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Un concetto base della psicologia sociale: l’anticipazione degli eventi – I Parte

Questo e il prossimo articolo cercheranno di introdurre il lettore poco esperto ai principi teorici della psicologia della predizione.

Ndr – Il presente articolo è il primo di una serie di due articoli sul tema dell’anticipazione degli eventi. Il secondo contributo sarà pubblicato nei prossimi giorni su State of Mind

 

Sono fuori dall’ufficio del professore in attesa di essere ricevuto. Mi è stato dato appuntamento per discutere del progetto per la tesi di laurea. Non sono nervoso, ma non saprei con precisione cosa aspettarmi. I pensieri girano cercando di predire in anticipo quali domande e quali osservazioni saranno fatte al mio lavoro, e sulla base di queste supposizioni inizio a preparare le mie risposte. Penso anche nel frattempo a cosa potrei fare per migliorare il progetto e dove troverò il tempo per farlo, dato che siamo a ridosso dell’estate e, francamente, desidererei stare in spiaggia anziché davanti a un computer in camera.

Ogni giorno le persone spendono gran parte del proprio tempo per pensare, parlare e fare calcoli su cosa le aspetta nel futuro: cosa faranno gli altri, cosa faranno loro stessi, cosa accadrà nel mondo. Anche molte professioni sembrano fondarsi sulla capacità del professionista di leggere le informazioni presenti nell’ambiente, per poi estrapolarne previsioni sul futuro e sostenerne la ragionevolezza di fronte al proprio pubblico: il medico cerca di prevedere il decorso di una malattia, l’operatore di borsa l’evoluzione dei prezzi sui mercati, lo psicologo forense e lo psichiatra la probabilità che l’imputato possa riattuare una condotta deviante. Gli esempi possono essere molti.

La psicologia della predizione cerca di studiare i processi che descrivono adeguatamente la capacità delle persone di crearsi un’idea di ciò che faranno loro stessi, gli altri, e ciò che accadrà nel mondo. Nel complesso questa disciplina dimostra come gli individui raramente possiedono tutta l’informazione necessaria per fare predizioni accurate e, comunque, anche se la possedessero, il risultato sarebbe fortemente influenzato da bias e distorsioni cognitive derivanti da abitudini di pensiero scorrette e dalla mancanza di consapevolezza degli elementi della psicologia individuale che influenzano tali risultati.

Sulla base di queste osservazioni Dunning (2007) fornisce un resoconto teorico che sintetizza i limiti della cognizione umana appena considerati, come anche per fornire indicazioni su come ‘riparare’ (rendere più accurate e valide e, quindi, aderenti alla realtà) le proprie previsioni.

Questo e il prossimo articolo cercheranno di introdurre il lettore poco esperto ai principi teorici della psicologia della previsione, considerando i quali potremmo non solo comprendere i meccanismi tramite cui costruiamo le nostre previsioni sul futuro, ma anche migliorarne l’aderenza alla realtà.

Gli errori nella previsione degli eventi

Sono fondamentalmente due gli errori che le persone fanno quando considerano i risultati attesi in una situazione. Vediamoli uno a uno.

Innanzitutto, tendiamo in diversi modi a crearci previsioni eccessivamente ottimistiche. In primo luogo, tendiamo a sovrastimare la probabilità di esiti positivi e a sottostimare la probabilità di eventi negativi, dando origine a previsioni eccessivamente ottimistiche, soprattutto per le nostre azioni future. Quanto spesso abbiamo iniziato, ad esempio, ad andare in palestra a fare esercizio fisico animati dalle migliori intenzioni, per poi ritrovarci dopo qualche tempo non più così motivati di ritrovare la nostra forma fisica di quando avevamo vent’anni, perché troppo faticoso? Oltre a ciò, sembra che non siamo in grado di stimare adeguatamente neanche il tempo di completamento di un piano d’azione, di una scadenza, di un progetto (planning fallacy; Buehler, Griffin & Ross, 1994). Alzi la mano chi è riuscito a preparare la propria tesi entro i tempi previsti al momento della consegna del progetto in segreteria.

Il secondo errore riguarda poi il dare eccessiva fiducia alle nostre previsioni, siano esse positive o negative. Vediamo, infatti, quella che è una mera sensazione soggettiva di certezza come la garanzia che il mondo e gli altri si conformeranno alla nostra intelligenza acuta, penetrante, infallibile. Leggiamo nel futuro. Nostradamus o megalomani? Pensate a tutte le volte che le cose non vi sono andate come avevate immaginato e giudicate voi. Ma non vi preoccupate, lo facciamo tutti. Persino i professionisti in ambito medico (Oksam, Kingma & Klasen, 2000), psicologico (Oskamp, 1965) e i professionisti coinvolti nella politica internazionale (Tetlock, 2002). Se iniziate ad avere qualche timore vi capisco perfettamente.

In sintesi, sembra quindi che tendiamo a fare previsioni eccessivamente ottimistiche e a darvi eccessiva fiducia.

I principi alla base di una previsione ottimistica

Ma perchè accade questo? La risposta ce la danno alcuni principi che guidano i processi cognitivi responsabili della creazione di queste previsioni (Dunning, 2007).

Il primo principio riguarda la natura delle previsioni stesse. Esse sono scenari che ci costruiamo in base alle informazioni che possediamo sugli eventi, sull’ambiente, sugli altri; scenari che tentano di costruire successioni di eventi plausibili in relazione causale tra loro, per noi dotate di senso.

Più lo scenario che ci costruiamo ci sembra semplice, facile da costruire, plausibile e contenente un gran numero di oggetti, persone o eventi, più esso ci sembrerà probabile che accada (ad esempio Atance & O’Neil, 2001). Se vi sembra troppo meccanicista come risposta, provate a pensare a voce alta quando state cercando di prevedere qualcosa e valutatene questi aspetti (Dougherty, Gettys & Ogden, 1999). Potreste farlo, ad esempio, con la vostra dolce metà, cercando di prevedere se il bello e la bella protagonisti del film che state guardando si troveranno prima o poi in una qualche situazione romantica e tesa e finiranno per mettersi insieme (quasi certamente).

Il secondo principio riguarda la completezza degli scenari, e ci informa che gli scenari che ci costruiamo sono spesso parecchio tendenziosi. Nello specifico, attueremmo uno o più di questi cinque errori (Dunning, 2007):

  • Focalizzarci sugli aspetti astratti senza considerare adeguatamente quelli concreti. Più è astratto uno scenario, più semplice e rapida ne sarà la costruzione, e più valido ci sembrerà il risultato, poiché basato su conoscenza schematica e stereotipata, soprattutto se l’evento è distante nel futuro (Vallacher & Wegner, 2007);
  • Concentrarci eccessivamente sui risultati cui siamo principalmente interessati, trascurando risultati per noi secondari (Redelmeier, Koehler, Liberman & Tversky, 1995); e a non aggiornare le nostre previsioni anche se l’ambiente ci manda informazioni utili a riguardo (Koriat, Lichtenstein & Fischoff, 1980). Spendiamo molto tempo a pensare cosa faremmo se ottenessimo qualcosa (ad esempio ‘verrò quasi certamente promosso, vado in concessionaria a comprare un’auto nuova’), senza pensare a cosa faremmo se non la ottenessimo (‘cosa accadrebbe nel caso non venissi promosso e non guadagnassi di più?’);
  • Concentrarci su elementi ottimistici a scapito di quelli potenzialmente pessimistici, che tendiamo a minimizzare, se non a ignorare, soprattutto per previsioni molto in là nel tempo (Eyal, Liberman, Trope & Walther, 2004). Una volta che l’evento previsto si avvicina sembra invece accadere l’opposto. In questo caso tendiamo invece a far slittare le nostre predizioni ottimiste su una china pessimista, progressivamente diminuendo la nostra stima sulla probabilità che l’evento accada (Gilovich, Kerr & Medvec, 1993). In altre parole, se a inizio semestre penso di prendere trenta al prossimo esame, all’avvicinarsi di questo potrei pensare o che, dopotutto, non è detto che prenda un voto alto (in termini di probabilità), oppure pensare che questo voto non sarà alla mia portata;
  • Un quarto errore, il focalismo (Wilson, Wheatley, Meyers & Gilbert, 2000), si presenta nel momento in cui falliamo nel considerare come il risultato desiderato avrà un impatto sul nostro quotidiano, come anche nel concentrarsi sugli aspetti condivisi da eventi diversi senza considerarne gli aspetti distintivi.
  • Le persone, infine, tendono a essere troppo concentrate sulla forza delle evidenze che usano per creare le proprie previsioni, piuttosto che sul peso delle evidenze stesse (ad esempio, Griffin & Tversky, 1992). In altre parole, tendiamo a mettere insieme ragioni per dare supporto delle nostre previsioni (c’è fumo, quindi c’è fuoco) senza valutare l’affidabilità delle evidenze considerate (c’è del fumo, ma mi trovo in un appartamento in centro, forse è solo l’arrosto che brucia nel forno).

In sintesi, in questo articolo abbiamo visto alcuni dei principali errori che le persone tendono a fare quando si formano una previsione su un futuro scenario, sul proprio comportamento o sul comportamento degli altri. Ciò accade perché le nostre previsioni non sono altro che simulazioni mentali di scenari che reputiamo probabili, sulla base delle informazioni a nostra disposizione.

Nel prossimo articolo vedremo in che modo la costruzione di simulazioni mentali di scenari futuri sia di per sé un procedimento soggetto a incertezza. Vedremo poi gli errori che le persone di solito fanno nel tentativo di stimare l’impatto emotivo che un evento futuro avrà su di sé e, infine, alcuni procedimenti che potremmo utilizzare per tentare di correggere questi limiti intrinseci alla cognizione umana.

 


UN CONCETTO BASE DELLA PSICOLOGIA SOCIALE: L’ANTICIPAZIONE DEGLI EVENTI – LEGGI TUTTI GLI ARTICOLI DELLA SERIE:

Come funziona il nostro cervello?

La neuroeconomia propone l’idea della contabilità mentale, in base alla quale le persone suddividono i budget mentali in specifiche categorie di spesa e acquistano considerando questi diversi budget.

 

Come funziona il nostro cervello? Cognitive style, brain imaging e mental accounting sono solo alcuni dei metodi utilizzati dalla neuroscienza per dare una risposta a questa curiosa domanda.

Il nostro cervello è un organo complesso, spesso al centro di ricerche e studi volti a cogliere e analizzare le sue funzioni. Esistono diverse tecniche che hanno permesso di approfondire l’argomento in questione, tra le più importanti c’è sicuramente il neuroimaging. Esso è composto da specifici strumenti come la fMRI (Functional Magnetic Resonance Imaging), in cui l’approccio neuroscientifico indaga l’anatomia del cervello e rileva quali aree vengono attivate durante l’esecuzione di un compito specifico. La fMRI è oggi l’unica tecnologia che permette di osservare, nel modo più preciso, il funzionamento delle aree cerebrali in risposta a determinati stimoli, ancor prima che avvenga l’elaborazione cosciente (Schaefer, 2009).

La neuroeconomia e la teoria della contabilità mentale

Esperti, ricercatori e Nobel provenienti da diverse formazioni educative come psicologi, economisti, neuroscienziati e sociologi, hanno formulato teorie relative al cervello. La neuroeconomia, per esempio, propone l’idea della contabilità mentale, in base alla quale le persone suddividono i budget mentali in specifiche categorie di spesa (ad esempio “cibi”, “hobby”, “casa”, “vestiti”, ecc.) e poi acquistano considerando questi diversi budget (Banerjee et al., 2019). Quindi, il denaro non è considerato un bene fungibile e vengono considerati due nuovi traguardi: la definizione di budget diversi per specifiche categorie di spesa e il monitoraggio delle spese correnti rispetto a budget prestabiliti (Huang et al., 2020).

Questa teoria della contabilità mentale mette in luce il possibile verificarsi di comportamenti economici irrazionali. Inoltre, una volta stabilito un budget per una specifica categoria, il consumatore tenderà a effettuare acquisti relativi ai prodotti con essa più congruenti, definendoli tipici. Da queste considerazioni, gli studi hanno mostrato come le “carte regalo” possono influenzare la mente dei consumatori e modificare le loro preferenze. Chi tende a fare acquisti con una gift card di una marca specifica sarà più propenso ad acquistare prodotti tipici di quella marca (Reinholtz et al., 2015). Nel suo studio del 2015, Reinholtz dimostra come una persona, ricevendo una carta regalo da uno specifico rivenditore, abbia maggiori possibilità di spenderla per uno di quei prodotti di quel marchio, creando un conseguente account mentale che influenza il modo in cui le persone rappresentano mentalmente i potenziali acquisti dal rivenditore emittente. In questo modo, gli acquisti tipici, basati su uno specifico account mentale, diventano maggiormente preferiti verso un determinato brand. Un altro aspetto importante è la capacità del rivenditore di stimare quando le persone acquisteranno con la carta regalo specifica del rivenditore, in modo che il rivenditore sarà in grado di personalizzare l’offerta per quel particolare consumatore.

La neuroeconomia e lo stile cognitivo del consumatore

È importante considerare altri due aspetti fondamentali: il budget assegnato a una specifica categoria di spesa dal consumatore e il suo stile cognitivo. Il primo consiste in acquisti personali, guidati da un budget del consumatore stabilito per quella particolare categoria di spesa, che può implementare il rischio di un sotto o sovra consumo (Huang et al., 2020). Il secondo punto chiave riguarda lo stile cognitivo del consumatore che è un processo cognitivo in grado di influenzare la contabilità mentale e il suo consumatore. Secondo lo studio di Banerjee (2019), lo stile cognitivo può essere suddiviso in analitico e olistico, entrambi soggetti allo specifico background culturale del singolo consumatore. Lo stile olistico, infatti, è prevalente nelle culture orientali e si concentra sull’interrelazione tra oggetti diversi. Quella analitica, invece, è tipica delle culture occidentali ed è caratterizzata dalla focalizzazione sullo specifico oggetto centrale in un contesto determinante, che implica decisioni basate su regole. È molto interessante notare come i due diversi stili cognitivi comportino due diversi processi contabili: uno molto frammentato (per lo stile analitico) e uno completo (per lo stile olistico).

In sintesi, come è stato mostrato in questo articolo, le persone sono caratterizzate da un forte comportamento irrazionale quando prendono decisioni economiche. Pertanto, è fondamentale che i rivenditori studino il loro cervello con un approccio di neuroimaging. Ad esempio, la neuroeconomia può mostrare come il cervello umano reagisce ai marchi e l’impatto che esercitano sul suo comportamento (Schaefer, 2009).

Ci sono tante teorie economiche classiche che sostengono come un essere umano sia un soggetto razionale, e tante altre teorie economiche che sono più focalizzate sul comportamento del consumatore, evidenziando come spesso le decisioni si basino su comportamenti irrazionali e istintivi. La neuroeconomia sembra essere un valido strumento per comprendere il cervello di un consumatore ed essere in grado di soddisfare le esigenze individuali, personalizzando le offerte e segmentando i clienti in cluster specifici. Pertanto, dai profili psicologici e sociali, le aziende hanno la capacità di analizzare il soggetto economico attraverso degli strumenti che sono in costante sviluppo. Questi consentono alle aziende di capire davvero il cliente, offrendo la migliore soluzione personalizzata e su misura per le sue esigenze.

 

Chimica Sociale (2021) di Marissa King – Recensione

Chimica Sociale si compone di dieci capitoli, ciascuno approfondisce aspetti diversi della socialità e adotta diversi punti di vista per una maggiore comprensione dei contenuti riportati.

 

Il libro Chimica Sociale di Marissa King intende analizzare il complesso fenomeno della socialità e delle reti sociali facendo affidamento sia a dati scientifici (provenienti dalla ricerca neuroscientifica, ma soprattutto della psicologia sociale) così come da dati divulgativi, raccolti da storie quotidiane e celebri. Una struttura di questo tipo permette di affrontare un tema complesso quale è la socialità nel modo più semplice possibile, dando al lettore, anche senza particolari conoscenze in ambito sociologico e della psicologia sociale, le basi necessarie per poter comprendere l’intero contenuto. Allo stesso tempo, l’uso di storie realistiche permette al lettore di inserirsi nei contesti sociali che altrimenti verrebbero affrontati solo teoricamente: ciò, chiaramente, consente una comprensione immediata e una lettura leggera, stimolata dallo stile narrativo, dei capitoli.

Come sostenuto nella prefazione, Chimica Sociale interviene in un momento di estrema adeguatezza: a seguito della pandemia Covid-19, l’importanza delle relazioni interpersonali reali (e non solo virtuali) ha manifestato la sua estrema rilevanza nella vita degli individui umani.

