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Hardiness. Scegliere il proprio futuro nella normalità post-pandemia

L’hardiness (Kobasa, 1979) è tra le risorse di resilienza che negli anni sono state sottoposte a ricerche intensive e considerate ormai ‘classiche’.

 

Roma, 16 giugno 2021. É mezzanotte di una serata estiva. Da qualche giorno il coprifuoco è stato allentato e si può fare tardi, in giro, la notte. L’Italia ha appena vinto una partita di calcio importante e i ragazzi camminano per il centro gridando cori patriottici. Macchine cariche di passeggeri si dirigono verso la propria destinazione, in una notte che nulla ha a che vedere con la stessa notte dell’anno passato. La città sembra stare recuperando la vitalità che in questo periodo di pandemia sembrava persa. E così anche le persone.

Accade spesso, in psicologia, che un concetto nato da ricerche condotte in ambito universitario abbia, anche ad opera di un buon lavoro di divulgazione, un discreto successo e che acquisisca rapidamente notorietà presso il grande pubblico. La resilienza è uno di questi.

La letteratura che riferisce direttamente o indirettamente a questo concetto è molto vasta e copre diversi domini disciplinari. Altrettanto diversificate sono le definizioni dei diversi autori, ognuna con la propria focalizzazione.

Per i fini del presente articolo possiamo definire la resilienza come la manifestazione di un’evoluzione favorevole nonostante l’esposizione a consistenti forme di stress, riconosciute come capaci di comportare un alto rischio di esiti disadattivi (Rutter, 1993). Questa evoluzione può far leva su risorse presenti a diversi livelli: individuale, familiare, extrafamiliare e sociale (Becciu, Colasanti, 2016, 81). Rispetto al livello individuale, la ricerca in merito procede ormai da decenni, e ne sono state identificate molte.

L’hardiness (Kobasa, 1979) è tra le risorse di resilienza che negli anni sono state sottoposte a ricerche intensive e considerate ormai ‘classiche’. Questo costrutto nasce per trovare una risposta al perché, nell’ambito di impieghi ad alto carico di lavoro, di natura altamente stressante e in condizioni ad alto rischio per il benessere, alcune persone tendono a sviluppare sintomi di disagio psicologico, se non una vera e propria diagnosi psichiatrica, mentre altre tendono a mantenere un buon funzionamento, tendono a performare ad alti livelli e mostrano solamente lievi segni di difficoltà di adattamento.

Questa risorsa personale di resistenza allo stress si compone di tre attitudini: al controllo, all’impegno e alla sfida. Vediamole da vicino:

  • controllo (control): si riferisce alla percezione individuale di possedere un soddisfacente livello di controllo rispetto a quanto accade e alla convinzione che, per mezzo del coinvolgimento e dell’azione personale, si sia in grado di influenzare la direzione e l’esito degli eventi;
  • impegno (commitment): si riferisce alla tendenza a considerare ciò che ci accade in termini di responsabilità personale e in relazione ad interessi, valori e aspettative rilevanti per noi stessi;
  • sfida (challenge): si riferisce alla credenza che il cambiamento sia una componente non eliminabile dell’esistenza umana, che esso si presenti con una certa frequenza e che sia una sfida da fronteggiare tramite un continuo processo di progettazione, azione, autovalutazione dell’efficacia dei piani attuati e apprendimento dall’esperienza.

Il processo di fondo che regge questi tre atteggiamenti è la valutazione degli eventi nei quali ci troviamo in termini di minaccia o di sfida/opportunità. È infatti la valutazione dell’evento in chiave di minaccia non risolvibile o di circostanza che è possibile affrontare e superare con le risorse a nostra disposizione, che determina per il soggetto la sua sua natura minacciosa e esclusivamente stressogena, oppure di sfida/opportunità energizzante (Folkman, Lazarus, 1984). Se la valutazione è in termini di sfida/opportunità, l’assetto intenzionale nei confronti dell’evento sarà di proattività orientata agli obiettivi che avremo scelto di perseguire.

Gli individui con alti livelli di hardiness interpretano le situazioni stressanti nei termini di una sfida personale e, allo stesso tempo, agiscono attivamente nei confronti delle richieste ambientali, ponendo le condizioni affinché esse non risultino ingestibili o eccessive. Essi, inoltre, impiegano strategie di fronteggiamento ben calibrate in relazione all’evento di fronte a cui si trovano, utilizzando in maniera efficace il supporto delle altre persone e le risorse (informative, materiali, economiche, emotive, strumentali) disponibili. Il risultato finale per queste persone è una risposta resiliente alle avversità, che si può tradurre in un buono stato di salute psicologica, unito a sentimenti di crescita e soddisfazione personale (Kobasa, Maddi, Courington, 1981).

Il costrutto è stato ampiamente testato in contesti che generalmente esercitano un alto impatto sull’individuo (posizioni manageriali in grandi organizzazioni, forze di polizia, vigili del fuoco, contesti militari, competizioni sportive di alto livello, tra gli altri), con risultati che ne confermano la natura protettiva sulla salute e la performance. In definitiva, le tre componenti dell’hardiness sembrano in grado di spiegare in buona parte la capacità della persona di resistere allo stress e al disagio, al trauma e alla malattia psichica, in presenza di circostanze anche molto minacciose (Maddi, 2002).

La pandemia da cui, si spera, usciremo presto, ha messo a dura prova le risorse psicologiche delle persone, sia a causa delle conseguenze economiche, lavorative e sociali che essa ha innescato che, naturalmente, in relazione alle potenziali conseguenze negative per la salute. Purtroppo molti stanno sperimentando il ‘long covid’ o hanno subito perdite importanti nella propria rete familiare e sociale, altri hanno perso il lavoro, altri ancora hanno perso una prospettiva positiva sul futuro o sviluppato sintomi psichiatrici.

Lo stato di cose che deriva da questa esperienza collettiva è irreversibile. Nonostante la retorica del ritorno alla normalità possa portare ad adottare l’illusione che questa esperienza sarà cancellata da una quotidianità per molti versi simile a quella pre-pandemia, questo evento ha inevitabilmente avuto un impatto duraturo sulla percezione collettiva del mondo, degli eventi e del futuro.

Guardare alla resilienza può fornisci indicazioni sulle attitudini e i comportamenti più funzionali al recupero di un nuovo equilibrio, una nuova percezione di sé, un nuovo modo di essere e, infine, il recupero di una dimensione di progettualità, senso e speranza per il futuro. Possiamo considerare questo evento qualcosa di temprante e sviluppare da esso, nonostante tutto, una maggiore forza, stabilità interiore e flessibilità, mentale e comportamentale.

In questo senso le tre attitudini dell’hardiness possono fornirci alcune linee guida:

  • controllo: cercare i modi in cui possiamo esercitare la nostra influenza sulle situazioni; cercare attivamente soluzioni alle situazioni che percepiamo come problematiche; agire con la convinzione che avremo un impatto sulle situazioni e, di ritorno, sul nostro modo di vedere noi stessi;
  • impegno: vivere le circostanze attuali in relazione ai propri valori, scopi e interessi; considerare le ramificazioni future delle situazioni problematiche di fronte a cui ci troviamo come una chiamata all’esercizio della responsabilità su noi stessi, il nostro benessere, il nostro futuro (e di quelli di cui ci prendiamo cura);
  • sfida: accettare il cambiamento come un principio di fondo che caratterizza l’esistenza umana; cercare i mezzi migliori per ottenere ciò che desideriamo; trovare modi più attivi e gratificanti di fare le cose; in assenza di idee su come agire in una data situazione informarsi, cercare di capire quali sono le nostre possibilità attuali e agire in base a quanto si è appreso; quando si è sbagliato, riconoscerlo, e cercare di capire dove è stato l’errore, per evitare di ripeterlo in futuro.

Illuminato delle tre attitudini dell’hardiness, il ritorno alla nuova normalità post-pandemia ci fornisce la possibilità non solo di trovare inaspettati e soddisfacenti livelli di adattamento e di benessere psico-fisico, ma di trovare una nuova percezione di noi stessi e della nostra capacità di confrontarci con gli eventi avversi della vita che, prima o poi, sono inevitabili per chiunque.

L’impatto positivo sulla salute fisica e mentale di tutto questo è ampiamente documentato in letteratura (Maddi, 2006), non ci resta che attuarlo per vivere una vita in cui siamo noi, per quanto ci è possibile, a scegliere il nostro futuro.

Identità, genere e consumismo, ri-genderizzazione: riconoscere e destrutturare gli stereotipi sulle diversità di genere nella scuola dell’infanzia

Pink is the new black. Stereotipi di genere nella scuola dell’infanzia è un libro importante con un titolo forte e incisivo che apre a diverse prospettive di lettura sul significato dei simboli nella società.

 

I colori, black, pink, orange, blue possono veicolare processi di categorizzazione trasformandosi in stereotipi e pregiudizi che sembrano innocui come quel Pink, “di quel bel vestitino regalato per la nascita di una bambina”.  Ecco che in quel colore gentile e rassicurante, invece, si cela una processo di categorizzazione del genere, implicito, invasivo e totalizzante con un impatto importante sugli stili di vita, le scelte, le aspettative, i vincoli  e le opportunità delle bambine e dei bambini.

Le autrici, Emanuela Abbatecola e Luisa Stagi, accompagnano il lettore in un profondo lavoro di analisi e riflessione sullo stereotipo e il pregiudizio di genere che invade la nostra società.

Pink is the new black presenta un lavoro teorico di descrizione delle teorie sociologiche e dei riferimenti epistemologici che sostengono il dibattito scientifico su questo tema e un approccio empirico con la presentazione di una ricerca in un ambito privilegiato per la costruzione degli stereotipi: la scuola dell’infanzia.

La parte teorica risponde alle domande essenziali per comprendere l’argomento e quindi: che cos’è il genere, l’ordine ad esso connesso? Quali sono le costruzioni sociali ad esso associate? Come viene introiettato il genere? Qual è la funzione della socializzazione nella co-costruzione dell’identità di genere? E la relazione con gli stereotipi e le aspettative? Qual è la relazione con gli stereotipi sessuali o sessisti? Il genere è una struttura sociale? Cosa si intende per genderizzare e ri-genderizzazione? In quali ambienti si sta realizzando? Cosa si intende per maschilità egemonica? E per Pinkizzazione o per gender backlash? Qual è la relazione tra genere  e consumismo?

La parte esperienziale entra nella società per osservare come si forma lo stereotipo di genere nella prima infanzia osservando la relazione diretta tra i processi impliciti e inconsci che alimentano pregiudizi e stereotipi.  Le autrici iniziano a esplorare il tema dal punto di vista sociologico individuando il genere come una costruzione sociale: una “struttura sociale” trasversale e permanente in un determinato momento o periodo storico-sociale che, però, ha in sé la possibilità di cambiamento, a livello individuale nei processi di socializzazione di base, a livello interazionale nel confronto con stereotipi e aspettative sociali, a livello istituzionale nel confronto tra le diverse strutture organizzative. Questo riconoscendo però la complessità del  cambiamento poiché gli stereotipi connessi al genere rassicurano e facilitano i processi di riconoscimento, classificazione e collocamento socio-culturale: è donna quindi “è capace nelle relazioni d’aiuto”, è uomo e quindi ha “maggior attitudine nelle discipline logiche”, è femmina è più tranquilla e studiosa, “ti aiuterà è servizievole”. Una minuziosa segmentazione di valori che parte dagli oggetti e dai colori per abbracciare ogni aspetto della vita della bambina e del bambino, dell’adolescente e dell’adulto, incidendo sui gusti, ma anche sul carattere, sulle aspirazioni e sulle competenze: una cartina di tornasole semplice è l’osservazione della distribuzione dei giovani nei diversi corsi di studio nella scelta universitaria. Il genere, quindi, svela la rappresentazione sociale di cosa ci si aspetta dalle donne e uomini in termini di comportamenti, ruoli e  attitudini giustificando credenze, scelte e azioni delle attrici e degli attori sociali. Lo stereotipo di genere, al pari di tutti gli altri, facilita il riconoscimento poiché permette l’immediata associazione tra categoria (genere) e comportamento, aspettative sociali o vincoli e opportunità associate.

Il carattere binario degli stereotipi, a volte rafforzati dal colore, bianco e nero, azzurro e rosa, nasconde il significato associato a ciascuno lavorando sulle categorie socio-cognitive del bene o del male, dell’opportunità o del vincolo, del positivo o del negativo: questo porta a processi di esclusione o autoesclusione, sino a sbarramenti o stigmatizzazioni per chi cerca di infrangere quelle sottili e implicite traiettorie. Lo stereotipo funziona, infatti, come principio di verità e quindi di ordine, di riduzione delle asimmetrie e disuguaglianze che vengono percepite naturali e addirittura auspicabili, quando, invece, nella realtà le formano e le esaltano: infatti, la classificazione permette immediatamente di riconoscere ciò che è preferibile, che conviene, che semplifica e, quindi, che è positivo o negativo, perché richiama un principio appreso in modo naturale nei primi anni di vita.

Nella prima infanzia nei luoghi di formazione del bambino, nella famiglia e a scuola, gli stereotipi si apprendono in modo naturale, pervasivo e silenzioso: questa constatazione apre alla seconda parte del libro che presenta una ricerca sugli stereotipi di genere realizzata per conto del Comune di Genova all’interno di alcune scuole dell’infanzia. Il focus della ricerca sono gli stereotipi di genere come “strumento essenziale nel processo di semplificazione e ancoraggio dell’ordine di genere”. Gli stereotipi di genere sono una base delle interazioni sociali della scuola dell’infanzia, e i bambini sono attrici e attori e altre volte spettatori della loro continua riproduzione. Le autrici osservano non solo come si presentano gli stereotipi nella scuola dell’infanzia, ma anche il principio del cambiamento poiché gli stereotipi, pur essendo pervasivi e persistenti, non sono  immutabili. In questa riflessione si sviluppa l’osservazione focalizzando l’attenzione sui processi di co-costruzione della realtà dei bambini e delle bambine come soggetti che possono mettere in campo quello che W. A. Corsaro definisce una “riproduzione interpretativa” di un ruolo o di un comportamento. Nella ricerca si rilevano gli atteggiamenti e gli stereotipi di genere delle insegnanti in funzione del loro ruolo di agenti di socializzazione nella parte progettuale di ambienti e pratiche educative e di conduzione e supervisione dei gruppi di bambini. Dato che i modelli e i ruoli di genere sono prodotti e riprodotti in tutti gli ambienti, le  relazioni, ma anche attraverso la scelta degli oggetti, il ruolo dell’insegnante è un campo di osservazione privilegiato per comprenderne i meccanismi che definiscono, sin dalla scuola dell’infanzia, l’ordine sociale di genere: nella scuola, come struttura della società, emerge come il genere sfugge alla consapevolezza stessa dei soggetti che agiscono il proprio ruolo impedendo, quindi, un presidio professionale nella progettazione educativa.

Infine le autrici si dedicano allo studio della rappresentazione sociale dei bambini sul genere ricostruendo le loro visioni e i loro modelli. Le riflessioni confermano l’ipotesi che è in atto un processo di ri-genderizzazione, ovvero un ritorno a stereotipi più marcati sul genere proprio nelle categorie sociali più̀ fragili.

I risultati della ricerca richiamano l’importanza di una Pedagogia del genere che favorisca una riflessione sui modelli e le pratiche, che coinvolge il tema e i processi legati all’identità di genere per prevenire una progettazione educativa che veicola, conferma o esalta stereotipi di genere nelle istituzioni socio-educative responsabili della crescita e formazione dei bambine/i e delle ragazze/i. È essenziale iniziare a riflettere su un’educazione di genere che dovrebbe coinvolgere coloro che hanno una responsabilità educativa e che, in modo consapevole, potrebbero influenzare e incentivare ruoli e relazioni di genere cristallizzate. La possibilità di rilevare e analizzare i modelli impliciti sulla rappresentazione sociale del bambino e della bambina, o le pratiche educative (scelta dei giochi, dei materiali, dei libri, la progettazione e strutturazione degli ambienti ludici o cognitivi o esplorativi) che determinano e rafforzano un orientamento verso stereotipi di genere (l’angolo della Barbie o dei Gormiti) e gli stili di relazione e comunicazione che potenzialmente confinano, stigmatizzano e svalutano (“non fare la femminuccia!”, “non fare il maschiaccio!”) dovrebbe diventare una prassi del lavoro educativo, sociale e pedagogico.

In conclusione Pink is the new black. Stereotipi di genere nella scuola dell’infanzia è una lettura fondamentale  e preziosa per tutti coloro che hanno responsabilità educative e sociali, dai pedagogisti, agli insegnanti, ai genitori, agli operatori, ma anche per coloro che programmano e progettano i servizi socio-educativi e che intendono comprendere il processo di natura sistemica che si sviluppa attorno alle categorizzazioni sociali del genere nelle istituzioni socio-educative. Allo stesso tempo è un prezioso “affresco dal campo”, un’immersione nella società nel punto più profondo dove si creano, strutturano e rafforzano gli stereotipi per ribadire l’importanza di mettersi dalla parte di bambine e bambini per tracciare percorsi di libertà dagli stereotipi  e, in particolare, da quelli di genere: un auspicio affinché le nuove generazioni possano percorrere il proprio percorso di vita secondo le proprie attitudini, orientamenti e desideri.

L’impatto del Covid-19 sui disturbi del comportamento alimentare e sull’obesità

Durante la pandemia da COVID-19 l’attenzione e la cura generalmente riservate a varie sintomatologie sono passate in secondo piano, per lasciare spazio all’assistenza delle persone colpite dal virus.

Eleonora Poli – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Mestre

 

Reparti e strutture ospedaliere precedentemente dedicati a diagnosi e trattamento di altre patologie sono stati convertiti in unità COVID, allungando notevolmente i tempi di attesa per una presa in carico. In aggiunta, molte persone hanno evitato di rivolgersi alle strutture sanitarie e richiedere un aiuto per paura di entrare in contatto con persone infette, ritardando ulteriormente la diagnosi e gli interventi nelle condizioni acute (Davis  e coll., 2020; Fernandez-Aranda e coll., 2020; Gordon & Katzman, 2020; Linardon, Shatte, Tepper, & Fuller-Tyszkiewicz, 2020; Weissman, Bauer, & Thomas, 2020).

In tutti i Paesi, seppur con diverse intensità, il distanziamento sociale e la chiusura delle attività “non essenziali” sono state pratiche comuni per evitare la diffusione del virus. L’essere umano, da sempre abituato ad avere interazioni sociali, si è improvvisamente ritrovato solo e lontano da genitori, amici e colleghi, con ovvie ed inevitabili conseguenze sul suo benessere psicologico. I tre pilastri che definiscono lo stato di salute, ossia benessere fisico, mentale e sociale, sono stati fortemente scossi dalla pandemia.

Per quanto riguarda la sintomatologia legata ai disturbi alimentari ed all’obesità, è stata riscontrata una esacerbazione durante la pandemia, sia nelle persone che già soffrivano di tali disturbi, sia in quelle più vulnerabili a svilupparne uno. In particolare, tre diversi fattori hanno avuto un ruolo chiave: le modifiche e le restrizioni imposte sulle attività quotidiane, i media, il distress emozionale e la paura del contagio.

Per quanto riguarda le modifiche e le restrizioni sulle attività quotidiane, come si sa, in diversi Paesi la pandemia ha portato all’imposizione di rigide norme di comportamento: le attività di lavoro e studio sono state trasferite a casa, gli spostamenti sono stati limitati alle situazioni di estrema necessità. Tutto ciò ha avuto conseguenze sostanziali sull’alimentazione della popolazione, sull’attività fisica, sui ritmi sonno-veglia, e l’alterazione di queste abitudini a sua volta ha influito negativamente sulla manifestazione dei disturbi alimentari. Per quanto riguarda l’alimentazione, l’assenza di routine ben definite e di markers di spazio e tempo, come ad esempio gli orari dei pasti, e l’assenza di una separazione tra casa e luogo di lavoro, ha incrementato il rischio di comportamenti alimentari disfunzionali. Nelle famiglie a rischio di disturbi alimentari, spendere più tempo a cucinare ed avere costantemente del cibo a disposizione, può avere un impatto piuttosto negativo (Heriseanu, Hay, Corbit & Touyz, 2017). In aggiunta, raccomandazioni riguardo la necessità di limitare attività come il recarsi a fare la spesa, combinate con la percezione di una scarsa disponibilità di alimenti, hanno aumentato il focus sul cibo ed incoraggiato gli individui a farne scorte più del normale, inclusi gli snack, e questo ha incrementato la probabilità di binge eating (Waters, Hill, & Waller, 2001; (McMenemy, 2020).

