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Invidia del pancione. Una guida per riconoscere le proprie emozioni e affrontare la ricerca di un figlio (2021) di Beatrice Corsale

Invidia del pancione affronta le tematiche legate al percorso della PMA in modo empatico e professionale e fornisce diversi strumenti per gestire i turbamenti emotivi suscitati da ogni fase del percorso.

 

 La ricerca di un figlio non sempre si realizza nell’immediato e il momento dell’attesa del concepimento può essere vissuto come stressante, doloroso, spesso tanto difficile da gestire.

Nell’introduzione del libro l’autrice illustra come negli ultimi anni sempre più donne si sottopongono a procedure di Procreazione Medicalmente Assistita (PMA) o hanno ricevuto diagnosi di una condizione di infertilità. Ogni anno, infatti, molte coppie si rivolgono ai centri di PMA: il Ministero della Salute riporta che nel solo 2017, ad esempio, oltre 78.000 coppie si sono sottoposte a procedure di fecondazione artificiale.

Di fronte a questi dati le pagine del libro ripercorrono le varie tappe e le emozioni vissute dalla donna dai primi momenti di sconforto di fronte alla sensazione di impossibilità di poter diventare madre, alla tensione che precede e accompagna il prelievo ovocitario, ai più̀ frequenti malintesi nella coppia che si sottopone a PMA, al delicato momento dell’attesa dell’esito del trattamento e il doloroso confronto con gli insuccessi, fino alla realizzazione del desiderio di maternità.

Ogni tematica viene affrontata in modo empatico e professionale e fornisce alla lettrice diversi strumenti per gestire i turbamenti emotivi suscitati da ogni fase del percorso: ogni capitolo, di fatti, viene accompagnato da schede pratiche di auto osservazione e dalla proposta di esercizi mirati a gestire il momento che si sta affrontando. Sebbene la sequenza dei capitoli segua l’ordine con cui emergono le varie problematiche psicologiche durante un tipico percorso di PMA, la lettrice può scegliere di consultarli secondo la successione che preferisce, in base alle proprie esigenze o alla fase di PMA che sta affrontando.

 L’autrice, fin dalle prime pagine riesce a stabilire un contatto emotivo con chi legge attraverso un linguaggio non giudicante e promuovendo un atteggiamento di reale accettazione degli stati d’animo che si affrontano in questo percorso. Allo stesso tempo, propone una guida pratica con esercizi mirati ad aumentare la consapevolezza di sé e tecniche di gestione dei propri vissuti.

Un libro rivolto non solo a chi sta iniziando un percorso di PMA ma anche a tutte le donne che si sentono scoraggiate di fronte ai diversi tentativi che precedono lo scoprirsi in dolce attesa.

 

Resilienza e Salute Mentale: una prospettiva multisitemica

I professionisti della salute mentale della Seconda guerra mondiale sono stati i pionieri della ricerca inerente alla capacità umana di adattarsi con competenza a circostanze o eventi avversi della vita: la resilienza (Masten & Cicchetti, 2016).

 

Piuttosto che concentrarsi strettamente sulle caratteristiche proprie dell’individuo che contribuiscono al processo di resilienza, le spiegazioni socio-ecologiche definiscono la resilienza come un processo co-facilitato dagli individui e dagli ambienti all’interno dei quali essi nascono e si sviluppano (Ungar, 2011).

L’attenzione sulle complessità della resilienza ha elicitato nuove domande di ricerca e nuove implicazioni per la pratica clinica, come: “Quali fattori o processi promozionali e protettivi sono rilevanti? Per quali persone, in quali contesti?” (Ungar, 2019).

In effetti, appare necessaria una maggiore comprensione di ciò che potrebbe proteggere le persone dalla malattia mentale, in un mondo in cui almeno un adulto su cinque manifesta un disturbo mentale (Steel et al., 2014) e in cui un numero considerevole di bambini viene colpito in maniera affine (Polanczyk et al., 2015)

Purtroppo, i fattori e i processi promozionali e protettivi (Promotive and Protective Factors and Processes -PPFP), tipicamente associati a risultati positivi, vengono troppo spesso circoscritti a variabili psicologiche, come l’autoregolazione o le strategie di coping ma, in realtà, i PPFP possono essere distinti in interni o esterni all’individuo.

Al giorno d’oggi, i ricercatori concordano sul fatto che le influenze sistemiche contano almeno quanto i fattori individuali. A dimostrazione di ciò, Masten e Cicchetti (2016) hanno suggerito che “la resilienza di un bambino dipenda dal funzionamento e dall’interazione di molti altri sistemi, sia interni al bambino (sistema immunitario, sistema di risposta allo stress, ecc.), sia nelle relazioni o nella resilienza familiare, sia nei più ampi sistemi socioculturali ed ecologici in cui la vita e lo sviluppo di quel bambino avvengono” (Masten & Cicchetti, 2016). La resilienza in età adulta e in età avanzata dipende in egual misura da questi molteplici sistemi (Infurna & Luthar, 2018). In altre parole, le influenze sistemiche sono importanti per la resilienza durante l’intero corso della vita.

L’obiettivo della revisione sistematica presa in esame è stato quello di ampliare la comprensione dei sistemi interagenti che facilitano la salute mentale degli individui sottoposti a stress atipico.

La resilienza umana dipende da una serie di sistemi biologici, psicologici, sociali ed ecologici interagenti tra loro, come sottolineato dalle varie definizioni di resilienza emerse negli ultimi dieci anni.

A sostegno di questa prospettiva, in una revisione sistematica inerente i fattori moderatori della resilienza, che sono stati associati ad effetti positivi per la salute mentale dei bambini nonostante la loro esposizione a condizioni di abuso, differenti fattori individuali ed ecologici si sono dimostrati egualmente importanti (Fritz et al., 2018). A livello individuale, l’evidenza suggerisce che la rivalutazione cognitiva, un’alta tolleranza allo stress, una bassa soppressione delle emozioni e un attaccamento sicuro sono da considerarsi fattori di resilienza per un bambino vittima di abusi. A livello sociale, il supporto della famiglia allargata e le pratiche genitoriali positive potrebbero influenzare la resilienza. Inoltre, a livello comunitario, un elevato sostegno sociale determinerà dei risultati psicosociali e comportamentali.

La resilienza è stata associata anche ad influenze genetiche. In una delle poche revisioni sistematiche inerenti alle varianti genetiche che contribuiscono alla capacità biologica della resilienza psicologica, Niitsu e colleghi (2019) hanno individuato sei geni che sembrerebbero avere un ruolo nello sviluppo della resilienza.

Ulteriori studi hanno mostrato come l’ambiente urbano, naturale e dei servizi è fondamentale per la resilienza umana. Per esempio, uno studio condotto su soggetti anziani, residenti a Pechino, ha scoperto che la qualità del quartiere era significativamente legata al benessere psicologico. I fattori rilevanti includevano lo spazio pubblico e il numero di servizi disponibili (Zhang et al., 2018). Anche il preservare gli spazi naturali, all’interno di un ambiente urbano, può avere un effetto sulla resilienza individuale e collettiva, riducendo l’ansia e fornendo uno spazio per la riflessione e l’attività fisica (Van den Bosch & Ode Sang, 2017).

A dimostrazione degli effetti esercitati dal contesto e dalla cultura, gli studi hanno dimostrato che le comunità che si preoccupano di promuovere narrazioni culturali di forza e di leadership femminile, a seguito di episodi di violenza politica, contribuiscono allo sviluppo della resilienza a livello comunitario (Somasundaram & Sivayokan, 2013).

Altre ricerche hanno mostrato come anche altri fattori contestuali possono predire l’adattamento in condizioni di avversità, ma è importante che queste combinazioni vengano concettualizzate in modo differente per i giovani e per gli adulti (Theron, 2020).

Una descrizione della resilienza psicologica dovrebbe anche includere le variabili inerenti all’esposizione al rischio di un individuo, compresa la qualità delle esperienze avverse, la loro gravità e la rilevanza culturale delle sfide affrontate.

Sarebbe bene, dunque, considerare la resilienza non come l’obiettivo, ma come il mezzo per raggiungere risultati funzionali come la salute mentale.

Secondo gli autori, per sviluppare la resilienza, come primo passo, i clinici dovrebbero valutare l’esposizione al rischio e la disponibilità di PPFP.

Indipendentemente dal percorso di intervento, i clinici dovrebbero considerare le dinamiche contestuali, culturali del corso della vita. Difatti, gli interventi che si propongono di modificare solo un sistema – come un programma per migliorare il senso di autostima di un bambino a scuola – mostrano pochi effetti a lungo termine (Fenwick-Smith et al., 2018).

Quando all’interno dell’ambiente sociale di un paziente il cambiamento viene facilitato, i risultati sono migliori, rispetto agli interventi focalizzati esclusivamente su trattamenti psicofarmacologici o cognitivi.

Così facendo, la ricerca sulla resilienza sarà in grado di spostare il lavoro clinico dalla costruzione di un robusto individualismo verso interventi che creino una situazione di salute mentale positiva per gli individui provenienti da diverse condizioni sociali e che consentano ai soggetti di possedere risorse adeguate e supporti necessari al gestire le avversità nel migliore dei modi.

A tal fine, i professionisti della salute mentale avranno bisogno di lavorare in team multidisciplinari che includano professionisti che facilitino l’accesso ai supporti socio-ecologici protettivi, mentre si occupano dei disturbi. Così facendo, sarà più probabile costruire la capacità psicologica di cui gli individui necessitano per affrontare l’esposizione alle avversità ora e in futuro.

 

Eleanor Oliphant sta benissimo – La LIBET nelle narrazioni

Dalla lettura del romanzo bestseller Eleanor Oliphant sta benissimo di Gail Honeyman edito nel 2018, si ipotizza la concettualizzazione in termini LIBET della protagonista Eleanor.

La LIBET nelle narrazioni – (Nr. 17) Eleanor Oliphant

Attenzione: l’articolo contiene spoiler (ndr)

 

 Eleanor sta bene, anzi: benissimo. O almeno, questo è quello che si ripete da anni. In realtà, Eleanor non sta bene con la sua grossa cicatrice sul volto, con la sola compagnia della sua piantina Polly e costretta nei suoi rigidissimi piani semi-adattivi.

Il personaggio principale è Eleanor Oliphant, una ragazza di quasi trent’anni che vive da sola in un piccolo appartamento a Glasgow assegnatole da tempo dal servizio sociale; ha una laurea triennale in lettere classiche, ma lavora da nove anni come impiegata contabile in uno studio di graphic design della stessa città.

La vita della protagonista, come ci racconta lei stessa sin dall’inizio del romanzo, è scandita da una imperturbabile routine che si ripete nel suo quotidiano: dal lunedì al venerdì arriva in ufficio alle 8.30; durante la pausa pranzo di un’ora si siede nella saletta per i dipendenti dove, mangiando il suo solito sandwich, legge “da cima a fondo” il Daily Telegraph che compra però esclusivamente per fare le parole crociate crittografate riportate alla fine del giornale; lavora ancora fino alle 17.30 e poi prende l’autobus per tornare diretta a casa, tranne il venerdì, “la serata della pizza” giorno in cui Eleanor si ferma al “Tesco” per comprarsi “una pizza margherita, del Chianti e due bottiglie grandi di vodka Glen’s” che poi berrà durante il fine settimana aspettando l’arrivo del lunedì.

La vita routinaria di Eleanor è caratterizzata da pochissime interazioni con i suoi colleghi, con i quali sente di non aver quasi niente in comune se non il fatto di appartenere alla stessa specie: i meccanismi sociali convenzionali non le appartengono e fatica a comprenderli, preferendo la compagnia della sua pianta Polly. Eleanor va fiera della sua capacità di sapersela cavare da sola e ritiene di non aver bisogno di nessun altro, di essere totalmente completa e autosufficiente. Ogni mercoledì, però, la madre chiama dalla prigione in cui è detenuta per ricordarle quanto sia miserabile la sua esistenza.

Già dalle prime righe del libro possiamo iniziare a ipotizzare i piani semi-adattivi della protagonista: di tipo prescrittivo per la tendenza a controllare ogni aspetto della sua vita, dalle relazioni sociali alla routine giornaliera, dall’abbigliamento al taglio di capelli sempre uguali per arrivare al controllo emotivo; infatti lei, dice: “sta benissimo”. Il fine settimana, invece, quando rimane sola con i suoi pensieri e le sue emozioni impossibili da tollerare, emerge il piano immunizzante: Eleanor passa quei due giorni bevendo vodka in modo da sentirsi costantemente stordita e assopita.

 Una serie di eventi arrivano a turbare l’equilibrio di Eleanor: una sera, in un pub, assiste al concerto di un gruppo emergente e s’innamora a prima vista del frontman della band. Cominciando a fantasticare sull’idea di passare il resto della sua vita con lui, Eleanor programma con cura il giorno in cui si sarebbero nuovamente incontrati, certa che lui si sarebbe reso conto di non poter fare a meno di stare insieme a lei. Decide così di acquistare un computer, crearsi un account Twitter e aggiungerlo tra gli amici in modo da essere sempre aggiornata sulle date e i luoghi di esibizione della band. La lunga programmazione prevede, inoltre, il sopralluogo nel locale in cui avrebbe suonato il gruppo, un nuovo taglio di capelli, dei nuovi abiti e un pomeriggio in un centro estetico. Emergono ancora una volta i piani semi-adattivi della protagonista: il bisogno di idealizzare e fantasticare su una storia d’amore perfetta (piano immunizzante) e lo sforzo di agire in sicurezza controllando tutte le variabili (piano prescrittivo).

Un altro uomo entra nella vita di Eleanor, il collega di lavoro Raymond. I due si trovano casualmente a soccorrere un uomo anziano svenuto per strada e questo li porta ad approfondire il loro rapporto. Raymond, con i suoi modi di relazionarsi semplici ma gentili, nel tempo diventa un punto di riferimento per la protagonista e le offrirà diverse occasioni che, in chiave psicoterapeutica, possono essere viste come esperienze emotive correttive.

Dopo settimane di preparativi, finalmente Eleanor si sente pronta per incontrare il frontman, ma la serata non va come sperato e diventa lo sfondo del processo di invalidazione dei suoi piani semi-adattivi: resasi conto di aver solamente idealizzato il cantante e di aver visto in lui una persona completamente diversa da come l’aveva costruita nel suo immaginario, entra in contatto con il suo tema di indegnità e mette in atto una strategia immunizzante per allontanarsi dal dolore. Per giorni rimane chiusa in casa a bere alcolici. In quei momenti Eleanor si sente così come la mamma le ha sempre ricordato di essere: una persona senza un briciolo di valore, sbagliata, incapace di occuparsi di se stessa e degli altri, inetta, meschina e non meritevole di essere amata.

Da questa spirale di disperazione viene tirata fuori da Raymond, che entra dalla porta e comincia a prendersi cura di lei: le prepara dei pasti freschi, l’aiuta a lavarsi e a riordinare casa. È questo il momento in cui Eleanor si rende conto quanto sia necessario e piacevole affidarsi a qualcuno: dopo molti ripensamenti decide di intraprendere un percorso psicoterapeutico. Durante la terapia Eleanor prende consapevolezza di alcuni eventi traumatici del suo passato e riuscirà a dire addio a sua madre, questa volta per sempre. Circa diciannove anni prima, dopo ripetuti abusi psicologici e fisici, la madre aveva dato fuoco alla loro casa uccidendo se stessa e la figlia minore. Solo Eleanor era sopravvissuta e con lei i giudizi forti e fondanti della madre che avevano preso la forma delle chiamate del mercoledì.

 

Paura degli aghi: definizioni e trattamenti

Gli individui che soffrono di agofobia sono generalmente consapevoli dell’impatto negativo della loro risposta emotiva. L’ansia e l’agitazione possono essere estreme e chi ne soffre non riesce a controllare tali risposte.

 

La puntura venosa è spesso accompagnata da dolore e/o disagio e l’anticipazione di tale atto può provocare apprensione o ansia prima dell’evento. Per una parte della popolazione, tuttavia, la mera visione di un ago rappresenta una vera e propria fobia (Cook, 2016).

Una fobia è una paura persistente e irrazionale di un oggetto, un’attività o una situazione specifica che porta a un desiderio irresistibile di evitarla (American Psychiatric Association, 2013), tuttavia, la paura non è stata classificata come fobia fino al 1994 (Cook, 2016).

Con la possibilità di effettuare una diagnosi fu finalmente possibile offrire opzioni di trattamento. All’oggi, vengono utilizzati vari termini per descrivere la paura delle iniezioni, degli oggetti appuntiti o del dolore. La terminologia applicabile include l’aicofobia, una paura intensa o morbosa degli oggetti appuntiti o taglienti; l’enetofobia, una paura degli spilli e dei vaccini; la tripanofobia, una paura delle iniezioni e, l’algofobia, una paura intensa o morbosa del dolore (Cook, 2016).

La fobia degli aghi può essere vista da diverse prospettive: quella del paziente, del professionista e della società.

Gli individui che soffrono di agofobia sono generalmente consapevoli dell’impatto negativo della loro risposta emotiva.

L’ansia e l’agitazione possono essere estreme e chi ne soffre non riesce a controllare tali risposte. Questi individui possono provare un senso di fallimento e/o imbarazzo perché sanno che le loro reazioni non sono socialmente accettabili. La fobia può impedire loro di cercare l’attenzione medica, sia per la paura della procedura vera e propria, sia per l’imbarazzo, o per entrambe.