Più precisamente, il libro si compone di dieci capitoli, ciascuno dei quali approfondisce aspetti diversi della socialità e adotta diversi punti di vista che possano consentire una maggiore comprensione dei contenuti riportati. Particolarmente interessante è la scelta adottata dalla scrittice, tale per cui all’inizio di ogni capitolo viene riportata una breve narrazione appartenente ad un individuo più o meno celebre: in questo modo, il lettore è trasportato all’interno del contesto sociale che si intende analizzare e, come accennato precedentemente, è più stimolato a proseguire la lettura al fine di comprendere cosa la ricerca ha dimostrato essere alla base di un fenomeno tanto comune e quotidiano.

Il primo capitolo introduce semplicemente la questione delle relazioni sociali e della necessità del creare delle connessioni, facendo innanzitutto riferimento al caso di Vernon Jordan. Viene posta una riflessione relativa a come nelle prime fasi dello sviluppo (ma anche successivamente) le relazioni interpersonali si fondano sulle diadi, che poi successivamente (soprattutto nell’adolescenza) possono essere allargate al fine di formare gruppi dalle dimensioni maggiori. Nel primo capitolo vengono anche introdotti i tre tipi principali di attori sociali, sulla base delle connessioni che essi tendono a formare, ai quali sono dedicati interi capitoli al fine di definirne i vantaggi/svantaggi e le caratteristiche principali (aggregatori, capitolo 3; intermediatori, capitolo 4; espansionisti, capitolo 5). Una riflessione interessante posta nel primo capitolo riguarda la difficoltà del creare nuove connessioni e di quanto spesso le persone considerino il creare dei fili invisibili intenzionalmente come qualcosa di immorale e da cui prendere le distanze.

Il capitolo secondo, invece, approfondisce la definizione di rete sociali, aprendo la discussione attorno alla domanda cos’è un amico. Introducendo come primo fattore distintivo tra amici e conoscenti la quantità di tempo condiviso, la discussione porta poi al considerare come ulteriori fattori determinanti l’intimità, la reciprocità e l’intensità emotiva del rapporto. I rapporti di amicizia forte forniscono sostegno emotivo ed agiscono da fattore di protezione contro la depressione, incrementando i sentimenti positivi e la sensazione di benessere. Tuttavia, non è facile prevedere quando un legame debole genererà valore: la trasformazione di un legame debole in uno forte è in gran parte casuale. Il capitolo secondo contiene anche una riflessione attorno alla legge della prossimità ossia alla tendenza umana all’instaurare rapporti più forti con individui simili a sé, nonché anche sulla forte limitatezza data dal contesto sul range di individui con cui è possibile instaurare un rapporto positivo (effetto della mera esposizione).

Il capitolo sesto contiene alcune riflessioni, tra tutte probabilmente una delle più interessanti è quella relativa alle vecchie connessioni e la loro utilità. Questi vengono spesso definiti dai ricercatori come legami dormienti e spesso gli individui provano forte imbarazzo al provare a rianimarli. Tuttavia, spesso, questi contatti possono fornire informazioni e suggerimenti preziosi in quanto potrebbero contenere punti di vista nuovi non presenti all’interno della propria cerchia (soprattutto se siamo aggregatori).

Anche il capitolo settimo contiene riflessioni di vario tipo come ad esempio le relazioni con gli estranei, l’importanza del contatto visivo, dell’ascolto e del porre domande follow-up per mostrare interesse. Particolarmente interessante è la riflessione attorno al tatto, un senso spesso trascurato anche se estremamente importante nei contesti sociali (basta pensare a quanto imbarazzo tocchi in relazioni ambigue tra amici-conoscenti possono causare).

Il capitolo ottavo è per lo più incentrato sulle relazioni interpersonali in contesti lavorativi, argomento introdotto osservando come spesso in diversi ambienti i dipendenti abbiano paura di esprimere le loro vere opinioni e pensieri per le conseguenze che potrebbero emergere. La riflessione prosegue quindi cercando di delineare le caratteristiche del team perfetto, all’interno del quale i partecipanti si esprimono senza timore dando così grandi opportunità di creatività e innovazione al gruppo stesso. Tra queste emerge come particolarmente rilevante la sicurezza psicologica, un sentimento emergente a livello gruppale e non individuale. Tale sentimento è però estremamente fragile e può essere leso anche da commenti che potrebbero essere considerati sarcastici e non particolarmente maligni. Così come la sicurezza psicologica è estremamente contagiosa, anche la negatività lo è, il che potrebbe portare a difficoltà nel contesto lavorativo, nonché stress e sensazioni negative. Per questo è importante intervenire e far notare come certi commenti possano aver ferito la propria sensibilità: spesso le persone non si rendono neanche conto di quanto le loro affermazioni possano essere percepite negativamente, oppure potrebbero essere state mosse da una condizione stressante e non da avversità personali.

Il capitolo nono contiene un’interessante analisi delle relazioni tra vita personale e lavoro. In particolar modo viene sottolineato come tendenzialmente le persone possano distribuirsi lungo un continuum che va dagli integratori ai segmentatori. I primi sono a loro agio quando i confini tra amicizia, famiglia e lavoro tendono a confondersi, mentre i secondi preferiscono mantenere separati il lavoro e la vita famigliare. Il continuum contiene diverse variabili che riflettono i tipi di reti che l’individuo preferisce mantenere. Inoltre, a determinare le proprie preferenze per la segmentazione o l’integrazione intervengono anche diversi aspetti quali la propria crescita, personalità, genere… Nel capitolo vengono anche esaminate le motivazioni alla base della difficoltà nell’instaurare dei rapporti amicali in contesti lavorativi. Tra queste vengono citati il fatto che non si hanno molte opzioni relative ai propri colleghi e il fatto che il posto di lavoro assume spesso delle caratteristiche transienti, che non si addicono ai rapporti di amicizia.

Il libro si conclude con il capitolo decimo molto più breve rispetto ai capitoli precedenti, ma comunque contenente un interessante riflessione al limite con la filosofia. La domanda principale affrontata, citando direttamente il libro, è: “Che si tratti di amici su Facebook, di un agente di cambio del Massachusetts o di Rick Warren e Yo-Yo Ma, siamo tutti strettamente connessi in qualche modo?”. Il mondo potrebbe essere reso piccolo sia da una rete regolare perfettamente ordinata, sia da una rete assolutamente casuale che non prevede uno schema in grado di determinare legami. Per quanto riguarda il mondo sociale, molto probabilmente questo si colloca a metà del continuum, tra caos e ordine. Precisamente è la combinazione di intermediatori, espansionisti e aggregatori a rendere piccolo il mondo e consentire l’equilibrio tra ordine e caos.

 

Gaslighting: esistono tratti di personalità associati a questa dinamica relazionale manipolatoria?

Numerosi studi hanno indagato l’associazione tra gaslighting e caratteristiche psicologiche degli abusatori e delle vittime, ma non è ancora chiara l’interazione tra esse.

 

Tra le forme di violenza psicologica nella coppia, il gaslighting indica un comportamento manipolativo, spesso difficile da identificare, in cui un individuo (il cosiddetto “gaslighter”), cerca di controllare e alterare le sensazioni, i pensieri, le azioni, le emozioni e persino la percezione di realtà del proprio partner (il “gaslightee”) (Calef & Weinshel, 1981).

Stern, (2007) suggerisce che i partner coinvolti in una relazione di gaslighting tendono a mostrare tratti complementari che strutturano diversi tipi di comportamenti abusanti. Il “glamour” gaslighter esercita il controllo del partner adulandolo e facendolo sentire speciale, difendendosi normalizzando tali comportamenti. Il gaslighter “bravo ragazzo” si impegna a preservare un’immagine positiva di sé, fingendosi interessato al partner, ma soddisfando di base i propri bisogni narcisistici. Infine, i gaslighter “intimidatori” sono apertamente critici e disapprovanti, inducendo sentimenti di disperazione e impotenza nei loro partner.

Le vittime di gaslighting attraversano tipicamente tre fasi: incredulità, difesa e depressione. Nelle fasi iniziali, questa forma di relazione può essere molto insidiosa; nonostante la vittima riesca a preservare il proprio senso di realtà, possono non emergere segni tangibili di abuso emotivo, come insulti o comportamenti di controllo (Stern, 2007). Nelle fasi successive il gaslightee si ritrova sopraffatto dal partner abusante (Stern, 2007).

Numerosi studi hanno indagato l’associazione tra gaslighting e caratteristiche psicologiche degli abusatori e delle vittime (Ehrensaft et al., 2006; Ornduff et al., 2001), ma non è ancora chiaro come i tratti di personalità di gaslighters e gaslightee interagiscano e si completino a vicenda.

Secondo studi precedenti, la violenza nella coppia è associata a tratti di personalità antisociali (White & Widom, 2003), schizoidi (Hamberger et al., 2000), narcisistici (Yang & Mulvey, 2012) e borderline (Holtzworth-Munroe & Meehan, 2004); espressione di tre domini disfunzionali della personalità: il distacco, (ossia una grave mancanza di empatia e difficoltà nel coinvolgimento in relazioni intime); la disinibizione, (ovvero l’incapacità di gestire l’impulsività); infine, l’antagonismo, (cioè la tendenza a denigrare il proprio partner). D’altra parte, il rischio di essere vittima di una relazione disfunzionale correla con tratti di personalità borderline (Gunderson & Sabo, 1993; Ménard & Pincus, 2014) e antisociali (Daigle & Teasdale, 2018), ricondotti al dominio della disinibizione, dell’affettività negativa (ossia l’incapacità di gestire gli affetti negativi) e dello psicoticismo (che può portare all’incapacità di proteggersi).

L’indagine di Miano et al. (2021), ha valutato relazioni di 250 giovani adulti italiani, per indagare domini disfunzionali di personalità dei gaslighter e delle vittime.

Secondo i risultati, aver vissuto un’esperienza di gaslighting non variava in relazione all’età o al genere del partecipante, poiché non sono emerse differenze significative tra uomini e donne.

Alcuni domini di personalità si associavano a determinati comportamenti di gaslighting.

Il distacco correlava al glamour gaslighter, che, sebbene impegnato a controllare il proprio partner attraverso l’adulazione e la gratificazione, si rivela incapace di esprimere un reale affetto. L’adulazione costituisce un tentativo di manipolare l’altra persona (Stern, 2007) e li porta ad essere percepiti come attraenti, mentre instaurano una relazione apparentemente priva di conflitti e incomprensioni.

Al gaslighter “bravo ragazzo”, corrispondeva il dominio della disinibizione ed in particolare la tendenza a ricercare una gratificazione istantanea, che consiste nell’utilizzare la relazione come un mezzo per ottenere ricompense narcisistiche (Stern, 2007).

Contrariamente alle ipotesi, l’antagonismo, caratterizzato da una grave mancanza di abilità interpersonali, non sembrava impattare in nessuna delle tre categorie di gaslighting. Anche l’affettività negativa non correlava direttamente con i comportamenti di gaslighting, sebbene contribuisca negativamente al clima emotivo relazionale.

Inaspettatamente, lo psicoticismo si associava a tutte e tre le categorie di gaslighting. Essendo un tratto caratterizzato da una generale incapacità di adattamento, può portare a comportamenti dannosi nei confronti del proprio partner (Yang & Mulvey, 2012), mentre a lungo termine condiziona la capacità da parte delle vittime di valutare oggettivamente la relazione (Stern, 2007).

Tratti di personalità delle vittime, si associavano a determinati comportamenti di gaslighting.

Soggetti con elevata disinibizione (con impulsività e ricerca di sensazioni) agiscono senza considerare l’esperienza passata o le conseguenze future, cosa che potrebbe indurli a non percepire il comportamento abusivo del partner, vedendo un minimo segno di apprezzamento come un buon motivo per mantenere la relazione. La regolazione emotiva disfunzionale incrementa la probabilità di coinvolgimento in una relazione abusiva (Gunderson & Sabo, 1993; Ménard & Pincus, 2014); e un’elevata ricerca di sensazioni comporta l’incapacità di evitare ambienti interpersonali non sicuri (Stoel et al., 2006).

La presenza di psicoticismo, caratterizzato da comportamenti e pensieri bizzarri, comporta una grave mancanza di mentalizzazione (Lamotte & Murphy, 2017; Moskowitz, 2004) che si associa ad una vulnerabilità alle relazioni abusive (Asen & Fonagy, 2017; Pallini et al., 2017) compromettendo la capacità di identificarle.

Il distacco non era un dominio caratteristico delle vittime di gaslighting, poiché sono gli individui con tratti di personalità dipendenti più a rischio di essere coinvolti in una relazione violenta (Loas et al., 2011).

Anche l’antagonismo dei gaslightee si associava ai comportamenti di gaslighting. Poiché si tratta di un dominio legato alla grandiosità e quindi al bisogno di attenzione, è probabile che le vittime ricevano gratificazione narcisistica dal partner affascinante o che si comporta da “bravo ragazzo”.

Tradizionalmente, i tratti narcisistici si associano alle esperienze di abuso relazionale (Ménard & Pincus, 2014) per cui il bisogno di validazione della vittima verrebbe rispecchiato dalla tendenza del gaslighter ad essere lusinghiero e reattivo (Stern, 2007).

Questa indagine ha rilevato come sia gli uomini che le donne possano essere soggetti al gaslighting e che l’età non ha un impatto significativo. Inoltre, ha cercato di individuare i correlati di personalità dell’abuso prolungato nella relazione di coppia, al fine di individuare i soggetti più a rischio e sviluppare futuri interventi per prevenire efficacemente il loro coinvolgimento in una dinamica abusante (Hines & Saudino, 2008).

 

State of Mind compie 10 anni!

10 anni del nostro web journal State of Mind (SoM). SoM è nato da una idea: dare una informazione sì comprensibile a tutti, non solo agli specialisti, ma anche seria, il meno possibile basata su opinioni arbitrarie e gusti individuali, portando anche documentazione su ciò che si sta affermando.

 

10 anni del nostro web journal State of Mind (SoM). Questo anno è importante perché segna -non soltanto il nostro ventennale come scuola di formazione in psicoterapia ma anche il decennale del nostro webjournal SoM.

SoM è stato importante per tante cose. Vale la pena di fare un po’ di storia.

Nell’autunno del 2010 si parlava molto di giornalismo online. Cominciavano a essere letti e apprezzati tanti giornali online, negli Stati Uniti l’Huffington Post aveva grande successo, in Italia era da poco nato il Post e si stava ragionando sui destini, la funzione e il futuro della informazione attraverso la rete. Si aveva la sensazione di un mondo che rapidamente stava cambiando e che portava tante cose con sé: quale informazione online? Quanto è autorevole? Cosa porta di veramente nuovo un giornale online? Sarebbe diventato mai indipendente economicamente? Aveva senso un giornalismo esclusivamente online?

Insomma, le incertezze di un nuovo mondo. Noi psicoterapisti e psicologi avevamo una specifica insoddisfazione perché l’informazione su argomenti psicologici nei giornali tradizionali era molto carente. Era una continua frustrazione leggere sui giornali tradizionali le rubriche di psicologia e psicoterapia che riportavano le opinioni del tutto personali di alcuni giornalisti o terapisti. Consideravamo l’informazione sul mondo della psicoterapia terribilmente obsoleta, ricca di dichiarazioni basate su gusti personali, con un dominio assoluto di una certa psicoanalisi -non la più aggiornata-, una trascuratezza delle novità che apparivano nel mondo della psicologia e della psicoterapia. Tutto sembrava fermo e inalterato.

SoM, come molte cose della nostra vita, nasce da questa insoddisfazione profonda e porta una idea: dare una informazione comprensibile a tutti, non solo agli specialisti, ma che sia seria, il meno possibile basata su opinioni arbitrarie e gusti individuali e ove possibile portando anche documentazione su ciò che si sta affermando. Come diciamo noi: una bibliografia che si possa consultare. Fu così che, dopo un breve esperimento di qualche mese su un piccolo blog, il 25 ottobre 2011 nasceva State of Mind, il Giornale delle Scienze Psicologiche.

Nel decennale percorso che ci ha portato fino a oggi abbiamo avuto alcune fortune. Abbiamo avuto la disponibilità di Flavio Ponzio che, esperto di comunicazione, ci ha condotti per mano dalla nascita del giornale a oggi e che da allora regge sulle sue spalle il giornale, aiutato da Marina Morgese, Valentina Davi e da alcuni clinici che si sono presi l’incarico di verificare gli articoli che riceviamo in redazione, e da alcuni stagisti che a turno per alcuni periodi ci hanno accompagnato. Una redazione piccolissima che ha fatto e continua a fare miracoli!

