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Ci salva la vita, ma comunque è il Diavolo: i meccanismi di difesa disadattivi nei confronti dei mezzi medici contro il Covid–19

Mai come nelle altre epoche della Storia dell’Umanità, i mezzi medici e scientifici sono stati necessari per affrontare una pandemia come quella del Covid-19. Eppure essi sono ancora oggetto di scredito e di percezioni negative, spesso create da meccanismi di difesa male contestualizzati.

 

Grazie ad un lavoro indefesso di ricerca, le maggiori case farmaceutiche sono riuscite nel giro di un anno e mezzo a sintetizzare dei vaccini contro il Sars-Cov- 2, con l’obiettivo di raggiungere livelli di somministrazione funzionali ed ottimali (TPI; 2021).

Sebbene ora i vaccini siano disponibili, dimostrando quindi il ruolo fondamentale della scienza nella gestione della salute mondiale, le risposte scettiche dei No-vax non sono affatto diminuite.

Di fatto, come specifica l’Ansa in un articolo sulla web reputation dei DPI (2021), l’uso della mascherina continua ad essere percepito come una condizione di negazione delle libertà, tanto da avere come hashtag di maggior uso quello di “dittatura sanitaria”.

La recente news di un rave party di stampo No Mask a Maleo, nel Lodigiano, considerato un focolaio della variante Delta del virus (Rai News, 2021), ha ulteriormente accertato di fatto una strenua resistenza all’imposizione delle norme sanitarie da parte di alcuni gruppi di persone, anche in questa fase di riapertura.

Una delle risposte a questa resistenza disfunzionale la si trova in due fenomeni di difesa dell’ego, ovvero la negazione ed il complottismo.

Come spiega Silvia Bonino (2021), l’ego umano ha sviluppato degli autoinganni per rispondere alla coscienza della morte e della vulnerabilità del corpo, autoinganni che attualmente si sono acuiti a causa delle conseguenze della prima pandemia globale della storia.

Come indica la professoressa di Psicologia dello Sviluppo all’Università di Torino, la negazione, ovvero il rifiutare acriticamente le conseguenze dell’ambiente e della natura sul corpo e il complottismo, ovvero utilizzare ragionamenti astrusi per dare un senso ai paradossi dell’esistenza e dare la colpa di eventi negativi che impattano sulla vita della persona ad elementi terzi, sono meccanismi che danno benefici nel breve periodo, ma che risultano assai spesso essere di grave danno per il benessere mentale e psicofisico dei gruppi.

Infatti, come indica Bonino, benefici come il sentirsi potenti nei confronti dell’ambiente e/o sentirsi più intelligenti degli altri durano poco tempo, per lasciare spazio a comportamenti disfunzionali con conseguenze molto spesso pesanti, come la paranoia acritica (Reynold, 2021) e reazioni violente, come la “presa” del Congresso da parte di simpatizzanti repubblicani e del governo Trump, fra i quali molti hanno aderito alla teoria del complotto Qanon (Adams, 2021).

Concludendo, la soluzione adattiva più sana, come indica la precedentemente citata Bonino, è lavorare sulla paura stessa attraverso il permettere nuove soluzioni creative ed aiutare le persone ad adattarsi alle novità inevitabili che il Covid-19 ha instaurato, adoperando valutazioni concrete.

 

Ti insegno come io ho imparato (2020) di Filippo Barbera – Recensione del libro

Filippo Barbera, in Ti insegno come io ho imparato, opera una sorta di rivoluzione copernicana nell’approccio ai DSA: l’attenzione non si deve focalizzare su ciò che il disturbo impedisce di fare ma deve essere spostata sulle capacità che permettono di trovare la chiave capace di aprire quella porta chiusa a doppia mandata.

 

Ti insegno come io ho imparato è una guida scritta da Filippo Barbera pubblicata nel 2020 da Erickson. L’autore è oggi un insegnante, ma è stato uno studente con disturbi dell’apprendimento e, nonostante ciò, è riuscito con successo nel percorso scolastico. Si è laureato in Formazione Primaria e Psicologia e specializzato in Psicopatologia dell’apprendimento e nel Metodo Montessori. Oltre ad insegnare, Barbera, si dedica alla formazione dei docenti e cerca di rendere coscienti e partecipi gli operatori scolastici e le famiglie, di cosa significhi avere un Disturbo Specifico dell’Apprendimento (DSA).

Tali disturbi sono un gruppo di disabilità in cui compaiono difficoltà nell’acquisizione e utilizzazione della lettura (dislessia), della scrittura (disgrafia, disortografia) e del calcolo (discalculia) in bambini con intelligenza nella norma. Un sintomo li accomuna tutti: l’impotenza appresa, cioè il convincersi che non si è capaci ad imparare. Questo vissuto è responsabile di un abbassamento dell’autostima e della comparsa di alcuni sintomi comportamentali tipici dei bambini con DSA che possono divenire introversi o al contrario irrequieti e distratti (L. Castrucci, Biopills feb. 2020).

La pubblicazione di Ti insegno come io ho imparato giunge dopo quella di Un’insolita compagna: la dislessia (Cleup, 2013), un romanzo in cui l’autore narra i sentimenti, le frustrazioni e le strategie che bambini e ragazzi con DSA giornalmente sperimentano e che egli stesso ha sperimentato. È preceduta anche dalla pubblicazione di Con-pensare i DSA (Cleup, 2014), una guida per gli insegnanti scritta con lo scopo di sensibilizzare e far conoscere le caratteristiche dei DSA.

Un concetto lega i tre libri pubblicati da Filippo Barbera: “i DSA non sono porte murate ma porte chiuse a doppia mandata, si tratta di trovare la chiave giusta per aprirle”.

Con Ti insegno come io ho imparato, Barbera, permette al lettore di vedere come funziona la mente e l’apprendimento di chi ha un DSA. L’autore conosce e descrive perfettamente ciò che ha vissuto in prima persona, fa comprendere al lettore, in modo chiaro, quali sono le difficoltà da superare e le strategie da mettere in campo per poter raggiungere l’obiettivo, anche quello di poter divenire un insegnante nonostante si abbia un DSA. Il pensiero che ispira questa guida è quello legato alla necessità di smantellare gli stereotipi ed andare oltre le etichette. E’ fondamentale sviluppare il potenziale di apprendimento che ogni persona possiede. In quest’ottica non può essere sufficiente limitarsi a fornire misure compensative o dispensative agli alunni con DSA. Ogni bambino, ogni ragazzo deve poter trovare una strategia che gli permetta di arricchire l’esperienza dell’apprendimento.

Ti insegno come io ho imparato affronta con rigore le tematiche riguardanti i DSA, il linguaggio utilizzato e gli schemi proposti dall’autore rendono la guida altamente fruibile.

Filippo Barbera opera una sorta di rivoluzione copernicana nell’approccio ai DSA: l’attenzione non si deve focalizzare su ciò che il disturbo impedisce di fare ma deve essere spostata sulle capacità che permettono di trovare la chiave capace di aprire quella porta chiusa a doppia mandata.

Le recenti ricerche nel campo della didattica sostengono la visone di Barbera. Attualmente un progetto di ricerca, condotto dall’Università di Bolzano in collaborazione con l’Università di Torino, “BECOM-IN: diventare insegnante con disabilità o DSA”, si sta occupando di queste tematiche.

 

Il Disturbo Borderline di Personalità e il rischio di compliance sessuale

Il disturbo borderline di personalità (BPD) è caratterizzato da un’instabilità emotiva che pervade molteplici ambiti (American Psychiatric Association-APA, 2013).

 

Il criterio diagnostico più rilevante riguarda gli sforzi frenetici per evitare un abbandono reale o immaginario (APA, 2013) ed evidenzia la probabilità che questi individui possano mettere in atto comportamenti disfunzionali che potrebbero comportare una maggior probabilità di essere vittime sessuali di un partner. Difatti, è stato dimostrato che le donne con tratti di disturbo borderline di personalità sono maggiormente a rischio di subire abusi sessuali (Young & Furman, 2008).

Naturalmente, la responsabilità dell’abuso ricade sull’autore, ed è importante identificare e comprendere i fattori che portano alla perpetrazione della coercizione sessuale. Tuttavia, Few e Rosen (2005) hanno sottolineato che identificare le caratteristiche delle vittime è necessario al fine di comprendere i fattori che aumentano i suddetti rischi.

Quindi, sarebbe utile conoscere in quali circostanze le persone con tratti di BPD hanno una maggior probabilità di essere sessualmente compiacenti e, osservando più da vicino l’associazione tra i tratti del disturbo borderline di personalità e la compliance sessuale, una più acuta sensibilità all’abbandono potrebbe essere il tratto specifico che influenza questa associazione.

Per compliance sessuale si intente la volontà di una persona di impegnarsi in rapporti sessuali non realmente desiderati (Katz & Tirone, 2010). Nelle relazioni sentimentali, le persone con tratti di disturbo borderline di personalità possono idealizzare il loro partner e richiedere la sua attenzione in un dato momento, successivamente però, potrebbero svalutarlo ritendendolo poco premuroso (APA, 2013). I periodi di svalutazione avvengono tipicamente in risposta a un rifiuto reale, che determina la paura dell’abbandono (Gunderson, 2011). Questo timore incrementa le disfunzioni relazionali e ciò vale sia nei campioni clinici che in quelli della comunità (Hill et al., 2011). Le persone con tratti di BPD possono mettere in atto sforzi frenetici per evitare il rifiuto impegnandosi in azioni impulsive, come l’esplicitazione di comportamenti sessuali indesiderati (Bouchard et al., 2009). La conformità sessuale, a sua volta, determina ulteriori conseguenze nefaste nei rapporti. Per esempio, essere sessualmente accondiscendente comporta un aumento dei livelli di cortisolo che, a loro volta, incrementano lo stress (Hartmann & Crockett, 2016). Inoltre, essere sessualmente accondiscendenti con lo scopo di trattenere un partner comporta una diminuzione della soddisfazione relazionale (Impett et al., 2010).

A causa di una maggiore sensibilità alla perdita di un partner, dunque, le persone con tratti di disturbo borderline di personalità possono essere più sessualmente compiacenti, attuando tale comportamento come una strategia utilizzata per mantenere la relazione. Va da sé che le persone che temono l’abbandono possono avere difficoltà a stabilire e far rispettare chiari confini nell’attività sessuale.

Willis e Nelson-Gray (2017) hanno condotto uno studio semi-sperimentale con l’obiettivo di indagare la relazione tra timore dell’abbandono, tratti borderline e compliance sessuale. Manipolando sperimentalmente la paura dell’abbandono, gli autori si sono proposti di identificare quale fosse il fattore responsabile dell’associazione tra i tratti del disturbo borderline di personalità e la compliance sessuale (Bouchard et al., 2009). Naturalmente, per ragioni etiche, è stata valutata una compliance sessuale ipotetica.

Per quanto riguarda la manipolazione, i ricercatori hanno riferito ai partecipanti che, sulla base delle loro personalità, vi fosse una scarsa – o una forte – affinità con il loro partner. Primariamente essi hanno ipotizzato che i tratti del BPD sarebbero stati significativamente correlati con l’ipotetica compliance sessuale. Ulteriormente, hanno supposto che la paura dell’abbandono, indotta sperimentalmente, avrebbe interagito con i tratti del disturbo borderline di personalità ed avrebbe predetto la compliance sessuale ipotetica. In particolare, i ricercatori hanno ipotizzato che l’associazione tra i tratti del BPD e la compliance sessuale sarebbe stata più forte per i partecipanti nella condizione di scarsa affinità.

Allo studio hanno preso parte 130 donne, impegnate in una relazione da almeno due mesi.

È stato dimostrato che le donne con tratti BPD più elevati possono essere portate ad impegnarsi in atti sessuali indesiderati, in particolar modo quando percepiscono una minaccia o un potenziale abbandono da parte del loro partner. Questi risultati possono indicare che le persone con tratti BPD più elevati sono più propense a conformarsi alla coercizione sessuale, probabilmente per evitare conseguenze negative come la dissoluzione della relazione. Questo risultato giustifica i “frenetici tentativi di evitare l’abbandono” spesso messi in atto da coloro i quali presentano alti tratti di disturbo borderline di personalità (APA, 2013). Va da sé, però, che essere sessualmente accondiscendenti per evitare conseguenze negative, tende a provocare molteplici ripercussioni. A conferma di ciò, Muise, Impett e Desmarais (2013) hanno scoperto che mettere in atto comportamenti sessuali al fine di evitare conseguenze negative, prevedeva una diminuzione della qualità delle relazioni e del desiderio sessuale.

È importante ricordare che lo studio è stato effettuato su un campione non clinico. Le persone con una diagnosi certa di disturbo borderline di personalità avranno dunque una maggior probabilità di percepire una minaccia relazionale e, di conseguenza, potrebbero essere maggiormente a rischio di essere vittime di coercizione sessuale da parte del loro partner. Il trattamento d’elezione per il BPD è la terapia dialettica del comportamento (Dialectical Behavioral Therapy – DBT), che tratta la disregolazione emotiva e i comportamenti correlati ad essa (Kliem, Kröger, & Kosfelder, 2010). In una versione della DBT indirizzata agli autori di violenza domestica, Fruzzetti e Levensky (2000) hanno indicato la necessità di prendere in esame il comportamento sessuale problematico.

Alla luce dei risultati del presente studio, affrontare i comportamenti sessuali problematici dovrebbe essere parte integrante della DBT, al fine di prevenire l’aumento dei tassi di vittimizzazione sessuale che le donne con diagnosi di BPD spesso sperimentano (Young & Furman, 2008).

Al contempo, secondo gli autori, il trattamento dovrebbe anche mirare a far sì che questi soggetti siano in grado di gestire in maniera funzionale la possibilità di un potenziale abbandono, affinché essi non siano portati ad impegnarsi in attività sessuali indesiderate. Inoltre, i risultati potrebbero determinare la necessità di coinvolgere all’interno della terapia anche i partner. Aumentando la consapevolezza di questi ultimi rispetto ai comportamenti sessuali che potrebbero essere messi in atto di fronte alla percezione di una minaccia relazionale, si potrebbe far sì che i partner delle donne con disturbo borderline di personalità mostrino una maggiore sensibilità rispetto a questa propensione, evitando di convincerle ad impegnarsi in attività sessuali indesiderate.

 

Beck e la manualizzazione della terapia cognitiva – 100 anni di Aaron T. Beck – Parte 3

Il racconto di come lo psicoanalista Beck creò il suo manuale insegnando la psicoterapia cognitiva a un gruppo di studenti

 

Nel 1973 alla Penn State University di Philadelphia uno specializzando in psichiatria del secondo anno di nome John Rush seguì il corso di Beck dove si insegnava quella cognitive therapy descritta -lo abbiamo già scritto- in una rivista che si chiamava “Behaviour Therapy”. Rush faceva parte di quel gruppo di giovani psichiatri a cui abbiamo accennato, giovani psichiatri interessati al comportamentismo e che si radunarono intorno a Beck. Rush si innamorò della terapia cognitiva ed era convinto che fosse più efficace della psicoanalisi, dei farmaci o dell’esposizione comportamentale. Lui e un collega specializzando, Manoocheer Khatami, avevano recentemente aperto uno sportello clinico a basso costo per la depressione nel campus della Penn State University e chiesero a Beck di supervisionarli in terapia cognitiva.

La cosa strana era che, in base alle testimonianze, il termine “terapia cognitiva” c’era e non c’era. Eppure, si era già negli anni ’70 e Beck era lì a fare quella sua terapia che in alcune pubblicazioni era stata chiamata terapia cognitiva ma che, a dire di Beck, ora era un tipo di psicoanalisi ora di comportamentismo, descritta in alcune pubblicazioni, ora su giornali psicoanalitici e ora su giornali comportamentali. Forse certe contrapposizioni erano meno accentuate di adesso, fatto sta che questa psicoanalisi di Beck senza lettino e con compiti a casa comportamentali attirò questi giovani specializzandi che sembravano non avere intenzione, a differenza di Beck, di intraprendere un’analisi personale per diventare terapeuti. Questi giovani possono ricordare i primi cristiani non ebrei: frequentavano un gruppo di ebrei/cristiani, che erano circoncisi e che obbedivano a tutti i precetti ebraici ma che avevano deciso di non obbligare i non ebrei a fare lo stesso. Allo stesso modo Beck, come San Paolo, continuò a sentirsi cognitivista/psicoanalista ma non obbligò i suoi accoliti a fare un’analisi personale, permettendo loro di essere solo cognitivisti.

Beck insegnò il mestiere a questi allievi e in cambiò ricevette la patente di efficacia per il suo modello. Da chi? Fu merito del giovane John Rush, che aveva appreso la metodologia dei trial randomizzati per le sperimentazioni sui farmaci da un altro professore della Penn, un altro psichiatra sudafricano di nome Joe Mendels, ed ebbe l’idea geniale di applicare la stessa metodologia alla psicoterapia. Rush sapeva come misurare il livello di gravità psicopatologica tramite le interviste strutturate e come distribuire casualmente i pazienti, mandandoli in psicoterapia cognitiva o farmacoterapia anti-depressiva. Il problema che rimaneva era: come rendere la terapia cognitiva di Beck qualcosa che poteva essere somministrata in maniera affidabile e controllabile come se fosse un farmaco, ovvero in una forma ragionevolmente simile in tutti i pazienti che dovevano riceverla? Insomma, Rush aveva bisogno di standardizzare questa terapia cognitiva di Beck ed escogitò un piano: occorre descrivere ancora più dettagliatamente quello che Beck sta insegnando a loro e trascrivere tutto in istruzioni operative e chiare. Questo era il contesto in cui emerse il manuale di Beck.

