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Beck e l’uso clinico del Sé dalla psicoanalisi alla terapia cognitiva – 100 anni di Aaron T. Beck – Parte 6

Il racconto di come Beck accertava e trattava in seduta le credenze distorte sul Sé

 

Beck e gli psicoanalisti dopo il 1975: una collaborazione

C’è una considerazione da fare su Beck. Ed è quella dei suoi persistenti rapporti con gli psicoanalisti, anche dopo la definitiva svolta cognitiva del 1975. Una svolta molto più spostata nel tempo rispetto a ciò che si sapeva e ancora una volta non davvero definitiva. Con una significativa differenza, però. Mentre fino a poco prima Beck aveva mantenuto i rapporti con psicoanalisti ortodossi provenienti dall’ambito della psicologia dell’Io, la psicoanalisi più ortodossa e freudiana, ora interagiva con psicoanalisti interessati alla ricerca e alle variabili interpersonali, come Lester Luborsky o Hans Strupp o psichiatri interessati a forme di psicoanalisi interpersonale, come Klerman. Come abbiamo scritto, non si trattò di una collaborazione superficiale, ma di un vero e forte scambio reciproco sui contenuti clinici e sulla stesura dei manuali, da parte di tutti. Beck aiutò Luborsky a stendere il suo manuale psicodinamico e Luborsky aiutò Beck per il suo modello cognitivo. Non è affatto un caso che in quegli anni Beck fu anche presidente della Society for Psychotherapy Research, che era l’ambiente in cui avvenivano questi scambi.

Questo modifica ancora una volta la visione di Beck come cognitivista non interessato agli aspetti interpersonali e cambia la visione della psicoanalisi disinteressata alla ricerca. Al contrario, mentre i cognitivisti puri provenienti dal comportamentismo come Mahoney proponevano un costruttivismo tutto teorico, non formalizzavano i loro modelli e non si preparavano alla ricerca in psicoterapia, nella psicoanalisi questo avveniva e lo facevano i freudiani Luborsky e Strupp in collaborazione con l’interpersonalista Klerman e il cognitivista (psicoanalista) Beck. E inoltre si conferma l’interesse di Beck per la psicoanalisi interpersonale di Karen Horney e Stack Sullivan.

Cosa cercavano in Beck non tanto i comportamentisti americani Mahoney, Maichenbaum e Lazarus -che si limitarono a uno scambio molto astratto sul ruolo teorico del mediatore cognitivo- ma con ben maggiore interesse i comportamentisti britannici Clark e Salkovskis? Trovarono qualcosa di clinico che non avevano potuto trovare nella loro radice comportamentista britannica e ancor meno avrebbero trovato in Mahoney. Poiché il modello misto cognitivo-comportamentale in realtà nasce nel Regno Unito dapprima quando Clark, come abbiamo già raccontato, acquistò dieci copie ciclostilate del manuale di Beck, e poi quando Beck trascorse un intero anno sabbatico a Oxford negli anni ’80 e diventò visiting professor -sempre a Oxford- nel 1986. Quel modello cognitivo comportamentale non si limitava a postulare astrattamente il mediatore cognitivo, come aveva fatto (benemeritamente) Mahoney, ma sviluppò concretamente una procedura clinica che era iniziata con il manuale di Beck per la depressione e che poi si sarebbe sviluppata con i protocolli per il disturbo di panico (Clark, 1986), ansia sociale (Clark & Wells, 1995), disturbo da stress post-traumatico (Elhers & Clark, 2000), disturbi alimentari (Fairburn, Shafran, & Cooper, 1999) e disturbo ossessivo-compulsivo (Salkovskis, 1985).

Insomma, Clark, Salkovskis e compagnia erano già tutti comportamentisti. Cosa mancava che diede loro lo psicoanalista (perché lo era ancora) Beck? Non certo il fattore mentale come dice la vulgata, che è presente anche nel modello comportamentale di Skinner (1957) come comportamento e dove può essere un antecedente ambientale, un comportamento o una conseguenza. Esso però, a differenza che nel seguente cognitivismo, non è mai sovraordinato, non è considerato mai il fattore chiave che controlla tutti gli altri. Può essere un mediatore, ma uno tra i tanti. In questa veste, la concezione comportamentale del fattore mentale è in realtà avanzatissima, poiché consente di abbattere concettualmente una serie di barriere che ormai sono considerate obsolete, tra le quali ad esempio quella tra mente e corpo. Tuttavia, l’estrema flessibilità del modello comportamentale aveva un difetto, quella di lasciare il clinico troppo libero di scegliere quale fosse il comportamento bersaglio. Questa flessibilità finiva per impedire lo sviluppo di procedure di trattamento definite.

Nell’idea di Beck il mediatore cognitivo non è un concetto generico in cui può entrarci di tutto come nello Skinner di Verbal Behavior (1957). Il segreto è invece che Beck, quando parla di distorsioni cognitive, considera in questo mediatore un contenuto estremamente specifico e delimitato in una maniera che, in termini scientifici, può essere considerata semplicistica e rozzamente razionalista ma che poi è provvista di una grande efficacia ordinatrice nel definire la procedura. Questo contenuto sono le credenze sul sé, ovvero quello che il paziente pensa di sé stesso.

In seduta con Beck: la procedura sul Sé

Nella procedura di Beck, come sappiamo, egli parte da una situazione problematica tendenzialmente ambientale. Apparentemente agisce come un comportamentista che esplora gli antecedenti, ma a differenza di costoro egli semplifica la procedura, limitando l’esplorazione dell’ambiente alla definizione dell’aspetto problematico, ad esempio il giudizio degli altri nell’ansia sociale. Mentre un comportamentista, quindi, avrebbe esplorato l’ambiente in maniera dettagliata, cercando l’aspetto chiave e modificabile, l’esplorazione di Beck è più rapida poiché il fattore decisivo è il pensiero immediato e cosciente, quello che passa per la testa al paziente in quel momento. È vero che questa attenzione al solo aspetto problematico semplificato dall’ambiente e poi immediatamente a quel che passa per la testa del paziente in quel momento Beck lo abbia ricavato da fonti cognitiviste come ad esempio Albert Ellis. È noto che Beck, lettore onnivoro, avesse consultato anche Ellis. Tuttavia, Ellis era un altro transfuga della psicoanalisi sia pure interpersonale e non freudiana dell’Io! Si rafforza ancora l’idea di un cognitivismo elaborato teoricamente dai comportamentisti Mahoney, Meichenbaum e Lazarus e clinicamente dagli psicoanalisti: Beck ed Ellis.

Seguendo Ellis, Beck limita l’esplorazione dell’ambiente e si focalizza sulle piccole frasi che passano per la testa del paziente. E a pensarci bene, ancora una volta anche questa è una tecnica di provenienza psicodinamica, essendo la domanda di Ellis e Beck:

mi dica cosa le è passato per la testa in quel momento

una vicina parente della domanda freudiana:

mi dica cosa le passa per la testa senza filtri

Insomma, la tecnica di accertamento cognitivo è un derivato della tecnica delle associazioni libere che sono alla base dell’indagine psicoanalitica in cui si invita il paziente a dire ciò che gli passa per la testa. Derivata ma non uguale: Ellis ebbe l’idea di esplorare ciò che passa per la testa del paziente non in seduta, ma nel momento della situazione problematica e del sintomo. Ripetiamolo: è significativo che dunque, attraverso Ellis, Beck abbia potuto ancora una volta ereditare dalla psicoanalisi una tecnica specifica. È vero, tuttavia, che una tecnica simile la troviamo in George Kelly, il cosiddetto laddering, tecnica che anch’essa procede per associazioni spontanee invitando il paziente a rispondere alla domanda:

che cosa le piace in questo?

Domanda che in questa veste positiva tradisce la sua provenienza dalle tecniche di marketing, per le quali era inizialmente pensata. Nella sua forma clinica, invece, essa suona così:

che cosa non le piace in questo?

Tuttavia, c’è da dire che lo stesso Kelly non si definiva comportamentista e nemmeno cognitivista, del resto, termine che sarebbe arrivato in seguito.

Una volta indagato il pensiero immediato, il, cosiddetto pensiero automatico, Beck prosegue con la down arrow, ovvero incoraggiando il paziente, ancora una volta con una tecnica che è simile alle associazioni libere dinamiche, a dire qual è il significato personale emotivo di quel pensiero che gli è passato per la testa. Perché derivata dalle associazioni libere? Perché questo significato è un’associazione non logica ma libera, immediata, senza filtri. La domanda specifica infatti può essere sia puramente associativa:

cosa significa questo per lei?

Oppure può essere predittiva

cosa potrebbe accadere?

Ma comunque verrà intesa dal paziente nei suoi termini associativi ed emotivo. Naturalmente, essa va declinata nei suoi termini negativi:

cosa significa di male per lei questo?

Ora, a queste domande il paziente può rispondere con previsioni negative di eventi: potrei essere bocciato a un esame, potrei essere escluso da un gruppo, potrei essere respinto da una persona che mi piace, potrei avere dei danni; o anche deviando verso un’emozione negativa, potrei avere ansia, o infine su giudizi su se stessi e gli altri. L’intuizione di Beck fu che, qualunque fosse la risposta del paziente, essa andava infine convogliata su un giudizio negativo su se stessi, giudizio che poi in seguito è stato da Judith Back classificato in una ben nota tabella che riproduciamo qui:

Credenze centrali sul sé nella CT standard (Beck J., 2011, pag. 233)

Sé indifeso (helpless)

Difettoso; Fallito; Impotente; Indifeso; Incompetente; Inefficace; Perdente; Bisognoso; Non abbastanza buono; Fuori controllo; Impotente; Intrappolato; Vittima; Vulnerabile; Debole.

Sé non amabile (unlovable)

Cattivo; Destinato ad essere abbandonato; Destinato ad essere solo; Destinato ad essere rifiutato; Difettoso; Diverso; Non attraente; Non curato; Non desiderabile; Diverso; Non amabile; Non desiderato.

Sé inutile (worthless)

Uno spreco; Pericoloso; Non meritano di vivere; Malvagio; Immorale; Tossico; Inaccettabile; Inaccettabile; Inutile

Non basta. I debiti psicodinamici di Beck continuano, perché egli arrivava a una valutazione negativa su sé stessi come concetto clinico ordinatore che proveniva non solo dalla psicologia dell’Io ma che inoltre presentava analogie anche con il successivo modello di Kohut del Sé. Si tratta naturalmente di una semplificazione, perché la psicologia dell’Io aveva parlato di funzioni dell’Io, in una maniera che somiglia -tanto per imbrogliare ancor di più le carte- più al funzionalismo comportamentale, che di specifici contenuti dell’Io, ovvero della coscienza, come avrebbe fatto Beck. Non basta. A incrementare la confusione nello stesso modello di Beck questa semplificazione non è chiara, dato che esiste anche una prima fase di Beck cognitiva sì ma di tipo processuale, come ad esempio quando Beck parla non di credenze del Sé ma di ragionamento emozionale o di generalizzazione. E da dove veniva questo processualismo iniziale di Beck? Dal funzionalismo comportamentista o dalla psicologia dell’Io freudiana? Insomma, questa psicoanalisi continua a intrufolarsi nel modello di Beck.

Tuttavia, a questo aspetto processualista poi si unirono dei contenuti cognitivi che sembrano quasi provenire dal Sé di Kohut (psicoanalista anche lui) ma anche da Winnicot (psicoanalista anche lui). Infatti nel diagramma di concettualizzazione cognitiva (CD) si vede che questi processi distorti sono indagati da Beck come specifici contenuti cognitivi su ste stessi: sono fragile, sono debole, sono incompetente e così via, e che poi sono stati modellizzati nella tabella di Judith Beck. Eppure in tutta visione fragile e tremebonda del sé malato intravediamo il bambino fragile e trascurato che fu prima di Winnicot e poi di Kohut. Ma non di Freud: come molti di quel periodo, Beck è uno psicoanalista che si distacca da Freud.

Ora però andiamo sulla concretezza clinica in seduta. Come avviene questo accertamento finale delle credenze del sé in chi rimase psicoanalista e in chi inventò il cognitivismo, come Beck? Anche lo psicoanalista in fondo arriva sempre lì, sia pure in maniera diversa. Anche nella procedura per libere associazioni della psicoanalisi il traguardo conclusivo è:

E lei, come si vede in quella situazione (problematica)?

Tuttavia, lo psicoanalista ottiene questo con una tecnica paradossale, limitandosi a reagire alle parole del paziente tacendo e creando con effetto straniante, mentre il terapista cognitivo alla Beck incoraggia attivamente e guida il paziente a trovare associazioni su sé stesso. Tuttavia, anche il silenzio dell’analista porta a risposte sul sé (e sugli altri), ovvero il paziente spontaneamente tende a concettualizzare il suo problema nei termini di un giudizio che dà di sé stesso o dell’altro. È la ragione per la quale Luborsky ha concettualizzato il suo modello formalizzato del transfert, ovvero il core conflictual relational theme in maniera stupefacentemente simile all’ABC di Beck, ovvero in termini di risposte (ovvero credenze e comportamenti) dell’altro e del sé.

La vera differenza tra Beck e i suoi colleghi psicoanalisti sta in quel che accade dopo. Arrivati a un giudizio su di sé (o gli altri), di tipo negativo, Beck inizia la risalita verso l’alto, invitando il paziente a metter in discussione questo punto di arrivo. Si tratta del famoso questioning razionalista, la cui esecuzione assume la forma:

Siamo sicuri così che sia proprio così? È proprio così? Lei sarebbe davvero così? Così inadeguato, così fragile? 

Fino al famigerato:

Che prove ci sono?

Questo intervento è stato tacciato di essere relazionalmente difficile per il paziente e freddo. In realtà, nella esecuzione di Beck, esso è estremamente validante e accogliente, poiché il paziente è invitato a rielaborare la visione negativa e autopunitiva di sé stesso, visione appena accertata dettagliatamente e in maniera accogliente e non in quella straniante del silenzio psicoanalitico. Certo, molto fa anche lo stesso stile personale di Beck di conduzione della seduta, una capacità di accoglimento coinvolgente e rispettosissima e che permette questa coloratura positiva del questioning. Ma non sono solo i modi e la prosodia calma di Beck, è la procedura in sé che, lungi da essere un freddo calcolo, si rivela essere un caldo e incoraggiante invito al paziente ad avere una visione di sé positiva e non punitiva. Beck ribalta Melanie Klein.

Beck e Clark: dalla psicoanalisi al comportamentismo britannico

Rimane la domanda sul perché alcuni comportamentisti, soprattutto britannici, accettarono così pienamente il contributo di Beck. Sembra che sia stato soprattutto il gruppo di Oxford, capitanato da Clark e Salkvoskis, a metter da parte tutte le remore comportamentali che oggettivamente sono incompatibili con la posizione sovraordinata delle credenze sul sé. Stabilito che Beck non condivideva il retroterra comportamentista e che anzi ne era particolarmente lontano, ora che ne abbiamo illuminato le persistenti radici psicodinamiche, questa adesione piena di Clark e Salkovoskis alla CT rimane in parte inspiegabile a meno che non immaginiamo che nel fondo del comportamentismo britannico agisse una base cognitiva, che forse era forse dovuta alla grande influenza della psicoanalisi in Inghilterra, paese in cui a un certo punto avevano vissuto e operato a lungo sia Anna Freud e i suoi seguaci, che poi negli Usa avrebbero dato origine alla psicologia dell’Io, sia Melanie Klein e poi gli indipendenti di Fairbairn e Winnicot, che con le relazioni oggettuali collegarono le pulsioni alle rappresentazioni mentali. Tutto questo significa che la psicoanalisi britannica poteva avere un forte interesse per l’assetto cognitivo che ipoteticamente, almeno nell’ambiente accademico, può avere influito su Clark e Salkovskis.

Insomma, Clark e Salkovskis trovarono nelle credenze sul sé di Beck un modo efficiente ed economico per standardizzare le loro analisi funzionali comportamentiste senza perdere di flessibilità. Indirizzando grazie a Beck l’analisi funzionale comportamentale su alcuni aspetti invarianti, l’aspetto problematico delle situazioni, il pensiero automatico e poi, con la tecnica della down arrow, il significato personale e infine la credenza centrale sul sé, la procedura diventò più formalizzata, controllabile e ripetibile, ma al tempo stesso conservava una flessibilità soggettiva che permetteva di personalizzare la valutazione sul paziente singolo con la soggettività delle credenze sul sé. Infine, queste credenze permettevano una corrispondenza con le diagnosi psichiatriche del manuale diagnostico DSM di disturbo d’ansia generalizzato, depressione e disturbo ossessivo, non a caso proprio le diagnosi bersaglio della terapia cognitiva. Fu l’inizio di una fruttuosa amicizia, in cui Beck e Clark misero a punto il definitivo modello congiunto cognitivo comportamentale e lo diffusero nel mondo (Clark, Beck, Alford, 1999).