Giovanni Ruggiero si è speso come Direttore del giornale con pazienza e aggiungendo la scrittura e la discussione sui problemi che via via si presentavano in SoM alle sue molte cariche e responsabilità all’interno delle scuole di terapia e della nostra piccola Università di psicologia.

Abbiamo fornito in questi 10 anni una quantità significativa di informazioni. Speriamo di avere aiutato a modernizzare questo nostro mondo che aveva bisogno di divenire più scientifico e informato.

Abbiamo partecipato ad alcune campagne di informazione su argomenti generali, come il femminicidio, tentando di mettere in discussione l’interpretazione del raptus come movente principale delle aggressioni alle donne, ma anche su argomenti più attinenti al nostro mondo: l’idea che tutto nel lavoro dello psicoterapista fosse trauma o tutto andasse fatto governando la relazione.

Queste battaglie ci sono costate molto, abbiamo fatto scelte dure, poco di moda e impopolari, e abbiamo discusso e litigato con colleghi, abbiamo imparato molto e insegnato molto, abbiamo perso tantissimo tempo a organizzare il dibattito ma non ce ne pentiamo, ci piace mettere in discussione il mainstream quando si fa pigro e scontato. Abbiamo dato voce a tutti, a tutti quelli che ci scrivevano e che avevano da dire cose che ci sembravano una informazione utile sul nostro mondo, tentando di non essere mai settari!

Siamo diventati economicamente indipendenti come SoM? No, SoM deve la sua vita ogni giorno agli investimenti che le nostre scuole di terapia si prendono sulle spalle per rendergli l’esistenza possibile. La riteniamo una delle imprese più belle, promettenti e importanti che abbiamo fatto in questi anni, uno sforzo che andava fatto a qualsiasi costo e che ci avrebbe ricompensato migliorando le conoscenze di chi è curioso di psicologia e psicoterapia e di chi come noi, in questo mondo vive ed è cresciuto.

Vorrei ringraziare infine i giovani e meno giovani che contribuiscono a rendere bello e unico SoM e anche tutti voi lettori che in questi anni non vi siete mai stancati e non ci avete mai abbandonato.

 

Diamo i numeri!! 10 anni di State of Mind

Il 25 ottobre 2011 andava online la prima versione del sito che sarebbe poi diventato il riferimento in Italia per l’informazione sulla psicologia e la psicoterapia: il punto di approdo per gli utenti che cercano informazioni corrette e puntuali e un luogo di incontro e di confronto per i professionisti della salute mentale.
Una volta ogni dieci anni ci concediamo un po’ di autocelebrazione.

Prima di tutto un ringraziamento ai 3 pilastri che sorreggono questo giornale

  1. I nostri autori, che da 10 anni su base volontaria, per passione, scrivono i contenuti che diventeranno poi gli articoli che leggete.
  2. Il Gruppo Studi Cognitivi, che finanzia State of Mind. SoM nasce come missione culturale: educare alla psicologia in maniera corretta e scientificamente fondata. Facilitare lo scambio di idee e informazioni tra colleghi clinici e ricercatori. E’ un’operazione in perdita: la raccolta pubblicitaria porta un aiuto importante ma non sufficiente. Studi Cognitivi paga di tasca propria per far vivere e prosperare il giornale.
  3. I lettori (si, voi!). Quelli che ogni giorno sempre più numerosi atterrano sulle pagine del nostro giornale partendo da una ricerca sui motori di ricerca, cercando informazioni e chiarezza e -speriamo- trovandole qui. Quelli ci hanno oramai scelto e che tornano ogni giorno o ogni settimana. Che ci seguono sui nostri canali social media e che si sono iscritti alla nostra newsletter. Un’ovvietà che ci teniamo a ribadire: SoM non esisterebbe senza le persone che lo scelgono e lo leggono. E noi non lo dimentichiamo.

Dopo questa doverosa premessa, un po’ di numeri e fatti per raccontare State of Mind:

10370: gli articoli pubblicati ad oggi, organizzati in più di 630 sezioni tematiche. Molte di queste sezioni tematiche sono prime o nei primi 5 risultati di Google per molte parole chiave di ricerca. Questo dato restituisce un’idea dell’autorevolezza e della fiducia che il colosso del web ci ha attribuito dopo anni passati a pubblicare contenuti accurati e verificati da una commissione scientifica.

430 gli autori che negli anni si sono confrontati con la scrittura sulle pagine di State of Mind. Per molti ha significato un semplice passatempo o una passione. Per altri è stato l’inizio di una carriera. I nostri autori sono stati spesso intervistati e cercati dalla stampa generalista, dalle radio e dalle televisioni. State of Mind è da sempre anche una vetrina che permette agli autori di promuovere le proprie professionalità.

71 milioni di pagine viste fino ad oggi. Può sembrare poco se si confrontano questi numeri con quelli di un qualsiasi quotidiano generalista. Ma State of Mind è un giornale di un piccolo settore, è relativamente giovane (nemmeno maggiorenne!). Per una rivista online che parla in massima parte di psicologia e psicoterapia è un risultato veramente notevole.

69.079: le pagine visitate il 15 gennaio 2021, record di sempre per visite giornaliere su State of Mind.

1,577,294 quelle visitate nel Maggio 2020: il nostro mese record, complice anche un lungo lockdown che ci ha costretti a casa, per molti ha significato più tempo libero e più tempo per leggere e informarsi. Purtroppo è stato anche un momento di maggiore ansia, paura e ricerca di aiuto per la propria salute mentale. In tantissimi si sono rivolti a State of Mind per cercare aiuto o informazioni utili.

14,796,375 le pagine viste nel 2020, il nostro anno migliore fino ad ora.

Roberto Lorenzini: l’autore più cercato e visitato su State of Mind. Al cospetto dei miti non servono nemmeno i numeri. Il contributo di Roberto nei dieci anni di SoM è stato semplicemente ineguagliabile. La vera rockstar di State of Mind, ha fatto ridere e commuovere e riflettere e arrabbiare tutti quanti. Nessuno che è entrato in contatto con le parole di Roberto Lorenzini ne è rimasto indifferente. Tantissimi i suoi articoli, sempre brillanti e provocatorie le sue rubriche.
Lorenzini è mancato da poco e ha lasciato -perdonate l’espressione retorica- un vero vuoto nel giornale. SoM paga un grande tributo a Roberto e non ce lo dimenticheremo mai, come credo tutti i lettori che si sono appassionati dei suoi scritti.

La TOP 10 degli articoli più letti:

  1. Il manipolatore perverso: come riconoscere un narcisista maligno
  2. Tachicardia: è sempre ansia? Differenze tra attacchi di panico e patologie cardiache
  3. Lo sviluppo cognitivo secondo la teoria di Piaget – Introduzione alla Psicologia
  4. Un viaggio alla scoperta delle emozioni: la differenza tra quelle primarie e secondarie
  5. Il metodo ABA e l’autismo. Principi, procedure e tecniche di base
  6. L’ Orgasmo Femminile: ma le Donne come Funzionano?
  7. La terapia EMDR: come funziona? un viaggio nella nostra mente
  8. Disturbo ossessivo compulsivo da relazione: quando l’ossessione riguarda i rapporti sentimentali
  9. Il concetto di vuoto e i quadri psicopatologici associati
  10. Le paure nei bambini: quali sono le più frequenti e come gestirle

La TOP 10 delle sezioni più visitate:

  1. Depressione
  2. Ansia e disturbi d’ansia
  3. Empatia
  4. Bullismo
  5. Disturbo bipolare
  6. Disturbi specifici dell’apprendimento
  7. Burnout
  8. Schizofrenia
  9. Stress
  10. Narcisismo 

L’impatto di State of Mind nel panorama italiano

Una delle tante lezioni utili della psicologia cognitiva è quella (perdonate la mia estrema semplificazione) secondo la quale da un determinato fatto si possono trarre tutta una serie di conclusioni. Possiamo provare a osservare con obiettività le cose e provare a capire, guardandole con distacco, in che modo ci è più utile viverle e considerarle.

State of Mind è nato con l’intento di portare qualcosa che mancava: informazione corretta e aggiornata sui temi delle scienze psicologiche e della psicoterapia, in uno scenario, quello italiano, che era particolarmente carente. Ci piace pensare di esserci riusciti e di aver fatto scuola. SoM è arrivato come un sasso buttato in uno stagno, le onde dell’impatto si sono propagate in tutte le direzioni generando quasi sempre effetti positivi. Il giornale ha costretto gli altri siti ad adeguarsi a più alti standard ed ha educato il pubblico a pretendere di più dalle informazioni psicologiche. Questo è guardare al bicchiere mezzo pieno.

Il bicchiere mezzo vuoto è che i nostri articoli e contenuti vengono quotidianamente copiati e plagiati da innumerevoli siti, fortunatamente molto meno rilevanti e autorevoli di State of Mind. Essere copiati dai competitors ci danneggia, certo, ma solo relativamente. Come diceva qualcuno “L’imitazione è la più sincera delle adulazioni”, e d’altro canto il furto più o meno lampante di proprietà intellettuale è un male del nostro tempo: dal più piccolo dei blog che copiaincolla un articolo alle grandi piattaforme social media e di aggregazione di contenuti che sono in guerra con gli editori di mezzo mondo. Lasciamo il bicchiere mezzo vuoto sul tavolo e ignoriamolo, dal momento che rimuginare su questa cosa non servirebbe veramente a niente.

Motivo di orgoglio e soddisfazione: ogni giorno riceviamo segnalazioni dai docenti universitari che ci conoscono o che collaborano con noi di qualche contributo di State of Mind che è finito nei riferimenti bibliografici delle tesi di laurea dei loro allievi. Quasi ogni giorno veniamo contattati da studenti delle università che ci hanno letto e che vorrebbero consigli, aiuti per le loro ricerche -ci piacerebbe rispondere a tutti e aiutarli ma non ne abbiamo purtroppo quasi mai il tempo e le risorse-.

Sempre più spesso veniamo contattati da autori ed editori per l’autorizzazione ad inserire qualche parte di brano dentro libri in prossima uscita o nei libri di testo per le scuole. Qualche mese fa abbiamo dato l’autorizzazione all’utilizzo della homepage di State of Mind per la scena di un film di prossima uscita.
Questo testimonia come -piano piano e in punta di piedi- SoM sia lentamente entrato sia nella cultura alta che nell’immaginario collettivo italiano quando si parla o scrive di psicologia e psicoterapia. Era quello che volevamo fin dall’inizio: dare un contributo e portare un piccolo cambiamento e un click alla volta, con grande fatica, ci stiamo riuscendo.

Non smettete di seguirci e un grazie sincero.

Pensieri ossessivi, rimuginio e ruminazione: la Detached Mindfulness come forma di intervento

Le pratiche di consapevolezza distaccata, o detached mindfulness, suggeriscono un innovativo intervento basato su due elementi essenziali: la presenza mentale e il distacco.

Andrea Coluccia – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Mestre

 

Le ossessioni sono pensieri o immagini mentali che sono percepite come molto spiacevoli dalle persone, causando alti livelli di stress.

Quando sono frequenti e accompagnate dai fenomeni di rimuginio e ruminazione, si possono presentare difficoltà psicologiche, come ansia e depressione, con la mente che può vagare tra le preoccupazioni del futuro e i ricordi spiacevoli del passato.

Come disinnescare questo meccanismo e aumentare il proprio benessere attraverso le pratiche di detached mindfulness?

A molti può essere capitato di avere avuto alcuni pensieri ripetitivi o che hanno generato stati d’ansia, in alcuni momenti della propria vita particolarmente stressanti.

Secondo le stime dell’Organizzazione mondiale della sanità, l’80% degli individui ne ha fatto esperienza, attraverso contenuti vissuti come indesiderati e riferiti in particolar modo alle relazioni, alla salute e alla sessualità, e che tuttavia non per forza hanno poi avuto un impatto significativo nella propria vita (Caselli, 2016). Se tuttavia i pensieri tendono ad essere ossessivi, a manifestarsi cioè con una certa frequenza, e ad essi si accompagnano i fenomeni di rimuginio e ruminazione, possono comparire stati di ansia e di depressione.

Le pratiche di consapevolezza distaccata, o detached mindfulness, suggeriscono un innovativo intervento basato su due elementi essenziali: la presenza mentale e il distacco. Se con presenza mentale si fa riferimento all’essere consapevoli della presenza di un pensiero o di una convinzione, con distacco si fa riferimento alla sospensione del giudizio dai propri pensieri, ampliando il ventaglio di risposte possibili delle proprie emozioni, con i pensieri che sono vissuti, così, attraverso un’altra lente e sentiti nella maggior parte dei casi come meno angoscianti. In questo modo, anche un pensiero automatico negativo (PAN), che compare all’improvviso creando stati di ansia e preoccupazione, viene vissuto come meno spiacevole, causando minori stati di stress e di agitazione.

I pensieri automatici e i pensieri ossessivi

Si immagini che, immersi in un’attività importante, squilli il cellulare e che sia appena arrivato un messaggio. Quale può essere la prima reazione? Guardare subito il cellulare o rimandare la lettura ad attività conclusa? Restare lì con il pensiero di quale può essere il contenuto del messaggio o rimanere immersi nell’attività? I pensieri automatici (PAN) sono fenomeni cognitivi che, proprio come un messaggio, compaiono all’improvviso e interrompono un’attività. Sono associati a emozioni spiacevoli e sono particolarmente comuni: circa l’80% degli individui ne ha fatto esperienza più volte, con contenuti vissuti come indesiderati. Questi pensieri possono emergere all’improvviso e in modo involontario mentre si è immersi in un’attività, sotto forma di autovalutazioni negative di sé (“non sono capace”), oppure giudizi generalizzati sul proprio presente e sul futuro. Quando non sono messi in discussione ed emergono regolarmente si instaura quello che è il pensiero ripetitivo. Possono allora presentarsi stati di tristezza e di ansia, creando una distorsione negativa della percezione di sé stessi e dell’ambiente circostante (Beck, 1989).

Esperienza simile è rappresentata proprio dalle ossessioni. Queste ultime appaiono alla mente come dei fotogrammi. Sono immagini mentali percepite come sgradevoli dalla persona, sono difficili da ignorare e causano alti livelli di ansia (APA, 2013).

La differenza tra PAN e pensieri ossessivi risiede principalmente nella frequenza di comparsa e nella valutazione di questi pensieri, giudicati come pericolosi e inaccettabili. Entrambi questi fenomeni, tuttavia, sono fortemente orientati al futuro o al passato, creano preoccupazione, e il focus viene raramente puntato sul presente.

Questo si verifica anche, ad esempio, nel caso dei traumi. Studi che hanno approfondito questo tema hanno messo in luce come le persone che hanno avuto un trauma tendono a presentare maggiormente pensieri ossessivi, che possono comparire con forte intensità e ripetitività, influenzando fortemente il presente e facendo sì che ci sia una difficoltà a discriminare tra il passato, il presente e il futuro.

Così come in questi casi, anche le persone con forti stati di tristezza e ansia, tendono ad avere diversi pensieri automatici al giorno, con la comparsa di pensieri ossessivi che possono causare talora anche disturbi ossessivo – compulsivi.

Come prima conseguenza, la comparsa di questi pensieri può causare una costante impossibilità ad agire e ad attuare un cambiamento sul qui e ora, in particolar modo se sono presenti anche i fenomeni rimuginio e ruminazione.

Il rimuginio e la ruminazione

A quasi tutti involontariamente è capitato di rimuginare: in vista di una scadenza importante, per un lavoro urgente, per un incontro con una persona o per un’esibizione importante.

Il rimuginio, d’altra parte, altro non è che una forte preoccupazione riferita al futuro e in molti la sperimentano, a volte anche in modo automatico durante le giornate. In “piccole dosi” può essere funzionale al raggiungimento di un obiettivo. Tuttavia, se è frequente e si accompagna a pensieri di tipo ossessivo tende a essere una delle caratteristiche principali dei disturbi d’ansia. Il rimuginio, in questi casi, implica una preoccupazione costante, particolarmente intensa e sempre orientata a un futuro in cui tutto può risultare imprevedibile, con la sensazione che stia sempre per accadere il peggio. In questa prospettiva infatti, il rimuginio è strettamente correlato all’ansia anticipatoria, e si contraddistingue per essere uno stile di pensiero orientato costantemente a un tema di minaccia del proprio futuro, in cui tutto sembra essere incerto (Borkovec, Stober, 1998).

