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Il trattamento cognitivo comportamentale del Disturbo d’Ansia Sociale – Recensione del corso sulla piattaforma FAD di Studi Cognitivi

Il trattamento cognitivo comportamentale del Disturbo d’Ansia Sociale è un corso fruibile sulla piattaforma FAD di Studi Cognitivi rivolto a diverse tipologie di professionisti della salute, mentale e non. È un corso pratico e scorrevole da seguire, ben organizzato sia nella sua interfaccia utente, sia nei contenuti di ogni modulo.

 

Si può presentare da solo e manifestarsi in qualsiasi contesto sociale, oppure in situazioni sociali specifiche, come ad esempio parlare in pubblico. Può anche manifestarsi in comorbidità con un’altra diagnosi principale.

Il Disturbo d’Ansia Sociale non ha solo a che fare con l’esperire ansia in situazioni sociali, ma si innesta in un complesso sistema di convinzioni automatiche contesto-specifiche, condizionate e radicate a livello più profondo nella rappresentazione di sé.

Il trattamento cognitivo comportamentale del Disturbo d’Ansia Sociale è un corso fruibile sulla piattaforma FAD di Studi Cognitivi rivolto a diverse tipologie di professionisti della salute, mentale e non.

È strutturato in sei moduli di formazione teorica mediante videotutorial; al termine di ogni modulo, si incontra un test di tre domande, relative alla parte appena seguita. Il superamento test nel suo complesso consente di ottenere cinque crediti ECM (Educazione Continua in Medicina).

Il corso si apre con l’esposizione delle caratteristiche del disturbo e del suo modello teorico cognitivo; fornisce gli strumenti di assessment; illustra gli obiettivi, la pianificazione del trattamento passo a passo, l’applicazione delle tecniche terapeutiche in termini di ristrutturazione cognitiva ed esperimenti comportamentali. La spiegazione della teoria è alternata a efficaci simulazioni di sedute; questa strutturazione rende il corso snello e chiaro nel trasmettere sia la cornice teorica che le tecniche pratiche.

Ogni video è corredato dalle slide relative e da utilissime tracce degli strumenti suggeriti da usare in seduta.

È un corso pratico e scorrevole da seguire, ben organizzato sia nella sua interfaccia utente, sia nei contenuti di ogni modulo.

Segue la scia dell’ampia diffusione della formazione in asincrono, sull’onda dell’improvvisa necessità generata dalla pandemia, ma lo fa con grande qualità e cura.

Per di più, da terapeuta di orientamento diverso, trovo che questo corso trasmetta alcune delle qualità dell’approccio cognitivo-comportamentale nello stesso modo di corsi che ho frequentato in presenza:

  • la disponibilità del docente a usare se stesso come ‘esempio’ dei processi psicologici che sta illustrando;
  • la familiarizzazione con il modello cognitivo e la condivisione dell’agenda con il paziente per renderlo parte attiva del processo di cambiamento;
  • l’equilibrio suggerito tra le tecniche di riattribuzione verbale e quelle comportamentali/esperienziali per assicurare un cambiamento duraturo.

Detto in modo ironico, la chiarezza del corso nell’esposizione dei protocolli e del piano di trattamento del disturbo d’ansia sociale fa quasi sembrare ‘semplice’ il lavoro dello psicoterapeuta, anche se è ovvio che nella pratica non può essere così.

Oltre al corso, ipotizzo necessario un allenamento intenso al dialogo socratico per poterlo padroneggiare, soprattutto immaginando un paziente poco collaborativo, ad esempio che parla troppo o troppo poco.

In aggiunta, l’ultimo modulo del corso sugli interventi ‘off label’ lascia intravedere la necessità di approfondire la formazione, allo scopo di rafforzare il lavoro terapeutico con il paziente che porta contenuti articolati, elementi di sofferenza o eventi dolorosi che non sono immediatamente inseribili in una ‘casella’ del piano di trattamento.

 

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Disturbi alimentari e falsi miti da sfatare: (non) Basta la forza di volontà! – REPORT e VIDEO dall’evento del CIPda di Milano

Report di (Non) Basta la forza di volontà!, il terzo ed ultimo webinar appartenente al ciclo divulgativo dedicato a sfatare tre falsi miti che ruotano attorno ai Disturbi dell’Alimentazione, trasmesso in diretta streaming dall’equipe del Centro Disturbi dell’Alimentazione (CIPda) di Milano il 28 giugno 2021.

 

 Non è raro osservare nelle persone che soffrono di un Disturbo dell’Alimentazione (DA) la radicata credenza secondo cui è possibile guarire dalla patologia alimentare unicamente sulla base della propria forza di volontà. Similmente, un ulteriore luogo comune è considerare la sopracitata categoria diagnostica come un vero e proprio “capriccio”. Queste errate convinzioni predispongono il soggetto a posticipare la richiesta di aiuto, inficiando negativamente sulla prognosi del disturbo.

Una risposta confortante proviene dall’evidenza scientifica: la remissione dei DA è possibile, perseguibile grazie l’aiuto e l’intervento di professionisti abili nel fornire trattamenti specialistici e capaci di affrontare i meccanismi di mantenimento della patologia.

Sulla base di queste premesse cliniche e scientifiche, si apre il terzo e ultimo webinar del ciclo Falsi miti da sfatare, un dibattito moderato dalla Direttrice Operativa del CIPda (Cliniche Italiane di Psicoterapia – Disturbi Alimentari), la Dott.ssa Rosaria Nocita.

L’intervento dei vari professionisti, sollecitato da domande specifiche relative alla tematica affrontata, ha illustrato le linee guida per orientarsi nella scelta di trattamenti validi ed efficaci. Terminata la prima parte, di natura maggiormente divulgativa, si è dedicato spazio alle domande dei partecipanti.

IL REPORTAGE CONTINUA DOPO IL VIDEO DELL’EVENTO:

Disturbi alimentari e falsi miti da sfatare: (non) Basta la forza di volontà!
GUARDA IL VIDEO

1. La falsa credenza del “farcela da soli”: in che modo ostacola la richiesta di aiuto? – Dott.ssa Tramontano, psicoterapeuta.

Nonostante i disturbi alimentari siano una problematica oggigiorno molto diffusa, la loro conoscenza è ancora superficiale. Pertanto, non è raro osservare false credenze sia fra le persone direttamente colpite che tra i loro familiari. Una di queste è la convinzione per cui tali disturbi siano conseguenza di una scelta personale e non il frutto di un problema psicologico. Di conseguenza, si può verificare un ritardo nella richiesta d’aiuto e maggiore resistenza alle cure, entrambi aspetti responsabili di una prognosi peggiore. Un fattore che complica decisamente la presa in carico, è la natura egosintonica dei sintomi: le persone che ne sono colpite non credono di essere malate. Al contrario, identificano nel controllo dell’alimentazione una pseudosoluzione ad alcuni importanti problemi individuali e interpersonali. In questi termini, il disturbo alimentare non viene vissuto come problematico e si instilla la convinzione di poter sospendere tale controllo unicamente con uno sforzo volontario. L’unico aspetto egodistonico, pertanto esperito con sofferenza e malessere, è il discontrollo alimentare.

Per i motivi appena citati, l’aspetto cruciale di ogni trattamento è dedicare particolare attenzione all’ambivalenza del paziente, adottando un atteggiamento terapeutico ingaggiante. Seppur questo approccio possa variare in termini di intensità a seconda della motivazione individuale, denominatori comuni per un buon coinvolgimento sono l’empatia, comprensione, competenza e abilità nel fornire speranza. Particolare attenzione va riposta anche nell’atteggiamento dei familiari, anch’essi spesso propensi a considerare la guarigione dal disturbo dell’alimentazione come un mero sforzo di volontà, ostacolando quindi il processo di cambiamento. Una strategia utile nella messa in discussioni di tali convinzioni è veicolare a pazienti e familiari informazioni dettagliate sui disturbi alimentari, fornendo indicazioni precise sui principali processi di mantenimento e sui trattamenti efficaci.

2. Il disturbo alimentare non è un “capriccio”: di che cosa si tratta e quali sono i meccanismi che lo mantengono? – Dott.ssa Ranzini, psicoterapeuta.

Considerare un disturbo alimentare come un capriccio è sbagliato, non ha alcun tipo di fondamento scientifico. Al contrario, si tratta di patologie vere e proprie, disturbi con specifici meccanismi di mantenimento. Il nucleo psicopatologico principale è rappresentato da un’eccessiva valutazione del peso e della forma del corpo, aspetto che porta queste persone a determinare il proprio valore principalmente, o esclusivamente, sulla base di queste dimensioni. Possono da qui seguire una serie di comportamenti, tramite i quali la persona cerca di gestire le proprie preoccupazioni. Un esempio è rappresentato dalla dieta ferrea, sia questa calorica o cognitiva. Essa è responsabile, nella maggior parte dei casi, del sottopeso e dei conseguenti sintomi da malnutrizione, predisponendo anche ad episodi di abbuffata e relativi comportamenti di compenso (vomito autoindotto, uso improprio di lassativi e diuretici, esercizio fisico eccessivo). Questi aspetti possono dunque diventare dei veri e propri meccanismi di mantenimento, di cui ne vengono spiegati solo alcuni esempi:

  • Il basso peso corporeo, vissuto come una conquista, vene perseguito tramite una dieta ferrea, che si connota come rigida ed inflessibile
  • I conseguenti sintomi da malnutrizione contribuiscono al perpetrarsi della patologia:
  1. Isolamento sociale: impedendo alle persone di fare esperienze e quindi incrementare altri aspetti su cui valutarsi, mantiene la valutazione di sé basata unicamente sull’ambito del peso e della forma del corpo
  2. Precoce sensazione di pienezza: induce la persona a concludere di aver consumato troppo cibo, facilitando un’ulteriore restrizione alimentare
  3. Depressione: inficiando negativamente sull’autostima, facilità l’uso del controllo del peso e della forma del corpo come modalità di autovalutazione
  4. Rallentamento della perdita di peso: provocato dal rallentamento metabolico, viene esperito come un segnale di perdita di controllo e stimolo per un’aumentata restrizione alimentare.
  • Nel caso in cui siano presenti episodi di abbuffata, anch’esse producono l’intensificarsi della restrizione alimentare
  • I comportamenti di compenso che ne conseguono, infine, inducono ad allentare il controllo sull’alimentazione e rendono a loro volta più probabile il verificarsi delle abbuffate.

Tali dinamiche, come sottolineato dalla professionista, sono solo alcuni esempi di come tali meccanismi di mantenimento rendano questa problematiche un qualcosa che va ben oltre la forza di volontà e che, al contrario, necessita di un intervento mirato ed efficace.

3. Qual è il trattamento migliore? L’importanza dell’équipe multidisciplinare non eclettica – Dott.ssa Ramponi, dietista.

 Con il termine “équipe multidisciplinare” si fa riferimento al coinvolgimento di molteplici figure professionali, all’interno di un percorso di cura. Nello specifico, per il trattamento dei DA, è necessaria la collaborazione di medici psichiatri, psicologi, psicoterapeuti e dietisti, ancor più importante in caso di pazienti gravemente sottopeso o sovrappeso. Questa sinergia, come dimostrano numerose evidenze scientifiche, è in grado di affrontare non solo la psicopatologia specifica del disturbo, ma favorisce anche la riabilitazione nutrizionale. Oltre alla compresenza di figure specializzate in differenti ambiti, è altresì importante che queste comunichino con lo stesso linguaggio. L’équipe multidisciplinare non deve pertanto essere “eclettica”, ma al contrario deve esservi una concordanza teorica e metodologica. In sua assenza, si rischierebbe di incappare in indicazioni e strategie tra loro differenti o addirittura contrastanti, impattando negativamente sull’efficacia del trattamento.

4. Quali evidenze scientifiche abbiamo a supporto dell’efficacia dei trattamenti? Le Linee guida NICE (2017) – Dott.ssa Colantonio, psicologa

La scelta del tipo di trattamento in risposta ad un disturbo alimentare è un passo fondamentale, da compiere con accuratezza e consapevolezza. Difatti, un trattamento inadeguato può portare ad una cronicizzazione o al peggioramento della sintomatologia. Per orientarsi nella scelta, di estrema importanza sono le evidenze fornite dalla letteratura, in quanto dotate di supporto empirico. Il National Institute for Health and Care Excellence – NICE (Istituto Nazionale per la Salute e l’Eccellenza nella Cura) è un organismo che fa riferimento al Ministero della Salute nel Regno Unito ed ha fornito nel 2017 le linee guida relative ai trattamenti più efficaci nell’ambito dei disturbi alimentari. Di seguito, vengono riassunte le principali indicazioni terapeutiche:

  • Cognitive Behavioral Therapy – Enhanced (CBT – E): protocollo brevettato da Fairburn e collaboratori presso il centro C.R.E.D.O. (Centre for Research on Eating Disorders at Oxford), è un approccio di stampo cognitivo comportamentale, migliorato, raccomandato per tutte le categorie diagnostiche dei disturbi alimentari e adatto a tutte le età, poiché incentrato sul nucleo psicopatologico specifico e sui meccanismi di mantenimento.
  • Autoaiuto guidato – di base cognitivo comportamentale: particolarmente indicato per Bulimia Nervosa e Binge Eating Disorder. In caso di mancato beneficio, si raccomanda di procedere con la CBT – E.
  • Maudsley Model Anorexia Nervosa Treatment for Adults (MANTRA): consigliato per persone che soffrono di Anoressia Nervosa, adulte. Si tratta di un approccio di natura cognitivo comportamentale in grado di affrontare anche tematiche interpersonali. Anche in questo caso, la CBT – E rappresenta il trattamento da seguire in caso di mancata remissione dei sintomi.
  • Family based therapy (FBT): terapia fortemente basata sulla famiglia, favorisce il controllo genitoriale sull’alterata condotta alimentare del figlio/a. Se non efficace, procedere con CBT – E.

Concludendo, come sottolineato dall’esperta, l’evidenza clinica dimostra quanto la CBT – E sia in linea di massima il protocollo terapeutico d’elezione per la psicopatologia alimentare, anche in casistiche gravi e complesse, adatta sia per la popolazione adulta che adolescente.

5. La Cognitive Behavioral Therapy – Enhanced. Di che cosa si tratta? – Dott.ssa Zagarese, psicologa

In accordo con le linee guida NICE, un trattamento d’elezione per i DA è la CBT – E, adottata proprio dal centro CIPda. Con questo acronimo si fa riferimento alla terapia cognitivo comportamentale migliorata, un particolare protocollo sviluppato nel 2000 presso il centro C.R.E.D.O. di Oxford, che si propone di trattare specificamente disturbi dell’alimentazione in un’ottica transdiagnostica. Di conseguenza, secondo la visione CBT – E, il cuore pulsante dei DA è rappresentato dall’eccessiva valutazione del peso e della forma del corpo, dalla quale dipenderanno poi tutte le sfaccettature cliniche, i meccanismi di mantenimento, differenti da persona a persona. Questi possono essere sia di natura comportamentale, come la restrizione dietetica o l’esercizio fisico eccessivo, che cognitiva, come il perfezionismo clinico o la bassa autostima nucleare. Grazie all’approccio multidisciplinare proposto dal protocollo in questione, paziente e terapeuta lavorano come una vera a propria squadra, al fine di superare la problematica; pertanto l’atteggiamento attivo e partecipato della persona è quanto mai fondamentale. La durata varia dalle 20 alle 40 settimane a seconda delle condizioni individuali, e il trattamento si struttura in 3 fasi:

  1. Recupero del peso e condivisione funzionamento della psicopatologia
  2. Gestione e scardinamento dei meccanismi di mantenimento
  3. Comprensione dei fattori scatenanti e prevenzione delle ricadute

6. Le terapie sono tutte uguali? Un confronto tra la Cognitive Behavioral Therapy – Enhanced e la Family Based Therapy – Dott.ssa Riboldi, medico psichiatra.

Come per tutte le altre patologie organiche esistono, come detto, delle linee guida utili per orientarsi nella scelta del trattamento più efficace. Esse si basano su autorevoli studi di letteratura che hanno messo a confronto tipologie differenti di psicoterapia oppure la presenza/assenza di protocolli terapeutici in rapporto alla remissione della sintomatologia.

Seppur i risultati siano spesso eterogenei, la comunità scientifica è concorde nel considerare la psicoterapia come unico strumento efficace nel trattamento di tutti disturbi alimentari. Dal punto di vista farmacologico, invece, non vi sono indicazioni relative all’utilizzo di farmaci specifici, se non per la gestione di sintomi corollari (ansia, depressione, impulsività).

Due protocolli particolarmente utilizzati in risposta al DA sono, da un lato, la CBT – E (proposta sia ad adulti che adolescenti) e la FBT (prevalentemente adolescenti). Presupposto cardine del primo trattamento è la collaborazione tra psicoterapeuta e paziente, che si articola con la condivisione del percorso di cura e la messa in atto di strategie e procedure concordate. Spicca quindi il marcato controllo del paziente ed il ruolo attivo da esso giocato. Dall’altro lato, la FBT, sviluppata a Londra negli anni ‘70 presso il Maudsley Hospital, si basa su una premessa teorica completamente differente, ossia che il paziente adolescente non esercita alcun controllo sulla propria malattia. Per questo motivo, si denota una marcata deresponsabilizzazione del giovane paziente, a favore di un maggior investimento nei confronti delle figure genitoriali. Seppur anche la FBT sia supportata da numerose evidenze scientifiche, si connota come un percorso in cui il coinvolgimento attivo del paziente e la sua consapevolezza vengono poco valorizzati.

Al termine di questa parte prettamente teorica, si è proceduto rispondendo alle domande dei partecipanti. Grazie agli spunti forniti dal pubblico online è stato possibile delineare innanzitutto i campanelli di allarme dei DA quali ad esempio modificazioni personologiche (irritabilità, isolamento, labilità emotiva, perdita di interesse in attività precedentemente gradite), cambiamento nello stile alimentare, incremento dell’attività sportiva, variazioni importanti di peso, preparazione di piatti elaborati non consumati e frequenti richieste di rassicurazione relative alla forma del proprio corpo. Si è poi proseguito analizzando in che modo i genitori possono costituire una preziosa risorsa per il proprio figlio, affetto da un disturbo alimentare. Sicuramente, prediligere un atteggiamento empatico, decentrarsi dalle proprie convinzioni, maggiore conoscenza dei meccanismi di mantenimento e la promozione di un clima sereno e caldo durante i pasti, sono tutti fattori protettivi e facilitanti la guarigione.

In ultimo si è evidenziato quanto l’imminente stagione estiva e le vacanze possano rappresentare un momento di forte stress e in alcuni casi essere espediente per maggiore restrizione alimentare ed attenzione alle forme corporee. Per questo motivo, si potrebbe assistere al tentativo di ridurre al minimo le occasioni per mostrare la propria fisicità, celandola con abiti larghi ed evitando costumi da bagno, o addirittura posticipare le vacanze estive. Fornire il proprio supporto e identificare un protocollo terapeutico adatto, sono strategie utili per aiutare la persona ad affrontare il proprio disturbo.

Con questo prezioso dibattito, si conclude il ciclo di webinar sui falsi miti realizzato dal CIPda – Milano. Si coglie l’occasione per ringraziare l’equipe e si invitano gli spettatori a prendere visione delle numerose iniziative e proposte calendarizzate per la stagione autunnale, comunicate dai canali social del centro.

 


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Alzheimer: nuove frontiere e il ruolo dello psicologo nella cura del malato e nel supporto alla famiglia

L’Alzheimer, una delle forme più comuni di demenza, è una malattia ad esordio senile, cronica e degenerativa ed ha una prognosi sfavorevole. Lo psicologo ha un ruolo importante nella prevenzione della malattia, nella cura del malato e nel sostegno alla sua famiglia.

 

Il morbo di Alzheimer è una delle forme più comuni di demenza.

 L’Alzheimer, una delle forme più comuni di demenza, è una malattia ad esordio senile, cronica e degenerativa ed ha una prognosi sfavorevole in quanto la morte del malato sopraggiunge in un arco temporale di 4-6 anni. La progressione di questo morbo causa lesioni multiple del tessuto cerebrale (a meno delle aree adiacenti al solco centrale che sono solitamente risparmiate) che determinano il costante aggravamento delle sindromi tipiche: l’amnesia (perdita di memoria), l’afasia (carente capacità di formulare e comprendere i messaggi verbali), l’alessia (perdita della capacità di leggere), l’agnosia (difficoltà di orientamento, di riconoscere persone o luoghi e stimoli di varia natura), l’aprassia (difficoltà di compiere movimenti o azioni comuni come ad esempio usare una posata per mangiare e /o vestirsi) e la logoclonia (ripetizione continua e insensata di frammenti d parole). È possibile distinguere 3 stadi della malattia che hanno una durata variabile con possibilità di sovrapposizione. Nel primo stadio diventano evidenti i deficit intellettuali, la persona è ripetitiva nell’esprimersi, tende a perdere gli oggetti e a smarrirsi, ma resta ben conservata l’affettività. Nella seconda fase si aggravano le sindromi, il malato può avere deliri e allucinazioni e perde autonomia fino ad avere bisogno di un’assistenza continua. Nella terza fase le condizioni psicopatologiche si aggravano fino a giungere ad un completo impoverimento e alla totale perdita delle funzioni simboliche.

