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Dottor Kernberg, a cosa serve la psicoterapia? (2021) di Manfred Lutz

Nell’opera biografica Dottor Kernberg, a cosa serve la psicoterapia?, lo psicoterapeuta Manfred Lutz intervista uno degli psicoanalisti più famosi, Otto Kernberg, alternando domande di vita personale ad interessanti questioni cliniche e ideologiche.

 

Kernberg si occupa di clinica da più di sessantacinque anni ed è uno dei maggiori esperti di disturbi narcisistici di personalità. L’opera raccoglie 22 ore di intervista, prima registrate e poi trascritte in modo da rendere la lettura scorrevole ed avvincente. Il primo capitolo si concentra sull’esplorazione del significato di psiche umana e di psicoterapia, ci si sofferma sulle differenze tra psicoanalisi e psicoterapia cognitivo-comportamentale, ritenute entrambe valide ed efficaci e si procede indagando in generale i fattori che determinano il successo terapeutico, al centro del quale c’è la relazione terapeutica. La lettura è resa avvincente da diversi esempi clinici seguiti da Kernberg nel corso degli anni.

Il secondo capitolo di concentra sulle possibilità e i limiti della psicoterapia, esplora il significato di disturbo borderline di personalità e quello di disturbo narcisistico di personalità. Si indaga l’impatto ad oggi dei disturbi di personalità, anche di personalità quale quella di Donald Trump. Il linguaggio è chiaro, scorrevole e di facile comprensione.

Il capitolo successivo si addentra nella drammatica questione degli abusi sessuali da parte di psicoterapeuti e preti. Kernberg ritiene che in coloro che perpetuano abusi sessuali nei confronti di pazienti, i disturbi narcisistici siano un importante fattore di rischio, riferisce:

Se dovessi fare una stima direi che circa l’80 per cento degli analisti abusanti sono maschi narcisisti e il restante 20 per cento è composto da sadomasochisti, tanto uomini quanto donne.[…] La tipologia peggiore è quella dei cosiddetti predators, uomini che nascondono un disturbo antisociale di personalità.

Si procede esplorando la diffusione dell’abuso sessuale e di potere all’interno della società psicoanalitica.

Il quarto capitolo si concentra sulla differenza tra psicoterapia e assistenza spirituale ma è a partire dal quinto che l’autore inizia a percorrere la vita di Kernberg, ponendo domande sulla sua storia, l’infanzia ebraica a Vienna, il rapporto con i genitori e i nonni, il probabile incontro tra Otto bambino e Freud, la successiva fuga con la famiglia d’origine in Cile per salvarsi dal regime nazista, l’adolescenza in Cile, l’evolversi del rapporto con i genitori, la fase di ribellione, lo studio e i primi innamoramenti. La lettura diventa ancora più incalzante e avvincente. Si esplora l’evoluzione dell’ideologia politica e spirituale di Kernberg con interessanti interventi dell’autore relativi alla religione, a Dio e agli effetti dell’Olocausto sui sopravvissuti. Vengono ripercorsi alcuni eventi centrali nella vita di Kernberg, come il suo ritorno in visita a Vienna da giovane adulto, gli studi di medicina e l’incontro con la futura moglie Paulina. Si arriva così a ripercorrere gli anni 50, la laurea in medicina, il matrimonio e lo spostamento negli Stati Uniti.

L’ultimo capitolo affronta temi quali la sessualità, l’arte, la morte dell’amata moglie e il secondo matrimonio di Kernberg con la più cara amica di Paulina, Kay.

La forza di questo libro è l’alternare con maestria temi ideologici, clinici, politici e spirituali con la narrazione degli eventi di vita di uno degli psicoanalisti più famosi al mondo.

Valutazione della funzionalità renale e definizione del fabbisogno proteico nell’anoressia nervosa: un caso clinico di estrema gravità

Viene di seguito riportato un caso clinico di una donna con anoressia nervosa, con una durata di malattia pari a 22 anni, con una funzionalità renale compromessa.

 

L’anoressia nervosa (AN) è un disturbo psichiatrico caratterizzato non solo dalla relativa psicopatologia patognomica, ma è anche frequentemente associato a significative comorbilità medico-internistiche, di natura cardiovascolare, ginecologica/riproduttiva, endocrina, gastrointestinale, neurologica ed ematologica (Zipfel, Löwe, Reas, Deter & Herzog, 2000).

Tra queste, la compromissione della funzionalità renale è spesso troppo trascurata e sottovalutata dal personale medico; considerata l’ipotesi di cronicizzazione del quadro clinico, la valutazione della funzione renale risulta di fondamentale importanza al fine di prevenire un ulteriore deterioramento della condizione (Onfiani, Carubbi & Pellegrini, 2020). La percentuale di complicazioni renali in Anoressia Nervosa, rilevata con un parametro di ‘durata di malattia’ di 21 anni, è pari al 5,2% (Zipfel, Löwe, Reas, Deter & Herzog, 2000).

Un’accurata valutazione della velocità di filtrazione glomerulare (GFR) risulta cruciale anche per prevenire la tossicità degli psicofarmaci, garantendo sia una corretta posologia farmacologica, sia un appropriato fabbisogno proteico durante le fasi di riabilitazione nutrizionale e di mantenimento del peso. Un equilibrato apporto proteico è, infatti, fondamentale al fine di promuovere l’anabolismo muscolare e positivizzare il bilancio azotato (Onfiani, Carubbi & Pellegrini, 2020).