Il rimuginio inoltre, in quanto attività anticipatoria, restringe l’attenzione solo attorno ai potenziali problemi futuri, ben prima che si possano realizzare, raramente intorno alle possibilità positive, difficilmente verso scenari di successo. Nelle persone con ansia il rimuginio permane nel tempo e diventa lo stile preferenziale di lettura delle situazioni, andando a creare uno stato costante di allerta, in una ricerca continua delle possibili minacce. Tutto questo fa sì che la mente sia sempre, o quasi, rivolta al domani, piuttosto che all’oggi. Così, può capitare che le persone inizino a rimuginare e continuino in questo processo di pensiero senza accorgersene, senza esserne consapevoli, rimanendo intrappolate in un loop di pensieri spiacevoli che possono perdurare per diverso tempo. In questa prospettiva lo sguardo è sempre diretto avanti più di quanto ce ne sia realmente bisogno e quello che conta nel presente rischia di essere lasciato indietro.

La ruminazione invece rappresenta un pensiero che affonda le proprie radici nel passato ed è fortemente orientata a quello che è stato. Chi tende a ruminare particolarmente, infatti, richiama spesso alla mente ricordi spiacevoli e si focalizza sull’impatto che hanno avuto e sulle conseguenze che hanno portato (Smith, 2009). Chi rumina spesso, peraltro, è portato a pensare che gli eventi negativi del passato non solo abbiano portato a conseguenze negative nel proprio presente, ma che ne porteranno, anche, altrettante nel futuro. È quindi un pensiero negativo circolare, che porta la mente ad essere ingabbiata negli eventi trascorsi. Esempi di ruminazione sono: «Perché è successo a me?»; «Perché in quell’occasione non ho reagito?»; «Perché non sono riuscito a dare un senso a quello che mi è successo?». Se questo pensiero si ripete in modo continuo può portare a stati di forte tristezza, generando quello che tende poi a diventare un umore depresso.

Quindi, se il rimuginio si focalizza soprattutto sul futuro e si attiva attraverso una catena di pensieri con cui una persona contempla una gamma di eventi minacciosi, la ruminazione si focalizza prevalentemente sul passato, attraverso una serie di ricordi, pensieri e immagini che appaiono nella mente come fotogrammi e che amplifica e mantiene stati di tristezza. Sia il rimuginio sia la ruminazione fanno sì che una persona faccia fatica a dedicarsi ad altre attività, in quanto la propria mente è sempre impegnata, sempre turbata, e non si riesca a focalizzare sul presente.

La mindfulness e la detached mindfulness

La mindfulness è un particolare modo di porre l’attenzione ai propri pensieri e rappresenta una chiara antitesi a molti dei fenomeni ossessivi e, in tal senso, anche al rimuginio e alla ruminazione (Didonna F., 2008). I training di mindfulness costituiscono un intervento privilegiato anti – rimuginio e anti – ruminazione, poiché addestrano le persone, soprattutto se presentano forti stati d’ansia e di tristezza, a spostarsi dalla “modalità del fare” alla “modalità dell’essere” (Segal e colleghi, 2002), anteponendo le attività che si stanno conducendo ai pensieri automatici orientati al futuro o al passato. Così, ogni qual volta la mente tenda a vagare (mind-wandering) verso pensieri, emozioni, suoni, che non rappresentano il “qui e ora”, la persona si attiva in modo gentile ma deciso, per riportare la consapevolezza al focus originario dell’attenzione e tornare al centro del suo vissuto. Alla base degli interventi di mindfulness vi è il principio dell’accettazione. In alcuni casi può essere complesso riuscire ad arginare i pensieri automatici negativi o i pensieri ossessivi, senza focalizzarsi troppo su di essi o senza rimuginare sulle conseguenze temute. Talvolta, ancora, può essere complesso accettare alcuni eventi trascorsi che hanno lasciato delle cicatrici emotive. Il principio di base di questo genere di pratiche, tuttavia, (e il punto di forza), fa sì non che vi sia mai un coinvolgimento eccessivo su questo genere di pensieri. L’accettazione è anche un punto di partenza: la persona ha modo di costruire, grazie a queste pratiche, “un processo continuo attraverso cui esce da una prospettiva in cui vede i pensieri e le emozioni come realtà o cose che necessitano di esser cambiate e inizia ad accoglierli come eventi interni che non hanno bisogni di alcuna modifica, evitando sforzi per cambiare la loro frequenza o forma, specialmente quando questi possono avere un impatto negativo sulle sue emozioni” (Hayes, 2009).

In modo parallelo a questo approccio, e sempre in contrasto ai processi di rimuginio e ruminazione, si può inoltre sperimentare un tipo di esperienza chiamata “detached mindfulness” – in italiano consapevolezza distaccata – dove il termine “mindfulness” si riferisce, in questo caso, all’essere consapevoli dei propri pensieri come eventi mentali verso cui è possibile dirigere l’attenzione flessibilmente senza rimanerne intrappolati, mentre “detached” indica l’astenersi dal reagire o dal valutare quel pensiero, prendendone – se necessario – le distanze. La consapevolezza distaccata condivide alcuni aspetti con le forme di mindfulness ma a differenza di questo approccio si focalizza sul distacco costante dal contenuto dei propri pensieri. La persona che adotta questo approccio si pone nelle vesti di “osservatore distaccato” dei propri pensieri e delle emozioni che prova in quel momento. Adrian Wells (2008) propose diverse pratiche che promuovono un modo nuovo e diverso di vivere i propri pensieri, consentendo la rimozione degli stili di pensiero inadeguati, come rimuginio e ruminazione, alla base dei disturbi d’ansia e di depressione. In questo modo, secondo Wells, il focus non viene mai diretto al contenuto dei propri pensieri, e su di essi non viene mai apposto alcun giudizio, bloccando sul nascere ogni tipologia di pensiero ruminativo e ossessivo. Una pratica che va di pari passo è il rinvio del rimuginio, attraverso cui una persona, anziché farsi assorbire da una preoccupazione che può generare ansia, si riesce invece a dire: «Posso rimandare questo pensiero. Lo lascerò stare, per ora e me ne occuperò più tardi». Il pensiero può anche rimanere presente in sottofondo, ma la persona così facendo decide di non reagire, in quel preciso momento, non rimuginando come altrimenti potrebbe fare. Esattamente nel caso in cui decidesse di non leggere subito il contenuto di un messaggio appena arrivato. Così, inoltre, si può avere la sensazione di aver comunque dato una risposta al proprio pensiero, ma senza averci dedicato una grande quantità di tempo e senza essere rimasti intrappolati nella spirale dello stress e dell’ansia (Wells, 1997). Il rinvio del rimuginio viene abitualmente utilizzato anche in terapia insieme alla detached mindfulness. Se il paziente inizia a rimuginare su un contenuto, in seduta, il terapeuta concorda con lui la possibilità di abbandonare quel contenuto per un po’, rimandando il tema ossessivo per poi riprenderlo più tardi e abbandonandosi così al presente e alle attività in corso (Wells, 2008). Il terapeuta, ad esempio, può suggerire al paziente di considerare questi pensieri come delle registrazioni audio, con la possibilità di ascoltarle quando vuole, anche subito, ma rimandando la risposta in un altro momento. Proprio come quando squilla il telefono e si decide di non rispondere subito o come quando non si ascolta il rumore di una radio in sottofondo, perché impegnati in altre attività (Sassaroli, 2017): quello che conta è il presente.

La resilienza: un piegarsi senza spezzarsi

La resilienza è così sinonimo di chi, anche di fronte alle situazioni stressanti della vita, non perde mai la speranza e continua a lottare contro le avversità (Trabucchi P., 2019).

 

Di fronte alla sofferenza l’uomo ha sempre cercato, e continuerà a farlo, di trovare modi, siano essi magici o razionali, in grado di ridurre la probabilità che un processo morboso si manifesti (Becciu M., Colasanti A.R., 2016).

Nella mitologia greca e poi nella mitologia romana, Igea e Panacea, figlie di Esculapio, Dio della medicina, incarnavano simbolicamente la prevenzione e la cura. Pensare, quindi, che la prevenzione sia un concetto tipico dell’età moderna è un errore. Tuttavia, la sistematizzazione delle conoscenze a riguardo ha avuto bisogno di molto altro tempo e forse tutt’oggi siamo ancora lontani da una chiarezza concettuale e da una sistematicità operativa (Ammaniti M., 2006).

Le origini del termine resilienza

Fino a qualche tempo fa, il termine resilienza era utilizzato solo per designare la proprietà fisica di un materiale, indicando così l’attitudine di un corpo a riacquistare la propria forma iniziale dopo aver subito una deformazione causata da un impatto (Castelletti P., 2006). La resilienza è, quindi, la capacità dei materiali di resistere ad urti improvvisi e di sopportare sforzi applicati bruscamente senza spezzarsi e senza riportare incrinature (Becciu M., Colasanti A.R., 2016).

Conoscere la resilienza di un materiale è fondamentale perché consente di prevedere il suo comportamento qualora fosse sottoposto a forti sollecitazioni. Riportando tale concetto nell’ambito della psicologia, potremmo dunque pensare che la resilienza sia una qualità che una persona possiede oppure non possiede. Eppure, a differenza dei materiali, l’uomo possiede una caratteristica in più: è capace di apprendere (Trabucchi P., 2019).

Per questo motivo, c’è chi preferisce ricollegare il concetto di resilienza al suo significato etimologico, facendo così riferimento al verbo latino “resalio” (saltare, rimbalzare per indicare il movimento repentino di risalita in barca). Infatti, nell’antichità veniva utilizzato questo verbo per indicare coloro che, durante una tempesta quando la barca si era rovesciata, lottavano strenuamente per risalirvi sopra. La resilienza è così sinonimo di chi, anche di fronte alle situazioni stressanti della vita, non perde mai la speranza e continua a lottare contro le avversità (Trabucchi P., 2019).

Le caratteristiche delle persone resilienti

Come osserva la psicologa e professoressa universitaria, Marie Anaut, essere resiliente non significa essere invincibili. Le persone resilienti non sono immuni alla sofferenza, non ignorano l’esperienza dolorosa, ma riescono ad apprendere da essa. Secondo l’Anaut, è più corretto paragonare la persona resiliente ad un Batman piuttosto che ad un Superman, ossia ad un eroe che possiede molte qualità ma non è dotato di super poteri. Così la persona resiliente può restare ferita, ma riesce ad andare oltre questa ferita per affrontare con coraggio e competenza la propria vita (Anaut M., 2003).

Dunque, affinché si possa parlare di resilienza sono fondamentali due condizioni: l’incontro con circostanze altamente stressanti, da un lato, e l’evoluzione soddisfacente in termini di adattamento psicosociale e di benessere soggettivo, dall’altro (Becciu M., Colasanti A.R., 2016).

Non bisogna quindi pensare che la resilienza sia l’equivalente della “resistenza”; si potrebbe anche dire che essa ne rappresenta l’opposto, cioè una “non resistenza” funzionale alla sopravvivenza, “un piegarsi senza spezzarsi” (Castelletti P., 2006). Essere una persona resiliente non significa impedire nella nostra vita la presenza di preoccupazioni, dolori o paure; al contrario, essere resilienti significa accettare i carichi e le difficoltà come parte integrante della vita e avere la certezza di poter uscire più forti di prima dalle crisi, avendole vissute ed avendo appreso da esse (Becciu M., Colasanti A.R., 2016).

Non è difficile riconoscere un individuo resiliente, poiché egli presenta sempre una serie di caratteristiche inconfondibili: è un ottimista, riconosce gli eventi negativi come momentanei e circoscritti, è fortemente motivato a raggiungere i suoi obiettivi e tende a vedere i cambiamenti come un’opportunità (Centro di Ascolto Psicologico, 2017).

Ad utilizzare il termine di resilienza per la prima volta è stata la psicologa americana Emmy Werner: nel corso di una ricerca longitudinale sui bambini delle isole Hawaii, non scolarizzati, senza famiglia e abbandonati alla violenza e alle malattie, constatò che a 30 anni ben il 30% di loro era alfabetizzato, lavorava e aveva creato una famiglia. La Werner aveva incentrato per la prima volta la sua ricerca su quei soggetti piegati dalle avverse condizioni socioeconomiche e bisognosi di aiuto: studiò le modalità con le quali un bambino su tre era riuscito, nonostante tutto, a trovare una forma adeguata di adattamento e a vivere una vita serena (Werner E. E., Smith R. S., 1989). Gli psicologi americani hanno così adottato negli anni ‘90 il termine resiliency per descrivere la capacità dei bambini di resistere a stress anche molto acuti (Castelletti P., 2006).

I fattori di rischio e di protezione della resilienza

Tutt’oggi è attivo e irrisolto un dibattito relativo alla formulazione di una definizione condivisa dei fattori di rischio e di protezione e ad una coerente differenziazione tra tali variabili (Prati G., Pietrantoni L., 2006). Gli individui resilienti riescono a trovare in loro stessi, nelle relazioni e nei contesti di vita quegli elementi di forza per superare le avversità, definiti anche fattori di protezione, che si contrappongono ai fattori di rischio, cioè tutto ciò che diminuisce la capacità della persona stessa di sopportare il dolore (Becciu M., Colasanti A.R., 2016).

Coie e colleghi raggruppano i fattori di rischio in 7 classi (Coie J.D. et all, 1993, p. 114):

  • Circostanze familiari: classe sociale bassa, conflitto familiare, malattia mentale in famiglia, famiglia molto numerosa, scarso legame con i genitori, disorganizzazione familiare, comunicazione disturbata;
  • Difficoltà emozionali: esperienze di abuso nell’infanzia, apatia, chiusura, immaturità emozionale, eventi di vita stressanti, bassa autostima, scarso controllo emotivo;
  • Problemi scolastici: insuccesso, demoralizzazione scolastica;
  • Problemi interpersonali: rifiuto dei pari, alienazione e isolamento;
  • Contesto ecologico: disorganizzazione sociale, ingiustizie razziali, disoccupazione, povertà estrema;
  • Handicap costituzionali: complicazioni perinatali, disabilità sensoriali, handicap organici, disfunzioni di natura innata;
  • Ritardi nello sviluppo di abilità: intelligenza sotto la norma, incompetenza sociale, deficit attentivi, disabilità di lettura, scarse abilità e attitudini al lavoro

I fattori protettivi, invece, hanno un ruolo fondamentale nel contrastare gli effetti negativi delle circostanze di vita avverse, potenziando così la resilienza dell’individuo (Trabucchi P., 2019). Differenti ricerche hanno indicato l’esistenza di tre macroaree di fattori protettivi: le caratteristiche individuali, l’ambiente famigliare e il contesto sociale allargato (Werner E., Smith R.S., 1992). Relativamente alle caratteristiche individuali, tra i fattori di protezione è possibile distinguere l’autonomia, il senso di fiducia personale, l’apertura alle relazioni sociali, la capacità di risolvere i problemi e prendere decisioni, il porsi degli obiettivi ed essere in grado di raggiungerli. Inoltre, affinché una persona diventi resiliente, è necessario che nella propria storia di vita abbia una figura di riferimento positiva sia dentro che fuori dalla famiglia, abbia la possibilità di fare delle esperienze che aumentino la propria autostima e autoefficacia. Una comunità competente, infine, riesce ad effettuare degli interventi di promozione del benessere favorendo la coesione sociale, la partecipazione e la solidarietà (Losel F., 1994). Altri importanti fattori protettivi sono l’ottimismo, l’autostima, la robustezza psicologica (hardiness) e le emozioni positive (Cantoni F., 2014).

Pertanto, è importante ricordare che la resilienza è dinamica, frutto dell’interazione individuo e ambiente ed è sia individuale che sistemica; ne consegue che è più adeguato riferirsi ad essa come ad un processo piuttosto che ad un concetto (Becciu M., Colasanti A.R., 2016). E solo imparando a conoscerla meglio potremo riconoscerla in ognuno di noi stessi e potenziarla.

 

“Psicoterapia cognitiva. Comprendere e curare i disturbi mentali” (2020) a cura di Perdighe e Gragnani – Recensione

Psicoterapia cognitiva rappresenta un ricchissimo e dettagliato contributo dell’approccio psicoterapeutico ad indirizzo cognitivo comportamentale nel trattamento e nella presa in carico dei disturbi mentali.

 

Mutuando e parafrasando la prefazione, il volume può essere consultato per cercare di rispondere a due domande essenziali nella pratica clinica: come nasce e come la pensa una persona?

Metaforicamente parlando, infatti, una psicopatologia non nasce mai da sola: nasce sempre inserita in un contesto preciso, in un’epoca storica e in una famiglia, oltre che nella mente di un singolo individuo. E infine, per poterla “gestire” è essenziale, in particolar modo per questa tipologia di approccio clinico, capire quali sono i pensieri ad essa sottesi, ossia i meccanismi di funzionamento mentale che generano e perpetuano la sofferenza.

Il manuale segue la classificazione dei disturbi riportata dal DMS 5, con l’obiettivo di mantenere una linea di comunicazione e una cornice di comprensione della patologia “universalmente riconosciuta”.

