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Beck tra ricerca clinica e politica – 100 anni di Aaron T. Beck – Parte 5

Il racconto di come Beck fece diventare la sua terapia un trattamento efficace, finanziato dal governo e dalle assicurazioni.

 

La fortuna di Beck esplose anche grazie alla parallela ascesa della Evidence-Based Medicine (EBM) (Smith & Rennie, 2014). L’EBM, proprio come il DSM e il protocollo di Beck furono la risposta adatta alle richieste di verificabilità clinica fatte dal sistema di assicurazioni sanitarie promosso dall’amministrazione Carter alla fine degli anni ’70. Anche la psicoterapia doveva allinearsi con i nuovi standard nazionali per la ricerca medica e farmacologica. I trial randomizzati diventarono il metodo di scelta privilegiata di conferma dell’efficacia.

Beck comprese l’importanza della svolta di Carter e si inserì in quella direzione, capendo che poteva farsi finanziare a livello federale. Non fu però l’unico. Con lui c’era Klerman, un altro psichiatra interessato alla psicoterapia della depressione e che visitò la clinica di Beck all’inizio del 1975 e fu colpito da come Beck includesse nel manuale le trascrizioni delle interazioni tra paziente e terapeuta. Per questo decise di sviluppare insieme a Myrna Weissman un manuale simile a quello di Beck ma maggiormente ispirato alla teoria delle relazioni interpersonali di Harry Stack Sullivan e focalizzato sui pensieri consapevoli nel qui-e-ora, come quello di Beck. Klerman chiamò il suo approccio Terapia Interpersonale. Beck, Rush e Kovacs ricambiarono la visita a Klerman e lo aiutarono a sviluppare il suo manuale.

L’alleanza di Beck con Klerman si rivelò politicamente decisiva, perché Klerman era stato nominato da Carter amministratore della Alcohol, Drug Abuse and Mental Health Administration e inoltre aveva incontrato Parloff e Waskow, due esponenti del National Institute of Mental Health (NIMH) incaricati, per decisione del presidente Carter e del Congresso, a finanziare studi di efficacia della psicoterapia. In questo modo Klerman diventò in grado di prendere decisioni politiche federali sulla salute mentale. Klerman incontrò Parloff e Waskow al NIMH nel luglio 1976 e riferì a Beck che era tempo di discutere l’uso di scale di valutazione comuni, criteri comuni per la selezione dei pazienti, condivisione dei dati, e altre questioni metodologiche. È interessante notare che gli incontri avvennero durante congressi di psicologia e ricerca in psicoterapia: il convegno annuale dell’American Psychological Association del 1976 e quello della SPR del 1977 (Rosner, 2018; Smith & Rennie, 2014). In questo modo Klerman ottenne di organizzare un trial randomizzato multicentrico finanziato con 1,3 milioni di dollari e noto come il programma di ricerca collaborativa per il trattamento della depressione (TDCRP). il TDCRP confrontava la terapia cognitiva di Beck, la terapia interpersonale di Klerman, un trattamento farmacologico anti-depressivo e una condizione di controllo. I terapisti avrebbero standardizzato i trattamenti usando i manuali di Beck e Klerman.

Lo studio ebbe luogo e confermò l’efficacia sia del modello di Beck che di quello di Klerman. E tuttavia, il modello di Beck si diffuse nella pratica clinica reale molto di più di quello di Klerman. Perché? La risposta sta nella tempestività sia della pubblicazione dei rispettivi manuali che nella disponibilità a fornire formazione ai clinici. Infatti, Beck si dimostrò infaticabile nel perseguire una pubblicazione rapida del suo manuale. Dopo averlo revisionato per 5 anni con i suoi studenti specializzandi, Beck impresse una accelerazione, negoziò un buon accordo editoriale con Guilford e pubblicò il manuale nel 1979, prima ancora che lo studio di efficacia con Klerman partisse. Al contrario, il manuale di Klerman e Weissman uscì solo nel 1984 (Klerman, Weissman, Rounsaville, & Chevron, 1984), solo un anno prima che apparisse il secondo manuale di Beck, questa volta sull’ansia (Beck & Emery, 1985). Nello stesso 1984 uscirono altri due manuali di psicoterapia, di Hans Strupp e Lester Luborsky (Luborsky, 1984; Strupp & Binder, 1984). È chiaro che l’ascesa dei protocolli di psicoterapia manualizzata fu un processo tanto politico quanto clinico o scientifico.

Non è un caso che anni dopo David Clark, il collaboratore di Beck nel Regno Unito, fosse in grado di effettuare un’operazione simile a quella di Beck e ancor più in grande stile, facendo adottare il protocollo cognitivo per l’ansia all’intero sistema sanitario anglo-sassone, stabilendo il programma ‘Improving Access to Psychological Therapies’ (IAPT) (Layard e Clark, 2015).

Insomma, Beck aveva capito che con Klerman si era ben posizionato per raccogliere vantaggi sia economici che politici. I manuali di Strupp e Luborsky erano i prodotti di questo stesso movimento scientifico e politico, della stessa rivoluzione nella ricerca in psicoterapia (Luborsky e DeRubeis, 1984). Tutti beneficiarono dei finanziamenti di Parloff e Waskow, ma Beck aveva capito che il tempo era una moneta altrettanto importante dei finanziamenti e aveva battuto tutti. Battuti dove? Sul tempo.

 

L’impatto psicologico e comportamentale della pandemia sui bambini

Bambini e Covid-19: l’avvento del Covid-19 e le sue inevitabili conseguenze hanno messo a dura prova il benessere psicologico della popolazione. L’IRCCS Gaslini si propone di indagare le ripercussioni della pandemia sui bambini e le loro famiglie. 

 

La pandemia e le misure necessarie per il suo contenimento hanno imposto numerosi cambiamenti in molti ambiti della vita quotidiana: lavorativo, familiare, sociale, scolastico e relazionale. Queste trasformazioni hanno causato molteplici ripercussioni, anche dal punto di vista psicologico.

Nonostante i bambini sembrassero meno vulnerabili agli effetti sistemici del virus, il loro benessere psicologico ed emotivo è stato intaccato quanto quello degli adulti. La chiusura di asili, scuole e servizi sociali, l’allontanamento da figure di riferimento come i nonni e gli amici e il confinamento all’interno delle mura domestiche hanno modificato la qualità della vita e gli equilibri di tutta la famiglia (Uccella et al., 2020).

L’IRCCS Gaslini si è mobilitato fin dalle prime fasi dell’emergenza sanitaria per sostenere le famiglie e, in collaborazione con l’Università di Genova, indagare l’impatto psicologico del fenomeno, con particolare attenzione ai bambini affetti da patologie croniche. Lo studio è stato portato avanti tramite l’utilizzo di un questionario online; quest’ultimo è stato costruito ad hoc per raccogliere i dati necessari alla valutazione e al monitoraggio di eventuali ripercussioni comportamentali e psicologiche della pandemia Covid19/Sars2 sui bambini e le loro famiglie. Il progetto sembra essere stato ben accolto dalla popolazione, infatti è stato compilato da 6800 soggetti in tutta Italia, di cui 3251 con figli di età inferiore ai 18 anni (Uccella et al., 2020).

I risultati dell’indagine scientifica hanno evidenziato come il 65% dei bambini di età inferiore ai 6 anni e il 71% di quelli di età compresa tra i 6 e i 18 anni abbiano manifestato problematiche comportamentali e sintomi di regressione. I disagi più frequentemente mostrati dal primo gruppo (0-6 anni) sono stati:

Il secondo gruppo (6-18 anni), invece, ha manifestato più spesso problematiche quali:

Per quanto riguarda, invece, la componente comportamentale, si è riscontrata una gravità crescente in corrispondenza del grado di malessere dei genitori. Inoltre, i dati mostrano come all’aumentare delle manifestazioni di disagio genitoriale legate alla situazione pandemica, corrisponda un aumento dei disturbi comportamentali ed emotivi nei figli (Uccella et al., 2020).

Alla luce di questi dati, l’Istituto Giannina Gaslini ha progettato e realizzato l’Ambulatorio Post-Emergenza, un programma studiato per il sostegno e il monitoraggio delle condizioni dei più piccoli e del loro contesto familiare. Il programma, destinato a giovani dai 2 ai 18 anni, comprende colloqui in presenza o a distanza e varie attività di sostegno. L’Ambulatorio Post-Emergenza si avvale del lavoro di un’équipe miltidisciplinare e si propone come un servizio facilmente accessibile ed economicamente sostenibile, volto ad aumentare il benessere psicosociale. L’ambulatorio ha lo scopo di valutare e diagnosticare precocemente situazioni di disagio acute e post-acute, in modo da poter progettare interventi tempestivi (Uccella et al., 2020).

 

Il possibile ruolo del Disturbo da Comportamento Sessuale Compulsivo nella sessualità promiscua di individui con Disturbo Borderline di Personalità

Il Disturbo Borderline di personalità (DPB) è caratterizzato da una sintomatologia che intacca la personalità in modo pervasivo e interessa quindi molti aspetti del funzionamento dell’individuo.

 

Per questo motivo, sono frequenti disturbi dell’asse I in comorbidità e quindi non strutturali, ma potenzialmente temporanei, come disturbi alimentari o abuso di sostanze, ad esempio. Il DPB è contraddistinto da “un pattern di instabilità delle relazioni interpersonali, dell’immagine di sé e dell’umore e una marcata impulsività” (APA, 2013). Il Disturbo Borderline di personalità presenta un tratto di impulsività che rappresenta una sorta di ricerca di eccitazione attraverso azioni pericolose o illecite che possono spaziare tra l’uso di sostanze stupefacenti, attività sessuale promiscua e simili, al fine quindi di sopperire alla sensazione di vuoto tipica del disturbo. Per quanto riguarda la sessualità, i soggetti con Disturbo Borderline di personalità sembrerebbero avere più partner sessuali rispetto a un gruppo di controllo (Sansone, Lam, & Wiederman, 2011), soprattutto occasionali (Tull, Gratz, & Weiss, 2011). Per quanto riguarda la sintomatologia sessuale vi è tendenzialmente un’iperattivazione la cui natura fa pensare ai sintomi del Disturbo da Comportamento Sessuale Compulsivo (Compulsive Sexual Behaviour, CSB). Alla luce di questa somiglianza, è apparso interessante approfondire l’eventuale relazione esistente tra CSB e DPB.

L’organizzazione mondiale della sanità ha inserito il disturbo da comportamento sessuale compulsivo nell’undicesima revisione della Classificazione Internazionale delle Malattie, definendolo come “un pattern di fallimenti nel controllo di impulsi sessuali intensi e ripetuti risultando in ripetuti comportamenti sessuali, in un periodo di almeno sei mesi, che causano una disfunzione in aree importanti come vita sociale, famiglia, educazione e occupazione” (Kraus, Kreuger, Briken, First, Stein, Kaplan & Reed, 2018). È inoltre necessario sottolineare che il disturbo non presenta necessariamente un carattere parafiliaco, come si deduce dalla descrizione di questo, infatti, i comportamenti emessi non sono problematici in termini di qualità ma di quantità e quindi pervasività (Fong, 2006). Il CSB sembra essere diffuso perlopiù nella popolazione maschile e coloro che lo presentano sono coinvolti nel comportamento sessuale rendendolo il centro della loro esistenza, fino a trascurare ogni aspetto della vita personale includendo salute e interessi, per via della totale immersione in fantasie sessuali, autoerotismo, attività sessuale virtuale e\o frenare gli impulsi anche in termini di riduzione comportamentale; l’attività sessuale compulsiva continua a manifestarsi senza alcun controllo da parte del soggetto, pur implicando difficoltà significative dal punto di vista di stabilità nelle relazioni sentimentali, occupazione, salute.

Un tratto peculiare è rappresentato dal ripetersi del comportamento sessuale a prescindere dal piacere che ne consegue; in altre parole, la soddisfazione sessuale non costituisce una condizione necessaria al verificarsi di questo fenomeno, ne risulta che il desiderio sessuale non sia motivato né finalizzato al raggiungimento dell’orgasmo (Kraus et al., 2018). Nel Disturbo da Comportamento Sessuale Compulsivo, la sessualità costituisce una sorta di strategia di evitamento che permette di distogliere l’attenzione da uno stato di malessere. Si innesca quindi una ricerca di sensazioni eccitanti per mezzo di “fantasie, visione di pornografia e attività sessuale” (Efrati & Gola, 2019). La motivazione all’atto non è quindi la soddisfazione sessuale in sé, come anticipato, bensì la volontà di non provare sensazioni negative, almeno per un momento, sostituendole con sensazioni sessuali.

La medesima ricerca di nuove sensazioni è un tratto caratteristico del Disturbo Borderline di Personalità. I due disturbi condividono un ulteriore tratto caratteristico, nonché l’assenza del controllo degli impulsi (Lloyd, Raymond, Miner & Coleman, 2007). Le sopracitate somiglianze fanno pensare che potrebbe esserci una relazione tra il Disturbo Borderline di Personalità e il Disturbo da Comportamento Sessuale Compulsivo. A questo proposito, in uno studio il cui obbiettivo era quello di indagare le comorbilità tra DBP e Disturbo da Comportamento Sessuale Compulsivo comparando un campione clinico ad uno di controllo, il Disturbo Borderline di Personalità era significativamente più presente nel campione clinico (Ballester-Arnal, J Castro-Calvo, Giménez-García, Gil-Juliá & Gil-Llario, 2020).

