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Origini della bifobia: riflessioni sullo stigma che accompagna le persone bisessuali

Brewster e Moradi (2010) hanno identificato due peculiari caratteristiche che differenziano la bifobia dall’omofobia: la “instabilità dell’orientamento sessuale” e la”irresponsabilità sessuale”.

 

La bisessualità può essere definita come un orientamento sessuale che comporta l’attrazione romantica e/o sessuale verso un partner di ambo i sessi. Tale attrazione non è vissuta necessariamente nello stesso grado, modo e momento da tutte le persone (Ochs, 2012). All’interno della cornice culturale eteronormativa, la sessualità è stata a lungo concettualizzata attraverso una dicotomia di genere, ponendo omosessualità ed eterosessualità come identità opposte (Eliason, 1997). In questo scenario la bisessualità si inserisce con uno status ambiguo, distaccandosi e differenziandosi dall’omosessualità. In accordo con ciò, recenti ricerche (Bradford, 2004; Brewster & Moradi, 2010; Eliason, 1997; Todd et al. 2016) hanno dimostrato che le persone che si identificano come bisessuali sperimentano una forma di stigma ben distinta dall’omofobia o da altre discriminazioni verso differenti minoranze sessuali. Il termine “bifobia” è stato coniato da K. Bennet (1992) per andare ad indicare il pregiudizio anti-bisessuale che delegittima l’esistenza di questo orientamento e lo invalida come scelta di vita.

Brewster e Moradi (2010) hanno identificato due peculiari caratteristiche che differenziano la bifobia dall’omofobia: la “instabilità dell’orientamento sessuale” e la”irresponsabilità sessuale”. (i) L’instabilità dell’orientamento sessuale rispecchia la credenza comune che la bisessualità sia uno stato di confusione sul proprio orientamento sessuale, una fase transitoria che porterà l’individuo, con la maturazione, ad identificarsi inevitabilmente come etero o omosessuale (Brewster & Moradi, 2010; Garelik et al. 2017). È da questa prima assunzione che deriva uno dei tanti atti lesivi implicati nella bifobia, cioè la negazione dell’esistenza stessa della bisessualità come orientamento sessuale distinto (Rust, 1993). (ii) Il secondo fattore, quello di irresponsabilità sessuale, include la convinzione che gli individui bisessuali siano sessualmente promiscui e amoralmente edonisti, portandoli così ad essere più probabili portatori di malattie sessualmente trasmissibili e maggiormente propensi al tradimento del partner (Garelik et al. 2017; Irvine, 2017; Ochs, 1996; Rust, 1993; Spalding & Peplau, 1997; Weiss, 2004).

Vittime di una doppia discriminazione

È stato ampiamente riscontrato che il pregiudizio anti-bisessuale prevale sia tra gli individui eterosessuali sia tra le persone omosessuali (Garelik et al. 2017; Irvine, 2017; Mohr & Rochlen, 1999; Mulick & Wright, 2002, 2011; Spalding & Peplau, 1997; Todd et al., 2016; Yost & Thomas, 2012) andando a delinearsi in quella che Ochs (1996) ha definito una “doppia discriminazione”. Le comunità eterosessuali e lesbiche/gay sembrano avere ciascuna il proprio caratteristico insieme di stereotipi sui bisessuali (Irvine, 2017).Tra gli eterosessuali i più comuni stereotipi coinvolgono l’iper-sessualizzazione della persona bisessuale, percependola come romanticamente ingannevole e volubile ed incapace di avere relazioni stabili. Lo stereotipo dell’ipersessualizzazione della persona con orientamento bisessuale può portare a considerare la persona bisessuale un individuo che pratica sesso non sicuro e, conseguenzialmente, accusarlo di essere vettore di malattie nella comunità eterosessuale (Irvine, 2017; Ochs, 1996; Spaulding & Peplau, 1997).

Anche i gay e le lesbiche esprimono dichiarazioni bifobiche nei confronti dei bisessuali (Barker et al., 2012; Ochs, 1996; Irvine, 2017). In particolare, Weiss (2004) ha riscontrato una comune supposizione negativa che vede nei bisessuali la tendenza a ricercare relazioni stabili con il genere opposto così da ottenere i benefici sociali del privilegio eterosessuale. Prendendo ad esempio una donna bisessuale, seguendo questa logica, ella prediligerebbe istaurare una relazione romantica con un uomo eterosessuale, evitando così il peso d’identificarsi con un gruppo oppresso. L’effetto di questo stereotipo è la diretta creazione di un ambiente inospitale per i bisessuali tra le comunità lesbiche, portando quest’ultime ad evitare di frequentare le donne bisessuali (Rust, 1993; Irvine, 2017). Il medesimo fenomeno è applicabile anche agli uomini bisessuali relativamente alla comunità omosessuale maschile.

Attualmente coloro che si identificano come bisessuali sono percepiti meno favorevolmente e incontrano atteggiamenti pregiudizievoli maggiori rispetto a coloro che si identificano come gay o lesbiche (Herek, 2002; Helms e Waters, 2016; Steffens & Wagner, 2004; Todd et al., 2016). A quest’ultimi è stato riconosciuto il più facile accesso al sostegno e conforto da parte della comunità LGBTQ+, che, ancor oggi, risulta in parte permeata da sentimenti bifobici.

Le conseguenze della doppia discriminazione sperimentata dai bisessuali si tradurrebbe quindi in un isolamento sociale da parte di entrambe le comunità, vivendo un rifiuto da parte di quella eterosessuale (spesso comprendendo anche i membri della famiglia d’origine) e riducendo al minimo il sostegno di quella LGBTQ+ (Brewster & Moradi, 2010; Mitchell et al., 2014; Mulick & Wright, 2002 e 2011; Todd et al., 2016). La mancanza di tale sostegno porterebbe a una carenza significativa, soprattutto tra i molti adolescenti e giovani adulti che vorrebbero rivolgersi a gruppi di supporto per essere sostenuti durante il proprio coming out, o in eventuali successive reazioni negative della famiglia. (Sadowski et al. 2009). In conclusione, questa mancanza di supporto ha gravi implicazioni per la salute mentale e non dovrebbe essere assolutamente trascurata.

Allo scopo di fornire supporto empirico per validare l’esistenza del costrutto di “bifobia” e rilevare se tale fenomeno fosse effettivamente una doppia discriminazione, nel 2002 Mulik e Wright hanno creato la Biphobia Scale. Tale strumento, rivisto nel 2011, è stato sviluppato per misurare affetti, cognizioni e comportamenti negativi nei confronti della bisessualità e degli individui bisessuali. La nuova versione comprende due distinte scale genere-specifiche (Biphobia Scales–Female e Biphobia Scales–Male), ciascuna costituita da 30 items con risposta su scala di tipo Likert da 0 a 5 (Mulik & Wright, 2011). Grazie a questo questionario è stato possibile acquisire nuove ed importanti informazioni, tra cui il parziale supporto dell’ipotesi che gli uomini bisessuali incontrino una maggiore discriminazione rispetto le donne (Mulik & Wright, 2011).

Nella pratica clinica, con il cliente bisessuale appare ancora valido il documento del 2011 dell’America Psychological Association che stila le linee guida del rapporto psicologico con pazienti LGB. Per quanto riguarda l’orientamento bisessuale, tali indicazioni sottolineano l’importanza da parte del clinico di comprendere gli effetti dello stigma e le sue varie manifestazioni contestuali, riconoscendo l’unicità dell’esperienza bisessuale. È importante che lo psicologo tenga in considerazione alcuni nuclei tematici che, messi in relazione con l’orientamento sessuale del paziente, possono rivelarsi potenzialmente critici. In particolare, il ruolo della famiglia di origine, un eventuale rapporto con la religione e la spiritualità o il sorgere di problematiche sul posto di lavoro. Infine, è sempre bene tener presente la possibile difficoltà per la persona in cura di gestire propri valori e norme in conflitto con l’orientamento sessuale con cui si identifica (APA, 2011). La presenza di una più o meno elevata omofobia e/o bifobia interiorizzata è quindi un altro fattore da tenere in considerazione. In conclusione, ricollegandoci agli strumenti diagnostici e ai potenziali sbocchi di studio sull’argomento citati in precedenza, è vitale per un clinico tenersi sempre aggiornato sugli ultimi sviluppi della ricerca scientifica.

 


 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Affrontare il DOC, un Quaderno di Lavoro: a cura di Paola Spera e Francesco Mancini – Recensione del libro

In Affrontare il DOC si costruisce un dialogo immaginario tra un esperto che cammina a fianco del lettore invitandolo ad esplorare il suo disturbo, e un paziente che riempie gli spazi lasciati appositamente per lui nel testo con le sue personali esperienze, riflessioni e scoperte.

 

Questo agile volume collettaneo a cura di Paola Spera e Francesco Mancini, di circa 200 pagine realizzate in uno stile deliziosamente accessibile anche per i non addetti ai lavori, si presenta con la veste editoriale di una guida pratica per la comprensione e, soprattutto, per la cura del disturbo ossessivo compulsivo. In effetti, è facile prevedere che “Affrontare il disturbo ossessivo compulsivo” potrà rispondere sia alle esigenze dei terapeuti alla ricerca di uno strumento maneggevole che li aiuti con i pazienti affetti da DOC, sia andare incontro agli interessi di persone che conoscono per esperienza diretta questo disturbo, e ai loro familiari.

Il libro rivela una struttura semplice e solida; si procede per obiettivi dalla descrizione del disturbo, all’illustrazione del suo funzionamento prima in generale poi più nello specifico, alle strategie e tecniche di intervento sui vari aspetti del funzionamento ossessivo, con una pari attenzione alle procedure della terapia cognitiva standard e a quelle della cosiddetta “terza onda”. In ogni capitolo, vengono innanzitutto dichiarati gli intenti specifici e poi viene proposto un lavoro estremamente puntuale basato sull’uso di circa 120 schede.

Se ora, sulla base di questa sommaria descrizione, qualcuno stesse immaginando un libriccino dei compiti o un piccolo compendio di tecniche, il mio principale avvertimento al lettore è di non lasciarsi trarre in inganno, perché Spera, Mancini e i vari autori adottano un formato che ricorda i manuali di auto-aiuto come un espediente retorico: lungo tutta la trattazione, si costruisce un vivido dialogo immaginario tra un esperto che, rivolgendosi al lettore con un amichevole “tu”, cammina al suo fianco invitandolo ad esplorare il suo disturbo, e un paziente che riempie gli spazi lasciati appositamente per lui nel testo con le sue personali esperienze, le sue riflessioni, le sue scoperte.

Seguendo la traiettoria degli autori si intuisce che questo libro, dalle prospettive apparentemente molto concrete, prende posto in un disegno più ampio; infatti con la realizzazione de “La mente ossessiva” Mancini e i suoi puntavano ad un’opera sistematica basata su oltre 30 anni di studio e di ricerca fedele all’ottica cognitivista, in cui prima è stata individuata un’ipotesi di funzionamento all’origine del DOC, quindi si è messa alla prova empiricamente questa ipotesi, e infine si è predisposto un trattamento derivante da questa ipotesi. Nel caso di specie, l’ipotesi ormai nota è che i pazienti ossessivi non sappiano “attraversare la colpa”, che non riescano a tollerare la propria umana inevitabile fallacia di fronte a ciò che deve essere (la norma deontologica); come recita il Salmo 129 (Attesa del perdono e della salvezza): “se consideri le colpe o Signore, chi ti può resistere?”. Ecco, se con “La mente ossessiva” Mancini e il suo gruppo davano sostanza al noto aforisma di Kurt Lewin “niente è più pratico di una buona teoria”, con quest’altro Spera e Mancini chiudono il cerchio, dimostrando che niente è più teorico di una buona pratica.

Ai lettori non resterà che prendere posto in questo dialogo guidato; il terapeuta potrà accomodarsi sulla sedia dei massimi esperti di DOC in circolazione, e accogliere i propri pazienti sull’altra sedia. Il lettore che sente affine a sé la problematica ossessivo-compulsiva è invitato a sedere sulla sedia del paziente da casa propria, saggiando prudentemente il terreno come a volte è più congeniale a chi soffre di questo disturbo, e iniziare a considerare l’invito, ben più che implicito nel volume, a rivolgersi ad un esperto.

 

Emetofobia: quella particolare paura di vomitare

La Fobia Specifica del Vomito (ing. Specific Phobia of Vomiting, SPOV) è un disturbo poco studiato rispetto ad altre fobie specifiche.

 

La revisione di Keyes, Gilpin, e Veale realizzata nel 2018, presenta una sintesi qualitativa di 24 studi scientifici sull’argomento, i quali esplorano le caratteristiche di tale disturbo. Gli autori hanno inoltre identificato articoli che descrivono i fattori eziologici coinvolti nello sviluppo della SPOV, che vanno quindi a costituire la scintilla che può far emergere la problematica in oggetto.

Tra gli individui con la SPOV analizzati negli studi, quasi la metà teme di compiere l’atto di rimettere e circa un terzo teme sia di vomitare, sia vedere altre persone farlo. In questo ultimo caso, la paura che altri vomitino può essere dovuta all’esposizione al vomito stesso o alla paura di essere condizionati dal vedere altre persone che vomitano (van Hout & Bouman, 2012). È stato confermato che la SPOV sia spesso correlata ad un alto grado di ansia e disagio ed a disturbi gastrici che comportano nausea quasi ogni giorno (Lipsitz et al., 2001; Veale & Lambrou, 2006; van Hout & Bouman, 2012; Holler et al., 2013). Un dato rilevante consiste nel fatto che, in questi pazienti, non sempre risulta che la nausea porti a veri e propri episodi di vomito; tuttavia, essa è associata ad alti livelli di disagio e ansia. Ciò può essere dovuto all’interpretazione della nausea come segnale di minaccia imminente, rappresentata dal potenziale episodio di vomito, che porta a specifici comportamenti mirati al tentare di ridurre la possibilità che si verifichi il vomito (Holler et al., 2013; Veale, 2009).

