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Energy drink e depressione nei giovani adulti

Uno studio ha cercato una correlazione tra la capacità dei giovani di gestire lo stress attraverso le proprie risorse interne, la depressione e il consumo di energy drink.

Livia Costa – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Le bevande analcoliche ad alto contenuto di caffeina sono comparse in Europa e in Asia negli anni ’60 e poi con l’introduzione della Red Bull in Austria nel 1987, la bevanda che “mette le ali”.

Successivamente in Nord America nel 1997 la diffusione di queste bevande è cresciuta in modo esponenziale, diventando un mercato multimiliardario.

Quello che colpisce è che negli ultimi anni il consumo di queste bevande è aumentato significativamente tra adolescenti e giovani adulti, e questo è quanto emerso da studi e sondaggi effettuati in diversi paesi.

Un sondaggio rappresentativo in Australia ha dimostrato che le popolazioni delle scuole elementari e superiori consumano quantità significative di bevande contenenti caffeina, compresi gli energy drink. La prevalenza del consumo di bevande energetiche è aumentata negli ultimi 10-15 anni anche in altri paesi, come in Ungheria, Regno Unito e Stati uniti. Secondo un’indagine europea su 16 Stati membri, tra cui Romania e Ungheria, il 30% degli adulti (18-68 anni) e il 68% degli adolescenti (10-18 anni) intervistati erano consumatori di bevande energetiche.

Nel Regno Unito, il tasso di consumo degli energy drink è cresciuto del 155% tra il 2006 e il 2014 e, negli Stati Uniti, le bevande energetiche sono i secondi integratori alimentari più utilizzati dai giovani; da un ampio campione preso in esame è emerso che il 30% degli studenti delle scuole superiori ammette di essere un consumatore abituale, ed esiste una correlazione con il consumo di alcol e l’abuso di droghe.

Cerchiamo quindi di capire quale è il reale effetto del consumo di questi prodotti e se esiste un’associazione tra il consumo di queste bevante e salute mentale.

Le bevande energetiche, disponibili in commercio, sono un gruppo di bevande che solitamente sono gassate, contengono caffeina, taurina, zuccheri, carboidrati, vitamine, amminoacidi ed altri componenti derivati da erbe medicinali.

Gli effetti favorevoli degli energy drink dipendono dalle combinazioni di questi ingredienti che variano in questi prodotti sia in presenza che in concentrazione.

A seguito dell’incremento del consumo di bevande energetiche rilevato negli ultimi 10-15 anni, uno studio effettuato in Ungheria ha valutato la frequenza, le motivazioni e gli effetti negativi del consumo di bevande energetiche ed ha esaminato come lo sviluppo di una dipendenza in tal senso sia collegato alla capacità di fronteggiare lo stress e ai sintomi della depressione.

Questo studio ha cercato quindi una correlazione tra la capacità dei giovani di gestire lo stress attraverso le proprie risorse interne, la depressione e il consumo di bevande energizzanti.

A tale scopo sono stati presi in esame 631 studenti delle scuole superiori e dei college, valutati utilizzando la Depression Scale (BDS-13) e la Sense of Coherence Scale (SOC-13).

Le motivazioni più comuni al consumo di queste bevande sono risultate legate alla fatica, al gusto e al divertimento.

Dall’analisi dei risultati è, inoltre, emerso che negli intervistati la tendenza alla depressione aveva un’influenza significativa sulle probabilità di sviluppare una dipendenza. Capiremo più avanti come questo possa avvenire.

Difatti la depressione, al contrario di quanto si possa immaginare, è un disturbo molto comune nella popolazione universitaria e negli studenti in generale ed ha ha un impatto significativo sulla percezione che si ha di sé, sul rendimento scolastico e sulla capacità di relazionarsi positivamente con i coetanei.

Questo disturbo è correlato ad un basso livello di autostima e ad un alto rischio suicidario e, sebbene la depressione rappresenti un nemico pericolosissimo ed una grave minaccia tra i giovani, spesso questi non sono spinti a cercare cure e non le richiedono, pur provando un grande disagio nella loro vita quotidiana.

I sintomi sperimentati possono riguardare alterazioni del sonno, affaticamento, difficoltà nel concentrarsi e possono variare sensibilmente. Spesso questi sintomi possono essere celati e presentarsi in modalità subdola, conducendo come abbiamo visto anche al suicidio.

Questo è uno dei motivi per i quali è importantissimo saper riconoscere i sintomi depressivi quando sono lievi, in modo da poter mettere a punto un intervento precoce.

Per riuscire a comprendere meglio questo disturbo bisogna avere chiaro che l’autostima gioca un ruolo importantissimo, rappresentando in alcuni casi un grosso fattore di rischio nello sviluppo di un disturbo depressivo.

Ma come si definisce l’autostima? L’autostima può essere definita come un processo soggettivo attraverso il quale l’individio dà valore alla propria persona sulla base della percezione che questi ha di sé e sulla base di  proprie valutazioni. L’autostima influenza a sua volta le interazioni, i sentimenti verso se stessi e gli altri. Capiamo quindi facilmente quanto nella giovane età l’efficacia interpersonale e il successo sociale giochino quindi un ruolo importantissimo nello sviluppo di una buona autostima.

Prendendo in esame alcuni dati della letteratura scientifica al momento disponibili, derivanti sia dai trial clinici che dalle ricerche farmacologiche, cerchiamo quindi di capire se il consumo di caffeina, componente centrale degli energy drink, rappresenti un tentativo di “automedicazione” del paziente con depressione del tono dell’umore finalizzato ad alleviare la sofferenza soggettiva e le alterazioni di funzionamento che il suo disturbo comporta.

I disturbi depressivi cronici sono collocabili lungo un continuum che va dal temperamento depressivo alla depressione maggiore cronica passando per il disturbo distimico. Questi disturbi presentano alti tassi di comorbilità con i disturbi da abuso di sostanze, tuttavia, non sempre è così semplice comprendere se i comportamenti d’abuso costituiscano semplicemente dei tentativi di autoterapia o siano la conseguenza della concomitanza di due distinte patologie, data la difficoltà a separare i sintomi della patologia dell’umore da quelli attribuibili all’abuso di sostanze psicoattive, e di ordine metodologico generale.

Bisogna, infatti, tener presente che l’abuso di sostanze psicoattive spesso comporta, anche nei soggetti senza precedenti disturbi psicopatologici, cambiamenti nella sfera affettiva, cognitiva e comportamentale sovrapponibili a quelli che si riscontrano nei disturbi dell’umore.

Rimane un dato chiaro in tutto ciò: i ragazzi tra i 12 e i 17 anni sono tra i più importanti consumatori di caffeina e ancor più che per altre sostanze d’abuso, evidenze della letteratura scientifica sottolineano come la caffeina, principale ingrediente degli energy drink, sia utilizzata a scopo auto terapeutico nei pazienti con umore depresso.

La caffeina è ampiamente disponibile, abbondantemente presente sul mercato, ed è riconosciuta come stimolante socialmente accettabile. Essa rappresenta un rimedio particolarmente ricercato dai soggetti che cercano un sollievo dalla fatica quotidiana o da sentimenti negativi di inadeguatezza e di difficoltà di rendimento sul piano prestazionale: può interagire positivamente con aspetti clinici quali l’attenzione, l’arousal (determinando minor sonnolenza e maggior attivazione), diminuendo i tempi di reazione, migliorando le performance psicomotorie e le sensazioni di benessere soggettivo e di energia.

Da un punto di vista farmacologico non sono noti i meccanismi neurobiologici responsabili di tali effetti clinici: l’ipotesi principale è legata alla modulazione della trasmissione dopaminergica per azione sui recettori A2A, ma l’effetto dell’antagonismo dell’adenosina potrebbe implicare anche meccanismi non dopaminergici, come la modulazione del rilascio di acetilcolina e serotonina.

Potremmo concludere che, sebbene il consumo di caffeina sia moderatamente associato ad un certo numero di disturbi psichiatrici, le relazioni sembrano non essere causali e le discrepanze nella letteratura sono abbastanza frequenti.

Alcuni studi hanno osservato anche degli effetti positivi: per esempio, è stato dimostrato che basse dosi di caffeina hanno effetti benefici sull’umore.

Ma quanto è importante il dosaggio in tutto ciò e in che modo i consumatori differiscono dai non consumatori?

L’evidenza suggerisce che effetti negativi o positivi siano determinati dal dosaggio consumato. Sembrerebbe che nei limiti di una certa dose (250 mg) si aumenti l’euforia, mentre una dose eccessiva (500 mg) porti ad un aumento dell’irritabilità.

Ad esempio, in uno studio sul consumo quotidiano di caffeina effettuato tra studenti di psicologia è emerso che i tratti di ansia e depressione erano più alti nei consumatori abituali rispetto agli astemi.

Nonostante sia stata presa in considerazione l’idea che l’uso di bevande energetiche possa causare problemi comportamentali e un impatto negativo sulla salute mentale, è preoccupante scoprire che questi prodotti sono spesso commercializzati in modo aggressivo tra i giovani.

Mescolare gli ED con l’alcol è un’abitudine popolare tra gli adolescenti e tra gli studenti universitari, che si abbina spesso ad  ulteriori comportamenti ad alto rischio come il consumo eccessivo di alcol, il fumo e l’abuso di droghe.

C’è anche chi ha sottolineato acome in realtà i componenti presenti in queste bevande siano stati utilizzati per scopi medicinali in alcuni paesi come il Brasile da centinaia di anni.

Anche nell’ambito doppia diagnosi distimia-disturbo da abuso di sostanze, l’aumentato consumo di caffeina ha dimostrato avere effetti prognostici positivi. Se da una parte la concomitanza della distimia determina esposizione a più droghe rispetto alla sola diagnosi di disturbo da abuso di sostanze, un precoce ed elevato utilizzo di caffeina correla con una “più breve carriera” da abuo di cocaina, amfetamine, oppiacei e cannabis.

Dall’altra parte, bisogna considerare anche gli effetti della caffeina su importanti aspetti psicopatologici dei disturbi depressivi, quali i sintomi d’ansia frequentemente in comorbilità con la deflessione del tono dell’umore, e i disturbi del sonno che spesso possono precederla.

Per quanto riguarda i disturbi d’ansia, e disturbi di panico in particolare, le evidenze scientifiche sottolineano un significativo incremento della quota di ansia percepita, nervosismo, paura, nausea, palpitazioni, irrequietezza e tremori.

In merito ai disturbi del sonno come insonnia e ipersonnia, i risvegli notturni, la sonnolenza giornaliera e l’inversione del ritmo circadiano sonno-veglia, sono stati osservati dei peggioramenti, soprattutto nei soggetti più govani, della qualità e quantità del sonno e problemi correlati alla sonnolenza rispetto ai coetanei che non assumono caffè.

Occorre, infine, considerare, come suggeriscono diversi studiosi la possibilità di viraggi ipomaniacali nell’ambito del disturbo distimico e delle altre forme depressive croniche, come la depressione maggiore cronica e le sindromi depressive residue. Questi disturbi mostrerebbero infatti ampie aree di sovrapposizione con lo spettro bipolare in termini di familiarità, temperamento premorboso e decorso. Non è pertanto da escludere che un consumo aumentato di psicostimolanti, come la caffeina appunto, possa scatenare una sintomatologia contropolare.

È infatti dimostrato che la caffeina può giocare un ruolo significativo nella regolazione affettiva. La caffeina può contribuire ad arousal, ansia e irritabilità, esacerbando così stati emotivi misti.

I soggetti che si automedicano con la caffeina per incrementare lo stato di vigilanza, esperiscono, successivamente alla sospensione della sostanza, un ritorno all’originale stato di bassa energia, che a sua volta può essere contrastato da un incremento ulteriore del consumo di caffè. Questo ciclo potrebbe contribuire a incrementare stati affettivi misti e i sintomi depressivi stessi.

In conclusione, tenendo conto della variabilità individuale, è possibile tracciare un quadro bifasico e in certa misura dose-dipendente degli effetti psicostimolanti della caffeina.

È senza dubbio intrigante sul piano clinico l’osservazione di come la caffeina, assunta in dosi moderate per lungo tempo, possa correlare con una potenziale riduzione del rischio depressivo nei soggetti sani, e un miglioramento delle performance psicomotorie, della vigilanza e dei livelli di energia nei pazienti depressi. Occorre, d’altra parte, non trascurare gli effetti avversi osservabili in caso di assunzione di alte dosi di caffeina, con peggioramenti dei profili circadiani, dei sintomi d’ansia e degli stati affettivi depressivi/misti.

 

Scendere in Campo: quando lo sport diventa famiglia!

Lo sport, attività agonistica e non, che sin dai tempi antichi, portava grandi flussi di gente a riunirsi in un piazzale, in un campetto, in un anfiteatro, in uno stadio, creando forti emozioni sia in chi si cimentava nella pratica sia in chi rimaneva semplice spettatore.

 

Un mix di sensazioni, interesse e curiosità che pian piano accrescevano fino a diventare pura passione (a volte anche ostentata).

Molte volte non ci si sofferma sull’importanza che lo sport apporta nel contesto sociale e nello sviluppo psicofisico dell’individuo. Un gruppo di coetanei che si incontrano per praticare un’attività condivisa, a volte senza neanche conoscersi nel profondo, senza grande riguardo nei confronti del prossimo, e poi, con il passare dei giorni, l’affrontare sfide uno di fianco all’altro, tra sostegno, autocontrollo e reciprocità, ecco che nasce il vero e unico Gruppo, ciò che utilizzando i termini tecnici del Rugby potremmo definire come ‘Scrum’.

Scrum = mischia.

Amici che insieme si supportano, condividono ideali, conoscono pregi e difetti dei compagni di squadra, mossi tutti da un obiettivo comune:

‘Giocare al massimo delle proprie capacità, non come singolo ma come famiglia per raggiungere la tanto desiderata vittoria!’.

Si sviluppa un ‘pensiero comune’, una spinta intrinseca volta alla messa in atto di azioni e reazioni.

Durante gli allenamenti nasce la vera e propria psicologia del gruppo, che raggiunge il proprio apice nel contesto della partita contro l’avversario. Non esiste più il pensiero o la mossa del singolo componente, esistono i membri, coloro che tramite cooperazione e intesa giocheranno per il raggiungimento della linea di meta (Try).

La collettività nasce sul campo da gioco, si condividono emozioni, successi e fallimenti; si assiste al ciclo di vita di un gruppo non solo dal punto di vista della socializzazione ma anche dal punto di vista emozionale.

Il Captain’s run (ultimo allenamento prima della partita, si fa solitamente sul campo in cui si svolgerà l’incontro) è uno dei tanti contesti in cui si può notare il diffondersi nel gruppo di nuove aspettative, delle ansie prepartita, degli scontri e dei confronti tra coetanei, sensazioni indescrivibili che possono esser considerate il ‘Promoter’ dello spirito ed iniziativa di squadra.

Prendendo in riferimento il linguaggio rugbista si potrebbe attingere all’uso del termine Gain Line, per poter meglio rappresentare l’intero percorso, ossia una linea immaginaria in cui si ricerca il vantaggio, un continuum passante dall’esternalizzazione all’interiorizzazione.

Andare al di là delle proprie capacità e giungere al compimento dell’obiettivo condiviso dal gruppo, per l’appunto il vantaggio.

Dall’unitario al collettivo!

Cooperazione, intesa, reciprocità, rispetto, motivazione, atteggiamento proattivo, condivisione, insight collettivo, interdipendenza, sostegno, fattori quest’ultimi che emergono nel giro di pochi minuti.

In quegli 80’ di gioco, si perde la propria ‘unicità’, ci si allontana dall’identità individuale e si apre la strada all’identità di gruppo.

Ogni componente diventa il tassello di un simbolico puzzle senza il quale non si potrebbe parlare di squadra.

Ognuno ha il proprio ‘pezzo’ di terreno da difendere, non per se stesso ma per il gruppo, un senso di fiducia che non verrà meno al primo errore commesso.

Si perde insieme e/o si vince insieme.

Gli avversari non assumono la vera etimologia del termine con cui vengono ‘etichettati’, ma sono percepiti come dei semplici ostacoli, delle difficoltà che possono essere affrontate solo rimanendo uniti.

Per citare il giornalista sportivo Marco Pastonessi:

Il rugby è una voce del verbo dare. A ogni allenamento, a ogni partita, a ogni placcaggio, a ogni sostegno, dai un po’ di te stesso. […]

In conclusione, il gruppo può esser definito come un ‘Breakdown’, punto d’incontro nel quale ‘’si ferma la palla e si fa mucchio’’.

 

Il “genitore nascosto” nei bambini adottati

Jolowicz (1946, cit. in Bowlby, 1963) ha coniato il termine “genitore nascosto” in riferimento all’influenza esercitata da un genitore con il quale i figli hanno avuto scarsi – o nessun contatto affettivo.

 

È tipico dei bambini approcciarsi alla figura del genitore con intento identificativo, volto ad interiorizzare parti della sua personalità e a renderle proprie. Si tratta di un bisogno evolutivo finalizzato a raggiungere uno stato di consapevolezza a sicurezza, ma anche di un modo per scoprire il Sé e per creare con l’oggetto primario una relazione affettiva stabile e differenziante.

Il frutto di questa interiorizzazione è identificabile nell’Ideale dell’Io, sottodimensione superegoica che indica il modello al quale il bambino guarda con velleità imitativa e che, nella maggior parte dei casi, rappresenta proprio la figura genitoriale (Freud, 1914). Il meccanismo di identificazione col genitore -nello specifico con quello dello stesso sesso- consente di ottenere una certezza circa la propria identità sessuale prima dell’inizio della fase di latenza, e offre al contempo una conferma esistenziale che consente di dirigersi con intento più sicuro nella costruzione del Sé.

Il vuoto affettivo – relazionale nei bambini adottati

Costruire un sano modello identificativo, per un bambino abbandonato dai genitori biologici è ben più complesso. Nel caso di abbandono precoce è infatti probabile che un contatto reale col genitore non sia stato neppure sperimentato, o almeno non in tempo sufficiente per venir elaborato e consolidato dal punto di vista mnestico. L’approccio al genitore è dunque simile ad una fantasia, un’immaginazione, un pensiero senza riscontro empirico.

In casi di abbandono più tardivo, quando le capacità mnestiche si sono adeguatamente strutturate, il compito non si preannuncia meno complesso. Il ricordo dell’abbandono è più reale, vivo e cosciente, e per questo doloroso. Inoltre la figura del genitore biologico può essere legata a vissuti traumatici, cui il bambino ha dovuto far fronte mediante idealizzazioni difensive, dissociazioni, rimozioni volte a negare vissuti di persecuzione e aggressività. Nondimeno, in presenza di abusi, trascuratezza e violenza in un periodo precedente l’adozione, è ben possibile riscontrare lo sviluppo di stili di attaccamento evitante o disorganizzato la cui presenza può replicarsi anche nel successivo rapporto con le famiglie adottive, compromettendone la funzionalità (Rutter,1998).

Quello che per gli altri bambini costituisce il ricordo di un vissuto concreto col genitore biologico, nel caso degli adottati si mostra dunque nel duplice aspetto di un vuoto affettivo o di una dimensione traumatica e deteriorante, che in entrambi i casi rischia di trasformarsi in nell’elemento ostativo di un percorso evolutivo sereno e funzionale.

Il legame col genitore biologico e l’idealizzazione “mortifera” di un dolore abbandonico

Consapevole del rifiuto subito da parte dell’oggetto primario, e tuttavia intenzionato a non riconoscerne l’esistenza per non sentirsi un oggetto rifutato, il bambino preferisce incolpare se stesso dell’abbandono, facendo ricorso al diniego salvifico di una realtà traumatica. Ecco dunque che il vuoto affettivo lasciato dal genitore biologico viene colmato di fantasie preservanti, contaminate da elementi allucinatori e irreali in cui la rabbia sperimentata per l’abbandono viene scotomizzata a favore di un’idealizzazione adorante e devota, in cui il genitore biologico è il solo elemento a non venir distrutto.

È grazie all’idealizzazione che si origina una condizione di pace provvisoria, un compromesso esistenziale attraverso il quale l’IO riesce ad ottenere risposte salienti, per quanto mortifere e autodistruttive.

Una condizione di pensiero prelogico e una minor sopportazione del dolore emotivo-determinate da uno stadio evolutivo immaturo- rendono più probabile l’adozione di meccanismi di difesa idealizzanti, con cui il bambino cerca di fronteggiare l’incapacità rielaborativa dell’abbandono (Nagera, 1970).