Jardin e colleghi (2017), con l’obbiettivo di osservare se la sessualità compulsiva fosse il motivo dell’alto numero di partner sessuali in soggetti con Disturbo Borderline di Personalità, hanno riscontrato un effetto indiretto sui partner sessuali per via della sessualità compulsiva, confermando l’ipotetica presenza di una relazione tra i due disturbi. Infine, è stato dimostrato che la sintomatologia borderline e la sessualità compulsiva sembrerebbero essere significativamente associate (Elmquist, Shorey, Anderson & Stuart, 2016).

In base all’analisi della letteratura sopra riportata, emerge che i meccanismi che sembrano alimentare l’attività sessuale promiscua nel Disturbo Borderline di personalità sono, come anticipato, l’impulsività e la necessità di evitare sensazioni negative. La natura dei tratti sopracitati si manifesta anche nel Disturbo da Comportamento Sessuale Compulsivo e ciò ha motivato i ricercatori ad indagare la relazione tra i due disturbi, al fine di comprendere se il sintomo della sessualità promiscua nel Disturbo Borderline di Personalità potesse essere spiegato dalla presenza della compulsione sessuale non finalizzata alla soddisfazione sessuale bensì alla ricerca di un distanziamento da sentimenti di vuoto. Gli studi ad oggi sembrano confermare l’ipotesi che vi sia una relazione tra il Disturbo da Comportamento Sessuale Compulsivo e la sintomatologia sessuale del Disturbo Borderline di Personalità, sia in termini di comorbilità che di causalità.

 


 

HAI UNA DOMANDA? 9998 Clicca sul pulsante per scrivere al team di psicologi fluIDsex. Le domande saranno anonime, le risposte pubblicate sulle pagine di State of Mind.

La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

L’effetto IKEA nel mangiar sano

Basandosi sull’effetto IKEA lo studio del team di Radtke ipotizza che coinvolgere i bambini nella pianificazione e preparazione dei pasti sia positivamente correlato all’assunzione di verdure.

 

Frutta e verdura sono una parte essenziale di una dieta equilibrata. L’assunzione di frutta e verdura, infatti, può proteggere da moltissime malattie e fornire energia (Knai et al., 2006). Le attuali raccomandazioni per un livello ottimale di assunzione tale da ridurre il rischio di contrarre malattie non trasmissibili vanno da un minimo di 400 g al giorno a 800 g al giorno (Aune et al., 2017). Sono state studiate numerose determinanti del consumo di verdura da parte dei bambini (DeCosta et al., 2017), ed è stato scoperto che le femmine assumono più verdura rispetto ai maschi (Brug et al., 2008) e che i bambini più grandi mangiano meno verdura rispetto ai bambini più piccoli (Caton et al., 2014). In Europa l’assunzione di prodotti ortofrutticoli da parte dei giovani è notevolmente diminuita negli ultimi anni (Mazur, 2015), ma è possibile intervenire in molti per modificare tali abitudini. I fattori ambientali che determinano una corretta assunzione di vegetali includono attività culinarie (Allirot, et al. 2016), elevata disponibilità e accessibilità di frutta e verdura (Neumark-Sztainer et al., 2003), incoraggiamento e modellamento da parte dei genitori (Kristjansdottir et al., 2006). In particolare, le attività di culinarie svolte con i caregiver sembrano avere un’influenza positiva sull’assunzione di verdura da parte dei più piccoli. Questa sembra essere una modalità molto favorevole piuttosto che l’adozione di rigide strategie di controllo parentale per la modifica del comportamento alimentare, rivelatesi controproducenti (DeCosta et al., 2017).

Basandosi sull’effetto IKEA, che sostiene che le cose create da sé stessi piacciano di più rispetto a quelle create da qualcun altro, lo studio del team di Radtke ipotizza che coinvolgere i bambini nella pianificazione e preparazione dei pasti sia positivamente correlato all’assunzione di verdure, e quindi al gradimento di queste ultime. Nella sperimentazione, novecentoventiquattro diadi genitore-figlio hanno compilato questionari che misuravano il coinvolgimento, il gradimento e l’assunzione di verdure, e ulteriori determinanti ambientali e alimentari.

In questo studio, sono stati riscontrati due effetti diretti:

  • il coinvolgimento dei propri figli nelle attività di cucina ha influito sul gradimento e sull’assunzione di verdure;
  • il tasso di gradimento di cibi con verdure ha influito sul consumo delle stesse. Nei bambini, il coinvolgimento nell’assunzione di verdure è stato mediato dal gradimento.

Come previsto dall’effetto IKEA, il coinvolgimento dei figli nella preparazione dei pasti era quindi significativamente associato al gradimento di pomodori, carote e cetrioli, che a sua volta era correlato all’assunzione di verdure nei bambini. Inoltre, in base ai risultati dello studio, sembra che i genitori consumino verdure principalmente perché vogliono rappresentare buoni modelli di comportamento, piuttosto che per soddisfare le proprie preferenze personali. Ciò è in linea con i risultati di uno studio che mostra come la transizione alla genitorialità tra le donne sia correlata a un aumento dell’assunzione di verdure, che potrebbe essere collegato agli sforzi per modellare un’alimentazione sana (Hartmann, Dohle e Siegrist, 2014).

Impartire istruzioni rigorose ai bambini su come preparare il cibo, piuttosto che lasciarli liberi di agire come vogliono, potrebbe ridurre il divertimento del cucinare in compagnia, e quindi minare l’effetto IKEA. Le attività di cucina con i genitori dovrebbero essere flessibili e creare più opportunità di degustazione o divertimento.

Rispettando tali condizioni, incoraggiare i bambini nella preparazione di pasti sani può migliorare il gradimento di cibi a base di verdure e, di conseguenza, aumentarne il consumo. È possibile pensare che tali risultati potrebbero essere generalizzabili anche agli adulti, in quanto il prepararsi cibi sani autonomamente potrebbe portare ad un maggior gradimento di tali pietanze, confermando la massiccia incidenza dell’effetto IKEA.

 

La cura del paziente con Disturbo Bipolare e della sua famiglia durante la pandemia da Covid-19

Comunicato Stampa

Al via il Progetto annuale promosso dalla Cooperativa Sociale A.p.e.rtamente e finanziato con il contributo della Fondazione di Sardegna

 

Ha preso avvio il progetto “La cura del paziente con Disturbo Bipolare e della sua famiglia durante la pandemia da Covid-19”, promosso dalla Cooperativa Sociale A.p.e.rtamente di Quartu Sant’Elena in partenariato con il Centro Lucio Bini di Cagliari, il Centro Lucio Bini- Aretaeus di Roma, il Comune di Quartu Sant’Elena, l’ Ordine degli Psicologi della Sardegna, la Regione Autonoma della Sardegna, Gsd Ferrini Basket di Quartu Sant’Elena, A.S.C.U. Associazione Soluzioni Cittadini Utenti APS, AISTED – Associazione Italiana per lo Studio del Trauma e della Dissociazione, l’Hospital Clinic i Provincial de Barcelona e l’International Bipolar Foundation. L’iniziativa, gratuita per tutti i destinatari coinvolti, è stata finanziata dalla Fondazione di Sardegna nell’ambito del Bando annuale 2021, sezione “Volontariato, Filantropia e Beneficienza”.

Il progetto promuove diverse azioni di sensibilizzazione e supporto psicosociale con finalità informativa e preventiva rivolte ai pazienti con Disturbo Bipolare e alle loro famiglie/caregivers, nonché a tutta la popolazione sarda che, a vario titolo, può trarre beneficio dalle azioni progettuali.

Dal mese di Settembre 2021 saranno quindi avviati i seguenti servizi:

  • 1) Percorso di psico-educazione di gruppo, rivolto a un gruppo di pazienti con Disturbo bipolare e ai loro caregiver, condotto dalle psicologhe-psicoterapeute Emma Fadda e Caterina Visioli e dal Prof. Leonardo Tondo, Medico-Psichiatra, dell’équipe del Centro Lucio Bini.
  • 2) Percorso laboratoriale di gruppo di natura creativa ed espressiva, rivolto ai pazienti attivamente coinvolti nel percorso di psico-educazione di gruppo. Le attività saranno condotte da personale specializzato della Cooperativa A.P.E.rtamente.
  • 3) Seminari tematici rivolti all’intera popolazione, con finalità di informazione e prevenzione sul tema del Disturbo Bipolare. I seminari saranno condotti da psicologi, psicoterapeuti, medici psichiatri dell’équipe del Centro Lucio Bini e da operatori della Cooperativa A.P.E.rtamente.
  • 4) Sportello di ascolto e consulenza rivolto a tutta la popolazione, con finalità informative, di prevenzione, promozione del benessere e di ascolto, con particolare riferimento al Disturbo bipolare.

Tutte le attività sono gratuite e saranno svolte in modalità a distanza.

Per ricevere maggiori informazioni sul progetto e sulle attività e per accedere allo sportello di consulenza è possibile contattare i professionisti all’indirizzo mail: [email protected].

 

Per maggiori informazioni >> Scarica la brochure del progetto

Il corpo ci parla.. ma noi lo ascoltiamo? – Video dell’evento online di CIP Modena

L’incontro online Il corpo ci parla.. ma noi lo ascoltiamo? ha approfondito l’utilizzo delle tecniche di Training Autogeno.

 

In questa epoca di crescente malessere emotivo ed esistenziale sono sempre più frequenti i sintomi di tipo psico-emozionale (es. ansia, depressione, discontrollo emotivo, apatia, ecc,) ma anche sintomi corporei (es. cefalea, tensione muscolare, mal di schiena, gastrite, colon irritabile, insonnia, disfunzioni sessuali, ecc.). Anzi spesso i sintomi corporei sono gli unici segnali, e manca la consapevolezza di un collegamento con aspetti emozionali e cognitivi. In questi casi è necessario un approccio integrato in cui venga data una particolare attenzione ai segnali del corpo, ad ascoltare, decodificare e capire il suo linguaggio.

Le tecniche del Training Autogeno, anche per la relativa facilità di apprendimento, aprono prospettive particolarmente interessanti al riguardo, con possibilità di percorsi psicoterapici ed esperienziali arricchiti e personalizzati.

Per questo CIP Modena ha organizzato un incontro informativo sulla tematica, condotto dal Dr. Andrea Lisotti.

 

IL CORPO CI PARLA.. MA NOI LO ASCOLTIAMO?

Guarda il video integrale del webinar:

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In cosa consiste l’emozionarsi? Il concetto di corpo in relazione con l’altro

Sono diverse le strutture ed i circuiti neuronali che si attivano con l’emozionarsi soggettivo.

 

Chi non ha sentito parlare della storia di Adamo ed Eva? Vivevano nel giardino dell’Eden felici e spensierati, in armonia con il resto del creato. Finché tentati dal serpente si cibarono del frutto della conoscenza: “Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si videro nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture” (Genesi 3,7), da quel momento ci fu uno iato tra l’essere umano ed il resto del mondo vivente e nulla fu più come prima. Guardando se stessi da un altro punto di vista, acquisirono la consapevolezza. Ciascuno di noi può fare un’esperienza diretta del proprio corpo, può sentirlo, ma può anche vederlo dall’esterno in qualità di oggetto della propria osservazione, prendendo le distanze dall’esperienza personale come quando ci si guarda allo specchio.

Inoltre, si può essere consapevoli di un particolare stato emotivo ed integrarlo da una prospettiva esterna, come oggetto tra gli oggetti, cogliendo così caratteristiche e punti di vista differenti.

Quindi, in sostanza, cosa significa essere consapevoli?

A questa domanda rispondiamo con il dire che la consapevolezza rappresenta il fondamento delle possibilità di discernimento della specie umana, qualcosa che si realizza nel vivere quotidiano e che consente di regolare le proprie emozioni; un esempio pratico può essere la capacità di fare un respiro e tenersi sotto controllo, piuttosto che utilizzare la violenza, quando ci si trova in una situazione che provoca rabbia.

Il senso di noi stessi, in quanto esseri dotati di un corpo, fa leva sulle capacità di integrazione sensoriale del nostro cervello ed è necessario per l’elaborazione del proprio vissuto.

A tal proposito, la neurofenomenologia considera la mente umana come un flusso di esperienza che ha luogo dall’interazione circolare tra corpo, cervello e mondo.

In linea con quanto detto, non è possibile pensare alla mente in modo slegato dal corpo in cui abita e che agisce nel mondo. La mente è sempre incarnata, ragion per cui percepiamo il nostro corpo mentre compiamo un’azione, ciò avviene poiché abbiamo un senso implicito dello spazio in cui ci troviamo.

Tuttavia l’esperienza che facciamo presso le cose non avviene mai in modo neutro ma secondo una certa tonalità emotiva. In essa ci si trova, non la si decide poiché prescinde dalla nostra volontà cosciente e rappresenta un modo di essere, una colorazione d’insieme dell’esistenza umana.

Ad esempio possiamo percepire una lieve ansietà nell’esistere quotidiano, oppure un senso di soddisfazione, ci si può sentire tesi, rilassati, sereni, giù di morale, queste sono tutte sensazioni che agiscono a livello preriflessivo, a prescindere dalla nostra volontà cosciente.

Tuttavia, ciò che percepiamo influenza fortemente il nostro modo di agire e quindi le nostre modalità di stare al mondo. Non è possibile fare esperienza facendo a meno di un’atmosfera emotivamente intonata e ricca di significati preriflessivi.