Per far fronte alla nausea e alla paura di vomitare, gli individui possono dunque sviluppare vari comportamenti di sicurezza e di evitamento. Questi includono restrizione alimentare, controllo eccessivo delle date di scadenza di cibi prima di un pasto, lavaggio e pulizia frequenti delle mani, ricerca di rassicurazione, uso di antiacidi per ridurre la sensazione di nausea, evitamento di circostanze in cui si possono incontrare persone ubriache o malate, gravidanza, viaggi o vacanze all’estero, (Lipsitz et al., 2001; Price et al., 2012; van Hout & Bouman, 2012; Veale et al., 2013; Veale & Lambrou, 2006). La paura e l’evitamento di situazioni che provocano ansia possono creare profonde interruzioni della vita quotidiana, risultando invalidanti, e talvolta croniche (Davidson et al., 2008; Lipsitz et al., 2001; Veale & Lambrou, 2006).

Emetofobia: le possibili cause del disturbo

Ciò detto, è interessante comprendere in che modalità nasce la SPOV. Quali le cause di questo particolare disturbo? La paura del vomito è spesso legata a ricordi intrusivi di prime esperienze avverse di emesi (Price et al., 2012; Veale et al., 2013). Similmente al modello cognitivo di trauma, in individui con SPOV vecchi ricordi di episodi di emesi possono essere riattivati e vissuti come fossero attuali. Ciò instaura un ciclo di mantenimento rispetto al senso di minaccia relativo al vomito (Veale, 2009). Quasi un terzo degli individui con emetofobia sperimenta immagini intrusive relative alle prime esperienze di vomito, e quasi la metà le sperimenta come se fossero attuali (Price et al., 2012); pertanto, il ruolo delle immagini può essere importante nel mantenere questo disturbo, in quanto i flashback di suoni, odori e sensazioni fisiche associati ai primi ricordi avversi possono alimentare la paura di vomitare.

Due modelli spiegano l’importanza dei ricordi e di altri fattori di mantenimento nello sviluppo della SPOV. Boschen (2007) suggerisce che gli individui imparano ad interpretare i segnali interni, come la nausea, proprio come un segnale di vomito imminente che porta ad un aumento dell’ansia e dei sintomi gastrointestinali. Questo circolo vizioso viene quindi mantenuto da cambiamenti nei pregiudizi attentivi verso segnali interni, preoccupazione e comportamenti di evitamento.

Un altro modello sottolinea l’importanza dei ricordi di episodi di vomito associati alla paura, il che porta a riviverli come se stessero per ripetersi. L’assunzione fondamentale di questo modello consiste nel fatto che la nausea sia indicativa di un imminente episodio di vomito di estrema minaccia e orribilità, che porta quindi ad ulteriori ansia e nausea. Similmente al modello di Boschen, la paura del vomito viene quindi mantenuta da evitamento, ipervigilanza ai segnali di minaccia, attenzione focalizzata su se stessi, automonitoraggio, preoccupazione, e comportamenti di sicurezza (Veale, 2009).

Il trattamento dell’emetofobia

Esiste un rimedio per tale psicopatologia?

Il trattamento per l’emetofobia si concentra attualmente sull’esposizione graduale a segnali interni come nausea, segnali correlati al vomito o ad attività che sono state precedentemente evitate (Veale, 2009). A causa dell’eterogeneità delle paure idiosincratiche nelle persone con SPOV, è essenziale che venga utilizzata una formulazione individualizzata per ideare compiti di esposizione appropriati ed esperimenti comportamentali. La SPOV può anche richiedere protocolli di trattamento adattati rispetto ad altre fobie, a causa della difficoltà con l’esposizione al proprio episodio di vomito, che risulta non facile da raggiungere (Keyes, 2018). Inoltre, poiché il disgusto può svolgere un ruolo chiave nello sviluppo e nel mantenimento di tale disturbo, in quanto reazione universale al vomito amplificato dalla stessa SPOV, gli interventi mirati al disgusto e all’ansia possono essere importanti per ridurre la sintomatologia della fobia specifica del vomito.

 

Gioco d’azzardo patologico

Il disturbo da gioco d’azzardo (gambling disorder) viene definito come un comportamento problematico, persistente o ricorrente legato al gioco d’azzardo. Questo disturbo si evolve seguendo diverse fasi e porta con sé disagio e sofferenze significativi.

 

 Il Gioco d’azzardo è una delle dipendenze comportamentali, chiamate così perché la persona dipende da un comportamento e non da una sostanza (come in questo caso). La dipendenza comportamentale, secondo Mark Griffith (2005), viene stabilita tramite 6 criteri: preminenza (prevalenza del comportamento nella vita della persona), ripercussioni sul tono dell’umore (conseguenze emotive della dipendenza), tolleranza (accentuazione del comportamento per causare  effetti di sufficiente intensità), segnali di astinenza (conseguenze fisiche spiacevoli in mancanza di tale comportamento), conflitto (ostilità interpersonali a causa della dipendenza instaurata o inconciliabilità con altre attività personali) e recidiva (possibilità di ricadute nel disturbo dopo aver sospeso tale comportamento).

Le dipendenze comportamentali e disturbi da uso di sostanze hanno in comune:

  • Tolleranza ed astinenza
  • Difficoltà nel resistere agli impulsi
  • Egosintonicità dei comportamenti
  • Ciclicità dei comportamenti dannosi
  • Inizio in adolescenza e giovane età adulta
  • Disregolazione emotiva
  • Sviluppo cronico del disturbo
  • Craving (desiderio intenso)

Il disturbo da gioco d’azzardo (gambling disorder) viene definito come un comportamento problematico, persistente o ricorrente legato al gioco d’azzardo. Si presenta per un periodo di 12 mesi e comporta disagio e compromissione clinicamente significativi (DSM-5, 2013).

Il DSM-5 (2013) sottolinea i sintomi seguenti (almeno 4 per effettuare la diagnosi):

  1. Bisogno di quantità sempre maggiori di denaro affinché si arrivi all’eccitazione desiderata
  2. Sensazione di agitazione ed irritabilità nel tentativo di ridurre il gioco
  3. Si attuano continui tentativi vani di controllare, ridurre o smettere il gioco
  4. Continua preoccupazione relativa al gioco d’azzardo
  5. Gioca molto spesso per nascondere il proprio disagio
  6. Quando perde, vi è più probabilità che vada a ritentare
  7. Si attuano menzogne pur di nascondere l’entità del coinvolgimento con il gioco
  8. E’ molto probabile perdere una relazione significativa, il lavoro proprio per il gioco d’azzardo
  9. Chiede molto spesso denaro agli altri per recuperare le situazioni finanziarie causate dal gioco d’azzardo

Mentre il criterio A ammette che il gioco d’azzardo è un comportamento problematico persistente che causa disagio clinicamente significativo, il criterio B dice che il comportamento non è meglio spiegato da un episodio maniacale.

 Vi sono comunque varie tipologie di gioco come anche varie tipologie di giocatori. Per quanto riguarda il gioco vi è sia il gioco di puro azzardo (gratta e vinci o casinò), i giochi di abilità (le scommesse sportive o gli scacchi), giochi pesanti e giochi leggeri. Rispetto alle tipologie di giocatori invece ci sono i giocatori con dipendenza (perdita del controllo nel comportamento), giocatori per fuga senza dipendenza (attuazione del comportamento per fuga da ansie e dalla solitudine), giocatori sociali costanti (gioco come relax e divertimento), giocatori sociali adeguati (occasionali), giocatori antisociali (illegalità nel guadagno), giocatori professionisti non patologici (controllo del denaro e del tempo).

Differenza principale tra il DSM-IV-TR e DSM-5 riguardo a tale dipendenza comportamentale è che precedentemente veniva classificato come Disturbo del controllo degli impulsi mentre ora si trova tra i Disturbi non correlati a sostanze. Sia il DSM (1952) che il DSM-II (1968) non avevano preso in considerazione il gioco d’azzardo patologico: solo nel 1980 è stato classificato insieme agli altri disturbi psichiatrici.

Il gioco d’azzardo viene definito come una patologia composta da varie fasi (gradualmente avanza): la prima fase è costituita da competitività e da successi con la percezione dunque di onnipotenza e potere. Si inizia a ritirarsi dalla famiglia e a concentrarsi solo sul gioco. Nella seconda fase ci sono perdite improvvise e tentativi vani di recuperare il denaro perso, si attuano menzogne verso i propri familiari e richieste di aiuto per il denaro perso. La terza fase è caratterizzata invece dalla disperazione, con attività illegali quali frode e appropriazione indebita (Lesieur e Rosenthal 1991). Di solito possono persistere anche pensieri suicidi e di fuga in quel momento. La quarta fase è caratterizzata da rinuncia o disperazione con sintomi quali depressione, pensieri suicidi, ipertensione, palpitazioni, insonnia e disturbi gastrointestinali (Rosenthal 1992). Secondo il National Research Council (1999), il gioco d’azzardo provoca effetti negativi sulla salute delle persone. In realtà ci si chiede però nel dettaglio qual è la causa ed effetto tra criminalità e gioco d’azzardo. Secondo il NGISC (1999) non c’era ancora la possibilità di affermare con esattezza se il gioco d’azzardo fosse l’origine del crimine o una delle conseguenze.

Si pensa anche a dei benefici che potrebbe indurre il gioco d’azzardo sulla dimensione emotiva, intellettuale, fisica e sociale della salute dell’uomo. Ad esempio, si parla di integrazione sociale (dà un senso di socializzazione e di unione agli altri) di gioco in età adulta (Smith e Abt 1984), come riduzione dell’ansia e dello stress e la disforia, e in ultimo si parla di miglioramento delle strategie di coping (come la memoria, la risoluzione dei problemi, concentrazione e competenze matematiche).

Per poter valutare il Gioco d’azzardo Patologico si potrebbero utilizzare diversi strumenti basati sui criteri diagnostici del DSM-IV, come ad esempio l’intervista diagnostica sul gioco patologico che consente di concentrarsi maggiormente sugli aspetti cognitivi fondamentali per le ricadute nel gioco. Si utilizza anche il Questionario di Beaudoin e Cox con l’adoperazione di una valutazione mediante un criterio cronologico: l’ordine di comparsa degli item. Invece il Questionario dei Gamblers Anonymous, uno strumento diagnostico non basato sulle caratteristiche del DSM-5, è costituito da 20 item e si basa sulla misura del tempo destinato al gioco, l’incapacità di controllare il comportamento di dipendenza, il disagio che sollecita il soggetto al gioco.

Secondo uno studio, della Società Italiana di Intervento per le Patologie Compulsive, l’85 % dei giocatori in Italia è caratterizzato da uomini, di cui più della metà ha più di 60 anni. In più il GAP sembra diffondersi sempre di più tra gli adolescenti, ma può comunque mostrarsi anche durante la tarda età adulta. I più giovani sembrano preferire maggiormente le scommesse sportive mentre gli adulti di tarda età hanno problemi con le slot-machines e bingo.

Molti studi sono stati effettuati sulla comorbidità psichiatrica. McCormick ed altri (1984) verificarono che in un campione di dipendenti dal gioco d’azzardo vi era il 76 %  affette dal disturbo depressivo maggiore. Inoltre si è notato, secondo Linden ed altri (1986), un aumento nei tassi  di disturbo bipolare e di ipomania. Oltre ai disturbi dell’umore è stata verificata anche una comorbidità con i disturbi dell’ansia. In ultimo, si è rilevata la dipendenza cronica da alcol o droghe in soggetti con gioco d’azzardo patologico (Welte et al. 2001).

Le principali cause potrebbero essere di vario tipo:

  1. Neurobiologiche, ovvero la disfunzione di sistemi neurotrasmettitoriali.
  2. Genetiche, ovvero i parenti di primo grado hanno probabilità maggiori di sviluppare il disturbo.
  3. Ambientali, ovvero situazioni stressanti ed educazione nell’ambiente familiare.

Per quanto riguarda il trattamento, particolarmente efficace è la psicoterapia cognitivo-comportamentale, con l’obiettivo di promuovere l’acquisizione di strategie di fronteggiamento dello stress  e per la gestione del craving. La psicoterapia cognitivo comportamentale tende a correggere quindi le abitudini comportamentali e gli schemi disfunzionali che la persona ha. Questo tipo di psicoterapia è pratica concreta  (risoluzione dei problemi psicologici concreti) e centrata sul qui ed ora (scopo di potenziare le risorse del paziente stesso basandosi sul presente).

Inoltre, buone modalità di trattamento sono quelli dei gruppo di Auto-aiuto per pazienti e familiari, riabilitazione e comunità terapeutiche. Anche il trattamento farmacologico è importante poiché alcuni farmaci (SSRi o stabilizzanti dell’umore) incidono sull’impulsività della persona e vengono utilizzati per sostenere il lavoro dello psicoterapeuta.