Una serie di brain storming e discussioni cliniche tra Beck e i suoi specializzandi portò alla stesura di un primo schema che fu ultimato il 12 ottobre 1973, una bozza di protocollo per la terapia cognitivo comportamentale della depressione di quattro pagine con definizioni operative delle tecniche di accertamento e ristrutturazione dei pensieri depressivi distorti (Rosner, 2018). Poche settimane dopo Beck, sempre grazie alla capacità di scrittura operativa di Rush, generò una versione ampliata e poi la applicò alla supervisione di un caso singolo trattato e pubblicato da Rush e Khatami (Rush et al., 1975).

Questa versione ampliata divenne il manuale, che si rivelò un potente veicolo per pubblicizzare la terapia cognitiva e che in breve tempo diventò il primo esempio di terapia replicabile e al tempo stesso clinicamente applicabile, a suo agio sia nei laboratori delle università che nelle stanze dei clinici. Al di là delle teorie, il manuale insegnava ai comportamentisti come concettualizzare e trattare i pensieri depressivi, facendoli uscire dai limiti dell’esposizione comportamentale. E, al di là della ricerca, il manuale diventò presto un oggetto di desiderio, tanto che molti erano incuriositi non solo dai risultati della ricerca, ma forse ancor di più dalla nota a piè di pagina che accennava al manuale nel famoso l’articolo che annunciava i risultati del loro modello (Rush, Beck, Kovacs e Hollon, 1977). David M. Clark, uno psicologo appartenente a gruppo di ricerca sulla terapia comportamentale di Oxford, adocchiò quella nota in margine e riuscì a procurarsi una copia del manuale perché Beck aveva fatto sapere che era possibile farsene mandare una copia ciclostilata in cambio di un assegno semplicemente scrivendogli, mossa che, ricorda Clark, “era geniale da parte di Tim (Beck)”. Clark mise insieme un gruppo di persone e pagarono un vaglia internazionale, cosa difficile da fare a quei tempi, e ne ordinò dieci copie. Di colpo, Clark e i suoi amici, tra i quali c’era Paul Salkovskis, acquistarono prestigio e popolarità nel dipartimento universitario perché avevano il manuale di Beck. Lo ricevettero, lo diffusero e iniziarono a usarlo, con risultati concreti e immediati.

 

Come la struttura di una canzone determina le emozioni e il ruolo delle aspettative

Canzoni ed emozioni: stiamo per iniziare ad ascoltare una canzone, immaginiamo sia una canzone presa a caso, che non conosciamo. Partono le prime note e nel nostro cervello si attiva l’amigdala, la sentinella delle nostre emozioni, che con il sistema limbico produce una reazione allo stimolo uditivo che ci ha raggiunti.

 

A questo punto il nostro cervello cataloga la musica che ascoltiamo in base a due elementi principali: il ritmo e le note. Questi elementi sono in grado di determinare il tipo di emozione che ci verrà trasmessa.

Canzoni ed emozioni: il ruolo del ritmo

Il ritmo determina la velocità della musica, viene misurato in battiti al minuto esattamente come le pulsazioni del nostro cuore. Considerando che le nostre pulsazioni, in condizioni normali, possono variare tra 60 e 80 battiti al minuto (generalmente siamo tra i 70-72), ne consegue che un tempo con un ritmo inferiore ai 60 battiti avrà un effetto rilassante, sopra gli 80 battiti sarà invece attivante.

Agli estremi potremmo trovare un effetto “rattristante” per ritmi inferiori ai 30 battiti al minuto, mentre oltre i 110 avremo un ritmo veloce che coinvolgerà anche il movimento del corpo (come ad esempio può accadere con la musica dance). Un tempo veloce varia considerevolmente la dimensione dell’arousal, ossia la risposta del sistema nervoso ad uno stimolo, che dà luogo ad eccitazione e ad un acuirsi del sistema attentivo-cognitivo.

Canzoni ed emozioni: il ruolo delle note

Per quanto riguarda il ruolo svolto dalle note, senza addentrarci in un’analisi dell’effetto emotivo prodotto, che ai non addetti ai lavori risulterebbe complicata, possiamo limitarci a considerare come alcune note suonate insieme (accordi) o una dopo l’altra (melodia) vengono percepite come allegre o tristi in relazione a motivazioni che sono in parte culturali e in parte innate.

Semplificando, si può dire che le note risultano più gradevoli quanto più semplice è il rapporto fra la loro frequenza e questo dipenderebbe dal fatto che i suoni che originariamente erano ritenuti forieri di un pericolo incombente (pensiamo ai tuoni, alle frane, ai terremoti, alle esplosioni) presentavano frequenze casuali, complesse e disordinate.

Il nostro sistema nervoso si allerterebbe quindi nell’ascolto di questi suoni generando una sensazione sgradevole che ci mette in guardia contro un possibile pericolo.

Al contrario, i suoni più semplici non attiverebbero campanelli d’allarme e verrebbero quindi percepiti come più gradevoli.

Canzoni ed emozioni: cosa determina la nascita di un’emozione

All’interno di uno stesso brano il variare dell’intensità può mutare la nostra percezione e il livello della nostra emozione magari risultando inizialmente calmo, poi gioioso e infine malinconico. In questo contesto possiamo associare anche l’uso di accordi “in minore” o “in maggiore” che spesso compaiono all’interno di una stessa canzone con il preciso intento di cambiarne il pathos emotivo.

Dobbiamo dire che se le emozioni trasmesse dalla musica sono trasversali ai vari contesti culturali, pur con certe differenze individuali è possibile individuare una grammatica universale delle emozioni in musica.

Oltre a fattori intrinseci alla musica stessa, e oltre al nostro bagaglio culturale e di esperienze personali, le emozioni che la musica suscita possono dipendere anche da fattori esterni quali:

  • il condizionamento: è il più comune e deriva dal fatto che una musica possa essere associata ripetutamente ad eventi positivi o negativi;
  • il contagio emotivo è quel passaggio attraverso il quale l’ascoltatore percepisce le emozioni che l’esecutore vuole trasmettere e le mima internamente attraverso i “neuroni specchio”;
  • l’immaginazione visiva che riesce a far nascere emozioni facendo affiorare alla mente particolari immagini evocate dalla musica;
  • la memoria episodica entra in gioco quando l’ascolto di un brano fa riaffiorare un ricordo che colleghiamo ad una certa emozione, evocando un ricordo vengono automaticamente rievocate anche le emozioni ad esso collegate;
  • l’aspettativa è collegata all’emozione indotta dalla struttura del brano nel momento in cui questa smentisce, ritarda o conferma quello che durante l’ascolto ci si aspetta possa essere il modo in cui il brano proseguirà.

Aspettativa e “manipolazione”

Torniamo a parlare di aspettative. La canzone si sviluppa su un piano temporale: nell’istante in cui ascoltiamo non sappiamo cosa accadrà un attimo dopo e questo genera attesa.

L’attesa è fortemente legata all’emozione ed è frutto di un’elaborazione non cosciente; se così non fosse sarebbe difficile spiegare perché continuiamo a provare emozione anche nell’ascolto ripetuto di uno stesso brano. Un’elaborazione non cosciente del pezzo, al contrario, procede ad ogni ascolto a ricalcolare le attese in modo che la loro conferma o meno dia luogo all’aspetto emotivo del brano.

Mentre ascoltiamo si genera in noi un gioco di aspettative su come la canzone andrà sviluppandosi e il modo in cui procederà ci svelerà se la sua struttura avrà confermato le aspettative che ci eravamo creati oppure se ci avrà riservato delle novità che non avevamo previsto.

L’aspettativa dà luogo ad una tensione muscolare soggettiva che si risolve nel momento in cui il brano si svela trasmettendoci lo stimolo atteso. Questo ha l’effetto di ridurre sia l’attenzione che la tensione dell’ascoltatore. Se l’attesa viene rispettata, si verificherà un’emozione positiva, in caso contrario si potrà provare un senso di frustrazione o di sorpresa, o una combinazione delle due condizioni.

L’eccitazione provocata da ogni forma d’arte risiede proprio in questo, l’alternarsi di un’aspettativa e di una soluzione. Spesso chi compone canzoni gioca proprio su questo fattore, creando abilmente delle aspettative che poi, magari, decide di disilludere con un brusco cambio di direzione.

Meglio una conferma o l’effetto sorpresa?

In generale risulta più frequente che la musica pop tenda a darci risposte che ci aspettiamo e che confermano le nostre aspettative mentre altre forme musicali, come per esempio il jazz, usano più frequentemente soluzioni che possono risultare spiazzanti e magari per questo più affascinanti ad un orecchio musicalmente “più colto”.

Generalmente le canzoni che preferiamo nel loro andamento sonoro sono una via di mezzo tra la conferma delle nostre aspettative e l’effetto sorpresa. Sono quindi canzoni definite di “media complessità”, con un’incertezza moderata, dove ad uno svolgimento prevedibile si alternano sorprese.

Ma dobbiamo tenere conto anche di alcune sfumature che possono avere un certo ruolo: anche il livello di certezza o meno che raggiungiamo attraverso l’ascolto ha un suo peso. Pare infatti che se ci sentiremo quasi assolutamente sicuri di quale sarà la nota o l’accordo che seguirà, un’eventuale sorpresa ci provocherà piacere; al contrario, se ci sentiremo incerti su come il brano si svilupperà, proveremo più piacere nel non essere sorpresi da quel che accadrà successivamente.

La manipolazione delle aspettative

Non va dimenticato poi che la musica viene prodotta con uno scopo. Chi la compone vuole trasmetterci qualcosa, quindi la sua struttura, il contesto, le parole che la accompagnano mirano anche a manipolare le nostre aspettative contribuendo a dar vita ad una specifica emozione.

Tale “manipolazione” può essere definita positiva quanto più il pubblico ricettore ha propri strumenti per decidere se essere “manipolato”. In questo caso la capacità di manipolazione può diventare un dono, nel suo senso buono. Il rischio è che l’ascolto dei messaggi che arrivano attraverso le canzoni possa diventare una scappatoia per trovare soluzioni facili senza troppa fatica e senza spirito critico.

La capacità della musica di modellare e dirigere le coscienze implica una grande responsabilità civile ed educativa per chi fa musica. Un esempio? È stato rilevato che un ascolto protratto di una canzone, intorno alle cento volte, fa assumere come proprio il pensiero che questa esprime, con tutto quello che questo può comportare.

 

Realtà distorte: confabulazioni e deliri a confronto

“Il vantaggio della cattiva memoria è che si gode parecchie volte delle stesse cose per la prima volta”, scriveva Nietzsche. Ebbene, l’argomento che verrà trattato andrà ad approfondire ciò che viene definita come falsa memoria e ciò che si intende per falsa credenza: rispettivamente confabulazioni e deliri. 

Erika Virgili – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Ma cosa sono esattamente le confabulazioni?

Tale termine fa riferimento in generale a falsi ricordi o a ricordi errati, contestualizzati nell’ambito delle malattie mentali. Le memorie riportate dall’ individuo possono quindi essere costituite da falsi ricordi oppure da ricordi reali confusi però nel contesto temporale e che dunque vengono recuperati in modo inappropriato. Ciò che distingue le confabulazioni dalle menzogne risiede nel fatto che, nel primo caso, il paziente non ha alcuna intenzione di ingannare, anzi al contrario non è assolutamente consapevole della falsità delle proprie affermazioni. Si potrebbero definire come “bugie oneste”, considerando il danneggiamento delle strutture neuronali coinvolte nella memoria che provocano distorsioni prominenti della stessa, fino a sfociare appunto nella confabulazione. Hirstein (2005) ha individuato sette criteri da valutare attentamente al fine di comprendere se ci troviamo di fronte ad un caso di confabulazione o meno:

  1. Il paziente inganna intenzionalmente?
  2. Il paziente ha qualche motivo in particolare per rispondere in quel determinato modo?
  3. Sono presenti deficit della memoria?
  4. La confabulazione viene usata in risposta a richieste specifiche?
  5. L’utilizzo della confabulazione serve a colmare una lacuna cognitiva?
  6. Si presentano necessariamente in forma linguistica?
  7. Sono conseguenze dei deliri?

Un’ulteriore definizione ci viene fornita da Gilboa e Moscovitch (2002) i quali hanno indicato i quattro principi che descrivono le confabulazioni:

  1. Si tratta di falsi ricordi che spesso contengono dettagli non veritieri. In alcune confabulazioni possono essere inclusi anche ricordi realistici, contestualizzati però erroneamente da un punto di vista temporale. Tuttavia sono maggiormente diffusi i primi.
  2. Il paziente non è consapevole delle proprie confabulazioni e spesso non è cosciente nemmeno di avere deficit di memoria. Proprio per questo vengono definite confabulazioni solo le produzioni non intenzionali.
  3. I pazienti possono agire e comportarsi sulla base delle proprie confabulazioni.
  4. Le confabulazioni appaiono molto più evidenti soprattutto nel momento in cui viene chiesto ai pazienti di esporre episodi autobiografici, anche se in alcuni casi le confabulazioni non risultano essere collegate alla storia di vita dei pazienti. È possibile riscontrare confabulazioni anche in compiti di memoria semantica in determinate condizioni valutative.

Korsakoff parla delle confabulazioni come di un disturbo che porta i pazienti a commettere errori nelle dichiarazioni verbali, nella convinzione di essere stati precisi e assolutamente corretti. Inoltre sono state classificate prendendo in esame diversi criteri: i contenuti (valutati in termini di vero/falso, bizzarro/fantastico, plausibile/impossibile), le modalità di insorgenza (provocate o spontanee), i domini entro cui possono manifestarsi (memoria auto-biografica, memoria episodica, memoria semantica personale e semantica generale) e i vari quadri clinici in cui potrebbero manifestarsi. La classificazione maggiormente accettata al giorno di oggi è esattamente quella di Kopelman (1987), il quale ritiene che il criterio più valido secondo il quale classificare le confabulazioni sia quello che tiene conto delle diverse modalità di insorgenza delle stesse.

Sulla base di ciò, distingue due diverse tipologie di confabulazioni: le spontanee e le provocate. Le prime sono più rare e sono correlate ad una disfunzione frontale, mentre le seconde sono più frequenti in pazienti amnesici e non si esclude che potrebbero rappresentare una normale risposta ad una deficit della memoria.

Relazione tra deliri e confabulazioni

Le differenze

Deliri e confabulazioni coinvolgono le distorsioni della rappresentazione della realtà, in merito sia al passato che al presente della persona e sulla base delle similitudini e delle differenze, si analizzeranno le relazioni tra queste due sintomatologie.

Infatti, può accadere che gli individui con malattie psichiatriche o neurologiche a volte pensino e dicano cose incredibili: potrebbero credere di essere morte, di riuscire a vedere anche se sono cieche o di ricordare cose che in realtà non sono mai accadute. Alcuni autori utilizzano il termine confabulazione per riferirsi a false affermazioni, altri invece pongono l’attenzione sulle condizioni patologiche che i pazienti che presentano confabulazioni riportano, altri ancora prendono in considerazione le somiglianze tra il delirio e la confabulazione e si propongono di esplorarne i punti di intersezione. Tra questi Kopelman  (2009) si è occupato di definire le diverse forme di falsa memoria e delirio che si possono osservare in concomitanza di malattie neurologiche o psichiatriche.

Per quanto riguarda le false memorie, come già riportato, egli distingue tra confabulazioni spontanee e provocate, occupandosi inoltre delle modalità di recupero dei ricordi. Rispetto al delirio invece, va ad identificarne diversi aspetti esplicativi: la variabilità dei contesti in cui possono verificarsi, i contenuti più frequenti e la fenomenologia associata ai diversi deliri. Prendendo in esame infatti il fenomeno delle false memorie in contesti sia psichiatrici che neurologici si possono trarre dati particolarmente salienti. Le confabulazioni spontanee coinvolgono dichiarazioni non provocate di ricordi errati, mentre le dichiarazioni deliranti sono concepite come ricordi effettivi da cui si scaturiscono interpretazioni deliranti o ricordi errati. Questi ultimi si verificano soprattutto nel contesto della malattia psicotica, come ad esempio nella schizofrenia e quindi, secondo quest’ ottica, le confabulazioni e i deliri dovrebbero essere considerati come concettualmente distinti.

Gilboa (2009) si concentra sul ruolo della memoria in relazione alle confabulazioni, andando ad evidenziare la centralità del deterioramento del recupero strategico. Egli concepisce come alla base della confabulazione differenti tipi di memoria relative al mal funzionamento delle capacità di automonitoraggio che porterebbero quindi a far in modo che il paziente avverta una rapida ed intuitiva sensazione di correttezza dei propri ricordi, attivando un processo di controllo che media l’avvio di azioni basate sulle memorie recuperate. Gilboa (2009) presuppone inoltre una sovrapposizione tra confabulazione e delirio soprattutto per quanto riguarda le influenze generiche di schemi memorizzati e di pregiudizi emotivi, suggerendo dunque che tali elementi risulterebbero essere fondamentali e basilari sia nelle confabulazioni, sia nei deliri.

Fotopoulou (2010) adotta invece un’unica prospettiva per abbattere la polarizzazione tradizionale e accademica tra gli approcci neurocognitivi e gli approcci psicodinamici all’ argomento in questione. Promuove, dunque, una neuropsicologia affettiva delle confabulazioni e dei deliri, andando così a sottolineare l’importanza delle influenze emozionali in entrambe le sintomatologie. Seppur riconoscendo l’importanza del ruolo degli eventi significativi della vita, egli suggerisce che l’esasperazione patologica dei pregiudizi emozionali potrebbero essere la conseguenza diretta dei disturbi neuronali, ed infatti, esattamente come Kopelman, dubita sull’ adeguatezza di un unico quadro esplicativo che possa cogliere le varie modalità tramite cui i fattori emotivi vanno ad imprimersi sia sulle false credenze che sulle false memorie.