Il medico che prende in cura questa tipologia di pazienti si trova di fronte ad individui che potrebbero comportarsi in modo bizzarro. La loro risposta è considerata irrazionale e il professionista può essere giudicante e vederla con disgusto. Esasperato da una situazione che sta impattando su un’agenda fitta di impegni, il professionista può avere difficoltà nel fornire un’assistenza compassionevole. Il modo etico di affrontare la situazione è quello di trovare e attuare una soluzione che aiuti a ridurre la paura e l’ansia, nonostante il fatto che possa volerci più tempo. La preoccupazione sociale associata è correlata alle tendenze di evitamento dei pazienti. È improbabile che i malati si sottopongano a vaccini volontari, come il vaccino antinfluenzale, e possono anche rifiutare i vaccini obbligatori, fenomeno che, attualmente, si sta verificando.

Durante i suoi studi, Hamilton ha riconosciuto 5 sottogruppi di agofobia con eziologia differente, che verranno illustrati di seguito (Hamilton, 1995).

Il 50% degli agofobici vengono classificati come “aventi una risposta negativa ereditaria” rispetto agli aghi (Cook, 2016). Queste persone possono negare la paura degli aghi ma, al contempo, sperimentano cambiamenti nella frequenza cardiaca e nella pressione sanguigna e, nei casi più estremi, possono perdere i sensi. Hamilton (1995) ha teorizzato che la risposta sia stimolata da un gene che si è evoluto nel corso di anni; difatti, quattro milioni di anni fa, la maggior parte delle ferite erano determinate da oggetti appuntiti e, secondo l’autore, ciò ha contribuito allo sviluppo di un gene che è stato incorporato all’interno del nostro DNA. Egli riteneva che il gene fosse presente in tutti, ma che fosse generalmente represso. Tuttavia, il gene è dominante in un sottogruppo e la risposta è stimolata non appena viene percepito il potenziale di danno. Sono stati identificati altri quattro possibili meccanismi alla base delle intense risposte di paura alla vista di un ago.

Paura associativa

I soggetti in questo caso hanno una risposta appresa associata agli aghi che di solito include l’ansia anticipatoria. È probabile che queste persone abbiano vissuto un evento traumatico o che abbiano un parente che ha trasmesso loro la paura, a causa della propria esperienza negativa. L’ansia può essere estrema, tanto da portare in alcuni casi a sperimentare degli attacchi di panico.

Paura resistiva

In questo caso l’ago è solo una parte della paura. La risposta emotiva deriva per lo più dalla possibilità di essere controllati o trattenuti durante la procedura. La paura probabilmente è causata dall’aver vissuto un’esperienza traumatica associata agli aghi, incluso l’uso precedente di costrizioni, inganni o minacce. Al momento dell’atto, è probabile che i pazienti diventino persino violenti.

Iperalgesia

L’ago non è temuto in sé per sé, bensì è il tocco ad essere temuto. Questo fenomeno è secondario ad una sensibilità ereditata al dolore. In questo caso per i pazienti il dolore è insopportabile e non comprendono come qualcuno possa tollerare tali procedure. I livelli di ansia sono più alti e l’aumento della frequenza cardiaca e della pressione sanguigna più forti al momento della penetrazione dell’ago.

Vicario

Il sottogruppo della fobia vicaria dell’ago è considerato raro e, coloro che ne soffrono, possono sperimentare una risposta che viene provocata unicamente dal guardare un’altra persona che viene iniettata (Hamilton, 1995).

Rispetto alle terapie necessarie al trattamento delle suddette fobie, sarà bene considerare che l’intensità dell’intervento dovrà dipendere dalla gravità della paura del paziente. L’intervento psichiatrico è solitamente raccomandato se la paura determina una minaccia per la sicurezza del paziente, di chi se ne prende cura o del pubblico.

Ad ogni modo, ogni trattamento dovrà avere l’obiettivo di aiutare il paziente ad affrontare la situazione, motivo per cui gli interventi psicoterapeutici risultano essere il trattamento di elezione (Sokolowski, Giovannitti & Boynes, 2010), tra cui rientra il processo di desensibilizzazione, che talvolta prevede l’utilizzo di immagini, al fine di introdurre la procedura o, ancora, le terapie incentrate sulla percezione, che verificano il procedimento pianificato e riesaminano l’attrezzatura necessaria.

È bene tener presente che la percezione della paura di un paziente è simile alla percezione del dolore: entrambi suscitano una risposta personale basata su ciò che è reale per il paziente. Rendere una procedura spaventosa meno intimidatoria dovrebbe essere un obbligo professionale. La sfida più grande sarà riconoscere i pazienti la cui paura è pervasiva e sarebbe dunque necessario prevedere un piano di cura che si focalizzi sulla prevenzione e sul trattamento e che coinvolga l’intero team sanitario, affinché tale fobia non incida sul trattamento medico di questi pazienti.

 

I Disturbi del calcolo e del numero: modelli neuropsicologici, diagnosi, trattamento (2017) a cura di A. Biancardi, E. Mariani e M. Pieretti – Recensione del libro 

Il libro I disturbi del calcolo e del numero: modelli neuropsicologici, diagnosi, trattamento è stato pensato e realizzato per tutte quelle figure professionali che si accingono allo studio o a un aggiornamento professionale riguardo alle tematiche dello sviluppo e dell’apprendimento delle abilità matematiche in età evolutiva.

 

Il volume è stato curato da Andrea Biancardi (psicologo, psicoterapeuta e coordinatore del “Centro per l’Apprendimento Tassinari), Enrica Mariani (logopedista, pedagogista, dedita ad attività di clinica e di ricerca) e Manuela Pieretti (Logopedista, pedagogista e docente presso l’Università La Sapienza e Tor Vergata), edito da Erickson nel 2017.

Il libro è composto da sei capitoli ognuno creato grazie al contributo di professionisti specializzati e dediti da tempo nello studio, nella diagnosi e nell’abilitazione delle abilità matematiche. Tra gli autori troviamo: Luisa Girelli, Marco Zorzi, Franco Sella, Sara Caviola, Denes Szucs, Andrea Biancardi, Alice Ara, Enrica Mariani, Manuela Pieretti e Cristina Caciolo.

Questo testo presenta una buona suddivisione perché permette al lettore di approfondire le tematiche in modo graduale o di scegliere liberamente quale aspetto attenzionare rispetto al proprio livello di conoscenza dell’oggetto di studio.

Come si è provato a suggerire precedentemente, il testo presenta una disamina esaustiva dei disturbi del calcolo e del numero: dalle ricerche a modelli teorici ben fondati su evidenze scientifiche, da riferimenti diagnostici sul panorama italiano e internazionale come le due Consensus Conference Italiane (2007, 2011) e il DSM-5 a principi cardine di abilitazione e potenziamento delle abilità matematiche.

Inoltre, il volume è ricco di raccomandazioni e indicazioni sul come destreggiarsi e districarsi in un campo dove la ricerca scientifica è ancora nel pieno del suo sviluppo.

Ogni autore, quindi, non si limita a presentare dati e teorie ma mira a supportare ed evidenziare quali sono i modelli teorici validi, i riferimenti e gli oggetti di indagine di un clinico e, ancora, gli strumenti e gli approcci che può avere a disposizione un professionista che si accinge a fare abilitazione.

Nell’intraprendere la lettura del volume, il percorso inizia con un’introduzione storica della ricerca sulle abilità matematiche e sui disturbi correlati che avvia i primi passi negli anni ’80 del secolo scorso e che fin dall’inizio si imbatte nelle problematiche metodologiche dello studio delle abilità numeriche e nella difficoltà di una definizione terminologica, di individuazione dell’eziopatogenesi e dei correlati neuro-funzionali, la loro affermazione come evidenza scientifica e la conseguente applicazione clinica.

Successivamente, da una contestualizzazione e presentazione dello stato dell’arte della ricerca, il volume si concentra a esaminare i sistemi alla base delle abilità numeriche e i meccanismi cognitivi coinvolti in traiettorie di sviluppo tipico e atipico, così da evidenziare quali potrebbero essere le componenti cognitive deficitarie che un bambino con difficoltà nell’ambito della matematica può presentare.

Questo volume, inoltre, non tralascia argomentazioni che potrebbero sembrare marginali ma si occupa di esaminare l’impatto che possono avere le componenti emotive e le differenze di genere sulle abilità numeriche. Anche in questo caso ci districheremo tra ipotesi ed evidenze scientifiche che solleciteranno l’emergere di ulteriori spunti di riflessione sull’approccio culturale e scolastico alla matematica.

Particolarmente apprezzabile è la trattazione accurata degli aspetti inerenti le linee guida individuate ed emesse dalle due Conferenze di Consenso (2007, 2011) a cui un clinico dovrebbe fare riferimento e che Andrea Biancardi e Alice Ara definiscono come

documenti che rappresentano lo sforzo dei clinici e dei ricercatori italiani di concretizzare quanto la ricerca internazionale ha prodotto sui disturbi specifici di apprendimento per orientare verso una corretta e aggiornata pratica clinica. 

Se cercate un testo che racchiude chiarezza, esaustività e novità nel campo della cognizione, abilità e apprendimento numerico potreste includere la lettura di questo testo che, anche successivamente, potrebbe ricoprire il ruolo di bussola tra aspetti teorici e pratici.

Lipstick

Il rossetto non è che una parte del trucco del viso e, come tale, può assumere significato in base al contesto, rappresentando uno specchio dell’emotività della persona cosicché, se portato all’eccesso, può fungere da vera e propria maschera.

 

 ‘Rossetto o lucidalabbra?’ Quante volte noi uomini ci siamo fatti questa domanda mentre, in quella classica situazione di stupor in cui ti possono dire veramente di tutto, tanto non capiresti, osservavamo le labbra inumettate delle nostre compagne. Eh sì, rientra tra quelle situazioni che dire ipnotiche è veramente poco!

Ma perché gli attribuiamo così tanto valore? Cosa rende così magico il tutto?

L’utilizzo del rossetto nasce in Mesopotamia (Schaffer, 2006) ma è presente in molte culture, dall’India (Valdesolo, 2006) all’antico Egitto (Mackay, 1937), raggiungendo popolarità nell’Inghilterra della regina Elisabetta I per divenire fenomeno di costume dopo la seconda guerra mondiale grazie alla sua promozione attraverso l’industria cinematografica.

A darne una spiegazione erudita circa il suo utilizzo è Desmond Morris, noto etologo britannico, che ne argomenta nel suo famoso libro La scimmia nuda (1967) partendo, come suo solito, da concetti legati all’evoluzione. L’acquisizione della stazione eretta avrebbe fatto sì che il richiamo erotico dai genitali si sia spostato sulla bocca cosicché le labbra non sarebbero altro che un richiamo delle piccole labbra genitali, un ‘eco genitale’ reso ancora più vivo dal colore rosso.

Il trucco, esaltando la coloritura, la carnosità e l’umettatura delle labbra fungerebbe nient’altro che da amplificatore di questo segnale erotogeno.

Questo comportamento trova conferma nella cultura aborigena australiana in cui il color ocra della labbra è riservato ai riti d’iniziazione durante il periodo della pubertà. (Richards, 1994) Anche nella nostra cultura, spesso di fatto, l’uso del rossetto inizia quando una donna raggiunge l’adolescenza o l’età adulta.

Nel tempo, alla sua natura intrinsecamente legata all’evoluzione, il rossetto ha acquisito un valore simbolico fortemente mediato dalla cultura.

Ad oggi è in uso il rossetto dei più svariati colori ed il suo utilizzo è esteso anche al pubblico maschile (manstick) in vari ambiti che vanno dalla moda al teatro fino a divenire tendenza culturale.

A partire dall’antica Grecia (Harvard Law School, 2006), passando per la ben nota cultura puritana inglese del diciannovesimo secolo (Greil, 1989) fino ai tempi più recenti dell’America anni ’40 (Mitchell & Reid-Walsh, 2001), l’uso del rossetto è stato demonizzato perché associato alla prostituzione sconsigliandone l’uso a favore di un look più sobrio: simile presidio avrebbe ridotto la popolarità delle giovani donne fino a comprometterne le possibilità di carriera.

 Contropolare è la visione, promossa dalla cinematografia americana, a partire dagli anni ’50, grazie ad attrici come Marylin Monroe ed Elisabeth Taylor, fino ad arrivare agli anni ’60, in cui l’uso del rossetto viene associato alla femminilità a tal punto che chi non lo usa diviene sospetta di malattia mentale o di essere lesbica (Mitchell & Reid-Walsh, 2007).

Da ricordare è indubbiamente l’uso del rossetto nero che ebbe un discreto successo negli anni ’70-’90 trovando largo impiego grazie alla filmografia horror e alle subculture gotiche e punk.

Negli anni ’80 a San Francisco nasce il termine gergale ‘Lipstick Lesbian’ ad indicare una donna lesbica o bisessuale che mostra maggior quantità di attributi femminili come truccarsi, vestiti, gonne o altre caratteristiche associate alla femminilità. Definizione, poi, rivista e corretta da alcuni autori che hanno reinterpretato l’uso del ‘Rossetto lesbico’ non solo esclusivamente delle femmine bisessuali ma anche di donne eterosessuali che temporaneamente mostrano interesse romantico o sessuale verso altre donne al fine di impressionare gli uomini (Faderman et al., 2006)

Il rossetto, non è che una parte del trucco del viso, e come tale può assumere significato in base al contesto rappresentando uno specchio dell’emotività della persona cosicché, se portato all’eccesso, può fungere da vera e propria maschera, modalità attraverso la quale si crea una mimesi del proprio essere che spesso ha una genesi depressiva.

D’altro canto un utilizzo sapientemente strategico del rossetto è considerato indice di una buona valutazione di sé ed il colore rosso è storicamente associato a una donna che fa della seduzione un’arma

A sottolineare la natura fortemente sensuale del rossetto è il suo ben noto collegamento con il tema del tradimento: un tempo la macchia del rosso del rossetto lasciata sul colletto della camicia dell’amante era prova indiscussa di presunta infedeltà.

Nelle scienze forensi il rossetto, lasciato come traccia su abiti, sigarette e bicchieri può divenire oggetto di analisi in qualità di prova fisica all’interno di indagini: è attraverso l’analisi salivare contenente DNA che si riesce a collegare un sospetto alla sua presenza sulla scena del crimine. (11)

Infine, certo è che molti, dopo aver venerato le labbra della partner, non possono che passare alla fase successiva, quella del bacio, ma questo è un altro capitolo e come tale necessita di diverse e più approfondite argomentazioni!

 

Intelligenza artificiale e disturbi specifici dell’apprendimento

L’IA progettata per i disturbi dell’apprendimento occupa prevalentemente due aspetti: identificare le cause e migliorare le metodologie di apprendimento.

 

Non chiedete dati e fatti a bruciapelo,
ma piuttosto interpellate i vostri alunni
affinché esprimano una loro opinione
su determinati fatti e argomenti
(M. Levine)

Da tempo immemore, da quando nacque e si sviluppò la tecnologia e, più di recente, l’intelligenza artificiale, ci si accosta con sospetto a queste realtà, attribuendo loro connotazioni potenzialmente negative per l’essere umano. In campo educativo, si assiste alle stesse manifestazioni creando falsi miti come, per esempio, quello per cui sarebbe la tecnologia stessa la causa dei disturbi dell’apprendimento.

Forse ciò avviene perché, come esseri umani, abbiamo un atavico istinto di diffidenza verso le novità in quanto sempre potenzialmente veicolo di inattese fonti di pericolo. Indubbiamente il progresso e le trasformazioni che poi vengono a prodursi sono fenomeni che si verificano in modo naturale, ma una fetta significativa della società non è pronta ad accogliere i cambiamenti e li vede tutti, indiscriminatamente, con sospetto.

Le difficoltà di apprendimento sono state comprese solo di recente; è esperienza comune, infatti, per chi ha almeno una trentina di anni, ricordare di come un compagno che mostrasse difficoltà di apprendimento venisse spesso bullizzato dall’intera classe e mal tollerato dagli stessi professori che, non comprendendo i motivi delle sue difficoltà, finivano solo per considerarlo come “un rallentamento” per il resto del gruppo. Questi ragazzini venivano visti come elementi disturbanti e “stupidi”, di conseguenza emarginati e poco compresi.

Questo ha sempre prodotto ulteriori effetti negativi su di loro che non potevano che sentirsi inadatti e inadeguati, maturando sempre più la credenza di essere incapaci a scuola e non solo.

Le famiglie stesse venivano influenzate da questi giudizi frettolosi, finendo a loro volta col promuovere questi casi di incomprensione, trasformando bambini e bambine anche molto dotati in adulti nemmeno in grado di esprimersi.

Mentre internet, nella sua interezza, in campo educativo, è stato visto, nella sua prima diffusione, come “ente” potenzialmente positivo, data l’enorme quantità di informazioni che poteva diffondere (e gli effetti negativi di questa caratteristica sono stati individuati e analizzati solo molti anni dopo), non lo stesso si può dire dei videogiochi. Questi ultimi sono stati quasi sempre considerati mero intrattenimento oppure causa di problematiche importanti, fino a ritenerli potenzialmente dannosi per la stessa materia cerebrale, capaci di rendere i ragazzi poco inclini allo studio, alla socializzazione ed esasperando in loro atteggiamenti violenti.