Al contempo è noto come il meccanismo idealizzante, tipico di una dimensionalità egoica fragile e poco strutturata, serva a proteggere da vissuti di impotenza e autosvalutazione (Freud, 1936); ma è utile anche ad evacuare vissuti di aggressività inaccettabili verso l’oggetto abbandonico, le cui mancanze vengono così svalutate, minimizzate o del tutto negate. Il pensiero magico svolge in questo caso una funzione assolutoria dell’oggetto d’amore perduto, salvato a dispetto del Sé.

Il “genitore nascosto” nella mente del bambino

Nella dimensione psichica del bambino adottato si verifica un doloroso conflitto di lealtà: il desiderio di rispondere con reciprocità all’amore del genitore adottivo confligge con la consapevolezza che, ove lo facesse, finirebbe col tradire quello biologico, cui sente di appartenere.

Nel tentativo di fronteggiare questo dilemma il bambino si ripara in un rifugio mentale (Steiner, 1993) la cui valenza è da una parte dissociativa- in quanto serve ad allontanarlo da una verità abbandonica inaccettabile- e dall’altra idealizzante, perché necessaria ad ipervalutare un oggetto affettivo rifiutante.

In seguito a questa riparazione il bambino erotizza una pulsione aggressiva idealizzandone il contenuto, e riesce a mantenere un legame libidico con un oggetto primario indispensabile alla sopravvivenza, per quanto rifiutante o mai realmente conosciuto. Se ne origina una sorta di legame fantasticato, tutto costruito nella sua mente, attraverso il quale l’Io riesce ad avvertire la presenza di una figura in realtà assente, riuscendo al contempo a preservarla da ogni contaminazione aggressiva.

Jolowicz (1946, cit. in Bowlby, 1963) ha coniato il termine “genitore nascosto” in riferimento all’influenza esercitata da un genitore con il quale i figli hanno avuto scarsi – o nessun contatto affettivo, e intorno al quale continuano tuttavia ad organizzare molti dei loro pensieri e dei loro schemi affettivi, finendo per idealizzarlo in una relazione mentale segreta. Questa sorta di “genitore nella mente” assume la forma di un fattore psichico non simbolizzato né cognitivamente rielaborato: una sorta di elemento beta, un oggetto ostruente dal quale il bambino non riesce a distaccarsi pur percependone la presenza persecutrice (Bion, 1967).

Il genitore nascosto come lutto non rielaborato: l’ostacolo alla creazione di nuovi legami affettivi

In alcuni casi la creazione di dinamiche familiari flessibili e rassicuranti, all’interno delle famiglie adottive, risulta complicata; la comunicazione viene sostituita da silenzi ed emozioni agite, fraintendimenti che innescano circoli viziosi in grado di ritardare, talvolta di impedire, la costruzione di un legame di attaccamento sicuro.

La motivazione può essere riscontrata nell’ambivalenza affettiva che l’adottato sperimenta nei confronti dei genitori, percependoli da una parte come oggetti affidabili, dall’altra come fonti di tradimento verso il patto inconsciamente stipulato col genitore nascosto.

È quest’ultimo che, con richieste narcisistiche di affetto e lealtà, impedisce la costruzione di nuovi legami e l’evoluzione affettiva dell’IO, tenendo legato il Sé in un crudele legame captativo (Rosenfeld, 1987). Questo elemento psichico persecutorio, presumibilmente, impedirà al bambino di sperimentare un vissuto relazionale attendibile e di costruire un legame duraturo coi genitori adottivi.

Il bambino adottato ha perduto il proprio oggetto d’amore, ed è stato costretto a spezzare vincoli, affettivi e ambientali di vitale importanza per la sopravvivenza del Sé. Il genitore nella mente si pone come primario elemento ostativo alla rielaborazione di questo lutto abbandonico. Il suo tenere legato il bambino ad una fantasia idealizzata alla quale deve amore incondizionato, lo costringe ad un patto di lealtà verso una mera immaginazione, qualcosa che ha soltanto fantasticato per difendersi dal rifiuto e colmare la solitudine.

Un lutto si definisce rielaborato quando l’Io, dopo aver disinvestito ogni legame libidico con l’oggetto perduto, è finalmente libero di investire la pulsione su nuovi oggetti, e quindi di costruire nuovi legami affettivi (Freud, 1917).

Al contrario nel lutto complicato l’Io è vittima di un legame eterno con l’oggetto perduto, che viene introiettato in un’identificazione esclusiva e totalizzante (Freud, 1914): la sua funzione è simile a quella di un Super-Io tirannico che induce sensi di colpa ogni qualvolta il Sé si avvicina ai propri bisogni di dipendenza e di affetto, ammettendo un naturale bisogno di reciprocità e la volontà di costruire nuovi legami (Rosenfeld, 1987). Se ne origina un’autoaggressività persecutoria che costringe a sabotare internamente ogni possibile conato relazionale, appannaggio di una solitudine rabbiosa espressa a mezzo di condotte autopunitive ispirate da un pervasivo odio verso il Sé (Fairbairn, 1946).

È in risposta a questo sabotaggio che il bambino “divorzia” internamente dai propri oggetti buoni, condannandosi ad un’esistenza reietta e solitaria, il cui unico fine è quello di rifiutare, con pervicace aggressività, qualsiasi forma di vicinanza affettiva (Grotstein, 2009).

Così, ogni volta che i genitori adottivi si avvicinano a lui con promesse di amore, l’intento sabotante del Super-Io sadico si pone come unica risposta possibile ad un desiderio d’amore censurato alla stregua di una “colpa”.

La “dissoluzione” del genitore nascosto

La lealtà imposta dal genitore idealizzato non è frutto di un legame affettivo assertivo e reciprocante, ma è il prodotto di una fantasia illusoria, un asservimento unilaterale che impedisce l’evoluzione egoica e il distacco da una fase della vita in cui l’oggetto genitoriale viene vissuto come una parte imprescindibile del Sé. La sua illusoria presenza, ponendosi come frutto di un’idealizzazione difensiva, impedisce anche la creazione di un’ambivalenza in cui la realtà assume caratteristiche di sintesi, e il buono può coesistere col malvagio senza pericolo per la sopravvivenza dell’oggetto.

Solo col dissolvimento dell’idealizzazione il genitore biologico potrà assumere una natura non persecutoria, dando il via alla formazione di un’ambivalenza attraverso la quale sarà possibile riconoscerne le condotte abbandoniche senza sperimentare sensi di colpa.

Dal canto loro i genitori adottivi dovranno sostenere il figlio in questo complesso percorso di ricostruzione affettiva. L’apporto che saranno in grado di fornirgli in termini di empatia, accettazione e vicinanza, si rivelerà un fattore discriminante ai fini del consolidamento di dinamiche relazionali solide e durature, in vista di un funzionale sviluppo socio-emotivo (Juffer e Van Ijzendoorn, 2005).

Il loro affetto, anziché narcisistico e imperante come quello del genitore nascosto, dovrà tuttavia mostrarsi flessibile e paziente, accettando di venir ferito, colpito, talvolta persino distrutto dal Super-Io sadico del bambino: nella consapevolezza che, solo un genitore in grado di rispondere con resilienza a tali attacchi distruttivi verrà percepito come un oggetto capace di amare e di accudire, e al contempo offrirà al figlio la possibilità di vivere fino in fondo le proprie emozioni, acquisendo sulle stesse un’adeguata capacità regolativa  (Winnicott, 1970).

Lealtà affettiva verso il bambino adottato

Per essere definitivamente dissolto nella sua rappresentazione fantasmatica, è necessario che il genitore biologico venga svelato al bambino nella sua oggettività. Anche la psicologia evolutiva sostiene l’opportunità di riferire quante più informazioni possibili sul periodo precedente l’adozione, sull’identità dei genitori biologici, sui traumi subiti, sul lutto abbandonico (Leon, 2002). Naturalmente la rivelazione dovrà essere graduale, congruente allo stato evolutivo del bambino e alle competenze cognitive ed emotive raggiunte, ma è certo che una spiegazione razionale su dimensioni esistenziali così delicate faciliterà il processo interpretativo delle stesse, contribuendo a dissolvere il vissuto autocolpevolizzante e a sviluppare spiegazioni metacognitive e riflessive ben più aderenti alla realtà.

In presenza di dati oggettivi, e dunque di risposte autentiche alle sue domande, il bambino non avvertirà inoltre la necessità di creare informazioni fantasticate, spesso distorte e fuorvianti, con le quali colmare vuoti informativi e contraddizioni circa la sua provenienza. Al contempo si sentirà legittimato a vivere il proprio lutto abbandonico, nella certezza di ricevere un solido supporto emotivo in quest’impresa.

Il bambino che non ottiene risposte, o che non è capace di rielaborare con intento mentalizzante il proprio passato, è anche un bambino privo di strumenti per pianificare il futuro. Per questo sarà importante lavorare con i genitori adottivi ancor più che con il figlio, al fine di fornir loro un supporto emotivo e psicoeducativo che sia in grado di accompagnarli nella costruzione di un modello affettivo stabile e resiliente, in grado di eliminare dai loro bambini un dolore sabotante, il terrore della speranza (Lingiardi e Gazzillo, 2010). E dunque la paura di essere amati.

 

Psicoeducazione di gruppo per il paziente grave. Manuale di intervento sul funzionamento sociale di Popolo e Poliseno – Recensione del libro

Gli autori di Psicoeducazione di gruppo per il paziente grave presentano in questo volume un intervento che prevede 24 sessioni di un’ora e mezzo a cadenza settimanale, per una durata complessiva di 6 mesi, in cui vengono affrontati ed approfonditi 4 moduli.

 

Psicoeducazione di gruppo per il paziente grave. Manuale di intervento sul funzionamento sociale di Popolo e Poliseno è una proposta di terapia gruppale per una popolazione di pazienti molto complessa e allo stesso tempo molto numerosa, di conseguenza difficile da gestire sia da un punto di vista clinico che organizzativo/progettuale, con particolare riferimento al servizio pubblico che, nelle sue diverse sfaccettature, si occupa di salute mentale.

Il volume si apre con la definizione dell’OMS di “salute mentale”, che sottolinea quanto questa sia connotata non solo dall’assenza di malattia, ma dalla presenza di “uno stato di benessere emotivo e psicologico”. La sensazione, leggendo il manuale, è che Popolo e Poliseno abbiano cercato di riempire di contenuti questa distinzione che troppe volte viene percepita come formale e al limite un po’ ipocrita, tra “togliere” qualcosa che non va (la malattia) e “aggiungere” e “ottimizzare” competenze che possono modificare la qualità della vita delle persone. Sia perché a volte non si può ipotizzare in modo idilliaco una guarigione, sia, soprattutto, perché la “guarigione” o il miglioramento sintomatologico sono strettamente legati ad altre componenti della cura che hanno a che fare proprio con le capacità relazionali e di mastery.

Per “pazienti gravi” gli autori guardano a quei pazienti che “pongono difficoltà nella relazione e nell’adesione al trattamento”. Al di là della diagnosi, la gravità viene considerata come “grado di funzionamento interpersonale mostrato dal paziente stesso” e valutata sulla base di diversi assi: quanto e come riesce ad accedere al proprio mondo interno e a quello altrui, a costruire rappresentazioni e ragionarci, a stabilire relazioni costruttive con gli altri tenendosi fuori da cicli interpersonali disfunzionali. I criteri di esclusione dal protocollo di gruppo comprendono il ritardo mentale medio-grave e la dipendenza attiva da sostanze o alcool.

Sembra allora che stiamo parlando di quei pazienti che da una parte faticano ad uscire definitivamente dai percorsi di cura convenzionali, arrivando ad essere considerati in qualche misura cronici, dall’altro, spesso anche alla luce delle proprie difficoltà relazionali, rischiano di “bruciare” gli operatori più in fretta di altri pazienti, arrivando così ad essere contemporaneamente tra i pazienti più bisognosi di aiuto e tra quelli più difficili da aiutare. Ma veniamo al protocollo.

Gli autori hanno previsto 24 sessioni di un’ora e mezzo a cadenza settimanale, per una durata complessiva di 6 mesi, in cui vengono affrontati ed approfonditi 4 moduli. Gli obiettivi della psicoeducazione sono 3: affrontare e discutere il significato personale che il paziente attribuisce alle proprie difficoltà (le credenze soggettive che per lui sono alla base del disturbo); sviluppare un maggior senso di padronanza che consenta, a partire dalle informazioni acquisite, di ottenere un maggiore controllo del proprio disturbo e del proprio funzionamento; proteggere l’autostima del paziente, spesso minacciata dal suo funzionamento e da quello che questo comporta da un punto di vista relazionale e sociale.

Il contesto di gruppo è un setting privilegiato perché consente da una parte il confronto con persone che manifestano difficoltà almeno in parte simili alle proprie, dall’altra una palestra in cui mettere alla prova sia le proprie credenze sia le nuove abilità che si vanno man mano costruendo in un clima di condivisone non giudicante. L’elemento centrale dell’attività sarà infatti non tanto l’informazione appresa, ma il lavoro che questa informazione attiverà all’interno del gruppo.

La conduzione è pensata per due figure: il conduttore e il supervisore. Mentre il primo ha il ruolo più attivo di proporre contenuti, riformularli al termine della sessione e stimolare la partecipazione dei pazienti, il secondo vigila sul funzionamento e sul clima del gruppo, pronto a cogliere e modulare aspetti relazionali che il conduttore potrebbe non cogliere, proprio in quanto parte attiva del contesto di lavoro.

Per quanto riguarda l’organizzazione di ogni seduta, questa è composta da diverse fasi: dopo un primo momento di saluto e di condivisione, il conduttore presenta i contenuti teorici del giorno; questa parte più “pedagogica” viene poi seguita da una discussione libera, in cui viene stimolato il coinvolgimento attivo dei partecipanti chiedendo loro di riportare la propria esperienza personale o riflessioni proprie sul tema proposto. Infine, al termine dell’incontro il conduttore riassume l’argomento trattato rivedendolo alla luce di quanto emerso, integrando alla parte pedagogica i contenuti condivisi dai partecipanti.

I contenuti che gli autori del manuale hanno pensato si possono riassumere in quattro aree tematiche di intervento.

La prima area rappresenta un’introduzione al disagio mentale ed al trattamento e interessa gli aspetti psicopatologici e clinici che influenzano la qualità della vita dei pazienti, con particolare focus sulla sintomatologia depressiva e sui sintomi negativi. Approfondisce aspetti del trattamento farmacologico ed analizza le diverse categorie di farmaci utilizzando un linguaggio non tecnico ma comprensibile e assimilabile dal paziente. Per ciascuna tipologia di farmaco viene descritta la sua natura, le indicazioni, il funzionamento, le avvertenze di uso, gli effetti collaterali e le controindicazioni. All’interno del manuale sono stati inseriti specifici box con proposte di attività di gruppo, utili per una modalità di discussione del tema interattiva e soprattutto calata nel contesto e nella vita dei singoli pazienti.

La seconda area rappresenta un’introduzione al funzionamento mentale e riguarda le funzioni cognitive e metacognitive e il loro ruolo nella quotidianità. È a sua volta composta da cinque sezioni: due per le funzioni cognitive (attenzione e memoria) e tre per le funzioni metacognitive (cognizione sociale, autoriflessività e decentramento). Anche in questo caso, il manuale riporta le sottocategorie specifiche per ogni sezione ed esempi di stralci di sedute che permettono di comprendere in modo concreto come condurre la discussione intorno a questi temi così fondamentali e cruciali per i pazienti con compromissione sintomatologica grave.

La terza area interessa la gestione delle situazioni problematiche. Importante in questo caso sottolineare come le difficoltà non vengano inquadrate in relazione ai disturbi o alle etichette diagnostiche, ma alla luce del paradigma stress-vulnerabilità coping. A sua volta, l’area comprende quattro sezioni: nella prima viene illustrato il concetto di stress, nella seconda il coping, nella terza il problem solving e nella quarta il ciclo interpersonale.

Infine, la quarta ed ultima area riguarda l’elaborazione delle emozioni ed è costituita da quattro sezioni che approfondiscono, rispettivamente, il ruolo svolto dall’emotività, le singole emozioni semplici e complesse, le relazioni che le emozioni hanno con pensieri, immagini mentali e sensazioni e le strategie più funzionali per regolarle. Soprattutto per quanto riguarda questa ultima e importante sezione, il manuale propone diversi box con possibili attività di gruppo mirate ad approfondire la regolazione emotiva e la psicoeducazione in merito.

Infine, il volume si chiude con un’Appendice con materiale psicoeducativo che è possibile utilizzare anche con i pazienti e che introduce in termini molto semplici e comprensibili gli argomenti previsti dal protocollo (funzioni cognitive, metacognitive, il coping, il problem solving, etc.).

A latere, gli autori sottolineano come la presentazione dei diversi argomenti non debba per forza seguire rigidamente l’ordine proposto, ma adattarsi al clima del gruppo ed alle singole situazioni che interessano i partecipanti.

Concludendo, la proposta di Popolo e Poliseno rappresenta una bella sfida, che si propone di utilizzare il setting di gruppo per lavorare con i pazienti proprio sul funzionamento sociale e sulle dimensioni ad esso propedeutiche, come la metacognizione e la regolazione delle emozioni. Un bel presupposto e un bel messaggio per una popolazione di pazienti spesso lasciata indietro dai progetti di cura e dai protocolli sperimentali, che fa venire voglia di dire, come nell’omonimo film, “si può fare”.

 

Tolleranza maschile all’infedeltà omosessuale: quali le differenze tra le varie culture?

L’infedeltà è un fenomeno molto diffuso in tutto il mondo, ed affiora in ogni cultura con peculiarità differenti (Tafoya & Spitzberg, 2007).

 

Le persone di solito reagiscono duramente all’infedeltà effettiva o sospetta dei loro partner, spesso con la cessazione della relazione e, talvolta, con la violenza fisica contro il colpevole (Buss, 2000). Tuttavia, alcune prove suggeriscono che gli uomini eterosessuali mostrano tolleranza all’infedeltà omosessuale delle loro partner femminili, vale a dire che se le loro partner li tradissero con altre donne, questi reagirebbero molto meno negativamente che se li tradissero con altri uomini (Apostolou, 2018; Compton & Bowman, 2017). La ricerca di Wang e Apostoloumira, pertanto, mira ad esplorare tale fenomeno in diversi contesti culturali in un campione composto da 949 soggetti cinesi, 509 greci e 305 britannici.

I potenziali costi dell’infedeltà si traducono in forti pressioni sul partner per sviluppare adattamenti che consentano loro di ridurre questi costi. Tali adattamenti includono emozioni come gelosia, rabbia o tristezza, che si attivano quando sono presenti indizi di infedeltà, consentendo di intraprendere azioni correttive (Buss, 2000). Ad esempio, le persone possono interrompere una relazione con un coniuge infedele per evitare di provare tristezza.

Eppure, l’infedeltà del proprio partner con un individuo dello stesso sesso è notevolmente meno dannosa per gli uomini rispetto all’infedeltà che coinvolge un partner del sesso opposto. Osservando questo fenomeno da un punto di vista evoluzionistico, è possibile ipotizzare che ciò potrebbe verificarsi perché in passato non esisteva un test affidabile di paternità, il che significava che gli uomini affrontavano il rischio di essere traditi, deviando il loro investimento genitoriale sui figli di altri uomini che credevano appartenere a loro; pertanto, se le donne scegliessero di tradirli con persone del loro stesso sesso, essi non correrebbero questo rischio.

L’infedeltà omosessuale potrebbe inoltre essere potenzialmente più vantaggiosa per gli uomini che per le donne. Una donna impegnata in relazioni extra-coppia può essere disposta a includere altre donne nel sesso della coppia, consentendogli, in effetti, l’accesso diretto ad altre donne. In questa situazione, quindi, un uomo non solo può ridurre il rischio di essere tradito, ma aumentare il suo successo riproduttivo ottenendo un contatto con altre donne (Apostolou et al., 2017).

Coerentemente con quanto ipotizzato, i risultati dello studio mostrano che in diversi contesti culturali gli uomini hanno mostrato una tolleranza maggiore rispetto alle donne nei confronti dell’infedeltà omosessuale dei loro partner. Inoltre, data la possibilità che si sarebbe potuta creare, gli uomini erano molto più propensi delle donne a preferire che le loro partner li tradissero con un individuo dello stesso sesso piuttosto che con uno del sesso opposto. I partecipanti erano anche più tolleranti nei confronti dell’infedeltà dei loro partner a breve termine rispetto ai loro partner a lungo termine.

