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In cosa consiste l’emozionarsi? Il concetto di corpo in relazione con l’altro

Sono diverse le strutture ed i circuiti neuronali che si attivano con l’emozionarsi soggettivo.

 

Chi non ha sentito parlare della storia di Adamo ed Eva? Vivevano nel giardino dell’Eden felici e spensierati, in armonia con il resto del creato. Finché tentati dal serpente si cibarono del frutto della conoscenza: “Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si videro nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture” (Genesi 3,7), da quel momento ci fu uno iato tra l’essere umano ed il resto del mondo vivente e nulla fu più come prima. Guardando se stessi da un altro punto di vista, acquisirono la consapevolezza. Ciascuno di noi può fare un’esperienza diretta del proprio corpo, può sentirlo, ma può anche vederlo dall’esterno in qualità di oggetto della propria osservazione, prendendo le distanze dall’esperienza personale come quando ci si guarda allo specchio.

Inoltre, si può essere consapevoli di un particolare stato emotivo ed integrarlo da una prospettiva esterna, come oggetto tra gli oggetti, cogliendo così caratteristiche e punti di vista differenti.

Quindi, in sostanza, cosa significa essere consapevoli?

A questa domanda rispondiamo con il dire che la consapevolezza rappresenta il fondamento delle possibilità di discernimento della specie umana, qualcosa che si realizza nel vivere quotidiano e che consente di regolare le proprie emozioni; un esempio pratico può essere la capacità di fare un respiro e tenersi sotto controllo, piuttosto che utilizzare la violenza, quando ci si trova in una situazione che provoca rabbia.

Il senso di noi stessi, in quanto esseri dotati di un corpo, fa leva sulle capacità di integrazione sensoriale del nostro cervello ed è necessario per l’elaborazione del proprio vissuto.

A tal proposito, la neurofenomenologia considera la mente umana come un flusso di esperienza che ha luogo dall’interazione circolare tra corpo, cervello e mondo.

In linea con quanto detto, non è possibile pensare alla mente in modo slegato dal corpo in cui abita e che agisce nel mondo. La mente è sempre incarnata, ragion per cui percepiamo il nostro corpo mentre compiamo un’azione, ciò avviene poiché abbiamo un senso implicito dello spazio in cui ci troviamo.

Tuttavia l’esperienza che facciamo presso le cose non avviene mai in modo neutro ma secondo una certa tonalità emotiva. In essa ci si trova, non la si decide poiché prescinde dalla nostra volontà cosciente e rappresenta un modo di essere, una colorazione d’insieme dell’esistenza umana.

Ad esempio possiamo percepire una lieve ansietà nell’esistere quotidiano, oppure un senso di soddisfazione, ci si può sentire tesi, rilassati, sereni, giù di morale, queste sono tutte sensazioni che agiscono a livello preriflessivo, a prescindere dalla nostra volontà cosciente.

Tuttavia, ciò che percepiamo influenza fortemente il nostro modo di agire e quindi le nostre modalità di stare al mondo. Non è possibile fare esperienza facendo a meno di un’atmosfera emotivamente intonata e ricca di significati preriflessivi.

In effetti, ogni essere umano è ininterrottamente immerso in un mondo animato da specifiche tonalità emotive, e vive in costante ricerca del senso di stabilità personale. Ma cosa intendiamo con questo?

Per poter rispondere alla domanda occorre interrogarsi circa la genesi degli stati emotivi con cui, di volta in volta, l’essere umano si trova e/o si ritrova a dover fare i conti.

In questo senso, l’individuo, ogni volta, è immerso in un contesto sociale e culturale in cui si riconosce grazie al suo corpo e all’altro, che è sempre con lui presso le cose. Da ciò, ne deriva che gli stati emotivi esperiti dalla persona siano il risultato dell’interazione tra il significato incarnato della situazione in atto, ed una particolare relazione interpersonale.

Da un punto di vista concettuale quindi, per rispondere all’iniziale domanda, posto che l’emozionarsi sia un sentirsi attraverso la carne contemporaneo ad una modalità di comprensione delle situazioni in corso, per senso di stabilità personale si può intendere ciò che risulterà dalla tendenza dell’individuo ad orientarsi, in modo variabile, sul corpo o sull’altro.

Queste modalità di orientamento degli stati emotivi assumono una vera e propria forma di direzionalità nel loro rendersi manifeste: nel momento in cui una persona tende ad orientarsi sul proprio corpo, ciò significa che darà più importanza alla percezione dei propri stati viscerali; allo stesso modo, la persona che tenderà ad essere orientata sull’altro, si focalizzerà maggiormente su aspetti di natura contestuale.

Le specifiche modalità di emozionarsi proprie di ogni individuo, vanno a formare quella particolare struttura del sentirsi umano, posto che, sempre situato secondo peculiari tonalità emotive, l’individuo possa comprendersi nello spazio della carne e dell’altro.

Inoltre, le tonalità emotive, possono determinare risposte corporee e cambiamenti strutturali anche a livello cerebrale.

Ad ogni esperienza si associano diverse manifestazioni neuronali, questo accade poiché il mondo esperienziale e quello cerebrale sono intimamente interconnessi.

Sono diverse le strutture ed i circuiti neuronali che si attivano con l’emozionarsi soggettivo.

Una struttura intimamente coinvolta nell’esperienza individuale delle emozioni è l’amigdala, soprattutto in quelle più primitive, come ad esempio la paura o la rabbia.

Studi con risonanza magnetica funzionale (fMRI) hanno dimostrato che quest’ultima viene attivata dalla presentazione di stimoli avversi, anche quando determinate immagini vengono presentate in rapida sequenza, “mascherandole” con stimoli neutri in modo che il soggetto non si renda conto degli stimoli elicitanti la paura, cioè non sia consapevole di averli visti (Whalen et al. 1998).

Allo stesso modo, soggetti con blindsight, ossia privi della consapevolezza della percezione visiva ma in grado di discriminare l’orientamento e la presenza di stimoli, mostrano una risposta dell’amigdala alla presentazione visiva di stimoli a valenza emotiva (Dolan 2002).

Considerato che le emozioni servono in primo luogo a promuovere i comportamenti più idonei a preservare la sopravvivenza, la capacità di mettere in atto una risposta emotiva anche solo al “sentore” di un pericolo e ancor prima di averne preso coscienza, rappresenta un enorme vantaggio evolutivo: una frazione di secondo, infatti, può fare la differenza tra riuscire o non riuscire a evitare un pericolo. L’amigdala, pertanto, governerebbe un sistema sottocorticale, che non ha bisogno del contributo diretto della corteccia, essendo in grado di rispondere rapidamente anche a una grossolana informazione sulla presenza di un potenziale pericolo, ben prima che l’individuo abbia avuto modo di valutare la situazione nel dettaglio attraverso le vie (inevitabilmente più lente) che portano l’informazione alla corteccia cerebrale.

Oltre all’amigdala, il circuito legato alle emozioni coinvolge anche altre strutture.

L’insula ad esempio, ha un importante ruolo per i processi interocettivi ed è cruciale per quanto riguarda il senso del sé, oltre ad essere una struttura fortemente coinvolta nelle emozioni del disgusto e per il riconoscimento di espressioni facciali di disgusto. Questa struttura gioca un ruolo fondamentale anche nei processi empatici e risulta massicciamente attivata durante l’osservazione del dolore altrui. Inoltre le aree anteriori dei lobi frontali consentono la valutazione dello stato emozionale, la selezione dei comportamenti adeguati, la risoluzione dei conflitti tra stato interno ed esterno.

Detto ciò, possiamo concludere dicendo che ognuno di noi riconosce se stesso proprio attraverso il rapporto con l’altro presso le cose, da qui ne consegue il fatto che il corpo e l’altro sono parte costitutiva e fondamentale del mio sentirmi, del mio riconoscermi, della consapevolezza che ho di me. Inoltre se l’essere umano è sempre situato secondo specifiche tonalità emotive, allora l’emozionarsi assume valore nell’area tra il corpo e l’altro. Quindi, rappresenta il significato incarnato di una particolare situazione in atto e in un determinato contesto e che attiva sempre una risposta cerebrale.

 

 

Il tempo che non vola. Le temps vécu nell’Anoressia Nervosa

Nell’Anoressia Nervosa le pazienti appaiono come “cristallizzate”, situazione splendidamente descritta da Federico Leoni nell’introduzione a Le temps vécu di Minkowski.

 

Chiara è una ragazza bellissima, ma il suo volto appare per la maggior parte del tempo come pietrificato. Quando è distesa sulla poltrona resta immobile per ore, quasi fosse cristallizzata. Ogni suo movimento è tanto elegante quanto bizzarro nella lentezza della sua esecuzione.

Quando iniziamo a parlarle del Tempo e le chiediamo di fornirci il suo punto di vista al riguardo sembra come risvegliarsi. Risponde e partecipa al discorso con una facilità disarmante per chi ha tentato durante le sedute psicoterapiche precedenti di creare un contatto con lei. Eppure si sta analizzando un concetto così astratto e sfuggente che la semplicità con la quale viene descritto dalla paziente ci lascia perplessi. Ci chiediamo se non abbia riflettuto a lungo al riguardo per poter rispondere con questa semplicità, nonostante nessuno prima di noi abbia affrontato questa tematica con lei”.

Così ha inizio il mio viaggio personale nel vissuto temporale delle pazienti affette da Anoressia Nervosa. Poco tempo addietro mi ero perso in alcune splendide letture di Carlo Rovelli che mi avevano aperto gli occhi su quanto il Tempo mi avesse preso per i fondelli per una vita senza che me ne accorgessi. Mi figuravo sempre di più un tempo capace di deformarsi, contorcendosi, un tempo che si espande e retrae, mantenendo sempre la sua elegante continuità. Mi fece sorridere come questa visione del tempo vissuto si avvicinasse a passi felpati a quella della fisica, dove oggi il tempo è qualcosa di tangibile e quindi deformabile, malleabile.

Nell’Anoressia Nervosa le pazienti appaiono come “cristallizzate”, situazione splendidamente descritta da Federico Leoni nell’introduzione a Le temps vécu di Minkowski rispetto al caso de La malata che fa le scarpe (paziente descritta anche da un giovane Carl Gustav Jung) estremamente esplicativa rispetto all’instancabile ripetizione e l’eterno presente che ritroviamo nelle pazienti più gravi.

“Non più un gesto che, compiutosi, tramonta; che, tramontato, consuma il proprio senso, lo compie; e che nel compierlo, nel farne vuoto, lo destina ad un nuovo inizio. Non più l’instabile, incerta tensione dello slancio, ma il deserto mortale di un presente eterno dove nulla può concludersi e nulla può iniziare. Una immobile insistenza, esausta stereotipia”.

Dopo aver parlato a lungo con molte pazienti affette da questa patologia un’idea ha iniziato a prendere forma. Queste mi sembrano vivere perennemente in quello che Minkowski descrive come “attimo o adesso” e non nel “presente”. Il brillante psichiatra spiega come il tentativo di rappresentare l’adesso sia impossibile in quanto esso fugge davanti a noi dispiegandosi per far posto al presente. È qui che possiamo trovare durata ed estensione poiché non sappiano dove abbia inizio né dove termini. Si tratta di qualcosa di fluente: Il presente è dunque meno aspro de l’adesso, è più calmo, omogeneo e rassicurante, nel presente possiamo lasciarci vivere.

Rinchiuse all’interno di fitte reti di rigide regole da loro stesse create, questa categoria di pazienti sembra non conoscere il presente, bloccate in un punto senza estensione.

… questa condizione di stasi viene descritta dalla paziente con poche parole. Un tempo infinito ed orribile. La monotonia sembra essere una delle caratteristiche che meglio descrive il suo stato attuale. Priva di un obiettivo concreto sembra andare alla deriva mettendo in dubbio l’importanza della sua stessa esistenza. Non si intravede slancio vitale in lei e parlando del suo futuro risponde è molto, molto lontano. E’ così lontano da me che non riesco a vederlo”.

Il senso di narrazione e la capacità di essere gli stessi nel fluire del tempo, elegantemente descritti da Eugenio Borgna nel saggio Come se finisse il mondo, sembrano essere fortemente minati dalla malattia.

“Quando le chiediamo se ci sia un senso di continuità nella sua esistenza lei riporta una marcata frammentazione e riesce a caratterizzarla emotivamente. Quando ero normale il mondo era così luminoso, colorato. La vita che avevo prima del mio disturbo alimentare mi sembra la vita di un’altra persona. Chiara non possiede un’immagine di sé al di fuori della malattia, della figura di paziente.

La frattura appare essere molto più profonda di quanto mi sarei aspettato.

“La mia realtà non è in bianco e nero. Non si tratta neanche di una scala di grigi. E’ monocromatica. Se vi guardo la vostra immagine si confonde con lo sfondo. Il cibo non ha sapore. Nulla intorno a me appare definito. Non mi interessa vedere”.

Minkowski insegna che il passato e l’avvenire non esistono che in rapporto al presente e non hanno altro senso, così come il presente non ha potuto nascere che dal passato al quale deve ricongiungersi, come deve d’altra parte dare origine all’avvenire.

Le sue parole in qualche modo riescono a confortarmi. Credo che l’Anoressia Nervosa, per quanto indiscutibilmente invalidante, non possa vincere un Titano che domina il nostro essere dal primo grande boato cosmico. Il Tempo e la gentilezza potrebbero essere armi preziose per chi tratta questo disturbo purtroppo sempre più diffuso ma dalla scarsa risonanza sociale.

 

La salute mentale degli italiani. Per un ripensamento delle politiche regionali

La pandemia non ha aiutato la cura della salute mentale nel nostro paese.

 

«Solo 60 bambini su 1.000 hanno accesso a un servizio territoriale di NPIA (Neuropsichiatria Infantile e dell’Adolescenza, ndr), e di essi solo la metà riesce ad avere risposte terapeutico-riabilitative territoriali appropriate (con estrema variabilità regionale)». A denunciarlo è il Tavolo Tecnico sulla Salute Mentale, istituito a inizio anno, nel suo documento di sintesi appena pubblicato alla vigilia della seconda Conferenza Nazionale per la Salute Mentale, tenuta dal Ministero della Salute il 25 e 26 giugno 2021. Il documento affronta tre aree di studio: la programmazione regionale nell’ambito della salute mentale, l’adeguatezza dei percorsi di cura, la riduzione degli interventi coercitivi.

Nell’evidenziare «la necessità e l’urgenza di un’intensa attività di programmazione e coordinamento nell’area della Salute Mentale dell’Infanzia e dell’Adolescenza», il Tavolo Tecnico denuncia una particolare difficoltà nel condurre una valutazione in merito, vista «la carenza di flussi informativi specifici e la difficoltà a ottenere dati appropriati dai flussi amministrativi standard» relativamente alla salute mentale dei minori. Dalle poche notizie raccolte emerge una tale variabilità nei percorsi di cura fra le varie regioni che garantire una risposta equa ai bisogni risulta molto complesso. «In particolare, mancano non solo i letti di ricovero dedicati, ma soprattutto le strutture semiresidenziali terapeutiche, indispensabili per garantire interventi a maggiore complessità e intensità, per prevenire, per quanto possibile, il ricorso al ricovero ospedaliero e alla residenzialità terapeutica. Nei servizi territoriali spesso non sono previste e adeguatamente presenti tutte le figure multidisciplinari necessarie per i percorsi diagnostici, terapeutici e riabilitativi, e vi sono significative difficoltà nel garantire la presenza anche solo delle figure mediche indispensabili, già sottodimensionate. Il quadro è reso critico dalla prevedibile collocazione a riposo a breve di numerosi neuropsichiatri infantili, senza che vi sia un numero sufficiente di giovani specialisti per sostituirli». Eppure, negli ultimi dieci anni è raddoppiato il numero dei pazienti seguiti dai Servizi di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza, soprattutto in ambito psichiatrico: tra il 2017 e il 2018 i ricoveri nella fascia d’età 0-17 sono aumentati dell’11% per i disturbi neurologici e del 22% per quelli psichiatrici. Di questi, però, non tutti hanno potuto ricevere l’assistenza necessaria, visto che il 20% sono stati ricoverati in reparti per adulti.

Per quanto riguarda, invece, lo stato di attuazione nelle Regioni del PANSM (Piano d’Azione Nazionale Salute Mentale), ad aprile scorso solo il 49.5% degli obiettivi programmatici (suddivisi in salute mentale degli adulti, neuropsichiatria infantile e integrazione) sono stati attuati, con evidenti carenze soprattutto in campi come la promozione della salute fisica del paziente psichiatrico, la diagnosi e il trattamento delle persone con disturbi psichici, la prevenzione e la lotta allo stigma. Le Regioni che presentano maggiori criticità, ossia più di sei obiettivi non attuati, sono Basilicata, Abruzzo, Sardegna, Calabria, Lazio, Campania, Molise e Liguria; mentre Friuli Venezia Giulia ed Emilia Romagna si piazzano ai primi posti insieme con la Sicilia. Differenze territoriali macroscopiche si rilevano anche nel consumo di farmaci psichiatrici: se al Nord è prevalente l’erogazione diretta e l’utilizzo di antidepressivi, al Sud si attesta quella convenzionata con un uso superiore di antipsicotici. «È possibile che rispetto agli antidepressivi vi sia un bisogno non intercettato al sud e un non-bisogno trattato al Nord. Per quanto riguarda invece il consumo di antipsicotici è possibile che al Nord la maggiore disponibilità di trattamenti psicosociali e psicoterapici, una sensibilità crescente al tema della de-prescrizione, e il migliore monitoraggio ottenibile con la erogazione diretta generino una maggiore appropriatezza e qualità di utilizzo».

Il Tavolo Tecnico suggerisce, quindi, di rivedere i processi di verifica dell’efficacia nel perseguimento degli obiettivi indicati, attuando una politica di semplificazione contro la produzione incontrollata di documenti di programmazione non necessari. Inoltre, viene proposto un «monitoraggio più fine delle attività delle strutture residenziali attraverso il rilevamento di informazioni sulla provenienza del paziente prima del ricovero e sulla sua destinazione alle dimissioni». Questo perché, soprattutto al Centro-Nord, sono andati allungandosi i tempi medi di permanenza: per molti pazienti, infatti, le strutture «sembrano rappresentare delle “case per la vita” piuttosto che dei luoghi di riabilitazione, e il loro ruolo pare dunque oscillare ambiguamente tra trattamento e riabilitazione da un lato, e custodia dall’altro».