In alcuni contesti le limitazioni sono state applicate anche all’attività fisica, imponendo agli individui di rimanere in casa. Questo ha portato ad un ridotto accesso all’attività fisica regolare che, in combinazione con pattern alimentari disregolati, ha contribuito ad un’aumentata preoccupazione per la forma ed il peso corporei (Haines, Kleinman, Rifas-Shiman, Field, & Austin, 2010). Inoltre, l’ansia legata alla pandemia e l’alterazione delle abitudini quotidiane hanno influenzato la qualità del sonno di una buona fetta di popolazione, aumentando così il rischio di disturbi alimentari (Lombardo, Ballesio, Gasparrini, & Cerolini, 2020; Lombardo, Battagliese, Venezia, & Salvemini, 2015).

Anche i fattori che generalmente proteggono dallo sviluppo di un disturbo alimentare sono stati colpiti dalla pandemia. Il supporto sociale è un fattore protettivo durante i periodi stressanti ed un elemento chiave nel gestire e ridurre un’alimentazione sregolata (Leonidas & Dos Santos, 2014; Linville, Brown, Sturm, & McDougal, 2012). L’implementazione del distanziamento sociale e l’imposizione di rimanere a casa hanno costituito un ostacolo al supporto sociale, rendendo gli individui più vulnerabili ai fattori stressanti. Similmente, attività utili nella regolazione emozionale (andare da un terapeuta, fare attività piacevoli), sono divenute più difficilmente accessibili all’individuo (Cook-Cottone, 2016), lasciando spazio a strategie più disfunzionali quali il mangiare per regolare le emozioni, le restrizioni alimentari, i comportamenti compensatori (Lobera, Estebanez, Fernandez, Bautista, & Garrido, 2009).

Il secondo ruolo chiave nella esacerbazione dei disturbi alimentari è quello ricoperto dai media. Essi possono avere un impatto sui comportamenti alimentari in 3 modi: a) esposizione specifica a consigli alimentari e sulla forma corporea, b) effetto diretto del maggiore uso dei social media, c) maggiore ricorso alle video-conferenze in smart working. L’uso dei social media è associato ad un aumentato rischio di disturbi alimentari in particolare attraverso l’esposizione ad ideali di dieta e di magrezza, così come a consigli alimentari (Boswell & Kober, 2016; Levine & Murnen, 2009; Rodgers & Melioli, 2016; Hensley, 2020). Specifici trend sui social media, come ad esempio quelli riguardo l’aumento di peso durante la quarantena, una maggiore attenzione al cucinare a casa, ed i suggerimenti di ricette da provare durante la quarantena, possono ulteriormente intensificare l’attenzione dedicata a peso e cibo e, di conseguenza, incrementare il rischio di disturbi alimentari e sintomi ad essi associati. Riguardo l’esposizione generale ai social media, la ricerca ha dimostrato come l’esposizione ai media nei casi di eventi mondiali stressanti e traumatici sia correlata ad un aumento dei disturbi alimentari. Con l’attuale pandemia la gran parte delle notizie trasmesse dai media riguarda il numero degli infetti e dei morti, preoccupazioni per la salute e la sicurezza mondiale, e l’impatto sull’economia e sulla società. L’esposizione a tali notizie può incrementare il rischio di disturbi alimentari (Rodgers, Franko, Brunet, Herbert, & Bui, 2012). L’uso delle videoconferenze in smart working può aumentare il rischio di sviluppare disturbi alimentari aumentando la preoccupazione della persona per la propria apparenza. L’evitamento dell’immagine corporea è una caratteristica comune nelle preoccupazioni per immagine corporea ed alimentazione, e postare immagini di se stessi online ha un effetto nocivo sull’immagine corporea e sull’umore delle giovani donne (Mills, Musto, Williams, & Tiggemann, 2018). Le video-conferenze possono aumentare il focus sui volti degli individui e la loro apparenza ed avere quindi effetti simili.

I post sui social media, che mettono in guardia sul rischio di aumentare di peso durante il distanziamento sociale a causa della maggior predisposizione a mangiare e di comportamenti sedentari, possono aver in qualche modo rappresentato una forma di stigma relativamente al peso corporeo. Alcuni di questi post possono aver implicitamente esacerbato lo stereotipo alquanto comune che inquadrerebbe le persone con obesità come pigre, trasandate e senza capacità di auto-controllo, promuovendo al tempo stesso un irreale ideale di magrezza e pratiche estreme di controllo del peso. L’internalizzazione di stereotipi negativi sul peso può avere effetti negativi andando ad indebolire il senso di autoefficacia e la sicurezza nelle proprie capacità di raggiungere un controllo efficace sul comportamento alimentare (Pearl, 2020), e ciò vale ancora più in persone con disturbi alimentari o a rischio di svilupparli.

Oltre a questo messaggio, sono aumentate le applicazioni a supporto della perdita di peso e del conteggio delle calorie assunte, così come l’aggiunta di etichette ed indicatori della sanità di un determinato cibo. Studiosi e clinici hanno più volte evidenziato come queste strategie siano inefficaci, se non addirittura dannose, per la perdita di peso a lungo termine, andando di fatto ad aggravare il disturbo alimentare e ad aumentare il rischio di svilupparne uno nella popolazione generale (Sanchez-Carracedo, Neumark-Sztainer, Loperz-Guimerà, 2012).

Il terzo elemento con un ruolo chiave nell’incremento dei disturbi del comportamento alimentare è stato il distress emozionale, in particolare legato alla paura del contagio.

La paura del contagio può portare gli individui ad un’aumentata preoccupazione sulla qualità del cibo e sulla probabilità che esso sia un veicolo di contagio. Ciò può aumentare i pattern di alimentazione selettiva sia per la paura di lasciare la propria abitazione, sia tramite l’eliminazione di alcuni tipi di cibo per paura che essi siano contaminati. Inoltre la pandemia ha incrementato la preoccupazione per la salute e la convinzione, nei casi di ortoressia nervosa, dell’utilità di manipolare la dieta per promuovere la salute. Le persone possono adottare diete restrittive con l’obiettivo di ottenere benefici dall’assunzione di cibi che rafforzano il sistema immunitario e potrebbero proteggerli dal contrarre il coronavirus o minimizzare i suoi effetti (Navaro e coll., 2017).

In aggiunta a queste specifiche paure create dalla pandemia, la situazione ha sostanzialmente incrementato i livelli di stress e di distress emozionale (Brooks e coll, 2020), che sono fattori chiave per un’alimentazione sregolata (Puccio, Fuller-Tyszkiewicz, Ong, & Krug, 2016).

Gli eventi traumatici hanno un notevole impatto sulla salute mentale delle persone. La paura del contagio e della morte dei propri cari ha creato una grande incertezza. L’isolamento porta ad ansia, tristezza, rabbia e senso di solitudine. Il distanziamento sociale e la quarantena vanno contro la natura umana. Diversi Autori hanno sottolineato gli effetti psicologici causati dalla pandemia, tra cui senso di solitudine, peggioramento dei sintomi ansiosi, distress, insonnia (Carvalho, Moreira, de Oliveira, Landim & Neto, 2020; Torales, O’Higgins, Castaldelli-Maia, Ventriglio, 2020).

Gli effetti emozionali negativi della quarantena (Brooks e coll., 2020) sono particolarmente accentuati in persone che soffrono di anoressia nervosa, le quali sono già isolate sia fisicamente che psicologicamente. Uno scarso funzionamento interpersonale è ancora più difficile da gestire quando vi è l’imposizione di un distanziamento sociale.

Persone con disordini alimentari e/o obesità hanno, al di là delle specificità del singolo disturbo, una fragilità comune. Sono infatti caratterizzate da una ridotta resilienza e problematiche a carico di diversi organi corporei a causa di cumulative condizioni di comorbidità. Il rischio di infezioni virali in queste popolazioni è aumentato (Dobner & Kaser, 2018). Diversi Autori hanno individuato, in persone con obesità affette da Covid-19, una maggior gravità della sindrome respiratoria acuta (Carter, Baranauskas & Fly, 2020). Un aumento del tessuto adiposo viscerale e della percentuale di massa grassa correla positivamente con la morbilità da Covid-19 (Huang, Yao, Huang, Wei & Yi, 2020). Persone con un basso BMI e che soffrono di anoressia nervosa possono essere più vulnerabili al COVID-19 a causa della compromissione della salute fisica.

L’evidenza clinica e la ricerca suggeriscono come i pazienti obesi (BMI>30) con un disturbo alimentare e le pazienti anoressiche gravemente malnutrite siano a maggior rischio di sviluppare un’infezione da Covid-19 e di andare incontro a più complicazioni mediche. Dovrebbe quindi esservi una maggiore vigilanza clinica nel trattamento di entrambi i gruppi di pazienti.

Persone con disturbi alimentari ed obesità, che sono già psicologicamente e fisicamente isolate, possono essere andate incontro ad un peggioramento dei sintomi a causa del vivere da soli o, al contrario, in stretto contatto con i familiari. Il bisogno di avere il controllo, tipico dell’anoressia nervosa, potrebbe essere stato esacerbato dall’imprevedibilità della situazione, mentre un più facile accesso al cibo durante l’isolamento a casa potrebbe aver avuto conseguenze negative in persone con Binge Eating. Le maggiori difficoltà nell’implementare comportamenti compensatori, come ad esempio lo svolgimento di un’attività fisica, può aver influito sulla vita di alcuni pazienti, mentre le difficoltà di regolazione emozionale possono aver elicitato episodi di abbuffata. La quarantena e l’obbligo di rimanere a casa 24 ore su 24, 7 giorni su 7, non permette di distanziarsi dal cibo. Queste situazioni possono essere state ulteriormente esacerbate dal costante contatto con i propri familiari, a loro volta preoccupati, in conflitto, o controllanti (Fernandez e coll., 2020; Weissman, Bauer & Thomas, 2020).

Molte pazienti che soffrono di anoressia hanno comportamenti alimentari rigidi ed inflessibili, mangiando solo determinati tipi di cibo e di uno specifico brand. In questo momento di incertezza riguardo la disponibilità del cibo desiderato e in cui si possono trovare interi scaffali vuoti al supermercato, queste pazienti potrebbero avere una minor quantità di cibo a disposizione ed andare incontro ad un’ulteriore perdita di peso. Al contrario, per persone con binge eating e fenomeni di abbuffata la scarsa disponibilità di cibo potrebbe agire come trigger per accumulare cibo.

Come si farà ritorno alla normalità quando questa pandemia sarà superata?

COVID-19: Rimuginio e ruminazione ai tempi della Pandemia – Partecipa alla ricerca!

A partire dalla fine del 2019 abitudini, relazioni interpersonali e stili di vita sono drasticamente cambiati a seguito della rapida diffusione del virus SARS-COV-2 in tutto il mondo.

 

I primi episodi di diffusione del virus SARS–COV-2 sono stati riportati nella provincia dell’Hubei diffondendosi poi rapidamente in altri paesi, fino a diventare una vera e propria pandemia mondiale.

Dal 21 febbraio 2020 la diffusione del Virus SARS-COV-2, responsabile della malattia COVID-19, è stata evidente anche in Italia, associata ad un crescente numero di contagi, ricoveri e decessi (Ministero della Salute).

Di fronte a questa situazione di emergenza, da parte del Governo sono state attuate misure straordinarie di prevenzione e di controllo delle infezioni, periodi di quarantena e lockdown. Tali misure straordinarie hanno implicato una significativa restrizione nelle abitudini di vita e un significativo cambiamento nella gestione dei rapporti interpersonali e lavorativi.

In questa cornice vari fattori, come la paura del contagio e della diffusione del virus, l’esposizione diretta o indiretta a eventi stressanti ad esso correlati (lutto, perdita del lavoro, ecc.), i cambiamenti e le restrizioni di vita legate all’attuazione delle misure straordinarie, sembrano contribuire in modo significativo ad un incremento dei livelli di disagio psicologico. (Rossi R. et al., 2020).

In una recente revisione della letteratura, pubblicata nella rivista scientifica The Lancet, è stato evidenziato come in individui sottoposti a misure di isolamento e/o quarantena, si possa osservare una riduzione dei livelli di benessere psicologico, un maggiore rischio di distress, disturbi affettivi, ansia, riduzione dell’umore, sintomi da PTSD e rabbia (Brooks S. K. et al., 2020).

Ma il disagio e la condizione di malessere psicologico derivanti, come vengono gestiti? Quali sono le risorse e le strategie che si attivano nel momento in cui un essere umano viene limitato nella propria libertà, nei contatti sociali e affettivi, privato di un abbraccio, costretto ad un sorriso e ad un’identità nascosti dietro a delle mascherine?

Il presente studio si propone l’obiettivo di valutare alcuni processi psicologici che possono contribuire al mantenimento dei livelli di distress legati al timore di diffusione del Virus SARS-COV-2.

AIUTA LA RICERCA COMPILANDO IL QUESTIONARIO ANONIMO:

PARTECIPA 9733

Il presente studio è condotto in collaborazione con il Dipartimento di Psicologia della Sigmund Freud University -Milano-

È possibile prevenire l’insorgenza dei ricordi intrusivi a seguito di un evento traumatico?

Ricordi intrusivi e trauma: a seguito di un evento traumatico, i ricordi sensoriali, sotto forma di immagini e suoni, possono riemergere in modo ricorrente e spontaneo (American Psychiatric Association, 2013), evocando forti emozioni, che dirottano l’attenzione ed interrompono le attività correnti.

 

I ricordi intrusivi sono un sintomo fondamentale nel disturbo da stress acuto e, se presenti nei giorni seguenti al trauma, si associano ad una diagnosi di PTSD a distanza di 1 anno (Creamer et al., 2004). Essi costituiscono un importante elemento transdiagnostico (Fairburn et al., 2003), essendo presenti anche nella depressione (Birrer et al., 2007) e nel lutto complicato (Bryant et al., 2014).

Ricordi intrusivi e trauma: quando intervenire?

Secondo la teoria del consolidamento della memoria, esiste una finestra temporale di diverse ore a seguito del trauma, durante la quale la memoria relativa dell’evento diviene malleabile e vulnerabile ad essere modificata (McGaugh, 2000). Questo potrebbe rendere accessibile l’azione preventiva focale su un aspetto sintomatologico del PTSD, ovvero i ricordi intrusivi associati al trauma.

Secondo la letteratura attuale, compiti cognitivi con elevate richieste visuospaziali, possono interrompere selettivamente gli aspetti sensoriali (prevalentemente visivi) della memoria, ovvero quelli alla base dei pensieri intrusivi. Questo processo è possibile quando la memoria dell’evento è labile (ovvero durante la finestra temporale di consolidamento della memoria traumatica) e grazie ad una competizione di risorse cognitive (Kavanagh et al., 2001) che interferiscono con gli aspetti sensoriali dei ricordi intrusivi.

Alcuni studi hanno mostrano che i compiti visuospaziali eseguiti durante o immediatamente dopo l’evento, portano costantemente a una riduzione del numero di successivi ricordi intrusivi (Ad es. Deeprose et al., 2012; Holmes et al., 2004, 2010) mentre questo non si verifica per i compiti verbali, che possono addirittura aumentare tale sintomatologia, indicando possibili effetti dannosi (Holmes et al., 2004).

Ricordi intrusivi e compiti visuospaziali: lo studio

Nell’indagine di Iyadurai et al. (2018), 71 soggetti che avevano assistito ad un incidente automobilistico, sono stati assegnati in modo randomizzato a due condizioni di trattamento parallele. Mentre al gruppo sperimentale è stato chiesto di rievocare l’evento traumatico, giocando in seguito a Tetris su Nintendo DS XL per almeno 10/20 minuti; i partecipanti del gruppo di controllo hanno rievocato i momenti di permanenza in pronto soccorso dopo l’incidente, focalizzandosi per almeno 20 minuti sulle attività svolte.

Oltre a raccogliere dettagliatamente aspetti dell’evento traumatico, è stata valutata la gravità della lesione fisica (Abbreviated Injury Scale; Lopes & Whitaker, 2014), la minaccia percepita alla vita (Blanchard et al., 1995), i sintomi dissociativi (Peritraumatic Dissociative Experiences Questionnaire-Self Report; Marmar et al., 2004) e le risposte emotive (Peritraumatic Distress Inventory; Brunet et al., 2001).

Il numero dei ricordi intrusivi nella settimana successiva all’evento traumatico, è stato indagato utilizzando un diario (Holmes et al., 2010), che i partecipanti dovevano compilare quotidianamente. Inoltre, i sintomi intrusivi, di evitamento ed iperattivazione successivi al trauma, sono stati valutati utilizzando l’Impact of Event Scale – Revised; Creamer et al., 2003). È stata verificata la gravità dei sintomi di PTSD (Post-traumatic Diagnostic Scale; Mccarthy, 2008), i sintomi di ansia e depressivi (Hospital Anxiety and Depression Scale; Vallejo et al., 2012).

Rispetto ai partecipanti del gruppo di controllo, l’intervento sul gruppo sperimentale finalizzato a ridurre i ricordi intrusivi sperimentati a seguito del trauma reale, si è rivelato efficace. Tale risultato positivo, deriva dal fatto che i pazienti sono stati raggiunti circa tre ore dopo l’incidente automobilistico, cioè entro la finestra temporale di consolidamento della memoria. 

Coerentemente con gli studi sul consolidamento della memoria (McGaugh, 2000; Nader K et al., 2000; Schafe et al., 2001) e quelli che coinvolgono la memoria visiva (Pearson et al., 2015); questa tecnica comportamentale è stata in grado di agire sulla memoria emotiva, riducendo il numero di ricordi intrusivi del 62% nella settimana successiva rispetto ai controlli. Infatti, il gioco Tetris, è stato ipotizzato per competere con il consolidamento dei ricordi visivi legati al trauma, ed è stato effettuato successivamente al ricordo dell’evento che avrebbe riattivato e reso la memoria labile.

Il risultato ottenuto su pazienti, si rivela simile ai precedenti studi di simulazione del trauma in laboratorio, che hanno riscontrato, una riduzione del 58% dei ricordi intrusivi, nello stesso lasso di tempo di una settimana (Holmes et al., 2009).

Questa tipologia di intervento, breve e senza l’ausilio di un terapeuta, è stato riscontrato come fattibile e accettabile dai partecipanti, che non hanno riportato effetti avversi. Inoltre, tra i vantaggi emerge anche il basso costo, la semplicità per la formazione e l’erogazione, oltre che la sua flessibilità applicativa. Infatti, non solo Tetris, ma qualsiasi attività con elevate richieste visuospaziali, può essere utile all’interno della procedura (ad esempio giochi come Candy Crush), a differenza di attività che distraggono prevalentemente a livello verbale (ad esempio lettura e cruciverba), che si rivelano inefficaci.

Questo studio mette in luce la presenza di specifici sottoinsiemi di sintomi che possono essere presi di mira entro una settimana dal trauma, facendo emergere un eterogeneità interna del PTSD (Insel et al., 2010). Inoltre, sarebbe interessante indagare l’effetto dell’intervento ad un mese di distanza, somministrandolo per una durata maggiore di 20 minuti o con dosi multiple.

Data la frequenza elevata del trauma a seguito di incidente automobilistico (Norris, 1992) e l’assenza di interventi preventivi post trauma, raggiungere i pazienti entro poche ore dall’evento potrebbe prevenire il consolidamento di un disturbo mentale invalidante. Inoltre, sarebbe di forte rilevanza clinica indagare l’utilità per il paziente stesso, di un intervento che apporta un beneficio così immediato e limitato nel tempo.