Questo rende i diversi capitoli anche fruibili come componenti a sé stanti, parti di un unico corpo che possono funzionare in autonomia perché guidati e sorretti dai medesimi principi.

Nonostante il volume sottolinei l’importanza delle prove di efficacia per ogni singolo disturbo (ossia, quale approccio terapeutico ha i risultati migliori per quello specifico disturbo?), allo stesso tempo viene sottolineato come una relazione terapeutica efficace travalichi lo specifico approccio.

La relazione che si costruisce insieme al paziente e la capacità del terapeuta di infondere fiducia e di poter lavorare con creatività, adattando se stesso e le proprie “tecniche” alla persona che si ha davanti, sembrano “valere” più di una singola tecnica applicata “alla perfezione”.

L’approccio cognitivo comportamentale illustrato nel testo ritiene fondamentale un’accurata formulazione del caso, così da poter rintracciare i processi psicologici che generano e mantengono la sofferenza, non consentendo al paziente di evolvere e cambiare.

Altro punto focale è la concezione della psicopatologia come sofferenza emotiva, cioè “emozioni dolorose qualitativamente appropriate ma di intensità e durata esagerate”.

Infine, la Teoria della Mente (Theory of Mind) rappresenta un altro caposaldo che fa da cornice al volume, sostenendo che i costrutti di scopo e rappresentazione sono strumenti indispensabili per comprendere le emozioni, i pensieri e le condotte delle persone (e, di conseguenza, di coloro che nel continuum “normalità” vs patologia, si collocano verso quest’ultima).

Il testo è scritto in un linguaggio preciso, tecnico ma fruibile anche da chi è agli inizi della propria pratica clinica o sta iniziando a conoscere il congitivismo di Beck, la Schema Focused Therapy e il costruttivismo di Kelly (tutti e tre capisaldi auto-dichiarati del volume).

Il manuale non tratta semplicemente di psicopatologia, ma nella sua estensione, parte da una disanima critica del disagio emotivo (comprenderlo prima che curarlo), per poi illustrare alcune tecniche che producono il cambiamento (seguendo sempre la cornice teorica di riferimento e di partenza, chiaramente), per poi dettagliare ogni disturbo (seguendo, come anticipato, la struttura del DSM 5) e “illustrandolo” con brevi vignette cliniche.

La lettura è scorrevole, piacevole e chiara, oltre che ricca di bibliografia a cui attingere qualora si volesse approfondire uno o più aspetti trattati al suo interno.

Come ogni manuale, ogni lettura e rilettura consente di scoprire o approfondire qualcosa di nuovo, ma i primi capitoli possono anche essere “vissuti” e sentiti come un’interessante approfondimento o introduzione (a seconda dei casi) dell’approccio cognitivo – comportamentale.

 

“Guardare, ma non toccare”: gli effetti della capacità di autoregolazione sul rischio di infedeltà

L’infedeltà può determinare conseguenze dannose sia per coloro i quali compiono atti infedeli (Foster & Misra, 2013), sia per i loro partner (Charny & Parnass, 1995).

 

Non sorprende che il tradimento sia il predittore più comune della fine di una relazione (Amato & Previti, 2003). Dunque, il sentirsi attratti da altre persone potrebbe rappresentare un campanello d’allarme per coloro i quali possiedono una relazione sentimentale stabile. Ma è realmente così?

Il legame tra l’infedeltà e l’attenzione rivolta ad altri

Secondo alcuni autori evitare di guardare alternative desiderabili riduce la tentazione e, di conseguenza, la probabilità di tradire (Maner, Gailliot, & Miller, 2009).

Una cosa però è certa: le persone attraenti sono difficili da ignorare e, dal momento in cui si è evinto che le persone sono più propense a perseguire cose desiderabili – come il cibo delizioso – dopo aver dedicato loro attenzione (Harris, Bargh, & Brownell, 2009), è stato sostenuto che, guardare soggetti attraenti, motivi le persone a perseguire rapporti con loro (Buss, 2016).

Diverse teorie relazionali sostengono che le persone impegnate in relazioni stabili dovrebbero dunque essere motivate ad evitare di prestare attenzione ad altri. Per esempio, Kenrick, Li e Butner (2003) sottolineano il valore adattativo del mantenimento di relazioni a lungo termine, al fine di assicurare la sopravvivenza della prole e, dunque, suggeriscono che gli esseri umani abbiano sviluppato bias, come ignorare i partner alternativi attraenti, per proteggere le loro relazioni primarie.

Il legame tra l’infedeltà e l’autoregolazione

Numerose ricerche concordano con l’idea che le persone prestino meno attenzione agli altri, a seconda della qualità della loro relazione sentimentale (Birnbaum et al., 2019; Maner et al., 2009). Tuttavia, solo uno studio ha esaminato se tale attenzione aumenti effettivamente il rischio di infedeltà. In particolare, McNulty e colleghi (2018) hanno condotto due studi longitudinali su coppie appena sposate ed hanno dimostrato che il prestar meno attenzione ad alternative attraenti diminuiva la probabilità che i partecipanti mostrassero il desiderio di avere rapporti sessuali con qualcuno che non fosse il loro coniuge. Tuttavia, il fatto che guardare altri soggetti affascinanti conduca all’infedeltà dovrebbe dipendere dalla capacità di resistere a tali tentazioni. In particolare, prestare attenzione agli altri dovrebbe aumentare il rischio di infedeltà solo quando le persone non possiedono la capacità di autoregolazione, ovvero la capacità di resistere agli impulsi inizialmente soddisfacenti che ostacolano gli obiettivi a lungo termine (Carver & Scheier, 2004). La capacità di autoregolazione è influenzata sia da fattori disposizionali che situazionali. In particolare, sebbene le differenze individuali nell’autocontrollo siano in qualche modo stabili nel tempo (Hay & Forrest, 2006), la capacità di autoregolazione può anche essere temporaneamente compromessa, ad esempio quando le persone sono malate o stressate (Hagger et al., 2010).

Quindi, la capacità di autoregolazione dovrebbe far sì che i soggetti resistano alle tentazioni, nonostante essi siano attratti da persone differenti dal proprio partner ma, attualmente, ciò non è ancora stato verificato.

Due studi presi in esame si sono posti l’obiettivo di dimostrare se le persone in relazioni stabili abbiano maggiori probabilità di attuare comportamenti infedeli, come risultato dell’attenzione iniziale designata ad alternative attraenti. Nello specifico, gli autori hanno ipotizzato che ciò sarebbe avvenuto solo tra coloro i quali manifestano difficoltà nel resistere a tali tentazioni. Di contro, hanno supposto che prestare attenzione alle alternative attraenti non avrebbe aumentato il rischio di infedeltà tra coloro i quali possiedono una maggiore capacità di autoregolazione.

Gli studi analizzati hanno dimostrato come la relazione tra l’infedeltà e l’attenzione dedicata a soggetti attraenti differenti dal proprio partner, dipenda per lo più dalla capacità di autoregolazione dei singoli. In particolare, l’attenzione rivolta verso alternative attraenti era associata ad un maggior interesse verso soggetti differenti, ad una maggiore probabilità di iscrizione su siti di incontri progettati ad hoc per promuovere l’infedeltà e ad un’infedeltà effettiva, ma solo per coloro i quali possedevano un basso livello di autocontrollo disposizionale. Al contrario, per i partecipanti con una maggiore capacità di autoregolazione, l’attenzione rivolta ad alternative attraenti non era associata a questi risultati. Così, la tendenza ad osservare soggetti attraenti comportava un maggior rischio di infedeltà, o di comportamenti che contribuiscono al tradimento, solo quando le persone non possedevano la capacità di resistere a tali tentazioni.

Conclusioni

Questi risultati comportano implicazioni teoriche e pratiche rilevanti. In primo luogo, il presente studio è tra i primi a mostrare le conseguenze comportamentali determinate dalla presenza di alternative attraenti. Dal momento in cui le persone impegnate evitano i soggetti affascinanti (Miller, 1997), è stato a lungo postulato (Rusbult et al., 2004) che evitare le suddette alternative sia un meccanismo con cui le persone possono mantenere le loro relazioni. Il lavoro appena presentato, invece, mette in luce come ciò dipenda dalla capacità di autoregolazione situazionale e disposizionale dei singoli.

In secondo luogo, la ricerca sfida l’idea che prestare attenzione alle alternative sia sempre dannoso per le relazioni (Maner et al., 2009). Difatti, se la capacità di autoregolazione viene mantenuta, l’impulso di prestare attenzione ad alternative seducenti non deve necessariamente essere soffocato. Infatti, evitare deliberatamente di guardare gli altri potrebbe anche sortire l’effetto opposto, aumentando il rischio di infedeltà (DeWall et al., 2011).

Infine, questi studi comportano implicazioni preliminari per i professionisti che aiutano le coppie a prevenire l’infedeltà. Ad esempio, dato che le persone hanno diverse aspettative e credenze sulle relazioni (Snyder, Baucom, & Gordon, 2008), le coppie potrebbero beneficiare di una discussione esplicita su ciò che sia o meno accettabile all’interno della loro relazione, come guardare e/o perseguire delle alternative. Oltre a ridurre il conflitto su credenze divergenti, questa disputa potrebbe anche prevenire l’infedeltà, dal momento in cui le persone possiedono maggiori probabilità di raggiungere i loro obiettivi quando questi ultimi vengono esplicitati (Locke, 1996). Allo stesso tempo, potenziare le strategie di autoregolazione, tra coloro i quali possiedono maggiori difficoltà nel resistere alle tentazioni, permetterebbe loro di preservare i propri rapporti sentimentali (Baumeister, et al., 2006).

 

Quando psicoterapeuta e paziente sono in un ambiente virtuale condiviso. Realtà virtuale multi-utente e le nuove frontiere della psicoterapia a distanza

Le applicazioni terapeutiche maggiormente esplorate coinvolgenti la Realtà Virtuale riguardano le tecniche di rilassamento e di esposizione, ora si aprono però nuove possibilità.

Greta Riboli – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, Milano

 

Già nel 2015 uscì un articolo sull’International Journal of Child-Computer Interaction, che indagava l’efficacia di un game in realtà virtuale multi-utente per favorire la collaborazione nei bambini con disturbi dello spettro autistico (Pearson, 2015). Ma da allora ad oggi come ci siamo mossi nel campo della terapia in virtuale?

La realtà virtuale è uno strumento tecnologico che è capace di creare la completa illusione di trovarsi in un posto diverso rispetto a quello reale, sia esso un ambiente fantastico o realistico.

La realtà virtuale costituisce una nuova modalità di conoscenza esperienziale, che pone la persona al centro dell’apprendimento stesso (Lanier & Biocca, 1992). In questa esperienza l’utente è immerso a livello sensoriale in un mondo altro, in cui le percezioni sensoriali provenienti dal mondo “reale” non sono più accessibili. Quando una simulazione virtuale riesce a riprodurre anche le componenti sensoriali oltre a quella visiva e uditiva (es. olfattiva, o tattile) si fa riferimento ad un’esperienza multisensoriale oppure estensiva (“extensivevirtual reality”).

Il poter sperimentare mondi immateriali è permesso dall’immersività, ovvero dal livello di fedeltà sensoriale stesso dell’esperienza virtuale e dal livello di interazione, in cui è osservabile una corrispondenza ben sincronizzata tra movimenti dell’utente e interfacce virtuali.

La presenza è un altro fenomeno fondamentale per lo studio della realtà virtuale come strumento terapeutico, infatti è definibile come la risposta psicologica soggettiva dell’utente all’interno dell’esperienza di realtà virtuale, o meglio, la sensazione di “essere lì” (Blascovich, 2010). Il fenomeno della presenza in realtà virtuale può assumere diverse forme, tra cui quella della presenza spaziale, sociale e dell’auto-presenza.

Le tecniche di rilassamento ed esposizione attraverso la realtà virtuale

Le applicazioni terapeutiche maggiormente esplorate nell’ultimo decennio (Freeman et al., 2017), coinvolgenti l’uso della Realtà Virtuale riguardano (i) le tecniche di rilassamento; (ii) la tecnica dell’esposizione applicata alle componenti ansiose e traumatiche; (iii) la tecnica dell’esposizione applicata ai disturbi alimentari.

Per quanto riguarda il rilassamento, le tecniche di rilassamento con biofeedback sono integrabili al sistema virtuale, misurando la risposta psicofisiologica del paziente (ad esempio tramite rilevazione dell’attività elettrodermica) in corrispondenza a scenari virtuali, con il possibile scopo di esporre il paziente a scenari stressanti, oppure immergerlo al contrario in ambienti rilassanti in cui vi è una guida al rilassamento.

La tecnica dell’esposizione graduale o il flooding sono le tecniche più implementate in realtà virtuale per il trattamento di diversi disturbi (ad esempio disturbi d’ansia). La letteratura scientifica parla di un’efficacia dell’esposizione in realtà virtuale parificabile a quella in vivo, e maggiore rispetto all’esposizione in immaginato (Carl et al., 2019). I vantaggi citati più e più volte dell’esposizione in realtà virtuale sono riassumibili nei seguenti punti: personalizzazione degli stimoli fobici in base alla specificità del disturbo; possibile creazione di una gradualità di esposizione ad hoc; vantaggio ecologico di poter esporre ad ambienti che in vivo comporterebbero un dispendio di risorse importante, tanto da rendere impossibile l’applicazione della tecnica; tutelare la privacy del paziente rimanendo nelle mura dello studio; ed infine il fatto di poter esporre il paziente allo stimolo fobico in un setting protetto. La tecnica dell’esposizione è stata applicata ai disturbi d’ansia, al disturbo da stress post-traumatico, al disturbo ossessivo-compulsivo (esposizione prevenzione risposta) e alle psicosi (Freeman, et al. 2017).

La tecnica dell’esposizione è stata anche spesso usata nel campo dei disturbi alimentari, attraverso la mirror exposure therapy. Grazie alla realtà virtuale, oltre a esperire ambienti immateriali ricreati ad hoc, è possibile anche incarnarsi in corpi ricreati (avatar), con caratteristiche corporee uguali, simili o diverse dalle proprie. Manipolando il corpo virtuale è così possibile indagare le reazioni emotive dell’utente attraverso le risposte fisiologiche dello stesso, le risposte comportamentali e gli atteggiamenti, e di conseguenza lavorare su questi aspetti. Il processo di incarnazione o embodiment emerge quando l’utente percepisce le caratteristiche del corpo avatar come se fossero appartenenti al proprio corpo reale (Maselli & Slater, 2014). La tecnica usata per favorire l’incarnazione consiste in correlazioni visuo-percettive sincrone, ispirate all’illusione della mano di gomma (Botvinick& Cohen, 1998), precedentemente illustrata nell’articolo Embodiment in Avatar in Realtà virtuale: gli effetti a livello comportamentale, cognitivo ed emotivo (Riboli, 2021).

In un recente studio di Porras-Garcia e colleghi (2020), un campione di pazienti con anoressia nervosa è stato esposto sistematicamente e gerarchicamente ad una rappresentazione virtuale della propria forma corporea, il cui indice di massa corporea aumentava progressivamente di sessione in sessione (in totale 5). In base alla compilazione del test Physical Appearance State and Trait Anxiety Scale (PASTAS, Reed et al., 1991), i ricercatori invitavano il partecipante a soffermarsi con lo sguardo su diverse parti del corpo, iniziando con le parti del corpo connesse a minori livelli di ansia esperiti, e procedendo con le aree capaci di generare una maggiore ansia nel soggetto. Ogni trenta secondi il livello di ansia veniva misurato con una scala visuo-analogica (paura di prendere peso e ansia per il corpo 0-100) e quando questo risultava al di sotto del 40% rispetto alla misurazione iniziale, avveniva il passaggio all’area corporea successiva (illuminata per facilitare la focalizzazione del paziente). In seguito ad ognuna delle 5 esposizioni, il paziente veniva esposto ad un ambiente rilassante per una durata di 5 minuti.

Studi come questo (Ferrer-García et al, 2017; Ferrer-Garcia et al., 2019), hanno dimostrato che l’esposizione a stimoli critici (come ad esempio parti del corpo specifiche) in realtà virtuale, può aiutare il paziente, oltre a ridurre i livelli di ansia sperimentati, anche a interrompere il ri-consolidamento dei ricordi negativi relativi al corpo, inquadrati teoricamente come bias cognitivi associati alla modalità di elaborazione visiva (Thompson et al., 1999).