Il Sé nella seduta analitica freudiana

La componente positiva diventa ancora più chiara se confrontata all’esito che invece prospettava la tecnica analitica della neutralità adottata dai colleghi di Beck nel gruppo di Rapaport. Infatti, nella tecnica analitica il paziente, arrivato a una visione di sé o degli altri negativa, vien messo a confronto con una interpretazione profonda, che può essere una rivelazione delle difese e/o delle pulsioni nascoste. In entrambi i casi, al paziente veniva comunicato che in realtà quella visione di sé, in apparenza onesta e perfino coraggiosa nella sua natura autopunitiva e auto-flaggelatoria (in fondo si tratta di un giudizio negativo su sé stessi) è solo apparentemente sincera e severa con sè stessa. In realtà, come rivela la mannaia dell’interpretazione analitica, quella visione negativa di Sé è una difesa, un modo per giustificarsi, e nasconde qualcosa di molto più negativo e inconfessabile: una pulsione. Una vergognosa pulsione che il paziente non confesserà mai spontaneamente.

Pulsione che per lo più, nei modelli psicodinamici, non può che essere freudianamente un desiderio di tipo affettivo, dalla eccitazione esplicitamente sessuale di Freud al bisogno più umanamente tenero e relazionale di Winnicot, essere amati, oppure una cupa e sanguinaria pulsione aggressiva o rabbiosa alla Melanie Klein. In ogni caso l’analista oppone la sua implacabile e irrespingibile rivelazione al paziente (se respinta è un’altra difesa, una resistenza) che è poi un inquisitoriale invito ad andare più a fondo, a confessare, a essere sincero, invito che finisce per essere espresso in termini giudicanti, un po’ perché pronunciato nella cornice straniante della maniera neutrale psicoanalitica, ma anche esplicitamente giudicante a causa della teoria dell’inconscio per cui il vero contenuto sarebbe comunque nascosto e ciò che è espresso esplicitamente dal paziente è comunque sospetto e in qualche modo falso.

Nulla di tutto questo in Beck. Al contrario, come già detto, l’intervento risulta validante e confortante per il paziente, non solo per i toni dolci di Beck, ma soprattutto come contenuto: il paziente è oggettivante incoraggiato a costruire una migliore opinione di sé stesso. C’è da dire, inoltre, che la procedura di Beck, lungi dall’essere isolata come troppo spesso è stato fatto, una sorta di unicum separato dal resto della storia della psicoterapia, va invece a inserirsi in quel cambiamento storico che avveniva in quegli anni, per cui in psicoanalisi si passava da un atteggiamento di interpretazioni dall’alto non collaborativa con il paziente, con il quale era negata qualunque possibile interazione paritaria, a una crescente attenzione per gli aspetti relazionali sia nel modello britannico delle relazioni oggettuali che in quello americano della psicoanalisi interpersonale di Stack Sullivan e che sarebbe sfociato poi nel modello della psicologia del sè di Kohut, teso a rafforzare la stima di sè e la valutazione positiva di sè del paziente, il suo cosiddetto narcisismo, sano.

Allo stesso modo il modello di Beck al tempo stesso promuoveva un atteggiamento paritario definito di empirismo collaborativo, una concezione della psicopatologia più fiduciosa verso il paziente, in cui si dava credito alla sincerità e alla genuinità delle sue credenze negative e, infine, l’intervento, lungi dall’essere freddamente razionale, era invece caldamente validante. Il paziente era compreso nelle sue dinamiche negative e poi incoraggiato a sviluppare una migliore opinione di sé. Un altro parallelo è con il modello di Carl Rogers, anch’esso validante. Del resto a sua volta l’intervento di Rogers lo si può considerare sottilmente cognitivo, in quanto va a mettere in crisi l’opinione del paziente che i suoi stati mentali siano anormali e intollerabili, mentre Rogers glieli ristruttura normalizzandoli.

Il Sé nel costruttivismo

Anche in relazione al rapporto con lo sviluppo parallelo del costruttivismo possiamo rielaborare la nostra concezione di Beck. Sappiamo che in genere il confronto tra Beck e il costruttivismo, sia quello americano di Mahoney che quello di Guidano e Liotti, consisterebbe nell’opporre il razionalismo di Beck che in seduta si limiterebbe a condannare razionalmente la natura distorta ed errata delle credenze cognitive sul sé, mentre il costruttivismo di Mahoney e Guidano valorizzerebbe e normalizzerebbe i contenuti cognitivi negativi dando loro un significato personale nella vita del paziente, dotato di senso e che solo un irrigidimento successivo avrebbe poi indirizzato verso la disfunzionalità. Il problema è che i costruttivisti hanno sempre attribuito questa etichetta di razionalista a Beck con eccessiva facilità, non comprendendo il suo retroterra psicodinamico che invece contributiva a fargli assumere una posizione molto più complessa. Era proprio il retroterra psicodinamico che consentiva a Beck di concepire il sintomo allo stesso modo dei costruttivisti, come un irrigidimento di un vissuto che aveva le sue radici nel passato del paziente e che quindi aveva un significato personale nello sviluppo evolutivo del paziente. Dando un’occhiata alla tavola delle organizzazioni di personalità di Guidano e Liotti non può non saltare agli occhi il parallelismo con quelle di Beck. La contrapposizione tra modello cognitivo standard e costruttivista traballa e finisce per rivelarsi una rivalità più immaginaria che reale, se pensiamo che nel modello di Mahoney e Guidano i termini diagnostici sono addirittura più chiaramente dichiarati nei nomi delle organizzazioni di personalità: fobica, ossessiva, depressiva, dappica (da disturbo alimentare psicogeno).

Organizzazioni di personalità costruttiviste (Guidano e Liotti, 1983, pp. 171-306; Mahoney et al., 1995; Mahoney, 2003)

Organizzazione fobica della personalità

Essere disprezzato; Essere deriso; Essere ridicolizzato; Necessità di protezione; Non amabile; Non in controllo; Incapace di affrontare; Debole.

Organizzazione della personalità depressa

Abbandonato; Sbagliato; Deluso; Fallito; Impotente; Isolato; Scomparso (perdita); Bisognoso di approvazione; Non amato; Rifiutato; Separato; Inutile.

Organizzazione della personalità ossessiva

Controllato; Distaccato; Dubbioso; Colpevole; Giudicante; In cerca di certezze; Morale; Perfezionista; Responsabile; Trattenuto; Emotivo.

Organizzazione della personalità da disturbo alimentare psicogeno

Aderire al giudizio degli altri; Desiderio di contatto emotivo; Dipendente; Autocritico; Autoironico; Indefinito.

La vera differenza era che Beck, diversamente da Mahoney e Guidano, aveva un procedura determinata che era quella down arrow la quale derivava -come abbiamo visto- sia da una rielaborazione della tecnica psicodinamica delle associazioni libere, in cui al silenzio dell’analista era sostituito un amichevole e incoraggiante (e non freddo e razionale come in certe caricature della terapia cognitiva nè tantomeno accusatorio e penitenziale come in certe derive psicodinamiche) invito a definire in termini di intollerabile e disfunzionale giudizio su di sé quello che era un segnale emotivo funzionale, sia da altre tecniche di provenienza non comportamentale, ma derivate dalla psicologia del lavoro e del marketing, come ad esempio la già citata tecnica del laddering elaborata nell’ambiente della psicologia dei costrutti personali di Kelly.

Questa qualità ordinatrice della procedura di Beck è così pervasiva e potente che la si può vedere in azione anche nel modo di operare in professionisti che hanno subito la sua influenza indirettamente e che in teoria a livello esplicito la rifiutano, almeno parzialmente. Leggiamo ad esempio questo scambio clinico tra un terapeuta e il suo paziente. Il terapeuta usa delle tecniche di accertamento in parte paradossali o, come si dice oggi, corporee, inducendo un “enactment” terapeutico per attivare una reazione aggressiva nel paziente che poi sarà accertata. Lo fa parlando del cellulare del paziente, poggiato sulla scrivania. Gli dice che immagina che per il paziente il cellulare sia importante e poi lo invita a prenderlo e, mentre il paziente lo fa, il terapeuta gli blocca improvvisamente e con decisione il polso. Il paziente (il cui nome è Francesco, apprendiamo) è sorpreso, ma il terapeuta lo invita a tentare di afferrare di nuovo il cellulare e di nuovo il terapeuta gli blocca il polso. Poi gli chiede:

T.: Francesco, vedo la sua reazione rabbiosa. Mi può dire come si è sentito mentre le bloccavo la mano?
P.: Mi sentivo un idiota…
T.: Che sentimento è?
P.: Degradato, disonorato, sottomesso
T.: Uhm, sottomesso … Dunque, qualcosa come umiliato?
P.: Si umiliato
T.: Dunque quando lei subisce una prepotenza, le scatta una immagine di sé come sottomesso e umiliato. Subito dopo, ma solo dopo, parte la reazione protettiva di tipo rabbioso (Dimaggio, Ottavi, Popolo, Salvatore, 2019 p. 108-109).

Ci sarebbe molto da riflettere su questo scambio e in generale sulla tecnica esposta nel libro dei colleghi e non è questa la sede adatta. Lo faremo dettagliatamente altrove. Qui basti notare che questo scambio consente di comprendere qual è stato il vero contributo di Beck, di cui anche i colleghi, che non sempre lo apprezzano, usufruiscono. Un contributo molto più clinico, concreto e soprattutto incarnato che astrattamente teorico: l’accorgimento che l’indagine degli stati mentali di sofferenza può essere condivisa con il paziente e da lui compresa in termini accessibili formulandola mediante convinzioni, pensieri su sé stesso. La vera intuizione di Beck non è stata l’astratta e disincarnata teoria sul pensiero che governa l’emozione o viceversa, ma il fatto reale e incarnato che la sofferenza emotiva, in sé confusa e apparentemente incontrollabile, sia formulabile in seduta e resa più chiara e comunicabile a sé stessi e al terapeuta, e infine gestibile in seduta e nella vita quotidiana, traducendola in giudizi personali su sé stessi, che rendono bene la natura del deterioramento disfunzionale di questi stati mentali, il fatto che il paziente invece di utilizzare le emozioni come segnale di stato le usa come mezzi per definire sé stesso in termini negativi e paralizzanti.

Questa intuizione clinica, come abbiamo visto, non proveniva affatto dalla disincarnata rivoluzione cognitiva di Miller, Gallanter e Pribram ma dalla incarnata formazione psicodinamica di Beck, da lui semplificata e purificata immettendo in essa la necessaria dose di buon senso, che poi significa fidarsi del paziente, ed eliminando le controintuitive interpretazioni che andavano oltre le credenze negative espresse dal paziente: il genio della semplicità di Beck consisté nel capire che quelle credenze apparentemente banali perché spontaneamente e coscientemente espresse dal paziente già da sole bastavano a spiegare la disfunzionalità. Il secondo contributo pratico di Beck è stato aver proposto che fosse possibile incoraggiare il paziente a distaccarsi da questi contenuti dolorosi semplicemente incitandolo a sottoporre a esame critico gli aspetti disfunzionali. La capacità critica, lungi dall’essere una funzione esterna al vissuto mentale come talvolta e criticamente suggerito da Liotti, una sorta di prodotto culturale la cui funzione sarebbe solo storica e tecnologica mentre non avrebbe alcun ruolo nella vita emotiva e soggettiva, ha proprio questa funzione auto-riflessiva di fornire al soggetto una visione alternativa rispetto a quella automatica, sia nella valutazione della minaccia che nella pianificazione di comportamenti utili.

Che Beck abbia poi legato la sua intuizione al modello cognitivo è stato un bene ancora una volta più clinico e incarnato che teorico e disincarnato, in quanto ha aiutato i comportamentisti a focalizzare su un bersaglio determinato l’analisi funzionale e comportamentale, che prima rischiava di essere poco specifica per i vari disturbi per eccesso di flessibilità. L’accorgimento di Beck permise di rendere l’analisi comportamentale specifica per le diagnosi psichiatriche, che poi è stato il vero salto di qualità della psicoterapia cognitiva, determinando alcuni svantaggi, ma anche l’indubbio vantaggio di poter finalmente dimostrare l’efficacia medica della psicoterapia, risultato che poi è andato a vantaggio di tutte le psicoterapie.

In questo senso è vero che la riduzione dell’attività cognitiva ai pensieri espliciti è debole dal punto di vista teorico ed è una semplificazione del modello cognitivo, tanto che è stata criticata dagli studiosi processualisti della terza onda che correttamente hanno definito il mediatore cognitivo come:

rather as a retroactive executive agent providing control feedbacks on mental states, a function which is more metacognitive than properly cognitive, being a second-order regulation -within the mind itself- of mental states by mental processes and not a first-order cognitive evaluation of an object to know (Wells & Mathews, 2015, p. 31).

Questa debolezza è tuttavia solo teorica e non clinica e questo dimostra proprio lo scambio dei colleghi, in cui è chiarissimo come sia il terapeuta che il paziente effettuino un down arrow alla Beck, pur non rendendosene pienamente conto. Che non se ne rendano conto è comprensibile dato che il terapeuta pare non abbia seguito una formazione cognitiva standard con Beck, ma un’altrettanto ottima formazione costruttivista. E tuttavia tale è la forza clinica del concetto beckiano di credenza sul sé che entrambi, terapeuta e paziente, usano delle credenze su sé alla Beck per formulare in termini maneggevoli e condivisi la disfunzionalità degli stati mentali del paziente stesso. Rileggiamo il passo critico:

T.: Che sentimento è?
P.: Degradato, disonorato, sottomesso
T.: Uhm, sottomesso … Dunque, qualcosa come umiliato?
P.: Si umiliato

Notiamo come il terapeuta usi il termine “sentimento” per incoraggiare il paziente a esprimere la credenza su di sé, un pensiero quindi alla Beck. Interessante che il paziente non riporti un’emozione alla richiesta di descrivere un “sentimento”. Nel seguito del trattamento il terapeuta usa la credenza di Beck non per attuare un questioning cognitivo ma per condividere col paziente il razionale di un repertorio di interventi di vario tipo, che oscillano dal corporeo esperienziale al relazionale e perfino con qualche ristrutturazione cognitiva. Questa ecletticità del collega va anch’essa a merito -almeno in parte- della formulazione alla Beck, dimostrandone la compatibilità con interventi di vario tipo. In un altro testo dedicato alle tecniche cognitive specifiche approfondiremo definitivamente questo aspetto.

 

Suoni e vibrazioni fantasma: il ruolo della dipendenza da dispositivi mobili

Il fenomeno dei Phantom Phone Signals (Segnali Telefonici Fantasma) si caratterizza per la percezione di squilli, vibrazioni e/o stimoli visivi associati ad una chiamata o messaggio in arrivo dal telefono cellulare, in assenza di una notifica effettivamente presente (Tanis et al., 2015).

 

Secondo Deb (2015), questa esperienza viene avvertita tra il 27% e l’89% degli utenti di telefoni cellulari e, sebbene questo possa denotare l’esistenza di una vera e propria sindrome da vibrazione fantasma, non si tratta di una malattia o disturbo universalmente conosciuto (Rothberg et al., 2010).

I Phantom Phone Signals costituiscono delle allucinazioni, poiché la mente percepisce una sensazione in assenza di una base fisica (Rothberg et al., 2010). Si tratta di un rilevamento problematico di segnale, potenzialmente influenzabile da fattori personologici, quali condizione soggettiva fisiologica, contesto, aspettative ed esperienze precedenti (Tanner & Swets, 1954). Rothberg (2010) ha rilevato che tali percezioni venivano esperite frequentemente da personale medico giovane che aveva dispositivi (come cercapersone o cellulare) nelle tasche, e li utilizzava in modalità vibrazione.

Anche la presenza di tratti che rimandano al modello di personalità a cinque fattori (“Big Five”; McCrae et al., 2005) come l’estroversione, la coscienziosità e il nevroticismo/stabilità emotiva, correla al fenomeno dei Phantom Phone Signals.

Tra gli individui estroversi, fortemente desiderosi di creare e mantenere legami sociali, il supporto sociale erogato online costituisce un rischio di insorgenza dello sviluppo di una dipendenza da telefoni cellulari (Bianchi & Phillips, 2005; Hong et al., 2012), che potrebbe alimentare i fenomeni allucinatori.