La radice psicoanalitica di Beck – 100 anni di Aaron T. Beck – Parte 1

Il racconto di come Beck rimase psicoanalista fino al 1975, appena un anno prima di pubblicare il suo manuale di terapia cognitiva per la depressione

 

Beck non era quell’ex-comportamentista che a volte abbiamo finto che fosse, quello che comprese che tra lo stimolo e la risposta c’è il mediatore mentale. Quelli erano Lazarus, Mahoney e Meichenbaum. Aaron T. Beck, Tim per gli amici e gli allievi più vicini, era uno psicoanalista che tentò per anni di rimanere psicoanalista, ben oltre quella crisi che lo avrebbe colto all’inizio degli anni ’60 e che lo avrebbe di colpo reso un ex-psicoanalista. La storia che ci raccontiamo tra cognitivisti è quella di un Beck splendidamente isolato, finito chissà come in mezzo a un gruppo di psicoanalisti in un qualche momento imprecisato all’inizio della sua carriera dopo aver concluso la specializzazione in psichiatria. In mezzo a questi psicoanalisti Beck è messo a far ricerca sui depressi per scovare in questi pazienti le loro pulsioni inconsce, che sarebbero di tipo rabbioso. E invece di scovare queste pulsioni inconsce Beck si mette a indagare i pensieri consapevoli dei pazienti. Sono pensieri di rovina, autosvalutazione, perdita di senso: non valgo nulla, non ho combinato nulla di buono, nessuno mi ama e io non riesco ad amare nessuno, è finita, la mia vita non ha senso, mi butto dalla finestra, e così via.

Non solo; Beck scopre che incoraggiando i pazienti a mettere in discussione questi pensieri (vediamo, è proprio così? Davvero non ha mai combinato nulla di buono? Davvero nessuno la ama? Addirittura, lei non ama nessuno? E non ne sarebbe capace? Davvero si vede così male? Ne siamo sicuri? Vediamo assieme, cosa fa e cosa non fa uno che non ama? E vediamo assieme cosa ha fatto lei nella vita. Lei è davvero così?) anche l’umore migliora, il paziente si conforta, sta meglio. Insomma, la depressione non dipende da una inconscia pulsione aggressiva verso il mondo e se stessi ma da una consapevole, ed erronea, convinzione di non valer nulla, convinzione che è accessibile a una ristrutturazione paziente, amichevole e confortante rivalutazione di sé stessi e della propria esistenza fatta in collaborazione con un terapista incoraggiante, non inquisitorio, dal tono tranquillo e accogliente.

Potremmo pensare: ecco la collaborazione, quell’empirismo collaborativo che non è solo indagine cooperativa tra paziente e terapeuta ma anche calore e accoglienza. Calma. Ne parleremo più in là in questo buon compleanno a Tim che vado scrivendo. Ora torniamo a quel Beck isolato che nel 1963 concepisce la terapia cognitiva in mezzo a una banda di psicoanalisti.

Non andò proprio così. Come sta dimostrando da alcuni anni la storica della psicoterapia Rachael Rosner (2012, 2014, 2018), il modello cognitivo di Beck non nacque nonostante la psicoanalisi ma nella psicoanalisi e addirittura dalla stessa psicoanalisi come suo sviluppo naturale. Beck giovane psichiatra aveva intrapreso la formazione da analista negli anni ’50 ad Austen Riggs, un ospedale del Massachusetts, con lo psicologo psicoanalitico di origine ungherese David Rapaport. Rapaport fu un dei più prestigiosi esponenti di quel ramo della psicoanalisi che fiorì in America negli anni del dopoguerra noto come psicologia dell’Io. Il lavoro di Rapaport si basava su quello di Anna Freud, Heinz Hartmann e Ernst Kris, lavoro che dava importanza (e qui dobbiamo fare attenzione) a come i pazienti valutano e danno significato al loro mondo. Rapaport sviluppò questi concetti e li chiamò (e qui dobbiamo fare ancora più attenzione) “le capacità dell’Io di testare la realtà”, o la “forza dell’Io” del paziente.

Insomma, fu con lo psicoanalista Rapaport che Beck imparò a capire i pazienti che erano depressi (o ansiosi) perché affetti da strutture dell’Io “difettose”. Rapaport sosteneva che la cognizione, l’attenzione, la percezione, l’apprendimento e la memoria erano il ponte che collegava la teoria psicoanalitica con la psicologia sperimentale e che l’Io era il luogo in cui operavano le funzioni mentali “prive di conflitti” della psicologia normale. È ormai certo che l’influenza di Rapaport e della psicologia dell’Io rimanessero forti per tutta la vita intellettuale di Beck (Rosner, 2012, 2014). In realtà, non solo Beck ma anche altri che studiarono con Rapaport negli anni ’40 e ’50 hanno sempre mantenuto questa attenzione per il pensiero cosciente: da quelli che si sono mantenuti nella psicoanalisi, George Klein, Robert Holt e Roy Schafer; a chi si è dato a studi di psicologia sociale e sperimentale come lo psicologo e premio Nobel Daniel Kahneman, che studiò con Rapaport nel 1959.

Ciò che non è chiaro è che Beck continuò a definirsi psicoanalista per tutti gli anni ’60 e per buona parte degli anni ‘70, ritenendo la sua psicoterapia cognitiva una forma psicoanalisi neo-freudiana appartenente alla psicologia dell’Io di Anna Freud, Hartmann e Rapaport. Beck non si distaccò affatto dalla psicoanalisi nella prima metà degli anni ‘60, come si è sempre pensato e come lui stesso ha talvolta fatto pensare, peraltro smentendosi altrove e in anni tardi quando per esempio nel 1995 (si noti la data) scrisse che l’attenzione per i pensieri consci l’avesse ereditata dalla psicoanalisi e non dal comportamentismo (che infatti non dava alcun peso alla coscienza) e che perfino la successiva svolta processuale di “terza onda” (che qui tratteremo brevemente: troppa carne al fuoco) lui la accoglie perché corrisponde in parte alla distinzione freudiana tra processo primario e secondario (Beck, 1995, p. 41).

Insomma, Beck continuò per tutti gli anni ’60 e per la prima metà degli anni ’70 a sperare che il suo modello potesse essere accolto nel mainstream psicoanalitico, e per la precisione in una associazione psicoanalitica denominata American Academy of Psychoanalysis.  Beck si unì all’Academy nel 1968, una data piuttosto tarda e che fa a pugni con il racconto di un Beck cognitivista incompreso in mezzo agli analisti per tutti gli anni ‘60. Beck parlava ai congressi di quella associazione, era membro del comitato scientifico e pubblicava sulla rivista della società.

Pubblicava cosa? Articoli di psicoanalisi? No. O almeno, non solo. Nel 1970 Beck pubblicò un articolo sulla triade cognitiva nella rivista psicoanalitica dell’Academy (Beck, 1970a) e descrisse il suo modello come un’integrazione tra concetti neo-freudiani e comportamentisti, in cui la triade cognitiva giocava un ruolo di mediazione tra il trigger e la risposta comportamentale. In quei primi anni ‘70, Beck esplorava il ruolo delle fantasie e dei sogni in psicologia (Beck, 1970b, 1971) e riteneva ancora che fosse proprio la sua personale appartenenza alla neo-freudiana psicologia dell’Io che avesse permesso alla terapia cognitiva di interessarsi all’attività cosciente piuttosto che inconscia, mentre l’interesse per l’interazione con l’ambiente piuttosto che sui processi psicodinamici interni lo avrebbe ricavato dalla psicoanalisi interpersonale di Karen Horney e Stak Sullivan. Tuttavia, i neo-freudiani dell’Accademy alla lunga non furono propensi ad accettarlo come uno di loro. Nelle parole dello stesso Beck:

Quando presentai questo materiale (…) dissi: ‘questa è davvero neo-analisi’; e loro risposero: ‘Beh, Beck, questa non è più analisi. È meglio che tu smetta di chiamarti analista (Beck, 1997, p. 7).

Di conseguenza, Beck si dimise dall’Academy, ma lo fece solo nel 1976.

Ciò che era originale nelle intuizioni di Beck sul pensiero e sulla depressione e ciò che lo distingueva dagli psicoanalisti della scuola della psicologia dell’Io, era che egli concluse che le distorsioni cognitive erano esse stesse la psicopatologia piuttosto che le conseguenze della psicopatologia. Mentre George Klein, Roy Schafer e altri credevano che la psicopatologia fosse il risultato di un conflitto tra i desideri primitivi e la valutazione della realtà, che qualsiasi distorsione nel pensiero di un paziente era conseguenza dell’incapacità dell’Io di gestire quei conflitti e che la terapia consistesse nell’individuare quei conflitti per poi modificare le distorsioni, Beck propose di lavorare direttamente sulle distorsioni. Beck rifiutò l’idea psicodinamica che il problema risiedesse nei desideri e nei conflitti primitivi e sostenne invece che sia le strutture mentali che la psicopatologia risiedesse nelle cognizioni. Le strutture cognitive e non le strutture dell’Io erano difettose. Eppure: che differenza c’è tra strutture cognitive e strutture dell’Io? Meno di quel che sembra.

Nella prima metà degli anni ’60, Beck iniziò a esaminare dettagliatamente i contorni di queste strutture cognitive, gli “schemi”. Smentendo chi vede oggi nel modello cognitivo interesse solo per il presente del qui e ora e continuando a mostrare la sua persistente identità di psicoanalista, Beck radicò lo sviluppo degli schemi nell’infanzia dei pazienti, quando essi si presentano in maniera rigida, dicotomica e strettamente legata alle emozioni. Man mano che il bambino matura, gli schemi assumono flessibilità e distanza dalle emozioni e l’individuo acquisisce la capacità di valutare le situazioni razionalmente, imparando a usare le emozioni come fonte di informazioni dei bisogni senza però cedere alla spinta comportamentale emotiva, strutturalmente impulsiva e semplicistica, ridotta al repertorio limitato dell’attacco e della fuga. La psicopatologia deriva dal fallimento dello sviluppo maturo di questi schemi, che rimangono allo stadio primitivo della valutazione tutto o nulla e della reazione impulsiva. Per Beck, questi concetti cognitivi erano rinconducibili a quelli freudiani di complesso primario e di agito (Rosner, 2012) e lo scrisse in un libro collettivo su cognitivismo e costruttivismo curato da Mahoney del 1995 (Beck, 1995, p. 41).

La conclusione è che Beck non si è mai separato completamente dalla psicologia dell’Io, anche dopo essersi alleato con terapisti comportamentali negli anni ’70. Si potrebbe persino sostenere che il suo primo libro sulla terapia cognitiva e i disturbi emotivi (Beck, 1976), fosse in realtà un testo di psicologia dell’Io. Del resto, Beck nel 1990 confidò allo psicologo comportamentale Paul Salkovskis che egli non aveva mai smesso di sentirsi uno psicoanalista.

 

L’ultimo abbraccio. Cosa dicono di noi le emozioni degli animali (2020) di Frans de Waal – Recensione

Secondo l’autore del volume L’ultimo abbraccio dovremmo imparare a porre maggiore attenzione alla sfera emotiva, che non riguarda soltanto noi su questo pianeta, ma anche i nostri compagni di viaggio.

 

Chiunque dichiari di sapere che cosa provano gli animali non ha la scienza dalla sua parte.” È con questa premessa che l’autore racconta di numerosi studi sugli scimpanzé che mettono in luce aspetti incredibili su questa specie così diversa da noi, ma nel contempo simile.

L’indagine delle emozioni resta un campo considerato da sempre molto complesso, in quanto è spesso insondabile. In questo libro vengono però messe in luce le dinamiche connesse alle emozioni di alcuni animali facendoci comprendere una natura a cui apparteniamo anche noi. L’ultimo abbraccio è stato il modo in cui si sono salutati una femmina anziana di scimpanzé e un vecchio professore proprio pochi giorni prima che lei morisse. Viene descritto un abbraccio familiare e davvero commovente.

L’antica specie da cui è derivata la nostra, ossia l’antropomorfa, non esiste più da molto tempo; si aggirava sulla Terra circa sei milioni di anni fa e i suoi discendenti subirono vari cambiamenti, per poi estinguersi uno dopo l’altro. Rimasero però tre specie ad oggi sopravvissute: scimpanzé, bonobo e la nostra. Si tratta di ominidi con storie ugualmente lunghe alle spalle, motivo per cui si sono “evoluti” nella stessa maniera. Osservando un’antropomorfa, possiamo quindi vedere una storia condivisa che è tanto nostra quanto della scimmia che ci sta guardando. Se le scimmie antropomorfe sono come macchine del tempo per noi, anche noi lo siamo per loro. Noi siamo animali e la nostra specie non può essere considerata come molto differente dagli altri mammiferi per quanto riguarda le emozioni, infatti sarebbe difficile identificare emozioni che riguardano esclusivamente noi. Secondo l’autore dovremmo imparare a porre maggiore attenzione alla sfera emotiva che non riguarda soltanto noi su questo pianeta, ma anche i nostri compagni di viaggio.

Se domandiamo alle persone se gli animali hanno emozioni, risponderebbero in modo affermativo, sono infatti consapevoli del fatto che i loro animali domestici provano ogni sorta di emozione e, per estensione, ritengono sia lo stesso anche per gli altri animali. Ma se poniamo la stessa domanda ai docenti universitari, in molti si chiederanno che cosa ci riferiamo con esattezza. Potrebbero anche chiedere come definiamo le emozioni.

La paura che prova un pesce è la stessa che prova un cavallo?” Questa è una delle tante domande che de Waal ci sprona a porci per ragionare fuori dai nostri schemi da umani. Ad esempio, potremmo pensare che l’autocontrollo riguardi solo noi. Considerare spesso gli animali come creature istintive, prive dei freni inibitori che solo noi siamo capaci di applicare. Secondo alcuni filosofi, infatti, a contraddistinguere la nostra specie sarebbe proprio la capacità di controllare e sopprimere gli impulsi. L’autore spiega che seguire ciecamente le proprie emozioni risulterebbe tutt’altro che adattativo per qualsiasi specie animale. Sarebbe qualcosa di paragonabile a una mina vagante? Se un gatto agisse sempre d’impulso rincorrendo la preda anziché facendo l’agguato, i suoi tentativi non andrebbero quasi mai a buon fine.

Agire in modo impulsivo non ha senso in termini di sopravvivenza, motivo per cui un animale che cede a qualsiasi impulso si troverà sempre in situazioni pericolose. L’autore approfondisce il tema sui rituali di accoppiamento degli scimpanzé in cui emerge proprio un evidente autocontrollo dei maschi in cui vengono rigidamente rispettati gerarchia e turni. Se un giovane scimpanzé maschio vuole accoppiarsi con una femmina, si avvicina girandole intorno e sperando di avere un’occasione, ma se il maschio alfa lo guarda, il giovane scappa via consapevole del fatto che non potrà farcela. Nel testo vengono riportati altri vari esempi sulla gestione degli impulsi nel mondo animale: gli gnu, durante la migrazione nel Maasai, esitano a lungo prima di entrare nel fiume da attraversare. Le giovani scimmie attendono che la madre del loro compagno di giochi si allontani per cominciare a lottare tra loro. Un gatto domestico ruba il cibo dal tavolo solamente quando la persona è impegnata a fare altro.

Gli animali in realtà sono capaci di valutare le conseguenze del proprio comportamento, motivo per cui esitano spesso, come fanno gli scoiattoli quando attraversano la strada.

È così che l’autore, trasmettendo una grande passione per i suoi studi, approfondisce i vissuti emotivi degli animali più simili a noi.

COVID-19: Una persona su 3 sviluppa disturbi psichiatrici e danni neurologici a lungo termine

Un recentissimo studio retrospettivo pubblicato su The Lancet Psychiatry, ha mostrato che SARS-CoV-2 ha effetti acuti sul cervello e che può provocare danni neurologici a lungo termine, nonché l’insorgenza di disturbi psichiatrici.

 

Il 30 gennaio 2020 il direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha ufficialmente denominato SARS-CoV-2 (Severe Acute RespiratorySyndrome Coronavirus 2) la sindrome respiratoria acuta grave, identificando l’11 febbraio nell’acronimo COVID-19, la malattia respiratoria causata dal nuovo Coronavirus. L’OMS qualifica l’epidemia da SARS-CoV-2 un’emergenza di sanità pubblica di rilevanza internazionale: definita come un “outbreak senza precedenti”. Dal primo caso di infezione riscontrato a Wuhan, il virus ha continuato a diffondersi, tanto da essere dichiarato una pandemia dalla World Health Organization l’11 marzo 2020. Secondo le indagini epidemiologiche, l’infezione da SARS-CoV-2 ha portato nel mondo un elevato numero di contagi e decessi: al 17 aprile 2021 sono oltre 134 milioni i contagi e 2,99 milioni i decessi attribuiti a COVID-19 nel mondo.

Il COVID-19 attacca solo cuore e polmoni?

Dagli esiti delle autopsie dei pazienti deceduti si è riscontrato che l’infezione da SARS-CoV-2 è una “malattia sistemica-multiorgano” poiché coinvolge organi e sistemi ulteriori a quello respiratorio, come ad esempio quello cardio-circolatorio, tegumentario, emopoietico, gastrointestinale, renale e il sistema nervoso (Temgoua, Endomba, Nkeck, Kenfack, Tochie&Essouma,2020).

Quali sono le conseguenze neurologiche e psichiatriche del virus?

Sin dallo scoppio della pandemia è scattata una forte preoccupazione, legata al fatto che il virus potesse colpire il sistema nervoso centrale e periferico, aumentando il rischio nei pazienti positivi all’infezione di sviluppare sintomi neurologici. Potenziali danni a carico del sistema nervoso erano originariamente suggeriti da dati preliminari, che hanno evidenziato un calo nella percezione di sapori (ipo-ageusia) e di odori (iposmia) nei pazienti COVID-19 (Ray,2020; Haldrup, Johansen & Fjaeldstad, 2020).

Un’ampia mole di studi si è focalizzata sull’impatto che la pandemia ha avuto sulla salute mentale ma, ad oggi, poche ricerche hanno esplorato i meccanismi neurobiologici che favoriscono l’insorgenza o il peggioramento dei disturbi psichiatrici. A tale scopo, uno studio italiano (Steardo&Verkhratsky, 2020), pubblicato su Translational Psychiatry, ha riscontrato che il virus Sars-Cov2, in alcune persone, può arrivare ad alterare il funzionamento delle connessioni nervose, contribuire alla perdita delle sinapsi e alla morte neuronale, causando la comparsa di malattie mentali o l’esacerbazione del quadro sintomatologico. In particolare, sembra che la causa risieda nei processi di neuro-infiammazione innescati dal virus, aggravati da fattori di stress (fisici e psicologici) che stimolano l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene. Lo stress potrebbe manifestarsi a seguito delle particolari condizioni di vita quali, ad esempio, ricovero in terapia intensiva, paura di contrarre il virus e restrizioni sociali (Steardo et al., 2020).

Cosa hanno riscontrato studi retrospettivi su pazienti COVID-19 a 6 mesi dall’infezione?

Un recentissimo studio retrospettivo pubblicato su The Lancet Psychiatry, ha mostrato che SARS-CoV-2 ha effetti acuti sul cervello e che può provocare danni neurologici a lungo termine, nonché l’insorgenza di disturbi psichiatrici. È stato osservato retrospettivamente che, in un campione di più di 230 mila persone guarite da COVID-19 durante gli ultimi sei mesi, una persona su tre che ha contratto il virus sviluppa disturbi neurologici e/o psichiatrici (Taquet, Gedde, Husain, Luciano & Harrison, 2021).

Spesso, le manifestazioni neurologiche variano da mal di testa, vertigini, confusione a, in alcuni casi, condizioni più gravi quali emorragia intracranica, ictus ischemico, malattia di Parkinson e parkinsonismi, demenze, sindrome di Guillain-Barré (patologia acuta autoimmune associata ad astenia muscolare progressiva e paralisi), miopatie ed encefaliti. Per quel che concerne l’insorgenza di disturbi psichiatrici, la diagnosi di COVID-19 sembra associata a disturbi dell’umore, disturbi d’ansia, disturbi psicotici, abuso di sostanze ed insonnia.