 

Emozioni in adolescenza: le difficoltà dei ragazzi e dei loro genitori – Recensione del libro “Adolescenti con emozioni intense”

Il libro di Harvey e Rathbone, Adolescenti con emozioni intense, edito in Italia da Franco Angeli editore, si prefigge di essere un manuale di auto-aiuto a portata di mano per quei genitori che si sentono esausti, frustrati e impotenti nel gestire le emozioni e i comportamenti problematici dei propri figli adolescenti o giovani adulti.

 

L’essere genitori di un figlio adolescente è sicuramente un compito arduo: durante l’adolescenza infatti, i ragazzi si trovano a dover affrontare una fase molto delicata del loro sviluppo in quanto devono affrontare una serie di sfide quotidiane per separarsi dalla famiglia, per integrarsi nel gruppo dei pari e per costruirsi autonomamente un’identità.

In questa fase di transizione, i genitori si ritrovano a dover gestire i conflitti e le necessità dei propri figli che da un lato pretendono autonomia, dall’altro necessitano ancora di una guida, una protezione e un punto di riferimento genitoriale.

Nella maggior parte dei casi il conflitto genitore-figlio viene superato ma talvolta può succedere che tale conflitto si inasprisca e che si producano delle vere e proprie lotte di potere tra genitori e figli all’interno della famiglia.

Quando i normali comportamenti di ribellione degli adolescenti diventano più intensi e si connotano di violenza verbale o fisica, gesti autolesivi e ripetuti tentativi di suicidio, i genitori potrebbero sentirsi soli, confusi e in balia dei comportamenti problematici e delle montagne russe emotive dei propri figli.

Quel figlio così ubbidiente e bravo a scuola fino a qualche anno prima, ora minaccia, aggredisce, si taglia in varie parti del corpo, si abbuffa di cibo o si ritira nella sua stanza senza voler vedere più nessuno.

Agli occhi dei genitori, queste reazioni così intense e dolorose potrebbero apparire assurde, irragionevoli e imprevedibili e potrebbero pertanto suscitare altrettante reazioni genitoriali che rinforzano la problematicità di tali reazioni anziché ridurla.

I genitori infatti, anche se muniti delle migliori intenzioni, potrebbero non capire le motivazioni di tali reazioni o non sentirsi sufficientemente in grado di gestire queste difficoltà.

Nello stesso tempo, la stanchezza, l’angoscia, le preoccupazioni esperite per le condizioni del figlio potrebbero portare i genitori a concentrarsi solo sugli aspetti più negativi e disfunzionali non facilitando né l’accettazione della sofferenza dei propri figli né la promozione a lungo termine di cambiamenti positivi.

Per tale ragione, il libro di Harvey e Rathbone, sul modello dello skill training della terapia dialettica comportamentale di Marsha Linehan (2015), si prefigge di insegnare ai genitori a comprendere le ragioni alla base delle diverse problematiche emotive e comportamentali dei figli e ad apprendere abilità e strategie per una loro gestione efficace.

La prima parte del libro è infatti dedicata a fornire una psico-educazione sulle emozioni e sui fattori che possono generare, sostenere o modificare un comportamento problematico.

L’intento è quello di fornire informazioni utili per la comprensione delle reazioni dei figli e la promozione di nuovi comportamenti più efficaci che evitino gli effetti potenzialmente negativi che si potrebbero verificare qualora il genitore adottasse risposte invalidanti o oppositive.

La seconda parte è invece incentrata sulle specifiche situazioni problematiche che i figli adolescenti potrebbero riportare come i gesti autolesivi e suicidari, l’abuso di sostanze e alcol, comportamenti promiscui e disturbi dell’alimentazione.

Infine l’ultima parte è dedicata alla famiglia ovvero ai circoli viziosi che possono essere innescati o influenzati dai comportamenti disadattivi dei figli e a come sia possibile rispondere ad essi coinvolgendo anche gli altri membri familiari con il fine di interromperne i meccanismi nocivi di mantenimento.

Il libro è scritto con un linguaggio chiaro, semplice e comprensibile.

Nelle spiegazioni, non ci sono tecnicismi o termini medici troppo stigmatizzanti o spaventanti in quanto l’obiettivo finale è quello di supportare i genitori a riconoscere i propri segnali di ansia e preoccupazione, a validare il disagio dei propri figli e a comprenderne le motivazioni alla base.

La comprensione delle ragioni che hanno portato il proprio figlio a reagire in modo discontrollato o impulsivo può aiutare i genitori a non lasciarsi travolgere né dall’urgenza del momento né da emozioni di rabbia, colpa o vergogna che potrebbero ad annebbiare la loro capacità di riconoscere e validare la sofferenza.

Tuttavia, parallelamente alla comprensione e alla gestione delle problematicità, gli autori mantengono il focus anche sull’aiutare i genitori a monitorarsi e a riconoscere i propri segnali di disagio e angoscia di fronte ai comportamenti dei figli.

La comprensibile sofferenza di un genitore, che tenta di arginare il pericolo e i rischi associati alla condizione del figlio, potrebbe determinare un’inefficace gestione del comportamento problematico e di conseguenza intensificare la sofferenza del figlio.

Affinché vi possa essere una risoluzione del problema, occorre pertanto che siano in primis i genitori a sviluppare un senso di accettazione del fatto che, nonostante le loro intenzioni o azioni, l’adolescente è l’unico in grado di ridurre la sua sofferenza.

Il duro compito di un genitore è quello di comprendere quando è opportuno lasciar andare.

 

Sport e salute mentale in adolescenza

La partecipazione allo sport di squadra, ma non allo sport individuale, predice prospetticamente un minor numero di sintomi depressivi, ansiosi ed emotivi.

 

Il 10-20% degli adolescenti è vittima di un disturbo mentale, (Kieling et al., 2011), prevalentemente depressivo e ansioso (Rehm & Shield, 2019), che se non trattato può impattare notevolmente sullo sviluppo personale, sui risultati scolastici e sulla qualità della vita (Slominski et al., 2011).

Gli sforzi attuali nella prevenzione dei disturbi mentali sono spesso inadeguati anche nei paesi altamente sviluppati. Un’indagine australiana ha stimato che solo l’11,6% dei giovani affetti da psicopatologia ha ricevuto dagli operatori un trattamento minimo adeguato (Sawyer et al., 2019). Infatti, oltre ad essere dispendioso, capita sovente che le cure vengano destinate a giovani con disabilità più gravi.

Lo sport ricreativo organizzato, è tra le attività più popolari tra i giovani adolescenti (Aubert et al., 2018) e può giocare un ruolo rilevante nella tutela della loro salute mentale (Panza et al., 2020).

Fattori empiricamente legati all’aumento del benessere e della salute nello sport, rimandano ad aspetti intrinseci all’attività fisica, alle relazioni sociali ed amicizie positive che si strutturano in questo ambiente, oltre al senso di identità derivante dalla partecipazione allo sport (Ahn & Fedewa, 2011; Graupensperger et al., 2020).

Tuttavia, se le relazioni instaurate nell’ambiente sono inadeguate e lesive (MacDonald et al., 2012), lo sport può favorire il deterioramento della salute mentale in adolescenza. Anche una partecipazione sportiva eccessivamente intensa in termini di ore o laboriosa, può portare a percezioni di sovrallenamento e diminuzione del benessere (Merglen et al., 2014).

La letteratura si è concentrata sugli esiti dello sport sulla salute mentale, relativi all’ansia e alla depressione; l’elevata prevalenza di difficoltà emotive e comportamentali in adolescenza rende utile uno spostamento del focus su questi aspetti (Costello et al., 2005).

Ad esempio, Vella et al., (2017), hanno riscontrato che le difficoltà comportamentali e attentive, in particolare problemi esternalizzanti all’età di 12 anni, predicono scarsa partecipazione allo sport all’età di 14 anni, aspetto preoccupante se si considera che gli adolescenti altamente iperattivi potrebbero trarre beneficio dall’attività fisica, che può limitare la distrazione e l’impulsività (Putukian et al., 2011). Infatti, se iscritti ad uno sport di gruppo, i ragazzi iperattivi sperimentavano ridotte problematiche affettive e meno sintomi depressivi e ansiosi (Kiluk et al., 2009).

La letteratura che ha approfondito le differenze di genere nel legame tra sport e salute mentale, riporta che mentre tra le ragazze, le esperienze sociali sperimentate in contesto sportivo erano più negative (come, prese in giro, vergogna del corpo) con esito di peggioramento della salute mentale (Slater & Tiggemann, 2011), tra i maschi emerge una riduzione maggiore dei sintomi di ansia all’aumentare del coinvolgimento sportivo (Panza et al., 2020).

Nonostante le associazioni evidenti tra sport organizzato e salute mentale, non è ancora chiaro se il coinvolgimento nello sport migliori la salute mentale degli adolescenti o se siano gli adolescenti con una salute mentale migliore a dedicarsi maggiormente allo sport.

Data questa lacuna di comprensione, lo scopo delle indagini longitudinali di Graupensperger et al. (2021) era verificare le associazioni in adolescenza tra partecipazione allo sport (individuale e di squadra) e diversi indici di salute mentale.

Un secondo obiettivo, consisteva nel testare se le associazioni tra la partecipazione allo sport e salute mentale, differivano tra ragazzi e ragazze adolescenti.

Sono state valutate la partecipazione regolare a sport di squadra e individuali nell’ultimo anno, l’ansia e i sintomi depressivi, questi ultimi con la Spence Children’s Anxiety Scale (SCAS-C8; Reardon et al., 2018; Spence et al., 2003) e lo Short Mood and Feelings Questionnaire (SMFQ; Angold et al., 1996). Le difficoltà emotive e comportamentali sono state misurate con il Strength and Difficulties Questionnaire (SDQ; Goodman et al., 2000).

I risultati indicavano che la partecipazione allo sport di squadra, ma non allo sport individuale, prediceva prospetticamente un minor numero di sintomi depressivi, ansiosi ed emotivi ed una maggiore percezione soggettiva di benessere su questi aspetti.

Inoltre, nonostante una maggiore sintomatologia emotiva inducesse un minore coinvolgimento sportivo sia per gli sport di squadra che individuali, praticare più sport di squadra potrebbe agire positivamente sulla sintomatologia emotiva, influendo positivamente sulla salute sociale e psicologica dei giovani (Eime et al., 2013).

La partecipazione allo sport di squadra apporta benefici sulla salute mentale della maggior parte dei giovani, ma non per tutti (Panza et al., 2020). Alcuni, per esperienze sociali negative come il bullismo nei contesti gruppali, potrebbero preferire gli sport individuali (Evans et al., 2016).

Il legame tra partecipazione sportiva e salute mentale differiva significativamente per ragazzi e ragazze adolescenti.

Mentre i ragazzi che praticavano sport di squadra o individuali tendevano a manifestare meno sintomi depressivi, le ragazze che praticavano sport di squadra riportavano maggiori benefici psicosociali oltre che nei sintomi depressivi.

I ragazzi che praticavano sport individuali riportavano nel lungo periodo un aumento della sintomatologia depressiva, probabilmente ricondotta alla motivazione dell’atleta, finalizzata all’obiettivo piuttosto che al divertimento.

Nelle ragazze adolescenti, maggiori sintomi depressivi predicevano prospetticamente un minore coinvolgimento successivo nello sport individuale. Infatti, mentre quest’ultimo espone ad una maggiore valutazione sociale e preoccupazione per la presentazione di sé, gli sport di squadra consentono di strutturare una maggiore sicurezza percepita tra le atlete (Haase, 2009).

In conclusione, lo sport, oltre ad essere ampiamente accessibile tra i giovani, ha un forte impatto nella protezione della salute mentale in questa fascia della popolazione.

Studi futuri potrebbero indagare meglio se questa tendenza di miglioramento della salute mentale, persiste fino alla prima età adulta (Jewett et al., 2014).

Inoltre, comprendere il legame tra coinvolgimento sportivo e salute mentale, consente alle parti in gioco di implementare opportunità di partecipazione sportiva su misura, affinché tutti coloro che ne hanno bisogno possano beneficarne.

 

Malattie croniche e pandemia, ricerca Psicologi Lazio: per 1 paziente su 3 terapie a rischio – Comunicato Stampa

L’emergenza Covid-19 ha avuto un impatto su pazienti con malattie croniche attraverso una molteplicità di fattori: le difficoltà di accesso alle visite e alle cure, il sovraccarico degli operatori, la mancanza di continuità assistenziale e il minore supporto relazionale percepito.

Comunicato Stampa

 

Roma, 7 luglio 2021. Durante la pandemia da Covid circa un terzo dei pazienti con malattie croniche ha faticato a comunicare con il proprio medico curante, mentre quasi uno su dieci ha addirittura smesso di contattarlo, mettendo seriamente a rischio la propria aderenza alle terapie. A rivelarlo è un’indagine realizzata dall’Osservatorio di Psicologia in cronicità in collaborazione con la Regione Lazio, presentata in occasione dell’evento “Emozioni in Cronicità ai tempi del Covid-19 – Ricerche e prospettive future”, organizzato dall’Ordine degli Psicologi del Lazio.

La ricerca, che ha interessato 114 soggetti con una età compresa tra 20 e 86 anni affetti da diverse patologie – tra le quali diabete, artrite, tumori, cardiopatie – ha evidenziato con chiarezza il peggioramento dello stato di salute e della condizione psicologica dei pazienti cronici durante il periodo connesso all’emergenza sanitaria. A pesare, una molteplicità di fattori: le difficoltà di accesso alle visite e alle cure, il sovraccarico degli operatori, la mancanza di continuità assistenziale e il minore supporto relazionale percepito. In questo pur difficile scenario, l’11.4% dei pazienti ha invece riferito un miglioramento nella gestione della malattia, grazie anche alla riorganizzazione dei servizi a valle dell’emergenza.

