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Ricordo di Albert Bandura

In ricordo di Albert Bandura (4 dicembre 1925 – 26 luglio 2021) – È deceduto il 26 luglio 2021 Albert Bandura, psicologo e studioso che ha contribuito al passaggio dal comportamentismo alla rivoluzione cognitiva nel campo dell’apprendimento sociale.

 

Il suo primo contributo fu sull’apprendimento: attraverso una serie di esperimenti, come quello della bambola Bobo, Albert Bandura dimostrò che l’apprendimento non avvenisse esclusivamente nel comportamento a contatto diretto con gli oggetti, ma anche attraverso esperienze indirette, in cui gli oggetti sono rappresentati cognitivamente e non percepiti direttamente, per esempio con l’osservazione di altre persone. Bandura ha adoperato il termine modellamento (modeling) per identificare questo processo di apprendimento.

Il secondo contributo di Bandura riguarda l’agentività umana (human agency), la capacità di agire attivamente e trasformativamente nel contesto in cui si è inseriti. A sua volta l’agency ha il suo elemento chiave nel senso di auto-efficacia, ovvero le credenze delle persone riguardanti la loro efficacia nel gestire gli eventi e che influenzano le scelte, le aspirazioni, il livello di sforzo, di perseveranza, la resilienza, la vulnerabilità allo stress e la qualità della prestazione.

Il concetto di auto-efficacia ha influenzato anche la psicoterapia cognitiva, in quanto ha favorito l’uso delle credenze sul sé come perno intorno al quale coordinare l’accertamento delle distorsioni cognitive. In breve, mentre nell’analisi comportamentale il contenuto delle variabili è sempre aperto, nell’accertamento cognitivo il contenuto del mediatore cognitivo è predeterminato e tende ad essere concettualizzato in termini di credenze su di sé, sul mondo/ambiente (incluse le relazioni interpersonali), o il futuro. Nel corso del tempo, le credenze sul sé hanno guadagnato un ruolo prevalente all’interno della triade cognitiva. Questa prevalenza finale nella teoria dei modelli centrati sul sé è anche attribuibile all’influenza del lavoro fondamentale di Bandura.

In sintesi, le credenze positive sul sé sulla capacità di gestire e controllare gli eventi e le reazioni emotive sono considerate in gran parte responsabili del benessere emotivo e dell’efficacia nella vita quotidiana, mentre le credenze negative sul sé ci rendono depressi o ansiosi.

Le credenze sul sé sono organizzazioni di conoscenza stabili e gerarchicamente sovraordinate perché atte a integrare e riassumere i pensieri, i sentimenti e le esperienze di una persona, comprese le loro caratteristiche fisiche, i ruoli sociali, i tratti di personalità e le aree di particolare interesse per l’individuo e le sue abilità.

 

Cinema, metafore e psicoterapia (2021) di Isabel Caro Gabalda (a cura di) – Recensione

È un lavoro interessante quello nato dalla collaborazione degli autori di Cinema, metafore e psicoterapia.

 

Per una psicoterapeuta appassionata di cinema il titolo di questo volume è stato un invito a nozze, e le mie aspettative non sono certo state deluse. Nonostante la complessità e l’ampiezza del tema, il susseguirsi dei capitoli accompagna il lettore in un’analisi “attraverso lo schermo” che evidenzia molto bene gli ingredienti per una buona terapia, a prescindere dal modello di riferimento. Un’analisi molto emozionante ed evocativa, dal momento che a illustrare il caleidoscopico mondo della psicoterapia, sono proprio le storie e i personaggi che abitano il magico mondo del cinema.

Accostare questi due temi in un libro non è certo un’idea nuova, ma di certo nuova ed originale è la prospettiva da cui vengono analizzati in quest’opera. L’aspetto particolarmente interessante è dato dal fatto che scopo di questo lavoro non è “spiegare ogni film a partire dalla psicoterapia, quanto la psicoterapia a partire dal film” (p.XVII). Ogni capitolo, infatti, utilizza un diverso film come metafora per spiegare ed analizzare, in maniera semplice e nello stesso tempo niente affatto banale, gli elementi fondamentali della psicoterapia e del processo terapeutico. La pretesa non è naturalmente quella di offrire un quadro esaustivo, ma di illustrare, attraverso le narrative e i personaggi cinematografici, i temi chiave, le caratteristiche, i protagonisti e le complessità della psicoterapia.

Il volume è suddiviso in quattro parti, che restringono il focus di osservazione sui diversi elementi della psicoterapia: il paziente, il terapeuta, il processo e il cambiamento terapeutico e infine l’interazione terapeutica e la psicoterapia come relazione.

Sebbene sia difficile e per certi versi artificioso separare questi elementi, ciò rende la lettura e la riflessione degli autori di più facile comprensione e permette al lettore di non perdersi nella vastità e complessità di un simile argomento.

Chi è il paziente che viene in terapia? Per quanto diverse siano le storie e le richieste di chi inizia un percorso di psicoterapia, il paziente è innanzitutto una persona e come tale va trattato: perché il lavoro sia efficace, dobbiamo considerare la persona nella sua globalità, non come un insieme di sintomi, comprenderla nella sua interezza e nel suo mondo, all’interno del suo contesto socioculturale. È questa l’idea sostanziale che emerge trasversalmente nell’opera. Anche il modo in cui noi terapeuti guardiamo a un problema, riflette di quadri teorici e concettuali radicati in un tempo storico e in un contesto sociale e culturale: i modelli e le metafore che noi usiamo, strutturano le esperienze di vita. “Il Truman Show”, per esempio, mostra come sia diverso concepire la psicosi come una malattia incurabile o da cui è possibile uscire: l’uscita di Truman dal palcoscenico è dunque la metafora della possibilità di venire fuori dal delirio grazie alla relazione con un altro reale, non delirante, il terapeuta, che aiuta a dare una direzione e un senso al suo agire (come nel film fa la sua ex fidanzata) e grazie anche alla fiducia nelle proprie capacità. Nonostante la sofferenza del momento, il paziente ha dentro di sé tante risorse che vanno cercate e attivate affinché possa uscire dalle difficoltà, proprio come fa Truman. Il paziente ha già in sé stesso ciò che cerca: la terapia è un cammino alla ricerca del suo essere, come il protagonista di “Lion”, sulle tracce delle proprie origini, o “Billy Elliot”, alla ricerca della sua vera identità e del suo posto nel mondo. Un cammino in cui è aiutato a riparare ciò che è frammentato, a curare le ferite dell’identità e dell’attaccamento, come accade a Conrad, protagonista di “Gente comune”, il cui rapporto con una madre anaffettiva e rifiutante genera ferite emotive profonde e cicli interpersonali altamente disfunzionali, oppure Jean-Baptiste Grenouille, protagonista del “Profumo”, la cui totale assenza di odore rappresenta un deficit ontologico che affonda le sue radici nella prima infanzia, fatta di grave trascuratezza e malnutrizione fisica ed emotiva, di totale assenza di uno dei bisogni fondamentali dell’essere umano, quello di riconoscimento e amore. Senza questo riconoscimento, quest’accettazione e amore incondizionato, il rischio è di sviluppare una “personalità liquida” come direbbe Zigmund Bauman, una personalità che, come Zelig interpretato da Woody Allen, si adatta talmente tanto all’altro per farsi accettare da perdere la propria forma e la propria identità. La terapia diventa dunque occasione di sperimentare quell’accettazione incondizionata e quella validazione dell’essere così fondanti. Ma per ottenere risultati occorrono impegno, motivazione e tenacia. Il cambiamento terapeutico non è lineare, ma è la somma di tanti piccoli progressi e passi indietro, in cui il paziente deve avere un ruolo attivo, ottimamente esemplificato da ciò che fanno i protagonisti de “La storia fantastica”, che perseverano, nonostante le mille peripezie e difficoltà, per raggiungere il loro scopo finale. Per fare questo occorre chiedere al paziente di smettere di fare ciò che riteneva una soluzione e invece alimentava le difficoltà, e di imparare a fare qualcosa di diverso, per ottenere un risultato diverso, come fece Mandela, raccontato nel film “Invictus”, quando, dopo quasi trenta anni di prigionia per la sua lotta contro l’apartheid, decise di non proseguire sulla strada della violenza e della vendetta verso i suoi oppressori, ma, cambiando il proprio modo di relazionarsi, di utilizzare il gioco del rugby per facilitare l’unità nazionale.

Fare terapia è certamente una sfida, per il paziente ma anche per il terapeuta: implica cercare di produrre un cambiamento nell’altro, ma genera inevitabilmente un cambiamento nel terapeuta stesso. Avere il permesso e il privilegio di entrare nelle “vite degli altri” richiede grande senso di responsabilità e un delicato equilibrio fra coinvolgimento e distacco, fra le richieste del paziente e le esigenze della propria professione, fra le sue capacità professionali e il suo essere persona. Come il capitano Gerd Wiesler (“Le vite degli altri”, appunto) siamo chiamati all’ascolto, un’attenzione silenziosa che ci conduca senza giudizio all’autentica comprensione dell’altro. L’empatia non è solo ascolto ma sintonizzazione emotiva profonda che aiuti il paziente ad accedere a esperienze dolorose con la guida di un altro sensibile e capace di sostenerlo. Se ci poniamo in quest’ottica, potremo entrare davvero in connessione empatica col paziente, proprio come fa il protagonista di questo film, capitano della Stasi, verso le persone che deve spiare. Naturalmente lo scopo della terapia non è spiare le vite altrui e, a differenza di quanto fa Wiesler alla fine del film, il terapeuta deve essere ben consapevole e attento ai confini del setting e all’etica professionale. Il film “Mumford”, che ha per protagonista un sedicente psicologo, offre un’interessante occasione per riflettere su cosa serva per essere un buon terapeuta: non solo un bagaglio di conoscenze appropriate, garantite da una buona formazione e una continua supervisione, ma anche una serie di caratteristiche personali, incarnate appunto dal dottor Mumford, come empatia, interesse per le persone, autenticità, sensibilità e accettazione. È certamente complesso bilanciare ciò che siamo a livello umano e ciò che la nostra professione ci richiede. Ma al terapeuta non è richiesta la perfezione, così come non deve essere richiesta al paziente. Il terapeuta è un essere umano e come tale ha le sue paure e le sue ansie, a volte dubita della sua intelligenza e delle sue conoscenze, come lo Spaventapasseri del “Mago di Oz”, o ha paura di agire, come il Leone codardo, o teme di non sentire nulla, come l’Uomo di latta o al contrario di essere emotivamente troppo coinvolto, o subisce l’incertezza di sapere cosa sta affrontando. Certamente al terapeuta non è richiesta la perfezione, così come non deve essere richiesta al paziente. Il terapeuta non è necessariamente una persona equilibrata e “risolta”, tuttavia, per mantenere un giusto equilibrio nello svolgimento della propria professione, è importante che dedichi grande cura alla propria vita. Per chi si occupa ogni giorno della cura degli altri, è necessario occuparsi anche della cura di se stesso, perché non si crei, come nel caso della dottoressa Margaret Ford de “La casa dei giochi”, un disequilibrio che inevitabilmente impatta negativamente sulla terapia e sulla sua efficacia.

La psicoterapia, come si diceva, non è un processo lineare, ma è composto da una serie di piccoli cambiamenti, movimenti avanti e indietro verso il cambiamento finale. Il paziente è accompagnato dal terapeuta, che assume il ruolo di guida, nella ricostruzione di ciò che è andato perduto, nel rimettere insieme i pezzi del suo puzzle, per dirla come Isabel Caro Gabalda. Il terapeuta, come uno “Sherlock Holmes della mente”, secondo la definizione di Perez Alvarez, uno degli autori del volume, svolge un lavoro investigativo per unire gli elementi della trama, per connettere pezzi fino a quel momento scollegati, attraverso l’insight, come accade a “Marnie, la ladra” di Hitchcock. Il lavoro terapeutico accompagna nel difficile processo di prendere consapevolezza e assimilare, come fa il dottor Malcom Crowe, ne “Il sesto senso”, esperienze, parti di noi stessi, emozioni, memorie e stati interni che fino a quel momento erano difensivamente tenuti fuori dalla coscienza. Tutto ciò implica lavorare con le emozioni, far capire al paziente che non esistono emozioni buone e cattive, ma che ognuna ha il suo ruolo e la sua importanza nella regolazione del comportamento e nel dare senso alle nostre esperienze e che anzi la complessità è ciò che ci permettere di crescere ed evolvere (“Inside out”).

In definitiva la psicoterapia è un viaggio avventuroso, per certi versi spaventoso e affascinante come quello di Butch, un assassino in fuga, e il piccolo Philip (“Un mondo perfetto”), segnato da difficoltà ed esperienze formative, in cui alla fine i due protagonisti, terapeuta e paziente, si separano ma arricchiti e cresciuti grazie al loro incontro e alla strada percorsa insieme.

Elemento chiave del cambiamento terapeutico è, come emerge da moltissimi studi e come evidenziato anche nel libro, la relazione terapeutica. Il cambiamento terapeutico, infatti, è un processo che si costruisce nell’interazione con il terapeuta momento per momento e che richiede una piena collaborazione di entrambi i partecipanti. La qualità della relazione terapeutica è ciò che permette al paziente di osare, mettersi in gioco, affrontare le difficoltà e le sfide che il cambiamento comporta. È grazie all’incontro con l’altro che il paziente cambia: l’altro inteso come terapeuta ma anche l’altro inteso come rapporti sani nella sua vita privata. È grazie alla “fidanzata” Bianca e alla dottoressa Dagmar che Lars (nello splendido film “Lars e una ragazza tutta sua”) riesce gradualmente a uscire dal suo isolamento sociale e a costruire legami autentici, prendendo a poco a poco contatto con la realtà. Allo stesso modo è grazie a Claire che Drew, in “Elizabethtown”, riesce a entrare in contatto col suo dolore e ad affrontare l’elaborazione non solo del lutto del padre, ma anche della sua solitudine, di tutte le sue perdite e del suo fallimento, aprendosi così a un possibile futuro più autentico. Lo stesso percorso che attraversa il paziente.

Nasciamo all’interno di rapporti interpersonali e, come evidenzia Guerra nel suo capitolo prendendo spunto dal film “Se mi lasci ti cancello!”, il modo in cui funzioniamo e ci relazioniamo dipende in larga misura dalla nostra Conoscenza Relazionale Implicita, ovvero ciò che abbiamo implicitamente imparato nelle nostre relazioni di attaccamento primarie rispetto a cosa ci si deve aspettare e come comportarsi nei rapporti interpersonali. Molti, se non la totalità, dei pazienti, ha sperimentato modelli relazionali disfunzionali e solo attraverso un’altra relazione sana significativa, come quella terapeutica, è possibile cambiare questo nucleo. Per questo è fondamentale che il rapporto col paziente sia il più possibile genuino, guidato da un autentico interesse ad aiutarlo, avvicinandoci al paziente come fanno il dottor Mickler con Don Juan de Marco nell’omonimo film e la dottoressa Banks con gli alieni, entrando nel suo mondo con curiosità e rispetto, senza irrigidirci o nasconderci dietro le nostre tecniche ma consapevoli che una vera comprensione è possibile solo se ci disponiamo a creare un linguaggio comune e a “condividere un certo mito e un certo rituale”, come afferma Isabel Caro Gabalda.

Il cinema e la psicoterapia hanno molte cose in comune: entrambi si occupano di storie, raccontano, se pure in modi e con scopi differenti, le vite delle persone. Da sempre cinema e psicoterapia hanno incrociato le loro strade, offrendosi reciprocamente spunti interessanti: il cinema ha spesso attinto al mondo della psicoterapia o in generale della salute mentale per costruire i suoi personaggi, soprattutto mostrando lati insoliti o spaventosi del comportamento umano. Allo stesso modo la psicoterapia ha spesso utilizzato le storie del cinema come metafore e modelli per aiutare a capire le vite e la realtà delle persone.

 

I paradossi di Carrère – Yoga (2021) di Emmanuel Carrère – Recensione del libro

Che libro è Yoga di Carrère? Preceduto in Francia dal clamore mediatico suscitato dalla denuncia della ex moglie che non ha gradito essere citata e ha chiesto che fossero eliminati alcuni brani, il libro sta avendo un buon successo di vendite.

 

D’altro canto, Carrère è ormai autore affermato e apprezzato dal grosso pubblico. Tuttavia, si tratta di un’opera a tratti fastidiosa, autoreferenziale e che suscita reazioni contrastanti.

