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Figli di genitori anziani: analisi delle connessioni tra i vari sistemi socio-psicologici e prospettive per il futuro

Una delle domande cruciali riguardo all’età fino alla quale ci si può spingere per avere figli è questa: quali saranno le tendenze future e soprattutto, i figli di genitori anziani saranno a loro volta genitori anziani?

 

Le società si trasformano, le persone cambiano e così anche i loro contesti di appartenenza.

Negli ultimi decenni vi è stato un significativo cambiamento nella concezione di cosa sia una famiglia e di come essa possa realizzarsi: sempre più diffuse ed accettate socialmente sono infatti nuove configurazioni familiari tra le quali le famiglie ricomposte, quelle monogenitoriali, le famiglie arcobaleno, le famiglie in surroga, le famiglie miste, le famiglie adottive, le famiglie affidatarie, ecc…

Questa pluralità di scenari familiari ha prodotto da un lato un aumento della possibilità di essere famiglia ma dall’altro, come è ovvio, problemi specifici.

Tali problemi si intrecciano poi con i grandi cambiamenti del nostro tempo che hanno inciso sulla formazione delle famiglie e sul loro modo di evolvere: dalla crisi economica a nuove modalità di intendere il lavoro, da internet all’instabilità geopolitica, dalle migrazioni, dal terrorismo alle possibilità sempre maggiori di viaggiare o ancora al Covid. Tali elementi hanno influito in modo significativo anche sul modo attuale di “essere famiglia”.

Uno dei cambiamenti più rilevanti relativi alle famiglie contemporanee (che riguarda in massima parte la società occidentale post industriale) concerne l’età nella quale si diventa genitori. I dati ISTAT dal 1995 al 2018, riportati nella Figura 4, evidenziano infatti come in Italia l’età media delle donne al momento della nascita del primo figlio abbia raggiunto i 31,2 anni nel 2018 (tre anni in più rispetto al 1995). Anche l’età media delle donne ad ogni parto è aumentata considerevolmente, passando da 30 a 32 anni. Se si considerano poi i dati del 2019, l’età media si attesta a 32,09 anni.

Anche la paternità segue il medesimo trend: l’età infatti del padre alla nascita del primo figlio è cresciuta di 1,44 anni, raggiungendo nel 2019 una media di 35,6 anni.

 

Genitori anziani e figli analisi socio-psicologiche e prospettive per il futuro Fig 4

Fig. 4: Dati ISTAT dal 1995 al 2018

Il dato relativo all’aumentata età dei neo genitori alla nascita del primo figlio va poi messo in relazione con un altro dato caratteristico della nostra società, ovvero la diminuzione della mortalità tra gli anziani. Senza considerare in questa sede, per gli ovvi motivi di eccezionalità, il periodo Covid-19, va segnalato che la mortalità tra gli anziani è progressivamente diminuita negli anni (ISTAT, 2019; Società Italiana di Gerontologia e Geriatria – SIGG).

Oltre ad una ridotta mortalità degli anziani, è importante sottolineare che essi oggi sono sempre più in forma: Marchionni (2019) e Ursini (2020) segnalano che in media un soggetto di 65 anni oggi ha la forma fisica e cognitiva di un 45enne di 30 anni fa, mentre un 75enne di oggi è paragonabile ad un individuo che ne aveva 55 nel 1980.  Sul piano della rilevanza nella popolazione generale, l’ISTAT (Report 2019) evidenzia come nel 2019 gli anziani oltre i 75 anni fossero l’11,7% della popolazione italiana, quindi un dato significativo.

All’ottenimento di questo risultato ha largamente contribuito il progresso scientifico in campo medico, il quale ha inciso positivamente anche sulla possibilità di avere figli in età sempre più avanzata.

Oggi, soprattutto grazie ai trattamenti di fertilità e alla fecondazione assistita, è possibile diventare genitori anche dopo i 50 anni (Christoffersen & Lausten, 2009). L’Italia si attesta, in merito a ciò, al primo posto in Europa per numero di figli nati da donne con più di 50 anni (Eurostat, 2019).

Il quadro descritto pone importanti questioni: da un lato è infatti necessario comprendere le motivazioni che spingono i genitori a fare il primo figlio sempre più tardi e dall’altro devono essere considerate le conseguenze che la genitorialità tardiva porta con sé dal punto di vista biologico, psicologico e sociale soprattutto sulle nuove generazioni.

Una delle domande cruciali riguardo all’età fino alla quale ci si può spingere per avere figli è questa: quali saranno le tendenze future e soprattutto, i figli di genitori anziani saranno a loro volta genitori anziani?

L’ipotesi presentata in questo lavoro è che i figli di genitori anziani potrebbero confermare il trend in atto, diventando a loro volta genitori sempre più tardivamente.

Tra i fattori che si ritiene risulteranno facilitatori in questo senso devono essere considerati la generale situazione economica dei paesi industrializzati, la qualità dei rapporti familiari ed amicali nonché le politiche di welfare.

Perchè si arriva a diventare genitori sempre più in tarda età?

Negli ultimi decenni sempre più coppie nei paesi industrializzati hanno ritardato il momento nel quale sono diventati genitori, alimentando una tendenza, definita “transizione di rinvio” da Kohler et al. (2002), divenuta ormai caratteristica. Sobotka (2009) sostiene che l’incremento della genitorialità in tarda età sia l’effetto dell’azione negli anni di diversi macro fattori politico-sociali tra i quali in primo luogo la diffusione della contraccezione moderna e la legalizzazione dell’aborto. Oltre a questi, diverse modificazioni sociali come l’istruzione sempre prolungata, l’emancipazione delle donne e il cambiamento del comportamento familiare rispetto all’educazione dei figli hanno reso l’avere figli da giovani sempre meno attraente.

Più in generale il raggiungimento delle classiche tappe evolutive del giovane adulto (tra cui terminare l’istruzione, lasciare la casa dei genitori e formare una coppia sentimentale) è sempre più posticipato.

L’entità del fenomeno è tale che la comunità scientifica se ne sta occupando sempre di più a causa dei possibili aumentati rischi per la salute di madri e figli nonché per i timori di ulteriori abbassamenti nei tassi di natalità (Sobotka, 2009).

Vediamo meglio gli elementi principali che giocano un ruolo in questo ritardo della genitorialità.

Stabilità emotiva della coppia

Molti soggetti scelgono di avere figli più tardi perché più tardivo è anche il raggiungimento della stabilità emotiva della coppia, che nelle società occidentali si raggiunge in media ad un’età più avanzata rispetto ad altre parti del mondo (Mills et al., 2011). Un ruolo importante è in questo senso giocato dall’idea che sia importante fare diverse esperienze sentimentali prima della scelta del partner definitivo.

Oltre a ciò si è assistito negli ultimi decenni ad un aumento della presenza di una particolare tipologia di coppia, che potremmo definire “narcisistica”. Tale coppia si basa sulla gratificazione personale derivante dallo stare insieme al proprio partner svincolando ciò dal progetto concreto di formare una famiglia. Lo stare insieme in queste coppie è funzionale principalmente al benessere soggettivo, quasi di tipo egoistico, nel quale rilevante è il vissuto personale di serenità nel qui ed ora. Queste coppie spesso non si pongono il problema della loro durata, dello strutturarsi di un legame stabile e della costruzione di un progetto a lungo termine in quanto lo stare insieme assume significato quasi esclusivamente nel presente, nell’immediato. Anzi, in molti casi queste coppie rifuggono addirittura l’idea che vi possa essere una strutturazione del legame in quanto ciò è sentito come una limitazione della libertà individuale (Andolfi, 1999).

Una coppia dunque, quella narcisistica, che non subordina lo stare insieme alla realizzazione di un progetto comune, ma che esiste finché esiste la gratificazione personale dello stare insieme. Tale coppia si regge sul piacere personale dell’avere accanto a sé un partner adatto “in questo momento” e non sull’idea che tale partner sia necessario per la propria vita, per la propria realizzazione personale e per la costruzione di un progetto di vita, per esempio di tipo familiare.

Questa configurazione di coppia è in netta contrapposizione con un’altra tipologia, che potremmo definire “coppia progettuale”. Essa si basa sullo stare insieme come mezzo per il raggiungimento di un obiettivo comune, di solito legato al fare famiglia o ad un’indipendenza economica dalla famiglia di origine, all’avvio di un’attività lavorativa, ecc..  Tale tipologia di coppia è in grado di subordinare, sebbene naturalmente non lo neghi affatto, il solo piacere personale e l’attrazione verso il partner allo stare insieme per trarre energia e mezzi per realizzare uno scopo comune di livello gerarchico superiore.

La coppia narcisistica pare figlia diretta della “società liquida” descritta da Bauman (1999), caratterizzata dal rifiuto di ogni infrastruttura sociale. In questo senso essa mostra tutte le sue fragilità proprio nella “tenuta” dentro ad un progetto comune, minando in questo modo dall’interno la sua stessa sopravvivenza.

La configurazione della coppia come narcisistica, rispetto alla genitorialità, potrebbe con alta probabilità contribuire a posticipare, se non addirittura ostacolare, la scelta di avere un figlio.

Mutamenti nel mondo del lavoro

Un fattore che certamente incide sulla scelta di diventare genitori è la riduzione delle opportunità lavorative, in particolare a seguito alla crisi economica del 2008.

È necessario ammettere che oggi il mondo del lavoro non è certamente, in media, “amico dei genitori”. Anche quando si riesce a trovare un lavoro infatti subentra il problema delle “8 ore”: l’occupazione a tempo pieno non considera l’impegno di cura di un figlio e costringe molto spesso le giovani coppie a posticipare la scelta di concepire un figlio rimandandola a momenti nei quali la coppia avrà raggiunto una maggiore tranquillità economica e potrà permettersi adeguati periodi di congedo dal lavoro o la rinuncia alla carriera da parte di uno dei due partner.

Spesso le aziende, soprattutto private, non incentivano la maternità, in particolare quella giovanile. Ciò sia dal punto di vista dei bassi salari tipici dell’inizio carriera, che non aiutano le giovani coppie a sopportare da sole i costi un uno o più bambini, che rispetto alla concessione di agevolazioni pratiche (permessi retribuiti, orari flessibili, ecc.. ) così necessari alle coppie con figli piccoli.

Inoltre, le donne spesso subiscono una discriminazione “in ingresso” (Eagly & Carli, 2007) nel senso che non vengono assunte proprio perché potrebbero decidere di avere figli e dunque assentarsi dal lavoro per periodi prolungati.

Il “peso” della genitorialità viene allora evitato ritardando il momento del concepimento o quando possibile spostato sulle generazioni precedenti, i nonni, i quali oltre a disporre in media di maggiori risorse di tempo, hanno un forza economica quasi sempre non paragonabile a quella della giovane coppia.

Maggior tempo da dedicare ai nipoti e maggiori risorse economiche determinano nella pratica dei problemi nella definizione della leadership familiare tra giovani ed anziani della famiglia.

Queste condizioni, soprattutto legate al mondo del lavoro, possono far desistere molte coppie dall’avere figli o farle decidere per un posticipo.

Cambiamenti sociali

Un ulteriore fattore da considerare nell’analizzare il fenomeno del ritardo nella genitorialità è la scolarizzazione sempre più alta e specializzata. Essa sul piano pratico comporta uno spostamento sempre più in avanti nel tempo della fine degli studi e dell’avvio, nei casi più positivi, di una solida carriera lavorativa dopo il percorso universitario. In media i giovani laureati arrivano a strutturare una buona posizione lavorativa non prima dei 30 – 34 anni.

È interessante notare che tale periodo della vita è risultato negli ultimi decenni quello con la maggiore predisposizione al concepimento. Se decidere di avere un figlio a carriera già avviata e non durante gli studi è una scelta per molti aspetti ragionevole – in quanto assicura maggiore autonomia economica e dunque maggiore sicurezza rispetto a possibili imprevisti o alla possibilità di fare scelte progettuali – va segnalato che la  sovrapposizione tra l’età media nella quale si hanno figli e quella nella quale si ha il vero sviluppo della carriera professionale crea una competizione tra questi due aspetti, nella quale fatalmente è la genitorialità ad avere minori chances di vittoria.

Cambiamenti culturali

I cambiamenti culturali rappresentano certamente un fattore di grande importanza nella determinazione del ritardo nella genitorialità. In particolar modo è l’emancipazione femminile a giocare un ruolo fondamentale: essa infatti ha comportato uno slittamento in avanti dell’età media nella quale si ha il primo figlio in quanto le donne hanno oggi più possibilità (e desiderio) di studiare, di lavorare e di essere indipendenti rispetto ad alcuni decenni fa.

Se si collega questa situazione con quanto detto più sopra rispetto alle discriminazioni in ambito lavorativo cui le donne sono spesso fatte oggetto, si comprende ancora meglio la scelta di molte di loro di attendere prima di avere un figlio, anche perché spesso una volta rientrate dalla maternità non riescono a recuperare il loro posto di lavoro.

Stabilità economica

Tale aspetto è fortemente correlato ai precedenti: la stabilità economica nella nostra società occidentale si raggiunge come detto sempre più tardi e ciò influisce significativamente sulle scelte di genitorialità.

Maturità emotiva e cognitiva

L’età avanzata comporta solitamente un irrobustimento della consapevolezza di sé e delle proprie capacità, nonché un’identità più strutturata. Le persone potrebbero perciò decidere di aspettare questa conquistata coscienza di sé e della propria identità prima di concepire un bambino, anche alla luce del fatto che negli ultimi decenni è molto aumentata la sensibilità verso l’infanzia.

Inoltre, scegliere di fare un figlio più tardi può essere riconducibile al desiderio di fare esperienze da giovani che altrimenti la cura di un bambino non permetterebbe (Chodorow, 2003).

Da non sottovalutare sono infine le sfide classiche, sia fisiche che psicologiche, poste dal diventare genitore: il parto, la ridefinizione dell’identità da “figlio” a “genitore”, l’abbandono di aspetti individualistici. Questi aspetti faticano in molti casi a trovare un’armonizzazione con una tendenza più generale legata ad una infantilizzazione delle nuove generazioni, connessa anche in questo caso al ritardo nel raggiungimento di un’indipendenza economica ma anche a stili educativi che tendono ad iperproteggere i figli e ad evitare loro le fatiche della crescita e dell’assunzione di responsabilità.

Che conseguenze comporta la genitorialità tardiva?

Una volta delineati i fattori macrosociali ed il processo di decision making legato al diventare genitori tardivamente, vediamo le possibili conseguenze di tale scelta.

I rischi fisici per la madre

In primo luogo, molti studi hanno rilevato che l’età avanzata della puerpera è correlata con diverse conseguenze negative per il figlio. Esistono evidenze di complicazioni importanti sul piano biologico, soprattutto legate al periodo della gravidanza. Alti sono infatti i rischi di aborto spontaneo in quanto a quarant’anni una donna ha il 40-50% di possibilità di perdere il bambino prima della nascita.

Il rischio di avere un bambino con delle anomalie cromosomiche è di 1 su 350 a 35 anni mentre si impenna drammaticamente a 45 anni, divenendo 1 ogni 35 nati (Guida Genitori, 2020). Ulteriori rischi legati alla genitorialità tardiva sono poi da associare alla salute della madre: la gravidanza ectopica (impianto dell’embrione in sedi diverse dalla cavità uterina), la pre-eclampsia (ovvero una sindrome caratterizzata da ipertensione, edema e proteinuria), il diabete gestazionale e le complicanze durante il parto sono i rischi maggiori.

I rischi psicologici per la madre

Avere un figlio tardi è correlato con il rischio per la madre di sviluppare un disagio psicologico e sociale di matrice depressiva ed ansiosa. Diversi studi collegano infatti la maternità tardiva alla depressione post parto (vedi ad esempio Carlson, 2011; Aasheim et al., 2012). Rispetto alle ipotesi esplicative di un tale aumentato rischio depressivo, rilevante sembra essere la concezione negativa della maternità tardiva che la società attualmente conserva: Muraca & Joseph (2014) sostengono che gli amici e le persone attorno alla neo mamma potrebbero stigmatizzare e giudicare la sua scelta di maternità tardiva ritenendola “azzardata”, “pericolosa” e facendole mancare il sostegno sociale. Persiste ancora infatti nel senso comune l’idea che concepire figli in età avanzata rappresenti una decisione puramente egoistica della donna, che non prende in considerazione le possibili conseguenze per il bambino. Il rischio per le donne divenute madri tardivamente di diventare vittima di pregiudizi da parte dei loro contesti di appartenenza (comunità, amici, famiglia) è confermato anche da un recente studio di Mistretta & Giusti (2020).

A tal proposito riteniamo che, traendo spunto dalla teoria delle depressioni elaborata da Ugazio (2012) e da quella elaborata da Linares (2003), si possa sul piano psicologico affermare che i sintomi depressivi nella neo mamma tardiva possano avere una doppia funzione:

  • prevenire potenziali attacchi giudicanti e svalutanti da parte degli altri: manifestare infatti sintomi depressivi dopo la nascita del figlio potrebbe avere il significato di proteggere la madre, attraverso l’esaltazione delle proprie difficoltà, da possibili attacchi di terzi.
  • allo stesso modo tali sintomi potrebbero avere la funzione di smorzare eventuali pensieri aggressivi della madre verso chi lei pensa la stia giudicando ed attaccando, mantenendo così il legame con i soggetti comunque per lei significativi.

Altre ricerche evidenziano un possibile rischio legato allo sviluppo di sintomi d’ansia nelle madri tardive. Esse infatti vivono fortemente il timore di perdere il bambino, sviluppano preoccupazioni riguardo una loro possibile futura adeguatezza sociale e riguardo la loro identità come madre anche e soprattutto perché non rispondente alle classiche aspettative sociali di madre giovane.

Il diventare madre tardivamente si accompagna infine ad un maggiore timore della propria morte, e allo spettro dell’impossibilità di accompagnare i figli in tutte le loro fasi della crescita (Shaw & Giles, 2009).

I rischi fisici per il figlio

La ricerca evidenzia alcuni rischi per i figli di genitori anziani di sviluppare conseguenze fisiche negative. Dal punto di vista fisico sono stati infatti confermati problemi legati all’aumento dell’indice di massa corporea (IMC), della pressione sanguigna e riduzione dell’altezza (Carslake et al., 2017).

L’aumento invece dell’età paterna alla nascita è associato nei bambini ad esiti avversi come la natimortalità.

In oltre 40 milioni di nati vivi negli Stati Uniti tra il 2007 e il 2016, avere un padre più anziano ha poi aumentato il rischio di peso troppo basso alla nascita e di parto prematuro (Khandwala et al., 2018).

I rischi psicologici per il figlio

Dal punto di vista psichiatrico Sandin et al. (2012) e Lee & McGrath (2015) evidenziano un rischio definito “importante” di sviluppare autismo nei figli di genitori “anziani”.

Altre condizioni patologiche correlate alla condizione di essere figli di genitori anziani sono il disturbo bipolare in età adulta (Menezes et al., 2010), sintomi depressivi, ansia e stress (Tearne et al., 2016), scarso funzionamento sociale (Weiser et al., 2008).

Uno studio sulla popolazione danese, che ha riguardato 2,8 milioni di persone, ha rilevato che i padri più anziani sono maggiormente a rischio di avere figli con disabilità intellettiva e schizofrenia (McGrath et al., 2014).

Mentre l’età paterna avanzata è stata principalmente associata a esiti negativi per la salute fisica e nel neurosviluppo, con patologie come autismo e schizofrenia, l’età materna particolarmente avanzata sembra piuttosto predire problemi di salute mentale con una componente psicosociale più marcata, come problemi di  esternalizzazione (Zondervan‐Zwijnenburg et al., 2019).

I vantaggi

Oltre agli aspetti negativi sul piano della salute fisica e del rischio psicologico, va detto che essere figli di genitori in età più avanzata può comportare anche dei vantaggi. Questi genitori infatti non solo hanno in misura maggiore una posizione socio-economica migliore rispetto a quelli giovani (Bray et al., 2006) ma hanno anche una maggiore esperienza di vita. Essi mostrano più resilienza (McMahon et al., 2007), tendono a fare meno uso di sostanze e ad avere meno problemi di salute mentale (Kiernan, 1997) rispetto ai genitori più giovani.  Alcune ricerche dimostrano che le madri più anziane meno frequentemente usano punizioni mentre sono più sensibili ai bisogni del bambino e forniscono più sostegno emotivo al figlio (Trillingsgaard & Sommer, 2018).  Oltre a ciò le madri più anziane tendono ad avere comportamenti di salute migliori durante la gravidanza.

Vi sono infine risultati in letteratura che mostrano come l’età materna superiore ai 30 anni sia predittiva di una maggiore autosufficienza del figlio in età adulta, il quale raggiungerebbe esiti scolastici e psicosociali migliori (Fergusson, 1999; McGrath et al., 2014).

Che interpretazione è possibile dare a questi dati e quali scenari si possono immaginare?

Come abbiamo visto avere un figlio in tarda età rappresenta un’eventualità determinata da una scelta personale ma anche da specifiche condizioni e necessità.

Dunque una scelta a metà o, all’opposto, una mezza risorsa, se si enfatizzano i vantaggi per i genitori ed il bambino.

I dati relativi ai rischi sia per la salute che per l’equilibrio psicologico sono di complessa interpretazione: laddove avendo figli tardi possono esservi rischi sul piano fisico per madri e figli, possono esservi anche vantaggi sociali e psicologici, soprattutto legati a migliori abilità di accudimento  e di sintonizzazione con i bisogni del bambino.

Laddove invece avere figli presto diminuisce il rischio biologico, risultano maggiori i rischi sul piano sociale ed educativo, soprattutto connessi alla giovane età dei genitori e alla loro ridotta esperienza di vita.

In definitiva dunque si tratta di un quadro con rischi ed opportunità in entrambi i casi.

Quale può essere il destino di genitorialità per i figli di genitori anziani?

Sul piano prospettico si può ora riprendere il tema introdotto all’inizio di questo lavoro, ovvero la questione relativa al destino dei figli di genitori anziani in merito all’età nella quale diverranno loro stessi genitori.  L’ipotesi qui presentata, ovvero che figli di genitori vecchi diventeranno a loro volta genitori in tarda età, è sostenuta considerando quasi esclusivamente variabili di tipo macro sociale: non vi sono infatti, dai dati raccolti, elementi “micro sociali” (a livello delle singole famiglie) che possono a nostro giudizio realmente influenzare queste scelte su vasta scala.

A livello macro sociale le componenti che possono spingere oggi, ma anche in futuro, un soggetto a diventare genitore in tarda età sembrano collegate al fatto che:

  • è molto difficile (e verosimilmente continuerà ad esserlo) raggiungere in giovane età una solida indipendenza economica, anche considerando che il percorso di studi dura sempre più a lungo e che chi non studia inizia un percorso fatto di lavori precari con contratti temporanei;
  • l’emancipazione dei figli dalla famiglia, in una società (quella occidentale) altamente complessa, è sempre più tardiva e in media non promossa attivamente dagli stessi genitori i quali, investendo molto sui loro figli (economicamente ma anche affettivamente) tendono a riporre in loro importanti aspettative compensatorie e di riscatto /ascesa sociale, tendendo a “guidarli” dunque per molto tempo;
  • avere genitori anziani ma in forma e con risorse economiche che i figli non hanno quando raggiungono l’età adulta, comporta un prolungamento nel figlio di una condizione di dipendenza dalla famiglia.

Avere genitori “vecchi” ma in buona salute, non avere in media dei fratelli con cui condividere l’accudimento dei genitori anziani (visti i tassi di natalità sempre più bassi), vivere in una società dove il sistema di welfare e quello lavorativo sostengono poco le neo famiglie, determina il fatto che le nuove generazioni tenderanno  a fare figli sempre più tardi disponendo di risorse più scarse rispetto ai loro genitori alla loro età e dovendo verosimilmente accudire da figli unici i genitori, nel frattempo diventati ancora più vecchi e bisognosi di cure.

Dunque le nuove generazioni, rimanendo “figli” sempre più a lungo, avranno maggiori probabilità di ritrovarsi incastrate in una dinamica per la quale avranno meno risorse economiche e parallelamente si ritroveranno con genitori già anziani i quali, sebbene molto più in forma e giovanili rispetto al passato, avranno comunque sempre più bisogno di assistenza.

I figli di genitori anziani dunque rischiano di trovarsi, per sopravvivere e senza vere alternative sul piano lavorativo e di economia generale, a doversi prendere cura dei propri genitori fin da giovani e ciò comporterà problemi nella realizzazione di un precoce progetto familiare.

Questo spostamento in là nel tempo della genitorialità raggiungerà un livello massimo?

Come precedentemente menzionato se è vero che dal punto di vista biologico si riscontra uno slittamento dell’età utile al concepimento fino ai 50 anni, questa soglia risulta essere al momento un limite importante per la scienza, già di per sé pieno di rischi: la medicina conferma infatti l’esistenza di un orologio biologico, certamente oggi spostato in avanti ma pur sempre presente, che scandisce ancora le fasi del ciclo di vita anche se, come abbiamo visto, le pressioni di tipo sociale, economico e relazionale per uno slittamento in là nel tempo della genitorialità sono diventate negli ultimi decenni particolarmente significative.

 

 

Predatory Journals: cosa sono e come riconoscerli

Con il termine predatory journals si indicano riviste che danno la priorità all’interesse personale e che sono caratterizzate da informazioni false o fuorvianti.

 

Al giorno d’oggi, numerosissimi professionisti del campo scientifico, e nello specifico del settore sanitario, attingono alla letteratura scientifica per aggiornarsi su nuove evidenze, nonché sulle innovative teorie e tecniche da utilizzare con i propri utenti. Sebbene esistano molte riviste in grado di offrire dati attendibili, non tutti i giornali sono considerabili fonti sicure: tali testate sono definibili come predatory journals, letteralmente “giornali predatori” (Grudniewicz et al., 2019).