Le delicate implicazioni di tipo psicologico prodotte dalla pandemia hanno indotto circa il 40% degli intervistati a ricercare un supporto specialistico. Tra coloro che vi hanno fatto ricorso, il 30% ha riferito un sentimento di angoscia e fragilità legato al timore di un peggioramento della propria condizione a seguito di una possibile trasmissione del virus; il 32% ha lamentato la scarsa attenzione alle misure anti-contagio nel proprio contesto sociale e lavorativo; il 32% ha faticato a vivere con rassegnazione i cambiamenti imposti dall’emergenza; il 5% ha manifestato preoccupazione rispetto alle proprie capacità di autoregolazione.

I risultati dell’indagine – ha spiegato Mara Lastretti, Coordinatrice dell’Osservatorio di Psicologia in cronicità dell’Ordine Psicologi Lazio – hanno evidenziato come la Psicologia, attraverso la lettura dei vissuti e dei processi che regolano la vita di persone con cronicità e dei loro team, si sia dimostrata in grado di agevolare in modo significativo l’adozione di condotte virtuose. A tale riguardo, sul sito Osservatorio Psicologia in Cronicità è disponibile il primo ebook sui casi di buone prassi adottate durante la pandemia da team integrati dalla funzione psicologica.

I dati completi dell’indagine “Emozioni in Cronicità ai tempi del Covid 19 – Ricerche e prospettive future” sono disponibili sul sito dell’Osservatorio di Psicologia in cronicità e sulle sue pagine Social Facebook, Instagram e Linkedin.

 

Blended-care e demenza: supporto al caregiver nell’era digitale

La demenza è una malattia caratterizzata da una varietà di sintomi e un declino progressivo nelle funzioni cognitive. Per tale motivo, la costruzione di interventi integrati in modalità online e offline può aiutare il caregiver informale nella gestione delle diverse fasi di malattia della persona con demenza.

Noemi Boschetti – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, Modena

 

L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha descritto la demenza come una delle principali cause di disabilità e dipendenza tra le persone anziane (WHO, 2020).

Mentre si assiste ad un aumento delle patologie cronico-degenerative, si prefigura un incremento della domanda di figure assistenziali formali e informali nella cura della popolazione anziana. Tale condizione determina di fatto un incremento della richiesta di supporto nello svolgimento delle diverse attività quotidiane (Bressan, Visintini, & Palese, 2020).

In ragione delle limitazioni funzionali e della perdita di autonomia, emergono nuovi bisogni sanitari e assistenziali con un forte impatto sull’intero sistema familiare. L’aumento del carico assistenziale nella cura della persona con demenza può quindi avere significative ripercussioni sul benessere delle figure di supporto, in termini di aumento della percezione del burden, stress, disagio fisico e psicologico (Hopwood, Walker, McDonagh, Rait, Walters & Illiffe, 2018).

Il burdern del caregiver

Diverse ricerche finalizzate a studiare questo fenomeno hanno portato a una definizione muldimensionale del burden del caregiver, sottolinenando l’importanza della percezione di sé come figura di cura (Zarit,Todd, & Zarit, 1986). L’esperienza di caregiving può comprendere circostanze che causano un aumento dello stress e del carico assistenziale. D’altro canto, è noto che esistono differenti soglie di percezione del burden psicologico, fisico e socio-assistenziale. Il processo di cura presenta un carattere complesso ed è in grado di generare esperienze tra loro idiosincratiche.

Il careginving, pur presentando un rischio intrinseco di stress fisico e psicologico, può quindi suscitare una percezione di gratificazione nella costruzione di legami intrafamiliari (Tarlow,  Wisniewski, Belle, Rubert,  Ory, & Gallagher-Thompson, 2004).

Gli aspetti positivi del caregiving possono emergere in una condizione di equilibrio tra le richieste assistenziali e le capacità per farvi fronte. Tale equilibrio riduce il rischio di stress ed incrementa la percezione di un senso di auto-efficacia nel prendersi cura dei propri cari.

Per poter favorire la percezione di maggior gratificazione nel processo di cura e limitare l’insorgenza di difficoltà nella presa in carico, la proposta di interventi che facilitino la transizione al ruolo di cura rappresenta un elemento fondamentale. I familiari assistono infatti ad un cambiamento sostanziale del loro ruolo sociale in seguito alla diagnosi di demenza del paziente (Bruinsma, Peetooma, Bakker, Boots, Millenaar, Verhey, & Vugt,2021). Perciò, l’accesso a modalità di supporto personalizzate e adeguate alle coesistenti attività del caregiver può agevolare l’adattamento al ruolo.

L’avvento della e-Health nel supporto al caregiver

Nonostante sia stata dimostrata l’efficacia degli interventi di supporto “face-to-face”, il crescente gap tra i servizi di cura e la domanda fa emergere una richiesta di metodi alternativi per fornire un supporto e un’educazione ai caregivers informali (Boots, De Vugt, Withagen,  Kempen, & Verhey, 2016). Questo divario può essere colmato attraverso l’implementazione di programmi di intervento integrati, che beneficiano dell’impiego di dispositivi internet e percorsi di supporto eHealth.

L’impiego della tecnologia nei percorsi di supporto al caregiver hanno mostrato risultati promettenti in termini di outcome. Interventi e-learning si sono rivelati utili strumenti per il caregiver informale, in quanto i destinatari del programma hanno apprezzato la veicolazione di contenuti multimediali, favorendo l’apprendimento e rendendo il materiale più interessante. In generale, emerge una significativa soddisfazione rispetto ad una comunicazione rapida ed efficace con gli operatori sanitari, o altri caregivers tramite l’impiego di piattaforme virtuali. Inoltre, l’opportunità di personalizzare l’utilizzo dei dispositivi elettronici favorisce il monitoraggio e la comunicazione in differenti setting che coinvolgono varie figure di cura (Nai-Ching,C. & Demiris, G., 2015).

Ad oggi, diverse ricerche hanno dimostrato l’efficacia di programmi eHealth personalizzati nell’incrementare il senso di auto-efficacia e ridurre la percezione di stress e depressione (Boots De Vugt, Smeets, Kempen, & Verhey, 2017). L’utilizzo della eHealth permette infatti di agevolare processi di decision making condivisi, facilitando l’assunzione di un ruolo attivo e partecipativo nel percorso assistenziale.

L’accesso a modalità di trattamento online può costituire un vantaggio per i caregivers che presentano difficoltà nell’accesso alla rete di servizi tradizionali. L’aderenza a programmi da remoto determina, inoltre, un significativo risparmio in termini economici e temporali. Gli interventi online presentano perciò una maggiore fruibilità, soprattutto per i caregiver che necessitano di maggiore flessibilità nell’espletare ai propri compiti di cura, portando direttamente l’intervento nelle loro case e riducendo la percezione di isolamento sociale (Hopwood et al., 2018).

La combinazione di trattamenti online e offline ha mostrato risultati positivi (Wentzel., J., Van der Vaart, R., Bohlmeijer, E.T. & Van Gemert-Pijnen, J.E.W.C., 2016). In particolare, caregivers di persone con demenza ad esordio precoce hanno mostrato maggiore partecipazione a interventi web-base, poiché le generazioni più giovani presentano una maggiore propensione per contenuti online (Boots et al., 2018). Tuttavia, gli studi sull’efficacia degli interventi erogati via web hanno permesso di inviare alcuni limiti nella loro applicazione. Uno degli aspetti più sensibili è relativo all’aderenza al trattamento e all’alto rischio di drop out dei caregiver che beneficiano soltanto del trattamento online (Cox,  Schepers, Ketelaar,Van Heugten, & Visser-Meily, 2018).

Si può quindi dedurre che l’integrazione di programmi web-based debba svilupparsi sulla base di una personalizzazione dell’intervento rispetto alle caratteristiche dell’utenza e ai bisogni espressi.

Blended-care: i vantaggi del modello integrato online-offline

Nonostante tali programmi si muovano nella direzione di interventi auto-gestiti, dai risultati emerge l’importanza attribuita alla presenza di una figura di supporto, quali psicologi o altri operatori formati. Il contatto diretto con i professionisti della cura consente infatti la condivisione di dubbi o domande e la personalizzazione di suggerimenti pratici. Allo stesso modo, è possibile fornire un supporto psicologico, al fine di ridurre il senso di isolamento e favorire la comprensione dei vissuti individuali inerenti all’esperienza di caregiving.

In quest’ottica, fornire ai partecipanti un contatto con un terapeuta come supporto durante il periodo di trattamento consente di incrementare l’aderenza al trattamento stesso (Johansson, Michel, Andersson, & Paxling, 2015). Una comunicazione chiara ed adeguata alle capacità del partecipante è infatti essenziale per favorire la comprensione delle finalità e veicolare le istruzioni necessarie ad avviare il progetto.

Il programma d’intervento via web non si propone dunque come sostituzione di un percorso di supporto emotivo, pratico e psicoeducativo, ma come modalità integrata a fianco dell’intervento face-to-face. La componente online si configura come un aspetto flessibile, le cui proporzioni sono adeguate e adattate al trattamento, sulla base dei contenuti e della fase di malattia con cui deve confrontarsi il caregiver. L’aggettivo “blended” descrive infatti un modello interconnesso e non a sé stante rispetto all’intero processo di trattamento, contribuendo in modo equo all’intervento insieme agli incontri face-to-face.

Studi condotti su partners di pazienti con lesioni cerebrali acquisite (Cox et al., 2018) hanno rilevato l’importanza di costruire percorsi di trattamento personalizzati, sulla base delle specifiche problematiche riportare dai caregivers durante i colloqui con il professionista.

Un altro aspetto fondamentale riguarda la valutazione dell’adeguatezza stessa della proposta di un intervento blended. La proposta di inserire un percorso online non può infatti prescindere da una valutazione complessa del caso, analizzando i benefici potenziali ed eventuali limitazioni. Per tale motivo, occorre individuare possibili ostacoli, quali per esempio l’accesso a internet o a dispositivi elettronici, la familiarità con le modalità proposte e eventuali preferenze dell’assistito.

Studi recenti hanno sottoposto a valutazione di efficacia programmi di intervento con queste caratteristiche anche all’interno di percorsi dedicati ai caregivers di pazienti con demenza.

In particolare, il programma blended care “Partner in Balance” per i caregiver di pazienti in stadi precoci di demenza ha promosso un’attività di integrazione tra percorsi di apprendimento e supporto online e sessioni di valutazione in presenza con un professionista della salute (Boots et al., 2016; Boots et al. 2017). L’intervento si basa principalmente su principi di self-management per aiutare i caregivers a trovare un equilibrio tra l’attività di cura e la loro vita quotidiana. I partecipanti a questi interventi esprimono infatti una buona fruibilità dell’impostazione goal-setting, che consente loro di tradurre i contenuti del programma nella vita quotidiana. Tuttavia, emergono spesso difficoltà nella formulazione di obiettivi. L’aiuto di un professionista è dunque importante nella fase di individuazione di scopi specifici e misurabili. Il programma “Partner in Balance” prevede infatti un iniziale incontro con un coach personale allo scopo di far familiarizzare i partecipanti con il programma, stabilendo gli obiettivi e i moduli da condurre.

In questo modo si procede alla costruzione di moduli online tailored-made, che includono aspetti psicoeducativi, modeling comportamentale, piani di cambiamento, feedback via mail dal tutor in un periodo di 8 settimane. Inoltre, i partecipanti possono interagire tra di loro tramite un forum di discussione.

Partendo da questi modelli di intervento, è possibile creare contenuti nuovi, basandosi sull’emergenza di bisogni specifici di partner o altri familiari nel ruolo di caregiver (Bruinsma et al., 2021). Dalla valutazione di outcome emerge l’importanza attribuita alle sessioni face-to-face, come elemento fondamentale per la costruzione di una relazione con il singolo partecipante.

La presenza di coach familiare, con cui si è stabilito un contatto diretto, ha facilitato l’impegno nel completamento dei moduli e ha consentito una maggiore libertà di espressione e condivisione nei contesti online. Inoltre, questo elemento in presenza offre possibilità di riconoscimento per i partecipanti, incrementando la consapevolezza rispetto ai propri comportamenti ed emozioni.

L’analisi dei bisogni del caregiver: un modello personalizzato

La costruzione di un intervento personalizzato in base ai bisogni del caregiver promuove l’acquisizione di un maggior senso di competenza nella gestione della persona con demenza. Di conseguenza, è possibile favorire una percezione positiva del proprio ruolo di cura, focalizzandosi sull’apprendimento di competenze e l’esplorazione di risorse individuali e di comunità.

Alcuni studi si sono focalizzati sull’individuazione degli elementi maggiormente significativi per i caregivers  di pazienti con demenza che hanno partecipato a programmi di supporto online (Hopwood et al., 2018). Dai risultati è emerso che il supporto dei pari fornito dai partecipanti online ha rappresentato uno dei temi maggiormente condivisi. Alcuni programmi, per esempio, offrono l’opportunità di sviluppare un network informale di supporto online, attraverso il quale condividere contatti e informazioni pratiche riguardo alla cura dell’individuo in uno contesto di mutuo-aiuto. Un approccio simile, impiegando modalità di videoconferenza, ha permesso di facilitare incontri di gruppo online una volta a settimana. I gruppi di incontro virtuale sono stati diretti da un professionista psicologo, consentendo lo scambio comunicativo tra i partecipanti e la veicolazione di informazioni sulla demenza.