Non esiste un esame specifico per diagnosticare il morbo di Alzheimer

La diagnosi del morbo di Alzheimer avviene attraverso un percorso che si sviluppa nel tempo e può richiedere visite mediche (esame generale, neurologico, valutazione neuropsicologica e psichiatrica) e l’esecuzione di accertamenti clinici/strumentali (TAC, risonanza magnetica, PET, elettroencefalogramma, puntura lombare). In ogni caso, non è possibile arrivare a una certezza (ciò è possibile solo con autopsia post mortem identificando le placche amiloidi nel tessuto cerebrale) e, soprattutto, non è possibile una diagnosi precoce. Al riguardo, gli esiti di una recente ricerca (Serra et al, 2021) pubblicati Journal of Alzheimer’s Disease lasciano, però, intravedere nuove opportunità. Secondo gli esperti, infatti, la riduzione della funzionalità dei network che collegano l’area tegmentale ventrale (una delle aree cerebrali in cui è prodotta la dopamina che è un importante neurotrasmettitore) alle restanti aree del cervello potrebbe segnalare un maggior rischio di manifestare la malattia e consentire l’avvio di percorsi terapeutici finalizzati a rallentarne l’aggravamento.

Non esiste una cura per il morbo di Alzheimer

Nonostante lo stato di avanzamento delle conoscenze scientifiche, ad oggi purtroppo non esistono farmaci in grado di fermare e far regredire il morbo di Alzheimer. I trattamenti disponibili, quindi, consentono, nelle fasi iniziali e nei casi gravi/moderatamente gravi della malattia, di contenerne i sintomi, onde poter assicurare al malato una migliore qualità della vita. La messa a punto di nuovi farmaci per la demenza è, tuttavia, un campo in grande sviluppo e nei laboratori di ricerca si sta lavorando a principi attivi che aiutino a prevenire, a rallentare l’Alzheimer oltre a a ridurne i sintomi. In particolare, recentemente alcuni ricercatori (Bourdenx et al, 2021) sono riusciti a sviluppare un farmaco sperimentale che, aumentando il numero dei recettori LAMP2A sui lisosomi (organelli che rappresentano il sistema digestivo della cellula in grado di degradare sia materiale proveniente dall’esterno della cellula sia componenti cellulari non più utili), è in grado di potenziare e rendere più efficiente la rimozione delle proteine difettose che si accumulano nel cervello. La somministrazione sperimentale di questo farmaco ad alcuni topi per circa 4-6 mesi ha consentito di preservare la funzione dei neuroni negli stadi avanzati della malattia, ottenendo un miglioramento della memoria, delle performance motorie e la riduzione di ansia e depressione.

La famiglia è la seconda vittima della malattia

 La diagnosi di una malattia così complessa rappresenta una esperienza traumatica per la famiglia poiché una simile notizia si accompagna alla certezza di perdere il congiunto nel giro di pochi anni. Inoltre, la gestione del malato, oltre a richiedere una ridefinizione degli equilibri esistenti nel nucleo familiare, rende necessario un grande dispendio di risorse economiche e, soprattutto, psicofisiche. Quest’ultime nel tempo si logorarono, limitando il livello di resilienza familiare e dei singoli congiunti. In una condizione di grande fatica fisica, emotiva e mentale (Guide, 2013), quindi, l’aggravamento del quadro clinico del paziente può causare criticità nella capacità di gestione dello stress e far emergere problematiche fisiche (es. muscolo scheletriche a causa dello spostamento del malato), depressione e ansia (Lindeza et al, 2020), disturbi del sonno e Burnout (Jaafari et al, 2016). Per questo motivo, la famiglia viene considerata la seconda vittima della malattia e i caregiver familiari sono solitamente chiamati pazienti secondari invisibili (Brodaty et Donkin, 2009). Tale situazione non può essere sottovalutata e rende necessari sforzi importanti per individuare forme di assistenza domiciliare efficienti e efficaci (Walsh et al, 2020) per “alleggerire” il carico sostenuto dalla famiglia durante il decorso della malattia (Ashrafizadeh et al, 2021).

Lo psicologo ha un ruolo importante per la cura del paziente ed il supporto alla famiglia

Lo psicologo ha un ruolo importante nella prevenzione della malattia, nella cura del malato e nel sostegno alla sua famiglia. La prevenzione della malattia richiede interventi di psicoeducazione finalizzati a modificare i comportamenti e le abitudini rivolgendoli a uno stile di vita sano. In tale prospettiva, la pratica di una attività sportiva, l’igiene del sonno, il trascorrere del tempo all’aria aperta e un regime alimentare adeguato possono essere molto utili per mantenere un buon livello di benessere psicofisico. La cura della malattia richiede strategie che integrino competenze multi professionali. In tale quadro, lo psicologo può condurre terapie di riabilitazione che hanno lo scopo di mantenere il più a lungo possibile le capacità residue del malato. Nello specifico, possono essere utili interventi mirati alla stimolazione cognitiva (che potenzia le funzioni mentali residue), la Rot o Reality Orientation Therapy (che cerca di mantenere il malato aderente alla realtà che lo circonda), la Validation Therapy (che cerca di capire i motivi del comportamento del malato), la musicoterapia (che riporta a galla con le emozioni le parole di una canzone o il suono di uno strumento), la psicomotricità (che aiuta il malato ad affrontare la propria disabilità con attività di movimento) e la Pet Therapy (che utilizza gli animali). Inoltre, è necessario sostenere la resilienza del nucleo familiare attraverso interventi che consentano di: migliorare la gestione dello stress e delle emozioni, di facilitare le dinamiche relazionali e sostenere i congiunti nel processo di ridefinizione degli equilibri esistenti nel nucleo familiare, aumentare la consapevolezza , l’autostima e la fiducia attraverso processi incentrati sul rafforzamento della gratitudine, della gentilezza e della compassione. In ultimo, è importante l’organizzazione di un follow up  che, in parallelo con i controlli a cui è sottoposto il paziente affetto dall’Alzheimer, permetta di monitorare le condizioni del/dei caregiver, onde poter prevenire/intervenire tempestivamente all’emergere di condizioni psicofisiche riconducibili ad un ambito clinico.

 

Percepire un gusto dolce può influenzare l’elaborazione di parole romantiche?

Secondo alcuni studi, la percezione del gusto dolce è interconnessa ed interagisce con l’affettività romantica. L’amore favorisce e può influenzare la percezione di un gusto dolce (Chan et al. 2013), che a sua volta può migliorare la valutazione positiva e l’atteggiamento soggettivo nella situazione di un appuntamento romantico, secondo un effetto di tipo bidirezionale (Ren et al., 2015). 

 

 Wang & Chen (2019) hanno riscontrato che sperimentare un gusto dolce può influenzare l’elaborazione semantica romantica ed alimentare la sensazione di dolcezza; avvantaggiando la velocità di elaborazione delle parole romantiche, rispetto a quelle non romantiche.

Alla base di questa facilitazione è presente un’elaborazione cross-modale, per cui la stimolazione in una modalità sensoriale (gusto), influenza l’elaborazione degli stimoli presentati in una modalità diversa (linguistica) (Razumiejczyk et al., 2015; Spence & Deroy, 2013).

Secondo l’approccio della cognizione incarnata (o embodied cognition), la mente e i processi di elaborazione cognitiva, sono interconnessi con il corpo e le percezioni che esso può avere dell’ambiente circostante. Allo stesso modo, le esperienze fisiche influenzano gli aspetti psicologici (Barsalou, 2008). Non solo l’elaborazione percettiva può influenzare l’attivazione della conoscenza concettuale, ma entrambe queste forme di rappresentazione sono parzialmente sostenute dagli stessi sistemi di codifica (Razumiejczyk et al., 2015; Simmons et al., 2007).

Diversi studi hanno riscontrato effetti di cognizione incarnata: il calore corporeo può evocare calore interpersonale (Williams & Bargh, 2008), la percezione della distanza fisica influenza quella psicologica tra due individui (H. Wang et al., 2016), ed infine, gli stimoli olfattivi possono suscitare sospetto sociale (Lee & Schwarz, 2012).

Un’indagine ha riportato che il peso percepito di un libro, condiziona la valutazione della sua importanza, ma solo quando i soggetti ne hanno acquisito una comprensione sostanziale (Chandler et al., 2012).

Nell’elaborazione semantica, la conoscenza di un concetto coinvolge tre fasi: disponibilità, accessibilità e applicabilità (Wyer, 2008). Mentre la prima si riferisce alla disponibilità in memoria di una conoscenza, l’accessibilità è presente se avviene l’esposizione alle informazioni relative di un costrutto (Todorov, 2000). Accedere ad un concetto è più semplice se la rappresentazione semantica è ricca (come nelle parole concrete) (Rabovsky et al., 2012). L’applicabilità, ovvero la relazione tra le caratteristiche delle conoscenze in memoria e quelle attese di uno stimolo, insieme all’accessibilità costituisce un requisito per l’effetto incarnato (Landau et al., 2011). Infatti, uno stimolo sensoriale (come un odore di pesce) influenza l’esperienza psicologica associata (di sospetto) solo quando la conoscenza del concetto è disponibile alla persona, ovvero accessibile e applicabile (Lee & Schwarz, 2012). In generale, la conoscenza accessibile di un concetto condiziona le percezioni, i sentimenti e il comportamento individuale.

Sebbene l’interazione tra gusto dolce e semantica romantica, possa essere ricondotta all’embodied cognition e all’attivazione della conoscenza del concetto; il processo sottostante deve essere ancora indagato.

Grazie ai potenziali evocati (ERP), che costituiscono una risposta misurabile con elettroencefalografia (EEG) di uno stimolo interno (pensiero) oppure esterno (percettivo)  è possibile indagare l’elaborazione semantica romantica dopo aver sperimentato la percezione del gusto dolce, che dovrebbe coinvolgere le componenti P200 e N400 del segnale.

Il P200, coinvolge le parole a valenza emotiva (Bernat et al., 2001) e ricche a livello semantico (Pexman et al., 2008) come quelle romantiche; e dovrebbe attivarsi se il soggetto ne conosce la connotazione romantica e positiva. L’N400, che rimanda anch’esso alla ricchezza semantica (Rabovsky et al., 2012), costituisce un indicatore dell’accessibilità e dell’applicabilità della conoscenza.

L’indagine di Wang et al. (2019), servendosi degli ERP, ha esaminato l’interazione tra gusto dolce e parole romantiche, raccogliendo dati da 23 studenti universitari. Sono state selezionate 140 parole positive, tra romantiche, non romantiche e pseudoparole, progettate per mascherare lo scopo dell’esperimento. Nella condizione sperimentale, il sapore dolce è stato creato mediante dello zucchero candito, mentre i fagioli bianchi sono stati impiegati nella condizione di controllo. Con il materiale sperimentale sopra la parte centrale della lingua, i soggetti dovevano svolgere un compito di decisione lessicale indicando se la parola fosse reale o una pseudoparola. Nel frattempo sono stati registrati i segnali EEG.

 Secondo i risultati, la percezione del gusto dolce promuoveva l’elaborazione di parole romantiche, come dimostrato da un P200 maggiore e un N400 potenziato. Questo esito, che non era emerso nel gruppo di controllo, si trovava in linea con le precedenti indagini (Ren et al., 2015). Il P200 potenziato, indicava la disponibilità di conoscenza concettuale della semantica romantica, quindi accessibile al soggetto oltre che facilmente applicabile nel contesto di gusto dolce.

Anche l’N400 potenziato per le parole romantiche, indicava un effetto di vantaggio nella condizione sperimentale, coerentemente con indagini simili (Rabovsky et al., 2012).

Sulla base dei risultati ERP attuali, oltre che degli esiti comportamentali in indagini precedenti (Ren et al., 2015), l’embodied cognition del dolce-amore esiste, e tale relazione è bidirezionale. Il gusto dolce favorirebbe l’accesso nel presente della parola romantica, andando a costituire un’elaborazione cross-modale. Come dimostrato dall’indagine, le esperienze sensomotorie influenzano quelle psicologiche associate, ma solo quando la conoscenza delle parole è disponibile per la persona, accessibile nel contesto (grazie al gusto dolce) e applicabile al target specifico (le parole romantiche) (Lee & Schwarz, 2012).

In sintesi, le sensazioni del corpo, come un gusto dolce, sono un indizio per la cognizione e la dirigono, favorendo l’accessibilità della conoscenza semantica.

Nell’effetto incarnato, se presenti aspetti sensoriali e conoscenze semantiche, è possibile promuovere l’efficienza della cognizione individuale. Pertanto, sia i fattori interni ed esterni, dovrebbero essere considerati per l’elaborazione psicologica in quanto la mente non può prescindere dalle sue interazioni con corpo e ambiente circostante.

 

Come la realtà virtuale entra nello sport: una review sistematica

Molti sport possono beneficiare dell’utilizzo della realtà virtuale, con la comodità di poter essere utilizzati al di fuori degli impianti sportivi e con la possibilità di poter effettuare un allenamento privo di rischi e facile da analizzare.

 

Questo articolo ha lo scopo di mostrare come la realtà virtuale sia entrata a far parte della preparazione atletica e sportiva già da diverso tempo, trovando inizialmente spazio e applicazione soprattutto negli ambiti militari e spaziali. Alcuni esempi mostrano come i militari utilizzino ambienti virtuali allo scopo di preparare i soldati al combattimento (Larry Katz,et al. 2006).

Un’altra applicabilità mostra come simulatori in realtà virtuale siano stati utilizzati per aiutare a far atterrare una persona sulla luna, per istruire gli astronauti su come manipolare il braccio spaziale, oppure per addestrare piloti per la guida di aerei, auto o navicelle spaziali.

Il più importante campo di applicazione della tecnologia in realtà virtuale è proprio quello militare: il dipartimento della difesa degli Stati Uniti ha descritto la VR come una delle sette tecnologie chiave che garantiranno il dominio delle forze statunitensi nel 21° secolo. Le applicazioni comprendono principalmente l’addestramento virtuale, le esercitazioni sul campo di battaglia e le produzione di armi virtuali (Xinxiong Liu et al 2018). Il sistema di simulazione basato sulla tecnologia VR può, oltre a fornire un ambiente di battaglia reale e tridimensionale, mostrare e visualizzare il risultato dell’esecuzione rispetto al processo decisionale, allenando quindi l’abilità di decision making.

Nell’ambito delle discipline sportive, ci sono molti sport che possono beneficiare dell’utilizzo della realtà virtuale, con la comodità di poter essere utilizzati al di fuori degli impianti sportivi (con un notevole risparmio economico) e con la possibilità di poter effettuare un allenamento privo di rischi e facile da analizzare (permettendo un confronto dei dati).

Uno studio condotto nel settembre 2019 da Michalski et al. ha esaminato come le prestazione apprese in un allenamento di tennis da tavolo possano essere trasferite in un ambiente reale. È stato riscontrato che le prestazioni del tennis da tavolo nel mondo reale sono migliorate in modo significativo sia per quanto riguarda gli aspetti quantitativi sia per la qualità complessiva delle abilità, rispetto al gruppo di controllo senza allenamento. Questi risultati si aggiungono a una letteratura scarsa ma in espansione sull’uso della VR come strumento per acquisire e sviluppare abilità sportive. Poiché questo è uno dei primi studi per indagare il trasferimento dell’allenamento dalla VR nello sport, è stato necessario innanzitutto stabilire che il beneficio fosse almeno maggiore dell’assenza di allenamento. Questi risultati suggeriscono che è utile utilizzare la realtà virtuale come strumento complementare per la formazione, soprattutto per le situazioni in cui la formazione è logisticamente difficile da organizzare o poco pratica nel mondo reale.

L’utilizzo della VR nell’ambito della psicologia dello sport fornisce l’opportunità di allenare la mente e allo stesso tempo imparare a gestire meglio le emozioni connesse ai momenti di maggiore tensione per l’atleta. Attraverso l’immersione in ambienti specifici ad alta attivazione emotiva, come per esempio simulare grandi folle o effettuare un calcio di rigore, l’atleta può concentrarsi nell’identificare le strategie cognitive più funzionali (riconoscendo i pensieri disfunzionali) e focalizzarsi sulle tecniche utili a migliorare la prestazione e il benessere. Gestire al meglio l’aspetto emotivo implica anche una migliore regolazione dell’arousal e di conseguenza un migliore stato di flow (Czíkszentmihályi M., 1975).

In un articolo pubblicato da Elsevier (Wang J., 2012) vengono descritti i molti modi in cui la VR viene applicata negli sport da competizione, come per esempio la possibilità di poter costruire specifiche circostanze di allenamento, creare avversari virtuali a differenti livelli e raccogliere i dati fisiologici e biochimici dell’atleta. La raccolta di questi dati permette agli allenatori di ottenere un’analisi più diretta e precisa delle condizioni atletiche degli sportivi, garantendo un allenamento preciso e adeguato. Per uno sviluppo di successo dell’atleta, l’ambiente di apprendimento deve essere attentamente pianificato al fine di migliorare le capacità dell’atleta durante l’esecuzione di un’abilità.

Una pubblicazione scritta da Farley et. al del 2020 esamina la letteratura esistente relativa alla VR e all’uso della tecnologia utilizzata nello sport. Viene sottolineata l’importanza di generare un alto livello di presenza affinché l’atleta si senta immerso in un ambiente virtuale (Barfield, Zeltzer, Sheridan, & Slater, 1995). Questo aspetto è favorito dall’utilizzo di video al massimo livello di capacità di registrazione (anche fino a 8-12K) e filmata con un’elevata frequenza di fotogrammi al secondo (anche fino a 120 fps), permettendo così un video fluido, chiaro e nitido. Ad esempio nel surf, le onde virtuali o le vere onde registrare a 360° osservate in un HMD devono creare un senso completo, come se si stesse veramente cavalcando un’onda. È inoltre importante introdurre e utilizzare attrezzature come per esempio una tavola o skateboard per imitare le onde, questo permette il collegamento tra ambienti virtuali e reali.

In uno studio del 2012 condotto da Deutsch J.E et all. è stato sviluppato un sistema ciclistico in VR per allenare le abilità motorie e i deficit fisici per pazienti che si trovavano nella fase cronica post ictus. Questi studi hanno mostrato come tutti i partecipanti hanno aumentato la loro capacità aerobica misurata dal loro consumo di ossigeno. Il miglioramento medio risulta del 13% (p = .035) nel VO2 sub-massimale (con un range compreso tra 6 e 24.5%). In questo caso la realtà virtuale ha utilizzato il battito cardiaco dei soggetti per impostare la velocità dell’avatar in modo da permettere un allenamento di durata e intensità sufficienti a promuovere la forma fisica.

Conclusione

Dai vari contributi riportati emerge come l’ausilio della VR sia efficace anche in ambito sportivo. La letteratura ci ha dimostrato come la realtà virtuale, normalmente “condizionata” dal mercato videoludico, presenti vari ambiti di applicazione che spaziano dalla semplice ricerca al benessere della persona, fino ad arrivare a discipline come lo sport. Una tecnologia positiva che ancora non ha mostrato fino a dove realmente può arrivare.

 

Il cablaggio delle reti neurali coinvolte nella percezione del tempo

La dimensione essenziale della memoria sembra risentire di meccanismi nervosi che con l’evoluzione hanno contribuito alla formazione di processi cognitivi con un substrato di natura neurobiologica. Grazie a quest’ultima prospettiva, tali meccanismi sembrano confermare come il senso del tempo richieda una solida integrità di diverse aree che ne permettano l’elaborazione e la costanza. 

 

Il corpo rappresenta quel notevole sfondo da cui e per mezzo del quale possono prendere forma sia uno spazio esterno che le proprie relazioni quotidiane. Se ogni sviluppo presuppone un’azione, se ogni presenza corporea è legata ad una situazione tramite la quale esprimersi, qualora il soggetto venisse passivamente gettato nel mondo senza la possibilità di esprimersi attivamente, meglio ancora di reagire, si verrebbe a determinare una rottura. Uno squarcio nel modo d’essere, nella propria presenza, che, invece, di esprimersi in modo pienamente naturale, libera e soprattutto autentica, resta ferma, quasi incagliata ad una realtà solida e non trascendibile. Si alimenta così l’incapacità ad andare oltre, per cui il proprio corpo inizia a rassegnarsi e ad ancorarsi a quanto è già dato e facilmente raggiungibile dando vita ad una inautenticità e ad una sofferenza prevaricanti.