I predatory journals sono una minaccia globale, che opera accettando di pubblicare articoli senza eseguire controlli di qualità, importanti per questioni come plagio o approvazione etica. Le vittime in questione non sono solo i ricercatori, indotti a sottomettersi per garantire visibilità ai propri lavori che risultano spesso trascurati o incompleti, ma anche i curiosi lettori, ignari della mancanza di attendibilità delle evidenze. Uno studio che si è concentrato su 46.000 ricercatori con sede in Italia ha rilevato che circa il 5% dei ricercatori ha pubblicato presso tali riviste (Bagues et al., 2019).

Chiunque conosca tale fenomeno concorderà sulla confusione generata da questi enti, nonché sulle risorse sprecate da questi ultimi. Non appare facile combattere questo tipo di pratica, ed un fattore che potrebbe ostacolare la lotta all’editoria predatoria potrebbe essere la mancanza di una definizione condivisa di questo fenomeno, assenza che genera confusione tra professionisti e profani che attingono alle fonti in questione. Formulare una definizione universale fornirebbe un punto di riferimento per la ricerca sulla loro prevalenza e influenza, e aiuterebbe ad elaborare nuovi interventi pertinenti.

Un team di professionisti capitanato da Grudniewicz e Moher, si è recentemente occupato di tale questione, riunendosi a Ottawa con l’obiettivo di mappare soluzioni al problema.

I 43 partecipanti provenivano da 10 differenti paesi, e rappresentavano società editoriali, finanziatori di ricerca, ricercatori, responsabili politici, istituzioni accademiche, biblioteche, pazienti ed operatori sanitari che si impegnano in modo proattivo nella ricerca. Durante la sperimentazione, i professionisti hanno completato un sondaggio Delphi che includeva 18 domande e 28 sotto-domande, seguito da 12 ore di discussione e 2 ulteriori cicli di feedback e revisione. Il summit ha portato al raggiungimento di una specifica definizione: il gruppo ha definito i predatory journals come “riviste che danno la priorità all’interesse personale a scapito delle borse di studio e che sono caratterizzate da informazioni false o fuorvianti, deviazione dalle migliori pratiche editoriali e di pubblicazione, mancanza di trasparenza e/o uso di pratiche di adescamento aggressivo e indiscriminato” (Grudniewicz et al., 2019).

Questa operazione ha rappresentato un importante passo nella lotto contro i predatory journals, ma non è l’unico mezzo utilizzabile per evitare cadere nelle loro trappole. Esistono infatti più di novanta checklist per aiutare a identificare le riviste predatorie, che elencano caratteristiche come “presentazione sciatta” o “titoli che includono parole come internazionale”. Ciò detto, solo tre delle novanta liste sono state sviluppate utilizzando evidenze di ricerca (Grudniewicz et al., 2019). I predatory journals hanno infatti individuato il modo di penetrare in questi elenchi, modificandoli.

In seguito, un sunto delle liste attendibili contenenti le principali caratteristiche da tenere a mente per riconoscere i predatory journals:

  • Informazioni false o fuorvianti presenti nel sito web.
  • Deviazione dalle migliori pratiche editoriali e di pubblicazione, come errori di grammatica o ortografia e richiesta di trasferimento del copyright quando si pubblica un articolo ad accesso libero.
  • Mancanza di certificazione dal COPE, comitato per l’etica delle pubblicazioni (ing. Committee on Publication Ethics) o dal DOAJ, associazione degli editori accademici ad accesso aperto: è bene fare attenzione a questi dettagli, poiché le riviste non possono essere elencate nel DOAJ o entrare a far parte del COPE fino a dopo un anno di attività, ed un giornale ben intenzionato ma con scarse risorse potrebbe non essere in grado di mantenere un sito web professionale.
  • Mancanza di trasparenza, come l’assenza di informazioni di contatto o dei dettagli sulle spese di elaborazione dell’articolo: nei siti web dei predatory journal gli editori e i membri dei loro comitati editoriali sono spesso non verificabili.
  • Sollecitazione aggressiva e indiscriminata nel richiedere materiale da pubblicare, come e-mail ripetute inviate ai ricercatori.

Finora, i numerosi tentativi di affrontare l’editoria predatoria non sono stati in grado di controllare questo problema, che continua ad essere in continua crescita. È improbabile che la minaccia scompaia finché le università utilizzeranno il numero di pubblicazioni prodotte da uno studioso come criterio per l’avanzamento di carriera. La cultura del “pubblicare o perire”, la mancanza di consapevolezza e la difficoltà nel discernere le pubblicazioni illegittime favoriscono l’esistenza di riviste predatorie (Grudniewicz et al., 2019). Per questo motivo, quello di Grudniewicz e Moher è un piccolo grande passo in favore del cambiamento. Conoscendo il fenomeno e le sue caratteristiche, è possibile limitare i danni e la confusione causati dai predatory journals.

La capacità genitoriale nei processi separativi: dal valutare al descrivere

È ancora consuetudine, nei procedimenti relativi all’affidamento dei figli successivamente alla separazione dei genitori, disporre una consulenza tecnica d’ufficio per una valutazione della capacità genitoriale. A che scopo?

 

Il tetto si è bruciato
ora
posso vedere la luna (Mizuta Masahide)

La psicologia, in maniera diretta o indiretta, si è sempre occupata di figli e genitori.

Occupare è un verbo interessante poiché contempla sia l’essere attivi, la necessità di fare, che la passività propria del mettersi al servizio. Anche l’essere genitore è un po’ questo: essere attivamente al servizio del benessere del figlio.

Quando lo psicologo entra in tribunale in qualità di consulente del giudice nelle controversie relative all’affidamento dei figli è però sollecitato non ad occuparsi ma a valutare.

La separazione tra i genitori contiene in sé sia un elemento di sofferenza che una possibilità evolutiva.

Dal trauma della separazione si dipanano due strade. La prima, lastricata di immutabile dolore, indirizza verso il tetto fumante. La seconda, caratterizzata dall’instabilità propria dei processi evolutivi, offre la possibilità di ammirare la bellezza della luna. La prima strada, fatta di dolorose certezze, si presta alle valutazioni; la seconda, con le sue instabili potenzialità, sollecita ad occuparsi del benessere di genitori e figli lasciando sullo sfondo la necessità di valutare.

Dall’individuazione del genitore affidatario al diritto alla bigenitorialità

La necessità di procedere alla valutazione dei genitori ha fatto il suo ingresso nel nostro ordinamento con la legge 19 maggio 1975, n. 151, Riforma del diritto di famiglia, con cui si sanciva che nel caso di separazione tra i coniugi il superiore interesse dei figli venisse garantito dall’individuare un genitore affidatario, a cui veniva concesso l’esercizio esclusivo della potestà, ed un genitore non affidatario su cui gravava il diritto/dovere di vigilare sull’operato dell’affidatario:

Il coniuge cui sono affidati i figli, salva diversa disposizione del giudice, ha l’esercizio esclusivo della potestà su di essi; egli deve attenersi alle condizioni determinate dal giudice. Salvo che sia diversamente stabilito, le decisioni di maggiore interesse per i figli sono adottate da entrambi i coniugi. Il coniuge cui i figli non siano affidati ha il diritto e il dovere di vigilare sulla loro istruzione ed educazione e può ricorrere al giudice quando ritenga che siano state assunte decisioni pregiudizievoli al loro interesse (art. 155 del C.C. modificato dalla legge 151/1975).

Pertanto era compito del giudice sondare le caratteristiche e le capacità di entrambi i genitori e scegliere quello più idoneo a svolgere la funzione di affidatario. Ciò rendeva necessario effettuare sempre e comunque un bilancio di competenze.

Con la legge 8 febbraio 2006, n. 54, Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli il distinguo tra affidatario e non affidatario esce di scena:

Anche in caso di separazione personale dei genitori il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno di essi, di ricevere cura, educazione e istruzione da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale (art. 155 del cod.civ. modificato dalla legge 54/2006).

Successivamente con il Decreto Legislativo 28 dicembre 2013, n. 154, Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell’articolo 2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219 si chiarisce inoltre che la responsabilità genitoriale, su disposizione del giudice e limitatamente alle questioni di ordinaria amministrazione, può essere esercitata da entrambi i genitori anche separatamente:

Limitatamente alle decisioni su questioni di ordinaria amministrazione, il giudice può stabilire che i genitori esercitino la responsabilità genitoriale separatamente (art.55 D.Lgs 154/2013).

Né la legge 54/2006 né le successive modifiche menzionano e nemmeno lasciano intendere che le modalità di affidamento dei figli debbano basarsi sull’individuazione del genitore migliore.

Dopo trent’anni la Legge rinunciava a valutare i genitori e decideva, invece, di occuparsi esclusivamente del benessere dei figli.

Aver individuato come fondamentale il diritto del figlio a mantenere il rapporto con i propri genitori anche successivamente alla rottura del vincolo affettivo tra di loro non avrebbe dovuto far abbandonare l’idea di misurare delle competenze?

La priorità del Legislatore (e dunque del giudice chiamato a mettere in pratica la norma) è quella di garantire il diritto del figlio alla propria imperfetta e scissa famiglia o, ancora una volta, esprimere un giudizio sui genitori?

Sintetizzando: Se la tutela del figlio non passa più attraverso l’individuazione del genitore migliore per quale motivo continuare a valutarli?

Il diritto del figlio tra consolidate prassi ed opportune tutele

Tuttavia è ancora consuetudine nei procedimenti relativi all’affidamento dei figli successivamente alla separazione dei genitori per i quali viene disposta una consulenza tecnica d’ufficio chiedere di procedere ad una valutazione della capacità genitoriale. A che scopo? Mi si potrebbe rispondere che questo accade perché ci si trova dinanzi ad una situazione problematica che necessita di grande attenzione. Potrei ribattere che la cosa avrebbe senso nei procedimenti c.d. ablativi e modificativi della responsabilità genitoriale (art. 330 e 333 cod.civ.) ossia nei casi in cui si deve accertare la presenza di una violazione dei doveri dei genitori nei confronti dei figli o di abuso dei poteri, ove da simili comportamenti possano derivare gravi pregiudizi in capo ai minori.

Potrei ribattere? Pensandoci bene forse no. Iura novit curia (Il giudice conosce le leggi) sussurra il professore di latino del liceo invitandomi al silenzio.

Va bene. Prendete tutto quello che ho scritto fin qui come un mero esercizio di logica astratta, privo di quella competenza giuridica necessaria per poterlo argomentare pienamente.

È tempo di rientrare nel perimetro di una psicologia declinata con la modalità obbediente ed esecutiva che dovrebbe caratterizzare il professionista chiamato dal giudice in qualità di consulente al fine di sostenerlo nel proprio discernimento.

Con tale abito mentale mi rivolgo alle buone prassi nelle quali si specifica che dall’analisi della genitorialità potrebbe derivare sia un affidamento esclusivo (cosa questa che non modifica il diritto del figlio ad avere rapporti equilibrati e continuativi con entrambi i genitori) sia, in casi estremi ritengo, l’esclusione di entrambi i genitori dall’esercizio della genitorialità

(Protocollo di Milano: Linee guida per la consulenza tecnica in materia di affidamento dei figli a seguito di separazione dei genitori: contributi psico-forensi. “Nella valutazione delle capacità genitoriali, per regolare la frequentazione del minore con entrambi i genitori o eventualmente per escludere dall’affidamento uno o entrambi i genitori, l’esperto dovrà tener conto dei criteri minimi relativi alle capacità genitoriali, che riguardano essenzialmente la funzione di cura e protezione, la funzione riflessiva, la funzione empatica/affettiva, la funzione organizzativa”). Tale scenario richiederebbe però l’attivazione di procedimenti giuridici di tutela nei confronti del figlio di diversa natura rispetto a quelli che regolamentano, invece, l’affidamento successivamente alla rottura del vincolo affettivo tra i genitori.

Scusate ma, nonostante il professore di latino, il pensiero non mi abbandona.

Ma atteniamoci ai fatti: non si può prescindere dalla valutazione della genitorialità.

Tutto chiaro o quasi dal momento che manca una definizione univocamente riconosciuta di quella genitorialità che l’esperto è chiamato a valutare. Non vi affannate a cercare, lo faccio da anni, non la troverete. Nella ricerca vi imbatterete, sicuramente, in ampie ed utilissime descrizioni riguardo a quali siano gli intenti a cui deve mirare la genitorialità ma mai una definizione univoca di cosa sia la genitorialità che, per ammissione degli stessi autori che se ne sono occupati, è qualcosa di instabile e mutevole e dunque difficile da cristallizzare.

A questo punto decisamente dovrei smetterla di cavillare e lasciar perdere tutte queste riflessioni. Purtroppo non riesco e, anzi, a peggiorare la situazione, ricompare il professore di latino che provvede a completare la frase precedente iura novit curia, facta sunt probanda (Il giudice conosce le leggi, i fatti vanno provati) poi, giusto per rafforzare il disorientamento, si fa avanti il professore di filosofia che cita Euclide (Ciò che è affermato senza prova, può essere negato senza prova) e, per finire, il docente di teorie e tecniche dei test dei tempi dell’università che conclude facendo notare come non esista nessun test in grado di ponderare (ossia di fornire prove!) la capacità genitoriale dal momento che il termine test individua delle procedure oggettive che permettono di misurare un costrutto psicologico (che al momento rispetto alla genitorialità manca) attraverso un campione di comportamento.

Pertanto la valutazione della genitorialità richiesta dal giudice dovrebbe essere effettuata in assenza di una definizione univoca e, di conseguenza, senza poter fare affidamento su uno strumento standardizzato.

Non potendo fornire prove oggettive cerco fiduciosa conforto nella consuetudine operativa di effettuare delle valutazioni sulla personalità dei genitori, queste sì possibili attraverso test che posseggono tutte le caratteristiche psicometriche necessarie.

Tali valutazioni, anche quando non espressamente richieste, costituiscono una prassi all’interno delle consulenze nei procedimenti relativi all’affidamento dei figli.

Per rispettare le prassi, però, dovrei almeno individuare i necessari riferimenti scientifici a sostegno di un percorso tortuoso che utilizza la valutazione della personalità del padre e della madre come elemento oggettivo e dunque oggettivante nella valutazione della capacità genitoriale.

Purtroppo mi imbatto in una dolorosa scoperta dal momento che la consuetudine ad utilizzare la valutazione della personalità dei genitori a corredo dell’analisi della capacità genitoriale comincia a scricchiolare sotto i colpi di analisi di stampo giuridico/psicologiche.

La genitorialità al servizio dei figli

A questo punto il programma di scrittura mi ricorda che ho utilizzato più di 2000 parole senza praticamente concentrarmi mai sul minore.

No, perdonate, minore nel senso di persona fisica che non ha ancora compiuto il diciottesimo anno di età, in questo caso proprio non va bene dal momento che così prenderei in considerazione solo l’elemento cronologico e non la natura delle relazioni familiari in cui il nostro minore è immerso e che devono essere osservate e tutelate. Figlio decisamente va meglio.

È il momento di scegliere un’altra prospettiva concentrandosi solo sul figlio e cercando di individuare una strategia operativa utile a sostenere il giudice nel faticoso lavoro che è chiamato a svolgere ossia quello di garantirne il diritto alla bigenitorialità.

In primo luogo è opportuno cercare di arrivare ad una definizione di genitorialità che, pur non avendo la pretesa di essere esaustiva, possa essere consona e fruibile all’interno del contesto giuridico.

Provo: per genitorialità si intende la relazione tra due esseri umani che si sono impegnati solidalmente nei confronti di un altro essere umano, riconosciuto da entrambi, o per nascita, o per adozione o per vincolo affettivo, come figlio.

Il fine a breve termine della genitorialità è quello di garantire al figlio la soddisfazione dei propri bisogni evolutivi attraverso l’esercizio di quelle funzioni-base già ampiamente descritte in letteratura, il fine a lungo termine della genitorialità è il raggiungimento da parte del figlio di un’autonomia ed una maturità tali da rendere possibile lo svincolo dai genitori o, in alternativa, il maggior livello possibile di autonomia rispetto ad essi.

La genitorialità così intesa è un indissolubile vincolo relazionale che impone ai genitori a seconda delle circostanze, dei bisogni e dei contesti, di cooperare o di rappresentarsi reciprocamente agli occhi del figlio o, addirittura, di sopperire l’uno alle mancanze dell’altro.

La genitorialità fin qui delineata potrebbe essere definita solidale rifacendosi al concetto giuridico di antica tradizione dell’obbligazione in solido.

Ubi duo rei facti sunt, potest vet ab uno eorum solidum peti (se vi sono due obbligati solidali può essere chiesto il tutto ad uno solo di loro – Pandette di Giustianiano 533 d. C.-)

La genitorialità solidale tutela sempre, interamente, il figlio anche quando uno dei due genitori (uno dei due obbligati se utilizziamo una terminologia giuridica) è manchevole o del tutto impossibilitato a fornire il proprio contributo.

Nel riconoscere il bambino come figlio i genitori si obbligano per sempre, solidalmente, nei suoi confronti. Tale vincolo, a differenza di quello affettivo e/o coniugale, non può essere sciolto.

Individuata non la definizione ma una definizione di genitorialità e preso atto del fatto che non abbiamo a disposizione strumenti in grado di valutarla si potrebbe procedere ad osservarla stimolando i genitori, attraverso una narrazione condivisa, ad esplicitare come si sono occupati del figlio prima e dopo la rottura del vincolo.

Accade spesso, nelle coppie non più unite, di osservare una condivisione rispetto agli obiettivi del parenting ma una divergenza rispetto alle modalità pratiche con cui raggiungerli. Tali diversi modi di essere genitori rappresentano uno stile individuale che di sovente, soprattutto se osservato all’interno di un’attività peritale, diviene elemento di reciproca doglianza.

La presenza di un diverso stile può avere ricadute negative sul figlio non perché egli si debba interfacciare diversamente con i due genitori (elemento questo fisiologico se non addirittura auspicabile) ma perché questi due stili gli vengono presentati continuamente come antiteticamente contrapposti e reciprocamente escludentisi.

Uno dei rischi maggiori per il figlio successivamente alla separazione dei genitori pertanto non è lo sviluppo di conclamate patologie ma, piuttosto, la tendenza a sviluppare una fragilità, un disagevole senso di inconsistenza, di precarietà. Se i genitori non sono più solidali il figlio non sarà più solido.

Per il figlio, in qualità di beneficiario ed a differenza dei genitori, sarà non solo utile ma addirittura indispensabile utilizzare strumenti psicologici il più possibile oggettivi (tests standardizzati, proiettivi grafici, interviste). Lo scopo di questa osservazione scrupolosamente documentata sarà quella di descrivere il bambino e di offrire al giudice tutti gli elementi idonei sia a conoscere il grande assente (non è infrequente che il giudice non incontri mai il figlio pur dovendolo tutelare) sia ad acquisire gli elementi necessari a stabilire se vi è corrispondenza tra i bisogni del figlio e la genitorialità così come viene esercitata dai genitori.

La consulenza, abbandonata per sempre la necessità di valutare singolarmente i genitori, dovrebbe poi, per essere realmente tutelante per il figlio, individuare le reali risorse e potenzialità della famiglia.

A tal fine potrebbe essere utile, adattandoli ovviamente, utilizzare dei costrutti già noti alla psicologia dello sviluppo individuando una zona attuale ed una zona potenziale di sviluppo.

La zona attuale rappresenta la genitorialità così come esercitata nel presente, la zona prossimale costituisce il potenziale della coppia ossia il luogo del possibile cambiamento.

Tutti questi elementi permetteranno al magistrato non di applicare astrattamente la Legge a tutela di un diritto che resterebbe anch’esso astrattamente garantito ma, piuttosto, mostrando i concreti bisogni del figlio e le reali risorse genitoriali lo aiuteranno ad individuare non la soluzione migliore ma quella che la famiglia è in grado di sostenere.

Il passare dal valutare al descrivere richiederebbe poi l’individuazione di nuovi tipi di quesiti da proporre al consulente.

Mi concedo pertanto, come ultima libertà, la possibilità di formulare un quesito che consenta di abbandonare il giudizio sui genitori per abbracciare totalmente la tutela del figlio.

Provveda il ctu ad effettuare una descrizione della genitorialità precisando se e come questa si è modificata successivamente alla rottura del vincolo affettivo tra i genitori e precisando se e come, attualmente, i genitori sono in grado di operare solidalmente nei confronti del figlio. Rispetto all’esercizio attuale della genitorialità provveda il ctu a suggerire, qualora ne ravveda la necessità, le possibili ed utili modifiche atte a garantire al meglio il soddisfacimento dei bisogni evolutivi del figlio e, in particolar modo, il suo diritto a mantenere rapporti stabili e continuativi con entrambi i genitori e con gli ascendenti di ciascun ramo genitoriale.

 

Il Neo-Funzionalismo e le Neuroscienze

La persona come un organismo complessivo e integrato corpo-mente, costituito da vari Sistemi profondamente interrelati: questa è una delle concezioni fondamentali che costituiscono l’area di pensiero del Neo-Funzionalismo. Il Neo-Funzionalismo guarda al funzionamento degli organismi viventi, guarda a ciò che è alla base di comportamenti, atteggiamenti, parole, pensieri.

 

Il Neo-Funzionalismo e Sistemi Integrati

Da tempo mi occupo di guardare alla persona come un organismo complessivo e integrato corpo-mente, costituito da vari Sistemi profondamente interrelati. Questa è una delle concezioni fondamentali che costituiscono l’area di pensiero del Neo-Funzionalismo che sono andato curando e costruendo sin dagli anni 80. Guardare alla persona intera, con tutti i relativi aspetti psicocorporei che la costituiscono, è oramai qualche cosa che non può essere più trascurato, perché mente e corpo non sono aspetti separati, e neanche le due facce di una medesima medaglia, ma sono una unitarietà inestricabile, che se non viene compresa in questo modo non può essere veramente studiata, affrontata e curata: la nuova frontiera del sapere non può che muoversi su questa concezione.

Ma cosa sono i Sistemi Integrati?

Sono l’insieme di tutte le Funzioni psicocorporee che costituiscono il Sé, raggruppate, però, nei Sistemi che le varie discipline scientifiche studiano il più delle volte separatamente (Rispoli, 2016).

Oggi sappiamo con molta chiarezza che i vari Sistemi psico-corporei sono integrati tra di loro: Sistema Nervoso Centrale, Sistema Nervoso Periferico, Sistema Neurovegetativo: tutti interconnessi tra di loro e con il Sistema Endocrino, il Sistema Immunitario, il Sistema Emozionale, Cognitivo, Ideativo, Percettivo (modulazione, creazione e percezione di emozioni, vissuti, pensieri), nonché, non ultimo per importanza, il Sistema Sensoriale – Posturale – Motorio (Fig. 1).

Neo Funzionamento e Neuroscienze integrazione mente corpo Fig 1

Fig. 1: I Sistemi Integrati

Come siamo arrivati a queste nuove conoscenze?

Indubbiamente alcune importanti spinte in questa direzione sono venute dalle moderne concezioni e dalle nuove scoperte delle neuroscienze.

Da tempo sappiamo, ad esempio, che condizioni emotive e affettive positive producono modificazioni reali e concrete persino a livello neuronale, facilitando la creazione di sinapsi, ma anche di neuroni e relativi pattern di connessione (Siegel, 1999).

Ma è anche importante chiarire che queste scoperte devono poi essere incluse in un quadro teorico complessivo che le riversi nella scienza della psicoterapia. Non è più pensabile che una branca così importante per la salute e il benessere come la psicoterapia possa non tener conto degli avanzamenti delle discipline scientifiche che si occupano dell’uomo.

Da tempo ho sviluppato un quadro teorico di tal genere, cercando di superare la scissione mente-corpo costruendo la teoria delle Esperienze di Base e la concezione di un Sé unitario e integrato costituito da Funzioni psicocorporee. Nasce così un’area di pensiero che possiamo definire Neo-Funzionalismo, perché guarda al funzionamento degli organismi viventi, guarda a ciò che è alla base di comportamenti, atteggiamenti, parole, pensieri.

Il Neo-Funzionalismo

Il Neo-Funzionalismo si basa sui concetti di Funzionamenti e di Organizzazione (Rispoli, 2004-2016).

La psicologia Funzionale guarda alla persona nella sua interezza, corpo-mente: un insieme unitario e integrato in cui non c’è una mente che controlla tutto dall’alto, ma una circolarità di funzionamenti a tutti i livelli. Il Sé, allora, è l’Organizzazione delle Funzioni sia psichiche che corporee dell’organismo umano. Funzioni che, con la medesima importanza, sono tutte presenti e integrate tra di loro fin dalla nascita. Non sono “parti” ma ciascuna Funzione rappresenta l’intero Sé, affrontando così il problema delle parcellizzazioni e degli eccessivi riduzionismi.

La teoria fondamentale della psicologia Funzionale è quella delle Esperienze di Base del Sé (EBS). Il bambino si sviluppa spinto dalla motivazione di soddisfare i bisogni fondamentali della vita, e lo fa attraversando determinate esperienze indispensabili per una esistenza sana, armoniosa, in grado di sviluppare tutte le potenzialità dell’individuo; motivo per cui sono chiamate Esperienze di Base (Rispoli, 2004). Ogni Esperienza di Base è poi definita da una particolare configurazione di Funzioni posizionate in una precisa posizione dell’intera gamma tra le due polarità in cui esse possono collocarsi (Rispoli, 1996, 2004).