Questi studi (ibidem) suggeriscono che programmi che comprendono l’interazione di gruppo e possibilità di contatto visivo tra i partecipanti hanno una maggiore efficacia rispetto all’impiego di chat, forum o semplice messaggistica nell’incrementare lo stato di benessere e percezione di efficacia dell’intervento. L’analisi qualitativa dei dati ha infatti messo in luce diversi benefici, tra cui un senso di comprensione attraverso l’esperienza condivisa, gratificazione nell’aiutare gli altri, riduzione dell’isolamento sociale.

Un altro aspetto significativo degli interventi online include la veicolazione di informazioni, che appare essere maggiormente efficace se calibrata sulla base dei bisogni informativi individuali.

All’interno dei programmi di supporto è importante includere moduli di sviluppo di abilità intrinseche al ruolo di cura. Tra queste le abilità di decision making sembrano avere una particolare importanza e spesso risultano carenti o non efficaci nella gestione complessa del paziente con demenza. Alcuni interventi hanno proposto strumenti a supporto di questa funzione, favorendo modalità di identificazione delle priorità nel processo decisionale (Hopwood et al., 2018).

Il carattere cronico e progressivo della demenza determina tuttavia l’emergere di bisogni e competenze differenti in base ai vari stadi della malattia. Per tale ragione, programmi d’intervento integrati efficaci devono essere individualizzati e coerenti con le problematiche relative a una determinata fase del processo di cura.

Gli interventi negli stadi precoci di malattia possono preparare i caregivers ai loro compiti futuri, in una fase in cui lo stress e il carico assistenziale sono relativamente bassi (Boots et al., 2017). Questi programmi si sono dimostrati efficaci nel ridurre lo stress, incrementare il senso di auto-efficacia e ritardare l’istituzionalizzazione del paziente. L’individuazione dei bisogni del caregiver basati sulle situazioni individuali e la facilitazione nel processo di adattamento favoriscono dunque una gestione positiva del processo di cura (Boots et al, 2016; Boots et al., 2017; Cox et al, 2017).

La rivoluzione digitale consente di promuovere un’azione proattiva da parte dei familiari, facilitando la condivisione dei processi decisionali e l’accesso a fonti di informazione personalizzate (Nai-Ching & Demiris, 2015). Pertanto, si può concludere che l’uso integrato della eHealth si prefigura come un’opportunità di offrire continuità nelle cure e di sviluppo di una rete di intervento interconnessa a supporto del ruolo del caregiver.

 

L’importanza della figura dello Psicologo nei percorsi di inclusione sociale e lavorativa di giovani adulti con disabilità

L’importanza di offrire un sostegno psicologico alla persona con disabilità permetterà di accettare la propria disabilità e trovare dentro sé stessi il proprio talento, ovvero tutti quegli aspetti legati alla propria disabilità che potranno così iniziare ad essere considerati come dei punti di forza e non delle limitazioni.

 

 Prima di cimentarmi nella descrizione di come un servizio di sostegno psicologico possa offrire benefici all’interno di tutti quei servizi che promuovono l’integrazione sociale e lavorativa dei ragazzi con disabilità, è opportuno soffermarsi su chi è lo Psicologo poiché, ancora oggi, ruotano moltissimi pregiudizi intorno a questa figura professionale.

Lo Psicologo è colui che dopo 5 anni di studi universitari ha svolto un tirocinio di un anno e, successivamente ad un esame, si è abilitato per poter esercitare la professione. Egli interviene all’interno di diversi ambiti specifici per conoscere, migliorare e tutelare il benessere psicologico e la salute mentale di diverse tipologie di persone (bambini, adulti, anziani).

La professione stessa di Psicologo è ordinata dalla Legge n.56 del 18/02/1989 ed è disciplinata dal Codice Deontologico degli Psicologi Italiani. Alcuni ambiti professionali ricoperti dallo Psicologo sono oggi molto noti, come ad esempio il disagio mentale ed emotivo, la tutela dei minori, le varie forme di dipendenza, la selezione del personale all’interno delle aziende… Altri, come quello dell’inclusione socio-lavorativa, sono meno conosciuti.

Il bagaglio di conoscenze, competenze e capacità formali che lo Psicologo clinico acquisisce, unitamente alle molteplici esperienze non formali, come può essere quella del volontariato o del Servizio Civile, offrono la possibilità di diventare una risorsa fondamentale per tutti quei giovani che, in difficoltà e con difficoltà, si trovano in una fase delicata e di passaggio dal mondo della scuola a quello del lavoro.

Con la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità del 13/12/2006, tali diritti vengono collocati per la prima volta all’interno dei diritti umani e come tali, vengono considerati dalla collettività. La Convenzione ONU ci aiuta a guardare la disabilità da un punto di vista bio-psico-sociale (Engel, 1977) come paradigma di riferimento della classificazione internazionale della disabilità, introdotta nel 2002 con ICF (il documento sulla Classificazione Internazionale del Funzionamento). L’intervento è stato così rivolto non alla singola persona ma alla persona nel suo ambiente di vita. Sulla spinta della normativa internazionale ed europea in materia di disabilità, anche l’ordinamento italiano istituì la Legge 68/99 riguardante le Norme sul diritto al lavoro dei disabili che promuove l’inserimento e l’integrazione delle persone con disabilità nel mondo del lavoro attraverso il collocamento mirato. Questa Legge prevede il reale incontro tra capacità lavorative della persona con disabilità e le esigenze delle imprese. Lo strumento ICF ha rappresentato, dunque, una rivoluzione in tal senso poiché prendeva per la prima volta in considerazione i fattori contestuali e ambientali in cui la persona si trovava a vivere, ponendo sullo stesso piano sia gli aspetti riguardanti la loro salute, come proposto dal modello medico, sia gli aspetti di partecipazione sociale, il tutto in relazione con i fattori ambientali.

All’interno di questo ventaglio, lo Psicologo interviene con uno scopo comune: fornire una visione globale della persona e non della malattia, focalizzandosi sullo sviluppo delle sue abilità in un contesto ambientale favorevole.

 Lo Psicologo ha il mandato di mettere al centro di questi ragazzi la loro soggettività, la loro complessità in un’ottica dinamica ed aperta alla vita adulta. Deve ascoltare e dare spazio alla loro storia, tutelare il diritto a raccontarsi ed esprimersi, cercando di comprendere il modo in cui è stata ed è vissuta da loro la disabilità e cosa questo ha rappresentato nel contesto sociale e culturale nel quale ci troviamo. Questo è vero sia per il ragazzo, sia per la sua famiglia (genitori, fratelli) ai quali deve essere offerta la possibilità di essere ascoltati, compresi e accompagnati nei momenti di vita dell’intero sistema familiare, soprattutto quelli legati alla transizione e allo svincolo. Avere uno spazio di contenimento permetterà loro di parlare delle difficoltà che stanno incontrando all’interno di un setting protetto, privo di giudizio, che potrebbe avere tra gli obiettivi quello di accompagnare i familiari verso una consapevolezza di assunzioni di responsabilità. Un aspetto importante e funzionale anche secondo l’ottica di una crescita personale del giovane adulto.

Condivido il pensiero di Alain Goussot, rispetto a quanto riportato nel suo libro Il disabile adulto. Anche i disabili diventano adulti e invecchiano (2009):

La costruzione del progetto di vita non può ridursi né a compilare delle schede, né a diagnosticare dall’esterno, né a dettare all’altro quello che è bene per lui o per lei. Il progetto di vita esiste se vi è effettivamente vita; se vi è contatto vitale tra la persona disabile e gli operatori che lo seguono, se vi è contatto vitale tra la persona disabile e il suo contesto di vita; se la persona disabile stessa è trattata come soggetto della propria storia e non come oggetto di una storia scritta da esperti.

L’importanza di offrire un sostegno psicologico alla persona con disabilità permetterà di accettare la propria disabilità e trovare dentro sé stessi il proprio talento, ovvero tutti quegli aspetti legati alla propria disabilità che potranno così iniziare ad essere considerati come dei punti di forza e non delle limitazioni. Essere affiancati da uno Psicologo permetterà al giovane adulto di sperimentare e lavorare su di sé, crescere e sviluppare un’autonomia personale.

Per concludere, lo Psicologo ha un importante ruolo sia nel lavoro di rete con gli altri servizi territoriali, sia nel campo della disabilità, oltre che nella cura e nel prendersi cura: aspetto fondamentale, se non indispensabile, per provare ad ottenere dei risultati quanto meno soddisfacenti in termini di integrazione sociale e lavorativa del giovane adulto e consapevolezza delle proprie potenzialità.

 

Le variazioni degli stati cognitivi ed affettivi nel Disturbo Disforico Premestruale

Il Disturbo Disforico Premestruale (Premenstrual Dysphoric Disorder; PMDD) determina un distress clinicamente significativo e una marcata compromissione del funzionamento psicosociale (Lanza di Scalea & Pearlstein, 2019).

 

Il Disturbo Disforico Premestruale (PMDD) è definito dalla presenza di almeno cinque sintomi durante la tarda fase luteale del ciclo mestruale, di cui almeno uno dei seguenti quattro sintomi affettivi: labilità emotiva, irritabilità, umore depresso o ansia (American Psychiatric Association, 2013).

Alla luce dell’elevata comorbilità e della sovrapposizione dei sintomi del Disturbo Disforico Premestruale con la depressione maggiore e i disturbi d’ansia, è stato ipotizzato che vi fossero dei fattori di vulnerabilità condivisi. Uno di questi potrebbe essere la ruminazione, definita come la tendenza ad analizzare passivamente e ripetutamente i propri problemi e le proprie preoccupazioni, senza intraprendere azioni (Nolen-Hoeksema & Watkins, 2011). Ricerche precedenti hanno mostrato che l’impiego di un pensiero ruminativo, in risposta all’umore negativo, rappresenta un fattore di rischio stabile per i disturbi mentali, specialmente per la depressione (Lyubomirsky et al., 2015).

Seguendo una prospettiva transdiagnostica, dunque, anche i processi cognitivi disadattivi come la ruminazione potrebbero giocare un ruolo nell’eziologia e nel mantenimento del Disturbo Disforico Premestruale, ma ciò non è ancora stato verificato.

Precedenti studi hanno trovato che le donne con disturbi premestruali tendono a utilizzare strategie di coping disadattive come la ruminazione (Craner et al., 2014), l’impulsività comportamentale (Petersen et al., 2016), la mancanza di accettazione delle risposte emotive (Reuveni et al., 2016) e la catastrofizzazione (Eggert et al., 2016).

Uno studio di Craner et al. (2015) ha mostrato che in risposta al decremento del tono dell’umore (Negative Affect; NA), indotto sperimentalmente, le donne con disturbi premestruali reagivano mostrando una maggior attenzione su di sé e alti livelli di ruminazione, rispetto ai controlli. Gli autori hanno ipotizzato che la tendenza ad utilizzare uno stile di coping focalizzato sulle emozioni non faccia altro che aumentare i sintomi emotivi. In accordo con quanto appena esposto, un recente studio ha mostrato come l’utilizzo di strategie di coping attivo fosse associato a un sollievo dei sintomi nel Disturbo Disforico Premestruale (Weise et al., 2019).

Attualmente, però, non sono state indagate le relazioni, momento per momento, tra le cognizioni e l’umore durante la vita quotidiana nelle donne con Disturbo Disforico Premestruale. Al fine di indagare tali fenomeni, l’inquadramento ecologico istantaneo (Ecological Momentary Assessment; EMA) potrebbe essere il metodo più appropriato. Difatti, le valutazioni in tempo reale consentirebbero di indagare la variabilità dell’umore e delle cognizioni momentanee e la loro relazione temporale (Trull & Ebner- Priemer, 2013).

È bene sottolineare che esiste una crescente letteratura sull’EMA che esamina gli effetti dei processi cognitivi momentanei sull’umore e viceversa, in altre popolazioni cliniche. Per esempio, la ruminazione momentanea ha predetto i successivi livelli di NA (Negative Affect) in campioni clinici (Kircanski et al., 2018). La NA è stata a sua volta seguita da un aumento dei livelli di ruminazione, suggerendo una relazione reciproca tra queste due variabili. Inoltre, gli effetti dei processi cognitivi momentanei sulle emozioni positive sono stati documentati nel contesto della mindfulness. Un recente studio di Timm e colleghi (2018) ha dimostrato che il training di mindfulness ha portato a un miglioramento dell’umore positivo (Positive Affect; PA) e dell’accettazione di sé in pazienti depressi.

A seguito di queste scoperte, ruminazione e NA, così come auto-accettazione e PA, sembrano essere strettamente legati nella vita quotidiana. Data la forte componente affettiva presente nel Disturbo Disforico Premestruale, appare rilevante indagare l’influenza dei processi cognitivi sull’umore. Basandosi sulla letteratura esistente, Beddig e colleghi (2020) hanno reclutato 122 donne, proponendosi di esplorare le variazioni degli stati affettivi e cognitivi, legate al ciclo mestruale, durante la vita quotidiana e di esaminare le associazioni temporali tra questi stati in donne con PMDD e controlli sani.