La realtà virtuale multi utente in psicoterapia

Le forme di terapia in Realtà Virtuale precedentemente illustrate si basano su un’integrazione di terapia non virtuale a tecniche precise, quali rilassamento o esposizione. Ma la ricerca scientifica ed i protocolli terapeutici si sono mossi in questi anni anche sull’implementazione di sistemi terapeutici in virtuale capaci di essere “somministrati” a distanza. Tra questi si annoverano i famosi progetti del dottor Freeman, in cui, tramite sistemi di intelligenza artificiale, coach virtuali guidano il paziente in ambientazioni virtuali contraddistinte da specifici task e training. Eppure, una delle nuove frontiere dell’uso della realtà virtuale in campo psicoterapeutico è la realtà virtuale multi-utente, che permette a più utenti di condividere ambientazioni virtuali contemporaneamente. La realtà virtuale multi-user è già usata ampiamente nel campo delle scienze mediche, in particolare recenti studi fanno riferimento all’uso della stessa per permettere a diversi partecipanti (medico, paziente e/o caregivers) di interagire tra loro nel mondo virtuale simultaneamente allo scopo di manipolare oggetti virtuali e ad esempio svolgere della fisioterapia nei casi di ictus (Thielbar et al., 2020; Triandafilou et al., 2018; Tsoupikova et al., 2016).

Questa tecnologia apre ampie possibilità, connesse all’uso della realtà virtuale anche come strumento psicoterapeutico in cui la relazione terapeutica viene vissuta nell’ambiente virtuale stesso, senza essere integrata ad un percorso terapeutico vis-a-vis in reale. Questa modalità terapeutica potrebbe essere semplicemente considerata come la versione 2.0 della psicoterapia a distanza, largamente discussa in questo periodo pandemico (Sars-Covid-19, 2020-2021). Eppure, da un recente studio condotto sull’applicazione terapeutica della realtà virtuale multi-user sono emersi diversi spunti di riflessione intorno ai quali ogni psicoterapeuta dovrebbe interrogarsi.

Le sfide della realtà virtuale multi utente

Nello studio di Matsangidou e colleghi (2020) l’obiettivo era quello di esplorare le sfide della realtà virtuale multi-utente (MUVR), come facilitatore tecnologico per la psicoterapia a distanza. In particolare nel presente studio, lo scopo principale era quello di indagare l’accettabilità dello strumento da parte di psicoterapeuti e di pazienti ad alto rischio di sviluppare un disturbo alimentare, attraverso un’intervista semi-strutturata.

Per indagare in modo ampio la fattibilità della terapia a distanza in virtuale, i ricercatori del presente studio hanno progettato diversi ambienti terapeutici e compiti in VR: (i) il compito dei valori ACT; (ii) terapia del gioco; (iii) terapia dell’esposizione allo specchio. All’inizio di questi tre step il partecipante ha modo di esperire le modalità di utilizzo in realtà virtuale tramite un tutorial introduttivo.

Come ben sappiamo, l’Acceptance and Commitment Therapy (ACT) è una terapia cognitivo-comportamentale che sostiene il paziente nel percorso atto a perseguire i propri obiettivi e valori, ma per fare questo uno dei primi step è quello di far emergere i valori individuali significativi di ciascuno. In questo studio è stato usato il protocollo AcceptME (Karekla&Nicolaou, 2015), un programma di gamification dedicato a pazienti che soffrono di disturbi alimentari o preoccupazioni legate al peso, con l’obiettivo di guidarli nell’accettazione dei propri pensieri e delle proprie emozioni, per poi muoversi a livello comportamentale verso una direzione, nonostante la presenza di queste emozioni e pensieri indesiderati (anche relativi alle forme o al peso corporei) (Hayes et al., 2011). Per lavorare in questa direzione, i ricercatori hanno sviluppato due compiti virtuali in VR in cui il partecipante può entrare in contatto con i propri valori e costruire, secondariamente, una mappa dei propri valori afferrandoli e maneggiandoli. In seguito a questi compiti, i ricercatori si aspettano che i pazienti abbiano una maggiore chiarezza valoriale e di conseguenza le scelte comportamentali possano divenire più semplici da perseguire.

Il secondo step prettamente terapeutico è la play therapy, contraddistinta da due compiti specifici, uno di pittura e l’altro di lancio della palla. Questi giochi sono stati introdotti nel protocollo per ridurre l’impulsività, migliorare la regolazione emotiva, e per esprimere le proprie emozioni e pensieri (Fagundo et al., 2013)

Infine, attraverso la tecnica dell’esposizione allo specchio, il partecipante, o meglio il suo avatar, una figura antropomorfa a fumetti, modificata a somiglianza dai partecipanti stessi, si specchia virtualmente, esponendosi alla propria forma corporea. A poco a poco, l’abbigliamento dell’avatar viene rimosso lasciando l’avatar in intimo, e durante questo processo di disvelamento, viene indicato al partecipante di guardare attentamente ogni parte del proprio corpo dando risalto alle proprie emozioni e ai propri pensieri, così da poter essere discussi con il terapeuta.

In questo studio, una delle maggiori particolarità è la scelta dell’avatar terapeuta, rappresentato da un cartone animato anziché da una figura antropomorfa, coerentemente ai risultati ottenuti nello studio di Lee e colleghi (2012), i quali fanno riferimento ad una riduzione dello stress percepito dal paziente in terapia di fronte alla visualizzazione di figure animate.

Dalle interviste semi-strutturate e dai questionari sull’usability e sul senso di presenza in virtuale compilati dai 14 partecipanti e dai 7 terapeuti, i quali non si sono mai incontrati di persona tra di loro, sono emersi diversi spunti di riflessione importanti relativi a (a) il ruolo della gamification; (b) la figura terapeutica non antropomorfa e alla modalità senza incontro di persona tra paziente e terapeuta; (c) il ruolo dello stress e della paura nell’uso del sistema virtuale da parte degli utenti.

Dalle interviste è emerso da parte di partecipanti e terapeuti come la gamification ha migliorato la comunicazione tra paziente e terapeuta, permettendo ai pazienti di esprimere più liberamente le proprie emozioni, creando un senso di fiducia e comprensione. In questo modo il terapeuta è stato spogliato agli occhi dei pazienti dal suo ruolo autoritario e formale, ritagliandosi anche un ruolo diverso che permette al paziente di relazionarsi in modo più naturale. Detto questo un terapeuta ha riportato come, a suo parere, proporre diverse attività di play therapy possa essere funzionale allo scopo di coprire un ventaglio di opzioni di gioco coerenti con gli interessi dei partecipanti. Infatti ha avuto modo di notare come un paziente sembrava trarre più beneficio dalla pittura, piuttosto che dal lancio della palla, mentre l’altro paziente sembrava più interessato al “basket”. Il vantaggio della gamification è stato anche quello, riportato dai pazienti, di diminuire le preoccupazioni e aumentare la sensazione di calma e tranquillità.

Il fatto che il terapeuta fosse una figura non antropomorfa è stato vissuto dai pazienti come un vantaggio ai fini della propria self-disclosure, in quanto la figura umana viene connotata di uno sguardo giudicante, mentre la figura animata è percepita come meno stressante, implementando positivamente la relazione terapeutica. Il fatto che il terapeuta non sia riconoscibile, e così il paziente agli occhi del terapeuta, nonostante ci sia un avatar a rappresentarlo, ha permesso ai partecipanti di sentirsi sicuri anche nella garanzia della propria privacy.

Per quanto riguarda il ruolo dello stress e della paura nell’uso del sistema virtuale da parte degli utenti, alcuni partecipanti hanno manifestato reazioni fobiche nel setting virtuale, eppure nessuno di essi ha chiesto di interrompere la sessione. Sicuramente i partecipanti con minore conoscenza del sistema virtuale hanno manifestato una maggiore difficoltà. Oltre alla parte iniziale, in cui alcuni si sono sentiti spaesati nel sistema virtuale, alcuni hanno vissuto con forte ansia la tecnica dell’esposizione al proprio corpo. Le reazioni ansiose innanzi al proprio corpo, in questo tipo di popolazione, erano state preventivate dai ricercatori, ed è proprio parte del percorso terapeutico sperimentarle per poi andare a ridurle così come nella realtà, così in virtuale e così in virtuale con terapeuta a distanza. La possibilità di osservarsi e di farsi osservare anche dal terapeuta, contraddistinto dalle caratteristiche citate al punto precedente è sicuramente parte della creazione di nuovi apprendimenti.

Grazie a questo studio, che ha il vantaggio di aprire le danze relativamente alla psicoterapia in MUVR e ai futuri studi, i quali dovranno anche orientarsi nell’ottica della verifica dell’efficacia degli interventi terapeutici a distanza con la realtà virtuale multi-user, ci possiamo spingere verso la possibilità di implementare protocolli comportamentali in cui il terapeuta sente la necessità di affiancare il proprio paziente durante l’esercizio stesso anche nelle terapie a distanza. Così come riflettere sul valore dell’eventuale assenza di informazioni fisiognomiche e non verbali (extra postura, che rimane percepibile) nella relazione terapeutica, sicuramente da un lato in un’ottica di minore stress, ma al contempo perdendo informazioni che potrebbero essere utili nella concettualizzazione del paziente. Inoltre, in aggiunta ai classici strumenti a disposizione nelle terapie online a distanza non virtuali, anche la possibilità di cogliere i movimenti del corpo di un paziente anche se mediati da un avatar. Questi sono alcuni esempi, ma la potenzialità dello strumento permetterebbe anche terapie di gruppo in realtà virtuale a distanza, oltre all’implementazione di diversi protocolli terapeutici, godendo della presenza simultanea di terapeuta e paziente, senza sacrificare le capacità del virtuale. Indubbiamente questo terreno pone nuovamente i terapeuti in quell’ottica di continuo aggiornamento e interlocuzione riflessiva tipica del lavoro psicologico.

I giovani e il Covid-19

La mancanza di libertà che abbiamo vissuto e, in parte, stiamo vivendo a causa del Covid rappresenta per gli adolescenti un importante disagio.

 

Il 31 dicembre 2019 le autorità sanitarie cinesi hanno rilevato un focolaio di casi di polmonite a eziologia non nota nella città di Wuhan. Successivamente le stesse autorità hanno confermato la trasmissione interumana del virus e l’11 febbraio l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha annunciato che la malattia respiratoria causata dal 2019-nCoV è stata chiamata COVID-19 (Corona Virus Disease) (Buccolo M., Ferro Allodola V., Mongili S., 2020).

Da febbraio 2020 il Covid-19 ha repentinamente cambiato la vita all’intera popolazione globale, con importanti ripercussioni sul benessere psicosociale dell’intera collettività: tutti noi, infatti, ci siamo ritrovati in una progressiva condizione di allarme, a causa di un virus che ci ha allontanati gli uni dagli altri, costringendoci a rimanere chiusi in casa.

Inizialmente, mossi dalla paura e dalla inesperienza, la prova più grande da superare è stata imparare come mettere e levare i guanti una volta tornati a casa, come disinfettare nel modo corretto le mani, non salutare le persone con una stretta di mano o con un abbraccio ma con il tocco di un gomito, tenere sempre la mascherina e tanto altro.

In realtà la reale e cruda sfida alla quale siamo stati costretti è la capacità di adattamento. Il Covid-19 ci ha costretti a rivedere il nostro concetto di libertà, a rinunciare a ciò che sembrano essere le cose più ovvie, come abbracciare un amico, per il bene di tanti; abbiamo dovuto riorganizzare la nostra routine, combattere con la voglia di rimanere tutto il giorno in pigiama, abbiamo dovuto sopportarci e supportarci all’interno delle nostre quattro mura domestiche, che ormai erano diventate il nostro mondo, dove l’unica finestra alla quale potevamo affacciarci era la televisione. Si è trattato di una «situazione che ha impedito di attingere a delle risorse per fronteggiare i consueti problemi», come ha scritto la psicoanalista Costanza Jesurum su una pagina di L’Espresso (Jesurum C., 2020).

E quindi stavamo lì, sul divano, tutti i giorni alle 18 in punto, in attesa del “bollettino” del giorno, in cui si parlava di numeri difficili da quantificare, che facevano impressione solo quando ti fermavi a pensare che quel numero erano persone, genitori, fratelli, amici, che non c’erano più e che non potevano essere neppure salutati un’ultima volta.

Fin da subito i media hanno sottolineato la scarsa vulnerabilità dei più piccoli agli effetti sistemici del virus: questo ci ha dato un’apparente tranquillità e serenità, sapendo che un male così terribile non avrebbe toccato i nostri figli.

Tuttavia, il benessere dei più piccoli appare assediato allo stesso modo degli adulti, a causa del riflesso delle condizioni familiari, emotive e psicologiche di chi li circonda. Per tutto il tempo, i bambini hanno respirato e continuano a respirare l’aria che li circonda, densa di incertezze, paure e pensieri. Secondo l’UNICEF, almeno 139 milioni di bambini ed adolescenti nel mondo hanno vissuto per almeno 9 mesi un regime restrittivo obbligatorio di permanenza a casa e per poco meno di 200 milioni la permanenza a casa è stata raccomandata (UNICEF, 2021).

Dalle prime fasi della pandemia, l’Istituto Giannina Gaslini di Genova ha attuato un programma di sostegno e di monitoraggio delle condizioni dei bambini e delle loro famiglie, con l’ulteriore obiettivo di individuare precocemente possibili situazioni di criticità in ambito psichico comportamentale (Uccella S., 2020). Tale programma non ha solo fornito un aiuto nella fase acuta della pandemia, ma ha anche permesso di attivare un nuovo servizio, che potrebbe ridurre i rischi di sintomatologie post-traumatiche perduranti nel tempo (Ibidem).

Dall’analisi dei dati di famiglie con figli minori di 18 anni a carico è emerso che nel 65% e nel 71% dei bambini con età rispettivamente minore o maggiore di 6 anni sono insorte problematiche comportamentali e sintomi di regressione. Nei bambini al di sotto dei sei anni, i disturbi più frequenti sono stati l’aumento di irritabilità, disturbi del sonno e disturbi d’ansia. Nei bambini ed adolescenti (6-18 anni) i disturbi più frequenti interessano la componente somatica (disturbi d’ansia e somatoformi) e disturbi del sonno; in particolare è stata osservata un’aumentata instabilità emotiva con irritabilità, cambiamenti del tono dell’umore ed una significativa alterazione del ritmo del sonno con tendenza al “ritardo di fase”, come in una sorta di “jet lag domestico” (Ibidem).

Oltre a quanto emerso da questi dati, è bene considerare che non tutti i bambini o adolescenti manifestano le stesse reazioni psicologiche. La National Child Traumatic Stress Network (NCTSN) ha evidenziato alcuni indicatori da tenere in considerazione rispetto al benessere dei propri figli (Brymer M., Schreiber M., Gurwitch R., Hoffman D., Graham M., Garst L., Speier A., 2020):

  • I bambini di 2 anni possono piangere più spesso del solito e richiedere più attenzioni e affetto, mentre i bambini in età prescolare possono presentare comportamenti regressivi, come episodi di enuresi, ansia da separazione dalle figure genitoriali, capricci o manifestazioni di rabbia e difficoltà nel sonno;
  • I bambini tra i 7 e 10 anni possono sperimentare tristezza o paura che l’emergenza possa ripresentarsi; inoltre, alcuni bambini possono manifestare difficoltà di concentrazione o focalizzarsi sui dettagli dell’evento e parlarne durante buona parte della giornata, mentre altri possono manifestare evitamento;
  • I preadolescenti ed adolescenti possono manifestare disturbi comportamentali o, d’altro canto, ridurre il tempo di frequentazione con i pari. Possono talvolta sperimentare vissuti emotivi di elevata intensità e sentirsi incapaci di esprimerli a parole, manifestandoli così attraverso irritabilità e comportamenti oppositivi verso fratelli, genitori o altri adulti;
  • I bambini con neuro-diversità o problematiche psicologiche, infine, possono sperimentare uno stress più intenso ed un minore senso di controllo, necessitando quindi di maggiori rassicurazioni ed un maggiore conforto attraverso il contatto fisico.

Nella realtà italiana, ad alcuni mesi dall’inizio della pandemia, numerose strutture ospedaliere con posti letto dedicati alla gestione dell’emergenza-urgenza psichiatrica in età adolescenziale hanno segnalato un allarmante aumento di accessi al pronto soccorso e di ricoveri di ragazzi e ragazze in stato di sofferenza psicologica acuto (Lo Parrino R., Landi M., Leonetti R., 2021). Il motivo principale di tali accessi è dovuto all’autolesionismo, ai disturbi alimentari, al consumo di sostanze d’abuso, sino ad arrivare a tentati suicidi, ai quali si affiancano disturbi di panico e d’ansia acuti e stati dissociativi con alterazioni senso-percettive (Ibidem).