Coloro con elevata coscienziosità, sono organizzati, affidabili, motivati al successo e mostrano autodisciplina, adottando un comportamento pianificato. Questi individui, per la loro tendenza all’automonitoraggio, sono meno inclini a sviluppare dipendenze (compresa quella da internet) (Kuss & Griffiths, 2011; Wilson et al., 2010) e sperimentano meno frequentemente i Phantom Phone Signals.

Il nevroticismo consiste nella tendenza a provare facilmente emozioni spiacevoli, come rabbia, ansia, depressione e vulnerabilità. Il suo opposto, ovvero la stabilità emotiva, comporta maggiore controllo degli impulsi e minore reattività, rendendo la personalità più stabile, calma e meno attivata.

Gli individui con elevati livelli di nevroticismo, non rispondono in modo adattivo nelle situazioni stressanti, e spesso interpretano aspetti di normalità in modo minaccioso. Tale caratteristica aumenta la probabilità di sperimentare Phantom Phone Signals.

Kruger & Djerf (2017) hanno ipotizzato che i fattori personologici implicati nelle esperienze telefoniche allucinatorie, siano riconducibili ad una componente di dipendenza psicologica da dispositivi mobili.

Il fenomeno della dipendenza costituisce una condizione patologica connotata da un impegno compulsivo in stimoli intrinsecamente gratificanti, nonostante le conseguenze avverse che possono comportare (Melenka et al., 2009). Gli stimoli che conferiscono piacere vengono rinforzanti, aumentando la probabilità di ricerca ripetuta dell’esperienza positiva e che diviene desiderabile (Melenka et al., 2009).

L’uso compulsivo o eccessivo del telefono cellulare, nonostante possa avere aspetti che rimandano alla dipendenza patologica, non è parte di un quadro diagnostico descritto dal Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-5), pertanto si configura come una mera dipendenza psicologica.

La dipendenza psicologica comporta anch’essa sintomi di astinenza, che si sviluppano con la cessazione dell’esposizione costante e frequente con lo stimolo (Melenka et al., 2009). Alla base della dipendenza da cellulare può esserci un bisogno relazionale di comunicazione (Drouin et al., 2012). Come riscontrato da Subba et al., 2013, soggetti potenzialmente dipendenti che utilizzavano il telefono in classe e nel momento del pasto riportavano maggiormente esperienze fantasma. Inoltre, chi controllava frequentemente i messaggi manifestava maggiore ansia quando non riceveva risposte immediate, oltre ad essere più infastidito dalle vibrazioni fantasma (Drouin et al., 2012).

Nello studio di Kruger & Djerf (2017), è stato ipotizzano che le esperienze di Phantom Phone Signals siano un sintomo di dipendenza psicologica dalle comunicazioni mediante telefono cellulare, e dalla conseguente ipersensibilità agli stimoli gratificanti, come quello delle notifiche telefoniche.

Gli individui che si mostrano psicologicamente dipendenti dalla comunicazione con il cellulare possono interpretare, con maggiore probabilità, sensazioni ambigue (sonore, tattili o visive), sotto forma di chiamate e messaggi in arrivo. Inoltre, i fattori di personologici che potrebbero aumentare la probabilità di esperire suoni fantasma, potrebbero interagire con i sintomi della dipendenza dal telefono cellulare.

Sono state valutate le cinque dimensioni della personalità (apertura, coscienziosità, estroversione, gradevolezza e stabilità emotiva/nevroticismo) in un campione di 766 studenti universitari, che hanno compilato il Ten Item Personality Inventory (TIPI; Gosling et al., 2003). In seguito è stata indagata la percezione di suoni o messaggi fantasma con item ad hoc, mentre la dipendenza da cellulare mediante la Mobile Phone Problem Use Scale (MPPUS; Bianchi & Phillips, 2005).

I risultati dell’indagine riconducono il fenomeno dei Phantom Phone Signals alla dipendenza psicologica dalle comunicazioni con cellulare. Infatti, queste allucinazioni, similmente alla dipendenza psicologica, denotano un’ipersensibilità e vengono elicitate da stimoli gratificanti (Olsen, 2011), in questo caso il telefono, oggetto del desiderio.

I sintomi riferiti dai soggetti e legati alla dipendenza includevano il rinforzo negativo (per cui l’uso del telefono cellulare darebbe sollievo dalle emozioni avverse), emotività negativa nel caso in cui l’uso del telefono veniva impedito e pensieri ossessivi nel momento in cui il dispositivo non veniva utilizzato.

Valutando le diverse modalità sensoriali di esperienza delle allucinazioni (uditive, tattili e visive), la vibrazione fantasma si è rivelata la più comune, sperimentata da tre quarti dei partecipanti.

Per quanto concerne le differenze personologiche, di genere ed età indagate, le donne, gli individui più giovani e quelli con minore coscienziosità e stabilità emotiva (cioè maggiore nevroticismo), manifestavano sintomi più elevati di dipendenza dal telefono cellulare.

In conclusione, le relazioni umane sono intrinsecamente subordinate e legate alla tecnologia, che assume una valenza sociale. Gli individui maggiormente dipendenti dalle comunicazioni tramite telefono cellulare sperimentano un’ipersensibilizzazione a stimoli provenienti dal dispositivo mobile, fino ad arrivare ad allucinare attivamente tali sensazioni. Ulteriori ricerche nell’ambito potrebbero aiutare a definire la dipendenza legata al dominio tecnologico.

 

Lavorare come Psicologo del Benessere. Tecniche Psicocorporee e Immaginative (2021) di Edoardo Ercoli e Laura Gigliodoro – Recensione

Lavorare come Psicologo del Benessere, Tecniche Psicocorporee e Immaginative, Edra Editore, è un ottimo libro di formazione.

 

È stato scritto a due mani da Edoardo Ercoli, Psicologo, formatore e consulente aziendale, Socio fondatore di Obiettivo Psicologia srl, e Laura Gigliodoro, Psicologa, formatrice e consulente aziendale, Docente e responsabile organizzativa della Scuola di Counseling Psicologico di Obiettivo Psicologia. I due autori hanno cercato di seguire un approccio pratico e concreto nella stesura di questo libro, creando una vera e propria guida fornendo indicazioni, spunti, riflessioni e strumenti utilizzabili da tutti quegli psicologi interessati a lavorare con tecniche legate alla dimensione corporea e immaginativa.

Partendo dallo sviluppo della consapevolezza, intesa come elemento fondante e necessario per poter agire cambiamenti intenzionali, le tecniche e gli esercizi presentati sono utilizzabili sia all’interno del lavoro individuale sia in quello di gruppo,

Ben schematizzato, si inizia parlando di setting ed in modo accurato si sviscera l’allestimento dell’ambiente di lavoro, i tempi e gli strumenti a disposizione (stimoli sonori, olfattivi, abbigliamento).

Si continua elencando le fasi delle pratiche psicocorporee e immaginative per arrivare quindi ad elencare e spiegare propriamente tecniche come:

  • Il rilassamento muscolare progressivo di Jacobson
  • Il sorriso intenzionale
  • Il rilassamento di Vogt
  • L’osservazione scannerizzata del corpo
  • La segmentazione interna

E quindi le esperienze immaginative con:

  • Il sogno guidato
  • La tecnica del cinema

La lettura del libro è scorrevole e i contenuti sono scritti in un modo davvero dettagliato, il libro non lascia dubbi e realizza il suo intento, ovvero creare nuove armi da fornire agli psicologi, per permettere di raggiungere ai propri clienti il benessere psicocorporeo.

 

Storia dell’ipnosi: James Braid e l’ipnosi nella gestione del dolore

La rubrica della dott.ssa Nicoletta Gava procede compiendo un altro passo attraverso il XIX secolo per parlarci di James Braid: chirurgo, ricercatore e filosofo scozzese nato nel 1795 e importante innovatore nel campo dell’ipnosi.

 

Si tratta di una figura fondamentale che consolidò le basi di applicazione medica della disciplina soprattutto nell’area della gestione del dolore. In un tempo in cui la chemioanestesia era ancora nella sua infanzia, la possibilità di portare sollievo a pazienti che avrebbero dovuto attraversare dolorose procedure chirurgiche apriva nuove possibilità di trattamento. Iniziò a praticare il mesmerismo in una fase già matura della sua carriera ma da tempo aveva espresso un’opinione critica rispetto alle ipotesi di Mesmer secondo le quali gli effetti sorprendenti di questo stato mentale fossero da attribuirsi ad un fluido magnetico.

Dopo aver assistito ad una dimostrazione di ipnosi da parte di Charles Lafontaine, decise di sperimentare le metodiche induttive su se stesso dando vita alle prime procedure formali di autoipnosi. Queste sperimentazioni gli permisero di capire che lo stato trance era di fatto generato dalla focalizzazione dell’attenzione su un oggetto esterno o mentale: un monoideismo si dirà in seguito.

In un tempo in cui l’ipnosi era ancora ammantata di un velo di misticismo, Braid decide di descriverla come un fenomeno psico-fisiologico spiegabile e replicabile e consoliderà la sua visione della disciplina nella sua opera più famosa Neurypnology, gettando così le basi che porteranno la tecnica ad assumere il suo nome moderno: ipnosi.

Vista la sua posizione demistificante e la notorietà che raggiungerà grazie alle sue scoperte, fu anche oggetto di critiche sia dal mondo scientifico che dal mondo religioso. In quanto cofondatore della Scuola di Nancy – una delle più importanti istituzioni dedicate allo studio dell’ipnosi – si trovò in diretta opposizione con la Scuola di Parigi e con il celebre Charcot. D’altra parte, alcuni rappresentanti del clero di allora, considerando i fenomeni ipnotici frutto della manifestazione di fantomatici poteri demoniaci, lo criticarono ferocemente.

Rimase interessato all’ipnosi per il resto della sua vita e nei suoi ultimi scritti ne auspicava la diffusione come strumento terapeutico da associare ai trattamenti medici.

 

STORIA DELL’IPNOSI: JAMES BRAID – GUARDA IL VIDEO:

L’autorivelazione (self-disclosure) come strumento di lavoro del professionista sanitario

L’autorivelazione può essere uno strumento efficace nelle mani del sanitario per abbattere le difese dietro le quali spesso i pazienti si barricano nella convinzione che nessuno possa davvero comprendere il loro stato d’animo.

 

L’autorivelazione, più comunemente conosciuta come self-disclosure, è una tecnica attraverso la quale il medico o il professionista che opera nell’ambito delle professioni d’aiuto rivela, in modo cosciente e intenzionale, una propria esperienza personale al paziente.

Tale intervento, per essere efficace e utile, deve rispondere ad alcuni criteri:

  • l’esperienza che il sanitario propone deve essere simile o uguale (nei fatti e sul piano delle emozioni che evoca) a quella vissuta dal paziente, per dare vita ad una relazione autenticamente empatica;
  • l’autorivelazione può essere utilizzata esclusivamente in una fase in cui la relazione d’aiuto ha raggiunto un’intensità emozionale elevata e mai quindi all’inizio di un colloquio;
  • è importante che essa sia una scelta deliberata e consapevole del professionista (Ardis, Marcucci, 2013).

L’utilizzo dell’autorivelazione, come intervento clinico e terapeutico, deve essere guidato, – oltre che dalle indicazioni di carattere tecnico – dal “sentire” del professionista che diventa la bussola principale per muoversi in questa particolare dinamica. In questo mare di intrecci relazionali e comunicativi, risulta fondamentale la valutazione del bisogno del paziente che si ha difronte. È davvero un suo bisogno quello di creare quella profonda sintonizzazione emotiva con il clinico che consegue all’intervento dell’autorivelazione? Oppure, il bisogno di esprimere e condividere un’esperienza personale è piuttosto un bisogno del professionista?

Vediamo di seguito quali sono le condizioni in cui tale intervento può risultare più o meno valido ed efficace.

Autorivelazione: condizioni di rischio

Processi come quello dell’autorivelazione possono essere utilizzati in modo inconsapevole dal curante per rispondere al proprio bisogno di condivisione, di rassicurazione, o per rendere più facile e immediato l’accesso al mondo del paziente. Infatti, lo svelare elementi della propria storia personale, nella maggior parte dei casi, predispone immediatamente l’altro (il paziente nel caso specifico) al dialogo e all’apertura conducendolo in modo speculare allo svelamento di sé. In tali condizioni, è evidente che l’intervento dell’autorivelazione non risulta essere tanto un bisogno del paziente quanto piuttosto del professionista, che può così condividere un’esperienza dolorosa e “utilizzarla” come catalizzatore della relazione con l’individuo malato senza però valutare gli effetti e le conseguenze su quest’ultimo. Ad esempio, ci si deve chiedere se e quanto chi si ha difronte sia in grado di “reggere” la sofferenza trasmessa dal racconto che gli viene offerto oltre a quella personale che già sta sperimentando. In caso contrario, la rivelazione dell’esperienza del medico/sanitario risulterà un peso ulteriore ed eccessivo che renderà, all’opposto di quanto previsto, la relazione densa di significati spiacevoli per il paziente. Infine, è importante valutare se l’abbattimento dei confini personali, insito nell’intervento dell’autorivelazione, possa essere o meno utile all’individuo che stiamo trattando e non rischi piuttosto di togliere credibilità al professionista che si sarà reso così emotivamente vulnerabile. Come sappiamo, infatti, determinati tipi di pazienti, in base a precise caratteristiche di personalità, hanno bisogno – per potersi affidare a lui – di percepire il professionista come solido e forte in grado di accogliere e contenere le proprie angosce.

Condizioni favorevoli

Escluse condizioni come quelle appena descritte, l’autorivelazione può essere uno strumento efficace nelle mani del sanitario per abbattere le difese dietro le quali spesso i pazienti si barricano nella convinzione che nessuno possa davvero comprendere il loro stato d’animo. Il racconto, da parte del professionista, di un’esperienza simile o uguale a quella del paziente, fa sentire quest’ultimo sicuramente maggiormente compreso ma altresì gli consente di esprimere dubbi e paure nella convinzione che chi ascolta possa davvero offrirgli indicazioni e consigli utili alla sua situazione. In tal caso, l’autorivelazione può migliorare il rapporto terapeutico, consentendo un’esclusiva sintonizzazione emotiva, e favorire la compliance terapeutica. Come spesso si osserva nelle professioni d’aiuto, infatti, nelle situazioni in cui risulta difficile istaurare una relazione improntata sulla fiducia, il paziente mette in atto resistenze e comportamenti che vanno contro la buona riuscita dell’intervento (del medico, del fisioterapista o di qualunque altra figura in ambito sanitario). L’instaurarsi di una relazione positiva può aumentare l’aderenza ai trattamenti migliorando a sua volta la percezione che si ha delle cure ricevute. Alcuni pazienti, quindi, possono beneficiare di un intervento come l’autorivelazione poiché consente loro di percepire il sanitario come una figura più “umana” e quindi maggiormente in grado di aiutarlo.

Un’esperienza tratta da un caso di supervisione

Una fisioterapista di un Centro Clinico di Senologia, che nel rispetto della privacy chiameremo Rosa, partecipa ad un incontro di supervisione clinica portando come oggetto di discussione le sue difficoltà nella gestione del legame affettivo che lei stessa tende a creare con le pazienti affette da cancro al seno che afferiscono al suo ambulatorio. Rosa racconta di instaurare con le pazienti un particolare legame confidenziale che a suo parere le aiuta a fidarsi, facilita la presa in carico e migliora il loro stato emotivo nei confronti della malattia. In questa dinamica relazionale si inserisce la condivisione da parte di Rosa di una sua esperienza personale, ovvero una malattia simile vissuta dalla sorella, poi deceduta. Il racconto di questa esperienza, secondo Rosa, fa in modo che le pazienti si sentano comprese e abbassino le difese con ripercussioni positive sul percorso di riabilitazione. Tuttavia, il carico emotivo che la natura di questi rapporti implica è diventato insostenibile per Rosa soprattutto in questo momento di vita in cui allo stress del lavoro si sommano problemi di natura strettamente personale. Affrontiamo quindi insieme le possibili motivazioni che la spingono a ricercare attivamente questo tipo di dinamica, portando se stessa al limite delle energie psichiche e talvolta sottoponendosi a situazioni troppo pesanti (come, ad esempio, telefonate al di fuori dell’orario di lavoro o richieste che esulano dalle sue competenze professionali) pur di gratificare il bisogno delle pazienti. Ma qual è la funzione o, in altre parole, il “vantaggio secondario” di questo atteggiamento per Rosa? Quale bisogno viene davvero soddisfatto? Dai suoi racconti emergono vissuti di un lutto ancora difficile da risolvere, vissuti di impotenza, originariamente sperimentati nei confronti della sorella, che ora si riattivano e cercano una risoluzione nei suoi tentativi di “salvare” a tutti i costi le sue pazienti o quantomeno alleviare la loro sofferenza emotiva attraverso la condivisione dei suoi racconti. Rosa sente di “non aver fatto abbastanza” per la sorella e questo vissuto del passato, che ritorna nel qui e ora, la spinge alla ricerca inesorabile di una cura per la sua sofferenza. Parlare infatti, non è solo “dire” ma è anche “fare” poiché qualsiasi cosa venga “detta”, essa è sempre anche qualcosa che viene “fatta” a qualcuno (Ponsi, 1994). Nel suo curare l’altro Rosa cura sé stessa; ogni qualvolta rivive nel suo racconto la morte della sorella, percorre un piccolo passo nell’elaborazione di quel dolore inafferrabile. Allo stesso tempo, dunque, con la rivelazione di sé, cura e si lascia curare.