I ricercatori hanno riscontrato che il 34% delle persone ha ricevuto una diagnosi di malattia neurologica e/o psichiatrica nell’arco dei sei mesi successivi alla diagnosi di COVID-19. L’incidenza aumenta sostanzialmente nel caso dei pazienti per cui si è reso necessario un ricovero in terapia intensiva (46%). Le diagnosi maggiormente riscontrate dai ricercatori sono state: ictus ischemico, emorragia intracranica e demenza. Riguardo quest’ultima, i ricercatori specificano la presenza di tassi di incidenza modesti (2.66% in pazienti over 65 e 4.72 in pazienti con encefalopatie) ma un incremento consistente se confrontato con i malati di influenza. Le manifestazioni psichiatriche più frequenti risultano essere l’ansia e i disturbi dell’umore, presenti, rispettivamente, nel 17% e nel 14% dei casi. Il rischio di sviluppare una di queste condizioni è aumentato nei pazienti affetti da COVID-19 rispetto a pazienti con influenza o altre infezioni del tratto respiratorio, inoltre, l’incidenza delle diagnosi neuropsichiatriche aumenta notevolmente con l’aumentare della gravità del quadro clinico del paziente. Questi disturbi, caratterizzati spesso da un decorso ricorrente, tendono a cronicizzarsi nel corso del tempo (Taquet et al., 2021).

Esiste una vulnerabilità ai danni neurologici correlati a COVID-19?

La risposta è sì. Altro aspetto da considerare riguarda l’infezione da SARS-Cov-2 in individui aventi già patologie neurologiche. Infatti, vi sono evidenze che dimostrano come in pazienti affetti da COVID-19, con un’anamnesi patologica remota per neuropatie, il rischio di sviluppare un ictus cerebrale aumenta del 5%. Chiaramente questo aumento di malattie cerebro-vascolari durante COVID-19 è da correlare verosimilmente allo stato di iper-coagulabilità che accomuna la gran parte degli individui affetti (Torti, 2020).

Quali sono le modalità con cui il virus SARS-CoV-2 raggiunge il sistema nervoso? È un importante quesito scientifico che, ad oggi, resta ancora aperto. Il possibile coinvolgimento del sistema nervoso, era già noto dalle precedenti pandemie da Coronavirus (SARS 2002/2003 e MERS 2012); infatti tali virus possono raggiungerlo determinando complicanze neurologiche nel periodo pre o post infettivo. La prima ipotesi di raggiungimento del sistema nervoso centrale riguarda la penetrazione del virus a livello dei nervi cranici (tra cui: l’olfattivo, il trigemino, il glosso-faringeo), che, innervando l’epitelio nasale e respiratorio, possono veicolare il patogeno tramite un trasporto retrogrado al cervello. Secondo questa ipotesi il virus, che normalmente lega le proteine Spike (facenti parte della superficie esterna del pericapside virale) al recettore ACE2, raggiungerebbe più facilmente i nervi, perché quest’ultimo è presente anche sulle cellule nervose, oltre che su quelle della mucosa olfattiva e respiratoria (Ferrarese, 2020). È stato recentemente dimostrato che un’altra proteina “Neuropilina-1”, che è altamente espressa nei nervi olfattivi, può favorire l’ingresso del virus in tali cellule (Ferrarese, 2020). Pertanto, in linea con queste evidenze, il virus potrebbe penetrare dai terminali nervosi della muscosa olfattoria per poi diffondersi ad altre regioni del cervello, in maniera analoga agli altri Coronavirus.

Altre ipotesi riguardano la via “ematogena”; infatti, un’alterazione della barriera emato-encefalica potrebbe fungere da facilitatore per la penetrazione del virus nell’encefalo. In seguito all’infezione da SARS-CoV-2, l’attivazione immediata del sistema immunitario favorisce la produzione di citochine (molecole che attivano le cellule di difesa promuovendo uno stato infiammatorio) dando vita alla cosiddetta “tempesta citochinica”. Studi affermano che la tempesta citochina, potrebbe agire oltre che sulle cellule endoteliali, anche sugli astrociti (cellule che rivestono la barriera emato-encefalica) con conseguente aumento della permeabilità della barriera emato-encefalica, fenomeno che facilita, così, l’ingresso del virus nel sistema nervoso centrale (Thepmankorn, Bach, Lasfar,Zhao, Souayah, Chong & Souayah, 2020). Anche per questo motivo, nella terapia empirica per il trattamento di COVID-19, viene utilizzato come farmaco il cortisone, oltre agli anticoagulanti. È stata inoltre avanzata l’ipotesi secondo la quale la presenza di comorbidità di COVID-19 con patologie di natura cardiovascolare, malattie neurologiche e obesità pre-esistenti potrebbe, da sola, o in combinazione con le citochine, alterare il funzionamento di tale barriera (Torti, 2020). Una volta nel sistema nervoso, il patogeno, potrebbe viaggiare verso il tronco dell’encefalo (sede di controllo dell’attività respiratoria e cardiaca) ledendo le seguenti strutture, e compromettendo il funzionamento di cuore e polmoni. Potrebbe essere questa quindi la causa dei sintomi tipici della fase iniziale dell’infezione da COVID-19 (Marzocco, Iannaccone & Filippelli, 2020). Ad oggi il trattamento dei disturbi neurologici, nel corso del Covid-19, non prevede una terapia specifica, se non quella utilizzata per eliminare l’infezione (antivirali o anticorpi mono-clonali).

In sintesi, pur non conoscendo le modalità di penetrazione del virus SARS-CoV-2, è presumibile una forte associazione tra l’infezione da COVID-19 e l’insorgenza di problematiche neurologiche. Si auspica una sempre maggiore attenzione a tale fenomeno.

 

L’utilizzo di app per il conteggio calorico e le influenze sul comportamento alimentare

Le app per il conteggio delle calorie possono possono invogliare all’adozione di una dieta restrittiva e squilibrata (Rentko, 2015) e a sopravvalutare l’importanza del peso e della forma del corpo.

 

Ai giorni nostri l’uso di smartphone e tablet è diventato parte della vita quotidiana, soprattutto tra i giovani adulti. Con l’aumento dell’utilizzo di tali tecnologie sono proliferate anche le applicazioni (app) che possono essere utilizzate per influenzare i comportamenti nel campo della salute (Ellison, Wonderlich e Engel, 2015). Ad esempio per i disturbi alimentari sono state progettate diverse app che il paziente può utilizzare come supporto e in aggiunta a trattamenti efficaci (Juarascio, Manasse, Goldstein, Forman e Butryn, 2015). Sebbene tali applicazioni possano essere molto promettenti, sulle piattaforme online ne esistono molte altre non sviluppate specificamente per i disturbi alimentari che potrebbero al contrario configurarsi come un fattore di rischio nello sviluppo di tali disturbi. Nello specifico ci riferiamo alle app per il conteggio delle calorie, ovvero applicazioni che consentono di monitorare e inserire l’assunzione quotidiana di cibo al fine di calcolarne l’introito calorico. Esse forniscono una ripartizione dell’apporto giornaliero di calorie e nutrienti fornendo un feedback sul numero di calorie e i nutrienti necessari; alcune consentono anche di impostare obiettivi di peso consigliando la quantità di calorie necessarie per raggiungerli. La ricerca non si è ancora spinta a dimostrare la relazione tra l’uso di questi dispositivi e atteggiamenti e comportamenti legati ai disturbi alimentari. A tal proposito gli studi segnalano che l’uso di app per il conteggio delle calorie sta aumentando in modo esponenziale elevando il rischio di innescare, mantenere o esacerbare la sintomatologia del disturbo alimentare.

Conteggio calorico e dieta ferrea

La dieta è una delle più importanti caratteristiche osservate nei pazienti con disturbo dell’alimentazione. Piuttosto che adottare linee guida generali su come mangiare, il paziente segue regole alimentari altamente specifiche che limitano l’alimentazione con l’obiettivo di dimagrire o controllare eccessivamente il peso e le forme corporee. Tale forma persistente di dieta, definita “dieta ferrea” ha tre caratteristiche principali: è persistente, estrema (cioè caratterizzata da molte regole che richiedono un’attenzione costante) e rigida (cioè le regole devono essere seguite perfettamente per sentirsi in controllo). Le regole alimentari possono essere differenti da un paziente all’altro ma in generale riguardano quando, quanto e cosa mangiare. La conseguenza è che l’alimentazione diventa stereotipata e flessibile.

Il tentativo di limitare l’alimentazione, indipendentemente o meno dal fatto che si crei un deficit calorico, è definito “restrizione dietetica cognitiva”, mentre il ridotto apporto calorico giornaliero (in senso fisiologico) è definito “restrizione dietetica calorica” (Dalle Grave, Calugi e Sartirana, 2018). La restrizione dietetica cognitiva, anche se non è presente una restrizione dietetica calorica, va sempre affrontata nel trattamento dei disturbi dell’alimentazione per due motivi principali: è dannosa, perché causa preoccupazioni per il cibo e l’alimentazione, interferisce con la concentrazione, è emotivamente stressante e danneggia le relazioni; mantiene il disturbo dell’alimentazione perché incoraggia le abbuffate e può produrre, attraverso una prolungata riduzione dell’apporto calorico giornaliero, una condizione di sottopeso e la comparsa dei sintomi da malnutrizione (Dalle Grave, Calugi e Sartirana, 2018). I pazienti con disturbi dell’alimentazione tendono a non considerare la restrizione dietetica cognitiva un problema e spesso la valutano positivamente perché crea in loro un senso di “controllo”, è un modo per controllare il peso e la forma del corpo, è socialmente rinforzata e si sentono appagati nel seguirla (è una misura della loro forza di volontà). Al contrario, quando non riescono a seguire le regole dietetiche si sentono dei falliti perché attribuiscono l’insuccesso alla loro debolezza e non al fatto che la dieta che adottano è estrema e rigida (Dalle Grave, Calugi e Sartirana, 2018). In questo contesto l’utilizzo di app che monitorano le calorie diventa un aiuto per attuare una restrizione dietetica. Questo comportamento rientra tra i check dell’alimentazione disfunzionali che contribuiscono a mantenere un’eccessiva preoccupazione per il controllo minuzioso dell’alimentazione e danneggiano la vita sociale. Infatti, con l’adozione di questi comportamenti non è possibile consumare un pasto fuori casa.

Alla luce di tali riflessioni è importante capire come questo tipo di app influisca sugli individui con disturbi alimentari, dato che questi ultimi spesso diventano ossessivi e perfezionisti nel contare le calorie esacerbando i comportamenti sintomatologici del disturbo alimentare (Tchanturia, Lloyd, & Lang, 2013).

Conteggio calorico e disturbi alimentari: cosa ci dicono gli studi?

Come anticipato, sono pochissime le ricerche sulla relazione tra l’utilizzo delle app e lo sviluppo di disturbi dell’alimentazione. Esse evidenziano il rischio che tali strumenti possano invogliare all’adozione di una dieta restrittiva e squilibrata (Rentko, 2015) e a sopravvalutare l’importanza del peso e della forma del corpo e per questo non dovrebbero essere utilizzate da coloro che potrebbero incorrere in un disturbo alimentare (Evans, 2016). Alcuni studi si sono proposti di colmare questa lacuna nella letteratura e iniziare a quantificare i possibili effetti dell’utilizzo di app per il conteggio delle calorie in un campione di individui con disturbi alimentari.

Dalla ricerca di Levinson, Fewell e Brosof (2017) è emerso che il 73% dei partecipanti ha dichiarato che l’app ha contribuito almeno in parte allo sviluppo del loro disturbo alimentare; il 30% ha riferito che l’app ha contribuito molto allo sviluppo del loro disturbo alimentare.

Linardon e Messer (2019) hanno messo in luce le associazioni tra l’uso del conteggio delle calorie e dei dispositivi di monitoraggio della forma fisica e la sintomatologia dei disturbi alimentari. Gli individui che hanno riferito di utilizzare l’app per il conteggio delle calorie hanno manifestato livelli più elevati di preoccupazione alimentare e di controllo dell’indice di massa corporea (IMC). Inoltre, il monitoraggio della forma fisica è stato associato a episodi di abbuffata e successivi comportamenti di compenso. In sintesi, i risultati complessivi suggeriscono che per alcuni individui questi dispositivi potrebbero fare più male che bene.

Simpson e Mazzeo (2017) si sono soffermati sulla relazione intercorrente tra l’utilizzo delle applicazioni e la compromissione psicosociale in un campione maschile. I dati trasversali sono stati analizzati su 122 partecipanti maschi reclutati principalmente attraverso siti di social media legati al fitness. Circa la metà (56%) del campione ha riferito di aver utilizzato l’app. Quasi il 40% degli utenti l’ha percepito come un fattore che ha contribuito in una certa misura all’esordio del disturbo alimentare riportando livelli significativamente più alti della sintomatologia e di disturbi psicologici (pensiero dicotomico, eccessiva valutazione di forma del corpo, peso e alimentazione) e comportamentali (abbuffate e restrizione dietetica) rispetto ai non utenti. Il fatto che quasi un terzo degli uomini percepisca l’utilizzo della tecnologia come un fattore che contribuisce al loro disturbo alimentare evidenzia la possibile utilità di informarsi sull’uso di app per il conteggio delle calorie durante lo screening e la valutazione dei sintomi dei disturbi alimentari negli uomini.

Naturalmente questi dati, essendo esigui e di recente scoperta, non sono ancora in grado di determinare in maniera significativa l’esistenza di una relazione causale tra l’uso di app di conteggio calorico e la sintomatologia del disturbo alimentare. Nonostante ciò è chiaro il nesso esistente tra un elevato utilizzo di strumenti di monitoraggio delle calorie e lo sviluppo/rafforzamento di comportamenti connessi ai disturbi alimentari. Considerando il ruolo centrale che la tecnologia ricopre nelle nostre vite sarebbe opportuno, se non addirittura necessario, approfondire tali studi anche al fine di sviluppare un supporto adeguato nei confronti di coloro che si avvalgono di queste applicazioni.

 


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“Quando il sesso fa soffrire”: le variabili psicologiche connesse alla disforia post-coitale

La disforia post-coitale è caratterizzata dalla presenza di una deflessione del tono dell’umore, caratterizzata da lacrimazione, senso di malinconia, ansia o aggressività a seguito di un rapporto sessuale (Burri & Spector, 2011). La letteratura inerente alla disforia post-coitale, però, appare ancora circoscritta.

 

L’espressione “disfunzioni sessuali femminili” fa riferimento a quelle problematiche che si verificano prima o durante l’attività sessuale (Basson et al., 2000). Talvolta, però, è possibile che i soggetti manifestino espressioni fisiologiche o emotive e, nei casi più gravi, veri e propri disturbi, a seguito dell’orgasmo (Bird et al., 2011). Recentemente, alcuni studi hanno attirato l’attenzione su questo fenomeno che è stato definito disforia post-coitale (Postcoital Dysphoria-PCD; Sadock et al., 2008). La disforia post-coitale è caratterizzata dalla presenza di una deflessione del tono dell’umore, caratterizzata da lacrimazione, senso di malinconia, ansia o aggressività a seguito di un rapporto sessuale (Burri & Spector, 2011).

La letteratura inerente alla disforia post-coitale, però, appare ancora circoscritta.

Uno studio di Burri e Spector (2011) ha indagato la manifestazione di sintomi psicologici post-coitali come l’irritabilità e il pianto immotivato a seguito di un rapporto sessuale, in un campione di 1.489 donne e il 7,7% ha riferito di aver sperimentato questi sintomi in modo persistente. Le cause alla base della disforia post-coitale rimangono sconosciute, anche se si ipotizza che l’eziologia sia multifattoriale, con fattori psicologici e affettivi che sembrano svolgere un ruolo cruciale.

Secondo Basson (2002), per la maggior parte delle donne, la motivazione ad impegnarsi nell’attività sessuale deriva da un lato dal desiderio di migliorare l’intimità con il proprio partner e, dall’altro, dalla voglia di provare piacere fisico.

Nel cercare di ottenere una migliore comprensione dell’esperienza post-coitale delle donne, è fondamentale comprendere in che misura il loro funzionamento sia influenzato dal bisogno di migliorare l’intimità con il proprio partner.

Disforia post-coitale e attaccamento

Appare necessario sottolineare che, secondo alcune evidenze, l’attaccamento e la differenziazione del sé determinano la modalità con cui le donne gestiscono l’intimità nelle relazioni significative (Burri et al., 2014). Con l’espressione “differenziazione del sé” ci si riferisce alla capacità di bilanciare l’intimità e l’autonomia nelle relazioni (Bowen, 1978).

Burri e colleghi (2014) hanno evidenziato come anche l’evitamento e l’insicurezza dell’attaccamento fossero associati alla manifestazione di problematiche di natura sessuale nelle donne.

Dunque, l’evitamento, l’insicurezza dell’attaccamento e la paura della perdita del senso di sé potrebbero ugualmente avere un ruolo fondamentale nell’insorgenza dei sintomi della disforia post-coitale.

Uno studio preso in esame ha avuto come primo obiettivo quello di valutare la prevalenza della disforia post-coitale in un campione di studentesse universitarie (n=231) e di determinare se essa fosse collegata al funzionamento sessuale complessivo.

Il secondo obiettivo è stato quello di identificare i potenziali fattori relazionali associati alla disforia post-coitale, esaminando, in particolar modo, il ruolo dell’ansia di attaccamento, dell’evitamento e il grado di differenziazione di sé.

Circa il 46,2% del campione ha riferito di aver sperimentato sintomi della disforia post-coitale (PCD) almeno una volta nella vita ed è stato rinvenuto un legame debole tra i sintomi PCD lifetime e il funzionamento sessuale complessivo. Ciò potrebbe significare che i sintomi della PCD potrebbero non essere necessariamente legati al funzionamento sessuale complessivo e potrebbero verificarsi nonostante o, a seguito, di un funzionamento fisiologico “normale”. Questa potenziale spiegazione fornisce un ulteriore supporto all’ipotesi di Burri e Spector (2011), ovvero che l’eziologia della disforia post-coitale possa essere dovuta a molteplici fattori biopsicosociali. Difatti, i risultati del loro studio hanno mostrato che vi fosse una componente genetica nei sintomi psicologici post-coitali e, ulteriormente, che i fattori come la soddisfazione relazionale e i trascorsi di abuso possono predire i sintomi post-coitali.

L’abuso può portare allo sviluppo di problemi psicologici tra cui l’ansia per i contatti sessuali, che potrebbe a sua volta determinare un impatto sul funzionamento e sul comportamento sessuale a lungo termine delle donne.

Disforia post-coitale e differenziazione del Sé

Inoltre, i risultati hanno fornito alcune prove della presenza di un’associazione tra attaccamento, differenziazione del sé e disforia post-coitale. Nello specifico, è stato osservato come alti livelli di ansia legata all’attaccamento, l’evitamento, una maggiore reattività emotiva e una maggiore difficoltà a mantenere una posizione autonoma fossero associati alla manifestazione dei sintomi della PCD. Poiché questo è il primo studio che indaga l’associazione tra la differenziazione di sé e la manifestazione dei sintomi della disforia post-coitale, le potenziali spiegazioni delle correlazioni evinte possono basarsi unicamente sulla teoria di Bowen (1978), secondo il quale, la differenziazione del sé rappresenta un determinante critico per il benessere, in quanto si ritiene che una scarsa capacità di differenziazione determini sia un disagio psicologico che fisico. Ulteriori studi hanno valutato la relazione tra differenziazione del sé e funzionamento sessuale. Schnarch (2009), per esempio, ha sostenuto che una maggiore differenziazione del sé nelle relazioni intime porti ad una maggiore intimità e ad una maggiore soddisfazione sessuale, permettendo al contempo una maggiore comunicazione all’interno del rapporto. Coloro i quali non possiedono la suddetta capacità possono essere più ansiosi all’idea di poter “perdere sé stessi” o di poter perdere il controllo durante il rapporto, manifestando dunque problematiche di natura sessuale. Schnarch (1997) ha inoltre sostenuto che se i partner migliorassero la loro capacità di differenziazione, sviluppando una connessione intima senza paura di perdere il loro senso di sé, la relazione e la reciproca soddisfazione sessuale potrebbero subirne un giovamento.