Nella seconda metà del XX secolo fu finalmente trovato un nuovo demone!

Ma, come si accennava poco sopra, con il passare del tempo, anche internet stesso non è stato poi esentato da presentare connotazioni profondamente negative, che si sono rese visibili man mano che ha iniziato a diffondersi presso le masse. Basti pensare ai fenomeni legati al negazionismo, alle manipolazioni elettorali, e, in generale, a tutto il proliferare incontrollato delle più disparate e assurde teorie del complotto, come ad esempio quelle relative ai vaccini o all’introduzione della cosiddetta “5G” (siccome sta per “quinta generazione”), che non fanno altro che spingerci a vedere il presente come una distopia, frutto maturo di una delle peggiori possibili cacotopie. Ma la rivoluzione digitale continua, nonostante tutto! Come in ogni aspetto che riguardi l’umanità dobbiamo sempre accettare che nessuna realtà possa presentare unicamente un lato, nemmeno quello positivo. Saper ricordare gli errori di giudizio aiuta ad avere una visione consapevole, come dimenticare di quando i genitori urlavano ai propri figli cose come: “stando tutto il giorno davanti a quel computer diventerai stupido“, “lo schermo ti brucerà il cervello“, “quei videogiochi ti stanno rincoglionendo, ti stanno rendendo violento“, “stai diventando sempre più menefreghista grazie a questi aggeggi“, “ecco perché non studi“, eccetera.

L’innovazione digitale si prestava ad essere il nuovo serpente dell’Eden, che avrebbe allontanato l’umanità dalla retta via rappresentata dalla tradizione e dalla sicurezza dello schema precedente.

DSA dopo la Quarta Rivoluzione

Intelligenza Artificiale, Machine Learning, Connessione, Interfacce e Ibridazione rappresentano il design di un ambiente rinnovato e totalmente digitalizzato, risultato di ciò che Floridi definisce “Quarta Rivoluzione” (Floridi, 2017), la quale necessita di una nuova forma mentis, che possa tener conto delle sfide e delle opportunità che questi nuovi mezzi propongono ogni giorno, tratteggiando in primo luogo, un quadro etico che possa applicarsi al loro utilizzo pratico e, in secondo luogo, definendo un insieme di principi che sia in grado di indagare e dare risposte al nuovo rapporto uomo-macchina e uomo-macchina-uomo. L’intelligenza artificiale, ramo dell’informatica, si ispira all’intelligenza, soprattutto a quella umana, per fornire strumenti che ne esaltino le potenzialità (e che ci semplifichino la vita).

Le reti neurali artificiali sono in grado di effettuare operazioni specifiche con tale potenza e precisione al punto di dare l’impressione di riprodurre le attività cognitive umane, facendo leva su strutture come memoria e apprendimento proprio tipiche della nostra specie.

La tecnologia migliora il benessere sociale, offrendo numerosi vantaggi in molti settori.

L’interazione human-machines, grazie ai sistemi intelligenti, rende l’esperienza unica e altamente performante. Prendendo in esame lo smartphone, è possibile interagire con esso e consideralo una seconda pelle (Benasayag, 2015): l’interfaccia e il display divengono impercettibili e comunichiamo con assistenti virtuali sempre più efficienti.

Le ricerche orientate e applicate al campo dell’IA si prefiggono l’obiettivo di aiutare l’uomo e migliorarne la qualità della vita, sviluppando, eminentemente in ambito medico, sistemi volti a diagnosticare – monitorare – correggere problematiche psico-fisiche.

A tal proposito, recenti studi dimostrano e affermano come l’Intelligenza artificiale sia anche a sostegno del trattamento per i Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA).

Il DSA è un gruppo di disturbi dell’apprendimento che influiscono in particolar modo sulla lettura.

L’intelligenza artificiale entra in scena anche in questo contesto, al fine offrire un valido strumento di supporto alla diagnosi del DSA, problematico da individuare.

L’IA progettata segnatamente per i disturbi dell’apprendimento occupa prevalentemente due aspetti: il primo, incentrato sull’identificazione delle cause, il secondo, invece, direzionato al miglioramento delle metodologie di apprendimento.

Lifem. Il Machine Learning al servizio del DSA

Il progetto Lifem sfrutta l’intelligenza artificiale per individuare il DSA attraverso un sistema di Machine Learning, con il quale è possibile prevedere la gravità del disturbo e la relativa terapia.

Le reti neurali presenti in questo modello consentono di verificare, attraverso un’attenta analisi statistica, il livello di dislessia presente nel bambino.

Con questo modello il focus verte sulle “cause”, ponendo maggiore attenzione alla fase di identificazione del disturbo, in quanto essa rappresenta un momento cruciale per chi incontra il DSA: riconoscere il disturbo permette di intervenire con strumenti personalizzati che favoriscano un miglioramento delle attività di lettura.

Come afferma l’ideatore dell’applicazione, Roberto Arduino, «un’applicazione in grado di risolvere il ritardo nella diagnosi di disturbi e disabilità, sia nell’apprendimento sia nell’ambito relazionale. È questo lo scopo di Lifem». Il vantaggio di dimezzare le tempistiche diagnostiche, e della conseguente certificazione, potranno altresì agevolare istituti scolastici e aziende sanitarie.

L’intelligenza artificiale, ancora una volta se sfruttata con finalità benevole, aiuta l’essere umano.

L’applicazione Lifem è finanziata da Digital Tree di Genova ed è in fase di sviluppo.

La classificazione dei Disturbi dell’Apprendimento e le App & software come strumenti per l’apprendimento

Il termine “disturbi specifici dell’apprendimento” viene utilizzato per individuare un insieme eterogeneo di disturbi che sono connessi al processo di apprendimento. Come noto, questo processo è molto importante per tutti gli animali in quanto permette loro di acquisire un’adeguata capacità di adattamento all’ambiente. L’apprendimento non va pensato come mera acquisizione di nozioni ma come un fenomeno complesso in cui si imparano e si rafforzano fondamentali capacità che permettono l’interazione con l’ambiente, che è oggi particolarmente complesso. Per questo motivo anche i disturbi legati a questi processi non vanno visti come semplice insorgenza di difficoltà di tipo scolastico ma in una visione di ampio respiro che abbia sufficiente comprensione della complessità di fattori che possono essere coinvolti.

Tradizionalmente vi sono inclusi disturbi che coinvolgono non solo la lettura e la scrittura o di comprensione e uso della matematica ma anche la conseguente difficoltà di comprensione del linguaggio orale che può portare a difficoltà nel formulare ragionamenti. Questi disturbi non coinvolgono solo l’età evolutiva, ma possono essere presenti per l’intero arco della vita. La loro valutazione richiede una competenza specialistica in questo campo, necessaria anche per costruire un adeguato percorso di trattamento.

La dislessia è un disturbo che origina dalla difficoltà a decifrare i segni associati alle parole. Si manifesta quindi come una difficoltà nella lettura che influisce sulla correttezza e sulla velocità della stessa. Ne esistono diverse forme di gravità differenti fino all’incapacità totale di lettura. Le diverse forme hanno in comune che il desiderio di apprendimento non risulta compromesso così come le capacità cognitive generali. Il dislessico non è meno intelligente, il disturbo é circoscritto, non è originato da patologie neurologiche, ma potrebbe avere origine neurobiologica e può essere curato con interventi mirati di vario tipo.

La disgrafia è un disturbo che riguarda la riproduzione dei segni che compongono le parole sul foglio. Chi ne è affetto ha una eccessiva lentezza nello scrivere. Si manifesta con incapacità a seguire il rigo, tratti incerti e spesso ripassati, parole fluttuanti, distanza tra parole variabile. È un disturbo che coinvolge capacità di tipo motorio. Come per gli altri disturbi dell’apprendimento richiede un professionista per essere valutato e non coinvolge capacità intellettive e legate al contenuto.

La disortografia differisce dalla disgrafia in quanto coinvolge processi linguistici di transcodifica, mentre la disgrafia è legata ad abilità motorie. Si manifesta come incapacità di usare correttamente tutti i caratteri e collocarli in modo corretto. Coinvolge anche i segni di interpunzione e gli accenti che indicano un rafforzamento del tono di voce. Può coinvolgere anche la capacità di usare correttamente i tempi verbali.

La discalculia è legata alla difficoltà nelle capacità di calcolo e nella trascrizione dei numeri. É una condizione permanente ma il corretto trattamento può migliorare di molto questa condizione. Chi ne è affetto ha difficoltà a capire concetti che sottendono la matematica e applica le sue regole in modo automatico senza capire il perché.

Dopo aver spiegato brevemente cosa sono i disturbi dell’apprendimento e cosa rientra in questi disturbi andremo ad analizzare come la tecnologia può venirci incontro, grazie a software e app che vengono utilizzate per migliorare l’esperienza dell’apprendimento ai ragazzi con disturbo specifico dell’apprendimento. Sono software e app utili per potenziare e organizzare lo studio. Questi vengono utilizzati come strumenti compensativi per i disturbi dell’apprendimento, ma cosa sono i suddetti strumenti e come si suddividono:

  1. La lettura: può essere migliorata grazie ad una sintesi vocale che trasforma un testo scritto in un compito di ascolto;
  2. La scrittura: in questo caso ci viene in aiuto il registratore che consente all’allievo di non scrivere e non prendere appunti durante la lezione, programmi di videoscrittura e computer che includono un correttore ortografico, altri programmi che riconoscendo la voce la trasformano in testo scritto e l’utilizzo di penne che registrano quello che si scrive e traducono i testi in un lingua straniera.
  3. Il calcolo: associato allo studio della matematica. Uno degli strumenti più conosciuti che viene in aiuto ai ragazzi con disturbi dell’apprendimento è la calcolatrice, che tutti conosciamo nella sua forma tradizionale che serve a facilitare le varie operazioni di calcolo. Oggi si è evoluta. Adesso esiste anche quella parlante. Nello studio della matematica ci vengono in aiuto anche strumenti di bassa ed alta tecnologia. Negli strumenti di bassa tecnologia rientrano le tavole pitagoriche le linee guida per i calcoli a colonna e le tabelle e i formulari. Negli strumenti ad alta tecnologia rientrano software e fogli di calcolo che servono per la scrittura delle operazioni e delle strutture matematiche.

Quali sono le app che possono venirci in aiuto?

Le App sono strumenti di aiuto verso gli alunni o gli studenti con DSA dalla prestazione resa difficoltosa dal disturbo senza ovviamente facilitare il compito. L’utilizzo di simili strumenti non è immediato anzi servono analisi e diagnosi precise per valutare gli strumenti giusti anche sulla base delle indicazioni del referente d’istituto. Possiamo dire che nell’ultimo decennio la tecnologia abbia aiutato nell’arricchimento di strumenti che anni fa erano impensabili. Queste app son d’aiuto in primis, disponibili e utilizzabili su numerosi dispositivi tra smartphone e tablet, in poche parole sono accessibili. Il prezzo è basso o addirittura sono gratuite e facilmente utilizzabili in base al disturbo dell’apprendimento supportando e favorendo la soluzione di alcuni problemi legati ad uno o più disturbi; non solo, sono disponibili per ogni area, facili da usare, capire, condividere e intuitive.

Queste applicazioni si raggruppano per area di apprendimento e tipologia di disturbo.

  • app per la lettura che servono per la decodifica del testo
  • app per le lingue straniere
  • app per la matematica
  • app multifunzionali per competenze trasversali
  • altre app come dizionari e mappe

Alcune app di esempio

Haiku Deck è un’app utile per chi ha difficoltà nella comprensione del testo. Il suo punto forte è quello di creare sintesi di concetti. Composta da presentazioni semplici ma di grande impatto anche perché sfrutta la capacità comunicativa delle immagini. Inoltre mette alla prova la creatività, soprattutto quella degli alunni.

KidEWords è un’applicazione utile per esercitarsi nella scrittura e migliorare nell’ortografia, per le difficoltà metafonologiche e per imparare parole nuove. Si presenta con diversi livelli di difficoltà e con una grafica bella colorata che aiuta i bambini ad esercitarsi tramite cruciverba.

Math and Tap è nata grazie ad una collaborazione tra De Agostini e Centro Leonardo ed è stata sviluppata creando un percorso educativo narrativo e ludico per esercitarsi in matematica. L’interfaccia è stata sviluppata da una cooperazione tra pedagogisti e psicologi, per rendere la scambievolezza facile ed intuitiva anche grazie ad una grafica molto curata. Il bambino viene aiutato a concentrarsi nel gioco anche su temi complessi, mentre si diverte grazie alla combinazione con la narrazione, le musiche e vari effetti sonori, realizzati ad hoc. Infatti è composta da giochi che servono a rinforzare concetti matematici, linguistici e logico- spaziale.

Quick Math Jr. Pack è composta da giochi per allenarsi a calcolare, contare, calcolo mentale, time-telling. Inoltre include anche un innovativo propulsore di scrittura a mano, che permette ai giocatori di scrivere le risposte direttamente sullo schermo, magnifico in questo caso anche per esercitarsi a scrivere a mano.

DSA è un’app destinata a famiglie e bambini, insegnanti, logopedisti e specialisti che operano nel mondo dell’istruzione e delle attività di recupero per i Disturbi Specifici dell’ Apprendimento. Sviluppata con la collaborazione di psicologi, insegnanti e logopedisti, offre informazioni e strumenti utili a divulgare la conoscenza sui DSA. All’interno vi sono quattro sezioni e le famiglie possono utilizzare l’app per riconoscere segnali utili ad una diagnosi precoce, per conoscere i sostegni economici messi a disposizione dalla previdenza sociale e altro ancora. Agli insegnanti e ai professionisti viene offerta una classificazione dei vari DSA da parte di specialisti del settore. Viene inclusa anche la possibilità di consultare in modo diretto le normative nazionali. Nei giochi sono presenti attività ideate da team specializzati, con il fine di migliorare, divertendosi, le abilità di lettura e di calcolo.

GimmeFive è un’applicazione che ha l’obbiettivo migliorare o sviluppare l’abilità degli studenti per eseguire calcoli a mente. Pur non essendo sviluppata specificatamente per i soggetti affetti da DSA o da disturbi dello spettro autistico, è un buon esempio di come la tecnologia in campo educativo possa essere di aiuto a tutti. Aiuta a portare a termine il compito in due modi: scomponendo la competenza in una serie di abilità che ne costituiscono dei requisiti e cercando poi di farle acquisire una alla volta. La caratteristica di un approccio lontano dagli schemi scolastici la rende particolarmente adatta per i bambini con DSA o con disturbi dello spettro autistico.

Le Calcolatrici parlanti sono utili strumenti per i disturbi dell’apprendimento. Grazie all’ampiezza dei tasti e alla chiarezza vocale, unita alla semplicità d’uso, sono l’ideale per tutti coloro che hanno difficoltà nel riconoscere le lettere e i numeri.

Geometria facile 1 è un software che rende divertente l’apprendimento delle competenze matematiche e geometriche di base. Si sviluppa in 5 sezioni navigabili in libertà che comprendono oltre 200 attività differenti, con difficoltà crescente, fra cui: localizzazione di oggetti nello spazio, creazione di percorsi, uso del piano cartesiano, fondamenti su figure geometriche, fra cui linee, segmenti, rette, studi sugli angoli, eccetera. Il gioco prende spunto dalla fiaba animata “I vestiti nuovi dell’imperatore” di H.C. Andersen e dispone di una modalità storia in grado di alleggerire l’apprendimento trasformandolo in gioco. Dal lato degli insegnanti il gioco offre strumenti per prendere nota della progressione degli alunni. In circolazione esistono quindi diverse applicazioni e software che vengono in aiuto ai ragazzi per studiare lingue straniere o per migliorare la propria lingua imparando divertendosi.

Ad esempio Valeria Cagnina fondatrice di OFpassiON insieme a Francesco Baldassarre, in un suo post su Linkedin, sottolinea l’importanza cruciale delle studio delle lingue. Riferendosi all’inglese dice la sua opinione in merito e ciò che fa attraverso la sua organizzazione di robotica educativa con i ragazzi: “Conoscere perfettamente l’inglese non significa farlo a sfavore dell’italiano, significa aggiungere e non togliere. I ragazz* non dovranno sapere un po’ di inglese, ma dovranno sapere l’inglese come l’italiano. Quindi ben venga qualsiasi forma che fin da piccolissimi lo trasmetta in qualche modo. Noi cerchiamo di farlo valorizzando la sperimentazione e le esperienze all’estero nelle nostre sessioni di mentoring, cercando di utilizzare qualsiasi testo in inglese durante le ricerche nei nostri laboratori, invogliando ad andare a cercare l’origine di ogni fonte (che sono quasi sempre in inglese), utilizzando software in inglese, con i TED, con semplici parole durante i laboratori con i piccolissimi… Solo così avranno davanti un mondo infinitamente più vasto ed enormi possibilità.”

Ma perché mettere in relazione il bilinguismo con la dislessia (e possibilmente altri DSA)?

Dislessia e bi (o pluri) linguismo potrebbero essere rappresentati come due poli opposti e complementari.