Anche altri autori hanno prestato attenzione al ruolo del pregiudizio emotivo per quanto riguarda le false affermazioni, sia nel caso delle confabulazioni che dei deliri, ricavando da esso un grande riscontro. Interessante è stato il contributo di Langdon (2009), il quale ha sottolineato come alcuni autori usassero il termine confabulazione in riferimento a dichiarazioni in un quadro non patologico ed elaborate senza intenzionalità. Perciò il suo studio si è concentrato su tre segnali cardine: l’incomprensibilità, l’incorreggibilità e le convinzioni soggettive ingiustificate. Dopo aver ammesso comunque l’ esistenza di confabulazioni correggibili, egli ha avanzato anche l’esistenza di confabulazioni spontanee incorreggibili. Le confabulazioni spontanee, semplicemente, ricevono direttamente a livello della coscienza l’esperienza della memoria. La coscienza non farebbe altro che prendere come vere tali esperienze. Rispetto al delirio invece viene elaborata l’ipotesi che l’abitudine di alcuni soggetti di fermarsi a pensare e ripensare ad esperienze inquietanti, potrebbe facilitare gradualmente la produzione di credenze deliranti.

Le somiglianze

Gli autori si distinguono, dunque, in coloro che ritengono che deliri e confabulazioni siano due fenomeni totalmente distinti e coloro che ritengono invece che siano assolutamente sovrapponibili. In effetti, nonostante le differenze inevitabilmente presenti, sono state evidenziate anche caratteristiche comuni. A tal proposito un aspetto da prendere in considerazione riguarda il ruolo delle esperienze aberranti. Coltheart e colleghi (2007) esaminano quei casi in cui l’esperienza fornisce direttamente alla coscienza il contenuto del delirio. Infatti alcune tipologie di delirio si basano su una vaga e inquietante esperienza aberrante su cui i soggetti innescano ricerche di spiegazioni. Questi approcci che mettono al centro dell’ attenzione il ruolo dell’ esperienza acquistano ulteriore importanza nel momento in cui si vanno a prendere in esame le similitudini e le differenze tra i deliri e le confabulazioni, oltre che tra le diverse tipologie di delirio e di falsa memoria. Il tema riguardante il ruolo dell’esperienza aberrante appare strettamente correlato ad un’altra tematica che prende in considerazione il ruolo dei processi consci e incosci nella produzione di confabulazioni e deliri. Proprio su questo si concentra lo studio di Fotopoulou (2010), includendo in particolare i processi motivazionali ed emozionali. Viene messo in evidenza come i fattori emotivi, come tutti gli altri fattori cognitivi, siano potenzialmente rilevanti sia nelle confabulazioni che nei deliri.

Un’ altra tematica rilevante fa riferimento alla percezione di correttezza o scorrettezza dei ricordi che i pazienti riportano. Infatti sembrerebbe che sia nel caso di confabulazioni che nel caso di deliri non c’ è alcuna relazione tra la produzione di false memorie o false credenze e la percezione del dubbio su di esse, in quanto, come già anticipato, gli individui ritengono in entrambi i casi assolutamente reali le loro produzioni. Gli autori si sono però chiesti se le percezioni di correttezza o scorrettezza possano essere considerati anch’esse tratti patologici. Tuttavia, anche se le confabulazioni e i deliri sono solitamente classificati come patologici, sappiamo che tali fenomeni possono verificarsi anche in persone sane. Sarebbe interessante quindi comprendere se è possibile o meno tracciare una linea di demarcazione tra ciò che puo’ essere considerato patologico e ciò che non lo è.

Ma quali sono le conseguenze a livello comportamentale del delirio e della confabulazione? Gilboa incorpora esplicitamente nel suo modello tutti quei processi di controllo che sono finalizzati a mediare l’azione. In realtà le persone tendono sempre ad agire in base alle proprie credenze, ma ovviamente le varietà di comportamento e la misura in cui determinati soggetti agiscono in base ad esse non può che essere correlato alla patologicità del quadro clinico. I casi di confabulazione e delirio potrebbero infatti essere spiegati da patologie concomitanti, come ad esempio l’anedonia o l’ anosodiaforia.

Come abbiamo potuto notare, alcuni autori si sono soffermati sulle diversità e altri sulle somiglianze tra confabulazioni e deliri, provando a tracciarne, attraverso gli studi, caratteristiche principali, modalità di insorgenza e di produzione, pur tenendo presente che le false credenze inevitabilmente non possono che diventare poi falsi ricordi.

 

Mancato passaggio all’età adulta (2021) di Haim Omer, Dan Dulberger – Recensione del libro

Mancato passaggio all’età adulta è un manuale contenente consigli e nozioni teoriche-cliniche relative alla condizione familiare speciale nella quale si trovano alcune famiglie con i cosiddetti bambini-adulti.

 

Mancato passaggio all’età adulta e la dipendenza disfunzionale dalla famiglia

  Gli autori tengono a specificare come il fenomeno descritto sia pienamente relazionale e non tanto psicopatologico (anche se è possibile che il bambino-adulto possieda una diagnosi psichiatrica di diverso genere, come l’OCD o una qualche forma di ansia). Infatti, caratteristica determinante è la persistenza nella famiglia di una dipendenza disfunzionale, che porta i genitori ad essere i servi del proprio figlio, ormai adulto. Una caratteristica ricorrente dei bambini-adulti, sottolineata nel libro, è il loro essere NEET (ossia Not in Education, Employment or Training), il che li porta ad essere dipendenti dai genitori quotidianamente (ad esempio per la pulizia della camera, degli abiti, preparazione dei pasti, spesa), ma anche e soprattutto finanziariamente.

Tale dipendenza li può portare anche ad assumere comportamenti minacciosi o aggressivi nel momento in cui percepiscono allontanamenti dei genitori stessi o tentativi di ribellione alla condizione di oppressione nella quale sono stati confinati dai loro stessi figli. Tra le minaccie particolarmente rilevante, ed efficace, è quella di suicido (realizzabile implicitamente, “se non fai questo, non hai idea di cosa potrei fare!” o esplicitamente “non ce la faccio più a vivere così!” oppure con un vero e proprio tentativo di suicidio): infatti, è proprio questa a bloccare i genitori a procedere con la terapia (soprattutto nella fase di annuncio, nella quale viene detto onestamente e chiaramente al figlio come le cose cambieranno, al fine di mettere fine al loro adattamento alla dipendenza del figlio).

La dipendenza disfunzionale risulta così essere caratterizzata dalla presenza di diversi stati emotivi quali: l’impotenza, colpa, paura, minaccia, biasimo e pietà. Complessivamente potremmo considerare come alla base della relazione disfunzionale vi sia una forte condivisione, sia da parte dei genitori che del figlio, dell’idea dell’incapacità del giovane. Questi è portato a ricercare costantemente, anche in modo tirannico e aggressivo, l’aiuto dei genitori in faccende che dovrebbe essere in grado di risolvere autonomamente; dall’altro lato i genitori tendono ad adattarsi alle richieste del figlio (soprattutto vivendo nella convinzione che sia un dovere dei genitori soddisfare le richieste dei propri figli e garantire loro una vita più facile). Il manuale propone una via terapeutica che si è rivelata molto efficace: la NVR, adatta per aiutare i genitori a ridurre l’adattamento e rompere il legame disfunzionale al fine di lasciar spazio ad una dipendenza funzionale. La NVR terapeutica non è altro che una rivisitazione della NVR sociopolitica (applicata ad esempio da Gandhi e M.L. King), consistente nel rimarcare pacificamente la presenza degli oppressi (genitori), in modo da provocare una risposta positiva dal lato degli oppressori (il figlio). L’atteggiamento pacifico è particolarmente necessario al fine di evitare un escalation (simmetrica o complementare), ossia una risposta aggressiva e negativa da parte del bambino-adulto che possa peggiorare la relazione familiare.

Mancato passaggio all’età adulta: la struttura del manuale

Il manuale è organizzato in sette capitoli, ciascuno trattante diversi temi rilevanti:

  1. il primo capitolo introduttivo definisce la condizione familiare, descrivendo soprattutto la differenza tra una dipendenza disfunzionale ed una funzionale (obiettivo ultimo della terapia).
  2. Il secondo capitolo descrive la NVR terapeutica in linea generale: viene introdotta la necessità di lavorare unicamente con i genitori (questione meglio approfondita nel capitolo successivo), le difficoltà che potrebbero insorgere (come l’impossibilità di procedere all’azione da parte dei genitori) e spiegata la nozione di responsabilità totale (ossia la tendenza da parte dei genitori di credere di possedere controllo totale sulle azioni del figlio).
  3. Il terzo capitolo descrive più dettagliatamente i clienti e il trattamento nelle sue fasi principali. Precisamente le fasi della NVR sono: la fase iniziale (nella quale vengono poste le basi per il processo di de-adattamento, quindi viene creata l’alleanza terapeutica, viene elaborata una tabella di marcia, grazie alla quale i genitori possono immediatamente osservare i vantaggi del processo terapeutico, viene rimarcata l’importanza di una rete di sostegno che permette alla famiglia di uscire dalla condizione di segretezza e isolamento nella quale si trovano); fase dell’annuncio (ossia i genitori vengono invitati a mettere per iscritto tutte le modifiche che hanno intenzione di apportare al rapporto familiare, il tutto mantentendo la prima persona plurale (in modo che quanto detto non risulti essere un ordine, il che potrebbe suscitare un escalation che è preferibile evitare) e un tono cordiale; fase di sostegno (ossia chiedere ai genitori di identificare alcune persone particolarmente vicine a loro o al figlio che possano intervenire nei momenti in cui le reazioni di ambo le parti potrebbero creare un escalation. Ciascun sostenitore potrà avere un ruolo diverso e potrà partecipare ad alcune sedute di gruppo. Gli autori suggeriscono anche la possibilità di creare un gruppo Whatsapp con i sostenitori e i genitori al fine che tutti possano essere tenuti aggiornati relativamente alle interazioni che avvengono con il bambino-adulto).
    Successivamente a queste fasi ha inizio il processo di de-adattamento che richiede una forte volontà da parte dei genitori di passare all’azione, riducendo i servizi e i diritti alla privacy (che non fanno altro che favorire l’isolamento della famiglia, quindi la dipendenza disfunzionale). L’intervento terapeutico potrà essere interrotto nel momento in cui si inizia ad instaurare una dipendenza funzionale (ad esempio, il figlio non assume più comportamenti aggressivi e minacciosi o non è più NEET).
  4. Il quarto capitolo tratta delle minacce di suicidio, inserendo diversi esempi clinici.
  5. Il quinto capitolo vuole invece identificare alcuni comportamenti tipici che potrebbero essere esitanti in un insuccesso del passaggio all’età adulta (quali l’abuso digitale, il rifiuto scolastico e lavorativo, bambini con comportamenti tirannici (ossia aggressivi e le cui reazioni sono temute dai genitori che finiscono così con l’accomodarsi alle loro richieste) oppure comportamenti finanziari irresponsabili (come fare acquisiti con le carte di credito dei genitori senza prima chiedere il permesso).
  6. Il sesto capitolo tratta della dipendenza disfunzionale in contesti particolari che possono presentarsi nello studio. Inoltre vengono inseriti diversi esempi di come affrontare praticamente le situazioni specifiche (ad esempio come far capire ai genitori che la loro urgenza è compresa, ma è richiesto comunque un percorso richiedente del tempo per poter risolvere la situazione di emergenza nella quale si trovano).
  7. Il settimo capitolo assume invece la prospettiva del bambino-adulto, fin’ora trascurata dato che i clienti principali sono i genitori. Ne viene trattato il vissuto personale (i sentimenti di vergogna, di incompetenza) e eventi passati che potrebbero aver favorito l’emergere della dipendenza disfunzionale (come eventi particolarmente stressanti o problemi relazionali). Nella prima parte del capitolo viene anche sottolineata l’importanza che, nel caso fosse disponibile a seguire un percorso terapeutico, il figlio venga seguito da un terapeuta diverso rispetto i genitori.

Il manuale risulta essere molto scorrevole soprattutto grazie alla continua presenza di esempi clinici che rendono la condizione familiare molto chiara e favoriscono la comprensione dell’approccio terapeutivo, NVR. Gli esempi clinici possono comprendere intere storie di famiglie con dipendenza disfunzionale, sia esempi di annunci o di risposte alle varie obiezioni/comportamenti dei genitori.

Mancato passaggio all’età adulta: gli effetti dei lockdown sulle famiglie degli adulti-bambini

Per concludere, una riflessione emersa dalla lettura del libro è la possibilità di come l’attuale condizione pandemica possa aver influenzato famiglie già in una dipendenza disfunzionale, così come famiglie, che pur non essendolo, siano particolarmente fragili. Nelle fasi della NVR viene sottolineata l’importanza di avere una rete di sostegno e di rompere la condizione di isolamento e segretezza (dettate dalla vergogna), entrambi processi necessariamente interrotti dai diversi LockDown. La particolare situazione deve dunque aver messo in seria difficoltà genitori che avevano appena intrapreso il percorso terapeutico, ponendoli di fronte alla necessità di prendere una posizione ancor più decisa e stabile del non ricadere nei precedenti pattern disfunzionali. Diversi sono gli esempi clinici riportati nel libro in cui, al fine di rompere la dipendenza disfunzionale, viene imposto un cambiamento radicale (come ad esempio l’allontanamento momentaneo del genitore dal quale la dipendenza è maggiore), che è difficile attuare nella situazione sanitaria in cui ci troviamo da inizio 2020. Allo stesso tempo, è chiaro anche il possibile effetto del COVID e le conseguenti chiusure su famiglie con figli particolarmente fragili (nel senso di presentanti alcuni dei comportamenti tipici elencati nel capitolo quinto). La chiusura totale è, innanzitutto, un forte stressor relazionale (riduce i rapporti sociali e può metterne a repentaglio altri che si credevano più stabili, esponendo altamente individui vulnerabili): nel momento in cui sia i genitori che il figlio iniziano a sottovalutare le capacità di coping del secondo, potrebbe emergere una condizione di dipendenza disfunzionale, in cui il figlio (così come i genitori) pensa di non poter sopravvivere senza i servizi dei genitori. Allo stesso tempo, l’attuale situazione può favorire la condizione NEET del figlio: egli potrebbe aver perso ogni motivazione scolastica/lavorativa oppure potrebbe aver trovato difficoltà nella ricerca di un lavoro alla fine degli studi.

Rassegna sul disturbo depressivo persistente: storia, nosologia e implicazioni cliniche

Il disturbo depressivo persistente è un disturbo cronico dell’umore che spesso si rivela più invalidante della depressione maggiore episodica (Schramm et al., 2020).

 

Nel corso delle varie edizioni del Manuale Diagnostico e Statistico dei disturbi mentali (DSM) le svariate manifestazioni depressive croniche hanno assunto diverse denominazioni e concettualizzazioni, sino ad arrivare a quella odierna di ‘disturbo depressivo persistente’ (DSM-5; APA, 2013). La rilevazione del disturbo in ambito psichiatrico può risultare ostica, fino a quando non si intensifica sotto forma di episodio depressivo maggiore sovrapposto. Sebbene i dati circa l’eziologia del disturbo depressivo persistente siano scarsi, prevale, come nella maggior parte della psicopatologia, un’ipotesi eziologica multifattoriale. Nella seguente rassegna verrà discussa l’evoluzione della nosologia del disturbo nel corso del tempo, sino a raggiungere quella attuale all’interno di una prospettiva dimensionale (Schramm et al., 2020).

Disturbo depressivo persistente: nosologia

Nel corso della storia i disturbi dell’umore sono stati tradizionalmente considerati come condizioni episodiche e reversibili (Goodwin & Jamison, 2007); solo a partire dalla fine degli anni ’70 è stato contemplato anche un decorso cronico della depressione (Akiskal, 1983). Il disturbo distimico è stato introdotto nel DSM-III e successivamente nell’ICD-10 come diagnosi per le depressioni unipolari croniche; l’introduzione della distimia nella sezione dei disturbi dell’umore nel DSM-III è stata controversa, poiché molti ritenevano che tale condizione indicasse uno stile di personalità, piuttosto che un disturbo dell’umore (Klein, Riso & Anderson, 1993; Kocsis & Frances, 1987). Pertanto, oggigiorno ci sono autori che continuano a sostenere che il disturbo depressivo persistente, in particolare nella sua forma più lieve, rifletta uno stile di personalità, piuttosto che un disturbo dell’umore (Klein, 2020).

Il DSM-IV ha continuato ad ampliare la copertura delle depressioni persistenti aggiungendo specifiche per gli episodi depressivi maggiori con remissione parziale e gli episodi depressivi maggiori ricorrenti senza recupero completo tra gli episodi (Schramm et al., 2020). Nel DSM-5 la nomenclatura ufficiale per indicare una condizione depressiva cronica diventa ‘disturbo depressivo persistente’, mentre il precedente termine ‘distimia’ rimane soltanto tra parentesi: tale etichetta diagnostica indica la fusione dei precedenti ‘disturbo depressivo maggiore cronico’ e ‘disturbo distimico’ definiti dal DSM-IV (APA, 2013). Gli studi epidemiologici sul disturbo depressivo persistente indicano una prevalenza che oscilla tra l’1 e il 6%: la prevalenza del disturbo è indubbiamente più alta nei contesti clinici, comprendendo un range del 33-50% di pazienti con sintomatologia depressiva (Rubio et al., 2011).

Eziologia e trattamento del disturbo depressivo persistente

Oggigiorno lo stato dell’arte sull’eziologia del disturbo depressivo persistente si colloca ancora a uno stadio preliminare: nessuna causa biologica e fisiopatologia chiara è stata confermata per tale disturbo, per svariate motivazioni. Queste ragioni includono: l’eterogeneità clinica del fenotipo del disturbo, l’alta frequenza di episodi depressivi maggiori concomitanti, l’elevata comorbilità con disturbi d’ansia, disturbi da addiction e di personalità; ridotta numerosità campionaria e scarsi tentativi di replica degli studi (Schramm et al., 2020).

