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Recensione di “Un attimo prima di cadere” e riflessioni su comportamentismo e svolta esperienziale corporea

Un attimo prima di cadere di Giancarlo Dimaggio (2020) è un’opera particolare, a metà tra il caso clinico romanzato e l’autoconfessione.

 

Non è e non vuole essere un libro scientifico, ma può vantare un fondamento scientifico. Appartiene più alla narrativa che alla saggistica ma si mantiene in equilibrio su un margine indefinito tra questi due terreni, perché i personaggi delle storie che racconta sono esplicitamente dei pazienti affetti da disturbi di personalità, che è il campo di competenza professionale e clinico dell’autore. Personaggi, beninteso, che sono il frutto di un rimescolamento di personaggi reali, al fine di proteggerne la privacy. Vi è poi un altro personaggio che è l’autore Dimaggio stesso, narratore che interviene non solo come terapeuta ma anche con la propria vita e i propri dolori tra i più intimi di quelli che possono capitare a qualcuno, confessati con estrema sincerità. Invitiamo chi si sia incuriosito a leggere il libro. Sarà una lettura istruttiva e appassionante.

Tuttavia, non si tratta di un diario personale. Come già detto, l’autore mantiene un sufficiente margine di ambiguità letteraria in cui rappresenta sé stesso come il personaggio narrante di una storia raccontata al caminetto. Non è una cronaca immediata, epperò l’autore/personaggio fa intendere che, come in un diario, tutto (o forse non proprio tutto, ma molto) ciò che racconta è vero. Si tratta insomma di un caso di auto-fiction, una forma di romanzo che è di grande successo da alcuni anni a questa parte. Ne è un esponente a esempio il romanziere francese Emmanuel Carrère. Anche lui scrive romanzi in cui c’è egli stesso come personaggio e in cui racconta fatti che sembrano capitatigli davvero, eppure raccontati in una maniera tale da essere comunque romanzi. Insomma, mantenendo un margine di ambiguità che non riguarda tanto la distinzione tra il vero e il non vero (tendenzialmente, nei romanzi di Carrère è tutto -o quasi- vero; epperò poi pare salti fuori che non tutto sia vero e molti episodi sono inventati) ma raccontato sempre in una maniera tale per la quale quel tutto, pur essendo vero, in fondo lo è come romanzo e tutta la storia in realtà fa parte di un universo parallelo, un altrove che è l’altrove del romanzo e non il qui e ora della realtà.

Qualcuno sostiene che l’auto-fiction è un genere recente ma, a pensarci bene, questo non è così esatto. Ad esempio, alcune opere di Dante sono costruite così. La Vita Nova è un’auto-fiction in cui tutto è vero e tutto è racconto; ma anche la Commedia -sia pure in misura minore data l’ambientazione soprannaturale- ha come personaggio principale Dante stesso che racconta episodi reali della sua vita, facendone romanzo non perché inserisce aspetti fantastici (a parte l’ambientazione soprannaturale) ma per il particolare sguardo da narratore che assume l’autore. E vi sono altri esempi. I romanzi di Primo Levi, a esempio, o anche -uscendo dalla narrativa- i diari di André Gide, i saggi di Montaigne o alcune opere di Kirkegaard sono costruiti allo stesso modo: raccontare sé stessi per fare esplorazione filosofica, scientifica o, nel caso di Un attimo prima di cadere, clinica.

Dimaggio, tuttavia, ci tiene a suggerire che la sua operazione clinica e narrativa sia qualcosa di nuovo. Ammette che l’auto-fiction applicata al personaggio dell’autore stesso non è qualcosa di nuovo, ma qui l’autore (o il personaggio?) ci tiene a dire che nel suo romanzo ci sono anche casi clinici, che da una parte rimangono casi clinici trattati con aderenza al dato reale (ma al tempo stesso correttamente mescolando insieme più casi al fine di proteggere la privacy del paziente stesso) ma poi diventano anche inevitabilmente letteratura perché inseriti in un contesto di racconto, però di auto-fiction, e sono gestiti per creare una trama con una suspence romanzata: e infatti le storie cliniche e del personaggio-autore riservano colpi di scena che è bene non rivelare. No spoiler.

Si può concedere all’autore e personaggio che questo incrocio di più livelli tra la serie di casi clinici per esporre un modello teorico, la storia personale e il romanzo in forma di auto-fiction sia un luogo nuovo e originale. E non è finita. Dalla narrazione si torna alla scienza perché l’autore sembra a volte suggerire che la storia personale del personaggio/autore è esposta con disarmante sincerità (che però è narrazione e non diario; e poi rimane il dubbio che, come in Carrère, salti fuori che non tutto sia vero e alcuni episodi siano inventati) non solo per fini narrativi ma anche scientifici, perché nel modello di Dimaggio (Dimaggio, Ottavi, Popolo e Salvatore, 2019) – che è poi quella terapia metacognitiva interpersonale (TMI, Semerari, 1999)- la self-disclosure, l’auto-rivelazione del terapista, svolge un ruolo clinico chiave, essendo uno degli strumenti di cura. E quindi il libro è una self-disclosure del personaggio/autore e di uno dei teorici della TMI?

Eppure, a pensarci bene anche questa commistione di narrazione e terapia non è del tutto nuova. Freud cosa faceva nell’Interpretazione dei Sogni e altrove se non questo? Anche lui, infatti, raccontava casi clinici in cui c’era anche lui non solo come terapeuta ma anche come personaggio. Basti pensare al suo ruolo di personaggio sia nel piccolo Hans che nel caso di Dora, ma anche in altri casi clinici. L’intera Interpretazione dei Sogni è una gigantesca auto-rivelazione di Freud che in essa recita al tempo stesso i ruoli di narratore, personaggio e perfino paziente di sé stesso. E tuttavia si può ancora una volta concedere un margine di originalità: Freud giocava sul confine mantenendosi però, sia pure a stento, al di qua della fiction, mentre in Un attimo prima di cadere Dimaggio l’autore si posiziona, anch’egli a stento, al di là del confine, più nella fiction che nella clinica. Oppure no? Il libro vuole essere un libro di clinica e vuole raccontare l’evoluzione di un ben preciso paradigma clinico, un paradigma che è quello particolare di Dimaggio, la sua variante di TMI che con lui è diventata anche una terapia esperienziale-corporea, e vuole raccontarne in parte anche le circostanze storiche e scientifiche di questa nascita. E per questo quindi, mettendo da parte le considerazioni sugli aspetti letterari del libro, è giusto parlarne anche come opera scientifica.

Un attimo prima di cadere è anche una testimonianza significativa del percorso peculiare del cognitivismo costruttivista italiano, percorso intrigante ma anche a tratti lontano da quello intrapreso nell’area del cognitivismo clinico di Beck. Una testimonianza che è caratterizzata, ancora una volta, dal fatto che essa è comunicata nella forma del romanzo di auto-fiction. In che senso? Nel senso che l’autore presenta sé stesso non solo come terapista o protagonista di una storia personale dolorosa, ma anche come studioso di psicologia che vuole accompagnare il lettore non esperto in psicoterapia cognitiva a comprendere le evoluzioni storiche di questa disciplina. Un’opera meritoria probabilmente, in un panorama in cui la cultura generale -anche quella elevata e non solo quella popolare- sembra essere incapace di andare oltre Freud e Jung lasciando nell’ombra tutto quello che è accaduto dopo la loro morte sia nella psicoanalisi che nelle psicoterapie non analitiche. Per l’uomo della strada ma anche per un accademico o un intellettuale nomi come quelli di Melanie Klein, Donald Winnicott, Carl Rogers, Abert Ellis o Aaron Beck sembrano non dire niente.

E qui però accade qualcosa nel libro di Dimaggio che rende quest’opera particolarmente adatta a capire la particolare evoluzione del cognitivismo clinico italiano. Qualcosa che dipende in parte dalla natura di questo libro, natura che è -scriviamolo ancora una volta- a cavallo tra fiction, auto-fiction e scienza. Questa natura anfibia aiuta l’autore a esporre l’evoluzione della psicoterapia cognitiva degli ultimi vent’anni non solo come studioso che conosce a fondo la letteratura scientifica della psicoterapia ma anche come psicoterapeuta medio, competente sì, ma che fa le sue scelte di aggiornamento professionale e culturale anche in base a preferenze personali. Infatti, in Un attimo prima di cadere il personaggio Dimaggio è costruito così bene e in maniera così credibile da esporre almeno in parte quelli che sono a nostro parere alcune caratteristiche culturali dell’ambiente clinico cognitivista italiano sì come si è formato a partire dagli anni ’70. E questo rende questo libro particolarmente leggibile non solo per l’uomo della strada ma anche per l’intellettuale però a digiuno di psicoterapia.

Queste caratteristiche culturali dello psicoterapeuta cognitivo costruttivista italiano sono rappresentate nel personaggio narratore con un’audacia che rimane in equilibrio tra la volontaria incoscienza e la consapevole ingenuità. Leggiamo ad esempio la franchezza con cui il personaggio narratore esprime la tipica rivalità tra cognitivismo costruttivista e cognitivismo classico alla Beck:

in Italia non si praticava il cognitivismo iper-protocollato che proveniva dagli studi di efficacia. Sembrava a tutti noi un filo rozzo, riduttivo, ci interessava di più la dimensione del significato personale. Impossibile dire se la declinazione tutta italiana che si praticava fosse meglio o peggio dell’ortodossa anglosassone. Io, in assenza di prove certe che nessuno ha mai raccolto, voto per: meglio noi. (Dimaggio, 2020, p. 37).

L’oscillazione tra personaggio e autore si osserva nella disarmante sincerità di quel chiedersi chi sia meglio tra razionalismo e costruttivismo, tra l’altro spudoratamente declinati etnicamente: uno italiano e l’altro anglosassone. E poi nel proclamare la superiorità del costruttivismo insieme all’ammissione della mancanza del dato empirico. Curioso modo di dare la vittoria a chi non ha giocato la partita. Qui è proprio il personaggio che parla, ma un personaggio che riflette realisticamente il modo di pensare di un praticante del cognitivismo che vive una sorta di rivalità tra il modello di riferimento che domina laggiù in America o in Inghilterra e la pratica che si coltiva in Italia e dà la vittoria al proprio ambiente culturale, in un comprensibile momento di vita vissuta e non di scienza applicata. Da un punto di vista scientifico al massimo si potrebbe accordare medesima efficacia ai due modelli, in cui il costruttivismo usufruisce -per osmosi da parentela- della stessa efficacia empiricamente dimostrata solo per il modello di “cognitivismo iper-protocollato”, ovvero il modello di Beck.

Altrettanto realistico ed espressivo è il fatto che altrove, lo stesso personaggio si rammarica che nel suo e nostro paese non sia possibile condurre studi controllati di efficacia della psicoterapia, rammarico che lascia perplessi dopo aver letto l’elogio della flessibilità non iper-protocollata dei terapeuti italiani, flessibilità sicuramente benemerita ma che però non facilita propriamente quegli studi di efficacia di cui lamenta la mancanza il personaggio narratore. Ma sarebbe errato rimproverare all’autore le contraddizioni del suo personaggio, che anzi vanno a merito dell’abilità dello scrittore di rappresentare realisticamente la relazione ambivalente che il cognitivismo italiano vive con la pratica clinica protocollata e riproducibile che permette la verifica scientifica. Che tutta l’operazione sia consapevole è confermato da altri passaggi narrativi che vanno a merito di Dimaggio, tra cui è da segnalarne almeno uno di vera e ammirevole poesia quando il personaggio racconta la nascita del suo amore davanti a un esercizio di disegno eseguito in coppia.

Eppure forse è possibile temere che queste caratteristiche culturali dello psicoterapeuta cognitivista e costruttivista italiano non sono solo costruiti ad arte per rendere realisticamente le umane contraddizioni della psicologia del personaggio ma siano insiti almeno in parte (beninteso, piccola, come è umanamente possibile e accettabile) nell’autore, ma non per sua responsabilità, ma perché inevitabilmente appresi all’interno di quell’ambiente in cui si è formato, un ambiente che a un certo punto ha tagliato in parte i ponti prima con la radice comportamentale del cognitivismo e poi con quella cognitiva classica, entrambe così anglo-sassoni, troppo anglo-sassoni.

Riflessioni su comportamentismo e svolta esperienziale corporea

Focalizziamoci ora solo sull’incrinatura tra psicoterapia cognitiva e radice comportamentale. Su questo punto che la lettura di Un attimo prima di cadere può essere istruttiva. Questa frattura non è stata un evento accaduto solo in Italia, se pensiamo che un simile percorso sia stato imboccato da Michael Mahoney e da Arnold Lazarus, che da una formazione comportamentista approdarono e anzi fondarono la corrente costruttivista del cognitivismo, ripudiando almeno in parte il comportamentismo. Lazarus nel 1977 si chiedeva se la terapia comportamentale fosse sopravvissuta al suo compito storico. Questo ripudio si ripresenta anche nel cognitivismo italiano nell’introduzione del libro di Guidano e Liotti del 1983, tradotto e finalmente pubblicato in italiano nel 2019, quello che è a fondamento del costruttivismo italiano, in cui si esprimevano dubbi sul funzionalismo del modello comportamentale.

Questa separazione tra cognitivismo e comportamentismo è una storia strana. Nato come evoluzione da una teoria comportamentale ritenuta semplicistica, la psicoterapia cognitiva col tempo è sembrata diventare qualcosa di troppo mentale, di troppo separata dal vissuto emotivo. Di qui varie crisi e soluzioni, particolarmente sentite in Italia, in cui si cerca di recuperare l’aspetto esperienziale ed emotivo aprendosi a integrazioni dapprima relazionali e, ultimamente, appunto esperienziali e corporee. La domanda è: perché non recuperare anche gli aspetti comportamentali? Ed è proprio su questo punto che la lettura di Un attimo prima di cadere è illuminante.

Nel percorso del personaggio autore assistiamo alla rappresentazione di questo percorso culturale: l‘adesione iniziale dell’autore/personaggio alla psicoterapia cognitiva, la crisi generata dall’eccessivo razionalismo mentalistico e la soluzione con la svolta dapprima relazionale e poi esperienziale e corporea. E in tutto questo, un rapporto irrisolto con il comportamentismo. Da una parte, il personaggio/autore nella sua svolta esperienziale e corporea non può fare a meno di ammettere che il comportamentismo ha molto in comune con questa svolta. Cosa c’è di più corporeo ed esperienziale di un comportamento? Dall’altro però il personaggio/autore è comunque erede, ed erede orgoglioso, di una tradizione cognitivista e costruttivista che ha rigettato il comportamentismo non solo dal punto di vista teorico ma anche come pratica clinica e formazione. Lo stesso Dimaggio, con la sua solita disarmante sincerità, ammette poche pagine dopo che le tecniche comportamentiste di esposizione le fanno “in quattro gatti” (Dimaggio, 2020, p. 29). Ancora più stupefacente è che le basi teoriche del comportamentismo così come sono state esposte da Skinner sono rifiutate perché esse, secondo l’autore/personaggio, fanno “ribrezzo” (Dimaggio, 2020, p. 27). Ne consegue che il tributo di Dimaggio sia sentito ma vissuto confusamente, come qualcosa con cui in fondo non si è fatto i conti. Inevitabilmente, la successiva svolta esperienziale e corporea del personaggio/autore è sviluppata non rivolgendosi al modello comportamentale (e cognitivo) ma a una (rispettabilissima) radice umanistica e psicodinamica, soprattutto quella che fa capo a Wilhelm Reich e poi al suo allievo Dara Lowen, l’ideatore del grounding.

Questa sensazione è suggerita dal fatto che il comportamentismo nelle sue varie declinazioni verbali è citato meno del pur interessante e sottovalutato Reich (“comportamentismo”, “comportamentale” e comportamentista” naturalmente da soli e non accoppiati a “cognitivo” -fanno in tutto 10 citazioni contro le 12 che Reich si prende da solo; senza aggiungere i termini, esperienziale, corporeo e così via che sbilancerebbero definitivamente il numero di citazioni a sfavore del comportamentismo). Il numero di citazioni è tuttavia un criterio discutibile. Ciò che sembra meno discutibile è che nel libro il comportamentismo è solo citato e descritto rapidamente (da pagina 29 di parla di esposizione) ma mai trattato nelle sue caratteristiche teoriche costitutive, come l’analisi funzionale, cornice tecnica ben ampia dell’esposizione comportamentale, che è solo una tecnica.

Insomma, la curiosità del personaggio narratore verso la svolta esperienziale corporea è genuina, vissuta e particolareggiata in tutti i suoi aspetti, sia clinici che teorici. L’autore parla con passione di Lowen. Al comportamentismo invece va un tributo doveroso alle tecniche ma senza vera sensibilità per i principi teorici. Il problema non è solo di Dimaggio o degli altri clinici di provenienza costruttivista come Mahoney, Lazarus, Guidano e Liotti. In realtà va detto che il rapporto difficile con il comportamentismo è un problema dell’intero movimento cognitivista anche nel suo ramo cosiddetto razionalista alla Beck, il quale ridusse l’intervento comportamentale a una esposizione prescritta in maniera abbastanza ancillare come appendice conclusiva ma non risolutiva dell’intervento cognitivo. Questa sottovalutazione ha avuto i suoi effetti negativi, tra i quali una lacuna formativa per la generazione successiva di terapeuti cognitivisti e/o costruttivisti dopo Beck, Mahoney, Guidano e Liotti che hanno perso ulteriormente contatto con la tradizione comportamentale.

Ora, rigettare la base teorica del comportamentismo per poi accettarne gli interventi comportamentali può sembrare curioso, eppure in fondo è ciò che sempre ha fatto il cognitivismo, a partire proprio da quel Beck razionalista a sua volta rifiutato da Dimaggio. E invece il problema è tutto lì. Il nocciolo del comportamentismo è un nucleo funzionalista in cui le funzioni mentali sono funzioni e non strutture, gli stati mentali non sono sopraordinati a nulla ma sono in rapporto paritario con l’ambiente e quindi le rappresentazioni mentali sia di tipo dichiarativo concettuale che percettivo motorio hanno sempre un effetto e non hanno mai un significato strutturale o un’essenzialità, come diceva Popper. Insomma, proprio in questo disprezzato funzionalismo comportamentale si potrebbe celare la svolta esperienziale più rigorosa e capace di arrivare alle ultime conseguenze teoriche. In questa declinazione, che poi è quella di Skinner, il comportamentismo si rivela un modello complesso che si presenta in vesti apparentemente scarne e rozze.