In seguito a quanto descritto nei primi paragrafi di questo articolo, viene spontaneo riflettere sulla reale utilità dell’intervento di Rosa. Probabilmente questa valutazione non è da farsi sul beneficio immediato che il paziente può trarre da una tale esperienza di condivisione ma, piuttosto, è necessario avviare una riflessione in termini simbolici per comprendere il significato che può assumere nel tempo e nello specifico contesto in cui si opera. Tuttavia, nonostante le implicazioni più o meno positive che conseguono ad un eccessivo coinvolgimento del professionista sanitario, siamo anche consapevoli che la sua soggettività entra in gioco inevitabilmente nella relazione con il paziente. In questo caso si tratta di una rivelazione di sé non intenzionale, e talvolta inconsapevole, che deve essere messa in conto come parte essenziale del processo terapeutico.

La self-disclosure nelle professioni psicologiche

Un discorso a parte è quello che riguarda le professioni di carattere psicologico come la psicoterapia o la psicoanalisi. In questo ambito il tema dell’autorivelazione si lega ai temi del transfert e controtransfert che occupano da sempre il dibattito tra i professionisti. Nel tempo il panorama su questi temi si è notevolmente esteso a partire dai principi di derivazione freudiana sulla neutralità del terapeuta, per includere una prospettiva intersoggettiva che ha preso sempre più in considerazione la sua soggettività. Già il tema del controtransfert aveva aperto la strada all’idea che la personalità del terapeuta fosse un elemento ineliminabile all’interno del setting terapeutico e che, talvolta, essa si esprimesse attraverso agiti inconsapevoli messi in atto in risposta al transfert del paziente (Tricoli, 2001). Si potrebbe dire che “in un’ottica relazionale è molto semplice sostenere che analista e paziente sono alla pari come soggetti che si incontrano nel rapporto analitico, ma non lo sono in relazione al ruolo che svolgono” (Tricoli, 2001, pg 6).

In ambito psicoanalitico la self-disclosure ha assunto nel tempo diversi significati indicando in linea generale una moltitudine di comportamenti auto-rivelatori dell’analista. Con l’avvento dell’approccio relazionale si è iniziato a distinguere la self-revelation (Levenson, 1996), ovvero l’inevitabile e non intenzionale svelamento del terapeuta attraverso i suoi comportamenti, il suo aspetto o l’aspetto dello studio, dalla self-disclosure che è invece la scelta consapevole di comunicare al paziente informazioni di natura personale. Tuttavia, nel processo psicoterapeutico, la self-disclosure riguarda l’esperienza interiore dell’analista (piuttosto che informazioni di carattere strettamente personale) suscitata dalle modalità relazionali messe in atto dal paziente affinché egli stesso raggiunga una maggiore consapevolezza.

 

Beck tra ricerca clinica e politica – 100 anni di Aaron T. Beck – Parte 5

Il racconto di come Beck fece diventare la sua terapia un trattamento efficace, finanziato dal governo e dalle assicurazioni.

 

La fortuna di Beck esplose anche grazie alla parallela ascesa della Evidence-Based Medicine (EBM) (Smith & Rennie, 2014). L’EBM, proprio come il DSM e il protocollo di Beck furono la risposta adatta alle richieste di verificabilità clinica fatte dal sistema di assicurazioni sanitarie promosso dall’amministrazione Carter alla fine degli anni ’70. Anche la psicoterapia doveva allinearsi con i nuovi standard nazionali per la ricerca medica e farmacologica. I trial randomizzati diventarono il metodo di scelta privilegiata di conferma dell’efficacia.

Beck comprese l’importanza della svolta di Carter e si inserì in quella direzione, capendo che poteva farsi finanziare a livello federale. Non fu però l’unico. Con lui c’era Klerman, un altro psichiatra interessato alla psicoterapia della depressione e che visitò la clinica di Beck all’inizio del 1975 e fu colpito da come Beck includesse nel manuale le trascrizioni delle interazioni tra paziente e terapeuta. Per questo decise di sviluppare insieme a Myrna Weissman un manuale simile a quello di Beck ma maggiormente ispirato alla teoria delle relazioni interpersonali di Harry Stack Sullivan e focalizzato sui pensieri consapevoli nel qui-e-ora, come quello di Beck. Klerman chiamò il suo approccio Terapia Interpersonale. Beck, Rush e Kovacs ricambiarono la visita a Klerman e lo aiutarono a sviluppare il suo manuale.

L’alleanza di Beck con Klerman si rivelò politicamente decisiva, perché Klerman era stato nominato da Carter amministratore della Alcohol, Drug Abuse and Mental Health Administration e inoltre aveva incontrato Parloff e Waskow, due esponenti del National Institute of Mental Health (NIMH) incaricati, per decisione del presidente Carter e del Congresso, a finanziare studi di efficacia della psicoterapia. In questo modo Klerman diventò in grado di prendere decisioni politiche federali sulla salute mentale. Klerman incontrò Parloff e Waskow al NIMH nel luglio 1976 e riferì a Beck che era tempo di discutere l’uso di scale di valutazione comuni, criteri comuni per la selezione dei pazienti, condivisione dei dati, e altre questioni metodologiche. È interessante notare che gli incontri avvennero durante congressi di psicologia e ricerca in psicoterapia: il convegno annuale dell’American Psychological Association del 1976 e quello della SPR del 1977 (Rosner, 2018; Smith & Rennie, 2014). In questo modo Klerman ottenne di organizzare un trial randomizzato multicentrico finanziato con 1,3 milioni di dollari e noto come il programma di ricerca collaborativa per il trattamento della depressione (TDCRP). il TDCRP confrontava la terapia cognitiva di Beck, la terapia interpersonale di Klerman, un trattamento farmacologico anti-depressivo e una condizione di controllo. I terapisti avrebbero standardizzato i trattamenti usando i manuali di Beck e Klerman.

Lo studio ebbe luogo e confermò l’efficacia sia del modello di Beck che di quello di Klerman. E tuttavia, il modello di Beck si diffuse nella pratica clinica reale molto di più di quello di Klerman. Perché? La risposta sta nella tempestività sia della pubblicazione dei rispettivi manuali che nella disponibilità a fornire formazione ai clinici. Infatti, Beck si dimostrò infaticabile nel perseguire una pubblicazione rapida del suo manuale. Dopo averlo revisionato per 5 anni con i suoi studenti specializzandi, Beck impresse una accelerazione, negoziò un buon accordo editoriale con Guilford e pubblicò il manuale nel 1979, prima ancora che lo studio di efficacia con Klerman partisse. Al contrario, il manuale di Klerman e Weissman uscì solo nel 1984 (Klerman, Weissman, Rounsaville, & Chevron, 1984), solo un anno prima che apparisse il secondo manuale di Beck, questa volta sull’ansia (Beck & Emery, 1985). Nello stesso 1984 uscirono altri due manuali di psicoterapia, di Hans Strupp e Lester Luborsky (Luborsky, 1984; Strupp & Binder, 1984). È chiaro che l’ascesa dei protocolli di psicoterapia manualizzata fu un processo tanto politico quanto clinico o scientifico.

Non è un caso che anni dopo David Clark, il collaboratore di Beck nel Regno Unito, fosse in grado di effettuare un’operazione simile a quella di Beck e ancor più in grande stile, facendo adottare il protocollo cognitivo per l’ansia all’intero sistema sanitario anglo-sassone, stabilendo il programma ‘Improving Access to Psychological Therapies’ (IAPT) (Layard e Clark, 2015).

Insomma, Beck aveva capito che con Klerman si era ben posizionato per raccogliere vantaggi sia economici che politici. I manuali di Strupp e Luborsky erano i prodotti di questo stesso movimento scientifico e politico, della stessa rivoluzione nella ricerca in psicoterapia (Luborsky e DeRubeis, 1984). Tutti beneficiarono dei finanziamenti di Parloff e Waskow, ma Beck aveva capito che il tempo era una moneta altrettanto importante dei finanziamenti e aveva battuto tutti. Battuti dove? Sul tempo.

 

L’impatto psicologico e comportamentale della pandemia sui bambini

Bambini e Covid-19: l’avvento del Covid-19 e le sue inevitabili conseguenze hanno messo a dura prova il benessere psicologico della popolazione. L’IRCCS Gaslini si propone di indagare le ripercussioni della pandemia sui bambini e le loro famiglie. 

 

La pandemia e le misure necessarie per il suo contenimento hanno imposto numerosi cambiamenti in molti ambiti della vita quotidiana: lavorativo, familiare, sociale, scolastico e relazionale. Queste trasformazioni hanno causato molteplici ripercussioni, anche dal punto di vista psicologico.

Nonostante i bambini sembrassero meno vulnerabili agli effetti sistemici del virus, il loro benessere psicologico ed emotivo è stato intaccato quanto quello degli adulti. La chiusura di asili, scuole e servizi sociali, l’allontanamento da figure di riferimento come i nonni e gli amici e il confinamento all’interno delle mura domestiche hanno modificato la qualità della vita e gli equilibri di tutta la famiglia (Uccella et al., 2020).

L’IRCCS Gaslini si è mobilitato fin dalle prime fasi dell’emergenza sanitaria per sostenere le famiglie e, in collaborazione con l’Università di Genova, indagare l’impatto psicologico del fenomeno, con particolare attenzione ai bambini affetti da patologie croniche. Lo studio è stato portato avanti tramite l’utilizzo di un questionario online; quest’ultimo è stato costruito ad hoc per raccogliere i dati necessari alla valutazione e al monitoraggio di eventuali ripercussioni comportamentali e psicologiche della pandemia Covid19/Sars2 sui bambini e le loro famiglie. Il progetto sembra essere stato ben accolto dalla popolazione, infatti è stato compilato da 6800 soggetti in tutta Italia, di cui 3251 con figli di età inferiore ai 18 anni (Uccella et al., 2020).

I risultati dell’indagine scientifica hanno evidenziato come il 65% dei bambini di età inferiore ai 6 anni e il 71% di quelli di età compresa tra i 6 e i 18 anni abbiano manifestato problematiche comportamentali e sintomi di regressione. I disagi più frequentemente mostrati dal primo gruppo (0-6 anni) sono stati:

Il secondo gruppo (6-18 anni), invece, ha manifestato più spesso problematiche quali:

Per quanto riguarda, invece, la componente comportamentale, si è riscontrata una gravità crescente in corrispondenza del grado di malessere dei genitori. Inoltre, i dati mostrano come all’aumentare delle manifestazioni di disagio genitoriale legate alla situazione pandemica, corrisponda un aumento dei disturbi comportamentali ed emotivi nei figli (Uccella et al., 2020).

Alla luce di questi dati, l’Istituto Giannina Gaslini ha progettato e realizzato l’Ambulatorio Post-Emergenza, un programma studiato per il sostegno e il monitoraggio delle condizioni dei più piccoli e del loro contesto familiare. Il programma, destinato a giovani dai 2 ai 18 anni, comprende colloqui in presenza o a distanza e varie attività di sostegno. L’Ambulatorio Post-Emergenza si avvale del lavoro di un’équipe miltidisciplinare e si propone come un servizio facilmente accessibile ed economicamente sostenibile, volto ad aumentare il benessere psicosociale. L’ambulatorio ha lo scopo di valutare e diagnosticare precocemente situazioni di disagio acute e post-acute, in modo da poter progettare interventi tempestivi (Uccella et al., 2020).

 

Il possibile ruolo del Disturbo da Comportamento Sessuale Compulsivo nella sessualità promiscua di individui con Disturbo Borderline di Personalità

Il Disturbo Borderline di personalità (DPB) è caratterizzato da una sintomatologia che intacca la personalità in modo pervasivo e interessa quindi molti aspetti del funzionamento dell’individuo.

 

Per questo motivo, sono frequenti disturbi dell’asse I in comorbidità e quindi non strutturali, ma potenzialmente temporanei, come disturbi alimentari o abuso di sostanze, ad esempio. Il DPB è contraddistinto da “un pattern di instabilità delle relazioni interpersonali, dell’immagine di sé e dell’umore e una marcata impulsività” (APA, 2013). Il Disturbo Borderline di personalità presenta un tratto di impulsività che rappresenta una sorta di ricerca di eccitazione attraverso azioni pericolose o illecite che possono spaziare tra l’uso di sostanze stupefacenti, attività sessuale promiscua e simili, al fine quindi di sopperire alla sensazione di vuoto tipica del disturbo. Per quanto riguarda la sessualità, i soggetti con Disturbo Borderline di personalità sembrerebbero avere più partner sessuali rispetto a un gruppo di controllo (Sansone, Lam, & Wiederman, 2011), soprattutto occasionali (Tull, Gratz, & Weiss, 2011). Per quanto riguarda la sintomatologia sessuale vi è tendenzialmente un’iperattivazione la cui natura fa pensare ai sintomi del Disturbo da Comportamento Sessuale Compulsivo (Compulsive Sexual Behaviour, CSB). Alla luce di questa somiglianza, è apparso interessante approfondire l’eventuale relazione esistente tra CSB e DPB.

L’organizzazione mondiale della sanità ha inserito il disturbo da comportamento sessuale compulsivo nell’undicesima revisione della Classificazione Internazionale delle Malattie, definendolo come “un pattern di fallimenti nel controllo di impulsi sessuali intensi e ripetuti risultando in ripetuti comportamenti sessuali, in un periodo di almeno sei mesi, che causano una disfunzione in aree importanti come vita sociale, famiglia, educazione e occupazione” (Kraus, Kreuger, Briken, First, Stein, Kaplan & Reed, 2018). È inoltre necessario sottolineare che il disturbo non presenta necessariamente un carattere parafiliaco, come si deduce dalla descrizione di questo, infatti, i comportamenti emessi non sono problematici in termini di qualità ma di quantità e quindi pervasività (Fong, 2006). Il CSB sembra essere diffuso perlopiù nella popolazione maschile e coloro che lo presentano sono coinvolti nel comportamento sessuale rendendolo il centro della loro esistenza, fino a trascurare ogni aspetto della vita personale includendo salute e interessi, per via della totale immersione in fantasie sessuali, autoerotismo, attività sessuale virtuale e\o frenare gli impulsi anche in termini di riduzione comportamentale; l’attività sessuale compulsiva continua a manifestarsi senza alcun controllo da parte del soggetto, pur implicando difficoltà significative dal punto di vista di stabilità nelle relazioni sentimentali, occupazione, salute.

Un tratto peculiare è rappresentato dal ripetersi del comportamento sessuale a prescindere dal piacere che ne consegue; in altre parole, la soddisfazione sessuale non costituisce una condizione necessaria al verificarsi di questo fenomeno, ne risulta che il desiderio sessuale non sia motivato né finalizzato al raggiungimento dell’orgasmo (Kraus et al., 2018). Nel Disturbo da Comportamento Sessuale Compulsivo, la sessualità costituisce una sorta di strategia di evitamento che permette di distogliere l’attenzione da uno stato di malessere. Si innesca quindi una ricerca di sensazioni eccitanti per mezzo di “fantasie, visione di pornografia e attività sessuale” (Efrati & Gola, 2019). La motivazione all’atto non è quindi la soddisfazione sessuale in sé, come anticipato, bensì la volontà di non provare sensazioni negative, almeno per un momento, sostituendole con sensazioni sessuali.