Nello studio preso in esame, gli individui che hanno manifestato delle difficoltà nel mantenere un’autonomia e che si sono mostrati più reattivi emotivamente, avevano maggiori probabilità di riferire sintomi di disforia post-coitale. Nel periodo successivo al rapporto sessuale, questi soggetti possono essere più sensibili o più vulnerabili alle emozioni negative, da cui potrebbe derivare l’insorgenza di una sintomatologia depressiva o l’irritabilità. Coloro che possiedono la tendenza a fondersi con l’altro potrebbero percepire la fase di risoluzione del rapporto sessuale come una separazione dal partner, che può essere risultare schiacciante (Scheweitzer et al., 2015).

Nel complesso, i risultati supportano l’idea che i sintomi della disforia post-coitale sono prevalenti nella popolazione generale e che possono verificarsi nonostante un’esperienza sessuale fisiologicamente funzionale. La prevalenza della disforia post-coitale nel corso della vita suggerisce che la differenziazione di sé sia un predittore più forte rispetto all’attaccamento. Ad ogni modo, i risultati suggeriscono la necessità di ulteriori studi che potrebbero determinare delle implicazioni cliniche rilevanti e potrebbero mettere in luce future strategie di prevenzione ed educazione volte a promuovere la salute sessuale.

 

Aaron T. Beck, fondatore della Terapia Cognitiva, compie 100 anni

Sono passato dall’essere uno psicoanalista impegnato all’essere uno psicoanalista non impegnato ad essere qualcosa di nebuloso, per poi diventare un terapeuta cognitivo.
(Beck, A. T., 2012)

Aaron T. Beck compie 100 anni, ribelle come un adolescente

Il 18 Luglio 2021 Aaron Beck compie 100 anni. Molti di voi conosceranno Beck, cosa rappresenta per la Psicoterapia Cognitiva, c’è chi avrà letto i suoi libri, studiato le sue teorie e applicato le sue tecniche. Pensieri automatici negativi, distorsioni cognitive, schemi cognitivi e triade depressiva saranno parte del vocabolario professionale dei più.

Ma quella di Aaron Beck non è solo la storia di uno dei padri della Psicoterapia Cognitiva, è una storia di cambiamento, del desiderio di definirsi in un mondo accademico che all’epoca iperdefiniva e dell’importanza del non accontentarsi dei dubbi ma dell’impegnarsi nel trovare risposte.

È quasi un ossimoro parlare del fatto che Aaron Beck compie 100 anni e immaginare il famoso terapeuta come un adolescente. Eppure quello che ha accompagnato Beck nella sua vita ricorda spesso un atteggiamento adolescenziale, segnato da una serie di confronti con l’altro, che l’hanno infine portato a trovare il suo posto in un mondo accademico all’epoca difficile da contrastare. Aaron Beck però non rinnegherà le sue “origini” e anzi, col suo esempio, ci insegna come la vita non sia un susseguirsi di date ma un fluire di eventi tra loro intrecciati, in cui anche le “sorprese” inizialmente più inspiegabili, ci possono preparare il terreno per qualcosa di più grande.

I 100 anni di Aaron Beck: le “soprese”, la tenacia, la ricerca e la clinica

Dopo una prima laurea con lode alla Brown University, Aaron T. Beck si iscrive a Medicina all’università di Yale, frequentando dapprima Neurologia e successivamente, per motivi curricolari, Psichiatria (Fiore, 2017). Con la Psichiatria avrà sempre un rapporto ambivalente: sente di non amarla ma sente di non poter smettere di studiarla (Beck, 2012).

Aaron Beck ricorda, in una sua intervista (Beck, 2012), di aver iniziato la sua carriera in un’epoca (tra il 1940 e il 1950) in cui il mondo accademico si divideva in psicoanalisti rigorosi e clinici più scettici verso la psicoanalisi. Beck inizia a notare, complice il percorso di analisi personale, che l’establishment psicoanalitico era – a suo dire – quasi una religione fatta di dogmi da non poter discutere. Ma, da colui che diventerà uno dei padri del disputing, cosa aspettarsi se non il mettere in discussione le verità che ci danno (e ci diamo) come assolute?

Inizia a fare ricerca, mosso dalla voglia di dimostrare le verità freudiane e di consentire ai più scettici di rivalutare la psicoanalisi. Si dedica alla depressione, cercando nei sogni dei pazienti depressi quei contenuti onirici indice di un’ostilità repressa, così come sostenuto da Freud (Rosner, 2014). Ma la “prima grande sorpresa” a detta di Beck, è che nei sogni dei pazienti depressi è presente spesso una scena di fallimento, abbandono, svalutazione, non derivante dal bisogno di punizione quanto (“seconda grande sorpresa”) dal bisogno di rassicurazione, di un rinforzo positivo, così come emerso dalle successive ricerche condotte ascoltando i racconti dei pazienti (Beck, 2012).

È allora che Aaron Beck spulcia la letteratura precedente e punta la sua attenzione sul concetto di cognizione. Forse ci sono dei processi di pensiero ad essere coinvolti nelle depressione. Tali processi prendono una svolta negativa, autocritica – si dice. Ma per capirne di più ha bisogno dei suoi pazienti.

Ricerca e clinica diventano per Beck un connubio imprescindibile: conoscere, imparare, migliorarsi, condividere con i colleghi, aprirsi al confronto con altri esperti (cosa che fa anche adesso che ha 100 anni) senza mai perdere di vista i pazienti e ciò che può davvero aiutarli.

È grazie ai suoi pazienti, in particolare una di questi che l’ha intrattenuto per un’intera seduta con le storie delle sue scappatelle sessuali per paura di sembrare una persona noiosa ai suoi occhi, che arriva al concetto di Pensieri Automatici Negativi. Ed è sempre dopo una seduta con un’altra paziente, che non credeva che Beck le stesse davvero dicendo “Lavoreremo insieme per aiutarti a superare il tuo problema”, che giunge a capire che i pensieri dei depressi presentano delle distorsioni cognitive.

Arriva ad intuire l’esistenza dei Pensieri Automatici Negativi, delle distorsioni cognitive, ma non si arrende e continua a volerne sapere di più: la domanda successiva da porsi è “Cosa facciamo una volta individuati tali pensieri e tali distorsioni?” Qui diventa centrale uno degli eventi più importanti dei 100 anni di vita di Aaron Beck: l’incontro con Albert Ellis.

Prende in prestito alcuni dei suoi pensieri e alcune delle sue tecniche, e inizia a esplorare, a indagare e valutare con i pazienti i loro pensieri automatici. Ciò che succede, la “terza grande sorpresa” è che quando inizia a mostrare alle persone il loro pensieri automatici, queste iniziano a migliorare. Nella sua intervista, Beck ci racconta che quella fu la nascita della sua terapia cognitiva (Beck, 2012).

Esplorare nella letteratura, così come nei pensieri dei pazienti.

Il resto è storia, negli anni a seguire Aaron Beck si è sempre spinto oltre, ha esteso le sue teorie alla Schizofrenia ad esempio, ottenendo risultati molto promettenti. La sua vita continua ad essere un susseguirsi di importanti pubblicazioni e di illustri riconoscimenti.

Aaron Beck compie 100 anni: cosa ci insegna

La voglia di Aaron Beck di porsi domande e cercare risposte non si è esaurita, continua anche oggi che ha 100 anni, è presente nel suo “The Beck Institute for Cognitive Therapy and Research” a Philadelphia, dove lavora con la figlia Judith, a cui ha trasmesso tutta la sua tenacia e la sua professionalità e con la quale si è dedicato (e qualche volta ancora si dedica) alla formazione di migliaia di terapeuti.

Per scelta abbiamo evitato il racconto dettagliato delle sue opere, delle pubblicazioni e dei suoi lavori, quel che abbiamo voluto sottolineare è ciò che ha portato a tutto questo: una curiosità che spinge ad andare avanti, senza mai rinnegare il proprio passato; un atteggiamento curioso nei confronti delle “sorprese” della vita, che spesso si fa motore di grandi rivoluzioni.

Nelle foto più recenti di Aaron Beck l’età che avanza è evidente, eppure lo sguardo da adolescente ribelle (e curioso!) spicca ancora. È strano: Aaron Beck compie 100 anni ma è stato ancora una volta lui a farci un grande regalo.

 

100 anni di Beck: un acrobata tra cognitivismo e psicoanalisi – Monografia

100 anni di Aaron T beck - Monografia

 

 


Aaron Temkin Beck è uno psichiatra americano e professore emerito nel dipartimento di Psichiatria dell’Università della Pennsylvania. Beck è considerato uno dei padri fondatori della terapia cognitiva. Il suo approccio terapeutico è ampiamente utilizzato nella pratica clinica. Attualmente, Beck è il Presidente Emerito del Beck Institute, in Pennsylvania, fondato nel 1994 da lui e da sua figlia Judith

La vita di Aaron T. Beck

Aaron T. Beck è nato a Providence, Rhode Island – USA, il 18 luglio 1921, ed è il figlio più giovane di quattro fratelli e sorelle di una coppia di immigrati ebrei. Beck si è sposato nel 1950 con Phyllis, primo giudice donna presso la corte appello della Commonwealth of Pennsylvania, da cui ha avuto quattro figli.

Beck ha frequentato la Brown University, laureandosi con lode nel 1942. Successivamente, è stato eletto membro della Phi Beta Kappa Society, ed è diventato redattore associato di The Brown Daily Herald. In seguito, Beck ha frequentato la scuola medica di Yale, dove si è laureato nel 1946.

Negli anni successivi aveva scelto di frequentare neurologia, ma vista la poca affluenza a psichiatria decise di cambiare indirizzo e fin da subito simpatizzò per la psicoanalisi. Nel 1950 Beck divenne psichiatra presso l’ Austen Riggs Center, ospedale psichiatrico privato nelle montagne di Stockbridge, Massachusetts, e vi rimase fino al 1952.

Beck, poi, si trasferì presso l’Università di Pennsylvania nel 1954 dove ha lavorato con Kenneth Ellmaker Appel, psicoanalista che fu presidente dell’Associazione Psichiatrica Americana, e contemporaneamente iniziò la formazione formale in psicoanalisi.

La prima ricerca eseguita da Beck è stata condotta con Leon Saul, psicoanalista noto per i metodi poco ortodossi applicati alla terapia. Insieme, svilupparono dei questionari per quantificare i processi dell’ego nel contenuto manifesto dei sogni.

Negli anni ’50 Beck iniziò ad alimentare una serie di dubbi nei confronti della psicoanalisi e, di conseguenza, sviluppò le prime teorie sulla depressione che cultimarono con la creazione di un test, il Beck Depression Inventory, pubblicato nel 1961 e ancora ampiamente utilizzato nella clinica e nella ricerca.
Così, nel 1962 si dedicò allo studio di schemi e di pensieri tipici della depressione e diede inizio a un nuovo approccio, la terapia cognitiva, che si basava su un importante rapporto tra pensieri, emozioni e comportamenti.

I primi articoli di Beck sulla teoria cognitiva della depressione mantennero, in ogni caso, una cornice psicoanalitica, nonostante fossero intrisi di pensiero empirico e scientifico alla luce del nuovo approccio cognitivista.

A metà degli anni ’60, Beck conobbe Albert Ellis e scoprì che aveva sviluppato una importante e affascinante teoria e una terapia pragmatica in cui si utilizzavano pensieri e emozioni in maniera diretta, il cui scopo finale era la disputa dei pensieri ritenuti disfunzionali.

Così nacque per Beck un processo di sviluppo e integrazione di una nuova terapia, quella cognitiva.

La terapia cognitiva di Aaron T. Beck

Beck, lavorando con i pazienti depressi, scoprì l’esistenza di pensieri negativi che sembravano emergere spontaneamente. Egli ha definito queste cognizioni “pensieri automatici” e il loro contenuto è ascrivibile in tre categorie: idee negative su se stessi, sul mondo e sul futuro tipiche della depressione.

Egli iniziò a lavorare con questi pazienti identificando i pensieri disfunzionali e scoprì che avendo atteggiamenti più realistici potevano sentirsi emotivamente meglio e potevano adottare comportamenti più funzionali. La sofferenza genera, secondo Beck, una serie di pensieri disadattivi che producono un effetto negativo sul comportamento. Inoltre, se in età precoce si è esposti a eventi critici è possibile si possano instaurare credenze disfunzionali generate da pensieri che, nel lungo periodo, diventano automatici.

Quindi, quando una persona si trova ad affrontare una situazione, lo schema acquisito consente di interpretare i dati oggettivi e di trasformarli in cognizioni. Nelle persone depresse si attiveranno, dunque, schemi non adattivi che portano a errate interpretazioni della realtà da cui si generano pensieri automatici che inducono sofferenza emotiva.

Il modello caratteristico della depressione è costituito da tre schemi che Beck chiama la triade depressiva, essi sono:
– la visione negativa di Se stessi: le persone affette da depressione si vedono come deboli e inutili.
– la visione negativa del Mondo: Si sentono socialmente sconfitti e non si percepiscono all’altezza delle esigenze proprie e altrui e, per questo, non in grado di superare gli ostacoli.
– la visione negativa sul Futuro: La persona depressa pensa che questa situazione non possa essere modificata e sarà così per sempre.

La teoria cognitiva

Per Beck, i disturbi psicologici derivano dalle distorsioni cognitive ovvero errori che si commettono nell’applicazione dei pensieri automatici e provocano stati emotivi e comportamenti inappropriati o negativi. Pertanto, queste distorsioni cognitive sono causate da credenze irrazionali apprese in età precoce che influenzano la percezione e l’interpretazione del passato, del presente e del futuro.

Gli Schemi

Secondo Beck gli eventi esterni sono percepiti da una persona in base a una serie di concetti o schemi cognitivi che ognuno possiede e che influenzano il modo in cui è percepita la realtà. Le informazioni acquisite, dunque, possono essere elaborate erroneamente in base alle credenze apprese e, per questo, si possono ottenere delle modificazioni o distorsioni nella valutazione e interpretazione dei dati che portano alle cosiddette distorsioni cognitive.

Per Beck, gli schemi sono modelli cognitivi stabili che aiutano a catalogare e interpretare la realtà. Le persone usano gli schemi per individuare, codificare, differenziare e assegnare significati alle informazioni provenienti dall’ambiente esterno. In altre parole, gli schemi sono costrutti mentali stabili ma soggettivi, che agiscono come filtri nella percezione del mondo circostante.

Gli schemi provengono in gran parte da esperienze di apprendimento precoce e possono rimanere in sospeso fino a quando un evento esterno li attiva. Questo è uno dei concetti più importanti per la psicologia cognitiva, nonostante sia stato introdotto da Frederick Bartlett per riferirsi alla memoria e poi ripreso da Jean Piaget.

Le credenze

Le credenze sono i contenuti degli schemi e sono il risultato diretto del rapporto tra realtà e schemi stessi. Esse fungono da mappe interne che consentono di attribuire un senso al mondo. Successivamente, esse, dopo essere state costruite, sono generalizzate attraverso l’esperienza.

Beck distingue due tipi di credenze:

credenze centrali o di base o nucleari: sono presentati come proposizioni assolute, durature e globali su se stessi, gli altri e il mondo. Ad esempio, “Io sono un fallimento”. Si tratta di un’assunzione di base difficile da cambiare, poiché caratterizza l’identità dell’individuo.
credenze periferiche: sono influenzate da quelle nucleari, e sono i costrutti cognitivi e i pensieri automatici. Si tratta di atteggiamenti, regole, ipotesi che influenzano il modo di vedere la situazione, provocando un vissuto emotivo e comportamentale disadattivo.
– pensieri automatici o prodotti cognitivi.

I pensieri automatici si riferiscono ai pensieri e le immagini risultanti dall’interazione delle informazioni fornite dalla situazione, schemi e credenze e processi cognitivi. Il contenuto dei pensieri automatici è, di solito, accessibile tramite gli schemi e non attraverso i processi cognitivi.

I pensieri automatici sono, sostanzialmente, i dialoghi interiori, i pensieri o le immagini che appaiono in una data situazione, e i pazienti considerano queste affermazioni vere e non distorte. Essi mostrano una serie di caratteristiche:
– si riferiscono ad una situazione specifica;
– sono assolutamente considerati veri;
– sono appresi;
– esagerano gli aspetti negativi della situazione;
– non sono facili da rilevare o controllare.

Le distorsioni cognitive

Beck individua una serie di distorsioni cognitive derivanti dall’applicazione dei pensieri automatici. Esse sono:
– astrazione selettiva: si presta attenzione ad un aspetto o a un dettaglio della situazione. Gli aspetti positivi sono spesso ignorati a vantaggio di quelli negativi.
– pensiero dicotomico: gli eventi sono valutati in forma estrema: buono / cattivo, nero / bianco, on / off, etc.
– inferenza arbitraria: si traggono conclusioni da situazioni che non sono supportate dai fatti, anche quando l’evidenza è in contrasto con la conclusione.
– Supergeneralizzazione: comporta una conclusione generale partendo da un evento particolare.
– Ingigantire e minimizzare: la tendenza a esagerare gli aspetti negativi di una situazione, riducendo al minimo il positivo.
– Personalizzazione: si tratta di attribuzioni di caratteristiche personali a una situazione.
– Visione catastrofica: anticipare gli eventi pensando che il peggio accadrà sicuramente.
– Doverizzazione: regole rigide e severe su come le cose dovrebbero andare.
– Variabili globali: etichette generali sugli eventi che non considerano le sfumature.

Lo scopo finale della terapia di Beck consiste nella ristrutturazione cognitiva, ovvero riuscire a modificare il modo in cui si interpretano e valutano le situazioni che si vivono. Quindi, si deve incoraggiare il paziente a modificare i pensieri automatici e le distorsioni cognitive per sostituirli con altri più realistici e adattivi.

 

100 anni di Beck: un acrobata tra cognitivismo e psicoanalisi – Monografia

Il centenario di Beck

Aaron T. Beck compie 100 anni il 18 luglio 2021 e festeggiamo, per fargli gli auguri e per ringraziarlo per tutto quello che ha fatto per la psicoterapia cognitivo comportamentale. Tra tutti quelli che hanno contribuito alla nascita della psicoterapia cognitivo comportamentale, ci appare come colui di cui ormai sappiamo tutto e che diamo più per scontato, mentre invece per capirlo sul serio dobbiamo compiere una giravolta e guardare indietro. Anzi, di più: una capriola e metterci a testa in giù per davvero capire come ce la saremmo cavata senza di lui. Ce la saremmo cavata? E chi lo sa. Più approfondiamo la sua storia e meno lo capiamo.

Per questo abbiamo preparato una lunga monografia in 7 parti che uscirà a partire da lunedì 19 luglio sulle pagine di State of Mind

1 La radice psicoanalitica di Beck

In cui si racconta come Beck rimase psicoanalista fino al 1975, appena un anno prima di pubblicare il suo manuale di terapia cognitiva per la depressione.
(Lunedì 19 Luglio)

2 Beck cognitivista: un’altra storia

In cui si racconta come Beck iniziò a diventare cognitivista negli anni ’60 ma arrivò ad esserlo solo nel 1975.
(Mercoledì 21 Luglio)

3 Beck e la manualizzazione della terapia cognitiva

In cui si racconta come lo psicoanalista Beck creò il suo manuale insegnando la psicoterapia cognitiva a un gruppo di studenti.
(Venerdì 23 Luglio)

4 Beck tra standardizzazione dei trattamenti e relazione paritaria col paziente

In cui si racconta come la psicoterapia cognitiva di Beck appartenesse alla prima generazione di trattamenti psicoanalitici relazionali.
(Lunedì 26 Luglio)

5 Beck tra ricerca clinica e politica

In cui si racconta come Beck fece diventare la sua terapia un trattamento efficace, finanziato dai governi e dalle assicurazioni.
(Mercoledì 28 Luglio)

6 Beck e l’uso clinico del Sé dalla psicoanalisi alla terapia cognitiva

In cui si descrive come Beck accertava e trattava in seduta le credenze distorte sul Sé
(Giovedì 29 Luglio)

7 Ucronia Beckiana: e se fosse rimasto psicoanalista?

In cui si immagina cosa sarebbe accaduto, in un Marvel Psychotherapeutic Multiverse, se Beck fosse rimasto psicoanalista
(Venerdì 30 Luglio)

 


Embodiment in Avatar in Realtà virtuale: gli effetti a livello comportamentale, cognitivo, ed emotivo

La diffusione della realtà virtuale ha riaperto un forte dialogo sulle possibilità riguardo all’embodiment, in particolare, le possibilità di creare un avatar permettendo alle persone di incarnarsi in corpi diversi rispetto a quelli reali (Bohil et al., 2011).