In merito al trattamento, la commistione tra psicoterapia e terapia farmacologica a base di antidepressivi costituisce la modalità d’intervento di prima linea per la sintomatologia depressiva; nonostante ciò, la ricerca ha suggerito che gli interventi psicoterapici e farmacologici tendono ad essere meno efficaci nelle manifestazioni croniche di depressione, rispetto a quadri clinici non cronici (Cuijpers et al., 2010). Potrebbero essere molteplici le ragioni per cui il successo del trattamento sul disturbo depressivo persistente risulta limitato, una di queste riguarda il fatto che circa il 40% dei pazienti con disturbo depressivo persistente viene considerato resistente al trattamento.

I fattori che potrebbero ostacolare il trattamento come: scarsa motivazione, ridotta compliance e mancata psicoeducazione sul disturbo. Un’altra spiegazione plausibile riguarda una minore dimensione dell’effetto del trattamento rispetto alle manifestazioni non croniche del disturbo (Schramm et al., 2020). Una puntuale diagnosi differenziale tra le varie manifestazioni di sintomatologia depressiva costituisce da sempre una sfida clinica di una certa entità: la cronicità è indubbiamente la variabile discriminante più evidente, che comporta spesso il rischio di sottovalutare i sintomi e la relativa compromissione funzionale; portandoli tardivamente alla dovuta attenzione clinica. Coerentemente alla nuova classificazione dimensionale del DSM-5, la concettualizzazione dimensionale si è dimostrata nettamente superiore rispetto a quella categoriale in termini di affidabilità e potenza statistica (Markon, Chmielewski & Miller, 2011). Sfortunatamente, gli attuali sistemi di classificazione dimensionale si concentrano esclusivamente sulla sintomatologia trasversale e non incorporano aspetti longitudinali, come lo sviluppo e il decorso dei sintomi. Per affrontare tale gap, è stata proposta una classificazione bidimensionale della depressione con assi ortogonali separati per gravità e cronicità. Un tale sistema garantirebbe uguale priorità a entrambi i fattori e l’incrocio delle due dimensioni spiegherebbe la maggior parte delle forme di depressione attualmente riconosciute (Klein, 2008).

In conclusione di tale estratto è possibile affermare che, nonostante si tratti di una delle condizioni più complesse della psicopatologia, con molteplici aspetti ancora da chiarificare, la costante e cospicua ricerca sul tema permette a clinici e ricercatori di avere sempre maggior chiarezza e di trascendere gradualmente le svariate frontiere cliniche che si presentano quotidianamente.

 

Odore di Napalm al mattino, Magnum 44 e Cimmeri spinti dalla vendetta: la mascolinità reazionaria di John Milius

John Milius è un regista e sceneggiatore americano famoso per aver lavorato in film capolavori come Apocalypse Now e su pellicole cult come Conan il Barbaro ed i primi due film con protagonista il poliziotto Harry Callahan.     

 

Dichiaratamente conservatore e con una visione romantica del mondo militare, Milius ha contestualizzato una figura psicologica reazionaria del sesso maschile in netto contrasto con il periodo storico in cui i suoi lavori sono stati realizzati.

Nel periodo attuale, grazie ad azioni come l’attivismo di Black Lives Matter (BBC, 2020) e le reazioni allo scandalo sessuale di Harvey Weinstein (BBC, 2021), la questione della parità interculturale e sessuale nel mondo cinematografico è diventata un argomento sempre presente nei media globali (WSJ, 2019).

Sebbene l’integrazione della diversità e della parità sessuale sia considerata da sempre un obiettivo fondamentale per una società sana ed equilibrata (Tropp, Barlow, 2018; Silva, Klase, 2021), l’inserimento di queste tematiche in maniera forzata e legata ai trend della società viene reputata forzata e non giusta nei confronti delle lotte originali, la cui critica viene spesso denigrata attraverso atti come la cancel culture (Romano, 2020).

Una situazione simile si è verificata verso la fine degli anni ottanta e gli inizi degli anni novanta, dove artisti della settima arte statunitensi apertamente repubblicani hanno indicato il declino della loro carriera a causa del loro essere controcorrente con le idee progressiste tipiche della società moderna (Stanley, 2004).

Fra queste personalità si trova John Milius, sceneggiatore e regista americano noto soprattutto per le sue sceneggiature di film come Apocalypse Now e le sue direzioni di pellicole come Conan il Barbaro.
Milius, attraverso il suo materiale artistico, ha contestualizzato la sua visione reazionaria nei confronti del pensiero politico e culturale dell’epoca, veicolata da narrazioni su personaggi maschili e mascolini visti da un’ottica completamente diversa dal Cinema a lui contemporaneo.

Uno degli aspetti principali di questa sua visione è l’ottica romantica nei confronti del conflitto: di fatto, il regista e sceneggiatore statunitense vede la situazione di guerra come una possibilità di mostrare le proprie risorse e di mettersi in gioco, mostrando quella resilienza mascolina cardinale della cultura militare americana (Mann, 2006).

Un altro elemento caratteristico dei personaggi di Milus è il loro attraversare un rito di passaggio: personaggi come Conan e Benjamin Wallard attraversano varie situazioni di crisi per abbattere la figura di potere della narrazione, attualizzando la loro epifania (Van Gennep, 2019).

Infine, un aspetto fondamentale dei personaggi del regista e sceneggiatore americano è la loro resistenza al potere reazionario: i protagonisti delle sue storie vanno contro il sistema di potere, come la burocrazia della polizia in Dirty Harry, considerandolo troppo restrittivo e/o ingiusto, incarnando l’attitudine di “anarchismo zen” coniata dallo stesso Milius, rendendo i suoi personaggi delle versioni moderne della figura narrativa dell’antieroe (Neimneh, 2013).

Concludendo: nonostante le sue visioni politiche, John Milius nella vita reale è legato da una profonda amicizia con registi e sceneggiatori come Oliver Stone ed i Fratelli Cohen, aventi una visione politica totalmente opposta alla sua. Tipologia di amicizia che pian piano si sta perdendo nella società odierna (Green, 2020).

 

Assenza… più acuta presenza – Diario di viaggio con un gruppo intermedio fuori dai confini nazionali

In questo articolo racconto la frequenza in un gruppo intermedio che si riunisce a Londra cinque fine settimana l’anno. Il gruppo intermedio, che si colloca tra il piccolo gruppo di 7-8 persone e quello grande di oltre 30, pone la sua attenzione principalmente sulla cultura, le interazioni e i miti sociali.

 

Assenza,
più acuta presenza.
Vago pensiero di te
vaghi ricordi
turbano l’ora calma
e il dolce sole.
Dolente il petto
ti porta,
come una pietra
leggera.

(Attilio Bertolucci)

Introduzione

In questo articolo racconto la frequenza in un gruppo intermedio che si riunisce a Londra cinque fine settimana l’anno. Il gruppo intermedio, che si colloca tra il piccolo gruppo di 7-8 persone e quello grande di oltre 30, pone la sua attenzione principalmente sulla cultura, le interazioni e i miti sociali. Il focus è sul qui ed ora e gli aspetti non transferali sono molto più ampi di quelli del piccolo gruppo. Il conduttore non è direttivo, rimane relativamente disimpegnato con l’intento di porre i partecipanti in condizione di sviluppare un processo trasformativo basato sul dialogo (de Maré, 1991). Ho scelto una narrazione diaristica che, a volte, comporta salti temporali e, nonostante varie citazioni e riferimenti bibliografici, non sempre rispetta i criteri di un articolo scientifico. In queste pagine, sostanzialmente ri-narro a me stesso l’esperienza vissuta per poterla assimilare meglio e riflettere sui cambiamenti che ha prodotto nel pensiero, nella professione e nella mia vita e la metto a disposizione del lettore. Esploro alcuni processi gruppali che attraversano le mie incertezze, le mie paure e i miei vissuti nella speranza che tale operazione possa aiutare a capire l’importanza non solo della conoscenza teorica, ma anche della riflessione intima e personale nel momento in cui esercitiamo una professione così delicata come la psicoterapia.

Un po’ di storia personale

La prima volta che salii a bordo di un aereo avevo 13 anni ed accompagnavo mio nonno paterno dai figli che vivevano a Londra. L’aeroporto di Gatwick diventò subito il varco di un nuovo mondo che nei successivi 20 anni avrei attraversato per lavorare. Ad ogni partenza estiva, mi lasciavo alle spalle l’invidia dei miei compagni di scuola, le proteste dei miei fratelli, la tristezza di mia madre e l’approvazione di mio padre che incassava i miei guadagni. A Londra abitavo con mio zio G. che, con tutta la famiglia allargata (un gruppo intermedio di quasi venti persone!), lavorava proficuamente nel settore della ristorazione mobile. Appena maggiorenne, con i risparmi pagai gli studi universitari e comprai un appartamento a Roma mantenendo un fortissimo legame con la mia famiglia “inglese” e la città di Londra che mi ha regalato anche l’ebbrezza del primo amore. Spesso sono ritornato a visitarli e puntualmente sperimentavo la malinconica riapertura della stanza di tanti ricordi e di qualche rimpianto. Dopo la laurea in Psicologia, ho iniziato a lavorare in un centro di salute mentale pubblico e mi sono specializzato senza mai smettere di aggiornarmi. Perciò, mi sono subito incuriosito quando ho saputo che Teresa von Sommaruga Howard stava organizzando a Londra un corso di formazione denominato Creating Large Group Dialogue in Organisation and Society. Pur interessandomi di gruppi da molti anni, conoscevo poco quelli intermedi ed allargati, nonostante da studente mi fossi ritrovato a fare un’esperienza del genere con Rocco Pisani (2000a) all’università “Sapienza” di Roma. In quel gruppo, nonostante l’entusiasmo iniziale, fui assalito da una forte ansia che ancora ricordo e, dopo il secondo incontro, non vi feci più ritorno. Questa volta però non avrei sciupato l’opportunità che il fato mi offriva!

Creating Large Group Dialogue in Organisation and Society (CLGD)

Leggendo il materiale introduttivo, capivo che CLGD era un corso residenziale di cinque fine settimana l’anno, che si sviluppavano dal venerdì alla domenica pomeriggio in un centro studi vicino Londra. Le singole giornate erano suddivise in sessioni di 60 (Social dreaming) e di 90 minuti (Gruppo intermedio esperienziale, Seminario teorico, Gruppo come consulente). Gli organizzatori scrivevano che l’obiettivo del corso era “⦋…⦌ rendere i laboratori capaci di inspirare e trasformare, abbinando l’apprendimento alla pratica sia con esperienze di gruppo sia con una ricerca-azione dal vivo che parta dal vostro ambiente professionale o di vita. ⦋…⦌ L’intenzione è quella di sostenere lo sviluppo delle vostre abilità e conoscenze affinché possiate promuovere con maggiore sicurezza spazi di dialogo in qualsiasi contesto di vostra scelta.” Contattai la promotrice del corso, mi iscrissi, pianificai la mia agenda e nel giro di qualche settimana ero in viaggio.

Giungevo all’aeroporto di Gatwick in un freddo pomeriggio di gennaio 2019 e con tre colleghe appena conosciute mi recavo in taxi alla sede del corso, il Roffey Park Institute. Ero molto contento e spaventato ma quando Teresa, Göran Ahline e Mike Tait ci accolsero con umanità e disponibilità, capii subito di aver fatto una buona scelta. Il gruppo, oltre ai tre conduttori (convenors), era composto da altri 15 membri provenienti da vari Paesi e le diverse sessioni didattiche permettevano ad ogni allievo di scegliere tempi e modi per condividere le proprie esperienze ed ho potuto apprezzare anche le pause perché arricchite da ottimo cibo consumato in locali ampi, caldi ed accoglienti; le stanze da letto non erano da meno.

Essere nel gruppo intermedio

Durante il primo incontro fui molto colpito dalla componente “di lingua inglese” che si sentiva minoritaria e mortificata per le vicende politiche che stavano portando la Gran Bretagna fuori dall’Europa. Il tema della lingua, delle differenze e del campo/spazio caratterizzeranno molti incontri. All’inizio ero disorientato e mi sentivo in soggezione, ma poi sono stato capace di interagire, di guardarmi dall’esterno e di ragionare insieme agli altri sulle reciproche differenze ed uguaglianze. Non nascondo però che ebbi anche bisogno di preservare i miei spazi individuali.

Le diverse provenienze geografiche, la vasta gamma di culture e la ricchezza delle esperienze dei partecipanti mi hanno entusiasmato e ben presto mi è sembrato che il mio pensiero si arricchisse. Altre volte, poi, ho persino avuto l’impressione di conoscermi meglio osservando la reazione degli altri e l’immagine di me che mi veniva restituita. Secondo de Marè (1978, pag. 143) nel gruppo allargato – forse anche in quello intermedio – si verifica una “[…] mutua conoscenza inter-personale, intersoggettiva di ciascuno in reciprocità [che] sviluppata alla sua piena estensione, può condurre altresì ad un allargamento della coscienza, perché la stessa coscienza è per derivazione processo di conoscenza con gli altri.”

Al termine del primo fine settimana, in procinto di lasciare la sede del corso, non ricordavo il codice di sblocco del cellulare. Ho interpretato questa lieve amnesia come una faticosa transizione ad essere nuovamente quello che ero in altri luoghi. Mi ero fuso con l’esperienza del qui ed ora e una parte di me faceva resistenza a tornare al là ed allora? (Turquet, 1978).  Contemporaneamente, mentre prendevamo l’ultimo caffè, ho chiesto alle colleghe di non farmi prenotare il taxi per l’aeroporto. Teresa sorridendo, ha commentato che forse il gruppo poteva aiutarmi ad essere meno accudente (parental child). Pur apprezzando la sua osservazione, mi sono difeso sostenendo che due psicoterapie personali avevano modificato poco questo aspetto della mia personalità. Göran ha aggiunto: “non preoccuparti, Fiore. Ognuno di noi porta dentro qualcosa di incompiuto.

Nei successivi incontri, la presenza di nuovi membri dello staff turberà l’atmosfera gruppale, ma, con il tempo, saranno chiari gli obiettivi di non formare una “setta” autoreferenziale e di mantenere permeabile la membrana gruppale. Nonostante ciò, non mi è stato sempre facile accettare la presenza di persone nuove, tanto che una notte sognai di uccidere un cane. L’angoscia e la vergogna generate dal sogno ne resero faticosa la condivisione nel social dreaming (SD) che, forse contribuì ad orientare alcuni contenuti di quella matrice. Contenuti che, poi, si trasferirono nel disegno comune su grande foglio che realizzavamo alla fine del SD. La spontanea visualizzazione del cane e del gatto di mio padre che giocavano placò l’angoscia e mi permise di disegnare la faccia sorridente di un gatto. Poco dopo, F. cancellò il sorriso dalla faccia del gatto alla quale successivamente aggiunsi le vibrisse. Mentre mi osservavo in interazione e confrontavo il vissuto di quei momenti con le mie relazioni gruppali a Roma, mi rendevo conto che, talvolta, ricorrevo a fantasie compensatorie per alleviare l’ansia. Pur perdendo qualche scambio linguistico, mi sento interno ai processi gruppali e penso che la difficoltà linguistica sia diventata una risorsa che mi permette di riflettere di più sulle mie reazioni e di ponderarne le modalità.

Sin dall’inizio del corso, mi sono posto i seguenti obiettivi di apprendimento e di cambiamento personale e professionale:

  • Il gruppo intermedio è uno spazio transizionale per uscire dalla Kinship (la famiglia narcisistica) ed entrare nella Kithship (la cittadinanza-società)” (Pisani, 2000a).
  • La funzione dei conduttori ⦋nel gruppo intermedioè quella di mettere gli individui in una posizione di acquisire l’individuazione in un’atmosfera più sviluppata di interazioni sociali” (Pisani, 2000a).
  • Affidarmi, tollerare paure e vicinanza emotiva nel gruppo.
  • Valorizzare dubbi ed attivare una cooperazione nel pieno riconoscimento dell’alterità.

La presenza di nuovi ospiti all’ultimo incontro del primo anno, pur generando malumore legato a pregressi eventi esterni, ha favorito un’interessante riflessione sui concetti di esterno/interno, noi/voi, sulla qualità delle relazioni e sulla porosità dei confini gruppali. A tale proposito, Hinshelwood (1989), parlando di piccolo gruppo, distingue il concetto di “barriera” da quello di “confine”. Il primo indica una chiusura difensiva che compromette la crescita del gruppo, il secondo invece deve essere permeabile e flessibile per consentire ad ogni membro di affermare la propria individualità. S. ha sostenuto che sarebbe meglio conoscere in anticipo i nomi degli ospiti, che i confini di CLGD fossero troppo elastici e alcuni laboratori poco differenziati. Ho pensato che la collega stesse attaccando la leadership, ma non ho avuto il coraggio di verbalizzare il mio pensiero. Teresa ha spiegato con tranquillità che la struttura, ma soprattutto il contenuto degli incontri, potessero variare per accogliere le proposte di tutti.

Questa tematica emergerà altre volte, infatti, ricordo che R. sarà dispiaciuta quando non accetteremo la proposta di invitare suoi colleghi. Nello stesso incontro, S. affermò che spesso si sentisse “costretta” a parlare al posto degli altri ipotizzando che il gruppo trasferisse nella sua mente alcuni dei suoi pensieri. Confessai che, a volte, evitavo di parlare e che mi sentivo sollevato quando lo facevano altri e pensai al ruolo del portavoce.

Pichon-Rivière (1970) definisce il portavoce come colui che, ad un certo punto, enuncia qualcosa che è il segno di un processo gruppale che fino a quel momento era rimasto latente o implicito e che, per il buon funzionamento di un gruppo, necessita di essere decodificato. Nel corso degli incontri, anche Mike ribadirà l’importanza di proporre contributi e R., cogliendo al volo l’invito, ci condurrà in un’esperienza gruppale di contatto corporeo. Successivamente, riuscirò ad illustrare la proposta di scrivere un libro collettivo e R., nonostante, spesso si fosse lamentata di sentirsi esclusa, guiderà una sessione di scrittura creativa.