A livello terapeutico ha senso chiedersi, siccome si ha a che fare con disturbi espressi all’interno della sfera del linguaggio (e vale la pena sottolineare come linguaggio scritto e parlato rispondano alle stesse aree della corteccia cerebrale) se e come l’insegnamento di una seconda lingua madre possa eventualmente portare benefici o ridurre il rischio di manifestare Disturbi dell’Apprendimento Specifici come la dislessia.

Anche solo “a prima vista”, armati unicamente del “sentire comune” e del buon senso, probabilmente sarebbe semplice notare come, per forza di cose, quelle qualità e quegli aspetti cognitivi che stanno alla base dall’apprendimento delle lingue siano in un qualche modo contrapposti a quelle tipiche di un disturbo che invece impedisce (almeno nella forma scritta) l’apprendimento anche di un unico linguaggio. In poche parole: i punti deboli di un soggetto dislessico paiono coincidere pienamente con i punti di forza espressi invece da soggetti bilingue o plurilingue.

In questo caso le recenti scoperte fatte nell’ambito delle neuroscienze paiono accordarsi con ciò che poteva sembrare unicamente frutto dell’intuito; non solo il bilinguismo (se portato avanti, con un equilibrio per quanto riguarda le competenze in tutti i linguaggi appresi) porta vantaggi in tutte quelle competenze associabili allo sviluppo del linguaggio, come capacità migliori nel riconoscere le strutture linguistiche, da quelle semantiche a quelle grammaticali e morfosintattiche e migliori capacità meta-linguistiche in generale, ma anche incredibili benefici per quanto concerne le aree di sviluppo sociale/interpersonale e quelle della sfera cognitiva. In particolare sono stati evidenziati miglioramenti della memoria episodica e semantica e una propensione alla costruzione di una identità personale molto più complessa e sfaccettata, senza contare i benefici relativi alla Working Memory e, in un’ottica più ampia, a tutte le Funzioni Esecutive (FE).

Auto-apprendere la dislessia

Le ultime evidenze scientifiche, grazie agli studi condotti dal prof. Marco Zorzi dell’Università di Padova, sottolineano come la progettazione di un sistema di IA finalizzato alla diagnosi dei DSA sia ad oggi uno degli strumenti più preziosi a nostra disposizione.

La ricerca, pubblicata sul Psychological Science (2019), mette in luce come, con l’aiuto delle reti neurali artificiali, sia molto più semplice determinare i fattori che influiscono e alimentano i deficit di apprendimento. Lo studio si basa sull’analisi di dati provenienti da interazioni di neuroni artificiali che simulano la lettura (Le Scienze, 2019). L’elemento che contraddistingue questo modello consiste nell’apprendere le diverse strategie di decodifica del testo adottate da bambini con DSA; seguendo questo sentiero sarà possibile creare un IA capace di auto-apprendere le difficoltà di lettura (Le Scienze,2019).

La rete neurale inizialmente acquisisce abilità rudimentali nella decodifica delle parole scritte, imparando le associazioni più frequenti tra lettere e suoni (ad esempio la lettera B è sempre associata al suono /b/). Successivamente, ad ogni tentativo di decodifica, la rete genera una parola in forma orale e cerca la migliore corrispondenza con quelle che ha in memoria, che rappresentano il lessico parlato del bambino. In caso di corrispondenza viene creata una memoria visiva della parola scritta, che servirà nel futuro a riconoscerla in modo più rapido ed efficiente, e contemporaneamente vengono rinforzate le associazioni tra le lettere ed i suoni che formano la parola stessa.

L’apporto che tale metodologia presenta è straordinario poiché, grazie all’uso di questo potente programma, sarà possibile identificare in tempi brevi, e con una discreta accuratezza matematica, il DSA. Inoltre, tale progetto consente di salvaguardare la prospettiva multifattoriale e personalizzata del disturbo: ogni persona affetta da DSA manifesta un profilo “personale”, il quale necessita di una diagnosi soggettiva. Nonostante questi disturbi siano “universali”, presentano una dimensione “particolare”, e cioè unica per ogni individuo.

Predisporre di sistemi neurali così precisi implica la possibilità di indicare una terapia e un percorso di riabilitazione funzionale, in cui si ha l’opportunità di intervenire efficacemente sul problema e potenziare concretamente le capacità di apprendimento.

 

Schizofrenia e attività fisica

Lo scopo del presente articolo è l’esplorazione di una modalità di potenziamento, a basso costo, dell’attività cognitiva delle persone con schizofrenia che agisce sul volume ippocampale, cioè l’attività fisica.

 

 La schizofrenia è una patologia grave e cronica che compromette il funzionamento della persona in ambito lavorativo, delle relazioni interpersonali e della cura del sé.

È caratterizzata da sintomi positivi quali i deliri, le allucinazioni, la disorganizzazione del pensiero ed il comportamento bizzarro o disorganizzato. I sintomi negativi compaiono nella fase prodromica della malattia e sono: l’apatia, l’appiattimento affettivo, il deficit nella produttività e fluidità dell’eloquio, la perdita d’iniziativa, la povertà ideativa, la difficoltà a mantenere l’attenzione e la compromissione dei rapporti interpersonali, del funzionamento sociale e lavorativo.

La schizofrenia ha un CoI (Cost of Illness – costo della malattia) elevato, costituito dai costi indiretti, inerenti alla perdita di produttività dei pazienti e delle loro famiglie, e dai costi diretti di trattamento. Questi comprendono la residenzialità, cioè l’ospedalizzazione nei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (SPDC), in strutture pubbliche (comunità terapeutiche, appartamenti protetti) o private. Inoltre le persone con schizofrenia vengono assistite dai Centri di Salute Mentale e possono afferire ai Centri Diurni. I costi diretti di trattamento riguardano anche la farmacoterapia, trattamento d’elezione la cui efficacia aumenta se combinata ad altri tipi di trattamento.

In termini di recovery è importante utilizzare ogni risorsa disponibile per arginare le limitazioni dovute alla schizofrenia.

La psicoeducazione, consiste nel fornire al paziente informazioni relative al disturbo (come i sintomi, il decorso, l’utilizzo della farmacoterapia) in modo da aiutarlo a gestire la sintomatologia.

Il trattamento cognitivo comportamentale è focalizzato sui sintomi positivi della schizofrenia, ed ha come obiettivi il loro riconoscimento mediante psicoeducazione, il distanziamento critico e la gestione dei sintomi, attraverso la formulazione di ipotesi alternative, l’utilizzo di strategie che consentono di padroneggiare i sintomi e l’incremento delle abilità sociali attraverso social skills training.

Inoltre la Cognitive Remediation Therapy (CRT) è finalizzata a implementare le funzioni esecutive, l’attenzione e la memoria mediante un programma di training cognitivo.

Scopo del presente articolo è l’esplorazione di una modalità di potenziamento, a basso costo, dell’attività cognitiva delle persone con schizofrenia aumentando il volume ippocampale, cioè l’attività fisica.

La conoscenza delle basi biologiche che determinano i sintomi consentono anche di conoscere le risposte ai trattamenti e le modalità da impiegare per il potenziamento della cognizione.

I terminali sinaptici sono diversi: è stata utilizzata l’immunocitochimica per studiare le proteine ​​presinaptiche complexin II – complexin I, le quali sono risultate inferiori nell’ippocampo di persone con schizofrenia (Sawada, Barr et al., 2005).

Un altro studio sull’attività ippocampale (Tregellas, Smucny, Harris, et al., 2014) ha indagato la diminuzione della memoria, delle funzioni linguistiche, della velocità di elaborazione e dell’attenzione, mediante MATRICS Consensus Cognitive Battery (MCCB), in un gruppo di 28 pazienti schizofrenici confrontati con un gruppo di controllo. È stato utilizzato lo scanner per la risonanza magnetica con campo elevato (3T) e l’attività dell’ippocampo destro è risultata essere due volte più elevata nei pazienti schizofrenici rispetto al gruppo di controllo.

Infatti è stato dimostrato che la neurogenesi, cioè la capacità del cervello di produrre nuovi neuroni, può avvenire anche in età adulta (Fernández, Pedraza & Gallo, 2013) e determinare miglioramenti delle funzioni cognitive anche se compromesse, pertanto è necessario comprendere come aumentare la neurogenesi e di conseguenza le prestazioni cognitive.

 La neurogenesi e le prestazioni cognitive sono correlate ad un aumento di BDNF, che è il fattore di crescita più abbondante nel cervello umano e viene stimolato dall’esercizio aerobico. Il fatto che la concentrazione di BDNF in pazienti schizofrenici sia risultata ridotta in diverse aree cerebrali, quali la corteccia dorsolaterale e frontale (Weickert, Hyde, Lipska et all., 2003; Toyooka, Asama, Watanabe et al.,2002) sta portando i ricercatori ad indagare i benefici neurocognitivi dell’esercizio fisico, dato che vi sono studi secondo cui il BDNF risulta essere un mediatore dei miglioramenti cognitivi dovuti all’esercizio fisico in pazienti con schizofrenia.

A tal proposito è stata condotta una meta-analisi (Firth, Stubbs, Rosenbaum, et al., 2017), su dieci studi con 385 partecipanti, per rilevare gli effetti dello sforzo fisico sul funzionamento cognitivo nelle persone con schizofrenia. Di questi la maggioranza ha utilizzato interventi che prevedevano esercizio aerobico.

I risultati evinti suggeriscono che l’esercizio migliora notevolmente la cognizione globale delle persone con schizofrenia rispetto al gruppo di controllo, (p = 0.065) soprattutto se associato ad una maggiore durata settimanale dell’esercizio; nello specifico i cambiamenti riguardano la cognizione sociale (g = 0.71), la memoria di lavoro (g = 0.39) e l’attenzione (g = 0.66).

Inoltre la supervisione da parte di professionisti dell’attività fisica e livelli più alti di esercizio settimanale promuoverebbero i benefici cognitivi dell’esercizio.

Un RCT (Cassilhas, Attux, Cordeiro, et al., 2015) ha indagato gli effetti di un protocollo di allenamento di 20 settimane sui sintomi della schizofrenia. I pazienti sono stati assegnati in modo casuale ad uno dei tre gruppi differenziati per il carico degli esercizi: il gruppo di controllo (CTRL n. 13) svolgeva esercizi con un carico minimo (es. bassa velocità di tapis roulant, 4km/h, due serie di 15 ripetizioni con un minuto di riposo); il gruppo di resistenza (RESEX n. 12) seguiva un programma di allenamento di resistenza progressiva rivolto alle diverse fasce muscolari; mentre i pazienti del gruppo CONCEX (n. 9) praticavano sia esercizi di resistenza che di forza.

Sono state rilevate differenze significative a 10 settimane dall’inizio dell’intervento e post- (20 settimane) alla scala PANSS (usata per valutare la gravità dei sintomi positivi e negativi). Nello specifico nei gruppi RESEX e CONCEX, i sintomi della malattia sono migliorati dopo 10 settimane (RESEX; p = 0.002; CONCEX; p = 0.026) e 20 settimane (RESEX; p <0.001; CONCEX: p = 0.003), mentre nel gruppo CTRL, sono rimasti stabili. Inoltre nel gruppo RESEX i sintomi negativi sono migliorati dopo 10 settimane (p = 0.001) e dopo 20 settimane (p = 0.002).

Altri cambiamenti significativi concernono il punteggio al questionario SF-36 sulla qualità della vita, il quale esamina il funzionamento fisico e le limitazioni dovute allo stato di salute. Dopo 20 settimane di intervento, il gruppo RESEX  e il gruppo CONCEX  sono migliorati rispetto all’inizio dell’intervento (rispettivamente p = 0.011 e p = 0.014).

Questi risultati confermano diversi studi, tra cui un RCT (Scheewe, Backx, Takken, et al., 2013) in cui sessantatré pazienti con schizofrenia sono stati assegnati in modo casuale ad un protocollo di allenamento (n. = 31) o ad una terapia occupazionale (n. = 32). Il protocollo di allenamento era costituito da esercizi di resistenza rivolti a diversi gruppi muscolari a settimana, le sessioni avevano la durata di 1 ora e si sono svolte due volte a settimana per 6 mesi. Al termine si è evinto che la terapia fisica ha ridotto i sintomi di schizofrenia (p = 0.001) misurati dalla scala PANSS, la depressione (p = 0.012), misurata mediante la scala di valutazione della depressione di Montgomery e Åsberg, il bisogno di cure (p = 0.050), individuato attraverso la valutazione dei bisogni di Camberwell, e l’aumento della forma cardiovascolare (p <0.001), misurato mediante l’indice di massa corporea, la percentuale di grasso corporeo e la sindrome metabolica (MetS), rispetto alla terapia occupazionale.

In un RCT (Pajonk, Wobrock, Gruber, et al., 2010) sono stati confrontati pazienti maschi che hanno fatto allenamento aerobico, ciclismo, (n. 8) o calcio balilla (n. 8) con un gruppo di controllo che ha svolto esercizio aerobico (n. 8) per un periodo di 3 mesi.

Dalla risonanza magnetica è risultato che il volume dell’ippocampo è aumentato in modo significativo sia nei pazienti attivi (12%) che nel gruppo di controllo (16%), invece il gruppo di pazienti che ha praticato calcio balilla non ha subito variazioni. Benché la gravità dei sintomi totali della schizofrenia, misurata dalla scala PANSS, si sia ridotta nel gruppo che ha svolto esercizi, e sia aumentata nell’altro, non sono emerse correlazioni tra il cambiamento dei punteggi e le variazioni del volume dell’ippocampo, che invece sono correlate con il miglioramento dei punteggi ai test per la memoria a breve termine (test di Corsi e test di Rey).

Questi risultati indicano che sia nei soggetti parte del campione di controllo, sia nelle persone con schizofrenia, il volume dell’ippocampo cambia in risposta all’esercizio aerobico svolto.

 

Adolescenti con emozioni intense: come gestire con la DBT le sfide emotive e comportamentali di tuo figlio (2021) di Britt H. Rathbone – Recensione del libro

Il libro Adolescenti con emozioni intense vuol essere una guida concreta, in grado di fornire indicazioni utili e proporre strategie efficaci e comprovate per supportare una valida genitorialità, con il fine ultimo di migliorare la vita dei genitori e dei loro figli, adolescenti e giovani adulti, con una sfera emozionale in subbuglio.

 

 Le strategie e indicazioni proposte sono fornite dalla Terapia Dialettico-Comportamentale (Dialectical Behavior Therapy, DBT), sviluppata dalla psicologa Marsha Linehan (1993) e fondata su un assunto essenziale: l’accettazione è la base del cambiamento, per cui è indispensabile riconoscere che le persone – adolescenti e giovani adulti compresi – fanno il meglio che possono, date le circostanze e le difficoltà della loro vita, e pertanto devono essere accettate, comprese e supportate nell’avviare processi di cambiamento.

Accettare significa riconoscere con il corpo e con lo spirito che non hai scelta e che la realtà “è quel che è”, e quindi passare a trovare il modo di trarre il massimo da una realtà difficile e dolorosa. (Linehan, 1993)

La Terapia Dialettico-Comportamentale (DBT) è un trattamento cognitivo-comportamentale complesso, originariamente sviluppato per soggetti a grave rischio suicidario e con disturbo borderline di personalità, poi esteso ad altre condizioni psicopatologiche in cui la disregolazione emotiva gioca un ruolo essenziale, quali la dipendenza da sostanze e da alcool, i disturbi del comportamento alimentare e la suicidarietà in adolescenza. Da oltre 15 anni, è stata adattata da Alec Miller e i suoi colleghi al trattamento di adolescenti con comportamenti suicidari e disregolati e alle loro famiglie.

Gli autori del testo, Britt Rathbone e Pat Harvey, sono due esperti psicoterapeuti dell’adolescenza, che, per oltre un decennio, hanno lavorato con i ragazzi e le loro famiglie attraverso la terapia DBT insegnando loro le abilità e le strategie essenziali, attraverso cui sostituire i comportamenti pericolosi e distruttivi con altri più sani e adattivi, adottando un atteggiamento di accettazione e comprensione empatica, in base al quale riconoscere quanto sia difficile cambiare. Accogliendo questi importanti presupposti, i genitori possono diventare meno emotivamente reattivi e giudicanti e più efficaci nel comprendere i loro figli (Miller, Rathus e Linehan, 2007).

La prima parte del libro (capitoli 1-4) descrive la fase adolescenziale, definendola “un momento di sfida, cambiamento e imprevedibilità”, e propone una serie di strategie e abilità basilari per comprendere gli adolescenti e rispondere efficacemente al loro sconvolgimento emotivo. Queste utili indicazioni sono accompagnate da brevi vignette cliniche, che illustrano in modo esemplificativo il rapporto genitori-figli, e schemi riassuntivi che propongono pratici esercizi, rivolti ai genitori.

Le strategie genitoriali proposte sono diverse. Per esempio, i genitori sono invitati a considerare i pro e i contro nell’adottare una determinata risposta al comportamento del proprio figlio, valutando i vantaggi a breve e a lungo termine. Risulta altrettanto utile stabilire una scala di priorità in base alla quale decidere quali problemi risultano maggiormente impellenti; per esempio, rispondere in modo deciso e immediato al rischio di comportamenti pericolosi (per es. l’uso di sostanze stupefacenti) ha la precedenza rispetto alla gestione di dinamiche familiari e problemi scolastici.