Stando al monitoraggio 2019 del SISM (Sistema Informativo sulla Salute Mentale), sull’età e il numero medio di prestazioni fornite agli utenti, «il sistema di cura è centrato sulla cronicità piuttosto che sulla identificazione e intervento precoce, e le prestazioni totali sono insufficienti a garantire la continuità e l’intensità della presa in carico». L’età media e mediana dei nuovi utenti, infatti, nei quali vengono riscontrati i quattro disturbi considerati più gravi (depressione, disturbi della personalità e del comportamento, mania e disturbi affettivi bipolari, schizofrenia) è superiore ai 40 anni. Tra le patologie, quella più incidente è sicuramente la depressione, con 15,1 casi ogni 10.000 abitanti.

Il documento sottolinea, inoltre, l’esistenza di gravi falle nel sistema informativo intorno alla salute mentale, afflitto da: scarsa tempestività nella restituzione dei dati sotto forma di statistiche, con un ritardo di circa due anni rispetto al dovuto; assenza della componente dedicata alla Salute Mentale dell’Infanzia e dell’Adolescenza; flussi disomogenei oppure aggregati a livello regionale, che mettono in luce discrepanze e impediscono azioni specifiche per Aziende sanitarie e Dipartimenti di Salute Mentale; mancanza totale di notizie intorno alla componente sociosanitaria dei pazienti.

Volendo, dunque, analizzare l’appropriatezza dei percorsi di cura, molte sono le criticità che emergono. Prima fra tutte la disomogeneità territoriale dei Dipartimenti di Salute Mentale italiani, 140 in totale, che dovrebbero soffermarsi sugli standard organizzativi, quantitativi e qualitativi. Non meno importante, la carenza di organico, che genera un’inevitabile aumento dei «posti di residenzialità quale esito dell’impossibilità a una presa in carico multiprofessionale e continuativa». Guardando ai dati, nel quadriennio 2015-2019 si è avuta una flessione dell’1,6% del personale dipendente dei DSM, dato nettamente inferiore rispetto allo standard minimo, fissato dal DPR del 10 novembre 1999, su 66,6 operatori ogni 100.000 abitanti: attualmente se ne hanno soltanto 56,8. Necessaria, quindi, l’assunzione e la formazione «di operatori per i servizi di salute mentale di comunità, in modo da raggiungere in tutte le Regioni lo standard di riferimento quale condizione indispensabile per il funzionamento del sistema di cura».

Capitolo non meno importante l’inadeguatezza “per difetto” nell’accesso ai servizi psichiatrici nazionali, «ossia una quota di bisogni non intercettati (incidenze e prevalenze troppo basse per disturbi psichiatrici gravi). In particolare, si rileva la difficoltà dei servizi di salute mentale a intercettare la morbilità psichiatrica all’esordio o comunque in fase precoce, problema particolarmente serio per le psicosi schizofreniche, per le quali evidenze consolidate documentano che soltanto servizi specificamente orientati alla presa in carico e al trattamento in fase molto precoce sono in grado di influire favorevolmente sulla prognosi». Ciò pone la necessità di diffondere «strategie innovative per la realizzazione di specifici servizi per i giovani con gravi problemi di salute mentale»; oltre naturalmente all’adozione e al potenziamento dei Piani regionali per i Disturbi Emotivi Comuni e del «personale in grado di erogare trattamenti psicoterapeutici di provata efficacia».

 

Rotture evolutive. Psicoanalisi dei breakdown e delle soluzioni difensive (2021) di Anna Maria Nicolò – Recensione

Soprattutto ad inizio terapia, come afferma l’autrice di Rotture evolutive, è necessario lavorare sull’acquisizione e il rinforzo della fiducia del paziente, che prima si fida e poi si affida.

 

Prendendo spunto dal suo primo caso di psicoterapia, durante il periodo di specializzazione, con la supervisione del Dr. Arnaldo Novelletto, la Dr.ssa Anna Maria Nicolò, medico neuropsichiatra infantile, psicoanalista della Società Psicoanalitica Italiana e dell’International Psychoanalytical Association, psicoterapeuta della coppia e della famiglia, fa delle importanti riflessioni a posteriori, nate dalla sua esperienza pluridecennale, su un periodo evolutivo particolarmente delicato e fragile, ossia l’adolescenza, in cui è possibile riscontrare crisi vere e proprie che possono prendere due direzioni: da una parte un’evoluzione e un consolidamento della propria identità, dall’altra, al contrario dei crolli che i Laufer (1984) hanno definito “breakdown”.

Ma che cos’ è un breakdown evolutivo?

Una vera e propria rottura, spaccatura della realtà, che può essere dettata da un temporaneo arresto di un funzionamento fase specifico del processo evolutivo, fase che dovrebbe portare l’adolescente alla definizione di un’identità più solida e soprattutto più strutturata, che ne rappresenti la maturità.

L’adolescenza è, senza dubbio, un periodo complesso di transizione dall’infanzia all’età adulta, complesso in quanto coinvolge la persona nella sua totalità soma-psiche. La velocità nei cambiamenti è sicuramente evidente e spesso provoca un profondo senso di disagio e numerose perplessità nell’adolescente, circa lo stare al mondo, l’esserCi e l’esserCi con l’altro. Da un lato il desiderio di indipendenza e distacco dalle figure parentali, dall’altro la paura dello svincolo e il bisogno di non perdere tale legame.

Questo è il periodo della costruzione di un Io che ha bisogno di trovare la propria identità, ma tale meccanismo è certamente correlato alle esperienze precedenti, alle conquiste avvenute, alla capacità genitoriale di permettere l’evoluzione e la costruzione di un contesto che sia base sicura per la conquista del mondo esterno e, dunque, di territori a di fuori del nido primario. Solo in questa maniera è possibile l’interiorizzazione delle figure genitoriali e lo slancio verso quella che sarà la propria autonomia. Se ciò non avviene, come ben spiega la Dr.ssa Nicolò, è possibile che avvenga una momentanea interruzione nel passaggio, in quanto “in quasi tutti i casi di rotture evolutive in adolescenza le angosce relative all’identità di genere e all’orientamento sessuale sono in primo piano a causa dei processi di ristrutturazione dell’identità e della ricontrattazione edipica, tipici di questo periodo, e terrorizzano il giovane e spesso anche i genitori creando una tempesta emotiva enorme”.

Pertanto non vanno assolutamente trascurate e necessitano di un percorso analitico che non si ostini ad un’impostazione rigida e classica, ma che, al contrario, si adegui alla realtà dell’adolescente, così mutevole e sfuggente. Lo stesso setting non può che essere punto di arrivo e non di partenza, in quanto processo che dà modo al paziente, con i suoi tempi, unici e mai duplicabili, di esplorare e poi accettare quello spazio terapeutico, per poterlo internalizzare. La Dr.ssa Nicolò parla di “psicoterapia integrata” (Nicolò, Zavattini, 1992). In tale tortuoso percorso è utile e necessario indagare sul mondo fantasmatico famigliare, sull’ambiente in cui vive il paziente, condizione essenziale per poter iniziare il percorso.

A partire da casi clinici da lei trattati sia come analista sia come supervisore, l’autrice mette in discussione le classiche categorie diagnostiche, portando alla luce un punto di osservazione differente. La pratica clinica diventa la base per analizzare da una nuova prospettiva il fondamento teorico, anche con l’intento di rivederlo e rivisitarlo, sempre alla luce dell’esperienza professionale. Ogni singolo paziente ha la capacità inconscia di insegnare qualcosa al terapeuta.

La condizione patologica dei breakdown (Laufer M., Laufer E., 1986) ha radici molto profonde che riguardano conflitti psichici in riferimento al corpo e alla percezione che si ha di esso. L’adolescente può non tollerare i cambiamenti, bloccando quell’importante processo di integrazione dell’immagine che egli ha del suo corpo nella sua rappresentazione del Sé. Tali crolli, in età adulta, sarebbero considerati dei segni inequivocabili di psicosi e questo sottolinea la gravità e l’importanza del percorso analitico, senza il quale il giovane adulto rischia di precipitare nell’abisso di un mondo frammentato e angoscioso.

Dunque il corpo come filo conduttore delle spaccature evolutive, ben in evidenza in quelle nuove patologie adolescenziali come i self cutting, ma anche in disturbi alimentari come l’Anoressia Nervosa, in cui il soggetto infligge punizioni rigide e categoriche al proprio soma, con l’intento di trasformarlo in carne senza carne. Un’immagine corporea apparentemente definita che cela un’identità così fragile da rischiare il crollo. Lo stesso vale in quelle forme di transgender rappresentative di una volontà di assoluta negazione del soma e soprattutto della sessualità, un ritorno quasi all’indifferenziato, motivo di contenimento dell’angoscia provata dall’adolescente, meccanismo di difesa contro lo scompenso latente. Vi sono differenti modalità di esternalizzare come compenso dell’incapacità ad internalizzare. Tutto si complica anche per l’utilizzo spasmodico dei social, dove vige la regola che l’essere sta solo nell’accettazione dell’altro, altrimenti diventa non essere.

Punto nodale del testo è la relazione paziente-terapeuta dove fondamentale è il lavoro continuo sul transfert. Soprattutto ad inizio terapia, come afferma l’autrice, è necessario lavorare sull’acquisizione e il rinforzo della fiducia del paziente, che prima si fida e poi si affida. Da evitare le interpretazioni spesso scintilla di innesco di ulteriore angoscia per l’adolescente, incapace nel primo stadio di affrontarla, rischiando di esserne travolto. Durante l’analisi vi è la possibilità da parte del professionista di sentirsi tradito o ferito e dunque impotente di fronte ad una condizione particolarmente delicata e complessa. L’esperienza di controtransfert è continuamente da tenere sotto controllo, in quanto possibile, potente arma per prevaricare, confondere il paziente stesso che, in realtà, nel suo improvviso repentino cambiamento, ha solo la necessità di avvertire che qualcosa non funziona. L’analista non deve mai dimenticare che l’adolescente potrebbe utilizzarlo come oggetto nuovo di identificazione precedentemente non avvenuta. Ed è qui l’importanza del suo lavoro e la sua preziosa presenza come contributo di trasformazione e di riavvio della fase evolutiva sospesa, inceppata, interrotta.

 

Inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina e benzodiazepine nel trattamento del disturbo di panico: confronto tra i rispettivi effetti collaterali

Le benzodiazepine (BDZ) e gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI) si sono dimostrati entrambi efficaci nel trattamento farmacologico del disturbo di panico (DP).

 

Tuttavia, le linee guida sul trattamento favoriscono gli SSRI rispetto alle benzodiazepine, sulla base della convinzione che quest’ultime siano associate ad effetti collaterali più esacerbati rispetto a quelli indotti dagli SSRI (Quagliato et al., 2019). Le linee guida per il trattamento del disturbo di panico hanno favorito gli SSRI, rispetto alle benzodiazepine, per il trattamento a breve e lungo termine (American Psychiatric Association, 1998; Nielsen et al., 2012) per due specifiche ragioni: (i) un tasso di dipendenza superiore indotto dalle benzodiazepine rispetto agli SSRI, dopo un uso a lungo termine (Baldwin et al., 2014; Roy-Byrne et al., 2006) e (ii) un maggior rischio di sintomi da sospensione (Bandelow et al., 2008; Roy-Byrne et al., 2006). Alcuni autori sostengono che i sintomi chiave della dipendenza da benzodiazepine siano: tremore, vertigini, ansia e insonnia in caso di riduzione o interruzione del dosaggio (Ashton, 2005).

In effetti, possono verificarsi sintomi di astinenza e abuso da benzodiazepine, specialmente nel contesto dell’abuso di altre sostanze (Tvete et al., 2013). Tuttavia, risulta fondamentale distinguere tra una dipendenza fisiologica e l’adattamento naturale di un sistema corporeo a lungo abituato alla presenza di qualsiasi farmaco, incluse benzodiazepine e SSRI (O’Brien, 2005). Tuttavia, la sindrome da astinenza può essere controllata e risolta attraverso la riduzione della dose, il cambio o l’aumento del farmaco (O’Brien, 2005).

Esiste un sottogruppo di pazienti, con disturbo da uso di sostanze in comorbilità, con maggiori probabilità di presentare un aumento dell’assunzione di benzodiazepine e di mostrare una sindrome di dipendenza dalla riduzione del dosaggio o dall’interruzione della dose, con sintomi di astinenza da BDZ (Ait-Daoud et al., 2018). Tuttavia, possono comunque verificarsi reazioni di astinenza sia con BDZ, sia con SSRI (Belaise et al., 2012; Greenblatt et al., 1990; Nielsen et al., 2012; Schweizer et al., 1990). In entrambe le classi, questa ‘sindrome da astinenza’ è caratterizzata da sintomi come: ansia, pianto, vertigini, mal di testa, disturbi del sonno, irritabilità, mioclono, nausea, parestesia e tremore (Starcevic, 2012). La supposizione secondo cui le benzodiazepine diano più dipendenza degli SSRI è in gran parte spiegata da concettualizzazioni imprecise del concetto di dipendenza. Gli SSRI sono stati commercializzati come farmaci che non avrebbero causato dipendenza (Nielsen et al., 2012). Tuttavia, con il passare del tempo, è risultato evidente che gli SSRI avrebbero potuto causare la sindrome da sospensione (Rosenbaum et al., 1998). Questa sindrome è abbastanza simile alla sindrome da astinenza da benzodiazepine ed è caratterizzata da sintomi come: ansia, pianto, vertigini, mal di testa, disturbi del sonno, irritabilità, mioclono, nausea, parestesia e tremore (Nielsen et al., 2012; Starcevic, 2012). Gli SSRI con un’emivita più breve (es. paroxetina) sembrano essere maggiormente associati a sintomi da sospensione rispetto agli SSRI con un’emivita più lunga (es. fluoxetina); proprio come le benzodiazepine con un’emivita più breve (es. alprazolam) sono maggiormente associate a sintomi di astinenza rispetto alle benzodiazepine con un’emivita più lunga (es. clonazepam; Starcevic, 2009). A tal proposito, risulta importante ribadire che la presenza della sindrome da sospensione da SSRI non implica il fatto che tali sostanze diano dipendenza in senso stretto (Fava et al., 2015).

Le benzodiazepine, in assenza di abuso di altre sostanze, raramente inducono comportamenti quali brama per questi psicofarmaci, comportamento incontrollabile di ricerca di BDZ, attività finanziarie inficiate o problematiche di natura legale connesse al loro utilizzo (Nielsen et al., 2012; Starcevic, 2012). Tuttavia, le BDZ esercitano effetti immediati sui pazienti, rendendoli più propensi a rafforzare la somministrazione rispetto agli SSRI (Griffin et al., 2013). Pertanto, le benzodiazepine sono maggiormente soggette ad un uso improprio rispetto agli SSRI (Evans & Sullivan, 2014). Gli effetti collaterali più frequentemente riscontrati con gli SSRI sono: diaforesi, affaticamento, nausea, diarrea e insonnia; mentre le BDZ sono associate a costipazione, difficoltà di memoria e secchezza delle fauci. Entrambe le categorie di farmaci sono associate alla sonnolenza diurna. Gli SSRI possono comportare un maggior rischio di disfunzione sessuale rispetto alle benzodiazepine (Quagliato et al., 2019).

I sintomi, come nausea e diarrea, causati dagli SSRI sono comuni effetti transitori del trattamento a breve termine, che non durano più di 12 settimane (Khawam et al., 2006). Infatti, molti di questi sintomi sono correlati alla sindrome di attivazione degli SSRI che di solito si verifica all’inizio del trattamento (Khawam et al., 2006). Sebbene questa sindrome di attivazione possa ridursi nel tempo, potrebbe aumentare l’ipervigilanza e l’ansia nei pazienti con Disturbo di Panico acuto, contribuendo ad esacerbare l’intensità sintomatologica (Clark et al., 1997).

Allo stesso tempo, le benzodiazepine sembrano assumere una valenza protettiva in ​​sintomi quali: tachicardia, sudorazione, affaticamento e insonnia, consentendo una rapida riduzione dell’ansia e dei sintomi simpatici (Vemulapalli e Barletta, 1984). Infatti, alcune benzodiazepine (come il clonazepam) possono abbassare la pressione sanguigna (Dmitriev et al., 2001) e potrebbero contribuire al trattamento della fibrillazione atriale nei pazienti con Disturbo di Panico (Kahn et al., 2018). Tuttavia, le benzodiazepine sono allo stesso tempo associate ad un aumento del rischio di difficoltà di memoria, stitichezza e secchezza delle fauci: le alterazioni della memoria potrebbero in particolar modo inficiare la qualità di vita del paziente (Beracochea, 2006). Il deterioramento cognitivo indotto dalle benzodiazepine è, però, solitamente di lieve entità e non sempre evidente ai pazienti; tuttavia, può persistere in una certa misura anche dopo la sospensione del farmaco (Stewart, 2005).

In conclusione di tale estratto, è possibile affermare che molti psichiatri considerano la co-terapia tra SSRI e BDZ come trattamento di prima linea per il disturbo di panico acuto, in quanto compensa gli svantaggi di entrambe le categorie (Nardi et al., 2018). A tal proposito, risulta fondamentale ribadire che la linea di trattamento più efficace contempla anche l’integrazione con la psicoterapia, in particolar modo di matrice cognitivo-comportamentale, al fine di estinguere il circolo vizioso ‘paura della paura’ e di rendere il paziente consapevole dei meccanismi di mantenimento del disturbo (Clark et al., 1997).

 

Beck tra standardizzazione dei trattamenti e relazione paritaria col paziente – 100 anni di Aaron T. Beck – Parte 4

Il racconto di come la psicoterapia cognitiva di Beck appartenesse alla prima generazione di trattamenti psicoanalitici relazionali.

 

Il manuale fu elaborato da un gruppo di lavoro che collaborava pariteticamente scambiando in continuazione idee, esempi, simulazioni di interventi e osservazioni critiche. Questo metodo di lavoro si rifletteva sulla pratica clinica stessa. Fu una svolta radicale elaborare una terapia che fosse un’impresa collaborativa paritaria tra terapeuta e paziente. E paritario fu il rapporto tra Beck e il gruppo di lavoro, costituito da giovani specializzandi e non solo: c’erano anche borsisti post-dottorato, studenti di medicina e laureati in psicologia e chiunque altro bazzicasse il suo laboratorio. Anche il gruppo clinico che applicava la terapia era di giovani: a Rush e Khatami si aggiunse la dottoranda Maria Kovacs e poi altri due specializzandi. Questi furono i primi 5 terapeuti cognitivi formati da Beck e che dal 1° agosto 1974 resero operativa la clinica per la depressione a basso costo di Rush e Khatami, che prese il nome di “Mood Clinic”. Non basta, tuttavia. È importante sottolineare che Beck non solo ascoltava i giovani ma si serviva anche di consulenti esperti: Lester Luborsky, il ricercatore in psicoterapia più esperto alla Penn che in quegli anni stava elaborando il suo Core Conflictual Relatioship Theme e Karl Rickels, un esperto in psicofarmacologia.