 

Stimolazione cognitiva: due tipologie di intervento per la demenza lieve e moderata

A seconda di sottotipo e gravità del disturbo neurocognitivo possono essere impiegate diverse tipologie di intervento: a uno stadio lieve-moderato di malattia è possibile applicare protocolli di stimolazione cognitiva, mentre a uno stadio grave è consigliato focalizzarsi sulla qualità di vita.

 

L’aumento dell’aspettativa di vita e il progressivo invecchiamento della popolazione, oltre a dar vita al fenomeno della longevità, hanno portato a un allarmante incremento dei tassi di prevalenza dei disturbi neurocognitivi. In un rapporto sull’epidemiologia della demenza a cura dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e dell’Alzheimer’s Disease International (Prince et al., 2015) tale patologia è risultata essere una “priorità mondiale di salute pubblica”.

Secondo il recente World Alzheimer Report (Patterson, 2018), attualmente nel mondo ci sono circa 50 milioni di persone che soffrono di disturbi neurocognitivi e si prevede che entro il 2050 i casi saliranno a 152 milioni, con stima di una diagnosi di demenza ogni tre secondi. Tali numeri, chiaramente, comportano rilevanti implicazioni economiche, con un costo attuale della patologia di circa un trilione di dollari l’anno, destinato a raddoppiare entro il 2030.

Il quadro appena descritto ha determinato un incremento in rapida evoluzione delle pubblicazioni scientifiche sui trattamenti farmacologici e psicosociali, con l’obiettivo di permettere un rallentamento della progressione della malattia (De Beni et al., 2015).

Per quanto riguarda il trattamento farmacologico, allo stato attuale vengono impiegati farmaci sintomatici che agiscono sulla sfera cognitiva e/o sui disturbi del comportamento, inducendo però spesso effetti collaterali che peggiorano la percezione di benessere dell’anziano (Fagherazzi et al., 2009). Questo parziale fallimento farmacologico ha aperto, così, la strada a interventi di tipo psicosociale. A seconda del sottotipo e della gravità del disturbo neurocognitivo possono essere impiegate diverse tipologie di intervento psicosociale: a uno stadio lieve-moderato di malattia è possibile agire sulla sfera cognitiva tramite protocolli di stimolazione cognitiva, mentre a uno stadio grave è consigliato focalizzarsi sulla qualità di vita, proponendo strategie gestionali per i disturbi del comportamento, un ambiente protesico e la stimolazione sensoriale.

Relativamente alla stimolazione cognitiva, essa può essere definita come il coinvolgimento di persone con invecchiamento patologico in attività di gruppo e discussione che favoriscono la socializzazione ed effetti positivi sulla qualità di vita, sul benessere e sul funzionamento cognitivo globale tramite la creazione di un ambiente arricchito (Clare & Woods, 2004).

Esistono numerosi protocolli di stimolazione cognitiva che si differenziano per numero e durata delle sessioni oltre che per le attività proposte. Le due tipologie analizzate nel presente articolo sono i “100 Esercizi di stimolazione cognitiva” di Bergamaschi e colleghi (2008), nato nel contesto italiano e conosciuto a livello nazionale, e la Cognitive Stimulation Therapy di Spector e colleghi (2006), conosciuto e validato a livello mondiale.

100 Esercizi di Stimolazione Cognitiva (Bergamaschi et al., 2008)

L’eserciziario “Demenza. 100 esercizi di stimolazione cognitiva” proposto da Bergamaschi e colleghi (2008) è un esempio di intervento restitutivo che utilizza esercizi carta-matita, applicabile in gruppo o individualmente, rivolto a pazienti con Disturbo Neurocognitivo Maggiore di grado lieve-moderato. È composto da 100 esercizi strutturati, suddivisi in cinque macro-aree (orientamento, attenzione, memoria, linguaggio e ragionamento logico), e per ognuno di questi esercizi dà indicazioni sulle funzioni cognitive stimolate, sui materiali necessari, sul grado di difficoltà  e sulle possibili varianti, oltre che una serie di suggerimenti per il riabilitatore.

Lo svolgimento degli esercizi in gruppo permette la stimolazione non solo cognitiva, ma anche della vita sociale dei soggetti, rilevante per il benessere e la qualità di vita, specie nei contesti istituzionalizzati. Gli studi effettuati dimostrano che i migliori risultati si ottengono in un piccolo gruppo (4-5 persone) e omogeneo per stadio di malattia, affinché tutti siano in grado di svolgere i compiti richiesti e ottengano lo stesso livello di attenzione da parte del riabilitatore, prevenendo così demotivazione e drop out (Quaia et al., 2006). È consigliato inoltre proporre le sessioni con regolarità, mantenendo lo stesso giorno della settimana, lo stesso orario e lo stesso luogo, al fine di facilitare la partecipazione e l’orientamento spazio-temporale. Dal lavoro di Mapelli e colleghi (2013) emerge che l’utilizzo di questa tipologia di stimolazione cognitiva comporta maggiori benefici non solo sulla sfera cognitiva ma anche sul comportamento rispetto alla terapia occupazionale e alle attività abituali proposte in RSA. Un aspetto limitante di questo strumento è però l’assenza di indicazioni nel manuale su come strutturare le sessioni, quante proporne e con quale durata.

Cognitive Stimulation Therapy (Spector et al., 2006)

Una seconda tipologia di trattamento è la Cognitive Stimulation Therapy (CST) proposta da Spector e colleghi (2006). In questo caso, la stimolazione cognitiva avviene attraverso il coinvolgimento dei partecipanti in attività a tema e di discussione (Clare & Woods, 2004). La CST prevede un protocollo strutturato con evidenze di efficacia terapeutica, specie nelle fasi iniziali del decadimento cognitivo (Buschert et al., 2010). L’obiettivo è quello di ri-orientare la persona nello spazio, nel tempo e riguardo sé stessa, potenziando il funzionamento cognitivo generale, sociale e relazionale (Spector et al., 2006).

La CST è ormai un approccio usato a livello mondiale, vanta infatti linee guida che permettono di adattarla alle diverse culture (Aguirre et al., 2014). È, inoltre, raccomandata dalle linee guida internazionali (National Institute for Health and Clinical Excellence, NICE, 2018), rappresentando un vero e proprio gold standard. Nata in Inghilterra dove ha ottenuto numerose evidenze di efficacia (Cove et al., 2014) e validata anche in Italia (Gardini et al., 2015; Capotosto et al., 2017), la CST è collocabile in un modello di Cura Centrata sulla Persona (Kitwood, 1997; Spector & Orrell, 2010).

L’adattamento italiano del manuale (Gardini et al., 2015) offre una guida precisa circa i materiali necessari e le attività a tema da proporre a ogni incontro, di difficoltà diversa a seconda che il gruppo di partecipanti abbia una demenza di grado lieve o moderato.

È possibile proporre il programma base, 14 sessioni di 45 minuti due volte la settimana, e il programma di mantenimento, 24 sessioni di 45 minuti una volta la settimana.

Numerosi studi randomizzati controllati hanno evidenziato l’efficacia della CST sul funzionamento cognitivo globale e sulla qualità della vita (Spector et al., 2006; Aguirre et al., 2013), con aumento del benessere psicologico e delle interazioni sociali (Woods et al., 2012) e con una riduzione dei sintomi comportamentali e psicologici (Woods et al., 2006). Sembra che a beneficiare di essa sia in particolare il linguaggio (Chapman et al., 2004; Spector et al., 2010). Di notevole interesse è il fatto che i risultati ottenuti con la CST siano sovrapponibili a quelli ottenuti con gli anticolinesterasici (AchEI) e che i risultati migliori si ottengono con l’azione combinata di stimolazione cognitiva e somministrazione di AchEI (Ballard et al., 2011). È bene prendere in considerazione anche i risultati emersi dalla recente review di Lobbia e colleghi (2018) circa l’efficacia della CST sulla base di dodici studi pubblicati tra il 2001 e il 2017. Emerge, infatti, un moderato livello di evidenza sull’efficacia della CST per quel che riguarda la qualità di vita, il linguaggio e il funzionamento cognitivo generale, mentre sono minori le evidenze sui domini cognitivi specifici (memoria, prassia e orientamento) e non vi è nessun impatto su ansia, attenzione e funzioni esecutive. Infine, ciò che accomuna tutti gli studi è l’assenza di effetti negativi legati al suo utilizzo (Woods et al., 2012) e i costi economici contenuti (Knapp et al., 2006) che fanno della CST un intervento raccomandabile.

La facilità di essere consapevoli. Recensione di “Mindfulness, più focus, meno stress” (2021) di Riccardo Caserini

Il testo Mindfulness, più focus, meno stress inizia con un tratto biografico dell’autore che spiega la sua “conversione” alla mindfulness e i motivi che l’hanno spinto a indagarla e farne uso quotidiano.

 

Ciò che sorprende rispetto agli innumerevoli libri sullo stesso tema, è il taglio semplice ma non banale che Caserini dà alla spiegazione del perché è utile questo atteggiamento (come lui stesso lo definisce) e del come metterlo in pratica: si parte dalla postura, elemento fondante e imprescindibile della pratica formale della mindfulness, per poi passare a una rassegna di esempi su come praticarla in modi differenti. C’è poi la pratica informale ovvero il mettere in atto il processo in ogni momento e situazione. Oltre agli aspetti legati alla pratica meditativa in sé, è interessante tutto il reportage sulle adozioni di questa metodologia da parte di innumerevoli aziende, molto famose, che hanno ottenuto dei benefici enormi.

L’OMS inoltre non parla più tanto di PIL ma di benessere delle persone, o indice della qualità della vita, segno che i tempi stanno cambiando, anche, come spiega l’autore, in seguito agli effetti della pandemia.

Vengono mostrati anche i risultati di ricerche neuroscientifiche che confermano un aumento dello spessore corticale della neocorteccia prefrontale, relativa diminuzione dell’amigdala (legata a emozioni quali ansia e depressione) e aumento conseguente dello spazio decisionale tra stimolo e risposta, depotenziando l’azione intuitiva della parte rettiliana del cervello. Notevole, infine, la spiegazione di come l’evoluzione darwiniana non è più da spiegarsi nel senso della sopravvivenza del più forte, bensì del più adattabile al cambiamento, capacità che la mindfulness contribuisce a creare e potenziare.

Il libro si conclude con una formula sintetica racchiudente tutti i concetti espressi nei capitoli precedenti: dalla mindfulness deriva la consapevolezza, da questa la generosità (avendo capito di possedere molte cose e che è un bene condividerle, insight che subentra dopo aver acquisito maggior consapevolezza), poi la gentilezza che migliora le relazioni sociali e quindi la felicità, strettamente legata al successo. L’importante è creare l’abitudine di praticare il processo e soprattutto l’abilità di spostare l’attenzione dev’essere costantemente allenata per arrivare a introdurre la mindfulness nella quotidianità, e tutto questo, dopo aver letto il libro sembra davvero essere alla portata di tutti. Si tratta infatti di osservare la realtà per quello che è, accettarla, accettare il nostro stato d’animo e focalizzare l’attenzione sulle sensazioni corporee e sul respiro, inspirando ed espirando consapevolmente.

 

La nostalgia: un processo omeostatico di cura del dolore

Il termine nostalgia fu coniato nel 1688 da Johannes Hofer, che ne elaborò una visione disfunzionale e dannosa, visione che è persistita per oltre 300 anni.

 

A cavallo del ventesimo secolo, la nostalgia è stata considerata un’emozione malsana caratterizzata dalla solitudine o dalla tristezza (Batcho, 2013a). Hofer e i suoi contemporanei, tuttavia, commisero un errore inferenziale, ipotizzando un percorso causale dalla nostalgia alla tristezza, basandosi unicamente sulla loro co-occorrenza. Di contro, recenti lavori empirici hanno documentato un percorso inverso: le esperienze sconfortanti evocano la nostalgia, che, a sua volta, opera come risorsa di coping (Sedikides et al., 2015).

Il lutto è un’esperienza caratterizzata da una varietà di sintomi psicologici e fisici angoscianti (Fagundes & Wu, 2020). Le persone che subiscono la perdita di una persona cara possono provare tristezza, senso di colpa, rabbia, ansia (Hogan et al., 2001), nonché mal di testa, vertigini, mal di stomaco e disturbi del sonno (Pennebaker, 1982). Inoltre, esse sono più suscettibili a condizioni psichiatriche, come il Disturbo Depressivo Maggiore, disturbi legati all’ansia e, specialmente nei casi di perdita traumatica o improvvisa, il Disturbo da stress Post-traumatico.

Il lutto è un fenomeno complesso che può prendere vari corsi (Bonanno et al., 2011). Indipendentemente da ciò, anche se le reazioni individuali al lutto possono essere varie, perdere una persona cara è generalmente un’esperienza angosciante che pone gli individui in una condizione di rischio per la salute.

Cosa contribuisce all’angoscia degli individui in lutto? Essi possono impegnarsi in valutazioni negative generali e specifiche dell’evento, rievocando immagini ricorrenti sulla morte del loro caro, così come possono manifestare pensieri ruminativi (Lafarge et al., 2019). Questi ricordi sono associati a un’elevata angoscia e ad una maggior gravità della depressione (Baddeley et al., 2015).

Mentre i processi disadattivi come la ruminazione aumentano l’angoscia, altre forme di valutazione possono essere benefiche. Sia il sense-making (Bogensperger & Lueger-Schuster, 2014) che la nostalgia, sono stati collegati ad una miglior crescita post-traumatica. Difatti, contrariamente a ciò che si potrebbe pensare, la nostalgia può consentire agli individui di mantenere la vicinanza con i defunti, pur rimanendo liberi da risentimenti disadattivi.

La “fantasticheria nostalgica” corrisponde alla riflessione sui momenti significativi del proprio passato e può comportare una progressione da un ricordo di un evento di vita negativo, ad uno positivo (Abeyta et al., 2015).

La nostalgia coinvolge processi emotivi e cognitivi più complessi rispetto alle emozioni di base e determina un impulso a dirigersi verso stimoli positivi, essenziali per un adattamento fisico e psicologico di successo (Elliot, 2008). Inquadrando la nostalgia come uno stato psicologico orientato all’approccio, Sedikides et al. (2015) hanno proposto un modello normativo o omeostatico, secondo il quale la nostalgia opera come un meccanismo correttivo, volto ad alleviare l’impatto negativo determinato da eventi avversi. Batcho (2013b) ha evidenziato la mancanza di una relazione tra la nostalgia e le strategie di evitamento, sottolineando come “le teorie che descrivono la nostalgia come un ritiro in un passato idealizzato e inesistente” siano inaccurate. Piuttosto, l’autore ha sottolineato come la nostalgia favorisca le strategie di coping. La nostalgia, quindi, ha proprietà motivazionali (Abeyta & Routledge, 2016) ed è associata a risposte costruttive, proattive ed orientate al futuro (Batcho, 2013b; Cheung et al., 2019).

Dunque, i risultati empirici indicano che la nostalgia agisce come una risorsa di regolazione in presenza di stati di disagio (Wildschut & Sedikides, 2020). Tuttavia, fino ad oggi, la ricerca non ha esaminato se la nostalgia possa aiutare gli individui a far fronte a un’esperienza estremamente sconfortante come il lutto. Secondo la visione radicata della nostalgia come disadattamento (Sedikides et al., 2004), ci si aspetterebbe che una perdita personale possa far sprofondare gli individui altamente nostalgici in un’ulteriore spirale negativa. Tuttavia, secondo una fiorente letteratura (Sedikides & Wildschut, 2019), alti livelli di nostalgia aiuterebbero gli individui in lutto ad affrontare la loro perdita.

In uno studio longitudinale, alcuni autori hanno valutato la misura in cui le persone in lutto hanno riportato pensieri intrusivi, iperarousal ed evitamento.

I ricercatori hanno ipotizzato che livelli più alti di nostalgia avrebbero predetto riduzioni dell’angoscia relativa alla perdita di una persona cara.

Allo studio hanno preso parte 133 studenti, che avevano subito la perdita di una persona cara nei due anni precedenti.

Coerentemente con quanto ipotizzato, i risultati hanno mostrato che la nostalgia predice riduzioni dell’angoscia tra gli individui in lutto. Gli individui che avevano sperimentato una maggiore nostalgia hanno riportato, nel tempo, una diminuzione dei pensieri intrusivi. Inoltre, l’iperarousal e, dunque l’irritabilità e determinate reazioni fisiche legate alla perdita, è diminuito nel tempo tra gli individui che hanno sperimentato una maggiore nostalgia. Ulteriormente, non si sono verificati cambiamenti nell’evitamento.

In generale, la nostalgia ha aiutato i soggetti tamponando l’impatto del lutto nel tempo senza incoraggiare strategie di fuga. Indipendentemente dal livello iniziale di dolore, livelli più alti di nostalgia prevedevano riduzioni dei pensieri intrusivi.

Gli individui si relazionano al passato attraverso una varietà di mezzi, ma la nostalgia opera come un metodo più positivo e costruttivo di connessione con il passato (Cheung et al., 2018). In questo modo, la nostalgia può aiutare gli individui in lutto a riflettere su una perdita con meno angoscia e perseguire una traiettoria più costruttiva.

Gli individui possono rievocare i ricordi positivi e sono meno propensi a evitare quelli spiacevoli.

I risultati comportano implicazioni cliniche per coloro che lavorano a stretto contatto con le persone in lutto: l’importanza della nostalgia identificata nel presente lavoro è strettamente correlata a varie terapie cognitive di terza generazione, come l’Accepance and Commitment Therapy (Hayes et al., 2009) ed altri approcci basati sulla consapevolezza, che cercano di modificare la propria reazione ai pensieri, piuttosto che cambiare i pensieri stessi. Dunque, i professionisti che assistono le persone in lutto possono essere in grado di aiutare i pazienti ad affrontare meglio la situazione favorendo la nostalgia attraverso sessioni regolari.