Le Esperienze di Base devono essere attraversate più volte e in modo positivo (in differenti situazioni) per diventare vere e proprie capacità nell’adulto, che io ho chiamato Funzionamenti di fondo, perché sono alla radice di comportamenti, parole, pensieri, atteggiamenti. Se le Esperienze di Base non sono aiutate dall’ambiente circostante (in primis la famiglia) possono restare carenti o alterate e inquinate da modalità e funzionamenti che non dovrebbero essere presenti in quella determinata EBS (ad esempio: la Forza Calma inquinata da rabbia esplosiva o rancorosa, o da insicurezza; il Prendersi l’altro inquinato da paure e da senso di impotenza).

Quando una Esperienza di Base non è vissuta in modo pieno e adeguato, alterazioni e carenze non permettono che diventi una piena capacità, un Funzionamento di fondo, e la persona si trova priva di alcune modalità che sono comunque importanti nella vita: nella relazione con sé stessi e con gli altri. È da carenze e alterazioni che hanno origine, poi, malesseri, disturbi, patologie.

Alcune concezioni delle neuroscienze relative all’integrazione mente-corpo

Guardiamo qui di seguito ad alcuni punti tra quelli più interessanti e avanzati delle neuroscienze, e che possono avere stretto collegamento con la psicoterapia in generale e con quella che opera sul mentale e corporeo in particolare.

Quello che in ogni caso emerge è la necessità di una teoria generale che guardi in modo integrato alla complessità del sistema umano, così come il Neo-Funzionalismo sta facendo da tempo (Rispoli, 2004-2016).

Non si può non essere d’accordo con Edgar Morin (1985) quando sostiene che la conoscenza è un fenomeno multidimensionale e che c’è bisogno di una teoria transdisciplinare che si sforzi di abbracciare l’oggetto, l’unico oggetto, continuo e discontinuo a un tempo, della scienza: la physis, cioè la totalità delle cose che esistono, che nascono, che vivono, che muoiono. Physis, in questo significato, è il mondo della vita sulla nostra terra.

L’intreccio tra pensiero razionale ed emotività

L’intelligenza è aiutata da emozioni positive, da condizioni favorevoli create dalle figure adulte e dall’ambiente circostante, condizioni che possono conservare e rendere piene e complete le Esperienze fondamentali che il bambino attraversa nella propria vita (le Esperienze di Base del Sé). È oramai superata l’idea che l’intelligenza possa svilupparsi in presenza di frustrazioni, di carenze affettive, di mancanze. Al contrario, una buona intelligenza ha bisogno di un ambiente accogliente capace di soddisfare i bisogni profondi del bambino (Goleman, 1997). Ed è perciò importante assicurare ai piccoli un buon attraversamento di tutte le Esperienze di Base coinvolgendo pienamente anche il corpo e i suoi Sistemi, in particolare quelli Sensoriali e Motori.

L’importanza del mondo sensoriale nella costruzione di significati

Non è il “mondo cognitivo e simbolico” che produce e regola le nostre sensazioni; anzi, possiamo dire che è quasi il contrario: è il mondo cognitivo a svilupparsi sempre di più e sempre meglio grazie alla presenza delle molteplici, importanti sensazioni in cui siamo immersi (R. Damasio, 2000, 2012). Le sensazioni ci guidano e ci forniscono la base fondamentale per orientarci nel nostro cammino e nel nostro agire, e le sensazioni vengono dal nostro organismo nella sua interezza. Possiamo ben dire, allora, che siamo di fronte a fenomeni e funzionamenti integrati, dove non è più possibile sostenere la priorità della mente, vederla come un’entità che regola tutto il resto gerarchicamente dall’alto; bisogna invece vederla come un elemento dell’insieme di Funzioni, della organizzazione di Funzioni che concorrono tutte, con la medesima importanza, a costituire il Sé complessivo della persona.

La presenza di movimenti e posture (ma anche di precise attivazioni fisiologiche) nell’insorgere delle emozioni

Le emozioni (come già aveva scoperto James all’inizio ‘900) non sono solo un vissuto intrapsichico, una rappresentazione mentale, visti come elementi astratti che hanno la loro unica origine nelle strutture del Sistema Nervoso Centrale (P. Lang, 1994; J. Prinz, 2004; J.R. Angell 1907). Sono, invece, legate ai movimenti e al loro modo caratteristico di essere, alle posture che la persona assume, all’attivazione di vari sistemi fisiologici: dalla respirazione al Sistema Neuroendocrino; il tutto connesso in maniera indissolubile alle strutture del sistema Nervoso Centrale, e in particolare (ma non solo) all’area limbica e all’ipotalamo.

Inoltre, gli avvenimenti del passato possono aver modificato il funzionamento di movimenti e posture (ma anche di Sistemi Fisiologici interni) lasciando delle “tracce” permanenti, delle stereotipie di funzionamento, che costituiscono la memoria periferica. Questi funzionamenti, non più mobili ma stereotipati, si attivano quando noi agiamo, mettendo in movimento l’organismo intero e la sua memoria, e ci trasmettono percezioni ed emozioni alterate e non collegate alla realtà del momento, ma collegate chiaramente ai funzionamenti complessivi alterati del nostro Sé.

Superamento della concezione cibernetica del cervello

Oggi viene contestata l’idea che il cervello possa essere paragonato realmente ad un computer. Niels Bohr (1963) ha sostenuto che i processi fisici che danno luogo all’attività mentale sono sicuramente processi quantistici. E Penrose sostiene che nel cervello succedono cose che un computer non può fare (1996). Da un’epistemologia causale-lineare si passa a un’epistemologia circolare, secondo cui a determinare un fenomeno o un evento non vi è una sola causa ma tante concause e ogni evento, a sua volta, agisce sulle cause che lo hanno prodotto.

Nessun algoritmo ci permetterebbe di reagire in modo così efficace e variato con l’ambiente come riesce a fare l’essere umano. Solo la continua alternanza di variazione e selezione delle opzioni più efficaci ce lo permette.

Ma le opzioni più efficaci nell’agire nel mondo non sono altro, in effetti, che determinati Funzionamenti di fondo aperti e consolidati (con tutte le loro varie coloriture e sfumature), che la persona può scegliere ed utilizzare nel modo migliore possibile in tutte le occasioni di vita. Funzionamenti di fondo che possono esistere solo se supportati da tutti i Sistemi integrati e funzionanti del Sé.

I contributi di alcuni neuroscienziati

Guardiamo adesso, in modo più specifico, ad alcuni contributi di autorevoli voci nel campo delle neuroscienze che conducono proprio in queste direzioni.

Marvin Minsky

Minsky, matematico e neuroscienziato, considerato tra i padri dell’intelligenza artificiale, è uno dei più accesi sostenitori della plasticità del cervello e dei suoi funzionamenti. Oggi la ricerca ha sviluppato notevolmente la possibilità di individuare le zone del cervello “accese” durante determinate attività della persona; alla fine sembra sempre più probabile l’ipotesi di Minsky secondo cui le Funzioni mentali superiori non hanno una sede specifica, ma nascono da interazioni fra entità elementari di cui è fatto il cervello (1989). Ci troviamo di fronte ad una visione molto avanzata, nella quale si parla di organizzazione di entità elementari e non di luoghi gerarchizzati del cervello.

Roger Penrose

Anche Penrose – che abbiamo già citato – va nella direzione dell’integrazione corpo-mente, sostenendo che alla base della percezione ci siano in modo indiscutibile processi fisici non algoritmici, vale a dire non simulabili con il classico modello cognitivista della cibernetica. Esistono delle differenze intrinseche e ineliminabili fra l’intelligenza artificiale e l’intelligenza dell’uomo. E per quest’ultima si tratta piuttosto di interazioni di tipo quantistico che originano appunto variabilità della coscienza (1996).

Roger Penrose ha teorizzato la non-localizzazione quantistica, cioè la capacità di collegamento istantaneo e la plasticità che permettono una continua ristrutturazione delle connessioni neuronali e del verificarsi della coerenza quantistica, da cui si genera la coscienza. L’uomo può compiere operazioni che non sono riconducibili alla logica formale, come sapere la verità di asserzioni non dimostrabili o risolvere il problema della terminazione.

Siamo di fronte a sistemi S-O-O-R che, per la produzione della risposta (R), tengono in considerazione oltre all’Organismo come sistema che reagisce agli stimoli (S), anche l’Organizzazione volta per volta differente dell’organismo: l’organizzazione delle Funzioni del Sé – diremmo noi (Rispoli, 1993).

È inoltre interessante sapere che Penrose, come Popper (1975), sostiene che la scienza è comunque una strada che conduce sempre di più alla realtà attraverso le sue leggi di funzionamento (2005).

Gerald Edelman

Secondo Edelman i circuiti cerebrali si sviluppano anch’essi con modalità evoluzionistiche, che dipendono dal fatto che tali circuiti siano intensamente e continuamente attivati o meno.

Edelman (1995), dunque, sostiene una teoria di selezione darwiniana per le strutture cerebrali, la Teoria della Selezione dei Gruppi Neuronali, secondo cui lo sviluppo e il funzionamento del cervello sono governati da variazione e selezione, proprio come l’evoluzione delle specie. D’altra parte, si sa che anche i ricordi sono “plastici” e si modificano ogni volta che vengono richiamati dalla memoria a seconda delle situazioni del momento (Edelman, 1991; Rispoli, 2016).

Come l’ambiente fa sì che alcune mutazioni genetiche sopravvivano e altre scompaiano, così gli stimoli provenienti dall’ambiente e dal resto dell’organismo fanno sì che alcuni gruppi di neuroni si sviluppino maggiormente e altri meno. Il processo è quindi guidato dall’ambiente e non è scritto nei geni, che governano solo le primissime fasi di formazione del Sistema Nervoso.

Questo vorrebbe dire che sarebbe una selezione di determinati gruppi neuronali a spiegare funzioni superiori e coscienza; e che i neuroni più frequentemente attivati per determinate attività sono quelli che possono sostenere capacità importanti per la persona (proprio come le Esperienze di Base che si consolidano se aiutate dall’ambiente circostante, se attraversate più e più volte positivamente dal bambino, in varie situazioni e differenti contesti).

Si sa, inoltre, che gruppi di neuroni lavorano in sintonia tra di loro. Anche questo meccanismo compare spontaneamente e viene favorito dall’ambiente, perché è vantaggioso. Fa sì, per esempio, che la percezione visiva di una scena sia tutt’uno con quella acustica e quella tattile; il che è di ulteriore sostegno alla teoria dell’integrazione già presente nel bambino (Rispoli, 2004).

Le Esperienze di Base vissute più e più volte positivamente possono consolidare connessioni neuronali esistenti, indurre nuove sinapsi, evitare che sinapsi e neuroni non utilizzati vengano eliminati e “potati”; possono influenzare persino la guaina dei neuroni aumentando la velocità di conduzione dei segnali elettrici (Siegel 1999).

Daniel Siegel

Siegel ha dato un notevole contributo alla comprensione del funzionamento umano, facendo notare come la mente sia un complesso intreccio di elementi cognitivi e affettivi, e dunque uno strumento fondamentale nella relazione, ma che viene modificato dalla relazione stessa, e dunque in una interconnessione reciproca profonda.

Ha dimostrato – come abbiamo già visto – l’importanza del contatto fisico, addirittura nello sviluppo neuronale.

Siegel, inoltre, sostiene che in psicoterapia il terapeuta si deve sintonizzare con il paziente attraverso l’uso della voce, il linguaggio del corpo e la risonanza emozionale e cioè in un contatto e in una condivisione che non possono essere solo verbali e cognitivi.

Daniel Goleman

Già recenti studi effettuati dal portoghese Antonio Damasio (2000) hanno dimostrato che la maggior parte delle nostre scelte e decisioni non sono il risultato di una disamina solamente razionale: in molti casi, infatti, l’apparato emotivo costituirebbe una sorta di “percorso abbreviato”, capace di farci raggiungere una conclusione adeguata in tempi utili.

Ma di intelligenza emotiva si è occupato specificamente Daniel Goleman (in un discorso molto vicino alle concezioni di Siegel) sostenendo che l’intelligenza non può essere considerata come staccata dal piano dell’emotività, e riconoscendo in modo pieno l’intreccio profondo (l’integrazione) di più piani del Sé (1997).

La nozione di intelligenza emotiva si articola in due principali sottocategorie:

  • Le competenze personali, che sono riferite alla capacità di cogliere i diversi aspetti della propria vita emozionale;
  • Le competenze sociali, che sono relative alla maniera con cui comprendiamo gli altri, a quell’insieme di caratteristiche che ci permettono di relazionarci positivamente con gli altri e di interagire in modo costruttivo con essi.

Una delle componenti più importanti è costituita dall’empatia, ossia dalla capacità di riconoscere le emozioni e i sentimenti negli altri, ponendoci idealmente nei loro panni.

Secondo Goleman, l’intelligenza emotiva si può sviluppare attraverso un adeguato allenamento, diretto soprattutto a cogliere i sentimenti e le emozioni, nostri e altrui, indirizzandoli in senso costruttivo. Se, infatti, l’intelligenza legata al QI tende a stabilizzarsi intorno ai 16 anni (per incominciare lentamente a declinare negli anni della maturità), l’intelligenza emotiva può essere migliorata nel corso di tutta la vita.

Il Neo-Funzionalismo oggi, con la sua specifica visione, sostiene che l’intelligenza sia una capacità che può essere definita ancora più complessivamente, come intelligenza dell’intero Sé (intelligenza globale), con i suoi pani cognitivi ed emotivi, ma anche posturali, motori, sensoriali, nonché neurovegetativi, psicofisiologici e psicobiologici (Rispoli, 2016).

Antonio Damasio

Infine, ma non certo ultimo per importanza, riportiamo il pensiero di Antonio Damasio, lo studioso che maggiormente ha rivelato la centralità dei processi fisiologici e corporei nel costituirsi della coscienza e nell’organizzazione del Sé. Damasio sostiene che le emozioni sono risposte psico-fisiologiche che mirano a ottimizzare le azioni con cui l’organismo interagisce con il mondo che lo circonda; e la stessa coscienza è un tipo particolare di sentimento. Il tutto contro la tradizione cartesiana che separa nettamente la mente dal corpo. L’attenzione degli studiosi dovrebbe soffermarsi, continua Damasio, sulla relazione corpo-mente-cervello. (Damasio, 2012).

La coscienza emerge solo quando il cervello acquisisce la capacità di raccontare una storia senza parole che si svolge all’interno del corpo, storia la cui trama nasce dagli stati interni del corpo in continuo cambiamento e dai mutamenti che nel corpo avvengono nel suo incontro col mondo. (Damasio, 2003).

Il Proto-Sé, continua Damasio, è “una collezione coerente di configurazioni neurali che formano istante per istante le mappe della struttura fisica dell’organismo nelle sue numerose dimensioni” (Damasio, 2003, p. 189). Tutte queste mappe sono coinvolte nel processo di regolazione dello stato dell’organismo (Damasio, 2003).

I processi di regolazione dell’intero Sé, dell’intero organismo, salgono così in primo piano, e su di essi bisognerà sempre di più concentrare l’attenzione guardando alle interrelazioni dei vari Sistemi Integrati, attraverso focali che permettono di scoprire relazioni significative e operativamente utili, come, per esempio quella dei Funzionamenti di fondo.

Neuroni bimodali, neuroni-specchio

Nello schema neurologico classico si pensava (fino a qualche tempo fa) che il sistema motorio avesse un ruolo secondario, un ruolo puramente esecutore. Si riteneva che ci fosse una gerarchia in cui la percezione e la cognizione mandassero degli “ordini” al sistema motorio,

Ma le recenti scoperte, con lo studio del funzionamento di aree prefrontali e parietali del cervello, hanno rivelato una realtà completamente diversa (che avvalora le ipotesi che da tempo la psicologia integrata corpo-mente e il Neo- Funzionalismo vanno sostenendo), che così si può riassumere: il sistema motorio non ha a che fare con movimenti ma con vere e proprie Azioni.

Questo nuovo e rivoluzionario modo di vedere è sostenuto innanzitutto dalla scoperta che aree frontali e parietali sono strettamente connesse con le aree visive, uditive, tattili e dunque dall’aver scoperto che le aree della percezione, della cognizione e del movimento non sono totalmente distinte e separate.

Rizzolatti nelle sue ricerche (2007) ha fatto delle importanti scoperte e ci spiega questi concetti con esempi molto espliciti: nel gesto elementare di afferrare una tazzina c’è un raggiungere e afferrare insieme. Il braccio si muove per arrivare alla tazzina ma già la mano si atteggia per afferrarla: e questo rappresenta una chiara azione, cioè un movimento che ha una intenzionalità.

Dunque, il Sistema motorio non è un mero esecutore passivo di comandi originati altrove, ma contribuisce in modo decisivo alle trasformazioni senso-motorie, all’individuazione degli oggetti e ai movimenti delle varie parti del corpo per l’agire quotidiano.

Vediamo più in dettaglio le scoperte che hanno portato a queste innovative concezioni.

Neuroni area corteccia premotoria (F5)

Sono neuroni che non codificano singoli movimenti ma atti motori, come per esempio afferrare un pezzo di cibo. Il neurone addetto all’azione specifica di afferrare il cibo è lo stesso che scatta sia se il cibo viene afferrato con una mano, sia con l’altra, sia con la bocca direttamente.

Altro esempio ci è dato dalla scoperta che uno stesso movimento (ad esempio la flessione del dito) è attivato da un certo determinato neurone se è per afferrare una tazzina, e da uno diverso se la flessione è per grattarsi il viso.

Ancora più interessante è il fatto che i neuroni della corteccia premotoria si attivano sia se è prevista una presa, sia se non è richiesta alcuna risposta motoria. Dunque, si tratta di risposte motorie o visive? La sola visione di un oggetto che è – per esempio – afferrabile fa già intravedere le opportunità pratiche che l’oggetto può offrire.

L’area premotoria F5 può essere allora vista come un vero e proprio serbatoio di azioni possibili per il soggetto, o – in altri termini – un vocabolario di atti motori, di azioni (collegate a varie popolazioni di neuroni). La possiamo definire, dunque, come una vera e propria base di funzioni cognitive.

Più ricco è il vocabolario più opportunità pratiche di azione sugli oggetti ci saranno. Ma non dimentichiamo che il vocabolario si costituisce quando il bambino compie le azioni sugli oggetti, e non quando vede gli oggetti. Quando li vede può mettere in moto le vie neuronali specifiche ma solo se già attivate dalle azioni.

Neuroni bimodali canonici (area F5)

Per chiarire meglio, i neuroni bimodali si chiamano così perché si attivano sia durante l’azione su un oggetto sia durante la sola osservazione dell’oggetto stesso; ma quello che è sbalorditivo è che sono pur sempre neuroni dell’area motoria. L’oggetto è immediatamente codificato come un insieme di ipotesi d’azione. I neuroni reagiscono non alla forma dell’oggetto ma al suo significato per il soggetto. Ma reagire a un significato in realtà equivale a comprendere.

Altri neuroni bimodali dell’area F5: i neuroni specchio

I neuroni specchio, come gli altri neuroni bimodali, hanno funzione visiva e motoria allo stesso tempo, e sono anch’essi specializzati (per afferrare, o per spostare, ecc.); la differenza è che si attivano durante l’azione ma anche quando si osserva l’altro compiere un’azione simile. I movimenti compiuti dall’altro assumono, dunque, significato proprio per il vocabolario di atti che il soggetto possiede. Si tratta di una reale conoscenza di base che regola l’esecuzione delle proprie azioni, ma che viene usata anche durante l’osservazione dell’azione compiuta dall’altro.

Si tratta di una vera e propria comprensione, una comprensione che è implicita, pragmatica e non riflessiva.

Ma non dobbiamo dimenticare che questa comprensione è vincolata alle azioni potenziali inscritte nel proprio vocabolario di atti. Vale a dire che se un atto non è nel vocabolario, non ci può essere attivazione dei neuroni e non c‘è neanche comprensione dell’atto compiuto dall’altro. E per essere nel proprio vocabolario la persona deve aver prima sperimentato personalmente l’atto motorio in questione.

I neuroni specchio ci fanno comprendere come funziona l’empatia, cioè la capacità di vivere situazioni e sensazioni dell’altro anche solo vedendole. Ma prima ci deve sempre essere stata l’esperienza propria diretta dell’azione, del movimento inteso in senso globale: solo dopo ci può essere l’immedesimazione.

Dunque, il riconoscimento delle azioni e delle intenzioni degli altri dipende dal nostro patrimonio motorio: i movimenti osservati vengono correlati a quelli propri, e questo permette di riconoscerne il significato. Il cervello, basandosi sulle proprie competenze motorie, riconosce gli atti degli altri in un modo immediato, senza ragionamenti, in una comprensione che non passa per i meccanismi corticali.

Anche le emozioni risultano immediatamente condivise: nel vedere le emozioni dell’altro (osservabili dalle espressioni del viso, e quindi comunque da movimenti e posture) si accendono le stesse aree coinvolte di quando siamo noi a provare quelle emozioni.

Infatti, i neuroni specchio si attivano non solo per atti transitivi su oggetti ma anche per atti intransitivi e azioni mimate; il sistema motorio entra in risonanza anche con i movimenti facciali altrui, ma sempre se si tratta di azioni inscritte nel proprio vocabolario di atti.

Nella risonanza delle emozioni la insula è direttamente implicata (Damasio, 2000). Ed è tramite la insula che gli input sensoriali vengono trasformati in reazioni anche “viscerali”, cioè modalità di funzionamento psico-fisiologico che “colorano” le risposte emotive (le proprie e quelle osservate). Già molto tempo prima James sosteneva che le emozioni non possono essere ridotte a una percezione solo cognitiva ma che si collegano a sensazioni profonde viscerali, perché altrimenti sarebbero pallide e fredde, destituita da qualsiasi coloritura (che invece noi possiamo chiaramente vedere nelle emozioni delle persone).

Comunque, qualunque siano le aree corticali interessate (centri motori o viscero-motori), il meccanismo dei neuroni specchio incarna la modalità di un tipo di comprensione che viene prima di ogni mediazione concettuale e linguistica, una comprensione implicita che è di importanza vitale non solo nell’infanzia ma anche nell’età adulta (Rizzolatti, 2007).

Influenze delle scoperte scientifiche recenti

Una ricaduta immediata importante delle scoperte di Rizzolatti riguarda l’uso del Senso-Motorio sui depressi gravi, o su bambini con gravi problemi psichici. L’intervento è volto a ricostruire (attraverso tecniche eminentemente di movimento) un “vocabolario” di atti che è molto carente; l’aumento, la maggiore ricchezza di questo vocabolario, permetterà al soggetto di entrare di più in relazione con l’altro, accrescendo le sue capacità di risonanza e di empatia.

Ma non si possono trascurare le influenze fondamentali che tutte le scoperte più recenti delle Neuroscienze possono avere anche sulla psicoterapia, perché ci permettono di comprendere molto meglio cosa accade quando un paziente riacquista delle capacità che aveva perduto, quando recupera benessere, quando rafforza il suo io e la sua autostima, quando supera patologie e disturbi. Queste scoperte ci dicono che nella cura intervengono elementi che non sono solo cognitivi ma anche motori e sensoriali, fisiologici ed endocrini, e che questi piani sono strettamente interrelati e integrati tra di loro.

Ed è quanto sostiene da tempo la terapia integrata mente-corpo, la psicoterapia del Neo-Funzionalismo. Nei miei studi e nelle mie ricerche di oltre 40 anni, è risultato chiaro che tutti questi recuperi dipendono fondamentalmente dalla ricostruzione di ben determinati e identificati Funzionamenti di fondo, ciascuno dei quali è costituito non solo da elementi cognitivi ed emozioni specifiche, ma anche da apparati Senso Motori, Neurovegetativi ed Endocrini, tutti collocati in una configurazione precisa.

Ma non basta.

Tutti questi elementi e piani devono essere letti in un quadro teorico complessivo che permetta di comprendere come ognuno di essi agisca sugli altri, e come intervenire su ciascuno di essi in modo efficace per ottenere risultati che vanno nella direzione voluta; in altre parole, che caratteristiche hanno, come funzionano e come sono correlati tra loro i Sistemi Integrati.

Conclusioni

Le neuroscienze, con le recenti scoperte, rappresentano uno tra i più importanti punti di cambiamento e avanzamento delle concezioni che riguardano la persona: un punto che definirei di non ritorno. Queste nuove scoperte sono molto incoraggianti, perché contribuiscono ad una comprensione olistica sia del funzionamento umano, sia dell’intervento di aiuto a qualunque livello si ponga.

Perciò, nessun approccio clinico, nessuna teoria psicoterapeutica, può più ignorare tutte le nuove scoperte scientifiche che stanno facendo sempre più luce sul funzionamento complessivo dell’essere umano: dalle neuroscienze alle ricerche sulla vita del bambino piccolo e sulla vita pre-natale, agli studi e alle scoperte relative all’integrazione mente-corpo.

Il rischio, altrimenti, è che si continui a ristagnare in un riduttivismo che oggi non è più accettabile, che si trascurino Funzioni significative per il cambiamento del Sé, che si mettano da parte forme di interazione e di relazione importanti e forme rilevanti di espressione del Sé, come, ad esempio, il movimento con il suo significato profondamente ed eminentemente interattivo e sociale, nonché – come abbiamo visto – base di una importante forma di conoscenza e di comprensione.

Oggi la persona non può essere più vista in modo frammentato tra mente e corpo; non si può parlare più di una mente che controlla tutto, ma bisogna parlare di compresenza e di integrazione tra mente e corpo. Ma a questo punto, gli stessi concetti di mente e di corpo risultano essere superati, troppo generici e vaghi per poter spiegare in pieno il funzionamento dell’organismo umano in tutti i suoi aspetti. Corpo e mente possono significare tutto e niente. Sarebbe meglio parlare di processi psico-corporei, di Funzioni psico-corporee, di Sistemi Integrati, per poter abbracciare veramente il paradigma della complessità.