Applicato giorno per giorno nella concretezza dell’attività della “Mood Clinic”, lo sviluppo del manuale andava avanti senza posa. Ogni settimana Beck si riuniva con i suoi collaboratori per una sessione di brainstorming. Beck voleva sapere tutto ciò che i suoi studenti apprendevano e osservavano in clinica, ogni ostacolo, ogni fallimento e successo con i pazienti. Li incoraggiava a chiedere direttamente ai pazienti se le formulazioni avessero o meno senso e di inoltrare le loro osservazioni a Rush che doveva tradurle in termini operativi e introdurle nel manuale. In questo modo si finiva per avere una nuova versione del manuale ogni 3 o 4 mesi. Nel giugno 1974 il manuale era di 46 pagine. Nel maggio 1975 era cresciuto fino a 89 pagine e in questa forma fu presentato all’incontro annuale della Society for Psychotherapy Research (SPR) nel 1975 a Boston insieme al dato sensazionale che la terapia cognitiva per la depressione era più efficace dei farmaci.

Il gruppo inoltre si evolveva. Rush, così importante ma non indispensabile, se ne andò nel luglio 1975, ma subentrarono Steven Hollon a coordinare l’attività clinica e Brian Shaw a continuare a scrivere il manuale, mentre la Mood Clinic diventava Center for Cognitive Therapy di Philadelphia, dove ancora adesso si fa terapia e formazione cognitiva. In seguito, diventarono membri del gruppo Gary Emery, Ira Herman e David Burns. Poi iniziarono ad arrivare gli psicologi clinici mentre fino a quel momento avevano prevalso gli psichiatri: Arthur Freeman (che era stato formato da Albert Ellis), Rich Bedrosian e Jeffrey Young, il futuro ideatore della Schema Therapy.

La strategia di Beck era dunque sviluppare una relazione paritaria con terapisti giovani e relativamente inesperti e sviluppare una squadra che poi sarebbe diventata un vero Istituto clinico e una scuola di formazione in uno stile che era opposto alla struttura gerarchica della psicoanalisi. Il manuale, quindi, fu in grado di ottenere due obiettivi apparentemente opposti: standardizzare gli interventi per una sperimentazione clinica e attirare giovani terapisti in un ambiente di scambio clinico e scientifico flessibile e paritario. Quei giovani specializzandi, se non avessero incontrato Beck, avrebbero presumibilmente adottato la doppia fedeltà -fino a quel momento imperante- alla psicoanalisi e/o a un’altra forma di psicoterapia (Hollon era rogersiano, ad esempio) e alla farmacoterapia. In una minuta del 1975 degli incontri del gruppo di Beck compare la considerazione che per i giovani specializzandi il training psicoanalitico fosse inutile per tentare la terapia cognitiva di Beck (Rosner, 2018). In base a quel documento possiamo indicare il 1975 come il definitivo momento in cui Beck e il suo gruppo diventano cognitivisti.

Infine, nel 1979 il manuale fu pubblicato (Beck, Rush, Shaw e Emery, 1979). Esso definiva le fasi della sua terapia in uno stile semplice e comprensibile, senza tecnicismi. Il manuale ebbe successo anche perché trasmise questa sensazione di cooperazione paritaria e anti-gerarchica nel rapporto col paziente. Il terapista cognitivo interagiva continuamente col paziente. Questa atmosfera democratica era poi intensificata dalla possibilità di testare scientificamente il modello; questa controllabilità scientifica però va intesa come controllabilità soprattutto clinica: connettere i sintomi ai pensieri espliciti significava soprattutto non fare interpretazioni lontane da quello che sosteneva il paziente ma fornire formulazioni di buon senso e comprensibili per il paziente che poteva dare o meno il suo assenso e su questo assenso il terapista basava la correttezza della formulazione. Non vi era alcuna pretesa di fornire interpretazioni ritenute vere nonostante fossero rifiutate dal paziente. E anche questo intensificava il sapore democratico della proposta di Beck. Infine, Beck chiedeva ai suoi collaboratori di utilizzare il manuale come guida e non come un libro di ricette, e questo nonostante la supposta standardizzazione del trattamento. Il manuale era solo un supporto, il nocciolo era nel continuo confronto clinico delle riunioni, delle simulate e della visione di sedute audio e videoregistrate.

L’incontro con Clark

Come abbiamo già scritto nella puntata precedente, a Oxford David Clark fu tra i primi ad adottare il manuale di Beck ancor prima che fosse pubblicato. Dopo la pubblicazione la collaborazione diventò strettissima. Beck e Clark si scambiarono visite sempre più frequenti finché nel 1986 Beck diventò visiting professor a Oxford. Il gruppo di Oxford ebbe il merito di favorire l’estensione del trattamento di Beck ai disturbi d’ansia.

Va tuttavia detto che dalla conversione di Clark e Beck non nacque dal nulla. Clark apparteneva al gruppo di lavoro che era cresciuto intorno a Michael Gelder, primo professore di psichiatria a Oxford dal 1969 e interessato, oltre che ai trattamenti farmacologici, al trattamento comportamentale mediante desensibilizzazione dell’agorafobia, pubblicando un articolo seminale nel 1966 con Isaac Marks (Gelder & Marks, 1966).

Tuttavia Gelder si rese conto rapidamente dei limiti dell’approccio puramente comportamentale e incoraggiò l’esplorazione del valore dell’aggiunta di strategie cognitive, che si concentravano sulla modifica dei pensieri, dell’attenzione e della memoria. L’Oxford Centre da lui guidato si distingueva per un’interazione tra teorie psicologiche, studi sperimentali e innovazione clinica. Nel corso degli anni, Gelder attrasse al Dipartimento di Oxford i futuri innovatori britannici nella terapia cognitivo comportamentale: David Clark primo fra tutti, e poi Anke Ehlers, Christopher Fairburn, Andrew Mathews, Paul Salkovskis, John Teasdale, Adrian Wells e Mark Williams. Si svilupparono forme di terapia cognitivo-comportamentale nuove e altamente efficaci, con procedure pratiche e descritte operativamente per il Disturbo di Panico, il Disturbo d’Ansia Generalizzato, il Disturbo d’Ansia Sociale, il Disturbo Ossessivo-Compulsivo, l’Ipocondria, il Disturbo Post-traumatico da Stress, la Sindrome da Fatica Cronica e la Bulimia Nervosa. Questi trattamenti cognitivo-comportamentali furono ampiamente adottati nella pratica clinica, sono oggi raccomandati dal National Institute for Health and Care Excellence e forniscono migliori risultati a lungo termine rispetto ad approcci alternativi come i farmaci antidepressivi. Questo terreno di coltura facilitò l’incontro tra Clark e Beck.

 

I millennials, la nuova generazione che investe

La generazione dei millennials è forse quella che ha fatto più parlare e discutere, rispetto alle altre, per molti aspetti differenti.

Daniela Renzi – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Una questione di spicco che li riguarda è relativa al mondo economico e finanziario. Si tratta della generazione più importante per le aziende di tutto il mondo, in quanto rappresentano la gran parte della forza lavoro, il loro reddito sta superando quello delle generazioni precedenti, hanno una maggiore possibilità di spesa e di condizionare il trend dei consumi globali.

Molte sono le recenti ricerche che stanno studiando le caratteristiche di questa generazione al fine di individuare interessi, bisogni e scopi della loro vita.

Millennial generation, generation Y, net generation, next generation, descrivono tutti la stessa fetta di popolazione, quella che va dai primi anni ottanta alla metà degli anni novanta, “la generazione del millennio”, dato che comprende chi è nato alla fine del XX secolo. Nel 2020 hanno tra i 24 e i 39 anni.

Essendo un range molto ampio di età, il Pew Research Center ha condotto uno studio per definire meglio questi termini, e uno dei criteri era quello di vedere che età avessero durante l’attacco alle torri gemelle dell’11 settembre 2001, per definire se erano grandi abbastanza da comprendere la portata del tragico evento. Per questo il suddetto studio definisce millennial chiunque sia nato tra il 1981 e il 1996.

In Italia i Millennials sono una minoranza rispetto ad adulti e anziani, parliamo di 11,2 milioni di persone (Pew Reasearch Center,2021), ma negli Stati Uniti sono una porzione importante della popolazione ed è questo che li spinge a condurre studi a sfondo finanziario per capire quali saranno le loro abitudini di investimento, anche perché viene considerata una generazione diversa dalle precedenti, con caratteristiche peculiari da approfondire.

L’obiettivo è quello di capire come attrarre i nuovi investitori, apparentemente più esigenti, e soddisfare così i loro bisogni finanziari. Per poterlo fare è necessario capire cosa si aspettano, come scelgono, quali sono per loro le priorità per definire la loro identità, i loro obiettivi futuri.

Molti sono i pregiudizi che li riguardano. Vengono descritti come una generazione di ignoranti, che vuole rompere totalmente i legami con i propri genitori, incapaci di andare avanti da soli, soprattutto economicamente e quindi incapaci di pensare alla stabilità economica, detti anche “Generation Me” alludendo all’egoismo che gli si attribuisce. Tutti miti fortunatamente sfatati. In particolare il dato relativo alla stabilità economica risulta falso, a seguito di uno studio condotto da Ramsey solution, secondo cui circa il 60% ha da parte dei soldi come fondo pensionistico che risulta essere quantitativamente uguale alla generazione subito precedente, i baby boomer, con la differenza che i millennials hanno ancora parecchi decenni davanti prima della pensione. Si dovrebbe dire, piuttosto, che non sono interessati alla stabilità economica, che hanno diverse priorità: un buon ambiente di lavoro, maggiori opportunità di crescita professionale e personale, ferie pagate ecc.

Le caratteristiche invece più evidenti e riscontrabili, riguardano il grado di istruzione, la maggiore multiculturalità rispetto alle generazioni precedenti e la piena familiarità con ambienti e tecnologie digitali, un insieme di fattori che li ha condotti a creare nuove forme di mercato e quindi di investimento (Inside Marketing, 2017)

Ma quali sono le caratteristiche psicologiche che meglio descrivono questa ampia generazione e la differenzia da quelle precedenti?

Uno studio si è posto l’obiettivo di confrontare le caratteristiche della generazione precedente con questa, proprio per vedere se la suddetta visione negativa è realistica o tipica di un bias generazionale riassumibile in una citazione di Socrate (469-399 a.c.): “La nostra gioventù ama il lusso, è maleducata, se ne infischia dell’autorità e non ha nessun rispetto per gli anziani. I ragazzi d’oggi sono tiranni. Non si alzano in piedi quando un anziano entra in un ambiente, rispondono male ai loro genitori”. Come se ogni generazione vedesse con un occhio preoccupato la nuova che nasce e si fa spazio nella società.

Sono stati presi in considerazione 31 costrutti psicologici esaminati tramite questionari self report su un campionamento basato sullo studio americano Monitoring the Future che comprende gli studenti più anziani delle scuole superiori, raccolti tra gli anni 70 e la metà degli anni 2000 attraverso una procedura di campionamento in tre fasi distinte per area geografica, selezione di scuole in ciascun area e selezione degli studenti di ogni scuola. Sono state prese in considerazione le seguenti aree:

  • egoismo, atteggiamenti individualistici, autostima
  • senso di impotenza e miseria, comportamento antisociale e soddisfazione nella vita
  • senso di felicità
  • fiducia interpersonale e cinismo
  • aspettative sulla formazione accademica, materialismo e atteggiamento nei confronti del lavoro
  • clima socio-culturale e importanza della religione

Ciò che è emerso è una sostanziale indifferenziazione dalla generazione precedente se non per qualche variabile. Una fra queste riguarda le aspettative relative al diploma e alla possibilità di specializzarsi, infatti negli anni 70 solo il 35% ha dichiarato che si sarebbe laureato mentre nel 2000 il 59,8% ha dichiarato che si sarebbe diplomato all’università e il 22,5% nel 2000 si sarebbe specializzato a fronte del 9,7% degli anni 70. Questo nonostante la ricerca ci dica che negli anni 70 gli studenti erano meno cinici e più fiduciosi rispetto all’utilità della scuola. Molto interessanti sono i risultati relativi alla pigrizia della nuova generazione in ambito lavorativo: anche secondo i millennials lavorare sodo è di fondamentale importanza per svolgere il lavoro desiderato, a cui si ambisce.

In conclusione, dall’intero studio è emerso che il soggetto medio della Generation Me non è notevolmente diverso da quello dei Baby Boomer, non sembrano essere più egoisti e appaiono altrettanto felici e soddisfatti. Sembrano avere profili simili ai giovani degli ultimi 30 anni. Tuttavia, le ultime generazioni hanno maggiori aspettative relative alla carriera scolastica e sono più cinici e diffidenti. Sembrano smentite quindi le preoccupazioni sull’attuale generazione, specialmente in termini di egoismo, autostima e livelli di miseria. Anche riguardo il narcisismo attribuito a questa generazione, pare ci sia uno scollamento tra la percezione globale e quelle che invece sono le caratteristiche personologiche del singolo individuo. Questo effetto si potrebbe attribuire a un pregiudizio di disponibilità che riflette individui particolari facilmente ricordabili piuttosto che riflettere la verità sull’intero gruppo generazionale. Ciò può portare la generazione stessa a un bias di conferma in base al quale gli individui richiamano selettivamente le informazioni coerenti con questo stereotipo. Questo spiegherebbe perché la stessa Generazione Me si descrive sotto un luce negativa (Kali H. Trzesniewski and M. Brent Donnellan, Rethinking ”Generation Me”: A Study of Cohort Effects From 1976−2006 , Perspectives on Psychological Science 2010).

In studi più recenti emerge invece anche una maggiore assertività e maggiore autostima rispetto alle generazioni passate (Twenge, Carter e Cambell, 2017).

Una generazione spesso stigmatizzata in negativo, descritta rispetto ai baby boomer come più materialista, egoista, svogliata, arrogante ma anche più esperta di tecnologia, a differenza della generazione precedente che invece appare più rispettosa, orientata al lavoro, attenta alla comunità, più istruita e attenta ai temi etici.

Non è facile essere giovani negli anni della crisi (e post). Il contesto in cui vivono limita la loro possibilità di spensieratezza. Si trovano in un mondo che, se da una parte esalta, in quanto costituito da molteplicità di prodotti nuovi e originali, dall’agevolazione rispetto al passato, dallo svolgere le attività quotidiane attraverso le piattaforme on-line, dalla maggiore accessibilità a informazioni, prodotti e servizi e dalla possibilità di un contatto costante con i pari grazie ai social, dall’altra è caratterizzato però dalla consapevolezza della crisi economica che costringe a prudenza e autocontrollo; la disoccupazione, il reddito incerto, una iper stimolazione in cui è più difficile orientarsi. Una generazione, rispetto alla precedente, limitata nella possibilità di mettersi in gioco e costretta ad essere quindi più cauta.

Uno studio recente condotto pre e post covid ha messo in evidenza una caratteristica peculiare di questa generazione, ovvero una resilienza e determinazione che li differenzia dalle generazioni precedenti. Molti millennials hanno perso il lavoro durante la pandemia, a molti altri sono state ridotte le ore di lavoro, mentre alcuni hanno lavorato più ore senza un aumento retributivo. Solo un terzo dei millennials e della generazione Z (nati fra il 1995 e il 2010) che ha partecipato al sondaggio, non ha avuto ripercussioni lavorative a seguito della pandemia.

Nonostante il sondaggio dell’anno prima avesse messo in risalto un certo grado di pessimismo e disagio in questa generazione, la pandemia non sembra aver esacerbato questi sentimenti. Anzi sono emersi maggiore ottimismo in relazione alla questione ambientale, un forte impegno per la responsabilità finanziaria e il risparmio (Deloitte Global Millennial Survey, 2020).

Secondo un’analisi di una banca americana del 2020, i millennials sono buoni risparmiatori ma niente a che vedere con quanto riuscivano a mettere da parte i loro genitori o i nonni. Infatti questa nuova generazione comincia a pensare alla pensione già all’età di 24 anni, una chiara inclinazione di come iniziano a pensare e programmare il proprio futuro, del quale non hanno una visione ottimistica (Angelo Valente, Marco Casanova, 2021, Wall Street Italia).

Sembra che questa generazione, sopravvissuta a sfide economiche e sociali senza precedenti, abbia sviluppato una gran forza di vedere opportunità anche nell’oscurità del momento che sta vivendo. Una grande capacità di resilienza. Infatti, non spera solo che emerga un mondo migliore alla fine della pandemia, ma vuole essere alla guida del cambiamento.

È emerso anche un dato molto interessante riguardo ai livelli di stress provati da questa generazione pre e post covid evidenziando così delle nuove possibili strategie che stanno considerando per affrontare meglio il futuro. Questo in relazione al lavoro, alle loro finanze e gli investimenti futuri ma anche rispetto a ciò che è possibile fare per contrastare i danni causati dal cambiamento climatico con una maggiore responsabilità rispetto al benessere del pianeta.

Entrambe le generazioni hanno affermato che faranno un grande sforzo per sostenere le aziende locali e non esiteranno a penalizzare le aziende i cui valori sono in conflitto con i propri.

Dai risultati della ricerca pre covid, risultavano livelli di stress molto alti in questa generazione, a differenza dei successivi che invece mostrano un calo.

Quindi possiamo dire che prima del covid questa generazione era estremamente preoccupata, della propria salute, del benessere per le proprie famiglie, per le prospettive lavorative e per il proprio futuro finanziario.

Ma la pandemia ha costretto a un rallentamento della vita e questo ha permesso di riguadagnare terreno verso i loro obiettivi fondamentali. Uno fra questi è l’attenzione per la salute mentale che viene già ricercata a partire dal posto di lavoro.

Ci troviamo di fronte una generazione molto criticata perchè percepiti come più narcisisti, egoisti e sconclusionati, ma che allo stesso tempo è diventata fra le più resilienti e attente a temi sociali e ambientali, accantonando l’idea classica, delle generazioni precedenti, di risparmio e investimento, ma creandone di  nuove a partire dalle loro forze e fragilità.

 

Ci salva la vita, ma comunque è il Diavolo: i meccanismi di difesa disadattivi nei confronti dei mezzi medici contro il Covid–19

Mai come nelle altre epoche della Storia dell’Umanità, i mezzi medici e scientifici sono stati necessari per affrontare una pandemia come quella del Covid-19. Eppure essi sono ancora oggetto di scredito e di percezioni negative, spesso create da meccanismi di difesa male contestualizzati.