È essenziale migliorare la comunicazione con il proprio figlio, che sia un adolescente o un giovane adulto, ponendosi come obiettivo la possibilità di chiedere qualcosa o di negare una richiesta, pur mantenendo la relazione e il rispetto di sé. A questo proposito, viene indicato un esercizio concreto da praticare per pianificare una buona interazione genitore-figlio:

Adolescenti con emozioni intense - Recensione IMM2

Un’altra strategia genitoriale, proposta nel testo, consiste nel ripercorrere la “storia delle proprie emozioni”, intesa come esito dell’interrelazione tra fattori di vulnerabilità, eventi scatenanti, pensieri sull’evento, sensazioni corporee, denominazione dell’emozione e, infine, risposta comportamentale.

Come chiariscono gli autori stessi,

la storia dell’emozione fornisce uno schema per interpretare lo sviluppo delle emozioni, nonché la guida su come cambiare il risultato della storia e il modo in cui tu o tuo figlio potreste sentirvi dopo che l’emozione è stata espressa a livello comportamentale. (p. 37)

È importante ricostruire la storia dell’emozione in quanto consente al genitore di essere pienamente consapevole delle vulnerabilità, degli eventi scatenanti, dei pensieri, delle sensazioni corporee e delle azioni del proprio figlio adolescente e anche di se stesso.

 Da leggere con attenzione il quarto capitolo, che propone un approccio equilibrato alla genitorialità, nonostante le intrinseche difficoltà di un ruolo complesso quale quello di genitore di un adolescente che ha emozioni intense. Percorrere il sentiero di mezzo è la strada migliore per raggiungere una genitorialità equilibrata; ciò implica abbandonare posizioni rigide, assolute e polarizzate, per abbracciare un pensiero dialettico e accogliere l’esistenza di molteplici prospettive. Infatti, accettare che ci possano essere più prospettive e cercare ciò che è valido, ossia quella dose di verità inclusa in ciascun punto di vista, consente di minimizzare le lotte di potere intrafamiliari.

Gli autori propongono alcuni accorgimenti linguistici, specifici e pratici, per migliore le modalità comunicative e insegnare l’uso del pensiero dialettico all’interno del rapporto genitori-figli; per esempio, evitare l’uso dell’avverbio avversativo “ma” da sostituire con la congiunzione “e” che offre valore a entrambe le frasi e prospettive; ridurre al minimo l’uso di termini assoluti come “sempre”, “mai”, “tutti” e “nessuno”; adottare un pensiero “sia/e” invece di “oppure/o”, due congiunzioni disgiuntive che pongono una distinzione netta tra due alternative autoescludentisi. L’obiettivo finale consiste nell’abbandonare progressivamente l’uso di affermazioni non dialettiche, le quali riflettono il pensiero in bianco e nero, tipico degli adolescenti con emozioni intense, per esprimersi mediante affermazioni dialettiche che contemplino l’esistenza di prospettive alternative e più equilibrate, senza assolutismi e presunte verità assolute.

Criterio necessario per offrire risposte più equilibrate e meno estreme consiste nel conoscere i compiti evolutivi dell’adolescenza e saper distinguere i comportamenti tipici da quelli atipici.

Per decidere se un determinato comportamento sia o meno problematico, e quindi meritevole di particolare attenzione, bisogna considerare il comportamento stesso, l’intensità della sua manifestazione, il rischio che comporta e i modi in cui questo domina o interferisce con la vita complessiva del ragazzo. Gli autori presentano alcuni esempi di comportamenti tipici e problematici in una pratica tabella qui riportata:

Adolescenti con emozioni intense - Recensione IMM1

Spesso, i genitori oscillano tra uno stile genitoriale molto rigoroso, esigente e punitivo, e una modalità indulgente, che tende a minimizzare regole, aspettative e richieste.

A questo proposito, gli autori chiariscono che l’obiettivo da porsi è trovare un equilibrio “tra clemenza e rigore”. Come? Bilanciando il supporto e la guida, quando è necessario o i ragazzi lo richiedono, donando al contempo margini di libertà per aiutare il ragazzo a diventare indipendente; ponendo dei limiti ma offrendo possibilità di scelta, in un mix di fermezza e gentilezza, per cui scegliere le priorità non negoziabili nel rapporto genitori-figli; fornendo le radici dell’appartenenza e le ali per esplorare e conoscere la vita da sé.

La seconda parte del testo (capitoli 5-8) risulta particolarmente interessante in quanto fornisce informazioni su come rispondere a specifici problemi comportamentali, tipici della fase adolescenziale, che scaturiscono da una forte e ingestibile emotività: dai comportamenti suicidari e autolesivi ai comportamenti dirompenti e rischiosi come l’aggressività, la promiscuità sessuale e il furto, sino all’abuso di sostanze; dalle problematiche ansiose ( difficoltà scolastiche, comportamenti ossessivi o compulsivi, rigidità e perfezionismo, ansia da separazione, ritiro sociale, attacchi di panico), ai disturbi del comportamento alimentare.

Ciascuna problematica viene esaminata nel dettaglio, a partire da una comprensione del comportamento allarmante e dalla proposta di una vignetta clinica, per poi soffermarsi sulla risposta genitoriale, attraverso la presentazione di una guida concreta su come rispondere nel modo più sicuro ed efficace a questi comportamenti, usando le abilità e strategie indicate nella prima parte.

Per esempio, nel caso dell’autolesività, 

un comportamento deliberato e guidato dalle emozioni che si traduce in un danno fisico esterno o interno. (p.115),

vengono selezionate le possibili motivazioni alla sua base: il tentativo di gestire un dolore emotivo molto forte; la volontà di punirsi; il bisogno di provare qualcosa di diverso dall’intorpidimento emotivo; il desiderio di ridurre l’isolamento sociale e aumentare l’identificazione con il gruppo dei pari. Di fronte alla minaccia di farsi del male di un figlio adolescente o giovane adulto, è necessario porre in sicurezza il ragazzo adottando una serie di accorgimenti, come assicurarsi che non abbia accesso immediato a coltelli, pillole e altri mezzi che potrebbe usare per ferirsi, essere pronti a violarne la privacy in nome della sua incolumità, e richiedere un immediato aiuto esterno e professionale.

Infine, la terza parte (capitoli 9-10) è dedicata alla cura di sé, in quanto genitore, e del sistema famiglia, mediante la proposta di una serie di indicazioni finalizzate a migliorare la gestione dello stress genitoriale, adottare una voce interiore clemente e non giudicante verso se stessi, e trovare un equilibrio tra richieste e desideri cioè tra le aspettative e i desideri altrui e i propri.

Come gli autori sottolineano, l’unico modo per avere energie e risorse sufficienti a prendersi cura del proprio figlio adolescente è prendersi cura di se stessi. Insegnare a se stessi come calmarsi, distrarsi e consolarsi in circostanze difficili e dolorose è fondamentale per ridurre l’intensità delle emozioni e superare il momento di crisi senza peggiorare le cose (Linehan, 1993)

Gli autori rivolgono uno sguardo anche al “sistema famiglia”, discutendo dell’effetto che il figlio adolescente con un’emotività intensa esercita sugli altri membri del nucleo familiare, come i fratelli e le sorelle. Infatti, risulta importante trascorrere del tempo con gli altri figli, assicurandosi che i loro bisogni emotivi siano altrettanto soddisfatti, in quanto spesso questi si sentono invisibili e trascurati. Inoltre, è bene distinguere, nella cerchia parentale, coloro che riescono ad essere supportivi, comprensivi e validanti, dando un concreto supporto e conforto, e quanti invece saranno giudicanti e offriranno consigli indesiderati e poco utili.

Il manuale termina con la proposta di una serie di risorse web e consigli letterari per i genitori, insieme alla presentazione di una guida rapida per una “genitorialità equilibrata ed efficace”, che ripropone concetti e abilità precedentemente esposti nel corso dei capitoli, come l’importanza dell’accettazione, della flessibilità e dell’equilibrio, del pensiero dialettico e della negoziazione, nel rapporto con il proprio figlio adolescente.

La lettura del libro risulta chiara e scorrevole, pur offrendo una visione articolata e completa dell’universo adolescenziale e una descrizione realistica delle montagne russe emotive tipiche di questo periodo; inoltre, dona un contributo concreto alle figure genitoriali in quanto propone risposte pratiche agli innumerevoli interrogativi che frequentemente sorgono di fronte alle sfide dell’adolescenza, soprattutto se attraversata da intensi sconvolgimenti emotivi.

 

Perdonare un torto subìto ci fa stare meglio?

 Effetti del perdono sulla salute fisica

Lee ed Enright hanno recentemente condotto una meta-analisi per analizzare l’associazione tra benessere corporeo e perdono.

 

Il perdono libera l’anima, rimuove la paura. È per questo che il perdono è un’arma potente.

Queste le parole di Nelson Mandela in merito agli effetti che tale processo può avere sulle nostre emozioni. Ma leggendo questa frase la domanda che sorge spontanea è: quando si perdona qualcuno anche il nostro corpo può trarne beneficio?

Sono state pubblicate ben quattordici meta-analisi su perdono e salute mentale, mentre fino a poco tempo fa non esisteva alcuna meta-analisi completa che descrivesse la relazione tra perdono e salute fisica. Proprio da queste necessità è nata l’indagine di Lee ed Enright, in grado di evidenziare un’associazione finora trascurata (2019).

Lee ed Enright hanno infatti recentemente condotto una meta-analisi di studi empirici per analizzare l’associazione tra benessere corporeo e perdono in persone con e senza problemi di salute. Per studiare al meglio la relazione tra questi due concetti, è bene conoscerne il significato.

Enright (2012) ha definito l’atto di perdonare qualcuno come una diminuzione della motivazione a vendicarsi, accompagnata dalla volontà di rinunciare al risentimento nel contesto dell’ingiustizia e di offrire amore morale e benevolenza a un offensore.

Da questa definizione si può assumere che il perdono nasca da un’offesa percepita come intenzionale da parte della vittima, che inizialmente reagisce con un atteggiamento di rivalsa. Ad essa segue poi una riflessione, che può verificarsi anche sotto forma di ruminazione cognitiva, attraverso la quale la prima reazione emotiva viene ad affievolirsi per fare spazio ad un atto intenzionale di rinuncia alla vendetta. Le emozioni che precedono questo processo hanno una natura negativa. Tra le più diffuse troviamo rabbia e risentimento. Perdonare qualcuno, invece, può permettere di sperimentare emozioni positive, che possono favorire leggerezza e benessere fisico.

Il concetto di salute è stato descritto in molti modi diversi. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha definito la salute come “uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, e non semplicemente l’assenza di malattie o infermità (Grad, 2002, p. 984)”. Eppure, Huber e colleghi (2011) hanno criticato la definizione di salute dell’OMS per aver trascurato l’aumento delle malattie croniche, giudicandola, per tale motivo, non completa. Il team di Huber (2011) ha quindi concettualizzato la salute come “la capacità di adattarsi e di autogestirsi di fronte alle sfide sociali, fisiche ed emotive (p. 1)” ed ha affermato che il termine salute fa riferimento alla condizione di un organismo che è “capace di “allostasi”, vale a dire mantenimento dell’omeostasi fisiologica attraverso il cambiamento delle circostanze. Alla luce di questa definizione, un organismo sano che sta fronteggiando uno stress fisiologico è in grado di attivare una risposta protettiva, ridurre il potenziale danno e ripristinare un equilibrio, adattandosi”. È proprio al mantenimento di questo tipo di equilibrio che si fa riferimento quando si analizzano le conseguenze che il perdono ha sulla salute corporea.

Gli autori dell’indagine hanno recuperato centoventotto studi nei quali era mostrata una significativa relazione positiva tra il perdono degli altri e la salute fisica. Le variabili di salute fisica osservate hanno incluso: biomarcatori, caratteristiche misurate che indicano normali processi biologici, patogeni o risposte farmacologiche a un intervento terapeutico (ad esempio un elevato tasso di glicemia); endpoint clinici, come infarto al miocardio o frattura ossea; salute fisica auto-riferita (Biomarkers Definitions Working Group, 2001, p. 91).

Come precedentemente descritto, l’ipotesi nucleare dei ricercatori riguardava l’associazione positiva tra il perdono degli altri e la salute fisica. Tale ipotesi è stata supportata dal fatto che la meta-analisi ha mostrato un’associazione significativa e positiva tra salute e perdono. Ciò significa che perdonare qualcuno può permettere di migliorare la propria salute fisica, arginando le patologie.

Ulteriori analisi svolte dagli autori hanno inoltre evidenziato come la relazione tra perdono di qualcuno e salute sia universale, e in quanto tale indipendente dalle differenze individuali di genere, etnia o età (Lee & Enright, 2019).

Alla luce dei risultati individuati, aprirsi al perdono non solo può rappresentare una saggia scelta, ma può contribuire a tutelare e preservare il nostro benessere corporeo. Sperimentando emozioni positive e sensazioni di sollievo e leggerezza che caratterizzano il perdono, il nostro corpo trae giovamento, presentando, come riportato nella meta-analisi, una miglior qualità di salute fisica.

 

Cosa dice un complottista

Il complottismo può essere pensato come un delirio a bassa intensità, caratteristica che lo rende socialmente condivisibile e piuttosto contagioso. Come tutti i deliri contiene dei dati di realtà che tutti accettiamo, le informazioni vengono, però, accorpate e riorganizzate attraverso una sorta di salto quantico del pensiero.

 

 Leggendo l’articolo Cosa dire a un complottista di Alessandro Carrera per Doppiozero (Carrera, 2020) dello scorso dicembre, ho provato un misto di affascinato interesse e inquieto divertimento. Carrera racconta di quando, nel suo studio di professore universitario durante l’orario di ricevimento dedicato agli studenti, si trovò di fronte un uomo che gli chiedeva un colloquio. Avendolo scambiato per uno studente attempato, Carrera lo accontentò. Dal monologo dell’uomo divenne però ben presto evidente che si trattava di un autodidatta appassionato della Divina Commedia convinto di averne svelato i profondi significati nascosti. Riteneva di esserci arrivato utilizzando come chiave interpretativa il disegno di Leonardo intitolato Arcieri saettano un’erma. Carrera, da accademico, si trovò spiazzato di fronte alla granitica certezza del suo interlocutore circa l’adeguatezza e la genialità della propria scoperta ma, al contempo si rendeva conto dell’impossibilità di confutare, o semplicemente mettere in dubbio, la tesi che gli veniva esposta. Attuò allora un arguto cambio di piano nel discorso ricordandosi di un’intervista in cui un esperto affermava che l’unica mossa valida con un complottista consisterebbe nel farlo parlare di quello di cui ha veramente paura. Così, sfruttando il proprio intuito, che spesso per essere efficace deve abbinarsi a un po’ di fortuna, chiese al suo interlocutore come stesse la madre. Quasi magicamente la foga dell’interpretatore di enigmi danteschi scomparve per lasciare spazio a commenti poco lusinghieri sulla propria madre soprannominata “Arsenico”. Evidentemente non a caso.

Cos’ha colto Carrera del modo di funzionare del suo interlocutore? E più in generale, cosa possiamo dedurne rispetto a chi viene inesorabilmente catturato dal pensiero complottista?

Esistono due concetti psicoanalitici che possono contribuire alla comprensione, almeno parziale, di questo fenomeno. Primo: quelle che comunemente vengono considerate normalità e patologia sono semplicemente gli opposti di un continuum. Ciò significa che nella psicopatologia vediamo all’opera dei processi psichici estremizzati che possiamo trovare in misura attenuata negli individui considerati sani (Winnicott, 1983). Secondo: il delirio psicotico, per quanto incomprensibile e bizzarro possa apparire, ha un senso e una coerenza per chi lo sviluppa. Ciò significa che esso non è solamente l’esito del disturbo psichico in forma di sintomo bensì contiene in sé un tentativo di guarigione: la frattura psichica sperimentata viene in qualche modo ricomposta attraverso una narrazione che è meno angosciante della frammentazione senza significato (Freud, 1910, Bion, 2009).

 Il complottismo nel quale incappiamo ormai piuttosto frequentemente nelle normali conversazioni non è propriamente classificabile nella categoria dei classici deliri psicotici. Potremmo piuttosto pensarlo come un delirio a bassa intensità, caratteristica che lo rende socialmente condivisibile e piuttosto contagioso. Come tutti i deliri contiene dei dati di realtà che tutti accettiamo: l’esistenza del 5G, dei chips che possono essere impiantati nel corpo umano, il potere delle lobby o la diffusione dei virus pandemici, solo per elencarne alcuni molto attuali. Le informazioni vengono però accorpate e riorganizzate attraverso una sorta di salto quantico del pensiero. Il passo così diventa breve nel dare corpo a narrazioni come quella in cui la pandemia sarebbe stata creata ad hoc per inoculare dei microchip negli individui con il vaccino così da poterli poi controllare attraverso le frequenze del 5G. Narrazione che può essere presa nel suo complesso oppure spezzettata in sotto-racconti, a dipendenza di chi ne farà uso (Brotherton, 2017).

Elemento centrale e ricorrente nell’architettura dei deliri a bassa intensità è la presenza di un’entità esterna superiore, generalmente spietata e controllante, il cui fine ultimo sarebbe quello di soggiogare individui, gruppi o nazioni intere, così da averne il dominio assoluto per un proprio vantaggio.