L’amore non ha limiti (2021) di Francesca Bisogno – Recensione

Filo conduttore di L’amore non ha limiti è l’Amore, quello con la A maiuscola, assoluto, autentico, che ha una forza e un potere immensi, perché è un Amore sconfinato, un Amore senza limiti.

 

Ho una mamma astronauta? Beh in un certo senso sì. La mia mamma […] durante la sua vita ha fatto qualche «viaggio» su un altro pianeta”. Il disturbo bipolare riporta ad un’astronave che riversa la persona che ne è affetta in un’altra dimensione: in questo caso la persona è la mamma dell’autrice, rapita dai sintomi della patologia, in un crescendo di stati che sembrano non conoscere una via di mezzo o che a malapena la sentono. Da un lato uno stato maniacale o ipomaniacale, causa di un’inarrestabile corsa verso mete indefinite: non fermarsi nei pensieri, nelle azioni, nelle parole, negli stati emotivi in una continua escalation, in una sorta di sensazione di onnipotenza e onnipresenza, irrefrenabile desiderio di desiderare che non lascia un attimo di respiro, a tal punto da rendere il soggetto incapace di seguire una logica e incapace di seguire sé stesso. Dall’altro, invece, al contrario, cicli di esistenza dominati dal buio e dalle tenebre della depressione, che rendono la persona bloccata in una staticità senza tempo, senza spazio, senza energie, senza desiderio.

Il libro si rivolge direttamente al lettore, cercando di renderlo partecipe di un vissuto personale, allo scopo di divulgare e condividere uno scorcio importante di vita, come momento di riflessione e di aiuto: una famiglia improvvisamente colta e assediata dai sintomi inizialmente ignoti e incomprensibili di questa “brutta, bruttissima e scomodissima malattia” che colpiscono Elena, una madre descritta come una donna elegante, solare, amorevole e piena di vita che, ad un tratto, comincia a modificare inspiegabilmente il suo modo di essere e di sentirsi, cogliendo assolutamente impreparati i famigliari: una figlia, ancora piccola e bisognosa di cure ed un marito, legato profondamente alla sua donna. È come se improvvisamente ci trovassimo a casa con un’amica che tenta di spiegare in un semplice, quanto straordinario modo di raccontare, il suo devastante vissuto vicino ad una mamma tormentata dalla malattia, un vissuto che, soprattutto nelle prime fasi, quando ancora le cause sono ignote, porta con sé ed alterna momenti di sconforto, frustrazione, grande senso di colpa di una bimba ancora troppo piccola per reagire, una bimba che improvvisamente vede trasformare la sua bella mamma perfetta e piena di amore in una sconosciuta, trasandata, incapace a tratti di controllare i suoi stati e i suoi comportamenti, a tratti completamente assente, sospesa in una sorta di non-esistenza, afflitta dai segni di una sofferenza sconosciuta. Ma quella stessa bambina improvvisamente, una volta svelati da medici competenti, nome, architettura e processi di questa astronave, riesce con una forza davvero indescrivibile a modificare il suo punto di vista, cercando di non farsi sopraffare da sentimenti negativi, una piccola bimba cresciuta in fretta che ritrova la sua mamma, la ritrova e la accetta per come ora la vede, perché, se pur diversa, è sempre la sua mamma.

Qual è il filo conduttore di questa narrazione condivisa?

L’Amore, ma quello con la A maiuscola, assoluto, autentico, che ha una forza e un potere immensi, perché è un Amore sconfinato, un Amore senza limiti. Forte è la fede con cui l’autrice insieme al suo caro padre affrontano la malattia di Elena, una fede in Dio che trasforma le tenebre in feritoie, una fede che non inganna, non promette perfezione, ma aiuta a dare un senso anche al buio più totale, trasformando un’esperienza negativa in una nuova possibilità, in una nuova potenzialità. La narrazione non perde mai la sua veridicità, in quanto, durante questo tortuoso cammino, mai si dimenticano il dolore, lo sconforto, la rabbia, la vergogna, il senso di colpa, o mai si dimenticano i salti nel vuoto, le cadute in picchiata verso la tentazione di non credere più, di perdere la fede e il senso della vita. Nulla è semplice, tutto sembrerebbe far desiderare di scappare lontano dal problema, ma poi ritorna Lui, capace, attraverso piccole cose, piccoli gesti, piccoli eventi, di esprimere la sua presenza e mai la sua assenza. E, grazie a questo Amore, ecco la capacità di riconoscere la propria madre o moglie nella sua malattia, di ritrovarla, dopo avere perso le “coordinate del suo cuore”, di riuscire a ricominciare, facendosi strada “nel groviglio di sentimenti, dolore e pensieri”, di perdonare e di perdonarsi, di perdere, ma di rimanere sempre e comunque, anche sulle macerie di una malattia devastante, di saper ringraziare, perché, nonostante tutto, la propria madre, a suo modo, è ancora in grado di amare e di sentirsi amata. Un Amore che disvela una consapevolezza dalle parvenze di un vecchio saggio, che racconta la vera storia dell’essere umano: una storia fatta di ambivalenze, di condivisione di più aspetti e sfumature, che non può inglobare solo una versione, ma che si delinea lungo un continuum tra serenità e tristezza, tra bontà e cattiveria, tra equilibrio e disequilibrio, una vita degna di essere vissuta proprio nella sua imperfezione.

L’Amore, come ben sottolinea Francesca Bisogno, significa amare senza voler nulla in cambio, un Amore che in quanto tale rende perfino la morte non certo un punto di arrivo, ma di partenza per una nuova vita, in una nuova dimensione eterna.

Credo che questa storia sia raccontata con una straordinaria veridicità, in grado di catturare tutti i lettori, anche i più diffidenti e anche i meno credenti: ritengo, infatti, che questo Amore così meravigliosamente celebrato, nella sua unicità, possa essere una guida per chiunque, proprio per la sua essenza. Un Amore senza confini, un Amore che proprio per la sua assenza di barriere può abbracciare ognuno di noi: l’essenza dell’assenza di giudizi, l’essenza ontologica, ma anche ontica di un Amore che salva, un Amore senza pregiudizi, imposizioni, richieste, un Amore davvero senza limiti.

L’utilizzo dell’ACT in età evolutiva: quale efficacia?

L’Acceptance and Commitment Therapy (ACT) è un terapia di terza generazione che ha come obiettivo ultimo l’aumento della flessibilità psicologica dell’individuo attraverso sei principali processi: accettazione, defusione cognitiva, mindfulness, sé come contesto, azione impegnata e valori.

Marta Chemello – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Mestre

 

Di conseguenza è possibile affermare che l’obiettivo finale dell’ACT è quello di ridurre la fusione cognitiva e l’evitamento esperienziale, ritenuti dei processi rigidi ed inflessibili, promuovendo la flessibilità psicologica che consente all’individuo di essere presente e di scegliere se persistere o meno nel proprio comportamento al fine di vivere una vita ricca di valore (Hayes, Luoma, Bond, Masuda & Lillis, 2006).

Nell’ambito dell’età adulta molte revisioni della letteratura e metanalisi sono state svolte relativamente all’efficacia della terapia ACT, tuttavia nel contesto dell’età evolutiva sono presenti – tra gli studi condotti – solamente due revisioni non strutturate della letteratura, una revisione sistematica e una metanalisi.

Dal punto di vista teorico, l’ACT appare essere un approccio funzionale in età evolutiva; i bambini hanno una modalità di pensiero meno “letterale” rispetto a quella degli adulti, pertanto l’utilizzo di metafore ed attività di tipo esperienziale all’interno del contesto della terapia potrebbero favorire in loro l’acquisizione di concetti astratti attraverso l’esperienza diretta. Inoltre dal momento che in questa fase evolutiva c’è meno possibilità di strutturare un evitamento esperienziale, è possibile che l’ACT venga utilizzata anche a scopo preventivo. Tale modalità di terapia potrebbe risultare idonea anche per l’adolescenza per tre differenti ragioni: in primo luogo poiché si tratta di un approccio meno didattico rispetto ad altri modelli di terapia; in secondo luogo si focalizza su modalità di apprendimento che richiedono il coinvolgimento diretto dell’adolescente, promuovendo la sua autonomia ed indipendenza; infine viene dato molto rilievo ai valori che guidano il comportamento individuale, fornendo nei giovani un incentivo alla naturale spinta all’esplorazione.

Inizialmente sono state svolte due review sulla letteratura esistente relativa agli interventi ACT in età evolutiva (Murrel e Scherbarth, 2006; Coyne et al., 2011), tuttavia in entrambi i casi non è stata utilizzata una procedura sistematica per l’inclusione degli studi, la revisione della letteratura e l’interpretazione di quanto emerso.

La prima review sistematica condotta in tal senso è quella di Swain et al. (2015) all’interno della quale sono stati inclusi studi che abbiano considerato almeno due processi facenti parte dell’exaflex, abbiano coinvolto partecipanti entro i 18 anni di età e siano stati scritti in lingua inglese; sono stati invece escluse review, metanalisi e articoli teorici oppure manchevoli di misurazioni psicometriche. Inizialmente sono stati identificati 202 studi sulla base di titolo ed abstract, di questi esclusivamente 20 sono risultati idonei sulla base dei criteri riportati in precedenza e comprendevano partecipanti con depressione, disturbo ossessivo-compulsivo, disregolazione emotiva, ansia, asperger, tricotillomania, tic, anoressia nervosa, dolore cronico, PTSD e comportamenti sessualizzati.

Emerge come l’ACT si dimostri efficace nel trattamento di molteplici patologie in età evolutiva, confermando di essere un valido modello transdiagnostico; va tuttavia evidenzia come sia soprattutto l’ambito del dolore cronico quello ad essere maggiormente oggetto di studi, dai quali è possibile evincere come l’ACT sia un approccio valido in quest’ambito.

Successivamente è stata condotta da Shuanghu e Dongyan (2020) un’interessante metanalisi sull’applicazione dell’ACT in età evolutiva, all’interno della quale l’obiettivo non appare solamente quello di valutare l’efficacia di tale approccio ma verificarne anche l’eventuale superiorità rispetto alla CBT. Tra questi due modelli teorici è possibile notare una prima importante differenza, nella CBT l’obiettivo è quello di regolare e gestire le emozioni spiacevoli attraverso specifiche strategie; nell’ACT invece l’obiettivo non è quello di modificare le esperienze emotive e personali dell’individuo, bensì di modificare la funzione che tali esperienze hanno per la persona. Inoltre nella CBT viene dato poco spazio ai comportamenti guidati dai valori oppure al far acquisire agli adolescenti l’abilità di continuare a vivere la propria vita nonostante la possibile presenza di emozioni spiacevoli; l’ACT invece ha come obiettivo il promuovere nell’adolescente la messa in atto di comportamenti che seguano i propri valori, andando a determinare una successiva diminuzione del sintomo.

Nella presente metanalisi sono stati inclusi esclusivamente studi RCT, aventi come partecipanti bambini ed adolescenti, che abbiano applicato l’ACT e siano scritti in inglese o in cinese; sono state invece escluse revisioni della letteratura, metanalisi, articoli teorici oppure studi con dati insufficienti. Sono stati quindi considerati 14 articoli nei quali è stata applicata l’ACT da sola o in combinazione con un’altra forma di terapia ed era presente un gruppo di controllo (nel quale veniva applicato l’usuale trattamento oppure veniva utilizzata la lista d’attesa). Le misure di outcome considerate sono state l’ansia, la depressione, i problemi comportamentali, lo stress, l’interazione tra ansia/depressione e stress e l’autostima; in secondo luogo sono stati anche valutati la qualità della vita, il benessere, la salute mentale, l’autoefficacia e il comportamento prosociale.

Dall’analisi condotta emerge come l’ACT, se confrontata con le consuete modalità di trattamento, riduca significativamente l’ansia, la depressione, i disturbi del comportamento e altri problemi relativi alla salute mentale che possono emergere durante l’infanzia; tuttavia non emerge nessuna differenza significativa tra l’ACT e la CBT tradizionale. Non è inoltre emersa alcuna significativa differenza in fattori quali la qualità di vita e il benessere; tuttavia in questi ambiti è emersa una differenza significativa tra il gruppo ACT e la lista d’attesa.

In conclusione alla luce degli studi descritti è quindi possibile affermare come l’ACT possa ritenersi efficace nel trattamento della depressione, dell’ansia e di problemi comportamentali in adolescenza, nonostante non si siano rilevate significative differenze rispetto alla CBT standard nemmeno nella qualità della vita e del benessere.

 

La paura è contagiosa e differisce in relazione al tipo di minaccia

La storia dell’umanità è intrinsecamente legata al significato attribuito al termine paura nonché alla sintomatologia emotiva ad essa correlata.

 

Gli antichi greci furono i primi a cercare di spiegare questa emozione ricorrendo alla figura mitologica di Fobos (dal greco Φόβος – paura) che, insieme al fratello Deimos (dal greco Δεῖμος – terrore), usualmente accompagnava in battaglia il padre Ares, Dio della guerra. Oggigiorno è diventato molto comune sperimentare esperienze di forte paura a causa della ricorrenza con cui si verificano gravi incidenti, violenze private, atti criminali/terroristici, emergenze sanitarie e calamità naturali. È dunque interessante domandarsi se nel corso dei secoli l’uomo abbia acquistato una migliore capacità di gestire eventuali eventi avversi e la paura da loro causata, ancor più se si tratta di minacce imprevedibili o sconosciute come nel caso della pandemia di COVID-19.

La paura è una emozione primaria e può essere “contagiosa”

Sin dalle sue origini, l’uomo ha imparato a sopravvivere, ricercando ciò che gli procurava piacere (es. il mangiare) e a fuggire da ciò che gli causava sofferenza e dolore. In tali circostanze, lo stimolo percepito viene immediatamente processato attraverso un complesso meccanismo che coinvolge l’amigdala, l’ippocampo e la corteccia prefrontale che, valutate le informazioni disponibili, sono in grado di attivare una serie di adattamenti psicofisici finalizzati a rendere disponibili tutte le risorse (ad esempio la produzione di adrenalina) necessarie a fronteggiare l’emergenza e porre in essere comportamenti o atteggiamenti di attacco o fuga. La paura è, quindi, una emozione primaria di difesa ingenerata da una situazione di pericolo che può essere reale o potenziale. Nel corso dell’evoluzione, l’uomo ha sviluppato la capacità di trasmettere questa emozione attraverso le interazioni che intercorrono all’interno del proprio gruppo sociale. Questo “contagio” avviene attraverso l’empatia, una delle abilità dell’intelligenza emotiva che consente di poter cogliere un’ampia gamma di segnali e percepire intuitivamente le emozioni non verbalmente espresse da altri individui. Ciò è possibile grazie ad un complesso circuito neuronale che permette alla corteccia cingolata anteriore di trasferire all’amigdala basolaterale gli stati emotivi colti durante le interazioni sociali (Smth et al, 2021).

La paura non si dimentica e può causare variazioni neuroplastiche della corteccia cerebrale

La sopravvivenza di un individuo e del gruppo sociale di appartenenza è legata ai ricordi di eventi passati e alle emozioni ad essi associate. La rievocazione della paura provata in precedenti esperienze consente di poter evitare possibili pericoli o di poter affrontare in modo efficace situazioni già sperimentate. In casi particolari, tuttavia, gli eventi vissuti possono porsi al di là delle esperienze umane abituali ed avere una intensità tale da non consentire all’individuo di reagire o di dare un senso ai sentimenti di paura, di impotenza e di orrore provati, causando una “ferita dell’organismo psichico” che può essere all’origine disturbi psichiatrici importanti. Al riguardo, l’utilizzo di tecniche di neuroimaging, in particolare la risonanza magnetica funzionale (fMRI), ha permesso di verificare (VanElzakker, et al, 2018) che durante la rievocazione di situazioni di terrore o di grave pericolo:

  • l’amigdala può risultare iperattiva, causando un comportamento stimolo risposta anomalo;
  • le strutture della corteccia prefrontale, che normalmente inibiscono l’amigdala, possono risultare poco reattive e quindi incapaci di reprimere lo stimolo della paura;
  • l’ippocampo può avere un funzionamento anormale che può causare fenomeni di ipermnesia (Desmedt et al. 2015), ovvero di un abnorme aumento della capacità di rievocare i ricordi traumatici e di amnesia contestuale (Al Abed et al, 2020), limitando la capacità di identificare contesti sicuri e di ricondurre la paura alla causa che l’ha ingenerata.

Un evento di elevata intensità è causa, dunque, di un forte stress emotivo che induce cambiamenti neuroplastici della corteccia cerebrale, determinando l’apprendimento di uno stimolo di paura con un meccanismo di condizionamento pavloviano in cui risulta deficitaria la capacità di superare il momento di crisi e di archiviare le emozioni ad esso correlate. A titolo esemplificativo, la ripetizione di uno shock causato da un suono accompagnato da una luce verde determina l’apprendimento di una risposta di paura condizionata che si ripropone anche qualora il soggetto rivede la sola luce verde. Questo processo permette di comprendere il motivo per cui i ricordi decontestualizzati sfuggono al controllo volontario e la paura da essi rievocata risulta non controllabile anche qualora non siano in atto possibili minacce (Brewin et al, 2010).

La paura dell’ignoto è più forte e differisce in relazione al tipo di minaccia

Nel corso della pandemia di COVID 19 le persone hanno vissuto lunghe esperienze di isolamento sociale e sono state esposte al rischio di perdere il proprio lavoro, di potersi ammalare e di non poter ricevere assistenza o cure adeguate, di lutti improvvisi nonché ad un intenso bombardamento mediatico sull’andamento del coronavirus, delle sue varianti e delle campagne vaccinali nel mondo.

Tale situazione ha indotto alcuni ricercatori a verificare se gli individui abituati a convivere con minacce improvvise, come ad esempio quelle di natura terroristica, disponessero di una migliore capacità di gestire tali eventi e di una resilienza più efficace. Al riguardo, un recente studio (Shechory et Laufer, 2021) ha posto in evidenza che:

  • il COVID-19 incute più paura rispetto al rischio di rimanere coinvolti in un attentato terroristico;
  • vivere in un ambiente caratterizzato da conflitti e tensioni sociali, sebbene possa rendere più abili a gestire una prolungata esposizione a stressor di varia natura, non ha agevolato la gestione del pericolo di essere conteggiati dal coronavirus né ha, tantomeno, rinforzato la resilienza individuale, familiare e della comunità.