In effetti, ogni essere umano è ininterrottamente immerso in un mondo animato da specifiche tonalità emotive, e vive in costante ricerca del senso di stabilità personale. Ma cosa intendiamo con questo?

Per poter rispondere alla domanda occorre interrogarsi circa la genesi degli stati emotivi con cui, di volta in volta, l’essere umano si trova e/o si ritrova a dover fare i conti.

In questo senso, l’individuo, ogni volta, è immerso in un contesto sociale e culturale in cui si riconosce grazie al suo corpo e all’altro, che è sempre con lui presso le cose. Da ciò, ne deriva che gli stati emotivi esperiti dalla persona siano il risultato dell’interazione tra il significato incarnato della situazione in atto, ed una particolare relazione interpersonale.

Da un punto di vista concettuale quindi, per rispondere all’iniziale domanda, posto che l’emozionarsi sia un sentirsi attraverso la carne contemporaneo ad una modalità di comprensione delle situazioni in corso, per senso di stabilità personale si può intendere ciò che risulterà dalla tendenza dell’individuo ad orientarsi, in modo variabile, sul corpo o sull’altro.

Queste modalità di orientamento degli stati emotivi assumono una vera e propria forma di direzionalità nel loro rendersi manifeste: nel momento in cui una persona tende ad orientarsi sul proprio corpo, ciò significa che darà più importanza alla percezione dei propri stati viscerali; allo stesso modo, la persona che tenderà ad essere orientata sull’altro, si focalizzerà maggiormente su aspetti di natura contestuale.

Le specifiche modalità di emozionarsi proprie di ogni individuo, vanno a formare quella particolare struttura del sentirsi umano, posto che, sempre situato secondo peculiari tonalità emotive, l’individuo possa comprendersi nello spazio della carne e dell’altro.

Inoltre, le tonalità emotive, possono determinare risposte corporee e cambiamenti strutturali anche a livello cerebrale.

Ad ogni esperienza si associano diverse manifestazioni neuronali, questo accade poiché il mondo esperienziale e quello cerebrale sono intimamente interconnessi.

Sono diverse le strutture ed i circuiti neuronali che si attivano con l’emozionarsi soggettivo.

Una struttura intimamente coinvolta nell’esperienza individuale delle emozioni è l’amigdala, soprattutto in quelle più primitive, come ad esempio la paura o la rabbia.

Studi con risonanza magnetica funzionale (fMRI) hanno dimostrato che quest’ultima viene attivata dalla presentazione di stimoli avversi, anche quando determinate immagini vengono presentate in rapida sequenza, “mascherandole” con stimoli neutri in modo che il soggetto non si renda conto degli stimoli elicitanti la paura, cioè non sia consapevole di averli visti (Whalen et al. 1998).

Allo stesso modo, soggetti con blindsight, ossia privi della consapevolezza della percezione visiva ma in grado di discriminare l’orientamento e la presenza di stimoli, mostrano una risposta dell’amigdala alla presentazione visiva di stimoli a valenza emotiva (Dolan 2002).

Considerato che le emozioni servono in primo luogo a promuovere i comportamenti più idonei a preservare la sopravvivenza, la capacità di mettere in atto una risposta emotiva anche solo al “sentore” di un pericolo e ancor prima di averne preso coscienza, rappresenta un enorme vantaggio evolutivo: una frazione di secondo, infatti, può fare la differenza tra riuscire o non riuscire a evitare un pericolo. L’amigdala, pertanto, governerebbe un sistema sottocorticale, che non ha bisogno del contributo diretto della corteccia, essendo in grado di rispondere rapidamente anche a una grossolana informazione sulla presenza di un potenziale pericolo, ben prima che l’individuo abbia avuto modo di valutare la situazione nel dettaglio attraverso le vie (inevitabilmente più lente) che portano l’informazione alla corteccia cerebrale.

Oltre all’amigdala, il circuito legato alle emozioni coinvolge anche altre strutture.

L’insula ad esempio, ha un importante ruolo per i processi interocettivi ed è cruciale per quanto riguarda il senso del sé, oltre ad essere una struttura fortemente coinvolta nelle emozioni del disgusto e per il riconoscimento di espressioni facciali di disgusto. Questa struttura gioca un ruolo fondamentale anche nei processi empatici e risulta massicciamente attivata durante l’osservazione del dolore altrui. Inoltre le aree anteriori dei lobi frontali consentono la valutazione dello stato emozionale, la selezione dei comportamenti adeguati, la risoluzione dei conflitti tra stato interno ed esterno.

Detto ciò, possiamo concludere dicendo che ognuno di noi riconosce se stesso proprio attraverso il rapporto con l’altro presso le cose, da qui ne consegue il fatto che il corpo e l’altro sono parte costitutiva e fondamentale del mio sentirmi, del mio riconoscermi, della consapevolezza che ho di me. Inoltre se l’essere umano è sempre situato secondo specifiche tonalità emotive, allora l’emozionarsi assume valore nell’area tra il corpo e l’altro. Quindi, rappresenta il significato incarnato di una particolare situazione in atto e in un determinato contesto e che attiva sempre una risposta cerebrale.

 

 

Il tempo che non vola. Le temps vécu nell’Anoressia Nervosa

Nell’Anoressia Nervosa le pazienti appaiono come “cristallizzate”, situazione splendidamente descritta da Federico Leoni nell’introduzione a Le temps vécu di Minkowski.

 

Chiara è una ragazza bellissima, ma il suo volto appare per la maggior parte del tempo come pietrificato. Quando è distesa sulla poltrona resta immobile per ore, quasi fosse cristallizzata. Ogni suo movimento è tanto elegante quanto bizzarro nella lentezza della sua esecuzione.

Quando iniziamo a parlarle del Tempo e le chiediamo di fornirci il suo punto di vista al riguardo sembra come risvegliarsi. Risponde e partecipa al discorso con una facilità disarmante per chi ha tentato durante le sedute psicoterapiche precedenti di creare un contatto con lei. Eppure si sta analizzando un concetto così astratto e sfuggente che la semplicità con la quale viene descritto dalla paziente ci lascia perplessi. Ci chiediamo se non abbia riflettuto a lungo al riguardo per poter rispondere con questa semplicità, nonostante nessuno prima di noi abbia affrontato questa tematica con lei”.

Così ha inizio il mio viaggio personale nel vissuto temporale delle pazienti affette da Anoressia Nervosa. Poco tempo addietro mi ero perso in alcune splendide letture di Carlo Rovelli che mi avevano aperto gli occhi su quanto il Tempo mi avesse preso per i fondelli per una vita senza che me ne accorgessi. Mi figuravo sempre di più un tempo capace di deformarsi, contorcendosi, un tempo che si espande e retrae, mantenendo sempre la sua elegante continuità. Mi fece sorridere come questa visione del tempo vissuto si avvicinasse a passi felpati a quella della fisica, dove oggi il tempo è qualcosa di tangibile e quindi deformabile, malleabile.

Nell’Anoressia Nervosa le pazienti appaiono come “cristallizzate”, situazione splendidamente descritta da Federico Leoni nell’introduzione a Le temps vécu di Minkowski rispetto al caso de La malata che fa le scarpe (paziente descritta anche da un giovane Carl Gustav Jung) estremamente esplicativa rispetto all’instancabile ripetizione e l’eterno presente che ritroviamo nelle pazienti più gravi.

“Non più un gesto che, compiutosi, tramonta; che, tramontato, consuma il proprio senso, lo compie; e che nel compierlo, nel farne vuoto, lo destina ad un nuovo inizio. Non più l’instabile, incerta tensione dello slancio, ma il deserto mortale di un presente eterno dove nulla può concludersi e nulla può iniziare. Una immobile insistenza, esausta stereotipia”.

Dopo aver parlato a lungo con molte pazienti affette da questa patologia un’idea ha iniziato a prendere forma. Queste mi sembrano vivere perennemente in quello che Minkowski descrive come “attimo o adesso” e non nel “presente”. Il brillante psichiatra spiega come il tentativo di rappresentare l’adesso sia impossibile in quanto esso fugge davanti a noi dispiegandosi per far posto al presente. È qui che possiamo trovare durata ed estensione poiché non sappiano dove abbia inizio né dove termini. Si tratta di qualcosa di fluente: Il presente è dunque meno aspro de l’adesso, è più calmo, omogeneo e rassicurante, nel presente possiamo lasciarci vivere.

Rinchiuse all’interno di fitte reti di rigide regole da loro stesse create, questa categoria di pazienti sembra non conoscere il presente, bloccate in un punto senza estensione.

… questa condizione di stasi viene descritta dalla paziente con poche parole. Un tempo infinito ed orribile. La monotonia sembra essere una delle caratteristiche che meglio descrive il suo stato attuale. Priva di un obiettivo concreto sembra andare alla deriva mettendo in dubbio l’importanza della sua stessa esistenza. Non si intravede slancio vitale in lei e parlando del suo futuro risponde è molto, molto lontano. E’ così lontano da me che non riesco a vederlo”.

Il senso di narrazione e la capacità di essere gli stessi nel fluire del tempo, elegantemente descritti da Eugenio Borgna nel saggio Come se finisse il mondo, sembrano essere fortemente minati dalla malattia.

“Quando le chiediamo se ci sia un senso di continuità nella sua esistenza lei riporta una marcata frammentazione e riesce a caratterizzarla emotivamente. Quando ero normale il mondo era così luminoso, colorato. La vita che avevo prima del mio disturbo alimentare mi sembra la vita di un’altra persona. Chiara non possiede un’immagine di sé al di fuori della malattia, della figura di paziente.

La frattura appare essere molto più profonda di quanto mi sarei aspettato.

“La mia realtà non è in bianco e nero. Non si tratta neanche di una scala di grigi. E’ monocromatica. Se vi guardo la vostra immagine si confonde con lo sfondo. Il cibo non ha sapore. Nulla intorno a me appare definito. Non mi interessa vedere”.

Minkowski insegna che il passato e l’avvenire non esistono che in rapporto al presente e non hanno altro senso, così come il presente non ha potuto nascere che dal passato al quale deve ricongiungersi, come deve d’altra parte dare origine all’avvenire.

Le sue parole in qualche modo riescono a confortarmi. Credo che l’Anoressia Nervosa, per quanto indiscutibilmente invalidante, non possa vincere un Titano che domina il nostro essere dal primo grande boato cosmico. Il Tempo e la gentilezza potrebbero essere armi preziose per chi tratta questo disturbo purtroppo sempre più diffuso ma dalla scarsa risonanza sociale.

 

La salute mentale degli italiani. Per un ripensamento delle politiche regionali

La pandemia non ha aiutato la cura della salute mentale nel nostro paese.

 

«Solo 60 bambini su 1.000 hanno accesso a un servizio territoriale di NPIA (Neuropsichiatria Infantile e dell’Adolescenza, ndr), e di essi solo la metà riesce ad avere risposte terapeutico-riabilitative territoriali appropriate (con estrema variabilità regionale)». A denunciarlo è il Tavolo Tecnico sulla Salute Mentale, istituito a inizio anno, nel suo documento di sintesi appena pubblicato alla vigilia della seconda Conferenza Nazionale per la Salute Mentale, tenuta dal Ministero della Salute il 25 e 26 giugno 2021. Il documento affronta tre aree di studio: la programmazione regionale nell’ambito della salute mentale, l’adeguatezza dei percorsi di cura, la riduzione degli interventi coercitivi.

Nell’evidenziare «la necessità e l’urgenza di un’intensa attività di programmazione e coordinamento nell’area della Salute Mentale dell’Infanzia e dell’Adolescenza», il Tavolo Tecnico denuncia una particolare difficoltà nel condurre una valutazione in merito, vista «la carenza di flussi informativi specifici e la difficoltà a ottenere dati appropriati dai flussi amministrativi standard» relativamente alla salute mentale dei minori. Dalle poche notizie raccolte emerge una tale variabilità nei percorsi di cura fra le varie regioni che garantire una risposta equa ai bisogni risulta molto complesso. «In particolare, mancano non solo i letti di ricovero dedicati, ma soprattutto le strutture semiresidenziali terapeutiche, indispensabili per garantire interventi a maggiore complessità e intensità, per prevenire, per quanto possibile, il ricorso al ricovero ospedaliero e alla residenzialità terapeutica. Nei servizi territoriali spesso non sono previste e adeguatamente presenti tutte le figure multidisciplinari necessarie per i percorsi diagnostici, terapeutici e riabilitativi, e vi sono significative difficoltà nel garantire la presenza anche solo delle figure mediche indispensabili, già sottodimensionate. Il quadro è reso critico dalla prevedibile collocazione a riposo a breve di numerosi neuropsichiatri infantili, senza che vi sia un numero sufficiente di giovani specialisti per sostituirli». Eppure, negli ultimi dieci anni è raddoppiato il numero dei pazienti seguiti dai Servizi di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza, soprattutto in ambito psichiatrico: tra il 2017 e il 2018 i ricoveri nella fascia d’età 0-17 sono aumentati dell’11% per i disturbi neurologici e del 22% per quelli psichiatrici. Di questi, però, non tutti hanno potuto ricevere l’assistenza necessaria, visto che il 20% sono stati ricoverati in reparti per adulti.