E non basta più sostenere che anche il corpo è importante in psicoterapia, o che questi Sistemi sono integrati tra di loro: bisogna, invece – ribadiamo ancora una volta questo punto di estrema importanza – poter comprendere in pieno le relazioni profonde e complesse tra i vari processi psico-corporei, tra i vari Sistemi, se vogliamo che nella psicoterapia e più in generale nella cura della salute (ma anche nella prevenzione) si verifichi un vero passo in avanti.

La sfida del terzo millennio, dunque, è una sfida alla complessità, e la teoria delle Esperienze di Base, base fondante del Neo-Funzionalismo, è quella che permette di leggere le interrelazioni profonde tra tutti i Sistemi vitali dell’organismo umano e di trovare dei principi di regolazione generale del complesso mente-corpo, della persona vista nella sua interezza, senza dividere i saperi scientifici, senza fermarsi a visioni parziali. Solo una comprensione più piena della reale modalità in cui i Sistemi sono integrati tra di loro permetterà di agire sempre più efficacemente, sempre più a fondo, con interventi sinergici su tutti i Sistemi; ma in una direzione molto precisa; quella del recupero dei Funzionamenti di fondo carenti o alterati, sia nella cura che nella prevenzione.

Una riflessione clinica tra intersessualità e disforia di genere alla luce della letteratura scientifica – FluIDsex

Con Disturbi dello sviluppo sessuale (DSS) si intende un ampio spettro di disturbi congeniti caratterizzati da incongruenze nelle componenti coinvolte nella differenziazione sessuale, che causa, in prima istanza, difficoltà nell’attribuzione alla nascita di uno specifico genere (Fisher et al., 2016).

 

Queste anomalie sembrerebbero derivare da incongruenze presenti nelle varie fasi dello sviluppo sessuale e psicosessuale del soggetto. Ad oggi, è infatti appurato che lo sviluppo del genere biologico non sia legato esclusivamente a variabili di tipo genetico, ma che l’intero processo si articoli in più fasi di differenziazione consecutive che riguardano componenti genetiche, cerebrali ed ormonali la cui interazione concorre alla formazione dei fenotipi maschili e femminili (Jost, 1972). Una delle ipotesi più accreditate rispetto all’eziologia di questa classe di disturbi riguarda la possibilità che i processi di differenziazione sessuale a livello genitale e cerebrale, avvenendo in tempi diversi durante lo sviluppo fetale, possano essere indipendenti l’uno dall’altro e, quindi, non mostrare sempre esiti coerenti tra loro (Bao & Swaab, 2011). È perciò possibile che i livelli di mascolinizzazione cerebrale e genitale non siano congruenti e che alla nascita si riscontri un’ambiguità a livello di caratteri sessuali primari (Fisher, 2016). Con il termine-ombrello intersessuale, si indica quindi qualsiasi individuo che presenti queste manifestazioni, attualmente fatte rientrare nella categoria diagnostica dei disturbi dello sviluppo sessuale (Zucker, 2002).

Dai dati emersi risulta evidente come lo sviluppo sessuale non sia legato solo a componenti biologiche, ma anche a fattori di natura psicologica e sociale. Dal momento che i DSS si diagnosticano a partire da un’incongruenza tra le componenti cromosomiche, gonadali e fenotipiche, non stupisce che uno degli aspetti più complessi da affrontare nel caso di genitali ambigui sia l’attribuzione chirurgica del sesso e, di conseguenza, la scelta da parte dei genitori anche del ruolo di genere da attribuire al nascituro (Fisher, 2016).

Per anni si è seguita la prassi suggerita da Money (1975) di assegnare il genere al neonato il prima possibile e, altrettanto celermente, procedere con l’assegnazione chirurgica. Le linee guida dell’autore sottolineavano la necessità di attribuire il genere in base a parametri legati all’estetica, o meglio agli interventi chirurgici più semplici da eseguire, e alla fertilità.

Questa prassi è ad oggi ambito di dibattito all’interno del mondo scientifico, a fronte di numerosi casi di persone intersessuali che negli anni hanno sviluppato disforia di genere, descritta dal DSM 5 come una marcata incongruenza tra il genere assegnato alla nascita e quello con cui ci si identifica, che causa forti livelli di distress emotivo (APA, 2013). Un altro motivo per cui la pratica di Money è ad oggi contestata riguarda la testimonianza di alcuni pazienti che, sottoposti alla pratica di riattribuzione sessuale in tenera età, hanno riportato di aver vissuto questa pratica come una violazione dei loro diritti (Chase, 1998).

La disforia di genere non è però la sola problematica a dover essere indagata nelle persone con disturbi dello sviluppo sessuale. Le persone intersex sembrano anche manifestare livelli di distress psicologico superiori a quelli sperimentati dalle persone non-intersex, soprattutto nel periodo puberale (Fisher et al., 2016). Nel dettaglio, le persone intersex manifestano difficoltà maggiori ad iniziare relazioni intime, legate alla paura di essere rifiutati per via delle proprie caratteristiche corporee sessuali (Sandberg et al., 2012). Inoltre, uno studio del 2016 (Fisher et al.) ha evidenziato una forte insoddisfazione delle persone intersex a livello della qualità percepita delle relazioni sessuali, immagine corporea, relazioni sociali e soddisfazione per quanto riguarda il sistema binario di attribuzione del genere.

Nello specifico, sono a disposizione ulteriori dati riguardanti diversi aspetti di salute mentale in persone con sindrome di Klinefelter. Questo disturbo è dovuto alla presenza di un cromosoma X aggiuntivo (XXY), comporta bassi livelli di testosterone dopo l’adolescenza, infertilità, testicoli di dimensioni ridotte e sviluppo delle mammelle (Plomin et al., 2018). In relazione al ruolo del cromosoma X nel determinare l’eventuale insorgenza di psicopatologia, si cita una maggiore vulnerabilità nei pazienti con sindrome di Klinefelter a sviluppare disturbi che rientrano nello spettro della schizofrenia (Van Rijn et al., 2006). Altri disturbi riscontrabili con incidenza maggiore in questa popolazione sono i disturbi della condotta, ansia e depressione, deficit nel controllo degli impulsi e un rischio più alto della popolazione generale di sviluppare ADHD o autismo (Giagulli et al., 2018).

Alla luce di questi dati, risulta essenziale proporre un supporto psicologico specifico e specializzato ai soggetti con diagnosi di disturbi dello sviluppo sessuale e ai loro famigliari. In primo luogo, questi ultimi andrebbero supportati al momento della diagnosi medica e delle decisioni riguardanti quella che potrebbe divenire un’eventuale riattribuzione chirurgica del sesso al nascituro e incoraggiati ed educati a condividere con il figlio la verità riguardante la sua cartella clinica e la sua storia medica, in tempi e modi coerenti alla sua capacità di comprensione (Sandberg, 2012).

Inoltre, affiancare a questi pazienti un’équipe multidisciplinare, che comprenda anche un esperto di salute mentale, ridurrebbe la possibilità che si manifestino disturbi psichiatrici più avanti nella vita e aiuterebbe a ridurre i livelli di disforia (Fisher et al., 2016). Infine, un ulteriore aspetto che risulta essere fondamentale al benessere psicologico di questa popolazione è il supporto da parte dei pari che condividono gli stessi vissuti. Queste relazioni di normalizzazione e di condivisione delle sfide legate ai disturbi dello sviluppo sessuale sembrano essere particolarmente terapeutiche (Fisher, 2013).

 


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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

 

Mostri di casa (2021) di Eleonora Marton – Recensione

L’albo illustrato Mostri di casa è dedicato a bambini della fascia di età 4-8 anni ed affronta la più comune paura che tormenta gli infanti durante lo sviluppo: il buio.

 

Il momento della nanna è generalmente vissuto con una certa dose di ansia, in quanto coincidente con la separazione dalle figure genitoriali ed associato all’ignoto.

Con lo spegnersi della luce prendono forma le paure ed i timori del bambino, che nel libro assumono le vesti dei mostri più disparati.

Ludovica, la protagonista della storia, presenta ai lettori i diversi mostri che abitano la sua casa, ciascuno con un proprio nome e ciascuno collocato in una specifica stanza.

L’ingresso, la cucina, il soggiorno, lo sgabuzzino, così come il bagno, la stanza degli ospiti e la soffitta durante le ore notturne ospitano i propri abitanti terrificanti.

Ogni mostro ha super-poteri specifici ma tutti sono accomunati dal fatto di essere malvagi ed in grado di catturare chiunque si trovi nel loro raggio d’azione.

La casa di Ludovica ha, però, due stanze dove i mostri non possono entrare: la camera da letto dei genitori e la sua stanza. Tali ambienti rappresentano “il posto sicuro”, dove gli umani possono conciliare il sonno senza essere disturbati dalle creature della notte.

Nel presentare nel dettaglio ciascun mostro Ludovica non riesce a capacitarsi di come la casa possa animarsi nel corso delle ore buie, mentre col sorgere del sole ogni cosa è al suo posto e dei mostri non c’è neppure l’ombra.

L’autrice riesce a tenere il lettore col fiato sospeso, utilizzando allo stesso tempo un tono scherzoso in grado di coinvolgere i bambini, che facilmente riescono ad immedesimarsi nella protagonista, in quanto possono proiettare nel testo le proprie paure.

La casa di ogni bambino di questa età è infestata da spaventosi mostri e ognuno potrà indicarlo nella pagina iniziale: dandogli un nome, il bambino viene aiutato ad annientare l’ignoto, rendendolo, gradualmente, meno terrificante.

Il finale porterà Ludovica a superare la paura del buio e dei mostri grazie ad un processo di disvelamento: quando una nuova creatura sembrava aver varcato la soglia della sua camera da letto, lo specchio le mostrerà che non si trattava null’altro che di lei stessa!

L’insight favorito dalla metacognizione porterà, dunque, la bambina a comprendere come Barabao, Sbobb, Cucinosauro, Gorgo, Walter, Tenebro e Spiro altro non erano che gli elettrodomestici e gli arredi della sua casa, ben conosciuti durante il giorno, ma che assumevano strane forme nella notte, complice il buio e la fantasia.

Ogni tappa dello sviluppo si caratterizza per paure tipiche, che si risolvono naturalmente se il bambino viene ascoltato, contenuto ed adeguatamente guidato dall’adulto e se si utilizza un linguaggio consono al suo livello intellettivo.

Mostri di casa rappresenta un utile strumento che genitori e professionisti possono utilizzare per guidare il bambino a vincere e neutralizzare la paura del buio e dei mostri.

 

Dai manicomi alle prigioni: quando il cambiamento non è sinonimo di miglioramento

È necessario cambiare atteggiamento e smettere di vedere le persone affette da malattie mentali come intrinsecamente pericolose, affinché si possa iniziare a considerarle – e a trattarle – come esseri umani bisognosi di aiuto.

Tratto da The Truth About the Deinstitutionalization di Alisa Roth

 

In America, quando una persona incorre in una crisi di natura mentale, è un agente delle forze dell’ordine a rispondere alla sua chiamata. Al giorno d’oggi, la polizia, e di conseguenza l’incarcerazione, hanno sostituito le cure di emergenza per la salute mentale, specialmente nelle comunità afroamericane e ciò ha fatto sì che, in molte prigioni, la percentuale di persone con malattie mentali salisse considerevolmente. Inoltre, secondo un database del Washington Post, quasi un quarto delle sparatorie della polizia coinvolge una persona con malattia mentale.

Come se non bastasse, a seguito dell’ingresso all’interno della prigione, la tipologia di cura che una persona generalmente riceve è estremamente inadeguata e i tassi di suicidio sono estremamente alti.

Il quesito sorge spontaneo: come si è arrivati fin qui?

Alisa Roth, in un articolo pubblicato nella testata The Atlantic, ha esposto la spiegazione più popolare che attribuisce la colpa al processo di “deistituzionalizzazione”, ovvero alla chiusura degli ospedali psichiatrici. Al fine di poter comprendere tale fenomeno è necessario fare un passo indietro.

Il primo ospedale psichiatrico è stato fondato nel 1773. Nel 1841, Dorothea Dix visitò una prigione del Massachusetts e rimase sconvolta dalle condizioni in cui vivevano le persone affette da malattie mentali. I residenti erano tenuti in gabbia, “incatenati, nudi e frustati fino all’obbedienza”. Di lì ebbe inizio la sua propaganda che ebbe come esito l’istituzione di più di 30 strutture ospedaliere in tutto il paese. Nel 1955, circa mezzo milione di persone vivevano in strutture psichiatriche statali che erano state progettate al fine di poter essere luoghi sicuri e terapeutici che, occasionalmente, hanno funzionato.

Il problema fu che, pian piano, le strutture iniziarono a superare la loro capacità e il personale faticava a stare al passo con i bisogni dei pazienti. Il problema peggiorò significativamente durante la Seconda guerra mondiale, quando molti medici furono arruolati, lasciando gli ospedali a corto di personale e le condizioni risultanti erano notevolmente simili a quelle che si vedono oggi nelle prigioni. Ciò diede inizio alla fine del sistema ospedaliero statale ed altri fattori lo accelerarono. Tra questi vi fu la diffusione dell’antipsicotico clorpromazina. La sua apparente capacità di controllare le psicosi, unita ad una considerevole campagna di marketing, contribuì a promuovere l’idea che la malattia mentale potesse essere curata con i farmaci e che gli ospedali psichiatrici non fossero più necessari.

Quasi un decennio dopo, il presidente John F. Kennedy affermò che “le istituzioni mentali di custodia” sarebbero state sostituite da centri di salute mentale comunitari, permettendo così ai pazienti di vivere e ricevere cure psichiatriche nelle loro comunità. Nel 1965, la creazione di Medicaid ha accelerato il passaggio dal ricovero alle cure ambulatoriali. La suddetta legislazione, inoltre, stabiliva che il governo federale non avrebbe pagato per le cure ospedaliere.

In realtà, però, furono costruiti pochi centri di salute mentale comunitari, creando un’estrema carenza di sostegno sanitario.

Così, il sogno dell’assistenza comunitaria si è rivelato in gran parte un fallimento (Alisa Roth, 2021). Mentre la popolazione nei manicomi si riduceva costantemente, il numero di persone incarcerate cresceva. Verrebbe dunque da pensare che, se la mancanza di strutture di degenza ha spinto un gran numero di persone con malattie mentali nei penitenziari, allora presumibilmente la costruzione di più ospedali e centri di salute mentale comunitari risolverebbe il problema. Ma, in realtà, anche in questo caso la soluzione è ben più complessa. Difatti, anche nel 1950, solo un terzo delle persone con malattie mentali viveva in ospedali psichiatrici, mentre più della metà viveva con la famiglia o per conto proprio. Dunque, scrive la Roth, non sarà il mero aumento delle strutture ospedaliere a mettere fine al fenomeno dell’incarcerazione delle persone affette da malattie mentali. Inoltre, la stragrande maggioranza delle persone incarcerate con malattie mentali appartiene a un sottoinsieme della popolazione che probabilmente non sarebbe mai stato accolto negli ospedali psichiatrici statali in passato.

Allo stesso tempo, l’avvento della polizia delle “broken windows” negli anni ‘80 – l’idea che per prevenire crimini più grandi, la polizia deve reprimere i crimini di basso livello – ha colpito in modo sproporzionato le persone con malattia mentale. Basti pensare che una persona che si comporta in modo irregolare potrebbe essere accusata di condotta disordinata, o una persona senza accesso al bagno potrebbe essere accusata di minzione pubblica.

Dunque, in primo luogo, vi dovrebbe essere un cambiamento di mindset, ovvero sarebbe necessario scardinare “quell’assunzione persistente che le persone con malattie mentali sono pericolose e devono essere tenute lontane dalle strade per proteggere il resto di noi” (Alisa Roth, 2021). Anche perché, come sottolinea la Roth, le persone con malattie mentali sono molto più propense ad essere vittime che carnefici e, dato che la polizia è il primo soccorritore di default, non è una sorpresa che le persone con malattie mentali abbiano più probabilità di essere arrestate.

È dunque necessario cambiare atteggiamento e smettere di vedere le persone affette da malattie mentali come intrinsecamente pericolose, affinché si possa iniziare a considerarle – e a trattarle – come esseri umani bisognosi di aiuto. Fortunatamente, negli ultimi anni, i dipartimenti di polizia hanno istituito programmi di formazione per insegnare agli agenti come rispondere alle persone in difficoltà psichiatrica. Il modello più comune, il Crisis Intervention Team, è usato in più di 2.500 comunità in tutta la nazione. Ma basteranno poche ore di formazione a far sì che vengano superate determinate pratiche che comportano il ricorso alla violenza?

Alcune giurisdizioni hanno fatto un passo avanti, invitando gli operatori della salute mentale a rispondere alle chiamate del 911.

Inoltre, sarebbe bene separare l’assistenza psichiatrica dal sistema di giustizia penale. È facile pensare che se le persone con malattie mentali potessero essere ospitate in manicomi o istituzioni simili, non sarebbero incarcerate con tassi così alti. Ma è importante ricordare che quegli ospedali, e le condizioni che li caratterizzavano, sono assimilabili alle peggiori strutture correzionali di oggi. Invece, è necessario affrontare di petto il problema dell’incarcerazione di massa, instituendo un sistema di cura della salute mentale adeguato che effettivamente non esiste in quanto: “nessun nostalgico sguardo al passato cambierà la situazione” (Alisa Roth, 2021).

 

Emozioni incontrollabili: l’aiuto dei genitori e dei familiari

L’incontro Emozioni incontrollabili: l’aiuto dei genitori e dei familiari è stato pensato proprio per tutti quei genitori e parenti di persone che hanno problematiche nel capire e trovare modi utili per affrontare le proprie emozioni.

 

La difficoltà a regolare le proprie emozioni può determinare a volte comportamenti impulsivi o comportamenti evitanti o controllanti, volti tutti a scappare dai propri stati emotivi.

Durante l’incontro organizzato dal CIP Modena sono state approfondite e descritte le caratteristiche di tale problematica e le teorie maggiormente riconosciute. Sono state analizzate le possibili aree critiche ed esplicitate le linee guida e le tecniche per la gestione delle difficoltà di regolazione emotiva. Sono state inoltre evidenziate le modalità di supporto per sostenere le persone con tali difficoltà e migliorare il clima familiare in cui vivono.

Pubblichiamo oggi, per i lettori di State of Mind, il video dell’evento.

EMOZIONI INCONTROLLABILI: L’AIUTO DEI GENITORI E DEI FAMILIARI

Guarda il video del webinar:

 

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I “Core Beliefs” del Relationship Obsessive Compulsive Disorder

Il Disturbo Ossessivo Compulsivo da Relazione (ROCD) può essere considerato come un costrutto o una dimensione del disturbo ossessivo compulsivo (Melli, Bulli, Doron & Carraresi, 2018).

Introduzione

I temi delle ossessioni, le credenze di base, i pensieri automatici, le vulnerabilità personali e gli stili di attaccamento che possono generare il RODC, mantenerlo e rinforzarlo possono essere svariati. In questo breve elaborato mi pongo l’obbiettivo di prendere in considerazione e discutere le due tipologie di ROCD, i fattori cognitivi di mantenimento, di rinforzo delle credenze di base nel RDOC ed i relativi strumenti diagnostici ad esso associati, ed infine i fattori di vulnerabilità nel paziente che possono agire come fattori di rischio nella genesi del disturbo e nella formazione delle credenze di base disfunzionali.

Relationship – related obsessive-compulsive disorder: relationship centred, and partner focused

Il disturbo ossessivo compulsivo da relazione può essere considerato come un costrutto o una dimensione del disturbo ossessivo compulsivo (Melli, Bulli, Doron & Carraresi, 2018). Come costrutto è risultato essere altamente indipendente dall’oggetto della relazione (Doron, Derby & Szepsenwol, 2014) e dunque può manifestarsi per esempio: nella relazione del paziente con Dio, con i genitori o con il proprio partner. Dati i numerosi aspetti della vita relazionale in cui può verificarsi, da ora in poi – è bene chiarire – mi riferirò con il termine ROCD unicamente al disturbo ossessivo compulsivo centrato sulla relazione con il proprio partner. Le manifestazioni del ROCD possono essere raggruppate in due macro categorie concettuali: relationship centred (cioè focalizzate sulla relazione stessa) e partner focused (cioè focalizzate sul partner). Ci riferiremo con la dicitura “ROCD type I” al primo, e con la dicitura “ROCD type II” al secondo. Sebbene sia una distinzione puramente teorica, poiché spesso i pazienti mostrano sintomi di entrambe le macro categorie, concettualizzare e schematizzare le due manifestazioni può aiutare gli psicologi clinici nella pianificazione del trattamento (Doron & Derby, 2017).

I sintomi principali del tipo I includono dubbi, ossessioni e preoccupazioni eccessive e pervasive – spesso completamente contrarie a quanto il paziente pensa o prova – collegate ai propri sentimenti nei confronti del partner, ai sentimenti del partner verso il paziente e alla correttezza della relazione (Melli et all. 2018). É importante sottolineare e rimarcare l’ego distonia delle ossessioni in questo disturbo perché essa ci consente di distinguere e di svolgere una corretta diagnosi differenziale tra le ossessioni ed alcune tipologie di worry a contenuto relazionale, per esempio: “Mi preoccupo per te e non dormo, perché ti voglio troppo bene” (Doron, Derby, Szepsenwol, Nahaloni & Moulding, 2016).

I sintomi principali del tipo II invece includono dubbi, ossessioni, attenzione eccessiva e preoccupazioni, nei confronti dei difetti fisici o caratteriali del partner, delle sue qualità sociali o morali o delle sue capacità intellettive (Doron, Derby, Szepsenwol, & Talmor, 2012). Entrambe le forme – spesso coesistenti – provocano un aumento progressivo del distress generale, sono associate ad episodi depressivi, si accompagnano spesso all’urgenza inderogabile di lasciare il proprio partner, e provocano un disagio estremamente forte e pervasivo nella vita del paziente (Riggs, Hiss, & Foa, 1992).

TAF (Thought Action fusion), ossessioni e compulsioni

Nucleo psicopatologico principale di entrambe le forme del disturbo – seppur maggiormente visibile nel ROCD a sfondo religioso – è il TAF (Thought Action Fusion): cioè la tendenza a considerare i normali pensieri automatici negativi non tanto come oggetti della mente, ma come dati di realtà (Rachman, 1993). Il paziente, per esempio, come vedremo meglio in seguito, tenderà a considerare dei normali pensieri negativi automatici (come ad esempio: “che noia questa serata!”) in una situazione sociale con il proprio partner, come dati di realtà incontrovertibili, e quindi, assolutamente pericolosi e deleteri.

A questo punto probabilmente inizierà la disputa (ir)razionale del pensiero automatico a causa dell’attivazione dell’assunto generale “Non dovrei annoiarmi se sono insieme al mio partner. Se lo amo, allora dovrei essere sempre euforica e felice”, che rimanda inevitabilmente ad una credenza di base di “perfezionismo” e/o di “intolleranza dell’incertezza”.

Frasi come: “Mi assicuro continuamente di amare il mio partner” e/o “Lo amo davvero?”, “Mi chiedo continuamente se questa relazione sia giusta per me” e/o “E se stessi sbagliando tutto con lui/lei?” , “Non riesco a smettere di chiedermi se lui/lei mi ami” e/o “Mi ama ancora?”, e/o “Non riesco a smettere di pensare al suo naso storto” e/o “Non è abbastanza intelligente per stare con me”, e/o “è cosi egoista”, possono essere dubbi e frasi che i pazienti si ripetono anche per diverse ore nel corso della giornata sotto forma di pensieri automatici attivati anche dalla semplice vista di una coppia apparentemente felice per strada, dalla visione di una commedia romantica alla televisione, dall’incontro del partner a casa, o da un periodo particolarmente duro e stressante. (Doron et all. 2016).

Le risposte disfunzionali che i pazienti provano a fornirsi per ristabilire un equilibrio ed un benessere psicologico al presentarsi delle ossessioni possono essere di natura sia mentale che comportamentale. Sottolineare che l’urgenza della risposta nasca da un sentimento di colpa, rimorso o ansia provata dai pazienti per la forte ego distonia delle proprie ossessioni non è banale “Io sono consapevole che quello che penso non ha senso! Io lo amo!”; perché – come vedremo meglio in seguito – sarà la chiave sia per accedere alle credenze di base, sia per comprendere la teoria della doppia ipotesi nelle relazioni di attaccamento come principale fattore di rischio per il disturbo (Doron, Szepsenwol, Karp, & Gal, 2013).

Tutte le compulsioni, esattamente come nel DOC, producono un forte decremento dell’ansia e del senso di colpa nel breve periodo, rinforzando allo stesso tempo però la ricomparsa dei pensieri intrusivi. Tra di esse includiamo il checking, il monitoraggio degli stati interni, la neutralizzazione, la comparazione, la rassicurazione, l’auto critica e l’evitamento. Cercare informazioni sulle relazioni o sulle qualità del partner su internet o nei forum (scrivendo, ad esempio: “Non sono sicura di stare ancora col mio partner, sono ancora innamorata?” oppure “Non sono certa che il mio partner sia realmente empatico e mi comprenda”), oppure testare come in un esperimento i comportamenti e le reazioni emotive del partner, (come, ad esempio: “Mi ha risposto abbastanza intelligentemente?” e/o “Oggi sto pensando al mio partner a sufficienza?”) sono tutte forme di checking.