Secondo gli esperti tale inaspettata situazione può essere spiegata:

  • dalla carenza di esperienza che ha reso difficoltoso per la popolazione affrontare e convivere con un nemico che ha aggredito il pianeta in tempi brevissimi e con modalità del tutto nuove (Cohen-Louck et Levy, 2021);
  • dall’iniziale mancanza di provvedimenti finalizzati alla stabilizzazione della situazione finanziaria e alla tutela del lavoro (Shechory Bitton et Laufer, 2021). Infatti, una delle lezioni apprese di questa pandemia è che l’instabilità economica incide sulla qualità della vita e sulla visione che si ha del mondo (Trzebiński et al., 2020,), è causa di forti disagi e tensioni, di un progressivo logoramento del benessere psicofisico (Guo et al., 2020) e della capacità di far fronte ad ulteriori stress oltre che contribuire alla manifestazione di gravi disturbi psichiatrici (Song et al., 2020);
  • dall’elevata esposizione al rischio di poter perdere la vita a causa di eventi percepiti come non prevedibili e controllabili (Shechory Bitton et Laufer, 2021). Tale situazione, in un quadro di generale confusione dovuto a carenti e incoerenti informazioni (Reizer et al., 2020), ha causato un rapido esaurimento emotivo, limitato l’efficacia strategie di coping e logorato la resilienza, aumentando, quindi, la percezione della paura (Tzur Bitan et al., 2020).

In conclusione

La paura non è semplicemente una reazione all’esposizione ad una situazione minacciosa. Essa può risentire di alcune variabili sociodemografiche (istruzione, situazione finanziaria, genere, ecc.) e, per questo motivo, assumere dimensioni non prevedibili, causare reazioni non controllabili e limitare il benessere psicosociale nell’ambito di una stessa comunità. Per questo motivo, sebbene i dati emergenti in questi anni richiedano ulteriori approfondimenti e conferme, è possibile ritenere che l’uomo non ha sviluppato una sorta di “immunità” alla paura né ha sviluppato una migliore capacità di gestione. Risulta, dunque, estremamente importante riuscire a identificarne la dimensione sociale e i potenziali fattori di rischio, onde sviluppare strategie che, attraverso interventi integrati e multilivello, rendano più agevole l’individuazione di gruppi potenzialmente problematici e il rinforzo delle capacità necessarie al mantenimento di un adeguato livello di benessere biopsicosociale anche in situazioni di forte stress e minacce improvvise.

Scoperto il funzionamento dell’interruttore cerebrale della sazietà

Un gruppo di ricercatori della Queen Mary University di Londra e della Hebrew University di Gerusalemme ha recentemente pubblicato, sulla rivista Science, i risultati di uno studio che ha permesso di descrivere la struttura ed il funzionamento del recettore per la melanocortina (MC4). Questo viene considerato l’interruttore cerebrale della sazietà.

 

Le melanocortine sono ormoni peptidici e sono stati individuati cinque recettori a cui queste molecole si legano. I recettori MC3 ed MC4 sono localizzati nel sistema nervoso centrale, in particolare nelle regioni ipotalamiche deputate al controllo energetico (Merkestein M., Adan RA, 2009).

Alcune ricerche evidenziano il legame esistente tra la mutazione di tali recettori e la comparsa di obesità (Bell G, Walley AJ, Froguel P. 2005; Santini F, Maffei M, Ceccarini G et al. 2004).

Lo studio, condotto dalla Queen Mary University in collaborazione con La Hebrew Univerity (Israeli H., Degjtiarik O., Fierro F. et al. S 2021), utilizzando le tecniche di microscopia elettronica criogena, ha permesso di descrivere la struttura tridimensionale del recettore MC4 ed il suo funzionamento.

I ricercatori hanno identificato i punti di accesso che contraddistinguono questo recettore, differenziandolo dagli altri della stessa famiglia. Ciò è stato possibile grazie all’utilizzo del setmelanotide, un agonista del recettore MC4 (Markham A. 2021). Inoltre lo studio ha messo in evidenza che il calcio favorisce il legame tra l’ormone ed il recettore inducendo sazietà e che, sempre il calcio, interferisce con la grelina, nota come ormone della fame, riducendone l’attività (Efthimia Karra, Owen G.O’Daly, Agharul I. Choudhury et al. 2013).

Negli ultimi anni, la sperimentazione farmacologica si è indirizzata verso lo sviluppo di farmaci per il trattamento dell’obesità che agiscono a livello cerebrale (Bray GA 2014). La scoperta della struttura e del funzionamento del recettore MC4 apre la strada alla realizzazione di molecole anti-obesità in grado di legarsi esclusivamente a questo recettore, così da evitare la comparsa di effetti avversi dovuti all’attivazione di altri recettori dello stesso genere.

L’obesità è considerata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità “un’epidemia globale”, proprio perché il numero di obesi è in continua crescita; per questo è necessario comprendere quali sono i meccanismi alla base di questa condizione clinica che si accompagna ad un aumento del rischio cardiovascolare e della mortalità (Lawlor DA, Lean M, Sattar N. 2006).

Adolescenti con emozioni intense. Come gestire con la DBT le sfide emotive e comportamentali di tuo figlio (2021) di Pat Harvey e Britt H. Rathbone – Recensione

Un libro necessario, un manuale che propone un metodo di auto aiuto clinicamente efficace, scientificamente fondato, rigoroso e innovativo. Una guida che aiuta e porta a cambiare davvero. Così recita la prefazione di Adolescenti con emozioni intense.

 

Il libro è una guida completa che aiuta a gestire con efficacia le emozioni ed i comportamenti di adolescenti disregolati e quelli delle persone che entrano in relazione con loro.

Il programma, sviluppato da Pat Harvey, Britt H. Rathbone e collaboratori, risponde alle domande dei genitori in difficoltà con strategie concrete, efficaci e comprovate, volte ad aiutarli ad essere genitori capaci e comprensivi nell’affrontare le sfide quotidiane collegate alle emozioni intense che gli adolescenti esperiscono, promuovendo un nuovo approccio all’educazione socio- emotiva nel contesto famigliare.

Spesso gli adolescenti si trovano in difficoltà nel comprendere e discriminare le emozioni che provano e reagiscono ad esse assecondandone l’impulso all’azione. È importante che sperimentino sentimenti positivi e negativi senza farsi sopraffare, vivendoli senza paura di essere giudicati e senza farsi “travolgere” dall’ansia e dalle situazioni difficili.

Conoscere il funzionamento emotivo, mentale e relazionale degli adolescenti nei loro diversi contesti di vita, è indispensabile per contribuire al supporto della loro crescita.

È fondamentale, pertanto, che i genitori riescano a costruire una rete di aiuto che possa offrire supporto ai giovani e in cui possano trovare essi stessi un sostegno per gestire i momenti di difficoltà e le sfide della genitorialità. L’adolescenza è un momento di crisi, una fase delicata con rilevanti trasformazioni fisiche e psicologiche che i ragazzi e le loro famiglie devono affrontare. Tutto ciò rompe gli equilibri precedentemente creati, tra la famiglia ed il bambino; il ragazzo, in questa nuova fase, è posto di fronte a specifici compiti sia evolutivi che emotivi, familiari e relazionali. Purtroppo non esistono risposte univoche alle sfide quotidiane da affrontare con gli adolescenti, ma si possono mettere in atto tecniche e strategie efficaci per meglio vivere la quotidianità. Durante questo periodo, i ragazzi, come già sopra esposto, si ritrovano a vivere emozioni intense che spesso non sono in grado di gestire o comunicare; può capitare che anche le emozioni di base come la tristezza, la rabbia e la paura, si trasformino in depressione, collera e ansia travolgente. Non avendo ancora sviluppato strategie efficaci per gestirle può capitare che le contrastino attraverso comportamenti autolesivi, aggressivi o attraverso l’abuso di sostanze, manifestando disordini alimentari o rifiuti verso le autorità e la scuola.

Come può un genitore fronteggiare questo delicato momento?

Attraverso questo manuale, gli autori ci guidano nella comprensione del modello DBT (Dialectical Behaviour Therapy) di Marsha Linehan offrendo una nuova prospettiva per l’interpretazione dei comportamenti disfunzionali e delle emozioni. L’autrice parte dal presupposto che, per aiutare le persone a cambiare i propri agiti, sia necessario che esse si sentano accettate e validate per le emozioni che provano in un determinato momento. La terapia dialettica comportamentale insegna strategie utili per riuscire a sostituire i comportamenti autolesivi e “nocivi” con altri più sani e adattivi, riconoscendo però quanto sia difficile il cambiamento, attuando atteggiamenti più funzionali e socialmente accettabili. Numerosi sono gli studi che già in passato hanno indagato e confermato l’efficacia dell’uso di questo modello con gli adolescenti.

Struttura e contenuti del libro

Attraverso una panoramica dettagliata del funzionamento degli adolescenti, dei pre-adolescenti e dei giovani adulti, gli autori accompagnano il lettore alla scoperta dei tre moduli previsti per l’apprendimento delle abilità generali e di quelle specifiche proposte in ciascun capitolo. Vengono inoltre analizzati gli aspetti pratici relativi all’implementazione del programma all’interno della routine famigliare, come per esempio la definizione degli esercizi e delle valutazioni delle diverse situazioni. Il libro è diviso in tre sezioni. Nella prima parte: “Concetti e strategie per comprendere gli adolescenti” è illustrato il funzionamento dell’adolescente, le sue emozioni e i suoi comportamenti specifici. In particolare questa sezione si divide in sottocapitoli che trattano i concetti e le strategie per comprendere i ragazzi e rispondere loro in modo efficace. Il capitolo espone come comportarsi mantenendo un atteggiamento franco ed equilibrato evitando di farsi trascinare in lotte di potere cercando un giusto compromesso e mantenendo la calma anche durante le esplosioni emotive dei ragazzi, capendoli ed implementando le strategie che consentano di ridurre le situazioni stressanti. Il manuale illustra anche strategie che aiuteranno i caregiver a comprendere e quindi a cambiare le risposte in relazione al comportamento dei figli sviluppando un approccio equilibrato alla genitorialità, nonostante le reali e concrete difficoltà quotidiane che un genitore si ritrova a fronteggiare. Il capitolo offre spunti sul come affrontare e risolvere i conflitti, indicando un percorso che permetta all’adolescente di sviluppare le soft skill e le social skills necessarie alla crescita e allo sviluppo della sua personalità.

Nel libro si trovano esperienze reali ed esempi concreti su come sia possibile cambiare situazioni che sembrerebbero apparentemente immodificabili.

La seconda parte: “Rispondere ai problemi comportamentali” offre spunti per trovare modalità più efficaci per rispondere ai comportamenti problema. Gli autori trattano con cura e sensibilità non solo quelli che sono i problemi comportamentali più frequenti come gli agiti aggressivi o le aggressioni verbali, ma anche le minacce relative ai possibili tentativi di suicidio, di autolesione, di abuso di sostanze e disturbi del comportamento alimentare. Il capitolo pone l’attenzione sull’importanza della validazione emotiva. Come Marsha Linehan, gli autori, evidenziano l’importanza di comunicare alle persone che le risposte emotive, cognitive e comportamentali che esperiscono hanno senso e sono comprensibili. Nello specifico promuovere questo comportamento aiuta nello stabilire un miglior clima familiare e una maggior sintonizzazione emotiva. Grazie alla validazione, gli adulti di riferimento possono comunicare ai propri figli che i loro comportamenti hanno senso e sono logici per loro in quel momento. In questo modo assumono un atteggiamento di ascolto empatico, non giudicante e di accettazione. Il comportamento problematico, attraverso la validazione, viene riconosciuto, reso comprensibile e coerente in relazione a tutti gli aspetti della vita del paziente: per fare ciò è strettamente necessario imparare a praticare l’accettazione e in seguito promuovere il cambiamento verso comportamenti più funzionali.

La terza parte, dal titolo: “Prendersi cura di sé e della famiglia” affronta il tema delle sfide tra adulti e figli adolescenti, esperienze spesso condivise e frequenti in tante famiglie. È utile mettere in pratica strategie e azioni che permettano di promuovere benessere gestendo al meglio le situazioni temute.

Il libro offre:

  • l’opportunità di validare sé stessi e le difficoltà quotidiane;
  • imparare a tollerare lo stress;
  • rispettare i propri limiti e soprattutto accettare sé stessi e i comportamenti dei propri figli.

Gli autori prestano attenzione ad ogni membro e ai diversi ruoli all’interno della famiglia al fine di comprendere meglio i vari punti di vista, le emozioni e i bisogni di ciascuno.

Il libro si rivolge a genitori, educatori e tutti coloro che hanno un ruolo nella gestione degli adolescenti e guida il lettore attraverso una maggiore consapevolezza e conoscenza all’apprendimento di abilità efficaci per gestire comportamenti problematici. Un testo utile non solo a supporto dei percorsi di terapia ma anche per tutti coloro che desiderano trovare strategie volte alla promozione di un cambiamento.

Cambiare si può, con coraggio e con adeguata disponibilità.

I costi sociali/mentali dello smart working

Durante la pandemia di COVID-19, il numero di lavoratori in smart working è aumentato del 69% in Italia.

 

Il contesto di lockdown, indotto dai governi a seguito della pandemia di COVID-19, ha radicalmente rivoluzionato la socialità e l’attività lavorativa a partire dal primo trimestre del 2020. Per ridurre al minimo il contatto fisico tra gli individui e prevenire ulteriori contagi, molte aziende hanno implementato lo smart working, ‘lavoro mobile’: una modalità lavorativa che permettere di svolgere la medesima professione, senza il vincolo della presenza fisica sul luogo lavorativo, tramite il supporto di specifiche piattaforme tecnologiche (Moretti, 2020).

L’espressione smart working ha iniziato a entrare in auge come mai prima d’ora nel corso della storia. Durante la pandemia di COVID-19, il numero di lavoratori a distanza è aumentato del 69% in Italia, mentre è stato stimato che circa l’81% della forza lavoro mondiale sia stata interessata dai cambiamenti della modalità lavorativa (Savić, 2020). Tale mutamento dello scenario lavorativo su scala mondiale ha inevitabilmente implicato dei vantaggi in termini pratici, ma allo stesso tempo ha generato costi sociali e/o mentali non indifferenti. Considerando che per la maggior parte dei lavoratori è stata la prima esperienza da remoto, tra i fattori positivi di natura pratica è possibile individuale i seguenti: tempi e costi ridotti per gli spostamenti (specialmente per il pendolarismo), minore stanchezza fisica, migliore equilibrio tra lavoro e vita privata e maggiore controllo sugli orari (Savić, 2020). Un ulteriore fattore positivo, per alcuni lavoratori, concerne la possibilità di potersi prendere maggiormente cura dei figli e di eventuali famigliari con complicanze mediche che richiedono un trattamento mirato; a discapito, però, di minor tempo a disposizione per attività di svago personale (Nakrošienė et al., 2019). In merito agli svantaggi sociali, invece, è stato possibile individuare i seguenti: difficoltà a monitorare le prestazioni, ostacoli comunicativi, assenza di un confine di demarcazione netto tra sfera domestica e lavorativa e complicanze a carico della vista e della colonna vertebrale a causa delle tempistiche protratte dinnanzi al computer (Moretti, 2020).

Focalizzando l’attenzione su questo ultimo punto, è possibile comprendere quanto l’ambiente domestico rischi di essere ostacolante sotto molteplici aspetti, rispetto al luogo di lavoro canonico. In particolare, l’assenza di mobili da ufficio ergonomici a casa (sedia da cucina convenzionale a quattro gambe non regolabile in altezza, monitor non regolabile in altezza, assenza di poggiapiedi) può impedire l’adozione di una postura sana e può favorire l’insorgenza di disturbi muscoloscheletrici (Pillastrini et al., 2010; Will, Bury & Miller, 2018). Lavorare, infatti, in posizione sedentaria per periodi prolungati aumenta il rischio di dolore al collo e/o lombalgia (Baker et al., 2018). In merito all’associazione tra l’aumento dell’uso del computer e il dolore al collo correlato al lavoro, non è chiaro se si tratti di una relazione causale, considerando la complessa eziologia del dolore al collo che comprende l’interrelazione tra fattori fisici, psicologici e ambientali (Wahlström et al., 2004).

Focalizzandosi, invece, sui costi mentali è stato possibile registrare un incremento di ansia, alterazioni del sonno e dell’alimentazione, tendenza all’isolamento e quadri sintomatologici riconducibili al Burnout, che inevitabilmente inficiano l’efficacia lavorativa, il benessere psicofisico e l’equilibrio tra lavoro e vita privata. È stata, inoltre, riscontrata tra le conseguenze avverse dello smart working una maggiore irritabilità nei lavoratori, fortemente associata all’isolamento sociale e all’impossibilità di condividere difficoltà di vario genere sul lavoro e di trovare possibili soluzioni con i colleghi (APA, 2020). L’isolamento sociale forzato, unito a una marcata riduzione dell’attività fisica all’aria aperta e in strutture apposite, potrebbe anche implicare conseguenze avverse sulla salute sia fisica, sia mentale; pertanto, il lavoro a distanza sembra essere associato a un aumento del rischio di problematiche di natura psicofisica (Fana, Pérez & Fernández-Macías, 2020).

La variabile ‘produttività’ è quella che più tra tutte ha registrato risultati discordanti tra i vari studi condotti a riguardo: l’ipo-produttività può essere ricondotta alla presenza di maggiori distrazioni nell’ambiente domestico e alla ridotta interazione con i colleghi, mentre l’iper-produttività può essere spiegata da un decremento di fattori stressogeni, come ad esempio la riduzione delle tempistiche di spostamento (Moretti et al., 2020). Nonostante la ricerca si sia occupata di questa tematica estremamente attuale in maniera massiva, lo stato dell’arte di tale filone di ricerca si colloca ancora ad uno stadio preliminare, che necessita di molteplici approfondimenti e studi. Sono, infatti, necessari ulteriori ricerche con cospicue numerosità campionarie e basate su archi temporali estesi, in modo tale da permettere una maggiore generalizzabilità dei risultati su ampia scala (Moretti et al., 2020).