La medesima ricerca di nuove sensazioni è un tratto caratteristico del Disturbo Borderline di Personalità. I due disturbi condividono un ulteriore tratto caratteristico, nonché l’assenza del controllo degli impulsi (Lloyd, Raymond, Miner & Coleman, 2007). Le sopracitate somiglianze fanno pensare che potrebbe esserci una relazione tra il Disturbo Borderline di Personalità e il Disturbo da Comportamento Sessuale Compulsivo. A questo proposito, in uno studio il cui obbiettivo era quello di indagare le comorbilità tra DBP e Disturbo da Comportamento Sessuale Compulsivo comparando un campione clinico ad uno di controllo, il Disturbo Borderline di Personalità era significativamente più presente nel campione clinico (Ballester-Arnal, J Castro-Calvo, Giménez-García, Gil-Juliá & Gil-Llario, 2020).

Jardin e colleghi (2017), con l’obbiettivo di osservare se la sessualità compulsiva fosse il motivo dell’alto numero di partner sessuali in soggetti con Disturbo Borderline di Personalità, hanno riscontrato un effetto indiretto sui partner sessuali per via della sessualità compulsiva, confermando l’ipotetica presenza di una relazione tra i due disturbi. Infine, è stato dimostrato che la sintomatologia borderline e la sessualità compulsiva sembrerebbero essere significativamente associate (Elmquist, Shorey, Anderson & Stuart, 2016).

In base all’analisi della letteratura sopra riportata, emerge che i meccanismi che sembrano alimentare l’attività sessuale promiscua nel Disturbo Borderline di personalità sono, come anticipato, l’impulsività e la necessità di evitare sensazioni negative. La natura dei tratti sopracitati si manifesta anche nel Disturbo da Comportamento Sessuale Compulsivo e ciò ha motivato i ricercatori ad indagare la relazione tra i due disturbi, al fine di comprendere se il sintomo della sessualità promiscua nel Disturbo Borderline di Personalità potesse essere spiegato dalla presenza della compulsione sessuale non finalizzata alla soddisfazione sessuale bensì alla ricerca di un distanziamento da sentimenti di vuoto. Gli studi ad oggi sembrano confermare l’ipotesi che vi sia una relazione tra il Disturbo da Comportamento Sessuale Compulsivo e la sintomatologia sessuale del Disturbo Borderline di Personalità, sia in termini di comorbilità che di causalità.

 


 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

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L’effetto IKEA nel mangiar sano

Basandosi sull’effetto IKEA lo studio del team di Radtke ipotizza che coinvolgere i bambini nella pianificazione e preparazione dei pasti sia positivamente correlato all’assunzione di verdure.

 

Frutta e verdura sono una parte essenziale di una dieta equilibrata. L’assunzione di frutta e verdura, infatti, può proteggere da moltissime malattie e fornire energia (Knai et al., 2006). Le attuali raccomandazioni per un livello ottimale di assunzione tale da ridurre il rischio di contrarre malattie non trasmissibili vanno da un minimo di 400 g al giorno a 800 g al giorno (Aune et al., 2017). Sono state studiate numerose determinanti del consumo di verdura da parte dei bambini (DeCosta et al., 2017), ed è stato scoperto che le femmine assumono più verdura rispetto ai maschi (Brug et al., 2008) e che i bambini più grandi mangiano meno verdura rispetto ai bambini più piccoli (Caton et al., 2014). In Europa l’assunzione di prodotti ortofrutticoli da parte dei giovani è notevolmente diminuita negli ultimi anni (Mazur, 2015), ma è possibile intervenire in molti per modificare tali abitudini. I fattori ambientali che determinano una corretta assunzione di vegetali includono attività culinarie (Allirot, et al. 2016), elevata disponibilità e accessibilità di frutta e verdura (Neumark-Sztainer et al., 2003), incoraggiamento e modellamento da parte dei genitori (Kristjansdottir et al., 2006). In particolare, le attività di culinarie svolte con i caregiver sembrano avere un’influenza positiva sull’assunzione di verdura da parte dei più piccoli. Questa sembra essere una modalità molto favorevole piuttosto che l’adozione di rigide strategie di controllo parentale per la modifica del comportamento alimentare, rivelatesi controproducenti (DeCosta et al., 2017).

Basandosi sull’effetto IKEA, che sostiene che le cose create da sé stessi piacciano di più rispetto a quelle create da qualcun altro, lo studio del team di Radtke ipotizza che coinvolgere i bambini nella pianificazione e preparazione dei pasti sia positivamente correlato all’assunzione di verdure, e quindi al gradimento di queste ultime. Nella sperimentazione, novecentoventiquattro diadi genitore-figlio hanno compilato questionari che misuravano il coinvolgimento, il gradimento e l’assunzione di verdure, e ulteriori determinanti ambientali e alimentari.

In questo studio, sono stati riscontrati due effetti diretti:

  • il coinvolgimento dei propri figli nelle attività di cucina ha influito sul gradimento e sull’assunzione di verdure;
  • il tasso di gradimento di cibi con verdure ha influito sul consumo delle stesse. Nei bambini, il coinvolgimento nell’assunzione di verdure è stato mediato dal gradimento.

Come previsto dall’effetto IKEA, il coinvolgimento dei figli nella preparazione dei pasti era quindi significativamente associato al gradimento di pomodori, carote e cetrioli, che a sua volta era correlato all’assunzione di verdure nei bambini. Inoltre, in base ai risultati dello studio, sembra che i genitori consumino verdure principalmente perché vogliono rappresentare buoni modelli di comportamento, piuttosto che per soddisfare le proprie preferenze personali. Ciò è in linea con i risultati di uno studio che mostra come la transizione alla genitorialità tra le donne sia correlata a un aumento dell’assunzione di verdure, che potrebbe essere collegato agli sforzi per modellare un’alimentazione sana (Hartmann, Dohle e Siegrist, 2014).

Impartire istruzioni rigorose ai bambini su come preparare il cibo, piuttosto che lasciarli liberi di agire come vogliono, potrebbe ridurre il divertimento del cucinare in compagnia, e quindi minare l’effetto IKEA. Le attività di cucina con i genitori dovrebbero essere flessibili e creare più opportunità di degustazione o divertimento.

Rispettando tali condizioni, incoraggiare i bambini nella preparazione di pasti sani può migliorare il gradimento di cibi a base di verdure e, di conseguenza, aumentarne il consumo. È possibile pensare che tali risultati potrebbero essere generalizzabili anche agli adulti, in quanto il prepararsi cibi sani autonomamente potrebbe portare ad un maggior gradimento di tali pietanze, confermando la massiccia incidenza dell’effetto IKEA.

 

La cura del paziente con Disturbo Bipolare e della sua famiglia durante la pandemia da Covid-19

Comunicato Stampa

Al via il Progetto annuale promosso dalla Cooperativa Sociale A.p.e.rtamente e finanziato con il contributo della Fondazione di Sardegna

 

Ha preso avvio il progetto “La cura del paziente con Disturbo Bipolare e della sua famiglia durante la pandemia da Covid-19”, promosso dalla Cooperativa Sociale A.p.e.rtamente di Quartu Sant’Elena in partenariato con il Centro Lucio Bini di Cagliari, il Centro Lucio Bini- Aretaeus di Roma, il Comune di Quartu Sant’Elena, l’ Ordine degli Psicologi della Sardegna, la Regione Autonoma della Sardegna, Gsd Ferrini Basket di Quartu Sant’Elena, A.S.C.U. Associazione Soluzioni Cittadini Utenti APS, AISTED – Associazione Italiana per lo Studio del Trauma e della Dissociazione, l’Hospital Clinic i Provincial de Barcelona e l’International Bipolar Foundation. L’iniziativa, gratuita per tutti i destinatari coinvolti, è stata finanziata dalla Fondazione di Sardegna nell’ambito del Bando annuale 2021, sezione “Volontariato, Filantropia e Beneficienza”.

Il progetto promuove diverse azioni di sensibilizzazione e supporto psicosociale con finalità informativa e preventiva rivolte ai pazienti con Disturbo Bipolare e alle loro famiglie/caregivers, nonché a tutta la popolazione sarda che, a vario titolo, può trarre beneficio dalle azioni progettuali.

Dal mese di Settembre 2021 saranno quindi avviati i seguenti servizi:

  • 1) Percorso di psico-educazione di gruppo, rivolto a un gruppo di pazienti con Disturbo bipolare e ai loro caregiver, condotto dalle psicologhe-psicoterapeute Emma Fadda e Caterina Visioli e dal Prof. Leonardo Tondo, Medico-Psichiatra, dell’équipe del Centro Lucio Bini.
  • 2) Percorso laboratoriale di gruppo di natura creativa ed espressiva, rivolto ai pazienti attivamente coinvolti nel percorso di psico-educazione di gruppo. Le attività saranno condotte da personale specializzato della Cooperativa A.P.E.rtamente.
  • 3) Seminari tematici rivolti all’intera popolazione, con finalità di informazione e prevenzione sul tema del Disturbo Bipolare. I seminari saranno condotti da psicologi, psicoterapeuti, medici psichiatri dell’équipe del Centro Lucio Bini e da operatori della Cooperativa A.P.E.rtamente.
  • 4) Sportello di ascolto e consulenza rivolto a tutta la popolazione, con finalità informative, di prevenzione, promozione del benessere e di ascolto, con particolare riferimento al Disturbo bipolare.

Tutte le attività sono gratuite e saranno svolte in modalità a distanza.

Per ricevere maggiori informazioni sul progetto e sulle attività e per accedere allo sportello di consulenza è possibile contattare i professionisti all’indirizzo mail: [email protected].

 

Per maggiori informazioni >> Scarica la brochure del progetto

Il corpo ci parla.. ma noi lo ascoltiamo? – Video dell’evento online di CIP Modena

L’incontro online Il corpo ci parla.. ma noi lo ascoltiamo? ha approfondito l’utilizzo delle tecniche di Training Autogeno.

 

In questa epoca di crescente malessere emotivo ed esistenziale sono sempre più frequenti i sintomi di tipo psico-emozionale (es. ansia, depressione, discontrollo emotivo, apatia, ecc,) ma anche sintomi corporei (es. cefalea, tensione muscolare, mal di schiena, gastrite, colon irritabile, insonnia, disfunzioni sessuali, ecc.). Anzi spesso i sintomi corporei sono gli unici segnali, e manca la consapevolezza di un collegamento con aspetti emozionali e cognitivi. In questi casi è necessario un approccio integrato in cui venga data una particolare attenzione ai segnali del corpo, ad ascoltare, decodificare e capire il suo linguaggio.

Le tecniche del Training Autogeno, anche per la relativa facilità di apprendimento, aprono prospettive particolarmente interessanti al riguardo, con possibilità di percorsi psicoterapici ed esperienziali arricchiti e personalizzati.

Per questo CIP Modena ha organizzato un incontro informativo sulla tematica, condotto dal Dr. Andrea Lisotti.

 

IL CORPO CI PARLA.. MA NOI LO ASCOLTIAMO?

Guarda il video integrale del webinar:

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In cosa consiste l’emozionarsi? Il concetto di corpo in relazione con l’altro

Sono diverse le strutture ed i circuiti neuronali che si attivano con l’emozionarsi soggettivo.

 

Chi non ha sentito parlare della storia di Adamo ed Eva? Vivevano nel giardino dell’Eden felici e spensierati, in armonia con il resto del creato. Finché tentati dal serpente si cibarono del frutto della conoscenza: “Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si videro nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture” (Genesi 3,7), da quel momento ci fu uno iato tra l’essere umano ed il resto del mondo vivente e nulla fu più come prima. Guardando se stessi da un altro punto di vista, acquisirono la consapevolezza. Ciascuno di noi può fare un’esperienza diretta del proprio corpo, può sentirlo, ma può anche vederlo dall’esterno in qualità di oggetto della propria osservazione, prendendo le distanze dall’esperienza personale come quando ci si guarda allo specchio.

Inoltre, si può essere consapevoli di un particolare stato emotivo ed integrarlo da una prospettiva esterna, come oggetto tra gli oggetti, cogliendo così caratteristiche e punti di vista differenti.

Quindi, in sostanza, cosa significa essere consapevoli?

A questa domanda rispondiamo con il dire che la consapevolezza rappresenta il fondamento delle possibilità di discernimento della specie umana, qualcosa che si realizza nel vivere quotidiano e che consente di regolare le proprie emozioni; un esempio pratico può essere la capacità di fare un respiro e tenersi sotto controllo, piuttosto che utilizzare la violenza, quando ci si trova in una situazione che provoca rabbia.

Il senso di noi stessi, in quanto esseri dotati di un corpo, fa leva sulle capacità di integrazione sensoriale del nostro cervello ed è necessario per l’elaborazione del proprio vissuto.

A tal proposito, la neurofenomenologia considera la mente umana come un flusso di esperienza che ha luogo dall’interazione circolare tra corpo, cervello e mondo.

In linea con quanto detto, non è possibile pensare alla mente in modo slegato dal corpo in cui abita e che agisce nel mondo. La mente è sempre incarnata, ragion per cui percepiamo il nostro corpo mentre compiamo un’azione, ciò avviene poiché abbiamo un senso implicito dello spazio in cui ci troviamo.

Tuttavia l’esperienza che facciamo presso le cose non avviene mai in modo neutro ma secondo una certa tonalità emotiva. In essa ci si trova, non la si decide poiché prescinde dalla nostra volontà cosciente e rappresenta un modo di essere, una colorazione d’insieme dell’esistenza umana.

Ad esempio possiamo percepire una lieve ansietà nell’esistere quotidiano, oppure un senso di soddisfazione, ci si può sentire tesi, rilassati, sereni, giù di morale, queste sono tutte sensazioni che agiscono a livello preriflessivo, a prescindere dalla nostra volontà cosciente.

Tuttavia, ciò che percepiamo influenza fortemente il nostro modo di agire e quindi le nostre modalità di stare al mondo. Non è possibile fare esperienza facendo a meno di un’atmosfera emotivamente intonata e ricca di significati preriflessivi.

In effetti, ogni essere umano è ininterrottamente immerso in un mondo animato da specifiche tonalità emotive, e vive in costante ricerca del senso di stabilità personale. Ma cosa intendiamo con questo?

Per poter rispondere alla domanda occorre interrogarsi circa la genesi degli stati emotivi con cui, di volta in volta, l’essere umano si trova e/o si ritrova a dover fare i conti.

In questo senso, l’individuo, ogni volta, è immerso in un contesto sociale e culturale in cui si riconosce grazie al suo corpo e all’altro, che è sempre con lui presso le cose. Da ciò, ne deriva che gli stati emotivi esperiti dalla persona siano il risultato dell’interazione tra il significato incarnato della situazione in atto, ed una particolare relazione interpersonale.

Da un punto di vista concettuale quindi, per rispondere all’iniziale domanda, posto che l’emozionarsi sia un sentirsi attraverso la carne contemporaneo ad una modalità di comprensione delle situazioni in corso, per senso di stabilità personale si può intendere ciò che risulterà dalla tendenza dell’individuo ad orientarsi, in modo variabile, sul corpo o sull’altro.

Queste modalità di orientamento degli stati emotivi assumono una vera e propria forma di direzionalità nel loro rendersi manifeste: nel momento in cui una persona tende ad orientarsi sul proprio corpo, ciò significa che darà più importanza alla percezione dei propri stati viscerali; allo stesso modo, la persona che tenderà ad essere orientata sull’altro, si focalizzerà maggiormente su aspetti di natura contestuale.

Le specifiche modalità di emozionarsi proprie di ogni individuo, vanno a formare quella particolare struttura del sentirsi umano, posto che, sempre situato secondo peculiari tonalità emotive, l’individuo possa comprendersi nello spazio della carne e dell’altro.

Inoltre, le tonalità emotive, possono determinare risposte corporee e cambiamenti strutturali anche a livello cerebrale.

Ad ogni esperienza si associano diverse manifestazioni neuronali, questo accade poiché il mondo esperienziale e quello cerebrale sono intimamente interconnessi.

Sono diverse le strutture ed i circuiti neuronali che si attivano con l’emozionarsi soggettivo.

Una struttura intimamente coinvolta nell’esperienza individuale delle emozioni è l’amigdala, soprattutto in quelle più primitive, come ad esempio la paura o la rabbia.

Studi con risonanza magnetica funzionale (fMRI) hanno dimostrato che quest’ultima viene attivata dalla presentazione di stimoli avversi, anche quando determinate immagini vengono presentate in rapida sequenza, “mascherandole” con stimoli neutri in modo che il soggetto non si renda conto degli stimoli elicitanti la paura, cioè non sia consapevole di averli visti (Whalen et al. 1998).

Allo stesso modo, soggetti con blindsight, ossia privi della consapevolezza della percezione visiva ma in grado di discriminare l’orientamento e la presenza di stimoli, mostrano una risposta dell’amigdala alla presentazione visiva di stimoli a valenza emotiva (Dolan 2002).