Greta Riboli – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

 

Negli ultimi anni, una mole crescente di articoli in letteratura si è concentrata sull’alterazione della rappresentazione del corpo, attraverso tecniche sperimentali di illusioni corporee. La realtà virtuale (VR) ha visto diverse applicazioni nella ricerca sperimentale sulle “illusioni corporee”, per misurare i cambiamenti emotivi durante l’incarnazione in un corpo virtuale.

Gli ambienti virtuali in VR permettono ai partecipanti di sperimentare qualcosa di equivalente a ciò che sperimentano nel mondo reale, e potendo simulare situazioni di vita reale la VR è divenuta strumento d’elezione nello studio dei processi patologici che accompagnano i disturbi mentali (ad esempio: valutazione e trattamento dell’ansia) (Mühlberger et al., 2007; Shiban et al., 2016), ma la comunità scientifica non si è limitata a questo campo di indagine. Infatti, la realtà virtuale permette non solo di vivere esperienze in ambienti diversi da quelli reali, ma anche di incarnarsi in corpi virtuali (avatar). I meccanismi dell’incarnazione (embodiment) sono stati studiati nelle neuroscienze cognitive (Blanke, 2012), in filosofia (Blanke & Metzinger, 2009), e negli studi digitali (Banakou et al., 2013). L’embodiment è il fenomeno attraverso il quale le persone prendono coscienza del proprio corpo e questo fenomeno coinvolge i sensi, il controllo motorio, la propriocezione e l’interocezione (Maselli & Slater, 2013). La diffusione della realtà virtuale ha riaperto un forte dialogo sulle possibilità che abbiamo riguardo all’embodiment, in particolare, le possibilità di creare un nuovo corpo virtuale (avatar) permettendo alle persone di incarnarsi in corpi diversi per struttura, dimensioni e morfologia rispetto a quelli dei corpi reali (Bohil et al., 2011).

La teoria di riferimento utilizzata negli ultimi dieci anni per promuovere l’embodiment e la proprietà del corpo in un avatar di realtà virtuale, si basa su correlazioni visive-percettive sincrone durante movimenti attivi o passivi ed è l'”illusione della mano di gomma” (Botvinick & Cohen, 1998). Nella procedura illusoria originale, un soggetto è seduto e tiene un braccio teso su un tavolo, oscurato da uno schermo che gli impedisce la visione. Una mano di gomma con caratteristiche realistiche è posta nella vista del partecipante, e al partecipante viene chiesto di guardare la mano di gomma. Mentre lo fa, il ricercatore applica una pressione costante e sincrona con un pennello sia alla mano di gomma, osservata dal partecipante, sia alla mano reale, nascosta alla vista. In pochi secondi, nei soggetti sani, è stato rilevato un sentimento di proprietà dell’arto di gomma, come se fosse il proprio e sono le stimolazioni sincrone che stimolano questa illusione di proprietà, soprattutto se a tali stimolazioni sincrone viene abbinato un movimento di minaccia (es. infilare delle puntine sulla cute della mano). Questa illusione ci permette di riconoscere oggetti esterni al nostro corpo o diversi da esso come se fossero parte di noi stessi, ed è amplificata quando le tre sottocomponenti su cui si basa sono integrate tra loro (i) proprietà (body ownership), in questo caso della mano; (ii) localizzazione: sensazione che la mano di gomma e la mano reale siano nello stesso posto; (iii) agency: sensazione di poter controllare la mano di gomma.

Questo esperimento è stato riprodotto prendendo in considerazione altre parti del corpo, ed è stato successivamente applicato anche alla realtà virtuale, con lo scopo di generare un senso di embodiment in avatar, basandosi sulla stessa illusione e dunque sulle medesime sotto-componenti della stessa: body ownership, self-location e agency. Molteplici studi nel campo della psicologia approfondiscono il tema della rappresentazione del corpo e dell’immagine corporea, studiandone le conseguenze cognitive-emotivo-comportamentali, eseguendo una stimolazione sincrona su parti del corpo dei partecipanti e degli avatar. Infatti, diversi ricercatori hanno utilizzato tecniche di embodiment per valutare lo stato emotivo, gli atteggiamenti e i comportamenti, di individui che sperimentano un corpo con caratteristiche specifiche diverse da quelle reali (Yee & Bailenson, 2007; Banakoua et al., 2013; Maister et al., 2015; Ferrer-Garcia et al., 2017).

Percepire il proprio corpo diversamente influenza comportamenti e atteggiamenti? Uno sguardo alle applicazioni sociali dell’embodiment in VR

Yee & Bailenson (2007) hanno condotto uno dei più importanti studi sull’illusione della proprietà del corpo basata sulle autorappresentazioni digitali e le sue conseguenze sui comportamenti interpersonali delle persone. Introdussero il termine “Proteus Effect”, riferendosi al processo di cambiamento nei comportamenti degli individui che usano avatar con caratteristiche diverse dalle proprie. Il loro studio risponde in particolare alla domanda “Il comportamento delle persone è conforme alla loro auto-rappresentazione digitale?” I loro risultati mostrano che i partecipanti incarnati in avatar più attraenti in VR agiscono in modo più confidenziale con le altre persone, rispetto ai partecipanti il cui avatar era meno attraente. Il comportamento degli utenti potrebbe variare tra essere più o meno amichevole, intimo o negativo in base all’aspetto degli avatar. In questo studio i cambiamenti del corpo si riferivano a modifiche nell’aspetto socialmente più o meno desiderabili (taglio di capelli, trucco, vestiti). La spiegazione del “Proteus Effect” può essere rintracciata nel presupposto di come le persone immaginano che gli altri individui si aspettino che si comportino.

Per quanto riguarda l’effetto dei cambiamenti sui comportamenti non interpersonali, Banakoua et al. (2013) hanno studiato i cambiamenti nella percezione del mondo e gli atteggiamenti verso se stessi e gli altri incarnando 32 partecipanti adulti in un corpo di bambino. I risultati di questo studio hanno confermato la possibilità di generare un’illusione di proprietà di un corpo bambino, riducendo la dimensione di un corpo adulto. I ricercatori hanno anche confermato risultati precedenti, riscontrando una stretta connessione tra l’illusione di proprietà del corpo (body ownership) e la sincronia tra i movimenti effettuati sul corpo reale e sul corpo virtuale, sottolineando che l’illusione dipende più da questa sincronia che dalla forma del corpo. I risultati hanno anche dimostrato un impatto dell’auto-rappresentazione del corpo sugli atteggiamenti dei partecipanti, utilizzando un compito di associazione implicita per valutare l’associazione automatica tra un target dicotomico (“bambini” vs “adulti”) e attributi (“bambini”, “adulti”; “io”, “altri”, e altri attributi personalizzati per ogni partecipante riguardo ai loro dati personali e preferenze), subito dopo l’esposizione in VR. L’effetto dell’auto-rappresentazione corporea sugli atteggiamenti verso se stessi e gli altri era maggiore nei partecipanti per i quali l’illusione di proprietà era maggiore.

Un altro famoso studio sull’illusione corporea in VR ha visto i partecipanti essere incarnati in corpi di diverso genere, età ed etnia, per valutare gli atteggiamenti impliciti verso l’outgroup (Maister et al., 2015). I risultati hanno dimostrato che essere incarnati in un “corpo outgroup” (ad esempio un uomo che possiede un corpo virtuale femminile, una persona anziana che possiede un corpo virtuale adolescente, e un caucasico che possiede un corpo virtuale asiatico) riduce significativamente gli atteggiamenti impliciti negativi verso i membri dell’outgroup. Gli autori propongono la seguente spiegazione a questo fenomeno: il processo di auto-somiglianza fisica amplifica le somiglianze tra sé e gli altri, e dopo l’auto-associazione fisica, un dominio concettuale diventa attivo, portando ad auto-associazioni positive con i membri dell’outgroup, attraverso una generalizzazione. Durante l’esperimento multisensoriale, i ricercatori hanno trovato una risonanza di altri stati corporei che potrebbe portare a costruire un divario tra l’esperienza di vita personale e quella altrui, attraverso una sovrapposizione di rappresentazioni corporee.

Illusione corporea in realtà virtuale: come la percezione delle forme del corpo impatta su emozioni, schema e immagine corporea

Ferrer-Garcia et al. (2017) valutano le risposte emotive di 23 studenti universitari incarnati, attraverso la sincronizzazione visuo-motoria, in tre diverse dimensioni corporee: (i) un avatar con le stesse misure del corpo dei partecipanti; (ii) un avatar del 20% più grande del corpo del partecipante; e (iii) un avatar del 40% più grande del corpo del partecipante. I ricercatori valutano l’ansia corporea, la paura di ingrassare e la capacità di embodiment dopo ciascuna delle tre esposizioni. I risultati hanno mostrato un livello significativamente più alto di ansia corporea e di paura di ingrassare dopo la terza esposizione con l’avatar più grande.

Mountford et al. (2016) hanno utilizzato la VR per valutare la capacità degli ambienti virtuali di influenzare il disturbo dell’immagine corporea in un campione non clinico di donne a dieta o non a dieta. In questo studio i risultati hanno mostrato che gli ambienti virtuali non hanno provocato alcun cambiamento significativo nel disturbo dell’immagine corporea. Questo risultato potrebbe essere spiegato dall’infedeltà dell’avatar virtuale e degli ambienti. Infatti, studi successivi, che lavorano maggiormente sul design 3D, hanno dimostrato che un ambiente virtuale può indurre cambiamenti nell’immagine corporea e nel disturbo dell’immagine corporea. Infatti, proseguendo su questo terreno di ricerca, Mölbert et al. (2018) hanno indagato il disturbo dell’immagine corporea in 24 donne con anoressia nervosa e 24 partecipanti senza manifestazioni cliniche, creando avatar tridimensionali realistici con un range di ±20% del peso delle partecipanti, e testando la loro capacità nella stima del proprio peso corporeo nelle diverse situazioni sperimentali. È emerso che l’intero campione sottostima il proprio peso, e questo risultato contraddice i risultati diffusi sulla sovrastima del peso delle donne con anoressia nervosa. Gli autori spiegano questo risultato in controtendenza, facendo riferimento ad atteggiamenti distorti sul peso corporeo desiderato, che han portato le partecipanti a selezionare gli avatar con il corpo soddisfacente.

Corno et al. (2018) hanno esplorato il disturbo dell’immagine corporea in un campione di 27 donne non cliniche, che possono scegliere un corpo virtuale simile al proprio, in base alla propria percezione della rappresentazione del proprio corpo, tra una vasta gamma di avatar 3D. L’insoddisfazione corporea, il disagio corporeo e l’evitamento corporeo sono stati valutati durante le esposizioni virtuali. L’insoddisfazione corporea è emersa come predittore di sottostima e sovrastima del corpo ed il disturbo dell’immagine corporea è emerso maggiormente nella situazione allocentrica, piuttosto che in quella egocentrica. Infatti, questo studio prende quindi in considerazione una differenza importante che tutti gli studi sull’immagine corporea nella iVR dovrebbero considerare, cioè la differenza tra la visione egocentrica e quella allocentrica.

La visione egocentrica è definita come visione in prima persona sul proprio corpo, è basata sullo stato presente del corpo e derivata da input sensoriali concreti; mentre la visione allocentrica è definita come visione in terza persona sul proprio corpo, ed è basata sulla memoria del corpo, derivante da una conoscenza astratta: la somato-rappresentazione (Riva et al., 2014). La persona che soffre di disturbo dell’immagine corporea ha una memoria negativa sul proprio corpo, e potrebbe avere delle difficoltà ad aggiornare la memoria con nuove informazioni sulla visione egocentrica, rimanendo bloccata in una rappresentazione negativa, anche se incoerente con ciò che è percettivamente visibile nel presente (Riva & Gaudio, 2017; Riva, 2018).

In uno studio del 2018 (Serino et al., 2018), è stata riscontrata una relazione tra età del partecipante e risposta alla body illusion. Questo non era il primo studio ad indagare questa relazione, infatti nel 2013, Cowie et al. hanno dimostrato come i bambini sono più abili ad illudersi che la mano di gomma sia la propria rispetto ai giovani adulti, e così i soggetti giovani (giovani adulti di età media 27.7) sono più abili ad illudersi e dunque ad incarnarsi in corpi diversi, rispetto agli adulti più anziani (età media 65.9 anni) (Ka’llai et al., 2017). La novità dello studio di Serino (2018) è stata quella di esplorare il ruolo delle differenze di età sulla rappresentazione del corpo in seguito ad un’illusione corporea in realtà virtuale, basata sulla dicotomia magrezza-grassezza dell’addome. Indipendentemente dalle differenze di età, tutti i partecipanti hanno sperimentato buoni livelli di embodiment, ad eccezione del senso di agency. Eppure, quest’ultima constatazione era già prevista dai ricercatori, dato che nel setting sperimentale non era prevista la possibilità che l’avatar interagisse con l’ambiente. Il campione comprendeva quaranta donne dai 18 ai 55 anni, ed era diviso in due gruppi: (i) età 19-25; (ii) età 26-55. L’illusione corporea coinvolgeva corpi con un addome magro e i ricercatori hanno studiato la rappresentazione corporea dei partecipanti dopo l’esperienza in realtà virtuale. I risultati mostrano che i partecipanti del gruppo 1 (19-25) hanno mostrato una maggiore flessibilità nel percepire i cambiamenti nel loro corpo, mentre i partecipanti del gruppo 2 (26-55), hanno mostrato una maggiore resistenza a cambiare la loro rappresentazione del corpo dopo l’illusione del corpo magro, confermando i risultati dei precedenti studi.

Da questa concisa rassegna bibliografica sulla body illusion in avatar 3D in realtà virtuale emerge il potenziale clinico dello strumento per lavorare su atteggiamenti, stereotipi e pregiudizi. Al contempo, i comportamenti messi in atto nel setting virtuale possono essere considerati acquisizioni di competenze che il soggetto ha fatto sue e che possono essere implementate in scenari non virtuali, in cui il corpo di riferimento è il proprio. Lo strumento diventerebbe dunque una palestra virtuale per moduli skills training (ad esempio social skills training con corpo “attraente” in base ai canoni di bellezza riconosciuti come tali dalla società o dal soggetto, ed eventualmente un passaggio sessione dopo sessione ad un avatar sempre più realistico, con il compito di continuare a portare avanti le competenze di socializzazione apprese e dunque i comportamenti di apertura all’altro messi in atto negli scenari 3D).

A livello clinico, il lavoro comportamentale ed emotivo, che può essere portato avanti grazie all’incarnazione in avatar 3D, lascia aperto un terreno di confronto tra terapeuta e paziente incentrato sulle credenze che un paziente può avere relativamente al proprio corpo. Infatti, in un recente articolo di Matsangidou e colleghi (2020) sulla terapia in VR a distanza, veniva usata la tecnica dell’esposizione relativamente all’immagine corporea, incarnando i partecipanti, ragazze con alta probabilità di sviluppare un disturbo alimentare nell’arco dei successivi 4 anni, in avatar personalizzabili e ponendole davanti ad uno specchio virtuale. In questo modo le partecipanti potevano condividere con il terapeuta i propri pensieri e le proprie emozioni relativamente al corpo e modificarlo strada facendo sempre con il supporto del terapeuta. Infatti, come ha riportato uno dei terapeuti intervistati durante lo studio è emerso che “durante questa sessione, la partecipante non solo è stata in grado di osservare, discutere e modellare il suo corpo, ma era anche in grado di condividere questa immagine con me. Il che mi ha messo nella posizione di aiutarla ad affrontare i suoi pensieri problematici”.

 

Il dono della verità – il percorso interiore del terapeuta (2021) di Maurizio Andolfi – Recensione del libro

Il dono della verità è un libro autobiografico in parte, formativo in ampia visione.

 

Con aulica conoscenza della psicologia, Maurizio Andolfi ha scritto il libro Il dono della verità – il percorso interiore del terapeuta in modo scorrevole, ma autorevole nei propri concetti.

L’obiettivo del manuale, come suggerisce il titolo, è invitare gli psicoterapeuti alla riflessione su alcuni suggerimenti per apprendere al meglio la conoscenza di sé stessi, prima come persone e successivamente come professionisti. L’autore accompagna il lettore nella riflessione avvalendosi della propria formazione professionale: da psichiatra a psicoterapeuta sistemico.

Un libro scritto non esclusivamente per gli addetti ai lavori, ma anche per il pubblico allargato, coloro che potrebbero essere interessati al modello sistemico oppure a scoprire che lo psicoterapeuta è una persona con delle debolezze.

Nello specifico della teoria psicologica di riferimento, il modello sistemico diventa così una pratica umana, vicina all’uomo e creata per l’uomo. L’utente e il professionista osserveranno la figura dello psicoterapeuta come una persona che si è formata durante molti anni di studio ed esperienze di vita agevoli e disagevoli. Percorso che ha reso possibile la maturazione personale, passando attraverso paure e turbamenti, permettendo così l’emergere dell’essere umano e non esclusivamente il terapeuta onnipotente.

Il manuale è formato da nove capitoli: si inizia con la controversa questione della formazione personale, la conoscenza dei maestri e delle esperienze formative dell’autore per arrivare al viaggio interiore del terapeuta attraversando argomenti e tematiche interessanti. Tra esse l’incontro tra due famiglie, il genogramma e la scultura delle relazioni familiari come elementi della formazione del terapeuta, la supervisione, il supervisore interno e le scoperte delle risorse personali.

La ricchezza di casi clinici ben esposti aiuta il lettore a cogliere e comprendere gli argomenti trattati, a mio avviso un utile contributo alla trasmissione del sapere.

Dalla lettura del libro si respira l’amore verso la psicoterapia come fenomeno umano di conoscenza, cura e vicinanza alle persone, escludendo il rigore del pensiero nosologico medico dominante.

[…] ho voluto descrivere in questo volume anche i risultati, talvolta sorprendenti, delle mie esperienze cliniche e formative così da offrire un piccolo contributo alla ricerca della nostra umanità, valore essenziale nel breve percorso della vita.

Secondo Minuchin è il terapeuta il vero strumento del cambiamento; diventa parte del sistema terapeutico. L’immagine del falegname che trasforma il legno è un ottimo esempio del ruolo del professionista in seduta: “La sega, lo scalpello, il martello e i chiodi sono solo dei mezzi per operare una trasformazione”.

Ma il terapeuta non è solamente la persona che cura, spesso assume altri ruoli tra cui il formatore di nuovi professionisti e il supervisore di colleghi con diversi livelli di esperienza. In questo quadro complesso di funzioni spicca l’importanza che raggiunga, e mantenga, l’equilibrio interiore utile per svolgere il proprio lavoro, equilibrio che nel ruolo didattico nell’ambito della psicoterapia è di grande importanza. Secondo l’autore è inoltre necessario avere piena consapevolezza del confine tra formazione e terapia: tale tematica verrà approfondita nel corso della lettura.

Come Andolfi sottolinea, scrivere un libro sull’uso del Sé del terapeuta e sulla ricerca della verità rappresenta una proposta di crescita professionale per tanti colleghi motivati ed entusiasti e insieme una denuncia nei confronti di chi ancora si nasconde dietro al “riconoscimento del pezzo di carta”.