Emerge quindi un ulteriore punto: se il tempo si collochi nel mondo e nelle cose che percepiamo, nel loro scorrere o al contrario sia dentro di noi.

Per dirla con Proust (Benini, A., 2017, p.14) sembra essere la dimensione essenziale della memoria, il traliccio intrinseco dei ricordi, sembra inoltre, risentire di meccanismi nervosi che con l’evoluzione hanno contribuito alla formazione di processi cognitivi con un substrato di natura neurobiologica.

Grazie a quest’ultima prospettiva, tali meccanismi sembrano confermare come il senso del tempo richieda una solida integrità di diverse aree che ne permettano l’elaborazione e la costanza.

Inoltre il tempo può assumere delle caratteristiche del tutto prive di coscienza, caratterizzato da meccanismi di natura psicofisiologica che regolano la nostra attività in riferimento sia all’ambiente esterno che all’ambiente interno di cui siamo portatori e che dalle prime fasi della vita inizia a fiorire.

Per esempio il nucleo soprachiasmatico dell’ipotalamo, un piccolo organo di neuroni, regola varie attività fondamentali di natura vegetativa: pressione arteriosa, il ritmo sonno-veglia, la temperatura e il livello degli ormoni. Un insieme di attività, che può prendere strade differenti in base alle circostanze con le quali veniamo a contatto e che sono accompagnate e regolate dalle nostre prime figure di accudimento. Risultiamo inoltre caratterizzati da un tempo crono-biologico, grazie al quale avviene la coordinazione dei cicli del funzionamento del proprio corpo secondo il tempo solare, con una biologia circadiana, fondamentale per l’adattamento all’ambiente.

Il nucleo soprachiasmatico sembra essere a tutti gli effetti un metronomo autoregolato, non connesso però con le aree della memoria, dello spazio e delle emozioni come lo sono quelle del tempo.

Un buon funzionamento incide a livello sia psichico che biologico, permette di trovare un armonioso equilibrio, favorisce una buona interazione tra l’individuo e l’ambiente.

Il tempo non dipende solo dal movimento, ma anche dalle masse e dalla gravità che esse esercitano nello spazio. Esso dipenderebbe, quindi, dal campo gravitazionale dello spazio, ovvero dalle onde della forza di gravità che in esso agiscono.

Se ogni oggetto ha un suo tempo a seconda della sua posizione nello spazio e del suo movimento rispetto ad un altro oggetto, sarebbe possibile ipotizzare che ogni soggetto possiede un proprio carico energetico ed esperienziale, risultato della sua organizzazione cerebrale e del suo funzionamento neurobiologico, che influenza dunque un altro soggetto.

È possibile, dunque, sostenere che grazie al modo in cui i nostri meccanismi nervosi creano e manipolano il tempo, ne deriva una modalità del soggetto di vedere la realtà, sia interna che esterna, del tutto peculiare.

Basandosi su questa ipotesi e ripercorrendo le teorie di Helmholtz (1870) si può percepire come vi sia un intervallo tra gli stimoli nervosi e quello che essi determinano; di quell’intervallo, di quella latenza fra due eventi reali, lo stimolo e la percezione del suo effetto, non si avverte nulla, anche se quella latenza è una delle regole dei meccanismi cerebrali, compresi quelli della coscienza.

Quello che viene ad emergere è una discrepanza sia tra la fenomenologia del tempo vissuto che sentito e il tempo misurabile, oggettivo dei meccanismi nervosi che lo creano, di cui non si ha coscienza.

Grazie ad Herman Von Helmholtz (1850) e tramite i suoi esperimenti è stata evidenziata la duplicità della realtà del tempo, conducendo ricerche sulla stimolazione dei muscoli delle zampe di rana.

Era stato possibile rendersi conto di come il muscolo, dopo la stimolazione, non si contraesse di colpo, bensì gradualmente, per cui tra la stimolazione elettrica del nervo e la contrazione muscolare trascorre un tempo di cui non si ha coscienza perché, entrambi gli eventi sembrano simultanei.

La latenza fra lo stimolo nervoso e la contrazione venne chiamata “temps perdu”, impiegato dallo stimolo a percorrere il tratto dentro il nervo fino al muscolo (Benini, A., 2017, p. 28). Ci si è chiesti in che modo contribuisca il nostro sistema nervoso centrale nel creare una organizzazione percettiva del mondo e della nostra attività mentale, accompagnate dal senso del tempo che il nostro cervello impiega in modo più o meno flessibile.

Il tempo per attivare la coscienza non dipende dalla frequenza o dal numero degli impulsi elettrici, ma dalla loro durata, per esempio per ottenere una sensazione somatica non è sufficiente la ripetizione dell’impulso, ma per diventare efficace, occorre che la ripetizione prosegua per una data durata.

Se mezzo secondo è il tempo necessario per diventare coscienti di una stimolazione portata alla corteccia cerebrale, come si spiega che se siamo toccati o se tocchiamo qualcosa ne siamo immediatamente coscienti senza latenza?

Come può un evento essere simultaneo alla coscienza se i meccanismi nervosi devono lavorare circa mezzo secondo per elaborare gli stimoli fino a renderli coscienti?

Nondimeno, i nostri meccanismi non sempre risentono di una buona integrazione che li porti qualitativamente e quantitativamente ad una buona coesione interna rispetto a quanto ci circonda (Siegel, J. D., 2001).

Il tempo è formato da meccanismi nervosi trasmessi da una generazione all’altra, caratterizzati da tracce genetiche che a contatto con l’ambiente possono incidere positivamente o meno su tutto l’organismo: a livello psichico, neurobiologico ed interpersonale.

Il senso del tempo, inoltre, sembra essere il frutto di una rappresentazione che si rispecchia sui piani della durata, dell’attesa e dell’ordine di successione degli eventi.

L’ippocampo svolge un ruolo chiave non solo per lo spazio e per la memoria, ma anche per il senso del tempo, insieme con l’area motoria supplementare, parte della corteccia prefrontale e parietale, i gangli della base ed il cervelletto (Kagerer, F. A., 2002).

La corteccia parietale sinistra, valendosi della memoria di informazioni precedenti genera un’attesa della durata degli eventi futuri, mentre la corteccia prefrontale destra utilizza informazioni retroattive per valutare se il tempo che passa coincida con quello previsto (Jueptener, M., 1995).

Questa panoramica offre inoltre la possibilità di porsi ulteriori quesiti ovvero se queste aree risentano di un buono sviluppo, di una buona integrazione e di una buona flessibilità.

Seguendo la fenomenologia dell’esperienza temporale e cercandone le basi anatomiche ed i meccanismi nervosi, ci si avvicina al tempo con la conferma che un evento cerebrale di quella natura e rilievo, che fornisce alla coscienza una delle dimensioni fondamentali dell’esistenza, è reale.

Il tempo di cui siamo coscienti e quello che rimane inavvertito, sembrano dunque dipendere da meccanismi nervosi diffusi in tutto l’encefalo, in particolare quelli della memoria, dell’attenzione e del sistema limbico e dell’affettività, nonché dallo stato fisico a quello ormonale (Eichenbaum, H., 2013).

Il senso del tempo è una realtà variabile, onnipresente e relativamente poco prevedibile, nondimeno di natura individuale come lo sono struttura e funzionamento di ogni cervello.

Per lo psicologo Robert E Ornstein (1969) il tempo è una delle rappresentazioni continue di cui è intrecciata la nostra esperienza, nondimeno la sua realtà risente di due aspetti fondamentali: il Government Time (GT) prodotto dal cervello e il Personal Time (PT), ossia il tempo fenomenologico della vita e della successione dei ricordi, ordinati nei centri nervosi della memoria.

A differenza del GT, l’esperienza del personal time risente notevolmente dell’attenzione attribuita agli eventi, delle emozioni, dell’affettività e dello stato d’animo, dunque di aree importanti, che non sempre sono state tradotte nel migliore dei modi e che possono risentire di alcuni deficit che possono protrarsi durante la vita e la propria crescita.

Le emozioni inoltre sembrano dunque avere un ruolo importante, poiché possono allungarlo come possono accorciarlo, infatti suoni carichi di emozioni (Angrilli, A., 1997) gradevoli e sgradevoli sentiti per 2, 4 e 6 secondi possono allungare il tempo, ancora di più se sgradevoli. Secondo Einstein (1915) il TP è il senso primordiale del flusso del tempo che ci consente di mettere ordine nelle nostre impressioni, talmente soggettivo da variare a seconda delle circostanze.

Lo sviluppo del senso del tempo (Carstensen, L., 2006) avviene con lo sviluppo delle capacità di camminare e del linguaggio nonché delle esperienze che trasmettono il senso dello scorrere dello stesso.

Nel linguaggio parlato oltre all’informazione lessicale e sintattica, la prosodia, cioè il ritmo, il tempo e il tono del discorso, modula notevolmente il contenuto e trasmette lo stato emotivo di chi parla (Scrimer, A., 2001).

Il collegamento dei meccanismi del parlare con quelli della pressione sanguigna e della respirazione rende l’espressione parlata molto sensibile alle emozioni. Anche in queste circostanze il senso del tempo riflette lo stato mentale dell’individuo, che interagisce con un altro.

La durata degli intervalli, cioè del silenzio, fra parole e sillabe è determinante per attribuire aggettivi, verbi, proverbi e quant’altro si dica alle varie componenti di una frase e quindi per capire quel che si sente.

Il linguaggio (Sinha, C., 2014) dunque si forma e si comprende con le strutture nervose del senso del tempo, per cui il parlare non sembra essere una funzione che si sviluppa indipendentemente dalle altre, bensì una funzione che prende il via e cresce assieme ad altri processi cognitivi.

L’informazione in arrivo non agisce mai su un sistema statico, ma sempre su un sistema già attivo, organizzato e sempre flessibile alle nuove modifiche, derivanti dalle interazioni con l’ambiente (Lashley, K. S., in Benini A., 2017, p.47).

L’attività del cervello, a seconda della quantità di energia di cui dispone è continua e l’elaborazione dell’informazione fino alla coscienza dipende dai meccanismi attivi in quel momento, di conseguenza l’esperienza è inserita nel traliccio nervoso dei meccanismi dello spazio e del tempo, ed acquista nella coscienza la dimensione temporale oggettiva del GT e soggettiva del PT.

Schematicamente secondo E. Poppel (1978) si possono distinguere cinque esperienze coscienti del tempo: quella della durata, della simultaneità e della successione, del senso del presente ed anticipazione del futuro.

Si tratta di esperienze diverse cui corrispondono meccanismi nervosi ben diversi, accompagnati dalla tesi, secondo la quale non vi è conferma della presenza di un unico centro dell’esperienza temporale. Viceversa tante esperienze differenti, coinvolgono diverse aree corticali e sottocorticali, che funzionalmente possono fornire o meno un armonioso equilibrio del senso che abbiamo del tempo e di cui le aree cerebrali della memoria, in particolare l’ippocampo, forniscono il senso sia del tempo che dello spazio (Bray, N., 2014).

La durata per esempio, come tutte le altre varianti del senso del tempo, dipenderebbe dalla durata dell’attivazione della rete dei neuroni sincronizzati durante l’evento.

Il meccanismo nervoso del senso della durata agisce non solo a seconda dello stato d’animo, ma anche in relazione ad eventi apparentemente irrilevanti.

Più alta è la temperatura del corpo o dell’ambiente per esempio, più veloce è sentito il passare del tempo (Warden, J. H., 1995).

Del mondo abbiamo l’esperienza cosciente che gli eventi multisensoriali, come il suono e la visione, siano percezioni sincrone ed immediate, ma ciò è un’illusione perché tra l’evento sensoriale e la percezione cosciente c’è un intervallo di circa mezzo secondo, necessario ai meccanismi nervosi per elaborare informazioni, riflessioni percezioni uni e multisensoriali (Benini, A., 2017, p. 54).

La compressione inconsapevole del tempo e la sincronicità illusoria di stimolazioni diverse, dovute alla capacità del cervello di convogliare molteplici modalità sensoriali in un unico flusso temporale omogeneo e coerente, rappresentano la normalità dell’esperienza sensoriale.

La compressione del tempo regola anche le percezioni mono sensoriali: per esempio se siamo toccati nello stesso istante nella faccia e in un piede, siamo coscienti simultaneamente dei due toccamenti, anche se lo stimolo che parte dal piede impiega 30-40 millisecondi per arrivare all’area parietale somato – sensoriale controlaterale e quello che parte dalla faccia impiega 5 – 10 millisecondi (Pastor, M., 2004).

Osservando questa sequenza quello che emerge è che la velocità delle due informazioni è ben diversa, ciononostante le relazioni temporali e spaziali dei segnali degli organi di senso sono essenziali per integrare le varie modalità dell’informazione.

Quello che ci si chiede è se questi meccanismi nervosi a partire dalle prime interazioni col caregiver ed ambientali risentano di un supporto volto a migliorarne sempre più lo sviluppo e la loro capacità funzionale, che in futuro può portare ad un adattamento o viceversa ad un blocco evolutivo (King, A. J., 2005).

Questo perché ogni meccanismo dell’informazione reagisce a un tipo e ad un ambito particolare di energia usando metodi specifici di trasmissione dell’informazione all’interno del cervello.

Per questo la coordinazione dei sistemi sensoriali, in particolare dello spazio e del tempo, è essenziale per interpretare gli eventi del mondo esterno ed elaborare un comportamento il più coerente possibile.

Le aree più specifiche per l’elaborazione del tempo sarebbero: i lobi parietali, l’area motoria supplementare e la corteccia frontale destra, tre aree di cui l’ippocampo si pensa essere il coordinatore (Lytton, W., 1999). Esso dunque risulta essere l’organo chiave della memoria e del senso del tempo stesso, fornendo alla coscienza la continuità delle rappresentazioni spaziale e del suo svolgimento temporale (Benini, A., 2012).

Sembra dunque che non ci si possa congedare dal tempo, frutto di meccanismi nervosi che danno vita all’esperienza consapevole ed inconscia, nondimeno flessibile a seconda delle percezioni, dello stato d’animo, della condizione ambientale, del carattere, della temperatura esterna e di quella del corpo.

Nondimeno queste caratteristiche non sempre danno vita ad un senso del tempo lineare, perché esso può risultare distorto a seconda del tipo di percezione che si va instaurando dentro di noi. In questo senso i meccanismi nervosi non sempre possono risultare fluidi e ancor di più flessibili, ma in base al loro grado di integrazione e funzione qualitativa rispetto alle quali emergono e si sviluppano, possono fare del senso del tempo una realtà nella quale viviamo, che conosciamo, che spesso costruiamo e che non sempre viene confermata dagli altri (Buhusi, C., 2005).

Infine possiamo dunque pensare che il tempo nella vita quotidiana sia in parte installato in un atto motorio inserito nello spazio, che il suo senso sia il frutto di esperienze motorie cui non si vorrebbe mai porre fine. Proprio perché il movimento richiede energia, se essa non risulta fluida e costante si rischierebbe di vivere ciò che più di ogni cosa si vorrebbe evitare: la discontinuità.

 

Il ruolo delle fantasie sadico-sessuali nella predizione dei crimini sessuali – FluIDSex

Le fantasie sessuali di carattere sadico vengono definite scenari immaginari di danneggiamento intenzionale eterodiretto a sfondo sessuale, e possono aiutare nella predizione dei crimini sessuali.

 

Le fantasie sessuali sono parte integrante della vita psichica e sessuale: rappresentano infatti un’esperienza comune agli esseri umani (Allen et al., 2020), costituiscono una normale forma di eccitazione sessuale (Baić et al., 2019) e da una prospettiva evolutiva rivestono anche un ruolo adattivo in quanto, stimolando un rapporto sessuale, aumentano le chances riproduttive della specie (Joyal, 2017). Le fantasie sessuali, così come le fantasie in generale, vengono considerate un’istanza della mental imagery (immagine mentale) (Nanay, 2018) e come tali vengono influenzate da molteplici variabili che ne determinano creazione e natura. Sorge quindi spontaneo chiedersi come sia possibile che le fantasie sessuali costituiscano un eccitante ed innocuo passatempo per la popolazione generale e al contempo una forza trainante per i reati sessuali nella popolazione criminale.

Le fantasie sessuali di carattere sadico vengono definite scenari immaginari di danneggiamento intenzionale eterodiretto a sfondo sessuale, che determinano un aumento dell’eccitazione sessuale per “colui che fantastica” (Bondü & Birke, 2020). Quattro fattori in particolare sembrano correlare con una maggior intensità ideativa, con un maggior coinvolgimento nella fantasia e con un significativo sexual arousal (eccitazione sessuale): la vividness (vividezza dell’immagine mentale) (Nanay, 2018), il daydreaming (sogno ad occhi aperti) (Bartels et al., 2017), la fantasy proneness (tratti di personalità associati a un maggior assorbimento nella fantasia) (Bartels et al., 2017) e la dissociazione (fenomeno che nei criminali, tra le altre cose, determina una sottovalutazione della gravità delle proprie azioni) (Bartels et al., 2017). Da uno studio di Baić e colleghi (2019) è emerso che il contenuto delle fantasie sessuali di un gruppo di uomini autori di violenza sessuale riguardava: la masturbazione (75,0%), lo stupro in cui la vittima risulta obbediente e sottomessa (57,5%), gli atti sessuali con un minore (30,0%), il sesso orale durante lo stupro (30,0%) e il dolore fisico inflitto alla vittima da parte dello stupratore (25,0%). Ciò nonostante il contenuto delle fantasie sessuali non risulta sempre rilevante nella previsione di comportamenti criminali; difatti nella popolazione generale sono frequenti fantasie sessuali atipiche (Joyal, 2017), mentre i criminali sessuali presentano in media una minor diversità nei contenuti delle fantasie. Sono invece elementi come frequenza, intensità, necessità, ossessione e significato attribuito a costituire dei possibili campanelli d’allarme (Bondü & Birke, 2020).

I cosiddetti sex offenders (aggressori sessuali) spesso nutrono fantasie concernenti comportamenti sessuali con un fine coercitivo o aggressivo nei confronti della vittima prescelta (Allen et al., 2020) e questo tipo di immagini mentali talvolta precede aggressioni innescate dall’eccitazione derivata dall’attività fantastica (Joyal, 2017). Questa è una delle ragioni per cui la comparsa di tali fantasie – soprattutto se ad alta ricorrenza ed intensità – viene considerata un fattore di rischio per la messa in atto di crimini sessuali. Anche i rapporti sessuali in giovane età sembrano essere correlati a una maggior propensione all’attività sessuale impersonale (anaffettiva) e ad interessi sessuali che si discostano dalla norma, come ad esempio fantasie di natura sadica (Ronis et al., 2019). Alcuni studi hanno descritto come un individuo che nel corso del suo sviluppo abbia interiorizzato credenze distorte (es. bambini come oggetti sessuali) presenti una maggior propensione ad esperienze di dissociazione dalla realtà e al coinvolgimento attivo in fantasie particolarmente vivide, aumentando la probabilità di creare e strumentalizzare fantasie sessuali aggressive (Bartels et al., 2017).

Risulta tuttavia importante puntualizzare come la maggior parte delle persone che presenta delle fantasie sessuali definite “devianti” non si tramuta poi in sex offenders, come nel caso delle attività BDSM, termine che descrive forme di attività sessuale che includono Bondage e Disciplina, Dominanza e Sottomissione, così come Sadismo e Masochismo (Simula, 2019). Difatti nello studio di Bondü e Birke (2020) sulla possibile correlazione tra identità BDSM e comportamento di aggressione sessuale non consensuale, solamente l’aggressione fisica conclamata prediceva in maniera stabile tale evento. Le fantasie sessuali “atipiche” di queste persone sono quindi considerate una parte fondante del BDSM, un aspetto caratteristico della sessualità e un elemento necessario all’eccitazione dei praticanti (Bondü & Birke, 2020). Questi dati evidenziano come la relazione tra le fantasie sadico-sessuali e il reato sessuale non si basi esclusivamente sulla natura del contenuto delle fantasie stesse.