Gli sperimentatori hanno inoltre scoperto che le persone con attrazione per lo stesso sesso erano più tolleranti all’infedeltà sia con persone dello stesso sesso, sia del sesso opposto rispetto alle persone eterosessuali. Una possibile spiegazione a tale scoperta coincide con il fatto che le attrazioni per lo stesso sesso siano associate a una sociosessualità più illimitata, vale a dire una disponibilità a impegnarsi in attività sessuali al di fuori di una relazione impegnata (Penke e Asendorpf, 2008), e che una sociosessualità più illimitata sia associata a una maggiore tolleranza verso l’infedeltà. In questo scenario, le persone che provano attrazione per lo stesso sesso hanno spesso una sociosessualità più libera, che li rende più tollerabili all’infedeltà.

I partecipanti cinesi e greci hanno mostrato una maggiore tolleranza all’infedeltà rispetto a quelli inglesi. Una possibile ragione è che i primi due attribuiscono un valore considerevole alla famiglia e quindi sono più propensi a tollerare l’infedeltà per mantenere una relazione intima. Un’altra differenza culturale è rappresentata dalla politica del figlio unico della cultura cinese, che è connessa alla preferenza per i figli maschi. Ciò ha portato a un rapporto tra i sessi squilibrato, in cui esistono più uomini che donne (Deng, 2000). Quindi, in Cina, gli uomini potrebbero essere maggiormente disposti a tollerare l’infedeltà, specialmente quella omosessuale, rispetto agli uomini di altri paesi in cui il rapporto tra i sessi è più equilibrato.

In conclusione, nella ricerca di cui sopra, Wang e Apostolou hanno esplorato la tolleranza all’infedeltà omosessuale in diversi contesti culturali. Queste scoperte forniscono importanti implicazioni per comprendere la sessualità umana, nonché le origini evolutive di tali dinamiche relazionali.

 

Carenza di tiamina e sviluppo del linguaggio

In Israele nel 2003 (tra maggio e settembre), diversi neonati furono allattati con un latte in formula che ha portato a venti ricoveri in rianimazione, con sintomi riconducibili alla patologia di Wernicke (sofferenza bilaterale ai gangli della base). Fu allora eseguito uno studio sperimentale che si proponeva di analizzare la correlazione tra carenza di tiamina e sviluppo del linguaggio.

 

In Israele nel 2003 (tra maggio e settembre), diversi neonati furono allattati con un latte in formula che ha portato a venti ricoveri in rianimazione, con sintomi riconducibili alla patologia di Wernicke (sofferenza bilaterale ai gangli della base). Fu allora eseguito uno studio sperimentale che divideva in due gruppi i bambini che erano stati allattati con il latte in questione (poi ritirato dal mercato) e bambini allattati al seno. I criteri per rientrare nel gruppo sperimentale erano: essere asintomatici (non rientrare tra i venti ricoverati), peso nella norma alla nascita e parto non prematuro, assunzione del latte che ha causato i ricoveri tra maggio e settembre 2003.

Questi bambini avevano all’incirca cinque anni di età. Va premesso che dopo aver analizzato il latte in questione, si è riscontrata la carenza della vitamina B1, più nota come tiamina, la quale è importantissima nel metabolismo cerebrale, nella formazione delle sinapsi e nella trasmissione sinaptica. Inoltre i bambini usciti dalla rianimazione a 2 o 3 anni mostravano un deficit specifico del linguaggio. Lo studio si proponeva appunto di appurare se la correlazione tiamina-sviluppo del linguaggio fosse concreta.

Nella prima fase venne testata la produzione di frasi relative (soggetto relative o oggetto relative) per testare la sintassi; nella seconda fase si testò la capacità di produzione delle frasi relative e nella terza la comprensione (sempre per valutare la sintassi). Risultò che nel primo compito i soggetti con carenza di tiamina avevano difficoltà solo con le frasi oggetto relative, in comprensione e ripetizione con tutte e due le tipologie di frase. Si è poi passati a testare la lessicalità con la denominazione di figure e sono stati riscontrati deficit anche in quest’area. L’unica abilità non intaccata è la semantica, dove nei test di associazione di figure e riporto di anomalie semantiche, i soggetti del gruppo sperimentale riportavano gli stessi punteggi di quelli del gruppo di controllo. L’IQ non verbale (misurato con le matrici di Raven) risultava altresì nella norma.

In sintesi il 97 per cento dei bambini con carenza di tiamina mostrava deficit sintattici e lessicali (88% lessicali e 80% sintattici), il 70 per cento circa entrambi i deficit e il 90 per cento nessun deficit semantico. Con un follow-up a 3 anni dallo studio condotto nel 2008, i bambini del gruppo sperimentale miglioravano leggermente nel lessico ma il 97 per cento presentava dislessia o altri disturbi linguistici. In sintesi, da questo studio si può trarre la conclusione che la tiamina (presente in cereali, legumi, verdura e frutta secca; non autoprodotta dall’organismo) sarebbe cruciale per uno sviluppo sano dell’abilità di linguaggio.

 

Il trattamento cognitivo comportamentale del Disturbo d’Ansia Sociale – Recensione del corso sulla piattaforma FAD di Studi Cognitivi

Il trattamento cognitivo comportamentale del Disturbo d’Ansia Sociale è un corso fruibile sulla piattaforma FAD di Studi Cognitivi rivolto a diverse tipologie di professionisti della salute, mentale e non. È un corso pratico e scorrevole da seguire, ben organizzato sia nella sua interfaccia utente, sia nei contenuti di ogni modulo.

 

Si può presentare da solo e manifestarsi in qualsiasi contesto sociale, oppure in situazioni sociali specifiche, come ad esempio parlare in pubblico. Può anche manifestarsi in comorbidità con un’altra diagnosi principale.

Il Disturbo d’Ansia Sociale non ha solo a che fare con l’esperire ansia in situazioni sociali, ma si innesta in un complesso sistema di convinzioni automatiche contesto-specifiche, condizionate e radicate a livello più profondo nella rappresentazione di sé.

Il trattamento cognitivo comportamentale del Disturbo d’Ansia Sociale è un corso fruibile sulla piattaforma FAD di Studi Cognitivi rivolto a diverse tipologie di professionisti della salute, mentale e non.

È strutturato in sei moduli di formazione teorica mediante videotutorial; al termine di ogni modulo, si incontra un test di tre domande, relative alla parte appena seguita. Il superamento test nel suo complesso consente di ottenere cinque crediti ECM (Educazione Continua in Medicina).

Il corso si apre con l’esposizione delle caratteristiche del disturbo e del suo modello teorico cognitivo; fornisce gli strumenti di assessment; illustra gli obiettivi, la pianificazione del trattamento passo a passo, l’applicazione delle tecniche terapeutiche in termini di ristrutturazione cognitiva ed esperimenti comportamentali. La spiegazione della teoria è alternata a efficaci simulazioni di sedute; questa strutturazione rende il corso snello e chiaro nel trasmettere sia la cornice teorica che le tecniche pratiche.

Ogni video è corredato dalle slide relative e da utilissime tracce degli strumenti suggeriti da usare in seduta.

È un corso pratico e scorrevole da seguire, ben organizzato sia nella sua interfaccia utente, sia nei contenuti di ogni modulo.

Segue la scia dell’ampia diffusione della formazione in asincrono, sull’onda dell’improvvisa necessità generata dalla pandemia, ma lo fa con grande qualità e cura.

Per di più, da terapeuta di orientamento diverso, trovo che questo corso trasmetta alcune delle qualità dell’approccio cognitivo-comportamentale nello stesso modo di corsi che ho frequentato in presenza:

  • la disponibilità del docente a usare se stesso come ‘esempio’ dei processi psicologici che sta illustrando;
  • la familiarizzazione con il modello cognitivo e la condivisione dell’agenda con il paziente per renderlo parte attiva del processo di cambiamento;
  • l’equilibrio suggerito tra le tecniche di riattribuzione verbale e quelle comportamentali/esperienziali per assicurare un cambiamento duraturo.

Detto in modo ironico, la chiarezza del corso nell’esposizione dei protocolli e del piano di trattamento del disturbo d’ansia sociale fa quasi sembrare ‘semplice’ il lavoro dello psicoterapeuta, anche se è ovvio che nella pratica non può essere così.

Oltre al corso, ipotizzo necessario un allenamento intenso al dialogo socratico per poterlo padroneggiare, soprattutto immaginando un paziente poco collaborativo, ad esempio che parla troppo o troppo poco.

In aggiunta, l’ultimo modulo del corso sugli interventi ‘off label’ lascia intravedere la necessità di approfondire la formazione, allo scopo di rafforzare il lavoro terapeutico con il paziente che porta contenuti articolati, elementi di sofferenza o eventi dolorosi che non sono immediatamente inseribili in una ‘casella’ del piano di trattamento.

 

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Disturbi alimentari e falsi miti da sfatare: (non) Basta la forza di volontà! – REPORT e VIDEO dall’evento del CIPda di Milano

Report di (Non) Basta la forza di volontà!, il terzo ed ultimo webinar appartenente al ciclo divulgativo dedicato a sfatare tre falsi miti che ruotano attorno ai Disturbi dell’Alimentazione, trasmesso in diretta streaming dall’equipe del Centro Disturbi dell’Alimentazione (CIPda) di Milano il 28 giugno 2021.

 

 Non è raro osservare nelle persone che soffrono di un Disturbo dell’Alimentazione (DA) la radicata credenza secondo cui è possibile guarire dalla patologia alimentare unicamente sulla base della propria forza di volontà. Similmente, un ulteriore luogo comune è considerare la sopracitata categoria diagnostica come un vero e proprio “capriccio”. Queste errate convinzioni predispongono il soggetto a posticipare la richiesta di aiuto, inficiando negativamente sulla prognosi del disturbo.

Una risposta confortante proviene dall’evidenza scientifica: la remissione dei DA è possibile, perseguibile grazie l’aiuto e l’intervento di professionisti abili nel fornire trattamenti specialistici e capaci di affrontare i meccanismi di mantenimento della patologia.

Sulla base di queste premesse cliniche e scientifiche, si apre il terzo e ultimo webinar del ciclo Falsi miti da sfatare, un dibattito moderato dalla Direttrice Operativa del CIPda (Cliniche Italiane di Psicoterapia – Disturbi Alimentari), la Dott.ssa Rosaria Nocita.

L’intervento dei vari professionisti, sollecitato da domande specifiche relative alla tematica affrontata, ha illustrato le linee guida per orientarsi nella scelta di trattamenti validi ed efficaci. Terminata la prima parte, di natura maggiormente divulgativa, si è dedicato spazio alle domande dei partecipanti.

IL REPORTAGE CONTINUA DOPO IL VIDEO DELL’EVENTO:

Disturbi alimentari e falsi miti da sfatare: (non) Basta la forza di volontà!
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1. La falsa credenza del “farcela da soli”: in che modo ostacola la richiesta di aiuto? – Dott.ssa Tramontano, psicoterapeuta.

Nonostante i disturbi alimentari siano una problematica oggigiorno molto diffusa, la loro conoscenza è ancora superficiale. Pertanto, non è raro osservare false credenze sia fra le persone direttamente colpite che tra i loro familiari. Una di queste è la convinzione per cui tali disturbi siano conseguenza di una scelta personale e non il frutto di un problema psicologico. Di conseguenza, si può verificare un ritardo nella richiesta d’aiuto e maggiore resistenza alle cure, entrambi aspetti responsabili di una prognosi peggiore. Un fattore che complica decisamente la presa in carico, è la natura egosintonica dei sintomi: le persone che ne sono colpite non credono di essere malate. Al contrario, identificano nel controllo dell’alimentazione una pseudosoluzione ad alcuni importanti problemi individuali e interpersonali. In questi termini, il disturbo alimentare non viene vissuto come problematico e si instilla la convinzione di poter sospendere tale controllo unicamente con uno sforzo volontario. L’unico aspetto egodistonico, pertanto esperito con sofferenza e malessere, è il discontrollo alimentare.

Per i motivi appena citati, l’aspetto cruciale di ogni trattamento è dedicare particolare attenzione all’ambivalenza del paziente, adottando un atteggiamento terapeutico ingaggiante. Seppur questo approccio possa variare in termini di intensità a seconda della motivazione individuale, denominatori comuni per un buon coinvolgimento sono l’empatia, comprensione, competenza e abilità nel fornire speranza. Particolare attenzione va riposta anche nell’atteggiamento dei familiari, anch’essi spesso propensi a considerare la guarigione dal disturbo dell’alimentazione come un mero sforzo di volontà, ostacolando quindi il processo di cambiamento. Una strategia utile nella messa in discussioni di tali convinzioni è veicolare a pazienti e familiari informazioni dettagliate sui disturbi alimentari, fornendo indicazioni precise sui principali processi di mantenimento e sui trattamenti efficaci.

2. Il disturbo alimentare non è un “capriccio”: di che cosa si tratta e quali sono i meccanismi che lo mantengono? – Dott.ssa Ranzini, psicoterapeuta.

Considerare un disturbo alimentare come un capriccio è sbagliato, non ha alcun tipo di fondamento scientifico. Al contrario, si tratta di patologie vere e proprie, disturbi con specifici meccanismi di mantenimento. Il nucleo psicopatologico principale è rappresentato da un’eccessiva valutazione del peso e della forma del corpo, aspetto che porta queste persone a determinare il proprio valore principalmente, o esclusivamente, sulla base di queste dimensioni. Possono da qui seguire una serie di comportamenti, tramite i quali la persona cerca di gestire le proprie preoccupazioni. Un esempio è rappresentato dalla dieta ferrea, sia questa calorica o cognitiva. Essa è responsabile, nella maggior parte dei casi, del sottopeso e dei conseguenti sintomi da malnutrizione, predisponendo anche ad episodi di abbuffata e relativi comportamenti di compenso (vomito autoindotto, uso improprio di lassativi e diuretici, esercizio fisico eccessivo). Questi aspetti possono dunque diventare dei veri e propri meccanismi di mantenimento, di cui ne vengono spiegati solo alcuni esempi:

  • Il basso peso corporeo, vissuto come una conquista, vene perseguito tramite una dieta ferrea, che si connota come rigida ed inflessibile
  • I conseguenti sintomi da malnutrizione contribuiscono al perpetrarsi della patologia:
  1. Isolamento sociale: impedendo alle persone di fare esperienze e quindi incrementare altri aspetti su cui valutarsi, mantiene la valutazione di sé basata unicamente sull’ambito del peso e della forma del corpo
  2. Precoce sensazione di pienezza: induce la persona a concludere di aver consumato troppo cibo, facilitando un’ulteriore restrizione alimentare
  3. Depressione: inficiando negativamente sull’autostima, facilità l’uso del controllo del peso e della forma del corpo come modalità di autovalutazione
  4. Rallentamento della perdita di peso: provocato dal rallentamento metabolico, viene esperito come un segnale di perdita di controllo e stimolo per un’aumentata restrizione alimentare.
  • Nel caso in cui siano presenti episodi di abbuffata, anch’esse producono l’intensificarsi della restrizione alimentare
  • I comportamenti di compenso che ne conseguono, infine, inducono ad allentare il controllo sull’alimentazione e rendono a loro volta più probabile il verificarsi delle abbuffate.

Tali dinamiche, come sottolineato dalla professionista, sono solo alcuni esempi di come tali meccanismi di mantenimento rendano questa problematiche un qualcosa che va ben oltre la forza di volontà e che, al contrario, necessita di un intervento mirato ed efficace.

3. Qual è il trattamento migliore? L’importanza dell’équipe multidisciplinare non eclettica – Dott.ssa Ramponi, dietista.

 Con il termine “équipe multidisciplinare” si fa riferimento al coinvolgimento di molteplici figure professionali, all’interno di un percorso di cura. Nello specifico, per il trattamento dei DA, è necessaria la collaborazione di medici psichiatri, psicologi, psicoterapeuti e dietisti, ancor più importante in caso di pazienti gravemente sottopeso o sovrappeso. Questa sinergia, come dimostrano numerose evidenze scientifiche, è in grado di affrontare non solo la psicopatologia specifica del disturbo, ma favorisce anche la riabilitazione nutrizionale. Oltre alla compresenza di figure specializzate in differenti ambiti, è altresì importante che queste comunichino con lo stesso linguaggio. L’équipe multidisciplinare non deve pertanto essere “eclettica”, ma al contrario deve esservi una concordanza teorica e metodologica. In sua assenza, si rischierebbe di incappare in indicazioni e strategie tra loro differenti o addirittura contrastanti, impattando negativamente sull’efficacia del trattamento.

4. Quali evidenze scientifiche abbiamo a supporto dell’efficacia dei trattamenti? Le Linee guida NICE (2017) – Dott.ssa Colantonio, psicologa

La scelta del tipo di trattamento in risposta ad un disturbo alimentare è un passo fondamentale, da compiere con accuratezza e consapevolezza. Difatti, un trattamento inadeguato può portare ad una cronicizzazione o al peggioramento della sintomatologia. Per orientarsi nella scelta, di estrema importanza sono le evidenze fornite dalla letteratura, in quanto dotate di supporto empirico. Il National Institute for Health and Care Excellence – NICE (Istituto Nazionale per la Salute e l’Eccellenza nella Cura) è un organismo che fa riferimento al Ministero della Salute nel Regno Unito ed ha fornito nel 2017 le linee guida relative ai trattamenti più efficaci nell’ambito dei disturbi alimentari. Di seguito, vengono riassunte le principali indicazioni terapeutiche:

  • Cognitive Behavioral Therapy – Enhanced (CBT – E): protocollo brevettato da Fairburn e collaboratori presso il centro C.R.E.D.O. (Centre for Research on Eating Disorders at Oxford), è un approccio di stampo cognitivo comportamentale, migliorato, raccomandato per tutte le categorie diagnostiche dei disturbi alimentari e adatto a tutte le età, poiché incentrato sul nucleo psicopatologico specifico e sui meccanismi di mantenimento.
  • Autoaiuto guidato – di base cognitivo comportamentale: particolarmente indicato per Bulimia Nervosa e Binge Eating Disorder. In caso di mancato beneficio, si raccomanda di procedere con la CBT – E.
  • Maudsley Model Anorexia Nervosa Treatment for Adults (MANTRA): consigliato per persone che soffrono di Anoressia Nervosa, adulte. Si tratta di un approccio di natura cognitivo comportamentale in grado di affrontare anche tematiche interpersonali. Anche in questo caso, la CBT – E rappresenta il trattamento da seguire in caso di mancata remissione dei sintomi.
  • Family based therapy (FBT): terapia fortemente basata sulla famiglia, favorisce il controllo genitoriale sull’alterata condotta alimentare del figlio/a. Se non efficace, procedere con CBT – E.

Concludendo, come sottolineato dall’esperta, l’evidenza clinica dimostra quanto la CBT – E sia in linea di massima il protocollo terapeutico d’elezione per la psicopatologia alimentare, anche in casistiche gravi e complesse, adatta sia per la popolazione adulta che adolescente.

5. La Cognitive Behavioral Therapy – Enhanced. Di che cosa si tratta? – Dott.ssa Zagarese, psicologa

In accordo con le linee guida NICE, un trattamento d’elezione per i DA è la CBT – E, adottata proprio dal centro CIPda. Con questo acronimo si fa riferimento alla terapia cognitivo comportamentale migliorata, un particolare protocollo sviluppato nel 2000 presso il centro C.R.E.D.O. di Oxford, che si propone di trattare specificamente disturbi dell’alimentazione in un’ottica transdiagnostica. Di conseguenza, secondo la visione CBT – E, il cuore pulsante dei DA è rappresentato dall’eccessiva valutazione del peso e della forma del corpo, dalla quale dipenderanno poi tutte le sfaccettature cliniche, i meccanismi di mantenimento, differenti da persona a persona. Questi possono essere sia di natura comportamentale, come la restrizione dietetica o l’esercizio fisico eccessivo, che cognitiva, come il perfezionismo clinico o la bassa autostima nucleare. Grazie all’approccio multidisciplinare proposto dal protocollo in questione, paziente e terapeuta lavorano come una vera a propria squadra, al fine di superare la problematica; pertanto l’atteggiamento attivo e partecipato della persona è quanto mai fondamentale. La durata varia dalle 20 alle 40 settimane a seconda delle condizioni individuali, e il trattamento si struttura in 3 fasi:

  1. Recupero del peso e condivisione funzionamento della psicopatologia
  2. Gestione e scardinamento dei meccanismi di mantenimento
  3. Comprensione dei fattori scatenanti e prevenzione delle ricadute

6. Le terapie sono tutte uguali? Un confronto tra la Cognitive Behavioral Therapy – Enhanced e la Family Based Therapy – Dott.ssa Riboldi, medico psichiatra.