Nato nel 1957 a Parigi, da una famiglia borghese, figlio di Hélène Carrère d’Encausse, una storica molto nota, esperta di Russia e stalinismo, laureato presso l’Institut d’études politiques de Paris. In volumi precedenti ha descritto il suo rapporto complesso con la figura materna. Le sue opere hanno avuto per protagonisti figure complesse ed estreme, come il serial killer Romand in L’avversario o lo scrittore, dissidente russo al centro di Limonov, per finire con le biografie dell’evangelista Luca e di Paolo di Tarso ne Il Regno, in cui indaga il rapporto con la religiosità. Negli anni ha mostrato di prestare attenzione a una pluralità di temi ma progressivamente i suoi libri hanno sempre più avuto un solo personaggio protagonista: lui stesso.

Il punto di partenza del presente volume è offrire una definizione della meditazione. Stupito sia dall’interesse che dall’ignoranza attorno alle filosofie e pratiche orientali di un giornalista che lo aveva intervistato, Carrère decide di scrivere un libro per raccontare il proprio punto di vista sul tema. Poi, come capita nei suoi libri, il progetto iniziale devia verso tutt’altri lidi.

L’inizio mi è parso promettente. Egli descrive la sua partecipazione ad un ritiro di 10 giorni per praticare meditazione. Il contesto del seminario di Vipassana è molto ben raffigurato, a tratti con umorismo. Chi ha partecipato, anche per una volta sola, a ritiri spirituali in cui si medita, o si prega, con esercizi fisici, pratica del silenzio, dieta e sveglia all’alba, leggendo questa parte del libro non potrà non provare una struggente nostalgia. Piacevole è la descrizione di coloro che partecipano a tali eventi, equamente divisi tra chi soffre di problemi psichici e autentici ricercatori. Come vedremo, l’appartenenza ad una categoria non esclude necessariamente l’appartenenza anche all’altra.

Carrère racconta al lettore che il motivo per cui pratica meditazione e tai chi risiede nel tentativo di limitare il suo smisurato ego. Qui c’è il primo paradosso: per curare il suo ego ingombrante, che riconosce come problema, crea un’opera smisuratamente, insopportabilmente egoica, in cui racconta cosa gli è avvenuto negli ultimi anni. Secondo paradosso: dice di mettersi a nudo, raccontando finanche della malattia psichiatrica e del trattamento con 14 sedute di elettroshock, ma in realtà fa un’operazione assolutamente soggettiva, scrivendo un libro che è solo il suo punto di vista.

La sua partecipazione al ritiro si interrompe dopo pochi giorni, nonostante una delle regole più importanti sia il divieto categorico di allontanarsi dall’esperienza prima che essa sia terminata. Tuttavia, proprio in quei giorni avviene l’attentato alla redazione di Charlie Hebdo, in cui muore, insieme ad altre 11 persone, il vignettista Bernard Verlhac. Carrère è un suo amico ed è richiesta la sua presenza al funerale per leggere un’elegia. Pertanto, viene autorizzato ad allontanarsi.

Le parti successive sono dedicate in larga parte al racconto della sua malattia psichica con il ricovero di 4 mesi nella clinica Sainte Anne nei pressi di Parigi, con la diagnosi di disturbo bipolare di tipo II, e all’esperienza come volontario insegnando ai giovani profughi nell’isola greca di Leros (pare che nella realtà l’esperienza sia stata più breve di come appaia nel testo). Di sfuggita, compaiono le sue vicende sentimentali ed anche il resoconto dei giorni trascorsi con un giornalista americano per un’intervista.

Il libro (si può definire romanzo?) è dunque fortemente autobiografico, descrivendo alcuni episodi essenziali di ciò che gli è avvenuto negli ultimi 4 anni e, di tangente, pone il problema del rapporto tra il modo in cui un autore descrive la sua vita e la realtà degli avvenimenti vissuti e se sia davvero necessario che coincidano. Nelle ultime pagine confessa ad esempio che un personaggio, la donna incontrata a Leros, è sostanzialmente inventato. Ma la questione è ovviamente più complessa. Come sa ogni psicoterapeuta, quando una persona parla di sé, o degli altri, compie sempre un’operazione arbitraria e soggettiva: enfatizza dei particolari, ne omette altri. E’ condizionato dalla sua cultura, dai suoi obiettivi e dai suoi bisogni. Perfino nel modo di vestire, si tenta di dare una visione, in genere migliorativa, di sé. Anche i ricercatori di verità, quindi, raccontano sempre una sola delle tante verità, necessariamente parziale e soggettiva.

La prima parte, circa un terzo delle pagine totali, è quella che ho gradito di più. Egli pone a confronto l’attitudine dello scrittore e quella del meditante, che gli paiono opposte e incompatibili. Lo scrittore deve osservare e fissare i propri pensieri, per poterli poi vergare su carta, mentre chi medita deve lasciare andare i propri pensieri, imparando a non giudicare in alcun modo ciò che avviene dentro di lui.

Carrère è un praticante esperto ma critico. Mette in opposizione Dostoevskij con il Dalai Lama, trovando più saggezza nel primo. Si chiede se davvero l’obiettivo più importante sia superare la permanenza in Samsara, uscire dal ciclo di trasformazioni e sofferenze che chiamiamo condizione umana, per accedere al Nirvana, ovvero la vita davvero reale, sottratta alle illusioni. E come giudicare i meditanti ayurvedici che durante lo tzunami che colpì lo Sri Lanka furono gli unici ospiti dell’albergo in cui si trovava anche lui a non abbandonare le loro attività, mentre tutti gli altri si dedicavano a prestare soccorsi? Analogamente, cosa è più importante, si chiede, essere un chirurgo pediatrico e salvare la vita a bambini o stare chiusi in una stanza a osservare il proprio respiro? Ma non è forse la legge della continua alternanza degli opposti – Yin che diventa Yang e viceversa – ciò che regola il pianeta? Lo yoga, in fine, è unione. Accettazione delle polarità, delle opposizioni. Questa è la lezione più difficile da apprendere, che magari si comprende con la testa ma non si lascia afferrare del tutto. Non c’è opposizione, non c’è dualismo: è vera la notte, è vero il giorno; la sconfitta è vittoria; la vittoria è sconfitta. Trovare l’alba nell’imbrunire, hanno detto altri….

Fulminante è poi la descrizione della personalità di ogni scrittore, descritta come un intreccio inestricabile tra ossessione, megalomania e voglia di fare bene. Da un vecchio prete, con alle spalle tanti anni di confessionale, apprende due cose: 1) le gente è più infelice di quanto non si creda; 2) non esistono adulti: sotto i vestiti, siamo tutti fragili.

Durante la meditazione gli capita di piangere. Piange per l’infelicità dei naufraghi, delle vittime e degli umiliati, ma chi è più infelice di tutti è chi ignora finanche quanto è infelice e, ancora più grande, è l’infelicità dei malvagi.

Della meditazione offre ben 24 definizioni. Alcune sono prevedibili e note, rimandano al silenzio, all’osservazione interna, all’assenza di giudizio, alla sospensione dell’attività mentale consueta. Altre sono più originali e poetiche: la meditazione è essere al corrente dell’esistenza degli altri; la meditazione è essere al proprio posto in qualsiasi posto; la meditazione è non aggiungere niente.

Il libro sembra quasi incompleto, per quanto sono slegate le varie parti che lo costituiscono. Come se si trattasse di più libri, totalmente diversi e incompiuti. Cosa c’entra il volontariato svolto a Leros con la meditazione, o il periodo del ricovero in una struttura psichiatrica con lo yoga?

Alla fine, appare quasi paradossalmente ingenua l’operazione di uno scrittore che invece è smaliziato ed esperto. Vuole scrivere “senza ipocrisie”, ma fa un’opera spudoratamente di parte. Altri autori hanno parlato assai meglio della propria malattia psichica. Penso, per restare al nostro paese e ad anni recenti, ad Andrea Pomella e a come ha raccontato la sua depressione.

Sebbene pratichi da circa 30 anni proprio allo scopo di ridurre il suo ego, un’opera del genere risulta spasmodicamente narcisistica e, in molto tratti, assolutamente autoreferenziale, rivelando l’insuccesso del proposito iniziale. Oppure ha voluto descrivere in tal modo la perenne lotta tra l’aspirazione al bene e all’unità da un lato e dall’altro il fascino calamitoso della disperazione? Il baratro che riguarda ciascuno di noi, capaci sia di nefandezze vergognose che di gesti nobilissimi? Questo è l’uomo, sembra dire.

Leggendo le recensioni alcuni sono stati infastiditi dall’incompiutezza, la frammentarietà e la non unitarietà. Tuttavia si conferma la straordinaria capacità attrattiva dell’autore in virtù di una prosa comunque originale, intervallata da riflessioni argute. In diverse parti Yoga può costituire una piacevole lettura, a volte intensa. Ovviamente Carrère scrive molto bene. A tratti, sembra quasi che quest’opera sia sostanzialmente una sfida a se stesso: vedere se riesce ad attrarre il lettore anche parlando di nulla (e, ultimo paradosso, c’entra l’Oriente con la ricerca del Nulla? E il Nirvana?). Certo, tali sfide a se stesso mettono a repentaglio l’equilibrio psichico di chi le compie. Tenere lo sguardo verso il cielo, eppure ammaliati dal basso. Tenere insieme spirito e materia. O, freudianamente, Eros e Thanatos.

 

“Io non sono un oggetto”: la relazione tra oggettivazione, controllo percepito e aggressività

Vi è mai capitato di ritrovarvi in interazioni sociali e di rendervi conto che l’unico interesse del vostro interlocutore fosse quello di sfruttarvi col fine di poter ottenere qualcosa? Se la risposta è affermativa, vuol dire che siete stati vittime di oggettivazione. 

 

Con il termine oggettivazione si fa riferimento all’attitudine di trattare gli altri come oggetti, con l’obiettivo di poterli manipolare e poter raggiungere i propri obiettivi (Volpato, Andrighetto & Baldissarri, 2017). Gli esseri umani hanno un bisogno innato di padroneggiare il loro destino e realizzare il loro potenziale (Deci & Ryan, 2000), ma l’oggettivazione priva ingiustamente le persone di tale bisogno (Volpato, Andrighetto & Baldissarri, 2017).

Di contro, il controllo percepito si riferisce alla convinzione che un individuo sia in grado di esercitare un’influenza sui propri stati interni e sugli ambienti esterni (Pagnini, Bercovitz & Langer, 2016). Di conseguenza, il controllo percepito delle persone oggettivate potrebbe essere vanificato. Nelle interazioni sociali quotidiane, il fenomeno dell’oggettivazione si verifica in differenti contesti, personali e professionali (Haslam & Loughnan, 2014). Per esempio, quando i lavoratori vengono trattati come meri strumenti affinché i loro superiori possano avere successo, così come, all’interno dei nuclei familiari, quando i genitori impongono ai figli di realizzare i propri sogni inespressi senza considerare i loro bisogni reali. Studi passati hanno mostrato che fattori come l’asimmetria nella posizione di potere, la ricchezza e lo specifico compito da portare a termine, possono aumentare la tendenza delle persone a oggettivare gli altri per raggiungere obiettivi di performance (Teng et al., 2016; Wang & Krumhuber, 2017). Tuttavia, è ancora poco chiaro come le persone rispondano all’oggettivazione in tali contesti. Sulla base dei processi motivazionali di base (Shah & Gardner, 2007), le persone dovrebbero essere motivate a mettere in atto comportamenti che consentano loro di ripristinare il proprio controllo percepito a seguito dell’oggettivazione. Poiché l’aggressione può essere utilizzata come un mezzo per ristabilire il controllo attraverso l’affermazione simbolica della propria superiorità sugli altri (Baumeister, Smart & Boden, 1996), alcuni ricercatori hanno ipotizzato che le persone oggettivate possano tendere a comportarsi in modo aggressivo e che il controllo percepito possa mediare l’effetto di tale associazione. Inoltre, essi hanno supposto che il ripristino del controllo percepito delle persone oggettivate possa indebolire la loro aggressività. Ricerche precedenti hanno dimostrato come gli interventi che mirano a ripristinare la percezione di controllo, possono contrastare molti effetti negativi derivanti dalla privazione del controllo stesso, quali l’esaurimento delle risorse cognitive (Ric & Scharnitzky, 2003) e l’ansia legata alla morte (Agroskin & Jonas, 2013). Nella presente ricerca, gli autori hanno proposto che il suddetto intervento potrebbe migliorare l’effetto dell’oggettivazione, in quanto, quando il controllo viene ripristinato, i soggetti dovrebbero avere meno probabilità di impegnarsi in comportamenti aggressivi. Al contrario, quando il controllo percepito delle persone oggettivate non viene ripristinato, esse dovrebbero essere più propense ad impegnarsi in comportamenti aggressivi in quanto motivate a ripristinare il controllo.

La scelta di studiare l’effetto dell’oggettivazione sull’aggressività è dovuta al fatto che quest’ultima comporta implicazioni significative sulle relazioni interpersonali, sul senso di soddisfazione personale e sul benessere fisico e psicologico (Griskevicius et al., 2009). Secondo l’ipotesi della frustrazione-aggressione, le persone saranno frustrate quando il raggiungimento del loro obiettivo risulterà ostacolato e, tale frustrazione, le motiverà ad impegnarsi in comportamenti aggressivi per ferire gli altri (Berkowitz, 1989). I ricercatori hanno inoltre teorizzato che la frustrazione non solo scatena l’aggressione ritorsiva, ovvero quella diretta ai “carnefici”, ma può anche portare alla messa in atto di comportamenti aggressivi nei confronti di persone innocenti, soprattutto quando gli individui frustrati non hanno l’opportunità di aggredire la fonte di frustrazione (Breuer & Elson, 2017).

Dunque, al fine di garantire la generalizzabilità dei risultati, i ricercatori hanno testato se l’oggettivazione potesse incrementare l’aggressività solo nei confronti degli autori di tale atto o anche verso estranei incolpevoli.

È bene specificare che all’interno della letteratura non vi sono evidenze dirette del fatto che l’oggettivazione vanifichi il controllo percepito dalle persone. Tuttavia, alcuni risultati preliminari indiretti hanno suggerito questa possibilità. Gli autori hanno dunque effettuato sei esperimenti che, in totale, hanno visto la partecipazione di 1070 soggetti.

In ciascuno degli esperimenti, i sentimenti di oggettivazione dei partecipanti sono stati prima manipolati e poi è stata valutata la loro aggressività.

I risultati hanno rivelato che, rispetto alle loro controparti non oggettivate, i partecipanti oggettivati avevano livelli più alti di aggressività, manifestati non solo verso gli autori dell’oggettivazione ma, allo stesso tempo, anche nei confronti di soggetti innocenti.

Inoltre, è stato identificato un meccanismo psicologico alla base del legame oggettivazione-aggressione. Difatti, gli autori hanno mostrato che l’oggettivazione ostacola il controllo percepito, che va dunque a mediare l’effetto dell’oggettivazione sull’aggressione. Presi insieme, questi risultati suggeriscono che l’oggettivazione promuova l’aggressività in quanto ostacola il controllo percepito e non perché determini un aumento di alcune emozioni negative. Questi risultati sono in linea con gli studi che mostrano che le emozioni negative da sole non sono sufficienti a prevedere l’aggressività (Wyckoff, 2016).

È stato anche identificato un modo efficace per diminuire il livello di aggressività delle persone oggettivate. Difatti, coerentemente con la previsione degli autori, gli ultimi esperimenti hanno dimostrato che il ripristino del controllo ha effettivamente indebolito l’effetto dell’oggettivazione sull’aggressività.

A livello applicativo, una migliore comprensione di come l’oggettivazione promuova l’aggressività e come sia possibile indebolire tale effetto, può aiutare lo sviluppo di strategie di intervento volte ad aiutare le persone a fronteggiare nel migliore dei modi sia i fenomeni di oggettivazione, che le forme correlate di maltrattamento interpersonale. Prendendo in considerazione gli attuali risultati, se le persone oggettivate venissero aiutate a riprendere il controllo attraverso interventi situazionali, il loro livello di aggressività potrebbe essere ridotto. Un livello di aggressività così esiguo potrebbe facilitare l’armonia e ridurre i conflitti nelle successive interazioni sociali, migliorando il benessere degli individui che subiscono l’oggettivazione.

 

L’arrivo di una nuova vita: la nascita di una mamma e di un papà – VIDEO dal webinar di Studi Cognitivi Modena

Il Centro Clinico Studi Cognitivi Modena ha organizzato un incontro informativo rivolto a tutti i futuri genitori. Pubblichiamo per i nostri lettori il video dell’evento

 

Durante l’incontro sono state discusse le aspettative e le credenze delle future mamme e dei futuri papà aiutandoli a condividere e normalizzare pensieri funzionali e disfunzionali che possono accompagnare questo percorso.

È stato poi illustrato il percorso di gruppo proposto dal centro di Modena che prevede 11 incontri (8 pre parto e 3 post parto).