Per quanto riguarda, invece, lo stato di attuazione nelle Regioni del PANSM (Piano d’Azione Nazionale Salute Mentale), ad aprile scorso solo il 49.5% degli obiettivi programmatici (suddivisi in salute mentale degli adulti, neuropsichiatria infantile e integrazione) sono stati attuati, con evidenti carenze soprattutto in campi come la promozione della salute fisica del paziente psichiatrico, la diagnosi e il trattamento delle persone con disturbi psichici, la prevenzione e la lotta allo stigma. Le Regioni che presentano maggiori criticità, ossia più di sei obiettivi non attuati, sono Basilicata, Abruzzo, Sardegna, Calabria, Lazio, Campania, Molise e Liguria; mentre Friuli Venezia Giulia ed Emilia Romagna si piazzano ai primi posti insieme con la Sicilia. Differenze territoriali macroscopiche si rilevano anche nel consumo di farmaci psichiatrici: se al Nord è prevalente l’erogazione diretta e l’utilizzo di antidepressivi, al Sud si attesta quella convenzionata con un uso superiore di antipsicotici. «È possibile che rispetto agli antidepressivi vi sia un bisogno non intercettato al sud e un non-bisogno trattato al Nord. Per quanto riguarda invece il consumo di antipsicotici è possibile che al Nord la maggiore disponibilità di trattamenti psicosociali e psicoterapici, una sensibilità crescente al tema della de-prescrizione, e il migliore monitoraggio ottenibile con la erogazione diretta generino una maggiore appropriatezza e qualità di utilizzo».

Il Tavolo Tecnico suggerisce, quindi, di rivedere i processi di verifica dell’efficacia nel perseguimento degli obiettivi indicati, attuando una politica di semplificazione contro la produzione incontrollata di documenti di programmazione non necessari. Inoltre, viene proposto un «monitoraggio più fine delle attività delle strutture residenziali attraverso il rilevamento di informazioni sulla provenienza del paziente prima del ricovero e sulla sua destinazione alle dimissioni». Questo perché, soprattutto al Centro-Nord, sono andati allungandosi i tempi medi di permanenza: per molti pazienti, infatti, le strutture «sembrano rappresentare delle “case per la vita” piuttosto che dei luoghi di riabilitazione, e il loro ruolo pare dunque oscillare ambiguamente tra trattamento e riabilitazione da un lato, e custodia dall’altro».

Stando al monitoraggio 2019 del SISM (Sistema Informativo sulla Salute Mentale), sull’età e il numero medio di prestazioni fornite agli utenti, «il sistema di cura è centrato sulla cronicità piuttosto che sulla identificazione e intervento precoce, e le prestazioni totali sono insufficienti a garantire la continuità e l’intensità della presa in carico». L’età media e mediana dei nuovi utenti, infatti, nei quali vengono riscontrati i quattro disturbi considerati più gravi (depressione, disturbi della personalità e del comportamento, mania e disturbi affettivi bipolari, schizofrenia) è superiore ai 40 anni. Tra le patologie, quella più incidente è sicuramente la depressione, con 15,1 casi ogni 10.000 abitanti.

Il documento sottolinea, inoltre, l’esistenza di gravi falle nel sistema informativo intorno alla salute mentale, afflitto da: scarsa tempestività nella restituzione dei dati sotto forma di statistiche, con un ritardo di circa due anni rispetto al dovuto; assenza della componente dedicata alla Salute Mentale dell’Infanzia e dell’Adolescenza; flussi disomogenei oppure aggregati a livello regionale, che mettono in luce discrepanze e impediscono azioni specifiche per Aziende sanitarie e Dipartimenti di Salute Mentale; mancanza totale di notizie intorno alla componente sociosanitaria dei pazienti.

Volendo, dunque, analizzare l’appropriatezza dei percorsi di cura, molte sono le criticità che emergono. Prima fra tutte la disomogeneità territoriale dei Dipartimenti di Salute Mentale italiani, 140 in totale, che dovrebbero soffermarsi sugli standard organizzativi, quantitativi e qualitativi. Non meno importante, la carenza di organico, che genera un’inevitabile aumento dei «posti di residenzialità quale esito dell’impossibilità a una presa in carico multiprofessionale e continuativa». Guardando ai dati, nel quadriennio 2015-2019 si è avuta una flessione dell’1,6% del personale dipendente dei DSM, dato nettamente inferiore rispetto allo standard minimo, fissato dal DPR del 10 novembre 1999, su 66,6 operatori ogni 100.000 abitanti: attualmente se ne hanno soltanto 56,8. Necessaria, quindi, l’assunzione e la formazione «di operatori per i servizi di salute mentale di comunità, in modo da raggiungere in tutte le Regioni lo standard di riferimento quale condizione indispensabile per il funzionamento del sistema di cura».

Capitolo non meno importante l’inadeguatezza “per difetto” nell’accesso ai servizi psichiatrici nazionali, «ossia una quota di bisogni non intercettati (incidenze e prevalenze troppo basse per disturbi psichiatrici gravi). In particolare, si rileva la difficoltà dei servizi di salute mentale a intercettare la morbilità psichiatrica all’esordio o comunque in fase precoce, problema particolarmente serio per le psicosi schizofreniche, per le quali evidenze consolidate documentano che soltanto servizi specificamente orientati alla presa in carico e al trattamento in fase molto precoce sono in grado di influire favorevolmente sulla prognosi». Ciò pone la necessità di diffondere «strategie innovative per la realizzazione di specifici servizi per i giovani con gravi problemi di salute mentale»; oltre naturalmente all’adozione e al potenziamento dei Piani regionali per i Disturbi Emotivi Comuni e del «personale in grado di erogare trattamenti psicoterapeutici di provata efficacia».

 

Rotture evolutive. Psicoanalisi dei breakdown e delle soluzioni difensive (2021) di Anna Maria Nicolò – Recensione

Soprattutto ad inizio terapia, come afferma l’autrice di Rotture evolutive, è necessario lavorare sull’acquisizione e il rinforzo della fiducia del paziente, che prima si fida e poi si affida.

 

Prendendo spunto dal suo primo caso di psicoterapia, durante il periodo di specializzazione, con la supervisione del Dr. Arnaldo Novelletto, la Dr.ssa Anna Maria Nicolò, medico neuropsichiatra infantile, psicoanalista della Società Psicoanalitica Italiana e dell’International Psychoanalytical Association, psicoterapeuta della coppia e della famiglia, fa delle importanti riflessioni a posteriori, nate dalla sua esperienza pluridecennale, su un periodo evolutivo particolarmente delicato e fragile, ossia l’adolescenza, in cui è possibile riscontrare crisi vere e proprie che possono prendere due direzioni: da una parte un’evoluzione e un consolidamento della propria identità, dall’altra, al contrario dei crolli che i Laufer (1984) hanno definito “breakdown”.

Ma che cos’ è un breakdown evolutivo?

Una vera e propria rottura, spaccatura della realtà, che può essere dettata da un temporaneo arresto di un funzionamento fase specifico del processo evolutivo, fase che dovrebbe portare l’adolescente alla definizione di un’identità più solida e soprattutto più strutturata, che ne rappresenti la maturità.

L’adolescenza è, senza dubbio, un periodo complesso di transizione dall’infanzia all’età adulta, complesso in quanto coinvolge la persona nella sua totalità soma-psiche. La velocità nei cambiamenti è sicuramente evidente e spesso provoca un profondo senso di disagio e numerose perplessità nell’adolescente, circa lo stare al mondo, l’esserCi e l’esserCi con l’altro. Da un lato il desiderio di indipendenza e distacco dalle figure parentali, dall’altro la paura dello svincolo e il bisogno di non perdere tale legame.

Questo è il periodo della costruzione di un Io che ha bisogno di trovare la propria identità, ma tale meccanismo è certamente correlato alle esperienze precedenti, alle conquiste avvenute, alla capacità genitoriale di permettere l’evoluzione e la costruzione di un contesto che sia base sicura per la conquista del mondo esterno e, dunque, di territori a di fuori del nido primario. Solo in questa maniera è possibile l’interiorizzazione delle figure genitoriali e lo slancio verso quella che sarà la propria autonomia. Se ciò non avviene, come ben spiega la Dr.ssa Nicolò, è possibile che avvenga una momentanea interruzione nel passaggio, in quanto “in quasi tutti i casi di rotture evolutive in adolescenza le angosce relative all’identità di genere e all’orientamento sessuale sono in primo piano a causa dei processi di ristrutturazione dell’identità e della ricontrattazione edipica, tipici di questo periodo, e terrorizzano il giovane e spesso anche i genitori creando una tempesta emotiva enorme”.

Pertanto non vanno assolutamente trascurate e necessitano di un percorso analitico che non si ostini ad un’impostazione rigida e classica, ma che, al contrario, si adegui alla realtà dell’adolescente, così mutevole e sfuggente. Lo stesso setting non può che essere punto di arrivo e non di partenza, in quanto processo che dà modo al paziente, con i suoi tempi, unici e mai duplicabili, di esplorare e poi accettare quello spazio terapeutico, per poterlo internalizzare. La Dr.ssa Nicolò parla di “psicoterapia integrata” (Nicolò, Zavattini, 1992). In tale tortuoso percorso è utile e necessario indagare sul mondo fantasmatico famigliare, sull’ambiente in cui vive il paziente, condizione essenziale per poter iniziare il percorso.

A partire da casi clinici da lei trattati sia come analista sia come supervisore, l’autrice mette in discussione le classiche categorie diagnostiche, portando alla luce un punto di osservazione differente. La pratica clinica diventa la base per analizzare da una nuova prospettiva il fondamento teorico, anche con l’intento di rivederlo e rivisitarlo, sempre alla luce dell’esperienza professionale. Ogni singolo paziente ha la capacità inconscia di insegnare qualcosa al terapeuta.

La condizione patologica dei breakdown (Laufer M., Laufer E., 1986) ha radici molto profonde che riguardano conflitti psichici in riferimento al corpo e alla percezione che si ha di esso. L’adolescente può non tollerare i cambiamenti, bloccando quell’importante processo di integrazione dell’immagine che egli ha del suo corpo nella sua rappresentazione del Sé. Tali crolli, in età adulta, sarebbero considerati dei segni inequivocabili di psicosi e questo sottolinea la gravità e l’importanza del percorso analitico, senza il quale il giovane adulto rischia di precipitare nell’abisso di un mondo frammentato e angoscioso.

Dunque il corpo come filo conduttore delle spaccature evolutive, ben in evidenza in quelle nuove patologie adolescenziali come i self cutting, ma anche in disturbi alimentari come l’Anoressia Nervosa, in cui il soggetto infligge punizioni rigide e categoriche al proprio soma, con l’intento di trasformarlo in carne senza carne. Un’immagine corporea apparentemente definita che cela un’identità così fragile da rischiare il crollo. Lo stesso vale in quelle forme di transgender rappresentative di una volontà di assoluta negazione del soma e soprattutto della sessualità, un ritorno quasi all’indifferenziato, motivo di contenimento dell’angoscia provata dall’adolescente, meccanismo di difesa contro lo scompenso latente. Vi sono differenti modalità di esternalizzare come compenso dell’incapacità ad internalizzare. Tutto si complica anche per l’utilizzo spasmodico dei social, dove vige la regola che l’essere sta solo nell’accettazione dell’altro, altrimenti diventa non essere.

Punto nodale del testo è la relazione paziente-terapeuta dove fondamentale è il lavoro continuo sul transfert. Soprattutto ad inizio terapia, come afferma l’autrice, è necessario lavorare sull’acquisizione e il rinforzo della fiducia del paziente, che prima si fida e poi si affida. Da evitare le interpretazioni spesso scintilla di innesco di ulteriore angoscia per l’adolescente, incapace nel primo stadio di affrontarla, rischiando di esserne travolto. Durante l’analisi vi è la possibilità da parte del professionista di sentirsi tradito o ferito e dunque impotente di fronte ad una condizione particolarmente delicata e complessa. L’esperienza di controtransfert è continuamente da tenere sotto controllo, in quanto possibile, potente arma per prevaricare, confondere il paziente stesso che, in realtà, nel suo improvviso repentino cambiamento, ha solo la necessità di avvertire che qualcosa non funziona. L’analista non deve mai dimenticare che l’adolescente potrebbe utilizzarlo come oggetto nuovo di identificazione precedentemente non avvenuta. Ed è qui l’importanza del suo lavoro e la sua preziosa presenza come contributo di trasformazione e di riavvio della fase evolutiva sospesa, inceppata, interrotta.

 

Inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina e benzodiazepine nel trattamento del disturbo di panico: confronto tra i rispettivi effetti collaterali

Le benzodiazepine (BDZ) e gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI) si sono dimostrati entrambi efficaci nel trattamento farmacologico del disturbo di panico (DP).

 

Tuttavia, le linee guida sul trattamento favoriscono gli SSRI rispetto alle benzodiazepine, sulla base della convinzione che quest’ultime siano associate ad effetti collaterali più esacerbati rispetto a quelli indotti dagli SSRI (Quagliato et al., 2019). Le linee guida per il trattamento del disturbo di panico hanno favorito gli SSRI, rispetto alle benzodiazepine, per il trattamento a breve e lungo termine (American Psychiatric Association, 1998; Nielsen et al., 2012) per due specifiche ragioni: (i) un tasso di dipendenza superiore indotto dalle benzodiazepine rispetto agli SSRI, dopo un uso a lungo termine (Baldwin et al., 2014; Roy-Byrne et al., 2006) e (ii) un maggior rischio di sintomi da sospensione (Bandelow et al., 2008; Roy-Byrne et al., 2006). Alcuni autori sostengono che i sintomi chiave della dipendenza da benzodiazepine siano: tremore, vertigini, ansia e insonnia in caso di riduzione o interruzione del dosaggio (Ashton, 2005).