Come per tutte le altre patologie organiche esistono, come detto, delle linee guida utili per orientarsi nella scelta del trattamento più efficace. Esse si basano su autorevoli studi di letteratura che hanno messo a confronto tipologie differenti di psicoterapia oppure la presenza/assenza di protocolli terapeutici in rapporto alla remissione della sintomatologia.

Seppur i risultati siano spesso eterogenei, la comunità scientifica è concorde nel considerare la psicoterapia come unico strumento efficace nel trattamento di tutti disturbi alimentari. Dal punto di vista farmacologico, invece, non vi sono indicazioni relative all’utilizzo di farmaci specifici, se non per la gestione di sintomi corollari (ansia, depressione, impulsività).

Due protocolli particolarmente utilizzati in risposta al DA sono, da un lato, la CBT – E (proposta sia ad adulti che adolescenti) e la FBT (prevalentemente adolescenti). Presupposto cardine del primo trattamento è la collaborazione tra psicoterapeuta e paziente, che si articola con la condivisione del percorso di cura e la messa in atto di strategie e procedure concordate. Spicca quindi il marcato controllo del paziente ed il ruolo attivo da esso giocato. Dall’altro lato, la FBT, sviluppata a Londra negli anni ‘70 presso il Maudsley Hospital, si basa su una premessa teorica completamente differente, ossia che il paziente adolescente non esercita alcun controllo sulla propria malattia. Per questo motivo, si denota una marcata deresponsabilizzazione del giovane paziente, a favore di un maggior investimento nei confronti delle figure genitoriali. Seppur anche la FBT sia supportata da numerose evidenze scientifiche, si connota come un percorso in cui il coinvolgimento attivo del paziente e la sua consapevolezza vengono poco valorizzati.

Al termine di questa parte prettamente teorica, si è proceduto rispondendo alle domande dei partecipanti. Grazie agli spunti forniti dal pubblico online è stato possibile delineare innanzitutto i campanelli di allarme dei DA quali ad esempio modificazioni personologiche (irritabilità, isolamento, labilità emotiva, perdita di interesse in attività precedentemente gradite), cambiamento nello stile alimentare, incremento dell’attività sportiva, variazioni importanti di peso, preparazione di piatti elaborati non consumati e frequenti richieste di rassicurazione relative alla forma del proprio corpo. Si è poi proseguito analizzando in che modo i genitori possono costituire una preziosa risorsa per il proprio figlio, affetto da un disturbo alimentare. Sicuramente, prediligere un atteggiamento empatico, decentrarsi dalle proprie convinzioni, maggiore conoscenza dei meccanismi di mantenimento e la promozione di un clima sereno e caldo durante i pasti, sono tutti fattori protettivi e facilitanti la guarigione.

In ultimo si è evidenziato quanto l’imminente stagione estiva e le vacanze possano rappresentare un momento di forte stress e in alcuni casi essere espediente per maggiore restrizione alimentare ed attenzione alle forme corporee. Per questo motivo, si potrebbe assistere al tentativo di ridurre al minimo le occasioni per mostrare la propria fisicità, celandola con abiti larghi ed evitando costumi da bagno, o addirittura posticipare le vacanze estive. Fornire il proprio supporto e identificare un protocollo terapeutico adatto, sono strategie utili per aiutare la persona ad affrontare il proprio disturbo.

Con questo prezioso dibattito, si conclude il ciclo di webinar sui falsi miti realizzato dal CIPda – Milano. Si coglie l’occasione per ringraziare l’equipe e si invitano gli spettatori a prendere visione delle numerose iniziative e proposte calendarizzate per la stagione autunnale, comunicate dai canali social del centro.

 


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Alzheimer: nuove frontiere e il ruolo dello psicologo nella cura del malato e nel supporto alla famiglia

L’Alzheimer, una delle forme più comuni di demenza, è una malattia ad esordio senile, cronica e degenerativa ed ha una prognosi sfavorevole. Lo psicologo ha un ruolo importante nella prevenzione della malattia, nella cura del malato e nel sostegno alla sua famiglia.

 

Il morbo di Alzheimer è una delle forme più comuni di demenza.

 L’Alzheimer, una delle forme più comuni di demenza, è una malattia ad esordio senile, cronica e degenerativa ed ha una prognosi sfavorevole in quanto la morte del malato sopraggiunge in un arco temporale di 4-6 anni. La progressione di questo morbo causa lesioni multiple del tessuto cerebrale (a meno delle aree adiacenti al solco centrale che sono solitamente risparmiate) che determinano il costante aggravamento delle sindromi tipiche: l’amnesia (perdita di memoria), l’afasia (carente capacità di formulare e comprendere i messaggi verbali), l’alessia (perdita della capacità di leggere), l’agnosia (difficoltà di orientamento, di riconoscere persone o luoghi e stimoli di varia natura), l’aprassia (difficoltà di compiere movimenti o azioni comuni come ad esempio usare una posata per mangiare e /o vestirsi) e la logoclonia (ripetizione continua e insensata di frammenti d parole). È possibile distinguere 3 stadi della malattia che hanno una durata variabile con possibilità di sovrapposizione. Nel primo stadio diventano evidenti i deficit intellettuali, la persona è ripetitiva nell’esprimersi, tende a perdere gli oggetti e a smarrirsi, ma resta ben conservata l’affettività. Nella seconda fase si aggravano le sindromi, il malato può avere deliri e allucinazioni e perde autonomia fino ad avere bisogno di un’assistenza continua. Nella terza fase le condizioni psicopatologiche si aggravano fino a giungere ad un completo impoverimento e alla totale perdita delle funzioni simboliche.

Non esiste un esame specifico per diagnosticare il morbo di Alzheimer

La diagnosi del morbo di Alzheimer avviene attraverso un percorso che si sviluppa nel tempo e può richiedere visite mediche (esame generale, neurologico, valutazione neuropsicologica e psichiatrica) e l’esecuzione di accertamenti clinici/strumentali (TAC, risonanza magnetica, PET, elettroencefalogramma, puntura lombare). In ogni caso, non è possibile arrivare a una certezza (ciò è possibile solo con autopsia post mortem identificando le placche amiloidi nel tessuto cerebrale) e, soprattutto, non è possibile una diagnosi precoce. Al riguardo, gli esiti di una recente ricerca (Serra et al, 2021) pubblicati Journal of Alzheimer’s Disease lasciano, però, intravedere nuove opportunità. Secondo gli esperti, infatti, la riduzione della funzionalità dei network che collegano l’area tegmentale ventrale (una delle aree cerebrali in cui è prodotta la dopamina che è un importante neurotrasmettitore) alle restanti aree del cervello potrebbe segnalare un maggior rischio di manifestare la malattia e consentire l’avvio di percorsi terapeutici finalizzati a rallentarne l’aggravamento.

Non esiste una cura per il morbo di Alzheimer

Nonostante lo stato di avanzamento delle conoscenze scientifiche, ad oggi purtroppo non esistono farmaci in grado di fermare e far regredire il morbo di Alzheimer. I trattamenti disponibili, quindi, consentono, nelle fasi iniziali e nei casi gravi/moderatamente gravi della malattia, di contenerne i sintomi, onde poter assicurare al malato una migliore qualità della vita. La messa a punto di nuovi farmaci per la demenza è, tuttavia, un campo in grande sviluppo e nei laboratori di ricerca si sta lavorando a principi attivi che aiutino a prevenire, a rallentare l’Alzheimer oltre a a ridurne i sintomi. In particolare, recentemente alcuni ricercatori (Bourdenx et al, 2021) sono riusciti a sviluppare un farmaco sperimentale che, aumentando il numero dei recettori LAMP2A sui lisosomi (organelli che rappresentano il sistema digestivo della cellula in grado di degradare sia materiale proveniente dall’esterno della cellula sia componenti cellulari non più utili), è in grado di potenziare e rendere più efficiente la rimozione delle proteine difettose che si accumulano nel cervello. La somministrazione sperimentale di questo farmaco ad alcuni topi per circa 4-6 mesi ha consentito di preservare la funzione dei neuroni negli stadi avanzati della malattia, ottenendo un miglioramento della memoria, delle performance motorie e la riduzione di ansia e depressione.

La famiglia è la seconda vittima della malattia

 La diagnosi di una malattia così complessa rappresenta una esperienza traumatica per la famiglia poiché una simile notizia si accompagna alla certezza di perdere il congiunto nel giro di pochi anni. Inoltre, la gestione del malato, oltre a richiedere una ridefinizione degli equilibri esistenti nel nucleo familiare, rende necessario un grande dispendio di risorse economiche e, soprattutto, psicofisiche. Quest’ultime nel tempo si logorarono, limitando il livello di resilienza familiare e dei singoli congiunti. In una condizione di grande fatica fisica, emotiva e mentale (Guide, 2013), quindi, l’aggravamento del quadro clinico del paziente può causare criticità nella capacità di gestione dello stress e far emergere problematiche fisiche (es. muscolo scheletriche a causa dello spostamento del malato), depressione e ansia (Lindeza et al, 2020), disturbi del sonno e Burnout (Jaafari et al, 2016). Per questo motivo, la famiglia viene considerata la seconda vittima della malattia e i caregiver familiari sono solitamente chiamati pazienti secondari invisibili (Brodaty et Donkin, 2009). Tale situazione non può essere sottovalutata e rende necessari sforzi importanti per individuare forme di assistenza domiciliare efficienti e efficaci (Walsh et al, 2020) per “alleggerire” il carico sostenuto dalla famiglia durante il decorso della malattia (Ashrafizadeh et al, 2021).

Lo psicologo ha un ruolo importante per la cura del paziente ed il supporto alla famiglia

Lo psicologo ha un ruolo importante nella prevenzione della malattia, nella cura del malato e nel sostegno alla sua famiglia. La prevenzione della malattia richiede interventi di psicoeducazione finalizzati a modificare i comportamenti e le abitudini rivolgendoli a uno stile di vita sano. In tale prospettiva, la pratica di una attività sportiva, l’igiene del sonno, il trascorrere del tempo all’aria aperta e un regime alimentare adeguato possono essere molto utili per mantenere un buon livello di benessere psicofisico. La cura della malattia richiede strategie che integrino competenze multi professionali. In tale quadro, lo psicologo può condurre terapie di riabilitazione che hanno lo scopo di mantenere il più a lungo possibile le capacità residue del malato. Nello specifico, possono essere utili interventi mirati alla stimolazione cognitiva (che potenzia le funzioni mentali residue), la Rot o Reality Orientation Therapy (che cerca di mantenere il malato aderente alla realtà che lo circonda), la Validation Therapy (che cerca di capire i motivi del comportamento del malato), la musicoterapia (che riporta a galla con le emozioni le parole di una canzone o il suono di uno strumento), la psicomotricità (che aiuta il malato ad affrontare la propria disabilità con attività di movimento) e la Pet Therapy (che utilizza gli animali). Inoltre, è necessario sostenere la resilienza del nucleo familiare attraverso interventi che consentano di: migliorare la gestione dello stress e delle emozioni, di facilitare le dinamiche relazionali e sostenere i congiunti nel processo di ridefinizione degli equilibri esistenti nel nucleo familiare, aumentare la consapevolezza , l’autostima e la fiducia attraverso processi incentrati sul rafforzamento della gratitudine, della gentilezza e della compassione. In ultimo, è importante l’organizzazione di un follow up  che, in parallelo con i controlli a cui è sottoposto il paziente affetto dall’Alzheimer, permetta di monitorare le condizioni del/dei caregiver, onde poter prevenire/intervenire tempestivamente all’emergere di condizioni psicofisiche riconducibili ad un ambito clinico.

 

Percepire un gusto dolce può influenzare l’elaborazione di parole romantiche?

Secondo alcuni studi, la percezione del gusto dolce è interconnessa ed interagisce con l’affettività romantica. L’amore favorisce e può influenzare la percezione di un gusto dolce (Chan et al. 2013), che a sua volta può migliorare la valutazione positiva e l’atteggiamento soggettivo nella situazione di un appuntamento romantico, secondo un effetto di tipo bidirezionale (Ren et al., 2015). 

 

 Wang & Chen (2019) hanno riscontrato che sperimentare un gusto dolce può influenzare l’elaborazione semantica romantica ed alimentare la sensazione di dolcezza; avvantaggiando la velocità di elaborazione delle parole romantiche, rispetto a quelle non romantiche.

Alla base di questa facilitazione è presente un’elaborazione cross-modale, per cui la stimolazione in una modalità sensoriale (gusto), influenza l’elaborazione degli stimoli presentati in una modalità diversa (linguistica) (Razumiejczyk et al., 2015; Spence & Deroy, 2013).

Secondo l’approccio della cognizione incarnata (o embodied cognition), la mente e i processi di elaborazione cognitiva, sono interconnessi con il corpo e le percezioni che esso può avere dell’ambiente circostante. Allo stesso modo, le esperienze fisiche influenzano gli aspetti psicologici (Barsalou, 2008). Non solo l’elaborazione percettiva può influenzare l’attivazione della conoscenza concettuale, ma entrambe queste forme di rappresentazione sono parzialmente sostenute dagli stessi sistemi di codifica (Razumiejczyk et al., 2015; Simmons et al., 2007).

Diversi studi hanno riscontrato effetti di cognizione incarnata: il calore corporeo può evocare calore interpersonale (Williams & Bargh, 2008), la percezione della distanza fisica influenza quella psicologica tra due individui (H. Wang et al., 2016), ed infine, gli stimoli olfattivi possono suscitare sospetto sociale (Lee & Schwarz, 2012).

Un’indagine ha riportato che il peso percepito di un libro, condiziona la valutazione della sua importanza, ma solo quando i soggetti ne hanno acquisito una comprensione sostanziale (Chandler et al., 2012).

Nell’elaborazione semantica, la conoscenza di un concetto coinvolge tre fasi: disponibilità, accessibilità e applicabilità (Wyer, 2008). Mentre la prima si riferisce alla disponibilità in memoria di una conoscenza, l’accessibilità è presente se avviene l’esposizione alle informazioni relative di un costrutto (Todorov, 2000). Accedere ad un concetto è più semplice se la rappresentazione semantica è ricca (come nelle parole concrete) (Rabovsky et al., 2012). L’applicabilità, ovvero la relazione tra le caratteristiche delle conoscenze in memoria e quelle attese di uno stimolo, insieme all’accessibilità costituisce un requisito per l’effetto incarnato (Landau et al., 2011). Infatti, uno stimolo sensoriale (come un odore di pesce) influenza l’esperienza psicologica associata (di sospetto) solo quando la conoscenza del concetto è disponibile alla persona, ovvero accessibile e applicabile (Lee & Schwarz, 2012). In generale, la conoscenza accessibile di un concetto condiziona le percezioni, i sentimenti e il comportamento individuale.

Sebbene l’interazione tra gusto dolce e semantica romantica, possa essere ricondotta all’embodied cognition e all’attivazione della conoscenza del concetto; il processo sottostante deve essere ancora indagato.

Grazie ai potenziali evocati (ERP), che costituiscono una risposta misurabile con elettroencefalografia (EEG) di uno stimolo interno (pensiero) oppure esterno (percettivo)  è possibile indagare l’elaborazione semantica romantica dopo aver sperimentato la percezione del gusto dolce, che dovrebbe coinvolgere le componenti P200 e N400 del segnale.

Il P200, coinvolge le parole a valenza emotiva (Bernat et al., 2001) e ricche a livello semantico (Pexman et al., 2008) come quelle romantiche; e dovrebbe attivarsi se il soggetto ne conosce la connotazione romantica e positiva. L’N400, che rimanda anch’esso alla ricchezza semantica (Rabovsky et al., 2012), costituisce un indicatore dell’accessibilità e dell’applicabilità della conoscenza.

L’indagine di Wang et al. (2019), servendosi degli ERP, ha esaminato l’interazione tra gusto dolce e parole romantiche, raccogliendo dati da 23 studenti universitari. Sono state selezionate 140 parole positive, tra romantiche, non romantiche e pseudoparole, progettate per mascherare lo scopo dell’esperimento. Nella condizione sperimentale, il sapore dolce è stato creato mediante dello zucchero candito, mentre i fagioli bianchi sono stati impiegati nella condizione di controllo. Con il materiale sperimentale sopra la parte centrale della lingua, i soggetti dovevano svolgere un compito di decisione lessicale indicando se la parola fosse reale o una pseudoparola. Nel frattempo sono stati registrati i segnali EEG.

 Secondo i risultati, la percezione del gusto dolce promuoveva l’elaborazione di parole romantiche, come dimostrato da un P200 maggiore e un N400 potenziato. Questo esito, che non era emerso nel gruppo di controllo, si trovava in linea con le precedenti indagini (Ren et al., 2015). Il P200 potenziato, indicava la disponibilità di conoscenza concettuale della semantica romantica, quindi accessibile al soggetto oltre che facilmente applicabile nel contesto di gusto dolce.

Anche l’N400 potenziato per le parole romantiche, indicava un effetto di vantaggio nella condizione sperimentale, coerentemente con indagini simili (Rabovsky et al., 2012).

Sulla base dei risultati ERP attuali, oltre che degli esiti comportamentali in indagini precedenti (Ren et al., 2015), l’embodied cognition del dolce-amore esiste, e tale relazione è bidirezionale. Il gusto dolce favorirebbe l’accesso nel presente della parola romantica, andando a costituire un’elaborazione cross-modale. Come dimostrato dall’indagine, le esperienze sensomotorie influenzano quelle psicologiche associate, ma solo quando la conoscenza delle parole è disponibile per la persona, accessibile nel contesto (grazie al gusto dolce) e applicabile al target specifico (le parole romantiche) (Lee & Schwarz, 2012).

In sintesi, le sensazioni del corpo, come un gusto dolce, sono un indizio per la cognizione e la dirigono, favorendo l’accessibilità della conoscenza semantica.

Nell’effetto incarnato, se presenti aspetti sensoriali e conoscenze semantiche, è possibile promuovere l’efficienza della cognizione individuale. Pertanto, sia i fattori interni ed esterni, dovrebbero essere considerati per l’elaborazione psicologica in quanto la mente non può prescindere dalle sue interazioni con corpo e ambiente circostante.

 

Come la realtà virtuale entra nello sport: una review sistematica

Molti sport possono beneficiare dell’utilizzo della realtà virtuale, con la comodità di poter essere utilizzati al di fuori degli impianti sportivi e con la possibilità di poter effettuare un allenamento privo di rischi e facile da analizzare.

 

Questo articolo ha lo scopo di mostrare come la realtà virtuale sia entrata a far parte della preparazione atletica e sportiva già da diverso tempo, trovando inizialmente spazio e applicazione soprattutto negli ambiti militari e spaziali. Alcuni esempi mostrano come i militari utilizzino ambienti virtuali allo scopo di preparare i soldati al combattimento (Larry Katz,et al. 2006).

Un’altra applicabilità mostra come simulatori in realtà virtuale siano stati utilizzati per aiutare a far atterrare una persona sulla luna, per istruire gli astronauti su come manipolare il braccio spaziale, oppure per addestrare piloti per la guida di aerei, auto o navicelle spaziali.

Il più importante campo di applicazione della tecnologia in realtà virtuale è proprio quello militare: il dipartimento della difesa degli Stati Uniti ha descritto la VR come una delle sette tecnologie chiave che garantiranno il dominio delle forze statunitensi nel 21° secolo. Le applicazioni comprendono principalmente l’addestramento virtuale, le esercitazioni sul campo di battaglia e le produzione di armi virtuali (Xinxiong Liu et al 2018). Il sistema di simulazione basato sulla tecnologia VR può, oltre a fornire un ambiente di battaglia reale e tridimensionale, mostrare e visualizzare il risultato dell’esecuzione rispetto al processo decisionale, allenando quindi l’abilità di decision making.