Il libro è in parte teorico e in parte autobiografico; l’autore racconta il proprio viaggio interiore come terapeuta;

Sono nato il 28 novembre 1942. Della guerra non credo di ricordare molto, anche se nella mia testa ci sono immagini di bombe, di sirene e di mia madre e mia nonna che proteggevano con i loro corpi me e mio fratello maggiore Ferruccio.

Merito della volontà di Andolfi di scegliere e ricercare in modo puntuale i suoi maestri fondatori, insieme ai molteplici viaggi di formazione e poi lavoro, egli riuscì a collocarsi nella sua area di interesse. L’incontro con i maestri, i viaggi presso culture diverse tra loro, l’esplorazione di metodologie e l’esperienza sono diventati gli ingredienti che hanno reso possibile la sintesi della storia della psicologia sistemica con la propria formazione sistemica, fino a giungere alla fondazione della scuola di specializzazione sistemica ancora oggi operante in Italia.

Nel corso degli anni, alle originali idee, il percorso ontologico della teoria si è arricchito del concetto di multietnicità delle famiglie e dei componenti dei nuclei famigliari. Come già sottolineato, l’autore nel corso della sua vita non è rimasto ancorato nel territorio di origine, bensì ha avuto e cercato la possibilità di viaggiare, permettendogli di entrare a contatto con ambienti e culture diverse.

Dal lavoro con le famiglie monoculturali si è giunti alle relazionali terapeutiche multiculturali.

Le nuove teorie sistemiche si differenziarono dalle teorie già presenti all’epoca sia dal punto di vista dei presupposti teorici sia rispetto il setting pratico. Si è passati dall’interazione con il singolo paziente, portatore di disturbi categorizzati, alla rivoluzionaria attenzione e osservazione delle interazioni familiari mentre avvengono. Lo spostamento di interesse da uno a più individui ha restituito valore al contesto, ai messaggi verbali e a quelli non verbali scambiati in seduta.

Inoltre, come altri elementi di cambiamento del setting si assiste all’aumento del numero di terapeuti, nei colloqui clinici diventano due, oltre alla presenza e utilizzo in vari modi dello specchio unidirezionale. Quest’ultimo viene inteso come una “metafora concreta” invece di una semplice e fredda unità di separazione/divisione. I cambiamenti hanno portato altresì alla maturazione di nuovi processi introspettivi nei professionisti.

Infatti, lo specchio unidirezionale permette di aprirsi all’idea del lavoro di squadra, superando il concetto di confidenzialità. Attraverso la sua unidirezionalità si giunge a ottenere una forma di trasmissione diversa della conoscenza; l’uso del citofono nel setting permette inoltre di interrompere il dialogo clinico, permettendo al supervisore di interloquire con i terapeuti.

Come si legge nel testo, il co-terapeuta è “dotato di emozioni oltre che di capacità cognitive, che diventa a pieno diritto parte del campo di osservazione”.

Il genogramma (rappresentazione grafica dell’evoluzione storica di una famiglia) e la scultura famigliare sono due strumenti utilizzati in terapia sistemica. Strumenti utili al terapeuta per lavorare su di sé nel setting formativo e supervisione, dove il gruppo assume il ruolo di cassa di risonanza permettendo al formando di scoprire elementi intergenerazionali importanti per la crescita personale.

Ben descritti nel testo, appaiono a mio avviso strumenti interessanti, da utilizzare in terapia anche dai professionisti provenienti da diversi modelli teorici, dopo aver appreso la giusta competenza. L’ampia bibliografia e gli esempi clinici riportati nel testo sono un valido contributo in tal senso.

Con una lettura scorrevole si viene a conoscenza di altri concetti utilizzati in ambito sistemico: la differenziazione del Sé dalla famiglia di origine, il taglio emotivo, la trasmissione intergenerazionale dei processi di immaturità o l’onda d’urto emozionale, la descrizione del concetto di intimidazione intergenerazionale, la self-disclosure, il supervisore interno, l’imbuto rovesciato, l’elder abuse e l’incontro con l’Aikido.

Il supervisore interno, costrutto caro all’autore, è fondamentale per diminuire il rischio di sviluppare un pensiero autoreferenziale. Siamo sempre nell’ottica di aiuto al terapeuta, dove

[..] la conoscenza di noi stessi in relazione al mondo che ci circonda, la nostra capacità di auto-osservarci nell’incontro con le persone e le famiglie che ci chiedono aiuto in terapia è fondamentale nella progressiva costruzione del nostro supervisore interno, che avviene passo passo, ‘mettendo mattone su mattone’.

Andolfi risponde con estrema competenza e precisione alla domanda sulla possibilità che un supervisore interno possa essere costruito nel tempo dal professionista.

In ulteriore analisi, l’autore descrive tre esempi di utilizzo del costrutto: la capacità di Whitaker di distrarsi in seduta per privilegiare il dialogo interno, il movimento in stanza del terapeuta finalizzato ad avere una diversa visione della situazione e infine tenere qualche oggetto tra le mani durante i colloqui, facilitando sempre l’attenzione verso di sé ed il dialogo con il supervisore interno.

Tali punti di vista conducono Andolfi a sostenere come risulti importante per il terapeuta sviluppare l’uso del sé e l’autoriflessione; attraverso la consapevolezza dei vissuti sfavorevoli e le avversità della vita, conoscendo e accettando il passato come storia di vita che è stata, possono emergere la forza vitale e la resilienza.

Per ulteriore completezza, Andolfi sostiene di aver imparato molto anche dai bambini e dai pazienti psicotici; nello specifico la comunicazione attraverso il gioco e le metafore (pensiero magico), il linguaggio dell’irrazionalità e le voci fuori dal coro hanno permesso di allontanarsi dal pensiero logico e normativo delle relazioni.

Per concludere, Andolfi dona al professionista un ulteriore e prezioso regalo per ottenere il dono della verità. Come la consapevolezza della propria storia di vita intergenerazionale, così anche l’elaborazione dei problemi ancora aperti e irrisolti con le proprie famiglie di origine, permettono al professionista di sviluppare una migliore capacità di entrare in risonanza empatica e naturalezza terapeutica con le famiglie che chiedono aiuto.

 

Genitori in lutto. Quali sono i fattori legati alla crescita post-traumatica?

Waugh et al. (2018), tramite una revisione sistematica della letteratura, hanno indagato la crescita post traumatica tra i genitori in lutto a seguito della morte di un figlio.

 

La morte di un figlio può comportare una risposta psicologica negativa a lungo termine nei genitori, come un aumento dei sintomi depressivi, ansia, difficoltà relazionali (Rogers et al., 2008) ed una salute fisica peggiore; tutti aspetti che rimandano all’esperienza di lutto complicato (Zetumer et al., 2015).

Nel fronteggiare il trauma, oltre a sperimentare esiti negativi, è possibile una crescita post traumatica, caratterizzata da cambiamenti personali positivi (Tedeschi & Calhoun, 2004). Identificata in molte popolazioni che hanno sperimentato un evento traumatico, la crescita post traumatica si manifesta in cinque domini: percezione di sé, relazioni con gli altri, nuove possibilità, apprezzamento della vita e cambiamento esistenziale (Tedeschi & Calhoun, 2004).

Sebbene questa risposta adattiva conferisca speranza aprendo nuove opportunità terapeutiche (Gamino et al., 2000), l’esperienza di crescita non comporta l’eliminazione del disagio (Calhoun et al., 2010).

Waugh et al. (2018), tramite una revisione sistematica della letteratura, hanno indagato la crescita post traumatica tra i genitori in lutto; identificando i potenziali elementi che l’avrebbero favorita, come il supporto sociale, il tempo trascorso dalla morte, la religione e l’impiego di strategie attive di coping cognitivo.

Per raccogliere dati relativi alla crescita post-traumatica, gli studi qualitativi hanno impiegato interviste semi-strutturate (ad es. Reilly et al., 2008); mentre tra le misure quantitative sono stati utilizzati il Post-Traumatic Growth Inventory (PTGI; Tedeschi & Calhoun, 1996), per valutare la crescita post-traumatica nei cinque domini (nuove possibilità, relazioni con gli altri, forza personale, cambiamento e apprezzamento della vita) e la Hogan Grief Scale (HGRC; Hogan et al., 2001), progettata per misurare gli aspetti multidimensionali emotivi del lutto. Il metodo della griglia biografica (BGM; N. Gerrish & Bailey, 2012), è una misura che consente ai partecipanti di identificare se la costruzione e narrazione del proprio sé, sia stata influenzate dalla perdita.

Oltre alla crescita positiva, nella revisione è emersa una persistenza della tristezza esperita dai genitori fino a 6 anni dopo la morte del loro bambino. Questo dolore, rabbia e disperazione disadattivi, diventavano più facili da gestire nel tempo (Reilly et al., 2008), mescolandosi con aspetti più adattivi e rilevanti nello sviluppo della crescita post-traumatica.

Secondo i risultati, i genitori hanno esperito tutti e cinque i domini di crescita: cambiamenti nella percezione di sé e delle relazioni, apprezzamento della vita, cambiamento delle priorità e negli aspetti esistenziali.

I partecipanti hanno riferito una crescita personale, maggiore tolleranza e percezione di sviluppo del proprio potenziale (Bogensperger & Lueger-Schuster, 2014), sentendosi sensibili (Brabant et al., 1997) e compassionevoli (Parappully et al., 2002). In alcuni casi il cambiamento di sé e la maggiore forza acquisita erano strettamente legati alla percezione di vulnerabilità, illustrando ancora una volta come la crescita post-traumatica possa coesistere con le difficoltà psicologiche (N. Gerrish & Bailey, 2012).

I genitori avevano esperito anche una crescita esistenziale, che comprendeva cambiamenti nelle concezioni religiose, nella spiritualità o nel significato della vita (Moore et al., 2015).

Il tema di crescita riportato più di frequente, è stato il cambiamento relazionale insorto dal desiderio di aiutare gli altri, specialmente se in lutto (Bogensperger & Lueger-Schuster, 2014). Un altro aspetto rilevante nel rinnovamento delle relazioni, era la compassione provata per gli altri, favorita dalla possibilità di contare sulla propria rete nei momenti di difficoltà.

Il 78% delle madri in lutto e il 44% dei padri, hanno riportato la scoperta di nuove priorità di vita dopo la morte del loro bambino (Buchi, S. et al. 2007), mentre in altri casi riportavano una minore attenzione al lavoro e alle questioni finanziarie ed un maggiore investimento nella vita familiare (Brabant et al., 1997).

Sebbene l’apprezzamento della vita sia stato uno dei temi meno menzionati, i partecipanti di Bogensperger & Lueger-Schuster (2014), hanno rivalutato positivamente la loro esistenza, imparando a dare valore ad ogni momento, senza dare nulla per scontato.

Le esperienze di crescita variavano in relazione al genere e alle differenze culturali. Infatti, le madri in lutto riportavano punteggi di dolore più alti, ma maggiore crescita post-traumatica (Buchi, S. et al. 2007). Mentre le indagini condotte in America individuavano la preghiera e i rituali come risorsa importante (Parappully et al., 2002), studi condotti in Europa ponevano poca o nessuna enfasi sul contributo della religione nella crescita personale.

Mentre un tempo maggiore trascorso dalla morte era un aspetto rilevante, che permetteva ai genitori di sperimentare più facilitatori essenziali per la crescita post-traumatica, non è stato possibile identificare se la natura della morte abbia avuto un impatto su questa esperienza.

Globalmente, i risultati suggeriscono molteplici fattori associati alla facilitazione della crescita post-traumatica, inclusa l’integrazione cognitiva dell’esperienza della morte nella propria identità, la costruzione di reti sociali, concentrando le proprie energie nel supporto di altre famiglie in lutto. L’ambiente sociale, se empatico, in un clima di ascolto non giudicante, ha il potenziale per essere di supporto e facilitatore della crescita post-traumatica (ad es. Gerrish et al., 2014), come mantenere una continuità di legame con il figlio (visitando il cimitero e parlando ad alta voce con il bambino) e costruire un significato legato alla morte. Anche caratteristiche personali (ad es. tratti personologici di apertura all’esperienza, nevroticismo e resilienza) e familiari (come avere altri figli) possono rivelarsi fattori protettivi.

Complessivamente, gli aspetti emersi dall’indagine possono essere spunti di riflessione rilevanti per i genitori che stanno affrontando un lutto.

Inoltre, per quanto concerne gli aspetti clinici, la revisione ha implicazioni nell’erogazione dei servizi psicologici e di supporto, fornendo un riferimento agli operatori della salute mentale affinché possano identificare i genitori maggiormente a rischio a seguito della perdita.

 

Verso un paradigma psicologico ecosostenibile

L’Agenda 2030 delle Nazioni Unite (ONU, 2015) ha predisposto una serie di finalità a cui giungere nel 2030 per rendere il futuro prossimo un’occasione nella quale coniugare contemporaneamente il benessere umano con la sostenibilità ambientale. 

 

 In accordo con queste indicazioni, va perseguito uno sviluppo sempre più orientato verso l’ecosostenibilità. Perché questo possa accadere è necessario ristrutturare il rapporto che l’uomo ha con il proprio ambiente di vita, sviluppando sempre più, nelle coscienze collettive, i valori prosociali biosferici. Ritrovare un nuovo rapporto con la natura e con il proprio ambiente di vita significa migliorare il proprio benessere quotidiano, attraverso il “paradigma della restorativeness”, che permette di rigenerarsi, favorendo la nascita di emozioni positive.

Keywords: ecosostenibilità, valori biosferici, restorativeness.

L’Agenda 2030 delle Nazioni Unite (ONU, 2015) ha predisposto una serie di finalità a cui giungere nel 2030 per rendere il futuro prossimo un’occasione nella quale coniugare contemporaneamente il benessere umano con la sostenibilità ambientale.

Affinché questo possa verificarsi, è necessario che ogni individuo cambi la relazionalità con se stesso, con l’alterità e, soprattutto, con il proprio ambiente di vita. Nell’ottica del cambiamento, è importante capire i fattori che determinano il rapporto che s’instaura fra ogni persona e il suo ambiente di vita, inteso come luogo che contiene gli elementi biologici, fisici e sociali, e le efferenze e le afferenze che si stabiliscono fra l’individuo e questa contestualità.

Ogni persona è influenzata dalla sua territorialità, intendendo con tale concetto tutto quello che fisicamente è posto al di fuori del proprio sé (Clayton, 2012) e, in ragione di questo, il reperimento del proprio benessere quotidiano passa, anche, attraverso una nuova prospettiva di vita, che ha il suo fondamento epistemico nell’ecosostenibilità.

La relazionalità che stabiliamo con il nostro ambiente è un riflesso dello schema cognitivo che possediamo relativamente a questo legame (Fornara e Manca, 2020). In altre parole, il rapporto con il nostro ambiente di vita obbedisce ad un algoritmo concettuale che fa parte della nostra mappa cognitiva e che si è strutturato nel corso degli anni mediante un processo di abituazione, derivante dalle routine comportamentali che ogni giorno mettiamo in atto nel nostro spazio di vita (Bonnes, Carrus e Passafaro, 2006).

Il rapporto che lega l’individuo al suo ambiente, oltre che dalla mappa cognitiva, dipende anche dal giudizio che ogni persona dà di esso e che deriva da una serie di elementi raccolti nella propria narrazione esistenziale. In accordo con Bonaiuto, Bilotta e Fornara (2004) le valutazioni che si esprimono su un ambiente possono essere di due tipi, ossia ci può essere una valutazione oggettiva, che è un’operazione tecnica fatta da esperti, e una valutazione soggettiva o ingenua, ad opera della persona comune.

La valutazione ingenua è un riverbero della relazionalità che l’individuo ha con il suo ambiente di vita. A formare questo giudizio concorrono alcune variabili soggettive, come le emozioni suscitate dall’architettura presente in quel contesto, i rapporti sociali che s’instaurano in quell’ambiente, la fruibilità dei servizi che esso offre e la sua sostenibilità ambientale. Dalla valutazione soggettiva discende il costrutto di soddisfazione residenziale, che ogni persona esprime sul luogo dove vive, elaborando i fattori che concorrono a formare il giudizio soggettivo (Fornara e Manca, 2020).

In aggiunta, la relazionalità dell’individuo con il proprio ambiente di vita è caratterizzata da altri due parametri, che sono l’attaccamento al luogo dove si vive e l’identità di luogo, che ogni persona sviluppa.

Il primo rappresenta la relazionalità affettiva che si articola fra l’individuo e il suo ambiente di vita quotidiano (Shumaker e Taylor, 1983). Laddove questo attaccamento è presente, il soggetto vede migliorare la qualità della propria vita: infatti, incrementa il benessere percepito, l’autostima e sono elicitati comportamenti ecosostenibili verso il proprio ambiente (Fornara e Manca, 2020).

L’identità di luogo è una parte dell’identità personale che ogni individuo ha e che deriva dai costrutti che egli sviluppa sul luogo dove abita e vive ed è in relazione con l’attaccamento che l’ambiente di vita elicita (Proshansky, Fabian e Kaminoff, 1983).

Uno dei bisogni dell’essere umano, che deriva dalla sua storia filogenetica, è quello di vivere a contatto della natura, con l’ambiente, cioè, che ha costituito l’habitat dei nostri progenitori (Eibl – Eibesfeldt, 2005). La natura ha un effetto rigenerante: di fatto, sembra che uno stato di malessere psicologico transitorio possa giovarsi del contatto con la natura, che elicita la nascita di emozioni positive, condotte altruistiche ed una migliore relazionalità con se stessi (Joye e van den Berg, 2018). Il “paradigma della restorativeness”, ovvero della rigenerazione psicologia offerta da un ambiente naturale ecosostenibile va perseguito come strada da praticare per ritrovare un nuovo rapporto con se stessi, con l’alterità e con l’ambiente di vita. Affinché questo possa accadere è necessario che ognuno di noi sviluppi quelli che sono stati definiti i “valori biosferici”, cioè valori prosociali che sono finalizzati al rispetto della natura e alla tutela ecosostenibile del proprio spazio di vita (Fornara e Manca, 2020).

In conclusione, in accordo con le indicazioni dell’Agenda ONU 2030, va perseguito nel prossimo futuro uno sviluppo sempre più orientato verso l’ecosostenibilità. Perché questo possa accadere è necessario ristrutturare il rapporto che l’uomo ha con il proprio ambiente di vita, sviluppando sempre più nelle coscienze collettive i valori prosociali biosferici. Ritrovare un nuovo rapporto con la natura e con il proprio ambiente di vita significa migliorare il proprio benessere quotidiano, attraverso il “paradigma della restorativeness”, che permette di rigenerarsi, favorendo la nascita di emozioni positive.

 

La scienza della terapia di coppia e della famiglia (2021) di John M. Gottman e Julie Schwartz Gottman – Recensione

Il testo La scienza della terapia di coppia e della famiglia descrive le varie fasi in cui, dall’originaria teoria dei sistemi di Bertalanffy (1968), la terapia e la psicoterapia di coppia e familiare hanno subito importanti e sorprendenti cambiamenti.

 

Il terapeuta è passato infatti dall’avere una sola persona davanti a sé in terapia ad avere una coppia o una intera famiglia. L’impatto di questo cambiamento è stato molto forte e costernato di dubbi e perplessità della comunità scientifica. L’attenzione del terapeuta passava dal singolo cliente all’intero sistema interpersonale in una interazione reale non più solo raccontata dal paziente ma osservabile direttamente nelle interazioni della coppia.

In questi ultimi 50 anni nell’ambito di questa rivoluzione si sono sviluppati molti nuovi approcci terapeutici ma secondo John e Julie Gottman è necessario fare un bilancio della reale situazione dal momento che sembra che nessuno degli approcci teorici emersi abbia poi, nei fatti, sviluppato un sistema realmente efficace per il trattamento delle famiglie, mancando soprattutto un evidente criterio di valutazione degli effetti dell’intervento.

Uno degli aspetti connessi all’outcome riguarda ad esempio i criteri di valutazione, spesso basata sulla scala Self Report DAS (DyadicAdjustment Scale) che rileva punteggi di miglioramento statisticamente significativi anche in presenza di scarso miglioramento della qualità della relazione e che potrebbero portare a ritenere un approccio certificato sulla base dell’evidenza come efficace anche quando così non sia.

