempio, le persone possono interrompere una relazione con un coniuge infedele per evitare di provare tristezza.

Eppure, l’infedeltà del proprio partner con un individuo dello stesso sesso è notevolmente meno dannosa per gli uomini rispetto all’infedeltà che coinvolge un partner del sesso opposto. Osservando questo fenomeno da un punto di vista evoluzionistico, è possibile ipotizzare che ciò potrebbe verificarsi perché in passato non esisteva un test affidabile di paternità, il che significava che gli uomini affrontavano il rischio di essere traditi, deviando il loro investimento genitoriale sui figli di altri uomini che credevano appartenere a loro; pertanto, se le donne scegliessero di tradirli con persone del loro stesso sesso, essi non correrebbero questo rischio.

L’infedeltà omosessuale potrebbe inoltre essere potenzialmente più vantaggiosa per gli uomini che per le donne. Una donna impegnata in relazioni extra-coppia può essere disposta a includere altre donne nel sesso della coppia, consentendogli, in effetti, l’accesso diretto ad altre donne. In questa situazione, quindi, un uomo non solo può ridurre il rischio di essere tradito, ma aumentare il suo successo riproduttivo ottenendo un contatto con altre donne (Apostolou et al., 2017).

Coerentemente con quanto ipotizzato, i risultati dello studio mostrano che in diversi contesti culturali gli uomini hanno mostrato una tolleranza maggiore rispetto alle donne nei confronti dell’infedeltà omosessuale dei loro partner. Inoltre, data la possibilità che si sarebbe potuta creare, gli uomini erano molto più propensi delle donne a preferire che le loro partner li tradissero con un individuo dello stesso sesso piuttosto che con uno del sesso opposto. I partecipanti erano anche più tolleranti nei confronti dell’infedeltà dei loro partner a breve termine rispetto ai loro partner a lungo termine.

Gli sperimentatori hanno inoltre scoperto che le persone con attrazione per lo stesso sesso erano più tolleranti all’infedeltà sia con persone dello stesso sesso, sia del sesso opposto rispetto alle persone eterosessuali. Una possibile spiegazione a tale scoperta coincide con il fatto che le attrazioni per lo stesso sesso siano associate a una sociosessualità più illimitata, vale a dire una disponibilità a impegnarsi in attività sessuali al di fuori di una relazione impegnata (Penke e Asendorpf, 2008), e che una sociosessualità più illimitata sia associata a una maggiore tolleranza verso l’infedeltà. In questo scenario, le persone che provano attrazione per lo stesso sesso hanno spesso una sociosessualità più libera, che li rende più tollerabili all’infedeltà.

I partecipanti cinesi e greci hanno mostrato una maggiore tolleranza all’infedeltà rispetto a quelli inglesi. Una possibile ragione è che i primi due attribuiscono un valore considerevole alla famiglia e quindi sono più propensi a tollerare l’infedeltà per mantenere una relazione intima. Un’altra differenza culturale è rappresentata dalla politica del figlio unico della cultura cinese, che è connessa alla preferenza per i figli maschi. Ciò ha portato a un rapporto tra i sessi squilibrato, in cui esistono più uomini che donne (Deng, 2000). Quindi, in Cina, gli uomini potrebbero essere maggiormente disposti a tollerare l’infedeltà, specialmente quella omosessuale, rispetto agli uomini di altri paesi in cui il rapporto tra i sessi è più equilibrato.

In conclusione, nella ricerca di cui sopra, Wang e Apostolou hanno esplorato la tolleranza all’infedeltà omosessuale in diversi contesti culturali. Queste scoperte forniscono importanti implicazioni per comprendere la sessualità umana, nonché le origini evolutive di tali dinamiche relazionali.

 

Carenza di tiamina e sviluppo del linguaggio

In Israele nel 2003 (tra maggio e settembre), diversi neonati furono allattati con un latte in formula che ha portato a venti ricoveri in rianimazione, con sintomi riconducibili alla patologia di Wernicke (sofferenza bilaterale ai gangli della base). Fu allora eseguito uno studio sperimentale che si proponeva di analizzare la correlazione tra carenza di tiamina e sviluppo del linguaggio.

 

In Israele nel 2003 (tra maggio e settembre), diversi neonati furono allattati con un latte in formula che ha portato a venti ricoveri in rianimazione, con sintomi riconducibili alla patologia di Wernicke (sofferenza bilaterale ai gangli della base). Fu allora eseguito uno studio sperimentale che divideva in due gruppi i bambini che erano stati allattati con il latte in questione (poi ritirato dal mercato) e bambini allattati al seno. I criteri per rientrare nel gruppo sperimentale erano: essere asintomatici (non rientrare tra i venti ricoverati), peso nella norma alla nascita e parto non prematuro, assunzione del latte che ha causato i ricoveri tra maggio e settembre 2003.

Questi bambini avevano all’incirca cinque anni di età. Va premesso che dopo aver analizzato il latte in questione, si è riscontrata la carenza della vitamina B1, più nota come tiamina, la quale è importantissima nel metabolismo cerebrale, nella formazione delle sinapsi e nella trasmissione sinaptica. Inoltre i bambini usciti dalla rianimazione a 2 o 3 anni mostravano un deficit specifico del linguaggio. Lo studio si proponeva appunto di appurare se la correlazione tiamina-sviluppo del linguaggio fosse concreta.

Nella prima fase venne testata la produzione di frasi relative (soggetto relative o oggetto relative) per testare la sintassi; nella seconda fase si testò la capacità di produzione delle frasi relative e nella terza la comprensione (sempre per valutare la sintassi). Risultò che nel primo compito i soggetti con carenza di tiamina avevano difficoltà solo con le frasi oggetto relative, in comprensione e ripetizione con tutte e due le tipologie di frase. Si è poi passati a testare la lessicalità con la denominazione di figure e sono stati riscontrati deficit anche in quest’area. L’unica abilità non intaccata è la semantica, dove nei test di associazione di figure e riporto di anomalie semantiche, i soggetti del gruppo sperimentale riportavano gli stessi punteggi di quelli del gruppo di controllo. L’IQ non verbale (misurato con le matrici di Raven) risultava altresì nella norma.

In sintesi il 97 per cento dei bambini con carenza di tiamina mostrava deficit sintattici e lessicali (88% lessicali e 80% sintattici), il 70 per cento circa entrambi i deficit e il 90 per cento nessun deficit semantico. Con un follow-up a 3 anni dallo studio condotto nel 2008, i bambini del gruppo sperimentale miglioravano leggermente nel lessico ma il 97 per cento presentava dislessia o altri disturbi linguistici. In sintesi, da questo studio si può trarre la conclusione che la tiamina (presente in cereali, legumi, verdura e frutta secca; non autoprodotta dall’organismo) sarebbe cruciale per uno sviluppo sano dell’abilità di linguaggio.

 

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