Teresa e Mike ci hanno informato che CLGD, forse perché concepito fuori da un’istituzione, ha avuto una lunga gestazione ed è stato impegnativo ottenere il patrocinio dell’IGA e della GASI e coinvolgere altri colleghi.

Chiedendomi se esistano situazioni umane tranquille ed aliene da conflitti e sentimenti, ho l’impressione che ogni cosa che facciamo sia, in qualche modo, influenzata da sentimenti ed azioni che circolano dentro e fuori di noi. Le dinamiche dei contesti e gli intrecci relazionali sono molto complessi e con rilevanti sfumature inconsce che possono scatenare reazioni a catena, anche di tipo aggressivo. Necessitano quindi di essere analizzate e condivise proprio come suggerisce il titolo del corso, creando dialogo. A questo proposito, de Marè (1991) afferma che nel gruppo intermedio gli individui imparano a parlare e a gestire le emozioni che emergono. In siffatto modo l’Io si allena a fronteggiare le forze repressive e le emozioni suscitate e gradualmente impara a parlare e a pensare spontaneamente, creando le premesse per l’affermazione della propria individualità.

Alla fine del I anno, ognuno di noi ha condiviso un elaborato finale.

L’inizio del II anno

All’inizio del II anno, la proposta di accettare, senza grandi alternative, la direzione di un Centro Diurno (CD) per pazienti psichiatrici agitava i miei sonni. Se l’avessi accettata, avrei dovuto trasferirmi ed abbandonare l’attività di psicoterapia di gruppo che conduco da anni. Mi sentivo spaventato, afflitto ed anche un po’ confuso perché avrei voluto accettare l’incarico al CD senza rinunciare all’attività di psicoterapia. Non mi spaventava il maggiore carico lavorativo, forse un po’ dubitavo della mia capacità di possedere quelle competenze manageriali necessarie a gestire efficacemente persone, complessità, cambiamenti, demotivazione e stress. Avevo espresso i miei dubbi e formulato un’alternativa alla mia responsabile che però insisteva che dovevo accettare questa “promozione” senza compromessi. Messo in condizioni di non poter scegliere e la paura del cambiamento producevano in me pensieri di espulsione e timori di perdere legami pluriennali. Pensavo persino che il mio direttore volesse espellermi perché le risultavo scomodo e per questo mi tornava in mente ossessivamente la frase latina promoveatur ut amoveatur.

Riconoscendo la mia ambivalenza rispetto alla gestione del potere, chiedevo la consulenza al gruppo che mi faceva notare che non sempre l’ambivalenza è negativa. Il dilemma che stavo vivendo, per quanto doloroso, rappresentava difatti un’opportunità di confronto reale con la complessità, la macchina burocratica e gli intrecci e le dinamiche istituzionali. Scegliendo, sarei passato dal ruolo di spettatore a quello di attore nella gestione del potere, ma continuavo a vedermi solo e schiacciato dalle aspettative dei superiori e dalle richieste dei collaboratori. CLGD mi ha rassicurato, mi sono sentito meno spaventato e più disponibile alla relazione e all’ascolto e mi sono avviato sulla strada del confronto sincero e della mediazione. Una lenta trasformazione del mio stato mentale mi ha condotto qualche mese dopo a raggiungere un accordo con il mio superiore, soddisfacente per entrambi.

Questo gruppo stava diventando il mio posto sicuro.

Pandemia e vita virtuale

Il secondo fine settimana si svolgeva in un clima di incertezza ed attesa perché l’Europa stava per precipitare in una tragica pandemia causata dal virus Covid-19. Alla vigilia della partenza per Londra, dubbi ed ansia crescevano di ora in ora perché non capivo bene quale fosse la portata dell’evento, in giro c’era smarrimento ed ansia che venivano rafforzate anche dalle innumerevoli informazioni e dalle prescrizioni istituzionali che a volte risultavano contraddittorie. Partivo coltivando la fantasia che se al mio arrivo fossi stato messo in quarantena, avrei trascorso due settimane con la mia famiglia. Giunto a destinazione, nonostante l’allerta sanitaria, ebbi l’impressione che il clima fosse caratterizzato da scetticismo e da un pizzico di sarcasmo. In contemporanea, in Italia la situazione sanitaria precipitava di ora in ora tanto che pochi giorni dopo assistevamo inebetiti a quelle immagini strazianti dei camion militari che a Bergamo trasportavano centinaia di bare verso i forni crematori. Dall’aeroporto prendevo un taxi con due colleghe tedesche che mi chiedevano informazioni su quanto stesse accadendo nel mio Paese e si sorprendevano che tenessi la distanza ed evitassi il contatto fisico. Nella sede del corso percepivo una strana calma, anche se erano stati posizionati liquidi igienizzanti e inviti scritti al lavaggio delle mani, le persone non indossavano la mascherina né rispettavano il distanziamento fisico. Durante i laboratori mi sentivo un po’ ridicolo perché coprivo goffamente il viso con una sciarpa ed evitavo sistematicamente la vicinanza fisica; purtroppo non riuscivo a condividere pienamente i miei vissuti.

In quei giorni erano presenti tre persone nuove, due dello staff (D. e I.) ed un’allieva croata che purtroppo non vedremo più. Avevo letto un interessante articolo di I. sulle pratiche riflessive e, nonostante il piacere di conoscerlo e di stare con i miei colleghi, ero molto ansioso. Dormii male e una notte sognai che la casa della mia compianta sorella era inspiegabilmente affumicata e piena di fuliggine che gli sforzi miei e della mia compagna non riuscivano a ripulire. La mattina mi svegliavo angosciato, preoccupato per i miei familiari e temevo di non rivedere più i miei colleghi. Il mio malessere proseguì non solo per tutta la durata del corso ma anche dopo, tanto che in aeroporto fui sopraffatto dalla stanchezza e mi addormentai su una poltrona e quasi persi l’aereo. Nonostante ciò, sentivo il bisogno di raccontare gli sviluppi del mio lavoro. Gli ospiti ci aiutarono a focalizzare l’attenzione su come ci si può sentire quando si entra per una sola volta in un gruppo già formato da tempo. Analizzeremo i nostri vissuti in merito ed esploreremo le “resistenze” nei confronti della proposta dello staff di aggiornare i nostri progetti professionali. Riflettevamo anche sulla scarsa comunicazione tra un incontro e l’altro. Perché non adottare uno strumento tecnologico per rafforzare connessioni e ridurre le distanze? Secondo I. il gruppo aveva ancora bisogno di proteggere il suo spazio reale. Alla fine, incoraggiati dai membri dello staff, adottavamo la piattaforma Slack per creare Canto Hondo che ad oggi continua ad ospitare scambi ed interazioni di ogni tipo. Questo spazio virtuale ci permetterà di conoscerci meglio, di consolidare il nostro legame e di rafforzare l’identità gruppale. Diventava sempre più chiaro il ruolo dei convenors in questo tipo di gruppo. Jarrar (2003, pag. 36), parlando del large group e del suo inconscio, sostiene che il compito dei consulenti sia «[…] quello di creare e sostenere un’atmosfera che faciliti ed incoraggi lo sviluppo sostenibile ed attivo del dialogo tra individui e tra sottogruppi. Ampliare l’area della partecipazione e dell’inclusione delle diverse voci è un obiettivo pregevole ed auspicabile. L’enfasi va posta sull’incontro dialogico che permette ai partecipanti di scoprire sia la propria ed unica soggettività sia quella degli “altri”».

La sessione gruppo come consulente di sabato sera accolse sia la “crisi” di K., come la definì J., sia gli sviluppi del mio dilemma lavorativo ed ero talmente coinvolto nel racconto da non rendermi conto della fine dell’ora. Nella sessione successiva, pur sentendomi a disagio perché stavo sconfinando, ho riproposto il mio racconto. Secondo I., nel mio gruppo di lavoro in Italia ero diventato il capro espiatorio, una persona da espellere perché rappresentava o faceva qualcosa di poco digeribile. Chiedendoci poi che cosa stesse accadendo in quel preciso momento, J. ha affermato che io e K. stavamo investendo il gruppo con troppi problemi personali. Mi sono vergognato per aver trasferito le mie difficoltà da un contenitore ad un altro e sinceramente non so se J. ha dato voce al pensiero del gruppo o di una sua parte. Tutto questo, però, ha aperto la riflessione sulle differenze tra il piccolo gruppo e quello intermedio permettendoci di ribadire che, mentre nel primo l’attenzione è maggiormente focalizzata sul conflitto intrapsichico, nel secondo trova espressione e sottolineatura il contesto socioculturale, o meglio si verifica una maggiore correlazione tra l’intrapsichico e il sociale (Pisani, 2000a). In altre parole, mentre il piccolo gruppo evoca esperienze conosciute per la prima volta all’interno della famiglia e permette ai suoi partecipanti di imparare ad esprimere i sentimenti, quello intermedio richiama esperienze sociali e macro culturali e favorisce lo sviluppo del dialogo tra i partecipanti affinché imparino ad esprimere il pensiero (de Marè, 1991).

A proposito del significato della parola dialogo, Maxweel (2000, pag. 39) confessa: “Inizialmente pensavo che il dialogo fosse semplicemente l’arte di parlare ad un altro; poi mi sono reso conto che la parola dialogo non ha la sua radice in “di”, che significa due, implicando così una conversazione tra due persone […], bensì nell’avverbio greco “dia” che significa “attraverso” o “tra”, come in diametro, attraverso il centro, o in diagonale, da angolo ad angolo.

Secondo Socrate e Platone, il dialogo è un lavoro di gruppo stimolante che insegna la partecipazione attiva, l’ascolto, la tolleranza e il rispetto del pensiero altrui. Non è una competizione per attribuire la ragione a qualcuno, bensì un “venirsi incontro.” Nel cosiddetto dialogo socratico, ogni partecipante ha il suo spazio e le diverse visioni dello stesso problema vengono prese in esame ed accolte con l’apertura mentale di chi è consapevole che la stessa tematica può assumere diverse sfaccettature. Lo spirito del dialogo socratico è quello della ricerca di gruppo che stimola nuove domande in chi vi partecipa ed è una pratica che invita a separare l’opinione o il pensiero da chi lo espone attraverso la sospensione del pregiudizio e del giudizio nei confronti di chi parla. CLGD rappresenta una ghiotta occasione per i partecipanti di immaginare, come sostiene Arendt (2009), che un’altra persona possa aver ragione ed un’imperdibile opportunità per provare a piegare la propria intenzione ed integrarla con quella altrui. Solo il dialogo, cioè quella dialettica di domanda e risposta che alimenta il movimento circolare della comprensione, può condurre all’esperienza di verità (Gadamer, 1960).

La distanza fisica che ho adottato scrupolosamente durante il secondo fine settimana a Londra, si aggiungeva o copriva quel disagio che mi compare ogni volta che si riduce la vicinanza emotiva. È come se coprissi il mio timore di una “contaminazione” emotiva con quella di tipo fisico che, a sua volta, giustifica il distanziamento. Una cosa analoga può accadere anche con l’uso della mascherina, che, proteggendo dal contagio del virus, ci protegge anche dal mostrare i sentimenti attraverso le espressioni del viso.

A un certo punto, nella sessione successiva al SD di domenica, ero perso a rincorrere frammenti di ricordi, sogni ed immagini non ben collegate tra di loro. E solo quando Teresa mi ha detto “Fiore, prova a dare voce ai tuoi pensieri” sono riuscito a ricomporre la mia coscienza, ad ordinare i miei pensieri e a parlarne. Di conseguenza, il gruppo ha generato altri pensieri che, in una circolarità ricorrente, hanno contribuito a cambiare il mio pensiero iniziale.

Purtroppo il Covid-19 ha messo in ginocchio il mondo intero tanto che nella primavera del 2020 l’Italia è stata sottoposta ad un duro “isolamento sanitario” durato 69 giorni che, oltre alle pratiche sanitarie per prevenire il contagio, ha comportato molte rinunce. Sospensione di varie libertà civili, riduzione di molte attività produttive e rimodulazione delle relazioni sociali e delle coordinate spazio-temporali quotidiane. È stato un trauma collettivo e, nonostante il disorientamento e l’angoscia devastante, abbiamo iniziato a trasferire le nostre attività quotidiane sul web. La stessa sorte è toccata a CLGD che, per non restare soli in un momento di incertezza e disperazione, ha deciso di incontrarsi mensilmente. L’assenza del contatto fisico, la sospensione del vivere sociale, la convivenza casalinga forzata, il vuoto e l’angoscia di morte erano insopportabili in quel periodo! La mattina mi spostavo in una città completamente deserta per giungere a lavoro dove, lentamente, ho cominciato ad organizzare il lavoro psicologico in modo virtuale. Ho anche cominciato a curare la pubblicazione di un libro sulla pandemia. La scrittura, le interazioni su Slack e gli incontri virtuali del nostro gruppo sono stati la mia spina dorsale. L’estate ha portato con sé l’illusione di un ritorno alla normalità, ma in autunno la pandemia è ritornata con devastante puntualità, causando in sei mesi più di 3.000.000 di morti in tutto il mondo. Su proposta di Teresa, abbiamo aderito ad un gruppo allargato chiamato Alternative Large Group (ALG) che si riunisce online ogni domenica. Ancora non riesco a garantire una presenza costante, perché, come sostiene Turquet (1978), avverto un forte contrasto interno tra due forze, quella di appartenenza e quella di tirarmi indietro. L’autore (ibidem, pag. 97) sostiene: «Sebbene qualsiasi rapporto può essere conflittuale in questo stesso modo, nel gruppo allargato, il singolo (che interagisce e lotta contemporaneamente) vive la polarità in termini estremi di separazione isolata o alternativamente di una fusione completa con, o perdita nel, gruppo. Il gruppo allargato mette in risalto le difficoltà del singolo di mantenere una distanza psicologica interattiva tra se stesso e l’“altro”, sia questo “altro” un avvenimento, un’esperienza o un membro.» In ALG ho sperimentato ansia e disagio che, in qualche modo, hanno rievocato il ricordo delle assemblee politiche che frequentavo da universitario. Erano gruppi allargati che professavano in modo strumentale l’incontro dialogico e la democrazia, assumendo spesso le caratteristiche di vere e proprie orde all’interno delle quali i sotto gruppi agivano la loro rabbia in azioni di sabotaggio sociale oltre a scontrarsi fisicamente tra di loro e con altri di colore politico opposto. Se il singolo non si allineava al pensiero dominante era emarginato, espulso o persino percosso; ricordo infatti un leader che dichiarava apertamente lo “schiaffone politico” per persuadere i dissidenti.

Dopo più di anno, l’angoscia, i lutti e le restrizioni generate dalla pandemia ancora non sono scomparsi, nonostante la campagna di vaccinazioni anti-Covid-19 sembra portarci verso una ripresa della “vita normale”. Sin dall’inizio della pandemia, nonostante la scarsa esperienza di lavoro online, sono riuscito a fornire ai miei utenti costanti prestazioni psicologiche sostitutive. Da poco mi sono reso conto però che il trasferimento online di quasi tutte le attività metteva a rischio la mia salute e quindi ho cercato di ridimensionare il mio ingaggio. Sento il bisogno di proteggere la mia mente e i miei spazi privati dalle incursioni continue di eventi, seminari e convegni virtuali che si svolgono a qualsiasi ora del giorno e della notte e spesso vi partecipo dall’unica postazione casalinga. Partecipare ad un seminario per un intero fine settimana da casa dove non sono solo, mi distrae e mi inquieta. È quasi impossibile proteggere e separare i vari spazi (professionali, intimi e familiari), cosa che invece facevo quando la formazione e il lavoro si svolgevano fuori casa. Attualmente, CLGD è al suo terzo di anno di vita e purtroppo si svolge ancora online.

Conclusioni

Con lo smart working i confini interni ed esterni delle persone diventano troppo liquidi, gli spazi si saturano facilmente e scompaiono quei momenti di vitale decantazione dell’esperienza. Durante le pause di un convegno in presenza, sorseggiando un caffè con i colleghi, parlavo, ascoltavo, li guardavo negli occhi e sentivo il loro profumo. La distanza fisica da casa mi proteggeva da altre incombenze, mi permetteva di vivere il momento presente e di abitare lo stesso campo del gruppo incarnato; tutto ciò, pur essendo faticoso, portava con sé piacere e senso di appartenenza. Attualmente, invece, quel fragile campo che con difficoltà si genera attraverso lo schermo, durante le pause viene contaminato da elementi e bisogni estranei che rendono altresì difficile riprendere il lavoro lasciato in sospeso. Non basta chiudersi in una stanza davanti al computer, spegnere i telefoni e chiedere ai familiari di non fare rumore. Partire, spostarsi verso una meta fisica – così come il ritornare a casa – sono gesti che contribuiscono a creare lo stato mentale necessario per affrontare un compito diverso da quello precedente. Alla fine degli incontri dal vivo di CLGD, mi godevo il viaggio in taxi per l’aeroporto e dopo le pratiche d’imbarco, cercavo un posto tranquillo e cominciavo a scrivere un resoconto dei seminari, operazione che purtroppo non ho più fatto da quando ci siamo trasferiti online. Scrivere nella sala d’attesa – uno spazio intermedio che per definizione sospende il prima dal dopo – sedava l’ansia per il viaggio e poneva le basi del graduale ritorno alla vita consueta. Inoltre, permetteva alla mia mente di iniziare un processo digestivo per metabolizzare ed elaborare quelle impressioni sensoriali generate dall’esperienza sensoriale ed emotiva vissuta. Queste impressioni “grezze” sono definite da Bion (1967) elementi beta che sarebbero destinate a rimanere tali se non fossero metabolizzate e depurate da quell’apparato mentale che lo stesso autore definisce funzione alfa. Infatti, questa funzione avrebbe proprio il compito di eliminare i residui oggettuali degli elementi beta rendendoli, così, disponibili per un pensiero che sia orientato verso la modificazione della realtà.