La mancanza di libertà che abbiamo vissuto e, in parte, stiamo vivendo, rappresenta per gli adolescenti un importante disagio. La libertà è un bisogno primario degli adolescenti, poiché permette loro di dare un senso ed una forma al processo di individuazione e concretizzazione di un’identità e fiducia nelle proprie capacità (Biondi G., 2020). La chiusura delle scuole, non avere la possibilità di ritrovarsi con gli amici e il lockdown hanno messo in pausa momenti di sperimentazioni, mediazioni, conoscenze importanti nella vita di un adolescente.

Così come i più piccoli, anche e soprattutto gli adolescenti si troveranno costretti ad affrontare delle difficoltà dovute ai tanti cambiamenti che si concretizzeranno una volta finita la pandemia. Dover riprendere a frequentare la scuola in presenza, poter uscire con gli amici, andare a cena fuori, incontrarsi in piazza, saranno “comportamenti normali”, che avranno un sapore diverso dal solito.

Difatti non sono pochi gli adolescenti che manifestano un certo timore del “fuori”: i giovani manifestano un’ambivalenza tra il forte desiderio di poter uscire e riprendere i legami e l’insicurezza per come sarà vivere tutto questo con le mascherine, i distanziamenti e le limitazioni a cui sono obbligati (Biondi G., 2020). In questo è necessario che intervengano gli adulti, pronti ad accogliere questo loro senso di inquietudine, così da farli sentire ascoltati, capiti ed aiutati e così da concedere loro una chiave di lettura a ciò che stanno provando.

Dunque, appare evidente come, seppur non ad alto rischio di infezione, i bambini e gli adolescenti sono soggetti estremamente vulnerabili in questa pandemia da Covid-19: i ragazzi necessitano grandi attenzioni e cure non solo per proteggerli dall’infezione di un virus, ma anche per salvaguardarli da un punto di vista emotivo e psicologico. Concludendo con le parole del Direttore generale UNICEF, Henriette Fore: «Se non abbiamo compreso pienamente l’urgenza prima della pandemia da COVID-19, sicuramente lo faremo adesso» (UNICEF, 2021).

 

Self-efficacy e sport: quando l’autoefficacia percepita fa la differenza

Il senso di autoefficacia è la percezione che l’atleta ha delle proprie possibilità di raggiungere il successo nell’esecuzione di un compito, e cioè il senso di competenza, di “poter fare”.

 

Gli sport agonistici richiedono requisiti molto elevati negli atleti in termini di prestazioni fisiche e psicologiche. Gli atleti sono chiamati a resistere a stress significativi sia durante la competizione che durante l’allenamento quotidiano, il tutto fin dalla tenera età iniziale richiesta dagli sport di alto livello.

Self-efficacy

L’autoefficacia (self-efficacy) viene definita da Bandura come “la fiducia che una persona ripone nella propria capacità di affrontare un compito specifico”. Il senso di autoefficacia agisce quindi come spinta motivazionale, può essere infatti considerato il motore dell’azione.

Gli effetti positivi di un buon senso di autoefficacia si estendono anche alla continuità dell’impegno, alla persistenza nel tempo dello sforzo, nonché alla creatività e alla libertà di operare autonomamente delle scelte.

Autoefficacia e attività fisica

McAuley (1992) considera l’autoefficacia e l’attività fisica in una relazione circolare, dove chi si sente più efficace è maggiormente portato ad intraprendere l’attività fisica, ma anche dove chi fa attività fisica sperimenta sentimenti di maggior efficacia personale. È quindi presente un’autoefficacia iniziale che spinge l’individuo a praticare attività fisica. (Figura 1)

Situazioni di stress e competizione

Le abilità atletiche richiedono un lungo periodo di sviluppo e perfezionamento. Durante questo processo evolutivo, gli aspiranti atleti devono riuscire a tenere duro nelle difficoltà e a non abbandonare mai la speranza quando si trovano di fronte a ostacoli scoraggianti e ai fin troppo comuni giudizi scettici sulle loro capacità di riuscita. È necessaria una salda convinzione di autoefficacia per sostenere l’impegno necessario a convertire le potenzialità in competenza atletica.

In vari sport, il livello del senso di efficacia è il fattore psicologico che, fra gli atleti d’élite, differenzia più attendibilmente quelli che hanno successo da quelli che ne hanno meno (Mahoney, 1979).

I processi psicologici attivati dalle convinzioni di efficacia influenzano quasi tutti gli aspetti del funzionamento atletico. Gli atleti devono lavorare duramente e a lungo per padroneggiare le abilità richieste dal loro sport e per tenere duro di fronte ad ostacoli, stressor o infortuni.

Un aspetto che contraddistingue gli atleti di successo è la capacità di gestire gli stressor nella competizione e momenti sfavorevoli con un incrollabile senso di efficacia. Chi ha un senso di efficacia elevato aumenta le aspirazioni e migliora il livello delle prestazioni; chi ha un senso di efficacia moderato si accontenta e riposa sugli allori; chi dubita di poter ripetere il successo per cui ha tanto faticato riduce le aspirazioni e la motivazione personale.

È facile restare fedeli ai propri obiettivi sportivi quando i successi arrivano senza troppa fatica. Ma è difficile continuare a perseguire obiettivi impegnativi quando gli insuccessi, i passi falsi e lunghi periodi di difficoltà li fanno apparire al di là della propria portata. In circostanze scoraggianti come queste, le convinzioni di efficacia contribuiscono a rafforzare il sostegno offerto dagli obiettivi preposti. (Bandura, 2014)

L’autoefficacia è rappresentata dalla fiducia nelle proprie capacità per affrontare una situazione competitiva che può influenzare fortemente la prestazione.

Atleti con capacità simili e un diverso grado di sicurezza di sé non forniscono prestazioni dello stesso livello. Gli atleti dotati ma tormentati da dubbi su di sé hanno prestazioni molto inferiori alla loro possibilità, e quelli che hanno meno talento ma sono molto più sicuri di sé possono superare avversari più dotati che non credono nelle proprie capacità. Tali discrepanze tra capacità e risultati mettono in luce l’importante contributo delle convinzioni di efficacia nella performance sportiva.

Gli sport agonistici rivelano la fragilità del senso di efficacia. Una serie di insuccessi capace di indebolire la convinzione della propria efficacia crea una crisi prestazionale negli atleti professionisti che, a causa delle loro insicurezze, non mettono adeguatamente a frutto le loro abilità nonostante ne abbiano completa padronanza e la loro stessa sussistenza poggi sulla qualità delle loro prestazioni sportive.

La motivazione e la prestazione secondo Locke sono regolate dagli obiettivi che le persone scelgono di perseguire e la considerazione di sé risulta essere un forte fattore motivazionale.

A parità di doti atletiche, le proprie convinzioni di efficacia sportive sono già un predittore di chi sceglierà di intraprendere certe attività sportive e in che misura queste persone miglioreranno le loro abilità partecipando a programmi di allenamento. Gli atleti che superano questo processo di selezione altamente competitivo possiedono, oltre al talento naturale per l’attività sportiva scelta, la capacità di motivarsi abbastanza da affrontare un processo lungo e impegnativo di continuo perfezionamento.

Quando si compete con avversari molto capaci, vincere o perdere può dipendere anche da un breve calo di attenzione o di impegno o di precisione.

Nell’ambiente sportivo si riconosce da tempo l’importanza di un resiliente senso di efficacia per una prestazione ottimale. In condizioni di forte pressione competitiva, per eseguire efficacemente le abilità apprese, gli atleti devono esercitare un controllo sugli effetti inabilitanti tipici delle attività atletiche agoniste (stressor, cali di motivazione, affaticamento…).

Dallo sport allo sviluppo sociale e cognitivo

La convinzione di autoefficacia è stata studiata ampiamente nell’ambito sportivo poiché rappresenta un importante fattore per la promozione del successo, data l’influenza che esercita sull’atleta, sia nella fase di competizione, sia in quella di allenamento. Il successo di conseguenza aumenterà la fiducia in sé e l’autostima, l’insuccesso la farà diminuire.

Lo sport è un‘attività idonea sia per migliorare abilità fisiche sia per migliorare lo sviluppo cognitivo e sociale in altri ambiti.

L’esperienza sportiva non solo influenza la percezione fisica dell’atleta, ma si traduce in sicurezza nelle proprie capacità, autocontrollo e gestione dello stress.

 

L’impatto dell’emergenza sanitaria dovuta al Covid-19 sui medici anestesisti rianimatori

Il Congresso ICARE2021, della Società Italiana di Anestesia, Analgesia, Rianimazione e Terapia Intensiva – Siaarti, ha analizzato l’impatto della pandemia sui medici anestesisti rianimatori.

 

In un recente articolo pubblicato su Doctor33.it, vengono riportati i dati esposti al Congresso ICARE2021 riguardanti l’impatto della pandemia sui medici anestesisti rianimatori.

Pandemia, operatori sanitari e burnout

Come sappiamo la diffusione del Covid-19 ha influenzato la popolazione mondiale con conseguenze sulla mentale soprattutto in termini di sintomatologia ansiosa e/o depressiva (De Mola, 2020), ma particolarmente significativo è stato il vissuto degli operatori sanitari che si sono occupati in modo diretto di questi pazienti e si sono trovati ad affrontare un carico importante sia dal punto di vista pratico che da quello emotivo.

Gli operatori sanitari sono generalmente esposti al rischio di burnout, caratterizzato da logorio psicofisico ed emotivo e da vissuti di ansia, insofferenza, demotivazione e disinvestimento emotivo. In particolare, nella situazione pandemica, si sono aggiunte o enfatizzate condizioni che hanno aumentato il carico di stress, tra queste la costante esposizione al pericolo di contrarre la malattia e di poter contagiare i propri cari, l’esposizione continua alla malattia e alla morte, non solo dei pazienti, ma anche dei colleghi, con un’esposizione ripetuta ad eventi traumatici ed infine un sovraccarico di lavoro legato al dover svolgere turni eccessivamente lunghi e al doversi fare carico del paziente non solo dal punto di vista medico, ma anche dal punto di vista emotivo ed assistenziale, parte di cui di solito si occupano i familiari (Scarola, 2020).

Il burnout nei medici anestesisti rianimatori

Tra gli operatori maggiormente coinvolti rientrano i medici anestesisti rianimatori, che si occupano dei pazienti in sala operatoria ma anche di quelli in rianimazione, motivo per cui il loro lavoro è stato estremamente intenso nei periodi con il numero di contagi più elevato.

Durante il Congresso ICARE2021 sono stati presentati i risultati di una survey che ha raccolto i risultati di una serie di questionari somministrati a 1042 anestesisti rianimatori con lo scopo di osservare l’impatto del Covid-19 su questa specifica categoria; i questionari utilizzati nella ricerca sono stati il Maslach Burnout Inventory (MBI), il Resilience Scale (RS-14), il Coping Inventory to Stressful Situations (CISS) e l’Intolerance of Uncertainty Scale-Revised (IUS- R) (Doctor33).

Analizzando il rapporto tra livelli di burnout, caratteristiche socio-demografiche e variabili legate al contesto lavorativo, sono emersi quattro profili di anestesisti rianimatori durante l’emergenza sanitaria:

  • resilienti (33% dei partecipanti), caratterizzati da elevate capacità di gestione della condizione lavorativa e dello stress correlato;
  • in burnout (20% dei partecipanti), professionisti che hanno sperimentato grave disagio professionale con alti livelli di esaurimento emotivo e depersonalizzazione e scarsa gratificazione operativa;
  • in riserva emotiva (20% dei partecipanti), medici che hanno accumulato fattori preoccupanti di stress e di esaurimento emotivo, gruppo costituito in maggioranza da donne e da una popolazione anagraficamente giovane;
  • in distacco (27% dei partecipanti), operatori che hanno maturato un atteggiamento difensivo, con l’allontanamento dalle condizioni umane, emotive e tecniche del lavoro e delle persone in esso coinvolte (pazienti, colleghi, altri operatori), gruppo costituito in maggior percentuale  da uomini.

Il quadro emerso dallo studio ha considerato il periodo legato al Covid-19, ma:

Ha insegnato che è indispensabile inglobare nella formazione specialistica le competenze comunicative e relazionali – ha spiegato Maria Grazia Frigo, Responsabile Anestesia Ostetrica presso FBF Isola Tiberina Roma – Questo diventa possibile attraverso una formazione continua finalizzata alla ‘manutenzione’ del benessere psicosomatico degli anestesisti rianimatori in modo da potenziarne la resilienza anche in funzione di una gestione proattiva del rischio clinico.

Infine, date le condizioni di estrema fatica e complessità in cui gli operatori sanitari lavorano, diventa importante essere solleciti nel fornire loro un adeguato e repentino sostegno anche dal punto di vista psicologico (Scarola, 2020).

 

Leggi l’articolo originale:
Covid-19 e burnout medici. Ecco l’impatto dello stress pandemico sugli anestesisti rianimatori

 

Breve trattato sulla stupidità umana (2021) di Ricardo Moreno Castillo – Recensione

Breve trattato sulla stupidità umana è un trattato breve quanto ricco di parecchie verità, scritte in maniera impeccabilmente tagliente. E scomoda (se non altro per gli stupidi).

 

[…] Non vi è peccato al di fuori della stupidità

Un trattato breve quanto ricco di parecchie verità, scritte in maniera impeccabilmente tagliente. E scomoda (se non altro per gli stupidi). Una denuncia contro i mali generati dalla stupidità umana, che, come scrive Moreno Castillo, è così dilagante nelle società perché la stupidità è, ahinoi, “sovvenzionata”. Gli stupidi sono dappertutto. Pensiamo ai politici: la maggioranza pecca di stupidità, o perché lo è davvero, oppure perché è più conveniente. Di fatto, raramente chi non lo è raggiunge il successo, così come raramente idee generate da menti intelligenti riescono a trovare un campo fertile di attuazione, se non prima di essere ostacolate (a volte per tempi biblici) dall’idiozia circostante. La stupidità, va detto, non è l’opposto dell’intelligenza e, infatti, essa non può essere misurata attraverso test d’intelligenza; tuttavia forse esiste un indicatore sottile per definire una persona stupida: la cattiveria.

Castillo cita Unamuno, il quale con altrettanta durezza, afferma: “Non esistono degli sciocchi buoni. Lo sciocco, che in più ama le burle, mastica l’amaro boccone dell’invidia.” Non è sempre facile – aggiunge l’autore – discernere la linea sottile che separa la stupidità dalla malvagità, sebbene sia innegabile che “la perversione manca di ogni grandezza e profondità. Ed è la conseguenza della volgarità e della stupidità”. Dunque cosa fare quando ci si imbatte in qualche stupido? Come combattere la stupidità? Castillo fornisce quattro “regole”, con le quali conclude il suo trattato filosoficamente brillante. Il comune denominatore è sicuramente la conoscenza di sé. Da Socrate abbiamo ereditato il motto: “Conosci te stesso” e per conoscere noi stessi la prima condizione è ammettere le nostre possibilità e i nostri limiti, liberarci dalla presunzione di sapere tutto. Socrate andrebbe fiero di Castillo; se quest’opera fosse stata scritta nel 400 a. C. forse avrebbe preso il nome di: De stupiditate, e sarebbe rimasto tra i testi più illuminanti di sempre da cui partire per poter migliorare la propria condizione di “non sapiente”. Un piccolo manuale di sopravvivenza alla stupidità, che solo gli stupidi non vorranno leggere.

 

Un costrutto di base della psicologia sociale: l’aspettativa – Terza parte

La funzione primaria delle aspettative è quella di guidare il comportamento in vista dei nostri obiettivi a breve come a lungo termine.

Ndr – Il presente articolo è il terzo di una serie di tre articoli sul tema delle aspettative. Il primo e il secondo articolo sono stati pubblicati nei giorni scorsi su State of Mind

 

Negli articoli precedenti si è cercato di fornire un quadro informativo chiaro e ampio, anche e certamente non esaustivo, sull’aspettativa, uno dei costrutti di base della psicologia sociale. Nella prima parte si è fornita la definizione di cosa sia un’aspettativa e alcuni spunti per comprenderne il suo ruolo fondamentale di guida per il comportamento. Nella seconda parte sono stati esposti i parametri in base ai quali comprenderne la natura ed, eventualmente, valutarne la validità qualora fossimo in grado di cogliere quelle aspettative che ci guidano in una determinata situazione.

In questa terza parte verrà descritto il loro impatto, pressoché ubiquo, sulla nostra vita quotidiana. La ragione di fondo sta nel fatto che queste credenze riguardanti eventi futuri soggettivamente stimati come probabili (Roese & Sherman, 2007) influenzano il nostro comportamento, i nostri pensieri e le nostre emozioni. Ma trattiamoli in ordine.