Secondo l’EBM, Evidence Based Medicine, le donne e il partner che frequentano un corso pre-parto più precocemente, in modo esclusivo e per più tempo sono a minor rischio di ricorrere a interventi di medicalizzazione del parto, conoscono e utilizzano attivamente strategie di contenimento del dolore in travaglio (movimento, massaggio, sostegno emotivo, voce, rilassamento, acqua).

Gli interventi preventivi sembrano determinare una riduzione del 19% del rischio di sviluppo di disordini depressivi post partum.

Hanno condotto l’incontro la Dr.ssa Giuri e Dr.ssa Brugnoni.

 

L’arrivo di una nuova vita: la nascita di una mamma e di un papà
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Sharp Objects: un’analisi in chiave LIBET

Sharp Objects è una miniserie televisiva statunitense del 2018, adattamento del romanzo thriller “Sulla pelle” di Gillian Flynn. Ideata da Marti Noxon e diretta da Jean-Marc Vallée, è stata candidata come miglior miniserie ai Golden Globe del 2019. 

Nico Alberici – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Attenzione! L’articolo può contenere spoiler

Trama di Sharp Objects e Modello LIBET

La protagonista di Sharp Objects è Camille Preaker, una giornalista di cronaca nera. A seguito della scomparsa di due bambine nella sua città natale, Wind Gap, il suo capo decide di mandarla come reporter sul campo. Suo malgrado si ritroverà ad affrontare i traumi del suo passato. La reporter vive infatti un disagio psicologico caratterizzato da abuso di alcol e tendenze autolesionistiche. Tornata nella casa dove ha trascorso la sua infanzia, Camille si riunisce a sua madre Adora e alla sorellastra Amma. Il rapporto tra Camille e sua madre è sempre stato freddo e distaccato. Al contrario, Adora è sempre stata protettiva ed affettuosa nei confronti di Amma e della sorella minore di Camille, Marian (morta quando la reporter era bambina).

Scopo del seguente articolo è di analizzare il funzionamento LIBET di Camille e sua madre Adora. Il modello LIBET inquadra il funzionamento psicologico in base a dei costrutti chiamati piani e temi di vita. I piani sono strategie semi-adattive che, irrigidendosi nel tempo, possono comportare conseguenze disfunzionali. Tali piani vengono appresi per gestire i temi di vita: stati mentali vissuti come intollerabili e pericolosi (per esempio sentirsi vulnerabili, non amabili o sbagliati). I piani e i temi che sviluppiamo variano in base alle nostre esperienze di vita, in particolare a quelle vissute con le figure d’attaccamento durante l’infanzia (Caselli, Ruggiero e Sassaroli, 2017).

Nota: Le spiegazioni sul funzionamento psicologico dei personaggi contengono rivelazioni sulla serie televisiva Sharp Objects. Si raccomanda ai lettori di non proseguire con la lettura dell’articolo per non ricevere anticipazioni sulla storia. 

I temi di Camille

La vita di Camille è costellata da una serie di eventi traumatici, prima tra tutti la morte della sorella Marian. In seguito a questi traumi, sembra che la protagonista abbia sviluppato un’idea di sé come colpevole. Il senso di colpa perseguita Camille fin dall’infanzia, perché sente di non aver impedito la morte di Marian e di altri eventi.

L’autolesionismo di Camille sembra infatti essersi originato come una sorta di punizione auto-inflitta. Il corpo della giornalista è interamente coperto di cicatrici che formano parole quali: “sbagliata”, “sporca”, “cattiva” … Parole che rimandano a temi di indegnità e di disamore, in cui un individuo si percepisce come colpevole, cattivo, non amabile…

Wind Gap stessa può aver contribuito nel far sentire Camille e altre donne profondamente inadeguate. La città si rivela fin dai primi episodi sessista, conservatrice e colma di pregiudizi.

A Wind Gap, una donna viene subito etichettata se non segue le regole prestabilite – afferma Camille.

Infatti, la protagonista fin da bambina mostra degli atteggiamenti anticonformisti, ad esempio rifiutandosi di vestirsi e apparire come la “bambola perfetta” che sua madre tanto desiderava. In età adulta, Camille viene in più occasioni etichettata dagli ex concittadini come “una mela marcia”, “una poco di buono”, “una donna vuota ed incompleta, solo perché non è madre” …

Principalmente è nella relazione con la madre che Camille sviluppa un’idea di sé come inamabile e sbagliata. Adora le rivela nel quinto episodio (Closer) di non averla mai amata, dandole la colpa di questo:

Sei anaffettiva […]e per questa ragione io non ti ho mai amata…

Adora, infatti, ha compiuto gesti di affetto solo nei confronti di Marian ed Amma, allontanando Camille da sé. La reporter ha solo dei ricordi frammentati in cui la madre la accarezzava quando era a letto. La accarezzava però con le sue unghie, sfiorandole la pelle. Questa immagine è come se volesse suggerirci che i tagli sulla pelle di Camille sono stati inflitti indirettamente da sua madre nel tempo. Non a caso, sua sorella Amma dirà:

I tagli sono già lì, sotto la pelle. La lama li fa solo uscire

Il motivo per cui Adora tratta in questo modo Camille va ricercato nella sua malattia mentale. Adora, infatti, come rivelato nel settimo episodio di Sharp Objects, “Falling”, soffre di disturbo fittizio provocato ad altri (classificato precedentemente come “Sindrome di Münchausen per procura”). In questo disturbo un individuo (spesso un genitore) arreca danni alla salute di altre persone (solitamente i figli) per farli ammalare, allo scopo di attirare l’attenzione su di sé (American Psychiatric Association, 2013).

Camille, differentemente dalle sorelle, scansava Adora ogni volta che stava per somministrarle un medicinale (in realtà del veleno). Era come se Camille, inconsapevolmente, avesse intuito che qualcosa non andava. Non a caso la protagonista si irrigidisce quando la madre la sfiora, come se il suo corpo reagisse in base ad un apprendimento automatico. Come reazione, Adora inizia a punire Camille non amandola, ignorandola, escludendola e facendola sentire indegna. Viene persuasa di essere la colpevole del rapporto assente tra le due.

Camille, a causa di questa dinamica tossica, potrebbe anche aver appreso inconsciamente che solo soffrendo avrebbe ottenuto amore dalla madre. Questa credenza potrebbe aver costruito un terreno fertile per l’esordio delle sue tendenze autolesionistiche in età adolescenziale.

Il piano di Camille

Il piano di vita che Camille ha sviluppato è immunizzante: la protagonista di Sharp Objects cerca di escludere dalla propria coscienza i temi dolorosi, focalizzando la propria attenzione su alcune sensazioni corporee (piacevoli o dolorose) e anestetizzandosi dal proprio dolore emotivo. Il piano immunizzante di Camille viene evidenziato da una serie di comportamenti disfunzionali e autodistruttivi.

Primariamente, Camille assume alcol per regolare i propri stati emotivi. La protagonista è infatti perseguitata da una serie di ricordi ed immagini intrusive che riguardano i propri temi di vita. Il dolore per le perdite subite e il senso di colpa associato ad esse sembrano i fattori scatenanti di tale condotta. Non appena il tema doloroso sta per emergere nella sua coscienza, sotto forma di flashback, Camille beve alcol fino a stordirsi completamente.

L’abuso di alcol non è il solo mezzo con cui Camille esclude dalla propria coscienza i temi dolorosi. Dall’adolescenza fino al suo ricovero psichiatrico, la protagonista mette in atto dei comportamenti autolesionistici: si procura tagli sul corpo che formano delle parole, i cui significati sono associabili agli eventi traumatici e ai temi di indegnità e disamore. L’autolesionismo di Camille potrebbe esserle servito per spostare l’attenzione dal dolore mentale a quello fisico.

Il piano immunizzante si manifesta anche durante le interazioni con chi ha abusato di lei. Camille sembra infatti indifferente e distaccata coi suoi aguzzini, come se si fosse anestetizzata rispetto agli accaduti.

In alcuni flashback, ci viene mostrato come Camille da bambina esternasse la propria rabbia, contrariamente a quanto avviene in età adulta: sedando le proprie emozioni con l’alcol e tagliandosi. Inoltre, lo stato emotivo più ricorrente che si è andato a sostituire alla rabbia sembra il senso di colpa. È come se la reporter avesse imparato a spostare (internalizzare) la rabbia, rivolgendola contro di sé tramite comportamenti auto-mutilanti. Questo potrebbe dipendere da alcuni avvenimenti. Ad esempio, dopo l’esplosione di collera al funerale di Marian, sua madre si allontana da lei, trattandola con freddezza e non ricambiando il suo abbraccio. Camille potrebbe aver sviluppato quindi determinate credenze, del tipo: “manifestando la rabbia, mia madre si è allontanata da me. Sono sbagliata”.

Nel settimo episodio di Sharp Objects (“Falling”) ci viene mostrata l’invalidazione del piano immunizzante di Camille. La protagonista scopre che Marian è stata uccisa da Adora, una madre Münchausen. In quel momento entra così in contatto col suo tema doloroso: sentirsi colpevole per non essere riuscita a proteggere sua sorella. Di colpo, alcuni ricordi che Camille aveva rimosso riaffiorano nella sua mente (come la volta in cui aveva visto Adora mordere Amma da neonata, in modo da farla piangere e permetterle di auto-compiangersi: “Dio mi ha mandato un’altra figlia malata…”). Quando Camille scopre la sindrome di Adora, nessuna droga è in grado di cancellare questa informazione dalla sua mente ed è in quel momento che si crea una crepa nel suo piano immunizzante.

In parte, Camille potrebbe aver sviluppato anche un piano prudenziale verso le relazioni, allontanando gli altri da sé. Lei stessa si definisce come “non incline all’affettività”. Questa credenza su di sé potrebbe essere anche frutto delle proiezioni della madre. Camille potrebbe aver deliberatamente deturpato il suo corpo per allontanare ogni possibile intimità, contatto fisico e coinvolgimento affettivo, in quanto percepiti come pericolosi a seguito degli abusi subiti. Quelle cicatrici potrebbero quindi avere la funzione di inorridire e allontanare gli altri da sé, come una barriera per proteggersi dall’intimità e dall’essere toccata.

Il piano e il tema di Adora

Differentemente dalla figlia, il piano di Adora è prescrittivo, perché caratterizzato dal controllo degli altri. Adora controlla tutta la comunità di Wind Gap, con i suoi modi eleganti ed affascinanti, prendendosi cura dei suoi concittadini e offrendosi di “riparare le bambine sbagliate”. Adora vuole mantenere soprattutto il controllo sulle figlie: prima Marian e in seguito Amma. Camille non glielo ha permesso e per questo nutre disprezzo nei suoi confronti. L’estrema espressione del suo piano prescrittivo è rappresentata dal suo disturbo fittizio provocato ad altri, perché le permette il pieno controllo sulle sue vittime, oscillando ricorrentemente tra lesioni e cure.

Ciò che accomuna Camille e Adora è l’uso del dolore per proteggersi dal tema. La differenza è che Camille si auto-procura il dolore. Adora, invece, lo infligge alle figlie per controllarle, anche con una modalità di comunicare passiva-aggressiva: esprime drammaticamente il dolore per manipolarle con il senso di colpa (come quando si ferisce accidentalmente alla mano con una rosa).

Nei momenti in cui Adora sente di perdere il controllo (rottura del piano prescrittivo), esordiscono dei sintomi sotto forma di collera, tricotillomania (strappandosi compulsivamente le sopracciglia) ed acutizzando il suo disturbo fittizio. Fin da subito, escogita diverse strategie per dividere Amma e Camille, quando tra le due inizia a formarsi un legame che potrebbe invalidare il suo piano. La sola possibilità che Amma possa allontanarsi da lei la getterebbe nella disperazione. Quando Adora capisce che sta perdendo il controllo su di lei, arriva persino a ricattarla emotivamente con la deprivazione affettiva (“ormai sei grande, non hai bisogno di me, puoi occuparti di te stessa da sola…”) e smontando la sua casa delle bambole. Le punizioni di Adora consistono nella deprivazione affettiva e nella colpevolizzazione. Sono le stesse punizioni che Camille ha subito, fino a convincersi di essere effettivamente la colpevole tra le due. Adora non infligge solamente le punizioni per controllare il comportamento delle figlie, ma utilizza come rinforzo positivo il suo affetto: solo quando Camille accetta di farsi curare (ovvero avvelenare), le permette di accedere alla camera col pavimento in avorio, dandole quell’affetto che le ha sempre negato.

Il piano prescrittivo di Adora serve a proteggerla dal suo tema doloroso, sviluppatosi in seguito ai maltrattamenti subiti a sua volta dalla madre, Joya. Adora rimprovera Camille, dicendole:

Mi fai sentire come se avessi sbagliato qualcosa, come se fossi una pessima madre […]. Quando ti ho portato in grembo credevo mi avresti salvata, pensavo mi avresti amata e che in questo modo mia madre avrebbe amato anche me…

Da queste affermazioni emergono i temi dolorosi di Adora. A causa degli abusi subiti a sua volta dalla figura materna non si è mai sentita amata (tema di disamore). Si percepisce inoltre come vulnerabile, come se solo le sue figlie e le attenzioni degli altri potessero salvarla dall’ombra di sua madre (tema di minaccia terrifica). È come se il trauma e la malattia mentale nella famiglia di Camille venissero trasmessi a livello intergenerazionale.

In un’occasione in cui vuole premiare Camille, Adora la definisce “l’angelo custode di Amma”. In un certo senso, è nell’immagine dell’angelo custode che Adora ha trovato la propria ancora di salvezza: facendo ammalare le sue figlie, poteva prendersene cura/controllarle e sentirsi in questo modo una madre adeguata, amata e indispensabile per loro. Alleviando le loro sofferenze, dopo averle avvelenate, Adora poteva in parte mentire a se stessa sul fatto di non essere identica a sua madre. In più, quando le sue figlie si aggravano o muoiono, Adora ottiene l’ammirazione, le attenzioni e le premure da parte della comunità (quelle forme di amore di cui è stata privata da sua madre). Si sente così protetta dagli altri, avendo vissuto l’infanzia in un contesto spaventante.

Per concludere, Sharp Objects è una storia su come il dolore inflitto (a sé e agli altri) può diventare la strategia per proteggersi da temi dolorosi, che emergono da relazioni affettive tossiche. Citando Gillian Flynn, autrice del romanzo da cui è stata sviluppata la serie televisiva:

Dicono che l’impulso di infliggere dolore sia un bisogno imperioso, a cui non ci si può sottrarre.

Tuttavia, affrontando il dolore, Camille arriverà a scrivere in un suo articolo:

Mi sono perdonata per non essere riuscita a salvare mia sorella e ora mi occupo dell’altra. Lo faccio perché le voglio bene o perché ho la stessa malattia di Adora? Così vacillo tra le due opzioni […] Negli ultimi tempi però credo di essere più incline alla gentilezza.

Camille, entrando in contatto col suo tema doloroso, è riuscita alla fine a cambiare visione di sé, realizzando che essere amate da Adora significava concederle il proprio annientamento. Soprattutto, Camille riesce a perdonarsi per la morte di Marian, evento di cui non ha colpa.

 

SHARP OBJECTS – GUARDA IL TRAILER DELLA SERIE:

Beck e l’uso clinico del Sé dalla psicoanalisi alla terapia cognitiva – 100 anni di Aaron T. Beck – Parte 6

Il racconto di come Beck accertava e trattava in seduta le credenze distorte sul Sé

 

Beck e gli psicoanalisti dopo il 1975: una collaborazione

C’è una considerazione da fare su Beck. Ed è quella dei suoi persistenti rapporti con gli psicoanalisti, anche dopo la definitiva svolta cognitiva del 1975. Una svolta molto più spostata nel tempo rispetto a ciò che si sapeva e ancora una volta non davvero definitiva. Con una significativa differenza, però. Mentre fino a poco prima Beck aveva mantenuto i rapporti con psicoanalisti ortodossi provenienti dall’ambito della psicologia dell’Io, la psicoanalisi più ortodossa e freudiana, ora interagiva con psicoanalisti interessati alla ricerca e alle variabili interpersonali, come Lester Luborsky o Hans Strupp o psichiatri interessati a forme di psicoanalisi interpersonale, come Klerman. Come abbiamo scritto, non si trattò di una collaborazione superficiale, ma di un vero e forte scambio reciproco sui contenuti clinici e sulla stesura dei manuali, da parte di tutti. Beck aiutò Luborsky a stendere il suo manuale psicodinamico e Luborsky aiutò Beck per il suo modello cognitivo. Non è affatto un caso che in quegli anni Beck fu anche presidente della Society for Psychotherapy Research, che era l’ambiente in cui avvenivano questi scambi.