Chiedersi continuamente “Mi sento bene con lui per ora? Sono attratta da lui per ora?” invece, rientra all’interno del monitoraggio degli stati interni. Solitamente tutte queste compulsioni sono accompagnate o dalla neutralizzazione (richiamare il pensiero esattamente opposto oppure cercare di ricordare situazioni dove si fosse felici insieme al proprio partner) o dalla comparazione (equiparare, ricordare, confrontare le qualità del proprio partner con quelle dei partner passati). Forme comportamentali come l’evitamento di situazioni sociali o particolari attività per non scatenare le ossessioni, sono ugualmente comuni e presenti tra i pazienti (Doron et all. 2017). Potrebbe essere interessante approfondire una conseguenza del monitoraggio degli stati interni: in recenti ricerche Shapira, Gundar – Goshen, Liberman e Dar (2013) hanno scoperto come il continuo monitoraggio degli stati interni, dei sentimenti e delle emozioni da parte dei pazienti può indurre una chiusura progressiva nei confronti delle relazioni intime e paradossalmente anche un minore accesso proprio alle emozioni e ai sentimenti.

Infine, per concludere la presentazione del disturbo ritengo necessario e doveroso accennare almeno agli strumenti psicodiagnostici validati nel corso del tempo da Doron e colleghi per la ricerca e la diagnosi del disturbo.

Gli strumenti psicodiagnostici

Il ROCI (“Relationship Obsessive Compulsive Inventory”) ed il PROCSI (“Partner Related Obsessive Compulsive Inventory”) come suggeriscono già i loro nomi, sono stati creati per l’assessment delle due tipologie di manifestazione del disturbo. Il ROCI è stato costruito nello specifico per misurare la severità delle ossessioni (preoccupazioni e dubbi) e delle compulsioni (checking e ricerca di rassicurazioni) su tre dimensioni relazionali: i propri sentimenti verso il partner (“Penso continuamente se amo il mio partner”), i sentimenti del partner verso sé stessi, e l’appropriatezza e correttezza percepita della relazione. Il PROCSI invece è stato costruito per misurare la gravità delle ossessioni e delle neutralizzazioni del paziente indotte dalla percezione dei difetti del partner in sei domini specifici: apparenza fisica, socialità, moralità, stabilità emozionale, intelligenza e competenza (Doron et all. 2012). Gli strumenti psicodiagnostici utilizzati durante l’assessment al fine di valutare la severità, la pervasività ed il grado di importanza per il paziente delle credenze di base sono: il RECAT (Relationship Catastrophization Scale), l’EXL (Extreme Love Beliefs), il FMPS (Frost Multidimensional Perfectionism Scale), ed il FOR (Fear of Anticipated Regret), che, come suggeriscono i nomi dei questionari, valutano: la catastrofizzazione, le credenze irrealistiche sull’amore, il perfezionismo e la paura del rimorso. Per valutare, invece, quanto il paziente fondi la propria autostima sul partner o sulla relazione, gli psicoterapeuti durante l’assessment potranno utilizzare il RCSW (Relationship Contingent self-esteem) o il PVCSW (Partner Value Contingent self esteem). Il primo utile per valutare la correlazione tra autostima del paziente e importanza data alla relazione sentimentale, il secondo invece per valutare quanto l’autostima del paziente correli con il valore percepito del partner (Doron,G. & Derby,D. 2017).

Credenze di base

Possiamo affermare dalle evidenze che qualora il partner decida di agire l’ossessione di lasciare il proprio partner, i sintomi del disturbo non cesserebbero. I sintomi andrebbero immediatamente “ad infettare” il prossimo partner relazionale, portando anche ad un aumento della loro gravità (Doron et all. 2014). Probabilmente sia la credenza di base di rimorso e rimpianto per il passato partner relazionale (“Ho perso, ho lasciato andare lui. LUI. L’uomo della mia vita. Quello giusto”) sia quella di insicurezza verso il nuovo partner relazionale si attiverebbero contemporaneamente, portando alla tipica sensazione di intrappolamento spesso riportata dai pazienti con ROCD.

Ma come si sviluppano queste credenze di base? Esistono dei fattori di rischio? Diversi autori abbastanza recentemente hanno proposto che le ossessioni diventino tali, solo se i pensieri intrusivi a cui fanno riferimento inizialmente sfidano le percezioni sulle caratteristiche strutturali del sé (Aardema & Connor, 2007; Bhar & Kyrios, 2007; Clark & Purdon, 1993). Tale ipersensibilità a determinati aspetti del sé nel dominio relazionale, paiono essere estremamente collegati con i sintomi del ROCD. Ci aspetteremmo, quindi, che persone la cui autostima è altamente connessa e dipendente dalle relazioni intime intrattenute, saranno ipervigili nella relazione e nei confronti del proprio partner. Molti autori tra cui Doron, Moulding, Nedeljkovic, Mikulincer e Sar-El (2012) sostengono che questa ipervigilanza nei confronti delle relazioni sottenda e nasconda un modello di attaccamento insicuro/ansioso.

I modelli di attaccamento e lo sviluppo delle credenze di base

Esattamente come teorizzato da Bowlby nel 1982 le relazioni con le figure di attaccamento modellano e plasmano quelli che saranno i modelli operativi interni. A tal proposito Doron, Szepsenwol, Derby e Nahaloni scrivono: “Ricerche indicano che le relazioni di attaccamento potrebbero essere schematizzate in due dimensioni ortogonali, rappresentanti i due pattern principali di attaccamento: ansia ed evitamento (Brennan, Clark & Shaver, 1998; reviewed by Mikulincer & Shaver, 2007). La prima dimensione, attaccamento ansioso, riflette il grado con cui un individuo si preoccupa che un suo legame significativo non sarà disponibile o adeguatamente responsivo nel momento del bisogno, e l’estensione con cui l’individuo adotta strategie di attaccamento iperattivate […]. La seconda dimensione, definita attaccamento evitante, riflette l’estensione con cui una persona non crede ai buoni propositi del partner relazionale e lotta per mantenere l’autonomia e la distanza emotiva da lui o da lei.” (p.77)

Tale ipotesi – poi confermata – definita “Teoria della doppia ipotesi di vulnerabilità” afferma che persone con uno stile di attaccamento ansioso tenderanno a richiedere continue rassicurazioni al partner sul fatto di essere amate per riuscire ad attenuare l’ansia che sperimentano nel rapporto. Persone invece con uno stile di attaccamento evitante tenderanno ad usufruire di strategie di de-attivazione emozionale come la soppressione dei pensieri e delle emozioni, continuando a negare l’importanza per loro delle relazioni. Si autoimporranno degli standard molto elevati, irrealistici e rigidi di eccellenza e proietteranno proprio questi ultimi sul loro partner relazionale al fine di autoconvincersi di non avere bisogno di alcuna persona vicino a loro (Doron et all. 2013).

Oggi, sappiamo che la tendenza a richiedere continue rassicurazioni al partner e controllare gli stati interni per “sapere di essere amati”, potrebbe predisporre ed esporre l’individuo ad una insicurezza profonda e pervasiva nei confronti della relazione con il partner, e quindi allo sviluppo di un ROCD di tipo I. Allo stesso modo, la tendenza a proiettare le proprie imperfezioni e caratteristiche negative sugli altri potrebbe aumentare vertiginosamente le preoccupazioni, i dubbi e la probabilità di sviluppare ossessioni ricorrenti sui difetti del proprio partner; ed esattamente come nella prima dimensione, questa tendenza potrebbe predisporre allo sviluppo di un ROCD di tipo II. Entrambe queste propensioni favoriscono lo sviluppo ed il mantenimento di due credenze di base specifiche – che insieme ad altre – costituiscono il principale nucleo psicopatologico del disturbo: l’intolleranza all’incertezza per la prima dimensione di attaccamento e il perfezionismo per la seconda dimensione. Entrambe hanno in comune come credenza intermedia, l’importanza dei pensieri, ovvero, il T.A.F ed il loro controllo, una irrealistica credenza di come dovrebbe essere l’amore (“L’amore dovrebbe rendermi sempre felice”) ed infine, la paura di intrappolamento. Credenza di base derivante dai due assunti di base contrapposti: “Se sto in una relazione di cui non sono sicura, sono una persona immorale e cattiva” e “Se lascio il mio partner, lo rimpiangerò per tutta la vita” (Melli et all. 2018). Tutte le credenze di base vengono continuamente rinforzate in maniera spesso inconsapevole attraverso dei bias cognitivi che finiscono col declinare anche la forma verbale delle assunzioni che generano i pensieri automatici. Questi ultimi sono l’interpretazione catastrofica e l’iper-attenzione verso la minaccia; mentre il primo è presente in entrambe le tipologie del disturbo, quest’ultimo è maggiormente visibile nel ROCD di tipo II, dove i pazienti sono ipervigili nei confronti dei difetti del partner.

Credenze di base: analisi, differenze e nuove linee di ricerca

Così come anticipato precedentemente, non tutte le credenze di base sono attive nei pazienti con ROCD. Di fatto, così come dimostrato da precedenti ricerche (Melli,G., Carraresi, C., & Doron, G. 2015) una preoccupazione eccessiva per le scelte sbagliate nella relazione era associata più a dei sintomi di ROCD di tipo I, e solo moderatamente correlata con dei sintomi di ROCD di tipo II; inoltre, è da sottolineare come questa forma di perfezionismo fosse l’unica dimensione ad emergere come un valido predittore del disturbo ossessivo compulsivo centrato sulla relazione. Da successive analisi – contrariamente a quanto ci si aspettava – nessuna forma di perfezionismo del FMPS era esclusivamente collegata al Relationship OCD centrato sul partner (Melli et all. 2018). Queste considerazioni ci portano a concludere che quando le tendenze perfezioniste – provenienti dai modelli operativi interni di tipo evitante – vengono applicate alle relazioni intime, non fanno altro che incrementare anche i sintomi del ROCD di tipo I. Il Relationship Obsessive compulsive disorder di tipo I invece, è collegato maggiormente alla propensione ad utilizzare l’interpretazione catastrofica nelle diverse sfumature sintomatiche del disturbo. Attraverso l’analisi delle dimensioni del RECATS è stato notato come i costrutti maggiormente interessati fossero: l’interpretazione di essere nella relazione sbagliata e la paura di rimanere solo e separato dal proprio partner. La tendenza ad interpretare in modo catastrofico il primo costrutto – “essere in una relazione sbagliata” – pare essere l’unico predittore valido per i sintomi del ROCD di tipo II; tuttavia, interpretare in modo catastrofico entrambi i costrutti risulta essere dalle analisi statistiche svolte, l’unico predittore valido del ROCD di tipo I. Una spiegazione valida potrebbe consistere nel fatto che le infiltrazioni tra i due disturbi dipendano non solo da una comorbilità, ma anche da un rinforzo reciproco nelle credenze di base. Per esempio: i sintomi del ROCD di tipo I potrebbero promuovere lo sviluppo dei sintomi del tipo II quando identificare i deficit, gli errori e i difetti del proprio partner è una strategia emozionale utilizzata per controllare l’andamento della relazione o i sentimenti riguardo al partner stesso (“Riesco ancora a sopportare il suo terribile naso, lo amo ancora!”).

Per molti pazienti, così come dimostrato da Liberman e Dar (2009), identificare questi difetti sembrava essere l’unica chance per mantenere un equilibrio psicologico. In questo modo riuscivano infatti a giustificare l’ego distonia, i loro dubbi e paure, attenuando anche il senso di colpa e l’ansia ad essi connessa. D’altro canto tutti i pazienti con ROCD molto spesso riportano la paura di sentirsi intrappolati in una relazione che gli ricorda la relazione disfunzionale dei genitori. Questa paura – spesso collegata con la teoria della doppia ipotesi – può aumentare vertiginosamente l’attenzione selettiva verso le memorie, i particolari e le esperienze negative nelle relazioni, portando inevitabilmente a perpetuarle (Doron & Derby, 2017). Probabilmente entrambe le forme di manifestazione del ROCD sono collegate e condividono sicuramente dei fattori di mantenimento e di sviluppo. Nonostante questo, però, differiscono di molto nella loro fenomenologia (Doron, Derby et all. 2014) e più studi sono necessari al fine di individuare altre credenze di base per il relationship obsessive compulsive disorder partner focused. Nuove linee di ricerca dovrebbero focalizzarsi sulle paure di abbandono spesso provate da questi pazienti. Si crede (Doron et all. 2009) che esse, oltre a dipendere dai modelli operativi interni interiorizzati dalle relazioni di attaccamento, possano essere un buon gancio per i primi esperimenti comportamentali per aumentare la tolleranza dell’incertezza nel paziente e la sua autostima.

Comorbilità

Le paure di abbandono si ipotizza che siano strettamente connesse – come abbiamo visto – con una relazione di attaccamento di tipo ansioso e quindi con il ROCD di tipo I. Successive ricerche saranno utili per comprendere anche la relazione esistente tra il disturbo da dismorfismo corporeo, i modelli operativi interni evitanti ed i sintomi del relationship obsessive compulsive disorder partner focused (Doron & Szepsenwol, 2014).

 

La Sudden Infant Death Syndrome: definizione, fattori di rischio e strategie preventive

L’articolo propone un approfondimento sulla Sindrome della Morte Improvvisa Infantile (SIDS): ne fornisce una definizione, elenca i principali fattori di rischio e indica alcuni accorgimenti che, secondo la letteratura, concorrono a diminuirne la frequenza.

 

La Sudden Infant Death Syndrome: definizione, fattori di rischio e strategie preventive

 La Sudden Infant Death Syndrome (SIDS – Sindrome della Morte Infantile Improvvisa), conosciuta anche come Morte in Culla o Morte Bianca, consiste nell’improvvisa e inaspettata morte, che avviene solitamente durante il sonno, di un lattante entro l’anno di età in apparenza sano, senza che sia possibile spiegare la causa del decesso anche dopo un’indagine approfondita (Krous, Beckwith, Byard, Rognum, Bajanowski, Corey, et al., 2004; Goldstein, Blair, Sens, Shapiro-Mendoza, Krou, Rognum, et al., 2019). La SIDS si diagnostica quindi per esclusione: è una sindrome che viene utilizzata come inquadramento diagnostico quando non è possibile trovare alcuna spiegazione del decesso (Duncan, Byard, 2018). L’incidenza della SIDS, benché diminuita nel corso del tempo grazie alla diffusione di norme di prevenzione, presenta ancora numeri degni di nota: in Italia si stima infatti un’incidenza dello 0,5-1% (ISS, 2021). Questa sindrome si configura come un fenomeno improvviso, inaspettato e incomprensibile, che ha forti ricadute sul sistema familiare e che molto frequentemente conduce a un lutto complicato.

SIDS: quale distinzione con la SUID e la SUDC

È opportuno distinguere la SIDS da altre morti che incorrono nei primi tempi della vita, come la Sudden Unexpected Infant Death (SUID – Morte Improvvisa Inaspettata Infantile), la Sudden Unexplained Death in Children older than a year (SUDC – Morte Improvvisa e Inspiegabile in Bambini maggiori di un anno) o la Perinatal Death (Morte Perinatale).

Proviamo a fare chiarezza.

La SUID si riferisce a tutte le morti improvvise e inaspettate di bambini sotto l’anno di età, sia quelle inspiegabili (SIDS), sia quelle per cui è possibile rilevare una causa, che può essere malattia, soffocamento, asfissia, infezione, trauma, disfunzioni metaboliche, patologie preesistenti, incidenti, abusi o avvelenamenti (Shapiro-Mendoza, Camperlengo, Ludvigsen, Cottengim, Anderson, Andrew, et al., 2014). La SUID raggruppa dunque tutte le morti impreviste di bambini sotto l’anno di età (Duncan, Byard, 2018) e permette di vedere la SIDS come una sua sottocategoria (Shapiro-Mendoza, Camperlengo, Ludvigsen, Cottengim, Anderson, Andrew, et al., 2014).

Simile alla SIDS è la SUDC, che riguarda le morti improvvise e inspiegabili di bambini più grandi di un anno di età. Oltre alla differenza relativa al tempo di vita, la SUDC è inoltre un fenomeno più raro della SIDS (Krous, Chadwick, Crandall, Nadeau-Manning, 2005) e questa sua caratteristica la rende una sindrome poco conosciuta e trattata, specie in Italia dove non è possibile appurarne l’incidenza.

Infine, la Morte Perinatale fa riferimento alla morte di un neonato durante il parto o entro sette giorni dalla nascita (WHO).

SIDS: quali cause?

Nel corso del tempo è stato possibile indagare sempre più a fondo la SIDS, e benché le sue cause rimangano ignote si è portati a pensare che all’origine potrebbero esserci anomalie nella zona cerebrale che controlla i ritmi sonno-veglia, abbassamenti respiratori durante il sonno, difetti di maturazione dei circuiti cerebrali che gestiscono la capacità del risveglio nei bambini soprattutto in condizioni pericolose come la carenza di ossigeno e anomalie cardiache provocate da malformazioni che però non è possibile individuare. Tuttavia, nulla è stato dimostrato con sicurezza e questa sindrome rimane l’incubo di numerosi neogenitori, per il suo essere improvvisa e imprevedibile (Duncan, Byard, 2018).

 Pur non essendo possibile scongiurare le cause della SIDS, esistono alcuni accorgimenti che si possono adottare per prevenirla, sulla maggior parte dei quali la letteratura internazionale è concorde. Esistono infatti fattori di rischio conosciuti come: la giovane età della madre al momento della gravidanza; l’uso di alcol, di stupefacenti o di fumo nel periodo gestazionale; una gravidanza complicata; la nascita prematura (ibidem).

Anche gli atteggiamenti di cura nei confronti del neonato sono importanti e possono incidere sulla SIDS, perciò è fondamentale che i genitori, o chi si prende cura del bambino, facciano attenzione a alcuni aspetti. La temperatura dell’ambiente dove dorme il bambino non dovrebbe superare i 20°C. Il bambino dovrebbe dormire supino. La culla o il lettino non dovrebbero avere un materasso troppo soffice che rischi di avvolgere il bambino e allo stesso modo non dovrebbero esserci intorno a lui oggetti morbidi o coperte ingombranti. Si dovrebbe evitare che il bambino condivida il letto con genitori, fratelli o animali domestici. I genitori dovrebbero controllare attentamente l’ambiente, tenendolo libero da fumo o vapori. Si dovrebbe prediligere, quando possibile, l’allattamento al seno (Moon, Darnall, Feldman-Winter, Goodstein, Hauck, 2016; Duncan, Byard, 2018).

Non si riscontra invece accordo in letteratura sulla pratica del bed-sharing: alcuni considerano la condivisione del letto come una modalità naturale e facilitante per il rapporto fra madre e figlio nei primi mesi di vita, mentre altri la ritengono una possibile fonte di pericolo per il bambino e uno dei fattori di rischio per la SIDS (McKenna, 2011; Carpenter, McGarvey, Mitchell, Tappin, Vennemann, Smuk, Carpenter, 2013).

In conclusione, se da un lato la ricerca ha evidenziato che esistono comportamenti e scelte che si sono rivelati efficaci per prevenire la SIDS, dall’altro ancora molta strada deve essere fatta per ampliare la ricerca sui fattori di rischio e per diminuirne la numerosità. Poiché conoscere i fattori di rischio aiuta a evitare comportamenti che possono favorire l’avvento della SIDS, è fondamentale che un’informazione corretta e puntuale raggiunga un numero sempre maggiore di neogenitori e persone che si prendono cura dei bambini.

 

Il ruolo dell’interocezione nel disturbo da uso di sostanze: dal ruolo dell’insula alle implicazioni cliniche

L’interocezione consiste nella percezione dei segnali provenienti dal nostro corpo, costituisce un elemento essenziale per l’omeostasi e influenza i processi cognitivi ed emotivi. Le alterazioni interocettive sono associate a diversi disturbi psicologici, diverse ipotesi riguardano un suo coinvolgimento nella spiegazione e trattamento del Disturbo Correlato a Uso di Sostanze.

 

Attualmente la diagnosi di Disturbo da Uso di Sostanze (Substance Use Disorder, SUD) del DSM-5 si riferisce a schemi comportamentali e cognitivi patologici caratterizzati dall’uso continuato di una sostanza o la messa in atto di un determinato comportamento nonostante i significativi problemi associati (APA, 2013). Negli ultimi anni, la ricerca sui modelli animali ha permesso di delineare gli aspetti neurobiologici della dipendenza da sostanze, focalizzandosi sul ruolo del sistema dopaminergico in relazione all’assunzione compulsiva di sostanze (Koob et al. 2004). Tali modelli pongono l’accento sul ruolo degli effetti gratificanti delle sostanze d’abuso che si consolidano a causa del rilascio cronico di dopamina da parte dei neuroni del sistema mesolimbico, alterando di conseguenza il “sistema di ricompensa” deputato alla percezione del piacere (Wise & Bozarth, 1987; Berke & Heyman, 2000).

Negli anni, la ricerca scientifica ha progressivamente riconosciuto l’importanza dei meccanismi di feedback corporeo – e più specificamente dell’interocezione – nei modelli di dipendenza patologica, contribuendo all’elaborazione di spiegazioni plausibili dei meccanismi psicologici e neurali sottostanti al disturbo (Verdejo-Garcia, Clark & Dunn, 2012).

Con il termine interocezione si intende la percezione della condizione fisiologica del corpo, la rappresentazione cosciente dello stato interno nel contesto delle attività in corso e l’avvio di un’azione motivata per regolare omeostaticamente lo stato corporeo interno (Craig 2007). Comprende una serie di meccanismi attraverso i quali i segnali fisiologici periferici vengono inviati al cervello e processati. Essa sottostà alla consapevolezza riguardo le proprie sensazioni corporee (es. dolore, tatto, temperatura), consentendoci di rispondere alla domanda “Come mi sento?” (Craig, 2002).

Considerando i cambiamenti marcati nella fisiologia corporea che le droghe d’abuso apportano nell’individuo, e gli effetti dell’interocezione sui sistemi emotivi, di ricompensa, controllo emotivo e decision-making (Paulus & Stewart, 2014), la comunità scientifica ritiene attualmente plausibile un coinvolgimento dell’interocezione nello sviluppo e mantenimento della dipendenza.

Interocezione e dipendenze: il ruolo dell’insula

Lo studio dell’interocezione per la caratterizzazione della psicopatologia può essere inserito nell’area della cosiddetta embodied cognition, un insieme di teorie fondate sul principio che l’elaborazione cognitiva e affettiva superiore sia radicata nelle esperienze sensoriali e motorie dell’organismo (Winkielman, 2009). In tale maniera, un determinato stato emotivo rimane intrinsecamente associato ad un determinato stato corporeo interno.

Alla base di tali meccanismi di apprendimento e percezione si trova la corteccia insulare, nota come hub interocettivo (Paulus & Stewart, 2014). L’insula può essere divisa in almeno due regioni con due funzioni differenti: mentre l’insula anteriore è attivata tramite uno sforzo cognitivo, l’area posteriore viene sollecitata da interocezione ed emozioni (Paulus & Stewart, 2014). I segnali sensoriali convergono nel sistema nervoso centrale tramite le vie periferiche che confluiscono nella parte destra dell’insula anteriore. Quest’ultima integra le interocezioni con gli stati emotivi, con le motivazioni e con la consapevolezza corporea, poiché le fibre nervose efferenti dell’insula si interconnettono con svariate strutture implicate in emozioni e ricompensa tra cui l’amigdala e il nucleus accumbens (Navqi & Bechara, 2009), formando un complesso network di circuiti cerebrali.

Considerando che l’attivazione insulare avviene principalmente quando vengono sperimentati stati emotivi intensi – sia positivi che negativi – (Damasio et al., 2000) ed è implicata nel decision-making in situazioni di stress e rischio (Clark et al., 2008; Preuschoff et al., 2008), è stato ipotizzato che il feedback corporeo influenzi significativamente i processi cognitivo-affettivi.

L’influenza della corteccia insulare nei disturbi da addiction è stata evidenziata in studi di neuroimaging su campioni di tossicodipendenti, i quali hanno individuato una iperattività della corteccia insulare in presenza di stimoli esterni associati a sostanze (Volkow et al., 2010), e una sua ipo-funzione durante il controllo dei processi cognitivi (Kaufman et al., 2003; Paulus et al., 2005; Hester et al., 2009). Nello specifico, studi su lesioni dell’insula – tendenzialmente in seguito a ictus – in campioni di pazienti affetti da tabagismo hanno rilevato una propensione maggiore alla remissione totale dalla dipendenza di tale campione rispetto al gruppo di controllo che non riportava danni insulari (Navqi et al. 2007), oltre che a esperienze di craving e astinenza più attenuate.

È stata dunque avanzata l’ipotesi che l’insula sia una struttura neurale chiave nella rappresentazione degli effetti interocettivi connessi all’utilizzo di droghe, tra cui gli effetti sensoriali e autonomi delle vie aeree per quanto riguarda fumo di sigaretta, il gusto dell’alcol, gli effetti simpaticomimetici della cocaina e il dolore dell’iniezione endovenosa (Navqi & Bechara, 2009).

La mappatura degli effetti interocettivi dell’uso di droghe all’interno dell’insula costituirebbe quindi una fase di elaborazione neurale necessaria che dà luogo all’apprezzamento consapevole di questi effetti.

Implicazioni cliniche

In ambito clinico, il ruolo dell’interocezione nei disturbi da uso di sostanze è stato studiato per via della sua funzione regolatrice degli stati emotivi legati a piacere e ricompensa nei casi in cui questi ultimi permettano un ritorno ad uno stato di omeostasi.