Eziologia e funzione delle fantasie sadico-sessuali

Dalla letteratura emerge come diversi autori di reati sessuali condividano un passato di abusi e/o negligenze in tenera età, riaffiorante poi durante l’adolescenza e la prima età adulta sotto forma di reminiscenze e fantasie (Allen et al., 2020). Negli uomini questi tipi di vissuti traumatici, se esacerbati da un’incompetenza a costituire legami durevoli con le donne e a conseguenti percezioni di scarso valore e inadeguatezza, possono contribuire alla formazione di cognizioni distorte con carattere di ostilità verso le donne (Bartels et al., 2017). Queste credenze inducono gli uomini a mettere in atto strategie di coping disadattive per preservare e ricostituire la loro identità danneggiata, tra di esse troviamo le fantasie sessuali caratterizzate da temi di dominio, controllo, potere e aggressione nei confronti delle donne. Lo studio ha inoltre evidenziato come la ripetizione di tali cicli di intensificazione ideativa porti ad aggressioni seriali di crescente ferocia (Bartels et al., 2017). Con l’intento di individuare una possibile corrispondenza a livello cerebrale di questi fenomeni, è stata ipotizzata la presenza di un circuito neuronale comune ai tratti manipolativi della psicopatia e alla dipendenza sessuale, spesso infatti associati al comportamento criminale. I ricercatori Knight e Guay (2018) affermano che un’iperattivazione del sistema dopaminergico mesolimbico (deputato all’elaborazione degli stimoli socio-emotivi) potrebbe accentuare entrambe le componenti di ipersessualità (irrefrenabile desiderio di intraprendere attività a sfondo sessuale) e di manipolazione (matrice psicopatica criminale). Oltre che dalle strategie di coping o da distorsioni cognitive, i crimini sessuali come la violenza sessuale o l’abuso sessuale su minori possono essere sostenuti e motivati da altre variabili. Possono infatti rappresentare sia un tentativo di mantenere alta l’efficacia della fantasia come fonte di eccitazione e di piacere, soprattutto per garantire un’attività masturbatoria soddisfacente (Baić et al., 2019), sia un intenso desiderio di gratificazione, ovvero la necessità di uno strumento con cui degradare la vittima, attraverso l’aggressione fisica o la violenza verbale (Baić et al., 2019). In alcuni casi i sex offenders sviluppano fantasie sessuali di natura violenta così nitide e “reali” da non sentire il bisogno di una messa in atto della fantasia, che può rimanere tale. Tuttavia, nel momento in cui queste fantasie non risultano più appaganti, torna a manifestarsi la pulsione aggressiva che spinge la persona a mettere in atto comportamenti a sfondo sessuale di tipo criminale che gli permettano di acquisire nuovamente materiale su cui fantasticare e attraverso cui raggiungere l’apice del piacere (Bartels et al., 2017).

 


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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

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Accendere il buio, Dominare il vulcano (2021) di A. Pellai e B. Tamborini – Recensione del libro

Il libro Accendere il buio, Dominare il vulcano di Alberto Pellai e Barbara Tamborini tratta il tema delle emozioni presentandolo come un viaggio verso una maggiore consapevolezza emotiva, definita come l’avere la capacità di parlare di noi stessi con noi stessi.

 

Ciò ci permette di passare da una visione pienamente passiva, in cui ci accadono degli eventi, ad una più attiva in cui possiamo prendere in mano la situazione e controllarla in modo che non agisca più distruttivamente su di noi. Il tema della consapevolezza è fondamentale anche per poter consentire il passaggio all’età adulta che altro non è che l’arrivo ad uno stadio in cui si è in grado di sostare nelle proprie emozioni, comprenderle, approfondire, enfatizzarle, in modo da affrontarle e superarle. L’obiettivo, ottenibile appunto con la consapevolezza emotiva, è quello di addentrarsi in un territorio inesplorabile, il proprio mondo interno, per permettere il dialogo interiore fondamentale per lo stare meglio durante un vissuto emotivo negativo.

Il titolo è emblematico ed è considerato dagli autori il sigillo perfetto dell’intenso percorso da loro effettuato per la stesura del libro. Infatti, pone al centro due elementi fondamentali:

  • accendere il buio: spesso le emozioni negative ci pongono all’interno di un buco nero che impedisce di vedere la luce e guardare in alto. In questi momenti senza speranza diventa fondamentale trovare la forza per aprire una porta, portatrice di luce, per poter avere il coraggio di affrontare il vissuto emotivo più o meno drammatico e superarlo.
  • dominare il vulcano: Tamborini sottolinea con la scelta della parola dominare sia intenzionalmente esagerata. Infatti, non è possibile dominare un vulcano, ma si può convivere con esso e sviluppare un rapporto di reciproco vantaggio. Così con le emozioni, soprattutto le più esplosive, diviene fondamentale stabilire un rapporto di riconoscimento e valorizzazione dell’energia al fine di usarla in modo vantaggioso e non distruttivo (trasformare la rabbia-contro in rabbia-per).

Nell’intervista, Pellai sottolinea anche come una delle più grandi sfide degli uomini, quando sono chiamati a entrare nelle zone profonde della propria mente, sia quella di lasciare il passato nel passato, al fine di impedire agli eventi drammatici avvenuti di avere ancora un effetto distruttivo sul presente e sul futuro. Per fare ciò è necessario cambiare prospettiva e sguardo rispetto alle emozioni correlate a quanto è successo, al fine di comprendere loro e i messaggi che hanno voluto portare.

Il libro pone particolare enfasi a quattro emozioni negative: la tristezza, la paura, la rabbia e il disgusto. Tutte vengono affrontate introducendo alcuni esempi di vita quotidiana adulta in cui si ha avuto a che fare con esse e propone delle strategie che possano essere utili alla loro gestione, piuttosto che l’evitamento.

Tristezza

Come spesso accade vengono usate dagli autori di Accendere il buio, Dominare il vulcano alcune immagini visive per la comprensione dell’emozione e del rapporto che bisognerebbe avere con essa. In questo caso viene introdotta una tecnica giapponese di riparazione delle ceramiche rotte. Essa consiste nel ricostruire, ricreando l’unità, una ceramica andata in frantumi, ma senza cancellare le crepe. Il vaso così ricostruito, seppur ancora segnato dalle cicatrici della rottura, assume maggiore preziosità per via dei trattamenti che ha ricevuto. Questo è l’approccio che bisognerebbe adottare quanto si affronta un’emozione come la tristezza: non è da accantonare, ma da affrontare; non bisogna trascurare/nascodere i traumi, ma affrontarli. Gli autori osservano anche come spesso la tristezza si presenta in momenti in cui non è accaduto niente direttamente alla persona in cui si presenta. Ne è un esempio la tristezza disarmante dei genitori che osservano il proprio figlio essere triste. Ecco, in queste situazioni l’approccio del genitore con l’emozione del figlio diviene fondamentale per porre le basi, nel bambino, ad un rapporto di sano scambio con le sue emozioni. Il genitore non può impedire che i suoi figli siano tristi, ma può insegnare loro a relazionarsi con essa, a sostare al suo interno. Proprio per questo tema, Tamborini propone l’immagine di una scena del film Inside Out, in cui Bing Bong perde il suo razzo. Mentre Gioia cerca di distrarlo in modo energico, Tristezza si siede accando a lui e lo ascolta, permettendogli di sfogare la sua tristezza e di piangere (e non di reprimere l’emozione come Gioia proponeva). Dopo aver pianto e abbracciato Tristezza (cioè accolto l’emozione), Bing Bong si sente meglio. La scena è esemplificativa del pregiudizio di molti per cui se un emozione fa male deve essere eliminata ed ignorata, quando in realtà la cosa migliore sarebbe affrontarla e comprenderla. Ciò avviene in molte dinamiche familiari, in cui appena si vede il bambino mostrare segni di tristezza si prova a negargli l’accesso all’emozione negativa, ma in questo modo non si fa altro che lasciarlo in un territorio sospeso, in cui la tristezza diventa angoscia: un’ombra nera che non si sa riconoscere.

Paura

Gli autori di Accendere il buio, Dominare il vulcano definiscono la crescita come un viaggio dentro le nostre paure, un percorso dalla paura al coraggio. In questo senso, diventare grandi altro non è che imparare a tollerare una dose maggiore di incertezza, di inadeguatezza, di rischio. Infatti, da piccoli siamo completamente posti all’interno della protezione e sicurezza data dagli altri e le prime paure (come quella dei buio e dei fantasmi) compaiono tra i 3 e i 7 anni quando i bambini devono lasciare il proprio nido protettivo per entrare in uno spazio sociale completamente nuovo. Un’ attenta analisi delle tipiche paure dei bambini permette di evidenziare come queste abbiano tratti evolutivi e adattivi. Ad esempio, l’uomo primitivo doveva abbandonare la sua grotta per cercare del cibo, ma allo stesso tempo doveva porre attenzione a possibili predatori: doveva stare attento a qualcosa di potenzialmente presente che non era visibile (chiaro riferimento alla paura al buio e ai fantasmi). Allo stesso tempo, la paura è di importanza enorme anche durante l’adolescenza, periodo in cui l’individuo deve entrare in territori potenzialmente rischiosi e sconosciuti per poter determinare se stesso e la propria identità. Per fare ciò è importante aver un buon rapporto con la propria paura, in modo che essa non ci impedisca di prendere dei rischi, ma che allo stesso tempo non ci renda troppo aperti al rischio aprendoci a potenziali danni. Gli autori sottolineano come in questo rapporto sano con la paura siano rilevanti le tecniche di gestione della paura (controllo del respiro, dell’immaginazione guidata, desensibilizzazione: tutte permettono alla nostra mente di riacquisire il controllo) e il rapporto con la fiducia (tanto meno ci fidiamo, tanto più pensiamo di possedere un controllo totale sugli eventi).

Rabbia

Gli autori si soffermano sulla distinzione tra rabbia-contro e rabbia-per. La prima è la tipica propensione a infuocarsi in tempi molto rapidi (il che è molto evidente nella comunicazione per social, in cui improvvisamente un tema oggettivo e generale viene reso una questione personale). Il motore della rabbia-contro è spesso la percezione di un’ingiustizia, tuttavia non sempre percepire un’ingiustizia è connesso all’effettiva presenza di un’ingiustizia. Infatti, è importante tener conto del contesto e il vero significato del gesto (che potrebbe non essere un affronto personale). Nel momento in cui reagiamo ad un affronto, manifestiamo la tipica rabbia-contro. Per avere un rapporto sano anche con questa emozione negativa è fondamentale comprendere cosa ha determinato la tensione e il pericolo che ha originato l’attacco difensivo.

La rabbia-per può essere considerata come una possibilità di usare l’attivazione energetica della rabbia-contro in modo vantaggioso e sano. Ad esempio, se un ragazzino in pieno dicembre dovesse decidere di uscire in pantaloncini, la madre potrebbe, in primo luogo, agire in modo reattivo ed esplosivo attraverso la rabbia-contro (percependo, magari, tale volere del figlio come un affronto personale, come un tentativo di ribellione). Un modo sano di relazionarsi alla propria attivazione sarebbe quello di trasformare l’energia esplosiva in rabbia-per, ad esempio assumendo una posizione autorevole (“Se esci così, ci saranno delle conseguenze” oppure “se non ti cambi, non puoi uscire”): in questo modo la discussione è immediatamente conclusa. La trasformazione della rabbia-contro in rabbia-per è importante anche nelle relazioni di coppia, in cui sarebbe auspicabile trasformare una discussione da continui contrattacchi a tentativi di far comprendere all’altro cosa ci fa male, in modo da porre le basi adeguate per ricostruire l’alleanza. È evidente come epr fare ciò è fondamentale possedere consapevolezza emotiva, al fine di comprendere il proprio vissuto emotivo ed esternarlo in modo adeguato.

Disgusto

Il disgusto è un’emozione spesso trascurata, nonostante la sua importanza evolutiva (protezione da possibili sostanze tossiche e dannose). Oggi la funzione originaria del disgusto è diventata secondaria, ponendo più in primo piano il suo ruolo nell’ambito sociale e intergruppo: è percepito disgustoso l’altro in quanto diverso e potenziale portatore di contaminazione morale o fisica nella propria vita. Nel considerare la rilevanza sociale del disgusto, il libro si sofferma su due fenomeni fondamentali: il bullismo e la sessualità. Per quanto riguarda il primo, viene sottolineato come di fatto il bullo si concentra sugli aspetti di diversità della vittima al fine di renderla disgustosa e ostracizzarla. Proprio per la centralità del disgusto nell’azione del bullo, diversi percorsi educativi e preventivi potrebbero agire in modo da rendere disgustoso il bullismo del bullo e sensibilizzare in questo modo gli studenti.

Altrettanto fondamentale è il tema del disgusto nel rapporto con la sessualità. Questa è stata a lungo considerata un enorme tabù (esempio della nonna che appena si mostra una scena di sesso in tv, cambia canale in modo disgustato; oppure i genitori che appena emergono domande sessuali hanno espressioni disgustate). Tale rapporto disfunzionale con la sessualità non fa altro che confinarla ad un qualcosa di sbagliato, repellente e disgustoso, appunto, il che rende difficile l’instaurarsi di una relazione sana e matura dei temi ad essa associati.

Da questa breve presentazione risulta estremamente chiaro il sottotitolo del libro: “Come trasformare le emozioni negative in potenti alleate”. Infatti, il testo si propone proprio di sottolineare il carattere vantaggioso e utile delle emozioni che tendenzialmente vengono considerate negative e, in quanto tali, da sopprimere.

 

Il Covid-19 e i suoi effetti sul nostro processo decisionale

Attualmente, un numero limitato di studi ha esplorato il potenziale legame tra l’impatto psicologico subito dopo aver vissuto eventi traumatici e il processo decisionale. Come ha influito la pandemia da Covid-19 sull’accuratezza delle decisioni prese?

 

 Il Covid-19 rappresenta una grave minaccia per la salute; la sua gravità e le politiche di lockdown messe in atto comportano conseguenze psicologiche rilevanti come, tra gli altri, alti livelli di confusione e rabbia e lo sviluppo di sintomi da stress post-traumatico (Brooks et al., 2020). Ma è possibile che quanto stiamo vivendo abbia influito a sua volta sulla nostra capacità di prendere decisioni accurate? La risposta a tale interrogativo rappresenta una questione rilevante, poiché il contesto in cui stiamo vivendo richiede che molte decisioni vengano prese in condizioni stressanti e la comprensione di determinati meccanismi potrebbe essere utile per impostare strategie di azione globale.

Attualmente, un numero limitato di studi ha esplorato il potenziale legame tra l’impatto psicologico subito dopo aver vissuto eventi traumatici e il processo decisionale. Per esempio, è stato osservato che quando viene chiesto ai partecipanti di scegliere tra guadagni/perdite potenzialmente sicure e possibilità rischiose di guadagnare/perdere quantità variabili, i partecipanti con una diagnosi di disturbo da stress post-traumatico (Post-Traumatic Stress Disorder; PTSD) mostrano ambiguità decisionale e avversione alle perdite (May&Wisco, 2020). 

D’altra parte, una grande quantità di studi ha analizzato l’effetto che anche altri tipi di stress esercitano sul processo decisionale ma, in questi casi, i risultati sono estremamente eterogenei. Per esempio, in uno studio sperimentale i ricercatori, dopo aver indotto una condizione stressante nei partecipanti, li hanno sottoposti al “gioco del dittatore”, in cui i soggetti ricevevano una somma di denaro e dovevano decidere se condividere o meno una parte di questo con un estraneo (Forsythe et al., 1994). I partecipanti sotto stress hanno donato più soldi allo sconosciuto (Hasegawa et al., 2007). Nei dilemmi personali, tuttavia, che chiedono ai soggetti di scegliere tra alternative egoistiche o altruistiche, i partecipanti, in condizioni di stress, hanno preso più decisioni egoistiche rispetto ai partecipanti non stressati (Starcke et al., 2011). 

Anche l’effetto di framing, ovvero la tendenza ad elaborare un’informazione sulla base del modo in cui viene presentata, è stato utilizzato al fine di comprendere come lo stress possa indurre cambiamenti nei processi decisionali. La ricerca ha dimostrato che i partecipanti, in questi casi, presentano maggiori bias nelle risposte, prendendo decisioni più sicure quando i problemi sono inquadrati in termini di guadagni, ma decisioni più rischiose quando vengono presentati in termini di perdite (Porcelli &Delgado, 2009). Queste osservazioni possono essere interpretate alla luce dell’approccio a doppio processo (Kahneman, 2003), secondo il quale esistono due sistemi: il primo promuove processi rapidi e automatici e, il secondo, ragionamenti più riflessivi (Evans &Stanovich, 2013). Dunque, seguendo questo approccio, lo stress facilita le risposte rapide e automatiche del sistema 1, ostacolando le risposte più controllate del sistema 2.

Inoltre, si è visto che lo stress altera il processo decisionale anche nei classici dilemmi morali utilitaristici/deontologici (Youssef et al., 2012). In questi dilemmi, ai partecipanti viene illustrata una particolare situazione: un treno in arrivo rischia di uccidere cinque persone e l’unico modo per fermarlo è uccidere uno spettatore innocente. Dunque, ai partecipanti viene chiesto di scegliere se uccidere quell’unica persona oppure sacrificarne cinque. In questi dilemmi, le alternative utilitaristiche permettono ai partecipanti di sacrificare una persona per salvare più vite. Youssef e colleghi (2012) hanno dimostrato che i partecipanti sotto stress hanno dato meno risposte utilitaristiche rispetto ai partecipanti non stressati.

 Pertanto, lo stress sembra alterare i meccanismi alla base del processo decisionale. Tuttavia, non è ancora noto se questi modelli di risposta siano replicabili in situazioni reali. In uno studio, alcuni ricercatori hanno analizzato se i processi decisionali dei partecipanti fossero stati influenzati dall’impatto psicologico generato dalla pandemia. Ai soggetti (n=641) sono stati presentati quattro compiti decisionali: il gioco del dittatore, problemi di framing, dilemmi morali utilitaristici/deontologici e dilemmi morali altruistici/egoistici. 

Sulla base della letteratura precedente, gli autori si aspettavamo che i partecipanti con livelli più alti di impatto psicologico presentassero maggiori bias nei problemi di framing (Porcelli & Delgado, 2009) e, più concretamente, che evitassero perdite (May&Wisco, 2020). Inoltre, hanno ipotizzato che i partecipanti avrebbero effettuato meno scelte utilitaristiche nei dilemmi morali utilitaristici/deontologici. Per quanto riguarda il gioco del dittatore e i dilemmi morali altruistici/egoistici, le previsioni erano più difficili da stabilire, poiché alcuni studi suggeriscono che lo stress promuove risposte altruistiche (Hasegawa et al., 2007), mentre altri propongono il contrario (Starcke et al., 2012).

Principalmente, dai risultati è emerso che l’impatto psicologico ha predetto le risposte dei partecipanti nei problemi di framing, nei dilemmi morali utilitaristici/deontologici e nei dilemmi altruistici/egoistici, ma non nel gioco del dittatore. 

I risultati suggeriscono che, nel contesto della pandemia, i bias nelle risposte comportavano la propensione verso un processo decisionale sicuro.

Inoltre, l’impatto psicologico determinato dal Covid-19 ha predetto le risposte utilitaristiche. Difatti, i partecipanti che non avevano riportato considerevoli ripercussioni hanno scelto l’alternativa utilitaristica più frequentemente. Questo risultato è coerente con l’osservazione che i soggetti con diagnosi di PTSD evitino di essere coinvolti in decisioni i cui esiti potrebbero essere più o meno negativi, forse perché prevedono che verrebbero influenzati negativamente dalle perdite (May&Wisco, 2020). Inoltre, il risultato amplia le evidenze precedenti che sottolineano come, quando si affrontano dilemmi morali, lo stress induce dei bias nelle risposte (Youssef et al., 2012). Infine, si è evinto che gli alti livelli di stress in questo contesto portano ad effettuare scelte più altruistiche. Pertanto, la tendenza a prendere in considerazione l’altro quando vengono prese delle decisioni, potrebbe essere stata innescata dal contesto sociale causato dalla pandemia, come i ripetuti messaggi che imponevano di restare a casa o di indossare la mascherina per evitare di infettare gli altri. Questa spiegazione sarebbe coerente con gli studi che mostrano che alti livelli di impatto psicologico correlano con i processi automatici durante il processo decisionale (Yu, 2016), che potrebbero facilitare questo modello di risposte altruistiche.

 

L’ interconnessione cervello e intelligenza artificiale: fantascienza o possibile uso clinico?

Cosa accadrebbe se ad ospitare un dispositivo digitale non fosse un oggetto ma il cervello di un essere vivente? La prima notizia della realizzazione di impianti neuronali in un essere vivente risale al 29 Agosto 2020 quando Neuralink ha annunciato di aver sperimentato l’impianto neurale su un maiale

 

Neuralink e gli impianti neuronali negli esseri viventi

La tecnologia digitale circonda la nostra esistenza, la maggior parte degli strumenti che utilizziamo quotidianamente hanno al loro interno una componente digitale che ha funzioni di controllo o addirittura consente l’interazione con l’ essere umano, basta pensare a orologi, telefoni, autoveicoli ed elettrodomestici per vedere come questi siano sempre più spesso ospiti di tecnologia digitale.