Questo modifica ancora una volta la visione di Beck come cognitivista non interessato agli aspetti interpersonali e cambia la visione della psicoanalisi disinteressata alla ricerca. Al contrario, mentre i cognitivisti puri provenienti dal comportamentismo come Mahoney proponevano un costruttivismo tutto teorico, non formalizzavano i loro modelli e non si preparavano alla ricerca in psicoterapia, nella psicoanalisi questo avveniva e lo facevano i freudiani Luborsky e Strupp in collaborazione con l’interpersonalista Klerman e il cognitivista (psicoanalista) Beck. E inoltre si conferma l’interesse di Beck per la psicoanalisi interpersonale di Karen Horney e Stack Sullivan.

Cosa cercavano in Beck non tanto i comportamentisti americani Mahoney, Maichenbaum e Lazarus -che si limitarono a uno scambio molto astratto sul ruolo teorico del mediatore cognitivo- ma con ben maggiore interesse i comportamentisti britannici Clark e Salkovskis? Trovarono qualcosa di clinico che non avevano potuto trovare nella loro radice comportamentista britannica e ancor meno avrebbero trovato in Mahoney. Poiché il modello misto cognitivo-comportamentale in realtà nasce nel Regno Unito dapprima quando Clark, come abbiamo già raccontato, acquistò dieci copie ciclostilate del manuale di Beck, e poi quando Beck trascorse un intero anno sabbatico a Oxford negli anni ’80 e diventò visiting professor -sempre a Oxford- nel 1986. Quel modello cognitivo comportamentale non si limitava a postulare astrattamente il mediatore cognitivo, come aveva fatto (benemeritamente) Mahoney, ma sviluppò concretamente una procedura clinica che era iniziata con il manuale di Beck per la depressione e che poi si sarebbe sviluppata con i protocolli per il disturbo di panico (Clark, 1986), ansia sociale (Clark & Wells, 1995), disturbo da stress post-traumatico (Elhers & Clark, 2000), disturbi alimentari (Fairburn, Shafran, & Cooper, 1999) e disturbo ossessivo-compulsivo (Salkovskis, 1985).

Insomma, Clark, Salkovskis e compagnia erano già tutti comportamentisti. Cosa mancava che diede loro lo psicoanalista (perché lo era ancora) Beck? Non certo il fattore mentale come dice la vulgata, che è presente anche nel modello comportamentale di Skinner (1957) come comportamento e dove può essere un antecedente ambientale, un comportamento o una conseguenza. Esso però, a differenza che nel seguente cognitivismo, non è mai sovraordinato, non è considerato mai il fattore chiave che controlla tutti gli altri. Può essere un mediatore, ma uno tra i tanti. In questa veste, la concezione comportamentale del fattore mentale è in realtà avanzatissima, poiché consente di abbattere concettualmente una serie di barriere che ormai sono considerate obsolete, tra le quali ad esempio quella tra mente e corpo. Tuttavia, l’estrema flessibilità del modello comportamentale aveva un difetto, quella di lasciare il clinico troppo libero di scegliere quale fosse il comportamento bersaglio. Questa flessibilità finiva per impedire lo sviluppo di procedure di trattamento definite.

Nell’idea di Beck il mediatore cognitivo non è un concetto generico in cui può entrarci di tutto come nello Skinner di Verbal Behavior (1957). Il segreto è invece che Beck, quando parla di distorsioni cognitive, considera in questo mediatore un contenuto estremamente specifico e delimitato in una maniera che, in termini scientifici, può essere considerata semplicistica e rozzamente razionalista ma che poi è provvista di una grande efficacia ordinatrice nel definire la procedura. Questo contenuto sono le credenze sul sé, ovvero quello che il paziente pensa di sé stesso.

In seduta con Beck: la procedura sul Sé

Nella procedura di Beck, come sappiamo, egli parte da una situazione problematica tendenzialmente ambientale. Apparentemente agisce come un comportamentista che esplora gli antecedenti, ma a differenza di costoro egli semplifica la procedura, limitando l’esplorazione dell’ambiente alla definizione dell’aspetto problematico, ad esempio il giudizio degli altri nell’ansia sociale. Mentre un comportamentista, quindi, avrebbe esplorato l’ambiente in maniera dettagliata, cercando l’aspetto chiave e modificabile, l’esplorazione di Beck è più rapida poiché il fattore decisivo è il pensiero immediato e cosciente, quello che passa per la testa al paziente in quel momento. È vero che questa attenzione al solo aspetto problematico semplificato dall’ambiente e poi immediatamente a quel che passa per la testa del paziente in quel momento Beck lo abbia ricavato da fonti cognitiviste come ad esempio Albert Ellis. È noto che Beck, lettore onnivoro, avesse consultato anche Ellis. Tuttavia, Ellis era un altro transfuga della psicoanalisi sia pure interpersonale e non freudiana dell’Io! Si rafforza ancora l’idea di un cognitivismo elaborato teoricamente dai comportamentisti Mahoney, Meichenbaum e Lazarus e clinicamente dagli psicoanalisti: Beck ed Ellis.

Seguendo Ellis, Beck limita l’esplorazione dell’ambiente e si focalizza sulle piccole frasi che passano per la testa del paziente. E a pensarci bene, ancora una volta anche questa è una tecnica di provenienza psicodinamica, essendo la domanda di Ellis e Beck:

mi dica cosa le è passato per la testa in quel momento

una vicina parente della domanda freudiana:

mi dica cosa le passa per la testa senza filtri

Insomma, la tecnica di accertamento cognitivo è un derivato della tecnica delle associazioni libere che sono alla base dell’indagine psicoanalitica in cui si invita il paziente a dire ciò che gli passa per la testa. Derivata ma non uguale: Ellis ebbe l’idea di esplorare ciò che passa per la testa del paziente non in seduta, ma nel momento della situazione problematica e del sintomo. Ripetiamolo: è significativo che dunque, attraverso Ellis, Beck abbia potuto ancora una volta ereditare dalla psicoanalisi una tecnica specifica. È vero, tuttavia, che una tecnica simile la troviamo in George Kelly, il cosiddetto laddering, tecnica che anch’essa procede per associazioni spontanee invitando il paziente a rispondere alla domanda:

che cosa le piace in questo?

Domanda che in questa veste positiva tradisce la sua provenienza dalle tecniche di marketing, per le quali era inizialmente pensata. Nella sua forma clinica, invece, essa suona così:

che cosa non le piace in questo?

Tuttavia, c’è da dire che lo stesso Kelly non si definiva comportamentista e nemmeno cognitivista, del resto, termine che sarebbe arrivato in seguito.

Una volta indagato il pensiero immediato, il, cosiddetto pensiero automatico, Beck prosegue con la down arrow, ovvero incoraggiando il paziente, ancora una volta con una tecnica che è simile alle associazioni libere dinamiche, a dire qual è il significato personale emotivo di quel pensiero che gli è passato per la testa. Perché derivata dalle associazioni libere? Perché questo significato è un’associazione non logica ma libera, immediata, senza filtri. La domanda specifica infatti può essere sia puramente associativa:

cosa significa questo per lei?

Oppure può essere predittiva

cosa potrebbe accadere?

Ma comunque verrà intesa dal paziente nei suoi termini associativi ed emotivo. Naturalmente, essa va declinata nei suoi termini negativi:

cosa significa di male per lei questo?

Ora, a queste domande il paziente può rispondere con previsioni negative di eventi: potrei essere bocciato a un esame, potrei essere escluso da un gruppo, potrei essere respinto da una persona che mi piace, potrei avere dei danni; o anche deviando verso un’emozione negativa, potrei avere ansia, o infine su giudizi su se stessi e gli altri. L’intuizione di Beck fu che, qualunque fosse la risposta del paziente, essa andava infine convogliata su un giudizio negativo su se stessi, giudizio che poi in seguito è stato da Judith Back classificato in una ben nota tabella che riproduciamo qui:

Credenze centrali sul sé nella CT standard (Beck J., 2011, pag. 233)

Sé indifeso (helpless)

Difettoso; Fallito; Impotente; Indifeso; Incompetente; Inefficace; Perdente; Bisognoso; Non abbastanza buono; Fuori controllo; Impotente; Intrappolato; Vittima; Vulnerabile; Debole.

Sé non amabile (unlovable)

Cattivo; Destinato ad essere abbandonato; Destinato ad essere solo; Destinato ad essere rifiutato; Difettoso; Diverso; Non attraente; Non curato; Non desiderabile; Diverso; Non amabile; Non desiderato.

Sé inutile (worthless)

Uno spreco; Pericoloso; Non meritano di vivere; Malvagio; Immorale; Tossico; Inaccettabile; Inaccettabile; Inutile

Non basta. I debiti psicodinamici di Beck continuano, perché egli arrivava a una valutazione negativa su sé stessi come concetto clinico ordinatore che proveniva non solo dalla psicologia dell’Io ma che inoltre presentava analogie anche con il successivo modello di Kohut del Sé. Si tratta naturalmente di una semplificazione, perché la psicologia dell’Io aveva parlato di funzioni dell’Io, in una maniera che somiglia -tanto per imbrogliare ancor di più le carte- più al funzionalismo comportamentale, che di specifici contenuti dell’Io, ovvero della coscienza, come avrebbe fatto Beck. Non basta. A incrementare la confusione nello stesso modello di Beck questa semplificazione non è chiara, dato che esiste anche una prima fase di Beck cognitiva sì ma di tipo processuale, come ad esempio quando Beck parla non di credenze del Sé ma di ragionamento emozionale o di generalizzazione. E da dove veniva questo processualismo iniziale di Beck? Dal funzionalismo comportamentista o dalla psicologia dell’Io freudiana? Insomma, questa psicoanalisi continua a intrufolarsi nel modello di Beck.

Tuttavia, a questo aspetto processualista poi si unirono dei contenuti cognitivi che sembrano quasi provenire dal Sé di Kohut (psicoanalista anche lui) ma anche da Winnicot (psicoanalista anche lui). Infatti nel diagramma di concettualizzazione cognitiva (CD) si vede che questi processi distorti sono indagati da Beck come specifici contenuti cognitivi su ste stessi: sono fragile, sono debole, sono incompetente e così via, e che poi sono stati modellizzati nella tabella di Judith Beck. Eppure in tutta visione fragile e tremebonda del sé malato intravediamo il bambino fragile e trascurato che fu prima di Winnicot e poi di Kohut. Ma non di Freud: come molti di quel periodo, Beck è uno psicoanalista che si distacca da Freud.

Ora però andiamo sulla concretezza clinica in seduta. Come avviene questo accertamento finale delle credenze del sé in chi rimase psicoanalista e in chi inventò il cognitivismo, come Beck? Anche lo psicoanalista in fondo arriva sempre lì, sia pure in maniera diversa. Anche nella procedura per libere associazioni della psicoanalisi il traguardo conclusivo è:

E lei, come si vede in quella situazione (problematica)?

Tuttavia, lo psicoanalista ottiene questo con una tecnica paradossale, limitandosi a reagire alle parole del paziente tacendo e creando con effetto straniante, mentre il terapista cognitivo alla Beck incoraggia attivamente e guida il paziente a trovare associazioni su sé stesso. Tuttavia, anche il silenzio dell’analista porta a risposte sul sé (e sugli altri), ovvero il paziente spontaneamente tende a concettualizzare il suo problema nei termini di un giudizio che dà di sé stesso o dell’altro. È la ragione per la quale Luborsky ha concettualizzato il suo modello formalizzato del transfert, ovvero il core conflictual relational theme in maniera stupefacentemente simile all’ABC di Beck, ovvero in termini di risposte (ovvero credenze e comportamenti) dell’altro e del sé.

La vera differenza tra Beck e i suoi colleghi psicoanalisti sta in quel che accade dopo. Arrivati a un giudizio su di sé (o gli altri), di tipo negativo, Beck inizia la risalita verso l’alto, invitando il paziente a metter in discussione questo punto di arrivo. Si tratta del famoso questioning razionalista, la cui esecuzione assume la forma:

Siamo sicuri così che sia proprio così? È proprio così? Lei sarebbe davvero così? Così inadeguato, così fragile? 

Fino al famigerato:

Che prove ci sono?

Questo intervento è stato tacciato di essere relazionalmente difficile per il paziente e freddo. In realtà, nella esecuzione di Beck, esso è estremamente validante e accogliente, poiché il paziente è invitato a rielaborare la visione negativa e autopunitiva di sé stesso, visione appena accertata dettagliatamente e in maniera accogliente e non in quella straniante del silenzio psicoanalitico. Certo, molto fa anche lo stesso stile personale di Beck di conduzione della seduta, una capacità di accoglimento coinvolgente e rispettosissima e che permette questa coloratura positiva del questioning. Ma non sono solo i modi e la prosodia calma di Beck, è la procedura in sé che, lungi da essere un freddo calcolo, si rivela essere un caldo e incoraggiante invito al paziente ad avere una visione di sé positiva e non punitiva. Beck ribalta Melanie Klein.

Beck e Clark: dalla psicoanalisi al comportamentismo britannico

Rimane la domanda sul perché alcuni comportamentisti, soprattutto britannici, accettarono così pienamente il contributo di Beck. Sembra che sia stato soprattutto il gruppo di Oxford, capitanato da Clark e Salkvoskis, a metter da parte tutte le remore comportamentali che oggettivamente sono incompatibili con la posizione sovraordinata delle credenze sul sé. Stabilito che Beck non condivideva il retroterra comportamentista e che anzi ne era particolarmente lontano, ora che ne abbiamo illuminato le persistenti radici psicodinamiche, questa adesione piena di Clark e Salkovoskis alla CT rimane in parte inspiegabile a meno che non immaginiamo che nel fondo del comportamentismo britannico agisse una base cognitiva, che forse era forse dovuta alla grande influenza della psicoanalisi in Inghilterra, paese in cui a un certo punto avevano vissuto e operato a lungo sia Anna Freud e i suoi seguaci, che poi negli Usa avrebbero dato origine alla psicologia dell’Io, sia Melanie Klein e poi gli indipendenti di Fairbairn e Winnicot, che con le relazioni oggettuali collegarono le pulsioni alle rappresentazioni mentali. Tutto questo significa che la psicoanalisi britannica poteva avere un forte interesse per l’assetto cognitivo che ipoteticamente, almeno nell’ambiente accademico, può avere influito su Clark e Salkovskis.

Insomma, Clark e Salkovskis trovarono nelle credenze sul sé di Beck un modo efficiente ed economico per standardizzare le loro analisi funzionali comportamentiste senza perdere di flessibilità. Indirizzando grazie a Beck l’analisi funzionale comportamentale su alcuni aspetti invarianti, l’aspetto problematico delle situazioni, il pensiero automatico e poi, con la tecnica della down arrow, il significato personale e infine la credenza centrale sul sé, la procedura diventò più formalizzata, controllabile e ripetibile, ma al tempo stesso conservava una flessibilità soggettiva che permetteva di personalizzare la valutazione sul paziente singolo con la soggettività delle credenze sul sé. Infine, queste credenze permettevano una corrispondenza con le diagnosi psichiatriche del manuale diagnostico DSM di disturbo d’ansia generalizzato, depressione e disturbo ossessivo, non a caso proprio le diagnosi bersaglio della terapia cognitiva. Fu l’inizio di una fruttuosa amicizia, in cui Beck e Clark misero a punto il definitivo modello congiunto cognitivo comportamentale e lo diffusero nel mondo (Clark, Beck, Alford, 1999).

Il Sé nella seduta analitica freudiana

La componente positiva diventa ancora più chiara se confrontata all’esito che invece prospettava la tecnica analitica della neutralità adottata dai colleghi di Beck nel gruppo di Rapaport. Infatti, nella tecnica analitica il paziente, arrivato a una visione di sé o degli altri negativa, vien messo a confronto con una interpretazione profonda, che può essere una rivelazione delle difese e/o delle pulsioni nascoste. In entrambi i casi, al paziente veniva comunicato che in realtà quella visione di sé, in apparenza onesta e perfino coraggiosa nella sua natura autopunitiva e auto-flaggelatoria (in fondo si tratta di un giudizio negativo su sé stessi) è solo apparentemente sincera e severa con sè stessa. In realtà, come rivela la mannaia dell’interpretazione analitica, quella visione negativa di Sé è una difesa, un modo per giustificarsi, e nasconde qualcosa di molto più negativo e inconfessabile: una pulsione. Una vergognosa pulsione che il paziente non confesserà mai spontaneamente.