Uno degli elementi chiave nel mantenimento del disturbo sarebbe dunque un’alterazione dell’interocezione, caratterizzata dalla generazione di marker somatici associati ad azioni come l’assunzione di una sostanza d’abuso. In tal senso, determinate sensazioni corporee (cambiamenti della frequenza cardiaca, sudorazione, tensione muscolare) andrebbero a creare previsioni e simulazioni nel cervello di ciò che ci si aspetta che accada nel corpo (Verdejo-Garcia et al., 2014), alterando considerevolmente la percezione del rischio associato al consumo e, di conseguenza, i processi cognitivi di decision making.

Da un punto di vista clinico, la letteratura scientifica converge sul fatto che valutare la sensibilità dell’interocezione individuale orienterebbe al meglio i pazienti affetti da disturbo da uso di sostanze nella scelta di un trattamento terapeutico tra i diversi approcci esistenti. Si ipotizza che un’elevata interocezione renderebbe il paziente più propenso a sperimentare un’intensa esperienza di craving, un notevole stato umorale negativo e un’intensa percezione dello stress, aumentando significativamente la vulnerabilità dell’individuo alle ricadute (Verdejo-Garcia et al., 2014). In tal senso, interventi mirati alla distinzione tra stati interocettivi negativi comuni da quelli correlati alle sostanze e all’astinenza apporterebbero una maggiore consapevolezza del proprio corpo, ridimensionando il più possibile i bias cognitivi nella valutazione dei propri stati interni.

Per quanto riguarda invece gli interventi volti a modificare l’interocezione, negli ultimi decenni sono stati proposti interventi di biofeedback – orientati verso l’auto-regolazione e al controllo delle funzioni corporee involontarie – e di terapia di esposizione interocettiva per la prevenzione delle ricadute in situazioni di stress elevato (Sokhadze et al., 2008).

Ad oggi, il disturbo da uso di sostanze resta una patologia notevolmente complessa per via dell’eterogeneità della sua eziologia e a causa degli svariati fattori di mantenimento associati ad essa. Considerando che non sono state ancora ottenute prove dirette di possibili deficit di interocezione nelle dipendenze, la letteratura scientifica e il lavoro clinico necessitano ancora ulteriori ricerche e approfondimenti. In particolare, è necessario porre maggiore attenzione sulla effettiva relazione mente-corpo nelle dipendenze, in modo tale da delineare in che misura l’interocezione agisce sul mantenimento del disturbo e sulle ricadute. La ricerca permetterebbe di evidenziare elementi specifici della consapevolezza corporea – spesso trattata in maniera parziale – da integrare in interventi mirati nelle attuali procedure terapeutiche.

 

I geni della creatività (2021) di Simon Baron Cohen – Recensione del libro

Nel testo I geni della creatività l’autore si focalizza sulla capacità “unicamente umana” di inventare, di creare, di trasformare il mondo, ponendosi domande affascinanti.

 

Come si inventa? Che cosa succede nella mente umana quando inventiamo? L’uomo è l’unica specie in grado di inventare? Qual è l’affascinante legame con l’autismo? A che punto dell’evoluzione abbiamo iniziato ad inventare?

Cohen propone che alla base dell’invenzione umana vi sia un interessante meccanismo noto come “di sistematizzazione” che permette di cogliere il reale nell’ottica di “sistemi di funzionamento” attraverso una particolare spinta a cercare schemi “se e allora”. Questo meccanismo presenta un’elevatissima sintonizzazione nella mente autistica, orientata al controllo, alla predicibilità, alla ricerca di coerenza e contingenze con il mondo esterno. Nel primo capitolo, viene raccontata la storia di Jonah, che a due anni non parlava ancora e passava ore a sperimentare ossessivamente. Quando inizia a parlare lo fa con lo sguardo abbassato, non rivolgendosi all’interlocutore e utilizza il gesto indicativo, non per condividere l’esperienza, ma semplicemente per se stesso, per dare agli oggetti un nome, per classificarli. Nominava le cose con parole molto precise, riferendosi alla marca, al modello, all’anno di fabbricazione (per esempio con le macchinine). Jonah si sedeva rapito davanti alla televisione, a guardare le previsioni del tempo e a vedere cosa fosse cambiato. Passava ore a spegnere la luce da un determinato interruttore, senza toccare gli altri interruttori, per verificare che quell’interruttore controllasse davvero la luce nel corridoio del piano inferiore. Stava inoltre seduto davanti alla lavatrice per ore, ad aspettare di sentire quel preciso clic o ronzio, che si aspettava di sentire a fine del ciclo. E diventava euforico quando raggiungeva un particolare punto di prevedibilità nella sequenza. A scuola Jonah non tollerava i movimenti degli altri bambini perché per lui erano imprevedibili. Sembrava avere una perfetta comprensione intuitiva del mondo degli oggetti ma le interazioni sociali per lui erano incomprensibili. Viene descritta inoltre la storia di Edison che, come Jonah, era alla ricerca di schemi e di variabili da controllare e negli Stati Uniti inventò tecnologie innovative. Per questi due bambini, la ripetitiva sistematizzazione era guidata da una curiosità di fondo, in cui ciò che acquisiva importanza era la ricerca della verità. Volevano spiegazioni complete, senza lacune, guardando il mondo in modo nuovo, non influenzati dalle convenzioni sociali. Jonah è autistico, ed è stato seguito da Cohen. Non è diventato un inventore famoso come Edison e tutt’ora cerca schemi prevedibili. Oggi è affascinato dagli schemi della superficie nell’oceano. Ha un grande talento per individuare schemi, una memoria straordinaria (impermnesia), ma fa molta fatica a trovare un amico. Cohen afferma che tale ricerca di schemi “se e allora” può portare ad inventare, e talvolta a diventare grandi inventori. L’ipotesi precedentemente presentata dall’autore è che nell’autismo vi sia un’iper-sistematizzazione, quindi con un livello molto alto di SQ (meccanismo di sistematizzazione) in quella che viene presentata come una curva a campana dallo UK BRAIN TYPES STUDY, ma un livello basso di empatia, in particolare di empatia cognitiva, ovvero la capacità di immaginare un’altra mente e in particolare ciò che una persona, un animale o un altro tipo di essere potrebbe sentire, credere, desiderare. In particolare l’autore presenta uno studio in cui viene dimostrato che i geni dell’autismo e dell’iper sistematizzazione siano gli stessi.

Nell’ambito dell’Autism and math study, si è chiesto agli studenti di matematica dell’Università di Cambridge se avessero un fratello autistico, scoprendo che il tasso di autismo tra questi fratelli era più altro del tasso di autismo tra i fratelli degli studenti di scienze umanistiche. Ciò suggerisce una base genetica condivisa tra l’autismo e la sistematizzazione, poiché i fratelli in media condividono il 50% dei geni. La carenza da parte dei soggetti autistici nell’empatia cognitiva influisce parecchio nella loro esclusione sociale e nel loro senso di alienazione. Molti risultano essere estremamente diretti nella loro comunicazione e possono non vedere nulla di sbagliato in ciò. Seguono semplicemente le loro regole in quella che rappresenta per loro “la ricerca della verità” e la perfezione del sistema. Motivo per cui hanno anche un senso della moralità molto alto. Inoltre molti presentano un’estrema difficoltà nel comprendere quello che risulta loro all’interno delle interazioni con gli altri come un linguaggio segreto e criptico. Trovano la conversazione confusa, non sanno di cosa parlare quando è il loro turno. Jonah, il ragazzo di cui accennato prima, racconta di non essere in grado di capire l’umorismo. Ciò va al di fuori delle informazioni fattuali, e di ciò che può essere sistematizzato. Nota che le altre persone si scambiano sguardi, scrollano le spalle e non ha la minima idea di come interpretare questo linguaggio. Tutte difficoltà che hanno a che fare con la carenza di empatia cognitiva. Jonah viene però descritto da altre persone come molto premuroso, in grado di sintonizzarsi con le ingiustizie e desideroso di fare qualcosa per aiutare gli altri. Ciò ha a che fare con l’empatia affettiva presentata da Cohen anche in altri testi, la quale risulta intatta in molti autistici e che insieme ad un perseguimento ossessivo di schemi porta proprio a quel senso di moralità e ad una forte fiducia nella giustizia e nell’equità.

Cohen, inoltre, considera l’autismo come l’immagine speculare della psicopatia, nel senso che nello psicopatico si trova un livello di empatia cognitiva molto elevato, ciò che d’altronde consente di rappresentare mentalmente bisogni, credenze, emozioni e sentimenti e che in questo caso, in mancanza di empatia affettiva, e nell’esposizione a contesti traumatici cumulativi, viene utilizzata per manipolare l’altro in scopi e progetti personali. Si fa riferimento a ciò che Robert Hare, nel testo “La psicopatia” definisce metaforicamente come capacità dello psicopatico di “conoscere le parole, ma non sentire la musica”. Jonah, durante uno degli incontri con Cohen, lamenta la sua estrema difficoltà di inserimento, oltre che in un contesto sociale di relazione tra pari, anche lavorativo. Ciò rappresenta una difficoltà di fondo di molti ragazzi autistici, che pur avendo talenti straordinari e costituendo una risorsa enorme in termini di invenzione generativa, vengono esclusi dalla comunità e in questo anche impossibilitati nel coltivare il loro stesso talento. Descrive due circuiti che rappresentano la rivoluzione cognitiva avvenuta 70,000 anni fa, ovvero il meccanismo di sistematizzazione e il circuito dell’empatia. Entrambi hanno avuto un grande ruolo nell’invenzione del linguaggio. In particolare, la sintassi si fonda su schemi “se e allora” e quindi con una base sistematizzante e le interazioni sociali complesse richiedono l’utilizzo dell’empatia cognitiva, che permette di utilizzare simboli condivisi che si riferiscono a qualcosa “là fuori nel mondo” e il riconoscimento di un’intenzionalità in uno stato della mente, di aree intermedie di esperienza condivisa tra il mondo esterno e l’interno e quindi di credenze, emozioni, sensazioni, sentimenti, pensieri nell’altro. Si fa riferimento ad una teoria della mente, la quale permette quello che Winnicott definiva “gioco con la realtà o di finzione”, tramite cui è possibile l’inganno e quindi il cercare di far credere a qualcuno che qualcosa è vero quando non lo è, e perciò la consapevolezza che gli altri abbiano delle credenze. Secondo Cohen, l’inganno flessibile ha rappresentato una grande risorsa in termini di selezione naturale e sopravvivenza, instillando false credenze nella mente delle vittime e consentendo di variare il tutto a seconda del contesto. Il vantaggio di disporre di una teoria della mente ha anche permesso un insegnamento flessibile, tramite la capacità di tenere a mente ciò che una persona sappia o abbia bisogno di sapere. E permette inoltre una comunicazione referenziale flessibile, e quindi, come accennato sopra, simboli condivisi. Uno dei primi segni di comunicazione referenziale flessibile, si ha durante la comparsa del “gesto indicativo”. In questo gesto si esprime l’intenzione di influenzare il punto di vista dell’interlocutore e quindi anche di comprensione che l’altro abbia una mente e che sia possibile coinvolgerlo. L’avere una teoria della mente ha permesso di apprezzare altri punti di vista, di produrre e apprezzare l’umorismo, di inventare e comprendere il cinema, il teatro, la narrativa, e quindi di far capire al pubblico l’intenzione di rappresentare una cosa per un’altra. Inoltre ha anche consentito una cooperazione sociale efficace in vista del raggiungimento di un obiettivo condiviso.

Come accennato sopra, l’ipotesi dell’autore è che ciò che caratterizza l’invenzione umana, quella che Cohen definisce “inventività generativa”, risulta il meccanismo di sistematizzazione, tipicamente umano e caratterizzato da una forte curiosità e spinta alla sperimentazione, il tutto però orientato ai dati fattuali, al mondo degli oggetti e degli strumenti, i quali possono essere sottoposti a controlli ripetuti e in cui l’imprevedibilità, caratteristica delle relazioni sociali, può essere ridotta al minimo. La maggior parte dei comportamenti umani non si adatta a questo meccanismo. Infatti quando si sperimentano emozioni, queste non riemergeranno sempre allo stesso modo, con le stesse sensazioni, e all’interno degli stessi stati mentali e con gli stessi fattori scatenanti. Né le nostre convinzioni rimangono sempre le stesse, in quanto vengono cambiate dalla nostra esperienza. Tentativi di sottoporre la realtà ad un controllo totalizzante attraverso la sistematizzazione si possono trovare nella mente ossessiva. Il pensiero ossessivo porta a mettere in dubbio tutte le possibili alternative. Mancini, nel suo testo “La mente ossessiva”, propone l’ipotesi che, nel pensiero ossessivo, si possa dar credito ad idee bizzarre, non perché si aderisca a tali idee, ma perché non si può essere certi che siano false (Mancini, 2016). Cohen infatti, nel testo, fa riferimento a quanto il “DOC” si riscontri in tassi elevati nelle persone autistiche e a quanto il pensiero ossessivo sia incentrato su meccanismi “se e allora”, che tentano di confermare e disconfermare compulsivamente un’idea: “Se ci son germi sulle mie mani, e non mi lavo le mani in una rigorosa sequenza di azioni, allora contaminerò gli altri. Se contamino una persona, e quella persona muore, allora sarà tutta colpa mia”. In questo caso, il meccanismo di sistematizzazione, regolato nel contesto di un’ansia di fondo, del timore di una colpa inaccettabile e della paura di non aver fatto abbastanza per neutralizzare le credenze attraverso dei rituali adeguati, può generare disabilità psichiatrica. Di fatto quindi, per ciò che concerne le relazioni sociali, l’uomo non dipende dal meccanismo di sistematizzazione. La sistematizzazione però ha portato all’invenzione di nuovi strumenti e tecniche: nella musica, nell’arte, nella matematica, nella scienza, nell’ingegneria.

Cohen, esaminando i dati di scansione cerebrale con Mike Lombardo in compiti che implicavano attenzione ai dettagli, apprendimento delle regole, controllo degli errori, riconoscimento di regole, ha scoperto che tutti questi aspetti della sistematizzazione utilizzano le aree sensoriali-percettive del cervello e in particolare il solco intraparietale. Si è accennato al fatto che questo meccanismo si basi su schemi “se e allora”. Nello specifico Cohen, analizza come queste tre parole si combinino all’interno del meccanismo. Egli prende un esempio di sistematizzazione proveniente dalla quotidianità, con ciò per dissipare l’idea che la sistematizzazione sia presente soltanto all’interno di campi scientifici: “Se prendo un uovo e lo faccio bollire per 8 minuti, allora il tuorlo sarà duro e giallo”. La parola “se” ha un significato ipotetico, come in “se x è vero”, antecedente come in “se x avviene per primo” o denota semplicemente l’input. La parola “e” viene definita magica dall’autore, che al massimo della sua potenza si riferisce ad una operazione causale: “Se il ghiaccio è in una ciotola e la ciotola è su una fiamma, allora il ghiaccio si trasforma in acqua”. La parola “allora”, può rappresentare la conseguenza ”allora ne segue y”, la conclusione “allora y è vero” o semplicemente l’output. Ciò che a detta dell’autore risulta stupefacente in questo meccanismo, è la possibilità di inventare ripetutamente, creare nuove varianti e perfezionare gli strumenti precedenti. Ed è ciò che, secondo l’autore, tipicamente differenzia l’apprendimento associativo guidato dalla ricompensa che si può trovare nelle scimmie come in altri animali, dall’invenzione generativa. Secondo Cohen, il comportamento degli osservatori umani guidati dal meccanismo di sistematizzazione ha una ricompensa intrinseca, ovvero il piacere di aver soddisfatto la curiosità e di confermare lo schema “se e allora”. Gli animali possono riconoscere schemi semplici come facevano anche gli ominidi, del tipo “A è ASSOCIATO a B”. L’autore fa l’esempio dell’uso di strumenti semplici da parte degli antenati ominidi, come di pietre per rompere un guscio e prenderne il cibo all’interno. O di asce di pietra per raschiare a tagliare. In questo caso però, seppure l’utilizzo di questi strumenti possa far pensare ad un principio di invenzioni, l’ipotesi dell’autore è che ciò che guidava gli ominidi era l’associazione tra stimolo e risposta e una mera relazione tra elementi osservabili. Nel caso in questione, avevano imparato ad associare a quello specifico movimento con la pietra la rottura del guscio e la ricompensa in cibo. Ma non era presente nessun tipo di sistematizzazione, di ricerca di variabili rilevanti (anche in assenza di conoscenza), di schema, o legge. Non si vedono scimmie aggiungere spezie o altri ingredienti al loro cibo per sperimentarne il gusto, né vediamo animali sperimentare il movimento o la causalità. In particolare, l’autore definisce le scimmie, come altri animali e i primi ominidi come “ciechi ai sistemi”.  E inoltre, tesi centrale di Cohen, non vi è la capacità di escogitare un nuovo strumento più di una volta. Uno strumento inventato da un animale potrebbe saltare fuori per caso, guidato appunto dall’apprendimento associativo: l’animale ripete la sequenza di azioni perché porta ad una ricompensa. Con una capacità generativa, l’animale non si limita a costruire lo stesso semplice percussore o ascia, ma è in grado di creare centinaia di nuovi progetti. Una vera invenzione dovrebbe essere come un linguaggio: una volta che si è in grado di produrre una frase, si possono produrre centinaia di nuove frasi. Si può ipotizzare un inizio di inventività generativa, a partire dall’homo sapiens, e un esempio è l’arco con le frecce. L’inventore deve aver sperimentato il miglior tipo di legno, la lunghezza della corda, e il materiale più adatto alla punta della freccia, tutti elementi che permettono di ottimizzare distanza e velocità e che quindi considerano la combinazione di variabili spaziali e temporali, non limitandosi pertanto alle sole relazioni associative osservabili. È un indice di utilizzo di pensiero “se e allora”: “Se collego una freccia ad una fibra elastica, e rilascio la tensione nella fibra, allora la freccia volerà”. Altro esempio risulta l’utilizzo dell’incisione da parte dei Sapiens: “Se prendo una pietra liscia, e uso un utensile con una lama sottile, allora posso incidere delle forme”. Altri esempi sono le abitazioni costruite, le imbarcazioni e gli aghi in osso. Si consideri inoltre l’invenzione del ritmo e della musica. La musica rappresenta una sequenza di schemi (ritmici e tonali), che possiamo variare in modo intenzionale, usando le regole “se e allora”, i quali possono avere uno straordinario impatto emotivo. Il “fare musica” in questi termini richiede anche l’utilizzo del circuito dell’empatia affettiva e cognitiva e quindi di sintonizzarsi emotivamente e rappresentarsi mentalmente credenze, sentimenti ed emozioni. Ma prima di poter avere l’esperienza emotiva, bisogna essere in grado di riconoscere la musica in termini di schemi. Usiamo il meccanismo di sistematizzazione per riconoscere che qualcun altro sta variando intenzionalmente gli schemi “se e allora” del ritmo o per produrli. Gli uccelli producono suoni melodici ma con una stessa sequenza, la quale può certamente influenzare positivamente o negativamente il cervello di chi l’ascolta. Non vi è una variazione intenzionale e sistematica delle note per esplorare gli schemi sonori “se e allora”. I bambini sono magneticamente attratti dalla musica, che potranno in modo spontaneo imitare o variare, come sono magneticamente attratti dall’esplorazione, dalla ricerca di sistemi di qualunque tipo. Ciò si osserva con estrema rigidità nell’autismo, come in una sorta di paraocchi, e può portare anche a non valutare eventuali pericoli, come nel caso Lauri Love, presentato da Cohen, che rischiò di essere estradato negli Stati Uniti con l’accusa di aver violato la rete di computer militari americani. Cohen, dopo un attento approfondimento, comprese che Lauri non era un criminale, intenzionato ad approfittarsi degli altri, ma piuttosto il suo fine, seppure perseguito in modo ossessivo e guidato da una certa rigidità, era prettamente etico. Cercava di tutelare quello che credeva essere l’interesse pubblico.

L’evoluzione del meccanismo di sistematizzazione ha quindi portato all’invenzione della scrittura, della matematica, all’uso controllato del fuoco, della religione e quindi a sistemi di ogni tipo e utilizzando strumenti in modo sistematico. La combinazione del meccanismo di sistematizzazione e del circuito dell’empatia, ha reso l’homo sapiens insuperabile. La combinazione di questi due sistemi ha dato vita al linguaggio, alla musica e alla possibilità di renderli estendibili e condivisibili. La sistematizzazione ci permette di capire le regole del linguaggio e della musica, l’empatia ci consente invece di leggere tra le righe l’intenzionalità di un qualcosa che viene detto, e quindi il significato inteso o sotto-inteso, e permette inoltre esperienze di connessione psichica con l’altro. L’empatia e la teoria della mente permettono di spiegare perché i primi esseri umani sperimentassero l’arte, la scultura, la musica, ma da sole queste non consentono di comprendere il “come” di tale sperimentazione, il quale, come è possibile evincere dal testo, si radica nel meccanismo di sistematizzazione. Risulta interessante notare come l’assenza di empatia cognitiva possa portare grandi talenti ad inventare in preda ad una spinta ossessiva, senza tenere conto della reale utilità dello strumento in questione e dell’impatto emotivo che possa avere, mancando quindi il coinvolgimento dell’altro. Cohen fa l’esempio di Edison (anche se non gli fu mai fatta una diagnosi di autismo, anche per la mancanza di strumenti di quel periodo), che inventò la bambola Edison parlante che alle bambine non piaceva. Aveva una procedura complicata, per cui bisognava sostituire il disco fonografico con un altro e oltretutto una voce monotona e acuta che poteva addirittura risultare terrificante. Tutti elementi che non aveva previsto, immerso nel suo bisogno compulsivo  di inventare.

L’autore si focalizza anche sulla correlazione tra linguaggio e sistematizzazione, domandandosi se effettivamente la presenza del linguaggio abbia contribuito all’invenzione umana. Vengono presentate alcune caratteristica fondamentali del linguaggio, quali la ricorsività e la sintassi. In particolare, nella ricorsività, si vede come sia possibile annidare locuzioni per costruire strutture linguistiche sempre più complesse e permette, con un numero finito di parole, di creare un numero infinito di enunciati. Ma la proprietà ricorsiva del linguaggio, secondo Cohen, non rappresenta una teoria rivale dell’invenzione umana. Innanzitutto, la ricorsività si trova anche nella musica e gli individui che perdono il linguaggio possono essere comunque grandi musicisti. Inoltre, i bambini piccoli, seppur senza linguaggio, sono in grado di cogliere schemi “se e allora”. Inoltre la sintassi, seppur rappresenti una proprietà chiave del linguaggio, sta comunque alla base del meccanismo di sistematizzazione. “Se” la frase è il cane morde l’uomo “e” la prima e l’ultima parola vengono scambiate, “allora” la frase diventa “l’uomo morde il cane”. Quindi il processo è guidato dal meccanismo di sistematizzazione. Il meccanismo di sistematizzazione ha quindi permesso l’invenzione infinita, riorganizzando le variabili in qualsiasi sistema. Si è inoltre accennato ad una possibile correlazione tra linguaggio e meccanismo di sistematizzazione nell’invenzione umana, perché indubbiamente il linguaggio permette di mettere nuove idee in parole, di giocare con le parole stesse, generando pertanto nuove idee e facilitando quindi il ragionamento “se e allora”. Ciò, però, non va ad intaccare il fatto che linguaggio e sistematizzazione siano indipendenti, aspetto comprovato anche da una presenza, a volte minimale, del linguaggio nei Savant autistici, i quali però risultano super-sistematizzatori. Per esempio, Cohen fa riferimento a Nadia che sapeva disegnare i cavalli da qualsiasi prospettiva, pur essendo priva di linguaggio. Si è fatto cenno all’importanza del “gioco di finzione” all’interno del circuito dell’empatia, come aspetto fondamentale della capacità di rappresentare una cosa per un’altra e quindi in termini di “rappresentazioni mentali” e anche della capacità di immaginare in quelle che Fonagy presenta come modalità “come se”. Si prenda l’esempio: “La luna è fatta di formaggio”. In termini di gioco con la realtà, alla base vi è uno stato mentale che permette di immaginare una realtà “come se”, di meta-rappresentarla come afferma Cohen, consentendo quindi di “far finta. In particolare, Fonagy nei suoi studi sulla mentalizzazione, fa riferimento alla modalità del “far finta”, che evolutivamente comincia a presentarsi intorno ai 18 mesi e che consente al bambino di differenziare i pensieri e le fantasie dalla realtà esterna (Fonagy, 2005). Cohen prosegue domandandosi se la finzione possa spiegare la capacità di inventare. Si può immaginare e fare umorismo quanto si vuole ma per inventare occorre il pensiero “se e allora”. Il pensiero di finzione fornisce soltanto il “se” del meccanismo. Abbiamo bisogno anche della parte “e”, come componente della causalità e abbiamo bisogno della parte “allora”, che permette di vedere i risultati dell’osservazione o della sperimentazione. Viene posto anche il quesito riguardante la memoria di lavoro e l’eventualità che possa fornire spiegazioni alla capacità di inventare. Sicuramente la memoria di lavoro consente di attuare piani futuri, di progettare. Per esempio, Cohen fa riferimento all’uso delle trappole che richiede questo tipo di memoria: “si dispone la trappola, si guarda e si aspetta per poi tornare e vedere se ha funzionato”. Ma consente appunto di pianificare nel tempo, non di generare, che invece necessita della sistematizzazione: “Se attacco una molla ad una barra di metallo, e faccio scattare la molla, allora la barra di metallo si chiuderà a scatto”. Il meccanismo di sistematizzazione, oltre a spiegare il come dell’invenzione, rende chiaro un aspetto fondamentale del perché, che, come si è accennato sopra, risulta il puro piacere di farlo e quindi la curiosità.