Ma cosa accadrebbe se ad ospitare un dispositivo digitale non fosse un oggetto ma il cervello di un essere vivente?

Recentemente sono stati compiuti esperimenti su animali ed è stato annunciata l’intenzione di sperimentare dispositivi di connessione anche su esseri umani con tutti i dubbi etici che questa scelta può generare (Dadia T, Greenbaum D. 2019)

Dal cyborg  al “cypork”

La prima notizia della realizzazione di impianto neuronale in un essere vivente risale al 29/8/2020 (la Repubblica 28/8/2020) quando Neuralink ha annunciato di aver sperimentato l’impianto neurale su un maiale (chiamata Gertrude). Neuralink Corporation è una azienda statunitense di neurotecnologie è stata avviata nel 2016. Tra i suoi fondatori l’imprenditore Elon Musk (The Wall Street Journal, 27 marzo 2017).

L’ esperimento condotto dimostrava come il chip impiantato nel cervello della scrofa Gertrude consentiva di vedere su monitor i suoi segnali neurologici mentre questa inseguiva una mangiatoia con del cibo su un tapis roulant.

Lo scenario descritto dagli sperimentatori è affascinate. Secondo la loro opinione, questo tipo di impianto cerebrale potrebbe essere utile in patologie centrali quali: Alzheimer, Parkinson e disturbi della memoria in genere; studio della fisiologia cerebrale; disturbi periferici quali paraplegie e tetraplegie.

Neuralink e la realizzazione di impianti neuronali negli esseri viventi - IMM.1

Immagine tratta da Huffington Post – Elon Musk mostra come funziona l’impianto cerebrale Neuralink inserito in un maiale

Chip neurali: il macaco Pager ed i videogame

I primi tentativi di tradurre l’attività neuronale in comandi per controllare dispositivi esterni furono fatti nelle scimmie già negli anni ’60 (Evarts EV. 1966)

È recente la notizia (Coriere della Sera 10/4/2021) di un macaco di 9 anni di nome Pager che dopo aver subito l’impianto di un chip neuronale è in grado di giocare ad un videogame solo con l’uso della mente.

Usando il rinforzo positivo legato alla ricompensa, tipico degli studi sul comportamentismo di Pavlov (Finizio P. 2021) il macaco ha imparato a giocare ad un game simulante una partita di tennis per ottenere una ricompensa, nel caso specifico frullato di banana,  in base ai punti segnati.

Con l’impianto neuronale è stato possibile mappare l’attività neuronale della scimmia mentre imparava ad utilizzare il game in circa 6 mesi, trascorsi i quali è stato possibile creare un modello predittivo personalizzato sincronizzando la mappa mentale con i movimenti compiuti dall’ animale. Il passo successivo è stato quello di togliere il joystick ed osservare come Pager riuscisse a muovere le barre sullo schermo del videogame solo grazie agli impulsi cerebrali trasmessi dall’ impianto neuronale.

Gli impianti neurali

Un impianto neurale consiste nel posizionamento attraverso chirurgia o iniezione di un elettrodo che si connette direttamente all’ encefalo: corteccia cerebrale, o midollo spinale. Questi impianti sono in grado di registrare l’ attività neuronale o addirittura inviare stimoli grazie al fatto che i neuroni usano stimoli elettrici per la trasmissione degli impulsi eccitatori o inibitori.

Il sistema sviluppato può fungere da prototipo di neurointerfaccia invasiva per applicazioni cliniche. In particolare, le neurointerfacce multielettrodi possono diventare la base per nuovi sistemi di comunicazione e tecnologie dedicate all’ assistenza avanzata per persone paralizzate, nonché per controllare dispositivi esterni e interagire con l’intero ambiente, ad esempio, integrandosi in nuove tecnologie sviluppate rapidamente, come Smart Home e Internet of Things. Inoltre, le applicazioni dell’interfaccia cervello-computer sono molto promettenti per rilevare informazioni nascoste nel cervello dell’utente, che non possono essere rivelate dai canali di comunicazione convenzionali. Attualmente, l’uso di interfacce cervello-computer non invasive in questi campi è limitato da un basso numero di comandi che possono essere riconosciuti. Questa limitazione deriva da un numero relativamente piccolo di caratteristiche, che possono essere estratte dall’elettroencefalografia a livello del cuoio capelluto o dalle registrazioni della spettroscopia funzionale. Le interfacce invasive cervello-computer (o interfacce cervello-macchina) dimostrano prestazioni molto migliori rispetto alle interfacce non invasive cervello-computer; tuttavia, richiedono un numero maggiore di canali per ottenere informazioni più dettagliate sull’attività di spike individuale dei neuroni attraverso regioni corticali distribuite. Il dispositivo riportato nel paper di Elon Musk e Neuralink si avvicina alla soluzione a questo problema.

Impianti per sostituzione sensoriale

Consiste nell’applicazione di bioprotesi che sono in grado di bypassare aree del cervello colpite da lesioni ischemiche, iatrogene o traumatiche, queste protesi sono state in grado di restituire la vista o l’udito in alcuni pazienti.

Stimolazione cerebrale profonda

La Food and Drug Administration (FDA) statunitense ha approvato l’utilizzo della stimolazione cerebrale profonda nel 1997 per il trattamento del tremore essenziale. Da allora, la FDA e altri regolatori globali hanno approvato questo trattamento per la malattia di Parkinson, la distonia, l’acufene, l’epilessia, il disturbo ossessivo-compulsivo e il dolore neuropatico.

Stimolazione epidurale

Alcuni degli esperimenti più emozionanti che coinvolgono gli impianti neurali sono quelli che riguardano la stimolazione del midollo spinale, noto anche come stimolazione epidurale. Il trattamento ha permesso a molte persone con paralisi nella parte inferiore del corpo di muoversi, stare in piedi e persino camminare per una breve distanza per la prima volta da quando hanno riportato lesioni al midollo spinale.

Neuralink e l’ibridazione del cervello umano

La tecnologia e i processi presentati nel documento Musk e Neuralink possono sicuramente aumentare il numero di canali, fornendo un campionamento più dettagliato dei segnali rilevanti e una ridondanza gradita. Forse ancora più interessante dell’approccio proposto è la possibilità di posizionare gli elettrodi in aree del cervello che è stato difficile o impossibile raggiungere con la tecnologia esistente. Queste nuove posizioni potrebbero potenzialmente fornire diversi tipi di informazioni per migliorare le prestazioni dell’interfaccia cervello-macchina.

Tuttavia, la potenziale applicazione clinica di questa strategia non è chiara poiché è stata testata solo su un piccolo numero di roditori ed alcuni animali più grandi, senza alcun confronto con gli approcci esistenti o la verifica della sicurezza utilizzando l’analisi istologica dopo l’impianto. Gli autori affermano che i loro impianti avranno una maggiore longevità rispetto ad altre opzioni a causa della minore risposta immunitaria correlata alla rigidità degli elettrodi e all’interruzione microvascolare, ma non viene presentata alcuna prova a sostegno di nessuna di queste ipotesi e una maggiore durata non è stata verificata utilizzando l’impianto a lungo termine. Non è chiaro se i vasi sanguigni sotto la superficie possano essere evitati,questi sono potenzialmente critici per le risposte immunitarie (Fourneret É 2020).

Il documento non affronta l’uso degli elettrodi a filo per cervelli più grandi con strutture corticali più complesse (ad esempio, la struttura profondamente corconvoluta del cervello umano). Il sistema di registrazione potenzialmente impiantabile come presentato non include la sigillatura ermetica, una fonte di alimentazione pertinente (ad esempio, batteria, induzione o ottica) o una tecnica (ad esempio, wireless) per la trasmissione di dati a larghezza di banda elevata fuori dal corpo senza un’interfaccia percutanea. La tecnologia è molto innovativa, ma sarà necessaria una migliore convalida per stabilirne il potenziale clinico (Robert F K  A Bolu A,  Jonathan P M. 2019).

Conclusioni

Nel prossimo futuro, le neurotecnologie continueranno a crescere. Simulazioni al computer più accurate e avanzate (ad esempio, modellazione computazionale) consentiranno ai ricercatori di testare e convalidare queste tecnologie ancora più rapidamente. Le neurotecnologie impiantabili diventeranno letteralmente parte di noi.

La comunicazione bidirezionale diretta tra il cervello e i dispositivi esterni, la trasformazione che questa connessione determina e l’offuscamento dei confini tra esseri umani e macchine, sono questioni che sollevano diverse preoccupazioni etiche, sociali e culturali. L’identità personale, l’integrità fisica e la dignità umana delle persone che utilizzano la prossima generazione di interfacce cervello-macchina richiederanno sicuramente ulteriore attenzione (Drew L. 2019).

 

Ucronia Beckiana: e se fosse rimasto psicoanalista? – 100 anni di Aaron T. Beck – Parte 7

Si immagina cosa sarebbe accaduto, in un Marvel Psychotherapeutic Multiverse, se Beck fosse rimasto psicoanalista.

 

Marvel Psychotherapeutic Multiverse: e se Beck fosse rimasto psicoanalista?

Concludiamo queste riflessioni immaginando un’ucronia, un universo parallelo, un Marvel Psychotherapeutic Multiverse in cui Beck è rimasto psicoanalista. A questo punto della storia diventa quasi legittimo chiederselo, oltre che intrigante. Legittimo perché, come abbiamo visto, il rapporto di Beck con la psicoanalisi è stato non solo prolungato ma, in realtà, a voler essere sinceri, mai dimenticato. In una intervista rilasciata a Salkovskis nel 1990, Beck arriva a rammaricarsi che i terapeuti cognitivi formatisi dopo il suo definitivo distacco dalla psicoanalisi databile al 1975, manchino di una formazione psicoanalitica, quasi a dire che questo aspetto sia irrinunciabile per un buon terapista cognitivo. Insomma, Beck continua a considerare la sua terapia cognitiva una forma di psicoanalisi dell’Io.

Chiediamocelo: e se fosse rimasto psicoanalista? Se nella psicoanalisi americana si fossero create le condizioni per accogliere Beck e non ripudiarlo? Non è uno scenario così irreale, come abbiamo visto. Certo, nella realtà il salto finale di Beck verso la psicoterapia cognitiva lo rendeva incompatibile con la psicoanalisi: la ristrutturazione delle distorsioni cognitive, la messa in discussione diretta senza passare per l’interpretazione degli aspetti difettosi dell’Io come li chiama Rapaport, diventava l’intervento chiave attuabile senza attendere l’emersione dei contenuti pulsionali.

E tuttavia, era davvero così? Oppure perfino questo aspetto era già presente nella psicoanalisi? Riflettiamo, la stessa psicoanalisi dell’Io aveva sostenuto che la rivelazione delle difese inconsce poteva stare accanto all’emersione delle pulsioni come forma di interpretazione analitica dell’inconscio. Ebbene? Non significa questo che quindi, potendosi interpretare le difese senza far emergere la pulsione, era in fondo possibile mettere in discussione la disfunzionalità (e quindi l’illogicità pratica) delle difese senza interpretare la pulsione inconscia? C’è pure un termine psicoanalitico compatibile con questo intervento: la confrontation, il confronto. Lo usa molto Kernberg, ortodossissimo psicoanalista.

Conclusione inquietante. Ciò vuol dire che in qualche modo sarebbe potuto bastare formulare in questi termini l’intervento di Beck, come confrontation, per tenerlo dentro il recinto della psicoanalisi. La down arrow, la scoperta socratica delle distorsioni cognitive come analisi delle difese e il loro trattamento come sfida alla loro irrazionalità non erano così lontane da una interpretazione psicoanalitica. L’interpretazione non è solo rivelazione ma anche confronto, confrontation nella terminologia ortodossa utilizzata anche da Kernberg. Se si fosse aperta questa sliding doors, la porta scorrevole che chiuse quell’accoglimento nella psicoanalisi che Beck tanto desiderava, scenari inediti si sarebbero aperti.

Beck rimane psicoanalista

Cosa sarebbe accaduto? Una volta rimasto dentro l’ortodossia freudiana della psicoanalisi dell’Io, presumibilmente Beck avrebbe seguito il suo principale talento e la sua grande ambizione, che è stato quello di costruire procedure di terapia formalizzata e manualizzata e dall’esecuzione ripetibile e controllabile. Lavorando all’Università della Pennsylvania, dove già era stato in grado di farsi strada nella realtà, pur nella difficile situazione di terzo incomodo tra psicoanalisi e comportamentismo, avrebbe avuto presumibilmente altrettanto successo come psicoanalista moderno e avrebbe aperto il suo seminario di psicoterapia cognitiva psicoanalitica. La domanda è: quali studenti avrebbe attirato?

Nella realtà egli fu circondato da una maggioranza di allievi che avevano già ricevuto la formazione psicoanalitica, come quel John Rush che avrebbe avuto l’idea del primo trial di efficacia applicato a una psicoterapia. Altri non l’avevano, come ad esempio Steven Hollon, di formazione rogersiana. Conoscendo Beck e la sua tendenza sia all’apertura mentale che a una certa irriverenza verso l’ortodossia, è presumibile che nello scenario alterativo psicoanalitico avrebbe comunque accolto allievi di ogni provenienza, sia con training psicodinamico che non ed è presumibile che avrebbe pensato per i non psicodinamici una sorta di integrazione formativa di tipo psicoanalitico.

In ogni caso, immaginiamo che anche nello scenario alternativo Beck quasi sicuramente incontrò John Rush, che fu la figura chiave di questi eventi. Perché diamo per sicuro questo incontro anche nel Marvel Psychotherapeutic Multiverse? Perché in questo universo reale (reale?) in cui siamo noi Rush ha avuto una formazione analitica, come ho saputo personalmente da Steven Hollon per mail. A maggior ragione Rush avrebbe collaborato con un Beck rimasto psicoanalista anche dopo il 1975. Come sappiamo, John Rush fu colui che fece fare il successivo salto di qualità a Beck, incoraggiandolo a organizzare un trial di efficacia mutuando la metodologia dagli studi farmacologici. Da qui Beck trasse lo slancio necessario per scrivere, scambiando continuamente idee col suo gruppo di giovani terapisti, il manuale di trattamenti di psicoterapia cognitiva che in questo caso si sarebbe chiamato di psicoanalisi cognitiva.

In questo scenario Beck avrebbe conservato la sua rapidità di azione, pubblicando prima di tutti il suo manuale nel 1979, anni prima dei manuali di Klerman, Luborsky e Strupp. E tuttavia Beck avrebbe comunque collaborato con Klerman e Luborsky, come è avvenuto in questo universo, e anzi avrebbe collaborato con costoro ancora più facilmente, condividendo con essi il retroterra psicoanalitico, interpersonale nel caso di Klerman e più ortodosso freudiano nel caso di Luborsky. In realtà è quasi più inverosimile quello che è avvenuto in questo universo, che Beck abbia potuto confrontarsi e interagire con Klerman e Luborsky pur avendo ripudiato definitivamente la psicoanalisi nel 1975. Ancora più facilmente, quindi, Beck avrebbe avuto accesso ai fondi governativi americani trovati da Klerman per lo sviluppo di trattamenti manualizzati di esecuzione controllabile ed efficacia verificabile.

E qui davvero gli scenari divergono, poiché è chiaro che, in questa maniera, l’accesso ai fondi aperti a una psicoterapia cognitivo psicoanalitica (e non cognitivo comportamentale) avrebbe finito per conferire alla psicoanalisi quell’aura di efficienza tecnologica e di fondatezza scientifica che invece è stata assunta da quella nuova e autonoma psicoterapia cognitivo comportamentale che avrebbe fondato Beck. E a questa psicoterapia cognitivo psicoanalitica sarebbero andate le polizze delle assicurazioni americane che l’avrebbero ulteriormente dotata di forza economica. E la fondatezza scientifica, da dove sarebbe arrivata? Come avrebbe Beck accordato tra loro efficacia terapeutica e fondatezza scientifica? Da dove sarebbe arrivata la taccia di psicoterapia scientifica per il suo trattamento non cognitivo, data la crisi di credibilità scientifica in cui aveva già iniziato a versare il modello freudiano negli anni ‘70?

La risposta è facile: prima di tutto il furbo Beck avrebbe chiamato il suo modello “cognitivo analitico” anche nell’altro universo, come avrebbe voluto fare nel nostro universo. Quindi semplicemente si prendeva lui il termine cognitivo, lo agganciava a Freud e tanti saluti a Mahoney e alla psicoterapia cognitivo comportamentale più o meno costruttivista. Inoltre, così come nella realtà Beck ha compiuto una parziale forzatura concettuale agganciando le distorsioni cognitive coscienti della sua psicoterapia cognitiva al modello di mente non del tutto cosciente ma anche procedurale della rivoluzione cognitiva, egli avrebbe potuto effettuare un analogo parzialmente forzato aggancio concettuale tra la sua psicoterapia cognitivo psicoanalitica e scienza cognitiva, e non è affatto detto che in quell’universo questa forzatura sarebbe stata più difficile da compiersi. Al contrario, essa avrebbe potuto essere per certi versi più facile, poiché Beck non sarebbe stato costretto a trovare un compromesso tra la condizione consapevole delle distorsioni cognitive da lui individuate e gli schemi procedurali non del tutto coscienti della rivoluzione cognitiva di Miller, Galanter e Pribram. Avrebbe invece trovato facile armonizzare il livello consapevole delle sue distorsioni e livelli successivi inconsci, difese e pulsioni, in cui il suo trattamento non andava ma nemmeno negava. Paradossalmente, quindi, in questo scenario alternativo Beck si sarebbe perfino risparmiato tutte le critiche di semplicismo razionalista.

Gli sviluppi successivi sarebbero stati deprimenti per noi di questa realtà in cui la psicoterapia cognitivo comportamentale detiene lo scettro di psicoterapia scientifica ed efficace. Una volta che una forma di psicoanalisi, ovvero la psicoterapia cognitivo psicoanalitica di Beck, avesse conquistato questo status di psicoterapia efficace e scientifica, anche le altre psicoanalisi avrebbero goduto, sia pure per luce riflessa, dello status di psicoterapie efficaci e scientifiche, dato che Beck, vero epigono di Freud, ne aveva definitivamente dimostrato efficacia e fondatezza scientifica (Imm. 1).

Beck ipotesi di un mondo in cui Beck rimase psicoanalista Ucronia Imm 1

Imm. 1: Evidence based psychoanalysis. Il libro che Beck avrebbe scritto se fosse rimasto psicoanalista. Ci arriva sgranato da un universo parallelo.

Non basta. È possibile immaginare un ulteriore stupefacente sviluppo, davvero sbalorditivo. Ovvero una ulteriore integrazione tra psicoterapia cognitivo psicoanalitica di Beck e i modelli psicoanalitici successivi, quello della psicologia del sé di Kohut e quello relazionale di Mitchell. Esageriamo? E perché mai? Non esageriamo perché, come abbiamo già spiegato varie volte altrove, la psicoterapia cognitiva di Beck, che sia comportamentale come nella nostra realtà o psicoanalitica come in questo scenario immaginario, ha in sé una componente relazionale e di validazione del Sé nascosta ma ben presente. E la sua presenza sarebbe diventata più facilmente rivelata dal permanere di Beck nel campo psicoanalitico. Infatti, e ancora una volta come abbiamo già scritto, nel modello di Beck l’intervento razionale di messa in discussione (questioning) delle distorsioni cognitive di fallimento, rovina, debolezza del Sé e così via, lungi dal suonare -come troppo spesso è stato presentato dai costruttivisti- come un meccanico intervento di correzione degli stati mentali, è al contrario un intervento di validazione verso il paziente, il quale si sentirà accolto e compreso in termini non solo cognitivi ma anche relazionali dall’intervento di analisi cognitiva che conferisce un senso ragionevole alle credenze negative, non diversamente da quanto avrebbe fatto Mitchell, e inoltre ne risulterà lusingato e rafforzato nella sua stima di sé dal successivo intervento di ristrutturazione cognitiva dei pensieri negativi non troppo diversamente da quanto avrebbe fatto Kohut. Ecco che si configura uno stupefacente scenario finale di una psicoanalisi cognitiva, relazionale, focalizzata del Sé e inoltre efficace e scientificamente fondata. Quanto basta per conferire alla psicoanalisi un ruolo di egemonia scientifica, culturale ed economica dagli anni ’90 in poi per noi inquietante.