Nell’ambito delle discipline sportive, ci sono molti sport che possono beneficiare dell’utilizzo della realtà virtuale, con la comodità di poter essere utilizzati al di fuori degli impianti sportivi (con un notevole risparmio economico) e con la possibilità di poter effettuare un allenamento privo di rischi e facile da analizzare (permettendo un confronto dei dati).

Uno studio condotto nel settembre 2019 da Michalski et al. ha esaminato come le prestazione apprese in un allenamento di tennis da tavolo possano essere trasferite in un ambiente reale. È stato riscontrato che le prestazioni del tennis da tavolo nel mondo reale sono migliorate in modo significativo sia per quanto riguarda gli aspetti quantitativi sia per la qualità complessiva delle abilità, rispetto al gruppo di controllo senza allenamento. Questi risultati si aggiungono a una letteratura scarsa ma in espansione sull’uso della VR come strumento per acquisire e sviluppare abilità sportive. Poiché questo è uno dei primi studi per indagare il trasferimento dell’allenamento dalla VR nello sport, è stato necessario innanzitutto stabilire che il beneficio fosse almeno maggiore dell’assenza di allenamento. Questi risultati suggeriscono che è utile utilizzare la realtà virtuale come strumento complementare per la formazione, soprattutto per le situazioni in cui la formazione è logisticamente difficile da organizzare o poco pratica nel mondo reale.

L’utilizzo della VR nell’ambito della psicologia dello sport fornisce l’opportunità di allenare la mente e allo stesso tempo imparare a gestire meglio le emozioni connesse ai momenti di maggiore tensione per l’atleta. Attraverso l’immersione in ambienti specifici ad alta attivazione emotiva, come per esempio simulare grandi folle o effettuare un calcio di rigore, l’atleta può concentrarsi nell’identificare le strategie cognitive più funzionali (riconoscendo i pensieri disfunzionali) e focalizzarsi sulle tecniche utili a migliorare la prestazione e il benessere. Gestire al meglio l’aspetto emotivo implica anche una migliore regolazione dell’arousal e di conseguenza un migliore stato di flow (Czíkszentmihályi M., 1975).

In un articolo pubblicato da Elsevier (Wang J., 2012) vengono descritti i molti modi in cui la VR viene applicata negli sport da competizione, come per esempio la possibilità di poter costruire specifiche circostanze di allenamento, creare avversari virtuali a differenti livelli e raccogliere i dati fisiologici e biochimici dell’atleta. La raccolta di questi dati permette agli allenatori di ottenere un’analisi più diretta e precisa delle condizioni atletiche degli sportivi, garantendo un allenamento preciso e adeguato. Per uno sviluppo di successo dell’atleta, l’ambiente di apprendimento deve essere attentamente pianificato al fine di migliorare le capacità dell’atleta durante l’esecuzione di un’abilità.

Una pubblicazione scritta da Farley et. al del 2020 esamina la letteratura esistente relativa alla VR e all’uso della tecnologia utilizzata nello sport. Viene sottolineata l’importanza di generare un alto livello di presenza affinché l’atleta si senta immerso in un ambiente virtuale (Barfield, Zeltzer, Sheridan, & Slater, 1995). Questo aspetto è favorito dall’utilizzo di video al massimo livello di capacità di registrazione (anche fino a 8-12K) e filmata con un’elevata frequenza di fotogrammi al secondo (anche fino a 120 fps), permettendo così un video fluido, chiaro e nitido. Ad esempio nel surf, le onde virtuali o le vere onde registrare a 360° osservate in un HMD devono creare un senso completo, come se si stesse veramente cavalcando un’onda. È inoltre importante introdurre e utilizzare attrezzature come per esempio una tavola o skateboard per imitare le onde, questo permette il collegamento tra ambienti virtuali e reali.

In uno studio del 2012 condotto da Deutsch J.E et all. è stato sviluppato un sistema ciclistico in VR per allenare le abilità motorie e i deficit fisici per pazienti che si trovavano nella fase cronica post ictus. Questi studi hanno mostrato come tutti i partecipanti hanno aumentato la loro capacità aerobica misurata dal loro consumo di ossigeno. Il miglioramento medio risulta del 13% (p = .035) nel VO2 sub-massimale (con un range compreso tra 6 e 24.5%). In questo caso la realtà virtuale ha utilizzato il battito cardiaco dei soggetti per impostare la velocità dell’avatar in modo da permettere un allenamento di durata e intensità sufficienti a promuovere la forma fisica.

Conclusione

Dai vari contributi riportati emerge come l’ausilio della VR sia efficace anche in ambito sportivo. La letteratura ci ha dimostrato come la realtà virtuale, normalmente “condizionata” dal mercato videoludico, presenti vari ambiti di applicazione che spaziano dalla semplice ricerca al benessere della persona, fino ad arrivare a discipline come lo sport. Una tecnologia positiva che ancora non ha mostrato fino a dove realmente può arrivare.

 

Il cablaggio delle reti neurali coinvolte nella percezione del tempo

La dimensione essenziale della memoria sembra risentire di meccanismi nervosi che con l’evoluzione hanno contribuito alla formazione di processi cognitivi con un substrato di natura neurobiologica. Grazie a quest’ultima prospettiva, tali meccanismi sembrano confermare come il senso del tempo richieda una solida integrità di diverse aree che ne permettano l’elaborazione e la costanza. 

 

Il corpo rappresenta quel notevole sfondo da cui e per mezzo del quale possono prendere forma sia uno spazio esterno che le proprie relazioni quotidiane. Se ogni sviluppo presuppone un’azione, se ogni presenza corporea è legata ad una situazione tramite la quale esprimersi, qualora il soggetto venisse passivamente gettato nel mondo senza la possibilità di esprimersi attivamente, meglio ancora di reagire, si verrebbe a determinare una rottura. Uno squarcio nel modo d’essere, nella propria presenza, che, invece, di esprimersi in modo pienamente naturale, libera e soprattutto autentica, resta ferma, quasi incagliata ad una realtà solida e non trascendibile. Si alimenta così l’incapacità ad andare oltre, per cui il proprio corpo inizia a rassegnarsi e ad ancorarsi a quanto è già dato e facilmente raggiungibile dando vita ad una inautenticità e ad una sofferenza prevaricanti.

Emerge quindi un ulteriore punto: se il tempo si collochi nel mondo e nelle cose che percepiamo, nel loro scorrere o al contrario sia dentro di noi.

Per dirla con Proust (Benini, A., 2017, p.14) sembra essere la dimensione essenziale della memoria, il traliccio intrinseco dei ricordi, sembra inoltre, risentire di meccanismi nervosi che con l’evoluzione hanno contribuito alla formazione di processi cognitivi con un substrato di natura neurobiologica.

Grazie a quest’ultima prospettiva, tali meccanismi sembrano confermare come il senso del tempo richieda una solida integrità di diverse aree che ne permettano l’elaborazione e la costanza.

Inoltre il tempo può assumere delle caratteristiche del tutto prive di coscienza, caratterizzato da meccanismi di natura psicofisiologica che regolano la nostra attività in riferimento sia all’ambiente esterno che all’ambiente interno di cui siamo portatori e che dalle prime fasi della vita inizia a fiorire.

Per esempio il nucleo soprachiasmatico dell’ipotalamo, un piccolo organo di neuroni, regola varie attività fondamentali di natura vegetativa: pressione arteriosa, il ritmo sonno-veglia, la temperatura e il livello degli ormoni. Un insieme di attività, che può prendere strade differenti in base alle circostanze con le quali veniamo a contatto e che sono accompagnate e regolate dalle nostre prime figure di accudimento. Risultiamo inoltre caratterizzati da un tempo crono-biologico, grazie al quale avviene la coordinazione dei cicli del funzionamento del proprio corpo secondo il tempo solare, con una biologia circadiana, fondamentale per l’adattamento all’ambiente.

Il nucleo soprachiasmatico sembra essere a tutti gli effetti un metronomo autoregolato, non connesso però con le aree della memoria, dello spazio e delle emozioni come lo sono quelle del tempo.

Un buon funzionamento incide a livello sia psichico che biologico, permette di trovare un armonioso equilibrio, favorisce una buona interazione tra l’individuo e l’ambiente.

Il tempo non dipende solo dal movimento, ma anche dalle masse e dalla gravità che esse esercitano nello spazio. Esso dipenderebbe, quindi, dal campo gravitazionale dello spazio, ovvero dalle onde della forza di gravità che in esso agiscono.

Se ogni oggetto ha un suo tempo a seconda della sua posizione nello spazio e del suo movimento rispetto ad un altro oggetto, sarebbe possibile ipotizzare che ogni soggetto possiede un proprio carico energetico ed esperienziale, risultato della sua organizzazione cerebrale e del suo funzionamento neurobiologico, che influenza dunque un altro soggetto.

È possibile, dunque, sostenere che grazie al modo in cui i nostri meccanismi nervosi creano e manipolano il tempo, ne deriva una modalità del soggetto di vedere la realtà, sia interna che esterna, del tutto peculiare.

Basandosi su questa ipotesi e ripercorrendo le teorie di Helmholtz (1870) si può percepire come vi sia un intervallo tra gli stimoli nervosi e quello che essi determinano; di quell’intervallo, di quella latenza fra due eventi reali, lo stimolo e la percezione del suo effetto, non si avverte nulla, anche se quella latenza è una delle regole dei meccanismi cerebrali, compresi quelli della coscienza.

Quello che viene ad emergere è una discrepanza sia tra la fenomenologia del tempo vissuto che sentito e il tempo misurabile, oggettivo dei meccanismi nervosi che lo creano, di cui non si ha coscienza.

Grazie ad Herman Von Helmholtz (1850) e tramite i suoi esperimenti è stata evidenziata la duplicità della realtà del tempo, conducendo ricerche sulla stimolazione dei muscoli delle zampe di rana.

Era stato possibile rendersi conto di come il muscolo, dopo la stimolazione, non si contraesse di colpo, bensì gradualmente, per cui tra la stimolazione elettrica del nervo e la contrazione muscolare trascorre un tempo di cui non si ha coscienza perché, entrambi gli eventi sembrano simultanei.

La latenza fra lo stimolo nervoso e la contrazione venne chiamata “temps perdu”, impiegato dallo stimolo a percorrere il tratto dentro il nervo fino al muscolo (Benini, A., 2017, p. 28). Ci si è chiesti in che modo contribuisca il nostro sistema nervoso centrale nel creare una organizzazione percettiva del mondo e della nostra attività mentale, accompagnate dal senso del tempo che il nostro cervello impiega in modo più o meno flessibile.

Il tempo per attivare la coscienza non dipende dalla frequenza o dal numero degli impulsi elettrici, ma dalla loro durata, per esempio per ottenere una sensazione somatica non è sufficiente la ripetizione dell’impulso, ma per diventare efficace, occorre che la ripetizione prosegua per una data durata.

Se mezzo secondo è il tempo necessario per diventare coscienti di una stimolazione portata alla corteccia cerebrale, come si spiega che se siamo toccati o se tocchiamo qualcosa ne siamo immediatamente coscienti senza latenza?

Come può un evento essere simultaneo alla coscienza se i meccanismi nervosi devono lavorare circa mezzo secondo per elaborare gli stimoli fino a renderli coscienti?

Nondimeno, i nostri meccanismi non sempre risentono di una buona integrazione che li porti qualitativamente e quantitativamente ad una buona coesione interna rispetto a quanto ci circonda (Siegel, J. D., 2001).

Il tempo è formato da meccanismi nervosi trasmessi da una generazione all’altra, caratterizzati da tracce genetiche che a contatto con l’ambiente possono incidere positivamente o meno su tutto l’organismo: a livello psichico, neurobiologico ed interpersonale.

Il senso del tempo, inoltre, sembra essere il frutto di una rappresentazione che si rispecchia sui piani della durata, dell’attesa e dell’ordine di successione degli eventi.

L’ippocampo svolge un ruolo chiave non solo per lo spazio e per la memoria, ma anche per il senso del tempo, insieme con l’area motoria supplementare, parte della corteccia prefrontale e parietale, i gangli della base ed il cervelletto (Kagerer, F. A., 2002).

La corteccia parietale sinistra, valendosi della memoria di informazioni precedenti genera un’attesa della durata degli eventi futuri, mentre la corteccia prefrontale destra utilizza informazioni retroattive per valutare se il tempo che passa coincida con quello previsto (Jueptener, M., 1995).

Questa panoramica offre inoltre la possibilità di porsi ulteriori quesiti ovvero se queste aree risentano di un buono sviluppo, di una buona integrazione e di una buona flessibilità.

Seguendo la fenomenologia dell’esperienza temporale e cercandone le basi anatomiche ed i meccanismi nervosi, ci si avvicina al tempo con la conferma che un evento cerebrale di quella natura e rilievo, che fornisce alla coscienza una delle dimensioni fondamentali dell’esistenza, è reale.

Il tempo di cui siamo coscienti e quello che rimane inavvertito, sembrano dunque dipendere da meccanismi nervosi diffusi in tutto l’encefalo, in particolare quelli della memoria, dell’attenzione e del sistema limbico e dell’affettività, nonché dallo stato fisico a quello ormonale (Eichenbaum, H., 2013).

Il senso del tempo è una realtà variabile, onnipresente e relativamente poco prevedibile, nondimeno di natura individuale come lo sono struttura e funzionamento di ogni cervello.

Per lo psicologo Robert E Ornstein (1969) il tempo è una delle rappresentazioni continue di cui è intrecciata la nostra esperienza, nondimeno la sua realtà risente di due aspetti fondamentali: il Government Time (GT) prodotto dal cervello e il Personal Time (PT), ossia il tempo fenomenologico della vita e della successione dei ricordi, ordinati nei centri nervosi della memoria.

A differenza del GT, l’esperienza del personal time risente notevolmente dell’attenzione attribuita agli eventi, delle emozioni, dell’affettività e dello stato d’animo, dunque di aree importanti, che non sempre sono state tradotte nel migliore dei modi e che possono risentire di alcuni deficit che possono protrarsi durante la vita e la propria crescita.

Le emozioni inoltre sembrano dunque avere un ruolo importante, poiché possono allungarlo come possono accorciarlo, infatti suoni carichi di emozioni (Angrilli, A., 1997) gradevoli e sgradevoli sentiti per 2, 4 e 6 secondi possono allungare il tempo, ancora di più se sgradevoli. Secondo Einstein (1915) il TP è il senso primordiale del flusso del tempo che ci consente di mettere ordine nelle nostre impressioni, talmente soggettivo da variare a seconda delle circostanze.

Lo sviluppo del senso del tempo (Carstensen, L., 2006) avviene con lo sviluppo delle capacità di camminare e del linguaggio nonché delle esperienze che trasmettono il senso dello scorrere dello stesso.

Nel linguaggio parlato oltre all’informazione lessicale e sintattica, la prosodia, cioè il ritmo, il tempo e il tono del discorso, modula notevolmente il contenuto e trasmette lo stato emotivo di chi parla (Scrimer, A., 2001).

Il collegamento dei meccanismi del parlare con quelli della pressione sanguigna e della respirazione rende l’espressione parlata molto sensibile alle emozioni. Anche in queste circostanze il senso del tempo riflette lo stato mentale dell’individuo, che interagisce con un altro.

La durata degli intervalli, cioè del silenzio, fra parole e sillabe è determinante per attribuire aggettivi, verbi, proverbi e quant’altro si dica alle varie componenti di una frase e quindi per capire quel che si sente.

Il linguaggio (Sinha, C., 2014) dunque si forma e si comprende con le strutture nervose del senso del tempo, per cui il parlare non sembra essere una funzione che si sviluppa indipendentemente dalle altre, bensì una funzione che prende il via e cresce assieme ad altri processi cognitivi.

L’informazione in arrivo non agisce mai su un sistema statico, ma sempre su un sistema già attivo, organizzato e sempre flessibile alle nuove modifiche, derivanti dalle interazioni con l’ambiente (Lashley, K. S., in Benini A., 2017, p.47).

L’attività del cervello, a seconda della quantità di energia di cui dispone è continua e l’elaborazione dell’informazione fino alla coscienza dipende dai meccanismi attivi in quel momento, di conseguenza l’esperienza è inserita nel traliccio nervoso dei meccanismi dello spazio e del tempo, ed acquista nella coscienza la dimensione temporale oggettiva del GT e soggettiva del PT.

Schematicamente secondo E. Poppel (1978) si possono distinguere cinque esperienze coscienti del tempo: quella della durata, della simultaneità e della successione, del senso del presente ed anticipazione del futuro.

Si tratta di esperienze diverse cui corrispondono meccanismi nervosi ben diversi, accompagnati dalla tesi, secondo la quale non vi è conferma della presenza di un unico centro dell’esperienza temporale. Viceversa tante esperienze differenti, coinvolgono diverse aree corticali e sottocorticali, che funzionalmente possono fornire o meno un armonioso equilibrio del senso che abbiamo del tempo e di cui le aree cerebrali della memoria, in particolare l’ippocampo, forniscono il senso sia del tempo che dello spazio (Bray, N., 2014).

La durata per esempio, come tutte le altre varianti del senso del tempo, dipenderebbe dalla durata dell’attivazione della rete dei neuroni sincronizzati durante l’evento.

Il meccanismo nervoso del senso della durata agisce non solo a seconda dello stato d’animo, ma anche in relazione ad eventi apparentemente irrilevanti.

Più alta è la temperatura del corpo o dell’ambiente per esempio, più veloce è sentito il passare del tempo (Warden, J. H., 1995).

Del mondo abbiamo l’esperienza cosciente che gli eventi multisensoriali, come il suono e la visione, siano percezioni sincrone ed immediate, ma ciò è un’illusione perché tra l’evento sensoriale e la percezione cosciente c’è un intervallo di circa mezzo secondo, necessario ai meccanismi nervosi per elaborare informazioni, riflessioni percezioni uni e multisensoriali (Benini, A., 2017, p. 54).

La compressione inconsapevole del tempo e la sincronicità illusoria di stimolazioni diverse, dovute alla capacità del cervello di convogliare molteplici modalità sensoriali in un unico flusso temporale omogeneo e coerente, rappresentano la normalità dell’esperienza sensoriale.

La compressione del tempo regola anche le percezioni mono sensoriali: per esempio se siamo toccati nello stesso istante nella faccia e in un piede, siamo coscienti simultaneamente dei due toccamenti, anche se lo stimolo che parte dal piede impiega 30-40 millisecondi per arrivare all’area parietale somato – sensoriale controlaterale e quello che parte dalla faccia impiega 5 – 10 millisecondi (Pastor, M., 2004).

Osservando questa sequenza quello che emerge è che la velocità delle due informazioni è ben diversa, ciononostante le relazioni temporali e spaziali dei segnali degli organi di senso sono essenziali per integrare le varie modalità dell’informazione.

Quello che ci si chiede è se questi meccanismi nervosi a partire dalle prime interazioni col caregiver ed ambientali risentano di un supporto volto a migliorarne sempre più lo sviluppo e la loro capacità funzionale, che in futuro può portare ad un adattamento o viceversa ad un blocco evolutivo (King, A. J., 2005).

Questo perché ogni meccanismo dell’informazione reagisce a un tipo e ad un ambito particolare di energia usando metodi specifici di trasmissione dell’informazione all’interno del cervello.

Per questo la coordinazione dei sistemi sensoriali, in particolare dello spazio e del tempo, è essenziale per interpretare gli eventi del mondo esterno ed elaborare un comportamento il più coerente possibile.

Le aree più specifiche per l’elaborazione del tempo sarebbero: i lobi parietali, l’area motoria supplementare e la corteccia frontale destra, tre aree di cui l’ippocampo si pensa essere il coordinatore (Lytton, W., 1999). Esso dunque risulta essere l’organo chiave della memoria e del senso del tempo stesso, fornendo alla coscienza la continuità delle rappresentazioni spaziale e del suo svolgimento temporale (Benini, A., 2012).

Sembra dunque che non ci si possa congedare dal tempo, frutto di meccanismi nervosi che danno vita all’esperienza consapevole ed inconscia, nondimeno flessibile a seconda delle percezioni, dello stato d’animo, della condizione ambientale, del carattere, della temperatura esterna e di quella del corpo.

Nondimeno queste caratteristiche non sempre danno vita ad un senso del tempo lineare, perché esso può risultare distorto a seconda del tipo di percezione che si va instaurando dentro di noi. In questo senso i meccanismi nervosi non sempre possono risultare fluidi e ancor di più flessibili, ma in base al loro grado di integrazione e funzione qualitativa rispetto alle quali emergono e si sviluppano, possono fare del senso del tempo una realtà nella quale viviamo, che conosciamo, che spesso costruiamo e che non sempre viene confermata dagli altri (Buhusi, C., 2005).