In effetti, possono verificarsi sintomi di astinenza e abuso da benzodiazepine, specialmente nel contesto dell’abuso di altre sostanze (Tvete et al., 2013). Tuttavia, risulta fondamentale distinguere tra una dipendenza fisiologica e l’adattamento naturale di un sistema corporeo a lungo abituato alla presenza di qualsiasi farmaco, incluse benzodiazepine e SSRI (O’Brien, 2005). Tuttavia, la sindrome da astinenza può essere controllata e risolta attraverso la riduzione della dose, il cambio o l’aumento del farmaco (O’Brien, 2005).

Esiste un sottogruppo di pazienti, con disturbo da uso di sostanze in comorbilità, con maggiori probabilità di presentare un aumento dell’assunzione di benzodiazepine e di mostrare una sindrome di dipendenza dalla riduzione del dosaggio o dall’interruzione della dose, con sintomi di astinenza da BDZ (Ait-Daoud et al., 2018). Tuttavia, possono comunque verificarsi reazioni di astinenza sia con BDZ, sia con SSRI (Belaise et al., 2012; Greenblatt et al., 1990; Nielsen et al., 2012; Schweizer et al., 1990). In entrambe le classi, questa ‘sindrome da astinenza’ è caratterizzata da sintomi come: ansia, pianto, vertigini, mal di testa, disturbi del sonno, irritabilità, mioclono, nausea, parestesia e tremore (Starcevic, 2012). La supposizione secondo cui le benzodiazepine diano più dipendenza degli SSRI è in gran parte spiegata da concettualizzazioni imprecise del concetto di dipendenza. Gli SSRI sono stati commercializzati come farmaci che non avrebbero causato dipendenza (Nielsen et al., 2012). Tuttavia, con il passare del tempo, è risultato evidente che gli SSRI avrebbero potuto causare la sindrome da sospensione (Rosenbaum et al., 1998). Questa sindrome è abbastanza simile alla sindrome da astinenza da benzodiazepine ed è caratterizzata da sintomi come: ansia, pianto, vertigini, mal di testa, disturbi del sonno, irritabilità, mioclono, nausea, parestesia e tremore (Nielsen et al., 2012; Starcevic, 2012). Gli SSRI con un’emivita più breve (es. paroxetina) sembrano essere maggiormente associati a sintomi da sospensione rispetto agli SSRI con un’emivita più lunga (es. fluoxetina); proprio come le benzodiazepine con un’emivita più breve (es. alprazolam) sono maggiormente associate a sintomi di astinenza rispetto alle benzodiazepine con un’emivita più lunga (es. clonazepam; Starcevic, 2009). A tal proposito, risulta importante ribadire che la presenza della sindrome da sospensione da SSRI non implica il fatto che tali sostanze diano dipendenza in senso stretto (Fava et al., 2015).

Le benzodiazepine, in assenza di abuso di altre sostanze, raramente inducono comportamenti quali brama per questi psicofarmaci, comportamento incontrollabile di ricerca di BDZ, attività finanziarie inficiate o problematiche di natura legale connesse al loro utilizzo (Nielsen et al., 2012; Starcevic, 2012). Tuttavia, le BDZ esercitano effetti immediati sui pazienti, rendendoli più propensi a rafforzare la somministrazione rispetto agli SSRI (Griffin et al., 2013). Pertanto, le benzodiazepine sono maggiormente soggette ad un uso improprio rispetto agli SSRI (Evans & Sullivan, 2014). Gli effetti collaterali più frequentemente riscontrati con gli SSRI sono: diaforesi, affaticamento, nausea, diarrea e insonnia; mentre le BDZ sono associate a costipazione, difficoltà di memoria e secchezza delle fauci. Entrambe le categorie di farmaci sono associate alla sonnolenza diurna. Gli SSRI possono comportare un maggior rischio di disfunzione sessuale rispetto alle benzodiazepine (Quagliato et al., 2019).

I sintomi, come nausea e diarrea, causati dagli SSRI sono comuni effetti transitori del trattamento a breve termine, che non durano più di 12 settimane (Khawam et al., 2006). Infatti, molti di questi sintomi sono correlati alla sindrome di attivazione degli SSRI che di solito si verifica all’inizio del trattamento (Khawam et al., 2006). Sebbene questa sindrome di attivazione possa ridursi nel tempo, potrebbe aumentare l’ipervigilanza e l’ansia nei pazienti con Disturbo di Panico acuto, contribuendo ad esacerbare l’intensità sintomatologica (Clark et al., 1997).

Allo stesso tempo, le benzodiazepine sembrano assumere una valenza protettiva in ​​sintomi quali: tachicardia, sudorazione, affaticamento e insonnia, consentendo una rapida riduzione dell’ansia e dei sintomi simpatici (Vemulapalli e Barletta, 1984). Infatti, alcune benzodiazepine (come il clonazepam) possono abbassare la pressione sanguigna (Dmitriev et al., 2001) e potrebbero contribuire al trattamento della fibrillazione atriale nei pazienti con Disturbo di Panico (Kahn et al., 2018). Tuttavia, le benzodiazepine sono allo stesso tempo associate ad un aumento del rischio di difficoltà di memoria, stitichezza e secchezza delle fauci: le alterazioni della memoria potrebbero in particolar modo inficiare la qualità di vita del paziente (Beracochea, 2006). Il deterioramento cognitivo indotto dalle benzodiazepine è, però, solitamente di lieve entità e non sempre evidente ai pazienti; tuttavia, può persistere in una certa misura anche dopo la sospensione del farmaco (Stewart, 2005).

In conclusione di tale estratto, è possibile affermare che molti psichiatri considerano la co-terapia tra SSRI e BDZ come trattamento di prima linea per il disturbo di panico acuto, in quanto compensa gli svantaggi di entrambe le categorie (Nardi et al., 2018). A tal proposito, risulta fondamentale ribadire che la linea di trattamento più efficace contempla anche l’integrazione con la psicoterapia, in particolar modo di matrice cognitivo-comportamentale, al fine di estinguere il circolo vizioso ‘paura della paura’ e di rendere il paziente consapevole dei meccanismi di mantenimento del disturbo (Clark et al., 1997).

 

Beck tra standardizzazione dei trattamenti e relazione paritaria col paziente – 100 anni di Aaron T. Beck – Parte 4

Il racconto di come la psicoterapia cognitiva di Beck appartenesse alla prima generazione di trattamenti psicoanalitici relazionali.

 

Il manuale fu elaborato da un gruppo di lavoro che collaborava pariteticamente scambiando in continuazione idee, esempi, simulazioni di interventi e osservazioni critiche. Questo metodo di lavoro si rifletteva sulla pratica clinica stessa. Fu una svolta radicale elaborare una terapia che fosse un’impresa collaborativa paritaria tra terapeuta e paziente. E paritario fu il rapporto tra Beck e il gruppo di lavoro, costituito da giovani specializzandi e non solo: c’erano anche borsisti post-dottorato, studenti di medicina e laureati in psicologia e chiunque altro bazzicasse il suo laboratorio. Anche il gruppo clinico che applicava la terapia era di giovani: a Rush e Khatami si aggiunse la dottoranda Maria Kovacs e poi altri due specializzandi. Questi furono i primi 5 terapeuti cognitivi formati da Beck e che dal 1° agosto 1974 resero operativa la clinica per la depressione a basso costo di Rush e Khatami, che prese il nome di “Mood Clinic”. Non basta, tuttavia. È importante sottolineare che Beck non solo ascoltava i giovani ma si serviva anche di consulenti esperti: Lester Luborsky, il ricercatore in psicoterapia più esperto alla Penn che in quegli anni stava elaborando il suo Core Conflictual Relatioship Theme e Karl Rickels, un esperto in psicofarmacologia.

Applicato giorno per giorno nella concretezza dell’attività della “Mood Clinic”, lo sviluppo del manuale andava avanti senza posa. Ogni settimana Beck si riuniva con i suoi collaboratori per una sessione di brainstorming. Beck voleva sapere tutto ciò che i suoi studenti apprendevano e osservavano in clinica, ogni ostacolo, ogni fallimento e successo con i pazienti. Li incoraggiava a chiedere direttamente ai pazienti se le formulazioni avessero o meno senso e di inoltrare le loro osservazioni a Rush che doveva tradurle in termini operativi e introdurle nel manuale. In questo modo si finiva per avere una nuova versione del manuale ogni 3 o 4 mesi. Nel giugno 1974 il manuale era di 46 pagine. Nel maggio 1975 era cresciuto fino a 89 pagine e in questa forma fu presentato all’incontro annuale della Society for Psychotherapy Research (SPR) nel 1975 a Boston insieme al dato sensazionale che la terapia cognitiva per la depressione era più efficace dei farmaci.

Il gruppo inoltre si evolveva. Rush, così importante ma non indispensabile, se ne andò nel luglio 1975, ma subentrarono Steven Hollon a coordinare l’attività clinica e Brian Shaw a continuare a scrivere il manuale, mentre la Mood Clinic diventava Center for Cognitive Therapy di Philadelphia, dove ancora adesso si fa terapia e formazione cognitiva. In seguito, diventarono membri del gruppo Gary Emery, Ira Herman e David Burns. Poi iniziarono ad arrivare gli psicologi clinici mentre fino a quel momento avevano prevalso gli psichiatri: Arthur Freeman (che era stato formato da Albert Ellis), Rich Bedrosian e Jeffrey Young, il futuro ideatore della Schema Therapy.

La strategia di Beck era dunque sviluppare una relazione paritaria con terapisti giovani e relativamente inesperti e sviluppare una squadra che poi sarebbe diventata un vero Istituto clinico e una scuola di formazione in uno stile che era opposto alla struttura gerarchica della psicoanalisi. Il manuale, quindi, fu in grado di ottenere due obiettivi apparentemente opposti: standardizzare gli interventi per una sperimentazione clinica e attirare giovani terapisti in un ambiente di scambio clinico e scientifico flessibile e paritario. Quei giovani specializzandi, se non avessero incontrato Beck, avrebbero presumibilmente adottato la doppia fedeltà -fino a quel momento imperante- alla psicoanalisi e/o a un’altra forma di psicoterapia (Hollon era rogersiano, ad esempio) e alla farmacoterapia. In una minuta del 1975 degli incontri del gruppo di Beck compare la considerazione che per i giovani specializzandi il training psicoanalitico fosse inutile per tentare la terapia cognitiva di Beck (Rosner, 2018). In base a quel documento possiamo indicare il 1975 come il definitivo momento in cui Beck e il suo gruppo diventano cognitivisti.

Infine, nel 1979 il manuale fu pubblicato (Beck, Rush, Shaw e Emery, 1979). Esso definiva le fasi della sua terapia in uno stile semplice e comprensibile, senza tecnicismi. Il manuale ebbe successo anche perché trasmise questa sensazione di cooperazione paritaria e anti-gerarchica nel rapporto col paziente. Il terapista cognitivo interagiva continuamente col paziente. Questa atmosfera democratica era poi intensificata dalla possibilità di testare scientificamente il modello; questa controllabilità scientifica però va intesa come controllabilità soprattutto clinica: connettere i sintomi ai pensieri espliciti significava soprattutto non fare interpretazioni lontane da quello che sosteneva il paziente ma fornire formulazioni di buon senso e comprensibili per il paziente che poteva dare o meno il suo assenso e su questo assenso il terapista basava la correttezza della formulazione. Non vi era alcuna pretesa di fornire interpretazioni ritenute vere nonostante fossero rifiutate dal paziente. E anche questo intensificava il sapore democratico della proposta di Beck. Infine, Beck chiedeva ai suoi collaboratori di utilizzare il manuale come guida e non come un libro di ricette, e questo nonostante la supposta standardizzazione del trattamento. Il manuale era solo un supporto, il nocciolo era nel continuo confronto clinico delle riunioni, delle simulate e della visione di sedute audio e videoregistrate.

L’incontro con Clark

Come abbiamo già scritto nella puntata precedente, a Oxford David Clark fu tra i primi ad adottare il manuale di Beck ancor prima che fosse pubblicato. Dopo la pubblicazione la collaborazione diventò strettissima. Beck e Clark si scambiarono visite sempre più frequenti finché nel 1986 Beck diventò visiting professor a Oxford. Il gruppo di Oxford ebbe il merito di favorire l’estensione del trattamento di Beck ai disturbi d’ansia.

Va tuttavia detto che dalla conversione di Clark e Beck non nacque dal nulla. Clark apparteneva al gruppo di lavoro che era cresciuto intorno a Michael Gelder, primo professore di psichiatria a Oxford dal 1969 e interessato, oltre che ai trattamenti farmacologici, al trattamento comportamentale mediante desensibilizzazione dell’agorafobia, pubblicando un articolo seminale nel 1966 con Isaac Marks (Gelder & Marks, 1966).