Perché alcune persone sono così attratte da questo tipo di racconto? Quale beneficio ne traggono? Apparentemente nessuno poiché la realtà che queste teorie generano è angosciante e altamente distopica. Seguendo l’intuizione di Carrera diventa allora necessario spostare il piano del discorso, ipotizzando contemporaneamente che il complottista stia già parlando di quello che teme realmente. Semplicemente non corrisponde al suo discorso manifesto. Chi è allora veramente il suo nemico? Quasi immancabilmente, di fronte a persone complottiste, mi trovo a immaginare i bambini che sono stati, i genitori che hanno avuto o le esperienze che hanno vissuto con le figure di riferimento incontrate nella loro vita. Inevitabilmente mi immagino abbiano vissuto situazioni che li hanno fatti sentire inermi e impotenti dentro qualcosa che stava loro accadendo senza che avessero gli strumenti per comprenderlo né tantomeno per poterlo modificare. Condizione del resto inevitabile quando per una questione anagrafica e di ruoli, per molti anni della propria vita si è realmente dipendenti dal contesto nel quale si vive e dalle proprie figure di riferimento. E non è nemmeno così rilevante che questo vissuto sia formato su un’esperienza reale o che invece sia conseguenza di una rilettura a posteriori degli eventi (Laplanche, 1989-1990). Quello che fa la differenza è ciò che rimane depositato nella mente. Si potrebbe obiettare che ognuno di noi ha sperimentato qualcosa di simile nel corso della propria vita riuscendo a superarlo senza per questo diventare complottista. Evidentemente solo per alcune persone con vulnerabilità specifiche queste esperienze diventano punti di fissazione nei quali sarà inevitabile tornare continuamente nel tentativo di sperimentarsi diversamente da come ci si è sentiti in passato.

Pensiamo ora per un attimo agli elementi che ritroviamo in teorie del complotto come quella degli aderenti al gruppo Qanon (Wuming 1, 2021). La loro idea è che il mondo sia dominato da una setta di pedofili bevitori di sangue umano che solamente Trump sarebbe in grado di sconfiggere. Non ho difficoltà a pensare che nel mondo esista un numero di pedofili superiore a quanto vorremmo credere. Mi chiedo però quanti di loro realisticamente si dissetano con sangue di bambino, oltre a essere membri di una setta per il dominio del mondo. Anche solo per una questione statistica, l’eventualità appare per lo meno trascurabile. Tuttavia, quale fantasia meglio incarna l’angoscia di trovarsi inermi sotto il controllo di un’entità spietata e misteriosa che sfrutta la propria posizione di potere se non quella di un adulto pedofilo, potente e malvagio che per il proprio interesse e piacere sessuale sfrutta i bambini fino a cannibalizzarli?

Come i deliri veri e propri, anche i deliri a bassa intensità sono dei tentativi di guarigione volti a placare l’angoscia generata da un mondo altrimenti vissuto come tiranneggiante e imprevedibile. L’organizzazione di una narrazione complottista dove tutti gli elementi trovano un posto, per quanto spaventosa possa sembrare, è meno angosciante di un sistema privo di senso e incontrollabile. L’illusione che crea il complotto è di poterlo combattere, smascherandolo e denunciandolo in primis e lottando poi per salvarsi sconfiggendolo. I guerrieri anti-complotto non sono più così dei bambini ingenui in balia di un potere esterno al quale non possono reagire.  Ora fanno parte di una famiglia estesa, persone come loro al fianco delle quali combattono il grande nemico occulto.

È dunque inutile discutere con un complottista dell’infondatezza del suo racconto poiché egli in realtà fa riferimento ad un discorso invisibile. È proprio lo strabismo tra discorso manifesto e discorso inconscio a rendere questi deliri a bassa intensità compatti e inattaccabili. I complottisti sostanzialmente combattono la propria guerra nel campo sbagliato senza averne percezione, convinti di avere di fronte quello che considerano il proprio nemico mentre in realtà esso si trova alle loro spalle.

 

 

L’impatto del Covid-19 sul Disturbo Ossessivo-Compulsivo In Bambini, Adolescenti e Adulti: Una Review Narrativa

Una recente review, pubblicata nella rivista Journal Frontiers in Psychiatry, di Zaccari V., D’arienzo M.C., Caiazzo T., Magno A., Amico G. e Mancini F., 2021, dal titolo: Narrative Review of COVID-19 Impact on Obsessive-Compulsive Disorder in Child, Adolescent and Adult Clinical Populations, analizza e sintetizza gli effetti della pandemia da COVID-19 nei pazienti affetti da Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC), attraverso un’analisi della letteratura relativa ai contributi empirici pubblicati durante il periodo di emergenza da COVID-19.

 

 Ad oggi, in letteratura è documentato come la pandemia da COVID-19 e la conseguente quarantena, abbiano avuto un impatto significativo non solo sulla salute fisica, ma anche su quella psicologica.

Diversi studi infatti, hanno documentato come l’emergenza da COVID-19 abbia generato disagio psicologico nella popolazione generale (Cullen et al., 2020; Giallonardo et al,2020; Luo et al., 2020; Qiu et al., 2020; Serafini et al., 2020; Sugaya et al., 2020; Xiong et al., 2020; Yamamoto et al., 2020), nella popolazione clinica adulta (Hao et al., 2020; Vindegaard & Benros, 2020) così come in bambini e adolescenti (Clemens et al., 2020; Gindt et al., 2020; Golberstein, Wen & Miller, 2020; Lee, 2020; Liu, 2020), causando un peggioramento di diversi quadri clinici e un aumento delle difficoltà psicologiche. Alla luce di questi dati, che documentano l’impatto sulla salute mentale, è apparso importante analizzare in modo dettagliato l’impatto pandemico sul DOC, un quadro clinico, in alcuni casi, caratterizzato da stati mentali inclini al timore e alla probabilità di contaminazione o dalla percezione di una maggiore responsabilità nel contagiarsi o contagiare gli altri che richiamano la necessità di neutralizzare una minaccia o rischio di contaminazione esperito attraverso comportamenti compulsivi, protettivi, questi ultimi molto attenzionati nel periodo di emergenza da COVID-19 al fine di proteggersi da un possibile contagio.

La letteratura, infatti, documenta come alcuni sintomi Ossessivo-Compulsivi (OC) abbiano subito un’influenza a causa della situazione attuale, sia nella popolazione clinica adulta che in età evolutiva. Tuttavia, dall’analisi della letteratura fino a Gennaio 2021 non era disponibile un lavoro di revisione della letteratura che analizzasse in modo puntale l’impatto del COVID-19 nel DOC. A tal riguardo, l’obiettivo principale del lavoro di Zaccari et al. (2021) è stato quello di passare in rassegna gli studi empirici che hanno affrontato tale topic con lo scopo di analizzare e verificare l’impatto del COVID-19 sulla sintomatologia OC sia in termini di peggioramento clinico che di miglioramento in campioni clinici con diagnosi di DOC di adulti, adolescenti e bambini mettendo in luce anche le limitazioni.

La ricerca in letteratura è stata condotta utilizzando i principali database scientifici: PsycINFO, PsycARTICLES, MEDLINE, Scopus, Web of Science, PubMed e Google Scholar. Questa revisione ha analizzato tutti gli studi pubblicati da Gennaio 2020 a Gennaio 2021, concentrandosi sulle popolazioni cliniche di bambini, adolescenti e adulti con DOC. È stato esaminato un pool di articoli, da quali sono stati selezionati 14 studi ovvero gli studi che rispettavano tutti i criteri di eleggibilità.

Effetti del COVID-19 sui bambini, adolescenti e adulti con DOC

Dall’esame effettuato sui 14 studi, 8 studi su campioni adulti con DOC hanno messo in evidenza un peggioramento dei sintomi OC in termini di gravità mentre 2 studi hanno documentato un impatto minimo del COVID-19. Solo 1 studio, nel campione di adulti, ha rilevato un peggioramento bensì un lieve miglioramento dei sintomi OC (Pan et al. 2020). Dall’analisi di 3 studi selezionati per l’età evolutiva solo 2 hanno mostrato un peggioramento dei sintomi OC anche in presenza di un trattamento in corso (Tanir et al., 2020)

In particolare, negli adulti, è stato rilevato un peggioramento clinico dei sintomi OC (Storch et al., 2021; Benatti et al., 2020; Kuckertz et al., 2020), un aumento delle ossessioni di contaminazione e compulsioni di lavaggio (Matsunaga et al. ., 2020; Jelinek et al., 2021; Prestia et al., 2020), un aumento dei comportamenti di evitamento (Jelinek et al., 2020) e una maggiore richiesta di emergenza o consultazione psichiatrica durante il lockdown rispetto all’anno precedente (Capuzzi et al., 2020). Due studi (Plunkett et al., 2020; Chakraborty e Karmakar, 2020) hanno riscontrato una minima esacerbazione della sintomatologia OC.

Relativamente all’età evolutiva, due studi che riguardano bambini e adolescenti, documentano un peggioramento del DOC (Nissen, et al., 2020) e un aumento significativo della frequenza delle ossessioni da contaminazione, delle compulsioni di pulizia e/o lavaggio durante la pandemia, anche in presenza di un trattamento psicologico o CBT in atto (Tanir et al., 2020). Di contro, nel terzo studio incluso che riguardava l’età evolutiva (Schwartz-Lifshitz, et al., 2021), in un campione in trattamento, non è stata rilevata alcuna esacerbazione dei sintomi OC durante la prima ondata di COVID -19.

Tipologia dei sintomi ossessivo-compulsivi

Gran parte della letteratura analizzata si è focalizzata sui sintomi OC in generale senza analizzare in modo puntuale le differenze tra i sottotipi (contaminazione/lavaggio; controllo; simmetria e ordine; pensieri proibiti). Dei 14 studi esaminati, 10 di essi si sono occupati dei sottotipi di DOC (7 in pazienti adulti e 3 riguardanti bambini ed adolescenti); ad ogni modo 4 studi non hanno analizzato la relazione tra domini OCD e COVID-19 (Storch et al., 2021; Capuzzi et al., 2019; Plunkett et al., 2020; Pan et al., 2021). Alcuni autori (Jelinek et al. 2021; Matsunaga et al., 2020) hanno riscontrato un aumento della gravità dei sintomi OC, in particolare del sottotipo washer. Matsunaga et al. (2020) inoltre, in pazienti con ossessioni di tipo aggressivo, di simmetria e ordine hanno rilevato l’insorgenza di ossessioni anche di contaminazione. Similarmente, Prestia et al. (2020) hanno riportato un peggioramento significativo nella gravità del DOC durante la quarantena, Khosravani et al. (2021) hanno rilevato nello specifico: timori di contaminazione, comportamenti compulsivi di controllo e ricerca di rassicurazioni. Nello studio di Kuckertz et al. (2020) invece, l’impatto in termini di incremento di sintomi e domini specifici resta poco chiaro.

Per quanto concerne bambini e adolescenti, Tanir et al. (2020) hanno evidenziato un incremento della frequenza di ossessioni di contaminazione e compulsioni di lavaggio in un campione di bambini e adolescenti. Al contrario, Nissen et al. (2020) non hanno rilevato alcuna relazione tra COVID-19 e compulsioni di lavaggio, evidenziando, invece, che la presenza di pensieri aggressivi e rituali hanno aumentato il rischio di esperire un peggioramento dei sintomi OC.

Caratteristiche degli studi

Gli studi sottoposti a revisione presentvano tre diversi disegni di ricerca: 8 cross sectional, 5 studi longitudinali e 1 studio preliminare naturalistico. Essi riportavano i risultati dei dati raccolti durante il primo lockdown, da gennaio a Maggio 2020, in diversi paesi. Soltanto due studi hanno riportato i dati raccolti nel periodo di Giugno-Agosto 2020 (Storch, et al., 2020; Khosravani, et al., 2020) mentre lo studio di Capuzzi e colleghi (2020) ha confrontato i risultati i dati del 2019 con quelli raccolti da Gennaio-Maggio 2020. In generale, gli studi analizzati sono stati condotti su campioni con caratteristiche eterogenee. In alcuni, variabili come il sesso, l’età o la presenza di eventuali comorbidità psichiatriche non erano specificate, rendendo ancora più difficile l’interpretazione dei risultati ottenuti. Altri presentavano un ampio range di età (ad esempio, 4 -77 anni; Storch, et al., 2020). Alcuni studi sono stati condotti su un piccolo campione (N = 8; Kuckertz et al., 2020; n= 29; Schwartz- Lifshitz et al., 2021) altri su un campione più ampio (e.g., N =394 Jelinek et al., 2020; N=300 Khosravani et al., 2020).

Misure

Per il campione clinico di adulti, quasi il 60% degli articoli selezionati ha utilizzato la Yale-Brown Obsessive Compulsive Scale (Y-BOCS, Goodman et al., 1989). Diversi studi hanno optato per misure self-report, come l’Obsessive-Compulsive Inventory-Revised (OCI-R; Foa et al., 2002) utilizzato in Jelinek et al. (2021) e Khosravani et al. (2021). Due studi (Capuzzi et al., 2020; Benatti et al., 2020) hanno utilizzato solo strumenti qualitativi per valutare il peggioramento del DOC, come un colloquio psichiatrico generale e domande per identificare i principali fenotipi di ossessioni e compulsioni (Benatti et al., 2020). Altri ricercatori hanno supportato i dati quantitativi con quelli qualitativi, adottando questionari ad hoc con lo scopo di identificare la gravità del DOC, i cambiamenti nei sintomi dall’inizio del COVID-19 (Jelinek et al., 2021) e la qualità della vita durante la quarantena (Prestia et al., 2020).

Per quanto riguarda le ricerche su soggetti giovani, oltre alla Children’s Yale-Brown Obsessive Compulsive Scale (CY-BOCS, Scahill et al., 1997), sono stati adottati diversi strumenti, come la Clinical Global Impression (CGI, Busner e Targum, 2007), l’Obsessive-Compulsive Inventory-child version (OCI-CV, Foa et al., 2010), o questionari di autovalutazione qualitativi.

La metà degli studi analizzati ha optato per somministrazioni online, interviste telefoniche e sondaggi, al fine di essere in linea con le politiche governative e sanitarie.

Tipi di trattamento

I campioni hanno ricevuto diversi tipi di trattamento: trattamento farmacologico, Terapia Cognitivo-Comportamentale (CBT), Acceptance and Commitment Therapy (ACT), o supporto psicologico us usual. Solo due studi documentano che i pazienti hanno ricevuto un trattamento di Esposizione e Prevenzione della Risposta (ERP) durante il periodo della pandemia (Storch et al., 2020 ; Kuckertz et al., 2020). In generale, la maggior parte degli studi non ha offerto un panorama chiaro del tipo di trattamento utilizzato su tutto il campione, non specificando il tipo di intervento e la durata dello stesso, o esplicitandolo soltanto per una parte del campione.

Discussione dei risultati

I risultati della rassegna hanno documentato come i contributi empirici rispetto all’impatto del COVID-19 sulla popolazione clinica DOC siano esigui e caratterizzati da risultati controversi. Un maggior numero di studi ha indagato l’impatto sulla popolazione clinica adulta, mentre meno attenzione è stata posta in maniera specifica agli effetti su bambini e adolescenti; infatti, soltanto tre studi, si sono occupati di questo specifico target (Nissen et al., 2020; Tanir et al.,2020; Schwartz-Lifshitz et al., 2021). L’analisi della letteratura ha rivelato che il COVID-19 ha avuto un’influenza sul DOC sia in campioni clinici di adulti che in età evolutiva mettendo in luce un peggioramento o esacerbazione dei sintomi afferenti al sottotipo DOC contaminazione/lavaggio (Sulaimani & Bagadood, 2021). È plausibile che l’esacerbazione del timore ossessivo di contaminazione sia stato rinforzato dalla preoccupazione costante circa il virus e le incessanti raccomandazioni nel mantenere elevati livelli di igiene (Chaurasiya et al., 2020).

In sintesi, la rassegna documenta un impatto negativo del COVID-19 su campioni clinici con diagnosi di DOC. Tuttavia, sebbene il lavoro documenti un impatto negativo sia nei campioni clinici di adulti che in età evolutiva, il numero di studi passati in rassegna appare esiguo e sbilanciato: sono disponibili più studi su campioni di adulti che su popolazioni di bambini e adolescenti.

Inoltre, l’analisi dei dati ha fatto emergere diverse limitazioni degli studi considerati, le quali sono rilevanti al fine di porre un’adeguata riflessione sui risultati. In particolare è importante sottolineare che solo  pochi studi hanno esaminato i sottotipi di DOC. Inoltre, nella maggior parte degli studi il tipo di trattamento non era ben definito. I campioni spesso erano eterogenei e caratterizzati da un’ampio range di età. Infine, non sempre è stato utilizzato lo stesso periodo di monitoraggio o misurazioni standardizzate, il che rende difficile confrontare o fare affidamento sui risultati.

I risultati indicano il bisogno di arricchire questo campo di studio riducendone le limitazioni evidenziate e sottolinea ai clinici l’importanza dell’influenza delle variabili contestuali odierne.

 

Pensieri quasi quotidiani di una psicologa sulla famiglia (2021) di Barbara Calcinai e Linda Savelli – Recensione del libro

Scritto in un linguaggio semplice e chiaro, privo di inutili tecnicismi, ma sempre basato su una letteratura scientifica solida, Pensieri quasi quotidiani di una psicologa sulla famiglia fa riferimento all’intero ciclo vitale della famiglia, intesa in termini transgenerazionali.