Si è accennato sopra all’ipotesi dell’autore in merito alla correlazione tra autismo e iper-sistematizzazione. In particolare viene presentato uno studio in cui si è dimostrato che i geni dell’autismo e dell’iper sistematizzazione siano gli stessi. Nell’ambito dell’Autism and math study, si è chiesto agli studenti di matematica dell’università di Cambridge se avessero un fratello autistico, scoprendo che il tasso di autismo tra questi fratelli era più altro del tasso di autismo tra i fratelli degli studenti di scienze umanistiche. Ciò suggerisce una base genetica condivisa tra l’autismo e la sistematizzazione, poiché i fratelli in media condividono il 50% dei geni. Inoltre viene presentato il quesito se effettivamente le persone che lavorano nel campo STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics) che richiede un livello elevatissimo di sistematizzazione, abbiano maggiori probabilità di avere un figlio autistico. In particolare, la predizione fa riferimento al fatto che padri e nonni di bambini autistici, avrebbero avuto maggiori probabilità di lavorare in campi super-sistematizzanti come l’ingegneria, l’informatica, l’economia. È stato riscontrato più del doppio delle probabilità di essere ingegneri o di lavorare nel campo dell’economia, rispetto ai padri o ai nonni di bambini senza diagnosi di autismo. Uno degli aspetti, a mio avviso, più essenziali che viene colto nel testo di Cohen, risulta l’importanza di coltivare questo tipo di talenti super-sistematizzanti. A tal proposito, l’autore introduce il concetto di neurodiversità e di come sia stato essenziale nell’evoluzione. Le menti delle persone super-sistematizzanti, che siano autistiche o che abbiano tratti autistici, rappresentano uno dei tanti tipi naturali di cervello che si sono evoluti e che contribuiscono alla neurodiversità umana. Questa concezione implica che vi siano vie diverse nello sviluppo e diversi tipi di cervello, i quali probabilmente si adattano meglio a particolari nicchie ambientali. Cohen riporta nel libro una frase tratta dagli scritti di Einstein: “Tutti sono dei geni, ma se si giudica un pesce dalla sua capacità di arrampicarsi su un albero, si passerà la vita a credere che sia stupido”. Cohen fa anche riferimento a Bloom, il quale ha esplorato l’idea che la neurodiversità possa essere tanto cruciale quanto la biodiversità. Egli afferma: “Chi può dire quale tipo di cervello si rivelerà migliore in un dato momento?” Secondo Cohen, quindi, il livello di disabilità che si riscontra nell’autismo, derivante da difficoltà di comunicazione, di socializzazione e di reazione a cambiamenti inaspettati e che può quindi intaccare il loro inserimento in contesti lavorativi, può essere ampiamente ridotto se ci si pone nell’ottica di coltivare il loro talento attraverso un equilibrio ottimale con l’ambiante di riferimento. Viene, ad esempio, citata la storia di Thorkil, fondatore dell’azienda Specialisterne, che nota il talento del figlio autistico nel costruire architetture complesse con i lego, e nel tentativo di promuovere il talento del figlio e di tanti altri autistici, ha avuto una brillante idea per ridurre il livello di ansia sociale che molti di loro sperimentano durante un colloquio lavorativo, il quale richiede empatia cognitiva. Ha quindi proposto ai candidati autistici di costruire robot lego, in modo da poter valutare le loro capacità in merito a ricerca di schemi e problem solving. Cohen invita ad immaginare un sistema educativo che tenga in considerazione i punti di forza di queste persone e in cui, oltre al curriculum generale, con ambiti di studio rivolti alla maggior parte dei bambini, sia presente un curriculum ristretto, volto ai super sistematizzatori. Il curriculum generale non funzionerebbe per i ragazzi autistici, perché porterebbe a cambiamenti troppo frequenti, con il rischio di disperdere la loro passione. Nelle giuste condizioni quindi, la super-sistematizzazione può manifestarsi sotto forma di punti di forza e talenti notevoli e, secondo l’autore, l’aumento dell’occupazione assistita può rivelarsi un intervento molto più efficace di qualsiasi trattamento medico, conferendo un senso di dignità, di inclusione sociale e valorizzazione di ciò che vi è di  “particolare” in queste persone.

 

La diverse fasi del ciclo mestruale influenzano l’interpretazione dei comportamenti maschili?

Il ciclo mestruale costituisce un insieme di processi psicofisici che si verificano nella maggior parte della popolazione femminile. Tale fenomeno può incidere su molti ambiti della vita quotidiana, tra cui i processi decisionali.

 

Partendo da tale presupposto, alcuni scienziati hanno formulato un quesito di particolare interesse: esiste una specifica fase del ciclo mestruale durante la quale le donne tendono a scegliere un partner poiché interpretano i suoi comportamenti maschili come più attraenti? L’incidenza delle varie fasi del ciclo mestruale nelle preferenze di scelta dei partner maschili è stata oggetto di controversie.

Esistono prove secondo le quali, quando le donne si trovano in fase fertile, e quindi in corrispondenza dei giorni di ovulazione, interpretano specifici segnali comportamentali degli uomini come più attraenti rispetto a quando sono in fase luteale, ovvero quando si trovano tra la fase di ovulazione e l’inizio delle mestruazioni. Ciò è asserito, ad esempio, da Gangestad e colleghi, i quali hanno ipotizzato il Good-Genes-Ovulatory-Shift Hypothesis – GGOSH, che sostiene che le preferenze di partner nelle donne differirebbero a seconda del contesto di accoppiamento. Il modello GGOSH, sostiene che quando le donne si trovano in fase fertile, preferiscono uomini con caratteristiche che indicano la presenza di buoni geni, e che quindi garantirebbero una potenziale prole sana; queste preferenze dovrebbero invece risultare assenti nella fase luteale (Gangestad et al.2007).

Diversi studi hanno inoltre evidenziato che le preferenze per gli uomini che mostrano dominanza comportamentale, sicurezza e presenza sociale cambiano durante il ciclo ovulatorio (Gangestad et al., 2007; Lukaszewski&Roney, 2009). Ad esempio, sembrerebbe che le donne che si trovano in fase fertile mostrino preferenze per le espressioni facciali di flirt (Morrison et al., 2010).

Tuttavia, recenti ricerche hanno messo in dubbio tali risultati. Tra queste, due meta-analisi sono giunte a conclusioni sorprendentemente divergenti sull’esistenza di effetti del ciclo (Gildersleeve et al., 2014; Wood et al., 2014).

Proprio per questo motivo, Stern, Gerlach e Penke hanno realizzato uno studio che ha affrontato questo dibattito avvalendosi di misurazioni dei livelli ormonali nelle due fasi del ciclo in oggetto.

Centocinquantasette partecipanti di sesso femminile eterosessuali hanno valutato l’attrattività percepita dalla visione di video di interazioni di coppia. In ogni video figuravano un partecipante di sesso maschile che conversava con un’attraente compagna di sesso femminile. Ciascun video è stato filmato da una telecamera posta sopra la spalla dell’attrice.

Gli autori dello studio hanno ipotizzato che avrebbero osservato negli uomini differenti tipi di comportamento, tra cui l’attrattività, l’autoesposizione, il contatto visivo. L’attrattività comportamentale può essere vista come uno sforzo da parte degli uomini per apparire attraenti in un modo più sottile e indiretto rispetto al flirt. I comportamenti di autoesposizione possono essere visti come un tentativo di impressionare la partner durante la conversazione, indicizzando comportamenti simili al corteggiamento, e sono correlati a livelli di testosterone più elevati (Roney, Lukaszewski e Simmons, 2007; Roney, Mahler e Maestripieri, 2003). È stato altresì riportato che la quantità di contatto visivo sia un indicatore di presenza sociale che può incidere sulle preferenze femminili (Gangestad et al., 2004). Inoltre, il dominio maschile, l’arroganza, l’assertività, la rispettabilità sociale e la probabilità di vincere una lotta fisica sono variabili che possono incidere sulle preferenze femminili durante alcune fasi del ciclo (Gangestad et al., 2007).

I confronti multilivello tra gli ormoni relativi alle due fasi del ciclo rilevati dopo la visione dei video hanno indicato che le preferenze relative alla scelta del partner basata sui comportamenti attuati dagli uomini non sono variate nelle due fasi per alcun tipo di comportamento maschile messo in atto. I livelli ormonali delle donne e lo stato della relazione in cui si trovavano non hanno influenzato questi risultati (Stern, Gerlach&Penke, 2020).

Pertanto, gli esiti dell’attuale studio non forniscono prove a supporto del modello GGOSH, dimostrando che la fase del ciclo in cui una donna si trova non necessariamente influenza l’interpretazione di comportamenti maschili durante la scelta del partner.

La Psicologia dei Meme: il caso della vittoria dell’Italia

Il Meme diventa un modo per veicolare umorismo perché mira alla creazione di un “prodotto socio-culturale virale”, al fine di convertire la tipica risata del viso nelle comunicazioni faccia a faccia in reazioni (like o cuori) all’interno dei social network.

 

I social network e la Rivoluzione Digitale hanno fornito agli utenti nuove possibilità per comunicare in maniera umoristica. Nella comunicazione umana, l’umorismo ha una funzione principalmente emotiva, aiutando l’umorista a creare un rapporto di fiducia e di comprensione con il pubblico. In letteratura psicologica, ci sono molte teorie cognitive ed emotive che mirano a spiegare le funzionalità dell’umorismo, tra le più importanti c’è la “teoria dell’incongruenza” (Meyer, 2000), secondo cui l’umorismo è il risultato della rivelazione di una situazione inaspettata e incoerente con le premesse enunciative e/o con il proprio pensiero su un dato contesto.

Secondo queste teorie, quindi, le persone ridono se si trovano in situazioni inattese o, più precisamente, nel caso in cui, nell’atto comunicativo, è violata la massima della qualità della comunicazione e della relazione (Grice, 1975), in modo da veicolare il contenuto del messaggio in maniera velata. Quindi puntare sull’assurdità, sull’insensatezza e sulla sorpresa diventa vitale per comunicare in maniera umoristica.

Dal momento, perciò, che i sistemi di User Generated Content, come i social, amplificano la possibilità di praticare l’umorismo, quali sono gli strumenti che gli utenti usano per far ridere? Invero, i Social Network, come Facebook o Instagram, amplificano la possibilità di creare contenuti, assicurandosi che questi raggiungano un vasto pubblico. Infatti, ogni utente, anche non esperto, può generare contenuti online (foto, post, video), condividerli o imitarli. A partire dalla possibilità di imitare un contenuto virtuale, si sta diffondendo sempre più il fenomeno virale dei “Meme”. Concettualmente, il Meme è “l’unità culturale minima in grado di replicarsi” (Shifman, 2014, 341). Il termine “Meme” è stato coniato, per la prima volta, da Richard Dawkins (1976), riferendosi alla nascita di un’idea che si diffonde rapidamente: prendendo come riferimento una metafora biologica, il meme è paragonato ad un gene replicatore.

Declinato nel contesto virtuale e, in particolare, dei Social Network, il Meme può assumere diverse forme. Una delle funzioni tipiche dei Meme, in particolare su Facebook e Instagram, è l’imitazione di immagini semi-serie accompagnate da frasi. Il Meme, quindi, diventa un modo per veicolare umorismo perché mira alla creazione di un “prodotto socio-culturale virale”, al fine di convertire la tipica risata del viso nelle comunicazioni faccia a faccia in reazioni (like o cuori) all’interno dei social network. Un esempio attuale di artefatto culturale è il prodotto dell’evento sportivo della partita finale dell’Europeo di calcio, da cui sono stati creati e replicati, in maniera virale e veloce, i Meme relativi a diversi momenti, che vanno dalla reazione dei duchi di Cambridge al gesto di Chiellini verso il giocatore inglese. In questi casi, ad esempio, l’elemento replicato sono i protagonisti, che, in genere, sono posti al centro dell’immagine. A modificarsi, invece, sono i contesti, che sono, in parte o totalmente, ricostruiti, con il riferimento a quadri famosi come sfondo o a contesti incongrui rispetto a quello calcistico.

Da uno studio recente condotto in ambito psicologico (Papapicco & Mininni, 2020), infatti, si dimostra come l’umorismo derivante dai Meme sia proprio il risultato di un’incongruenza tra soggetti rappresentati e conosciuti a tutti perché replicati e il contesto di enunciazione, che viene ricostruito.

Gli stati della mente nell’incontro con la realtà fisica

Lo stato della mente sembra essere un work in progress, una scoperta ed un arricchimento continui.

 

L’elaborazione e la coordinazione delle informazioni rappresentano due funzioni, che a partire dalle fasi iniziali della propria crescita risentono di un contributo relazionale ed ambientale, i quali a loro volta consentono di acquisire una prima chiave di lettura.

La mente infatti non solo è soggetta a continui cambiamenti e sviluppi, ma è capace di costruire ogni singolo momento della realtà, apportando ulteriori modifiche, siano esse positive o negative. Quello che emerge è uno “stato della mente”, che permette al cervello di raggiungere una coesione funzionale, adattiva e sempre pronta ad arricchirsi.

Tale concetto lo si può definire come l’insieme dei pattern di attivazione all’interno del cervello in un determinato momento (Siegel, J. D., 2001). Quasi come vi fosse una sincronia volta al raggiungimento di un’omeostasi, connotata dalla collaborazione di più centri nervosi uniti nel fornire una base o meglio ancora un supporto. Infatti si vengono a riscontrare processi in sinergia tra loro e che risultano assemblati in uno stato di attività temporaneo, che consente di massimizzare la loro efficacia e la loro efficienza (Plaut, D., 2010, Thagard, P., 2002).

Gli stati della mente sono inoltre funzionali perché permettono un adattamento costante e progressivo da parte del soggetto nei confronti dell’ambiente.

Infatti in relazione al significato che ricopre durante lo sviluppo, lo si può concepire come una grande risorsa dalla quale attingere sempre più strumenti e soprattutto come una realtà o una dimensione che permette l’incontro. Grazie al contributo del fisico Carlo Rovelli (2015), infatti, si può intendere tale incontro come un’influenza reciproca, come un’evoluzione e mai come qualcosa di statico.

Come sostenuto dall’autore “il mondo delle cose esistenti è ridotto al mondo delle interazioni possibili”, sottolineando come la nostra identità non venga tanto descritta nella sua semplice essenza, quanto come il risultato di fluttuazioni, cambiamenti ed imprevisti, resi possibili grazie a questo scambio.

La realtà non solo è “ridotta” a interazione ma essa è soprattutto relazione. Sotto quest’ultimo profilo la realtà sembra dunque acquisire non solo caratteristiche esterne nell’ottica di uno scambio, ma anche qualcosa di interno, di intimo, che grazie alle nostre capacità di rappresentazione ci è possibile ridefinire entrando in relazione con noi stessi, entrando in relazione con quello che è la nostra chiave interpretativa del mondo e della nostra identità rispetto ad esso, dando vita, come detto prima, ad uno stato della mente.

Considerando quindi la realtà come vero e proprio incontro, si delinea una chiave di lettura più specifica ed è su questa lunghezza d’onda che Rovelli richiama l’attenzione sul concetto della velocità, che in breve descrive non tanto come una semplice proprietà fisica, bensì come un fattore, meglio ancora come una risorsa. Questa risorsa infatti non la si può tracciare solo su di un oggetto, ma acquisisce valore e dinamismo, dunque la sua qualità di moto, se ad esser presente è un oggetto rispetto ad un altro oggetto.

Le caratteristiche di un oggetto sembrano esistere solo rispetto ad altri oggetti, ovvero nell’incontro con l’altro (Rovelli, C., 2015).

Risulta possibile inoltre riconnettere tale principio alla sfera relazionale, in quanto è grazie alle relazioni che si disegnano e si designano gli spazi e i tempi, per crescere, arricchirsi della propria esperienza e per valorizzare le nostre chiavi di lettura: i nostri stati della mente.

Questa connessione tra la dimensione della fisica quantistica e la neurobiologia riflette e conferma il significato che la relazione assume rispetto al mondo esterno e al mondo intrapsichico, di cui ciascuno di noi è il proprio custode. È utile perché permette di capire come “non sono le cose che possono entrare in relazione, ma sono le relazioni che danno origine alla nozione di cosa”, permettendo l’acquisizione del simbolo, del significato. Viene così a delinearsi il concetto di “processo” collegabile con il concetto dello “stato della mente” in quanto il comune denominatore che li collega altri non è che l’interazione e il passaggio da una fase all’altra (Rovelli, C., 2015, Siegel, J. D., 2001).

Un passaggio promotore di arricchimento e di cambiamenti, come già detto, sia a livello intrapsichico che neurobiologico.

Se il punto di vista fisico serve a capire come l’incontro poggi le sue basi su una dimensione esterna, al contempo quello neurobiologico riflette come esso modifichi ciò che di più interno è in ciascuno di noi.

Infatti è possibile notare come, sotto quest’ultima dimensione, i circuiti cerebrali determinino lo sviluppo di pattern di attivazione che corrispondono a simboli e che prendono il nome di rappresentazioni.

Questi pattern non solo contengono delle informazioni ma allo stesso tempo determinano altri processi che a loro volta rappresentano ulteriori informazioni aggiuntive. Al di là del profilo di eccitazione viene a prendere forma l’elaborazione dell’informazione da parte della mente. Infatti viene a delinearsi, prevalentemente in base alla funzione svolta dai caregiver, una concatenazione di ulteriori attivazioni neurali che riflettono non solo un dinamismo ma anche la funzione di “processo” che arricchisce e co-costruisce la nostra identità rispetto a quanto ci circonda e a come percepiamo.

Le diverse forme di rappresentazione derivano da pattern di eccitazione che trovano la loro localizzazione in zone differenti dei circuiti neurali. L’aspetto peculiare risiede nel fatto che la localizzazione conferisce una specificità alla propria esperienza delle rappresentazioni mentali, che, da una parte plasmano il contenuto delle informazioni e la loro qualità soggettiva, ma dall’altra non sempre risentono di un buon collegamento funzionale e adattivo (Anders, S. L., 2008).

Ciò che emerge sono quindi due chiavi di lettura rispetto alle quali il soggetto si trova inserito. Due linee guida che permettono di capire quello che tutti noi vorremmo ottenere.

Infatti l’obiettivo che ciascun soggetto vorrebbe raggiungere si riflette in un’omeostasi e dunque un equilibrio, caratterizzato dalla coordinazione di “un’ampia gamma di attività cerebrali”. Quello che viene da chiedersi è se le varie funzioni, sia superiori che inferiori, risentano di una buona maturazione e di una buona coordinazione. Nondimeno un ulteriore aspetto riguarda non tanto il tempo, quanto la temporaneità o meglio ancora l’apparente simultaneità, con cui venendosi a creare un’associazione ed un collegamento, si determina uno stato della mente (Beer, J., 2006).

Infatti la coordinazione sembra richiamare in causa il concetto di “temps perdu” introdotto da H.V. Helmoltz (1850), tramite il quale si può avere la sensazione dello scorrere del tempo, correlabile ad una maturazione delle funzioni cerebrali che permettono una rapida elaborazione dell’informazione (Benini, A., 2017).

Inoltre questa serie di collegamenti non solo riflette la “simultaneità” ma anche l’influenza rispetto alle nostre interazioni con gli altri.

Più nello specifico, lo stato mentale sembra essere un work in progress, una scoperta ed un arricchimento continui che, a partire dalle prime fasi dello sviluppo, risente del ruolo del “grado” e della “direzione” del coinvolgimento affettivo e soprattutto della coordinazione temporale.

Quest’ultimo aspetto risulta interessante perché mette in evidenza un ulteriore concetto, quello del “timing”. Esso riflette il livello di corrispondenza degli schemi temporali fra i rispettivi partner, ma contemporaneamente il grado di maturazione delle nostre rispettive funzioni, alimentate e “nutrite” dalle modalità relazionali ed interpersonali che si iniziano ad acquisire e che evidenziano sempre più il concetto di “processo”.

Per l’appunto gli schemi temporali fanno riferimento a quattro fattori quali la velocità, le pause, il tempo di reazione, l’interruzione e l’alternanza dei turni. In riferimento a questi ingredienti viene da chiedersi se vi sia una buona coordinazione del “timing interpersonale”, in cui ad emergere non è soltanto la sequenza di comportamenti paralleli, ma anche le capacità di autoregolazione e, come detto prima, il grado di maturazione delle proprie funzioni che nel loro incontro permettono uno sviluppo sempre più dinamico.

La coordinazione serve inoltre a sottolineare una delle modalità principali con cui le relazioni sociali iniziano ad essere organizzate ed è essenziale per comprendere il funzionamento delle rappresentazioni pre-simboliche.

Come sottolineato da Beebe e Lachmann (2005) viene ad emergere una “impronta temporale” dell’interazione in cui ciascun attore della relazione stessa valuta i ritmi dell’altro, che gli consentono di attribuire un significato ai propri.

Lo stato della mente sembra quindi acquisire una prospettiva multi-fattoriale, in cui ad esser chiamati in causa sono i processi percettivi, il tono e la regolazione delle emozioni, i processi di memoria, i modelli mentali e infine le risposte comportamentali. Nel loro insieme rappresentano dei fattori che assumono un significato ed una collocazione all’interno di una cornice fatta di ricordi, percezioni, sentimenti, pensieri e soprattutto credenze. Una cornice che tende a strutturarsi sulla base delle relazioni interpersonali e in base alle rispettive rappresentazioni.

 

Quando le emozioni diventano cibo. Psicoterapia cognitiva del binge eating disorder (2007) di Vinai e Todisco – Recensione del libro

Il libro Quando le emozioni diventano cibo introduce e approfondisce clinicamente il Binge Eating Disorder, un disturbo dell’alimentazione caratterizzato da episodi ricorrenti di abbuffata, senza l’uso regolatore degli inappropriati comportamenti compensatori caratteristici della bulimia nervosa (DSM-IV).

 

Le abbuffate sono momenti in cui il soggetto percepisce un senso di perdita di controllo sul cibo, mangiandone grandi quantità in poco tempo e in solitudine. Ciò spesso determina, successivamente all’episodio, forte senso di colpa e vergogna. Il disturbo è facilmente confondibile con la bulimia, un disturbo alimentare caratterizzato da abbuffate e comportamenti compensatori (alimentazione restrittiva, vomito…). La differenza sostanziale sta nel fatto che il BED non è caratterizzato da comportamenti compensatori, in quanto a seguito dell’abbuffata l’individuo si guarda indietro con atteggiamento passivo, constatando semplicemente la propria sconfitta. Nella bulimia, invece, il soggetto decide di prendere in mano la situazione attraverso comportamenti restrittivi che possano dare un maggior senso di controllo sul cibo. Questa breve introduzione al disturbo, soprattutto confrontato con la bulimia, è argomento del primo capitolo di Quando le emozioni diventano cibo.

Il secondo capitolo, invece, approfondisce l’inquadramento nosografico del BED, osservando come spesso l’individuazione di una categoria specifica in cui inserire il disturbo possa essere difficile. Tra i diversi modelli nosografici, vengono citati:

  • Bulimia nervosa senza comportamenti compensatori.
  • Bulimia nervosa non purging
  • Forma più lieve di bulimia
  • DCA NAS (classificazione che spesso porta al considerare il BED come un disturbo in grado di regredire spontaneamente senza trattamento).
  • DCA  a sé stante: tale posizione è fortemente sostenuta da alcune caratteristiche uniche del BED, quali l’atteggiamento nei confronti del cibo (è un alleato scomodo che consola nei momenti tristi/ansiosi e gratifica in quelli di gioia, ma determina anche senso di colpa dopo l’abbuffata. Per le Bulimiche invece il cibo è solo un nemico da combattere) e il comportamento dopo l’abbuffata (BED è passivo).

Il capitolo terzo approfondisce i vari fattori di rischio e la loro influenza sull’intervento terapeutico. Tra quelli citati possiamo ricordare:

  • fattori genetici (importante non sopravvalutarli per evitare che il paziente si senta impotente)
  • squilibri neuroendocrini (utile spiegare al paziente il meccanismo endocrino sottostante alla fame, minimizzabile con un’attenta dieta e/o una corretta farmacoterapia per il diabete).
  • evolutivi-attaccamentali (con paziente minorenne meglio ridurre il coinvolgimento della famiglia in modo da evitare che il paziente percepisca il terapeuta come un alleato dei genitori; con paziente maggiorenne non si nega il contatto con i genitori, ma si comunica che il contenuto della conversazione verrà integralmente riferito al figlio). Ad esempio, sembrerebbero essere fattori di rischio ambienti critici, madri iperprotettive ma iposensibili, maggiore colpevolizzazione e abusi di alcol, attaccamento insicuro, dinamiche familiari incentrate sul potere, alessitimia (difficoltà a riconoscere le emozioni, il che porterebbe il soggetto a riconoscere l’ansia come fame oppure la depressione come assenza di forze).
  • sociali, quali la preoccupazione e l’insoddisfazione per l’immagine corporea e il peso e il frequente ricorso a diete. L’abuso fisico e il bullismo subito rappresentano fattori in grado di influire specificamente nel BED, mentre violenze sessuali e discriminazione sociale avrebbero un ruolo differente a seconda nel gruppo etnico di appartenenza (importante spiegare al paziente che esistono ipotesi alternative per confrontarsi con i bulli non basate sul confronto fisico e che la svalutazione non deve passare necessariamente attraverso l’autodenigrazione).
  • predisposizione all’obesità

Il quarto capitolo è molto interessante per comprendere effettivamente come il BED è vissuto dai soggetti che sono intrappolati nel suo meccanismo. Gli autori, infatti, elaborano un interessante excursus all’interno della mente del Binge Eater approfondendo i meccanismi di mantenimento, i fattori scatenanti, il rapporto con il sè e il corpo, le relazioni interpersonali e con il cibo.