Tuttavia Gelder si rese conto rapidamente dei limiti dell’approccio puramente comportamentale e incoraggiò l’esplorazione del valore dell’aggiunta di strategie cognitive, che si concentravano sulla modifica dei pensieri, dell’attenzione e della memoria. L’Oxford Centre da lui guidato si distingueva per un’interazione tra teorie psicologiche, studi sperimentali e innovazione clinica. Nel corso degli anni, Gelder attrasse al Dipartimento di Oxford i futuri innovatori britannici nella terapia cognitivo comportamentale: David Clark primo fra tutti, e poi Anke Ehlers, Christopher Fairburn, Andrew Mathews, Paul Salkovskis, John Teasdale, Adrian Wells e Mark Williams. Si svilupparono forme di terapia cognitivo-comportamentale nuove e altamente efficaci, con procedure pratiche e descritte operativamente per il Disturbo di Panico, il Disturbo d’Ansia Generalizzato, il Disturbo d’Ansia Sociale, il Disturbo Ossessivo-Compulsivo, l’Ipocondria, il Disturbo Post-traumatico da Stress, la Sindrome da Fatica Cronica e la Bulimia Nervosa. Questi trattamenti cognitivo-comportamentali furono ampiamente adottati nella pratica clinica, sono oggi raccomandati dal National Institute for Health and Care Excellence e forniscono migliori risultati a lungo termine rispetto ad approcci alternativi come i farmaci antidepressivi. Questo terreno di coltura facilitò l’incontro tra Clark e Beck.

 

I millennials, la nuova generazione che investe

La generazione dei millennials è forse quella che ha fatto più parlare e discutere, rispetto alle altre, per molti aspetti differenti.

Daniela Renzi – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Una questione di spicco che li riguarda è relativa al mondo economico e finanziario. Si tratta della generazione più importante per le aziende di tutto il mondo, in quanto rappresentano la gran parte della forza lavoro, il loro reddito sta superando quello delle generazioni precedenti, hanno una maggiore possibilità di spesa e di condizionare il trend dei consumi globali.

Molte sono le recenti ricerche che stanno studiando le caratteristiche di questa generazione al fine di individuare interessi, bisogni e scopi della loro vita.

Millennial generation, generation Y, net generation, next generation, descrivono tutti la stessa fetta di popolazione, quella che va dai primi anni ottanta alla metà degli anni novanta, “la generazione del millennio”, dato che comprende chi è nato alla fine del XX secolo. Nel 2020 hanno tra i 24 e i 39 anni.

Essendo un range molto ampio di età, il Pew Research Center ha condotto uno studio per definire meglio questi termini, e uno dei criteri era quello di vedere che età avessero durante l’attacco alle torri gemelle dell’11 settembre 2001, per definire se erano grandi abbastanza da comprendere la portata del tragico evento. Per questo il suddetto studio definisce millennial chiunque sia nato tra il 1981 e il 1996.

In Italia i Millennials sono una minoranza rispetto ad adulti e anziani, parliamo di 11,2 milioni di persone (Pew Reasearch Center,2021), ma negli Stati Uniti sono una porzione importante della popolazione ed è questo che li spinge a condurre studi a sfondo finanziario per capire quali saranno le loro abitudini di investimento, anche perché viene considerata una generazione diversa dalle precedenti, con caratteristiche peculiari da approfondire.

L’obiettivo è quello di capire come attrarre i nuovi investitori, apparentemente più esigenti, e soddisfare così i loro bisogni finanziari. Per poterlo fare è necessario capire cosa si aspettano, come scelgono, quali sono per loro le priorità per definire la loro identità, i loro obiettivi futuri.

Molti sono i pregiudizi che li riguardano. Vengono descritti come una generazione di ignoranti, che vuole rompere totalmente i legami con i propri genitori, incapaci di andare avanti da soli, soprattutto economicamente e quindi incapaci di pensare alla stabilità economica, detti anche “Generation Me” alludendo all’egoismo che gli si attribuisce. Tutti miti fortunatamente sfatati. In particolare il dato relativo alla stabilità economica risulta falso, a seguito di uno studio condotto da Ramsey solution, secondo cui circa il 60% ha da parte dei soldi come fondo pensionistico che risulta essere quantitativamente uguale alla generazione subito precedente, i baby boomer, con la differenza che i millennials hanno ancora parecchi decenni davanti prima della pensione. Si dovrebbe dire, piuttosto, che non sono interessati alla stabilità economica, che hanno diverse priorità: un buon ambiente di lavoro, maggiori opportunità di crescita professionale e personale, ferie pagate ecc.

Le caratteristiche invece più evidenti e riscontrabili, riguardano il grado di istruzione, la maggiore multiculturalità rispetto alle generazioni precedenti e la piena familiarità con ambienti e tecnologie digitali, un insieme di fattori che li ha condotti a creare nuove forme di mercato e quindi di investimento (Inside Marketing, 2017)

Ma quali sono le caratteristiche psicologiche che meglio descrivono questa ampia generazione e la differenzia da quelle precedenti?

Uno studio si è posto l’obiettivo di confrontare le caratteristiche della generazione precedente con questa, proprio per vedere se la suddetta visione negativa è realistica o tipica di un bias generazionale riassumibile in una citazione di Socrate (469-399 a.c.): “La nostra gioventù ama il lusso, è maleducata, se ne infischia dell’autorità e non ha nessun rispetto per gli anziani. I ragazzi d’oggi sono tiranni. Non si alzano in piedi quando un anziano entra in un ambiente, rispondono male ai loro genitori”. Come se ogni generazione vedesse con un occhio preoccupato la nuova che nasce e si fa spazio nella società.

Sono stati presi in considerazione 31 costrutti psicologici esaminati tramite questionari self report su un campionamento basato sullo studio americano Monitoring the Future che comprende gli studenti più anziani delle scuole superiori, raccolti tra gli anni 70 e la metà degli anni 2000 attraverso una procedura di campionamento in tre fasi distinte per area geografica, selezione di scuole in ciascun area e selezione degli studenti di ogni scuola. Sono state prese in considerazione le seguenti aree:

  • egoismo, atteggiamenti individualistici, autostima
  • senso di impotenza e miseria, comportamento antisociale e soddisfazione nella vita
  • senso di felicità
  • fiducia interpersonale e cinismo
  • aspettative sulla formazione accademica, materialismo e atteggiamento nei confronti del lavoro
  • clima socio-culturale e importanza della religione

Ciò che è emerso è una sostanziale indifferenziazione dalla generazione precedente se non per qualche variabile. Una fra queste riguarda le aspettative relative al diploma e alla possibilità di specializzarsi, infatti negli anni 70 solo il 35% ha dichiarato che si sarebbe laureato mentre nel 2000 il 59,8% ha dichiarato che si sarebbe diplomato all’università e il 22,5% nel 2000 si sarebbe specializzato a fronte del 9,7% degli anni 70. Questo nonostante la ricerca ci dica che negli anni 70 gli studenti erano meno cinici e più fiduciosi rispetto all’utilità della scuola. Molto interessanti sono i risultati relativi alla pigrizia della nuova generazione in ambito lavorativo: anche secondo i millennials lavorare sodo è di fondamentale importanza per svolgere il lavoro desiderato, a cui si ambisce.

In conclusione, dall’intero studio è emerso che il soggetto medio della Generation Me non è notevolmente diverso da quello dei Baby Boomer, non sembrano essere più egoisti e appaiono altrettanto felici e soddisfatti. Sembrano avere profili simili ai giovani degli ultimi 30 anni. Tuttavia, le ultime generazioni hanno maggiori aspettative relative alla carriera scolastica e sono più cinici e diffidenti. Sembrano smentite quindi le preoccupazioni sull’attuale generazione, specialmente in termini di egoismo, autostima e livelli di miseria. Anche riguardo il narcisismo attribuito a questa generazione, pare ci sia uno scollamento tra la percezione globale e quelle che invece sono le caratteristiche personologiche del singolo individuo. Questo effetto si potrebbe attribuire a un pregiudizio di disponibilità che riflette individui particolari facilmente ricordabili piuttosto che riflettere la verità sull’intero gruppo generazionale. Ciò può portare la generazione stessa a un bias di conferma in base al quale gli individui richiamano selettivamente le informazioni coerenti con questo stereotipo. Questo spiegherebbe perché la stessa Generazione Me si descrive sotto un luce negativa (Kali H. Trzesniewski and M. Brent Donnellan, Rethinking ”Generation Me”: A Study of Cohort Effects From 1976−2006 , Perspectives on Psychological Science 2010).

In studi più recenti emerge invece anche una maggiore assertività e maggiore autostima rispetto alle generazioni passate (Twenge, Carter e Cambell, 2017).

Una generazione spesso stigmatizzata in negativo, descritta rispetto ai baby boomer come più materialista, egoista, svogliata, arrogante ma anche più esperta di tecnologia, a differenza della generazione precedente che invece appare più rispettosa, orientata al lavoro, attenta alla comunità, più istruita e attenta ai temi etici.

Non è facile essere giovani negli anni della crisi (e post). Il contesto in cui vivono limita la loro possibilità di spensieratezza. Si trovano in un mondo che, se da una parte esalta, in quanto costituito da molteplicità di prodotti nuovi e originali, dall’agevolazione rispetto al passato, dallo svolgere le attività quotidiane attraverso le piattaforme on-line, dalla maggiore accessibilità a informazioni, prodotti e servizi e dalla possibilità di un contatto costante con i pari grazie ai social, dall’altra è caratterizzato però dalla consapevolezza della crisi economica che costringe a prudenza e autocontrollo; la disoccupazione, il reddito incerto, una iper stimolazione in cui è più difficile orientarsi. Una generazione, rispetto alla precedente, limitata nella possibilità di mettersi in gioco e costretta ad essere quindi più cauta.

Uno studio recente condotto pre e post covid ha messo in evidenza una caratteristica peculiare di questa generazione, ovvero una resilienza e determinazione che li differenzia dalle generazioni precedenti. Molti millennials hanno perso il lavoro durante la pandemia, a molti altri sono state ridotte le ore di lavoro, mentre alcuni hanno lavorato più ore senza un aumento retributivo. Solo un terzo dei millennials e della generazione Z (nati fra il 1995 e il 2010) che ha partecipato al sondaggio, non ha avuto ripercussioni lavorative a seguito della pandemia.

Nonostante il sondaggio dell’anno prima avesse messo in risalto un certo grado di pessimismo e disagio in questa generazione, la pandemia non sembra aver esacerbato questi sentimenti. Anzi sono emersi maggiore ottimismo in relazione alla questione ambientale, un forte impegno per la responsabilità finanziaria e il risparmio (Deloitte Global Millennial Survey, 2020).

Secondo un’analisi di una banca americana del 2020, i millennials sono buoni risparmiatori ma niente a che vedere con quanto riuscivano a mettere da parte i loro genitori o i nonni. Infatti questa nuova generazione comincia a pensare alla pensione già all’età di 24 anni, una chiara inclinazione di come iniziano a pensare e programmare il proprio futuro, del quale non hanno una visione ottimistica (Angelo Valente, Marco Casanova, 2021, Wall Street Italia).

Sembra che questa generazione, sopravvissuta a sfide economiche e sociali senza precedenti, abbia sviluppato una gran forza di vedere opportunità anche nell’oscurità del momento che sta vivendo. Una grande capacità di resilienza. Infatti, non spera solo che emerga un mondo migliore alla fine della pandemia, ma vuole essere alla guida del cambiamento.

È emerso anche un dato molto interessante riguardo ai livelli di stress provati da questa generazione pre e post covid evidenziando così delle nuove possibili strategie che stanno considerando per affrontare meglio il futuro. Questo in relazione al lavoro, alle loro finanze e gli investimenti futuri ma anche rispetto a ciò che è possibile fare per contrastare i danni causati dal cambiamento climatico con una maggiore responsabilità rispetto al benessere del pianeta.

Entrambe le generazioni hanno affermato che faranno un grande sforzo per sostenere le aziende locali e non esiteranno a penalizzare le aziende i cui valori sono in conflitto con i propri.

Dai risultati della ricerca pre covid, risultavano livelli di stress molto alti in questa generazione, a differenza dei successivi che invece mostrano un calo.

Quindi possiamo dire che prima del covid questa generazione era estremamente preoccupata, della propria salute, del benessere per le proprie famiglie, per le prospettive lavorative e per il proprio futuro finanziario.

Ma la pandemia ha costretto a un rallentamento della vita e questo ha permesso di riguadagnare terreno verso i loro obiettivi fondamentali. Uno fra questi è l’attenzione per la salute mentale che viene già ricercata a partire dal posto di lavoro.

Ci troviamo di fronte una generazione molto criticata perchè percepiti come più narcisisti, egoisti e sconclusionati, ma che allo stesso tempo è diventata fra le più resilienti e attente a temi sociali e ambientali, accantonando l’idea classica, delle generazioni precedenti, di risparmio e investimento, ma creandone di  nuove a partire dalle loro forze e fragilità.

 

Ci salva la vita, ma comunque è il Diavolo: i meccanismi di difesa disadattivi nei confronti dei mezzi medici contro il Covid–19

Mai come nelle altre epoche della Storia dell’Umanità, i mezzi medici e scientifici sono stati necessari per affrontare una pandemia come quella del Covid-19. Eppure essi sono ancora oggetto di scredito e di percezioni negative, spesso create da meccanismi di difesa male contestualizzati.

 

Grazie ad un lavoro indefesso di ricerca, le maggiori case farmaceutiche sono riuscite nel giro di un anno e mezzo a sintetizzare dei vaccini contro il Sars-Cov- 2, con l’obiettivo di raggiungere livelli di somministrazione funzionali ed ottimali (TPI; 2021).

Sebbene ora i vaccini siano disponibili, dimostrando quindi il ruolo fondamentale della scienza nella gestione della salute mondiale, le risposte scettiche dei No-vax non sono affatto diminuite.

Di fatto, come specifica l’Ansa in un articolo sulla web reputation dei DPI (2021), l’uso della mascherina continua ad essere percepito come una condizione di negazione delle libertà, tanto da avere come hashtag di maggior uso quello di “dittatura sanitaria”.