Pulsione che per lo più, nei modelli psicodinamici, non può che essere freudianamente un desiderio di tipo affettivo, dalla eccitazione esplicitamente sessuale di Freud al bisogno più umanamente tenero e relazionale di Winnicot, essere amati, oppure una cupa e sanguinaria pulsione aggressiva o rabbiosa alla Melanie Klein. In ogni caso l’analista oppone la sua implacabile e irrespingibile rivelazione al paziente (se respinta è un’altra difesa, una resistenza) che è poi un inquisitoriale invito ad andare più a fondo, a confessare, a essere sincero, invito che finisce per essere espresso in termini giudicanti, un po’ perché pronunciato nella cornice straniante della maniera neutrale psicoanalitica, ma anche esplicitamente giudicante a causa della teoria dell’inconscio per cui il vero contenuto sarebbe comunque nascosto e ciò che è espresso esplicitamente dal paziente è comunque sospetto e in qualche modo falso.

Nulla di tutto questo in Beck. Al contrario, come già detto, l’intervento risulta validante e confortante per il paziente, non solo per i toni dolci di Beck, ma soprattutto come contenuto: il paziente è oggettivante incoraggiato a costruire una migliore opinione di sé stesso. C’è da dire, inoltre, che la procedura di Beck, lungi dall’essere isolata come troppo spesso è stato fatto, una sorta di unicum separato dal resto della storia della psicoterapia, va invece a inserirsi in quel cambiamento storico che avveniva in quegli anni, per cui in psicoanalisi si passava da un atteggiamento di interpretazioni dall’alto non collaborativa con il paziente, con il quale era negata qualunque possibile interazione paritaria, a una crescente attenzione per gli aspetti relazionali sia nel modello britannico delle relazioni oggettuali che in quello americano della psicoanalisi interpersonale di Stack Sullivan e che sarebbe sfociato poi nel modello della psicologia del sè di Kohut, teso a rafforzare la stima di sè e la valutazione positiva di sè del paziente, il suo cosiddetto narcisismo, sano.

Allo stesso modo il modello di Beck al tempo stesso promuoveva un atteggiamento paritario definito di empirismo collaborativo, una concezione della psicopatologia più fiduciosa verso il paziente, in cui si dava credito alla sincerità e alla genuinità delle sue credenze negative e, infine, l’intervento, lungi dall’essere freddamente razionale, era invece caldamente validante. Il paziente era compreso nelle sue dinamiche negative e poi incoraggiato a sviluppare una migliore opinione di sé. Un altro parallelo è con il modello di Carl Rogers, anch’esso validante. Del resto a sua volta l’intervento di Rogers lo si può considerare sottilmente cognitivo, in quanto va a mettere in crisi l’opinione del paziente che i suoi stati mentali siano anormali e intollerabili, mentre Rogers glieli ristruttura normalizzandoli.

Il Sé nel costruttivismo

Anche in relazione al rapporto con lo sviluppo parallelo del costruttivismo possiamo rielaborare la nostra concezione di Beck. Sappiamo che in genere il confronto tra Beck e il costruttivismo, sia quello americano di Mahoney che quello di Guidano e Liotti, consisterebbe nell’opporre il razionalismo di Beck che in seduta si limiterebbe a condannare razionalmente la natura distorta ed errata delle credenze cognitive sul sé, mentre il costruttivismo di Mahoney e Guidano valorizzerebbe e normalizzerebbe i contenuti cognitivi negativi dando loro un significato personale nella vita del paziente, dotato di senso e che solo un irrigidimento successivo avrebbe poi indirizzato verso la disfunzionalità. Il problema è che i costruttivisti hanno sempre attribuito questa etichetta di razionalista a Beck con eccessiva facilità, non comprendendo il suo retroterra psicodinamico che invece contributiva a fargli assumere una posizione molto più complessa. Era proprio il retroterra psicodinamico che consentiva a Beck di concepire il sintomo allo stesso modo dei costruttivisti, come un irrigidimento di un vissuto che aveva le sue radici nel passato del paziente e che quindi aveva un significato personale nello sviluppo evolutivo del paziente. Dando un’occhiata alla tavola delle organizzazioni di personalità di Guidano e Liotti non può non saltare agli occhi il parallelismo con quelle di Beck. La contrapposizione tra modello cognitivo standard e costruttivista traballa e finisce per rivelarsi una rivalità più immaginaria che reale, se pensiamo che nel modello di Mahoney e Guidano i termini diagnostici sono addirittura più chiaramente dichiarati nei nomi delle organizzazioni di personalità: fobica, ossessiva, depressiva, dappica (da disturbo alimentare psicogeno).

Organizzazioni di personalità costruttiviste (Guidano e Liotti, 1983, pp. 171-306; Mahoney et al., 1995; Mahoney, 2003)

Organizzazione fobica della personalità

Essere disprezzato; Essere deriso; Essere ridicolizzato; Necessità di protezione; Non amabile; Non in controllo; Incapace di affrontare; Debole.

Organizzazione della personalità depressa

Abbandonato; Sbagliato; Deluso; Fallito; Impotente; Isolato; Scomparso (perdita); Bisognoso di approvazione; Non amato; Rifiutato; Separato; Inutile.

Organizzazione della personalità ossessiva

Controllato; Distaccato; Dubbioso; Colpevole; Giudicante; In cerca di certezze; Morale; Perfezionista; Responsabile; Trattenuto; Emotivo.

Organizzazione della personalità da disturbo alimentare psicogeno

Aderire al giudizio degli altri; Desiderio di contatto emotivo; Dipendente; Autocritico; Autoironico; Indefinito.

La vera differenza era che Beck, diversamente da Mahoney e Guidano, aveva un procedura determinata che era quella down arrow la quale derivava -come abbiamo visto- sia da una rielaborazione della tecnica psicodinamica delle associazioni libere, in cui al silenzio dell’analista era sostituito un amichevole e incoraggiante (e non freddo e razionale come in certe caricature della terapia cognitiva nè tantomeno accusatorio e penitenziale come in certe derive psicodinamiche) invito a definire in termini di intollerabile e disfunzionale giudizio su di sé quello che era un segnale emotivo funzionale, sia da altre tecniche di provenienza non comportamentale, ma derivate dalla psicologia del lavoro e del marketing, come ad esempio la già citata tecnica del laddering elaborata nell’ambiente della psicologia dei costrutti personali di Kelly.

Questa qualità ordinatrice della procedura di Beck è così pervasiva e potente che la si può vedere in azione anche nel modo di operare in professionisti che hanno subito la sua influenza indirettamente e che in teoria a livello esplicito la rifiutano, almeno parzialmente. Leggiamo ad esempio questo scambio clinico tra un terapeuta e il suo paziente. Il terapeuta usa delle tecniche di accertamento in parte paradossali o, come si dice oggi, corporee, inducendo un “enactment” terapeutico per attivare una reazione aggressiva nel paziente che poi sarà accertata. Lo fa parlando del cellulare del paziente, poggiato sulla scrivania. Gli dice che immagina che per il paziente il cellulare sia importante e poi lo invita a prenderlo e, mentre il paziente lo fa, il terapeuta gli blocca improvvisamente e con decisione il polso. Il paziente (il cui nome è Francesco, apprendiamo) è sorpreso, ma il terapeuta lo invita a tentare di afferrare di nuovo il cellulare e di nuovo il terapeuta gli blocca il polso. Poi gli chiede:

T.: Francesco, vedo la sua reazione rabbiosa. Mi può dire come si è sentito mentre le bloccavo la mano?
P.: Mi sentivo un idiota…
T.: Che sentimento è?
P.: Degradato, disonorato, sottomesso
T.: Uhm, sottomesso … Dunque, qualcosa come umiliato?
P.: Si umiliato
T.: Dunque quando lei subisce una prepotenza, le scatta una immagine di sé come sottomesso e umiliato. Subito dopo, ma solo dopo, parte la reazione protettiva di tipo rabbioso (Dimaggio, Ottavi, Popolo, Salvatore, 2019 p. 108-109).

Ci sarebbe molto da riflettere su questo scambio e in generale sulla tecnica esposta nel libro dei colleghi e non è questa la sede adatta. Lo faremo dettagliatamente altrove. Qui basti notare che questo scambio consente di comprendere qual è stato il vero contributo di Beck, di cui anche i colleghi, che non sempre lo apprezzano, usufruiscono. Un contributo molto più clinico, concreto e soprattutto incarnato che astrattamente teorico: l’accorgimento che l’indagine degli stati mentali di sofferenza può essere condivisa con il paziente e da lui compresa in termini accessibili formulandola mediante convinzioni, pensieri su sé stesso. La vera intuizione di Beck non è stata l’astratta e disincarnata teoria sul pensiero che governa l’emozione o viceversa, ma il fatto reale e incarnato che la sofferenza emotiva, in sé confusa e apparentemente incontrollabile, sia formulabile in seduta e resa più chiara e comunicabile a sé stessi e al terapeuta, e infine gestibile in seduta e nella vita quotidiana, traducendola in giudizi personali su sé stessi, che rendono bene la natura del deterioramento disfunzionale di questi stati mentali, il fatto che il paziente invece di utilizzare le emozioni come segnale di stato le usa come mezzi per definire sé stesso in termini negativi e paralizzanti.

Questa intuizione clinica, come abbiamo visto, non proveniva affatto dalla disincarnata rivoluzione cognitiva di Miller, Gallanter e Pribram ma dalla incarnata formazione psicodinamica di Beck, da lui semplificata e purificata immettendo in essa la necessaria dose di buon senso, che poi significa fidarsi del paziente, ed eliminando le controintuitive interpretazioni che andavano oltre le credenze negative espresse dal paziente: il genio della semplicità di Beck consisté nel capire che quelle credenze apparentemente banali perché spontaneamente e coscientemente espresse dal paziente già da sole bastavano a spiegare la disfunzionalità. Il secondo contributo pratico di Beck è stato aver proposto che fosse possibile incoraggiare il paziente a distaccarsi da questi contenuti dolorosi semplicemente incitandolo a sottoporre a esame critico gli aspetti disfunzionali. La capacità critica, lungi dall’essere una funzione esterna al vissuto mentale come talvolta e criticamente suggerito da Liotti, una sorta di prodotto culturale la cui funzione sarebbe solo storica e tecnologica mentre non avrebbe alcun ruolo nella vita emotiva e soggettiva, ha proprio questa funzione auto-riflessiva di fornire al soggetto una visione alternativa rispetto a quella automatica, sia nella valutazione della minaccia che nella pianificazione di comportamenti utili.

Che Beck abbia poi legato la sua intuizione al modello cognitivo è stato un bene ancora una volta più clinico e incarnato che teorico e disincarnato, in quanto ha aiutato i comportamentisti a focalizzare su un bersaglio determinato l’analisi funzionale e comportamentale, che prima rischiava di essere poco specifica per i vari disturbi per eccesso di flessibilità. L’accorgimento di Beck permise di rendere l’analisi comportamentale specifica per le diagnosi psichiatriche, che poi è stato il vero salto di qualità della psicoterapia cognitiva, determinando alcuni svantaggi, ma anche l’indubbio vantaggio di poter finalmente dimostrare l’efficacia medica della psicoterapia, risultato che poi è andato a vantaggio di tutte le psicoterapie.

In questo senso è vero che la riduzione dell’attività cognitiva ai pensieri espliciti è debole dal punto di vista teorico ed è una semplificazione del modello cognitivo, tanto che è stata criticata dagli studiosi processualisti della terza onda che correttamente hanno definito il mediatore cognitivo come:

rather as a retroactive executive agent providing control feedbacks on mental states, a function which is more metacognitive than properly cognitive, being a second-order regulation -within the mind itself- of mental states by mental processes and not a first-order cognitive evaluation of an object to know (Wells & Mathews, 2015, p. 31).

Questa debolezza è tuttavia solo teorica e non clinica e questo dimostra proprio lo scambio dei colleghi, in cui è chiarissimo come sia il terapeuta che il paziente effettuino un down arrow alla Beck, pur non rendendosene pienamente conto. Che non se ne rendano conto è comprensibile dato che il terapeuta pare non abbia seguito una formazione cognitiva standard con Beck, ma un’altrettanto ottima formazione costruttivista. E tuttavia tale è la forza clinica del concetto beckiano di credenza sul sé che entrambi, terapeuta e paziente, usano delle credenze su sé alla Beck per formulare in termini maneggevoli e condivisi la disfunzionalità degli stati mentali del paziente stesso. Rileggiamo il passo critico:

T.: Che sentimento è?
P.: Degradato, disonorato, sottomesso
T.: Uhm, sottomesso … Dunque, qualcosa come umiliato?
P.: Si umiliato

Notiamo come il terapeuta usi il termine “sentimento” per incoraggiare il paziente a esprimere la credenza su di sé, un pensiero quindi alla Beck. Interessante che il paziente non riporti un’emozione alla richiesta di descrivere un “sentimento”. Nel seguito del trattamento il terapeuta usa la credenza di Beck non per attuare un questioning cognitivo ma per condividere col paziente il razionale di un repertorio di interventi di vario tipo, che oscillano dal corporeo esperienziale al relazionale e perfino con qualche ristrutturazione cognitiva. Questa ecletticità del collega va anch’essa a merito -almeno in parte- della formulazione alla Beck, dimostrandone la compatibilità con interventi di vario tipo. In un altro testo dedicato alle tecniche cognitive specifiche approfondiremo definitivamente questo aspetto.

 

Suoni e vibrazioni fantasma: il ruolo della dipendenza da dispositivi mobili

Il fenomeno dei Phantom Phone Signals (Segnali Telefonici Fantasma) si caratterizza per la percezione di squilli, vibrazioni e/o stimoli visivi associati ad una chiamata o messaggio in arrivo dal telefono cellulare, in assenza di una notifica effettivamente presente (Tanis et al., 2015).

 

Secondo Deb (2015), questa esperienza viene avvertita tra il 27% e l’89% degli utenti di telefoni cellulari e, sebbene questo possa denotare l’esistenza di una vera e propria sindrome da vibrazione fantasma, non si tratta di una malattia o disturbo universalmente conosciuto (Rothberg et al., 2010).

I Phantom Phone Signals costituiscono delle allucinazioni, poiché la mente percepisce una sensazione in assenza di una base fisica (Rothberg et al., 2010). Si tratta di un rilevamento problematico di segnale, potenzialmente influenzabile da fattori personologici, quali condizione soggettiva fisiologica, contesto, aspettative ed esperienze precedenti (Tanner & Swets, 1954). Rothberg (2010) ha rilevato che tali percezioni venivano esperite frequentemente da personale medico giovane che aveva dispositivi (come cercapersone o cellulare) nelle tasche, e li utilizzava in modalità vibrazione.

Anche la presenza di tratti che rimandano al modello di personalità a cinque fattori (“Big Five”; McCrae et al., 2005) come l’estroversione, la coscienziosità e il nevroticismo/stabilità emotiva, correla al fenomeno dei Phantom Phone Signals.

Tra gli individui estroversi, fortemente desiderosi di creare e mantenere legami sociali, il supporto sociale erogato online costituisce un rischio di insorgenza dello sviluppo di una dipendenza da telefoni cellulari (Bianchi & Phillips, 2005; Hong et al., 2012), che potrebbe alimentare i fenomeni allucinatori.

Coloro con elevata coscienziosità, sono organizzati, affidabili, motivati al successo e mostrano autodisciplina, adottando un comportamento pianificato. Questi individui, per la loro tendenza all’automonitoraggio, sono meno inclini a sviluppare dipendenze (compresa quella da internet) (Kuss & Griffiths, 2011; Wilson et al., 2010) e sperimentano meno frequentemente i Phantom Phone Signals.

Il nevroticismo consiste nella tendenza a provare facilmente emozioni spiacevoli, come rabbia, ansia, depressione e vulnerabilità. Il suo opposto, ovvero la stabilità emotiva, comporta maggiore controllo degli impulsi e minore reattività, rendendo la personalità più stabile, calma e meno attivata.

Gli individui con elevati livelli di nevroticismo, non rispondono in modo adattivo nelle situazioni stressanti, e spesso interpretano aspetti di normalità in modo minaccioso. Tale caratteristica aumenta la probabilità di sperimentare Phantom Phone Signals.

Kruger & Djerf (2017) hanno ipotizzato che i fattori personologici implicati nelle esperienze telefoniche allucinatorie, siano riconducibili ad una componente di dipendenza psicologica da dispositivi mobili.

Il fenomeno della dipendenza costituisce una condizione patologica connotata da un impegno compulsivo in stimoli intrinsecamente gratificanti, nonostante le conseguenze avverse che possono comportare (Melenka et al., 2009). Gli stimoli che conferiscono piacere vengono rinforzanti, aumentando la probabilità di ricerca ripetuta dell’esperienza positiva e che diviene desiderabile (Melenka et al., 2009).