Congresso EABCT 2021 a Belfast: il report dalla prima giornata

Il congresso è organizzato in una forma ibrida: è possibile seguire simposi e seminari sia in presenza, all’ICC di Belfast dove mi trovo in questo momento, sia online. La formulazione è molto pratica e funzionale, visto che permette ai delegati di poter seguire l’intero congresso sia in diretta che in differita.

Sicuramente un’ottima iniziativa, che elimina il problema di scegliere tra la grande proposta di seminari presentati in contemporanea e garantendo la possibilità di riguardare i passaggi importanti di workshop e seminari anche con calma nelle settimane successive. I delegati in presenza sono comunque parecchi: si respira la voglia di re-incontrarsi dopo le restrizioni da pandemia, anche se le precauzioni sono molte: tampone rapido tutte le mattine per tutti, mascherina, distanziamento.

Il keynote di apertura è affidato a David Clark, che presenta un aggiornamento sull’IAPT, il programma pubblico britannico che negli anni ha rivoluzionato l’approccio alla salute mentale del Regno Unito.

Per chi non lo conosce, il progetto dello IAPT nasce con uno studio pilota nel 2005, su alcune premesse: i disturbi d’ansia e depressivi trattati non efficacemente costano al regno unito circa il 4% del proprio prodotto interno lordo. Investire quindi nell’efficacia dei trattamenti per la salute mentale non solo non è un costo, ma è in realtà un investimento che aumenta la disponibilità economica.

Perché questo funzioni però è necessario che l’investimento abbia delle garanzie: i trattamenti siano monitorati e ne venga garantita l’efficacia.  Così viene istituito questo grande progetto, che diventa a portata nazionale nel 2007, tramite il quale ogni servizio di salute mentale monitora l’efficacia dei propri trattamenti, seduta per seduta, per ogni paziente. Ogni terapeuta viene formato e seguito.

Il successo di questo monumentale progetto è quello di portare l’efficacia dei trattamenti psicologici su ansia e depressione dal 30% a più del 50%, con una media di 8 sedute a paziente. Attualmente il programma IAPT riesce a prendere in carico 1170000 persone l’anno.

L’intera storia dell’IAPT è descritta nel libro di David Clark “Thrive”, non tradotto in italiano ma di facile lettura e particolarmente ricco di spunti sulla ricaduta economica e sociale del mancato trattamento dei problemi emotivi e psicologici.

Dopo aver presentato gli abituali dati, David Clark fa il punto su come lo IAPT si è adattato alla situazione pandemica, e ancora una volta con ammirazione mi trovo ad ascoltare i dati da lui presentati.

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In poche settimane il sistema si adatta. Non vi è un calo delle prese in carico del sistema pubblico, ma i colloqui si spostano e rapidamente cresce l’utilizzo dei video colloqui. Le percentuali di successo dei trattamenti rimangono invariati e sicuramente il servizio pubblico acquista flessibilità e migliora la propria capacità di intervento.

Insomma: un sistema invidiabile che ha saputo con rapidità adattarsi e ha raccolto gli insegnamenti della situazione pandemica per arricchirsi di strumenti e sul quale governi britannici di qualsiasi colore politico continuano ad investire.

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Uno studio, condotto su oltre un milione di individui, fa luce sulle basi genetiche della depressione

La depressione è tra i disturbi psichiatrici più diffusi ed ha una prevalenza di oltre il 20% negli Stati Uniti, mentre nel mondo si stima che la depressione colpisca 300 milioni di persone, il 4.4% della popolazione mondiale, con importanti costi personali e sociali (Levey  et al., 2021).

 

Solo di recente sono stati fatti progressi nello studio e nella comprensione delle basi genetiche di questa patologia. In particolare, un recente studio che ha unito i dati provenienti da U.S. Department of Veterans Affairs (VA) Million Veteran Program (MVP), UK Biobank (UKB), FinnGen e 23andMe, ha analizzato un campione composto da oltre un milione di individui, costituendo così la più grande analisi genetica mai svolta ad oggi sulla depressione (Levey  et al., 2021).

Nello studio, pubblicato sulla rivista Nature Neuroscience, i ricercatori hanno infatti inizialmente analizzato il genoma di oltre 250.000 individui di origini europee del Million Veteran Program (MVP), la più ampia e differenziata biobanca al mondo. Questi primi risultati sono stati poi combinati alle precedenti analisi condotte sugli altri database genetici, ottenendo in questo modo un campione di oltre 1,2 milioni di partecipanti (Levey, 2021).

Attraverso uno studio di genome-wide association (GWAS) sono stati identificati 223 polimorfismi a singolo nucleotide (SNPs) in 178 loci genetici – parti specifiche del genoma – legati al rischio di malattia (Levey  et al., 2021).

Questo risultato è molto più ampio di quanto rilevato in passato: è stato registrato un aumento di 77 loci genetici rispetto al più grande studio precedente che aveva indagato un fenotipo simile (Howard et al., 2019).

Basi genetiche della depressione

Secondo le analisi, tra le varianti genetiche maggiormente coinvolte nella depressione troviamo:

  • NEGR1: è un gene implicato nella crescita neuronale che, secondo ulteriori analisi condotte dai ricercatori, risulta collegato all’ipotalamo, area cerebrale coinvolta nel sonno e nell’elaborazione emotiva. Tra gli studi svolti, Singh e colleghi (2019) hanno osservato che in topi knock-out per Negr1 si riscontrano alterazioni a livello cerebrale, con ridotto volume dell’ippocampo e, a livello comportamentale, con anomalie nei comportamenti sociali, ridotte interazioni e maggiore ritiro sociale.
  • DRD2: è un gene che codifica per un recettore chiave della dopamina. Questo è risultato espresso in modo ridotto a livello del nucleo accumbens, un’area del circuito dopaminergico della ricompensa, ritenuto già da tempo implicato nella depressione (Levey  et al., 2021). Il sistema dopaminergico è infatti associato all’effetto gratificante di cibo, sesso, e uso di droghe. Data la presenza di anedonia, ridotta motivazione e riduzione del livello di energia in gran parte delle persone con depressione, i risultati dello studio hanno fornito un’ulteriore conferma dell’implicazione del nucleo accumbens nella fisiopatologia, nell’eziologia e nella sintomatologia della depressione (Nestler et al., 2006).
  • Un terzo gene che mostra una forte associazione con la depressione è CELF4, di cui è noto il ruolo chiave nei disturbi dello sviluppo, incluso il disturbo dello spettro autistico (Levey  et al., 2021).

Depressione e altri disturbi

I dati hanno anche permesso al team di ricerca di correlare 1.457 “tratti” fisiologici e comportamentali con la depressione, 669 dei quali risultano essere significativamente correlati, supportando così importanti osservazioni di vecchia data sulla depressione, in particolare quelle che la collegano a condizioni o comportamenti “internalizzanti” (auto-generati, auto-diretti come ansia, inibizione, paura e ritiro) e comportamenti esternalizzanti (nel caso specifico di questo studio, comportamenti rischiosi come l’uso di sostanze).

Ulteriori analisi condotte sui dati raccolti hanno rivelato una sovrapposizione genetica tra la depressione e diverse altre condizioni psichiatriche, così come suggerito da altri studi. La depressione condividerebbe fattori di rischio genetici con i disturbi d’ansia e il disturbo da stress post-traumatico, nonché con comportamenti a rischio e disturbo da uso di cannabis.

Depressione e farmaci

Uno dei primi ricercatori dello studio, il Dr Joel Gelernter, ha così commentato i risultati:

Lo studio rivela molto più di quanto conoscevamo finora sull’architettura genetica della depressione. Ciò consente di porre maggiore attenzione sul ruolo di molte più regioni cerebrali e ci aiuta a identificare quali farmaci, attualmente utilizzati nel trattamento di altre condizioni cliniche, possono essere impiegati nella cura della depressione

I risultati difatti, secondo gli autori dello studio, potrebbero essere utilizzati per identificare nuove terapie farmacologiche per il trattamento della depressione . Identificando quali geni sono coinvolti nella depressione, i ricercatori potrebbero essere in grado di riutilizzare i farmaci esistenti, di cui è già nota l’azione su questi geni. Uno tra tutti, il riluzolo, un farmaco usato per trattare la sclerosi laterale amiotrofica (SLA), che agisce su uno dei geni identificati dallo studio e che potrebbe dunque essere di interesse per il trattamento della depressione.

Lo studio condotto da Levey e collaboratori (2021), grazie all’ampiezza del campione di riferimento e alle metodologie utilizzate, fornisce importanti risultati facendo sempre più luce sulla struttura genetica della depressione e fornendo un promettente contributo per una maggiore comprensione del disturbo depressivo.

Quando le abitudini diventano dipendenza – VIDEO del webinar di Studi Cognitivi L’Aquila

Alcuni comportamenti, usati per evitare il contatto con le emozioni dolorose, si trasformano nel tempo da abitudini a dipendenze per la loro efficacia nel rispondere alla vulnerabilità che si sta vivendo. Pubblichiamo per i nostri lettori il video del webinar sull’argomento, tenuto da Studi Cognitivi L’Aquila, dal titolo “Quando le abitudini diventano dipendenza”.

 

La dipendenza è un concetto legato erroneamente al solo bisogno fisiologico di accedere a delle sostanze. In realtà la dipendenza include tutti i comportamenti attraverso i quali si riesce a evitare di prendere contatto con le emozioni che non vogliamo sentire perché eccessivamente intense e durature.

Tali comportamenti si trasformano nel tempo da abitudini a dipendenze per la loro efficacia nel rispondere alla vulnerabilità che si sta vivendo.

Alcuni di questi comportamenti possono essere funzionali e non dannosi per la salute, altri, come l’utilizzo di sostanze o farmaci, presentano un maggior livello di rischio per la persona, ma è la ripetizione compulsiva che rende patologica un’abitudine.

Nel webinar organizzato da Studi Cognitivi L’Aquila, sono state illustrate sono le principali forme di dipendenza, i fattori di rischio e quelli di protezione, le idee di riferimento che sostengono e impediscono di mettere da parte un comportamento che è diventato eccessivamente pervasivo.

 

Quando le abitudini diventano dipendenza

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L’esperienza della gravidanza sotto un profilo neurobiologico: cambiamenti morfologici e cognitivi a confronto

La gravidanza determina cambiamenti morfologici cerebrali, relativi perlopiù alle aree coinvolte nella cognizione sociale e che guidano i comportamenti circa l’interpretazione dello stato mentale altrui, facilitando nella futura madre l’interazione verso l’altro.

 

La funzione genitoriale costituisce un insieme di competenze complesse, sempre in evoluzione, che riguardano la capacità di ogni individuo di prendersi cura e proteggere un’altra persona, la quale – sotto una visione più ampia, in base all’età, allo sviluppo e alle condizioni psicofisiche – necessita di qualcuno capace di leggere i suoi bisogni e soddisfarli adeguatamente (Venuti, P., Simonelli, A., 2018).

Risulta dunque possibile attivare la propria funzione genitoriale sia prestando attenzione alle richieste dell’altro, sia mostrando disponibilità nell’esprimere comportamenti con una componente affettiva e cognitiva finalizzati alla protezione e al sostegno. L’aspetto più importante risiede nel fatto che tale funzione presenta varie sfaccettature, in quanto è strettamente connessa con la dimensione generativa biologica e, in parallelo, in relazione ad uno scenario a ritroso nel tempo e collocabile in una dimensione passata.

Ciò significa che in ciascuno di noi sono presenti delle radici in cui le tracce genetiche ed epigenetiche, in rapporto alle proprie esperienze pregresse, riflettono il grado di cura e di protezione ricevute a propria volta in età precoce.

Questo non solo serve a comprendere come siamo portatori di un bagaglio multifattoriale, ma anche come tutto quello che ci ha preceduti abbia innescato delle modifiche pronte ad essere trasmesse. Volendo quindi considerare l’organismo come un tutt’uno con l’ambiente circostante e in stretto rapporto alle capacità omeostatiche della madre, funzionali al sostegno della vita nel grembo materno, si può notare come i diversi funzionamenti cerebrali della stessa subiscano una trasformazione proprio a partire da un background personale e in costante cambiamento, già a partire dalla fase dell’attesa del nascituro.

Per questo motivo prendere consapevolezza dell’importanza di un intervento precoce può essere un punto a favore del sostegno alla cura genitoriale, nei confronti non solo di sé stessi ma anche del futuro bambino.

Le capacità autoregolatrici del genitore, in tal caso della madre, non solo si esprimono a diversi livelli ma incidono a loro volta sulle capacità di regolazione emotiva e fisiologica del bambino, già a partire dalla fase di gestazione.

Infatti durante questa fase è possibile trasmettere il proprio corredo esperienziale che, se corredato di fattori stressogeni, può sfociare in un aumento dei livelli di cortisolo.

Come sottolineato da Feldman, madre e bambino mostrano una compartecipazione diadica che può essere adattiva o meno per ambo gli attori della relazione (Feldman, R., 2012b). Nondimeno Numan e Insel sottolineano l’importanza della plasticità del corpo femminile che, durante la gravidanza, il parto e l’allattamento, riflette una modifica costante, in relazione al proprio stato mentale (Numan, M., Insel, H., 2003, Kim, P., Leckman, J. F., 2010).

Si evidenzia così una valida compartecipazione tra vari fattori quali: l’organizzazione cerebrale materna, la tipologia di risposta e il contributo della genetica in rapporto sia all’epigenetica che all’ambiente di crescita.

Nel loro insieme, tali fattori risultano circoscritti ad un comune denominatore che si riflette nel concetto di plasticità. Si delinea, in tal modo, l’importanza da parte della madre di poter contare su stessa e, dunque, di poter affidarsi alla rispettiva organizzazione dei suoi circuiti neuronali capaci di gestire, nel loro complesso, la propria omeostasi e di rispondere in modo adeguato a quanto sta prendendo vita al suo interno.

Il tutto nel dispiegarsi di tre dimensioni temporali connotate di una specifica valenza: prima, durante e dopo il parto.

L’accoglienza di una nuova vita emerge e si dispiega come un ventaglio in grado di incidere su più livelli (D’Amore, C., 2019), ciascuno con una propria funzione e una logica ben definita; a partire dal grembo e dalla dimensione intrauterina, per giungere successivamente ad una affettiva ed emotiva.

L’epoca prenatale si caratterizza dunque come punto nevralgico di partenza, in cui anche con il pensiero vengono affondate le radici, pronte a svilupparsi durante tutto il periodo della gravidanza. Un insieme di fasi, trasformazioni e cambiamenti nel quale una profonda ed invisibile alchimia chiama in causa numerosi fattori.

La transizione verso il ruolo genitoriale è accompagnata da numerosi cambiamenti che influenzano sia il modo di pensare che di percepirsi, innescando inoltre un notevole cambiamento circa la quotidianità. Se da un lato si riscontra una modifica ad un livello più esterno e quindi nel sociale, nel rapporto di coppia e non ultimo entro il nucleo familiare, dall’altro – ad un livello più profondo ed invisibile – la serie di modifiche investe il ramo fisiologico.

Tra queste infatti possono essere annoverati nuovi mutamenti che coinvolgono ulteriori equilibri presenti a livello ormonale, a livello del sistema nervoso centrale, accompagnati da una plasticità che segna l’apertura verso una nuova esperienza, quella della gravidanza, che, come visto in precedenza, è caratterizzata da tantissimi fattori (Lee, H, J., Macbeth, A, H., Pagani, J., 2009).

Il concetto di plasticità consente infatti nello specifico di comprendere come si verifichi un nuovo assemblaggio, sia a livello cerebrale che corporeo e come entrambi, in sintonia, possano sostenere la madre in questa nuova avventura (Featherstone, R, E., Fleming, A, S., Ivy, G, O., 2000).

Strutturalmente infatti parti della corteccia cerebrale cambiano di volume, oppure la medesima attività, se associata a determinati stimoli, si amplifica o subisce modifiche.

Sia la fase di gestazione sia quella del parto sono promotrici di questi nuovi meccanismi biologici che inducono alla plasticità stessa.

Se quindi i primi cambiamenti avvengono a partire dalla gravidanza e dal momento del parto per poi proseguire con l’allattamento, nel loro insieme prevedono una propria evoluzione nel periodo post parto (Hoekzema, E., Barbara Muller, E., Pozzobon, C., 2017).

Col termine plasticità ci si riferisce a quei cambiamenti (Schurz, M., Radua, J., 2014) di natura anatomica che si delineano a livello dello spessore della corteccia che interessa la materia grigia, in cui emergono numerose modifiche e tra esse una ristrutturazione nel numero di sinapsi, di cellule gliali, di neuroni e non ultima una modifica relativa l’architettura del dendritico.

Inoltre a subire notevoli mutazioni sono la vascolarizzazione, il volume e la circolazione del sangue (Kim, P., Leckman, J, F., Mayes, L, C., 2010).

I genitori alle prime armi, soprattutto le madri, si trovano dunque di fronte ad un nuovo percorso in cui il proprio bagaglio e le bussole personali incontrano ciò che non si conosceva prima.

Come riportato da Hoekzema le madri primipare, cioè al primo parto, mostrano di solito una riduzione di volume della materia grigia dopo la gravidanza in regioni cerebrali sottostanti alla cognizione e alla teoria della mente.

Quest’ultima infatti riflette la sua struttura in un circuito che riunisce la parte mediale del cervello, la corteccia prefrontale laterale e temporale laterale che nel loro insieme mostrano una spiccata plasticità corticale durante la gestazione.

A seguito di quanto detto è possibile confermare come la gravidanza e dunque il periodo prenatale determini cambiamenti morfologici cerebrali, relativi perlopiù alle aree coinvolte nella cognizione sociale e che guidano i comportamenti circa l’interpretazione dello stato mentale altrui. Tali cambiamenti possono nondimeno essere percepiti come modificazioni che, in aggiunta ad una predisposizione biologica di partenza, sono finalizzate a facilitare nella futura madre l’interazione verso l’altro.