 

Grazie ad un lavoro indefesso di ricerca, le maggiori case farmaceutiche sono riuscite nel giro di un anno e mezzo a sintetizzare dei vaccini contro il Sars-Cov- 2, con l’obiettivo di raggiungere livelli di somministrazione funzionali ed ottimali (TPI; 2021).

Sebbene ora i vaccini siano disponibili, dimostrando quindi il ruolo fondamentale della scienza nella gestione della salute mondiale, le risposte scettiche dei No-vax non sono affatto diminuite.

Di fatto, come specifica l’Ansa in un articolo sulla web reputation dei DPI (2021), l’uso della mascherina continua ad essere percepito come una condizione di negazione delle libertà, tanto da avere come hashtag di maggior uso quello di “dittatura sanitaria”.

La recente news di un rave party di stampo No Mask a Maleo, nel Lodigiano, considerato un focolaio della variante Delta del virus (Rai News, 2021), ha ulteriormente accertato di fatto una strenua resistenza all’imposizione delle norme sanitarie da parte di alcuni gruppi di persone, anche in questa fase di riapertura.

Una delle risposte a questa resistenza disfunzionale la si trova in due fenomeni di difesa dell’ego, ovvero la negazione ed il complottismo.

Come spiega Silvia Bonino (2021), l’ego umano ha sviluppato degli autoinganni per rispondere alla coscienza della morte e della vulnerabilità del corpo, autoinganni che attualmente si sono acuiti a causa delle conseguenze della prima pandemia globale della storia.

Come indica la professoressa di Psicologia dello Sviluppo all’Università di Torino, la negazione, ovvero il rifiutare acriticamente le conseguenze dell’ambiente e della natura sul corpo e il complottismo, ovvero utilizzare ragionamenti astrusi per dare un senso ai paradossi dell’esistenza e dare la colpa di eventi negativi che impattano sulla vita della persona ad elementi terzi, sono meccanismi che danno benefici nel breve periodo, ma che risultano assai spesso essere di grave danno per il benessere mentale e psicofisico dei gruppi.

Infatti, come indica Bonino, benefici come il sentirsi potenti nei confronti dell’ambiente e/o sentirsi più intelligenti degli altri durano poco tempo, per lasciare spazio a comportamenti disfunzionali con conseguenze molto spesso pesanti, come la paranoia acritica (Reynold, 2021) e reazioni violente, come la “presa” del Congresso da parte di simpatizzanti repubblicani e del governo Trump, fra i quali molti hanno aderito alla teoria del complotto Qanon (Adams, 2021).

Concludendo, la soluzione adattiva più sana, come indica la precedentemente citata Bonino, è lavorare sulla paura stessa attraverso il permettere nuove soluzioni creative ed aiutare le persone ad adattarsi alle novità inevitabili che il Covid-19 ha instaurato, adoperando valutazioni concrete.

 

Ti insegno come io ho imparato (2020) di Filippo Barbera – Recensione del libro

Filippo Barbera, in Ti insegno come io ho imparato, opera una sorta di rivoluzione copernicana nell’approccio ai DSA: l’attenzione non si deve focalizzare su ciò che il disturbo impedisce di fare ma deve essere spostata sulle capacità che permettono di trovare la chiave capace di aprire quella porta chiusa a doppia mandata.

 

Ti insegno come io ho imparato è una guida scritta da Filippo Barbera pubblicata nel 2020 da Erickson. L’autore è oggi un insegnante, ma è stato uno studente con disturbi dell’apprendimento e, nonostante ciò, è riuscito con successo nel percorso scolastico. Si è laureato in Formazione Primaria e Psicologia e specializzato in Psicopatologia dell’apprendimento e nel Metodo Montessori. Oltre ad insegnare, Barbera, si dedica alla formazione dei docenti e cerca di rendere coscienti e partecipi gli operatori scolastici e le famiglie, di cosa significhi avere un Disturbo Specifico dell’Apprendimento (DSA).

Tali disturbi sono un gruppo di disabilità in cui compaiono difficoltà nell’acquisizione e utilizzazione della lettura (dislessia), della scrittura (disgrafia, disortografia) e del calcolo (discalculia) in bambini con intelligenza nella norma. Un sintomo li accomuna tutti: l’impotenza appresa, cioè il convincersi che non si è capaci ad imparare. Questo vissuto è responsabile di un abbassamento dell’autostima e della comparsa di alcuni sintomi comportamentali tipici dei bambini con DSA che possono divenire introversi o al contrario irrequieti e distratti (L. Castrucci, Biopills feb. 2020).

La pubblicazione di Ti insegno come io ho imparato giunge dopo quella di Un’insolita compagna: la dislessia (Cleup, 2013), un romanzo in cui l’autore narra i sentimenti, le frustrazioni e le strategie che bambini e ragazzi con DSA giornalmente sperimentano e che egli stesso ha sperimentato. È preceduta anche dalla pubblicazione di Con-pensare i DSA (Cleup, 2014), una guida per gli insegnanti scritta con lo scopo di sensibilizzare e far conoscere le caratteristiche dei DSA.

Un concetto lega i tre libri pubblicati da Filippo Barbera: “i DSA non sono porte murate ma porte chiuse a doppia mandata, si tratta di trovare la chiave giusta per aprirle”.

Con Ti insegno come io ho imparato, Barbera, permette al lettore di vedere come funziona la mente e l’apprendimento di chi ha un DSA. L’autore conosce e descrive perfettamente ciò che ha vissuto in prima persona, fa comprendere al lettore, in modo chiaro, quali sono le difficoltà da superare e le strategie da mettere in campo per poter raggiungere l’obiettivo, anche quello di poter divenire un insegnante nonostante si abbia un DSA. Il pensiero che ispira questa guida è quello legato alla necessità di smantellare gli stereotipi ed andare oltre le etichette. E’ fondamentale sviluppare il potenziale di apprendimento che ogni persona possiede. In quest’ottica non può essere sufficiente limitarsi a fornire misure compensative o dispensative agli alunni con DSA. Ogni bambino, ogni ragazzo deve poter trovare una strategia che gli permetta di arricchire l’esperienza dell’apprendimento.

Ti insegno come io ho imparato affronta con rigore le tematiche riguardanti i DSA, il linguaggio utilizzato e gli schemi proposti dall’autore rendono la guida altamente fruibile.

Filippo Barbera opera una sorta di rivoluzione copernicana nell’approccio ai DSA: l’attenzione non si deve focalizzare su ciò che il disturbo impedisce di fare ma deve essere spostata sulle capacità che permettono di trovare la chiave capace di aprire quella porta chiusa a doppia mandata.

Le recenti ricerche nel campo della didattica sostengono la visone di Barbera. Attualmente un progetto di ricerca, condotto dall’Università di Bolzano in collaborazione con l’Università di Torino, “BECOM-IN: diventare insegnante con disabilità o DSA”, si sta occupando di queste tematiche.

 

Il Disturbo Borderline di Personalità e il rischio di compliance sessuale

Il disturbo borderline di personalità (BPD) è caratterizzato da un’instabilità emotiva che pervade molteplici ambiti (American Psychiatric Association-APA, 2013).

 

Il criterio diagnostico più rilevante riguarda gli sforzi frenetici per evitare un abbandono reale o immaginario (APA, 2013) ed evidenzia la probabilità che questi individui possano mettere in atto comportamenti disfunzionali che potrebbero comportare una maggior probabilità di essere vittime sessuali di un partner. Difatti, è stato dimostrato che le donne con tratti di disturbo borderline di personalità sono maggiormente a rischio di subire abusi sessuali (Young & Furman, 2008).

Naturalmente, la responsabilità dell’abuso ricade sull’autore, ed è importante identificare e comprendere i fattori che portano alla perpetrazione della coercizione sessuale. Tuttavia, Few e Rosen (2005) hanno sottolineato che identificare le caratteristiche delle vittime è necessario al fine di comprendere i fattori che aumentano i suddetti rischi.

Quindi, sarebbe utile conoscere in quali circostanze le persone con tratti di BPD hanno una maggior probabilità di essere sessualmente compiacenti e, osservando più da vicino l’associazione tra i tratti del disturbo borderline di personalità e la compliance sessuale, una più acuta sensibilità all’abbandono potrebbe essere il tratto specifico che influenza questa associazione.

Per compliance sessuale si intente la volontà di una persona di impegnarsi in rapporti sessuali non realmente desiderati (Katz & Tirone, 2010). Nelle relazioni sentimentali, le persone con tratti di disturbo borderline di personalità possono idealizzare il loro partner e richiedere la sua attenzione in un dato momento, successivamente però, potrebbero svalutarlo ritendendolo poco premuroso (APA, 2013). I periodi di svalutazione avvengono tipicamente in risposta a un rifiuto reale, che determina la paura dell’abbandono (Gunderson, 2011). Questo timore incrementa le disfunzioni relazionali e ciò vale sia nei campioni clinici che in quelli della comunità (Hill et al., 2011). Le persone con tratti di BPD possono mettere in atto sforzi frenetici per evitare il rifiuto impegnandosi in azioni impulsive, come l’esplicitazione di comportamenti sessuali indesiderati (Bouchard et al., 2009). La conformità sessuale, a sua volta, determina ulteriori conseguenze nefaste nei rapporti. Per esempio, essere sessualmente accondiscendente comporta un aumento dei livelli di cortisolo che, a loro volta, incrementano lo stress (Hartmann & Crockett, 2016). Inoltre, essere sessualmente accondiscendenti con lo scopo di trattenere un partner comporta una diminuzione della soddisfazione relazionale (Impett et al., 2010).

A causa di una maggiore sensibilità alla perdita di un partner, dunque, le persone con tratti di disturbo borderline di personalità possono essere più sessualmente compiacenti, attuando tale comportamento come una strategia utilizzata per mantenere la relazione. Va da sé che le persone che temono l’abbandono possono avere difficoltà a stabilire e far rispettare chiari confini nell’attività sessuale.

Willis e Nelson-Gray (2017) hanno condotto uno studio semi-sperimentale con l’obiettivo di indagare la relazione tra timore dell’abbandono, tratti borderline e compliance sessuale. Manipolando sperimentalmente la paura dell’abbandono, gli autori si sono proposti di identificare quale fosse il fattore responsabile dell’associazione tra i tratti del disturbo borderline di personalità e la compliance sessuale (Bouchard et al., 2009). Naturalmente, per ragioni etiche, è stata valutata una compliance sessuale ipotetica.

Per quanto riguarda la manipolazione, i ricercatori hanno riferito ai partecipanti che, sulla base delle loro personalità, vi fosse una scarsa – o una forte – affinità con il loro partner. Primariamente essi hanno ipotizzato che i tratti del BPD sarebbero stati significativamente correlati con l’ipotetica compliance sessuale. Ulteriormente, hanno supposto che la paura dell’abbandono, indotta sperimentalmente, avrebbe interagito con i tratti del disturbo borderline di personalità ed avrebbe predetto la compliance sessuale ipotetica. In particolare, i ricercatori hanno ipotizzato che l’associazione tra i tratti del BPD e la compliance sessuale sarebbe stata più forte per i partecipanti nella condizione di scarsa affinità.

Allo studio hanno preso parte 130 donne, impegnate in una relazione da almeno due mesi.

È stato dimostrato che le donne con tratti BPD più elevati possono essere portate ad impegnarsi in atti sessuali indesiderati, in particolar modo quando percepiscono una minaccia o un potenziale abbandono da parte del loro partner. Questi risultati possono indicare che le persone con tratti BPD più elevati sono più propense a conformarsi alla coercizione sessuale, probabilmente per evitare conseguenze negative come la dissoluzione della relazione. Questo risultato giustifica i “frenetici tentativi di evitare l’abbandono” spesso messi in atto da coloro i quali presentano alti tratti di disturbo borderline di personalità (APA, 2013). Va da sé, però, che essere sessualmente accondiscendenti per evitare conseguenze negative, tende a provocare molteplici ripercussioni. A conferma di ciò, Muise, Impett e Desmarais (2013) hanno scoperto che mettere in atto comportamenti sessuali al fine di evitare conseguenze negative, prevedeva una diminuzione della qualità delle relazioni e del desiderio sessuale.

È importante ricordare che lo studio è stato effettuato su un campione non clinico. Le persone con una diagnosi certa di disturbo borderline di personalità avranno dunque una maggior probabilità di percepire una minaccia relazionale e, di conseguenza, potrebbero essere maggiormente a rischio di essere vittime di coercizione sessuale da parte del loro partner. Il trattamento d’elezione per il BPD è la terapia dialettica del comportamento (Dialectical Behavioral Therapy – DBT), che tratta la disregolazione emotiva e i comportamenti correlati ad essa (Kliem, Kröger, & Kosfelder, 2010). In una versione della DBT indirizzata agli autori di violenza domestica, Fruzzetti e Levensky (2000) hanno indicato la necessità di prendere in esame il comportamento sessuale problematico.

Alla luce dei risultati del presente studio, affrontare i comportamenti sessuali problematici dovrebbe essere parte integrante della DBT, al fine di prevenire l’aumento dei tassi di vittimizzazione sessuale che le donne con diagnosi di BPD spesso sperimentano (Young & Furman, 2008).

Al contempo, secondo gli autori, il trattamento dovrebbe anche mirare a far sì che questi soggetti siano in grado di gestire in maniera funzionale la possibilità di un potenziale abbandono, affinché essi non siano portati ad impegnarsi in attività sessuali indesiderate. Inoltre, i risultati potrebbero determinare la necessità di coinvolgere all’interno della terapia anche i partner. Aumentando la consapevolezza di questi ultimi rispetto ai comportamenti sessuali che potrebbero essere messi in atto di fronte alla percezione di una minaccia relazionale, si potrebbe far sì che i partner delle donne con disturbo borderline di personalità mostrino una maggiore sensibilità rispetto a questa propensione, evitando di convincerle ad impegnarsi in attività sessuali indesiderate.

 

Beck e la manualizzazione della terapia cognitiva – 100 anni di Aaron T. Beck – Parte 3

Il racconto di come lo psicoanalista Beck creò il suo manuale insegnando la psicoterapia cognitiva a un gruppo di studenti

 

Nel 1973 alla Penn State University di Philadelphia uno specializzando in psichiatria del secondo anno di nome John Rush seguì il corso di Beck dove si insegnava quella cognitive therapy descritta -lo abbiamo già scritto- in una rivista che si chiamava “Behaviour Therapy”. Rush faceva parte di quel gruppo di giovani psichiatri a cui abbiamo accennato, giovani psichiatri interessati al comportamentismo e che si radunarono intorno a Beck. Rush si innamorò della terapia cognitiva ed era convinto che fosse più efficace della psicoanalisi, dei farmaci o dell’esposizione comportamentale. Lui e un collega specializzando, Manoocheer Khatami, avevano recentemente aperto uno sportello clinico a basso costo per la depressione nel campus della Penn State University e chiesero a Beck di supervisionarli in terapia cognitiva.

La cosa strana era che, in base alle testimonianze, il termine “terapia cognitiva” c’era e non c’era. Eppure, si era già negli anni ’70 e Beck era lì a fare quella sua terapia che in alcune pubblicazioni era stata chiamata terapia cognitiva ma che, a dire di Beck, ora era un tipo di psicoanalisi ora di comportamentismo, descritta in alcune pubblicazioni, ora su giornali psicoanalitici e ora su giornali comportamentali. Forse certe contrapposizioni erano meno accentuate di adesso, fatto sta che questa psicoanalisi di Beck senza lettino e con compiti a casa comportamentali attirò questi giovani specializzandi che sembravano non avere intenzione, a differenza di Beck, di intraprendere un’analisi personale per diventare terapeuti. Questi giovani possono ricordare i primi cristiani non ebrei: frequentavano un gruppo di ebrei/cristiani, che erano circoncisi e che obbedivano a tutti i precetti ebraici ma che avevano deciso di non obbligare i non ebrei a fare lo stesso. Allo stesso modo Beck, come San Paolo, continuò a sentirsi cognitivista/psicoanalista ma non obbligò i suoi accoliti a fare un’analisi personale, permettendo loro di essere solo cognitivisti.

Beck insegnò il mestiere a questi allievi e in cambiò ricevette la patente di efficacia per il suo modello. Da chi? Fu merito del giovane John Rush, che aveva appreso la metodologia dei trial randomizzati per le sperimentazioni sui farmaci da un altro professore della Penn, un altro psichiatra sudafricano di nome Joe Mendels, ed ebbe l’idea geniale di applicare la stessa metodologia alla psicoterapia. Rush sapeva come misurare il livello di gravità psicopatologica tramite le interviste strutturate e come distribuire casualmente i pazienti, mandandoli in psicoterapia cognitiva o farmacoterapia anti-depressiva. Il problema che rimaneva era: come rendere la terapia cognitiva di Beck qualcosa che poteva essere somministrata in maniera affidabile e controllabile come se fosse un farmaco, ovvero in una forma ragionevolmente simile in tutti i pazienti che dovevano riceverla? Insomma, Rush aveva bisogno di standardizzare questa terapia cognitiva di Beck ed escogitò un piano: occorre descrivere ancora più dettagliatamente quello che Beck sta insegnando a loro e trascrivere tutto in istruzioni operative e chiare. Questo era il contesto in cui emerse il manuale di Beck.

Una serie di brain storming e discussioni cliniche tra Beck e i suoi specializzandi portò alla stesura di un primo schema che fu ultimato il 12 ottobre 1973, una bozza di protocollo per la terapia cognitivo comportamentale della depressione di quattro pagine con definizioni operative delle tecniche di accertamento e ristrutturazione dei pensieri depressivi distorti (Rosner, 2018). Poche settimane dopo Beck, sempre grazie alla capacità di scrittura operativa di Rush, generò una versione ampliata e poi la applicò alla supervisione di un caso singolo trattato e pubblicato da Rush e Khatami (Rush et al., 1975).

Questa versione ampliata divenne il manuale, che si rivelò un potente veicolo per pubblicizzare la terapia cognitiva e che in breve tempo diventò il primo esempio di terapia replicabile e al tempo stesso clinicamente applicabile, a suo agio sia nei laboratori delle università che nelle stanze dei clinici. Al di là delle teorie, il manuale insegnava ai comportamentisti come concettualizzare e trattare i pensieri depressivi, facendoli uscire dai limiti dell’esposizione comportamentale. E, al di là della ricerca, il manuale diventò presto un oggetto di desiderio, tanto che molti erano incuriositi non solo dai risultati della ricerca, ma forse ancor di più dalla nota a piè di pagina che accennava al manuale nel famoso l’articolo che annunciava i risultati del loro modello (Rush, Beck, Kovacs e Hollon, 1977). David M. Clark, uno psicologo appartenente a gruppo di ricerca sulla terapia comportamentale di Oxford, adocchiò quella nota in margine e riuscì a procurarsi una copia del manuale perché Beck aveva fatto sapere che era possibile farsene mandare una copia ciclostilata in cambio di un assegno semplicemente scrivendogli, mossa che, ricorda Clark, “era geniale da parte di Tim (Beck)”. Clark mise insieme un gruppo di persone e pagarono un vaglia internazionale, cosa difficile da fare a quei tempi, e ne ordinò dieci copie. Di colpo, Clark e i suoi amici, tra i quali c’era Paul Salkovskis, acquistarono prestigio e popolarità nel dipartimento universitario perché avevano il manuale di Beck. Lo ricevettero, lo diffusero e iniziarono a usarlo, con risultati concreti e immediati.