Lo sconvolgimento causato dalla pandemia e l’assenza delle relazioni incarnate hanno prodotto in me un cambiamento dalla sfumature traumatiche che necessita approfondimento, aggiustamenti e riadattamenti anche di tipo fisico. La prima cosa che mi è sembrata giusta fare è stata la riduzione degli impegni virtuali e l’attivazione di nuovi processi di pensiero sul mio rapporto con il tempo, lo spazio e il lavoro. Una seconda cosa da ponderare, in attesa di poter rivivere la presenza fisica e mentale, sarà trasferire l’attività professionale virtuale in un altro spazio “sicuro” per decontaminare quello casalingo e riattivare il passaggio tra il dentro e il fuori e rivivere pienamente il suo valore transizionale.

 

Il Lavoro Mobilita l’Uomo (2021) – Recensione del libro

Il libro Il lavoro mobilita l’uomo pubblicato nel 2021, affronta il tema della fuga dei cervelli dal Sud Italia, in chiave psico-sociale.

 

La fuga dei cervelli è definita come il movimento delle persone qualificate dalla loro terra natia verso un altro luogo, seguendo, in genere, un’offerta lavorativa con migliori condizioni di vita e riconoscimento professionale. Sebbene si registri un incremento di persone qualificate che lasciano l’Italia, e soprattutto il Sud, negli ultimi tempi, non si tratta di un fenomeno troppo recente. Questo fenomeno era già presente con i Grand Tour, in cui studenti appartenenti a classi agiate intraprendevano questo giro alla scoperta del mondo classico, dove, però, l’Italia era una delle mete più ambite. Oggi, invece, si registra una partenza di capitale umano qualificato senza possibilità di sopperire a tale mancanza perché l’Italia non risulta essere più una meta attrattiva. In più, questo fenomeno è diventato socialmente conosciuto in quanto è preda del senso comune. Questo aspetto è amplificato dai discorsi mediatici che paragonano il fenomeno dei cervelli in fuga ad una migrazione di massa, senza però considerare la dimensione personale e interpersonale. Si tratta, inoltre, di un fenomeno che risente molto di aspetti socio-culturali e linguistici.

Ma quindi chi sono i cervelli in fuga? I primi a fuggire sono stati gli accademici e i ricercatori, al fine di far circolare il sapere (‘brain circulation’, appunto), ma anche i lavoratori operanti nel settore ICT, seguiti poi da altre categorie professionali come esito del cambiamento del mercato del lavoro e dell’emergere di nuove forme di carriera che superano quella tradizionale. Proprio perché sta diventando un fenomeno emergente, il modo in cui se ne parla mette in gioco le rappresentazioni sociali di oggetti basilari nell’organizzazione della cultura di una comunità, come il “lavoro”, la “famiglia”, la “formazione”, il “Sé”, la “nazione”.

 Nella letteratura scientifica, infatti, il fenomeno è stato analizzato sempre da una prospettiva economica o sociologica. Dal punto di vista economico, la fuga dei cervelli è stata esplorata in termini di costi per il paese di origine, che perde capitale umano qualificato e come benefici per il paese di destino che, invece, acquista qualificazione. Mentre la sociologia ha studiato il fenomeno come un processo di migrazione economica, la chiave psicologica, quadro teorico del volume, mira a dare voce a chi ha vissuto l’esperienza direttamente, proponendo prima un tentativo di decostruzione della rappresentazione comune sul fenomeno, generalmente diffusa dai media, sostenendola tramite le voci dei protagonisti, emigrati soprattutto dal Sud Italia. L’idea di fondo del libro è comprendere, in base alle biografie mobili dei protagonisti, se ci può essere un legame tra territorio e progetto di mobilità nei vissuti di chi abbandona il paese di origine.

Partendo proprio da questo legame, il libro è utile a tutti gli psicologi di comunità che intendono occuparsi di migrazioni, empowerment e adattamento nelle comunità di destino; ma anche a coloro che vogliono occuparsi di chi vive indirettamente l’“abbandono”, come i genitori dei cervelli in fuga, molto spesso, ingabbiati nella “sindrome del nido vuoto”. Occuparsi psicologicamente dei migranti qualificati e dei loro affetti, infatti, potrebbe voler dire ripartire dal legame territorio-progetto di mobilità.

 

Disturbi di personalità negli anziani: una rassegna su epidemiologia, valutazione e trattamento

Nella letteratura dell’ultimo ventennio è presente un gap significativo in merito alla ricerca sui disturbi di personalità negli anziani (> 60 anni), in termini di: studi longitudinali, assenza di strumenti diagnostici adeguati all’età e trattamento; motivo per cui il seguente estratto si focalizza proprio sui dati relativi ai disturbi di personalità in questo target d’età specifico (Penders et al., 2020).

 

Disturbi di personalità negli anziani: prevalenza ed esiti del trattamento

La letteratura riporta una prevalenza significativa dei disturbi di personalità in età avanzata: uno dei più ampi studi condotti riferisce un tasso di prevalenza del 10,7% con almeno un disturbo di personalità. I tassi più alti sono stati riscontrati nel disturbo ossessivo-compulsivo di personalità (6,5%), seguito da quello paranoide (2,5%); mentre il disturbo di personalità dipendente (0,4%) e quello istrionico (0,8%) sono stati i meno prevalenti (Holzer & Huang, 2019). I disturbi di personalità negli anziani comportano un impatto significativo sulla qualità di vita: inficiano il funzionamento psicosociale e le relazioni interpersonali, in particolar modo la diade medico-paziente; aumentando il rischio di rifiuto del trattamento in ambito medico-ospedaliero, motivo per cui risulta ulteriormente doveroso prestare particolare attenzione ai disturbi di personalità negli anziani (Powers & Oltmanns, 2012). Gli esiti del trattamento dei disturbi di personalità in età avanzata risultano sempre essere meno promettenti, mentre i tassi di recidiva sono in costante aumento (Stevenson et al., 2011); motivo per cui risulta ancora più urgente disporre di strumenti validi e affidabili per facilitare ‘diagnosi precoci’ (Rossi et al., 2014). Prestare maggiore attenzione ai disturbi di personalità in età avanzata può consentire al clinico di implementare interventi specifici al fine di migliorare la qualità di vita e di soddisfare le esigenze peculiari di ciascun paziente; incrementando la compliance e riducendo il rischio di drop-out (Penders et al., 2016).

Diagnosi dei disturbi di personalità negli anziani

A differenza degli adulti più giovani (< 60 anni), sono, inoltre, disponibili pochi strumenti affidabili e validi per la diagnosi di disturbi di personalità negli anziani (Oltmanns et al., 2014). Oltre alla mancanza di aggiustamenti per l’età, molti questionari self-report e interviste semi-strutturate sono composti da elementi troppo complessi per il target d’età di riferimento, come ad esempio l’utilizzo di un linguaggio troppo astratto o l’uso di doppie negazioni (Debast et al., 2015). Dal 2015 è stato pubblicato solo uno studio (Videler et al., 2017) che esamina l’efficacia di un trattamento psicoterapico sui disturbi di personalità in un campione d’età avanzata: la terapia (Schema Therapy) è stata erogata ad otto pazienti in regime ambulatoriale con diagnosi di DP (cluster C). Dai risultati emerge una riduzione dei sintomi annessi al disturbi di personalità vissuti in maniera egodistonica e un incremento generale della qualità di vita. Al follow-up, i partecipanti non soddisfacevano più i criteri generali o specifici del cluster, motivo per cui è stata revocata la diagnosi di disturbi di personalità (Videler et al., 2017). Inoltre, la dimensione dell’effetto di tali risultati era elevata: dato in linea con il trattamento sui disturbi di personalità applicato ad adulti più giovani (Bamelis et al., 2014). Sebbene da tale studio siano emersi dati promettenti, i risultati non sono in alcun modo generalizzabili e predittivi dell’intera popolazione, considerata la ridotta numerosità campionaria (n= 8) e la focalizzazione su un unico cluster di DP. Quando si cerca di delineare l’intervento più appropriato per un anziano con disturbi di personalità, risulta opportuno non soltanto valutare i suoi bisogni, il livello di motivazione/compliance e gravità del disturbo, ma anche considerare il grado di limitazioni funzionali esercitato da eventuali comorbilità di natura somatica e cognitiva (Rosowsky et al., 2018). La ricerca attuale ha evidenziato che il trattamento dei disturbi di personalità negli anziani è ancora un tema scarsamente esplorato, probabilmente a causa di nichilismo terapeutico e scetticismo ingiustificati. La rilevanza clinica del tema è, invece, in costante aumento, considerando l’invecchiamento generale della popolazione globale; risulta, dunque, opportuno garantire al tema la dovuta attenzione clinica e scientifica (Penders et al., 2020). In tale direzione risulta fondamentale anche una diagnosi precoce del disturbo, in modo tale da: arginare il prima possibile le conseguenze avverse del disturbo di personalità, ridurre i costi economici e indirizzare il paziente all’intervento più idoneo; prevenendo ricoveri ospedalieri e riducendo al minimo il rischio di scarsa compliance. In conclusione è possibile affermare quanto sia rilevante e clinicamente utile una maggiore ricerca sul tema, al fine di garantire un miglioramento della qualità di vita ad un target di popolazione in cui il focus attentivo è tendenzialmente rivolto su altri aspetti.

 

La validità delle prospettive teoriche alla base degli interventi terapeutici: un dialogo tra scienza e clinica – Editoriale di Cognitivismo Clinico

Nel volume di Cognitivismo Clinico sono stati presentati diversi contributi che, tutti, al loro modo, testimoniano il modo in cui l’interrogarsi della comunità scientifica e clinica circa la natura e la validità delle nostre prospettive teoriche determinano l’apertura o la chiusura di specifiche finestre di intervento clinico.

Editoriale a cura di Guyonne Rogier

 

Il volume si apre con una sezione dedicata alle linee guida. Si succedono quindi tre contributi che, approcciandosi al tema delle linee guida nel trattamento di specifiche condizioni psicopatologiche, illustrano il ruolo determinante che riveste la nostra concettualizzazione del trattamento sulle pratiche terapeutiche. Rinforzando con enfasi il ruolo della conoscenza scientifica come torcia che illumina la strada da percorrere, ma anche le zone d’ombra che rimangono poco esplorabili, ciascuno di questi articoli evidenzia come le linee guida internazionali relative al trattamento di diverse psicopatologie si affidano ai risultati della ricerca empirica nel campo dell’efficacia della psicoterapia.

Il primo, a cura di Rogier e Mancini, fornisce una panoramica delle principali linee guida internazionali riguardanti il trattamento del disturbo da attacchi di panico e del disturbo d’ansia generalizzata. Nello specifico, vengono riassunte le principali conclusioni tratte dagli istituti NICE e APA. Il contributo si chiude su una breve illustrazione di alcune metanalisi considerate dagli autori di particolare rilievo, che documentano le conclusioni tratte dalla ricerca empirica sul tema.

Il contributo successivo, firmato dagli stessi autori, in maniera simile, si focalizza sulle linee guida relative al trattamento psicoterapeutico della depressione. Di nuovo, gli autori scelgono di illustrare le conclusioni tratte dagli istituti NICE e APA e forniscono una puntuale descrizione di alcuni lavori rilevanti che sollecitano il lettore a sviluppare una lettura critica dei risultati offerti dalla ricerca sull’efficacia delle psicoterapie.

Questa trilogia si chiude con il contributo di Nicolò et al., dedicato al delicato compito di riassumere lo stato dell’arte relativo alle linee guida esistenti per alcuni disturbi di personalità. In particolare, gli autori si focalizzano sul disturbo borderline e il disturbo antisociale di personalità, fornendo al lettore una precisa e puntuale illustrazione delle principali conclusioni e raccomandazioni fornite dagli istituti NICE e APA. Ad impreziosire ulteriormente il lavoro è una sezione dedicata al riassunto di alcuni lavori di metanalisi o rassegne sistematiche di rilievo riguardanti la tematica ma, soprattutto, l’offerta di alcuni spunti di riflessione riguardanti la sempre più asserita necessità di privilegiare la prospettiva dimensionale a quella categoriale nell’approccio al tema della patologia della personalità.

La seconda parte di questo numero comincia con il contributo di Carlo et al. che rivisitano in ottica cognitivista il concetto di una forma specifica di accettazione, l’amor fati. Grazie al dialogo, inscenato dagli autori, di filosofi e teorici della psicologia cognitiva, svisceriamo un costrutto che poteva apparire, nella lettura iniziale, facilmente afferrabile. Proseguendo nella scoperta dell’articolo, comprendiamo come l’utilizzo di concetti cari alla psicologia clinica cognitiva (ad es. scopi, credenze) può permetterci di apprezzare le potenzialità insite nella complessità del concetto. Soprattutto, l’approfondimento teorico dell’argomento viene messo al servizio di una maggiore riflessione circa i meccanismi di cambiamento psicoterapeutico che sottendono la psicoterapia cognitiva e gli approcci della terza ondata. Il tuffo nella storia della filosofia, grazie alla guida degli autori, permetterà al lettore di apprezzare l’esistenza di un’affinità tra alcune tecniche che troppo spesso sono considerate come separate, ponendo, in ultima analisi, l’accento sull’importanza del considerare il meccanismo di cambiamento sottostante la singola pratica clinica. Al termine della lettura di questo contributo, il lettore ne uscirà non soltanto maggiormente consapevole delle implicazioni cliniche della concettualizzazione del costrutto di accettazione, ma anche maggiormente sensibilizzato alle ricadute pratiche che emergono da un’accurata riflessione epistemologica sui processi di cambiamento innescati dalle singole tecniche psicoterapeutiche.

Lo sforzo di decentramento epistemologico prosegue nel secondo contributo di questo volume, scritto da Giussani, che illustra in maniera illuminante il cambio di prospettiva che caratterizza la diffusione dei trattamenti di terza generazione per il Disturbo Ossessivo Compulsivo. Mediante un’argomentazione strutturata in modo convincente, l’autrice identifica come punto di svolta cruciale il passaggio del focus terapeutico dai contenuti mentali agli aspetti processuali dell’elaborazione delle informazioni. Dopo aver passato in rassegna gli aspetti salienti di alcuni, selezionati, approcci di terza generazione, il lettore giungerà alla conclusione che l’evoluzione delle nostre pratiche cliniche può esser compresa alla luce di un fattore comune ovvero la maggior attenzione posta alla modifica della relazione che il paziente ha con le proprie esperienze interiori.

Come a voler estendere lo slittamento di prospettiva illustrato da Giussani, il contributo successivo arricchisce ulteriormente la nostra consapevolezza dell’utilità del continuo interrogarsi sull’utilità e l’efficacia degli strumenti di intervento che adoperano gli psicoterapeuti cognitivo-comportamentali. Bacaro e Baglioni si focalizzano quindi sul disturbo di insonnia, una condizione che ci permette di mettere in discussione il nostro approccio clinico alla complessa questione del nesso tra mente e corpo, mettendoci di fronte alla necessità di ripensare, in un processo di continua evoluzione, l’adeguatezza della nostra personale cassetta degli attrezzi. L’approccio della rassegna narrativa, scelto dagli autori, appare particolarmente adatto a stimolare l’apprezzamento critico
delle evidenze empiriche passate in rassegna. I risultati ottenuti dalla ricerca empirica relativi all’efficacia della melatonina, della fototerapia, dell’esercizio fisico, della medicina complementare e della mindfulness per il disturbo di insonnia vengono quindi contestualizzati alla luce delle linee guida esistenti per il trattamento del disturbo. L’articolo testimonia come il riferimento alle linee guida internazionali e a un approccio evidence-based possa essere integrato con successo alla continua messa in discussione dei modelli esistenti, fungendo da bussola che aiuta il clinico a misurare la validità delle molteplicità delle proposte di trattamento offerte per il trattamento dei singoli disturbi.

Facendo eco alle raccomandazioni per la ricerca futura formulate da Bacaro e Baglioni, il terzo contributo presenta evidenze empiriche convincenti che suggeriscono la potenziale utilità dell’utilizzo di trattamenti mindfulness-based nella misofonia. Nello specifico, lo studio di Pezzolato et al. spicca per la sua originalità e la capacità degli autori di leggere una condizione psicopatologica (la misofonia), ancora non del tutto ufficialmente riconosciuta dai convenzionali sistemi diagnostici internazionali, attraverso la lente di costrutti quali la mindfulness o la regolazione emotiva. I risultati testimoniano dei benefici che risultano dalla sinergia tra le intuizioni cliniche e la ricerca empirica, mettendo in luce come la rigorosa operazionalizzazione dei nostri costrutti teorici possa conseguire nell’avanzare di una conoscenza scientifica basata sulle evidenze e condivisibile da tutti anche in ambiti che risultano ad oggi poco conosciuti.

Infine, come a voler fornire un’illustrazione concreta dell’utilità delle riflessioni formulate da Nicolò et al., l’ultimo contributo, a cura di Ledda et al., documenta empiricamente l’utilità di utilizzare costrutti afferenti al campo di indagine della personalità patologica nella lettura di altre condizioni psicopatologiche come il disturbo da uso di alcol. La consapevolezza del background teorico che guida la formulazione delle ipotesi e il disegno della procedura empirica rappresentano i punti di forza del contributo, che contestualizza al meglio i risultati ottenuti e sollecita nel lettore interessanti spunti di riflessione. Come dimostrato in pratica da questo ultimo contributo, ma più in generale da questo intero volume di Cognitivismo clinico, il cammino verso la consapevolezza delle lenti con le quali osserviamo i nostri pazienti e il lavoro che svolgiamo con loro non può prescindere da un dialogo costante tra la nostra necessità di sviluppare concetti e misure in grado di valutarli e la riflessione circa la natura relativa e contestualizzata degli stessi.

Beck cognitivista: un’altra storia – 100 anni di Aaron T. Beck – Parte 2

Il racconto di come Beck iniziò a diventare cognitivista negli anni ’60 ma arrivò ad esserlo solo nel 1975.