I dati EMA hanno mostrato che le donne con PMDD manifestano un considerevole deterioramento dell’umore durante la fase luteale del ciclo mestruale. Inoltre, esse hanno al contempo riportato i più alti livelli di ruminazione e i più bassi livelli di auto-accettazione durante la suddetta fase mestruale. Al contrario, i controlli non hanno mostrato alcuna variazione ciclo-dipendente né a livello dell’umore e né delle cognizioni.

Inoltre, si è visto come nella tarda fase luteale le donne con Disturbo Disforico Premestruale hanno reagito agli alti livelli di ruminazione con un aumento dei livelli di NA. Pertanto, la ruminazione sembra avere un particolare effetto sull’umore verso la fine del ciclo in queste donne. Concentrandosi sulle cognizioni di stato, il presente studio ha mostrato che, in risposta a stati negativi, le donne con Disturbo Disforico Premestruale tendono a ruminare più frequentemente dei controlli sani.

Inoltre, i livelli momentanei di bassa auto-accettazione hanno portato a una maggiore diminuzione della PA (Positive Affect) e viceversa nelle donne con Disturbo Disforico Premestruale rispetto ai controlli. Queste osservazioni indicano inoltre una maggiore sensibilità delle donne affette da Disturbo Disforico Premestruale agli effetti dei pensieri negativi o della mancanza di pensieri positivi di auto-accettazione.

In generale, i risultati rafforzano le ricerche precedenti che evidenziano il ruolo dei fattori psicologici nei disturbi premestruali (Craner, Sigmon, & Young, 2016; Weise et al., 2019).

I risultati dello studio potrebbero essere rilevanti per le prospettive terapeutiche del Disturbo Disforico Premestruale. Difatti, lo studio ha rivelato che le donne con PMDD sembrano essere più inclini a utilizzare la ruminazione come una strategia di regolazione emotiva, durante le fasi del ciclo ma, al contempo, alti livelli di ruminazione sembrano innescare il deterioramento dell’umore, in particolare nella tarda fase luteale. Va da sé che la ruminazione potrebbe rappresentare un potenziale obiettivo terapeutico per ridurre il peso del PMDD.

A tal proposito, gli interventi basati sulla mindfulness sembrano essere promettenti (Petersen et al., 2016). Difatti, studi effettuati su differenti campioni clinici (Timm et al., 2018) hanno mostrato che il training mindfulness riduceva i pensieri negativi e migliorava quelli positivi, nonché l’umore.

In parallelo, uno studio ha esaminato gli effetti della terapia cognitivo-comportamentale online per il Disturbo Disforico Premestruale ed ha dimostrato che l’utilizzo di strategie di coping attivo, nella gestione dei sintomi premestruali, mostrava migliori risultati, sottolineando così l’importanza di intervenire sulle suddette strategie nel trattamento delle donne affette da Disturbo Disforico Premestruale (Weise et al., 2019), affinché la qualità di vita di queste pazienti possa essere migliorata.

 

Il trasloco felice. Manuale di sopravvivenza (2021) di Ludovica Amat – Recensione del libro

Ludovica Amat, con alle spalle tredici traslochi di casa e quindici di ufficio, ci descrive nel libro Il trasloco felice l’approccio che ha sviluppato e che le permette di attraversare questa esperienza senza esserne sopraffatta, bensì sentendosi alla fine dotata di maggiori strumenti.

 

Eppure, se la vita porta a spostarsi, perché non
dovrei cercare senso e bellezza anche nella fatica di quel
viaggio che mi tocca in sorte? Io li ho trovati.

 Il trasloco è uno degli eventi stressanti a cui si va più frequentemente incontro per molteplici ragioni. Cambiare casa e, in particolare, cambiare città implica uno sforzo di adattamento, che può portare a senso di affaticamento, ansia e disorientamento. Tuttavia ogni cambiamento porta in sé anche la possibilità di rinnovamento e di dare il via a una nuova fase della propria vita.

Come poter gestire lo stress da trasloco e sfruttare al meglio le potenzialità di questo evento?

Ludovica Amat, con alle spalle tredici traslochi di casa e quindici di ufficio, ci descrive in questo libro l’approccio che ha sviluppato e che le permette di attraversare questa esperienza senza esserne sopraffatta, bensì sentendosi alla fine dotata di maggiori strumenti.

Durante gli ultimi, ho capito una cosa importante: se proprio non sei felice di traslocare, in quel luogo, in quella casa, in quel quartiere o per quel motivo, puoi fare in modo che sia il trasloco in sé a essere un’esperienza felice.

Attraverso la sua esperienza e la testimonianza di altre persone che ci raccontano la storia dei loro traslochi, Ludovica Amat ci offre il suo metodo del trasloco felice, ossia una serie di utili indicazioni e strategie per fare in modo che non venga solo percepito come uno spostamento da un luogo ad un altro, ma come un vero viaggio anche all’interno di sé stessi. Le istruzioni offerte non hanno la pretesa di essere regole rigide da seguire, ma l’intento è quello di fornire spunti per costruire un modo condivisibile di guardare al trasloco.

Come prima cosa ho imparato che tutto comincia da me: anziché farmi schiacciare dall’idea di un trasloco-gigante, devo abbracciarlo, anzi, arrampicarmi sulle sue spalle, per dirigerlo.

I passi da seguire e gli strumenti di cui dotarsi vengono descritti in ordine cronologico nel rispetto dei tempi idonei ad ogni fase e, oltre a consigli su come organizzare al meglio tutti gli aspetti pratici legati al trasloco, ampio spazio viene dato anche a suggerimenti su come affrontare le implicazioni psicologiche di questo cambiamento, in particolare su come potersi separare con affetto e gratitudine dalla vecchia casa e poter abbracciare il nuovo ambiente che ci attende.

 Non a caso la condivisione del metodo inizia con un “esercizio-gioco che rafforza l’animo di fronte al trasloco”, capace di dare la giusta dose di leggerezza e coinvolgimento. La prima tra le azioni preliminari di ogni trasloco è, infatti, quella di discernimento e scelta, che implica il guardare con orgoglio alla strada percorsa e con fiducia al nuovo che si dispiega davanti, scegliendo quali oggetti portare con sé (“i compagni di viaggio”), quali lasciare andare perché hanno fatto il loro tempo nel nostro cuore (preferibilmente potendoli regalare) e quali zavorre buttare. La scelta dei “compagni di viaggio” diventa quindi come una caccia al tesoro, alla scoperta/ricerca dei “testimoni della nostra identità”, che possano essere degli alleati in questa fase di passaggio, capace di attivare creatività artistica e organizzativa “dimostrando che, pur con un altro vestito, si resta noi stessi, come prima, spesso più di prima”.

Per chi invece non ha possibilità di spostarsi, ma vuole godere dei benefici che un tale cambiamento comporta, esiste anche “il trasloco del colibrì”, che consiste nel variare la disposizione di mobili e/o la destinazione di stanze, dando un nuovo aspetto al proprio ambiente di vita.

Il trasloco felice. Manuale di sopravvivenza, oltre ad essere un utile e pratico vademecum, è anche un libro che parla del trasloco come evento umano in tutte le sue sfaccettature: un cambiamento che “è un po’ come nascere”.

 

Il pregiudizio di conferma

Ci illudiamo di essere persone che utilizzano sempre la ragione, ma la realtà dei fatti è che molti pregiudizi guidano, spesso inconsapevolmente, le nostre azioni; uno di questi è sicuramente il “pregiudizio di conferma” (in inglese “confirmation bias”).

 

Definizione

Ma cos’è questo “pregiudizio di conferma”?

In generale, possiamo definire come tale la “tendenza a cercare evidenze che confermano le nostre precedenti conoscenze e credenze, piuttosto che cercare prove che negano tali conoscenze e credenze” (Martin Jones, Robert Sugden, 2001; Julie A. Nelson, 2014; Jonathan D. Nelson, Craig R.M. McKenzie).

Ciò significa che tendiamo più a cercare elementi che convalidano quanto sappiamo, piuttosto che a cercare prove che negano le nostre cognizioni; questo sia nella fase di ricerca delle evidenze, che nella fase di valutazione delle medesime.

Ad esempio, se io sono convinto che una certa dieta dimagrante sia efficace, nel momento in cui andrò a cercare maggiori informazioni, tenderò a selezionare solo gli elementi confermativi della mia opinione; però, se per ipotesi vengo a contatto con un qualcosa che va contro la validità di quella dieta (ad esempio il parere di un esperto), di sicuro tenderò a minimizzare tale evidenza.

I perché del pregiudizio di conferma

Ma perché la nostra mente ci porta ad agire in questo modo? Siamo così irrazionali da non riuscire a capire i limiti della nostra conoscenza?

Innanzitutto, è da dire che la nostra mente ci porta maggiormente a ricordare quello che è coerente con le nostre conoscenze precedenti (Jon S. Byrd, 2006).

In ogni caso, un meccanismo del genere non è sempre negativo. Ciò in quanto se io ho delle conoscenze corrette (magari su un qualcosa di oggettivo), è giusto che io difenda il mio punto di vista.

Peraltro, può anche accadere che io abbia dei punti di vista totalmente irrazionali od oggettivamente non sostenibili, ed insista nel sostenere le mie posizioni, anche contro ogni prova. In questo caso, quindi, il pregiudizio di conferma diventa una patologia e non un semplice “meccanismo di difesa” della nostra mente (Maria Lewicka, 1998).

La (non) correlazione con l’intelligenza

Ma possiamo dire che chi è guidato da questo pregiudizio sia una persona stupida o poco ragionevole?

I vari studi effettuati hanno messo in luce come il pregiudizio di conferma non abbia nulla a che fare con l’intelligenza (Uwe Peters, 2020). Se quindi ci sorprendiamo a ragionare con questo pregiudizio non siamo irrazionali, ma semplicemente siamo poco attenti agli inganni della nostra mente (ma il fatto di diventarne consapevoli è già un passo avanti!)

Possibili “lati buoni” del pregiudizio

Quindi possiamo dire che il pregiudizio di conferma è sempre negativo? La domanda non ha una risposta valida per ogni situazione.

Se pensiamo ad alcune pagine della storia dell’umanità possiamo tranquillamente affermare che esso sia assolutamente deleterio e pericoloso.

Si pensi ad esempio alla caccia alle streghe che ebbe luogo nell’Europa occidentale tra il 15° ed il 17° secolo (Raymond Nickerson, 1998). Durante quel periodo furono uccise migliaia di presunte streghe, in generale a seguito di processi sommari.

Nei predetti processi, il pregiudizio di conferma si manifestava nel senso che qualunque risultanza veniva interpretata come confermativa della natura di strega dell’accusata.

Altre volte, invece, il pregiudizio di conferma ha addirittura portato a progressi nella conoscenza dell’umanità. Vi era quindi uno scienziato con la “testa dura” che, sfidando i paradigmi dell’epoca, dimostrava qualcosa di totalmente nuovo ed oggettivo (Raymond Nickerson, 1998).

Si pensi a Galileo Galilei, il quali aderì al modello eliocentrico di Copernico con la Terra che gira intorno al Sole, dimostrando il modello medesimo e gettando le basi del metodo scientifico.

Talvolta il pregiudizio di conferma può portare anche a conseguenze positive, come per esempio nel caso di un professore che creda (falsamente) che un suo allievo sia particolarmente dotato e quindi lo incoraggia in continuazione. Tali continui incoraggiamenti possono quindi portare ad un effettivo miglioramento dello studente nella specifica materia (Stephanie Madon, Lee Jussim, Jacquelynne S. Eccles, 1997)

Il pregiudizio di conferma nelle decisioni di gruppo

In linea generale, i vari studi condotti hanno visto che “uscire” dal pregiudizio di conferma è veramente difficile (Uwe Peters, 2020; Jon S. Byrd, 2006).

Quanto detto innanzitutto per i meccanismi della nostra mente.

Ulteriori situazioni in cui le persone possono essere “intrappolate” (senza rendersene conto) in propri pregiudizi, è quando frequentano persone con le loro stesse credenze ed opinioni (Uwe Peters, 2020; Jon S. Byrd, 2006). In questo modo non c’è confronto sulle opinioni dei singoli, in quanto specifiche credenze e valori sono ampiamente condivisi.

Ma cosa accade nel momento in cui un gruppo di persone si trova a condividere opinioni diverse e contrastanti? È stato visto che, se vi è un vero confronto e vi è la (vera) volontà comune di “raggiungere la verità”, il risultato sarà sicuramente positivo (Hugo Mercier, Dan Sperber, 2011).

Rimedi possibili?

Ma come possiamo rimediare a queste nostre insufficienze? Come possiamo ragionare in maniera efficace ed indipendente e fare in modo che il pregiudizio di conferma non ci condizioni? (Johan E. Kortelling, Anne-Marie Brouwer, Alexander Toet, 2018).

Ovviamente non c’è una formula magica.

Quando stiamo per prendere decisioni importanti dobbiamo chiederci: perché sto pensando di agire in questo modo? Sto valutando sulla base di elementi oggettivi o sto valutando tutto in base alle mie credenze? E quanto sono corrette le mie credenze?

Il cammino verso l’autocritica è sicuramente lungo, ma come diceva il filosofo cinese Lao Tzu, “Un viaggio di mille miglia comincia sempre con il primo passo”.

 

Il ritiro sociale negli adolescenti (2019) a cura di Matteo Lancini – Recensione del libro

Il libro Il ritiro sociale negli adolescenti ci propone una lettura in chiave psicodinamica dell’utilizzo in età adolescenziale della rete, suggerendoci come riconoscere ed affrontare sintomi di malessere o disagio.