La recente news di un rave party di stampo No Mask a Maleo, nel Lodigiano, considerato un focolaio della variante Delta del virus (Rai News, 2021), ha ulteriormente accertato di fatto una strenua resistenza all’imposizione delle norme sanitarie da parte di alcuni gruppi di persone, anche in questa fase di riapertura.

Una delle risposte a questa resistenza disfunzionale la si trova in due fenomeni di difesa dell’ego, ovvero la negazione ed il complottismo.

Come spiega Silvia Bonino (2021), l’ego umano ha sviluppato degli autoinganni per rispondere alla coscienza della morte e della vulnerabilità del corpo, autoinganni che attualmente si sono acuiti a causa delle conseguenze della prima pandemia globale della storia.

Come indica la professoressa di Psicologia dello Sviluppo all’Università di Torino, la negazione, ovvero il rifiutare acriticamente le conseguenze dell’ambiente e della natura sul corpo e il complottismo, ovvero utilizzare ragionamenti astrusi per dare un senso ai paradossi dell’esistenza e dare la colpa di eventi negativi che impattano sulla vita della persona ad elementi terzi, sono meccanismi che danno benefici nel breve periodo, ma che risultano assai spesso essere di grave danno per il benessere mentale e psicofisico dei gruppi.

Infatti, come indica Bonino, benefici come il sentirsi potenti nei confronti dell’ambiente e/o sentirsi più intelligenti degli altri durano poco tempo, per lasciare spazio a comportamenti disfunzionali con conseguenze molto spesso pesanti, come la paranoia acritica (Reynold, 2021) e reazioni violente, come la “presa” del Congresso da parte di simpatizzanti repubblicani e del governo Trump, fra i quali molti hanno aderito alla teoria del complotto Qanon (Adams, 2021).

Concludendo, la soluzione adattiva più sana, come indica la precedentemente citata Bonino, è lavorare sulla paura stessa attraverso il permettere nuove soluzioni creative ed aiutare le persone ad adattarsi alle novità inevitabili che il Covid-19 ha instaurato, adoperando valutazioni concrete.

 

Ti insegno come io ho imparato (2020) di Filippo Barbera – Recensione del libro

Filippo Barbera, in Ti insegno come io ho imparato, opera una sorta di rivoluzione copernicana nell’approccio ai DSA: l’attenzione non si deve focalizzare su ciò che il disturbo impedisce di fare ma deve essere spostata sulle capacità che permettono di trovare la chiave capace di aprire quella porta chiusa a doppia mandata.

 

Ti insegno come io ho imparato è una guida scritta da Filippo Barbera pubblicata nel 2020 da Erickson. L’autore è oggi un insegnante, ma è stato uno studente con disturbi dell’apprendimento e, nonostante ciò, è riuscito con successo nel percorso scolastico. Si è laureato in Formazione Primaria e Psicologia e specializzato in Psicopatologia dell’apprendimento e nel Metodo Montessori. Oltre ad insegnare, Barbera, si dedica alla formazione dei docenti e cerca di rendere coscienti e partecipi gli operatori scolastici e le famiglie, di cosa significhi avere un Disturbo Specifico dell’Apprendimento (DSA).

Tali disturbi sono un gruppo di disabilità in cui compaiono difficoltà nell’acquisizione e utilizzazione della lettura (dislessia), della scrittura (disgrafia, disortografia) e del calcolo (discalculia) in bambini con intelligenza nella norma. Un sintomo li accomuna tutti: l’impotenza appresa, cioè il convincersi che non si è capaci ad imparare. Questo vissuto è responsabile di un abbassamento dell’autostima e della comparsa di alcuni sintomi comportamentali tipici dei bambini con DSA che possono divenire introversi o al contrario irrequieti e distratti (L. Castrucci, Biopills feb. 2020).

La pubblicazione di Ti insegno come io ho imparato giunge dopo quella di Un’insolita compagna: la dislessia (Cleup, 2013), un romanzo in cui l’autore narra i sentimenti, le frustrazioni e le strategie che bambini e ragazzi con DSA giornalmente sperimentano e che egli stesso ha sperimentato. È preceduta anche dalla pubblicazione di Con-pensare i DSA (Cleup, 2014), una guida per gli insegnanti scritta con lo scopo di sensibilizzare e far conoscere le caratteristiche dei DSA.

Un concetto lega i tre libri pubblicati da Filippo Barbera: “i DSA non sono porte murate ma porte chiuse a doppia mandata, si tratta di trovare la chiave giusta per aprirle”.

Con Ti insegno come io ho imparato, Barbera, permette al lettore di vedere come funziona la mente e l’apprendimento di chi ha un DSA. L’autore conosce e descrive perfettamente ciò che ha vissuto in prima persona, fa comprendere al lettore, in modo chiaro, quali sono le difficoltà da superare e le strategie da mettere in campo per poter raggiungere l’obiettivo, anche quello di poter divenire un insegnante nonostante si abbia un DSA. Il pensiero che ispira questa guida è quello legato alla necessità di smantellare gli stereotipi ed andare oltre le etichette. E’ fondamentale sviluppare il potenziale di apprendimento che ogni persona possiede. In quest’ottica non può essere sufficiente limitarsi a fornire misure compensative o dispensative agli alunni con DSA. Ogni bambino, ogni ragazzo deve poter trovare una strategia che gli permetta di arricchire l’esperienza dell’apprendimento.

Ti insegno come io ho imparato affronta con rigore le tematiche riguardanti i DSA, il linguaggio utilizzato e gli schemi proposti dall’autore rendono la guida altamente fruibile.

Filippo Barbera opera una sorta di rivoluzione copernicana nell’approccio ai DSA: l’attenzione non si deve focalizzare su ciò che il disturbo impedisce di fare ma deve essere spostata sulle capacità che permettono di trovare la chiave capace di aprire quella porta chiusa a doppia mandata.

Le recenti ricerche nel campo della didattica sostengono la visone di Barbera. Attualmente un progetto di ricerca, condotto dall’Università di Bolzano in collaborazione con l’Università di Torino, “BECOM-IN: diventare insegnante con disabilità o DSA”, si sta occupando di queste tematiche.

 

Il Disturbo Borderline di Personalità e il rischio di compliance sessuale

Il disturbo borderline di personalità (BPD) è caratterizzato da un’instabilità emotiva che pervade molteplici ambiti (American Psychiatric Association-APA, 2013).

 

Il criterio diagnostico più rilevante riguarda gli sforzi frenetici per evitare un abbandono reale o immaginario (APA, 2013) ed evidenzia la probabilità che questi individui possano mettere in atto comportamenti disfunzionali che potrebbero comportare una maggior probabilità di essere vittime sessuali di un partner. Difatti, è stato dimostrato che le donne con tratti di disturbo borderline di personalità sono maggiormente a rischio di subire abusi sessuali (Young & Furman, 2008).

Naturalmente, la responsabilità dell’abuso ricade sull’autore, ed è importante identificare e comprendere i fattori che portano alla perpetrazione della coercizione sessuale. Tuttavia, Few e Rosen (2005) hanno sottolineato che identificare le caratteristiche delle vittime è necessario al fine di comprendere i fattori che aumentano i suddetti rischi.

Quindi, sarebbe utile conoscere in quali circostanze le persone con tratti di BPD hanno una maggior probabilità di essere sessualmente compiacenti e, osservando più da vicino l’associazione tra i tratti del disturbo borderline di personalità e la compliance sessuale, una più acuta sensibilità all’abbandono potrebbe essere il tratto specifico che influenza questa associazione.

Per compliance sessuale si intente la volontà di una persona di impegnarsi in rapporti sessuali non realmente desiderati (Katz & Tirone, 2010). Nelle relazioni sentimentali, le persone con tratti di disturbo borderline di personalità possono idealizzare il loro partner e richiedere la sua attenzione in un dato momento, successivamente però, potrebbero svalutarlo ritendendolo poco premuroso (APA, 2013). I periodi di svalutazione avvengono tipicamente in risposta a un rifiuto reale, che determina la paura dell’abbandono (Gunderson, 2011). Questo timore incrementa le disfunzioni relazionali e ciò vale sia nei campioni clinici che in quelli della comunità (Hill et al., 2011). Le persone con tratti di BPD possono mettere in atto sforzi frenetici per evitare il rifiuto impegnandosi in azioni impulsive, come l’esplicitazione di comportamenti sessuali indesiderati (Bouchard et al., 2009). La conformità sessuale, a sua volta, determina ulteriori conseguenze nefaste nei rapporti. Per esempio, essere sessualmente accondiscendente comporta un aumento dei livelli di cortisolo che, a loro volta, incrementano lo stress (Hartmann & Crockett, 2016). Inoltre, essere sessualmente accondiscendenti con lo scopo di trattenere un partner comporta una diminuzione della soddisfazione relazionale (Impett et al., 2010).

A causa di una maggiore sensibilità alla perdita di un partner, dunque, le persone con tratti di disturbo borderline di personalità possono essere più sessualmente compiacenti, attuando tale comportamento come una strategia utilizzata per mantenere la relazione. Va da sé che le persone che temono l’abbandono possono avere difficoltà a stabilire e far rispettare chiari confini nell’attività sessuale.

Willis e Nelson-Gray (2017) hanno condotto uno studio semi-sperimentale con l’obiettivo di indagare la relazione tra timore dell’abbandono, tratti borderline e compliance sessuale. Manipolando sperimentalmente la paura dell’abbandono, gli autori si sono proposti di identificare quale fosse il fattore responsabile dell’associazione tra i tratti del disturbo borderline di personalità e la compliance sessuale (Bouchard et al., 2009). Naturalmente, per ragioni etiche, è stata valutata una compliance sessuale ipotetica.

Per quanto riguarda la manipolazione, i ricercatori hanno riferito ai partecipanti che, sulla base delle loro personalità, vi fosse una scarsa – o una forte – affinità con il loro partner. Primariamente essi hanno ipotizzato che i tratti del BPD sarebbero stati significativamente correlati con l’ipotetica compliance sessuale. Ulteriormente, hanno supposto che la paura dell’abbandono, indotta sperimentalmente, avrebbe interagito con i tratti del disturbo borderline di personalità ed avrebbe predetto la compliance sessuale ipotetica. In particolare, i ricercatori hanno ipotizzato che l’associazione tra i tratti del BPD e la compliance sessuale sarebbe stata più forte per i partecipanti nella condizione di scarsa affinità.

Allo studio hanno preso parte 130 donne, impegnate in una relazione da almeno due mesi.

È stato dimostrato che le donne con tratti BPD più elevati possono essere portate ad impegnarsi in atti sessuali indesiderati, in particolar modo quando percepiscono una minaccia o un potenziale abbandono da parte del loro partner. Questi risultati possono indicare che le persone con tratti BPD più elevati sono più propense a conformarsi alla coercizione sessuale, probabilmente per evitare conseguenze negative come la dissoluzione della relazione. Questo risultato giustifica i “frenetici tentativi di evitare l’abbandono” spesso messi in atto da coloro i quali presentano alti tratti di disturbo borderline di personalità (APA, 2013). Va da sé, però, che essere sessualmente accondiscendenti per evitare conseguenze negative, tende a provocare molteplici ripercussioni. A conferma di ciò, Muise, Impett e Desmarais (2013) hanno scoperto che mettere in atto comportamenti sessuali al fine di evitare conseguenze negative, prevedeva una diminuzione della qualità delle relazioni e del desiderio sessuale.

È importante ricordare che lo studio è stato effettuato su un campione non clinico. Le persone con una diagnosi certa di disturbo borderline di personalità avranno dunque una maggior probabilità di percepire una minaccia relazionale e, di conseguenza, potrebbero essere maggiormente a rischio di essere vittime di coercizione sessuale da parte del loro partner. Il trattamento d’elezione per il BPD è la terapia dialettica del comportamento (Dialectical Behavioral Therapy – DBT), che tratta la disregolazione emotiva e i comportamenti correlati ad essa (Kliem, Kröger, & Kosfelder, 2010). In una versione della DBT indirizzata agli autori di violenza domestica, Fruzzetti e Levensky (2000) hanno indicato la necessità di prendere in esame il comportamento sessuale problematico.

Alla luce dei risultati del presente studio, affrontare i comportamenti sessuali problematici dovrebbe essere parte integrante della DBT, al fine di prevenire l’aumento dei tassi di vittimizzazione sessuale che le donne con diagnosi di BPD spesso sperimentano (Young & Furman, 2008).

Al contempo, secondo gli autori, il trattamento dovrebbe anche mirare a far sì che questi soggetti siano in grado di gestire in maniera funzionale la possibilità di un potenziale abbandono, affinché essi non siano portati ad impegnarsi in attività sessuali indesiderate. Inoltre, i risultati potrebbero determinare la necessità di coinvolgere all’interno della terapia anche i partner. Aumentando la consapevolezza di questi ultimi rispetto ai comportamenti sessuali che potrebbero essere messi in atto di fronte alla percezione di una minaccia relazionale, si potrebbe far sì che i partner delle donne con disturbo borderline di personalità mostrino una maggiore sensibilità rispetto a questa propensione, evitando di convincerle ad impegnarsi in attività sessuali indesiderate.