L’uso compulsivo o eccessivo del telefono cellulare, nonostante possa avere aspetti che rimandano alla dipendenza patologica, non è parte di un quadro diagnostico descritto dal Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-5), pertanto si configura come una mera dipendenza psicologica.

La dipendenza psicologica comporta anch’essa sintomi di astinenza, che si sviluppano con la cessazione dell’esposizione costante e frequente con lo stimolo (Melenka et al., 2009). Alla base della dipendenza da cellulare può esserci un bisogno relazionale di comunicazione (Drouin et al., 2012). Come riscontrato da Subba et al., 2013, soggetti potenzialmente dipendenti che utilizzavano il telefono in classe e nel momento del pasto riportavano maggiormente esperienze fantasma. Inoltre, chi controllava frequentemente i messaggi manifestava maggiore ansia quando non riceveva risposte immediate, oltre ad essere più infastidito dalle vibrazioni fantasma (Drouin et al., 2012).

Nello studio di Kruger & Djerf (2017), è stato ipotizzano che le esperienze di Phantom Phone Signals siano un sintomo di dipendenza psicologica dalle comunicazioni mediante telefono cellulare, e dalla conseguente ipersensibilità agli stimoli gratificanti, come quello delle notifiche telefoniche.

Gli individui che si mostrano psicologicamente dipendenti dalla comunicazione con il cellulare possono interpretare, con maggiore probabilità, sensazioni ambigue (sonore, tattili o visive), sotto forma di chiamate e messaggi in arrivo. Inoltre, i fattori di personologici che potrebbero aumentare la probabilità di esperire suoni fantasma, potrebbero interagire con i sintomi della dipendenza dal telefono cellulare.

Sono state valutate le cinque dimensioni della personalità (apertura, coscienziosità, estroversione, gradevolezza e stabilità emotiva/nevroticismo) in un campione di 766 studenti universitari, che hanno compilato il Ten Item Personality Inventory (TIPI; Gosling et al., 2003). In seguito è stata indagata la percezione di suoni o messaggi fantasma con item ad hoc, mentre la dipendenza da cellulare mediante la Mobile Phone Problem Use Scale (MPPUS; Bianchi & Phillips, 2005).

I risultati dell’indagine riconducono il fenomeno dei Phantom Phone Signals alla dipendenza psicologica dalle comunicazioni con cellulare. Infatti, queste allucinazioni, similmente alla dipendenza psicologica, denotano un’ipersensibilità e vengono elicitate da stimoli gratificanti (Olsen, 2011), in questo caso il telefono, oggetto del desiderio.

I sintomi riferiti dai soggetti e legati alla dipendenza includevano il rinforzo negativo (per cui l’uso del telefono cellulare darebbe sollievo dalle emozioni avverse), emotività negativa nel caso in cui l’uso del telefono veniva impedito e pensieri ossessivi nel momento in cui il dispositivo non veniva utilizzato.

Valutando le diverse modalità sensoriali di esperienza delle allucinazioni (uditive, tattili e visive), la vibrazione fantasma si è rivelata la più comune, sperimentata da tre quarti dei partecipanti.

Per quanto concerne le differenze personologiche, di genere ed età indagate, le donne, gli individui più giovani e quelli con minore coscienziosità e stabilità emotiva (cioè maggiore nevroticismo), manifestavano sintomi più elevati di dipendenza dal telefono cellulare.

In conclusione, le relazioni umane sono intrinsecamente subordinate e legate alla tecnologia, che assume una valenza sociale. Gli individui maggiormente dipendenti dalle comunicazioni tramite telefono cellulare sperimentano un’ipersensibilizzazione a stimoli provenienti dal dispositivo mobile, fino ad arrivare ad allucinare attivamente tali sensazioni. Ulteriori ricerche nell’ambito potrebbero aiutare a definire la dipendenza legata al dominio tecnologico.

 

Lavorare come Psicologo del Benessere. Tecniche Psicocorporee e Immaginative (2021) di Edoardo Ercoli e Laura Gigliodoro – Recensione

Lavorare come Psicologo del Benessere, Tecniche Psicocorporee e Immaginative, Edra Editore, è un ottimo libro di formazione.

 

È stato scritto a due mani da Edoardo Ercoli, Psicologo, formatore e consulente aziendale, Socio fondatore di Obiettivo Psicologia srl, e Laura Gigliodoro, Psicologa, formatrice e consulente aziendale, Docente e responsabile organizzativa della Scuola di Counseling Psicologico di Obiettivo Psicologia. I due autori hanno cercato di seguire un approccio pratico e concreto nella stesura di questo libro, creando una vera e propria guida fornendo indicazioni, spunti, riflessioni e strumenti utilizzabili da tutti quegli psicologi interessati a lavorare con tecniche legate alla dimensione corporea e immaginativa.

Partendo dallo sviluppo della consapevolezza, intesa come elemento fondante e necessario per poter agire cambiamenti intenzionali, le tecniche e gli esercizi presentati sono utilizzabili sia all’interno del lavoro individuale sia in quello di gruppo,

Ben schematizzato, si inizia parlando di setting ed in modo accurato si sviscera l’allestimento dell’ambiente di lavoro, i tempi e gli strumenti a disposizione (stimoli sonori, olfattivi, abbigliamento).

Si continua elencando le fasi delle pratiche psicocorporee e immaginative per arrivare quindi ad elencare e spiegare propriamente tecniche come:

  • Il rilassamento muscolare progressivo di Jacobson
  • Il sorriso intenzionale
  • Il rilassamento di Vogt
  • L’osservazione scannerizzata del corpo
  • La segmentazione interna

E quindi le esperienze immaginative con:

  • Il sogno guidato
  • La tecnica del cinema

La lettura del libro è scorrevole e i contenuti sono scritti in un modo davvero dettagliato, il libro non lascia dubbi e realizza il suo intento, ovvero creare nuove armi da fornire agli psicologi, per permettere di raggiungere ai propri clienti il benessere psicocorporeo.

 

Storia dell’ipnosi: James Braid e l’ipnosi nella gestione del dolore

La rubrica della dott.ssa Nicoletta Gava procede compiendo un altro passo attraverso il XIX secolo per parlarci di James Braid: chirurgo, ricercatore e filosofo scozzese nato nel 1795 e importante innovatore nel campo dell’ipnosi.

 

Si tratta di una figura fondamentale che consolidò le basi di applicazione medica della disciplina soprattutto nell’area della gestione del dolore. In un tempo in cui la chemioanestesia era ancora nella sua infanzia, la possibilità di portare sollievo a pazienti che avrebbero dovuto attraversare dolorose procedure chirurgiche apriva nuove possibilità di trattamento. Iniziò a praticare il mesmerismo in una fase già matura della sua carriera ma da tempo aveva espresso un’opinione critica rispetto alle ipotesi di Mesmer secondo le quali gli effetti sorprendenti di questo stato mentale fossero da attribuirsi ad un fluido magnetico.

Dopo aver assistito ad una dimostrazione di ipnosi da parte di Charles Lafontaine, decise di sperimentare le metodiche induttive su se stesso dando vita alle prime procedure formali di autoipnosi. Queste sperimentazioni gli permisero di capire che lo stato trance era di fatto generato dalla focalizzazione dell’attenzione su un oggetto esterno o mentale: un monoideismo si dirà in seguito.

In un tempo in cui l’ipnosi era ancora ammantata di un velo di misticismo, Braid decide di descriverla come un fenomeno psico-fisiologico spiegabile e replicabile e consoliderà la sua visione della disciplina nella sua opera più famosa Neurypnology, gettando così le basi che porteranno la tecnica ad assumere il suo nome moderno: ipnosi.

Vista la sua posizione demistificante e la notorietà che raggiungerà grazie alle sue scoperte, fu anche oggetto di critiche sia dal mondo scientifico che dal mondo religioso. In quanto cofondatore della Scuola di Nancy – una delle più importanti istituzioni dedicate allo studio dell’ipnosi – si trovò in diretta opposizione con la Scuola di Parigi e con il celebre Charcot. D’altra parte, alcuni rappresentanti del clero di allora, considerando i fenomeni ipnotici frutto della manifestazione di fantomatici poteri demoniaci, lo criticarono ferocemente.

Rimase interessato all’ipnosi per il resto della sua vita e nei suoi ultimi scritti ne auspicava la diffusione come strumento terapeutico da associare ai trattamenti medici.

 

STORIA DELL’IPNOSI: JAMES BRAID – GUARDA IL VIDEO:

L’autorivelazione (self-disclosure) come strumento di lavoro del professionista sanitario

L’autorivelazione può essere uno strumento efficace nelle mani del sanitario per abbattere le difese dietro le quali spesso i pazienti si barricano nella convinzione che nessuno possa davvero comprendere il loro stato d’animo.

 

L’autorivelazione, più comunemente conosciuta come self-disclosure, è una tecnica attraverso la quale il medico o il professionista che opera nell’ambito delle professioni d’aiuto rivela, in modo cosciente e intenzionale, una propria esperienza personale al paziente.

Tale intervento, per essere efficace e utile, deve rispondere ad alcuni criteri:

  • l’esperienza che il sanitario propone deve essere simile o uguale (nei fatti e sul piano delle emozioni che evoca) a quella vissuta dal paziente, per dare vita ad una relazione autenticamente empatica;
  • l’autorivelazione può essere utilizzata esclusivamente in una fase in cui la relazione d’aiuto ha raggiunto un’intensità emozionale elevata e mai quindi all’inizio di un colloquio;
  • è importante che essa sia una scelta deliberata e consapevole del professionista (Ardis, Marcucci, 2013).

L’utilizzo dell’autorivelazione, come intervento clinico e terapeutico, deve essere guidato, – oltre che dalle indicazioni di carattere tecnico – dal “sentire” del professionista che diventa la bussola principale per muoversi in questa particolare dinamica. In questo mare di intrecci relazionali e comunicativi, risulta fondamentale la valutazione del bisogno del paziente che si ha difronte. È davvero un suo bisogno quello di creare quella profonda sintonizzazione emotiva con il clinico che consegue all’intervento dell’autorivelazione? Oppure, il bisogno di esprimere e condividere un’esperienza personale è piuttosto un bisogno del professionista?

Vediamo di seguito quali sono le condizioni in cui tale intervento può risultare più o meno valido ed efficace.

Autorivelazione: condizioni di rischio

Processi come quello dell’autorivelazione possono essere utilizzati in modo inconsapevole dal curante per rispondere al proprio bisogno di condivisione, di rassicurazione, o per rendere più facile e immediato l’accesso al mondo del paziente. Infatti, lo svelare elementi della propria storia personale, nella maggior parte dei casi, predispone immediatamente l’altro (il paziente nel caso specifico) al dialogo e all’apertura conducendolo in modo speculare allo svelamento di sé. In tali condizioni, è evidente che l’intervento dell’autorivelazione non risulta essere tanto un bisogno del paziente quanto piuttosto del professionista, che può così condividere un’esperienza dolorosa e “utilizzarla” come catalizzatore della relazione con l’individuo malato senza però valutare gli effetti e le conseguenze su quest’ultimo. Ad esempio, ci si deve chiedere se e quanto chi si ha difronte sia in grado di “reggere” la sofferenza trasmessa dal racconto che gli viene offerto oltre a quella personale che già sta sperimentando. In caso contrario, la rivelazione dell’esperienza del medico/sanitario risulterà un peso ulteriore ed eccessivo che renderà, all’opposto di quanto previsto, la relazione densa di significati spiacevoli per il paziente. Infine, è importante valutare se l’abbattimento dei confini personali, insito nell’intervento dell’autorivelazione, possa essere o meno utile all’individuo che stiamo trattando e non rischi piuttosto di togliere credibilità al professionista che si sarà reso così emotivamente vulnerabile. Come sappiamo, infatti, determinati tipi di pazienti, in base a precise caratteristiche di personalità, hanno bisogno – per potersi affidare a lui – di percepire il professionista come solido e forte in grado di accogliere e contenere le proprie angosce.

Condizioni favorevoli

Escluse condizioni come quelle appena descritte, l’autorivelazione può essere uno strumento efficace nelle mani del sanitario per abbattere le difese dietro le quali spesso i pazienti si barricano nella convinzione che nessuno possa davvero comprendere il loro stato d’animo. Il racconto, da parte del professionista, di un’esperienza simile o uguale a quella del paziente, fa sentire quest’ultimo sicuramente maggiormente compreso ma altresì gli consente di esprimere dubbi e paure nella convinzione che chi ascolta possa davvero offrirgli indicazioni e consigli utili alla sua situazione. In tal caso, l’autorivelazione può migliorare il rapporto terapeutico, consentendo un’esclusiva sintonizzazione emotiva, e favorire la compliance terapeutica. Come spesso si osserva nelle professioni d’aiuto, infatti, nelle situazioni in cui risulta difficile istaurare una relazione improntata sulla fiducia, il paziente mette in atto resistenze e comportamenti che vanno contro la buona riuscita dell’intervento (del medico, del fisioterapista o di qualunque altra figura in ambito sanitario). L’instaurarsi di una relazione positiva può aumentare l’aderenza ai trattamenti migliorando a sua volta la percezione che si ha delle cure ricevute. Alcuni pazienti, quindi, possono beneficiare di un intervento come l’autorivelazione poiché consente loro di percepire il sanitario come una figura più “umana” e quindi maggiormente in grado di aiutarlo.

Un’esperienza tratta da un caso di supervisione

Una fisioterapista di un Centro Clinico di Senologia, che nel rispetto della privacy chiameremo Rosa, partecipa ad un incontro di supervisione clinica portando come oggetto di discussione le sue difficoltà nella gestione del legame affettivo che lei stessa tende a creare con le pazienti affette da cancro al seno che afferiscono al suo ambulatorio. Rosa racconta di instaurare con le pazienti un particolare legame confidenziale che a suo parere le aiuta a fidarsi, facilita la presa in carico e migliora il loro stato emotivo nei confronti della malattia. In questa dinamica relazionale si inserisce la condivisione da parte di Rosa di una sua esperienza personale, ovvero una malattia simile vissuta dalla sorella, poi deceduta. Il racconto di questa esperienza, secondo Rosa, fa in modo che le pazienti si sentano comprese e abbassino le difese con ripercussioni positive sul percorso di riabilitazione. Tuttavia, il carico emotivo che la natura di questi rapporti implica è diventato insostenibile per Rosa soprattutto in questo momento di vita in cui allo stress del lavoro si sommano problemi di natura strettamente personale. Affrontiamo quindi insieme le possibili motivazioni che la spingono a ricercare attivamente questo tipo di dinamica, portando se stessa al limite delle energie psichiche e talvolta sottoponendosi a situazioni troppo pesanti (come, ad esempio, telefonate al di fuori dell’orario di lavoro o richieste che esulano dalle sue competenze professionali) pur di gratificare il bisogno delle pazienti. Ma qual è la funzione o, in altre parole, il “vantaggio secondario” di questo atteggiamento per Rosa? Quale bisogno viene davvero soddisfatto? Dai suoi racconti emergono vissuti di un lutto ancora difficile da risolvere, vissuti di impotenza, originariamente sperimentati nei confronti della sorella, che ora si riattivano e cercano una risoluzione nei suoi tentativi di “salvare” a tutti i costi le sue pazienti o quantomeno alleviare la loro sofferenza emotiva attraverso la condivisione dei suoi racconti. Rosa sente di “non aver fatto abbastanza” per la sorella e questo vissuto del passato, che ritorna nel qui e ora, la spinge alla ricerca inesorabile di una cura per la sua sofferenza. Parlare infatti, non è solo “dire” ma è anche “fare” poiché qualsiasi cosa venga “detta”, essa è sempre anche qualcosa che viene “fatta” a qualcuno (Ponsi, 1994). Nel suo curare l’altro Rosa cura sé stessa; ogni qualvolta rivive nel suo racconto la morte della sorella, percorre un piccolo passo nell’elaborazione di quel dolore inafferrabile. Allo stesso tempo, dunque, con la rivelazione di sé, cura e si lascia curare.

In seguito a quanto descritto nei primi paragrafi di questo articolo, viene spontaneo riflettere sulla reale utilità dell’intervento di Rosa. Probabilmente questa valutazione non è da farsi sul beneficio immediato che il paziente può trarre da una tale esperienza di condivisione ma, piuttosto, è necessario avviare una riflessione in termini simbolici per comprendere il significato che può assumere nel tempo e nello specifico contesto in cui si opera. Tuttavia, nonostante le implicazioni più o meno positive che conseguono ad un eccessivo coinvolgimento del professionista sanitario, siamo anche consapevoli che la sua soggettività entra in gioco inevitabilmente nella relazione con il paziente. In questo caso si tratta di una rivelazione di sé non intenzionale, e talvolta inconsapevole, che deve essere messa in conto come parte essenziale del processo terapeutico.