Come sottolineato da Feldman ad esempio, sotto il profilo ormonale, l’ossitocina legata alla maternità sembra modulare l’attività dei sistemi neurali deputati alla cognizione sociale sopracitata. Tali dati infatti suggeriscono e sostengono ancor di più come il background biologico materno, se capace di raggiungere una buona omeostasi, possa effettivamente tornare utile ed essere di supporto proprio in momenti delicati come la gestazione ed il parto stessi. In definitiva questi meccanismi prima del parto, se proceduralmente allenati a mantenere un buon equilibrio, possono fungere proprio da guida prima, durante e dopo il parto; favorendo oltremodo il buon rilascio dell’ossitocina che, se percepita come un carburante, sosterrà i medesimi meccanismi nel promuovere risposte emotivamente ed empaticamente appropriate da parte della madre (Feldman, R., 2012b, Sporns, O., 2011).

In uno studio condotto nel 2017 da Hoeckzema si è inoltre visto come la riduzione del volume di materia grigia si concentra maggiormente nelle aree associative che regolano la nostra interazione sociale, aree quindi preposte a variegate capacità tra cui quella di comprendere lo stato mentale ed emotivo dell’altro. Nondimeno sembra che questa modifica rimanga inalterata per almeno due anni dopo il parto.

Quello che è importante sottolineare è come vi sia uno stretto rapporto tra un prima e un dopo, due dimensioni temporali in cui i fenomeni e le modifiche cerebrali legati alla plasticità avvengono anche nei primissimi mesi dopo il parto, in cui gli equilibri ormonali evidenziatisi proprio a partire dalla gravidanza giocano un ruolo fondamentale.

Un esempio infatti è stato fornito dallo studio condotto da Mayes e Kim in cui veniva documentata la plasticità corticale nella madre tra il terzo e il quarto mese dal parto. Nello specifico i cambiamenti inerenti il volume della materia grigia risultano estesi ad altre regioni del cervello, coinvolgendo la corteccia prefrontale, somatosensoriale, temporale e parietale e non ultime le aree sottocorticali.

Nel loro insieme non solo cercano di promuovere il giusto equilibrio ma, in associazione ad altre regioni deputate alla motivazione materna, possono favorire o meno un’omeostasi che coinvolga tutto l’organismo.

Tra queste regioni infatti troviamo l’ipotalamo bilaterale, l’amigdala, il globus pallidus e le aree mesencefaliche che includono strutture dopaminergiche quali l’aria tegmentale ventrale e la sostanza nera, le quali sono appunto finalizzate alla regolazione del comportamento di cura e alla promozione del piacere nello stare col bambino.

Nel complesso tali strutture sono circoscritte alla motivazione genitoriale e alla capacità di prendersi cura del piccolo.

Tutte queste modifiche sembrano quindi suggerire una riorganizzazione cerebrale nelle diverse regioni di fronte alle nuove responsabilità e ai ruoli che li attendono (Numan, M., 2012).

Quanto emerge è dunque una visione di insieme che mette in relazione il tempo vissuto del genitore con le sue rispettive esperienze e il tempo che inizia a scorrere già a partire dalla vita intrauterina, la quale risentirà proprio delle modalità di funzionamento appartenenti al genitore stesso.

Un’alterazione a livello del sistema nervoso centrale, con una diminuita plasticità delle regioni cerebrali deputate alla cognizione e alla regolazione dell’umore a livello dell’ippocampo e della corteccia prefrontale, può notevolmente incidere sulla soppressione della neuro genesi post natale e delle spine dendritiche (Helmeke, C., 2009 in D’Amore, C., 2019), che viceversa potrebbero promuovere protrusioni dei neuroni verso altri neuroni, con la conseguente formazione di nuove sinapsi. (De Bellis, M, D., 2005, Rees, C, A., 2010 in Siegel, D, J., 2017)

L’accoglienza di una nuova vita non è circoscritta solo al grembo fisico materno ma si estende ad un modo di sentire affettivo ed emotivo nella mente e nel cuore materni che, in base al proprio tempo vissuto e alla propria architettura, possono promuovere una fioritura ottimale.

Nello specifico ciò vuol dire che le cure che gli stessi genitori hanno ricevuto possono influenzare le loro modalità nei confronti del nascituro.

Quello che è importante tenere a mente è che sullo stesso piano sono presenti due vite asimmetriche, da un lato il futuro bambino e dall’altra la madre con una propria storia, un proprio passato e un modo personale di porsi nei confronti di sé stessa e del mondo.

Sotto un profilo psicodinamico l’inizio della gravidanza rappresenta il dispiegarsi non solo di un rapporto fusionale con il feto ma, al contempo, il recupero del proprio vissuto primario di simbiosi con la propria madre, facendole vivere un’esperienza di identificazione con essa.

Ciò che emerge non è solo un ricordo ma una gamma di sensazioni e memorie che, inscritte sulla pelle, la guideranno in modo adattivo o meno nella cura della prole.

 

L’interpretazione psicodinamica del feticismo

Freud definisce il feticismo una vittoria del pensiero sul reale, un paradosso implicito che afferma ciò che al contempo nega, una realtà minacciosa che, anziché rielaborata in modalità funzionale, viene liquidata con uno strumento allucinatorio. Con un fantasma, tanto efficace quanto immaginario (1927).

 

Nel feticismo l’eccitazione sessuale viene rivolta ad un oggetto parziale assunto ad identità di un tutto più vasto: l’oggetto-feticcio diviene dunque meta di una pulsione affettiva erotizzata, pur non possedendo alcuna apparente affinità con una dimensione sessuale. In base a ciò, il soggetto raggiunge uno stato di eccitazione soltanto in presenza dell’oggetto-parziale- non anche della totalità da cui lo stesso proviene, e dalla quale viene percepito come totalmente svincolato.

Potrebbe apparire una semplice preferenza dai risvolti non patologici, ma un significato simbolico più profondo sembra collegare questo fenomeno psichico al tentativo di dominare un’angoscia di castrazione tipico della fase edipica. È infatti questo il momento nel quale viene presa coscienza della diversità tra maschio e femmina, ed è anche questo il periodo in cui, a seguito di autoesplorazioni sessuali, il bambino realizza l’assenza del pene nella femmina (Freud, 1905).

Tale traumatica scoperta comporta un’immediata generazione di angoscia: egli comprende che il pene può essere perduto, e che la fonte di questa perdita può rivelarsi proprio la punizione inflittagli dal padre a causa del suo istinto di amore e possesso verso la madre. Limitato dalla fragilità di un Io ancora immaturo, il bambino sceglie di fronteggiare questa irreparabile eventualità negandola completamente: attraverso l’utilizzo del diniego egli disconosce la verità di ciò che sta vedendo – la mancanza del pene nella femmina- e, abdicando ad ogni legame con la realtà, si orienta verso una dimensione allucinatoria in cui uno scenario oggettivo viene sostituito da una visione intrapsichica. Il nucleo difensivo del diniego risiede proprio nel disconoscimento di una realtà oggettiva che con la sua portata traumatica rischia di frantumare la barriera emotiva, e che dunque non può avere accesso alla coscienza.

Dopo il diniego: i paradossi del feticcio

Terrorizzato dalla possibilità della castrazione, il bambino si convince dunque che l’evirazione non sia mai avvenuta, neppure nella bambina. E a riscontro concreto di questo assunto illusorio costruisce il surrogato di un fallo- il feticcio- identificandolo con il pene femminile.

L’effetto è quello di scotomizzare la mancanza del fallo della donna con finalità prettamente difensiva. Ma il concetto stesso di feticcio si mostra portatore di significati paradossali: il suo compito è infatti quello di negare una realtà di cui al contempo rappresenta la prova innegabile, poiché in assenza del rischio della castrazione il bambino non avrebbe dovuto dar vita ad un oggetto allucinatorio identificandolo con il pene femminile. Dunque, seppur negata, la possibilità di castrazione esiste, e il feticcio ne costituisce al contempo la conferma e la negazione.

Questa inconciliabile dicotomia si riflette in un’autentica scissione dell’Io – Ichspaltung- che vede il feticista condividere due aspetti autoescludenti della realtà -quello della negazione e dell’affermazione della castrazione, che nel feticcio trovano la propria “sintesi paradossale” (Freud, 1927).

Il feticismo come prodotto del conflitto edipico

Nella fase fallica l’ansia di castrazione deriva dal timore del bambino di venir punito dal padre per il desiderio di affetto e possesso esclusivo sperimentato verso la madre, e per il sogno, altrettanto intenso, di disfarsi della presenza del padre visto come un potente rivale in questa corsa alla conquista della madre.

Dunque la scoperta di quella che il maschietto identifica con un’evirazione femminile diventa la realizzazione dei suoi timori. Da qui la necessità impellente di creare un pene suppletivo, incarnato proprio dal feticcio, che anche nella forma, spesso allungata, appuntita, acuminata (ad esempio una scarpa, una borsa, un tacco a spillo) si mostra fortemente evocativa della morfologia del fallo (Gabbard, 2005).

Il feticcio diventa il pene femminile con cui è possibile colmare il vuoto di una realtà inaccettabile, fatta di assenze, di perdite, di mancanze, che le deboli risorse egoiche del bambino non hanno ancora la capacità di fronteggiare. Per questo, ove collocato all’interno della fase edipica, è possibile riconoscere al feticismo una certa valenza evolutiva, in quanto consente di superare il complesso di castrazione prima di una più completa maturazione sessuale. Ma nel momento in cui la sua presenza si prolunga oltre la fase edipica, estraniandosi dal contesto evolutivo, esso si trasforma in una sorta di percetto allucinatorio, il prodotto di un meccanismo di difesa denegante la cui duplice funzione è quella di disconoscere una realtà e nello stesso tempo di affermarne l’esistenza.

In origine il feticcio non è altro che il sostituto del pene nella donna, è il surrogato di qualcosa che non c’è ma ci dovrebbe essere; ove perpetrato in età adulta, esso diviene l’incapacità di riconoscere ed elaborare la realtà, per quanto dolorosa e inaccettabile, senza far ricorso a mezzi contaminati dai propri vissuti affettivi. Ma il feticismo è anche il simbolo del fallimento dell’Edipo, che non si è concluso con un’identificazione paterna adattiva e con un riconoscimento della propria sessualità, avendo intrapreso, al contrario una direzione allucinatoria in cui l‘identificazione è avvenuta con un oggetto parziale -fantasmatico dal quale il feticista diventa patologicamente dipendente.

L’importanza del legame materno: il feticcio come oggetto transizionale

Alcune teorie psicodinamiche collocano l’insorgenza psichica del feticismo nella fase transizionale (Winnicott, 1967) in cui il bambino si vede impegnato nel passaggio da una dipendenza materna assoluta ad un legame più orientato all’autonomismo.

Questa concezione è volta a sconfessare un’interpretazione totalmente intrapsichica circa l’origine del feticismo, appannaggio di una visione relazionale il cui fine non è tanto quello di liquidare l’angoscia derivante da pulsioni sessuali proibite, ma piuttosto quello di ridurre la portata del trauma psichico causato dalla separazione dall’oggetto materno.

Dunque il feticcio potrebbe assumere la funzione di un oggetto transizionale incaricato di sostituire la madre, stemperando le angosce derivate dall’allontanamento della stessa. E il suo scopo non sarebbe più quello di appagare una pulsione sessuale frustrata, quanto quella di fronteggiare l’angoscia per un legame affettivo minacciato dall’abbandono.

Anche per Khout il feticcio assume la valenza di oggetto sostituivo di una madre incostante e non empatica che proprio grazie al feticcio può venir controllata, avvertita come presenza costante e attendibile (1971). Dunque quello che nel feticista appare come il bisogno sessuale di un oggetto narcisistico, può in realtà riflettere la volontà di dominare il vissuto ansiogeno provocato da una madre abbandonica e non responsiva (Mitchell, 1988).

Per provare un senso di integrità corporea e non sentirsi preda di angosce di annichilimento, il bambino ha quindi dovuto creare un oggetto necessario a negare l’assenza della madre e a dar vita ad un appoggio solido e concreto che fosse in grado di richiamarne la presenza (Greenacre, 1979).

Ma esattamente come il feticcio, neppure l’oggetto transizionale va esente da componenti contraddittorie, dato come la sua presenza serva a limitare gli effetti traumatici dello stesso evento che mira ad evitare: la separazione materna. Anche l’oggetto transizionale rappresenta al contempo l’unione con la madre e il distacco da lei, e proprio come il feticcio crea uno spazio illusorio che non coincide completamente né con la realtà esterna né con il mondo interiore, apparendo piuttosto come la relazione combinata tra questi due aspetti.

L’oggetto transizionale si pone a metà strada tra ogni cosa […] esso rappresenta un perfetto compromesso[…] Non è né parte di se stesso né del mondo esterno, eppure esso è l’una e l’altra cosa [..] è al contempo soggettivo e oggettivo, è ai confini tra l’esterno e l’interno, è sogno e realtà insieme (Winnicott, 1971, p. 36).

Il feticismo come “angoscia” del femminile

Si è ipotizzato che il feticismo sottenda in realtà una paura nei confronti dell’universo femminile, la cui origine non è tanto da imputarsi all’angoscia di castrazione sperimentata nella fase fallica, quanto all’angoscia preedipica di esplorare, e dunque entrare in contatto -corporeo ed emozionale- con quel femminile che dà la vita e nutre, ma che può potenzialmente distruggere.

Anziché la paura di separarsi dalla madre il feticismo potrebbe dunque configurare l’angoscia di fondersi totalmente con lei e di perdere i propri confini esistenziali, sacrificandoli ad un femminile colonizzante e indifferenziato. Il feticcio potrebbe così rappresentare l’allucinazione difensiva tramite la quale questa angoscia fusionale può venir controllata o in parte dominata (Mitchell, 1988).

È inoltre possibile che il bambino, avvertendo la pulsione di amare e farsi amare dalla madre, percepisca al contempo la paura di venirne in qualche modo distrutto, fagocitato o trasformato (Klein, 1928). Relazionarsi con il tutto materno potrebbe mostrare dei connotati traumatici che la sua fragile dimensione egoica non riesce a fronteggiare: ecco allora che il feticcio rappresenta il tentativo di controllare questo femminile incontrastabile, il simbolo depotenziato di una figura materna la cui totalità viene sconfessata e ridotta ad un mera porzione, percepita meno pericolosa, inglobante e distruttiva.

Proprio il percetto di non dominabilità dell’universo femminile spingerebbe il maschio a creare uno strumento la cui valenza è quella duplice di difesa, rispetto ad una fonte di vita e di distruzione, e di affermazione esistenziale, per certi aspetti narcisistica, di fronte ad un potere femminile dal quale si sente escluso, messo in disparte e quindi minacciato.

Tramite la creazione psicotica del feticcio il maschio contamina la natura femminile con una parte di sé, dunque ne sminuisce la soggettività specifica, ricevendo da questo gesto una conferma esistenziale e una certezza di superiorità verso un femminile inconoscibile e per questo terribilmente minaccioso (Horney, 1967).

Il significato patologico del feticismo

Nella realtà quotidiana la presenza “non patologica” del feticismo si presenta con una certa frequenza: non sono rari i casi in cui si è portati a considerare un oggetto come la rappresentazione simbolica di un qualcosa di più vasto, di ulteriore. La stessa religione, in qualsiasi forma venga espressa, è spesso testimonianza di pratiche feticiste: statue, immagini sacre, reliquie di vario genere, ciò che per sineddoche va a rappresentare il tutto di una parte, e che diventa esso stesso un tutto degno di venerazione.

Ma anche la dimensione affettiva ci offre esempi di questo tipo: spesso siamo portati ad identificare la persona amata -o una persona scomparsa -con un oggetto di sua appartenenza, e a riconoscere nel medesimo i tratti della sua corporeità, della sua presenza. È anche questo un tentativo di trasferire la globalità di un tutto assente in qualcosa di parziale, che riesce tuttavia a contenere e ad identificare quel tutto. Ma si tratta di un comportamento flessibile e non in grado di compromettere la percezione della realtà. Da questo punto di vista possiamo quindi ipotizzare che il feticismo rappresenti, in molti casi, una tendenza, un orientamento, una preferenza intrisa di connotati personali e culturali, privo di caratteristiche patologiche riconoscibili.

Al contrario, in tutti i casi in cui il feticcio si pone come elemento ostativo al riconoscimento di una realtà globale più ampia, il risultato è il restringimento della realtà stessa e la sua sostituzione con un percetto allucinatorio, inconscio e non superabile, che si ripercuote nella sfera emotiva e sessuale rendendola patologica.

Allora il mondo del feticista si popola di fantasmi, visioni scisse e dicotomiche in cui gli opposti coesistono pur negandosi a vicenda: il tutto in una visione scotomizzante e pericolosamente ego sintonica che lo sottrae e lo difende dalla “minacciosità” del tutto.

 

EMDR ed Elaborazione Emotiva. Lavorando con pazienti con grave disregolazione (2021) di Anabel Gonzalez – Recensione

EMDR ed elaborazione emotiva di Anabel Gonzalez si propone di presentare innanzitutto la tecnica EMDR e, successivamente, il tema della regolazione emozionale, in modo da poter capire in che modo la tecnica possa essere usata in casi di disregolazione

 

 Anabel Gonzalez è una psichiatra e psicoterapeuta che dal 1999 lavora usando l’approccio EMDR. EMDR ed elaborazione emotiva si propone di presentare innanzitutto la tecnica EMDR e, successivamente, il tema della regolazione emozionale, in modo da poter capire il modo in cui la tecnica possa essere usata per la terapia di pazienti con grave disregolazione.