La psicoterapia cognitiva senza Beck

E la psicoterapia cognitiva? Sarebbe nata? O sarebbe rimasta comportamentale? E se sì, come si sarebbe evoluta? La risposta è sì, sarebbe nata. Sarebbe nata grazie a Mahoney, Lazarus e Meichenbaum, i quali avrebbero compiuto in quegli stessi anni, ma senza Beck, come hanno fatto in questa realtà, la svolta clinica cognitiva culminata nella fondazione del giornale Cognitive Therapy Research. Con un problema però. Che essendo rimasto Beck psicoanalista, non avrebbero pubblicato nel primo numero della rivista il lavoro di Rush e Beck sull’efficacia della psicoterapia cognitiva. Con conseguenze enormi. Il lavoro di Beck sull’efficacia tecnicamente riguardava solo il protocollo di Beck sulla depressione ma, come sappiamo, esso nella realtà si rifletté su tutte le altre forme di psicoterapia cognitiva, comprese quelle di Mahoney, Lazarus e Meichenbau, che quindi potettero usufruirne in maniera che ora appare a posteriori naturale, ma anche -scriviamolo- automatica e passiva, senza che si mettesse in discussione la legittimità di questa estensione, quasi per osmosi, dell’efficacia. Conoscendo la successiva evoluzione clinica e teorica di Lazarus e Mahoney, possiamo ritenere che, come nella realtà essi non si posero mai il problema dell’efficacia, lasciando l’onere a Beck e soprattutto allo specializzando psichiatra esperto di trial randomizzati John Rush, così sarebbe accaduto anche nello scenario immaginario, in cui essi si sarebbero dedicati al loro talento di speculatori teorici della svolta cognitiva, sottolineandone gli aspetti di elaborazione non consapevole ma funzionalistica delle distorsioni cognitive senza mai porsi il problema dell’efficacia e ritenendo sufficiente la cornice scientifica assicurata dal modello cognitivo della mente.

Così, questa psicoterapia cognitiva senza Beck rischiava di qualificarsi come una speculazione teorica pericolosamente poco capace di allocazione clinica. Questa tendenza sarebbe stata accentuata dalla spontanea propensione di Mahoney alla teoria, con conseguenze non rassicuranti sul piano della clinica e delle prove di efficacia. Per quanto riguarda la clinica, un correttivo c’era anche nell’universo parallelo. Analogamente a quanto è accaduto nel nostro universo questo scenario sarebbe stato corretto dall’incontro di Mahoney con Guidano e Liotti durante il suo anno sabbatico trascorso a Roma alla fine degli anni ‘70, in cui i tre elaborarono, oltre che un modello teorico incentrato su una concezione costruttivista e non razionalista alla Beck della cognizione, un modello clinico articolato per organizzazioni di personalità stranamente molto somiglianti alla tavola della credenze sul sé di Beck, tavole già presentate prima nella parte dedicata all’uso del Sé che fa Beck.

Con le organizzazioni di personalità di Guidano e Liotti la psicoterapia cognitivo costruttivista di Mahoney avrebbe conseguito un ottimo grado di sostanza clinica nella descrizione dei pazienti. Questo però non sarebbe stato sufficiente a coprire il vuoto lasciato dal talento di Beck (psicoanalista) come formalizzatore di procedure formalizzate, ripetibili e controllabili. Chi avrebbe potuto coprire quel vuoto? Qui forse potrebbero entrare in campo i britannici, anche se tuttavia lo scenario comincia a diventare davvero irrealistico.

In questo scenario infatti i britannici, ovvero Clark e Salkovskis, non dispongono di Beck e del suo manuale per riuscire ad effettuare il loro distacco dal comportamentismo. È vero che Clark e Salkovskis crescono nell’ambiente di lavoro creato da Michael Gelder, primo professore di psichiatria a Oxford, interessato al trattamento comportamentale mediante desensibilizzazione dell’agorafobia, capace di comprendere i limiti dell’approccio puramente comportamentale e quindi di incoraggiare l’esplorazione del valore dell’aggiunta di strategie cognitive. Tuttavia, pur con l’incoraggiamento di Gelder, per Clark la situazione è dura disponendo solo del lavoro di Mahoney, teorico, e di quello di Guidano e Liotti con il loro libro del 1983, teorico ma per fortuna anche clinico.

Il problema della clinica di Guidano e Liotti del 1983, tuttavia, è che era puramente esplorativa, limitandosi a descrivere con ricchezza di dettaglio psicologica il paziente nella sua organizzazione cognitiva del Sé ma senza fornire alcuna procedura di indagine. Vero è che le organizzazioni di personalità di Guidano e Liotti avrebbero potuto fornire a Clark e Salkovskis il corrispondente di quel nesso clinico che erano le credenze sul Sé di Beck, ma questo nesso non bastava a produrre procedure di intervento in mancanza della tecnica di indagine della down arrow e soprattutto del questioning così brillantemente messi a punto da Beck. Cosa avrebbe potuto sostituirli? Sarebbero stati capaci Clark e Salkosvis di articolare l’analisi funzionale intorno alle organicazioni di personalità? Sarebbe stato capace Mahoney di operare quell’opera di mediazione tra inglesi e italiani? Lo scenario è irrealistico tra un ambiente inglese accademico e universitario collegato al servizio sanitario pubblico e un ambiente italiano fatto invece di operatori privati. Senza dimenticare poi la scarsa familiarità culturale tra inglesi e italiani e la differenza di lingua, tutti problemi assenti quando Clark doveva parlare con l’americano Beck.

E tuttavia immaginiamo che si ottenesse il miracolo, che la collaborazione tra italiani e britannici, grazie alla mediazione di Mahoney, si realizzasse. Manca ancora un tassello, che a sua volta realisticamente non si sarebbe incastrato per una serie di ragioni ma che ci piace immaginare si sarebbe potuto infilare. Una possibile procedura che avrebbe collegato tra loro organizzazioni di personalità di Guidano e Liotti e l’analisi funzionale in cui erano cresciuti Clark e Salkovskis esisteva. Essa poteva essere la tecnica del laddering di George Kelly, tecnica padroneggiata sia nel cognitivismo britannico di Bannister e Fransella che in quello italiano di Sassaroli e Lorenzini. Probabilmente è assolutamente temerario e del tutto irrealistico immaginare questo scenario eppure non impossibile, se pensiamo che Bannister e Sassaroli si conoscevano e avevano iniziato a collaborare e lo fecero fino alla metà degli anni ’80 quando purtroppo Bannister morì prematuramente.

Immaginiamo però che nell’altro universo Bannister sopravvive alla malattia che lo colpì e sviluppa con Sassaroli una procedura di laddering che Clark adotta nel suo modello. Vale la pena sviluppare questo scenario immaginario poiché chiarisce definitivamente il ruolo svolto da Sassaroli sul laddering come uno dei pochi tentativi nel cognitivismo europeo e alternativo a Beck di proporre una procedura di analisi cognitiva differente rispetto all’analisi funzionale. Detto questo, una volta che questo improbabile scenario di collaborazione tra funzionalisti britannici (Clark e Salkovskis) e costruttivisti britannici (Bannister) americani (Mahoney) e italiani (Guidano, Liotti, Lorenzini e Sassaroli) si fosse concretizzato si potrebbe immaginare la nascita di una psicoterapia cognitiva comportamentale costruttivista con procedure replicabili ed applicabili a disturbi analoghi a quelli di Beck, con una differenza: la maggiore attenzione di Clark ai disturbi d’ansia, fermo restando l’interesse di Beck per la depressione.

Lo scenario conclusivo avrebbe quindi visto una psicoterapia cognitiva psicoanalitica negli Stati Uniti e una psicoterapia cognitivo costruttivista in Europa specializzate rispettivamente su depressione e ansia, con una propensione americana a integrarsi con la psicoanalisi relazionale di Mitchell e del Sé di Kohut, mentre in Europa la psicoterapia cognitivo costruttivista avrebbero potuto comprendere l’evoluzione evolutiva e relazionale promossa non solo da Liotti ma anche da Lorenzini e Sassaroli con il loro libro del 1995 (in questo scenario a dir poco fantascientifico Liotti riconosce le somiglianze tra il suo modello e quello di Lorenzini e Sassaroli).

Su questo scenario, infine si sarebbero innestati i successivi sviluppi incentrati sul trattamento dei disturbi di personalità. In questo caso la differenza con la realtà di questo universo sarebbe stata minore con una eccezione importante che è ancora una volta la posizione di Beck. Nell’universo alternativo l’appartenenza di Beck al campo psicoanalitico avrebbe ulteriormente facilitato l’immaginata integrazione tra il suo modello, adattato ai disturbi di personalità, e il modello relazionale di Mitchell e del Sé di Kohut. Non solo: l’analisi delle difficoltà relazionali con il paziente affetto da disturbi di personalità avrebbe favorito l’incontro con il modello incentrato sul transfert di Kernberg e con quello delle rotture e riparazioni di Safran e Muran, modello clinicamente psicodinamico con una verniciatura cognitiva che svolge una funzione unicamente di marchio di qualità con scarse ricadute cliniche. Un’altra significativa conseguenza sarebbe stata la probabilissima appartenenza al campo psicodinamico della Schema Therapy di Young, essendo questo modello filiazione diretta del modello di Beck. La psicoterapia cognitivo costruttivista avrebbe potuto rispondere con il modello metacognitivo interpersonale di Semerari, filiazione dei modelli costruttivisti di Guidano e Liotti.

Il vero punto interrogativo sarebbe stata la posizione dei modelli neo-funzionalisti e processuali. Nel nostro universo questi trattamenti, pur non accentuando mai la rivalità con il modello cognitivo standard, hanno gradualmente mostrato una crescente estraneità con il modello strutturale di Beck incentrato sulle credenze sul Sé. Questa estraneità si sarebbe mostrata anche nell’universo alternativo verso il modello cognitivo costruttivista di Bannister, Clark, Guidano, Liotti, Mahoney, Salkovskis e Sassaroli altrettanto incentrato sul Sé? Presumibilmente si. Assistiamo così anche nell’universo parallelo in cui Beck è rimasto uno psicoanalista alla nascita di un movimento processualista che sostanzialmente torna al comportamentismo e rinnega le credenze sul Sé, movimento che comprende il modello metacognitivo di Wells, quello dialettico comportamentale di Marsha Linehan, e il modello ACT di Steven Hayes. Con questi autori usciamo fuori dall’influenza di Beck e anche questa è una rivelazione importante: chi davvero è estraneo a Beck sono Linehan e Hayes (diverso il discorso per il processualista Wells, che oscilla tra estraneità e influenza, e ne parleremo altrove), mentre Mahoney e Guidano ne hanno subito l’incisiva influenza clinica malgrado i contrasti teorici.

Questa fantasia ucronica potrà far sorridere ed essere considerata considerevolmente irrealistica soprattutto per il suo scenario di collaborazione tra britannici e italiani. Altrettanto provocatorio, ma affatto impossibile, potrebbe sembrare l’itinerario immaginario di Beck. Eppure, queste traiettorie immaginarie hanno una loro ragione, che non è solo divertirsi con scenari impossibili ma fare riflettere sul ruolo storico rivestito da Beck e da chi interagì con lui. Questo racconto ucronico può chiarire più incisivamente il ruolo insostituibile di Beck come catalizzatore della nascita concreta della terapia cognitiva come procedura reale e incarnata e non come teoria astratta della mente, computazionale o incarnata che sia.

Ricordo di Eugenia Pelanda, protagonista della cultura psicoanalitica in Italia

Giovedì 29 luglio ci ha lasciato Eugenia Pelanda, collega stimata e cara. Con lei scompare una protagonista, particolarmente creativa, della cultura psicoanalitica dell’adolescenza e la sua mancanza ci rende ancora più consapevoli della forza dei suoi insegnamenti e della sua eredità.

Scriveva di lei Tommaso Senise (1990) nella sua prefazione a “Psicoterapia breve di individuazione”, testo innovativo della psicoterapia psicoanalitica dell’adolescente che, come lui stesso affermava, non avrebbe potuto scrivere senza Eugenia Pelanda e Maria Teresa Aliprandi:

“Conosco la dottoressa Eugenia Pelanda e ne apprezzo sia la cultura psicologica e psicoanalitica sia le qualità umane quali la sensibilità, il rispetto dell’altro, la modestia e il livello etico della sua professionalità. I suoi studi sul funzionamento del pensiero negli adolescenti sono, a mio parere,  una promessa di interessanti sviluppi delle conoscenze in questo campo”. E così è stato.

In lei vis speculativa e capacità di rendere operative e concrete le  idee  sono sempre andate di pari passo. Testimoniano la sua passione per il lavoro psicoanalitico con gli adolescenti non solo, infatti, i molti articoli e libri dedicati alla problematica adolescenziale, ma soprattutto la realizzazione di Area G. Una realtà composita, che si occupa di prevenzione, di clinica, di formazione e di ricerca attraverso l’Associazione Onlus, il Centro di Psicologia Clinica e la Scuola di Psicoterapia ad orientamento Psicoanalitico per Adolescenti e Adulti.

Eugenia è stata in tutti questi anni il pilastro di Area G. Aveva una fiducia  saldissima nelle idee che ci guidavano e le coltivava con particolare determinazione, senza curarsi più di tanto di eventuali ostacoli o contrapposizioni. I suoi riferimenti etici e metodologici si accordavano con la sua curiosità, la sua sete di conoscenza e la disponibilità a mettersi affettivamente in gioco. Punto di appoggio costante per i suoi colleghi e allievi, era sempre disponibile ad occuparsi di pazienti complicati e difficili.

Lavorare con lei in Area G in questi anni è stata un’esperienza ricca ed entusiasmante. Aveva una sensibilità tutta particolare verso amici, colleghi e pazienti, un modo generoso e protettivo di approcciarsi ai più giovani sempre rispettoso dell’altro.

A ogni paziente, ad ogni allievo o collega offriva un ascolto specifico, aveva il dono di “esserci”. Ancora oggi che non c’è più continuiamo a sentirla una presenza preziosa.

 

Lucina Bergamaschi

Ricordo di Albert Bandura

In ricordo di Albert Bandura (4 dicembre 1925 – 26 luglio 2021) – È deceduto il 26 luglio 2021 Albert Bandura, psicologo e studioso che ha contribuito al passaggio dal comportamentismo alla rivoluzione cognitiva nel campo dell’apprendimento sociale.

 

Il suo primo contributo fu sull’apprendimento: attraverso una serie di esperimenti, come quello della bambola Bobo, Albert Bandura dimostrò che l’apprendimento non avvenisse esclusivamente nel comportamento a contatto diretto con gli oggetti, ma anche attraverso esperienze indirette, in cui gli oggetti sono rappresentati cognitivamente e non percepiti direttamente, per esempio con l’osservazione di altre persone. Bandura ha adoperato il termine modellamento (modeling) per identificare questo processo di apprendimento.

Il secondo contributo di Bandura riguarda l’agentività umana (human agency), la capacità di agire attivamente e trasformativamente nel contesto in cui si è inseriti. A sua volta l’agency ha il suo elemento chiave nel senso di auto-efficacia, ovvero le credenze delle persone riguardanti la loro efficacia nel gestire gli eventi e che influenzano le scelte, le aspirazioni, il livello di sforzo, di perseveranza, la resilienza, la vulnerabilità allo stress e la qualità della prestazione.

Il concetto di auto-efficacia ha influenzato anche la psicoterapia cognitiva, in quanto ha favorito l’uso delle credenze sul sé come perno intorno al quale coordinare l’accertamento delle distorsioni cognitive. In breve, mentre nell’analisi comportamentale il contenuto delle variabili è sempre aperto, nell’accertamento cognitivo il contenuto del mediatore cognitivo è predeterminato e tende ad essere concettualizzato in termini di credenze su di sé, sul mondo/ambiente (incluse le relazioni interpersonali), o il futuro. Nel corso del tempo, le credenze sul sé hanno guadagnato un ruolo prevalente all’interno della triade cognitiva. Questa prevalenza finale nella teoria dei modelli centrati sul sé è anche attribuibile all’influenza del lavoro fondamentale di Bandura.

In sintesi, le credenze positive sul sé sulla capacità di gestire e controllare gli eventi e le reazioni emotive sono considerate in gran parte responsabili del benessere emotivo e dell’efficacia nella vita quotidiana, mentre le credenze negative sul sé ci rendono depressi o ansiosi.

Le credenze sul sé sono organizzazioni di conoscenza stabili e gerarchicamente sovraordinate perché atte a integrare e riassumere i pensieri, i sentimenti e le esperienze di una persona, comprese le loro caratteristiche fisiche, i ruoli sociali, i tratti di personalità e le aree di particolare interesse per l’individuo e le sue abilità.

 

Cinema, metafore e psicoterapia (2021) di Isabel Caro Gabalda (a cura di) – Recensione

È un lavoro interessante quello nato dalla collaborazione degli autori di Cinema, metafore e psicoterapia.

 

Per una psicoterapeuta appassionata di cinema il titolo di questo volume è stato un invito a nozze, e le mie aspettative non sono certo state deluse. Nonostante la complessità e l’ampiezza del tema, il susseguirsi dei capitoli accompagna il lettore in un’analisi “attraverso lo schermo” che evidenzia molto bene gli ingredienti per una buona terapia, a prescindere dal modello di riferimento. Un’analisi molto emozionante ed evocativa, dal momento che a illustrare il caleidoscopico mondo della psicoterapia, sono proprio le storie e i personaggi che abitano il magico mondo del cinema.

Accostare questi due temi in un libro non è certo un’idea nuova, ma di certo nuova ed originale è la prospettiva da cui vengono analizzati in quest’opera. L’aspetto particolarmente interessante è dato dal fatto che scopo di questo lavoro non è “spiegare ogni film a partire dalla psicoterapia, quanto la psicoterapia a partire dal film” (p.XVII). Ogni capitolo, infatti, utilizza un diverso film come metafora per spiegare ed analizzare, in maniera semplice e nello stesso tempo niente affatto banale, gli elementi fondamentali della psicoterapia e del processo terapeutico. La pretesa non è naturalmente quella di offrire un quadro esaustivo, ma di illustrare, attraverso le narrative e i personaggi cinematografici, i temi chiave, le caratteristiche, i protagonisti e le complessità della psicoterapia.

Il volume è suddiviso in quattro parti, che restringono il focus di osservazione sui diversi elementi della psicoterapia: il paziente, il terapeuta, il processo e il cambiamento terapeutico e infine l’interazione terapeutica e la psicoterapia come relazione.

Sebbene sia difficile e per certi versi artificioso separare questi elementi, ciò rende la lettura e la riflessione degli autori di più facile comprensione e permette al lettore di non perdersi nella vastità e complessità di un simile argomento.

Chi è il paziente che viene in terapia? Per quanto diverse siano le storie e le richieste di chi inizia un percorso di psicoterapia, il paziente è innanzitutto una persona e come tale va trattato: perché il lavoro sia efficace, dobbiamo considerare la persona nella sua globalità, non come un insieme di sintomi, comprenderla nella sua interezza e nel suo mondo, all’interno del suo contesto socioculturale. È questa l’idea sostanziale che emerge trasversalmente nell’opera. Anche il modo in cui noi terapeuti guardiamo a un problema, riflette di quadri teorici e concettuali radicati in un tempo storico e in un contesto sociale e culturale: i modelli e le metafore che noi usiamo, strutturano le esperienze di vita. “Il Truman Show”, per esempio, mostra come sia diverso concepire la psicosi come una malattia incurabile o da cui è possibile uscire: l’uscita di Truman dal palcoscenico è dunque la metafora della possibilità di venire fuori dal delirio grazie alla relazione con un altro reale, non delirante, il terapeuta, che aiuta a dare una direzione e un senso al suo agire (come nel film fa la sua ex fidanzata) e grazie anche alla fiducia nelle proprie capacità. Nonostante la sofferenza del momento, il paziente ha dentro di sé tante risorse che vanno cercate e attivate affinché possa uscire dalle difficoltà, proprio come fa Truman. Il paziente ha già in sé stesso ciò che cerca: la terapia è un cammino alla ricerca del suo essere, come il protagonista di “Lion”, sulle tracce delle proprie origini, o “Billy Elliot”, alla ricerca della sua vera identità e del suo posto nel mondo. Un cammino in cui è aiutato a riparare ciò che è frammentato, a curare le ferite dell’identità e dell’attaccamento, come accade a Conrad, protagonista di “Gente comune”, il cui rapporto con una madre anaffettiva e rifiutante genera ferite emotive profonde e cicli interpersonali altamente disfunzionali, oppure Jean-Baptiste Grenouille, protagonista del “Profumo”, la cui totale assenza di odore rappresenta un deficit ontologico che affonda le sue radici nella prima infanzia, fatta di grave trascuratezza e malnutrizione fisica ed emotiva, di totale assenza di uno dei bisogni fondamentali dell’essere umano, quello di riconoscimento e amore. Senza questo riconoscimento, quest’accettazione e amore incondizionato, il rischio è di sviluppare una “personalità liquida” come direbbe Zigmund Bauman, una personalità che, come Zelig interpretato da Woody Allen, si adatta talmente tanto all’altro per farsi accettare da perdere la propria forma e la propria identità. La terapia diventa dunque occasione di sperimentare quell’accettazione incondizionata e quella validazione dell’essere così fondanti. Ma per ottenere risultati occorrono impegno, motivazione e tenacia. Il cambiamento terapeutico non è lineare, ma è la somma di tanti piccoli progressi e passi indietro, in cui il paziente deve avere un ruolo attivo, ottimamente esemplificato da ciò che fanno i protagonisti de “La storia fantastica”, che perseverano, nonostante le mille peripezie e difficoltà, per raggiungere il loro scopo finale. Per fare questo occorre chiedere al paziente di smettere di fare ciò che riteneva una soluzione e invece alimentava le difficoltà, e di imparare a fare qualcosa di diverso, per ottenere un risultato diverso, come fece Mandela, raccontato nel film “Invictus”, quando, dopo quasi trenta anni di prigionia per la sua lotta contro l’apartheid, decise di non proseguire sulla strada della violenza e della vendetta verso i suoi oppressori, ma, cambiando il proprio modo di relazionarsi, di utilizzare il gioco del rugby per facilitare l’unità nazionale.