 

Come la struttura di una canzone determina le emozioni e il ruolo delle aspettative

Canzoni ed emozioni: stiamo per iniziare ad ascoltare una canzone, immaginiamo sia una canzone presa a caso, che non conosciamo. Partono le prime note e nel nostro cervello si attiva l’amigdala, la sentinella delle nostre emozioni, che con il sistema limbico produce una reazione allo stimolo uditivo che ci ha raggiunti.

 

A questo punto il nostro cervello cataloga la musica che ascoltiamo in base a due elementi principali: il ritmo e le note. Questi elementi sono in grado di determinare il tipo di emozione che ci verrà trasmessa.

Canzoni ed emozioni: il ruolo del ritmo

Il ritmo determina la velocità della musica, viene misurato in battiti al minuto esattamente come le pulsazioni del nostro cuore. Considerando che le nostre pulsazioni, in condizioni normali, possono variare tra 60 e 80 battiti al minuto (generalmente siamo tra i 70-72), ne consegue che un tempo con un ritmo inferiore ai 60 battiti avrà un effetto rilassante, sopra gli 80 battiti sarà invece attivante.

Agli estremi potremmo trovare un effetto “rattristante” per ritmi inferiori ai 30 battiti al minuto, mentre oltre i 110 avremo un ritmo veloce che coinvolgerà anche il movimento del corpo (come ad esempio può accadere con la musica dance). Un tempo veloce varia considerevolmente la dimensione dell’arousal, ossia la risposta del sistema nervoso ad uno stimolo, che dà luogo ad eccitazione e ad un acuirsi del sistema attentivo-cognitivo.

Canzoni ed emozioni: il ruolo delle note

Per quanto riguarda il ruolo svolto dalle note, senza addentrarci in un’analisi dell’effetto emotivo prodotto, che ai non addetti ai lavori risulterebbe complicata, possiamo limitarci a considerare come alcune note suonate insieme (accordi) o una dopo l’altra (melodia) vengono percepite come allegre o tristi in relazione a motivazioni che sono in parte culturali e in parte innate.

Semplificando, si può dire che le note risultano più gradevoli quanto più semplice è il rapporto fra la loro frequenza e questo dipenderebbe dal fatto che i suoni che originariamente erano ritenuti forieri di un pericolo incombente (pensiamo ai tuoni, alle frane, ai terremoti, alle esplosioni) presentavano frequenze casuali, complesse e disordinate.

Il nostro sistema nervoso si allerterebbe quindi nell’ascolto di questi suoni generando una sensazione sgradevole che ci mette in guardia contro un possibile pericolo.

Al contrario, i suoni più semplici non attiverebbero campanelli d’allarme e verrebbero quindi percepiti come più gradevoli.

Canzoni ed emozioni: cosa determina la nascita di un’emozione

All’interno di uno stesso brano il variare dell’intensità può mutare la nostra percezione e il livello della nostra emozione magari risultando inizialmente calmo, poi gioioso e infine malinconico. In questo contesto possiamo associare anche l’uso di accordi “in minore” o “in maggiore” che spesso compaiono all’interno di una stessa canzone con il preciso intento di cambiarne il pathos emotivo.

Dobbiamo dire che se le emozioni trasmesse dalla musica sono trasversali ai vari contesti culturali, pur con certe differenze individuali è possibile individuare una grammatica universale delle emozioni in musica.

Oltre a fattori intrinseci alla musica stessa, e oltre al nostro bagaglio culturale e di esperienze personali, le emozioni che la musica suscita possono dipendere anche da fattori esterni quali:

  • il condizionamento: è il più comune e deriva dal fatto che una musica possa essere associata ripetutamente ad eventi positivi o negativi;
  • il contagio emotivo è quel passaggio attraverso il quale l’ascoltatore percepisce le emozioni che l’esecutore vuole trasmettere e le mima internamente attraverso i “neuroni specchio”;
  • l’immaginazione visiva che riesce a far nascere emozioni facendo affiorare alla mente particolari immagini evocate dalla musica;
  • la memoria episodica entra in gioco quando l’ascolto di un brano fa riaffiorare un ricordo che colleghiamo ad una certa emozione, evocando un ricordo vengono automaticamente rievocate anche le emozioni ad esso collegate;
  • l’aspettativa è collegata all’emozione indotta dalla struttura del brano nel momento in cui questa smentisce, ritarda o conferma quello che durante l’ascolto ci si aspetta possa essere il modo in cui il brano proseguirà.

Aspettativa e “manipolazione”

Torniamo a parlare di aspettative. La canzone si sviluppa su un piano temporale: nell’istante in cui ascoltiamo non sappiamo cosa accadrà un attimo dopo e questo genera attesa.

L’attesa è fortemente legata all’emozione ed è frutto di un’elaborazione non cosciente; se così non fosse sarebbe difficile spiegare perché continuiamo a provare emozione anche nell’ascolto ripetuto di uno stesso brano. Un’elaborazione non cosciente del pezzo, al contrario, procede ad ogni ascolto a ricalcolare le attese in modo che la loro conferma o meno dia luogo all’aspetto emotivo del brano.

Mentre ascoltiamo si genera in noi un gioco di aspettative su come la canzone andrà sviluppandosi e il modo in cui procederà ci svelerà se la sua struttura avrà confermato le aspettative che ci eravamo creati oppure se ci avrà riservato delle novità che non avevamo previsto.

L’aspettativa dà luogo ad una tensione muscolare soggettiva che si risolve nel momento in cui il brano si svela trasmettendoci lo stimolo atteso. Questo ha l’effetto di ridurre sia l’attenzione che la tensione dell’ascoltatore. Se l’attesa viene rispettata, si verificherà un’emozione positiva, in caso contrario si potrà provare un senso di frustrazione o di sorpresa, o una combinazione delle due condizioni.

L’eccitazione provocata da ogni forma d’arte risiede proprio in questo, l’alternarsi di un’aspettativa e di una soluzione. Spesso chi compone canzoni gioca proprio su questo fattore, creando abilmente delle aspettative che poi, magari, decide di disilludere con un brusco cambio di direzione.

Meglio una conferma o l’effetto sorpresa?

In generale risulta più frequente che la musica pop tenda a darci risposte che ci aspettiamo e che confermano le nostre aspettative mentre altre forme musicali, come per esempio il jazz, usano più frequentemente soluzioni che possono risultare spiazzanti e magari per questo più affascinanti ad un orecchio musicalmente “più colto”.

Generalmente le canzoni che preferiamo nel loro andamento sonoro sono una via di mezzo tra la conferma delle nostre aspettative e l’effetto sorpresa. Sono quindi canzoni definite di “media complessità”, con un’incertezza moderata, dove ad uno svolgimento prevedibile si alternano sorprese.

Ma dobbiamo tenere conto anche di alcune sfumature che possono avere un certo ruolo: anche il livello di certezza o meno che raggiungiamo attraverso l’ascolto ha un suo peso. Pare infatti che se ci sentiremo quasi assolutamente sicuri di quale sarà la nota o l’accordo che seguirà, un’eventuale sorpresa ci provocherà piacere; al contrario, se ci sentiremo incerti su come il brano si svilupperà, proveremo più piacere nel non essere sorpresi da quel che accadrà successivamente.

La manipolazione delle aspettative

Non va dimenticato poi che la musica viene prodotta con uno scopo. Chi la compone vuole trasmetterci qualcosa, quindi la sua struttura, il contesto, le parole che la accompagnano mirano anche a manipolare le nostre aspettative contribuendo a dar vita ad una specifica emozione.

Tale “manipolazione” può essere definita positiva quanto più il pubblico ricettore ha propri strumenti per decidere se essere “manipolato”. In questo caso la capacità di manipolazione può diventare un dono, nel suo senso buono. Il rischio è che l’ascolto dei messaggi che arrivano attraverso le canzoni possa diventare una scappatoia per trovare soluzioni facili senza troppa fatica e senza spirito critico.

La capacità della musica di modellare e dirigere le coscienze implica una grande responsabilità civile ed educativa per chi fa musica. Un esempio? È stato rilevato che un ascolto protratto di una canzone, intorno alle cento volte, fa assumere come proprio il pensiero che questa esprime, con tutto quello che questo può comportare.

 

Realtà distorte: confabulazioni e deliri a confronto

“Il vantaggio della cattiva memoria è che si gode parecchie volte delle stesse cose per la prima volta”, scriveva Nietzsche. Ebbene, l’argomento che verrà trattato andrà ad approfondire ciò che viene definita come falsa memoria e ciò che si intende per falsa credenza: rispettivamente confabulazioni e deliri. 

Erika Virgili – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Ma cosa sono esattamente le confabulazioni?

Tale termine fa riferimento in generale a falsi ricordi o a ricordi errati, contestualizzati nell’ambito delle malattie mentali. Le memorie riportate dall’ individuo possono quindi essere costituite da falsi ricordi oppure da ricordi reali confusi però nel contesto temporale e che dunque vengono recuperati in modo inappropriato. Ciò che distingue le confabulazioni dalle menzogne risiede nel fatto che, nel primo caso, il paziente non ha alcuna intenzione di ingannare, anzi al contrario non è assolutamente consapevole della falsità delle proprie affermazioni. Si potrebbero definire come “bugie oneste”, considerando il danneggiamento delle strutture neuronali coinvolte nella memoria che provocano distorsioni prominenti della stessa, fino a sfociare appunto nella confabulazione. Hirstein (2005) ha individuato sette criteri da valutare attentamente al fine di comprendere se ci troviamo di fronte ad un caso di confabulazione o meno:

  1. Il paziente inganna intenzionalmente?
  2. Il paziente ha qualche motivo in particolare per rispondere in quel determinato modo?
  3. Sono presenti deficit della memoria?
  4. La confabulazione viene usata in risposta a richieste specifiche?
  5. L’utilizzo della confabulazione serve a colmare una lacuna cognitiva?
  6. Si presentano necessariamente in forma linguistica?
  7. Sono conseguenze dei deliri?

Un’ulteriore definizione ci viene fornita da Gilboa e Moscovitch (2002) i quali hanno indicato i quattro principi che descrivono le confabulazioni:

  1. Si tratta di falsi ricordi che spesso contengono dettagli non veritieri. In alcune confabulazioni possono essere inclusi anche ricordi realistici, contestualizzati però erroneamente da un punto di vista temporale. Tuttavia sono maggiormente diffusi i primi.
  2. Il paziente non è consapevole delle proprie confabulazioni e spesso non è cosciente nemmeno di avere deficit di memoria. Proprio per questo vengono definite confabulazioni solo le produzioni non intenzionali.
  3. I pazienti possono agire e comportarsi sulla base delle proprie confabulazioni.
  4. Le confabulazioni appaiono molto più evidenti soprattutto nel momento in cui viene chiesto ai pazienti di esporre episodi autobiografici, anche se in alcuni casi le confabulazioni non risultano essere collegate alla storia di vita dei pazienti. È possibile riscontrare confabulazioni anche in compiti di memoria semantica in determinate condizioni valutative.

Korsakoff parla delle confabulazioni come di un disturbo che porta i pazienti a commettere errori nelle dichiarazioni verbali, nella convinzione di essere stati precisi e assolutamente corretti. Inoltre sono state classificate prendendo in esame diversi criteri: i contenuti (valutati in termini di vero/falso, bizzarro/fantastico, plausibile/impossibile), le modalità di insorgenza (provocate o spontanee), i domini entro cui possono manifestarsi (memoria auto-biografica, memoria episodica, memoria semantica personale e semantica generale) e i vari quadri clinici in cui potrebbero manifestarsi. La classificazione maggiormente accettata al giorno di oggi è esattamente quella di Kopelman (1987), il quale ritiene che il criterio più valido secondo il quale classificare le confabulazioni sia quello che tiene conto delle diverse modalità di insorgenza delle stesse.

Sulla base di ciò, distingue due diverse tipologie di confabulazioni: le spontanee e le provocate. Le prime sono più rare e sono correlate ad una disfunzione frontale, mentre le seconde sono più frequenti in pazienti amnesici e non si esclude che potrebbero rappresentare una normale risposta ad una deficit della memoria.

Relazione tra deliri e confabulazioni

Le differenze

Deliri e confabulazioni coinvolgono le distorsioni della rappresentazione della realtà, in merito sia al passato che al presente della persona e sulla base delle similitudini e delle differenze, si analizzeranno le relazioni tra queste due sintomatologie.

Infatti, può accadere che gli individui con malattie psichiatriche o neurologiche a volte pensino e dicano cose incredibili: potrebbero credere di essere morte, di riuscire a vedere anche se sono cieche o di ricordare cose che in realtà non sono mai accadute. Alcuni autori utilizzano il termine confabulazione per riferirsi a false affermazioni, altri invece pongono l’attenzione sulle condizioni patologiche che i pazienti che presentano confabulazioni riportano, altri ancora prendono in considerazione le somiglianze tra il delirio e la confabulazione e si propongono di esplorarne i punti di intersezione. Tra questi Kopelman  (2009) si è occupato di definire le diverse forme di falsa memoria e delirio che si possono osservare in concomitanza di malattie neurologiche o psichiatriche.

Per quanto riguarda le false memorie, come già riportato, egli distingue tra confabulazioni spontanee e provocate, occupandosi inoltre delle modalità di recupero dei ricordi. Rispetto al delirio invece, va ad identificarne diversi aspetti esplicativi: la variabilità dei contesti in cui possono verificarsi, i contenuti più frequenti e la fenomenologia associata ai diversi deliri. Prendendo in esame infatti il fenomeno delle false memorie in contesti sia psichiatrici che neurologici si possono trarre dati particolarmente salienti. Le confabulazioni spontanee coinvolgono dichiarazioni non provocate di ricordi errati, mentre le dichiarazioni deliranti sono concepite come ricordi effettivi da cui si scaturiscono interpretazioni deliranti o ricordi errati. Questi ultimi si verificano soprattutto nel contesto della malattia psicotica, come ad esempio nella schizofrenia e quindi, secondo quest’ ottica, le confabulazioni e i deliri dovrebbero essere considerati come concettualmente distinti.

Gilboa (2009) si concentra sul ruolo della memoria in relazione alle confabulazioni, andando ad evidenziare la centralità del deterioramento del recupero strategico. Egli concepisce come alla base della confabulazione differenti tipi di memoria relative al mal funzionamento delle capacità di automonitoraggio che porterebbero quindi a far in modo che il paziente avverta una rapida ed intuitiva sensazione di correttezza dei propri ricordi, attivando un processo di controllo che media l’avvio di azioni basate sulle memorie recuperate. Gilboa (2009) presuppone inoltre una sovrapposizione tra confabulazione e delirio soprattutto per quanto riguarda le influenze generiche di schemi memorizzati e di pregiudizi emotivi, suggerendo dunque che tali elementi risulterebbero essere fondamentali e basilari sia nelle confabulazioni, sia nei deliri.

Fotopoulou (2010) adotta invece un’unica prospettiva per abbattere la polarizzazione tradizionale e accademica tra gli approcci neurocognitivi e gli approcci psicodinamici all’ argomento in questione. Promuove, dunque, una neuropsicologia affettiva delle confabulazioni e dei deliri, andando così a sottolineare l’importanza delle influenze emozionali in entrambe le sintomatologie. Seppur riconoscendo l’importanza del ruolo degli eventi significativi della vita, egli suggerisce che l’esasperazione patologica dei pregiudizi emozionali potrebbero essere la conseguenza diretta dei disturbi neuronali, ed infatti, esattamente come Kopelman, dubita sull’ adeguatezza di un unico quadro esplicativo che possa cogliere le varie modalità tramite cui i fattori emotivi vanno ad imprimersi sia sulle false credenze che sulle false memorie.

Anche altri autori hanno prestato attenzione al ruolo del pregiudizio emotivo per quanto riguarda le false affermazioni, sia nel caso delle confabulazioni che dei deliri, ricavando da esso un grande riscontro. Interessante è stato il contributo di Langdon (2009), il quale ha sottolineato come alcuni autori usassero il termine confabulazione in riferimento a dichiarazioni in un quadro non patologico ed elaborate senza intenzionalità. Perciò il suo studio si è concentrato su tre segnali cardine: l’incomprensibilità, l’incorreggibilità e le convinzioni soggettive ingiustificate. Dopo aver ammesso comunque l’ esistenza di confabulazioni correggibili, egli ha avanzato anche l’esistenza di confabulazioni spontanee incorreggibili. Le confabulazioni spontanee, semplicemente, ricevono direttamente a livello della coscienza l’esperienza della memoria. La coscienza non farebbe altro che prendere come vere tali esperienze. Rispetto al delirio invece viene elaborata l’ipotesi che l’abitudine di alcuni soggetti di fermarsi a pensare e ripensare ad esperienze inquietanti, potrebbe facilitare gradualmente la produzione di credenze deliranti.

Le somiglianze

Gli autori si distinguono, dunque, in coloro che ritengono che deliri e confabulazioni siano due fenomeni totalmente distinti e coloro che ritengono invece che siano assolutamente sovrapponibili. In effetti, nonostante le differenze inevitabilmente presenti, sono state evidenziate anche caratteristiche comuni. A tal proposito un aspetto da prendere in considerazione riguarda il ruolo delle esperienze aberranti. Coltheart e colleghi (2007) esaminano quei casi in cui l’esperienza fornisce direttamente alla coscienza il contenuto del delirio. Infatti alcune tipologie di delirio si basano su una vaga e inquietante esperienza aberrante su cui i soggetti innescano ricerche di spiegazioni. Questi approcci che mettono al centro dell’ attenzione il ruolo dell’ esperienza acquistano ulteriore importanza nel momento in cui si vanno a prendere in esame le similitudini e le differenze tra i deliri e le confabulazioni, oltre che tra le diverse tipologie di delirio e di falsa memoria. Il tema riguardante il ruolo dell’esperienza aberrante appare strettamente correlato ad un’altra tematica che prende in considerazione il ruolo dei processi consci e incosci nella produzione di confabulazioni e deliri. Proprio su questo si concentra lo studio di Fotopoulou (2010), includendo in particolare i processi motivazionali ed emozionali. Viene messo in evidenza come i fattori emotivi, come tutti gli altri fattori cognitivi, siano potenzialmente rilevanti sia nelle confabulazioni che nei deliri.