Infine possiamo dunque pensare che il tempo nella vita quotidiana sia in parte installato in un atto motorio inserito nello spazio, che il suo senso sia il frutto di esperienze motorie cui non si vorrebbe mai porre fine. Proprio perché il movimento richiede energia, se essa non risulta fluida e costante si rischierebbe di vivere ciò che più di ogni cosa si vorrebbe evitare: la discontinuità.

 

Il ruolo delle fantasie sadico-sessuali nella predizione dei crimini sessuali – FluIDSex

Le fantasie sessuali di carattere sadico vengono definite scenari immaginari di danneggiamento intenzionale eterodiretto a sfondo sessuale, e possono aiutare nella predizione dei crimini sessuali.

 

Le fantasie sessuali sono parte integrante della vita psichica e sessuale: rappresentano infatti un’esperienza comune agli esseri umani (Allen et al., 2020), costituiscono una normale forma di eccitazione sessuale (Baić et al., 2019) e da una prospettiva evolutiva rivestono anche un ruolo adattivo in quanto, stimolando un rapporto sessuale, aumentano le chances riproduttive della specie (Joyal, 2017). Le fantasie sessuali, così come le fantasie in generale, vengono considerate un’istanza della mental imagery (immagine mentale) (Nanay, 2018) e come tali vengono influenzate da molteplici variabili che ne determinano creazione e natura. Sorge quindi spontaneo chiedersi come sia possibile che le fantasie sessuali costituiscano un eccitante ed innocuo passatempo per la popolazione generale e al contempo una forza trainante per i reati sessuali nella popolazione criminale.

Le fantasie sessuali di carattere sadico vengono definite scenari immaginari di danneggiamento intenzionale eterodiretto a sfondo sessuale, che determinano un aumento dell’eccitazione sessuale per “colui che fantastica” (Bondü & Birke, 2020). Quattro fattori in particolare sembrano correlare con una maggior intensità ideativa, con un maggior coinvolgimento nella fantasia e con un significativo sexual arousal (eccitazione sessuale): la vividness (vividezza dell’immagine mentale) (Nanay, 2018), il daydreaming (sogno ad occhi aperti) (Bartels et al., 2017), la fantasy proneness (tratti di personalità associati a un maggior assorbimento nella fantasia) (Bartels et al., 2017) e la dissociazione (fenomeno che nei criminali, tra le altre cose, determina una sottovalutazione della gravità delle proprie azioni) (Bartels et al., 2017). Da uno studio di Baić e colleghi (2019) è emerso che il contenuto delle fantasie sessuali di un gruppo di uomini autori di violenza sessuale riguardava: la masturbazione (75,0%), lo stupro in cui la vittima risulta obbediente e sottomessa (57,5%), gli atti sessuali con un minore (30,0%), il sesso orale durante lo stupro (30,0%) e il dolore fisico inflitto alla vittima da parte dello stupratore (25,0%). Ciò nonostante il contenuto delle fantasie sessuali non risulta sempre rilevante nella previsione di comportamenti criminali; difatti nella popolazione generale sono frequenti fantasie sessuali atipiche (Joyal, 2017), mentre i criminali sessuali presentano in media una minor diversità nei contenuti delle fantasie. Sono invece elementi come frequenza, intensità, necessità, ossessione e significato attribuito a costituire dei possibili campanelli d’allarme (Bondü & Birke, 2020).

I cosiddetti sex offenders (aggressori sessuali) spesso nutrono fantasie concernenti comportamenti sessuali con un fine coercitivo o aggressivo nei confronti della vittima prescelta (Allen et al., 2020) e questo tipo di immagini mentali talvolta precede aggressioni innescate dall’eccitazione derivata dall’attività fantastica (Joyal, 2017). Questa è una delle ragioni per cui la comparsa di tali fantasie – soprattutto se ad alta ricorrenza ed intensità – viene considerata un fattore di rischio per la messa in atto di crimini sessuali. Anche i rapporti sessuali in giovane età sembrano essere correlati a una maggior propensione all’attività sessuale impersonale (anaffettiva) e ad interessi sessuali che si discostano dalla norma, come ad esempio fantasie di natura sadica (Ronis et al., 2019). Alcuni studi hanno descritto come un individuo che nel corso del suo sviluppo abbia interiorizzato credenze distorte (es. bambini come oggetti sessuali) presenti una maggior propensione ad esperienze di dissociazione dalla realtà e al coinvolgimento attivo in fantasie particolarmente vivide, aumentando la probabilità di creare e strumentalizzare fantasie sessuali aggressive (Bartels et al., 2017).

Risulta tuttavia importante puntualizzare come la maggior parte delle persone che presenta delle fantasie sessuali definite “devianti” non si tramuta poi in sex offenders, come nel caso delle attività BDSM, termine che descrive forme di attività sessuale che includono Bondage e Disciplina, Dominanza e Sottomissione, così come Sadismo e Masochismo (Simula, 2019). Difatti nello studio di Bondü e Birke (2020) sulla possibile correlazione tra identità BDSM e comportamento di aggressione sessuale non consensuale, solamente l’aggressione fisica conclamata prediceva in maniera stabile tale evento. Le fantasie sessuali “atipiche” di queste persone sono quindi considerate una parte fondante del BDSM, un aspetto caratteristico della sessualità e un elemento necessario all’eccitazione dei praticanti (Bondü & Birke, 2020). Questi dati evidenziano come la relazione tra le fantasie sadico-sessuali e il reato sessuale non si basi esclusivamente sulla natura del contenuto delle fantasie stesse.

Eziologia e funzione delle fantasie sadico-sessuali

Dalla letteratura emerge come diversi autori di reati sessuali condividano un passato di abusi e/o negligenze in tenera età, riaffiorante poi durante l’adolescenza e la prima età adulta sotto forma di reminiscenze e fantasie (Allen et al., 2020). Negli uomini questi tipi di vissuti traumatici, se esacerbati da un’incompetenza a costituire legami durevoli con le donne e a conseguenti percezioni di scarso valore e inadeguatezza, possono contribuire alla formazione di cognizioni distorte con carattere di ostilità verso le donne (Bartels et al., 2017). Queste credenze inducono gli uomini a mettere in atto strategie di coping disadattive per preservare e ricostituire la loro identità danneggiata, tra di esse troviamo le fantasie sessuali caratterizzate da temi di dominio, controllo, potere e aggressione nei confronti delle donne. Lo studio ha inoltre evidenziato come la ripetizione di tali cicli di intensificazione ideativa porti ad aggressioni seriali di crescente ferocia (Bartels et al., 2017). Con l’intento di individuare una possibile corrispondenza a livello cerebrale di questi fenomeni, è stata ipotizzata la presenza di un circuito neuronale comune ai tratti manipolativi della psicopatia e alla dipendenza sessuale, spesso infatti associati al comportamento criminale. I ricercatori Knight e Guay (2018) affermano che un’iperattivazione del sistema dopaminergico mesolimbico (deputato all’elaborazione degli stimoli socio-emotivi) potrebbe accentuare entrambe le componenti di ipersessualità (irrefrenabile desiderio di intraprendere attività a sfondo sessuale) e di manipolazione (matrice psicopatica criminale). Oltre che dalle strategie di coping o da distorsioni cognitive, i crimini sessuali come la violenza sessuale o l’abuso sessuale su minori possono essere sostenuti e motivati da altre variabili. Possono infatti rappresentare sia un tentativo di mantenere alta l’efficacia della fantasia come fonte di eccitazione e di piacere, soprattutto per garantire un’attività masturbatoria soddisfacente (Baić et al., 2019), sia un intenso desiderio di gratificazione, ovvero la necessità di uno strumento con cui degradare la vittima, attraverso l’aggressione fisica o la violenza verbale (Baić et al., 2019). In alcuni casi i sex offenders sviluppano fantasie sessuali di natura violenta così nitide e “reali” da non sentire il bisogno di una messa in atto della fantasia, che può rimanere tale. Tuttavia, nel momento in cui queste fantasie non risultano più appaganti, torna a manifestarsi la pulsione aggressiva che spinge la persona a mettere in atto comportamenti a sfondo sessuale di tipo criminale che gli permettano di acquisire nuovamente materiale su cui fantasticare e attraverso cui raggiungere l’apice del piacere (Bartels et al., 2017).

 


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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

 

 

Accendere il buio, Dominare il vulcano (2021) di A. Pellai e B. Tamborini – Recensione del libro

Il libro Accendere il buio, Dominare il vulcano di Alberto Pellai e Barbara Tamborini tratta il tema delle emozioni presentandolo come un viaggio verso una maggiore consapevolezza emotiva, definita come l’avere la capacità di parlare di noi stessi con noi stessi.

 

Ciò ci permette di passare da una visione pienamente passiva, in cui ci accadono degli eventi, ad una più attiva in cui possiamo prendere in mano la situazione e controllarla in modo che non agisca più distruttivamente su di noi. Il tema della consapevolezza è fondamentale anche per poter consentire il passaggio all’età adulta che altro non è che l’arrivo ad uno stadio in cui si è in grado di sostare nelle proprie emozioni, comprenderle, approfondire, enfatizzarle, in modo da affrontarle e superarle. L’obiettivo, ottenibile appunto con la consapevolezza emotiva, è quello di addentrarsi in un territorio inesplorabile, il proprio mondo interno, per permettere il dialogo interiore fondamentale per lo stare meglio durante un vissuto emotivo negativo.

Il titolo è emblematico ed è considerato dagli autori il sigillo perfetto dell’intenso percorso da loro effettuato per la stesura del libro. Infatti, pone al centro due elementi fondamentali:

  • accendere il buio: spesso le emozioni negative ci pongono all’interno di un buco nero che impedisce di vedere la luce e guardare in alto. In questi momenti senza speranza diventa fondamentale trovare la forza per aprire una porta, portatrice di luce, per poter avere il coraggio di affrontare il vissuto emotivo più o meno drammatico e superarlo.
  • dominare il vulcano: Tamborini sottolinea con la scelta della parola dominare sia intenzionalmente esagerata. Infatti, non è possibile dominare un vulcano, ma si può convivere con esso e sviluppare un rapporto di reciproco vantaggio. Così con le emozioni, soprattutto le più esplosive, diviene fondamentale stabilire un rapporto di riconoscimento e valorizzazione dell’energia al fine di usarla in modo vantaggioso e non distruttivo (trasformare la rabbia-contro in rabbia-per).

Nell’intervista, Pellai sottolinea anche come una delle più grandi sfide degli uomini, quando sono chiamati a entrare nelle zone profonde della propria mente, sia quella di lasciare il passato nel passato, al fine di impedire agli eventi drammatici avvenuti di avere ancora un effetto distruttivo sul presente e sul futuro. Per fare ciò è necessario cambiare prospettiva e sguardo rispetto alle emozioni correlate a quanto è successo, al fine di comprendere loro e i messaggi che hanno voluto portare.

Il libro pone particolare enfasi a quattro emozioni negative: la tristezza, la paura, la rabbia e il disgusto. Tutte vengono affrontate introducendo alcuni esempi di vita quotidiana adulta in cui si ha avuto a che fare con esse e propone delle strategie che possano essere utili alla loro gestione, piuttosto che l’evitamento.

Tristezza

Come spesso accade vengono usate dagli autori di Accendere il buio, Dominare il vulcano alcune immagini visive per la comprensione dell’emozione e del rapporto che bisognerebbe avere con essa. In questo caso viene introdotta una tecnica giapponese di riparazione delle ceramiche rotte. Essa consiste nel ricostruire, ricreando l’unità, una ceramica andata in frantumi, ma senza cancellare le crepe. Il vaso così ricostruito, seppur ancora segnato dalle cicatrici della rottura, assume maggiore preziosità per via dei trattamenti che ha ricevuto. Questo è l’approccio che bisognerebbe adottare quanto si affronta un’emozione come la tristezza: non è da accantonare, ma da affrontare; non bisogna trascurare/nascodere i traumi, ma affrontarli. Gli autori osservano anche come spesso la tristezza si presenta in momenti in cui non è accaduto niente direttamente alla persona in cui si presenta. Ne è un esempio la tristezza disarmante dei genitori che osservano il proprio figlio essere triste. Ecco, in queste situazioni l’approccio del genitore con l’emozione del figlio diviene fondamentale per porre le basi, nel bambino, ad un rapporto di sano scambio con le sue emozioni. Il genitore non può impedire che i suoi figli siano tristi, ma può insegnare loro a relazionarsi con essa, a sostare al suo interno. Proprio per questo tema, Tamborini propone l’immagine di una scena del film Inside Out, in cui Bing Bong perde il suo razzo. Mentre Gioia cerca di distrarlo in modo energico, Tristezza si siede accando a lui e lo ascolta, permettendogli di sfogare la sua tristezza e di piangere (e non di reprimere l’emozione come Gioia proponeva). Dopo aver pianto e abbracciato Tristezza (cioè accolto l’emozione), Bing Bong si sente meglio. La scena è esemplificativa del pregiudizio di molti per cui se un emozione fa male deve essere eliminata ed ignorata, quando in realtà la cosa migliore sarebbe affrontarla e comprenderla. Ciò avviene in molte dinamiche familiari, in cui appena si vede il bambino mostrare segni di tristezza si prova a negargli l’accesso all’emozione negativa, ma in questo modo non si fa altro che lasciarlo in un territorio sospeso, in cui la tristezza diventa angoscia: un’ombra nera che non si sa riconoscere.

Paura

Gli autori di Accendere il buio, Dominare il vulcano definiscono la crescita come un viaggio dentro le nostre paure, un percorso dalla paura al coraggio. In questo senso, diventare grandi altro non è che imparare a tollerare una dose maggiore di incertezza, di inadeguatezza, di rischio. Infatti, da piccoli siamo completamente posti all’interno della protezione e sicurezza data dagli altri e le prime paure (come quella dei buio e dei fantasmi) compaiono tra i 3 e i 7 anni quando i bambini devono lasciare il proprio nido protettivo per entrare in uno spazio sociale completamente nuovo. Un’ attenta analisi delle tipiche paure dei bambini permette di evidenziare come queste abbiano tratti evolutivi e adattivi. Ad esempio, l’uomo primitivo doveva abbandonare la sua grotta per cercare del cibo, ma allo stesso tempo doveva porre attenzione a possibili predatori: doveva stare attento a qualcosa di potenzialmente presente che non era visibile (chiaro riferimento alla paura al buio e ai fantasmi). Allo stesso tempo, la paura è di importanza enorme anche durante l’adolescenza, periodo in cui l’individuo deve entrare in territori potenzialmente rischiosi e sconosciuti per poter determinare se stesso e la propria identità. Per fare ciò è importante aver un buon rapporto con la propria paura, in modo che essa non ci impedisca di prendere dei rischi, ma che allo stesso tempo non ci renda troppo aperti al rischio aprendoci a potenziali danni. Gli autori sottolineano come in questo rapporto sano con la paura siano rilevanti le tecniche di gestione della paura (controllo del respiro, dell’immaginazione guidata, desensibilizzazione: tutte permettono alla nostra mente di riacquisire il controllo) e il rapporto con la fiducia (tanto meno ci fidiamo, tanto più pensiamo di possedere un controllo totale sugli eventi).

Rabbia

Gli autori si soffermano sulla distinzione tra rabbia-contro e rabbia-per. La prima è la tipica propensione a infuocarsi in tempi molto rapidi (il che è molto evidente nella comunicazione per social, in cui improvvisamente un tema oggettivo e generale viene reso una questione personale). Il motore della rabbia-contro è spesso la percezione di un’ingiustizia, tuttavia non sempre percepire un’ingiustizia è connesso all’effettiva presenza di un’ingiustizia. Infatti, è importante tener conto del contesto e il vero significato del gesto (che potrebbe non essere un affronto personale). Nel momento in cui reagiamo ad un affronto, manifestiamo la tipica rabbia-contro. Per avere un rapporto sano anche con questa emozione negativa è fondamentale comprendere cosa ha determinato la tensione e il pericolo che ha originato l’attacco difensivo.

La rabbia-per può essere considerata come una possibilità di usare l’attivazione energetica della rabbia-contro in modo vantaggioso e sano. Ad esempio, se un ragazzino in pieno dicembre dovesse decidere di uscire in pantaloncini, la madre potrebbe, in primo luogo, agire in modo reattivo ed esplosivo attraverso la rabbia-contro (percependo, magari, tale volere del figlio come un affronto personale, come un tentativo di ribellione). Un modo sano di relazionarsi alla propria attivazione sarebbe quello di trasformare l’energia esplosiva in rabbia-per, ad esempio assumendo una posizione autorevole (“Se esci così, ci saranno delle conseguenze” oppure “se non ti cambi, non puoi uscire”): in questo modo la discussione è immediatamente conclusa. La trasformazione della rabbia-contro in rabbia-per è importante anche nelle relazioni di coppia, in cui sarebbe auspicabile trasformare una discussione da continui contrattacchi a tentativi di far comprendere all’altro cosa ci fa male, in modo da porre le basi adeguate per ricostruire l’alleanza. È evidente come epr fare ciò è fondamentale possedere consapevolezza emotiva, al fine di comprendere il proprio vissuto emotivo ed esternarlo in modo adeguato.

Disgusto

Il disgusto è un’emozione spesso trascurata, nonostante la sua importanza evolutiva (protezione da possibili sostanze tossiche e dannose). Oggi la funzione originaria del disgusto è diventata secondaria, ponendo più in primo piano il suo ruolo nell’ambito sociale e intergruppo: è percepito disgustoso l’altro in quanto diverso e potenziale portatore di contaminazione morale o fisica nella propria vita. Nel considerare la rilevanza sociale del disgusto, il libro si sofferma su due fenomeni fondamentali: il bullismo e la sessualità. Per quanto riguarda il primo, viene sottolineato come di fatto il bullo si concentra sugli aspetti di diversità della vittima al fine di renderla disgustosa e ostracizzarla. Proprio per la centralità del disgusto nell’azione del bullo, diversi percorsi educativi e preventivi potrebbero agire in modo da rendere disgustoso il bullismo del bullo e sensibilizzare in questo modo gli studenti.

Altrettanto fondamentale è il tema del disgusto nel rapporto con la sessualità. Questa è stata a lungo considerata un enorme tabù (esempio della nonna che appena si mostra una scena di sesso in tv, cambia canale in modo disgustato; oppure i genitori che appena emergono domande sessuali hanno espressioni disgustate). Tale rapporto disfunzionale con la sessualità non fa altro che confinarla ad un qualcosa di sbagliato, repellente e disgustoso, appunto, il che rende difficile l’instaurarsi di una relazione sana e matura dei temi ad essa associati.

Da questa breve presentazione risulta estremamente chiaro il sottotitolo del libro: “Come trasformare le emozioni negative in potenti alleate”. Infatti, il testo si propone proprio di sottolineare il carattere vantaggioso e utile delle emozioni che tendenzialmente vengono considerate negative e, in quanto tali, da sopprimere.

 

Il Covid-19 e i suoi effetti sul nostro processo decisionale

Attualmente, un numero limitato di studi ha esplorato il potenziale legame tra l’impatto psicologico subito dopo aver vissuto eventi traumatici e il processo decisionale. Come ha influito la pandemia da Covid-19 sull’accuratezza delle decisioni prese?

 

 Il Covid-19 rappresenta una grave minaccia per la salute; la sua gravità e le politiche di lockdown messe in atto comportano conseguenze psicologiche rilevanti come, tra gli altri, alti livelli di confusione e rabbia e lo sviluppo di sintomi da stress post-traumatico (Brooks et al., 2020). Ma è possibile che quanto stiamo vivendo abbia influito a sua volta sulla nostra capacità di prendere decisioni accurate? La risposta a tale interrogativo rappresenta una questione rilevante, poiché il contesto in cui stiamo vivendo richiede che molte decisioni vengano prese in condizioni stressanti e la comprensione di determinati meccanismi potrebbe essere utile per impostare strategie di azione globale.

Attualmente, un numero limitato di studi ha esplorato il potenziale legame tra l’impatto psicologico subito dopo aver vissuto eventi traumatici e il processo decisionale. Per esempio, è stato osservato che quando viene chiesto ai partecipanti di scegliere tra guadagni/perdite potenzialmente sicure e possibilità rischiose di guadagnare/perdere quantità variabili, i partecipanti con una diagnosi di disturbo da stress post-traumatico (Post-Traumatic Stress Disorder; PTSD) mostrano ambiguità decisionale e avversione alle perdite (May&Wisco, 2020). 