Come visto in precedenza, inizialmente, di fronte a una situazione nuova, l’aspettativa che si crea possiede una struttura molto semplice, basata sull’associazione tra elementi che la nostra mente astrae dal contesto. Con l’accumulo di esperienze questi elementi tendono ad essere organizzati in reti complesse e altamente flessibili, che ci permettono di realizzare un buon grado di adattamento nelle diverse situazioni che incontriamo, risparmiandoci lo sforzo di cercare di ‘mettere a fuoco’ le situazioni e facendoci conservare tempo e risorse mentali che potremo, così, utilizzare per rispondere con maggiore efficienza alle richieste ambientali.

La funzione primaria delle aspettative è quella di guidare il comportamento in vista dei nostri obiettivi a breve come a lungo termine, in relazione ai quali siamo messi nella possibilità di creare piani di azione più o meno complessi, che considerino anche l’evoluzione delle circostanze nel tempo. Molti fenomeni noti ormai da tempo in ambito clinico e di ricerca possono aiutarci a comprendere questa funzione (Roese & Sherman, 2007).

Uno di essi è la ‘facilitazione del successo’ (Oettingen & Mayer, 2002), ovvero il fenomeno in base al quale possedere credenze positive sul proprio successo futuro ha effetti facilitatori sull’impegno personale, sulla persistenza nel compito, sulla creazione di piani per raggiungere gli obiettivi e, in ultima istanza, sull’effettiva riuscita e il raggiungimento dei propri scopi.

Un altro fenomeno è quello dell’optimistic bias shift (Taylor & Gollwitzer, 1995), in base al quale un corso d’azione già intrapreso determina lo slittamento delle proprie aspettative verso una prospettiva maggiormente ottimistica, soprattutto se il soggetto possiede verso i propri obiettivi un orientamento di fondo mirante al perseguimento dei risultati desiderati (in contrapposizione all’evitamento di risultati temuti; Higgins, 1997).

Altri fenomeni, noti in clinica, sono poi l’anticipazione del fallimento in chiave difensiva dell’autostima, come anche l’anticipazione di problemi che potrebbero presentarsi, quest’ultimo fenomeno utile a spingere il soggetto alla ricerca e alla pianificazione di soluzioni ad hoc, a considerare le conseguenze potenziali delle proprie decisioni e a ipotizzare piani d’azione legati alle diverse contingenze possibili (Sanna, 2000).

Un fenomeno molto noto presso il grande pubblico è, infine, quello della self-fulfilling prophecy, dove i processi cognitivi e il comportamento procedono in maniera da selezionare, prestare maggiore attenzione e agire in base alle informazioni ambientali che risultano essere coerenti con le aspettative che si possiedono (ad esempio: Chen & Bargh, 1997). Quando le aspettative sono irrealisticamente fallimentari o eccessivamente pessimistiche il risultato è che il soggetto diviene l’artefice e il promotore delle proprie sconfitte, con il risultato conseguente, spesso, di esacerbare visioni del mondo negative e disperate, come anche alimentare – come accade ad esempio nel disturbo d’ansia sociale – difficoltà altamente frustranti.

L’impatto sul comportamento è di primaria importanza per comprendere la funzione delle aspettative e si accosta all’impatto delle aspettative sulla cognizione e sulle emozioni provate dal soggetto.

In generale, dal punto di vista cognitivo le aspettative guidano l’elaborazione delle informazioni in modi che tendono a confermarle. Partendo da questa premessa è possibile poi considerarne l’impatto su alcuni processi cognitivi fondamentali (Roese & Sherman, 2007).

L’influenza delle aspettative sui processi attentivi

In primo luogo, l’influenza sui processi attentivi e sulla ricerca delle informazioni. Le aspettative possono essere paragonate a ipotesi che il soggetto verifica grazie alle informazioni ricevute dall’ambiente (Klayman & Ha, 1987). Nel caso l’ipotesi venga disconfermata, l’informazione ottenuta verrà considerata inattesa e nuova, il soggetto sperimenterà la sensazione che ‘c’è qualcosa che non va‘ (esperienza di disfluenza percettuale e/o semantica) e l’attenzione verrà focalizzata sulla fonte di informazione incongrua con le previsioni (Barthalaw, Fabiani, Gratton & Bettencourt, 2001), allo scopo di darle senso e utilizzarla per adattarsi alla situazione.

Rispetto ai processi di codifica, le aspettative possono influenzare il modo in cui interpretiamo gli eventi, fornendo un quadro di riferimento in base al quale cercare ulteriori informazioni da utilizzare per valutare il proprio agire. L’informazione che conferma le aspettative tende a essere compresa più facilmente, viene processata in maniera inconsapevole e inattenta ai dettagli e, infine, tende a definire il modo in cui un evento rappresentato in memoria e, quindi, come viene ricordato. La stessa cosa avviene quando le informazioni rilevate nell’ambiente sono incongruenti con l’aspettativa. In questo caso, però, la loro elaborazione in genere è più approfondita e i dettagli analizzati con maggiore attenzione, per permettere la creazione di una traccia mnestica unitaria e distinta (Sherman, Lee, Bessenhoff & Frost, 1998). In entrambi i casi lo scopo principale è fornire alla persona un quadro il più possibile fedele alle circostanze in cui si trova e in cui in futuro potrebbe ritrovarsi, per promuoverne (come detto negli articoli precedenti) l’adattamento.

Aspettative e memoria

Altri processi cognitivi influenzati in maniera importante dalle aspettative, come intuibile dalle righe precedenti, sono relativi alla memoria. Per quanto riguarda il recupero di ricordi e il riconoscimento delle situazioni, entrambi i processi risultano facilitati per eventi nel passato giudicati inattesi, in ragione di un maggior tempo di elaborazione delle informazioni ambientali da parte della memoria di lavoro nel tentativo di darvi senso in relazione alle nostre aspettative (Sherman et al., 1998).

Cosa accade in questi casi? La ricerca ci informa che di fronte a una disconferma l’aspettativa è sottoposta a una revisione nei termini della modifica riparativa o di una ristrutturazione completa, effettuate tramite il tentativo di attribuire un’origine alla disconferma (attribuzione causale), il pensiero controfattuale, (Se fosse avvenuto x, la conseguenza sarebbe stata y) o , infine, per mezzo della percezione – distorta – che il risultato inatteso era in realtà prevedibile e ovvio (hindsight bias). Il prodotto di queste tre attività risulterà in uno di questi possibili esiti inferenziali, che daranno senso alle informazioni inattese (Roese & Sherman, 2007):

  • l’informazione discrepante con l’aspettativa è ignorata;
  • l’informazione discrepante è marcata come caso eccezionale, ma non elaborata oltre;
  • l’informazione discrepante è considerata come eccezione alla regola generale, l’aspettativa originaria è ampliata e il comportamento dell’individuo diviene più flessibile;
  • L’aspettativa viene completamente rivalutata;

Aspettative ed emozioni

Per terminare con questo breve resoconto degli effetti delle aspettative sull’individuo che le possiede, vanno infine considerate le relazioni che intercorrono tra esse e le emozioni.

La funzione delle emozioni, in questo caso, è quella di segnali regolatori che indicano lo stato del progresso verso uno scopo considerato desiderabile o dell’evitamento di qualcosa considerata nociva. Rispetto a ciò possiamo avere, in generale, stati di affettività positiva (orgoglio, sentimenti di ‘starcela facendo’ etc.) oppure di affettività negativa (sentimenti di inutilità, sensazione di stare ‘perdendo slancio’ etc.). Le emozioni, nel primo caso, segnaleranno al soggetto che è in atto un effettivo progresso nei confronti dei propri obiettivi mentre, nel secondo caso, segnaleranno che i progressi non sono quelli attesi e che è necessario fare qualcosa perché questo stato di cose cambi (meccanismi regolatori di feedback). Questi fenomeni, a loro volta, avranno un impatto sulle cognizioni e sul comportamento. Ad esempio, nel caso dell’affetto positivo, tra le altre, avremo l’adozione di una prospettiva maggiormente ottimistica del progresso verso i risultati, un’attesa di maggiori guadagni futuri e maggiore persistenza e impegno nel perseguire gli obiettivi. Nel caso dell’affetto negativo, alcune conseguenze includono l’attivazione di processi di problem solving, la revisione delle aspettative, la diminuzione degli sforzi nel perseguire l’obiettivo fino anche alla rinuncia, come anche la revisione dei propri piani per raggiungere gli obiettivi prefissati (vedi ad esempio, Carver & Scheier, 1998).

Conclusioni

Alla fine di questo viaggio nel mondo delle aspettative sorge spontanea una domanda che spesso accompagna il non specialista quando legge di psicologia: ‘Ma tutto questo a che cosa serve?’.

Le aspettative ci guidano dal momento in cui apriamo gli occhi la mattina – quando ci alziamo sapendo che le cose saranno tutte al posto dove le abbiamo lasciate, che il bagno funzionerà, che la cucina non esploderà quando accenderemo i fornelli per fare il caffè – al momento in cui ci addormentiamo nel nostro letto, certi del fatto che l’ambiente in cui ci troviamo è prevedibile e (si spera) sarà molto improbabile che qualsiasi evento strano accadrà mentre dormiamo. Le aspettative ci guidano continuamente, ci dicono dove e con chi proveremo probabilmente emozioni positive, ci indicano a chi avvicinarci e chi evitare, ci dicono come comportarci e i passi da fare per ottenere i nostri obiettivi a breve e lungo termine, ci permettono di adattarci a situazioni per noi nuove e ci indicano come comportarci in situazioni di pericolo.

La domanda, insomma, dovrebbe essere ribaltata piuttosto in: ‘C’é qualcosa che facciamo per la quale non abbiamo bisogno di aspettative?’. La risposta per chi scrive è un netto no.

 


UN COSTRUTTO DI BASE DELLA PSICOLOGIA SOCIALE: L’ASPETTATIVA – LEGGI TUTTI GLI ARTICOLI DELLA SERIE:

 

Contenitore e Contenuto

Il contenitore non può esistere senza un contenuto come il contenuto non ha senso di essere in assenza di un contenitore.

 

Essi sono poi assolutamente sovrapponibili, dato che il contenitore è pur sempre contenuto ed il contenuto allo stesso modo contiene.

Emozioni e pensiero, senso di appartenenza e necessità di individuazione, soggetto ed oggetto. La segreta alchimia che sottende alla capacità di giudizio dell’individuo e delle masse, la potenzialità di scegliere razionalmente solo se guidati dai sentimenti.

In un campo complesso come quello della psicoterapia e della psicoanalisi Gaburri e Ambrosiano in Ululare con i lupi. Conformismo e rêverie esprimono alcune perplessità riguardo alla tendenza sociale, e non solo, a “ululare con i lupi”. Il bisogno e desiderio di appartenenza ad un gruppo richiedono necessariamente la rinuncia parziale alla propria individualità ed auto affermazione. L’essere “conformi” alla mentalità di gruppo. Questo non è necessariamente dannoso per l’individuo. Far parte di un gruppo non solo offre un rifugio dall’incertezza ed il dubbio, ma permette di testare le proprie capacità relazionali e l’integrità del nostro Sé. Ma quando il soggetto non ha sviluppato una sufficiente emancipazione la paura può ostacolare quella che è definita rêverie, termine utilizzato da Bion per descrivere la capacità della figura materna di accogliere emozioni e sentimenti senza nome del bambino e farsi “contenitore” riducendo il suo malessere, accudendolo ed aiutandolo nel processo di crescita e formulazione del pensiero verbale. Questa funzione non è così lontana da quella del terapeuta che deve essere pronto ad accogliere questi elementi non ancora definiti senza la fretta di volerli interpretare. Fare appunto da “contenitore”, come in una reazione chimica.

“Offrire l’opportunità che gli elementi mentali si mescolino, si intreccino, creino nessi e differenze in forme nuove…come in una nuova soluzione chimica che innesca reazioni diverse, riorienta il sistema, e sviluppa organizzazioni mentali inedite.”

Quando anche il terapeuta si mette ad “ululare con i lupi” questa riformulazione, questo perturbare un sistema (quello del paziente e del terapeuta stesso) diviene più macchinoso e meno efficace. Quando il terapeuta non lascia che le emozioni siano parte integrante del ragionamento logico nella seduta psicoterapica dimentica il significato di “relazione”, di qualsiasi genere, ponendo un filtro al “contenuto” del paziente. Eppure Damasio, pur tenendo ben presente quanto pericolose possano essere le nostre emozioni nel prendere una decisione, afferma che “certi aspetti del processo dell’emozione e del sentimento sono indispensabili per la razionalità” e che “nei casi migliori, i sentimenti ci volgono nella direzione giusta, ci conducono al luogo appropriato di uno spazio decisionale nel quale possiamo fare bene operare gli strumenti della logica.

In un mondo dove l’omologazione e la rinuncia alla propria individualità stanno guadagnando sempre più terreno è doverosa la presenza di un conflitto, quello tra “narcisismo e socialismo”, intesi come la naturale tendenza ad una battaglia interna tra “adesione alla mentalità di gruppo e pensiero individuale, conformismo e rêverie.

Contaminare l’Altro lasciandosi contaminare, essere contenitore senza rinunciare al proprio contenuto.

È il mio modo di essere, con un po’ di biochimica: i cambi di personalità dovuti ad elementi neurobiologici e neurologici


La personalità è un argomento che affascina sempre la ricerca umanistica e psicologica, che siano gli sviluppi di essa attraverso le esperienze, gli elementi ambientali e gli elementi sociali. Questo articolo affronta le modifiche della personalità via sindromi mentali e squilibri neurochimici.

 

La personalità è un argomento che affascina da sempre la ricerca e la letteratura sulla psiche. Di fatto, l’analisi dei vari fattori che influenzano e caratterizzano la personalità umana ha permesso lo sviluppo di strumenti diagnostico-analitici come il questionario Big Five (Soldz, Vaillant, 1999) e il questionario Myers-Briggs (Furnham, 1990) e ha ispirato ricerche come l’influenza genetica sullo sviluppo della personalità di Samuel Barondes (2016).

Fra i fattori principalmente considerati come principali influenze sullo sviluppo e sul cambiamento della personalità umana rientrano l’educazione, la qualità della vita e delle relazioni con la famiglia nella fase dello sviluppo (Amianto, 2013), le relazioni e le situazioni vissute in adolescenza (Galambos, Costigan, 2013), i fattori ambientali (Brooks et al, 2001), i fattori sociali (Buss, 1996), l’uso di droghe e medicinali (Bouso, 2015) e cambiamenti comportamentali conseguenti alla psicoterapia (Jarrett, 2017).

Un fattore importante che influenza o può portare il cambiamento, momentaneo o permanente, della personalità è lo squilibrio neurologico e/o biochimico: come indica la ricerca neurologica e psichiatrica, dietro a comportamenti considerati parte integrante del carattere e della persona potrebbe esserci in realtà una causa biochimica (Friedman, 2006).

I cambiamenti della personalità nelle malattie psichiatriche

Un primo esempio sono i cambiamenti della personalità dovute a malattie neuropsichiatriche: i malesseri mentali, dovuti a fattori ambientali o causati da traumi di vita, possono influenzare elementi della personalità, che possono essere presi come parte del carattere da chi ignora la situazione della persona affetta. Esempi emblematici di questa situazione sono quelli di trasgressioni e di ribellione di chi soffre di disturbo bipolare (Nelson, 2021) o le dimostrazioni di attitudini creative e di grande fantasia e introspezione letteraria delle persone affette da epilessia dei lobi temporali (Cartwright et al., 2004).

I cambiamenti della personaltità a causa di esperienze traumatiche

Un ulteriore esempio sono le personalità modificate da traumi psicofisici. Impatti continui e persistenti nel tempo ed altre situazioni dannose, come le commozioni cerebrali e la deprivazione del sonno, possono non solo causare danni semipermanenti come perdita della memoria (Ford, Giovanello, Guskiewicz, 2013; Chee, Chuah, 2008), ma possono peggiorare in maniera considerevole elementi caratteriali negativi come l’aggressività e la stabilità umorale.

Casi rilevanti sono l’irascibilità e la violenza di chi soffre di encefalopatia traumatica cronica (Golden, Zusman, 2019) e i cambi di umore incostanti di chi ha una grande insufficienza di sonno duratura (Wiseman, 2019).

Conclusioni

Sebbene l’analisi di questi fattori possa aiutare a distanziare gli elementi caratteriali dalle conseguenze delle situazioni mentali, l’eccessivo analizzare i lati della personalità con uno sguardo troppo medico ha attirato le critiche di nomi autorevoli della ricerca, come lo scomparso Oliver Sacks (1995).

 

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