La self-disclosure nelle professioni psicologiche

Un discorso a parte è quello che riguarda le professioni di carattere psicologico come la psicoterapia o la psicoanalisi. In questo ambito il tema dell’autorivelazione si lega ai temi del transfert e controtransfert che occupano da sempre il dibattito tra i professionisti. Nel tempo il panorama su questi temi si è notevolmente esteso a partire dai principi di derivazione freudiana sulla neutralità del terapeuta, per includere una prospettiva intersoggettiva che ha preso sempre più in considerazione la sua soggettività. Già il tema del controtransfert aveva aperto la strada all’idea che la personalità del terapeuta fosse un elemento ineliminabile all’interno del setting terapeutico e che, talvolta, essa si esprimesse attraverso agiti inconsapevoli messi in atto in risposta al transfert del paziente (Tricoli, 2001). Si potrebbe dire che “in un’ottica relazionale è molto semplice sostenere che analista e paziente sono alla pari come soggetti che si incontrano nel rapporto analitico, ma non lo sono in relazione al ruolo che svolgono” (Tricoli, 2001, pg 6).

In ambito psicoanalitico la self-disclosure ha assunto nel tempo diversi significati indicando in linea generale una moltitudine di comportamenti auto-rivelatori dell’analista. Con l’avvento dell’approccio relazionale si è iniziato a distinguere la self-revelation (Levenson, 1996), ovvero l’inevitabile e non intenzionale svelamento del terapeuta attraverso i suoi comportamenti, il suo aspetto o l’aspetto dello studio, dalla self-disclosure che è invece la scelta consapevole di comunicare al paziente informazioni di natura personale. Tuttavia, nel processo psicoterapeutico, la self-disclosure riguarda l’esperienza interiore dell’analista (piuttosto che informazioni di carattere strettamente personale) suscitata dalle modalità relazionali messe in atto dal paziente affinché egli stesso raggiunga una maggiore consapevolezza.

 

Beck tra ricerca clinica e politica – 100 anni di Aaron T. Beck – Parte 5

Il racconto di come Beck fece diventare la sua terapia un trattamento efficace, finanziato dal governo e dalle assicurazioni.

 

La fortuna di Beck esplose anche grazie alla parallela ascesa della Evidence-Based Medicine (EBM) (Smith & Rennie, 2014). L’EBM, proprio come il DSM e il protocollo di Beck furono la risposta adatta alle richieste di verificabilità clinica fatte dal sistema di assicurazioni sanitarie promosso dall’amministrazione Carter alla fine degli anni ’70. Anche la psicoterapia doveva allinearsi con i nuovi standard nazionali per la ricerca medica e farmacologica. I trial randomizzati diventarono il metodo di scelta privilegiata di conferma dell’efficacia.

Beck comprese l’importanza della svolta di Carter e si inserì in quella direzione, capendo che poteva farsi finanziare a livello federale. Non fu però l’unico. Con lui c’era Klerman, un altro psichiatra interessato alla psicoterapia della depressione e che visitò la clinica di Beck all’inizio del 1975 e fu colpito da come Beck includesse nel manuale le trascrizioni delle interazioni tra paziente e terapeuta. Per questo decise di sviluppare insieme a Myrna Weissman un manuale simile a quello di Beck ma maggiormente ispirato alla teoria delle relazioni interpersonali di Harry Stack Sullivan e focalizzato sui pensieri consapevoli nel qui-e-ora, come quello di Beck. Klerman chiamò il suo approccio Terapia Interpersonale. Beck, Rush e Kovacs ricambiarono la visita a Klerman e lo aiutarono a sviluppare il suo manuale.

L’alleanza di Beck con Klerman si rivelò politicamente decisiva, perché Klerman era stato nominato da Carter amministratore della Alcohol, Drug Abuse and Mental Health Administration e inoltre aveva incontrato Parloff e Waskow, due esponenti del National Institute of Mental Health (NIMH) incaricati, per decisione del presidente Carter e del Congresso, a finanziare studi di efficacia della psicoterapia. In questo modo Klerman diventò in grado di prendere decisioni politiche federali sulla salute mentale. Klerman incontrò Parloff e Waskow al NIMH nel luglio 1976 e riferì a Beck che era tempo di discutere l’uso di scale di valutazione comuni, criteri comuni per la selezione dei pazienti, condivisione dei dati, e altre questioni metodologiche. È interessante notare che gli incontri avvennero durante congressi di psicologia e ricerca in psicoterapia: il convegno annuale dell’American Psychological Association del 1976 e quello della SPR del 1977 (Rosner, 2018; Smith & Rennie, 2014). In questo modo Klerman ottenne di organizzare un trial randomizzato multicentrico finanziato con 1,3 milioni di dollari e noto come il programma di ricerca collaborativa per il trattamento della depressione (TDCRP). il TDCRP confrontava la terapia cognitiva di Beck, la terapia interpersonale di Klerman, un trattamento farmacologico anti-depressivo e una condizione di controllo. I terapisti avrebbero standardizzato i trattamenti usando i manuali di Beck e Klerman.

Lo studio ebbe luogo e confermò l’efficacia sia del modello di Beck che di quello di Klerman. E tuttavia, il modello di Beck si diffuse nella pratica clinica reale molto di più di quello di Klerman. Perché? La risposta sta nella tempestività sia della pubblicazione dei rispettivi manuali che nella disponibilità a fornire formazione ai clinici. Infatti, Beck si dimostrò infaticabile nel perseguire una pubblicazione rapida del suo manuale. Dopo averlo revisionato per 5 anni con i suoi studenti specializzandi, Beck impresse una accelerazione, negoziò un buon accordo editoriale con Guilford e pubblicò il manuale nel 1979, prima ancora che lo studio di efficacia con Klerman partisse. Al contrario, il manuale di Klerman e Weissman uscì solo nel 1984 (Klerman, Weissman, Rounsaville, & Chevron, 1984), solo un anno prima che apparisse il secondo manuale di Beck, questa volta sull’ansia (Beck & Emery, 1985). Nello stesso 1984 uscirono altri due manuali di psicoterapia, di Hans Strupp e Lester Luborsky (Luborsky, 1984; Strupp & Binder, 1984). È chiaro che l’ascesa dei protocolli di psicoterapia manualizzata fu un processo tanto politico quanto clinico o scientifico.

Non è un caso che anni dopo David Clark, il collaboratore di Beck nel Regno Unito, fosse in grado di effettuare un’operazione simile a quella di Beck e ancor più in grande stile, facendo adottare il protocollo cognitivo per l’ansia all’intero sistema sanitario anglo-sassone, stabilendo il programma ‘Improving Access to Psychological Therapies’ (IAPT) (Layard e Clark, 2015).

Insomma, Beck aveva capito che con Klerman si era ben posizionato per raccogliere vantaggi sia economici che politici. I manuali di Strupp e Luborsky erano i prodotti di questo stesso movimento scientifico e politico, della stessa rivoluzione nella ricerca in psicoterapia (Luborsky e DeRubeis, 1984). Tutti beneficiarono dei finanziamenti di Parloff e Waskow, ma Beck aveva capito che il tempo era una moneta altrettanto importante dei finanziamenti e aveva battuto tutti. Battuti dove? Sul tempo.

 

L’impatto psicologico e comportamentale della pandemia sui bambini

Bambini e Covid-19: l’avvento del Covid-19 e le sue inevitabili conseguenze hanno messo a dura prova il benessere psicologico della popolazione. L’IRCCS Gaslini si propone di indagare le ripercussioni della pandemia sui bambini e le loro famiglie. 

 

La pandemia e le misure necessarie per il suo contenimento hanno imposto numerosi cambiamenti in molti ambiti della vita quotidiana: lavorativo, familiare, sociale, scolastico e relazionale. Queste trasformazioni hanno causato molteplici ripercussioni, anche dal punto di vista psicologico.

Nonostante i bambini sembrassero meno vulnerabili agli effetti sistemici del virus, il loro benessere psicologico ed emotivo è stato intaccato quanto quello degli adulti. La chiusura di asili, scuole e servizi sociali, l’allontanamento da figure di riferimento come i nonni e gli amici e il confinamento all’interno delle mura domestiche hanno modificato la qualità della vita e gli equilibri di tutta la famiglia (Uccella et al., 2020).

L’IRCCS Gaslini si è mobilitato fin dalle prime fasi dell’emergenza sanitaria per sostenere le famiglie e, in collaborazione con l’Università di Genova, indagare l’impatto psicologico del fenomeno, con particolare attenzione ai bambini affetti da patologie croniche. Lo studio è stato portato avanti tramite l’utilizzo di un questionario online; quest’ultimo è stato costruito ad hoc per raccogliere i dati necessari alla valutazione e al monitoraggio di eventuali ripercussioni comportamentali e psicologiche della pandemia Covid19/Sars2 sui bambini e le loro famiglie. Il progetto sembra essere stato ben accolto dalla popolazione, infatti è stato compilato da 6800 soggetti in tutta Italia, di cui 3251 con figli di età inferiore ai 18 anni (Uccella et al., 2020).

I risultati dell’indagine scientifica hanno evidenziato come il 65% dei bambini di età inferiore ai 6 anni e il 71% di quelli di età compresa tra i 6 e i 18 anni abbiano manifestato problematiche comportamentali e sintomi di regressione. I disagi più frequentemente mostrati dal primo gruppo (0-6 anni) sono stati:

Il secondo gruppo (6-18 anni), invece, ha manifestato più spesso problematiche quali:

Per quanto riguarda, invece, la componente comportamentale, si è riscontrata una gravità crescente in corrispondenza del grado di malessere dei genitori. Inoltre, i dati mostrano come all’aumentare delle manifestazioni di disagio genitoriale legate alla situazione pandemica, corrisponda un aumento dei disturbi comportamentali ed emotivi nei figli (Uccella et al., 2020).

Alla luce di questi dati, l’Istituto Giannina Gaslini ha progettato e realizzato l’Ambulatorio Post-Emergenza, un programma studiato per il sostegno e il monitoraggio delle condizioni dei più piccoli e del loro contesto familiare. Il programma, destinato a giovani dai 2 ai 18 anni, comprende colloqui in presenza o a distanza e varie attività di sostegno. L’Ambulatorio Post-Emergenza si avvale del lavoro di un’équipe miltidisciplinare e si propone come un servizio facilmente accessibile ed economicamente sostenibile, volto ad aumentare il benessere psicosociale. L’ambulatorio ha lo scopo di valutare e diagnosticare precocemente situazioni di disagio acute e post-acute, in modo da poter progettare interventi tempestivi (Uccella et al., 2020).

 

Il possibile ruolo del Disturbo da Comportamento Sessuale Compulsivo nella sessualità promiscua di individui con Disturbo Borderline di Personalità

Il Disturbo Borderline di personalità (DPB) è caratterizzato da una sintomatologia che intacca la personalità in modo pervasivo e interessa quindi molti aspetti del funzionamento dell’individuo.

 

Per questo motivo, sono frequenti disturbi dell’asse I in comorbidità e quindi non strutturali, ma potenzialmente temporanei, come disturbi alimentari o abuso di sostanze, ad esempio. Il DPB è contraddistinto da “un pattern di instabilità delle relazioni interpersonali, dell’immagine di sé e dell’umore e una marcata impulsività” (APA, 2013). Il Disturbo Borderline di personalità presenta un tratto di impulsività che rappresenta una sorta di ricerca di eccitazione attraverso azioni pericolose o illecite che possono spaziare tra l’uso di sostanze stupefacenti, attività sessuale promiscua e simili, al fine quindi di sopperire alla sensazione di vuoto tipica del disturbo. Per quanto riguarda la sessualità, i soggetti con Disturbo Borderline di personalità sembrerebbero avere più partner sessuali rispetto a un gruppo di controllo (Sansone, Lam, & Wiederman, 2011), soprattutto occasionali (Tull, Gratz, & Weiss, 2011). Per quanto riguarda la sintomatologia sessuale vi è tendenzialmente un’iperattivazione la cui natura fa pensare ai sintomi del Disturbo da Comportamento Sessuale Compulsivo (Compulsive Sexual Behaviour, CSB). Alla luce di questa somiglianza, è apparso interessante approfondire l’eventuale relazione esistente tra CSB e DPB.

L’organizzazione mondiale della sanità ha inserito il disturbo da comportamento sessuale compulsivo nell’undicesima revisione della Classificazione Internazionale delle Malattie, definendolo come “un pattern di fallimenti nel controllo di impulsi sessuali intensi e ripetuti risultando in ripetuti comportamenti sessuali, in un periodo di almeno sei mesi, che causano una disfunzione in aree importanti come vita sociale, famiglia, educazione e occupazione” (Kraus, Kreuger, Briken, First, Stein, Kaplan & Reed, 2018). È inoltre necessario sottolineare che il disturbo non presenta necessariamente un carattere parafiliaco, come si deduce dalla descrizione di questo, infatti, i comportamenti emessi non sono problematici in termini di qualità ma di quantità e quindi pervasività (Fong, 2006). Il CSB sembra essere diffuso perlopiù nella popolazione maschile e coloro che lo presentano sono coinvolti nel comportamento sessuale rendendolo il centro della loro esistenza, fino a trascurare ogni aspetto della vita personale includendo salute e interessi, per via della totale immersione in fantasie sessuali, autoerotismo, attività sessuale virtuale e\o frenare gli impulsi anche in termini di riduzione comportamentale; l’attività sessuale compulsiva continua a manifestarsi senza alcun controllo da parte del soggetto, pur implicando difficoltà significative dal punto di vista di stabilità nelle relazioni sentimentali, occupazione, salute.

Un tratto peculiare è rappresentato dal ripetersi del comportamento sessuale a prescindere dal piacere che ne consegue; in altre parole, la soddisfazione sessuale non costituisce una condizione necessaria al verificarsi di questo fenomeno, ne risulta che il desiderio sessuale non sia motivato né finalizzato al raggiungimento dell’orgasmo (Kraus et al., 2018). Nel Disturbo da Comportamento Sessuale Compulsivo, la sessualità costituisce una sorta di strategia di evitamento che permette di distogliere l’attenzione da uno stato di malessere. Si innesca quindi una ricerca di sensazioni eccitanti per mezzo di “fantasie, visione di pornografia e attività sessuale” (Efrati & Gola, 2019). La motivazione all’atto non è quindi la soddisfazione sessuale in sé, come anticipato, bensì la volontà di non provare sensazioni negative, almeno per un momento, sostituendole con sensazioni sessuali.

La medesima ricerca di nuove sensazioni è un tratto caratteristico del Disturbo Borderline di Personalità. I due disturbi condividono un ulteriore tratto caratteristico, nonché l’assenza del controllo degli impulsi (Lloyd, Raymond, Miner & Coleman, 2007). Le sopracitate somiglianze fanno pensare che potrebbe esserci una relazione tra il Disturbo Borderline di Personalità e il Disturbo da Comportamento Sessuale Compulsivo. A questo proposito, in uno studio il cui obbiettivo era quello di indagare le comorbilità tra DBP e Disturbo da Comportamento Sessuale Compulsivo comparando un campione clinico ad uno di controllo, il Disturbo Borderline di Personalità era significativamente più presente nel campione clinico (Ballester-Arnal, J Castro-Calvo, Giménez-García, Gil-Juliá & Gil-Llario, 2020).

Jardin e colleghi (2017), con l’obbiettivo di osservare se la sessualità compulsiva fosse il motivo dell’alto numero di partner sessuali in soggetti con Disturbo Borderline di Personalità, hanno riscontrato un effetto indiretto sui partner sessuali per via della sessualità compulsiva, confermando l’ipotetica presenza di una relazione tra i due disturbi. Infine, è stato dimostrato che la sintomatologia borderline e la sessualità compulsiva sembrerebbero essere significativamente associate (Elmquist, Shorey, Anderson & Stuart, 2016).

In base all’analisi della letteratura sopra riportata, emerge che i meccanismi che sembrano alimentare l’attività sessuale promiscua nel Disturbo Borderline di personalità sono, come anticipato, l’impulsività e la necessità di evitare sensazioni negative. La natura dei tratti sopracitati si manifesta anche nel Disturbo da Comportamento Sessuale Compulsivo e ciò ha motivato i ricercatori ad indagare la relazione tra i due disturbi, al fine di comprendere se il sintomo della sessualità promiscua nel Disturbo Borderline di Personalità potesse essere spiegato dalla presenza della compulsione sessuale non finalizzata alla soddisfazione sessuale bensì alla ricerca di un distanziamento da sentimenti di vuoto. Gli studi ad oggi sembrano confermare l’ipotesi che vi sia una relazione tra il Disturbo da Comportamento Sessuale Compulsivo e la sintomatologia sessuale del Disturbo Borderline di Personalità, sia in termini di comorbilità che di causalità.