D’altra parte, una grande quantità di studi ha analizzato l’effetto che anche altri tipi di stress esercitano sul processo decisionale ma, in questi casi, i risultati sono estremamente eterogenei. Per esempio, in uno studio sperimentale i ricercatori, dopo aver indotto una condizione stressante nei partecipanti, li hanno sottoposti al “gioco del dittatore”, in cui i soggetti ricevevano una somma di denaro e dovevano decidere se condividere o meno una parte di questo con un estraneo (Forsythe et al., 1994). I partecipanti sotto stress hanno donato più soldi allo sconosciuto (Hasegawa et al., 2007). Nei dilemmi personali, tuttavia, che chiedono ai soggetti di scegliere tra alternative egoistiche o altruistiche, i partecipanti, in condizioni di stress, hanno preso più decisioni egoistiche rispetto ai partecipanti non stressati (Starcke et al., 2011). 

Anche l’effetto di framing, ovvero la tendenza ad elaborare un’informazione sulla base del modo in cui viene presentata, è stato utilizzato al fine di comprendere come lo stress possa indurre cambiamenti nei processi decisionali. La ricerca ha dimostrato che i partecipanti, in questi casi, presentano maggiori bias nelle risposte, prendendo decisioni più sicure quando i problemi sono inquadrati in termini di guadagni, ma decisioni più rischiose quando vengono presentati in termini di perdite (Porcelli &Delgado, 2009). Queste osservazioni possono essere interpretate alla luce dell’approccio a doppio processo (Kahneman, 2003), secondo il quale esistono due sistemi: il primo promuove processi rapidi e automatici e, il secondo, ragionamenti più riflessivi (Evans &Stanovich, 2013). Dunque, seguendo questo approccio, lo stress facilita le risposte rapide e automatiche del sistema 1, ostacolando le risposte più controllate del sistema 2.

Inoltre, si è visto che lo stress altera il processo decisionale anche nei classici dilemmi morali utilitaristici/deontologici (Youssef et al., 2012). In questi dilemmi, ai partecipanti viene illustrata una particolare situazione: un treno in arrivo rischia di uccidere cinque persone e l’unico modo per fermarlo è uccidere uno spettatore innocente. Dunque, ai partecipanti viene chiesto di scegliere se uccidere quell’unica persona oppure sacrificarne cinque. In questi dilemmi, le alternative utilitaristiche permettono ai partecipanti di sacrificare una persona per salvare più vite. Youssef e colleghi (2012) hanno dimostrato che i partecipanti sotto stress hanno dato meno risposte utilitaristiche rispetto ai partecipanti non stressati.

 Pertanto, lo stress sembra alterare i meccanismi alla base del processo decisionale. Tuttavia, non è ancora noto se questi modelli di risposta siano replicabili in situazioni reali. In uno studio, alcuni ricercatori hanno analizzato se i processi decisionali dei partecipanti fossero stati influenzati dall’impatto psicologico generato dalla pandemia. Ai soggetti (n=641) sono stati presentati quattro compiti decisionali: il gioco del dittatore, problemi di framing, dilemmi morali utilitaristici/deontologici e dilemmi morali altruistici/egoistici. 

Sulla base della letteratura precedente, gli autori si aspettavamo che i partecipanti con livelli più alti di impatto psicologico presentassero maggiori bias nei problemi di framing (Porcelli & Delgado, 2009) e, più concretamente, che evitassero perdite (May&Wisco, 2020). Inoltre, hanno ipotizzato che i partecipanti avrebbero effettuato meno scelte utilitaristiche nei dilemmi morali utilitaristici/deontologici. Per quanto riguarda il gioco del dittatore e i dilemmi morali altruistici/egoistici, le previsioni erano più difficili da stabilire, poiché alcuni studi suggeriscono che lo stress promuove risposte altruistiche (Hasegawa et al., 2007), mentre altri propongono il contrario (Starcke et al., 2012).

Principalmente, dai risultati è emerso che l’impatto psicologico ha predetto le risposte dei partecipanti nei problemi di framing, nei dilemmi morali utilitaristici/deontologici e nei dilemmi altruistici/egoistici, ma non nel gioco del dittatore. 

I risultati suggeriscono che, nel contesto della pandemia, i bias nelle risposte comportavano la propensione verso un processo decisionale sicuro.

Inoltre, l’impatto psicologico determinato dal Covid-19 ha predetto le risposte utilitaristiche. Difatti, i partecipanti che non avevano riportato considerevoli ripercussioni hanno scelto l’alternativa utilitaristica più frequentemente. Questo risultato è coerente con l’osservazione che i soggetti con diagnosi di PTSD evitino di essere coinvolti in decisioni i cui esiti potrebbero essere più o meno negativi, forse perché prevedono che verrebbero influenzati negativamente dalle perdite (May&Wisco, 2020). Inoltre, il risultato amplia le evidenze precedenti che sottolineano come, quando si affrontano dilemmi morali, lo stress induce dei bias nelle risposte (Youssef et al., 2012). Infine, si è evinto che gli alti livelli di stress in questo contesto portano ad effettuare scelte più altruistiche. Pertanto, la tendenza a prendere in considerazione l’altro quando vengono prese delle decisioni, potrebbe essere stata innescata dal contesto sociale causato dalla pandemia, come i ripetuti messaggi che imponevano di restare a casa o di indossare la mascherina per evitare di infettare gli altri. Questa spiegazione sarebbe coerente con gli studi che mostrano che alti livelli di impatto psicologico correlano con i processi automatici durante il processo decisionale (Yu, 2016), che potrebbero facilitare questo modello di risposte altruistiche.

 

L’ interconnessione cervello e intelligenza artificiale: fantascienza o possibile uso clinico?

Cosa accadrebbe se ad ospitare un dispositivo digitale non fosse un oggetto ma il cervello di un essere vivente? La prima notizia della realizzazione di impianti neuronali in un essere vivente risale al 29 Agosto 2020 quando Neuralink ha annunciato di aver sperimentato l’impianto neurale su un maiale

 

Neuralink e gli impianti neuronali negli esseri viventi

La tecnologia digitale circonda la nostra esistenza, la maggior parte degli strumenti che utilizziamo quotidianamente hanno al loro interno una componente digitale che ha funzioni di controllo o addirittura consente l’interazione con l’ essere umano, basta pensare a orologi, telefoni, autoveicoli ed elettrodomestici per vedere come questi siano sempre più spesso ospiti di tecnologia digitale.

Ma cosa accadrebbe se ad ospitare un dispositivo digitale non fosse un oggetto ma il cervello di un essere vivente?

Recentemente sono stati compiuti esperimenti su animali ed è stato annunciata l’intenzione di sperimentare dispositivi di connessione anche su esseri umani con tutti i dubbi etici che questa scelta può generare (Dadia T, Greenbaum D. 2019)

Dal cyborg  al “cypork”

La prima notizia della realizzazione di impianto neuronale in un essere vivente risale al 29/8/2020 (la Repubblica 28/8/2020) quando Neuralink ha annunciato di aver sperimentato l’impianto neurale su un maiale (chiamata Gertrude). Neuralink Corporation è una azienda statunitense di neurotecnologie è stata avviata nel 2016. Tra i suoi fondatori l’imprenditore Elon Musk (The Wall Street Journal, 27 marzo 2017).

L’ esperimento condotto dimostrava come il chip impiantato nel cervello della scrofa Gertrude consentiva di vedere su monitor i suoi segnali neurologici mentre questa inseguiva una mangiatoia con del cibo su un tapis roulant.

Lo scenario descritto dagli sperimentatori è affascinate. Secondo la loro opinione, questo tipo di impianto cerebrale potrebbe essere utile in patologie centrali quali: Alzheimer, Parkinson e disturbi della memoria in genere; studio della fisiologia cerebrale; disturbi periferici quali paraplegie e tetraplegie.

Neuralink e la realizzazione di impianti neuronali negli esseri viventi - IMM.1

Immagine tratta da Huffington Post – Elon Musk mostra come funziona l’impianto cerebrale Neuralink inserito in un maiale

Chip neurali: il macaco Pager ed i videogame

I primi tentativi di tradurre l’attività neuronale in comandi per controllare dispositivi esterni furono fatti nelle scimmie già negli anni ’60 (Evarts EV. 1966)

È recente la notizia (Coriere della Sera 10/4/2021) di un macaco di 9 anni di nome Pager che dopo aver subito l’impianto di un chip neuronale è in grado di giocare ad un videogame solo con l’uso della mente.

Usando il rinforzo positivo legato alla ricompensa, tipico degli studi sul comportamentismo di Pavlov (Finizio P. 2021) il macaco ha imparato a giocare ad un game simulante una partita di tennis per ottenere una ricompensa, nel caso specifico frullato di banana,  in base ai punti segnati.

Con l’impianto neuronale è stato possibile mappare l’attività neuronale della scimmia mentre imparava ad utilizzare il game in circa 6 mesi, trascorsi i quali è stato possibile creare un modello predittivo personalizzato sincronizzando la mappa mentale con i movimenti compiuti dall’ animale. Il passo successivo è stato quello di togliere il joystick ed osservare come Pager riuscisse a muovere le barre sullo schermo del videogame solo grazie agli impulsi cerebrali trasmessi dall’ impianto neuronale.

Gli impianti neurali

Un impianto neurale consiste nel posizionamento attraverso chirurgia o iniezione di un elettrodo che si connette direttamente all’ encefalo: corteccia cerebrale, o midollo spinale. Questi impianti sono in grado di registrare l’ attività neuronale o addirittura inviare stimoli grazie al fatto che i neuroni usano stimoli elettrici per la trasmissione degli impulsi eccitatori o inibitori.

Il sistema sviluppato può fungere da prototipo di neurointerfaccia invasiva per applicazioni cliniche. In particolare, le neurointerfacce multielettrodi possono diventare la base per nuovi sistemi di comunicazione e tecnologie dedicate all’ assistenza avanzata per persone paralizzate, nonché per controllare dispositivi esterni e interagire con l’intero ambiente, ad esempio, integrandosi in nuove tecnologie sviluppate rapidamente, come Smart Home e Internet of Things. Inoltre, le applicazioni dell’interfaccia cervello-computer sono molto promettenti per rilevare informazioni nascoste nel cervello dell’utente, che non possono essere rivelate dai canali di comunicazione convenzionali. Attualmente, l’uso di interfacce cervello-computer non invasive in questi campi è limitato da un basso numero di comandi che possono essere riconosciuti. Questa limitazione deriva da un numero relativamente piccolo di caratteristiche, che possono essere estratte dall’elettroencefalografia a livello del cuoio capelluto o dalle registrazioni della spettroscopia funzionale. Le interfacce invasive cervello-computer (o interfacce cervello-macchina) dimostrano prestazioni molto migliori rispetto alle interfacce non invasive cervello-computer; tuttavia, richiedono un numero maggiore di canali per ottenere informazioni più dettagliate sull’attività di spike individuale dei neuroni attraverso regioni corticali distribuite. Il dispositivo riportato nel paper di Elon Musk e Neuralink si avvicina alla soluzione a questo problema.

Impianti per sostituzione sensoriale

Consiste nell’applicazione di bioprotesi che sono in grado di bypassare aree del cervello colpite da lesioni ischemiche, iatrogene o traumatiche, queste protesi sono state in grado di restituire la vista o l’udito in alcuni pazienti.

Stimolazione cerebrale profonda

La Food and Drug Administration (FDA) statunitense ha approvato l’utilizzo della stimolazione cerebrale profonda nel 1997 per il trattamento del tremore essenziale. Da allora, la FDA e altri regolatori globali hanno approvato questo trattamento per la malattia di Parkinson, la distonia, l’acufene, l’epilessia, il disturbo ossessivo-compulsivo e il dolore neuropatico.

Stimolazione epidurale

Alcuni degli esperimenti più emozionanti che coinvolgono gli impianti neurali sono quelli che riguardano la stimolazione del midollo spinale, noto anche come stimolazione epidurale. Il trattamento ha permesso a molte persone con paralisi nella parte inferiore del corpo di muoversi, stare in piedi e persino camminare per una breve distanza per la prima volta da quando hanno riportato lesioni al midollo spinale.

Neuralink e l’ibridazione del cervello umano

La tecnologia e i processi presentati nel documento Musk e Neuralink possono sicuramente aumentare il numero di canali, fornendo un campionamento più dettagliato dei segnali rilevanti e una ridondanza gradita. Forse ancora più interessante dell’approccio proposto è la possibilità di posizionare gli elettrodi in aree del cervello che è stato difficile o impossibile raggiungere con la tecnologia esistente. Queste nuove posizioni potrebbero potenzialmente fornire diversi tipi di informazioni per migliorare le prestazioni dell’interfaccia cervello-macchina.

Tuttavia, la potenziale applicazione clinica di questa strategia non è chiara poiché è stata testata solo su un piccolo numero di roditori ed alcuni animali più grandi, senza alcun confronto con gli approcci esistenti o la verifica della sicurezza utilizzando l’analisi istologica dopo l’impianto. Gli autori affermano che i loro impianti avranno una maggiore longevità rispetto ad altre opzioni a causa della minore risposta immunitaria correlata alla rigidità degli elettrodi e all’interruzione microvascolare, ma non viene presentata alcuna prova a sostegno di nessuna di queste ipotesi e una maggiore durata non è stata verificata utilizzando l’impianto a lungo termine. Non è chiaro se i vasi sanguigni sotto la superficie possano essere evitati,questi sono potenzialmente critici per le risposte immunitarie (Fourneret É 2020).

Il documento non affronta l’uso degli elettrodi a filo per cervelli più grandi con strutture corticali più complesse (ad esempio, la struttura profondamente corconvoluta del cervello umano). Il sistema di registrazione potenzialmente impiantabile come presentato non include la sigillatura ermetica, una fonte di alimentazione pertinente (ad esempio, batteria, induzione o ottica) o una tecnica (ad esempio, wireless) per la trasmissione di dati a larghezza di banda elevata fuori dal corpo senza un’interfaccia percutanea. La tecnologia è molto innovativa, ma sarà necessaria una migliore convalida per stabilirne il potenziale clinico (Robert F K  A Bolu A,  Jonathan P M. 2019).

Conclusioni

Nel prossimo futuro, le neurotecnologie continueranno a crescere. Simulazioni al computer più accurate e avanzate (ad esempio, modellazione computazionale) consentiranno ai ricercatori di testare e convalidare queste tecnologie ancora più rapidamente. Le neurotecnologie impiantabili diventeranno letteralmente parte di noi.

La comunicazione bidirezionale diretta tra il cervello e i dispositivi esterni, la trasformazione che questa connessione determina e l’offuscamento dei confini tra esseri umani e macchine, sono questioni che sollevano diverse preoccupazioni etiche, sociali e culturali. L’identità personale, l’integrità fisica e la dignità umana delle persone che utilizzano la prossima generazione di interfacce cervello-macchina richiederanno sicuramente ulteriore attenzione (Drew L. 2019).

 

Ucronia Beckiana: e se fosse rimasto psicoanalista? – 100 anni di Aaron T. Beck – Parte 7

Si immagina cosa sarebbe accaduto, in un Marvel Psychotherapeutic Multiverse, se Beck fosse rimasto psicoanalista.

 

Marvel Psychotherapeutic Multiverse: e se Beck fosse rimasto psicoanalista?

Concludiamo queste riflessioni immaginando un’ucronia, un universo parallelo, un Marvel Psychotherapeutic Multiverse in cui Beck è rimasto psicoanalista. A questo punto della storia diventa quasi legittimo chiederselo, oltre che intrigante. Legittimo perché, come abbiamo visto, il rapporto di Beck con la psicoanalisi è stato non solo prolungato ma, in realtà, a voler essere sinceri, mai dimenticato. In una intervista rilasciata a Salkovskis nel 1990, Beck arriva a rammaricarsi che i terapeuti cognitivi formatisi dopo il suo definitivo distacco dalla psicoanalisi databile al 1975, manchino di una formazione psicoanalitica, quasi a dire che questo aspetto sia irrinunciabile per un buon terapista cognitivo. Insomma, Beck continua a considerare la sua terapia cognitiva una forma di psicoanalisi dell’Io.

Chiediamocelo: e se fosse rimasto psicoanalista? Se nella psicoanalisi americana si fossero create le condizioni per accogliere Beck e non ripudiarlo? Non è uno scenario così irreale, come abbiamo visto. Certo, nella realtà il salto finale di Beck verso la psicoterapia cognitiva lo rendeva incompatibile con la psicoanalisi: la ristrutturazione delle distorsioni cognitive, la messa in discussione diretta senza passare per l’interpretazione degli aspetti difettosi dell’Io come li chiama Rapaport, diventava l’intervento chiave attuabile senza attendere l’emersione dei contenuti pulsionali.

E tuttavia, era davvero così? Oppure perfino questo aspetto era già presente nella psicoanalisi? Riflettiamo, la stessa psicoanalisi dell’Io aveva sostenuto che la rivelazione delle difese inconsce poteva stare accanto all’emersione delle pulsioni come forma di interpretazione analitica dell’inconscio. Ebbene? Non significa questo che quindi, potendosi interpretare le difese senza far emergere la pulsione, era in fondo possibile mettere in discussione la disfunzionalità (e quindi l’illogicità pratica) delle difese senza interpretare la pulsione inconscia? C’è pure un termine psicoanalitico compatibile con questo intervento: la confrontation, il confronto. Lo usa molto Kernberg, ortodossissimo psicoanalista.

Conclusione inquietante. Ciò vuol dire che in qualche modo sarebbe potuto bastare formulare in questi termini l’intervento di Beck, come confrontation, per tenerlo dentro il recinto della psicoanalisi. La down arrow, la scoperta socratica delle distorsioni cognitive come analisi delle difese e il loro trattamento come sfida alla loro irrazionalità non erano così lontane da una interpretazione psicoanalitica. L’interpretazione non è solo rivelazione ma anche confronto, confrontation nella terminologia ortodossa utilizzata anche da Kernberg. Se si fosse aperta questa sliding doors, la porta scorrevole che chiuse quell’accoglimento nella psicoanalisi che Beck tanto desiderava, scenari inediti si sarebbero aperti.

Beck rimane psicoanalista

Cosa sarebbe accaduto? Una volta rimasto dentro l’ortodossia freudiana della psicoanalisi dell’Io, presumibilmente Beck avrebbe seguito il suo principale talento e la sua grande ambizione, che è stato quello di costruire procedure di terapia formalizzata e manualizzata e dall’esecuzione ripetibile e controllabile. Lavorando all’Università della Pennsylvania, dove già era stato in grado di farsi strada nella realtà, pur nella difficile situazione di terzo incomodo tra psicoanalisi e comportamentismo, avrebbe avuto presumibilmente altrettanto successo come psicoanalista moderno e avrebbe aperto il suo seminario di psicoterapia cognitiva psicoanalitica. La domanda è: quali studenti avrebbe attirato?

Nella realtà egli fu circondato da una maggioranza di allievi che avevano già ricevuto la formazione psicoanalitica, come quel John Rush che avrebbe avuto l’idea del primo trial di efficacia applicato a una psicoterapia. Altri non l’avevano, come ad esempio Steven Hollon, di formazione rogersiana. Conoscendo Beck e la sua tendenza sia all’apertura mentale che a una certa irriverenza verso l’ortodossia, è presumibile che nello scenario alterativo psicoanalitico avrebbe comunque accolto allievi di ogni provenienza, sia con training psicodinamico che non ed è presumibile che avrebbe pensato per i non psicodinamici una sorta di integrazione formativa di tipo psicoanalitico.

In ogni caso, immaginiamo che anche nello scenario alternativo Beck quasi sicuramente incontrò John Rush, che fu la figura chiave di questi eventi. Perché diamo per sicuro questo incontro anche nel Marvel Psychotherapeutic Multiverse? Perché in questo universo reale (reale?) in cui siamo noi Rush ha avuto una formazione analitica, come ho saputo personalmente da Steven Hollon per mail. A maggior ragione Rush avrebbe collaborato con un Beck rimasto psicoanalista anche dopo il 1975. Come sappiamo, John Rush fu colui che fece fare il successivo salto di qualità a Beck, incoraggiandolo a organizzare un trial di efficacia mutuando la metodologia dagli studi farmacologici. Da qui Beck trasse lo slancio necessario per scrivere, scambiando continuamente idee col suo gruppo di giovani terapisti, il manuale di trattamenti di psicoterapia cognitiva che in questo caso si sarebbe chiamato di psicoanalisi cognitiva.