 

Sebbene Beck non abbia mai cercato attivamente di rompere con la psicoanalisi organizzata e sebbene dagli anni ‘60 abbia iniziato a formulare il modello cognitivo della depressione mentre era ancora un membro attivo della comunità psicoanalitica e come una elaborazione interna alla teoria psicodinamica, egli fu gradualmente emarginato dall’ambiente psicoanalitico. Per questo Beck iniziò a confrontarsi con i terapisti comportamentali. All’inizio andò male anche con loro. Wolpe non vide motivo di accettarlo come uno di loro. Fu proprio questo rifiuto del comportamentista Wolpe che indusse Beck a chiamare il suo approccio terapia cognitiva (Beck, 1997) e per un po’, e questo Beck non lo dice sempre, il rifiuto di Wolpe lo aveva tornato a convincere che l’impostazione cognitiva fosse un aspetto della psicoanalisi e non una terza via (Rosner, 2012, 2014).

Tuttavia, nel decennio successivo si aprì uno spazio tra psicoanalisi e comportamentismo, e il doppio rifiuto che Beck continuava a subire lo spinse in questo spazio intermedio dove incontrò un gruppo di terapisti comportamentali desiderosi di incorporare il mediatore cognitivo nel paradigma comportamentale stimolo-risposta. Era il gruppo di Lazarus, Mahoney e Meichenbaum. Quel gruppo aveva bisogno di Beck e viceversa (Rosner, 2012). Eppure, non fu un approdo definitivo. Lazarus, Mahoney e Meichenbaum, quando incontrarono Beck, erano studiosi già maturi e terapisti con una impostazione comportamentale solida ma che in fondo li rendeva poco adatti a sviluppare concretamente l’intervento sul mediatore cognitivo. Se leggiamo il testo in cui anni dopo Mahoney nel 2003 raccolse le sue esperienze cliniche troviamo una raccolta di interventi provenienti sia dal vecchio repertorio comportamentale pre-beckiano che dal nuovo catalogo di ristrutturazioni cognitive proposto da Beck (e da Albert Ellis), più una delle prime comparse dei futuri interventi di meditazione processuale, tutti tenuti insieme da una concezione che sarà quella costruttivista. Costruttivista? Cosa è questa parola? È a sua volta un’altra storia. Insomma, la concezione era di Mahoney ma il repertorio tecnicamente cognitivo era di Beck (e di Ellis) e consisteva in una rivisitazione delle interpretazioni psicodinamiche reindirizzate verso l’alto della superficie cosciente e non verso la profondità inconscia. Quindi la domanda era: in quale campo da gioco clinico Beck aveva creato questo nuovo repertorio, questa rivisitazione dell’interpretazione psicodinamica?

Lo aveva creato nel campus della Penn State University di Philadelphia dove era andato a insegnare e dove aveva incontrato un gruppo di specializzandi in psichiatria e in psicologia clinica, dotati di formazioni psicoterapeutiche di varia fedeltà. Altrove questo tipo di studenti univa alla pratica degli psicofarmaci quella della psicoanalisi, in una doppia fedeltà. Alla Penn State, invece, era possibile apprendere -grazie alla presenza ad esempio di Wolpe e Lazarus, suo allievo venuto con lui dal Sudafrica- anche l’impostazione comportamentale. Altri, come Hollon, avevano avuto una formazione esperienziale-umanistica. Una molteplice specializzazione che però rischiava di creare il caos. In questo caos si inserì Beck che, tra mille oscillazioni, nel 1970 aveva pubblicato su Behavior Therapy (rivista chiave del movimento comportamentista), un saggio in cui presentava la terapia cognitiva, stavolta come modello a sé stante (Beck, 1970c). Un bel pasticcio, se pensiamo che in quello stesso 1970 Beck (1970b) aveva presentato quello stesso modello sotto l’etichetta della psicoanalisi! Nella presentazione su Behavior Therapy Beck aveva deciso, in una delle sue fluttuazioni, di minimizzare le sovrapposizioni del suo modello con la psicoanalisi e, significativamente, di sottolinearne -nonostante le perplessità di Wolpe- le affinità (ma anche le differenze!) con la terapia comportamentista, in una chiave che sembrava proporre una sorta di alleanza contro la psicoanalisi.

Quali erano queste affinità tra comportamentismo e questa terapia cognitiva di Beck, che, ripetiamolo, in quegli stessi anni poteva ancora capitare di ritrovarsela pubblicata dallo stesso Beck in qualche altra rivista come una variante della psicoanalisi? Stavolta egli sosteneva che sia la terapia cognitiva sia quella comportamentista evitavano le libere associazioni per ricostruire il vissuto inconscio della sessualità infantile; che sia la terapia cognitiva sia quella comportamentista si basavano invece su interviste terapeutiche strutturate, volte a definire i problemi comportamentali del paziente, che questi problemi comportamentali costituivano l’obiettivo terapeutico sia della terapia cognitiva sia di quella comportamentista, partendo dall’assunto che i comportamenti maladattivi potessero essere disappresi (Beck, 1970b).

Di fronte ai possibili dubbi dei comportamentisti sull’uso cognitivista dei resoconti soggettivi dei pazienti, inverificabili per un buon comportamentista da parte di osservatori esterni, Beck asseriva che tali resoconti potevano comunque dare origine a ipotesi testabili: ripetute correlazioni tra le ipotesi sui contenuti cognitivi e i comportamenti osservabili avevano offerto risultati coerenti con le aspettative. L’articolo finiva proponendo che il modello cognitivista potesse assorbire le tecniche comportamentiste, fornendo però “un framework teorico più ampio” (Beck, 1970b, p. 198). Beck si era insomma deciso: la terapia cognitiva era una terapia comportamentale. Diplomaticamente, in quella prima metà degli anni ‘70, Beck lasciava la titolarità del paradigma al comportamentismo, di cui la sua terapia cognitiva si proponeva come un sottoinsieme. In seguito, i rapporti gerarchici si sarebbero capovolti e Beck audacemente avrebbe definito successivamente la terapia comportamentista come un sottoinsieme della terapia cognitiva (Beck, 1976, p. 229). L’ospite si era impadronito dell’appartamento.

Questi giochi di parole, tuttavia, non sarebbero bastati a Beck per conquistare il centro della scena della nuova terapia ma in procinto di soppiantare il genitore (adottivo) ancora comportamentale. Senza contare che il gioco di parole fu imposto in realtà da Mahoney, il vero divulgatore del nuovo termine “terapia cognitiva”. E lo fece nel 1977 quando Mahoney fondò la rivista “Cognitive Therapy and Research”, lo fece in diretta polemica con la rivista fino allora dominante e che si chiamava, non a caso, “Behavior Research and Therapy”. Ma quel che più contò fu nel primo numero di quel giornale scientifico cognitivo e non più comportamentale dove fu pubblicato un articolo destinato a fare la storia, l’articolo che riportava il trial che permise a Beck per la prima volta di dimostrare che una psicoterapia era efficace come un farmaco (Rush, Beck, Kovacs, & Hollon, 1977). E quella terapia era la sua, la terapia cognitiva. Non si trattava più di parole ma di fatti. Questa è ancora un’altra storia che racconteremo.

Condotte di eliminazione e disturbi dell’alimentazione

Le condotte di eliminazione tipiche sono: il vomito, l’abuso di lassativi e diuretici o utilizzo di altri farmaci come gli estratti tiroidei e anoressizzanti, tra cui anfetamine.

 

In tale definizione vengono esclusi comportamenti come il digiuno e l’intensa attività fisica che vengono definite come condotte non di eliminazione.

Definizione delle condotte di eliminazione

Le condotte di eliminazione sono comportamenti che si verificano frequentemente all’interno dei disturbi dell’alimentazione; hanno lo scopo ultimo di controllare il peso e l’introito calorico, solitamente sono precedute da episodi di alimentazione incontrollata ed abbuffate. Le condotte di eliminazione possono anche essere definite come condotte di compenso ed in particolare è possibile distinguere tra:

  • comportamenti di compenso eliminativi, come il vomito autoindotto, l’uso improprio di lassativi e/o di diuretici o altri farmaci
  • comportamenti di compenso non eliminativi, come la restrizione dietetica estrema e rigida o l’esercizio fisico eccessivo e compulsivo (AIDAP, 2015).

Origine storia dei disturbi dell’alimentazione e condotte di eliminazione

I disturbi dell’alimentazione sono da sempre stati considerati oggetto di studio e di interesse clinico.

L’Anoressia Nervosa è stato il primo disturbo dell’alimentazione identificato e descritto per opera di Gull (1874). Beumont e colleghi (1976) sottolinearono la differenza tra soggetti con condotte di compensazione non eliminatorie e soggetti con condotte di compensazione eliminatorie. Russel (1976) identificò, in un primo momento, la Bulimia come una variante della sindrome anoressica sebbene riconobbe che molte delle pazienti mostravano condotte di eliminazione ed abbuffate senza pregresso calo ponderale e sintomatologia anoressica; a tal proposito la sindrome della Bulimia Nervosa è stata soprannominata dall’autore come “fame da bue”. In tale circostanza si iniziarono a considerare le condotte di eliminazione come sintomo del disturbo e conseguenza del comportamento di abbuffata nonché tentativo di controllo del peso e della forma del corpo.

Uno dei contribuiti in letteratura particolarmente significativo in tal senso, è rappresentato da Fairburn e Cooper (1982) che descrissero la condotta eliminatoria del vomito come una sintomatologia inosservata che si manifesta nella maggior parte dei pazienti affetti da Bulimia nervosa e che sottende un nucleo psicopatologico comune anche a pazienti affetti da Anoressia nervosa.

Condotte di eliminazione e disturbi dell’alimentazione

I Disturbi dell’Alimentazione vengono definiti come comportamenti inerenti l’alimentazione che hanno come risultato un alterato consumo o assorbimento di cibo che compromette significativamente la salute fisica o il funzionamento psicosociale (American Psychiatric Association, 2013).

All’interno del manuale statistico e diagnostico dei disturbi mentali (American Psychiatric Association, 2013), sono descritti tre disturbi principali (Anoressia nervosa, Bulimia nervosa e Disturbo da Binge Eating), e disturbi dell’alimentazione con altra specificazione (Anoressia nervosa atipica, Bulimia nervosa a bassa frequenza, Disturbo da Binge Eating a bassa frequenza e Disturbo da condotta di eliminazione).

Le condotte di eliminazione si riscontrano più frequentemente, ma non esclusivamente, nella Anoressia Nervosa, Bulimia Nervosa e nel Disturbo della condotta di eliminazione.

Le condotte compensatorie e/o di eliminazione costituiscono una caratteristica essenziale di diagnosi di Bulimia nervosa diventando un vero e proprio criterio diagnostico principale. Molti individui con tale diagnosi, mettono in atto diversi metodi tesi a compensare le abbuffate. Il vomito risulta essere quello più comune. Gli effetti immediati del vomito comprendono la riduzione della sensazione di malessere fisico oltre che della paura di aumentare di peso; più raramente il paziente tende a fare uso di emetici. Altre condotte di eliminazione comprendono l’uso improprio di diuretici, lassativi o enteroclismi dopo gli episodi di abbuffata. In rari casi è possibile l’uso concomitante di ormoni tiroidei per accelerare il metabolismo ed evitare l’aumento di peso. Gli individui con diabete mellito insulinodipendente possono ricorrere alla sospensione/riduzione dell’insulina.

Per ciò che riguarda i comportamenti di compenso non eliminativi, è probabile che il paziente ricorra a diete rigide e inflessibili, digiuno o esercizio fisico eccessivo che interferisce con altre attività importanti in ambienti o orari inusuali o in condizioni medico-fisiche precarie (American Psychiatric Association, 2013).

Condotte di eliminazione problematiche mediche associate

L’anoressia nervosa e la bulimia nervosa sono malattie psichiatriche che creano gravi conseguenze mediche e mortalità (Sullivan 1995). L’anoressia nervosa è la malattia psichiatrica con il più alto tasso di mortalità. Anche in pazienti affetti da bulimia si riscontra un tasso di mortalità elevato (Crow et al.,2009). Sia nell’anoressia nervosa che nella bulimia nervosa, gran parte dell’aumento del tasso di mortalità, è attribuibile alle complicazioni mediche inerenti a queste due malattie.

Complicanze mediche del vomito auto-indotto

Con il vomito autoindotto le complicanze possono essere suddivise tra gli effetti avversi locali del vomito, e le anomalie delle basi elettrolitiche acide che possono derivare quando questo comportamento diventa estremo. Il vomito eccessivo può portare a un persistente reflusso acido gastrico che porta a disfagia (difficoltà di deglutizione) e dispepsia (difficoltà digestive). A ciò si aggiunge epistassi (sanguinamento nasale)  e perimolisi  che si riferisce all’erosione della dentina e dello smalto dei denti a causa dell’esposizione ripetuta all’acido dello stomaco (Uhlen el al.,2014). L’ingrossamento della ghiandola parotide è una caratteristica comune del vomito autoindotto (Coleman et al.,1998); solitamente si sviluppa 3-4 giorni dopo la cessazione del vomito cronico ed è frequentemente notato e riportato come problematico dai pazienti la cui attenzione sull’immagine corporea è enfatizzata. Le complicanze mediche più pericolose del vomito autoindotto riguardano i cambiamenti elettrolitici. Tali squilibri sono gli stessi che si verificano con l’abuso di diuretici, ma in generale quelle riscontrate con il vomito autoindotto sono maggiormente problematiche. Quando l’equilibrio idro-elettrolitico o acido-base si altera, possono insorgere diversi disturbi che comprendono un malfunzionamento di reni, cuore, fegato e polmoni, disidratazione o iperidratazione (Westmoreland et al., 2016). Inoltre l’uso cronico di emetici, vista la cardio tossicità, può causare una cardiomiopatia irreversibile (Silbert, 2005).

Abuso di lassativi

L’abuso di lassativi è l’altra principale modalità di eliminazione. Tale condotta provoca effetti avversi gastrointestinali locali tra cui prolasso rettale, diarrea, emorroidi ed ematochezia (feci con tracce di sangue) (Xing et al.,2001) (Malik et al.,1997). Una delle complicanze finali e maggiormente grave dell’abuso di lassativi è la sindrome catartica del colon: è noto come i lassativi abbiano un effetto diretto sulla stimolazione della peristalsi del colon e sui plessi nervosi associati, un uso cronico di lassativi porterebbe a danni a carico di questi plessi nervosi creando un effetto rebound di stitichezza grave che potrebbe addirittura richiedere una colectomia (rimozione totale o parziale del colon). (Müller-Lissner,1996).

Neuroimaging e condotte di eliminazione

Per neuroimmaging si intende l’uso di tecnologie avanzate che sono in grado di individuare e studiare l’attività di determinate aree cerebrali e specifiche funzioni.

I disturbi dell’alimentazione sono stati ampiamente indagati in tal senso, con una complessa ed ampia letteratura che ha analizzato circuiti e sistemi neurotrasmettitoriali implicati.

Da una recente revisione ad opera dell’Università della California (Frank, 2019) emerge come la restrizione alimentare e i comportamenti di abbuffata e di eliminazione sono associati ad uno spessore corticale più basso, che tende a normalizzarsi a seguito dell’interruzione di tali comportamenti ed al recupero del peso.

A tal proposito studi sulla struttura cerebrale, uno di Westwater (2018) e l’altro di Berner (2018), hanno scoperto che una maggiore frequenza di abbuffate e comportamenti di eliminazione era associata a uno spessore corticale inferiore nelle cortecce frontali, parietali o cingolate. Questi risultati hanno evidenziato che non solo la restrizione alimentare, ma anche le abbuffate e le condotte di eliminazione possono alterare direttamente la struttura cerebrale.

In particolare, da quanto emerso dal primo studio, pare che una maggiore gravità della sintomatologia bulimica (indagata con un questionario specifico per la gravità del disturbo), si associ ad un ridotto spessore corticale nella regioni orbitofrontale e temporoparietali; i risultati rappresentano la prima evidenza di assottigliamento corticale correlato ai sintomi cognitivi della Bulimia nervosa (Westwater et al.,2018).

In parallelo, l’analisi esplorativa del secondo studio in esame, ha evidenziato come ci sia un associazione tra frequenza di abbuffate e condotte di eliminazione, cronicizzate nel tempo, ed inferiore spessore corticale nelle reti di controllo attenzionale ed inibitorie. Gli autori quindi evidenziano come le anomalie strutturali nelle regioni fronto-parietali e cingolate posteriori, che comprendono i circuiti che supportano i suddetti processi, dovrebbero essere studiate come potenziali contributori al mantenimento della bulimia nervosa e utili bersagli per nuovi interventi (Berner et al., 2018).

Trattamento dei disturbi dell’alimentazione e delle condotte di eliminazione

Il trattamento dei disturbi dell’alimentazione prevede un approccio integrato e multidisciplinare. Secondo quanto precedentemente argomentato, le implicazioni psicologiche, mediche ed alimentari sono articolate e concatenate; si rende, quindi, necessaria la collaborazione tra diverse figure professionali in modo integrato.

L’approccio cognitivo-comportamentale prevede protocolli di intervento che hanno dimostrato efficacia scientifica.

Uno dei protocolli maggiormente utilizzati risulta essere la CBT-E cui si rimanda articolo

Per ciò che riguarda le condotte di eliminazione, durante il trattamento il terapeuta indicherà strategie ed accorgimenti che avranno lo scopo di ridurre la frequenza al fine di limitare i fattori di mantenimento del disturbo alimentare e le complicanze mediche associate. È perciò fondamentale agire sulla collaborazione e motivazione all’astensione di tali comportamenti.

 


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Disturbi parafilici a causa iatrogena in pazienti con malattia di Parkinson: difficoltà, sofferenze e ripercussioni sul paziente, sui familiari e sull’ambiente – FluIDsex

Sebbene la terapia dopaminergica abbia migliorato notevolmente la qualità della vita dei pazienti con Parkinson, non sono rari gli effetti collaterali correlati, tra i quali l’insorgenza di disturbi parafilici. La presenza di pensieri e disturbi parafilici viene spesso sottovalutata o considerata solo come un’osservazione aneddotica.