Un’ altra tematica rilevante fa riferimento alla percezione di correttezza o scorrettezza dei ricordi che i pazienti riportano. Infatti sembrerebbe che sia nel caso di confabulazioni che nel caso di deliri non c’ è alcuna relazione tra la produzione di false memorie o false credenze e la percezione del dubbio su di esse, in quanto, come già anticipato, gli individui ritengono in entrambi i casi assolutamente reali le loro produzioni. Gli autori si sono però chiesti se le percezioni di correttezza o scorrettezza possano essere considerati anch’esse tratti patologici. Tuttavia, anche se le confabulazioni e i deliri sono solitamente classificati come patologici, sappiamo che tali fenomeni possono verificarsi anche in persone sane. Sarebbe interessante quindi comprendere se è possibile o meno tracciare una linea di demarcazione tra ciò che puo’ essere considerato patologico e ciò che non lo è.

Ma quali sono le conseguenze a livello comportamentale del delirio e della confabulazione? Gilboa incorpora esplicitamente nel suo modello tutti quei processi di controllo che sono finalizzati a mediare l’azione. In realtà le persone tendono sempre ad agire in base alle proprie credenze, ma ovviamente le varietà di comportamento e la misura in cui determinati soggetti agiscono in base ad esse non può che essere correlato alla patologicità del quadro clinico. I casi di confabulazione e delirio potrebbero infatti essere spiegati da patologie concomitanti, come ad esempio l’anedonia o l’ anosodiaforia.

Come abbiamo potuto notare, alcuni autori si sono soffermati sulle diversità e altri sulle somiglianze tra confabulazioni e deliri, provando a tracciarne, attraverso gli studi, caratteristiche principali, modalità di insorgenza e di produzione, pur tenendo presente che le false credenze inevitabilmente non possono che diventare poi falsi ricordi.

 

Mancato passaggio all’età adulta (2021) di Haim Omer, Dan Dulberger – Recensione del libro

Mancato passaggio all’età adulta è un manuale contenente consigli e nozioni teoriche-cliniche relative alla condizione familiare speciale nella quale si trovano alcune famiglie con i cosiddetti bambini-adulti.

 

Mancato passaggio all’età adulta e la dipendenza disfunzionale dalla famiglia

  Gli autori tengono a specificare come il fenomeno descritto sia pienamente relazionale e non tanto psicopatologico (anche se è possibile che il bambino-adulto possieda una diagnosi psichiatrica di diverso genere, come l’OCD o una qualche forma di ansia). Infatti, caratteristica determinante è la persistenza nella famiglia di una dipendenza disfunzionale, che porta i genitori ad essere i servi del proprio figlio, ormai adulto. Una caratteristica ricorrente dei bambini-adulti, sottolineata nel libro, è il loro essere NEET (ossia Not in Education, Employment or Training), il che li porta ad essere dipendenti dai genitori quotidianamente (ad esempio per la pulizia della camera, degli abiti, preparazione dei pasti, spesa), ma anche e soprattutto finanziariamente.

Tale dipendenza li può portare anche ad assumere comportamenti minacciosi o aggressivi nel momento in cui percepiscono allontanamenti dei genitori stessi o tentativi di ribellione alla condizione di oppressione nella quale sono stati confinati dai loro stessi figli. Tra le minaccie particolarmente rilevante, ed efficace, è quella di suicido (realizzabile implicitamente, “se non fai questo, non hai idea di cosa potrei fare!” o esplicitamente “non ce la faccio più a vivere così!” oppure con un vero e proprio tentativo di suicidio): infatti, è proprio questa a bloccare i genitori a procedere con la terapia (soprattutto nella fase di annuncio, nella quale viene detto onestamente e chiaramente al figlio come le cose cambieranno, al fine di mettere fine al loro adattamento alla dipendenza del figlio).

La dipendenza disfunzionale risulta così essere caratterizzata dalla presenza di diversi stati emotivi quali: l’impotenza, colpa, paura, minaccia, biasimo e pietà. Complessivamente potremmo considerare come alla base della relazione disfunzionale vi sia una forte condivisione, sia da parte dei genitori che del figlio, dell’idea dell’incapacità del giovane. Questi è portato a ricercare costantemente, anche in modo tirannico e aggressivo, l’aiuto dei genitori in faccende che dovrebbe essere in grado di risolvere autonomamente; dall’altro lato i genitori tendono ad adattarsi alle richieste del figlio (soprattutto vivendo nella convinzione che sia un dovere dei genitori soddisfare le richieste dei propri figli e garantire loro una vita più facile). Il manuale propone una via terapeutica che si è rivelata molto efficace: la NVR, adatta per aiutare i genitori a ridurre l’adattamento e rompere il legame disfunzionale al fine di lasciar spazio ad una dipendenza funzionale. La NVR terapeutica non è altro che una rivisitazione della NVR sociopolitica (applicata ad esempio da Gandhi e M.L. King), consistente nel rimarcare pacificamente la presenza degli oppressi (genitori), in modo da provocare una risposta positiva dal lato degli oppressori (il figlio). L’atteggiamento pacifico è particolarmente necessario al fine di evitare un escalation (simmetrica o complementare), ossia una risposta aggressiva e negativa da parte del bambino-adulto che possa peggiorare la relazione familiare.

Mancato passaggio all’età adulta: la struttura del manuale

Il manuale è organizzato in sette capitoli, ciascuno trattante diversi temi rilevanti:

  1. il primo capitolo introduttivo definisce la condizione familiare, descrivendo soprattutto la differenza tra una dipendenza disfunzionale ed una funzionale (obiettivo ultimo della terapia).
  2. Il secondo capitolo descrive la NVR terapeutica in linea generale: viene introdotta la necessità di lavorare unicamente con i genitori (questione meglio approfondita nel capitolo successivo), le difficoltà che potrebbero insorgere (come l’impossibilità di procedere all’azione da parte dei genitori) e spiegata la nozione di responsabilità totale (ossia la tendenza da parte dei genitori di credere di possedere controllo totale sulle azioni del figlio).
  3. Il terzo capitolo descrive più dettagliatamente i clienti e il trattamento nelle sue fasi principali. Precisamente le fasi della NVR sono: la fase iniziale (nella quale vengono poste le basi per il processo di de-adattamento, quindi viene creata l’alleanza terapeutica, viene elaborata una tabella di marcia, grazie alla quale i genitori possono immediatamente osservare i vantaggi del processo terapeutico, viene rimarcata l’importanza di una rete di sostegno che permette alla famiglia di uscire dalla condizione di segretezza e isolamento nella quale si trovano); fase dell’annuncio (ossia i genitori vengono invitati a mettere per iscritto tutte le modifiche che hanno intenzione di apportare al rapporto familiare, il tutto mantentendo la prima persona plurale (in modo che quanto detto non risulti essere un ordine, il che potrebbe suscitare un escalation che è preferibile evitare) e un tono cordiale; fase di sostegno (ossia chiedere ai genitori di identificare alcune persone particolarmente vicine a loro o al figlio che possano intervenire nei momenti in cui le reazioni di ambo le parti potrebbero creare un escalation. Ciascun sostenitore potrà avere un ruolo diverso e potrà partecipare ad alcune sedute di gruppo. Gli autori suggeriscono anche la possibilità di creare un gruppo Whatsapp con i sostenitori e i genitori al fine che tutti possano essere tenuti aggiornati relativamente alle interazioni che avvengono con il bambino-adulto).
    Successivamente a queste fasi ha inizio il processo di de-adattamento che richiede una forte volontà da parte dei genitori di passare all’azione, riducendo i servizi e i diritti alla privacy (che non fanno altro che favorire l’isolamento della famiglia, quindi la dipendenza disfunzionale). L’intervento terapeutico potrà essere interrotto nel momento in cui si inizia ad instaurare una dipendenza funzionale (ad esempio, il figlio non assume più comportamenti aggressivi e minacciosi o non è più NEET).
  4. Il quarto capitolo tratta delle minacce di suicidio, inserendo diversi esempi clinici.
  5. Il quinto capitolo vuole invece identificare alcuni comportamenti tipici che potrebbero essere esitanti in un insuccesso del passaggio all’età adulta (quali l’abuso digitale, il rifiuto scolastico e lavorativo, bambini con comportamenti tirannici (ossia aggressivi e le cui reazioni sono temute dai genitori che finiscono così con l’accomodarsi alle loro richieste) oppure comportamenti finanziari irresponsabili (come fare acquisiti con le carte di credito dei genitori senza prima chiedere il permesso).
  6. Il sesto capitolo tratta della dipendenza disfunzionale in contesti particolari che possono presentarsi nello studio. Inoltre vengono inseriti diversi esempi di come affrontare praticamente le situazioni specifiche (ad esempio come far capire ai genitori che la loro urgenza è compresa, ma è richiesto comunque un percorso richiedente del tempo per poter risolvere la situazione di emergenza nella quale si trovano).
  7. Il settimo capitolo assume invece la prospettiva del bambino-adulto, fin’ora trascurata dato che i clienti principali sono i genitori. Ne viene trattato il vissuto personale (i sentimenti di vergogna, di incompetenza) e eventi passati che potrebbero aver favorito l’emergere della dipendenza disfunzionale (come eventi particolarmente stressanti o problemi relazionali). Nella prima parte del capitolo viene anche sottolineata l’importanza che, nel caso fosse disponibile a seguire un percorso terapeutico, il figlio venga seguito da un terapeuta diverso rispetto i genitori.

Il manuale risulta essere molto scorrevole soprattutto grazie alla continua presenza di esempi clinici che rendono la condizione familiare molto chiara e favoriscono la comprensione dell’approccio terapeutivo, NVR. Gli esempi clinici possono comprendere intere storie di famiglie con dipendenza disfunzionale, sia esempi di annunci o di risposte alle varie obiezioni/comportamenti dei genitori.

Mancato passaggio all’età adulta: gli effetti dei lockdown sulle famiglie degli adulti-bambini

Per concludere, una riflessione emersa dalla lettura del libro è la possibilità di come l’attuale condizione pandemica possa aver influenzato famiglie già in una dipendenza disfunzionale, così come famiglie, che pur non essendolo, siano particolarmente fragili. Nelle fasi della NVR viene sottolineata l’importanza di avere una rete di sostegno e di rompere la condizione di isolamento e segretezza (dettate dalla vergogna), entrambi processi necessariamente interrotti dai diversi LockDown. La particolare situazione deve dunque aver messo in seria difficoltà genitori che avevano appena intrapreso il percorso terapeutico, ponendoli di fronte alla necessità di prendere una posizione ancor più decisa e stabile del non ricadere nei precedenti pattern disfunzionali. Diversi sono gli esempi clinici riportati nel libro in cui, al fine di rompere la dipendenza disfunzionale, viene imposto un cambiamento radicale (come ad esempio l’allontanamento momentaneo del genitore dal quale la dipendenza è maggiore), che è difficile attuare nella situazione sanitaria in cui ci troviamo da inizio 2020. Allo stesso tempo, è chiaro anche il possibile effetto del COVID e le conseguenti chiusure su famiglie con figli particolarmente fragili (nel senso di presentanti alcuni dei comportamenti tipici elencati nel capitolo quinto). La chiusura totale è, innanzitutto, un forte stressor relazionale (riduce i rapporti sociali e può metterne a repentaglio altri che si credevano più stabili, esponendo altamente individui vulnerabili): nel momento in cui sia i genitori che il figlio iniziano a sottovalutare le capacità di coping del secondo, potrebbe emergere una condizione di dipendenza disfunzionale, in cui il figlio (così come i genitori) pensa di non poter sopravvivere senza i servizi dei genitori. Allo stesso tempo, l’attuale situazione può favorire la condizione NEET del figlio: egli potrebbe aver perso ogni motivazione scolastica/lavorativa oppure potrebbe aver trovato difficoltà nella ricerca di un lavoro alla fine degli studi.

Rassegna sul disturbo depressivo persistente: storia, nosologia e implicazioni cliniche

Il disturbo depressivo persistente è un disturbo cronico dell’umore che spesso si rivela più invalidante della depressione maggiore episodica (Schramm et al., 2020).

 

Nel corso delle varie edizioni del Manuale Diagnostico e Statistico dei disturbi mentali (DSM) le svariate manifestazioni depressive croniche hanno assunto diverse denominazioni e concettualizzazioni, sino ad arrivare a quella odierna di ‘disturbo depressivo persistente’ (DSM-5; APA, 2013). La rilevazione del disturbo in ambito psichiatrico può risultare ostica, fino a quando non si intensifica sotto forma di episodio depressivo maggiore sovrapposto. Sebbene i dati circa l’eziologia del disturbo depressivo persistente siano scarsi, prevale, come nella maggior parte della psicopatologia, un’ipotesi eziologica multifattoriale. Nella seguente rassegna verrà discussa l’evoluzione della nosologia del disturbo nel corso del tempo, sino a raggiungere quella attuale all’interno di una prospettiva dimensionale (Schramm et al., 2020).

Disturbo depressivo persistente: nosologia

Nel corso della storia i disturbi dell’umore sono stati tradizionalmente considerati come condizioni episodiche e reversibili (Goodwin & Jamison, 2007); solo a partire dalla fine degli anni ’70 è stato contemplato anche un decorso cronico della depressione (Akiskal, 1983). Il disturbo distimico è stato introdotto nel DSM-III e successivamente nell’ICD-10 come diagnosi per le depressioni unipolari croniche; l’introduzione della distimia nella sezione dei disturbi dell’umore nel DSM-III è stata controversa, poiché molti ritenevano che tale condizione indicasse uno stile di personalità, piuttosto che un disturbo dell’umore (Klein, Riso & Anderson, 1993; Kocsis & Frances, 1987). Pertanto, oggigiorno ci sono autori che continuano a sostenere che il disturbo depressivo persistente, in particolare nella sua forma più lieve, rifletta uno stile di personalità, piuttosto che un disturbo dell’umore (Klein, 2020).

Il DSM-IV ha continuato ad ampliare la copertura delle depressioni persistenti aggiungendo specifiche per gli episodi depressivi maggiori con remissione parziale e gli episodi depressivi maggiori ricorrenti senza recupero completo tra gli episodi (Schramm et al., 2020). Nel DSM-5 la nomenclatura ufficiale per indicare una condizione depressiva cronica diventa ‘disturbo depressivo persistente’, mentre il precedente termine ‘distimia’ rimane soltanto tra parentesi: tale etichetta diagnostica indica la fusione dei precedenti ‘disturbo depressivo maggiore cronico’ e ‘disturbo distimico’ definiti dal DSM-IV (APA, 2013). Gli studi epidemiologici sul disturbo depressivo persistente indicano una prevalenza che oscilla tra l’1 e il 6%: la prevalenza del disturbo è indubbiamente più alta nei contesti clinici, comprendendo un range del 33-50% di pazienti con sintomatologia depressiva (Rubio et al., 2011).

Eziologia e trattamento del disturbo depressivo persistente

Oggigiorno lo stato dell’arte sull’eziologia del disturbo depressivo persistente si colloca ancora a uno stadio preliminare: nessuna causa biologica e fisiopatologia chiara è stata confermata per tale disturbo, per svariate motivazioni. Queste ragioni includono: l’eterogeneità clinica del fenotipo del disturbo, l’alta frequenza di episodi depressivi maggiori concomitanti, l’elevata comorbilità con disturbi d’ansia, disturbi da addiction e di personalità; ridotta numerosità campionaria e scarsi tentativi di replica degli studi (Schramm et al., 2020).

In merito al trattamento, la commistione tra psicoterapia e terapia farmacologica a base di antidepressivi costituisce la modalità d’intervento di prima linea per la sintomatologia depressiva; nonostante ciò, la ricerca ha suggerito che gli interventi psicoterapici e farmacologici tendono ad essere meno efficaci nelle manifestazioni croniche di depressione, rispetto a quadri clinici non cronici (Cuijpers et al., 2010). Potrebbero essere molteplici le ragioni per cui il successo del trattamento sul disturbo depressivo persistente risulta limitato, una di queste riguarda il fatto che circa il 40% dei pazienti con disturbo depressivo persistente viene considerato resistente al trattamento.

I fattori che potrebbero ostacolare il trattamento come: scarsa motivazione, ridotta compliance e mancata psicoeducazione sul disturbo. Un’altra spiegazione plausibile riguarda una minore dimensione dell’effetto del trattamento rispetto alle manifestazioni non croniche del disturbo (Schramm et al., 2020). Una puntuale diagnosi differenziale tra le varie manifestazioni di sintomatologia depressiva costituisce da sempre una sfida clinica di una certa entità: la cronicità è indubbiamente la variabile discriminante più evidente, che comporta spesso il rischio di sottovalutare i sintomi e la relativa compromissione funzionale; portandoli tardivamente alla dovuta attenzione clinica. Coerentemente alla nuova classificazione dimensionale del DSM-5, la concettualizzazione dimensionale si è dimostrata nettamente superiore rispetto a quella categoriale in termini di affidabilità e potenza statistica (Markon, Chmielewski & Miller, 2011). Sfortunatamente, gli attuali sistemi di classificazione dimensionale si concentrano esclusivamente sulla sintomatologia trasversale e non incorporano aspetti longitudinali, come lo sviluppo e il decorso dei sintomi. Per affrontare tale gap, è stata proposta una classificazione bidimensionale della depressione con assi ortogonali separati per gravità e cronicità. Un tale sistema garantirebbe uguale priorità a entrambi i fattori e l’incrocio delle due dimensioni spiegherebbe la maggior parte delle forme di depressione attualmente riconosciute (Klein, 2008).

In conclusione di tale estratto è possibile affermare che, nonostante si tratti di una delle condizioni più complesse della psicopatologia, con molteplici aspetti ancora da chiarificare, la costante e cospicua ricerca sul tema permette a clinici e ricercatori di avere sempre maggior chiarezza e di trascendere gradualmente le svariate frontiere cliniche che si presentano quotidianamente.

 

Odore di Napalm al mattino, Magnum 44 e Cimmeri spinti dalla vendetta: la mascolinità reazionaria di John Milius

John Milius è un regista e sceneggiatore americano famoso per aver lavorato in film capolavori come Apocalypse Now e su pellicole cult come Conan il Barbaro ed i primi due film con protagonista il poliziotto Harry Callahan.     