 

Grazie alla loro esperienza di oltre un decennio in ricerca, formazione e clinica in ambito adolescenziale, gli autori ci forniscono una prospettiva sui più recenti – noti e meno noti – fenomeni cui vanno incontro i giovani in rete: cyberbullismo, sexting, gaming, relazioni virtuali, cybersuicidio e ritiro sociale. Senza però mettere da parte gli usi adattivi di Internet e le funzioni e i bisogni cui può rispondere efficacemente, ci propongono approfondimenti e spunti per intercettare eventuali criticità e ci suggeriscono possibili linee di intervento.

Lancini e colleghi affiancano il lavoro di ricerca a quello clinico presso l’Istituto Minotauro di Milano, dove hanno sviluppato modelli di intervento, in parte esposti in questo libro, in particolare, linee guida per il trattamento di ragazzi che manifestano un ritiro sociale.

La solitudine di una generazione iperconnessa

Con questa frase gli autori ci invitano ad una prima riflessione. Siamo sicuri che essere perennemente connessi voglia dire essere veramente con gli altri?

Social network, chat, servizi di streaming, videogiochi e tanti altri: gli ambienti virtuali sono tantissimi ed in tutti si può avere un proprio spazio personale così come la condivisione di esperienze. Pensiamo per esempio ad Amazon Party che consente di vedere una serie tv o un film insieme ad altri nello stesso momento, ognuno dalla propria casa.

Siamo veramente con loro o siamo soli con qualcun altro?

La parola iperconnessione porta alla mente anche la quantità. Ragionare solo contando il numero di ore online poteva aver senso fino a qualche anno fa, quando un parametro quantitativo – il numero di ore appunto – era già un buon indizio per definire patologico l’uso di Internet.

Adesso che essere connessi è parte integrante delle nostre vite e – soprattutto a seguito della pandemia – il processo di digitalizzazione ha subito una notevole accelerazione, la questione è definitivamente passata dal quanto al come, dalla quantità alla qualità.

Come siamo online? E, soprattutto, come sono online gli adolescenti? Che funzione hanno le esperienze virtuali per loro? Come sostengono la realizzazione dei compiti di sviluppo? Che significato hanno?

Adolescenti in rete, non solo ritiro sociale

Da circa quindici anni, con attività di formazione, ricerca e pratica clinica, l’équipe dell’Istituto Minotauro si interessa di adolescenti, Internet e dell’impatto che le nuove tecnologie possono avere sullo sviluppo.

Il libro di Lancini e del gruppo di lavoro fa tesoro di questa esperienza e ci porta attraverso quattro sezioni ad approfondire la definizione clinica di disturbo da dipendenza da Internet, a conoscere i principali ambienti virtuali, le caratteristiche e le particolarità del ritiro sociale e, infine, ci porta a riflettere su cosa possiamo fare per prevenire ed agire in queste circostanze.

La prima parte si apre con la descrizione più recente dell’Internet addiction disorder in modo da chiarire al lettore cosa a livello nosografico distingue l’utilizzo patologico da quello che non lo è; a seguire, gli autori illustrano una carrellata dei principali ambienti della vita virtuale, dai videogiochi ai social network. Il testo è ricco di dati aggiornati con le più recenti statistiche riguardo tutti i fenomeni trattati.

La seconda sezione del libro approfondisce il significato evolutivo della sovraesposizione digitale per lo sviluppo identitario, con particolare attenzione a fenomeni quali sexting, cyberbullismo e selfie death.

Il ritiro sociale occupa la terza parte del libro. Qui viene presentato il modello di inquadramento e trattamento del ritiro sociale in adolescenza, corroborato da casi clinici come esemplificazione della pratica clinica.

Infine, l’ultima parte chiude il libro con spunti di riflessione sulla responsabilità delle figure adulte nel riconoscere e prendere in carico situazioni di solitudini iperconnesse: l’invito è quello di essere più consapevoli di come l’educazione e la formazione dei più piccoli passi anche dagli adulti a loro più vicini, in famiglia come a scuola, adulti che fungono da modelli di identificazione anche per quanto riguarda l’utilizzo dei mezzi digitali.

D’altra parte, come non si può attribuire solo agli adulti di riferimento la funzione educativa, così non si può delegare solo ad Internet ed alle tecnologie la formazione: si tratta di molteplici elementi che concorrono insieme nel co-creare il contesto emotivo ed educativo.

In questa sezione sono riportati anche alcuni interventi realizzati dal gruppo di lavoro dell’Istituto Minotauro negli ultimi anni e vengono mostrate alcune esperienze in ambito scolastico.

Una responsabilità condivisa

Non si tratta quindi di demonizzare un singolo agente o attività; l’obiettivo è incrementare la consapevolezza delle nuove opportunità che offre la tecnologia, individuare e valorizzare le risorse, ridurre i rischi per aiutare i più giovani nell’uso adattivo degli ambienti virtuali.

Cambiano le epoche e i mezzi a disposizione ma non mutano i compiti evolutivi che ogni adolescente si trova a dover affrontare: sta agli adulti accompagnarli nel percorso di crescita. Spetta alle figure adulte di riferimento guidare i giovani nel processo di rielaborazione delle esperienze virtuali, individuare segnali di crisi o dipendenza, dare un senso coerente ai loro vissuti.

Il legame tra genetica, attaccamento, relazioni in età adulta e comportamento sociale online – Report dall’European Conference on Digital Psychology – ECDP 2021

Il Dott. Bonassi e il suo gruppo di ricerca hanno analizzato l’interazione tra fattori genetici e fattori ambientali sullo sviluppo sociale, pensando a un modello più complesso, aggiungendo lo studio dei comportamenti sociali online prendendo in considerazione i social network.

 

Sappiamo quanto l’intreccio tra genetica e ambiente abbia un ruolo fondamentale nel determinare il nostro comportamento. Geni, cure genitoriali, esperienze di vita più o meno precoci ci possono dire molto su come agiamo verso noi stessi e gli altri. Ma in un mondo in continua evoluzione, con i rapporti che si trasformano a ritmi rapidissimi, parallelamente all’avvento dei nuovi media e dei social network in particolare, quale ruolo ricoprirà l’interazione genitica-ambiente nel determinare i rapporti interpersonali?

Durante la prima conferenza europea di Psicologia Digitale, il dott. Andrea Bonassi (Fig. 1) ha esposto un’interessante ricerca sul tema, in particolare su come la predisposizione genetica, le cure precoci e relazioni in età adulta possano essere associate al comportamento sociale online, nello specifico su Instagram.

Social network effetti dell interazione tra fattori genetici e attaccamento Fig 1

Fig. 1: Dott. Andrea Bonassi

Il relatore inizia il suo intervento ricordando ai presenti la centralità dei polimorfismi a singolo nucleotide dei geni recettori dell’Ossitocina e della Serotonina nei processi di socializzazione, per poi illustrare le più importanti ricerche sul rapporto geni-cure genitoriali e conseguenze sul comportamento sociale, non limitandosi soltanto alle cure genitoriali ma estendendo la disamina delle precedenti ricerche anche sugli effetti dell’attaccamento adulto sulla socialità. Eppure, come anticipato, il comportamento sociale si sta trasformando e le interazioni online si fanno sempre più frequenti nella vita di tutti noi; la genetica e l’ambiente che ruolo giocano in tutto ciò?

Il Dott. Bonassi e il suo gruppo di ricerca hanno così analizzato l’interazione fattori genetici e fattori ambientali (nello specifico legami genitoriali e attaccamento adulto) sullo sviluppo sociale, pensando a un modello più complesso, aggiungendo lo studio dei comportamenti sociali online. Quindi l’interazione tra i fattori genetici e il legame genitoriale potrebbe avere un impatto sul comportamento sociale adulto della persona sia online che offline.

Le misure utilizzate per indagare la qualità dell’attaccamento genitore-figlio e dell’attaccamento adulto sono state rispettivamente il Parental Bonding Instrument (che valuta la cura materna, l’iperprotezione materna, la cura paterna e l’iperprotezione paterna) e il Questionario sullo stile di attaccamento (che valuta i livelli di fiducia, disagio per la vicinanza, relazioni secondarie, bisogno di approvazione, preoccupazione per le relazioni). I fattori genetici presi in esame sono stati i polimorfismi all’interno delle regioni rs2254298 (omozigoti G / G, portatori A), rs53576 (omozigoti A / A, portatori G) del gene del recettore dell’ossitocina e della regione rs25531 (omozigoti T / T , portatore C) del gene trasportatore della serotonina. Secondo l’ipotesi della sensibilità, una componente genetica può essere un fattore di rischio o di protezione del disagio sociale nelle relazioni, come mostrato dall’immagine:

Per studiare il comportamento sociale online i ricercatori si sono concentrati sul numero di following, sul numero di post pubblicati e sul numero di followers. È stato inoltre misurato l’indice di desiderabilità sociale (DS), dato dal rapporto tra follower e following, che fornisce un’indicazione della rete dei contatti su IG e la presenza di una maggiore ricerca di approvazione sociale.

I ricercatori hanno trovato un’interazione gene-ambiente per rs2254298 nel numero di post di Instagram. In linea con le aspettative iniziali, i partecipanti con un fattore di rischio genetico (portatori A) e un passato di scarsa cura paterna hanno prodotto meno post su Instagram rispetto a quelli senza questo fattore di rischio (genotipo G / G). Tali comportamenti online sono considerati meno adattivi in quanto mossi dall’evitamento del giudizio degli altri o dallo scarso interesse ad autopromuoversi o a ricercare legami sociali.

Anche per l’indice di Desiderabilità Sociale è emersa un’interazione significativa tra iperprotezione materna e rs2254298. È interessante notare che lo stesso modello è emerso tra l’assistenza materna e rs25531 sull’indice di Desiderabilità Sociale. In particolare, gli utenti genotipicamente più sensibili alle influenze ambientali hanno mostrato una tendenza in aumento nella DS se in infanzia hanno sperimentato un’assistenza materna positiva. Al contrario, è stato osservato un trend decrescente dello stesso indice per coloro che hanno ricordato una relazione negativa con la madre.

Ecco che si aggiunge così un’ulteriore domanda di ricerca: esiste un’interazione gene ambiente nel caso delle relazioni coi pari in età adulta e che effetto avrebbe sul comportamento online? L’ipotesi di partenza è che gli utenti con rischio genetico, ma che hanno vissuto relazioni positive con i pari potrebbero manifestare una maggiore attività sociale su IG. Per quanto riguarda l’ossitocina, i dati preliminari farebbero pensare a una leggera influenza di questa sull’indice di DS, mentre per quanto riguarda la serotonina, si è visto che gli omozigoti T / T che hanno segnalato un alto livello di fiducia nei confronti dei pari in età adulta, avrebbero un numero maggiore di followings su Instagram rispetto ai portatori C.

Sebbene la ricerca sul tema continui, si può da questi dati trarre delle prime conclusioni interessanti: una relazione positiva con i genitori, così come un alto livello di fiducia nei confronti dei coetanei, potrebbe influire sul modo in cui gli utenti di Instagram geneticamente vulnerabili pubblicano, cercano altri utenti e tentano di aumentare la loro desiderabilità sociale.

 

 

CLASH: il modello che spiega perché 10 gradi fa eravamo più tranquilli e pacifici

Il team di scienziati di Van Lange ha concepito il modello CLimate, Aggression, and Self-control in Humans (CLASH), con il quale affermano che l’aggressività e la violenza aumentano man mano che i climi diventano più caldi e che le variazioni stagionali si riducono, influenzando l’orientamento temporale e l’autocontrollo degli individui.

 

 Nell’ultimo decennio, il clima è stato riconosciuto sempre più come un importante fattore che plasma il comportamento umano (Carleton & Hsiang, 2016). Proprio per questo motivo, la relazione empirica tra clima e violenza è stata dimostrata in molti contesti: dalla violenza domestica in India e in Australia, ad aggressioni e omicidi negli Stati Uniti e in Tanzania, alla violenza etnica in Europa, fino ai conflitti civili diffusi in tutto il mondo (Sekhri & Storeygard, 2013; Auliciems & DiBartolo, 1995; Ranson, 2014; Miguel, 2005; Andreson et al., 2013; Bergholt & Lujala, 2012). Osservando questi fenomeni, è possibile affermare che la violenza aumenti man mano che il clima diventa più caldo (Burke et al., 2015); è importante sottolineare che gli effetti sulle brutalità siano maggiormente causati dalla temperatura piuttosto che da altre variabili climatiche, e che siano più forti per i conflitti tra gruppi che per i conflitti interpersonali.

Proprio sulla base di tali osservazioni, il team di scienziati di Van Lange ha concepito il modello CLimate, Aggression, and Self-control in Humans (CLASH; ita. Clima, Aggressione, e Autocontrollo negli Umani), il quale afferma che l’aggressività e la violenza aumentano man mano che i climi, per l’appunto, diventano più caldi e che le variazioni stagionali si riducono, influenzando l’orientamento temporale e l’autocontrollo degli individui (Van Lange, Rinderu & Bushman, 2017). Nell’articolo di Rinderu, Bushman e Van Lange (2017) sull’argomento vengono esaminate le prove empiriche emergenti a sostegno di tale approccio.