 


 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

L’effetto IKEA nel mangiar sano

Basandosi sull’effetto IKEA lo studio del team di Radtke ipotizza che coinvolgere i bambini nella pianificazione e preparazione dei pasti sia positivamente correlato all’assunzione di verdure.

 

Frutta e verdura sono una parte essenziale di una dieta equilibrata. L’assunzione di frutta e verdura, infatti, può proteggere da moltissime malattie e fornire energia (Knai et al., 2006). Le attuali raccomandazioni per un livello ottimale di assunzione tale da ridurre il rischio di contrarre malattie non trasmissibili vanno da un minimo di 400 g al giorno a 800 g al giorno (Aune et al., 2017). Sono state studiate numerose determinanti del consumo di verdura da parte dei bambini (DeCosta et al., 2017), ed è stato scoperto che le femmine assumono più verdura rispetto ai maschi (Brug et al., 2008) e che i bambini più grandi mangiano meno verdura rispetto ai bambini più piccoli (Caton et al., 2014). In Europa l’assunzione di prodotti ortofrutticoli da parte dei giovani è notevolmente diminuita negli ultimi anni (Mazur, 2015), ma è possibile intervenire in molti per modificare tali abitudini. I fattori ambientali che determinano una corretta assunzione di vegetali includono attività culinarie (Allirot, et al. 2016), elevata disponibilità e accessibilità di frutta e verdura (Neumark-Sztainer et al., 2003), incoraggiamento e modellamento da parte dei genitori (Kristjansdottir et al., 2006). In particolare, le attività di culinarie svolte con i caregiver sembrano avere un’influenza positiva sull’assunzione di verdura da parte dei più piccoli. Questa sembra essere una modalità molto favorevole piuttosto che l’adozione di rigide strategie di controllo parentale per la modifica del comportamento alimentare, rivelatesi controproducenti (DeCosta et al., 2017).

Basandosi sull’effetto IKEA, che sostiene che le cose create da sé stessi piacciano di più rispetto a quelle create da qualcun altro, lo studio del team di Radtke ipotizza che coinvolgere i bambini nella pianificazione e preparazione dei pasti sia positivamente correlato all’assunzione di verdure, e quindi al gradimento di queste ultime. Nella sperimentazione, novecentoventiquattro diadi genitore-figlio hanno compilato questionari che misuravano il coinvolgimento, il gradimento e l’assunzione di verdure, e ulteriori determinanti ambientali e alimentari.

In questo studio, sono stati riscontrati due effetti diretti:

  • il coinvolgimento dei propri figli nelle attività di cucina ha influito sul gradimento e sull’assunzione di verdure;
  • il tasso di gradimento di cibi con verdure ha influito sul consumo delle stesse. Nei bambini, il coinvolgimento nell’assunzione di verdure è stato mediato dal gradimento.

Come previsto dall’effetto IKEA, il coinvolgimento dei figli nella preparazione dei pasti era quindi significativamente associato al gradimento di pomodori, carote e cetrioli, che a sua volta era correlato all’assunzione di verdure nei bambini. Inoltre, in base ai risultati dello studio, sembra che i genitori consumino verdure principalmente perché vogliono rappresentare buoni modelli di comportamento, piuttosto che per soddisfare le proprie preferenze personali. Ciò è in linea con i risultati di uno studio che mostra come la transizione alla genitorialità tra le donne sia correlata a un aumento dell’assunzione di verdure, che potrebbe essere collegato agli sforzi per modellare un’alimentazione sana (Hartmann, Dohle e Siegrist, 2014).

Impartire istruzioni rigorose ai bambini su come preparare il cibo, piuttosto che lasciarli liberi di agire come vogliono, potrebbe ridurre il divertimento del cucinare in compagnia, e quindi minare l’effetto IKEA. Le attività di cucina con i genitori dovrebbero essere flessibili e creare più opportunità di degustazione o divertimento.

Rispettando tali condizioni, incoraggiare i bambini nella preparazione di pasti sani può migliorare il gradimento di cibi a base di verdure e, di conseguenza, aumentarne il consumo. È possibile pensare che tali risultati potrebbero essere generalizzabili anche agli adulti, in quanto il prepararsi cibi sani autonomamente potrebbe portare ad un maggior gradimento di tali pietanze, confermando la massiccia incidenza dell’effetto IKEA.

 

La cura del paziente con Disturbo Bipolare e della sua famiglia durante la pandemia da Covid-19

Comunicato Stampa

Al via il Progetto annuale promosso dalla Cooperativa Sociale A.p.e.rtamente e finanziato con il contributo della Fondazione di Sardegna

 

Ha preso avvio il progetto “La cura del paziente con Disturbo Bipolare e della sua famiglia durante la pandemia da Covid-19”, promosso dalla Cooperativa Sociale A.p.e.rtamente di Quartu Sant’Elena in partenariato con il Centro Lucio Bini di Cagliari, il Centro Lucio Bini- Aretaeus di Roma, il Comune di Quartu Sant’Elena, l’ Ordine degli Psicologi della Sardegna, la Regione Autonoma della Sardegna, Gsd Ferrini Basket di Quartu Sant’Elena, A.S.C.U. Associazione Soluzioni Cittadini Utenti APS, AISTED – Associazione Italiana per lo Studio del Trauma e della Dissociazione, l’Hospital Clinic i Provincial de Barcelona e l’International Bipolar Foundation. L’iniziativa, gratuita per tutti i destinatari coinvolti, è stata finanziata dalla Fondazione di Sardegna nell’ambito del Bando annuale 2021, sezione “Volontariato, Filantropia e Beneficienza”.

Il progetto promuove diverse azioni di sensibilizzazione e supporto psicosociale con finalità informativa e preventiva rivolte ai pazienti con Disturbo Bipolare e alle loro famiglie/caregivers, nonché a tutta la popolazione sarda che, a vario titolo, può trarre beneficio dalle azioni progettuali.

Dal mese di Settembre 2021 saranno quindi avviati i seguenti servizi:

  • 1) Percorso di psico-educazione di gruppo, rivolto a un gruppo di pazienti con Disturbo bipolare e ai loro caregiver, condotto dalle psicologhe-psicoterapeute Emma Fadda e Caterina Visioli e dal Prof. Leonardo Tondo, Medico-Psichiatra, dell’équipe del Centro Lucio Bini.
  • 2) Percorso laboratoriale di gruppo di natura creativa ed espressiva, rivolto ai pazienti attivamente coinvolti nel percorso di psico-educazione di gruppo. Le attività saranno condotte da personale specializzato della Cooperativa A.P.E.rtamente.
  • 3) Seminari tematici rivolti all’intera popolazione, con finalità di informazione e prevenzione sul tema del Disturbo Bipolare. I seminari saranno condotti da psicologi, psicoterapeuti, medici psichiatri dell’équipe del Centro Lucio Bini e da operatori della Cooperativa A.P.E.rtamente.
  • 4) Sportello di ascolto e consulenza rivolto a tutta la popolazione, con finalità informative, di prevenzione, promozione del benessere e di ascolto, con particolare riferimento al Disturbo bipolare.

Tutte le attività sono gratuite e saranno svolte in modalità a distanza.

Per ricevere maggiori informazioni sul progetto e sulle attività e per accedere allo sportello di consulenza è possibile contattare i professionisti all’indirizzo mail: [email protected].

 

Per maggiori informazioni >> Scarica la brochure del progetto

Il corpo ci parla.. ma noi lo ascoltiamo? – Video dell’evento online di CIP Modena

L’incontro online Il corpo ci parla.. ma noi lo ascoltiamo? ha approfondito l’utilizzo delle tecniche di Training Autogeno.

 

In questa epoca di crescente malessere emotivo ed esistenziale sono sempre più frequenti i sintomi di tipo psico-emozionale (es. ansia, depressione, discontrollo emotivo, apatia, ecc,) ma anche sintomi corporei (es. cefalea, tensione muscolare, mal di schiena, gastrite, colon irritabile, insonnia, disfunzioni sessuali, ecc.). Anzi spesso i sintomi corporei sono gli unici segnali, e manca la consapevolezza di un collegamento con aspetti emozionali e cognitivi. In questi casi è necessario un approccio integrato in cui venga data una particolare attenzione ai segnali del corpo, ad ascoltare, decodificare e capire il suo linguaggio.

Le tecniche del Training Autogeno, anche per la relativa facilità di apprendimento, aprono prospettive particolarmente interessanti al riguardo, con possibilità di percorsi psicoterapici ed esperienziali arricchiti e personalizzati.

Per questo CIP Modena ha organizzato un incontro informativo sulla tematica, condotto dal Dr. Andrea Lisotti.

 

IL CORPO CI PARLA.. MA NOI LO ASCOLTIAMO?

Guarda il video integrale del webinar:

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In cosa consiste l’emozionarsi? Il concetto di corpo in relazione con l’altro

Sono diverse le strutture ed i circuiti neuronali che si attivano con l’emozionarsi soggettivo.

 

Chi non ha sentito parlare della storia di Adamo ed Eva? Vivevano nel giardino dell’Eden felici e spensierati, in armonia con il resto del creato. Finché tentati dal serpente si cibarono del frutto della conoscenza: “Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si videro nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture” (Genesi 3,7), da quel momento ci fu uno iato tra l’essere umano ed il resto del mondo vivente e nulla fu più come prima. Guardando se stessi da un altro punto di vista, acquisirono la consapevolezza. Ciascuno di noi può fare un’esperienza diretta del proprio corpo, può sentirlo, ma può anche vederlo dall’esterno in qualità di oggetto della propria osservazione, prendendo le distanze dall’esperienza personale come quando ci si guarda allo specchio.

Inoltre, si può essere consapevoli di un particolare stato emotivo ed integrarlo da una prospettiva esterna, come oggetto tra gli oggetti, cogliendo così caratteristiche e punti di vista differenti.

Quindi, in sostanza, cosa significa essere consapevoli?

A questa domanda rispondiamo con il dire che la consapevolezza rappresenta il fondamento delle possibilità di discernimento della specie umana, qualcosa che si realizza nel vivere quotidiano e che consente di regolare le proprie emozioni; un esempio pratico può essere la capacità di fare un respiro e tenersi sotto controllo, piuttosto che utilizzare la violenza, quando ci si trova in una situazione che provoca rabbia.

Il senso di noi stessi, in quanto esseri dotati di un corpo, fa leva sulle capacità di integrazione sensoriale del nostro cervello ed è necessario per l’elaborazione del proprio vissuto.

A tal proposito, la neurofenomenologia considera la mente umana come un flusso di esperienza che ha luogo dall’interazione circolare tra corpo, cervello e mondo.

In linea con quanto detto, non è possibile pensare alla mente in modo slegato dal corpo in cui abita e che agisce nel mondo. La mente è sempre incarnata, ragion per cui percepiamo il nostro corpo mentre compiamo un’azione, ciò avviene poiché abbiamo un senso implicito dello spazio in cui ci troviamo.

Tuttavia l’esperienza che facciamo presso le cose non avviene mai in modo neutro ma secondo una certa tonalità emotiva. In essa ci si trova, non la si decide poiché prescinde dalla nostra volontà cosciente e rappresenta un modo di essere, una colorazione d’insieme dell’esistenza umana.

Ad esempio possiamo percepire una lieve ansietà nell’esistere quotidiano, oppure un senso di soddisfazione, ci si può sentire tesi, rilassati, sereni, giù di morale, queste sono tutte sensazioni che agiscono a livello preriflessivo, a prescindere dalla nostra volontà cosciente.

Tuttavia, ciò che percepiamo influenza fortemente il nostro modo di agire e quindi le nostre modalità di stare al mondo. Non è possibile fare esperienza facendo a meno di un’atmosfera emotivamente intonata e ricca di significati preriflessivi.

In effetti, ogni essere umano è ininterrottamente immerso in un mondo animato da specifiche tonalità emotive, e vive in costante ricerca del senso di stabilità personale. Ma cosa intendiamo con questo?

Per poter rispondere alla domanda occorre interrogarsi circa la genesi degli stati emotivi con cui, di volta in volta, l’essere umano si trova e/o si ritrova a dover fare i conti.

In questo senso, l’individuo, ogni volta, è immerso in un contesto sociale e culturale in cui si riconosce grazie al suo corpo e all’altro, che è sempre con lui presso le cose. Da ciò, ne deriva che gli stati emotivi esperiti dalla persona siano il risultato dell’interazione tra il significato incarnato della situazione in atto, ed una particolare relazione interpersonale.

Da un punto di vista concettuale quindi, per rispondere all’iniziale domanda, posto che l’emozionarsi sia un sentirsi attraverso la carne contemporaneo ad una modalità di comprensione delle situazioni in corso, per senso di stabilità personale si può intendere ciò che risulterà dalla tendenza dell’individuo ad orientarsi, in modo variabile, sul corpo o sull’altro.

Queste modalità di orientamento degli stati emotivi assumono una vera e propria forma di direzionalità nel loro rendersi manifeste: nel momento in cui una persona tende ad orientarsi sul proprio corpo, ciò significa che darà più importanza alla percezione dei propri stati viscerali; allo stesso modo, la persona che tenderà ad essere orientata sull’altro, si focalizzerà maggiormente su aspetti di natura contestuale.

Le specifiche modalità di emozionarsi proprie di ogni individuo, vanno a formare quella particolare struttura del sentirsi umano, posto che, sempre situato secondo peculiari tonalità emotive, l’individuo possa comprendersi nello spazio della carne e dell’altro.

Inoltre, le tonalità emotive, possono determinare risposte corporee e cambiamenti strutturali anche a livello cerebrale.

Ad ogni esperienza si associano diverse manifestazioni neuronali, questo accade poiché il mondo esperienziale e quello cerebrale sono intimamente interconnessi.

Sono diverse le strutture ed i circuiti neuronali che si attivano con l’emozionarsi soggettivo.

Una struttura intimamente coinvolta nell’esperienza individuale delle emozioni è l’amigdala, soprattutto in quelle più primitive, come ad esempio la paura o la rabbia.

Studi con risonanza magnetica funzionale (fMRI) hanno dimostrato che quest’ultima viene attivata dalla presentazione di stimoli avversi, anche quando determinate immagini vengono presentate in rapida sequenza, “mascherandole” con stimoli neutri in modo che il soggetto non si renda conto degli stimoli elicitanti la paura, cioè non sia consapevole di averli visti (Whalen et al. 1998).

Allo stesso modo, soggetti con blindsight, ossia privi della consapevolezza della percezione visiva ma in grado di discriminare l’orientamento e la presenza di stimoli, mostrano una risposta dell’amigdala alla presentazione visiva di stimoli a valenza emotiva (Dolan 2002).

Considerato che le emozioni servono in primo luogo a promuovere i comportamenti più idonei a preservare la sopravvivenza, la capacità di mettere in atto una risposta emotiva anche solo al “sentore” di un pericolo e ancor prima di averne preso coscienza, rappresenta un enorme vantaggio evolutivo: una frazione di secondo, infatti, può fare la differenza tra riuscire o non riuscire a evitare un pericolo. L’amigdala, pertanto, governerebbe un sistema sottocorticale, che non ha bisogno del contributo diretto della corteccia, essendo in grado di rispondere rapidamente anche a una grossolana informazione sulla presenza di un potenziale pericolo, ben prima che l’individuo abbia avuto modo di valutare la situazione nel dettaglio attraverso le vie (inevitabilmente più lente) che portano l’informazione alla corteccia cerebrale.

Oltre all’amigdala, il circuito legato alle emozioni coinvolge anche altre strutture.

L’insula ad esempio, ha un importante ruolo per i processi interocettivi ed è cruciale per quanto riguarda il senso del sé, oltre ad essere una struttura fortemente coinvolta nelle emozioni del disgusto e per il riconoscimento di espressioni facciali di disgusto. Questa struttura gioca un ruolo fondamentale anche nei processi empatici e risulta massicciamente attivata durante l’osservazione del dolore altrui. Inoltre le aree anteriori dei lobi frontali consentono la valutazione dello stato emozionale, la selezione dei comportamenti adeguati, la risoluzione dei conflitti tra stato interno ed esterno.

Detto ciò, possiamo concludere dicendo che ognuno di noi riconosce se stesso proprio attraverso il rapporto con l’altro presso le cose, da qui ne consegue il fatto che il corpo e l’altro sono parte costitutiva e fondamentale del mio sentirmi, del mio riconoscermi, della consapevolezza che ho di me. Inoltre se l’essere umano è sempre situato secondo specifiche tonalità emotive, allora l’emozionarsi assume valore nell’area tra il corpo e l’altro. Quindi, rappresenta il significato incarnato di una particolare situazione in atto e in un determinato contesto e che attiva sempre una risposta cerebrale.

 

 

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