 

Dichiaratamente conservatore e con una visione romantica del mondo militare, Milius ha contestualizzato una figura psicologica reazionaria del sesso maschile in netto contrasto con il periodo storico in cui i suoi lavori sono stati realizzati.

Nel periodo attuale, grazie ad azioni come l’attivismo di Black Lives Matter (BBC, 2020) e le reazioni allo scandalo sessuale di Harvey Weinstein (BBC, 2021), la questione della parità interculturale e sessuale nel mondo cinematografico è diventata un argomento sempre presente nei media globali (WSJ, 2019).

Sebbene l’integrazione della diversità e della parità sessuale sia considerata da sempre un obiettivo fondamentale per una società sana ed equilibrata (Tropp, Barlow, 2018; Silva, Klase, 2021), l’inserimento di queste tematiche in maniera forzata e legata ai trend della società viene reputata forzata e non giusta nei confronti delle lotte originali, la cui critica viene spesso denigrata attraverso atti come la cancel culture (Romano, 2020).

Una situazione simile si è verificata verso la fine degli anni ottanta e gli inizi degli anni novanta, dove artisti della settima arte statunitensi apertamente repubblicani hanno indicato il declino della loro carriera a causa del loro essere controcorrente con le idee progressiste tipiche della società moderna (Stanley, 2004).

Fra queste personalità si trova John Milius, sceneggiatore e regista americano noto soprattutto per le sue sceneggiature di film come Apocalypse Now e le sue direzioni di pellicole come Conan il Barbaro.
Milius, attraverso il suo materiale artistico, ha contestualizzato la sua visione reazionaria nei confronti del pensiero politico e culturale dell’epoca, veicolata da narrazioni su personaggi maschili e mascolini visti da un’ottica completamente diversa dal Cinema a lui contemporaneo.

Uno degli aspetti principali di questa sua visione è l’ottica romantica nei confronti del conflitto: di fatto, il regista e sceneggiatore statunitense vede la situazione di guerra come una possibilità di mostrare le proprie risorse e di mettersi in gioco, mostrando quella resilienza mascolina cardinale della cultura militare americana (Mann, 2006).

Un altro elemento caratteristico dei personaggi di Milus è il loro attraversare un rito di passaggio: personaggi come Conan e Benjamin Wallard attraversano varie situazioni di crisi per abbattere la figura di potere della narrazione, attualizzando la loro epifania (Van Gennep, 2019).

Infine, un aspetto fondamentale dei personaggi del regista e sceneggiatore americano è la loro resistenza al potere reazionario: i protagonisti delle sue storie vanno contro il sistema di potere, come la burocrazia della polizia in Dirty Harry, considerandolo troppo restrittivo e/o ingiusto, incarnando l’attitudine di “anarchismo zen” coniata dallo stesso Milius, rendendo i suoi personaggi delle versioni moderne della figura narrativa dell’antieroe (Neimneh, 2013).

Concludendo: nonostante le sue visioni politiche, John Milius nella vita reale è legato da una profonda amicizia con registi e sceneggiatori come Oliver Stone ed i Fratelli Cohen, aventi una visione politica totalmente opposta alla sua. Tipologia di amicizia che pian piano si sta perdendo nella società odierna (Green, 2020).

 

Assenza… più acuta presenza – Diario di viaggio con un gruppo intermedio fuori dai confini nazionali

In questo articolo racconto la frequenza in un gruppo intermedio che si riunisce a Londra cinque fine settimana l’anno. Il gruppo intermedio, che si colloca tra il piccolo gruppo di 7-8 persone e quello grande di oltre 30, pone la sua attenzione principalmente sulla cultura, le interazioni e i miti sociali.

 

Assenza,
più acuta presenza.
Vago pensiero di te
vaghi ricordi
turbano l’ora calma
e il dolce sole.
Dolente il petto
ti porta,
come una pietra
leggera.

(Attilio Bertolucci)

Introduzione

In questo articolo racconto la frequenza in un gruppo intermedio che si riunisce a Londra cinque fine settimana l’anno. Il gruppo intermedio, che si colloca tra il piccolo gruppo di 7-8 persone e quello grande di oltre 30, pone la sua attenzione principalmente sulla cultura, le interazioni e i miti sociali. Il focus è sul qui ed ora e gli aspetti non transferali sono molto più ampi di quelli del piccolo gruppo. Il conduttore non è direttivo, rimane relativamente disimpegnato con l’intento di porre i partecipanti in condizione di sviluppare un processo trasformativo basato sul dialogo (de Maré, 1991). Ho scelto una narrazione diaristica che, a volte, comporta salti temporali e, nonostante varie citazioni e riferimenti bibliografici, non sempre rispetta i criteri di un articolo scientifico. In queste pagine, sostanzialmente ri-narro a me stesso l’esperienza vissuta per poterla assimilare meglio e riflettere sui cambiamenti che ha prodotto nel pensiero, nella professione e nella mia vita e la metto a disposizione del lettore. Esploro alcuni processi gruppali che attraversano le mie incertezze, le mie paure e i miei vissuti nella speranza che tale operazione possa aiutare a capire l’importanza non solo della conoscenza teorica, ma anche della riflessione intima e personale nel momento in cui esercitiamo una professione così delicata come la psicoterapia.

Un po’ di storia personale

La prima volta che salii a bordo di un aereo avevo 13 anni ed accompagnavo mio nonno paterno dai figli che vivevano a Londra. L’aeroporto di Gatwick diventò subito il varco di un nuovo mondo che nei successivi 20 anni avrei attraversato per lavorare. Ad ogni partenza estiva, mi lasciavo alle spalle l’invidia dei miei compagni di scuola, le proteste dei miei fratelli, la tristezza di mia madre e l’approvazione di mio padre che incassava i miei guadagni. A Londra abitavo con mio zio G. che, con tutta la famiglia allargata (un gruppo intermedio di quasi venti persone!), lavorava proficuamente nel settore della ristorazione mobile. Appena maggiorenne, con i risparmi pagai gli studi universitari e comprai un appartamento a Roma mantenendo un fortissimo legame con la mia famiglia “inglese” e la città di Londra che mi ha regalato anche l’ebbrezza del primo amore. Spesso sono ritornato a visitarli e puntualmente sperimentavo la malinconica riapertura della stanza di tanti ricordi e di qualche rimpianto. Dopo la laurea in Psicologia, ho iniziato a lavorare in un centro di salute mentale pubblico e mi sono specializzato senza mai smettere di aggiornarmi. Perciò, mi sono subito incuriosito quando ho saputo che Teresa von Sommaruga Howard stava organizzando a Londra un corso di formazione denominato Creating Large Group Dialogue in Organisation and Society. Pur interessandomi di gruppi da molti anni, conoscevo poco quelli intermedi ed allargati, nonostante da studente mi fossi ritrovato a fare un’esperienza del genere con Rocco Pisani (2000a) all’università “Sapienza” di Roma. In quel gruppo, nonostante l’entusiasmo iniziale, fui assalito da una forte ansia che ancora ricordo e, dopo il secondo incontro, non vi feci più ritorno. Questa volta però non avrei sciupato l’opportunità che il fato mi offriva!

Creating Large Group Dialogue in Organisation and Society (CLGD)

Leggendo il materiale introduttivo, capivo che CLGD era un corso residenziale di cinque fine settimana l’anno, che si sviluppavano dal venerdì alla domenica pomeriggio in un centro studi vicino Londra. Le singole giornate erano suddivise in sessioni di 60 (Social dreaming) e di 90 minuti (Gruppo intermedio esperienziale, Seminario teorico, Gruppo come consulente). Gli organizzatori scrivevano che l’obiettivo del corso era “⦋…⦌ rendere i laboratori capaci di inspirare e trasformare, abbinando l’apprendimento alla pratica sia con esperienze di gruppo sia con una ricerca-azione dal vivo che parta dal vostro ambiente professionale o di vita. ⦋…⦌ L’intenzione è quella di sostenere lo sviluppo delle vostre abilità e conoscenze affinché possiate promuovere con maggiore sicurezza spazi di dialogo in qualsiasi contesto di vostra scelta.” Contattai la promotrice del corso, mi iscrissi, pianificai la mia agenda e nel giro di qualche settimana ero in viaggio.

Giungevo all’aeroporto di Gatwick in un freddo pomeriggio di gennaio 2019 e con tre colleghe appena conosciute mi recavo in taxi alla sede del corso, il Roffey Park Institute. Ero molto contento e spaventato ma quando Teresa, Göran Ahline e Mike Tait ci accolsero con umanità e disponibilità, capii subito di aver fatto una buona scelta. Il gruppo, oltre ai tre conduttori (convenors), era composto da altri 15 membri provenienti da vari Paesi e le diverse sessioni didattiche permettevano ad ogni allievo di scegliere tempi e modi per condividere le proprie esperienze ed ho potuto apprezzare anche le pause perché arricchite da ottimo cibo consumato in locali ampi, caldi ed accoglienti; le stanze da letto non erano da meno.

Essere nel gruppo intermedio

Durante il primo incontro fui molto colpito dalla componente “di lingua inglese” che si sentiva minoritaria e mortificata per le vicende politiche che stavano portando la Gran Bretagna fuori dall’Europa. Il tema della lingua, delle differenze e del campo/spazio caratterizzeranno molti incontri. All’inizio ero disorientato e mi sentivo in soggezione, ma poi sono stato capace di interagire, di guardarmi dall’esterno e di ragionare insieme agli altri sulle reciproche differenze ed uguaglianze. Non nascondo però che ebbi anche bisogno di preservare i miei spazi individuali.

Le diverse provenienze geografiche, la vasta gamma di culture e la ricchezza delle esperienze dei partecipanti mi hanno entusiasmato e ben presto mi è sembrato che il mio pensiero si arricchisse. Altre volte, poi, ho persino avuto l’impressione di conoscermi meglio osservando la reazione degli altri e l’immagine di me che mi veniva restituita. Secondo de Marè (1978, pag. 143) nel gruppo allargato – forse anche in quello intermedio – si verifica una “[…] mutua conoscenza inter-personale, intersoggettiva di ciascuno in reciprocità [che] sviluppata alla sua piena estensione, può condurre altresì ad un allargamento della coscienza, perché la stessa coscienza è per derivazione processo di conoscenza con gli altri.”

Al termine del primo fine settimana, in procinto di lasciare la sede del corso, non ricordavo il codice di sblocco del cellulare. Ho interpretato questa lieve amnesia come una faticosa transizione ad essere nuovamente quello che ero in altri luoghi. Mi ero fuso con l’esperienza del qui ed ora e una parte di me faceva resistenza a tornare al là ed allora? (Turquet, 1978).  Contemporaneamente, mentre prendevamo l’ultimo caffè, ho chiesto alle colleghe di non farmi prenotare il taxi per l’aeroporto. Teresa sorridendo, ha commentato che forse il gruppo poteva aiutarmi ad essere meno accudente (parental child). Pur apprezzando la sua osservazione, mi sono difeso sostenendo che due psicoterapie personali avevano modificato poco questo aspetto della mia personalità. Göran ha aggiunto: “non preoccuparti, Fiore. Ognuno di noi porta dentro qualcosa di incompiuto.

Nei successivi incontri, la presenza di nuovi membri dello staff turberà l’atmosfera gruppale, ma, con il tempo, saranno chiari gli obiettivi di non formare una “setta” autoreferenziale e di mantenere permeabile la membrana gruppale. Nonostante ciò, non mi è stato sempre facile accettare la presenza di persone nuove, tanto che una notte sognai di uccidere un cane. L’angoscia e la vergogna generate dal sogno ne resero faticosa la condivisione nel social dreaming (SD) che, forse contribuì ad orientare alcuni contenuti di quella matrice. Contenuti che, poi, si trasferirono nel disegno comune su grande foglio che realizzavamo alla fine del SD. La spontanea visualizzazione del cane e del gatto di mio padre che giocavano placò l’angoscia e mi permise di disegnare la faccia sorridente di un gatto. Poco dopo, F. cancellò il sorriso dalla faccia del gatto alla quale successivamente aggiunsi le vibrisse. Mentre mi osservavo in interazione e confrontavo il vissuto di quei momenti con le mie relazioni gruppali a Roma, mi rendevo conto che, talvolta, ricorrevo a fantasie compensatorie per alleviare l’ansia. Pur perdendo qualche scambio linguistico, mi sento interno ai processi gruppali e penso che la difficoltà linguistica sia diventata una risorsa che mi permette di riflettere di più sulle mie reazioni e di ponderarne le modalità.

Sin dall’inizio del corso, mi sono posto i seguenti obiettivi di apprendimento e di cambiamento personale e professionale:

  • Il gruppo intermedio è uno spazio transizionale per uscire dalla Kinship (la famiglia narcisistica) ed entrare nella Kithship (la cittadinanza-società)” (Pisani, 2000a).
  • La funzione dei conduttori ⦋nel gruppo intermedioè quella di mettere gli individui in una posizione di acquisire l’individuazione in un’atmosfera più sviluppata di interazioni sociali” (Pisani, 2000a).
  • Affidarmi, tollerare paure e vicinanza emotiva nel gruppo.
  • Valorizzare dubbi ed attivare una cooperazione nel pieno riconoscimento dell’alterità.

La presenza di nuovi ospiti all’ultimo incontro del primo anno, pur generando malumore legato a pregressi eventi esterni, ha favorito un’interessante riflessione sui concetti di esterno/interno, noi/voi, sulla qualità delle relazioni e sulla porosità dei confini gruppali. A tale proposito, Hinshelwood (1989), parlando di piccolo gruppo, distingue il concetto di “barriera” da quello di “confine”. Il primo indica una chiusura difensiva che compromette la crescita del gruppo, il secondo invece deve essere permeabile e flessibile per consentire ad ogni membro di affermare la propria individualità. S. ha sostenuto che sarebbe meglio conoscere in anticipo i nomi degli ospiti, che i confini di CLGD fossero troppo elastici e alcuni laboratori poco differenziati. Ho pensato che la collega stesse attaccando la leadership, ma non ho avuto il coraggio di verbalizzare il mio pensiero. Teresa ha spiegato con tranquillità che la struttura, ma soprattutto il contenuto degli incontri, potessero variare per accogliere le proposte di tutti.

Questa tematica emergerà altre volte, infatti, ricordo che R. sarà dispiaciuta quando non accetteremo la proposta di invitare suoi colleghi. Nello stesso incontro, S. affermò che spesso si sentisse “costretta” a parlare al posto degli altri ipotizzando che il gruppo trasferisse nella sua mente alcuni dei suoi pensieri. Confessai che, a volte, evitavo di parlare e che mi sentivo sollevato quando lo facevano altri e pensai al ruolo del portavoce.

Pichon-Rivière (1970) definisce il portavoce come colui che, ad un certo punto, enuncia qualcosa che è il segno di un processo gruppale che fino a quel momento era rimasto latente o implicito e che, per il buon funzionamento di un gruppo, necessita di essere decodificato. Nel corso degli incontri, anche Mike ribadirà l’importanza di proporre contributi e R., cogliendo al volo l’invito, ci condurrà in un’esperienza gruppale di contatto corporeo. Successivamente, riuscirò ad illustrare la proposta di scrivere un libro collettivo e R., nonostante, spesso si fosse lamentata di sentirsi esclusa, guiderà una sessione di scrittura creativa.

Teresa e Mike ci hanno informato che CLGD, forse perché concepito fuori da un’istituzione, ha avuto una lunga gestazione ed è stato impegnativo ottenere il patrocinio dell’IGA e della GASI e coinvolgere altri colleghi.

Chiedendomi se esistano situazioni umane tranquille ed aliene da conflitti e sentimenti, ho l’impressione che ogni cosa che facciamo sia, in qualche modo, influenzata da sentimenti ed azioni che circolano dentro e fuori di noi. Le dinamiche dei contesti e gli intrecci relazionali sono molto complessi e con rilevanti sfumature inconsce che possono scatenare reazioni a catena, anche di tipo aggressivo. Necessitano quindi di essere analizzate e condivise proprio come suggerisce il titolo del corso, creando dialogo. A questo proposito, de Marè (1991) afferma che nel gruppo intermedio gli individui imparano a parlare e a gestire le emozioni che emergono. In siffatto modo l’Io si allena a fronteggiare le forze repressive e le emozioni suscitate e gradualmente impara a parlare e a pensare spontaneamente, creando le premesse per l’affermazione della propria individualità.

Alla fine del I anno, ognuno di noi ha condiviso un elaborato finale.

L’inizio del II anno

All’inizio del II anno, la proposta di accettare, senza grandi alternative, la direzione di un Centro Diurno (CD) per pazienti psichiatrici agitava i miei sonni. Se l’avessi accettata, avrei dovuto trasferirmi ed abbandonare l’attività di psicoterapia di gruppo che conduco da anni. Mi sentivo spaventato, afflitto ed anche un po’ confuso perché avrei voluto accettare l’incarico al CD senza rinunciare all’attività di psicoterapia. Non mi spaventava il maggiore carico lavorativo, forse un po’ dubitavo della mia capacità di possedere quelle competenze manageriali necessarie a gestire efficacemente persone, complessità, cambiamenti, demotivazione e stress. Avevo espresso i miei dubbi e formulato un’alternativa alla mia responsabile che però insisteva che dovevo accettare questa “promozione” senza compromessi. Messo in condizioni di non poter scegliere e la paura del cambiamento producevano in me pensieri di espulsione e timori di perdere legami pluriennali. Pensavo persino che il mio direttore volesse espellermi perché le risultavo scomodo e per questo mi tornava in mente ossessivamente la frase latina promoveatur ut amoveatur.

Riconoscendo la mia ambivalenza rispetto alla gestione del potere, chiedevo la consulenza al gruppo che mi faceva notare che non sempre l’ambivalenza è negativa. Il dilemma che stavo vivendo, per quanto doloroso, rappresentava difatti un’opportunità di confronto reale con la complessità, la macchina burocratica e gli intrecci e le dinamiche istituzionali. Scegliendo, sarei passato dal ruolo di spettatore a quello di attore nella gestione del potere, ma continuavo a vedermi solo e schiacciato dalle aspettative dei superiori e dalle richieste dei collaboratori. CLGD mi ha rassicurato, mi sono sentito meno spaventato e più disponibile alla relazione e all’ascolto e mi sono avviato sulla strada del confronto sincero e della mediazione. Una lenta trasformazione del mio stato mentale mi ha condotto qualche mese dopo a raggiungere un accordo con il mio superiore, soddisfacente per entrambi.

Questo gruppo stava diventando il mio posto sicuro.