Considerato che le emozioni servono in primo luogo a promuovere i comportamenti più idonei a preservare la sopravvivenza, la capacità di mettere in atto una risposta emotiva anche solo al “sentore” di un pericolo e ancor prima di averne preso coscienza, rappresenta un enorme vantaggio evolutivo: una frazione di secondo, infatti, può fare la differenza tra riuscire o non riuscire a evitare un pericolo. L’amigdala, pertanto, governerebbe un sistema sottocorticale, che non ha bisogno del contributo diretto della corteccia, essendo in grado di rispondere rapidamente anche a una grossolana informazione sulla presenza di un potenziale pericolo, ben prima che l’individuo abbia avuto modo di valutare la situazione nel dettaglio attraverso le vie (inevitabilmente più lente) che portano l’informazione alla corteccia cerebrale.

Oltre all’amigdala, il circuito legato alle emozioni coinvolge anche altre strutture.

L’insula ad esempio, ha un importante ruolo per i processi interocettivi ed è cruciale per quanto riguarda il senso del sé, oltre ad essere una struttura fortemente coinvolta nelle emozioni del disgusto e per il riconoscimento di espressioni facciali di disgusto. Questa struttura gioca un ruolo fondamentale anche nei processi empatici e risulta massicciamente attivata durante l’osservazione del dolore altrui. Inoltre le aree anteriori dei lobi frontali consentono la valutazione dello stato emozionale, la selezione dei comportamenti adeguati, la risoluzione dei conflitti tra stato interno ed esterno.

Detto ciò, possiamo concludere dicendo che ognuno di noi riconosce se stesso proprio attraverso il rapporto con l’altro presso le cose, da qui ne consegue il fatto che il corpo e l’altro sono parte costitutiva e fondamentale del mio sentirmi, del mio riconoscermi, della consapevolezza che ho di me. Inoltre se l’essere umano è sempre situato secondo specifiche tonalità emotive, allora l’emozionarsi assume valore nell’area tra il corpo e l’altro. Quindi, rappresenta il significato incarnato di una particolare situazione in atto e in un determinato contesto e che attiva sempre una risposta cerebrale.

 

 

Il tempo che non vola. Le temps vécu nell’Anoressia Nervosa

Nell’Anoressia Nervosa le pazienti appaiono come “cristallizzate”, situazione splendidamente descritta da Federico Leoni nell’introduzione a Le temps vécu di Minkowski.

 

Chiara è una ragazza bellissima, ma il suo volto appare per la maggior parte del tempo come pietrificato. Quando è distesa sulla poltrona resta immobile per ore, quasi fosse cristallizzata. Ogni suo movimento è tanto elegante quanto bizzarro nella lentezza della sua esecuzione.

Quando iniziamo a parlarle del Tempo e le chiediamo di fornirci il suo punto di vista al riguardo sembra come risvegliarsi. Risponde e partecipa al discorso con una facilità disarmante per chi ha tentato durante le sedute psicoterapiche precedenti di creare un contatto con lei. Eppure si sta analizzando un concetto così astratto e sfuggente che la semplicità con la quale viene descritto dalla paziente ci lascia perplessi. Ci chiediamo se non abbia riflettuto a lungo al riguardo per poter rispondere con questa semplicità, nonostante nessuno prima di noi abbia affrontato questa tematica con lei”.

Così ha inizio il mio viaggio personale nel vissuto temporale delle pazienti affette da Anoressia Nervosa. Poco tempo addietro mi ero perso in alcune splendide letture di Carlo Rovelli che mi avevano aperto gli occhi su quanto il Tempo mi avesse preso per i fondelli per una vita senza che me ne accorgessi. Mi figuravo sempre di più un tempo capace di deformarsi, contorcendosi, un tempo che si espande e retrae, mantenendo sempre la sua elegante continuità. Mi fece sorridere come questa visione del tempo vissuto si avvicinasse a passi felpati a quella della fisica, dove oggi il tempo è qualcosa di tangibile e quindi deformabile, malleabile.

Nell’Anoressia Nervosa le pazienti appaiono come “cristallizzate”, situazione splendidamente descritta da Federico Leoni nell’introduzione a Le temps vécu di Minkowski rispetto al caso de La malata che fa le scarpe (paziente descritta anche da un giovane Carl Gustav Jung) estremamente esplicativa rispetto all’instancabile ripetizione e l’eterno presente che ritroviamo nelle pazienti più gravi.

“Non più un gesto che, compiutosi, tramonta; che, tramontato, consuma il proprio senso, lo compie; e che nel compierlo, nel farne vuoto, lo destina ad un nuovo inizio. Non più l’instabile, incerta tensione dello slancio, ma il deserto mortale di un presente eterno dove nulla può concludersi e nulla può iniziare. Una immobile insistenza, esausta stereotipia”.

Dopo aver parlato a lungo con molte pazienti affette da questa patologia un’idea ha iniziato a prendere forma. Queste mi sembrano vivere perennemente in quello che Minkowski descrive come “attimo o adesso” e non nel “presente”. Il brillante psichiatra spiega come il tentativo di rappresentare l’adesso sia impossibile in quanto esso fugge davanti a noi dispiegandosi per far posto al presente. È qui che possiamo trovare durata ed estensione poiché non sappiano dove abbia inizio né dove termini. Si tratta di qualcosa di fluente: Il presente è dunque meno aspro de l’adesso, è più calmo, omogeneo e rassicurante, nel presente possiamo lasciarci vivere.

Rinchiuse all’interno di fitte reti di rigide regole da loro stesse create, questa categoria di pazienti sembra non conoscere il presente, bloccate in un punto senza estensione.

… questa condizione di stasi viene descritta dalla paziente con poche parole. Un tempo infinito ed orribile. La monotonia sembra essere una delle caratteristiche che meglio descrive il suo stato attuale. Priva di un obiettivo concreto sembra andare alla deriva mettendo in dubbio l’importanza della sua stessa esistenza. Non si intravede slancio vitale in lei e parlando del suo futuro risponde è molto, molto lontano. E’ così lontano da me che non riesco a vederlo”.

Il senso di narrazione e la capacità di essere gli stessi nel fluire del tempo, elegantemente descritti da Eugenio Borgna nel saggio Come se finisse il mondo, sembrano essere fortemente minati dalla malattia.

“Quando le chiediamo se ci sia un senso di continuità nella sua esistenza lei riporta una marcata frammentazione e riesce a caratterizzarla emotivamente. Quando ero normale il mondo era così luminoso, colorato. La vita che avevo prima del mio disturbo alimentare mi sembra la vita di un’altra persona. Chiara non possiede un’immagine di sé al di fuori della malattia, della figura di paziente.

La frattura appare essere molto più profonda di quanto mi sarei aspettato.

“La mia realtà non è in bianco e nero. Non si tratta neanche di una scala di grigi. E’ monocromatica. Se vi guardo la vostra immagine si confonde con lo sfondo. Il cibo non ha sapore. Nulla intorno a me appare definito. Non mi interessa vedere”.

Minkowski insegna che il passato e l’avvenire non esistono che in rapporto al presente e non hanno altro senso, così come il presente non ha potuto nascere che dal passato al quale deve ricongiungersi, come deve d’altra parte dare origine all’avvenire.

Le sue parole in qualche modo riescono a confortarmi. Credo che l’Anoressia Nervosa, per quanto indiscutibilmente invalidante, non possa vincere un Titano che domina il nostro essere dal primo grande boato cosmico. Il Tempo e la gentilezza potrebbero essere armi preziose per chi tratta questo disturbo purtroppo sempre più diffuso ma dalla scarsa risonanza sociale.

 

La salute mentale degli italiani. Per un ripensamento delle politiche regionali

La pandemia non ha aiutato la cura della salute mentale nel nostro paese.

 

«Solo 60 bambini su 1.000 hanno accesso a un servizio territoriale di NPIA (Neuropsichiatria Infantile e dell’Adolescenza, ndr), e di essi solo la metà riesce ad avere risposte terapeutico-riabilitative territoriali appropriate (con estrema variabilità regionale)». A denunciarlo è il Tavolo Tecnico sulla Salute Mentale, istituito a inizio anno, nel suo documento di sintesi appena pubblicato alla vigilia della seconda Conferenza Nazionale per la Salute Mentale, tenuta dal Ministero della Salute il 25 e 26 giugno 2021. Il documento affronta tre aree di studio: la programmazione regionale nell’ambito della salute mentale, l’adeguatezza dei percorsi di cura, la riduzione degli interventi coercitivi.

Nell’evidenziare «la necessità e l’urgenza di un’intensa attività di programmazione e coordinamento nell’area della Salute Mentale dell’Infanzia e dell’Adolescenza», il Tavolo Tecnico denuncia una particolare difficoltà nel condurre una valutazione in merito, vista «la carenza di flussi informativi specifici e la difficoltà a ottenere dati appropriati dai flussi amministrativi standard» relativamente alla salute mentale dei minori. Dalle poche notizie raccolte emerge una tale variabilità nei percorsi di cura fra le varie regioni che garantire una risposta equa ai bisogni risulta molto complesso. «In particolare, mancano non solo i letti di ricovero dedicati, ma soprattutto le strutture semiresidenziali terapeutiche, indispensabili per garantire interventi a maggiore complessità e intensità, per prevenire, per quanto possibile, il ricorso al ricovero ospedaliero e alla residenzialità terapeutica. Nei servizi territoriali spesso non sono previste e adeguatamente presenti tutte le figure multidisciplinari necessarie per i percorsi diagnostici, terapeutici e riabilitativi, e vi sono significative difficoltà nel garantire la presenza anche solo delle figure mediche indispensabili, già sottodimensionate. Il quadro è reso critico dalla prevedibile collocazione a riposo a breve di numerosi neuropsichiatri infantili, senza che vi sia un numero sufficiente di giovani specialisti per sostituirli». Eppure, negli ultimi dieci anni è raddoppiato il numero dei pazienti seguiti dai Servizi di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza, soprattutto in ambito psichiatrico: tra il 2017 e il 2018 i ricoveri nella fascia d’età 0-17 sono aumentati dell’11% per i disturbi neurologici e del 22% per quelli psichiatrici. Di questi, però, non tutti hanno potuto ricevere l’assistenza necessaria, visto che il 20% sono stati ricoverati in reparti per adulti.

Per quanto riguarda, invece, lo stato di attuazione nelle Regioni del PANSM (Piano d’Azione Nazionale Salute Mentale), ad aprile scorso solo il 49.5% degli obiettivi programmatici (suddivisi in salute mentale degli adulti, neuropsichiatria infantile e integrazione) sono stati attuati, con evidenti carenze soprattutto in campi come la promozione della salute fisica del paziente psichiatrico, la diagnosi e il trattamento delle persone con disturbi psichici, la prevenzione e la lotta allo stigma. Le Regioni che presentano maggiori criticità, ossia più di sei obiettivi non attuati, sono Basilicata, Abruzzo, Sardegna, Calabria, Lazio, Campania, Molise e Liguria; mentre Friuli Venezia Giulia ed Emilia Romagna si piazzano ai primi posti insieme con la Sicilia. Differenze territoriali macroscopiche si rilevano anche nel consumo di farmaci psichiatrici: se al Nord è prevalente l’erogazione diretta e l’utilizzo di antidepressivi, al Sud si attesta quella convenzionata con un uso superiore di antipsicotici. «È possibile che rispetto agli antidepressivi vi sia un bisogno non intercettato al sud e un non-bisogno trattato al Nord. Per quanto riguarda invece il consumo di antipsicotici è possibile che al Nord la maggiore disponibilità di trattamenti psicosociali e psicoterapici, una sensibilità crescente al tema della de-prescrizione, e il migliore monitoraggio ottenibile con la erogazione diretta generino una maggiore appropriatezza e qualità di utilizzo».

Il Tavolo Tecnico suggerisce, quindi, di rivedere i processi di verifica dell’efficacia nel perseguimento degli obiettivi indicati, attuando una politica di semplificazione contro la produzione incontrollata di documenti di programmazione non necessari. Inoltre, viene proposto un «monitoraggio più fine delle attività delle strutture residenziali attraverso il rilevamento di informazioni sulla provenienza del paziente prima del ricovero e sulla sua destinazione alle dimissioni». Questo perché, soprattutto al Centro-Nord, sono andati allungandosi i tempi medi di permanenza: per molti pazienti, infatti, le strutture «sembrano rappresentare delle “case per la vita” piuttosto che dei luoghi di riabilitazione, e il loro ruolo pare dunque oscillare ambiguamente tra trattamento e riabilitazione da un lato, e custodia dall’altro».

Stando al monitoraggio 2019 del SISM (Sistema Informativo sulla Salute Mentale), sull’età e il numero medio di prestazioni fornite agli utenti, «il sistema di cura è centrato sulla cronicità piuttosto che sulla identificazione e intervento precoce, e le prestazioni totali sono insufficienti a garantire la continuità e l’intensità della presa in carico». L’età media e mediana dei nuovi utenti, infatti, nei quali vengono riscontrati i quattro disturbi considerati più gravi (depressione, disturbi della personalità e del comportamento, mania e disturbi affettivi bipolari, schizofrenia) è superiore ai 40 anni. Tra le patologie, quella più incidente è sicuramente la depressione, con 15,1 casi ogni 10.000 abitanti.

Il documento sottolinea, inoltre, l’esistenza di gravi falle nel sistema informativo intorno alla salute mentale, afflitto da: scarsa tempestività nella restituzione dei dati sotto forma di statistiche, con un ritardo di circa due anni rispetto al dovuto; assenza della componente dedicata alla Salute Mentale dell’Infanzia e dell’Adolescenza; flussi disomogenei oppure aggregati a livello regionale, che mettono in luce discrepanze e impediscono azioni specifiche per Aziende sanitarie e Dipartimenti di Salute Mentale; mancanza totale di notizie intorno alla componente sociosanitaria dei pazienti.

Volendo, dunque, analizzare l’appropriatezza dei percorsi di cura, molte sono le criticità che emergono. Prima fra tutte la disomogeneità territoriale dei Dipartimenti di Salute Mentale italiani, 140 in totale, che dovrebbero soffermarsi sugli standard organizzativi, quantitativi e qualitativi. Non meno importante, la carenza di organico, che genera un’inevitabile aumento dei «posti di residenzialità quale esito dell’impossibilità a una presa in carico multiprofessionale e continuativa». Guardando ai dati, nel quadriennio 2015-2019 si è avuta una flessione dell’1,6% del personale dipendente dei DSM, dato nettamente inferiore rispetto allo standard minimo, fissato dal DPR del 10 novembre 1999, su 66,6 operatori ogni 100.000 abitanti: attualmente se ne hanno soltanto 56,8. Necessaria, quindi, l’assunzione e la formazione «di operatori per i servizi di salute mentale di comunità, in modo da raggiungere in tutte le Regioni lo standard di riferimento quale condizione indispensabile per il funzionamento del sistema di cura».

Capitolo non meno importante l’inadeguatezza “per difetto” nell’accesso ai servizi psichiatrici nazionali, «ossia una quota di bisogni non intercettati (incidenze e prevalenze troppo basse per disturbi psichiatrici gravi). In particolare, si rileva la difficoltà dei servizi di salute mentale a intercettare la morbilità psichiatrica all’esordio o comunque in fase precoce, problema particolarmente serio per le psicosi schizofreniche, per le quali evidenze consolidate documentano che soltanto servizi specificamente orientati alla presa in carico e al trattamento in fase molto precoce sono in grado di influire favorevolmente sulla prognosi». Ciò pone la necessità di diffondere «strategie innovative per la realizzazione di specifici servizi per i giovani con gravi problemi di salute mentale»; oltre naturalmente all’adozione e al potenziamento dei Piani regionali per i Disturbi Emotivi Comuni e del «personale in grado di erogare trattamenti psicoterapeutici di provata efficacia».

 

Rotture evolutive. Psicoanalisi dei breakdown e delle soluzioni difensive (2021) di Anna Maria Nicolò – Recensione

Soprattutto ad inizio terapia, come afferma l’autrice di Rotture evolutive, è necessario lavorare sull’acquisizione e il rinforzo della fiducia del paziente, che prima si fida e poi si affida.