 

Beck e la manualizzazione della terapia cognitiva – 100 anni di Aaron T. Beck – Parte 3

Il racconto di come lo psicoanalista Beck creò il suo manuale insegnando la psicoterapia cognitiva a un gruppo di studenti

 

Nel 1973 alla Penn State University di Philadelphia uno specializzando in psichiatria del secondo anno di nome John Rush seguì il corso di Beck dove si insegnava quella cognitive therapy descritta -lo abbiamo già scritto- in una rivista che si chiamava “Behaviour Therapy”. Rush faceva parte di quel gruppo di giovani psichiatri a cui abbiamo accennato, giovani psichiatri interessati al comportamentismo e che si radunarono intorno a Beck. Rush si innamorò della terapia cognitiva ed era convinto che fosse più efficace della psicoanalisi, dei farmaci o dell’esposizione comportamentale. Lui e un collega specializzando, Manoocheer Khatami, avevano recentemente aperto uno sportello clinico a basso costo per la depressione nel campus della Penn State University e chiesero a Beck di supervisionarli in terapia cognitiva.

La cosa strana era che, in base alle testimonianze, il termine “terapia cognitiva” c’era e non c’era. Eppure, si era già negli anni ’70 e Beck era lì a fare quella sua terapia che in alcune pubblicazioni era stata chiamata terapia cognitiva ma che, a dire di Beck, ora era un tipo di psicoanalisi ora di comportamentismo, descritta in alcune pubblicazioni, ora su giornali psicoanalitici e ora su giornali comportamentali. Forse certe contrapposizioni erano meno accentuate di adesso, fatto sta che questa psicoanalisi di Beck senza lettino e con compiti a casa comportamentali attirò questi giovani specializzandi che sembravano non avere intenzione, a differenza di Beck, di intraprendere un’analisi personale per diventare terapeuti. Questi giovani possono ricordare i primi cristiani non ebrei: frequentavano un gruppo di ebrei/cristiani, che erano circoncisi e che obbedivano a tutti i precetti ebraici ma che avevano deciso di non obbligare i non ebrei a fare lo stesso. Allo stesso modo Beck, come San Paolo, continuò a sentirsi cognitivista/psicoanalista ma non obbligò i suoi accoliti a fare un’analisi personale, permettendo loro di essere solo cognitivisti.

Beck insegnò il mestiere a questi allievi e in cambiò ricevette la patente di efficacia per il suo modello. Da chi? Fu merito del giovane John Rush, che aveva appreso la metodologia dei trial randomizzati per le sperimentazioni sui farmaci da un altro professore della Penn, un altro psichiatra sudafricano di nome Joe Mendels, ed ebbe l’idea geniale di applicare la stessa metodologia alla psicoterapia. Rush sapeva come misurare il livello di gravità psicopatologica tramite le interviste strutturate e come distribuire casualmente i pazienti, mandandoli in psicoterapia cognitiva o farmacoterapia anti-depressiva. Il problema che rimaneva era: come rendere la terapia cognitiva di Beck qualcosa che poteva essere somministrata in maniera affidabile e controllabile come se fosse un farmaco, ovvero in una forma ragionevolmente simile in tutti i pazienti che dovevano riceverla? Insomma, Rush aveva bisogno di standardizzare questa terapia cognitiva di Beck ed escogitò un piano: occorre descrivere ancora più dettagliatamente quello che Beck sta insegnando a loro e trascrivere tutto in istruzioni operative e chiare. Questo era il contesto in cui emerse il manuale di Beck.

Una serie di brain storming e discussioni cliniche tra Beck e i suoi specializzandi portò alla stesura di un primo schema che fu ultimato il 12 ottobre 1973, una bozza di protocollo per la terapia cognitivo comportamentale della depressione di quattro pagine con definizioni operative delle tecniche di accertamento e ristrutturazione dei pensieri depressivi distorti (Rosner, 2018). Poche settimane dopo Beck, sempre grazie alla capacità di scrittura operativa di Rush, generò una versione ampliata e poi la applicò alla supervisione di un caso singolo trattato e pubblicato da Rush e Khatami (Rush et al., 1975).

Questa versione ampliata divenne il manuale, che si rivelò un potente veicolo per pubblicizzare la terapia cognitiva e che in breve tempo diventò il primo esempio di terapia replicabile e al tempo stesso clinicamente applicabile, a suo agio sia nei laboratori delle università che nelle stanze dei clinici. Al di là delle teorie, il manuale insegnava ai comportamentisti come concettualizzare e trattare i pensieri depressivi, facendoli uscire dai limiti dell’esposizione comportamentale. E, al di là della ricerca, il manuale diventò presto un oggetto di desiderio, tanto che molti erano incuriositi non solo dai risultati della ricerca, ma forse ancor di più dalla nota a piè di pagina che accennava al manuale nel famoso l’articolo che annunciava i risultati del loro modello (Rush, Beck, Kovacs e Hollon, 1977). David M. Clark, uno psicologo appartenente a gruppo di ricerca sulla terapia comportamentale di Oxford, adocchiò quella nota in margine e riuscì a procurarsi una copia del manuale perché Beck aveva fatto sapere che era possibile farsene mandare una copia ciclostilata in cambio di un assegno semplicemente scrivendogli, mossa che, ricorda Clark, “era geniale da parte di Tim (Beck)”. Clark mise insieme un gruppo di persone e pagarono un vaglia internazionale, cosa difficile da fare a quei tempi, e ne ordinò dieci copie. Di colpo, Clark e i suoi amici, tra i quali c’era Paul Salkovskis, acquistarono prestigio e popolarità nel dipartimento universitario perché avevano il manuale di Beck. Lo ricevettero, lo diffusero e iniziarono a usarlo, con risultati concreti e immediati.

 

Come la struttura di una canzone determina le emozioni e il ruolo delle aspettative

Canzoni ed emozioni: stiamo per iniziare ad ascoltare una canzone, immaginiamo sia una canzone presa a caso, che non conosciamo. Partono le prime note e nel nostro cervello si attiva l’amigdala, la sentinella delle nostre emozioni, che con il sistema limbico produce una reazione allo stimolo uditivo che ci ha raggiunti.

 

A questo punto il nostro cervello cataloga la musica che ascoltiamo in base a due elementi principali: il ritmo e le note. Questi elementi sono in grado di determinare il tipo di emozione che ci verrà trasmessa.

Canzoni ed emozioni: il ruolo del ritmo

Il ritmo determina la velocità della musica, viene misurato in battiti al minuto esattamente come le pulsazioni del nostro cuore. Considerando che le nostre pulsazioni, in condizioni normali, possono variare tra 60 e 80 battiti al minuto (generalmente siamo tra i 70-72), ne consegue che un tempo con un ritmo inferiore ai 60 battiti avrà un effetto rilassante, sopra gli 80 battiti sarà invece attivante.

Agli estremi potremmo trovare un effetto “rattristante” per ritmi inferiori ai 30 battiti al minuto, mentre oltre i 110 avremo un ritmo veloce che coinvolgerà anche il movimento del corpo (come ad esempio può accadere con la musica dance). Un tempo veloce varia considerevolmente la dimensione dell’arousal, ossia la risposta del sistema nervoso ad uno stimolo, che dà luogo ad eccitazione e ad un acuirsi del sistema attentivo-cognitivo.

Canzoni ed emozioni: il ruolo delle note

Per quanto riguarda il ruolo svolto dalle note, senza addentrarci in un’analisi dell’effetto emotivo prodotto, che ai non addetti ai lavori risulterebbe complicata, possiamo limitarci a considerare come alcune note suonate insieme (accordi) o una dopo l’altra (melodia) vengono percepite come allegre o tristi in relazione a motivazioni che sono in parte culturali e in parte innate.

Semplificando, si può dire che le note risultano più gradevoli quanto più semplice è il rapporto fra la loro frequenza e questo dipenderebbe dal fatto che i suoni che originariamente erano ritenuti forieri di un pericolo incombente (pensiamo ai tuoni, alle frane, ai terremoti, alle esplosioni) presentavano frequenze casuali, complesse e disordinate.

Il nostro sistema nervoso si allerterebbe quindi nell’ascolto di questi suoni generando una sensazione sgradevole che ci mette in guardia contro un possibile pericolo.

Al contrario, i suoni più semplici non attiverebbero campanelli d’allarme e verrebbero quindi percepiti come più gradevoli.

Canzoni ed emozioni: cosa determina la nascita di un’emozione

All’interno di uno stesso brano il variare dell’intensità può mutare la nostra percezione e il livello della nostra emozione magari risultando inizialmente calmo, poi gioioso e infine malinconico. In questo contesto possiamo associare anche l’uso di accordi “in minore” o “in maggiore” che spesso compaiono all’interno di una stessa canzone con il preciso intento di cambiarne il pathos emotivo.

Dobbiamo dire che se le emozioni trasmesse dalla musica sono trasversali ai vari contesti culturali, pur con certe differenze individuali è possibile individuare una grammatica universale delle emozioni in musica.

Oltre a fattori intrinseci alla musica stessa, e oltre al nostro bagaglio culturale e di esperienze personali, le emozioni che la musica suscita possono dipendere anche da fattori esterni quali:

  • il condizionamento: è il più comune e deriva dal fatto che una musica possa essere associata ripetutamente ad eventi positivi o negativi;
  • il contagio emotivo è quel passaggio attraverso il quale l’ascoltatore percepisce le emozioni che l’esecutore vuole trasmettere e le mima internamente attraverso i “neuroni specchio”;
  • l’immaginazione visiva che riesce a far nascere emozioni facendo affiorare alla mente particolari immagini evocate dalla musica;
  • la memoria episodica entra in gioco quando l’ascolto di un brano fa riaffiorare un ricordo che colleghiamo ad una certa emozione, evocando un ricordo vengono automaticamente rievocate anche le emozioni ad esso collegate;
  • l’aspettativa è collegata all’emozione indotta dalla struttura del brano nel momento in cui questa smentisce, ritarda o conferma quello che durante l’ascolto ci si aspetta possa essere il modo in cui il brano proseguirà.

Aspettativa e “manipolazione”

Torniamo a parlare di aspettative. La canzone si sviluppa su un piano temporale: nell’istante in cui ascoltiamo non sappiamo cosa accadrà un attimo dopo e questo genera attesa.

L’attesa è fortemente legata all’emozione ed è frutto di un’elaborazione non cosciente; se così non fosse sarebbe difficile spiegare perché continuiamo a provare emozione anche nell’ascolto ripetuto di uno stesso brano. Un’elaborazione non cosciente del pezzo, al contrario, procede ad ogni ascolto a ricalcolare le attese in modo che la loro conferma o meno dia luogo all’aspetto emotivo del brano.

Mentre ascoltiamo si genera in noi un gioco di aspettative su come la canzone andrà sviluppandosi e il modo in cui procederà ci svelerà se la sua struttura avrà confermato le aspettative che ci eravamo creati oppure se ci avrà riservato delle novità che non avevamo previsto.

L’aspettativa dà luogo ad una tensione muscolare soggettiva che si risolve nel momento in cui il brano si svela trasmettendoci lo stimolo atteso. Questo ha l’effetto di ridurre sia l’attenzione che la tensione dell’ascoltatore. Se l’attesa viene rispettata, si verificherà un’emozione positiva, in caso contrario si potrà provare un senso di frustrazione o di sorpresa, o una combinazione delle due condizioni.

L’eccitazione provocata da ogni forma d’arte risiede proprio in questo, l’alternarsi di un’aspettativa e di una soluzione. Spesso chi compone canzoni gioca proprio su questo fattore, creando abilmente delle aspettative che poi, magari, decide di disilludere con un brusco cambio di direzione.

Meglio una conferma o l’effetto sorpresa?

In generale risulta più frequente che la musica pop tenda a darci risposte che ci aspettiamo e che confermano le nostre aspettative mentre altre forme musicali, come per esempio il jazz, usano più frequentemente soluzioni che possono risultare spiazzanti e magari per questo più affascinanti ad un orecchio musicalmente “più colto”.

Generalmente le canzoni che preferiamo nel loro andamento sonoro sono una via di mezzo tra la conferma delle nostre aspettative e l’effetto sorpresa. Sono quindi canzoni definite di “media complessità”, con un’incertezza moderata, dove ad uno svolgimento prevedibile si alternano sorprese.

Ma dobbiamo tenere conto anche di alcune sfumature che possono avere un certo ruolo: anche il livello di certezza o meno che raggiungiamo attraverso l’ascolto ha un suo peso. Pare infatti che se ci sentiremo quasi assolutamente sicuri di quale sarà la nota o l’accordo che seguirà, un’eventuale sorpresa ci provocherà piacere; al contrario, se ci sentiremo incerti su come il brano si svilupperà, proveremo più piacere nel non essere sorpresi da quel che accadrà successivamente.

La manipolazione delle aspettative

Non va dimenticato poi che la musica viene prodotta con uno scopo. Chi la compone vuole trasmetterci qualcosa, quindi la sua struttura, il contesto, le parole che la accompagnano mirano anche a manipolare le nostre aspettative contribuendo a dar vita ad una specifica emozione.

Tale “manipolazione” può essere definita positiva quanto più il pubblico ricettore ha propri strumenti per decidere se essere “manipolato”. In questo caso la capacità di manipolazione può diventare un dono, nel suo senso buono. Il rischio è che l’ascolto dei messaggi che arrivano attraverso le canzoni possa diventare una scappatoia per trovare soluzioni facili senza troppa fatica e senza spirito critico.

La capacità della musica di modellare e dirigere le coscienze implica una grande responsabilità civile ed educativa per chi fa musica. Un esempio? È stato rilevato che un ascolto protratto di una canzone, intorno alle cento volte, fa assumere come proprio il pensiero che questa esprime, con tutto quello che questo può comportare.

 

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