Pandemia e vita virtuale

Il secondo fine settimana si svolgeva in un clima di incertezza ed attesa perché l’Europa stava per precipitare in una tragica pandemia causata dal virus Covid-19. Alla vigilia della partenza per Londra, dubbi ed ansia crescevano di ora in ora perché non capivo bene quale fosse la portata dell’evento, in giro c’era smarrimento ed ansia che venivano rafforzate anche dalle innumerevoli informazioni e dalle prescrizioni istituzionali che a volte risultavano contraddittorie. Partivo coltivando la fantasia che se al mio arrivo fossi stato messo in quarantena, avrei trascorso due settimane con la mia famiglia. Giunto a destinazione, nonostante l’allerta sanitaria, ebbi l’impressione che il clima fosse caratterizzato da scetticismo e da un pizzico di sarcasmo. In contemporanea, in Italia la situazione sanitaria precipitava di ora in ora tanto che pochi giorni dopo assistevamo inebetiti a quelle immagini strazianti dei camion militari che a Bergamo trasportavano centinaia di bare verso i forni crematori. Dall’aeroporto prendevo un taxi con due colleghe tedesche che mi chiedevano informazioni su quanto stesse accadendo nel mio Paese e si sorprendevano che tenessi la distanza ed evitassi il contatto fisico. Nella sede del corso percepivo una strana calma, anche se erano stati posizionati liquidi igienizzanti e inviti scritti al lavaggio delle mani, le persone non indossavano la mascherina né rispettavano il distanziamento fisico. Durante i laboratori mi sentivo un po’ ridicolo perché coprivo goffamente il viso con una sciarpa ed evitavo sistematicamente la vicinanza fisica; purtroppo non riuscivo a condividere pienamente i miei vissuti.

In quei giorni erano presenti tre persone nuove, due dello staff (D. e I.) ed un’allieva croata che purtroppo non vedremo più. Avevo letto un interessante articolo di I. sulle pratiche riflessive e, nonostante il piacere di conoscerlo e di stare con i miei colleghi, ero molto ansioso. Dormii male e una notte sognai che la casa della mia compianta sorella era inspiegabilmente affumicata e piena di fuliggine che gli sforzi miei e della mia compagna non riuscivano a ripulire. La mattina mi svegliavo angosciato, preoccupato per i miei familiari e temevo di non rivedere più i miei colleghi. Il mio malessere proseguì non solo per tutta la durata del corso ma anche dopo, tanto che in aeroporto fui sopraffatto dalla stanchezza e mi addormentai su una poltrona e quasi persi l’aereo. Nonostante ciò, sentivo il bisogno di raccontare gli sviluppi del mio lavoro. Gli ospiti ci aiutarono a focalizzare l’attenzione su come ci si può sentire quando si entra per una sola volta in un gruppo già formato da tempo. Analizzeremo i nostri vissuti in merito ed esploreremo le “resistenze” nei confronti della proposta dello staff di aggiornare i nostri progetti professionali. Riflettevamo anche sulla scarsa comunicazione tra un incontro e l’altro. Perché non adottare uno strumento tecnologico per rafforzare connessioni e ridurre le distanze? Secondo I. il gruppo aveva ancora bisogno di proteggere il suo spazio reale. Alla fine, incoraggiati dai membri dello staff, adottavamo la piattaforma Slack per creare Canto Hondo che ad oggi continua ad ospitare scambi ed interazioni di ogni tipo. Questo spazio virtuale ci permetterà di conoscerci meglio, di consolidare il nostro legame e di rafforzare l’identità gruppale. Diventava sempre più chiaro il ruolo dei convenors in questo tipo di gruppo. Jarrar (2003, pag. 36), parlando del large group e del suo inconscio, sostiene che il compito dei consulenti sia «[…] quello di creare e sostenere un’atmosfera che faciliti ed incoraggi lo sviluppo sostenibile ed attivo del dialogo tra individui e tra sottogruppi. Ampliare l’area della partecipazione e dell’inclusione delle diverse voci è un obiettivo pregevole ed auspicabile. L’enfasi va posta sull’incontro dialogico che permette ai partecipanti di scoprire sia la propria ed unica soggettività sia quella degli “altri”».

La sessione gruppo come consulente di sabato sera accolse sia la “crisi” di K., come la definì J., sia gli sviluppi del mio dilemma lavorativo ed ero talmente coinvolto nel racconto da non rendermi conto della fine dell’ora. Nella sessione successiva, pur sentendomi a disagio perché stavo sconfinando, ho riproposto il mio racconto. Secondo I., nel mio gruppo di lavoro in Italia ero diventato il capro espiatorio, una persona da espellere perché rappresentava o faceva qualcosa di poco digeribile. Chiedendoci poi che cosa stesse accadendo in quel preciso momento, J. ha affermato che io e K. stavamo investendo il gruppo con troppi problemi personali. Mi sono vergognato per aver trasferito le mie difficoltà da un contenitore ad un altro e sinceramente non so se J. ha dato voce al pensiero del gruppo o di una sua parte. Tutto questo, però, ha aperto la riflessione sulle differenze tra il piccolo gruppo e quello intermedio permettendoci di ribadire che, mentre nel primo l’attenzione è maggiormente focalizzata sul conflitto intrapsichico, nel secondo trova espressione e sottolineatura il contesto socioculturale, o meglio si verifica una maggiore correlazione tra l’intrapsichico e il sociale (Pisani, 2000a). In altre parole, mentre il piccolo gruppo evoca esperienze conosciute per la prima volta all’interno della famiglia e permette ai suoi partecipanti di imparare ad esprimere i sentimenti, quello intermedio richiama esperienze sociali e macro culturali e favorisce lo sviluppo del dialogo tra i partecipanti affinché imparino ad esprimere il pensiero (de Marè, 1991).

A proposito del significato della parola dialogo, Maxweel (2000, pag. 39) confessa: “Inizialmente pensavo che il dialogo fosse semplicemente l’arte di parlare ad un altro; poi mi sono reso conto che la parola dialogo non ha la sua radice in “di”, che significa due, implicando così una conversazione tra due persone […], bensì nell’avverbio greco “dia” che significa “attraverso” o “tra”, come in diametro, attraverso il centro, o in diagonale, da angolo ad angolo.

Secondo Socrate e Platone, il dialogo è un lavoro di gruppo stimolante che insegna la partecipazione attiva, l’ascolto, la tolleranza e il rispetto del pensiero altrui. Non è una competizione per attribuire la ragione a qualcuno, bensì un “venirsi incontro.” Nel cosiddetto dialogo socratico, ogni partecipante ha il suo spazio e le diverse visioni dello stesso problema vengono prese in esame ed accolte con l’apertura mentale di chi è consapevole che la stessa tematica può assumere diverse sfaccettature. Lo spirito del dialogo socratico è quello della ricerca di gruppo che stimola nuove domande in chi vi partecipa ed è una pratica che invita a separare l’opinione o il pensiero da chi lo espone attraverso la sospensione del pregiudizio e del giudizio nei confronti di chi parla. CLGD rappresenta una ghiotta occasione per i partecipanti di immaginare, come sostiene Arendt (2009), che un’altra persona possa aver ragione ed un’imperdibile opportunità per provare a piegare la propria intenzione ed integrarla con quella altrui. Solo il dialogo, cioè quella dialettica di domanda e risposta che alimenta il movimento circolare della comprensione, può condurre all’esperienza di verità (Gadamer, 1960).

La distanza fisica che ho adottato scrupolosamente durante il secondo fine settimana a Londra, si aggiungeva o copriva quel disagio che mi compare ogni volta che si riduce la vicinanza emotiva. È come se coprissi il mio timore di una “contaminazione” emotiva con quella di tipo fisico che, a sua volta, giustifica il distanziamento. Una cosa analoga può accadere anche con l’uso della mascherina, che, proteggendo dal contagio del virus, ci protegge anche dal mostrare i sentimenti attraverso le espressioni del viso.

A un certo punto, nella sessione successiva al SD di domenica, ero perso a rincorrere frammenti di ricordi, sogni ed immagini non ben collegate tra di loro. E solo quando Teresa mi ha detto “Fiore, prova a dare voce ai tuoi pensieri” sono riuscito a ricomporre la mia coscienza, ad ordinare i miei pensieri e a parlarne. Di conseguenza, il gruppo ha generato altri pensieri che, in una circolarità ricorrente, hanno contribuito a cambiare il mio pensiero iniziale.

Purtroppo il Covid-19 ha messo in ginocchio il mondo intero tanto che nella primavera del 2020 l’Italia è stata sottoposta ad un duro “isolamento sanitario” durato 69 giorni che, oltre alle pratiche sanitarie per prevenire il contagio, ha comportato molte rinunce. Sospensione di varie libertà civili, riduzione di molte attività produttive e rimodulazione delle relazioni sociali e delle coordinate spazio-temporali quotidiane. È stato un trauma collettivo e, nonostante il disorientamento e l’angoscia devastante, abbiamo iniziato a trasferire le nostre attività quotidiane sul web. La stessa sorte è toccata a CLGD che, per non restare soli in un momento di incertezza e disperazione, ha deciso di incontrarsi mensilmente. L’assenza del contatto fisico, la sospensione del vivere sociale, la convivenza casalinga forzata, il vuoto e l’angoscia di morte erano insopportabili in quel periodo! La mattina mi spostavo in una città completamente deserta per giungere a lavoro dove, lentamente, ho cominciato ad organizzare il lavoro psicologico in modo virtuale. Ho anche cominciato a curare la pubblicazione di un libro sulla pandemia. La scrittura, le interazioni su Slack e gli incontri virtuali del nostro gruppo sono stati la mia spina dorsale. L’estate ha portato con sé l’illusione di un ritorno alla normalità, ma in autunno la pandemia è ritornata con devastante puntualità, causando in sei mesi più di 3.000.000 di morti in tutto il mondo. Su proposta di Teresa, abbiamo aderito ad un gruppo allargato chiamato Alternative Large Group (ALG) che si riunisce online ogni domenica. Ancora non riesco a garantire una presenza costante, perché, come sostiene Turquet (1978), avverto un forte contrasto interno tra due forze, quella di appartenenza e quella di tirarmi indietro. L’autore (ibidem, pag. 97) sostiene: «Sebbene qualsiasi rapporto può essere conflittuale in questo stesso modo, nel gruppo allargato, il singolo (che interagisce e lotta contemporaneamente) vive la polarità in termini estremi di separazione isolata o alternativamente di una fusione completa con, o perdita nel, gruppo. Il gruppo allargato mette in risalto le difficoltà del singolo di mantenere una distanza psicologica interattiva tra se stesso e l’“altro”, sia questo “altro” un avvenimento, un’esperienza o un membro.» In ALG ho sperimentato ansia e disagio che, in qualche modo, hanno rievocato il ricordo delle assemblee politiche che frequentavo da universitario. Erano gruppi allargati che professavano in modo strumentale l’incontro dialogico e la democrazia, assumendo spesso le caratteristiche di vere e proprie orde all’interno delle quali i sotto gruppi agivano la loro rabbia in azioni di sabotaggio sociale oltre a scontrarsi fisicamente tra di loro e con altri di colore politico opposto. Se il singolo non si allineava al pensiero dominante era emarginato, espulso o persino percosso; ricordo infatti un leader che dichiarava apertamente lo “schiaffone politico” per persuadere i dissidenti.

Dopo più di anno, l’angoscia, i lutti e le restrizioni generate dalla pandemia ancora non sono scomparsi, nonostante la campagna di vaccinazioni anti-Covid-19 sembra portarci verso una ripresa della “vita normale”. Sin dall’inizio della pandemia, nonostante la scarsa esperienza di lavoro online, sono riuscito a fornire ai miei utenti costanti prestazioni psicologiche sostitutive. Da poco mi sono reso conto però che il trasferimento online di quasi tutte le attività metteva a rischio la mia salute e quindi ho cercato di ridimensionare il mio ingaggio. Sento il bisogno di proteggere la mia mente e i miei spazi privati dalle incursioni continue di eventi, seminari e convegni virtuali che si svolgono a qualsiasi ora del giorno e della notte e spesso vi partecipo dall’unica postazione casalinga. Partecipare ad un seminario per un intero fine settimana da casa dove non sono solo, mi distrae e mi inquieta. È quasi impossibile proteggere e separare i vari spazi (professionali, intimi e familiari), cosa che invece facevo quando la formazione e il lavoro si svolgevano fuori casa. Attualmente, CLGD è al suo terzo di anno di vita e purtroppo si svolge ancora online.

Conclusioni

Con lo smart working i confini interni ed esterni delle persone diventano troppo liquidi, gli spazi si saturano facilmente e scompaiono quei momenti di vitale decantazione dell’esperienza. Durante le pause di un convegno in presenza, sorseggiando un caffè con i colleghi, parlavo, ascoltavo, li guardavo negli occhi e sentivo il loro profumo. La distanza fisica da casa mi proteggeva da altre incombenze, mi permetteva di vivere il momento presente e di abitare lo stesso campo del gruppo incarnato; tutto ciò, pur essendo faticoso, portava con sé piacere e senso di appartenenza. Attualmente, invece, quel fragile campo che con difficoltà si genera attraverso lo schermo, durante le pause viene contaminato da elementi e bisogni estranei che rendono altresì difficile riprendere il lavoro lasciato in sospeso. Non basta chiudersi in una stanza davanti al computer, spegnere i telefoni e chiedere ai familiari di non fare rumore. Partire, spostarsi verso una meta fisica – così come il ritornare a casa – sono gesti che contribuiscono a creare lo stato mentale necessario per affrontare un compito diverso da quello precedente. Alla fine degli incontri dal vivo di CLGD, mi godevo il viaggio in taxi per l’aeroporto e dopo le pratiche d’imbarco, cercavo un posto tranquillo e cominciavo a scrivere un resoconto dei seminari, operazione che purtroppo non ho più fatto da quando ci siamo trasferiti online. Scrivere nella sala d’attesa – uno spazio intermedio che per definizione sospende il prima dal dopo – sedava l’ansia per il viaggio e poneva le basi del graduale ritorno alla vita consueta. Inoltre, permetteva alla mia mente di iniziare un processo digestivo per metabolizzare ed elaborare quelle impressioni sensoriali generate dall’esperienza sensoriale ed emotiva vissuta. Queste impressioni “grezze” sono definite da Bion (1967) elementi beta che sarebbero destinate a rimanere tali se non fossero metabolizzate e depurate da quell’apparato mentale che lo stesso autore definisce funzione alfa. Infatti, questa funzione avrebbe proprio il compito di eliminare i residui oggettuali degli elementi beta rendendoli, così, disponibili per un pensiero che sia orientato verso la modificazione della realtà.

Lo sconvolgimento causato dalla pandemia e l’assenza delle relazioni incarnate hanno prodotto in me un cambiamento dalla sfumature traumatiche che necessita approfondimento, aggiustamenti e riadattamenti anche di tipo fisico. La prima cosa che mi è sembrata giusta fare è stata la riduzione degli impegni virtuali e l’attivazione di nuovi processi di pensiero sul mio rapporto con il tempo, lo spazio e il lavoro. Una seconda cosa da ponderare, in attesa di poter rivivere la presenza fisica e mentale, sarà trasferire l’attività professionale virtuale in un altro spazio “sicuro” per decontaminare quello casalingo e riattivare il passaggio tra il dentro e il fuori e rivivere pienamente il suo valore transizionale.

 

Il Lavoro Mobilita l’Uomo (2021) – Recensione del libro

Il libro Il lavoro mobilita l’uomo pubblicato nel 2021, affronta il tema della fuga dei cervelli dal Sud Italia, in chiave psico-sociale.

 

La fuga dei cervelli è definita come il movimento delle persone qualificate dalla loro terra natia verso un altro luogo, seguendo, in genere, un’offerta lavorativa con migliori condizioni di vita e riconoscimento professionale. Sebbene si registri un incremento di persone qualificate che lasciano l’Italia, e soprattutto il Sud, negli ultimi tempi, non si tratta di un fenomeno troppo recente. Questo fenomeno era già presente con i Grand Tour, in cui studenti appartenenti a classi agiate intraprendevano questo giro alla scoperta del mondo classico, dove, però, l’Italia era una delle mete più ambite. Oggi, invece, si registra una partenza di capitale umano qualificato senza possibilità di sopperire a tale mancanza perché l’Italia non risulta essere più una meta attrattiva. In più, questo fenomeno è diventato socialmente conosciuto in quanto è preda del senso comune. Questo aspetto è amplificato dai discorsi mediatici che paragonano il fenomeno dei cervelli in fuga ad una migrazione di massa, senza però considerare la dimensione personale e interpersonale. Si tratta, inoltre, di un fenomeno che risente molto di aspetti socio-culturali e linguistici.

Ma quindi chi sono i cervelli in fuga? I primi a fuggire sono stati gli accademici e i ricercatori, al fine di far circolare il sapere (‘brain circulation’, appunto), ma anche i lavoratori operanti nel settore ICT, seguiti poi da altre categorie professionali come esito del cambiamento del mercato del lavoro e dell’emergere di nuove forme di carriera che superano quella tradizionale. Proprio perché sta diventando un fenomeno emergente, il modo in cui se ne parla mette in gioco le rappresentazioni sociali di oggetti basilari nell’organizzazione della cultura di una comunità, come il “lavoro”, la “famiglia”, la “formazione”, il “Sé”, la “nazione”.

 Nella letteratura scientifica, infatti, il fenomeno è stato analizzato sempre da una prospettiva economica o sociologica. Dal punto di vista economico, la fuga dei cervelli è stata esplorata in termini di costi per il paese di origine, che perde capitale umano qualificato e come benefici per il paese di destino che, invece, acquista qualificazione. Mentre la sociologia ha studiato il fenomeno come un processo di migrazione economica, la chiave psicologica, quadro teorico del volume, mira a dare voce a chi ha vissuto l’esperienza direttamente, proponendo prima un tentativo di decostruzione della rappresentazione comune sul fenomeno, generalmente diffusa dai media, sostenendola tramite le voci dei protagonisti, emigrati soprattutto dal Sud Italia. L’idea di fondo del libro è comprendere, in base alle biografie mobili dei protagonisti, se ci può essere un legame tra territorio e progetto di mobilità nei vissuti di chi abbandona il paese di origine.

Partendo proprio da questo legame, il libro è utile a tutti gli psicologi di comunità che intendono occuparsi di migrazioni, empowerment e adattamento nelle comunità di destino; ma anche a coloro che vogliono occuparsi di chi vive indirettamente l’“abbandono”, come i genitori dei cervelli in fuga, molto spesso, ingabbiati nella “sindrome del nido vuoto”. Occuparsi psicologicamente dei migranti qualificati e dei loro affetti, infatti, potrebbe voler dire ripartire dal legame territorio-progetto di mobilità.

 

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