 

Prendendo spunto dal suo primo caso di psicoterapia, durante il periodo di specializzazione, con la supervisione del Dr. Arnaldo Novelletto, la Dr.ssa Anna Maria Nicolò, medico neuropsichiatra infantile, psicoanalista della Società Psicoanalitica Italiana e dell’International Psychoanalytical Association, psicoterapeuta della coppia e della famiglia, fa delle importanti riflessioni a posteriori, nate dalla sua esperienza pluridecennale, su un periodo evolutivo particolarmente delicato e fragile, ossia l’adolescenza, in cui è possibile riscontrare crisi vere e proprie che possono prendere due direzioni: da una parte un’evoluzione e un consolidamento della propria identità, dall’altra, al contrario dei crolli che i Laufer (1984) hanno definito “breakdown”.

Ma che cos’ è un breakdown evolutivo?

Una vera e propria rottura, spaccatura della realtà, che può essere dettata da un temporaneo arresto di un funzionamento fase specifico del processo evolutivo, fase che dovrebbe portare l’adolescente alla definizione di un’identità più solida e soprattutto più strutturata, che ne rappresenti la maturità.

L’adolescenza è, senza dubbio, un periodo complesso di transizione dall’infanzia all’età adulta, complesso in quanto coinvolge la persona nella sua totalità soma-psiche. La velocità nei cambiamenti è sicuramente evidente e spesso provoca un profondo senso di disagio e numerose perplessità nell’adolescente, circa lo stare al mondo, l’esserCi e l’esserCi con l’altro. Da un lato il desiderio di indipendenza e distacco dalle figure parentali, dall’altro la paura dello svincolo e il bisogno di non perdere tale legame.

Questo è il periodo della costruzione di un Io che ha bisogno di trovare la propria identità, ma tale meccanismo è certamente correlato alle esperienze precedenti, alle conquiste avvenute, alla capacità genitoriale di permettere l’evoluzione e la costruzione di un contesto che sia base sicura per la conquista del mondo esterno e, dunque, di territori a di fuori del nido primario. Solo in questa maniera è possibile l’interiorizzazione delle figure genitoriali e lo slancio verso quella che sarà la propria autonomia. Se ciò non avviene, come ben spiega la Dr.ssa Nicolò, è possibile che avvenga una momentanea interruzione nel passaggio, in quanto “in quasi tutti i casi di rotture evolutive in adolescenza le angosce relative all’identità di genere e all’orientamento sessuale sono in primo piano a causa dei processi di ristrutturazione dell’identità e della ricontrattazione edipica, tipici di questo periodo, e terrorizzano il giovane e spesso anche i genitori creando una tempesta emotiva enorme”.

Pertanto non vanno assolutamente trascurate e necessitano di un percorso analitico che non si ostini ad un’impostazione rigida e classica, ma che, al contrario, si adegui alla realtà dell’adolescente, così mutevole e sfuggente. Lo stesso setting non può che essere punto di arrivo e non di partenza, in quanto processo che dà modo al paziente, con i suoi tempi, unici e mai duplicabili, di esplorare e poi accettare quello spazio terapeutico, per poterlo internalizzare. La Dr.ssa Nicolò parla di “psicoterapia integrata” (Nicolò, Zavattini, 1992). In tale tortuoso percorso è utile e necessario indagare sul mondo fantasmatico famigliare, sull’ambiente in cui vive il paziente, condizione essenziale per poter iniziare il percorso.

A partire da casi clinici da lei trattati sia come analista sia come supervisore, l’autrice mette in discussione le classiche categorie diagnostiche, portando alla luce un punto di osservazione differente. La pratica clinica diventa la base per analizzare da una nuova prospettiva il fondamento teorico, anche con l’intento di rivederlo e rivisitarlo, sempre alla luce dell’esperienza professionale. Ogni singolo paziente ha la capacità inconscia di insegnare qualcosa al terapeuta.

La condizione patologica dei breakdown (Laufer M., Laufer E., 1986) ha radici molto profonde che riguardano conflitti psichici in riferimento al corpo e alla percezione che si ha di esso. L’adolescente può non tollerare i cambiamenti, bloccando quell’importante processo di integrazione dell’immagine che egli ha del suo corpo nella sua rappresentazione del Sé. Tali crolli, in età adulta, sarebbero considerati dei segni inequivocabili di psicosi e questo sottolinea la gravità e l’importanza del percorso analitico, senza il quale il giovane adulto rischia di precipitare nell’abisso di un mondo frammentato e angoscioso.

Dunque il corpo come filo conduttore delle spaccature evolutive, ben in evidenza in quelle nuove patologie adolescenziali come i self cutting, ma anche in disturbi alimentari come l’Anoressia Nervosa, in cui il soggetto infligge punizioni rigide e categoriche al proprio soma, con l’intento di trasformarlo in carne senza carne. Un’immagine corporea apparentemente definita che cela un’identità così fragile da rischiare il crollo. Lo stesso vale in quelle forme di transgender rappresentative di una volontà di assoluta negazione del soma e soprattutto della sessualità, un ritorno quasi all’indifferenziato, motivo di contenimento dell’angoscia provata dall’adolescente, meccanismo di difesa contro lo scompenso latente. Vi sono differenti modalità di esternalizzare come compenso dell’incapacità ad internalizzare. Tutto si complica anche per l’utilizzo spasmodico dei social, dove vige la regola che l’essere sta solo nell’accettazione dell’altro, altrimenti diventa non essere.

Punto nodale del testo è la relazione paziente-terapeuta dove fondamentale è il lavoro continuo sul transfert. Soprattutto ad inizio terapia, come afferma l’autrice, è necessario lavorare sull’acquisizione e il rinforzo della fiducia del paziente, che prima si fida e poi si affida. Da evitare le interpretazioni spesso scintilla di innesco di ulteriore angoscia per l’adolescente, incapace nel primo stadio di affrontarla, rischiando di esserne travolto. Durante l’analisi vi è la possibilità da parte del professionista di sentirsi tradito o ferito e dunque impotente di fronte ad una condizione particolarmente delicata e complessa. L’esperienza di controtransfert è continuamente da tenere sotto controllo, in quanto possibile, potente arma per prevaricare, confondere il paziente stesso che, in realtà, nel suo improvviso repentino cambiamento, ha solo la necessità di avvertire che qualcosa non funziona. L’analista non deve mai dimenticare che l’adolescente potrebbe utilizzarlo come oggetto nuovo di identificazione precedentemente non avvenuta. Ed è qui l’importanza del suo lavoro e la sua preziosa presenza come contributo di trasformazione e di riavvio della fase evolutiva sospesa, inceppata, interrotta.

 

Inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina e benzodiazepine nel trattamento del disturbo di panico: confronto tra i rispettivi effetti collaterali

Le benzodiazepine (BDZ) e gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI) si sono dimostrati entrambi efficaci nel trattamento farmacologico del disturbo di panico (DP).

 

Tuttavia, le linee guida sul trattamento favoriscono gli SSRI rispetto alle benzodiazepine, sulla base della convinzione che quest’ultime siano associate ad effetti collaterali più esacerbati rispetto a quelli indotti dagli SSRI (Quagliato et al., 2019). Le linee guida per il trattamento del disturbo di panico hanno favorito gli SSRI, rispetto alle benzodiazepine, per il trattamento a breve e lungo termine (American Psychiatric Association, 1998; Nielsen et al., 2012) per due specifiche ragioni: (i) un tasso di dipendenza superiore indotto dalle benzodiazepine rispetto agli SSRI, dopo un uso a lungo termine (Baldwin et al., 2014; Roy-Byrne et al., 2006) e (ii) un maggior rischio di sintomi da sospensione (Bandelow et al., 2008; Roy-Byrne et al., 2006). Alcuni autori sostengono che i sintomi chiave della dipendenza da benzodiazepine siano: tremore, vertigini, ansia e insonnia in caso di riduzione o interruzione del dosaggio (Ashton, 2005).

In effetti, possono verificarsi sintomi di astinenza e abuso da benzodiazepine, specialmente nel contesto dell’abuso di altre sostanze (Tvete et al., 2013). Tuttavia, risulta fondamentale distinguere tra una dipendenza fisiologica e l’adattamento naturale di un sistema corporeo a lungo abituato alla presenza di qualsiasi farmaco, incluse benzodiazepine e SSRI (O’Brien, 2005). Tuttavia, la sindrome da astinenza può essere controllata e risolta attraverso la riduzione della dose, il cambio o l’aumento del farmaco (O’Brien, 2005).

Esiste un sottogruppo di pazienti, con disturbo da uso di sostanze in comorbilità, con maggiori probabilità di presentare un aumento dell’assunzione di benzodiazepine e di mostrare una sindrome di dipendenza dalla riduzione del dosaggio o dall’interruzione della dose, con sintomi di astinenza da BDZ (Ait-Daoud et al., 2018). Tuttavia, possono comunque verificarsi reazioni di astinenza sia con BDZ, sia con SSRI (Belaise et al., 2012; Greenblatt et al., 1990; Nielsen et al., 2012; Schweizer et al., 1990). In entrambe le classi, questa ‘sindrome da astinenza’ è caratterizzata da sintomi come: ansia, pianto, vertigini, mal di testa, disturbi del sonno, irritabilità, mioclono, nausea, parestesia e tremore (Starcevic, 2012). La supposizione secondo cui le benzodiazepine diano più dipendenza degli SSRI è in gran parte spiegata da concettualizzazioni imprecise del concetto di dipendenza. Gli SSRI sono stati commercializzati come farmaci che non avrebbero causato dipendenza (Nielsen et al., 2012). Tuttavia, con il passare del tempo, è risultato evidente che gli SSRI avrebbero potuto causare la sindrome da sospensione (Rosenbaum et al., 1998). Questa sindrome è abbastanza simile alla sindrome da astinenza da benzodiazepine ed è caratterizzata da sintomi come: ansia, pianto, vertigini, mal di testa, disturbi del sonno, irritabilità, mioclono, nausea, parestesia e tremore (Nielsen et al., 2012; Starcevic, 2012). Gli SSRI con un’emivita più breve (es. paroxetina) sembrano essere maggiormente associati a sintomi da sospensione rispetto agli SSRI con un’emivita più lunga (es. fluoxetina); proprio come le benzodiazepine con un’emivita più breve (es. alprazolam) sono maggiormente associate a sintomi di astinenza rispetto alle benzodiazepine con un’emivita più lunga (es. clonazepam; Starcevic, 2009). A tal proposito, risulta importante ribadire che la presenza della sindrome da sospensione da SSRI non implica il fatto che tali sostanze diano dipendenza in senso stretto (Fava et al., 2015).

Le benzodiazepine, in assenza di abuso di altre sostanze, raramente inducono comportamenti quali brama per questi psicofarmaci, comportamento incontrollabile di ricerca di BDZ, attività finanziarie inficiate o problematiche di natura legale connesse al loro utilizzo (Nielsen et al., 2012; Starcevic, 2012). Tuttavia, le BDZ esercitano effetti immediati sui pazienti, rendendoli più propensi a rafforzare la somministrazione rispetto agli SSRI (Griffin et al., 2013). Pertanto, le benzodiazepine sono maggiormente soggette ad un uso improprio rispetto agli SSRI (Evans & Sullivan, 2014). Gli effetti collaterali più frequentemente riscontrati con gli SSRI sono: diaforesi, affaticamento, nausea, diarrea e insonnia; mentre le BDZ sono associate a costipazione, difficoltà di memoria e secchezza delle fauci. Entrambe le categorie di farmaci sono associate alla sonnolenza diurna. Gli SSRI possono comportare un maggior rischio di disfunzione sessuale rispetto alle benzodiazepine (Quagliato et al., 2019).

I sintomi, come nausea e diarrea, causati dagli SSRI sono comuni effetti transitori del trattamento a breve termine, che non durano più di 12 settimane (Khawam et al., 2006). Infatti, molti di questi sintomi sono correlati alla sindrome di attivazione degli SSRI che di solito si verifica all’inizio del trattamento (Khawam et al., 2006). Sebbene questa sindrome di attivazione possa ridursi nel tempo, potrebbe aumentare l’ipervigilanza e l’ansia nei pazienti con Disturbo di Panico acuto, contribuendo ad esacerbare l’intensità sintomatologica (Clark et al., 1997).

Allo stesso tempo, le benzodiazepine sembrano assumere una valenza protettiva in ​​sintomi quali: tachicardia, sudorazione, affaticamento e insonnia, consentendo una rapida riduzione dell’ansia e dei sintomi simpatici (Vemulapalli e Barletta, 1984). Infatti, alcune benzodiazepine (come il clonazepam) possono abbassare la pressione sanguigna (Dmitriev et al., 2001) e potrebbero contribuire al trattamento della fibrillazione atriale nei pazienti con Disturbo di Panico (Kahn et al., 2018). Tuttavia, le benzodiazepine sono allo stesso tempo associate ad un aumento del rischio di difficoltà di memoria, stitichezza e secchezza delle fauci: le alterazioni della memoria potrebbero in particolar modo inficiare la qualità di vita del paziente (Beracochea, 2006). Il deterioramento cognitivo indotto dalle benzodiazepine è, però, solitamente di lieve entità e non sempre evidente ai pazienti; tuttavia, può persistere in una certa misura anche dopo la sospensione del farmaco (Stewart, 2005).

In conclusione di tale estratto, è possibile affermare che molti psichiatri considerano la co-terapia tra SSRI e BDZ come trattamento di prima linea per il disturbo di panico acuto, in quanto compensa gli svantaggi di entrambe le categorie (Nardi et al., 2018). A tal proposito, risulta fondamentale ribadire che la linea di trattamento più efficace contempla anche l’integrazione con la psicoterapia, in particolar modo di matrice cognitivo-comportamentale, al fine di estinguere il circolo vizioso ‘paura della paura’ e di rendere il paziente consapevole dei meccanismi di mantenimento del disturbo (Clark et al., 1997).

 

Beck tra standardizzazione dei trattamenti e relazione paritaria col paziente – 100 anni di Aaron T. Beck – Parte 4

Il racconto di come la psicoterapia cognitiva di Beck appartenesse alla prima generazione di trattamenti psicoanalitici relazionali.

 

Il manuale fu elaborato da un gruppo di lavoro che collaborava pariteticamente scambiando in continuazione idee, esempi, simulazioni di interventi e osservazioni critiche. Questo metodo di lavoro si rifletteva sulla pratica clinica stessa. Fu una svolta radicale elaborare una terapia che fosse un’impresa collaborativa paritaria tra terapeuta e paziente. E paritario fu il rapporto tra Beck e il gruppo di lavoro, costituito da giovani specializzandi e non solo: c’erano anche borsisti post-dottorato, studenti di medicina e laureati in psicologia e chiunque altro bazzicasse il suo laboratorio. Anche il gruppo clinico che applicava la terapia era di giovani: a Rush e Khatami si aggiunse la dottoranda Maria Kovacs e poi altri due specializzandi. Questi furono i primi 5 terapeuti cognitivi formati da Beck e che dal 1° agosto 1974 resero operativa la clinica per la depressione a basso costo di Rush e Khatami, che prese il nome di “Mood Clinic”. Non basta, tuttavia. È importante sottolineare che Beck non solo ascoltava i giovani ma si serviva anche di consulenti esperti: Lester Luborsky, il ricercatore in psicoterapia più esperto alla Penn che in quegli anni stava elaborando il suo Core Conflictual Relatioship Theme e Karl Rickels, un esperto in psicofarmacologia.

Applicato giorno per giorno nella concretezza dell’attività della “Mood Clinic”, lo sviluppo del manuale andava avanti senza posa. Ogni settimana Beck si riuniva con i suoi collaboratori per una sessione di brainstorming. Beck voleva sapere tutto ciò che i suoi studenti apprendevano e osservavano in clinica, ogni ostacolo, ogni fallimento e successo con i pazienti. Li incoraggiava a chiedere direttamente ai pazienti se le formulazioni avessero o meno senso e di inoltrare le loro osservazioni a Rush che doveva tradurle in termini operativi e introdurle nel manuale. In questo modo si finiva per avere una nuova versione del manuale ogni 3 o 4 mesi. Nel giugno 1974 il manuale era di 46 pagine. Nel maggio 1975 era cresciuto fino a 89 pagine e in questa forma fu presentato all’incontro annuale della Society for Psychotherapy Research (SPR) nel 1975 a Boston insieme al dato sensazionale che la terapia cognitiva per la depressione era più efficace dei farmaci.

Il gruppo inoltre si evolveva. Rush, così importante ma non indispensabile, se ne andò nel luglio 1975, ma subentrarono Steven Hollon a coordinare l’attività clinica e Brian Shaw a continuare a scrivere il manuale, mentre la Mood Clinic diventava Center for Cognitive Therapy di Philadelphia, dove ancora adesso si fa terapia e formazione cognitiva. In seguito, diventarono membri del gruppo Gary Emery, Ira Herman e David Burns. Poi iniziarono ad arrivare gli psicologi clinici mentre fino a quel momento avevano prevalso gli psichiatri: Arthur Freeman (che era stato formato da Albert Ellis), Rich Bedrosian e Jeffrey Young, il futuro ideatore della Schema Therapy.