In questo scenario Beck avrebbe conservato la sua rapidità di azione, pubblicando prima di tutti il suo manuale nel 1979, anni prima dei manuali di Klerman, Luborsky e Strupp. E tuttavia Beck avrebbe comunque collaborato con Klerman e Luborsky, come è avvenuto in questo universo, e anzi avrebbe collaborato con costoro ancora più facilmente, condividendo con essi il retroterra psicoanalitico, interpersonale nel caso di Klerman e più ortodosso freudiano nel caso di Luborsky. In realtà è quasi più inverosimile quello che è avvenuto in questo universo, che Beck abbia potuto confrontarsi e interagire con Klerman e Luborsky pur avendo ripudiato definitivamente la psicoanalisi nel 1975. Ancora più facilmente, quindi, Beck avrebbe avuto accesso ai fondi governativi americani trovati da Klerman per lo sviluppo di trattamenti manualizzati di esecuzione controllabile ed efficacia verificabile.

E qui davvero gli scenari divergono, poiché è chiaro che, in questa maniera, l’accesso ai fondi aperti a una psicoterapia cognitivo psicoanalitica (e non cognitivo comportamentale) avrebbe finito per conferire alla psicoanalisi quell’aura di efficienza tecnologica e di fondatezza scientifica che invece è stata assunta da quella nuova e autonoma psicoterapia cognitivo comportamentale che avrebbe fondato Beck. E a questa psicoterapia cognitivo psicoanalitica sarebbero andate le polizze delle assicurazioni americane che l’avrebbero ulteriormente dotata di forza economica. E la fondatezza scientifica, da dove sarebbe arrivata? Come avrebbe Beck accordato tra loro efficacia terapeutica e fondatezza scientifica? Da dove sarebbe arrivata la taccia di psicoterapia scientifica per il suo trattamento non cognitivo, data la crisi di credibilità scientifica in cui aveva già iniziato a versare il modello freudiano negli anni ‘70?

La risposta è facile: prima di tutto il furbo Beck avrebbe chiamato il suo modello “cognitivo analitico” anche nell’altro universo, come avrebbe voluto fare nel nostro universo. Quindi semplicemente si prendeva lui il termine cognitivo, lo agganciava a Freud e tanti saluti a Mahoney e alla psicoterapia cognitivo comportamentale più o meno costruttivista. Inoltre, così come nella realtà Beck ha compiuto una parziale forzatura concettuale agganciando le distorsioni cognitive coscienti della sua psicoterapia cognitiva al modello di mente non del tutto cosciente ma anche procedurale della rivoluzione cognitiva, egli avrebbe potuto effettuare un analogo parzialmente forzato aggancio concettuale tra la sua psicoterapia cognitivo psicoanalitica e scienza cognitiva, e non è affatto detto che in quell’universo questa forzatura sarebbe stata più difficile da compiersi. Al contrario, essa avrebbe potuto essere per certi versi più facile, poiché Beck non sarebbe stato costretto a trovare un compromesso tra la condizione consapevole delle distorsioni cognitive da lui individuate e gli schemi procedurali non del tutto coscienti della rivoluzione cognitiva di Miller, Galanter e Pribram. Avrebbe invece trovato facile armonizzare il livello consapevole delle sue distorsioni e livelli successivi inconsci, difese e pulsioni, in cui il suo trattamento non andava ma nemmeno negava. Paradossalmente, quindi, in questo scenario alternativo Beck si sarebbe perfino risparmiato tutte le critiche di semplicismo razionalista.

Gli sviluppi successivi sarebbero stati deprimenti per noi di questa realtà in cui la psicoterapia cognitivo comportamentale detiene lo scettro di psicoterapia scientifica ed efficace. Una volta che una forma di psicoanalisi, ovvero la psicoterapia cognitivo psicoanalitica di Beck, avesse conquistato questo status di psicoterapia efficace e scientifica, anche le altre psicoanalisi avrebbero goduto, sia pure per luce riflessa, dello status di psicoterapie efficaci e scientifiche, dato che Beck, vero epigono di Freud, ne aveva definitivamente dimostrato efficacia e fondatezza scientifica (Imm. 1).

Beck ipotesi di un mondo in cui Beck rimase psicoanalista Ucronia Imm 1

Imm. 1: Evidence based psychoanalysis. Il libro che Beck avrebbe scritto se fosse rimasto psicoanalista. Ci arriva sgranato da un universo parallelo.

Non basta. È possibile immaginare un ulteriore stupefacente sviluppo, davvero sbalorditivo. Ovvero una ulteriore integrazione tra psicoterapia cognitivo psicoanalitica di Beck e i modelli psicoanalitici successivi, quello della psicologia del sé di Kohut e quello relazionale di Mitchell. Esageriamo? E perché mai? Non esageriamo perché, come abbiamo già spiegato varie volte altrove, la psicoterapia cognitiva di Beck, che sia comportamentale come nella nostra realtà o psicoanalitica come in questo scenario immaginario, ha in sé una componente relazionale e di validazione del Sé nascosta ma ben presente. E la sua presenza sarebbe diventata più facilmente rivelata dal permanere di Beck nel campo psicoanalitico. Infatti, e ancora una volta come abbiamo già scritto, nel modello di Beck l’intervento razionale di messa in discussione (questioning) delle distorsioni cognitive di fallimento, rovina, debolezza del Sé e così via, lungi dal suonare -come troppo spesso è stato presentato dai costruttivisti- come un meccanico intervento di correzione degli stati mentali, è al contrario un intervento di validazione verso il paziente, il quale si sentirà accolto e compreso in termini non solo cognitivi ma anche relazionali dall’intervento di analisi cognitiva che conferisce un senso ragionevole alle credenze negative, non diversamente da quanto avrebbe fatto Mitchell, e inoltre ne risulterà lusingato e rafforzato nella sua stima di sé dal successivo intervento di ristrutturazione cognitiva dei pensieri negativi non troppo diversamente da quanto avrebbe fatto Kohut. Ecco che si configura uno stupefacente scenario finale di una psicoanalisi cognitiva, relazionale, focalizzata del Sé e inoltre efficace e scientificamente fondata. Quanto basta per conferire alla psicoanalisi un ruolo di egemonia scientifica, culturale ed economica dagli anni ’90 in poi per noi inquietante.

La psicoterapia cognitiva senza Beck

E la psicoterapia cognitiva? Sarebbe nata? O sarebbe rimasta comportamentale? E se sì, come si sarebbe evoluta? La risposta è sì, sarebbe nata. Sarebbe nata grazie a Mahoney, Lazarus e Meichenbaum, i quali avrebbero compiuto in quegli stessi anni, ma senza Beck, come hanno fatto in questa realtà, la svolta clinica cognitiva culminata nella fondazione del giornale Cognitive Therapy Research. Con un problema però. Che essendo rimasto Beck psicoanalista, non avrebbero pubblicato nel primo numero della rivista il lavoro di Rush e Beck sull’efficacia della psicoterapia cognitiva. Con conseguenze enormi. Il lavoro di Beck sull’efficacia tecnicamente riguardava solo il protocollo di Beck sulla depressione ma, come sappiamo, esso nella realtà si rifletté su tutte le altre forme di psicoterapia cognitiva, comprese quelle di Mahoney, Lazarus e Meichenbau, che quindi potettero usufruirne in maniera che ora appare a posteriori naturale, ma anche -scriviamolo- automatica e passiva, senza che si mettesse in discussione la legittimità di questa estensione, quasi per osmosi, dell’efficacia. Conoscendo la successiva evoluzione clinica e teorica di Lazarus e Mahoney, possiamo ritenere che, come nella realtà essi non si posero mai il problema dell’efficacia, lasciando l’onere a Beck e soprattutto allo specializzando psichiatra esperto di trial randomizzati John Rush, così sarebbe accaduto anche nello scenario immaginario, in cui essi si sarebbero dedicati al loro talento di speculatori teorici della svolta cognitiva, sottolineandone gli aspetti di elaborazione non consapevole ma funzionalistica delle distorsioni cognitive senza mai porsi il problema dell’efficacia e ritenendo sufficiente la cornice scientifica assicurata dal modello cognitivo della mente.

Così, questa psicoterapia cognitiva senza Beck rischiava di qualificarsi come una speculazione teorica pericolosamente poco capace di allocazione clinica. Questa tendenza sarebbe stata accentuata dalla spontanea propensione di Mahoney alla teoria, con conseguenze non rassicuranti sul piano della clinica e delle prove di efficacia. Per quanto riguarda la clinica, un correttivo c’era anche nell’universo parallelo. Analogamente a quanto è accaduto nel nostro universo questo scenario sarebbe stato corretto dall’incontro di Mahoney con Guidano e Liotti durante il suo anno sabbatico trascorso a Roma alla fine degli anni ‘70, in cui i tre elaborarono, oltre che un modello teorico incentrato su una concezione costruttivista e non razionalista alla Beck della cognizione, un modello clinico articolato per organizzazioni di personalità stranamente molto somiglianti alla tavola della credenze sul sé di Beck, tavole già presentate prima nella parte dedicata all’uso del Sé che fa Beck.

Con le organizzazioni di personalità di Guidano e Liotti la psicoterapia cognitivo costruttivista di Mahoney avrebbe conseguito un ottimo grado di sostanza clinica nella descrizione dei pazienti. Questo però non sarebbe stato sufficiente a coprire il vuoto lasciato dal talento di Beck (psicoanalista) come formalizzatore di procedure formalizzate, ripetibili e controllabili. Chi avrebbe potuto coprire quel vuoto? Qui forse potrebbero entrare in campo i britannici, anche se tuttavia lo scenario comincia a diventare davvero irrealistico.

In questo scenario infatti i britannici, ovvero Clark e Salkovskis, non dispongono di Beck e del suo manuale per riuscire ad effettuare il loro distacco dal comportamentismo. È vero che Clark e Salkovskis crescono nell’ambiente di lavoro creato da Michael Gelder, primo professore di psichiatria a Oxford, interessato al trattamento comportamentale mediante desensibilizzazione dell’agorafobia, capace di comprendere i limiti dell’approccio puramente comportamentale e quindi di incoraggiare l’esplorazione del valore dell’aggiunta di strategie cognitive. Tuttavia, pur con l’incoraggiamento di Gelder, per Clark la situazione è dura disponendo solo del lavoro di Mahoney, teorico, e di quello di Guidano e Liotti con il loro libro del 1983, teorico ma per fortuna anche clinico.

Il problema della clinica di Guidano e Liotti del 1983, tuttavia, è che era puramente esplorativa, limitandosi a descrivere con ricchezza di dettaglio psicologica il paziente nella sua organizzazione cognitiva del Sé ma senza fornire alcuna procedura di indagine. Vero è che le organizzazioni di personalità di Guidano e Liotti avrebbero potuto fornire a Clark e Salkovskis il corrispondente di quel nesso clinico che erano le credenze sul Sé di Beck, ma questo nesso non bastava a produrre procedure di intervento in mancanza della tecnica di indagine della down arrow e soprattutto del questioning così brillantemente messi a punto da Beck. Cosa avrebbe potuto sostituirli? Sarebbero stati capaci Clark e Salkosvis di articolare l’analisi funzionale intorno alle organicazioni di personalità? Sarebbe stato capace Mahoney di operare quell’opera di mediazione tra inglesi e italiani? Lo scenario è irrealistico tra un ambiente inglese accademico e universitario collegato al servizio sanitario pubblico e un ambiente italiano fatto invece di operatori privati. Senza dimenticare poi la scarsa familiarità culturale tra inglesi e italiani e la differenza di lingua, tutti problemi assenti quando Clark doveva parlare con l’americano Beck.

E tuttavia immaginiamo che si ottenesse il miracolo, che la collaborazione tra italiani e britannici, grazie alla mediazione di Mahoney, si realizzasse. Manca ancora un tassello, che a sua volta realisticamente non si sarebbe incastrato per una serie di ragioni ma che ci piace immaginare si sarebbe potuto infilare. Una possibile procedura che avrebbe collegato tra loro organizzazioni di personalità di Guidano e Liotti e l’analisi funzionale in cui erano cresciuti Clark e Salkovskis esisteva. Essa poteva essere la tecnica del laddering di George Kelly, tecnica padroneggiata sia nel cognitivismo britannico di Bannister e Fransella che in quello italiano di Sassaroli e Lorenzini. Probabilmente è assolutamente temerario e del tutto irrealistico immaginare questo scenario eppure non impossibile, se pensiamo che Bannister e Sassaroli si conoscevano e avevano iniziato a collaborare e lo fecero fino alla metà degli anni ’80 quando purtroppo Bannister morì prematuramente.

Immaginiamo però che nell’altro universo Bannister sopravvive alla malattia che lo colpì e sviluppa con Sassaroli una procedura di laddering che Clark adotta nel suo modello. Vale la pena sviluppare questo scenario immaginario poiché chiarisce definitivamente il ruolo svolto da Sassaroli sul laddering come uno dei pochi tentativi nel cognitivismo europeo e alternativo a Beck di proporre una procedura di analisi cognitiva differente rispetto all’analisi funzionale. Detto questo, una volta che questo improbabile scenario di collaborazione tra funzionalisti britannici (Clark e Salkovskis) e costruttivisti britannici (Bannister) americani (Mahoney) e italiani (Guidano, Liotti, Lorenzini e Sassaroli) si fosse concretizzato si potrebbe immaginare la nascita di una psicoterapia cognitiva comportamentale costruttivista con procedure replicabili ed applicabili a disturbi analoghi a quelli di Beck, con una differenza: la maggiore attenzione di Clark ai disturbi d’ansia, fermo restando l’interesse di Beck per la depressione.

Lo scenario conclusivo avrebbe quindi visto una psicoterapia cognitiva psicoanalitica negli Stati Uniti e una psicoterapia cognitivo costruttivista in Europa specializzate rispettivamente su depressione e ansia, con una propensione americana a integrarsi con la psicoanalisi relazionale di Mitchell e del Sé di Kohut, mentre in Europa la psicoterapia cognitivo costruttivista avrebbero potuto comprendere l’evoluzione evolutiva e relazionale promossa non solo da Liotti ma anche da Lorenzini e Sassaroli con il loro libro del 1995 (in questo scenario a dir poco fantascientifico Liotti riconosce le somiglianze tra il suo modello e quello di Lorenzini e Sassaroli).

Su questo scenario, infine si sarebbero innestati i successivi sviluppi incentrati sul trattamento dei disturbi di personalità. In questo caso la differenza con la realtà di questo universo sarebbe stata minore con una eccezione importante che è ancora una volta la posizione di Beck. Nell’universo alternativo l’appartenenza di Beck al campo psicoanalitico avrebbe ulteriormente facilitato l’immaginata integrazione tra il suo modello, adattato ai disturbi di personalità, e il modello relazionale di Mitchell e del Sé di Kohut. Non solo: l’analisi delle difficoltà relazionali con il paziente affetto da disturbi di personalità avrebbe favorito l’incontro con il modello incentrato sul transfert di Kernberg e con quello delle rotture e riparazioni di Safran e Muran, modello clinicamente psicodinamico con una verniciatura cognitiva che svolge una funzione unicamente di marchio di qualità con scarse ricadute cliniche. Un’altra significativa conseguenza sarebbe stata la probabilissima appartenenza al campo psicodinamico della Schema Therapy di Young, essendo questo modello filiazione diretta del modello di Beck. La psicoterapia cognitivo costruttivista avrebbe potuto rispondere con il modello metacognitivo interpersonale di Semerari, filiazione dei modelli costruttivisti di Guidano e Liotti.

Il vero punto interrogativo sarebbe stata la posizione dei modelli neo-funzionalisti e processuali. Nel nostro universo questi trattamenti, pur non accentuando mai la rivalità con il modello cognitivo standard, hanno gradualmente mostrato una crescente estraneità con il modello strutturale di Beck incentrato sulle credenze sul Sé. Questa estraneità si sarebbe mostrata anche nell’universo alternativo verso il modello cognitivo costruttivista di Bannister, Clark, Guidano, Liotti, Mahoney, Salkovskis e Sassaroli altrettanto incentrato sul Sé? Presumibilmente si. Assistiamo così anche nell’universo parallelo in cui Beck è rimasto uno psicoanalista alla nascita di un movimento processualista che sostanzialmente torna al comportamentismo e rinnega le credenze sul Sé, movimento che comprende il modello metacognitivo di Wells, quello dialettico comportamentale di Marsha Linehan, e il modello ACT di Steven Hayes. Con questi autori usciamo fuori dall’influenza di Beck e anche questa è una rivelazione importante: chi davvero è estraneo a Beck sono Linehan e Hayes (diverso il discorso per il processualista Wells, che oscilla tra estraneità e influenza, e ne parleremo altrove), mentre Mahoney e Guidano ne hanno subito l’incisiva influenza clinica malgrado i contrasti teorici.

Questa fantasia ucronica potrà far sorridere ed essere considerata considerevolmente irrealistica soprattutto per il suo scenario di collaborazione tra britannici e italiani. Altrettanto provocatorio, ma affatto impossibile, potrebbe sembrare l’itinerario immaginario di Beck. Eppure, queste traiettorie immaginarie hanno una loro ragione, che non è solo divertirsi con scenari impossibili ma fare riflettere sul ruolo storico rivestito da Beck e da chi interagì con lui. Questo racconto ucronico può chiarire più incisivamente il ruolo insostituibile di Beck come catalizzatore della nascita concreta della terapia cognitiva come procedura reale e incarnata e non come teoria astratta della mente, computazionale o incarnata che sia.

Ricordo di Eugenia Pelanda, protagonista della cultura psicoanalitica in Italia

Giovedì 29 luglio ci ha lasciato Eugenia Pelanda, collega stimata e cara. Con lei scompare una protagonista, particolarmente creativa, della cultura psicoanalitica dell’adolescenza e la sua mancanza ci rende ancora più consapevoli della forza dei suoi insegnamenti e della sua eredità.

Scriveva di lei Tommaso Senise (1990) nella sua prefazione a “Psicoterapia breve di individuazione”, testo innovativo della psicoterapia psicoanalitica dell’adolescente che, come lui stesso affermava, non avrebbe potuto scrivere senza Eugenia Pelanda e Maria Teresa Aliprandi:

“Conosco la dottoressa Eugenia Pelanda e ne apprezzo sia la cultura psicologica e psicoanalitica sia le qualità umane quali la sensibilità, il rispetto dell’altro, la modestia e il livello etico della sua professionalità. I suoi studi sul funzionamento del pensiero negli adolescenti sono, a mio parere,  una promessa di interessanti sviluppi delle conoscenze in questo campo”. E così è stato.

In lei vis speculativa e capacità di rendere operative e concrete le  idee  sono sempre andate di pari passo. Testimoniano la sua passione per il lavoro psicoanalitico con gli adolescenti non solo, infatti, i molti articoli e libri dedicati alla problematica adolescenziale, ma soprattutto la realizzazione di Area G. Una realtà composita, che si occupa di prevenzione, di clinica, di formazione e di ricerca attraverso l’Associazione Onlus, il Centro di Psicologia Clinica e la Scuola di Psicoterapia ad orientamento Psicoanalitico per Adolescenti e Adulti.

Eugenia è stata in tutti questi anni il pilastro di Area G. Aveva una fiducia  saldissima nelle idee che ci guidavano e le coltivava con particolare determinazione, senza curarsi più di tanto di eventuali ostacoli o contrapposizioni. I suoi riferimenti etici e metodologici si accordavano con la sua curiosità, la sua sete di conoscenza e la disponibilità a mettersi affettivamente in gioco. Punto di appoggio costante per i suoi colleghi e allievi, era sempre disponibile ad occuparsi di pazienti complicati e difficili.

Lavorare con lei in Area G in questi anni è stata un’esperienza ricca ed entusiasmante. Aveva una sensibilità tutta particolare verso amici, colleghi e pazienti, un modo generoso e protettivo di approcciarsi ai più giovani sempre rispettoso dell’altro.

A ogni paziente, ad ogni allievo o collega offriva un ascolto specifico, aveva il dono di “esserci”. Ancora oggi che non c’è più continuiamo a sentirla una presenza preziosa.

 

Lucina Bergamaschi

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