 

La malattia di Parkinson è un disturbo neurodegenerativo che generalmente si presenta con sintomi correlati a bradicinesia asimmetrica, tremore, rigidità e instabilità posturale (Ali & Morris, 2014; Postuma et al., 2015), ma anche con altri sintomi non motori come disturbi reumatologici, neurologici, del sonno, dell’umore e disturbi relativi al comportamento sessuale (Campo Arias et al., 2018), che possono complicare la prognosi e impattare in modo significativo sulla qualità della vita della persona che ne soffre.

Sebbene sia un fatto innegabile che la terapia dopaminergica abbia migliorato notevolmente la qualità della vita dei pazienti affetti da malattia di Parkinson, non sono rari gli eventi avversi correlati ai farmaci dopaminergici (Cannas et al., 2006), tra le quali una serie di manifestazioni sessuali anormali come l’ipersessualità (Codling et al., 2015) e i disturbi parafilici (Riley, 2002; Campo Arias et al., 2018). Negli ultimi anni si è osservato che la terapia sostitutiva della dopamina è in grado di comportare lo sviluppo o il peggioramento di disturbi specifici del controllo degli impulsi che vanno dal gioco d’azzardo patologico o dallo shopping compulsivo (Nakum & Cavanna, 2016). Nonostante queste siano problematiche che si possono manifestare comunemente nei pazienti parkinsoniani sottoposti a trattamento dopaminergico, la presenza di pensieri e disturbi parafilici viene spesso sottovalutata o considerata solo come un’osservazione aneddotica (Cannas et al., 2006; Solla et al., 2012). Il più delle volte la mancata individuazione di questi disturbi è dovuta anche al fatto che spesso questi comportamenti sessuali non convenzionali si verificano principalmente in ambito familiare, dove sia il paziente sia le persone ad esso vicine non informano adeguatamente il personale medico per il forte senso di vergogna provato, per la natura stigmatizzante di questi disturbi  (Cannas et al., 2006), ma anche per l’incapacità di riconoscere le caratteristiche tipiche di disturbi parafilici.

Ad oggi, le parafilie vengono descritte dall’American Psychiatric Association come qualsiasi interesse sessuale, intenso e persistente, diverso dall’interesse sessuale per la stimolazione genitale o i preliminari sessuali con partner umani fenotipicamente normali, fisicamente maturi e consenzienti (American Psychiatric Association, 2013). Questo prevede la classificazione delle parafilie come comportamenti atipici, ma non intrinsecamente patologici, differenziandole dai disturbi parafilici, in cui la presenza di pensieri parafilici e interessi sessuali non convenzionali comportano disagio, menomazione o danno psicologico e fisico, sia al paziente sia alle persone vicino ad esso (American Psychiatric Association, 2013; Solla et al., 2015). Diversi studi documentano come disturbi parafilici e comportamenti sessuali devianti possono emergere come conseguenze iatrogene rare nei pazienti con malattia di Parkinson (Solla et al., 2015). Questi comportamenti possono includere comportamenti o disturbi parafilici come esibizionismo, frotteurismo, pedofilia, masochismo sessuale, travestitismo e voyeurismo, che possono comportare ripercussioni sociali, legali, disagio e vergogna per il paziente e la sua famiglia, già colpiti da una malattia molto debilitante come il Parkinson (Solla et al., 2015; Nakum & Cavanna, 2016). In genere questi disturbi si sviluppano in giovani pazienti di sesso maschile, con esordio precoce della malattia di Parkinson e precedente storia di problemi comportamentali, dopo circa 10 anni dall’esordio della malattia, in uno stadio in cui le complicanze motorie e di deambulazione si fanno più marcate e, quindi, possono richiedere dosi più elevate di farmaci dopaminergici (Cannas et al., 2006; Solla et al., 2015). L’effetto stimolante della terapia dopaminergica sul comportamento sessuale è stato descritto in diversi studi, che suggeriscono che i comportamenti parafilici possano essere innescati da stati di eccessiva attivazione dei recettori dopaminergici, conseguenti a dosi molto elevate di farmaci dopaminergici (Kafka, 2003; Cannas et al., 2006; Cannas et al., 2007). In questi casi, la gravità e la pervasività dei sintomi e dei comportamenti parafilici, associati ai farmaci dopaminergici, è stata attenuata riducendo gradualmente il dosaggio dei farmaci o utilizzando antagonisti dopaminergici (Riley, 2002; Solla et al., 2015), oppure, in caso di non successo, riducendo sia il dosaggio sia aggiungendo un farmaco antipsicotico, come la Clozipina (Cannes, 2007; Basile Fasolo et al., 2008). Tuttavia, l’effetto collaterale di questo intervento comporta l’aggravamento delle manifestazioni legate alla malattia di Parkinson, soprattutto quelle motorie e di deambulazione (Solla et al., 2015).

Sebbene la relazione tra la stimolazione dopaminergica anomala e la regolazione del comportamento e degli impulsi sia piuttosto complessa, l’ipersessualità e le parafilie sembrano essere delle espressioni fenotipiche che si rifanno ad un unico processo fisiopatologico comune; ad oggi, alcuni autori, tra cui  Voon e collaboratori (2006), hanno incluso comportamenti parafilici nello spettro dell’ipersessualità patologica associata al trattamento della malattia di Parkinson, poiché sia l’ipersessualità sia le parafilie sembrano essere manifestazioni associate ai farmaci agonisti della dopamina, suggerendo che, in alcuni individui, le parafilie possono insorgere come fenomeni di un disturbo di impulsività sottostante caratterizzato da compulsività sessuale e ipersessualità (Voon et al., 2006; Solla et al., 2015).

I disturbi parafilici che si potrebbero sviluppare a seguito di una terapia dopaminergica possono portare a mettere in atto comportamenti dannosi contro sé stessi, il proprio partner o altri, sfociando talvolta in comportamenti perseguibili penalmente (Solla et al., 2015); infatti, una vasta gamma di rapporti evidenzia le conseguenze psicologiche, sociali, ma anche legali potenzialmente devastanti di questi disturbi, che possono includere comportamenti pedofili, frotteuristici ed esibizionistici (Mendez & Shapira, 2011). Quindi, in questi casi sarebbe opportuno capire se questi individui affetti da malattia di Parkinson che mettono in atto comportamenti criminali, debbano essere considerati responsabili o meno di questi (Berger et. al, 2003; Solla et al., 2015); in particolare, soprattutto per i pazienti che sperimentano questo comportamento come un’esperienza spiacevole e come un incidente iatrogeno non intenzionale, diventa molto importante documentare in modo dettagliato e approfondito tutte le manifestazioni e sintomi dei disturbi parafilici che la persona sviluppa, così da poter fornire un adeguata correlazione tra i comportamenti manifestati, i farmaci antiparkinsoniani assunti, lo stato cognitivo e le facoltà mentali della persona, qualora essa, anche non volontariamente, avesse compiuto un comportamento punibile penalmente (Houeto et al., 2002; Berger et. al, 2003; Cannas et al., 2006).

La presenza di qualsiasi segnale premorboso che possa identificare o permettere una corretta diagnosi di questi disturbi parafilici legati alla malattia di Parkinson, dovrebbe essere adeguatamente studiata e monitorata sin dalle prime fasi della malattia. Una volta che vengono individuati pensieri o caratteristiche tipiche di un disturbo parafilico in pazienti parkinsoniani soggetti a terapia dopaminergica, è opportuno prendere in considerazione aggiustamenti del dosaggio dei farmaci (Cannas et al., 2007; Solla et al., 2015; Nakum & Cavanna, 2016). Inoltre, sin dalla pressa in carico del paziente, è importante che sia la persona che i famigliari siano accuratamente informati in merito alla possibilità di eventi avversi dovuti alla terapia dopaminergica (Evans et al., 2005), così da poter anch’essi riconoscere e segnalare eventuali manifestazioni disfunzionali.

La frequente osservazione di questi disturbi in pazienti parkinsoniani suggerisce la necessità di ulteriori studi per approfondire le conoscenze su questo fenomeno e individuare strumenti diagnostici più adeguati per effettuare una  corretta diagnosi precoce dei comportamenti parafilici in pazienti con malattia di Parkinson, che permettano di identificare possibili fattori di suscettibilità e di quantificare l’incidenza e la prevalenza di queste problematiche in tutte le popolazioni cliniche trattate con agenti dopaminergici (Solla et al., 2015; Nakum & Cavanna, 2016).

 


 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Lo studente strategico. Come risolvere rapidamente i problemi di studio (2017) di Alessandro Bartoletti – Recensione del libro

Lo studente strategico, di Alessandro Bartoletti, psicologo e psicoterapeuta, affronta un tema molto diffuso ma di cui spesso si parla poco o in merito al quale si offrono pochi spunti pratici e concreti.

 

Un testo ricco, in grado di spaziare dalla teoria alla pratica, capace di presentarsi in modo semplice, in grado di offrire un’ampia panoramica sulle strategie disfunzionali agite nell’approccio allo studio dalle varie figure coinvolte, includendo e spaziando dallo scolaro, allo studente liceale o universitario, dai genitori agli insegnanti.

Dinamiche queste, attentamente approfondite tra i vari capitoli del testo, responsabili poi del famoso blocco dello studente.

Ma l’aspetto interessante del libro è, a mio avviso, l’identikit offerto delle differenti forme di blocco e di studenti, che consentono al lettore di potersi riconoscere.

Vediamone alcuni insieme:

  • Lo studente incatenato, dove più ci si impone di studiare più ci si blocca;
  • Lo studente perfezionista, dove l’eccesso di controllo e perfezionismo interferisce con la reale performance;
  • Lo studente terrorizzato e lo studente presunto incapace, dove l’emozione predominante è la paura di fallire o l’errata credenza di esserlo già, spesso virando verso l’arresa e l’abbandono dello studio.

Segue anche un’attenta descrizione delle tentate soluzioni e stratagemmi che vengono messi in atto, peggiorando il problema. Anche in questo caso ve ne ripropongo alcuni:

  • L’iperanaliticità;
  • L’intesificazione dello sforzo;
  • Il mettersi costantemente alla prova;
  • Lo studio disorganizzato;
  • La condivisione esasperata delle proprie difficoltà nello studio agli altri;
  • Lo studio dell’ultima ora;
  • L’evitamento;
  • L’uso di sostante dopanti usate come stampella, che, come ricorda l’autore, aiutano soltanto a zoppicare meglio;
  • La rinuncia.

Ad ognuna di queste tentate soluzioni fallimentari corrispondono altrettanti riferimenti a casi clinici e relative prescrizioni e soluzioni proposte per favorire lo sblocco.

Altrettanto interessanti, la sezione dedicata al ruolo della famiglia e degli insegnanti nel contribuire, spesso involontariamente ed ignari dell’effetto, allo sviluppo di un problema di studio del bambino e dell’adolescente.

Per ciò che riguarda il genitori, vengono descritti dall’autore tre modelli di intervento genitoriale come il genitore criticista, il genitore permissivo ed il genitore iper-coinvolto, approfonditi e descritti nei loro effetti sui figli, così come l’approfondimento degli stili degli insegnanti con relative possibili conseguenze.

Circa quest’ultimo aspetto basti pensare al famoso Effetto Pigmalione, dove come già evidenziato da Rosenthal e Jacobson nel 1968, le aspettative dell’insegnante influenzano il comportamento dell’allievo (ma attenzione! Queste funzionano tanto in positivo che in negativo).

Anche in questo caso vengono offerte al lettore suggerimenti e manovre terapeutiche volte ad interrompere le tentate soluzioni dei genitori così come degli insegnanti.

Un testo che va letto e riletto, compreso ed attuato, utile al giovane in preda al blocco così come al genitore in crisi per l’approccio ai compiti del figlio, arricchente sia per l’insegnante che per lo psicologo, un testo che oltre a suggerire come sbloccare il blocco, consente a mio avviso di uscire dall’approccio allo studio come obbligo e riconquistare la dimensione del piacere!

 

Quali sono i fattori che possono impedire di avere una relazione sentimentale duratura?

Mantenere una relazione intima è impegnativo e molte persone riscontrano difficoltà nel farlo. Nella ricerca di Apostolou e Wang del 2020, gli autori hanno tentato di identificare queste difficoltà nel contesto di un quadro teorico evolutivo. 

 

In effetti, oltre alla rottura di relazioni di fidanzamento, in diverse società il divorzio è diventato sempre più comune; ad esempio, nelle società occidentali è stato stimato che un matrimonio su due terminerebbe con il divorzio (Cherlin, 2009). In particolare, alcuni studi hanno scoperto che i predittori della dissoluzione del matrimonio includerebbero violenza domestica, conflitti, infedeltà, debole impegno nella coppia e bassi livelli di amore e fiducia tra i coniugi (Clements et al., 2004; DeMaris, 2000; Gottman & Levenson, 2000).

Nella ricerca di Apostolou e Wang del 2020, gli autori hanno tentato di identificare queste difficoltà nel contesto di un quadro teorico evolutivo. Più specificamente, utilizzando una combinazione di metodi di ricerca qualitativa in un campione di 163 partecipanti di lingua greca, hanno identificato 78 tipologie di difficoltà differenti. Gli sperimentatori hanno quindi raggruppato queste difficoltà in 12 cluster più ampi e generici, quali:

  • Progressiva mancanza di entusiasmo
  • Molto tempo al lavoro
  • Mancanza di tempo e spazio personale
  • Problemi caratteriali
  • Morbosità o eccessiva vicinanza
  • Scarsa qualità dell’attività sessuale
  • Infedeltà e abusi
  • Presenza di bambini
  • Mancanza di impegno
  • Problematiche sociali
  • Non monogamia
  • Problemi comportamentali (Apostolou & Wang, 2020).

Tra questi, il fattore più importante è stato “Progressiva mancanza di entusiasmo”, seguito da “Molto tempo al lavoro” e “Mancanza di tempo e spazio personale”. Quasi il 70% dei partecipanti ha indicato almeno un fattore come responsabile della difficoltà nel sostenere una lunga relazione, e il 41% ha indicato che tre o più fattori hanno rappresentato degli ostacoli nella prosecuzione del rapporto. Sono stati riscontrati effetti significativi che implicavano il coinvolgimento delle variabili genere, età e numero di figli.

È probabile che la discrepanza tra condizioni sentimentali passate e moderne spieghi molti dei fattori che sono emersi. Facendo riferimento al primo fattore emerso, nelle epoche passate, l’entusiasmo e gli intensi sentimenti romantici motivavano le persone ad avviare una relazione, ed erano spesso rinnovati man mano che la relazione progrediva. Oggigiorno, invece, il mantenimento di una relazione è incentivato da benefici di sostegno, protezione e sussistenza. L’assenza di questi fattori nel contesto moderno può affievolire l’entusiasmo ed i sentimenti romantici.

Attualmente, altri fattori che possono compromettere il mantenimento di una storia romantica sono rappresentati dal fatto che molte persone non siano gentili ed accomodanti, ma egoiste, insicure, morbose o aggressive, tratti che possono compromettere la capacità di mantenere una relazione intima. Ad esempio, essere fisicamente aggressivi non è tollerato nel contesto odierno, in cui i diritti individuali sono ben protetti e le donne non dipendono dai loro partner: in un contesto di violenza molto probabilmente ci si allontanerebbe da un partner violento.

I fattori che gli autori hanno identificato nel presente studio riflettono anche il conflitto tra i sessi. Ne è un esempio la dicitura “Infedeltà e abuso”, in cui l’essere fisicamente violento è congiunto allo stesso fattore dell’infedeltà. Una possibile spiegazione è che l’infedeltà maschile può essere associata all’aggressione fisica, strategia che in un contesto ancestrale avrebbe potuto impedire alle donne di allontanarsi dai loro partner infedeli. Il conflitto tra i sessi si riflette anche in fattori come “Molto tempo al lavoro”: lavorare per molte ore potrebbe comportare l’essere più ricchi e l’avere maggior successo, elementi che potrebbero consentire agli individui, in particolare agli uomini, di attrarre un numero maggiore di partner occasionali.

Sono stati trovati effetti significativi sull’età in diversi fattori, primo tra tutti “Scarsa qualità dell’attività sessuale”. In questo item i partecipanti più anziani hanno assegnato punteggi più alti rispetto ai soggetti più giovani. Una possibile spiegazione è che più tempo le persone trascorrono in una relazione, più è probabile che si annoino ad avere rapporti intimi con lo stesso partner. L’età in questo caso probabilmente agisce come un indicatore della durata della relazione.

Per ciò che concerne l’incidenza che la prole può avere nella relazione sentimentale genitoriale, è importante considerare che nelle società passate gli individui vivevano in famiglie allargate, il che significava avere molte persone intorno disposte ad aiutarli a crescere i loro figli (Hrdy, 2008). A differenza di allora, nelle società postindustriali le persone vivono solitamente da sole, lontane dalle loro famiglie, con la conseguenza di dover sopportare da sole la maggior parte delle richieste che implica crescere i propri figli. Ciò rappresenta un’altra motivazione relativa a difficoltà nel mantenimento di una relazione intima.

La pletora di ragioni e fattori che gli autori hanno individuato nella ricerca attuale testimonia la complessità del fenomeno in oggetto, motivo per cui sarebbe auspicabile che tale fenomeno venga approfondito ulteriormente in ricerche future. Alla luce dei dati che possediamo attualmente, possiamo considerare non facile portare avanti una relazione di lunga durata nel 2021. Qualora si fosse intenzionati a proseguire un rapporto sentimentale nonostante le difficoltà, rimane aperta la possibilità di lavorare sul miglioramento, sulla modifica, e sull’accettazione dei fattori scatenanti riportati. Ciò potrebbe permettere di arginare alcune problematiche sentimentali: se ne vale la pena, non resta che accettare la sfida!

 

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