Fare terapia è certamente una sfida, per il paziente ma anche per il terapeuta: implica cercare di produrre un cambiamento nell’altro, ma genera inevitabilmente un cambiamento nel terapeuta stesso. Avere il permesso e il privilegio di entrare nelle “vite degli altri” richiede grande senso di responsabilità e un delicato equilibrio fra coinvolgimento e distacco, fra le richieste del paziente e le esigenze della propria professione, fra le sue capacità professionali e il suo essere persona. Come il capitano Gerd Wiesler (“Le vite degli altri”, appunto) siamo chiamati all’ascolto, un’attenzione silenziosa che ci conduca senza giudizio all’autentica comprensione dell’altro. L’empatia non è solo ascolto ma sintonizzazione emotiva profonda che aiuti il paziente ad accedere a esperienze dolorose con la guida di un altro sensibile e capace di sostenerlo. Se ci poniamo in quest’ottica, potremo entrare davvero in connessione empatica col paziente, proprio come fa il protagonista di questo film, capitano della Stasi, verso le persone che deve spiare. Naturalmente lo scopo della terapia non è spiare le vite altrui e, a differenza di quanto fa Wiesler alla fine del film, il terapeuta deve essere ben consapevole e attento ai confini del setting e all’etica professionale. Il film “Mumford”, che ha per protagonista un sedicente psicologo, offre un’interessante occasione per riflettere su cosa serva per essere un buon terapeuta: non solo un bagaglio di conoscenze appropriate, garantite da una buona formazione e una continua supervisione, ma anche una serie di caratteristiche personali, incarnate appunto dal dottor Mumford, come empatia, interesse per le persone, autenticità, sensibilità e accettazione. È certamente complesso bilanciare ciò che siamo a livello umano e ciò che la nostra professione ci richiede. Ma al terapeuta non è richiesta la perfezione, così come non deve essere richiesta al paziente. Il terapeuta è un essere umano e come tale ha le sue paure e le sue ansie, a volte dubita della sua intelligenza e delle sue conoscenze, come lo Spaventapasseri del “Mago di Oz”, o ha paura di agire, come il Leone codardo, o teme di non sentire nulla, come l’Uomo di latta o al contrario di essere emotivamente troppo coinvolto, o subisce l’incertezza di sapere cosa sta affrontando. Certamente al terapeuta non è richiesta la perfezione, così come non deve essere richiesta al paziente. Il terapeuta non è necessariamente una persona equilibrata e “risolta”, tuttavia, per mantenere un giusto equilibrio nello svolgimento della propria professione, è importante che dedichi grande cura alla propria vita. Per chi si occupa ogni giorno della cura degli altri, è necessario occuparsi anche della cura di se stesso, perché non si crei, come nel caso della dottoressa Margaret Ford de “La casa dei giochi”, un disequilibrio che inevitabilmente impatta negativamente sulla terapia e sulla sua efficacia.

La psicoterapia, come si diceva, non è un processo lineare, ma è composto da una serie di piccoli cambiamenti, movimenti avanti e indietro verso il cambiamento finale. Il paziente è accompagnato dal terapeuta, che assume il ruolo di guida, nella ricostruzione di ciò che è andato perduto, nel rimettere insieme i pezzi del suo puzzle, per dirla come Isabel Caro Gabalda. Il terapeuta, come uno “Sherlock Holmes della mente”, secondo la definizione di Perez Alvarez, uno degli autori del volume, svolge un lavoro investigativo per unire gli elementi della trama, per connettere pezzi fino a quel momento scollegati, attraverso l’insight, come accade a “Marnie, la ladra” di Hitchcock. Il lavoro terapeutico accompagna nel difficile processo di prendere consapevolezza e assimilare, come fa il dottor Malcom Crowe, ne “Il sesto senso”, esperienze, parti di noi stessi, emozioni, memorie e stati interni che fino a quel momento erano difensivamente tenuti fuori dalla coscienza. Tutto ciò implica lavorare con le emozioni, far capire al paziente che non esistono emozioni buone e cattive, ma che ognuna ha il suo ruolo e la sua importanza nella regolazione del comportamento e nel dare senso alle nostre esperienze e che anzi la complessità è ciò che ci permettere di crescere ed evolvere (“Inside out”).

In definitiva la psicoterapia è un viaggio avventuroso, per certi versi spaventoso e affascinante come quello di Butch, un assassino in fuga, e il piccolo Philip (“Un mondo perfetto”), segnato da difficoltà ed esperienze formative, in cui alla fine i due protagonisti, terapeuta e paziente, si separano ma arricchiti e cresciuti grazie al loro incontro e alla strada percorsa insieme.

Elemento chiave del cambiamento terapeutico è, come emerge da moltissimi studi e come evidenziato anche nel libro, la relazione terapeutica. Il cambiamento terapeutico, infatti, è un processo che si costruisce nell’interazione con il terapeuta momento per momento e che richiede una piena collaborazione di entrambi i partecipanti. La qualità della relazione terapeutica è ciò che permette al paziente di osare, mettersi in gioco, affrontare le difficoltà e le sfide che il cambiamento comporta. È grazie all’incontro con l’altro che il paziente cambia: l’altro inteso come terapeuta ma anche l’altro inteso come rapporti sani nella sua vita privata. È grazie alla “fidanzata” Bianca e alla dottoressa Dagmar che Lars (nello splendido film “Lars e una ragazza tutta sua”) riesce gradualmente a uscire dal suo isolamento sociale e a costruire legami autentici, prendendo a poco a poco contatto con la realtà. Allo stesso modo è grazie a Claire che Drew, in “Elizabethtown”, riesce a entrare in contatto col suo dolore e ad affrontare l’elaborazione non solo del lutto del padre, ma anche della sua solitudine, di tutte le sue perdite e del suo fallimento, aprendosi così a un possibile futuro più autentico. Lo stesso percorso che attraversa il paziente.

Nasciamo all’interno di rapporti interpersonali e, come evidenzia Guerra nel suo capitolo prendendo spunto dal film “Se mi lasci ti cancello!”, il modo in cui funzioniamo e ci relazioniamo dipende in larga misura dalla nostra Conoscenza Relazionale Implicita, ovvero ciò che abbiamo implicitamente imparato nelle nostre relazioni di attaccamento primarie rispetto a cosa ci si deve aspettare e come comportarsi nei rapporti interpersonali. Molti, se non la totalità, dei pazienti, ha sperimentato modelli relazionali disfunzionali e solo attraverso un’altra relazione sana significativa, come quella terapeutica, è possibile cambiare questo nucleo. Per questo è fondamentale che il rapporto col paziente sia il più possibile genuino, guidato da un autentico interesse ad aiutarlo, avvicinandoci al paziente come fanno il dottor Mickler con Don Juan de Marco nell’omonimo film e la dottoressa Banks con gli alieni, entrando nel suo mondo con curiosità e rispetto, senza irrigidirci o nasconderci dietro le nostre tecniche ma consapevoli che una vera comprensione è possibile solo se ci disponiamo a creare un linguaggio comune e a “condividere un certo mito e un certo rituale”, come afferma Isabel Caro Gabalda.

Il cinema e la psicoterapia hanno molte cose in comune: entrambi si occupano di storie, raccontano, se pure in modi e con scopi differenti, le vite delle persone. Da sempre cinema e psicoterapia hanno incrociato le loro strade, offrendosi reciprocamente spunti interessanti: il cinema ha spesso attinto al mondo della psicoterapia o in generale della salute mentale per costruire i suoi personaggi, soprattutto mostrando lati insoliti o spaventosi del comportamento umano. Allo stesso modo la psicoterapia ha spesso utilizzato le storie del cinema come metafore e modelli per aiutare a capire le vite e la realtà delle persone.

 

I paradossi di Carrère – Yoga (2021) di Emmanuel Carrère – Recensione del libro

Che libro è Yoga di Carrère? Preceduto in Francia dal clamore mediatico suscitato dalla denuncia della ex moglie che non ha gradito essere citata e ha chiesto che fossero eliminati alcuni brani, il libro sta avendo un buon successo di vendite.

 

D’altro canto, Carrère è ormai autore affermato e apprezzato dal grosso pubblico. Tuttavia, si tratta di un’opera a tratti fastidiosa, autoreferenziale e che suscita reazioni contrastanti.

Nato nel 1957 a Parigi, da una famiglia borghese, figlio di Hélène Carrère d’Encausse, una storica molto nota, esperta di Russia e stalinismo, laureato presso l’Institut d’études politiques de Paris. In volumi precedenti ha descritto il suo rapporto complesso con la figura materna. Le sue opere hanno avuto per protagonisti figure complesse ed estreme, come il serial killer Romand in L’avversario o lo scrittore, dissidente russo al centro di Limonov, per finire con le biografie dell’evangelista Luca e di Paolo di Tarso ne Il Regno, in cui indaga il rapporto con la religiosità. Negli anni ha mostrato di prestare attenzione a una pluralità di temi ma progressivamente i suoi libri hanno sempre più avuto un solo personaggio protagonista: lui stesso.

Il punto di partenza del presente volume è offrire una definizione della meditazione. Stupito sia dall’interesse che dall’ignoranza attorno alle filosofie e pratiche orientali di un giornalista che lo aveva intervistato, Carrère decide di scrivere un libro per raccontare il proprio punto di vista sul tema. Poi, come capita nei suoi libri, il progetto iniziale devia verso tutt’altri lidi.

L’inizio mi è parso promettente. Egli descrive la sua partecipazione ad un ritiro di 10 giorni per praticare meditazione. Il contesto del seminario di Vipassana è molto ben raffigurato, a tratti con umorismo. Chi ha partecipato, anche per una volta sola, a ritiri spirituali in cui si medita, o si prega, con esercizi fisici, pratica del silenzio, dieta e sveglia all’alba, leggendo questa parte del libro non potrà non provare una struggente nostalgia. Piacevole è la descrizione di coloro che partecipano a tali eventi, equamente divisi tra chi soffre di problemi psichici e autentici ricercatori. Come vedremo, l’appartenenza ad una categoria non esclude necessariamente l’appartenenza anche all’altra.

Carrère racconta al lettore che il motivo per cui pratica meditazione e tai chi risiede nel tentativo di limitare il suo smisurato ego. Qui c’è il primo paradosso: per curare il suo ego ingombrante, che riconosce come problema, crea un’opera smisuratamente, insopportabilmente egoica, in cui racconta cosa gli è avvenuto negli ultimi anni. Secondo paradosso: dice di mettersi a nudo, raccontando finanche della malattia psichiatrica e del trattamento con 14 sedute di elettroshock, ma in realtà fa un’operazione assolutamente soggettiva, scrivendo un libro che è solo il suo punto di vista.

La sua partecipazione al ritiro si interrompe dopo pochi giorni, nonostante una delle regole più importanti sia il divieto categorico di allontanarsi dall’esperienza prima che essa sia terminata. Tuttavia, proprio in quei giorni avviene l’attentato alla redazione di Charlie Hebdo, in cui muore, insieme ad altre 11 persone, il vignettista Bernard Verlhac. Carrère è un suo amico ed è richiesta la sua presenza al funerale per leggere un’elegia. Pertanto, viene autorizzato ad allontanarsi.

Le parti successive sono dedicate in larga parte al racconto della sua malattia psichica con il ricovero di 4 mesi nella clinica Sainte Anne nei pressi di Parigi, con la diagnosi di disturbo bipolare di tipo II, e all’esperienza come volontario insegnando ai giovani profughi nell’isola greca di Leros (pare che nella realtà l’esperienza sia stata più breve di come appaia nel testo). Di sfuggita, compaiono le sue vicende sentimentali ed anche il resoconto dei giorni trascorsi con un giornalista americano per un’intervista.

Il libro (si può definire romanzo?) è dunque fortemente autobiografico, descrivendo alcuni episodi essenziali di ciò che gli è avvenuto negli ultimi 4 anni e, di tangente, pone il problema del rapporto tra il modo in cui un autore descrive la sua vita e la realtà degli avvenimenti vissuti e se sia davvero necessario che coincidano. Nelle ultime pagine confessa ad esempio che un personaggio, la donna incontrata a Leros, è sostanzialmente inventato. Ma la questione è ovviamente più complessa. Come sa ogni psicoterapeuta, quando una persona parla di sé, o degli altri, compie sempre un’operazione arbitraria e soggettiva: enfatizza dei particolari, ne omette altri. E’ condizionato dalla sua cultura, dai suoi obiettivi e dai suoi bisogni. Perfino nel modo di vestire, si tenta di dare una visione, in genere migliorativa, di sé. Anche i ricercatori di verità, quindi, raccontano sempre una sola delle tante verità, necessariamente parziale e soggettiva.

La prima parte, circa un terzo delle pagine totali, è quella che ho gradito di più. Egli pone a confronto l’attitudine dello scrittore e quella del meditante, che gli paiono opposte e incompatibili. Lo scrittore deve osservare e fissare i propri pensieri, per poterli poi vergare su carta, mentre chi medita deve lasciare andare i propri pensieri, imparando a non giudicare in alcun modo ciò che avviene dentro di lui.

Carrère è un praticante esperto ma critico. Mette in opposizione Dostoevskij con il Dalai Lama, trovando più saggezza nel primo. Si chiede se davvero l’obiettivo più importante sia superare la permanenza in Samsara, uscire dal ciclo di trasformazioni e sofferenze che chiamiamo condizione umana, per accedere al Nirvana, ovvero la vita davvero reale, sottratta alle illusioni. E come giudicare i meditanti ayurvedici che durante lo tzunami che colpì lo Sri Lanka furono gli unici ospiti dell’albergo in cui si trovava anche lui a non abbandonare le loro attività, mentre tutti gli altri si dedicavano a prestare soccorsi? Analogamente, cosa è più importante, si chiede, essere un chirurgo pediatrico e salvare la vita a bambini o stare chiusi in una stanza a osservare il proprio respiro? Ma non è forse la legge della continua alternanza degli opposti – Yin che diventa Yang e viceversa – ciò che regola il pianeta? Lo yoga, in fine, è unione. Accettazione delle polarità, delle opposizioni. Questa è la lezione più difficile da apprendere, che magari si comprende con la testa ma non si lascia afferrare del tutto. Non c’è opposizione, non c’è dualismo: è vera la notte, è vero il giorno; la sconfitta è vittoria; la vittoria è sconfitta. Trovare l’alba nell’imbrunire, hanno detto altri….

Fulminante è poi la descrizione della personalità di ogni scrittore, descritta come un intreccio inestricabile tra ossessione, megalomania e voglia di fare bene. Da un vecchio prete, con alle spalle tanti anni di confessionale, apprende due cose: 1) le gente è più infelice di quanto non si creda; 2) non esistono adulti: sotto i vestiti, siamo tutti fragili.

Durante la meditazione gli capita di piangere. Piange per l’infelicità dei naufraghi, delle vittime e degli umiliati, ma chi è più infelice di tutti è chi ignora finanche quanto è infelice e, ancora più grande, è l’infelicità dei malvagi.

Della meditazione offre ben 24 definizioni. Alcune sono prevedibili e note, rimandano al silenzio, all’osservazione interna, all’assenza di giudizio, alla sospensione dell’attività mentale consueta. Altre sono più originali e poetiche: la meditazione è essere al corrente dell’esistenza degli altri; la meditazione è essere al proprio posto in qualsiasi posto; la meditazione è non aggiungere niente.

Il libro sembra quasi incompleto, per quanto sono slegate le varie parti che lo costituiscono. Come se si trattasse di più libri, totalmente diversi e incompiuti. Cosa c’entra il volontariato svolto a Leros con la meditazione, o il periodo del ricovero in una struttura psichiatrica con lo yoga?

Alla fine, appare quasi paradossalmente ingenua l’operazione di uno scrittore che invece è smaliziato ed esperto. Vuole scrivere “senza ipocrisie”, ma fa un’opera spudoratamente di parte. Altri autori hanno parlato assai meglio della propria malattia psichica. Penso, per restare al nostro paese e ad anni recenti, ad Andrea Pomella e a come ha raccontato la sua depressione.

Sebbene pratichi da circa 30 anni proprio allo scopo di ridurre il suo ego, un’opera del genere risulta spasmodicamente narcisistica e, in molto tratti, assolutamente autoreferenziale, rivelando l’insuccesso del proposito iniziale. Oppure ha voluto descrivere in tal modo la perenne lotta tra l’aspirazione al bene e all’unità da un lato e dall’altro il fascino calamitoso della disperazione? Il baratro che riguarda ciascuno di noi, capaci sia di nefandezze vergognose che di gesti nobilissimi? Questo è l’uomo, sembra dire.

Leggendo le recensioni alcuni sono stati infastiditi dall’incompiutezza, la frammentarietà e la non unitarietà. Tuttavia si conferma la straordinaria capacità attrattiva dell’autore in virtù di una prosa comunque originale, intervallata da riflessioni argute. In diverse parti Yoga può costituire una piacevole lettura, a volte intensa. Ovviamente Carrère scrive molto bene. A tratti, sembra quasi che quest’opera sia sostanzialmente una sfida a se stesso: vedere se riesce ad attrarre il lettore anche parlando di nulla (e, ultimo paradosso, c’entra l’Oriente con la ricerca del Nulla? E il Nirvana?). Certo, tali sfide a se stesso mettono a repentaglio l’equilibrio psichico di chi le compie. Tenere lo sguardo verso il cielo, eppure ammaliati dal basso. Tenere insieme spirito e materia. O, freudianamente, Eros e Thanatos.

 

“Io non sono un oggetto”: la relazione tra oggettivazione, controllo percepito e aggressività

Vi è mai capitato di ritrovarvi in interazioni sociali e di rendervi conto che l’unico interesse del vostro interlocutore fosse quello di sfruttarvi col fine di poter ottenere qualcosa? Se la risposta è affermativa, vuol dire che siete stati vittime di oggettivazione. 

 

Con il termine oggettivazione si fa riferimento all’attitudine di trattare gli altri come oggetti, con l’obiettivo di poterli manipolare e poter raggiungere i propri obiettivi (Volpato, Andrighetto & Baldissarri, 2017). Gli esseri umani hanno un bisogno innato di padroneggiare il loro destino e realizzare il loro potenziale (Deci & Ryan, 2000), ma l’oggettivazione priva ingiustamente le persone di tale bisogno (Volpato, Andrighetto & Baldissarri, 2017).