Altre questioni importanti riguardano la necessità di studiare le ricadute dopo l’intervento e l’effetto delle comorbilità.

La proposta dei Gottman è di trovare misure di valutazione più affidabili delle scale self report spesso condizionate anche dalla vergogna e dalla paura nelle risposte.

L’importanza di una buona relazione

Una serie di studi condotti in varie parti del pianeta negli ultimi 20 anni hanno dimostrato che avere una buona relazione conta moltissimo e può avere anche importanti effetti sulla qualità della vita e sulla longevità. Che cosa però consente di avere una buona relazione familiare?

John Gottman affronta la questione attraverso un approccio matematico a partire dal concetto che nelle famiglie l’omeostasi è l’equilibrio tra gli effetti positivi e quelli negativi. Secondo questo approccio, identificato come “teoria dei giochi”, si può considerare l’interazione sociale come una serie di scambi comportamentali associati a ricompense, forse anche governati da precise regole. Alla base di questi scambi ci sarebbero delle ricompense che possono essere positive, negative o neutre.

Nella pratica clinica si è notato che spesso all’interno della coppia le persone mettono in atto comportamenti che danno ricompense negative o che generano malessere. Le coppie infelici tendono a mettere in luce comportamenti affettivi negativi molto maggiori rispetto alle coppie felici. Il rapporto individuato dai Gottman durante una discussione sul conflitto tra comportamenti positivi e negativi è pari a 5.0 per le coppie felici contro 0,8 per quelle infelici.

Questa osservazione rende evidenti due nuovi obiettivi per la terapia: il primo modificare l’equilibrio percepito tra interazioni positive e negative e il secondo aumentare la quantità di affetto positivo durante le interazioni non conflittuali.

Nella teoria dei giochi, quando due persone interagiscono, la ricompensa individuale è il principale motivatore personale; ogni partner tenderà a valutare alcune interazioni come positive ed altre come negative rispetto a sé, ma ce ne sono alcune che generano una ricompensa di coppia.

Nel modello Gottman queste valutazioni possono essere schematizzate in una matrice e si può individuare il punto di equilibrio o disequilibrio della coppia.

Se si usa il parametro dell’interesse personale uno dei due vince e l’altro perde in un gioco a somma zero, ma obiettivo della coppia è giocare un gioco a somma diversa da zero, dove entrambi i partner vincono. È su questo che si basa la fiducia, attraverso una modalità in cui i due partner agiscono per massimizzare entrambe le loro ricompense e non soltanto le proprie. Nelle parole dei Gottman “vi è fiducia quando gli scambi comportamentali più probabili, all’interno del sistema, sono quelli che massimizzano la somma delle ricompense di entrambi i partner. Ogni partner è spalleggiato dall’altro”.

Il concetto di fiducia è estremamente importante e si ricollega all’omeostasi tra affetti positivi e negativi, perché un livello basso di fiducia rende impossibile l’equilibrio della coppia sull’affetto positivo.

Per creare un buon equilibrio diventa quindi indispensabile per il clinico lavorare alla costruzione della fiducia prima ancora di promuovere affetti positivi. Solo quando ciascun membro della coppia si preoccuperà della ricompensa del partner quanto della propria, si avrà un parametro della fiducia elevato e la condizione per promuovere affetti positivi durevoli. Il concetto di dare per ottenere di alcune terapie del passato si rivela quindi errato. L’aumento della fiducia inoltre accresce la capacità di notare quanto di positivo è già presente nella coppia, ancora prima di aumentare gli atti di gentilezza o affetto positivo.

Per quanto un parametro della fiducia elevato sia molto importante, non è sufficiente per creare all’interno della coppia quello che Sue Johnson ha definito come porto sicuro, riferendosi alla teoria dell’attaccamento, dove la mamma sia il porto sicuro di un bambino così la coppia sarà il porto sicuro di ciascun partner.

L’elemento mancante, oltre alla fiducia, per creare il porto sicuro è l’impegno. Per definire l’impegno Gottman parte dal suo opposto, il tradimento. Il tradimento infatti prevede un atteggiamento a somma zero dove un partner vince e uno perde. Il tradimento si associa alla minimizzazione delle qualità positive del partner e alla massimizzazione di quelle negative e l’entrata in gioco del disprezzo. I partner iniziano a provare risentimento per quello che manca e pensare che altre persone potrebbero essere dei partner migliori di quello attuale.

Secondo Rusbult i partner impegnati a fare queste comparazioni negative investiranno sempre meno nella relazione, quando invece le persone fanno comparazioni positive aumenta l’impegno e l’investimento totalmente nella relazione. Le relazioni extraconiugali non sembrano più quindi, necessariamente, avere a che fare con il sesso ma con il bisogno di essere apprezzati e riconosciuti.

Uno degli aspetti a cui il metodo Gottman dedica particolare attenzione è la gestione del conflitto.

Quando una coppia si trova a dover gestire un conflitto ci sono una serie di tentativi di riparazione che nelle coppie infelici tendono inevitabilmente a fallire.

Un altro elemento importante tipico del conflitto è il Flooding ovvero il livello di attivazione fisiologica dei partner. Molto spesso inconsapevolmente il livello di attivazione va oltre la soglia che consente una gestione ottimale del conflitto. Gli effetti del flooding sono numerosi e compromettono l’equilibrio nella coppia rendendo impossibile, nel corso del conflitto, accogliere nuove informazioni, facendo percepire qualunque affermazione come un attacco, riducendo il contatto visivo, aumentando la voce, aumentando le difficoltà a mantenere un pensiero logico e difficoltà a provare empatia nei confronti del partner.

Si è scoperto che dopo una pausa di 20/30 minuti sia però possibile riprendere la discussione in modo costruttivo. Prendendo a riferimento i lavori di Rowell (1986) 100 battiti al minuto sono la soglia oltre la quale le persone entrano nello stato di flooding. Per questo motivo il metodo Gottman propone l’adozione di pulsossimetri da consegnare alla coppia in modo da aumentare la consapevolezza dei partner alle proprie reazioni fisiologiche. Il monitoraggio dell’attivazione e l’introduzione di pause efficaci e esercizi di rilassamento consente di aumentare il proprio tono vagale e migliora la gestione del conflitto. L’aumentare il livello di consapevolezza del proprio stato di attivazione fisiologica è anche un buon modo per gestire il pattern di “richiesta ritiro” (Baucom et al, 2010) in cui un partner richiede un cambiamento e l’altro si ritira sbilanciando il rapporto di simmetria della coppia. Una delle spiegazioni di questo pattern è, secondo Gottman, la mancanza di capacità di tollerare l’affetto negativo del partner ovvero la volontà di non essere sopraffatti dal flooding a causa delle emozioni negative dell’altro. A differenza delle coppie infelici in cui il pattern di richiesta-ritiro viene costantemente attivato, nelle coppie felici c’è la capacità della coppia di entrare in contatto emotivamente e si manifesta, ad esempio, nella consapevolezza delle emozioni del partner, nel poter tollerare una diversità di percezione, il volgersi verso le emozioni del partner, l’ascolto non difensivo e l’empatia.

Come funziona il processo di valutazione di una coppia proposto dai Gottman?

Nella prima fase del percorso vengono somministrati una serie di questionari validati sullo stato della relazione, sull’amicizia e intimità, sul conflitto, sui significati condivisi e sulle aree problematiche individuali. Complessivamente il tempo richiesto per rispondere a questi questionari è di circa 2 ore.

Nel primo incontro, che ha una durata anche molto superiore ai 60 minuti, viene chiesto ai partner di raccontare quali siano le ragioni che li hanno spinti alla richiesta di intervento e quali siano i loro obiettivi di cambiamento. Si passa poi al racconto del momento in cui si sono conosciuti e alle prime impressioni anche con l’ausilio di interviste strutturate. La seduta si conclude con 10 minuti di discussione (con ripresa video) su un conflitto con il monitoraggio dell’attivazione fisiologica con un pulsossimetro.

Vengono successivamente effettuati due incontri individuali in cui viene esplicitato che non potranno esserci segreti. Negli incontri individuali si procede alla raccolta dell’anamnesi familiare e possibili comorbilità. Dopo i due incontri individuali il terapeuta offre una restituzione alla coppia e vengono condivisi gli obiettivi della terapia.

Le aree utilizzate a riferimento per la restituzione si basano sulla “Teoria della casa della relazione solida” discutendo quali aspetti rappresentino una risorsa per la coppia e quali invece una criticità.

Alla base della casa della relazione solida c’è il concetto di amicizia e intimità della coppia.

Gli elementi più importanti della teoria sono:

  • la capacità di costruire mappe dell’amore, ovvero la conoscenza del mondo psicologico del partner, quali sono le sue principali fonti di stress, i sogni, le speranze e le aspirazioni;
  • coltivare affettuosità e ammirazione attraverso la continua ricerca di aspetti del partner da ammirare di cui essere orgogliosi (all’opposto invece delle critiche) e la capacità di verbalizzare l’apprezzamento;
  • avvicinarsi anziché allontanarsi dalle richieste di contatto emotivo e di supporto.

Questi tre aspetti (La capacità di costruire mappe dell’amore, coltivare affettuosità e la capacità di avvicinarsi alle richieste di contatto emotivo) sono alla base dell’armonia, della passione e dell’intesa sessuale oltreché dell’umorismo e della tenerezza durante un conflitto, rendendone la gestione più facile e costruttiva.

Se l’amicizia e l’intimità non funzionano, i sentimenti negativi delle persone prendono il sopravvento su qualsiasi cosa che il partner possa fare, ponendo grande attenzione agli aspetti negativi e trascurando invece quelli positivi.

In questa situazione il partner si trasforma in un avversario e non in un alleato che in quel momento la pensa in modo diverso.

La gestione del conflitto è ad un piano superiore rispetto all’amicizia nella casa della relazione solida.

Il conflitto è parte della coppia, viene evidenziato come una gran parte dei conflitti delle coppie, ben il 69%, sia perpetuo, ovvero non troverà mai soluzione.

Le coppie felici non sono quindi coppie senza conflitti ma coppie che sanno gestirli bene attraverso un avvio gentile della discussione, assumendosi parte delle responsabilità, dando spazio alle proposte del partner, utilizzando metodi di autorilassamento e così via.

Come sostiene Wile (2008) “quando si sceglie un partner a lungo termine è importante rendersi conto che scegliendo quella persona si sceglierà anche una serie particolare di problemi irrisolvibili con cui ci si dovrà confrontare per i successivi dieci, venti o cinquant’anni”.

Le coppie dovrebbero quindi entrare in una dimensione dell’accettazione dove la felicità non dipende dalla soluzione dei problemi, ma dal modo in cui si possono gestire e con cui sia possibile convivere.

In assenza di dialogo il conflitto può invece andare in stallo e creare l’allontanamento emotivo dei partner. Quando il conflitto è in stallo non circolano affetti positivi e la sensazione è di essere rifiutati dal partner.

Nella parte alta della casa della relazione felice troviamo il piano della realizzazione dei propri sogni di vita e creare significati condivisi.

È importante che la relazione sia di supporto e incoraggi ogni partner a parlare dei propri sogni e aspirazioni e che porti alla costruzione di una vita insieme, ricca di significati e obiettivi condivisi.

Pilastri esterni alla casa della relazione solida sono infine i concetti di fiducia e impegno che sorreggono e partecipano alla costruzione di ogni piano della casa.

Il testo propone ai clinici una serie di approfondimenti teorici e spunti operativi per valutare e consolidare ogni singolo aspetto della casa della relazione solida, con anche un approfondimento specifico su come le discussioni e i litigi mal gestiti possano avere un impatto e una attivazione fisiologica anche sui figli.

La capacità di gestire il conflitto e un buon allenamento emotivo si rivelano essenziali anche nel caso in cui la coppia decida di separarsi; negli studi condotti, infatti, basta che uno dei due genitori sia “allenato” emotivamente per proteggere quasi completamente i figli dai consueti effetti negativi delle separazioni, come calo del rendimento scolastico, depressione, tendenze suicidarie, aggressività o bullismo.

Il contributo maggiore dell’approccio dei Gottman in questo testo è il tentativo di conciliare la grande esperienza clinica di John e Julie con un approccio matematico/scientifico allo studio dei singoli aspetti della vita di coppia. Questo metodo consente lo studio sistematico di ogni processo terapeutico, delle dinamiche relazionali e soprattutto una migliore valutazione di efficacia e di effetti a lungo termine delle terapie.

 

Profilo neuropsicologico e funzioni esecutive nel disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD) e nei disturbi specifici dell’apprendimento (DSA)

Attraverso la somministrazione del test intellettivo WISC-IV e della batteria neuropsicologica NEPSY-II a due campioni puri, con DSA e ADHD, sono emerse alcune differenze significative.

 

In letteratura sono presenti molteplici studi che trattano i deficit neuropsicologici nel disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD) e nei disturbi specifici dell’apprendimento (DSA), ma le differenze e analogie tra questi disturbi sono state scarsamente considerate (Faedda et al., 2019; Couvadelli, 2006; Healey, Marks & Halperin, 2011); motivo per cui il seguente estratto si focalizza sui profili neuropsicologici patognomici di ciascun disturbo.

L’ADHD è un disturbo del neurosviluppo che, secondo il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5), è presente nel 5% della popolazione pediatrica (APA, 2013). Tale disturbo è definito da un pattern persistente di disattenzione e/o iperattività-impulsività, non in linea con le traiettorie evolutive normotipiche e che impatta notevolmente sul funzionamento psicosociale (APA, 2013; von Rhein, Oldehinkel, Beckmann et al., 2016). I DSA sono, invece, dei disturbi del neurosviluppo con origini biologiche ed esordio in età scolare, che prevedono un funzionamento atipico nelle abilità di apprendimento richieste dalla realtà scolastica, quali lettura, scrittura e calcolo; pur mantenendo un funzionamento intellettivo nella norma (DSM-5, APA, 2013; ICD-10, WHO, 1994).

La prevalenza dei DSA in età scolare è compresa tra il 5 e il 15% (APA, 2013). Per quanto riguarda le differenze di genere, l’ADHD e i DSA sono più comuni nei maschi che nelle femmine: il rapporto maschi/femmine è di 2:1 per l’ADHD e 2–3:1 per i DSA (APA, 2013). Attraverso la somministrazione del test intellettivo Wechsler Intelligence Scale for Children Fourth Edition (WISC-IV, Wechsler, 2003; Italian version, Orsini, Pezzuti & Picone, 2012) e della batteria neuropsicologica NEPSY-II (Korkman et al., 2007, 2011; Italian version, Urgesi, Campanella & Fabbro, 2011) a due campioni puri, uno con diagnosi di DSA e uno con diagnosi di ADHD, sono emersi risultati inferiori nel campione con ADHD nelle prestazioni della WISC-IV e nei domini dell’attenzione concernenti le funzioni esecutive, la memoria e l’apprendimento: risultati coerenti con quanto precedentemente osservato in letteratura (Rohrer-Baumgartner, Zeiner, Egeland et al., 2014; San Miguel Montes, Allen, Puente & Neblina, 2010). Tale effetto è risultato più evidente nei subtest NEPSY-II che richiedono l’inibizione delle risposte apprese e automatiche, la flessibilità cognitiva, il set-shifting, la memoria di lavoro e la memoria verbale (Faedda et al., 2019; Couvadelli, 2006; Healey, Marks & Halperin, 2011). È, inoltre, emerso che i bambini con ADHD sono specificamente compromessi nel controllo e nell’inibizione degli impulsi, mentre i bambini con DSA sono compromessi nella consapevolezza fonologica, nella memoria verbale, nella narrazione e nelle prove intellettive non verbali (Korkman & Pesonen, 1994).

Tali risultati sono in linea con una vasta letteratura che ha dimostrato che i bambini con ADHD presentano difficoltà significative in un’ampia gamma di funzioni esecutive (Frazier, Demaree & Youngstrom, 2004; Martinussen & Tannock, 2006): l’inibizione cognitiva sembra essere quella più frequentemente alterata (Castellanos, Sonuga-Barke, Milham & Tannock, 2006; Nigg, 2001; Willcutt et al., 2005). Il confronto tra due campioni ADHD e DSA puri ha messo in luce che le performance del campione ADHD nei domini dell’inibizione e della flessibilità cognitiva si collocavano all’interno di un range limite, mentre la performance del campione DSA nei medesimi compiti rientrava a pieno in un intervallo medio (Faedda et al., 2019; Couvadelli, 2006; Healey, Marks & Halperin, 2011).

Un altro risultato significativo riguarda la compromissione nel riconoscimento facciale delle emozioni: il campione ADHD ha mostrato prestazioni collocabili all’interno di un intervallo medio, ma pur sempre inferiori rispetto al gruppo DSA (Faedda et al., 2019; Couvadelli, 2006; Healey, Marks & Halperin, 2011). Allo stesso modo, per quanto riguarda il funzionamento intellettivo, il campione ADHD ha mostrato un QI inferiore rispetto al gruppo DSA; sebbene i punteggi di entrambi i gruppi fossero all’interno di un range medio. Ciò era probabilmente spiegato dal fatto che il gruppo ADHD mostrava prestazioni significativamente inferiori rispetto al gruppo DSA nei compiti riguardanti memoria verbale, inibizione e memoria di lavoro: variabili che influenzano il funzionamento intellettivo (Alloway, 2010).

Risulta doveroso ribadire che il campione di riferimento era composto da bambini con DSA puro, è quindi possibile che non siano stati riscontrati deficit e scarse prestazioni esecutive, in quanto il deficit nucleare del DSA è rappresentato principalmente da una compromissione specifica per lettura, scrittura e domini matematici. I risultati suggeriscono, dunque, che la componente principale del DSA risiede nella sua “specificità” (APA, 2013; Consensus Conference, 2011). Sarebbe, dunque, interessante valutare campioni con DSA e comorbilità, per capire come la presenza di altri disturbi potrebbe influenzare il loro funzionamento esecutivo e intellettivo. In particolare, in associazione con i DSA sono stati spesso riportati i seguenti disturbi: disturbi d’ansia, disturbi della coordinazione, disturbi del linguaggio e disturbi dell’umore (Margari et al., 2013). Inoltre, è ampiamente riconosciuto in letteratura che una delle comorbilità più comuni associate ai DSA sia proprio l’ADHD (Somale, Kondekar, Rathi & Iyer, 2016). I risultati principali emersi mostrano che i bambini con ADHD sembrano essere più compromessi in specifiche funzioni esecutive rispetto ai bambini con DSA, in particolare nella memoria di lavoro, nell’inibizione, nella flessibilità cognitiva e nella memoria verbale. Tuttavia, negli altri domini non sono emerse differenze significative tra i campioni ADHD e DSA (Faedda et al., 2019; Couvadelli, 2006; Healey, Marks & Halperin, 2011). Di conseguenza, sarebbe interessante valutare il funzionamento neuropsicologico ed esecutivo in casi di comorbilità tra ADHD e DSA; che potrebbero mostrare un profilo differente rispetto a campioni puri. Le strategie d’intervento dovrebbero essere mirate al profilo specifico, ai bisogni e alle caratteristiche peculiari del bambino (DuPaul, Gormley & Laracy, 2012). Inoltre, il profilo specifico del bambino dovrebbe essere considerato quando si pianificano interventi scolastici e programmi educativi o riabilitativi. Ad esempio, poiché entrambi i campioni ADHD e DSA non hanno riportato deficit nel dominio visuospaziale, le mappe visive potrebbero aiutarli a ricordare e recuperare nuove informazioni; massimizzando l’efficacia scolastica.

In conclusione, l’analisi del profilo intellettuale ed esecutivo di bambini e adolescenti con ADHD puro e DSA puro per individuarne differenze e analogie, è molto interessante, non solo al fine di delineare interventi più mirati alle caratteristiche dei bambini, ma anche per attuare delle diagnosi differenziali più puntuali, considerata la frequente comorbilità (Reale & Bonati, 2018).

 

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