L’EMDR (Desensibilizzazione e Riprocessamento attraverso i Movimenti Oculari) è un trattamento orientato al trauma, usato specialmente per il disturbo da stress post-traumatico (PTSD). Il modello su cui si basa l’EMDR ipotizza che gran parte della psicopatologia sia dovuta alla mancata assimilazione di determinate esperienze (particolarmente traumatiche per l’individuo) che rimangono così immagazzinate in modo disfunzionale. Quindi, quando accade qualcosa nel presente che il cervello connette ad alcune di tali esperienze non elaborate, l’individuo reagirà nel “qui ed ora” con elementi del “lì ed allora”. La terapia EMDR si basa sull’identificazione e sull’accesso a tali esperienze, includendo sia le percezioni che gli elementi cognitivi, così come le emozioni e le sensazioni associate. Una volta attivato il ricordo, si usa il movimento oculare o altri metodi di stimolazione bilaterale (tattile o uditiva) per sbloccare quella memoria e promuovere così la sua integrazione con altre reti. Le emozioni hanno molto a che vedere con le ragioni per cui determinati ricordi non possono essere elaborati: ad esempio, l’emozione potenzia il consolidamento degli stimoli (la secrezione di adrenalina e cortisolo, cioè gli ormoni dello stress, attiva l’amigdala che a sua volta modula regioni come l’ippocampo). Il trattamento EMDR si struttura in otto fasi: 1. raccolta storia di vita del paziente e pianificazione del trattamento; 2. preparazione e stabilizzazione; fasi 3-7 si introduce la stimolazione bilaterale per promuovere la rielaborazione del ricordo; 8. rivalutazione della memoria previamente elaborata per assicurarsi che tale rielaborazione sia stata completata.

Per Gonzalez l’emozione è uno stato mentale e fisiologico di carattere dinamico e risiede sia nel corpo che nel cervello. La sua funzione è quella di agire da sensore del significato delle esperienze e da motore di risposte adattive (per la sopravvivenza). Data la complessità dell’emozione, la sua regolazione deve riguardare tutte le sue componenti (la risposta fisiologica, il vissuto soggettivo e l’aspetto comportamentale). Le varie strategie di regolazione dell’emozione sono state analizzate da diversi autori attraverso diverse dicotomie (regolazione implicita vs esplicita; regolazione sul significato vs sulla risposta; adattiva vs non adattiva). Ora, l’EMDR lavora con ricordi disturbanti che, seppur passati, continuano ad avere conseguenze emotive intense anche nel presente che il soggetto può non essere in grado di controllare. Se l’individuo non possiede metodi di regolazione emotiva funzionali, il suo atteggiamento verso le emozioni emerse dalla terapia potrebbe interferire con l’elaborazione EMDR. È interessante notare come l’affermarsi nel tempo di una tecnica come l’EMDR manifesta un progressivo allontanamento da prospettive psicologiche unicamente cognitive, al fine di lasciar maggior spazio anche agli aspetti emotivi nel corso della terapia.

Nel capitolo quinto Gonzalez sottolinea come la regolazione emotiva venga appresa nelle relazioni di attaccamento primario, in particolare nel corso del secondo anno di vita attraverso l’azione del caregiver che aiutano il bambino a gestire diverse emozioni (come la vergogna, la paura e la rabbia). Quindi, possiamo considerare la regolazione emotiva nell’adulto come la regolazione dei suoi stati emotivi da bambino fornita dai caregiver e gli stili di attaccamento prevalenti in stretto legame tra loro e fortemente influenti sulla risposta a eventi traumatici e sulla gestione dei suoi effetti successivi. Proprio per questo durante la fase 1 dell’EMDR (ricostruzione della storia clinica) è importantissimo stabilire delle connessioni tra i problemi presenti e le esperienze passate in cui si sono generati, tra l’attuale funzionamento e dove la persona ha imparato a funzionare così.

La valutazione della regolazione emotiva è indiretta: da un lato bisogna annotare gli eventi, le figure rilevanti, i problemi che il paziente identifica come tali, dall’altro gli eventi minimizzati, ciò da cui è ossessionato, il modo e le emozioni connessi all’esposizione dei suoi ricordi. Nel sesto capitolo Gonzalez propone anche alcuni esempi di possibili connessioni tra comportamenti presenti attuali e condizioni ambientali passate, come:

  • mancanza di riconoscimento emotivo <-> crescita con genitori non sintonizzati che non hanno saputo leggere gli stati emotivi del bambino: così il bambino non saprà descrivere e definire ciò che sente. Data la centralità delle emozioni nell’EMDR sarà difficile applicare tale metodo con un paziente di questo tipo.
  • non dà importanza alle emozioni <-> caregiver molto concentrati sulle proprie necessità e non prestano attenzione ai bisogni del bambino e non li soddisfano (o meglio soddisfano solo quelli materiali e non emotivi).
  • sentirsi male per il fatto di star male <-> crescita con persone molto ostili o critiche che esprimevano rifiuto per il mondo emotivo del bambino o per certe emozioni in particolare. Oppure crescita senza modelli funzionali di regolazione emotiva.
  • rimanere bloccati nel proprio malessere <-> possibile crescita con caregiver mostranti un atteggiamento simile (magari perchè depressi)
  • malessere costante che impedisce di far qualsiasi cosa/proseguire normalmente per ignorare il malessere <-> ambiente di crescita altamente esigente.
  • amplificatori del malessere (ruminazione e rimuginio) <-> per la ruminazione possibile connessione con genitori molto critici; per il rimuginio crescita in ambiente con attaccamento preoccupato.

In capitoli successivi l’autrice si concentra anche sulla visione classica della regolazione emotiva come iper/ipoarousal e il concetto della finestra di tolleranza; la regolazione bottom-up; diverse strategie di regolazione emotiva (come evitamento, deviazione dell’attenzione, soppressione) e il loro effetto sul lavoro con l’EMDR; strategie di iper e iporegoalzione emotiva; i diversi livelli di complessità nella regolazione emotiva; ruolo della dissociazione nell’elaborazione emotiva.

 

Figli di genitori anziani: analisi delle connessioni tra i vari sistemi socio-psicologici e prospettive per il futuro

Una delle domande cruciali riguardo all’età fino alla quale ci si può spingere per avere figli è questa: quali saranno le tendenze future e soprattutto, i figli di genitori anziani saranno a loro volta genitori anziani?

 

Le società si trasformano, le persone cambiano e così anche i loro contesti di appartenenza.

Negli ultimi decenni vi è stato un significativo cambiamento nella concezione di cosa sia una famiglia e di come essa possa realizzarsi: sempre più diffuse ed accettate socialmente sono infatti nuove configurazioni familiari tra le quali le famiglie ricomposte, quelle monogenitoriali, le famiglie arcobaleno, le famiglie in surroga, le famiglie miste, le famiglie adottive, le famiglie affidatarie, ecc…

Questa pluralità di scenari familiari ha prodotto da un lato un aumento della possibilità di essere famiglia ma dall’altro, come è ovvio, problemi specifici.

Tali problemi si intrecciano poi con i grandi cambiamenti del nostro tempo che hanno inciso sulla formazione delle famiglie e sul loro modo di evolvere: dalla crisi economica a nuove modalità di intendere il lavoro, da internet all’instabilità geopolitica, dalle migrazioni, dal terrorismo alle possibilità sempre maggiori di viaggiare o ancora al Covid. Tali elementi hanno influito in modo significativo anche sul modo attuale di “essere famiglia”.

Uno dei cambiamenti più rilevanti relativi alle famiglie contemporanee (che riguarda in massima parte la società occidentale post industriale) concerne l’età nella quale si diventa genitori. I dati ISTAT dal 1995 al 2018, riportati nella Figura 4, evidenziano infatti come in Italia l’età media delle donne al momento della nascita del primo figlio abbia raggiunto i 31,2 anni nel 2018 (tre anni in più rispetto al 1995). Anche l’età media delle donne ad ogni parto è aumentata considerevolmente, passando da 30 a 32 anni. Se si considerano poi i dati del 2019, l’età media si attesta a 32,09 anni.

Anche la paternità segue il medesimo trend: l’età infatti del padre alla nascita del primo figlio è cresciuta di 1,44 anni, raggiungendo nel 2019 una media di 35,6 anni.

 

Genitori anziani e figli analisi socio-psicologiche e prospettive per il futuro Fig 4

Fig. 4: Dati ISTAT dal 1995 al 2018

Il dato relativo all’aumentata età dei neo genitori alla nascita del primo figlio va poi messo in relazione con un altro dato caratteristico della nostra società, ovvero la diminuzione della mortalità tra gli anziani. Senza considerare in questa sede, per gli ovvi motivi di eccezionalità, il periodo Covid-19, va segnalato che la mortalità tra gli anziani è progressivamente diminuita negli anni (ISTAT, 2019; Società Italiana di Gerontologia e Geriatria – SIGG).

Oltre ad una ridotta mortalità degli anziani, è importante sottolineare che essi oggi sono sempre più in forma: Marchionni (2019) e Ursini (2020) segnalano che in media un soggetto di 65 anni oggi ha la forma fisica e cognitiva di un 45enne di 30 anni fa, mentre un 75enne di oggi è paragonabile ad un individuo che ne aveva 55 nel 1980.  Sul piano della rilevanza nella popolazione generale, l’ISTAT (Report 2019) evidenzia come nel 2019 gli anziani oltre i 75 anni fossero l’11,7% della popolazione italiana, quindi un dato significativo.

All’ottenimento di questo risultato ha largamente contribuito il progresso scientifico in campo medico, il quale ha inciso positivamente anche sulla possibilità di avere figli in età sempre più avanzata.

Oggi, soprattutto grazie ai trattamenti di fertilità e alla fecondazione assistita, è possibile diventare genitori anche dopo i 50 anni (Christoffersen & Lausten, 2009). L’Italia si attesta, in merito a ciò, al primo posto in Europa per numero di figli nati da donne con più di 50 anni (Eurostat, 2019).

Il quadro descritto pone importanti questioni: da un lato è infatti necessario comprendere le motivazioni che spingono i genitori a fare il primo figlio sempre più tardi e dall’altro devono essere considerate le conseguenze che la genitorialità tardiva porta con sé dal punto di vista biologico, psicologico e sociale soprattutto sulle nuove generazioni.

Una delle domande cruciali riguardo all’età fino alla quale ci si può spingere per avere figli è questa: quali saranno le tendenze future e soprattutto, i figli di genitori anziani saranno a loro volta genitori anziani?

L’ipotesi presentata in questo lavoro è che i figli di genitori anziani potrebbero confermare il trend in atto, diventando a loro volta genitori sempre più tardivamente.

Tra i fattori che si ritiene risulteranno facilitatori in questo senso devono essere considerati la generale situazione economica dei paesi industrializzati, la qualità dei rapporti familiari ed amicali nonché le politiche di welfare.

Perchè si arriva a diventare genitori sempre più in tarda età?

Negli ultimi decenni sempre più coppie nei paesi industrializzati hanno ritardato il momento nel quale sono diventati genitori, alimentando una tendenza, definita “transizione di rinvio” da Kohler et al. (2002), divenuta ormai caratteristica. Sobotka (2009) sostiene che l’incremento della genitorialità in tarda età sia l’effetto dell’azione negli anni di diversi macro fattori politico-sociali tra i quali in primo luogo la diffusione della contraccezione moderna e la legalizzazione dell’aborto. Oltre a questi, diverse modificazioni sociali come l’istruzione sempre prolungata, l’emancipazione delle donne e il cambiamento del comportamento familiare rispetto all’educazione dei figli hanno reso l’avere figli da giovani sempre meno attraente.

Più in generale il raggiungimento delle classiche tappe evolutive del giovane adulto (tra cui terminare l’istruzione, lasciare la casa dei genitori e formare una coppia sentimentale) è sempre più posticipato.

L’entità del fenomeno è tale che la comunità scientifica se ne sta occupando sempre di più a causa dei possibili aumentati rischi per la salute di madri e figli nonché per i timori di ulteriori abbassamenti nei tassi di natalità (Sobotka, 2009).

Vediamo meglio gli elementi principali che giocano un ruolo in questo ritardo della genitorialità.

Stabilità emotiva della coppia

Molti soggetti scelgono di avere figli più tardi perché più tardivo è anche il raggiungimento della stabilità emotiva della coppia, che nelle società occidentali si raggiunge in media ad un’età più avanzata rispetto ad altre parti del mondo (Mills et al., 2011). Un ruolo importante è in questo senso giocato dall’idea che sia importante fare diverse esperienze sentimentali prima della scelta del partner definitivo.

Oltre a ciò si è assistito negli ultimi decenni ad un aumento della presenza di una particolare tipologia di coppia, che potremmo definire “narcisistica”. Tale coppia si basa sulla gratificazione personale derivante dallo stare insieme al proprio partner svincolando ciò dal progetto concreto di formare una famiglia. Lo stare insieme in queste coppie è funzionale principalmente al benessere soggettivo, quasi di tipo egoistico, nel quale rilevante è il vissuto personale di serenità nel qui ed ora. Queste coppie spesso non si pongono il problema della loro durata, dello strutturarsi di un legame stabile e della costruzione di un progetto a lungo termine in quanto lo stare insieme assume significato quasi esclusivamente nel presente, nell’immediato. Anzi, in molti casi queste coppie rifuggono addirittura l’idea che vi possa essere una strutturazione del legame in quanto ciò è sentito come una limitazione della libertà individuale (Andolfi, 1999).

Una coppia dunque, quella narcisistica, che non subordina lo stare insieme alla realizzazione di un progetto comune, ma che esiste finché esiste la gratificazione personale dello stare insieme. Tale coppia si regge sul piacere personale dell’avere accanto a sé un partner adatto “in questo momento” e non sull’idea che tale partner sia necessario per la propria vita, per la propria realizzazione personale e per la costruzione di un progetto di vita, per esempio di tipo familiare.

Questa configurazione di coppia è in netta contrapposizione con un’altra tipologia, che potremmo definire “coppia progettuale”. Essa si basa sullo stare insieme come mezzo per il raggiungimento di un obiettivo comune, di solito legato al fare famiglia o ad un’indipendenza economica dalla famiglia di origine, all’avvio di un’attività lavorativa, ecc..  Tale tipologia di coppia è in grado di subordinare, sebbene naturalmente non lo neghi affatto, il solo piacere personale e l’attrazione verso il partner allo stare insieme per trarre energia e mezzi per realizzare uno scopo comune di livello gerarchico superiore.

La coppia narcisistica pare figlia diretta della “società liquida” descritta da Bauman (1999), caratterizzata dal rifiuto di ogni infrastruttura sociale. In questo senso essa mostra tutte le sue fragilità proprio nella “tenuta” dentro ad un progetto comune, minando in questo modo dall’interno la sua stessa sopravvivenza.

La configurazione della coppia come narcisistica, rispetto alla genitorialità, potrebbe con alta probabilità contribuire a posticipare, se non addirittura ostacolare, la scelta di avere un figlio.

Mutamenti nel mondo del lavoro

Un fattore che certamente incide sulla scelta di diventare genitori è la riduzione delle opportunità lavorative, in particolare a seguito alla crisi economica del 2008.

È necessario ammettere che oggi il mondo del lavoro non è certamente, in media, “amico dei genitori”. Anche quando si riesce a trovare un lavoro infatti subentra il problema delle “8 ore”: l’occupazione a tempo pieno non considera l’impegno di cura di un figlio e costringe molto spesso le giovani coppie a posticipare la scelta di concepire un figlio rimandandola a momenti nei quali la coppia avrà raggiunto una maggiore tranquillità economica e potrà permettersi adeguati periodi di congedo dal lavoro o la rinuncia alla carriera da parte di uno dei due partner.

Spesso le aziende, soprattutto private, non incentivano la maternità, in particolare quella giovanile. Ciò sia dal punto di vista dei bassi salari tipici dell’inizio carriera, che non aiutano le giovani coppie a sopportare da sole i costi un uno o più bambini, che rispetto alla concessione di agevolazioni pratiche (permessi retribuiti, orari flessibili, ecc.. ) così necessari alle coppie con figli piccoli.

Inoltre, le donne spesso subiscono una discriminazione “in ingresso” (Eagly & Carli, 2007) nel senso che non vengono assunte proprio perché potrebbero decidere di avere figli e dunque assentarsi dal lavoro per periodi prolungati.

Il “peso” della genitorialità viene allora evitato ritardando il momento del concepimento o quando possibile spostato sulle generazioni precedenti, i nonni, i quali oltre a disporre in media di maggiori risorse di tempo, hanno un forza economica quasi sempre non paragonabile a quella della giovane coppia.

Maggior tempo da dedicare ai nipoti e maggiori risorse economiche determinano nella pratica dei problemi nella definizione della leadership familiare tra giovani ed anziani della famiglia.

Queste condizioni, soprattutto legate al mondo del lavoro, possono far desistere molte coppie dall’avere figli o farle decidere per un posticipo.

Cambiamenti sociali

Un ulteriore fattore da considerare nell’analizzare il fenomeno del ritardo nella genitorialità è la scolarizzazione sempre più alta e specializzata. Essa sul piano pratico comporta uno spostamento sempre più in avanti nel tempo della fine degli studi e dell’avvio, nei casi più positivi, di una solida carriera lavorativa dopo il percorso universitario. In media i giovani laureati arrivano a strutturare una buona posizione lavorativa non prima dei 30 – 34 anni.

È interessante notare che tale periodo della vita è risultato negli ultimi decenni quello con la maggiore predisposizione al concepimento. Se decidere di avere un figlio a carriera già avviata e non durante gli studi è una scelta per molti aspetti ragionevole – in quanto assicura maggiore autonomia economica e dunque maggiore sicurezza rispetto a possibili imprevisti o alla possibilità di fare scelte progettuali – va segnalato che la  sovrapposizione tra l’età media nella quale si hanno figli e quella nella quale si ha il vero sviluppo della carriera professionale crea una competizione tra questi due aspetti, nella quale fatalmente è la genitorialità ad avere minori chances di vittoria.

Cambiamenti culturali

I cambiamenti culturali rappresentano certamente un fattore di grande importanza nella determinazione del ritardo nella genitorialità. In particolar modo è l’emancipazione femminile a giocare un ruolo fondamentale: essa infatti ha comportato uno slittamento in avanti dell’età media nella quale si ha il primo figlio in quanto le donne hanno oggi più possibilità (e desiderio) di studiare, di lavorare e di essere indipendenti rispetto ad alcuni decenni fa.