Di contro, il controllo percepito si riferisce alla convinzione che un individuo sia in grado di esercitare un’influenza sui propri stati interni e sugli ambienti esterni (Pagnini, Bercovitz & Langer, 2016). Di conseguenza, il controllo percepito delle persone oggettivate potrebbe essere vanificato. Nelle interazioni sociali quotidiane, il fenomeno dell’oggettivazione si verifica in differenti contesti, personali e professionali (Haslam & Loughnan, 2014). Per esempio, quando i lavoratori vengono trattati come meri strumenti affinché i loro superiori possano avere successo, così come, all’interno dei nuclei familiari, quando i genitori impongono ai figli di realizzare i propri sogni inespressi senza considerare i loro bisogni reali. Studi passati hanno mostrato che fattori come l’asimmetria nella posizione di potere, la ricchezza e lo specifico compito da portare a termine, possono aumentare la tendenza delle persone a oggettivare gli altri per raggiungere obiettivi di performance (Teng et al., 2016; Wang & Krumhuber, 2017). Tuttavia, è ancora poco chiaro come le persone rispondano all’oggettivazione in tali contesti. Sulla base dei processi motivazionali di base (Shah & Gardner, 2007), le persone dovrebbero essere motivate a mettere in atto comportamenti che consentano loro di ripristinare il proprio controllo percepito a seguito dell’oggettivazione. Poiché l’aggressione può essere utilizzata come un mezzo per ristabilire il controllo attraverso l’affermazione simbolica della propria superiorità sugli altri (Baumeister, Smart & Boden, 1996), alcuni ricercatori hanno ipotizzato che le persone oggettivate possano tendere a comportarsi in modo aggressivo e che il controllo percepito possa mediare l’effetto di tale associazione. Inoltre, essi hanno supposto che il ripristino del controllo percepito delle persone oggettivate possa indebolire la loro aggressività. Ricerche precedenti hanno dimostrato come gli interventi che mirano a ripristinare la percezione di controllo, possono contrastare molti effetti negativi derivanti dalla privazione del controllo stesso, quali l’esaurimento delle risorse cognitive (Ric & Scharnitzky, 2003) e l’ansia legata alla morte (Agroskin & Jonas, 2013). Nella presente ricerca, gli autori hanno proposto che il suddetto intervento potrebbe migliorare l’effetto dell’oggettivazione, in quanto, quando il controllo viene ripristinato, i soggetti dovrebbero avere meno probabilità di impegnarsi in comportamenti aggressivi. Al contrario, quando il controllo percepito delle persone oggettivate non viene ripristinato, esse dovrebbero essere più propense ad impegnarsi in comportamenti aggressivi in quanto motivate a ripristinare il controllo.

La scelta di studiare l’effetto dell’oggettivazione sull’aggressività è dovuta al fatto che quest’ultima comporta implicazioni significative sulle relazioni interpersonali, sul senso di soddisfazione personale e sul benessere fisico e psicologico (Griskevicius et al., 2009). Secondo l’ipotesi della frustrazione-aggressione, le persone saranno frustrate quando il raggiungimento del loro obiettivo risulterà ostacolato e, tale frustrazione, le motiverà ad impegnarsi in comportamenti aggressivi per ferire gli altri (Berkowitz, 1989). I ricercatori hanno inoltre teorizzato che la frustrazione non solo scatena l’aggressione ritorsiva, ovvero quella diretta ai “carnefici”, ma può anche portare alla messa in atto di comportamenti aggressivi nei confronti di persone innocenti, soprattutto quando gli individui frustrati non hanno l’opportunità di aggredire la fonte di frustrazione (Breuer & Elson, 2017).

Dunque, al fine di garantire la generalizzabilità dei risultati, i ricercatori hanno testato se l’oggettivazione potesse incrementare l’aggressività solo nei confronti degli autori di tale atto o anche verso estranei incolpevoli.

È bene specificare che all’interno della letteratura non vi sono evidenze dirette del fatto che l’oggettivazione vanifichi il controllo percepito dalle persone. Tuttavia, alcuni risultati preliminari indiretti hanno suggerito questa possibilità. Gli autori hanno dunque effettuato sei esperimenti che, in totale, hanno visto la partecipazione di 1070 soggetti.

In ciascuno degli esperimenti, i sentimenti di oggettivazione dei partecipanti sono stati prima manipolati e poi è stata valutata la loro aggressività.

I risultati hanno rivelato che, rispetto alle loro controparti non oggettivate, i partecipanti oggettivati avevano livelli più alti di aggressività, manifestati non solo verso gli autori dell’oggettivazione ma, allo stesso tempo, anche nei confronti di soggetti innocenti.

Inoltre, è stato identificato un meccanismo psicologico alla base del legame oggettivazione-aggressione. Difatti, gli autori hanno mostrato che l’oggettivazione ostacola il controllo percepito, che va dunque a mediare l’effetto dell’oggettivazione sull’aggressione. Presi insieme, questi risultati suggeriscono che l’oggettivazione promuova l’aggressività in quanto ostacola il controllo percepito e non perché determini un aumento di alcune emozioni negative. Questi risultati sono in linea con gli studi che mostrano che le emozioni negative da sole non sono sufficienti a prevedere l’aggressività (Wyckoff, 2016).

È stato anche identificato un modo efficace per diminuire il livello di aggressività delle persone oggettivate. Difatti, coerentemente con la previsione degli autori, gli ultimi esperimenti hanno dimostrato che il ripristino del controllo ha effettivamente indebolito l’effetto dell’oggettivazione sull’aggressività.

A livello applicativo, una migliore comprensione di come l’oggettivazione promuova l’aggressività e come sia possibile indebolire tale effetto, può aiutare lo sviluppo di strategie di intervento volte ad aiutare le persone a fronteggiare nel migliore dei modi sia i fenomeni di oggettivazione, che le forme correlate di maltrattamento interpersonale. Prendendo in considerazione gli attuali risultati, se le persone oggettivate venissero aiutate a riprendere il controllo attraverso interventi situazionali, il loro livello di aggressività potrebbe essere ridotto. Un livello di aggressività così esiguo potrebbe facilitare l’armonia e ridurre i conflitti nelle successive interazioni sociali, migliorando il benessere degli individui che subiscono l’oggettivazione.

 

L’arrivo di una nuova vita: la nascita di una mamma e di un papà – VIDEO dal webinar di Studi Cognitivi Modena

Il Centro Clinico Studi Cognitivi Modena ha organizzato un incontro informativo rivolto a tutti i futuri genitori. Pubblichiamo per i nostri lettori il video dell’evento

 

Durante l’incontro sono state discusse le aspettative e le credenze delle future mamme e dei futuri papà aiutandoli a condividere e normalizzare pensieri funzionali e disfunzionali che possono accompagnare questo percorso.

È stato poi illustrato il percorso di gruppo proposto dal centro di Modena che prevede 11 incontri (8 pre parto e 3 post parto).

Secondo l’EBM, Evidence Based Medicine, le donne e il partner che frequentano un corso pre-parto più precocemente, in modo esclusivo e per più tempo sono a minor rischio di ricorrere a interventi di medicalizzazione del parto, conoscono e utilizzano attivamente strategie di contenimento del dolore in travaglio (movimento, massaggio, sostegno emotivo, voce, rilassamento, acqua).

Gli interventi preventivi sembrano determinare una riduzione del 19% del rischio di sviluppo di disordini depressivi post partum.

Hanno condotto l’incontro la Dr.ssa Giuri e Dr.ssa Brugnoni.

 

L’arrivo di una nuova vita: la nascita di una mamma e di un papà
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Sharp Objects: un’analisi in chiave LIBET

Sharp Objects è una miniserie televisiva statunitense del 2018, adattamento del romanzo thriller “Sulla pelle” di Gillian Flynn. Ideata da Marti Noxon e diretta da Jean-Marc Vallée, è stata candidata come miglior miniserie ai Golden Globe del 2019. 

Nico Alberici – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Attenzione! L’articolo può contenere spoiler

Trama di Sharp Objects e Modello LIBET

La protagonista di Sharp Objects è Camille Preaker, una giornalista di cronaca nera. A seguito della scomparsa di due bambine nella sua città natale, Wind Gap, il suo capo decide di mandarla come reporter sul campo. Suo malgrado si ritroverà ad affrontare i traumi del suo passato. La reporter vive infatti un disagio psicologico caratterizzato da abuso di alcol e tendenze autolesionistiche. Tornata nella casa dove ha trascorso la sua infanzia, Camille si riunisce a sua madre Adora e alla sorellastra Amma. Il rapporto tra Camille e sua madre è sempre stato freddo e distaccato. Al contrario, Adora è sempre stata protettiva ed affettuosa nei confronti di Amma e della sorella minore di Camille, Marian (morta quando la reporter era bambina).

Scopo del seguente articolo è di analizzare il funzionamento LIBET di Camille e sua madre Adora. Il modello LIBET inquadra il funzionamento psicologico in base a dei costrutti chiamati piani e temi di vita. I piani sono strategie semi-adattive che, irrigidendosi nel tempo, possono comportare conseguenze disfunzionali. Tali piani vengono appresi per gestire i temi di vita: stati mentali vissuti come intollerabili e pericolosi (per esempio sentirsi vulnerabili, non amabili o sbagliati). I piani e i temi che sviluppiamo variano in base alle nostre esperienze di vita, in particolare a quelle vissute con le figure d’attaccamento durante l’infanzia (Caselli, Ruggiero e Sassaroli, 2017).

Nota: Le spiegazioni sul funzionamento psicologico dei personaggi contengono rivelazioni sulla serie televisiva Sharp Objects. Si raccomanda ai lettori di non proseguire con la lettura dell’articolo per non ricevere anticipazioni sulla storia. 

I temi di Camille

La vita di Camille è costellata da una serie di eventi traumatici, prima tra tutti la morte della sorella Marian. In seguito a questi traumi, sembra che la protagonista abbia sviluppato un’idea di sé come colpevole. Il senso di colpa perseguita Camille fin dall’infanzia, perché sente di non aver impedito la morte di Marian e di altri eventi.

L’autolesionismo di Camille sembra infatti essersi originato come una sorta di punizione auto-inflitta. Il corpo della giornalista è interamente coperto di cicatrici che formano parole quali: “sbagliata”, “sporca”, “cattiva” … Parole che rimandano a temi di indegnità e di disamore, in cui un individuo si percepisce come colpevole, cattivo, non amabile…

Wind Gap stessa può aver contribuito nel far sentire Camille e altre donne profondamente inadeguate. La città si rivela fin dai primi episodi sessista, conservatrice e colma di pregiudizi.

A Wind Gap, una donna viene subito etichettata se non segue le regole prestabilite – afferma Camille.

Infatti, la protagonista fin da bambina mostra degli atteggiamenti anticonformisti, ad esempio rifiutandosi di vestirsi e apparire come la “bambola perfetta” che sua madre tanto desiderava. In età adulta, Camille viene in più occasioni etichettata dagli ex concittadini come “una mela marcia”, “una poco di buono”, “una donna vuota ed incompleta, solo perché non è madre” …

Principalmente è nella relazione con la madre che Camille sviluppa un’idea di sé come inamabile e sbagliata. Adora le rivela nel quinto episodio (Closer) di non averla mai amata, dandole la colpa di questo:

Sei anaffettiva […]e per questa ragione io non ti ho mai amata…

Adora, infatti, ha compiuto gesti di affetto solo nei confronti di Marian ed Amma, allontanando Camille da sé. La reporter ha solo dei ricordi frammentati in cui la madre la accarezzava quando era a letto. La accarezzava però con le sue unghie, sfiorandole la pelle. Questa immagine è come se volesse suggerirci che i tagli sulla pelle di Camille sono stati inflitti indirettamente da sua madre nel tempo. Non a caso, sua sorella Amma dirà:

I tagli sono già lì, sotto la pelle. La lama li fa solo uscire

Il motivo per cui Adora tratta in questo modo Camille va ricercato nella sua malattia mentale. Adora, infatti, come rivelato nel settimo episodio di Sharp Objects, “Falling”, soffre di disturbo fittizio provocato ad altri (classificato precedentemente come “Sindrome di Münchausen per procura”). In questo disturbo un individuo (spesso un genitore) arreca danni alla salute di altre persone (solitamente i figli) per farli ammalare, allo scopo di attirare l’attenzione su di sé (American Psychiatric Association, 2013).

Camille, differentemente dalle sorelle, scansava Adora ogni volta che stava per somministrarle un medicinale (in realtà del veleno). Era come se Camille, inconsapevolmente, avesse intuito che qualcosa non andava. Non a caso la protagonista si irrigidisce quando la madre la sfiora, come se il suo corpo reagisse in base ad un apprendimento automatico. Come reazione, Adora inizia a punire Camille non amandola, ignorandola, escludendola e facendola sentire indegna. Viene persuasa di essere la colpevole del rapporto assente tra le due.

Camille, a causa di questa dinamica tossica, potrebbe anche aver appreso inconsciamente che solo soffrendo avrebbe ottenuto amore dalla madre. Questa credenza potrebbe aver costruito un terreno fertile per l’esordio delle sue tendenze autolesionistiche in età adolescenziale.

Il piano di Camille

Il piano di vita che Camille ha sviluppato è immunizzante: la protagonista di Sharp Objects cerca di escludere dalla propria coscienza i temi dolorosi, focalizzando la propria attenzione su alcune sensazioni corporee (piacevoli o dolorose) e anestetizzandosi dal proprio dolore emotivo. Il piano immunizzante di Camille viene evidenziato da una serie di comportamenti disfunzionali e autodistruttivi.

Primariamente, Camille assume alcol per regolare i propri stati emotivi. La protagonista è infatti perseguitata da una serie di ricordi ed immagini intrusive che riguardano i propri temi di vita. Il dolore per le perdite subite e il senso di colpa associato ad esse sembrano i fattori scatenanti di tale condotta. Non appena il tema doloroso sta per emergere nella sua coscienza, sotto forma di flashback, Camille beve alcol fino a stordirsi completamente.

L’abuso di alcol non è il solo mezzo con cui Camille esclude dalla propria coscienza i temi dolorosi. Dall’adolescenza fino al suo ricovero psichiatrico, la protagonista mette in atto dei comportamenti autolesionistici: si procura tagli sul corpo che formano delle parole, i cui significati sono associabili agli eventi traumatici e ai temi di indegnità e disamore. L’autolesionismo di Camille potrebbe esserle servito per spostare l’attenzione dal dolore mentale a quello fisico.

Il piano immunizzante si manifesta anche durante le interazioni con chi ha abusato di lei. Camille sembra infatti indifferente e distaccata coi suoi aguzzini, come se si fosse anestetizzata rispetto agli accaduti.

In alcuni flashback, ci viene mostrato come Camille da bambina esternasse la propria rabbia, contrariamente a quanto avviene in età adulta: sedando le proprie emozioni con l’alcol e tagliandosi. Inoltre, lo stato emotivo più ricorrente che si è andato a sostituire alla rabbia sembra il senso di colpa. È come se la reporter avesse imparato a spostare (internalizzare) la rabbia, rivolgendola contro di sé tramite comportamenti auto-mutilanti. Questo potrebbe dipendere da alcuni avvenimenti. Ad esempio, dopo l’esplosione di collera al funerale di Marian, sua madre si allontana da lei, trattandola con freddezza e non ricambiando il suo abbraccio. Camille potrebbe aver sviluppato quindi determinate credenze, del tipo: “manifestando la rabbia, mia madre si è allontanata da me. Sono sbagliata”.

Nel settimo episodio di Sharp Objects (“Falling”) ci viene mostrata l’invalidazione del piano immunizzante di Camille. La protagonista scopre che Marian è stata uccisa da Adora, una madre Münchausen. In quel momento entra così in contatto col suo tema doloroso: sentirsi colpevole per non essere riuscita a proteggere sua sorella. Di colpo, alcuni ricordi che Camille aveva rimosso riaffiorano nella sua mente (come la volta in cui aveva visto Adora mordere Amma da neonata, in modo da farla piangere e permetterle di auto-compiangersi: “Dio mi ha mandato un’altra figlia malata…”). Quando Camille scopre la sindrome di Adora, nessuna droga è in grado di cancellare questa informazione dalla sua mente ed è in quel momento che si crea una crepa nel suo piano immunizzante.

In parte, Camille potrebbe aver sviluppato anche un piano prudenziale verso le relazioni, allontanando gli altri da sé. Lei stessa si definisce come “non incline all’affettività”. Questa credenza su di sé potrebbe essere anche frutto delle proiezioni della madre. Camille potrebbe aver deliberatamente deturpato il suo corpo per allontanare ogni possibile intimità, contatto fisico e coinvolgimento affettivo, in quanto percepiti come pericolosi a seguito degli abusi subiti. Quelle cicatrici potrebbero quindi avere la funzione di inorridire e allontanare gli altri da sé, come una barriera per proteggersi dall’intimità e dall’essere toccata.

Il piano e il tema di Adora

Differentemente dalla figlia, il piano di Adora è prescrittivo, perché caratterizzato dal controllo degli altri. Adora controlla tutta la comunità di Wind Gap, con i suoi modi eleganti ed affascinanti, prendendosi cura dei suoi concittadini e offrendosi di “riparare le bambine sbagliate”. Adora vuole mantenere soprattutto il controllo sulle figlie: prima Marian e in seguito Amma. Camille non glielo ha permesso e per questo nutre disprezzo nei suoi confronti. L’estrema espressione del suo piano prescrittivo è rappresentata dal suo disturbo fittizio provocato ad altri, perché le permette il pieno controllo sulle sue vittime, oscillando ricorrentemente tra lesioni e cure.

Ciò che accomuna Camille e Adora è l’uso del dolore per proteggersi dal tema. La differenza è che Camille si auto-procura il dolore. Adora, invece, lo infligge alle figlie per controllarle, anche con una modalità di comunicare passiva-aggressiva: esprime drammaticamente il dolore per manipolarle con il senso di colpa (come quando si ferisce accidentalmente alla mano con una rosa).

Nei momenti in cui Adora sente di perdere il controllo (rottura del piano prescrittivo), esordiscono dei sintomi sotto forma di collera, tricotillomania (strappandosi compulsivamente le sopracciglia) ed acutizzando il suo disturbo fittizio. Fin da subito, escogita diverse strategie per dividere Amma e Camille, quando tra le due inizia a formarsi un legame che potrebbe invalidare il suo piano. La sola possibilità che Amma possa allontanarsi da lei la getterebbe nella disperazione. Quando Adora capisce che sta perdendo il controllo su di lei, arriva persino a ricattarla emotivamente con la deprivazione affettiva (“ormai sei grande, non hai bisogno di me, puoi occuparti di te stessa da sola…”) e smontando la sua casa delle bambole. Le punizioni di Adora consistono nella deprivazione affettiva e nella colpevolizzazione. Sono le stesse punizioni che Camille ha subito, fino a convincersi di essere effettivamente la colpevole tra le due. Adora non infligge solamente le punizioni per controllare il comportamento delle figlie, ma utilizza come rinforzo positivo il suo affetto: solo quando Camille accetta di farsi curare (ovvero avvelenare), le permette di accedere alla camera col pavimento in avorio, dandole quell’affetto che le ha sempre negato.

Il piano prescrittivo di Adora serve a proteggerla dal suo tema doloroso, sviluppatosi in seguito ai maltrattamenti subiti a sua volta dalla madre, Joya. Adora rimprovera Camille, dicendole:

Mi fai sentire come se avessi sbagliato qualcosa, come se fossi una pessima madre […]. Quando ti ho portato in grembo credevo mi avresti salvata, pensavo mi avresti amata e che in questo modo mia madre avrebbe amato anche me…

Da queste affermazioni emergono i temi dolorosi di Adora. A causa degli abusi subiti a sua volta dalla figura materna non si è mai sentita amata (tema di disamore). Si percepisce inoltre come vulnerabile, come se solo le sue figlie e le attenzioni degli altri potessero salvarla dall’ombra di sua madre (tema di minaccia terrifica). È come se il trauma e la malattia mentale nella famiglia di Camille venissero trasmessi a livello intergenerazionale.

In un’occasione in cui vuole premiare Camille, Adora la definisce “l’angelo custode di Amma”. In un certo senso, è nell’immagine dell’angelo custode che Adora ha trovato la propria ancora di salvezza: facendo ammalare le sue figlie, poteva prendersene cura/controllarle e sentirsi in questo modo una madre adeguata, amata e indispensabile per loro. Alleviando le loro sofferenze, dopo averle avvelenate, Adora poteva in parte mentire a se stessa sul fatto di non essere identica a sua madre. In più, quando le sue figlie si aggravano o muoiono, Adora ottiene l’ammirazione, le attenzioni e le premure da parte della comunità (quelle forme di amore di cui è stata privata da sua madre). Si sente così protetta dagli altri, avendo vissuto l’infanzia in un contesto spaventante.

Per concludere, Sharp Objects è una storia su come il dolore inflitto (a sé e agli altri) può diventare la strategia per proteggersi da temi dolorosi, che emergono da relazioni affettive tossiche. Citando Gillian Flynn, autrice del romanzo da cui è stata sviluppata la serie televisiva:

Dicono che l’impulso di infliggere dolore sia un bisogno imperioso, a cui non ci si può sottrarre.

Tuttavia, affrontando il dolore, Camille arriverà a scrivere in un suo articolo:

Mi sono perdonata per non essere riuscita a salvare mia sorella e ora mi occupo dell’altra. Lo faccio perché le voglio bene o perché ho la stessa malattia di Adora? Così vacillo tra le due opzioni […] Negli ultimi tempi però credo di essere più incline alla gentilezza.

Camille, entrando in contatto col suo tema doloroso, è riuscita alla fine a cambiare visione di sé, realizzando che essere amate da Adora significava concederle il proprio annientamento. Soprattutto, Camille riesce a perdonarsi per la morte di Marian, evento di cui non ha colpa.

 

SHARP OBJECTS – GUARDA IL TRAILER DELLA SERIE:

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