 

 Siamo stati letteralmente sommersi da una Pandemia che ha completamente stravolto le vite di ognuno di noi. L’uomo, essere sociale, nato e predisposto alle relazioni ed ai i contatti, si è ritrovato improvvisamente rinchiuso in quattro mura, con la sensazione, a volte, di non respirare. Ecco, però, che in un momento così difficoltoso, sono arrivati paradossalmente in soccorso i social, piattaforme di legami virtuali. E sono stati proprio quest’ultimi ad aiutare persone veramente in difficoltà, con milioni di dubbi, paure e angosce, incapaci di dare una risposta ad un evento così straordinario e così potente da essere in grado di sconvolgere e di mettere a repentaglio la stabilità di intere famiglie.

La pagina Facebook della Dr.ssa Barbara Calcinai, psicologa, psicoterapeuta, iscritta all’albo degli Psicologi della Toscana, è diventato un importante mezzo di comunicazione, attraverso il quale trattare tematiche psicologiche legate alla famiglia. Il successo riscontrato ha permesso a Barbara, insieme alla sua collega, Dr.ssa Linda Savelli, di raccogliere materiale e di sistematizzarlo, per dare la possibilità a tutte le persone interessate, di comprendere tematiche rilevanti della vita e di suggerire consigli per affrontare difficoltà, a volte ritenute insormontabili, a volte addirittura negate.

 Fulcro di tutto il testo è l’autostima e la capacità di credere fermamente in sé stessi, che vengono citate dalle autrici come motore propulsore, fondamentale per affrontare ogni difficoltà, ancora prima del supporto psicoterapeutico. Scritto in un linguaggio semplice e chiaro, privo di inutili tecnicismi, ma sempre basato su una letteratura scientifica solida, il testo fa riferimento all’intero ciclo vitale della famiglia, intesa in termini transgenerazionali, ciclo che si ritrova in situazioni definite critiche a dovere evolvere la propria struttura per superare l’ostacolo. Crisi non significa necessariamente qualcosa di negativo, ma induce ad una trasformazione interna dell’assetto per acquisire un nuovo equilibrio più funzionale. Si approccia ad un intervento psicoterapeutico definito sistemico famigliare, in cui il sintomo è l’espressione primaria di una richiesta di aiuto, manifestazione di un disagio che coinvolge l’intero ordine del sistema. È il corpo che parla e cerca supporto. È necessario solo cercare di imparare a leggere il suo modo di comunicare, perché in questa forma di intervento, come ben spiegano le autrici,

la soluzione deve essere co-costruita insieme agli attori coinvolti.

Una visione sicuramente molto ottimista che coinvolge anche la volontà e la motivazione dei componenti al cambiamento; una terapia sicuramente attiva. Da questo importante punto di partenza si snoda l’intero contenuto del testo, a partire dai primi pensieri dell’infanzia, fino a giungere alle emozioni della terza età, mettendo in risalto tutti gli aspetti vantaggiosi ed utili di un buon percorso psicologico o psicoterapeutico. Il pubblico è vasto, in quanto l’intento è proprio quello divulgativo: aiutare persone in difficoltà a comprendere il giusto modo di vedere le cose, ma aiutare anche quelle già in grado di farlo, per un’ulteriore acquisizione di informazioni, utili per il presente e per il futuro. Un intento nobile e autentico, conditio sine qua non una professione come quella di uno psicologo non potrebbe sussistere. E le autrici lo dimostrano pienamente.

 

Il ruolo del pensiero negativo ripetitivo nell’insorgenza del declino cognitivo

L’indagine longitudinale di Marchant et al. (2020) ha testato l’ipotesi del debito cognitivo, indagando la relazione tra stile di pensiero negativo ripetitivo, declino cognitivo e misure di neuroimaging.

 

La demenza di Alzheimer (AD) è una patologia neurologica che nelle fasi iniziali si caratterizza per l’aggregazione di beta amiloide e proteine tau iperfosforilate a livello cerebrale (Jack et al., 2018), con peggioramento della memoria (Bäckman et al., 2005; Wilson et al., 2011).

Essendo la degenerazione progressiva, è necessario identificare i fattori di rischio modificabili associati ai biomarcatori, così da poterli prendere di mira nella prevenzione della patologia.

La depressione (Diniz et al., 2013) e l’ansia (Gimson et al., 2018), fattori di rischio per il declino cognitivo e l’AD, secondo l’ipotesi del “debito cognitivo” non agiscono indipendentemente, bensì condividono uno stile di pensiero negativo e ripetitivo (RNT) (Trick et al., 2016).

Il pensiero negativo ripetitivo, chiamato anche cognizione perseverante, è un processo misurabile e modificabile costituito da rimuginio e preoccupazioni rivolte al futuro, oltre che ruminazioni verso il passato (Gu et al., 2015; Watkins et al., 2011).

Nonostante la sua implicazione nell’insorgenza dei marcatori neurobiologici dell’AD (amiloide e tau) non sia stata ancora esaminata, l’RNT potrebbe contribuire al rischio della demenza. Infatti, ricerche precedenti associano il rimuginio ad un carico di amiloide più elevato negli individui con declino cognitivo (Miebach et al., 2019; Verfaillie et al., 2019).

L’indagine longitudinale di Marchant et al. (2020) ha testato empiricamente l’ipotesi del debito cognitivo, indagando tra anziani cognitivamente sani, la relazione tra stile di pensiero negativo ripetitivo e marcatori di demenza di Alzheimer, come declino cognitivo e misure di neuroimaging di beta amiloide e tau. Inoltre, ha esaminato il ruolo dei sintomi depressivi e ansiosi nell’insorgenza di tali marcatori.

292 partecipanti a elevato rischio di demenza ma senza compromissioni (coorte PREVENT-AD), sono stati sottoposti a valutazioni cognitive, mentre ad un gruppo di 113 è stata analizzata la presenza dell’amiloide e della tau con tomografia a emissione di positroni (PET).

Ulteriori dati di 68 adulti, cognitivamente sani ma con declino cognitivo soggettivo (coorte IMAP+), sono stati analizzati mediante PET.

Il pensiero ripetitivo e le modalità con cui venivano cognitivamente affrontate le esperienze negative, sono stati valutati mediante il Perseverative Thinking Questionnaire, PTQ; Ehring et al., 2011).

I partecipanti hanno anche compilato misure di depressione (ad es. Geriatric Depression Scale, GDS; Greenberg, 2019) e di ansia (ad es. Geriatric Anxiety Inventory, GAI; Pachana et al., 2007), oltre che essersi prestati a valutazione cognitiva globale (ad es. Repeatable Battery for Assessment of Neuropsychological Status, RBANS; Randolph et al., 1998).

In un periodo di 48 mesi, elevati livelli di RNT si associavano ad un declino più rapido della cognizione globale, della memoria immediata e ritardata.

Inoltre, in entrambe le coorti, l’RNT si associava ad elevati livelli di tau nella corteccia entorinale e ad amiloide cerebrale globale, al netto di predittori noti di deposizione di amiloide, come età, lo stato APOE ɛ4 (proteina coinvolta nella malattia di Alzheimer) e la funzionalità cognitiva (Jansen et al., 2015).

Sebbene sintomi depressivi ed ansiosi correlavano con il declino cognitivo e l’RNT, entrambi non si associavano alla deposizione dei biomarcatori relativi alla demenza di Alzheimer (amiloide e tau), mostrandosi maggiormente implicati nell’insorgenza di una forma di declino correlato all’età o non specifico della demenza.

D’altra parte l’RNT può essere un marker più preciso per l’AD. Infatti, il pensiero negativo ripetitivo, si associava al rischio di insorgenza dell’Alzheimer, essendo l’unico predittore del peggioramento della memoria episodica e della cognizione globale, entrambi domini correlati alla demenza (Bäckman et al., 2005; Gainotti et al., 2014; Silva et al., 2013). Coerentemente, indagini precedenti riscontravano prestazioni cognitive peggiori in adulti con elevata ruminazione e preoccupazione (de Vito et al., 2019; Whitmer & Gotlib, 2013)

La presenza dello stress potrebbe spiegare l’associazione tra l’RNT, beta amiloide e tau. Infatti, il pensiero ripetitivo, oltre ad associarsi ad indicatori precisi, come elevata pressione sanguigna e cortisolo (Ottaviani et al., 2016), è un marker comportamentale che può attivare cronicamente la risposta fisiologica allo stress, aumentando la vulnerabilità all’AD.

Questa indagine empirica volta a testare l’ipotesi del debito cognitivo, ha mostrato prove di una relazione tra l’RNT, declino cognitivo, carico di beta amiloide e tau, in anziani cognitivamente sani.

Sebbene non sia chiaro se la diminuzione dell’RNT riduca il rischio di AD, certamente le ruminazioni e le preoccupazioni possono essere modificate mediante terapia cognitivo comportamentale (Watkins et al., 2011) o interventi basati sulla consapevolezza (Gu et al., 2015), apportando enormi benefici al paziente.

Una volta erogati questi trattamenti, sarebbe di estrema importanza clinica valutarne l’esito in termini di variazioni dei marcatori cognitivi associati all’Alzheimer, così da arginare il rischio di insorgenza della patologia.

 

Il trucco e l’autostima – cosa hanno in comune?

Quando miriamo alla perfezione, otteniamo anche l’autostima!

Il “percorso” dell’autostima

Nessuno è perfetto eppure di tanto in tanto affrontiamo piccole imperfezioni, il che va benissimo. Bisogna amare il proprio corpo e la propria pelle in qualunque forma essi siano, con e senza imperfezioni.

Tutta questa lunga “strada verso la fiducia in se stessi” è, purtroppo, cosparsa di molte frustrazioni che derivano dai cosiddetti “standard” imposti dalla società.

L’autostima si costruisce gradualmente, accumulando esperienze positive o negative. Per questo le donne sono sempre state appassionate di trucco, ma soprattutto interessate a sentirsi bene e a vedersi belle. Da qui deriva la varietà di trucco, dal più stridente al più naturale.

Otteniamo l’autostima attraverso il trucco

Molte donne preferiscono “rivelare” la loro bellezza attraverso il trucco al naturale. Ciò consente di evidenziare i propri punti di forza, sia che si tratti di occhi, di labbra o di altri dettagli che si vogliono evidenziare. Questo tipo di trucco non richiede molti prodotti ed è molto facile da realizzare. È fondamentale utilizzare solo la quantità di cui si ha bisogno e la “tecnica” più importante si chiama “autostima”.

Ma cosa comporta esattamente il trucco naturale?

Gli specialisti https://makeup.it/brand/24147/ affermano che questo tipo di trucco non richiede molto tempo e può essere applicato ovunque, in qualsiasi momento e in qualsiasi contesto.

Il trucco e l autostima - cosa hanno in comune IMM1

I “punti di forza” del trucco

Certamente, nessuna donna si sente bene quando viene criticata, soprattutto per il suo aspetto fisico. Le critiche diminuiscono considerevolmente l’autostima. Da qui il desiderio della donna di aumentare la sua attrattività. Questa convinzione è trasmessa anche dalle aziende cosmetiche che promettono “sembrerai irresistibile” a chi utilizzerà i loro prodotti. In una certa misura è vero che il trucco aiuta una donna ad avere un bell’aspetto: migliora la simmetria del viso, rende l’aspetto più giovane, coprendo piccole imperfezioni e macchie, contornando le linee delle labbra, mettendo in risalto gli occhi e donando volume alle ciglia.

Aspetti psicologici del trucco

Il trucco è uno strumento di comunicazione e benessere. Questo non solo aumenta l’autostima, ma può anche cambiare in modo significativo la percezione che gli altri hanno della nostra personalità.

I cosmetici possono cambiare in modo significativo il modo in cui le persone ti percepiscono, quanto pensano che tu sia intelligente a prima vista, quanto sei cordiale e disponibile – ha dichiarato Sarah Vickery, al New York Times.

Le donne possono utilizzare con successo i cosmetici per “manipolare” il modo in cui vengono valutate, il che può essere vantaggioso in situazioni sociali in cui le donne possono essere giudicate per il loro aspetto, come le interviste. Rispetto alle donne non abituate a truccarsi, quelle truccate sembrano essere più sane, più sicure delle proprie forze e hanno più possibilità di essere remunerate meglio.

Il trucco può fare “miracoli” per la psiche femminile, per il modo in cui lo percepisce chi lo applica e per il suo grado di autostima. C’è però una condizione: che l’applicazione dei cosmetici sia una scelta personale, non imposta. Altrimenti l’effetto è diametralmente opposto.

La ricerca suggerisce che le donne possono sentirsi “oggettivate” dal trucco e per queste donne, ogni potenziale vantaggio potrebbe essere deviato dal disagio di indossarlo – scrive la dottoressa Nancy Etcoff, psicologo del Massachusetts General Hospital e autrice di “Sopravvivenza del più bello: la scienza della bellezza”, per il New York Times https://www.nytimes.com/1999/03/21/books/the-beautiful-people.html.

La percezione della bellezza

Sono tante le donne che rinunciano alla naturalezza e usano i cosmetici per la bellezza e per attirare l’attenzione su di loro. Gli uomini percepiscono le donne che si truccano come prestigiose, mentre le donne percepiscono le altre donne truccate come dominanti. Sia le donne che gli uomini percepiscono le donne truccate fisicamente più attraenti e più sane. La pelle luminosa, in contrasto con labbra rosse e ombretti, è valutata come un segno di salute. Le donne si sentono più sicure quando si truccano, sono più produttive al lavoro e anche hanno una gioia interiore.

Dove è nascosta la bellezza?

L’opinione del dottor Kelly Flanagan, riguardo il trucco femminile, in una lettera a sua figlia, su ciò che la rende veramente bella, è davvero emotiva ed eloquente. Nella lettera, l’autore chiede a sua figlia: “Dove è nascosta la tua bellezza?” e vuole ricevere la risposta: “Dentro!https://www.today.com/parents/dads-letter-daughter-forget-makeup-your-beauty-inside-2d12111554

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Quindi, il trucco non è una cosa negativa, finché c’è moderazione e viene utilizzato per nascondere piccole imperfezioni e accentuare alcune caratteristiche e vantaggi del viso. Quando il trucco, invece, diventa una “mascherina” quotidiana, questo è già un modo non funzionale per risolvere i problemi di autostima.

Il benessere viene dall’interno e “si riflette” sull’autostima, indipendemente dal fatto di essere truccata o meno!

 

La terapia cognitivo-comportamentale del disturbo d’ansia sociale: il primo corso fad ecm di Studi Cognitivi

Il Disturbo d’Ansia Sociale è il disturbo d’ansia più comune nella popolazione generale.  E’ caratterizzato da stati di paura o ansia nelle situazioni sociali in cui l’individuo si sente sottoposto al giudizio altrui, per esempio essere osservati, parlare in pubblico, conversare con persone sconosciute.

Il disturbo d’ansia sociale ha un esordio precoce e un decorso tipicamente cronico, compromettendo il funzionamento e la qualità di vita delle persone che ne soffrono. Rimane tuttavia un disturbo sottodiagnosticato, sia a causa del mancato riconoscimento del quadro sintomatico nell’ambito delle cure primarie, sia a causa della reticenza di questi pazienti nella richiesta di aiuto, che arrivano in terapia solo quando emerge un altro disturbo in comorbilità.

Possedere le competenze specifiche per la cura di questo disturbo è quindi un elemento imprescindibile per la corretta gestione dei pazienti con disturbo d’ansia sociale. Il corso FAD “La terapia cognitivo-comportamentale del Disturbo d’Ansia Sociale” nasce con lo scopo di offrire a psicologi e psicoterapeuti uno strumento mirato all’apprendimento di tecniche in linea con le linee guida internazionali e i protocolli di elezione.

Il corso è strutturato in 6 video-moduli, all’interno dei quali il prof. Gabriele Caselli guiderà gli allievi a conoscere le caratteristiche del disturbo, i fattori di mantenimento e l’applicazione delle tecniche terapeutiche derivanti dal modello cognitivo di Clark e Wells (1995), che attualmente rappresenta l’intervento di elezione per la cura del Disturbo d’Ansia Sociale. Materiale cartaceo, strumenti di lavoro e simulazioni tra paziente e terapeuta rendono il corso fortemente esperienziale, rappresentando un valido strumento per affinare le competenze del lavoro psicoterapico.

Gli argomenti trattati nei video-moduli sono:

– Il modello cognitivo del Disturbo d’ansia sociale

– Audio e Video-Feedback

– Formulazione del caso e familiarizzazione

– Manipolazione dei comportamenti protettivi

– Ristrutturazione cognitiva

– Interventi Off-label

Ogni modulo comprende materiale scaricabile, finalizzato a ottimizzare l’apprendimento.

Il corso è consultabile interamente online sulla piattaforma https://fad.studicognitivi.it ed è accreditato per l’erogazione di 5 crediti ECM. Il costo è di €109,80 (IVA inclusa). Iscrizioni aperte.

 

Emergenza Covid

All’interno della piattaforma potrete accedere, inoltre, al corso gratuito “Emergenza COVID-19: l’impatto degli aspetti psicologici e sociale sull’intervento clinico”, una raccolta di webinar altamente formativi che furono registrati da docenti esperti della scuola di Specializzazione in Psicoterapia cognitivo-comportamentale Studi Cognitivi durante il primo lockdown.