La strategia di Beck era dunque sviluppare una relazione paritaria con terapisti giovani e relativamente inesperti e sviluppare una squadra che poi sarebbe diventata un vero Istituto clinico e una scuola di formazione in uno stile che era opposto alla struttura gerarchica della psicoanalisi. Il manuale, quindi, fu in grado di ottenere due obiettivi apparentemente opposti: standardizzare gli interventi per una sperimentazione clinica e attirare giovani terapisti in un ambiente di scambio clinico e scientifico flessibile e paritario. Quei giovani specializzandi, se non avessero incontrato Beck, avrebbero presumibilmente adottato la doppia fedeltà -fino a quel momento imperante- alla psicoanalisi e/o a un’altra forma di psicoterapia (Hollon era rogersiano, ad esempio) e alla farmacoterapia. In una minuta del 1975 degli incontri del gruppo di Beck compare la considerazione che per i giovani specializzandi il training psicoanalitico fosse inutile per tentare la terapia cognitiva di Beck (Rosner, 2018). In base a quel documento possiamo indicare il 1975 come il definitivo momento in cui Beck e il suo gruppo diventano cognitivisti.

Infine, nel 1979 il manuale fu pubblicato (Beck, Rush, Shaw e Emery, 1979). Esso definiva le fasi della sua terapia in uno stile semplice e comprensibile, senza tecnicismi. Il manuale ebbe successo anche perché trasmise questa sensazione di cooperazione paritaria e anti-gerarchica nel rapporto col paziente. Il terapista cognitivo interagiva continuamente col paziente. Questa atmosfera democratica era poi intensificata dalla possibilità di testare scientificamente il modello; questa controllabilità scientifica però va intesa come controllabilità soprattutto clinica: connettere i sintomi ai pensieri espliciti significava soprattutto non fare interpretazioni lontane da quello che sosteneva il paziente ma fornire formulazioni di buon senso e comprensibili per il paziente che poteva dare o meno il suo assenso e su questo assenso il terapista basava la correttezza della formulazione. Non vi era alcuna pretesa di fornire interpretazioni ritenute vere nonostante fossero rifiutate dal paziente. E anche questo intensificava il sapore democratico della proposta di Beck. Infine, Beck chiedeva ai suoi collaboratori di utilizzare il manuale come guida e non come un libro di ricette, e questo nonostante la supposta standardizzazione del trattamento. Il manuale era solo un supporto, il nocciolo era nel continuo confronto clinico delle riunioni, delle simulate e della visione di sedute audio e videoregistrate.

L’incontro con Clark

Come abbiamo già scritto nella puntata precedente, a Oxford David Clark fu tra i primi ad adottare il manuale di Beck ancor prima che fosse pubblicato. Dopo la pubblicazione la collaborazione diventò strettissima. Beck e Clark si scambiarono visite sempre più frequenti finché nel 1986 Beck diventò visiting professor a Oxford. Il gruppo di Oxford ebbe il merito di favorire l’estensione del trattamento di Beck ai disturbi d’ansia.

Va tuttavia detto che dalla conversione di Clark e Beck non nacque dal nulla. Clark apparteneva al gruppo di lavoro che era cresciuto intorno a Michael Gelder, primo professore di psichiatria a Oxford dal 1969 e interessato, oltre che ai trattamenti farmacologici, al trattamento comportamentale mediante desensibilizzazione dell’agorafobia, pubblicando un articolo seminale nel 1966 con Isaac Marks (Gelder & Marks, 1966).

Tuttavia Gelder si rese conto rapidamente dei limiti dell’approccio puramente comportamentale e incoraggiò l’esplorazione del valore dell’aggiunta di strategie cognitive, che si concentravano sulla modifica dei pensieri, dell’attenzione e della memoria. L’Oxford Centre da lui guidato si distingueva per un’interazione tra teorie psicologiche, studi sperimentali e innovazione clinica. Nel corso degli anni, Gelder attrasse al Dipartimento di Oxford i futuri innovatori britannici nella terapia cognitivo comportamentale: David Clark primo fra tutti, e poi Anke Ehlers, Christopher Fairburn, Andrew Mathews, Paul Salkovskis, John Teasdale, Adrian Wells e Mark Williams. Si svilupparono forme di terapia cognitivo-comportamentale nuove e altamente efficaci, con procedure pratiche e descritte operativamente per il Disturbo di Panico, il Disturbo d’Ansia Generalizzato, il Disturbo d’Ansia Sociale, il Disturbo Ossessivo-Compulsivo, l’Ipocondria, il Disturbo Post-traumatico da Stress, la Sindrome da Fatica Cronica e la Bulimia Nervosa. Questi trattamenti cognitivo-comportamentali furono ampiamente adottati nella pratica clinica, sono oggi raccomandati dal National Institute for Health and Care Excellence e forniscono migliori risultati a lungo termine rispetto ad approcci alternativi come i farmaci antidepressivi. Questo terreno di coltura facilitò l’incontro tra Clark e Beck.

 

I millennials, la nuova generazione che investe

La generazione dei millennials è forse quella che ha fatto più parlare e discutere, rispetto alle altre, per molti aspetti differenti.

Daniela Renzi – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Una questione di spicco che li riguarda è relativa al mondo economico e finanziario. Si tratta della generazione più importante per le aziende di tutto il mondo, in quanto rappresentano la gran parte della forza lavoro, il loro reddito sta superando quello delle generazioni precedenti, hanno una maggiore possibilità di spesa e di condizionare il trend dei consumi globali.

Molte sono le recenti ricerche che stanno studiando le caratteristiche di questa generazione al fine di individuare interessi, bisogni e scopi della loro vita.

Millennial generation, generation Y, net generation, next generation, descrivono tutti la stessa fetta di popolazione, quella che va dai primi anni ottanta alla metà degli anni novanta, “la generazione del millennio”, dato che comprende chi è nato alla fine del XX secolo. Nel 2020 hanno tra i 24 e i 39 anni.

Essendo un range molto ampio di età, il Pew Research Center ha condotto uno studio per definire meglio questi termini, e uno dei criteri era quello di vedere che età avessero durante l’attacco alle torri gemelle dell’11 settembre 2001, per definire se erano grandi abbastanza da comprendere la portata del tragico evento. Per questo il suddetto studio definisce millennial chiunque sia nato tra il 1981 e il 1996.

In Italia i Millennials sono una minoranza rispetto ad adulti e anziani, parliamo di 11,2 milioni di persone (Pew Reasearch Center,2021), ma negli Stati Uniti sono una porzione importante della popolazione ed è questo che li spinge a condurre studi a sfondo finanziario per capire quali saranno le loro abitudini di investimento, anche perché viene considerata una generazione diversa dalle precedenti, con caratteristiche peculiari da approfondire.

L’obiettivo è quello di capire come attrarre i nuovi investitori, apparentemente più esigenti, e soddisfare così i loro bisogni finanziari. Per poterlo fare è necessario capire cosa si aspettano, come scelgono, quali sono per loro le priorità per definire la loro identità, i loro obiettivi futuri.

Molti sono i pregiudizi che li riguardano. Vengono descritti come una generazione di ignoranti, che vuole rompere totalmente i legami con i propri genitori, incapaci di andare avanti da soli, soprattutto economicamente e quindi incapaci di pensare alla stabilità economica, detti anche “Generation Me” alludendo all’egoismo che gli si attribuisce. Tutti miti fortunatamente sfatati. In particolare il dato relativo alla stabilità economica risulta falso, a seguito di uno studio condotto da Ramsey solution, secondo cui circa il 60% ha da parte dei soldi come fondo pensionistico che risulta essere quantitativamente uguale alla generazione subito precedente, i baby boomer, con la differenza che i millennials hanno ancora parecchi decenni davanti prima della pensione. Si dovrebbe dire, piuttosto, che non sono interessati alla stabilità economica, che hanno diverse priorità: un buon ambiente di lavoro, maggiori opportunità di crescita professionale e personale, ferie pagate ecc.

Le caratteristiche invece più evidenti e riscontrabili, riguardano il grado di istruzione, la maggiore multiculturalità rispetto alle generazioni precedenti e la piena familiarità con ambienti e tecnologie digitali, un insieme di fattori che li ha condotti a creare nuove forme di mercato e quindi di investimento (Inside Marketing, 2017)

Ma quali sono le caratteristiche psicologiche che meglio descrivono questa ampia generazione e la differenzia da quelle precedenti?

Uno studio si è posto l’obiettivo di confrontare le caratteristiche della generazione precedente con questa, proprio per vedere se la suddetta visione negativa è realistica o tipica di un bias generazionale riassumibile in una citazione di Socrate (469-399 a.c.): “La nostra gioventù ama il lusso, è maleducata, se ne infischia dell’autorità e non ha nessun rispetto per gli anziani. I ragazzi d’oggi sono tiranni. Non si alzano in piedi quando un anziano entra in un ambiente, rispondono male ai loro genitori”. Come se ogni generazione vedesse con un occhio preoccupato la nuova che nasce e si fa spazio nella società.

Sono stati presi in considerazione 31 costrutti psicologici esaminati tramite questionari self report su un campionamento basato sullo studio americano Monitoring the Future che comprende gli studenti più anziani delle scuole superiori, raccolti tra gli anni 70 e la metà degli anni 2000 attraverso una procedura di campionamento in tre fasi distinte per area geografica, selezione di scuole in ciascun area e selezione degli studenti di ogni scuola. Sono state prese in considerazione le seguenti aree:

  • egoismo, atteggiamenti individualistici, autostima
  • senso di impotenza e miseria, comportamento antisociale e soddisfazione nella vita
  • senso di felicità
  • fiducia interpersonale e cinismo
  • aspettative sulla formazione accademica, materialismo e atteggiamento nei confronti del lavoro
  • clima socio-culturale e importanza della religione

Ciò che è emerso è una sostanziale indifferenziazione dalla generazione precedente se non per qualche variabile. Una fra queste riguarda le aspettative relative al diploma e alla possibilità di specializzarsi, infatti negli anni 70 solo il 35% ha dichiarato che si sarebbe laureato mentre nel 2000 il 59,8% ha dichiarato che si sarebbe diplomato all’università e il 22,5% nel 2000 si sarebbe specializzato a fronte del 9,7% degli anni 70. Questo nonostante la ricerca ci dica che negli anni 70 gli studenti erano meno cinici e più fiduciosi rispetto all’utilità della scuola. Molto interessanti sono i risultati relativi alla pigrizia della nuova generazione in ambito lavorativo: anche secondo i millennials lavorare sodo è di fondamentale importanza per svolgere il lavoro desiderato, a cui si ambisce.

In conclusione, dall’intero studio è emerso che il soggetto medio della Generation Me non è notevolmente diverso da quello dei Baby Boomer, non sembrano essere più egoisti e appaiono altrettanto felici e soddisfatti. Sembrano avere profili simili ai giovani degli ultimi 30 anni. Tuttavia, le ultime generazioni hanno maggiori aspettative relative alla carriera scolastica e sono più cinici e diffidenti. Sembrano smentite quindi le preoccupazioni sull’attuale generazione, specialmente in termini di egoismo, autostima e livelli di miseria. Anche riguardo il narcisismo attribuito a questa generazione, pare ci sia uno scollamento tra la percezione globale e quelle che invece sono le caratteristiche personologiche del singolo individuo. Questo effetto si potrebbe attribuire a un pregiudizio di disponibilità che riflette individui particolari facilmente ricordabili piuttosto che riflettere la verità sull’intero gruppo generazionale. Ciò può portare la generazione stessa a un bias di conferma in base al quale gli individui richiamano selettivamente le informazioni coerenti con questo stereotipo. Questo spiegherebbe perché la stessa Generazione Me si descrive sotto un luce negativa (Kali H. Trzesniewski and M. Brent Donnellan, Rethinking ”Generation Me”: A Study of Cohort Effects From 1976−2006 , Perspectives on Psychological Science 2010).

In studi più recenti emerge invece anche una maggiore assertività e maggiore autostima rispetto alle generazioni passate (Twenge, Carter e Cambell, 2017).

Una generazione spesso stigmatizzata in negativo, descritta rispetto ai baby boomer come più materialista, egoista, svogliata, arrogante ma anche più esperta di tecnologia, a differenza della generazione precedente che invece appare più rispettosa, orientata al lavoro, attenta alla comunità, più istruita e attenta ai temi etici.

Non è facile essere giovani negli anni della crisi (e post). Il contesto in cui vivono limita la loro possibilità di spensieratezza. Si trovano in un mondo che, se da una parte esalta, in quanto costituito da molteplicità di prodotti nuovi e originali, dall’agevolazione rispetto al passato, dallo svolgere le attività quotidiane attraverso le piattaforme on-line, dalla maggiore accessibilità a informazioni, prodotti e servizi e dalla possibilità di un contatto costante con i pari grazie ai social, dall’altra è caratterizzato però dalla consapevolezza della crisi economica che costringe a prudenza e autocontrollo; la disoccupazione, il reddito incerto, una iper stimolazione in cui è più difficile orientarsi. Una generazione, rispetto alla precedente, limitata nella possibilità di mettersi in gioco e costretta ad essere quindi più cauta.

Uno studio recente condotto pre e post covid ha messo in evidenza una caratteristica peculiare di questa generazione, ovvero una resilienza e determinazione che li differenzia dalle generazioni precedenti. Molti millennials hanno perso il lavoro durante la pandemia, a molti altri sono state ridotte le ore di lavoro, mentre alcuni hanno lavorato più ore senza un aumento retributivo. Solo un terzo dei millennials e della generazione Z (nati fra il 1995 e il 2010) che ha partecipato al sondaggio, non ha avuto ripercussioni lavorative a seguito della pandemia.

Nonostante il sondaggio dell’anno prima avesse messo in risalto un certo grado di pessimismo e disagio in questa generazione, la pandemia non sembra aver esacerbato questi sentimenti. Anzi sono emersi maggiore ottimismo in relazione alla questione ambientale, un forte impegno per la responsabilità finanziaria e il risparmio (Deloitte Global Millennial Survey, 2020).

Secondo un’analisi di una banca americana del 2020, i millennials sono buoni risparmiatori ma niente a che vedere con quanto riuscivano a mettere da parte i loro genitori o i nonni. Infatti questa nuova generazione comincia a pensare alla pensione già all’età di 24 anni, una chiara inclinazione di come iniziano a pensare e programmare il proprio futuro, del quale non hanno una visione ottimistica (Angelo Valente, Marco Casanova, 2021, Wall Street Italia).

Sembra che questa generazione, sopravvissuta a sfide economiche e sociali senza precedenti, abbia sviluppato una gran forza di vedere opportunità anche nell’oscurità del momento che sta vivendo. Una grande capacità di resilienza. Infatti, non spera solo che emerga un mondo migliore alla fine della pandemia, ma vuole essere alla guida del cambiamento.

È emerso anche un dato molto interessante riguardo ai livelli di stress provati da questa generazione pre e post covid evidenziando così delle nuove possibili strategie che stanno considerando per affrontare meglio il futuro. Questo in relazione al lavoro, alle loro finanze e gli investimenti futuri ma anche rispetto a ciò che è possibile fare per contrastare i danni causati dal cambiamento climatico con una maggiore responsabilità rispetto al benessere del pianeta.

Entrambe le generazioni hanno affermato che faranno un grande sforzo per sostenere le aziende locali e non esiteranno a penalizzare le aziende i cui valori sono in conflitto con i propri.

Dai risultati della ricerca pre covid, risultavano livelli di stress molto alti in questa generazione, a differenza dei successivi che invece mostrano un calo.

Quindi possiamo dire che prima del covid questa generazione era estremamente preoccupata, della propria salute, del benessere per le proprie famiglie, per le prospettive lavorative e per il proprio futuro finanziario.

Ma la pandemia ha costretto a un rallentamento della vita e questo ha permesso di riguadagnare terreno verso i loro obiettivi fondamentali. Uno fra questi è l’attenzione per la salute mentale che viene già ricercata a partire dal posto di lavoro.

Ci troviamo di fronte una generazione molto criticata perchè percepiti come più narcisisti, egoisti e sconclusionati, ma che allo stesso tempo è diventata fra le più resilienti e attente a temi sociali e ambientali, accantonando l’idea classica, delle generazioni precedenti, di risparmio e investimento, ma creandone di  nuove a partire dalle loro forze e fragilità.

 

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