La maggior parte delle teorie psicologiche si concentra sul clima caldo come stimolo principalmente avversivo che innesca l’aggressività (Anderson & Bushman, 2002). Il calore è una caratteristica del clima che è rimasta stagionalmente stabile e prevedibile per migliaia di anni, fornendo una panoramica annuale di ciò che ci si può aspettare, meteorologicamente parlando, in ciascuna stagione. È stato dimostrato che le caratteristiche del clima lo rendono in grado di incidere psicologicamente e sociologicamente sugli individui nel lungo periodo, e che le variabili climatiche chiave che influenzano l’aggressività e la violenza sono il calore medio e, soprattutto, la variazione stagionale del calore (Van De Vliert, 2009).

Ad ogni clima corrisponde una determinata cultura, in questo senso, si può affermare che un particolare clima possa creare una specifica cultura. Un presupposto chiave di CLASH consiste nel fatto che le persone a latitudini più elevate, vicine alle calotte polari, si adattano a temperature più fredde, e soprattutto a maggiori variazioni stagionali, sviluppando costumi culturali caratterizzati da un maggiore orientamento al futuro e da un maggiore autocontrollo. Il modello CLASH sottolinea inoltre che queste ultime due variabili sono importanti per inibire l’aggressività e la violenza, e che sono quindi possibili mediatori dell’aggressività data da sbalzi di temperatura. Molte prove, infatti, mostrano che atti violenti hanno inizio quando cessa l’autocontrollo, e che la mancanza di autocontrollo sia uno dei più forti correlati noti del crimine violento (Evans et al., 1997; Gottfredson & Hirschi, 1990). Allo stesso modo, un’abbondanza di ricerche ha dimostrato le relazioni tra un maggiore orientamento al futuro e minori aggressività e violenza (Zimbardo & Boyd, 1999).

Proprio per questo, CLASH traccia un percorso concettuale segnato dalla latitudine che afferma l’influenza dei climi sulle conseguenze dell’aggressività, evidenziando come orientamento al futuro ed autocontrollo possano mediare tale relazione.

 Quali sono le prove empiriche a sostegno di questo modello? In primo luogo, i risultati della ricerca non solo si esprimono a favore di CLASH, ma anche a favore delle estensioni del modello ad altre variabili socioeconomiche, come la ricchezza. Le ricerche mostrano che la stabilità termica, in particolare il calore, e la povertà economica sono correlate positivamente all’aggressività della popolazione. Questi i risultati validi in 124 paesi dell’emisfero settentrionale ed in 43 paesi dell’emisfero meridionale che suggeriscono sia la generalizzabilità dei risultati tra gli emisferi, sia l’importanza dell’equatore come divisione biogeografica (Van De Vliert & Dann, 2017).

In secondo luogo, la ricerca mostra che la latitudine di uno stato prevede tassi di omicidi più elevati in paesi con una maggiore vicinanza all’equatore; tuttavia, la relazione non regge nell’emisfero australe (Fuentes et al., 2017). Sono necessarie ulteriori ricerche per vedere perché CLASH sarebbe vero solo per alcune parti del mondo, poiché esistono anche alcune prove che il modello non sia supportato in Russia (Prudko & Rodina, 2017). È possibile attribuire il motivo di tale incongruenza alla densità di popolazione, poiché la grande maggioranza della popolazione mondiale vive nell’emisfero settentrionale. Infatti, gli studi mostrano che livelli più elevati di densità ed affollamento sono stati associati a livelli più elevati di aggressività (Lawrence et al., 2004).

Terzo, CLASH ha ricevuto un certo sostegno dalla ricerca sul bullismo, definito come

comportamento aggressivo finalizzato a un obiettivo che danneggia un altro individuo nel contesto di uno squilibrio di potere.

In 40 paesi europei e nordamericani, infatti, la ricerca mostra che la prevalenza del bullismo tra gli adolescenti aumenta con la maggiore vicinanza all’equatore (Volk, 2017).

Nel complesso, le prove riportate forniscono un supporto preliminare per CLASH, che dovrebbe essere ulteriormente studiato e posto come presupposto per comprendere i tassi di violenza e crimine mondiali. Comprendere le radici dell’aggressività e della violenza è uno dei passi più importanti per ridurre conflitti e ostilità, e per promuovere la fiducia e la cooperazione in un mondo che sta diventando sempre più piccolo e sempre più caldo.

 

Riflessioni sulla Didattica a Distanza (DAD): intervista alle esperte – VIDEO

L’acronimo DAD, Didattica a Distanza, è ormai diventato un termine d’uso quotidiano, ma sono davvero ben noti i risvolti psicologici di questa profonda trasformazione?

 

Uno dei settori più colpiti dal diffondersi del Coronavirus e dalla conseguente attuazione dello stato d’emergenza è stato senza alcun dubbio quello scolastico. Nel corso degli ultimi due anni, infatti, gli insegnanti, il personale scolastico, i genitori ma soprattutto gli alunni hanno vissuto ed anche “subìto” tutto ciò che lo spostamento delle attività didattiche in modalità online ha comportato. L’acronimo DAD, Didattica a Distanza, è ormai diventato un termine d’uso quotidiano, ma sono davvero ben noti i risvolti psicologici di questa profonda trasformazione? A poche settimane dalla conclusione dell’anno scolastico, sappiamo realmente cosa ha significato per i più piccoli questo cambiamento? In che modo bambini e ragazzi ne hanno risentito e/o si sono adattati a questa inaspettata realtà?

Per riflettere sulle implicazioni della DAD, abbiamo intervistato tre esperte in Psicoterapia dell’Età Evolutiva:

Dopo aver pubblicato, nei giorni precedenti, la prima parte dell’intervista sulle problematiche della DAD, pubblichiamo oggi, per i nostri lettori, il video dell’intervista su alcune riflessioni derivanti dalla Didattica a Distanza.

 

DIDATTICA A DISTANZA (DAD) – ALCUNE RIFLESSIONI

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Il danno neurologico e psichiatrico da CoViD-19; uno studio italiano mostra il percorso del virus dal polmone al cervello attraverso il nervo vago

Uno studio italiano ha dimostrato la presenza del virus Sars-CoV-2 nel nervo vago e questo potrebbe spiegare il percorso tra polmone e cervello (Bulfamante G. 2021).

Introduzione

L’evoluzione della pandemia da CoViD-19 ha mostrato che oltre il 37% dei pazienti colpiti da Coronavirus anche dopo la guarigione manifesta reazioni neurologiche come stato confusionale, vertigini, mal di testa, perdita dell’olfatto e del gusto. C’è addirittura chi ha conseguenze più complesse come afasia e perdita della vista (Istituto Auxologico Italiano 2021).

Oltre ai disturbi neurologici, nei pazienti con la CoViD-19 sono stati riscontrati anche disturbi psichiatrici. Questi ultimi si possono presentare durante le diverse fasi della malattia.

Insonnia (41,9%), ansia (35,7%), disturbi della memoria (34,1%), depressione (32,6%) e stato confusionale (27,9%) sono stati osservati durante lo stato acuto dell’infezione. Durante la remissione, invece, sono stati riscontrati disturbi del sonno, soprattutto insonnia (100%), presenza di ricordi traumatici (30,4%), compromissione della memoria (18,9%), irritabilità (12,8%), ansia (12,3%) e depressione (10,5%) (Rogers JP et al. 2020).

Alcuni sintomi neurologici sono assai meno gravi ma appaiono persino più sconcertanti. Un sintomo – o un insieme di sintomi – che esemplifica questo sconcerto, e che sta ottenendo sempre più attenzione, rientra nell’approssimativa categoria diagnostica di “annebbiamento cerebrale” (Stephani Sutherland 2020).

La presenza del CoViD-19 nei vari distretti

La presenza del virus SARS CoV 2 era già stata riscontrata nei distretti polmonari e nelle aree bulbo pontine cerebrali (Guadarrama-Ortiz et al. 2020).

Il virus è in grado di danneggiare il cervello in vari modi tra i quali i più importanti sono rappresentati dall’infezione diretta delle cellule neurali con SARS-CoV-2, e l’infiammazione sistemica grave che porta al cervello agenti proinfiammatori danneggiando così le cellule nervose. Il virus SARS-CoV-2 utilizza l’ACE2 come principale recettore di attacco della “proteina spike” per l’ingresso cellulare. La proteina ACE2 è stata osservata nel sistema vascolare, ma in minor misura nel rivestimento dei vasi cerebrali. Tuttavia, il sequenziamento dell’RNA ne ha dimostrato la presenza, anche se modesta, nel cervello umano (Marshall M. 2020).

Recentemente uno studio italiano pubblicato sul Journal of Neurology ha dimostrato la presenza del virus Sars-CoV-2 nel nervo vago e questo potrebbe spiegare il percorso tra polmone e cervello (Bulfamante G. 2021).

Lo studio

Sono state effettuate due autopsie su pazienti deceduti per COVID-19 e in due pazienti COVID-19 negativi come controlli. Danno neuronale e numero di corpi amilacei (CA) /mm2 sono stati valutati istopatologicamente. Altre caratteristiche studiate erano l’espressione immunoistochimica della nucleoproteina SARS-CoV-2 (NP) e dell’antigene Iba-1 per l’attivazione gliale.

Le autopsie hanno mostrato una normale anatomia macroscopica del tronco cerebrale. L’esame istopatologico ha dimostrato un aumento del danno neuronale e la presenza di corpi amilacei nel midollo allungato dei pazienti Covid-19. L’immunoistochimica ha rivelato SARS-CoV-2 NP nei neuroni del tronco cerebrale e nelle cellule gliali e nei nervi cranici. Gli elementi gliali hanno anche mostrato un diffuso aumento dell’espressione di Iba-1. Sars-Co-V2 è stato rilevato immunoistochimicamente nelle fibre del nervo vago.

Conclusioni

Il riscontro della presenza di SARS-CoV-2 nel tronco cerebrale e danno midollare nell’area dei centri respiratori suggeriscono che la fisiopatologia dell’insufficienza respiratoria correlata a COVID-19 include una componente neurogena. La rilevazione della presenza del virus Sars-Co-V2 nel nervo vago suggerisce il passaggio di questo dal polmone verso il tronco cerebrale.

 

Cosa chiede un figlio? 

Le televisioni ne parlano, i giornali ne scrivono, i genitori lo ripetono negli ambulatori degli psicologi: i bambini di oggi stanno male, soffrono. Depressione, ansia, disordini alimentari, per non parlare delle condotte autolesive e autodistruttive.

 

 Fiumi d’inchiostro spesi sui perché del malessere emotivo che tanto attanaglia i giovani: da chi lo attribuisce alla società – persa e distratta dal consumismo -, a chi, mediante apparecchiature sempre più performanti, ricerca misteriosi geni responsabili. Il comun denominatore sembra però il medesimo: la responsabilità è dell’altro, si trova riposta al di fuori da me. Ma siamo certi che le cose stiano realmente così?

Gran parte dei problemi che bambini e adolescenti manifestano oggigiorno poggiano su fondamenta specifiche: genitori incapaci di porre la loro attenzione sulla vita emotiva del figlio. Proviamo a capire meglio. Ad oggi, le energie dei genitori risultano indirizzate per gran parte ai bisogni, dimenticando la dimensione dell’affetto. E, questa cecità rispetto alla dimensione dell’affettività, alla profondità del desiderio, circonda anche l’individualità del genitore stesso. In fondo, non lo scopriamo oggi: il bambino portatore del sintomo ripropone tenacemente il fantasma irrisolto dei genitori.

 Addentrandoci poi in uno dei temi tanto cari ai genitori, ovvero “mio figlio non mi ascolta” può essere utile riflettere sul fatto che la crescita e lo sviluppo del bambino porta per forza di cose alla necessità di una soluzione dell’Edipo (tanto caro a Freud). La soluzione edipica richiede che la rivalità col genitore venga superata proprio attraverso il riconoscimento della dialettica tra amore e odio. Un genitore non può pretendere che un figlio possa provare per lui esclusivamente sentimenti positivi, soltanto amore. Un genitore non può pretendere che un figlio gli ubbidisca continuamente. Un genitore dovrebbe riuscire ad accettare che un figlio abbia bisogno di affermarsi, di costruire la sua identità, contrastando – spesso – i valori della famiglia d’origine. Il fallimento di questo processo riconoscitivo da parte del genitore trasborda nel soffocamento del bambino, in una cura ipertrofica, acefala, nella quale troviamo non solo l’assenza di riconoscimento della soggettivazione del bambino – ovvero il riconoscergli lo statuto di soggetto desiderante ma -, captiamo anche la paura della morte (simbolica) del genitore, della chiusura, dello spegnersi del suo ruolo.

Il processo di riconoscimento da parte del genitore verso il diritto del figlio di trovare la sua dimensione desiderante, comporta la necessità dell’adulto di riscrivere il suo ruolo nel sociale, trovare per se stessi un nuovo desiderio, una nuova spinta alla vita. Il fallimento della dimensione del riconoscimento la troviamo in quelle mamme o quei papà che annullano la propria vita per farsi completamente carico dei bisogni dei figli (non del loro desiderio). Qui, in questa postura educativa, troviamo genitori che scandiscono le giornate dei figli secondo le lancette dell’orologio, attraverso corse spasmodiche tra piscina, lezione di pianoforte, ripetizioni di greco e latino. Qui troviamo la dimensione del “ti guardo” ma, in fondo, “non ci sono per davvero nella tua vita”. In fondo, un figlio chiede solo di essere riconosciuto nel suo desiderare.

 

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