Se si collega questa situazione con quanto detto più sopra rispetto alle discriminazioni in ambito lavorativo cui le donne sono spesso fatte oggetto, si comprende ancora meglio la scelta di molte di loro di attendere prima di avere un figlio, anche perché spesso una volta rientrate dalla maternità non riescono a recuperare il loro posto di lavoro.

Stabilità economica

Tale aspetto è fortemente correlato ai precedenti: la stabilità economica nella nostra società occidentale si raggiunge come detto sempre più tardi e ciò influisce significativamente sulle scelte di genitorialità.

Maturità emotiva e cognitiva

L’età avanzata comporta solitamente un irrobustimento della consapevolezza di sé e delle proprie capacità, nonché un’identità più strutturata. Le persone potrebbero perciò decidere di aspettare questa conquistata coscienza di sé e della propria identità prima di concepire un bambino, anche alla luce del fatto che negli ultimi decenni è molto aumentata la sensibilità verso l’infanzia.

Inoltre, scegliere di fare un figlio più tardi può essere riconducibile al desiderio di fare esperienze da giovani che altrimenti la cura di un bambino non permetterebbe (Chodorow, 2003).

Da non sottovalutare sono infine le sfide classiche, sia fisiche che psicologiche, poste dal diventare genitore: il parto, la ridefinizione dell’identità da “figlio” a “genitore”, l’abbandono di aspetti individualistici. Questi aspetti faticano in molti casi a trovare un’armonizzazione con una tendenza più generale legata ad una infantilizzazione delle nuove generazioni, connessa anche in questo caso al ritardo nel raggiungimento di un’indipendenza economica ma anche a stili educativi che tendono ad iperproteggere i figli e ad evitare loro le fatiche della crescita e dell’assunzione di responsabilità.

Che conseguenze comporta la genitorialità tardiva?

Una volta delineati i fattori macrosociali ed il processo di decision making legato al diventare genitori tardivamente, vediamo le possibili conseguenze di tale scelta.

I rischi fisici per la madre

In primo luogo, molti studi hanno rilevato che l’età avanzata della puerpera è correlata con diverse conseguenze negative per il figlio. Esistono evidenze di complicazioni importanti sul piano biologico, soprattutto legate al periodo della gravidanza. Alti sono infatti i rischi di aborto spontaneo in quanto a quarant’anni una donna ha il 40-50% di possibilità di perdere il bambino prima della nascita.

Il rischio di avere un bambino con delle anomalie cromosomiche è di 1 su 350 a 35 anni mentre si impenna drammaticamente a 45 anni, divenendo 1 ogni 35 nati (Guida Genitori, 2020). Ulteriori rischi legati alla genitorialità tardiva sono poi da associare alla salute della madre: la gravidanza ectopica (impianto dell’embrione in sedi diverse dalla cavità uterina), la pre-eclampsia (ovvero una sindrome caratterizzata da ipertensione, edema e proteinuria), il diabete gestazionale e le complicanze durante il parto sono i rischi maggiori.

I rischi psicologici per la madre

Avere un figlio tardi è correlato con il rischio per la madre di sviluppare un disagio psicologico e sociale di matrice depressiva ed ansiosa. Diversi studi collegano infatti la maternità tardiva alla depressione post parto (vedi ad esempio Carlson, 2011; Aasheim et al., 2012). Rispetto alle ipotesi esplicative di un tale aumentato rischio depressivo, rilevante sembra essere la concezione negativa della maternità tardiva che la società attualmente conserva: Muraca & Joseph (2014) sostengono che gli amici e le persone attorno alla neo mamma potrebbero stigmatizzare e giudicare la sua scelta di maternità tardiva ritenendola “azzardata”, “pericolosa” e facendole mancare il sostegno sociale. Persiste ancora infatti nel senso comune l’idea che concepire figli in età avanzata rappresenti una decisione puramente egoistica della donna, che non prende in considerazione le possibili conseguenze per il bambino. Il rischio per le donne divenute madri tardivamente di diventare vittima di pregiudizi da parte dei loro contesti di appartenenza (comunità, amici, famiglia) è confermato anche da un recente studio di Mistretta & Giusti (2020).

A tal proposito riteniamo che, traendo spunto dalla teoria delle depressioni elaborata da Ugazio (2012) e da quella elaborata da Linares (2003), si possa sul piano psicologico affermare che i sintomi depressivi nella neo mamma tardiva possano avere una doppia funzione:

  • prevenire potenziali attacchi giudicanti e svalutanti da parte degli altri: manifestare infatti sintomi depressivi dopo la nascita del figlio potrebbe avere il significato di proteggere la madre, attraverso l’esaltazione delle proprie difficoltà, da possibili attacchi di terzi.
  • allo stesso modo tali sintomi potrebbero avere la funzione di smorzare eventuali pensieri aggressivi della madre verso chi lei pensa la stia giudicando ed attaccando, mantenendo così il legame con i soggetti comunque per lei significativi.

Altre ricerche evidenziano un possibile rischio legato allo sviluppo di sintomi d’ansia nelle madri tardive. Esse infatti vivono fortemente il timore di perdere il bambino, sviluppano preoccupazioni riguardo una loro possibile futura adeguatezza sociale e riguardo la loro identità come madre anche e soprattutto perché non rispondente alle classiche aspettative sociali di madre giovane.

Il diventare madre tardivamente si accompagna infine ad un maggiore timore della propria morte, e allo spettro dell’impossibilità di accompagnare i figli in tutte le loro fasi della crescita (Shaw & Giles, 2009).

I rischi fisici per il figlio

La ricerca evidenzia alcuni rischi per i figli di genitori anziani di sviluppare conseguenze fisiche negative. Dal punto di vista fisico sono stati infatti confermati problemi legati all’aumento dell’indice di massa corporea (IMC), della pressione sanguigna e riduzione dell’altezza (Carslake et al., 2017).

L’aumento invece dell’età paterna alla nascita è associato nei bambini ad esiti avversi come la natimortalità.

In oltre 40 milioni di nati vivi negli Stati Uniti tra il 2007 e il 2016, avere un padre più anziano ha poi aumentato il rischio di peso troppo basso alla nascita e di parto prematuro (Khandwala et al., 2018).

I rischi psicologici per il figlio

Dal punto di vista psichiatrico Sandin et al. (2012) e Lee & McGrath (2015) evidenziano un rischio definito “importante” di sviluppare autismo nei figli di genitori “anziani”.

Altre condizioni patologiche correlate alla condizione di essere figli di genitori anziani sono il disturbo bipolare in età adulta (Menezes et al., 2010), sintomi depressivi, ansia e stress (Tearne et al., 2016), scarso funzionamento sociale (Weiser et al., 2008).

Uno studio sulla popolazione danese, che ha riguardato 2,8 milioni di persone, ha rilevato che i padri più anziani sono maggiormente a rischio di avere figli con disabilità intellettiva e schizofrenia (McGrath et al., 2014).

Mentre l’età paterna avanzata è stata principalmente associata a esiti negativi per la salute fisica e nel neurosviluppo, con patologie come autismo e schizofrenia, l’età materna particolarmente avanzata sembra piuttosto predire problemi di salute mentale con una componente psicosociale più marcata, come problemi di  esternalizzazione (Zondervan‐Zwijnenburg et al., 2019).

I vantaggi

Oltre agli aspetti negativi sul piano della salute fisica e del rischio psicologico, va detto che essere figli di genitori in età più avanzata può comportare anche dei vantaggi. Questi genitori infatti non solo hanno in misura maggiore una posizione socio-economica migliore rispetto a quelli giovani (Bray et al., 2006) ma hanno anche una maggiore esperienza di vita. Essi mostrano più resilienza (McMahon et al., 2007), tendono a fare meno uso di sostanze e ad avere meno problemi di salute mentale (Kiernan, 1997) rispetto ai genitori più giovani.  Alcune ricerche dimostrano che le madri più anziane meno frequentemente usano punizioni mentre sono più sensibili ai bisogni del bambino e forniscono più sostegno emotivo al figlio (Trillingsgaard & Sommer, 2018).  Oltre a ciò le madri più anziane tendono ad avere comportamenti di salute migliori durante la gravidanza.

Vi sono infine risultati in letteratura che mostrano come l’età materna superiore ai 30 anni sia predittiva di una maggiore autosufficienza del figlio in età adulta, il quale raggiungerebbe esiti scolastici e psicosociali migliori (Fergusson, 1999; McGrath et al., 2014).

Che interpretazione è possibile dare a questi dati e quali scenari si possono immaginare?

Come abbiamo visto avere un figlio in tarda età rappresenta un’eventualità determinata da una scelta personale ma anche da specifiche condizioni e necessità.

Dunque una scelta a metà o, all’opposto, una mezza risorsa, se si enfatizzano i vantaggi per i genitori ed il bambino.

I dati relativi ai rischi sia per la salute che per l’equilibrio psicologico sono di complessa interpretazione: laddove avendo figli tardi possono esservi rischi sul piano fisico per madri e figli, possono esservi anche vantaggi sociali e psicologici, soprattutto legati a migliori abilità di accudimento  e di sintonizzazione con i bisogni del bambino.

Laddove invece avere figli presto diminuisce il rischio biologico, risultano maggiori i rischi sul piano sociale ed educativo, soprattutto connessi alla giovane età dei genitori e alla loro ridotta esperienza di vita.

In definitiva dunque si tratta di un quadro con rischi ed opportunità in entrambi i casi.

Quale può essere il destino di genitorialità per i figli di genitori anziani?

Sul piano prospettico si può ora riprendere il tema introdotto all’inizio di questo lavoro, ovvero la questione relativa al destino dei figli di genitori anziani in merito all’età nella quale diverranno loro stessi genitori.  L’ipotesi qui presentata, ovvero che figli di genitori vecchi diventeranno a loro volta genitori in tarda età, è sostenuta considerando quasi esclusivamente variabili di tipo macro sociale: non vi sono infatti, dai dati raccolti, elementi “micro sociali” (a livello delle singole famiglie) che possono a nostro giudizio realmente influenzare queste scelte su vasta scala.

A livello macro sociale le componenti che possono spingere oggi, ma anche in futuro, un soggetto a diventare genitore in tarda età sembrano collegate al fatto che:

  • è molto difficile (e verosimilmente continuerà ad esserlo) raggiungere in giovane età una solida indipendenza economica, anche considerando che il percorso di studi dura sempre più a lungo e che chi non studia inizia un percorso fatto di lavori precari con contratti temporanei;
  • l’emancipazione dei figli dalla famiglia, in una società (quella occidentale) altamente complessa, è sempre più tardiva e in media non promossa attivamente dagli stessi genitori i quali, investendo molto sui loro figli (economicamente ma anche affettivamente) tendono a riporre in loro importanti aspettative compensatorie e di riscatto /ascesa sociale, tendendo a “guidarli” dunque per molto tempo;
  • avere genitori anziani ma in forma e con risorse economiche che i figli non hanno quando raggiungono l’età adulta, comporta un prolungamento nel figlio di una condizione di dipendenza dalla famiglia.

Avere genitori “vecchi” ma in buona salute, non avere in media dei fratelli con cui condividere l’accudimento dei genitori anziani (visti i tassi di natalità sempre più bassi), vivere in una società dove il sistema di welfare e quello lavorativo sostengono poco le neo famiglie, determina il fatto che le nuove generazioni tenderanno  a fare figli sempre più tardi disponendo di risorse più scarse rispetto ai loro genitori alla loro età e dovendo verosimilmente accudire da figli unici i genitori, nel frattempo diventati ancora più vecchi e bisognosi di cure.

Dunque le nuove generazioni, rimanendo “figli” sempre più a lungo, avranno maggiori probabilità di ritrovarsi incastrate in una dinamica per la quale avranno meno risorse economiche e parallelamente si ritroveranno con genitori già anziani i quali, sebbene molto più in forma e giovanili rispetto al passato, avranno comunque sempre più bisogno di assistenza.

I figli di genitori anziani dunque rischiano di trovarsi, per sopravvivere e senza vere alternative sul piano lavorativo e di economia generale, a doversi prendere cura dei propri genitori fin da giovani e ciò comporterà problemi nella realizzazione di un precoce progetto familiare.

Questo spostamento in là nel tempo della genitorialità raggiungerà un livello massimo?

Come precedentemente menzionato se è vero che dal punto di vista biologico si riscontra uno slittamento dell’età utile al concepimento fino ai 50 anni, questa soglia risulta essere al momento un limite importante per la scienza, già di per sé pieno di rischi: la medicina conferma infatti l’esistenza di un orologio biologico, certamente oggi spostato in avanti ma pur sempre presente, che scandisce ancora le fasi del ciclo di vita anche se, come abbiamo visto, le pressioni di tipo sociale, economico e relazionale per uno slittamento in là nel tempo della genitorialità sono diventate negli ultimi decenni particolarmente significative.

 

 

Predatory Journals: cosa sono e come riconoscerli

Con il termine predatory journals si indicano riviste che danno la priorità all’interesse personale e che sono caratterizzate da informazioni false o fuorvianti.

 

Al giorno d’oggi, numerosissimi professionisti del campo scientifico, e nello specifico del settore sanitario, attingono alla letteratura scientifica per aggiornarsi su nuove evidenze, nonché sulle innovative teorie e tecniche da utilizzare con i propri utenti. Sebbene esistano molte riviste in grado di offrire dati attendibili, non tutti i giornali sono considerabili fonti sicure: tali testate sono definibili come predatory journals, letteralmente “giornali predatori” (Grudniewicz et al., 2019).

I predatory journals sono una minaccia globale, che opera accettando di pubblicare articoli senza eseguire controlli di qualità, importanti per questioni come plagio o approvazione etica. Le vittime in questione non sono solo i ricercatori, indotti a sottomettersi per garantire visibilità ai propri lavori che risultano spesso trascurati o incompleti, ma anche i curiosi lettori, ignari della mancanza di attendibilità delle evidenze. Uno studio che si è concentrato su 46.000 ricercatori con sede in Italia ha rilevato che circa il 5% dei ricercatori ha pubblicato presso tali riviste (Bagues et al., 2019).

Chiunque conosca tale fenomeno concorderà sulla confusione generata da questi enti, nonché sulle risorse sprecate da questi ultimi. Non appare facile combattere questo tipo di pratica, ed un fattore che potrebbe ostacolare la lotta all’editoria predatoria potrebbe essere la mancanza di una definizione condivisa di questo fenomeno, assenza che genera confusione tra professionisti e profani che attingono alle fonti in questione. Formulare una definizione universale fornirebbe un punto di riferimento per la ricerca sulla loro prevalenza e influenza, e aiuterebbe ad elaborare nuovi interventi pertinenti.

Un team di professionisti capitanato da Grudniewicz e Moher, si è recentemente occupato di tale questione, riunendosi a Ottawa con l’obiettivo di mappare soluzioni al problema.

I 43 partecipanti provenivano da 10 differenti paesi, e rappresentavano società editoriali, finanziatori di ricerca, ricercatori, responsabili politici, istituzioni accademiche, biblioteche, pazienti ed operatori sanitari che si impegnano in modo proattivo nella ricerca. Durante la sperimentazione, i professionisti hanno completato un sondaggio Delphi che includeva 18 domande e 28 sotto-domande, seguito da 12 ore di discussione e 2 ulteriori cicli di feedback e revisione. Il summit ha portato al raggiungimento di una specifica definizione: il gruppo ha definito i predatory journals come “riviste che danno la priorità all’interesse personale a scapito delle borse di studio e che sono caratterizzate da informazioni false o fuorvianti, deviazione dalle migliori pratiche editoriali e di pubblicazione, mancanza di trasparenza e/o uso di pratiche di adescamento aggressivo e indiscriminato” (Grudniewicz et al., 2019).

Questa operazione ha rappresentato un importante passo nella lotto contro i predatory journals, ma non è l’unico mezzo utilizzabile per evitare cadere nelle loro trappole. Esistono infatti più di novanta checklist per aiutare a identificare le riviste predatorie, che elencano caratteristiche come “presentazione sciatta” o “titoli che includono parole come internazionale”. Ciò detto, solo tre delle novanta liste sono state sviluppate utilizzando evidenze di ricerca (Grudniewicz et al., 2019). I predatory journals hanno infatti individuato il modo di penetrare in questi elenchi, modificandoli.

In seguito, un sunto delle liste attendibili contenenti le principali caratteristiche da tenere a mente per riconoscere i predatory journals:

  • Informazioni false o fuorvianti presenti nel sito web.
  • Deviazione dalle migliori pratiche editoriali e di pubblicazione, come errori di grammatica o ortografia e richiesta di trasferimento del copyright quando si pubblica un articolo ad accesso libero.
  • Mancanza di certificazione dal COPE, comitato per l’etica delle pubblicazioni (ing. Committee on Publication Ethics) o dal DOAJ, associazione degli editori accademici ad accesso aperto: è bene fare attenzione a questi dettagli, poiché le riviste non possono essere elencate nel DOAJ o entrare a far parte del COPE fino a dopo un anno di attività, ed un giornale ben intenzionato ma con scarse risorse potrebbe non essere in grado di mantenere un sito web professionale.
  • Mancanza di trasparenza, come l’assenza di informazioni di contatto o dei dettagli sulle spese di elaborazione dell’articolo: nei siti web dei predatory journal gli editori e i membri dei loro comitati editoriali sono spesso non verificabili.
  • Sollecitazione aggressiva e indiscriminata nel richiedere materiale da pubblicare, come e-mail ripetute inviate ai ricercatori.

Finora, i numerosi tentativi di affrontare l’editoria predatoria non sono stati in grado di controllare questo problema, che continua ad essere in continua crescita. È improbabile che la minaccia scompaia finché le università utilizzeranno il numero di pubblicazioni prodotte da uno studioso come criterio per l’avanzamento di carriera. La cultura del “pubblicare o perire”, la mancanza di consapevolezza e la difficoltà nel discernere le pubblicazioni illegittime favoriscono l’esistenza di riviste predatorie (Grudniewicz et al., 2019). Per questo motivo, quello di Grudniewicz e Moher è un piccolo grande passo in favore del cambiamento. Conoscendo il fenomeno e le sue caratteristiche, è possibile limitare i danni e la confusione causati dai predatory journals.

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