Per quanto riguarda i fattori scatenanti, viene sottolineata la centralità delle emozioni negative superanti la soglia soggettiva di tolleranza. L’individuo può trovarsi a dover gestire una qualsiasi emozione negativa (ansia, tristezza, disperazione, noia, rabbia) e, credendo di non poterla gestire altrimenti e sottovalutando gli effetti negativi a lungo termine (miopia metacognitiva), ricade nelle abbuffate, identificando il cibo come l’unica consolazione possibile. Contribuisce anche la tendenza a voler fronteggiare in modo autonomo il malessere. Dietro le abbuffate possono nascondersi pensieri, stati d’animo simbolici personali anche molto differenti, come un equivalente affettivo, un’autopunizione, un modo di affermare la propria indipendenza, il trovare nell’obesità un capro espiatorio per le problematiche relazionali. Da quest’ultimo punto è possibile collegarsi anche al modo in cui le relazioni interpersonali sono vissute dai Binge Eaters. Innanzitutto la famiglia del BED è spesso caratterizzata da un clima relazionale ambivalente e ipercritico, il che porta i BE a trasferire questi pattern anche in altre relazioni. Il capitolo cita anche alcuni dei modelli interpretativi cognitivo-comportamentali:

  • fuga dalla consapevolezza (durante l’abbuffata il paziente percepisce perdita di controllo)
  • modello del blocco emozionale (l’abbuffata serve ad allontanare dalla coscienza le emozioni negative focalizzando il soggetto su quelle positive indotte al cibo, per cui è strettamente connesso ad alte soglie di percezione e una bassa soglia di intolleranza delle emozioni).
  • finestra emozionale stretta: tre convinzioni disfunzionali inducono a ricercare il blocco dell’emozione, cioè: ritenere le emozioni intollerabili, interpretare le sensazioni corporee dovute alle emozioni come premonitori di imminenti eventi nefasti sul fisico e sulla psiche, pensare che ci si possa difendere innalzando la soglia di consapevolezza più che quella di tolleranza.
  • incapacità di riconoscere le emozioni.

Dal quinto capitolo viene descritto l’approccio terapeutico. Viene quindi specificata l’importanza di intervenire alla base del costrutto disfunzionale che causa e mantiene la patologia, facendo comprendere al paziente che il sintomo è una modalità che egli usa per affrontare i problemi, modificabile con impegno e costanza, non una caratteristica della sua personalità. Inoltre, bisogna intervenire al fine di creare delle aspettative realistiche e alla portata del paziente (spesso le aspettative irrealistiche sono anche alla base dell’abbandono da parte del paziente della terapia). Quindi, durante la prima seduta verrà specificata l’azione a due livelli: controllo dell’alimentazione e gestione delle problematiche alla base delle abbuffate che verranno gestite attraverso un’equipe multidisciplinare. Dopo aver creato un’alleanza terapeutica, è importante dare inizio alla ristrutturazione cognitiva osservando man mano l’atteggiamento del paziente, valutandone attentamente la motivazione (anche attraverso strumenti specifici).

Il sesto capitolo approfondisce l’assessment multidimensionale e focalizzato sulle aree critiche cruciali nel BED (peso, rapporto con il corpo, autostima, relazioni interpersonali, caratteristiche dell’alimentazione, aspetti motivazionali). Per l’assessment si può far ricorso a diverse scale, quali il Binge Scale Questionnaire, il BEDQ, interviste cliniche, self-report, Questionnaire on eating and weight patterns, Binge Eating Scale, Three Factor Eating Questionnaire (restrizione alimentare, disinibizione, fame). Il capitolo sesto approfondisce anche la comorbilità psichiatrica osservando come spesso il BED si manifesta in concomitanza ad altri disturbi psichiatrici. Tra le patologie concomitanti al BED possiamo citare la depressione maggiore, l’abuso di alcool e il disturbo d’ansia. Se le due patologie (primaria e secondaria) hanno lo stesso substrato psicopatologico e non presentano una particolare gravità solitamente sono gestibili da un unico clinico. Comunque è importante effettuare sia un assessment delle condizioni mediche generali sia un assessment nutrizionale e far ricorso ad un’equipe multidisciplinare.

Il capitolo settimo definisce invece gli strumenti terapeutici cognitivo-comportamentali utilizzabili nel corso della terapia. Precedentemente abbiamo citato la ristrutturazione cognitiva come una fase fondamentale della terapia. Precisamente questa può avvenire attraverso l’uso di alcuni metodi come l’identificazione delle aree disfunzionali del paziente, il dialogo socratico, la riformulazione delle convinzioni oppure una revisione del processo (ossia ripercorrere i passaggi cruciali per modificare le convinzioni disfunzionali). In questo modo è possibile agire direttamente sulla fuga dalla consapevolezza. Un altro strumento molto utile è il diario emozionale: di fatto viene chiesto al paziente di scrivere tutti gli episodi in cui si è sentito a disagio, in modo che possano poi essere analizzati in seduta esplorando gli atteggiamenti messi in atto per tollerare il disagio emotivo e le possibili alternative (più funzionali), anche attraverso role playing. Inizialmente è meglio evitare di far tenere anche il diario nutrizionale, in modo da non far associare unicamente al cibo la sofferenza del paziente, ma successivamente questo può tornare utile. E’ importante esplicitare al paziente comunque che il diario alimentare non è la terapia, ma è utile per monitorare i progressi e le difficoltà alimentari, emotive e cognitive.

L’ottavo capitolo invece approfondisce un tema importantissimo, quale è il drop-out, ossia la possibilità che il paziente decida di abbandonare la seduta. A tal proposito vengono citate alcune frequenti cause come:

  • aspettative irrealistiche sulla perdita di peso e sui suoi effetti.
  • pensiero dicotomico sulla perdita di peso
  • incapacità di accettare gli insuccessi
  • timore del giudizio del terapeuta

Nel libro vengono anche citati alcuni segni premonitori che possono essere utili per identificare una tendenza ad abbandonare la terapia, quali: assenza a una seduta, mancata compilazione del diario alimentare, rimurginii sull’inutilità della terapia, dubbi sulla possibilità di risolvere il problema, mutacismi in seduta o lunghe digressioni su argomenti poco attinenti, aggressività verbale, cambi dell’umore non giustificati. Di fronte a questi segnali è importante che il terapeuta intervenga al fine di far rinascere la motivazione in crisi, ad esempio attraverso un lavoro sull’autoattribuzione, l’affronto dei pensieri disfunzionali, la focalizzazione sui vantaggi a breve e a lungo termine, così come la definizione degli obiettivi realistici.

Come definito nel capitolo nono, infine, la terapia potrà essere portata a compimento una volta che le abbuffate siano state interrotte e i meccanismi cognitivo-comportamentali di mantenimento interrotti ed individuati. È possibile anche stabilire delle sedute di follow-up al fine di accertarsi della stabilità degli effetti della terapia (ponendo attenzione alla differenza tra una “scivolata” ed una ricaduta).

Nel complesso, quindi, il testo si presenta come un ottimo modo per comprendere e approfondire in modo adeguato il BED, anche per individui senza conoscenze particolari relative al disturbo, infatti l’introduzione del primo capitolo è molto utile per comprendere i capitoli successivi.

 

Relazione tra disturbo schizoide di personalità e disturbi dello spettro autistico: possibile continuità evolutiva?

Sebbene ampiamente concepiti come condizioni cliniche distinte, il disturbo dello spettro autistico (ASD) ad alto funzionamento e il disturbo schizoide di personalità (DP schizoide) condividono una psicopatologia a tratti analoga e sovrapponibile.

 

Il presente estratto è, dunque, finalizzato ad approfondire la relazione tra le due categorie diagnostiche focalizzando l’attenzione su relativi punti di congiunzione e criteri di demarcazione (Cook, Zhang & Constantino, 2020). L’isolamento sociale e il distacco emotivo sono i sintomi cardine che costituiscono una diagnosi di disturbo schizoide di personalità, originariamente derivato dai criteri diagnostici per la schizofrenia (Michels et al., 1989). Il disturbo schizoide di personalità colpisce circa il 3-5% della popolazione, sebbene comune nell’età adulta, viene raramente diagnosticato nell’infanzia (American Psychiatric Association, 2013). Il disturbo dello spettro autistico mostra, invece, un modello di prevalenza quasi opposto, in cui la diagnosi è sempre più prevalente nell’infanzia, ma tradizionalmente rara nell’età adulta; specialmente per coorti di adulti nati prima dell’aumento esponenziale della prevalenza del disturbo tra gli anni ’90 e il 2000 (Zablotsky et al., 2015). A seguito della concettualizzazione dimensionale del disturbo autistico, concepito in termini di spettro, l’accresciuto riconoscimento dei casi di disturbo dello spettro autistico ad alto funzionamento ha permesso di formulare delle ipotesi in merito all’ipotetico ruolo predittivo dei tratti autistici nel concorrere ad una diagnosi di disturbo schizoide di personalità in età adulta (Cook, Zhang &Constantino, 2020).

La sovrapposizione dei rispettivi quadri sintomatologici del disturbo schizoide di personalità e dello spettro autistico in età adulta è stata ampiamente riconosciuta, infatti, la quinta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5) evidenzia la complessità della diagnosi differenziale in maniera esplicita (APA, 2013). Un recente studio con ampia numerosità campionaria ha mostrato, tuttavia, che questi costrutti sono per natura altamente correlati, non solo nella popolazione clinica conclamata, ma anche in termini di tratti subclinici nella popolazione generale (Frazier et al., 2014). Verranno di seguito riportati i risultati del primo studio prospettico longitudinale che ha impiegato metodi quantitativi per esaminare esplicitamente la relazione tra una diagnosi infantile di ASD e una diagnosi adolescenziale di disturbo schizoide, in cui sono stati esaminati tratti schizoidi in adolescenti con e senza disturbo dello spettro autistico durante la loro transizione all’età adulta (Cook, Zhang &Constantino, 2020).

In questo campione è emerso che la condizione di disturbo dello spettro autistico è fortemente associata a un distinto aumento dei sintomi tipici del disturbo schizoide nell’adolescenza, mostrando, dunque, un ruolo sostanziale della sintomatologia ASD nell’amplificare i tratti schizoidi. La stabilità dei tratti autistici in questo campione riflette pienamente la loro marcata cronicità, che è stata osservata a lungo nella letteratura precedente sul tema (Wagner et al., 2019). I risultati suggeriscono una sovrapposizione causale e/o una continuità evolutiva tra lo spettro autistico e il disturbo schizoide nell’adolescenza: il livello di compromissione dettato dal disturbo dello spettro autistico nell’infanzia è direttamente proporzionale a quello della sintomatologia schizoide nell’adolescenza (Cook, Zhang &Constantino, 2020). Di seguito vengono riportati i criteri di demarcazione tra disturbo dello spettro autistico e disturbo schizoide di personalità emersi dallo studio, utili ai fini di una diagnosi differenziale: (i) i bambini con disturbo dello spettro autistico sono inibiti nell’instaurare legami significativi non perché non li desiderino, ma piuttosto perché riscontrano difficoltà a formarli (Petrina et al., 2017); (ii) l’assenza di interesse sessuale, allo stesso modo, è stata riportata solo da una minoranza di soggetti con disturbo dello spettro autistico, a differenza del disturbo schizoide di personalità in cui è stata riportata dalla totalità (Cheak-Zamora et al., 2019). Comprendere, dunque, la differenza tra la motivazione a perseguire una connessione sociale e la capacità di attuarla può essere fondamentale nel differenziare le traiettorie del disturbo dello spettro autistico rispetto al disturbo schizoide di personalità, specialmente ai fini della pianificazione del trattamento, per massimizzare un funzionamento psicosociale adattivo (Cook, Zhang &Constantino, 2020).

È concepibile che gli interventi clinici erogati a bambini e adolescenti con ASD ad alto funzionamento nell’era contemporanea abbiano operato al fine di evitare il rischio della piena manifestazione del disturbo schizoide di personalità in età adulta (Cook, Zhang &Constantino, 2020). I trattamenti/interventi che hanno costantemente dimostrato la loro efficacia per adolescenti con autismo includono: la formazione sulle abilità sociali (Lordo et al., 2016), la terapia cognitivo- comportamentale (Sukhodolsky et al., 2013) e gli approcci psicofarmacologici per mediare irritabilità e aggressività (Parikh et al., 2008). Questi interventi terapeutici rappresentano potenziali opportunità per affrontare la menomazione sociale nel disturbo schizoide di personalità, intervenendo precocemente quando i tratti autistici vengono identificati nell’adolescenza. L’aumento esponenziale della prevalenza dell’autismo è stato accompagnato da dati che confermano la natura cronica della condizione (Wagner et al., 2019). Storicamente, la prevalenza del disturbo dello spettro autistico è stata ritenuta molto più bassa di quella del disturbo schizoide di personalità, ma la coorte di bambini diagnosticati negli ultimi vent’anni, e che potrebbero non essere stati diagnosticati durante l’infanzia, si sta ora avvicinando all’età adulta. Molti di questi individui mostrano la sintomatologia tipica del disturbo schizoide di personalità e possono spiegare i casi di disturbo schizoide di cui storicamente si presumeva un esordio nell’età adulta. Questi dati supportano la possibile continuità evolutiva tra le due condizioni e possono aiutare a riconciliare i contrasti storici nella loro rispettiva prevalenza life-time (Cook, Zhang &Constantino, 2020).

Post-pandemia+Arte, intervista a Meisam Seraj Intervista a Cura di Antonio Quaranta

Questa Pandemia ha rotto tutte le regole, per il mondo dell’Arte è stata completamente destabilizzante. Da qui nasce il progetto Post-pandemia+Arte di Meisam Seraj.

 

Se osserviamo il mondo di oggi attraverso gli occhi di un uomo del 2019 vedremo un mondo distopico, in cui oltre ai soliti conflitti (guerre, intolleranza, maschilismo, prevaricazione sociale, razzismo, eccetera…) ci troveremo di fronte ad una società in rapidissima ascesa tecnologica, dove l’uomo raggiunge livelli scientifici di incomparabile livello che lo portano ad un senso di onnipotenza… per poi scoprire che un microscopico virus (se consideriamo la bomba atomica come un macroscopico virus) ha fatto sprofondare l’umanità in una palude senza fondo. Sono passati due anni, siamo nel 2021 e lunghi mesi di lockdown hanno eretto muri nei nostri cuori. Ora ci ritroviamo prigionieri di celle da cui sembra impossibile evadere. La tecnologia al servizio di governi totalitari ha stretto il controllo sulla popolazione rendendo sempre più difficile anche il banale vivere quotidiano. Cose che un tempo erano semplici come fare il turista, dedicarsi all’arte, o anche concedersi un semplice giro attraverso il centro della città, sono diventati azioni difficili e rivoluzionarie. Il progetto Post-pandemia+ARTE, organizzato da Meisam Seraj, giornalista, filosofo e artista Iraniano, che ha studiato Arte e Pedagogia a Milano, porterà un gruppo di sei artisti di fama internazionale dall’Italia all’Iran. Con il patrocinio del Consolato Iraniano, il gruppo di artisti viaggerà per due settimane attraverso luoghi simbolo dell’Iran realizzando mostre, conferenze, performance sia in interni, come gallerie e musei, che in esterni nei monumenti di grande rilevanza storica, come Persepolis. Queste attività artistiche saranno costantemente videoriprese per realizzare un documentario che sarà presentato in diversi festival del cinema, come Locarno e Venezia. Grazie alla globalizzazione virtuale, abbiamo anche la possibilità di ottenere visualizzazioni nei social networks. Durante il viaggio della durata di due settimane a fine Agosto 2021, farà parte del gruppo anche un team di medici, professionisti informatici ed elettronici per far fronte agli eventi non prevedibili. Attraverso quest’opera vogliamo diminuire i confini tra i Paesi e gli esseri umani per costruire un mondo più semplice e ancora più bello.

In questa surreale estate del 2021 il caldo pare non dare tregua. Ci troviamo nel giardino interno di un antico palazzo nel centro di Milano, l’ombra pare stabilire una zona franca dove si ha un po’ di sollievo dal caldo. Il mio interlocutore mi porge un bicchiere colmo di una sostanza ambrata e densa, con dei semini in sospensione. Meisam Serajizadeh Mohammadabadi, in arte Meisam Seraj, sorride e mi invita a berla, pare che sia un antico rimedio iraniano per il caldo. Chiedo se funziona. Il caldo non andrà via, risponde Meisam, ma tu ti sentirai meglio… un po’ come l’Arte: non risolve i problemi del mondo ma rende la vita unica.

Mesiam Seraj, poeta, scrittore e artista, ha lo sguardo profondo, i modi garbati e i gesti veloci, di chi è abituato ad arrivare subito al punto con eleganza: in effetti siamo qui per parlare di Arte, di Iran e di Arte.

Post-pandemia Arte il progetto artistico di Meisam Seraj - Intervista IMM.1

Antonio (A): Meisam, so che stai portando avanti un nuovo progetto Artistico: Post-Pandemia+ARTE, cosa significa questo nome?

Mesiam (M): Esiste un proverbio, di cui non ricordo le origini, che recita Metà delle risposte si trovano celate nelle domande stesse. Realizzare ARTE in un mondo Post pandemia, con Arte scritto tutto maiuscolo perché mai come oggi il ruolo dell’Arte è diventato necessario.

A: In concreto di cosa si tratta?

M: Siamo un gruppo di 6 artisti che spaziano tra diversi campi, come il teatro, la pittura, la scrittura… Partiremo dall’Italia alla scoperta dell’Iran. Durante il mese di agosto, per un periodo di due settimane, allestiremo mostre, terremo conferenze, realizzeremo performance. Uno degli aspetti chiave del progetto sarà il documentario di tutto ciò che realizzeremo per raccontare al mondo intero delle suggestioni artistiche che prendono vita in un Paese misterioso e affascinante come l’Iran.

A: Chi sostiene il vostro progetto?

M: Ci sono degli sponsor molto importanti che credono in Post-pandemia+ARTE, ma tra tutti è stato fondamentale il supporto del Consolato Iraniano.

A: Perché proprio in Iran?

M: Questa Pandemia ha rotto tutte le regole, per il mondo dell’Arte è stata completamente destabilizzante. Noi che viviamo di Arte ci siamo trovati di punto in bianco smarriti. Se ne parla poco ma il lockdown per gli artisti, che vivono di interazioni sociali e scambi culturali è stato un disastro. Sentivo l’esigenza di ripartire, con un progetto artistico ambizioso. Ho riflettuto molto su che tipo di progetto dovesse essere. Ho guardato dentro di me e ho capito che le mie radici culturali potevano essere una grande risorsa. Partiamo dall’Iran perché sono Iraniano e penso che la mia Madre Patria dai tempi di Shahrazād abbia ancora molte storie da raccontare.

A: Pensi che lo stop forzato indotto dalla pandemia abbia influito non solo sul modo di fare Arte ma anche sul modo di pensare l’Arte?

M: Purtroppo l’umanità non è nuova a questo tipo di esperienze, basti pensare a quando, circa un secolo fa, l’epidemia di febbre “spagnola” ha tenuto in scacco il mondo per due anni. E anche allora come oggi il principale rimedio erano le mascherine e i guanti. Ma non dimentichiamo che proprio in quel periodo l’Arte ha generato opere immortali, per esempio cito Amedeo Modigliani, che tra il 1918 e il 1920 ha creato le sue opere migliori, o Marcel Proust che scrisse À la recherche du temps perdu.

Ad ogni Tempesta segue un silenzio, e in quel tempo immobile si può sentire il respiro del mondo. Ed è allora che se chiudiamo gli occhi e apriamo la mente troveremo la forza per modificare e migliorare la realtà. E chi può indicarci meglio la via se non la “Signora Arte”?

A: Senza prospettive stabili per il futuro la “Signora Arte” si troverà di fronte ad un compito molto difficile, non credi?

M: Sicuramente sarà più difficile rispetto al 2019, ma meno arduo del 1945! L’Europa, che da secoli era la culla dell’Arte, si ritrovò alla fine della Seconda Guerra Mondiale coperta dalle ceneri di opere bruciate, artisti e scrittori morti, architetture e monumenti ridotti in macerie. Uno tra tutti, il pilota e scrittore Antoine De Saint-Exupery, che in una notte nera si inabissò nel Mediterraneo con il suo velivolo. E così, a causa della guerra, abbiamo perduto il nostro Petit Prince con una fumata nera nel cielo. Quanti Piccoli Principi abbiamo già perso in questa pandemia? Quanti sogni interrotti? Se vogliamo cambiare il mondo dobbiamo smetterla di cercare eroi e dobbiamo rimboccarci le maniche!

A: Durante il lockdown invernale le grandi abbuffate di cultura pop e intrattenimento sono servite a riempire la surreale bolla di tempo che si era creata, ma oggi, che si ritorna all’aperto e a frequentare i luoghi pubblici, l’Arte sarà in grado di recuperare il tempo e lo spazio perduto nei cuori della gente?

M: Se guardiamo agli ultimi anni, a prima della pandemia e ai danni del lock-down, risulta evidente che l’Arte non era stata in grado di riempire quei buchi neri che intendi tu. Ora purtroppo risulta un compito anche più arduo. Penserai che sono molto pessimista, ma se guardi l’utilizzo di piattaforme social come Instagram, Tik Tok, Tinder, Facebook ecc. probabilmente sarai d’accordo con me. Ed è esattamente per questo motivo, come ho già detto, che non dobbiamo cercare eroi, ma dobbiamo essere eroi: perché i buchi neri ci saranno sempre! E noi, con la forza della “Signora Arte” possiamo cambiarne il colore.

A: Siamo figli dei tempi che viviamo, lo vediamo nei giovani in cui i lunghi periodi di clausura hanno minato le capacità relazionali, quasi anestetizzando la curiosità verso un mondo che a loro è stato precluso. Quanto questo si riflette nell’Arte?

M: Ho l’impressione che abbiamo una mentalità molto simile e questo mi fa piacere. Se l’Arte si allontana dal mercato, e se la politica smette di interferire, i giovani ritorneranno all’epoca d’oro dell’Arte. Per “epoca d’oro” intendo un mondo in cui un giovane anziché cercare l’acquisto della famosa consolle di videogiochi del momento cercherà un volo per viaggiare, dove invece di scaricare Tinder comprerà un libro con poesie d’amore per il proprio partner. Purtroppo stiamo vivendo un’evoluzione tecnologica che sta modificando la mente della popolazione. La nostra era non è più l’era dell’umanità e degli umani, ma stiamo entrando nell’era della Post-umanità e dei Post-umani, quindi dobbiamo aggiornare le nostre armi in questa guerra. E se le nostri armi sono le nostre menti, dobbiamo modificare il modo in cui vediamo il mondo.

A: Uno spettacolo per essere definito tale ha bisogno del pubblico, quanto è importante oggi, secondo te, il ruolo dello spettatore nell’Arte, e soprattutto quanto sono influenti i social?

M: Ogni opera o pensiero che si crea nella mente di un artista prende vera vita solo negli occhi di uno spettatore o di un lettore. Nessuno crea o scrive senza desiderare che la propria opera sia letta, vista o vissuta. Se invece parliamo di comunicazione e marketing allora dobbiamo cambiare i metodi di esporre. Se per motivi o pregiudizi sociali e culturali limitiamo l’accesso di una galleria d’arte ad un gruppo ristretto di persone, allora staremo tradendo l’Arte stessa. Privando il mondo delle opere che per esso sono state create. Ecco forse è proprio qui l’essenza del nostro viaggio: cambiamo il modo di esporre l’Arte!

A: Hai detto che durante il viaggio verrà registrato un documentario per raccontare questa esperienza. Dove sarà possibile vederlo?

M: Presenteremo il documentario in diversi festival del cinema, nei musei. Alcune importanti aziende, che si sono offerte come sponsor, hanno già detto di voler inserire alcune scene nei loro video promozionali. Stiamo ricevendo molte proposte di collaborazione e il nostro team le sta vagliando per identificare quelle più congeniali al progetto.

A: Realizzare questa impresa, soprattutto a livello organizzativo, non deve essere facile, ma sappiamo che il tuo entusiasmo ha smosso l’interesse anche ad alti livelli: chi vorresti ringraziare?

M: Ringrazierei prima di tutto te, poi il Consolato e l’Ambasciatore dell’Iran, l’Ambasciatrice dell’Arte di Cuba. Un doveroso riconoscimento va anche all’azienda internazionale BMW che da subito ha mostrato interesse al progetto decidendo di supportarlo. Ovviamente non posso fare a meno di citare tutto il gruppo di lavoro qui in Italia, e il team in Iran costituito da medici, truccatori cinematografici, informatici. Un ultimo ma non meno importante ringraziamento va agli artisti che prenderanno parte al progetto, ai politici che daranno il loro supporto e agli altri eventuali sponsor.

A: Il team tecnico del documentario comprende diverse professionalità iraniane, vuoi parlarci di questi ragazzi?

M: Un progetto itinerante di questa complessità si avvarrà di diverse squadre tecniche nelle diverse location, ognuna specializzata per il tipo di riprese che dovranno essere realizzate. Si tratta di giovani professionisti che alle spalle hanno un ricco bagaglio di esperienza. Siamo tutti molto entusiasti e non vediamo l’ora di metterci all’opera.

E in questo vetusto cortile il tempo è volato via, le ombre della sera si sono allungate e devo ammettere che la bevanda di Meisam, con lo zafferano, l’acqua di rosa e i semini in sospensione, anche se non ha portato via il caldo, ci ha regalato un’oasi di freschezza.

 

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