A garanzia della qualità dell’offerta formativa proposta, Studi Cognitivi è certificata dall’Agenzia Nazionale per la formazione continua in Medicina (Agenas), abilitata quindi a erogare crediti ECM per eventi formativi residenziali (RES), formazione sul campo (FSC), formazione a distanza (FAD) e formazione blended, per tutte le professioni sanitarie e su tutto il territorio nazionale.

La strategia dell’evitamento negli attacchi di panico

Sono dieci milioni gli italiani che almeno una volta nella vita hanno avuto un attacco di panico che si trasforma in una malattia cronica in un caso su due.

 

Ammettilo: quant’è bello avere tutto sotto controllo?

Sapere con certezza che ogni cosa andrà come previsto, che le persone faranno esattamente ciò che avevi programmato e che la tua vita andrà sempre nella direzione che fin da piccolo avevi sognato.

Appunto, sognato.

Come ho letto nel bagno di un Autogrill “Ricordati che l’unica cosa che va secondo i piani…è l’ascensore”.

In Psicologia esiste un’efficace espressione per definire l’eccessivo utilizzo da parte dell’uomo delle strategie di controllo: si chiama evitamento esperienziale.

Tutti, chi più chi meno, mettiamo in pratica questo comportamento quando evitiamo di parlare con la vicina di casa perché è noiosa e ci fa perdere cinque minuti del nostro preziosissimo tempo, quando tentiamo di allontanare il ricordo triste e desolante che ciclicamente la nostra mente ci ripropone, o quando ci sforziamo di mascherare la sofferenza che stiamo provando in quel momento nel tentativo di non farla percepire alle persone che ci vogliono bene (ma che se ci vogliono veramente bene, lo capiscono ugualmente).

L’evitamento consiste, quindi, nel fuggire da situazioni, pensieri, emozioni e ricordi che ci fanno stare male.

Praticando questa strategia con una certa costanza, nel tempo possiamo arrivare a sperimentare ansia, tristezza, depressione, ossessioni varie, dipendenza da persone, alcool, droghe, ma soprattutto forniamo terreno fertile ai famigerati e temuti attacchi di panico.

Sono dieci milioni gli italiani che almeno una volta nella vita hanno avuto un attacco di panico che si trasforma in una malattia cronica in un caso su due.

Personalmente ho avuto il piacere di sperimentarlo a vent’anni (l’età media di esordio), in un locale affollato quando nel bel mezzo di una bevuta con gli amici, la mente decise di richiamare la mia attenzione proponendomi il seguente pensiero: “C’è troppa gente. Non si respira!” e, da cane ben addestrato, ho incondizionatamente dato ascolto alla mia padrona.

Con il cuore a mille, sudato, in preda ad una sensazione di soffocamento e affamato d’aria, mi sono precipitato fuori dal locale cercando di dribblare tutti i presenti e una volta raggiunta l’uscita, in pochi secondi le mie funzioni vitali si sono riequilibrate a standard più accettabili concedendomi la possibilità di ricominciare a fare quella cosa a cui tutti pensiamo molto poco ma che, in fondo, è l’evento più straordinario del mondo: respirare.

Purtroppo, però, è stato proprio quel sollievo a cui mi sono disperatamente aggrappato che mi ha fregato perché ha creato ciò che gli studiosi della Psiche definiscono consolidamento negativo, e cioè la tendenza a ripetere il comportamento che ha allontanato le sensazioni fastidiose.

In poche parole, non ha la minima importanza di quale ricordo o circostanza abbia innescato l’ansia la prima volta: scappando dal contesto in cui è comparsa per cercare sollievo, “impariamo” a temere e ad evitare quella situazione, con il risultato che la paura nella mente si solidifica diventando una certezza nella nostra vita.

Fuggendo dalla situazione che temiamo, pensiamo di indebolire l’ansia, ma in realtà la rafforziamo.

È come se la coltivassimo, continuando a farla crescere dentro di noi innaffiandola attraverso quotidiane gocce di paura.

Con il passare del tempo ho realizzato che la mia agorafobia, e cioè la fobia dei posti chiusi, non consisteva tanto nella paura della grandezza del locale, della presenza o meno al suo interno di una uscita di sicurezza (cosa che verificavo puntualmente) o della capienza massima di persone che poteva contenere la stanza, quanto dall’ingombrante e sempre più incontrollato pensiero che, qualora avessi rimesso piede in un locale, non solo avrei avuto un nuovo attacco ma questo sarebbe stato ancora più catastrofico del precedente.

Oltre all’ingombrante comportamento evitante, l’attacco di panico si caratterizza sia per le alterazioni fisiologiche come il battito del cuore accelerato, il respiro affannato, un senso di confusione generale e la fatica a deglutire, sia per le alterazioni cognitive come preoccupazioni e pensieri che confondiamo con la realtà immaginando disastri di ogni genere finendo per escogitare decine di modi per evitarli.

Senza riuscirci chiaramente.

Alla base della nostra paura vi è quindi sempre la strategia dell’evitamento ma più scappiamo, più rendiamo inevitabile il verificarsi del prossimo attacco di panico perché ci impratichiamo a fuggire da tutte quelle situazioni che potrebbero suscitare in noi sia reazioni fisiologiche che cognitive.

Il panico non sopraggiunge perché abbiamo paura del locale affollato, ma arriva perché abbiamo paura del pensiero del locale affollato.

Se ci ostiniamo ad evitare le esperienze per paura di provare…paura, rischiamo di impoverire radicalmente la nostra vita; possiamo arrivare a non salire più sopra un aereo, sviluppare fobie per animali o insetti, rinunciare a prendere l’ascensore, stare in luoghi affollati, guidare una macchina, camminare in un bosco o parlare in mezzo alla gente.

Pensando di fare la cosa giusta, mettiamo in realtà in pratica l’errore più grande perché è proprio fuggendo da ciò che temiamo che tendiamo a rafforzare nella nostra mente l’idea che il pericolo sia reale.

Anche se di reale al giorno d’oggi è rimasta la regina Elisabetta e poco altro.

Ansiogeno per eccellenza fu Alessandro Manzoni e famoso è il suo attacco di panico quando durante i festeggiamenti per le nozze di Napoleone e Maria Luisa, si ritrovò bloccato nel mezzo di una folla e a seguito dello scoppio di qualche petardo fu letteralmente preso dal terrore.

Come scrisse successivamente l’amatissima moglie Enrichetta Blondel “il mio caro Alessandro si definisce lui stesso un povero convulsionario”.

La strategia dell’evitamento si caratterizza per quattro step fondamentali: nel primo si evitano accuratamente tutti i luoghi dove si è verificato l’attacco di panico. Nel secondo si sta alla larga da tutti i contesti simili che possono riportarci alla memoria il primo drammatico episodio, nel terzo ci scervelliamo come Arsenio Lupin cercando di evitare ogni situazione e posto in cui la fuga è difficile, e infine, dopo aver dato ampio spazio ai precedenti, potremmo arrivare all’ultimo stadio in cui si è ritrovato l’autore dei Promessi Sposi che, ad un certo punto della sua vita, non fu più in grado di uscire di casa da solo.

Proprio così. L’attacco di panico da questo punto di vista è estremamente democratico: può colpire chiunque senza distinzione di classe sociale, etnia o età.

Cosa fare quindi se ci capita di essere travolti da questo tsunami?

Cerchiamo di mettere in pratica quella cosa che avremmo dovuto imparare fin da piccoli: quando si presenta il panic, anziché spaventarci, andiamogli incontro; in questo modo perderà vigore e comincerà a ridimensionarsi perché ha bisogno di essere contrastato per alimentarsi.

Non combattendolo, si indebolirà da solo e allo stesso tempo crescerà dentro di noi il coraggio necessario per andargli incontro nelle circostanze quotidiane in cui sorge.

Durante un convegno di qualche anno fa, il relatore prof. Attilio Piazza lesse in aula una breve e illuminante storiella:

Un uomo fece un terribile sogno in cui stava per essere mangiato da un tremendo mostro. Disperato, supplicò il mostro piangendo: “ti prego risparmiami!”, “ti prego non farmi male!”, “ti prego lasciami libero!” E il mostro, guardandolo con stupore gli rispose: “Guarda che non so mica se posso farlo: il sogno è il tuo!”.

Non dimentichiamoci mai che dipende, sempre, tutto da noi.

 

I software compensativi nei DSA: come renderli efficaci

I Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA) sono disturbi del neurosviluppo caratterizzati da difficoltà persistenti nell’apprendere le abilità strumentali di base.

Jessica Trentin – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Bolzano

 

Si tratta di un disturbo che coinvolge uno specifico dominio di abilità, lasciando intatto il funzionamento intellettivo generale.

A seconda dell’abilità strumentale coinvolta si parla di: Dislessia, Disortografia, Disgrafia e Discalculia (CC-ISS, 2011).

Nonostante i DSA durino tutta la vita, il decorso è variabile, in quanto può dipendere anche dalle interazioni e compiti richiesti dal contesto ambientale e soprattutto dai sistemi di sostegno e di intervento disponibili (DSM-5, 2013).

In molti casi i DSA possono presentarsi in concomitanza con disturbi emotivi e comportamentali che, se vengono sottovalutati, possono rappresentare un fattore di rischio per il benessere psicologico dell’individuo (Mugnaini et al., 2008).

È anche per questo motivo che negli anni vi è stata una sensibilità maggiore nel cogliere queste difficoltà e nel riconoscerle per quello che sono, senza confonderle con pigrizia, mancanza di impegno o segno di poca intelligenza. Nel 2010, infatti è stata istituita la Legge 170/10 “Nuove norme in materia di disturbi specifici di apprendimento in ambito scolastico” con lo scopo di offrire pari opportunità di sviluppo delle proprie potenzialità a livello scolastico e sociale.

In particolare, l’articolo 5 di tale legge fa riferimento a quelli che sono gli strumenti compensativi e dispensativi a cui gli studenti con un DSA hanno diritto. Gli strumenti dispensativi, come dice la parola stessa, “dispensano” l’alunno da quelle prestazioni i cui esiti non dipendono dal proprio impegno. Per strumenti compensativi, invece, si intendono mezzi di apprendimento alternativi che permettono di compensare le difficoltà di apprendimento.

Il presente articolo ha l’obiettivo di focalizzarsi su una particolare tipologia di strumento compensativo che è quella della tecnologia. Al giorno d’oggi, infatti, oltre a diversi strumenti didattici come l’uso di grafici, formulari e tabelle, esistono numerosi programmi in grado di poter creare mappe concettuali, leggere e scrivere con la sintesi vocale e di eseguire calcoli matematici.

Questi strumenti prendono il nome di software compensativi e sono fondamentali per garantire l’autonomia dello studente con un DSA, che nonostante le sue difficoltà specifiche è comunque in grado di raggiungere gli obiettivi della classe.

Ma il quesito che si vuole discutere è: basta fornire un software compensativo allo studente per risolvere il problema? La risposta è no, e questo perché quando si compensa una difficoltà specifica occorre tenere in considerazione le caratteristiche di apprendimento e i sistemi motivazionali dello studente.

Nell’articolo “La dislessia e i disturbi specifici di apprendimento” presente nella rivista bimestrale “Annali della Pubblica amministrazione”, Flavio Fogarolo mette in evidenza sostanzialmente tre criticità che condizionano l’efficacia della tecnologia utilizzata come strumento compensativo:

  • Un’inadeguata valutazione dei prerequisiti dello studente;
  • L’utilizzo di strumenti che sfruttano esclusivamente il canale uditivo ignorando gli altri stili di apprendimento della persona;
  • Un’ inadeguata presa in carico educativa nel momento in cui lo strumento tecnologico viene introdotto;

Per quanto riguarda il primo aspetto, un prerequisito fondamentale per l’utilizzo di programmi di sintesi vocale, ad esempio, è possedere una sufficiente comprensione di ascolto. Si tratta infatti di una capacità carente in molti alunni con un DSA. In un caso come questo sarà più opportuno utilizzare altre strategie che evitino di sovraccaricare la memoria di lavoro come semplificare il testo oppure ricorrere all’uso di strumenti che fanno leva su altri canali sensoriali come le mappe concettuali.

Infatti, come ricorda F. Fogarolo, i primi strumenti di sintesi vocale per studenti con un DSA venivano ricavati da ausili informatici per i non vedenti, trascurando di conseguenza tutti gli altri canali sensoriali attraverso cui è possibile apprendere. Negli studenti con un DSA, infatti, è proprio il canale visivo non verbale quello che solitamente risulta il più funzionale all’apprendimento.

Per quanto riguarda l’ultimo aspetto, invece, relativo alla presa in carico educativa, da una ricerca condotta dall’AID (Associazione Italiana Dislessia) del Veneto nel 2008 (Fogarolo e Scapin, 2009 ) si può osservare una completa mancanza di affiancamento da parte degli insegnanti nell’introdurre la funzionalità dei software compensativi per gli alunni con un DSA che li utilizzano. Questi studenti, infatti potrebbero non vedere le potenzialità di uno strumento del genere, in quanto poco consapevoli di come adattare le risorse del computer a quelle che sono le proprie esigenze.

Le difficoltà nel saper utilizzare in maniera efficace la tecnologia per compensare i DSA sono emerse in maniera ancora più evidente durante la DAD (Didattica a distanza) introdotta durante i periodi di lockdown imposti a causa dell’emergenza sanitaria da Covid-19.

Per un alunno con un DSA, infatti, ascoltare una lezione frontale in video, può essere vantaggioso, solo se associata alla presentazione di immagini che accompagnano i vari passaggi, ma se manca questo supporto, rischia di sollecitare l’attenzione uditiva richiedendo un grosso carico della memoria di lavoro (Vicari e Di Vara, 2021, p.54).

Quando si parla di software compensativi, bisogna dunque essere in grado di saperli adattare allo studente in questione, personalizzando la didattica.

Nelle “Linee guida per il diritto allo studio degli alunni e degli studenti con disturbi specifici di apprendimento”, viene ribadito come gli studenti utilizzino modalità diverse gli uni dagli altri per apprendere. Perciò, affinché un apprendimento risulti efficace occorre saper adattare le modalità di insegnamento a quello che è lo stile di apprendimento dell’alunno.

Il modo in cui una persona apprende dipende anche da come percepisce l’informazione, ovvero dai canali sensoriali preferenziali. Sulla base di questi ultimi è possibile distinguere quattro stili differenti:

  • Lo stile visivo verbale: lo stile di chi ha una preferenza per la letto-scrittura e apprende più facilmente facendo riassunti, prendendo appunti e di chi preferisce avere istruzioni e spiegazioni scritte
  • Lo stile iconografico: lo stile di chi preferisce studiare attraverso immagini, grafici, tabelle e mappe concettuali
  • Lo stile uditivo: lo stile di chi predilige l’ascolto in classe, la sintesi vocale e le registrazioni audio
  • Lo stile cinestetico: lo stile di chi ha una preferenza per le attività concrete e gli esempi pratici
    (Stella G. e Grandi L., 2011 cap.2)

Occorre ricordare che gli studenti con un DSA incontrano maggiori difficoltà attraverso il canale visivo-verbale (che passa attraverso la letto-scrittura), ma possono apprendere sfruttando tutte le altre modalità. In particolare, sembra che usino spesso approcci multimodali e forse è questo il motivo per cui solitamente traggono beneficio da metodi multisensoriali (E. Andreou , F. Vlachos, 2013).

Questa regola vale anche quando si ha a che fare con i software compensativi che devono essere scelti e utilizzati sfruttando i canali sensoriali che risultano preferenziali in quella persona.

Gli insegnanti non devono limitarsi al solo consenso di utilizzo degli strumenti tecnologici, ma stimolarne un loro uso strategico e metodologico, ovviando al rischio di inefficacia delle tecnologie, adottando così una “didattica compensativa” che sostenga i diversi stili di apprendimento. (Fogarolo, Scapin, 2010).

Esempi di software compensativi in grado di sfruttare diversi canali sensoriali possono essere i programmi dell’Anastasis, cooperativa che progetta e costruisce strumenti tecnologici e servizi per gli studenti con Bisogni Educativi Speciali, costruiti sulla base di modelli verificati da referenti scientifici.

Tra questi vi sono “Geco” pesato per i bambini della scuola primaria ed “Epico”, utilizzato da ragazzi di scuole medie e superiori.

Si tratta di software con diversi ambienti di lavoro, nei quali è possibile leggere libri attraverso la sintesi vocale, creare mappe concettuali, utilizzare la calcolatrice e scrivere imparando a riconoscere gli errori. Questi strumenti permettono di dare valore a quelle che sono le diversità di ognuno rendendole un punto di forza da stimolare e a cui dare importanza. Spesso utilizzare diversi canali sensoriali porta a risolvere in maniera creativa i problemi e permette agli studenti di collegare tra loro i concetti in modi alternativi. Tutto ciò può avere delle ripercussioni positive sull’apprendimento (Anastasis, 2018).

Un errore che spesso la scuola commette è quello di criticare la rivoluzione informatica mettendone in luce unicamente gli aspetti negativi, invece di comprenderne il valore che può avere nella didattica (Vicari e Di Vara, 2021, p.49).

 

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