Viene di seguito riportato un caso clinico di una donna con una durata di malattia (AN) pari a 22 anni, con una funzionalità renale compromessa, rilevata da insoliti disturbi elettrolitici. La paziente è una donna di 41 anni, che al momento del ricovero presenta una gravissima psicopatologia alimentare (altezza: 152 cm, peso: 21,5 kg; Indice di Massa Corporea, IMC: 9,3) caratterizzata da un’estrema restrizione alimentare, vomito autoindotto e abuso di lassativi, denotando, dunque, una condizione clinica con alto rischio di mortalità. La paziente si presenta glabra e con secchezza delle mucose; dagli esami internistici emerge, inoltre, una significativa complicazione renale con una relativa atrofia dell’organo. La paziente è stata sottoposta il prima possibile alla nutrizione indotta tramite sondino nasogastrico (NS). Dopo 68 giorni di ricovero la paziente ha raggiunto un peso di 30 kg (IMC: 12,9) ed è stata conseguentemente dimessa dal reparto medico e indirizzata verso un trattamento post-ricovero (Onfiani, Carubbi & Pellegrini, 2020). Nell’esame ecografico pre-ricovero sono emerse svariate cisti bilaterali: aspetto morfologico tipico dell’insufficienza renale, a basso contenuto di potassio e sodio (Abdel-Rahman & Moorthy, 1997). Il deterioramento della funzione renale nella paziente è stato ipotizzato a partire da alterazioni elettrolitiche plasmatiche (Onfiani, Carubbi & Pellegrini, 2020).

Oggigiorno persistono quesiti irrisolti riguardo l’adeguato quantitativo proteico per peso corporeo da fornire durante la riabilitazione nutrizionale di pazienti affetti da anoressia nervosa, con ridotta funzionalità renale (Bouquegneau, Dubois, Krzesinski & Delanaye, 2012).

Le linee guida della Società Europea per la Nutrizione Clinica e il Metabolismo (ESPEN) suggeriscono un apporto proteico di 0,55-0,60 g/Kg/die per i pazienti con malattia renale cronica (CKD) in stadio III-V non dializzato (Cano et al., 2009). Considerato il significativo decremento ponderale, l’IMC estremamente basso e i conseguenti sintomi da malnutrizione, 1,2-1,5 g di proteine al giorno servirebbero come quantitativo target per mantenere o ripristinare la massa magra nei pazienti oncologici malnutriti; dosi ancora più elevate di proteine ​​potrebbero non essere ugualmente utili per pazienti con Anoressia Nervosa (Arends et al., 2017). Al momento non sono disponibili linee guida specifiche che stabiliscano come valutare la funzionalità renale nei pazienti affetti da anoressia nervosa, specialmente nei casi più gravi di estrema malnutrizione. Si rendono, dunque, necessarie linee guida univoche e chiarificatrici che stabiliscano l’apporto proteico ottimale per pazienti con Anoressia Nervosa e insufficienza renale cronica, durante la fase di incremento ponderale e di mantenimento del peso (Onfiani, Carubbi & Pellegrini, 2020).

 

Fede e resilienza: quale relazione?

Il concetto di resilienza, in riferimento all’individuo, indica la capacità di mantenere una buona integrità psico-fisica nonostante l’esposizione ad eventi particolarmente avversi e di raggiungere un adattamento positivo.

 

Resilienza, dunque, come capacità di nuotare nel mare in tempesta per arrivare alla riva, evitando di annegare, di farsi schiacciare dalle onde.

Una delle principali critiche alla concettualizzazione del termine resilienza, è quella di non riconoscere la stessa come parte integrante della vita quotidiana; essa, infatti, non è limitata al solo adattamento positivo a seguito di avvenimenti estremi, ma entra in gioco anche nelle sfide che si incontrano ordinariamente (Ögtem-Young; 2017).

Negli ultimi anni, in campo psicologico si è assistito ad un incremento degli studi sul rapporto fede-resilienza, rapporto ampiamente trascurato per buona parte del XX secolo (Pargament, Cummings; 2010).

Per prima cosa, è necessario fare una distinzione tra fede e religione, nonostante i due termini vengano spesso utilizzati in maniera interscambiabile. In generale, la fede è più individuale, è una scelta personale di relazionarsi al Sacro, ad un Potere Superiore che può incarnarsi in un Dio, nella Natura, nell’Universo; la religione, invece, è largamente intesa come collettiva, essendo un sistema di credenze, valori, rituali e pratiche condivise da una comunità per connettersi con la Divinità (Foy, Drescher, Watson; 2018).

Il comportamento umano è spesso influenzato dalla religiosità (Georgiades; 2016), per cui, quest’ultima può diventare un vero e proprio strumento di resilienza.

La fede permette di dare un senso e un significato specifico alle cose, perfino alla sofferenza; dunque, curare la propria relazione con il Divino, aiuta a tamponare le conseguenze velenose che fanno seguito ad una circostanza spiacevole (Georgiades; 2016). È il pensiero di poter essere risollevati e assistiti da un Dio durante le difficoltà, ad essere confortevole.

Tra i fattori legati alla religiosità che contribuiscono alla resilienza, vi sono: la richiesta di supporto nei membri della propria comunità religiosa, che a sua volta facilita la coesione e la solidarietà sociale; la ricerca di sostegno spirituale e di conforto nella cura di Dio; la speranza; la fiducia in una Forza Superiore, che non abbandona; l’interpretazione delle difficoltà come prove, sfide o anche doni di Dio (Mhaka-Mutepfa, Maundeni; 2019), grazie ai quali ci si fortifica; il non sentirsi soli durante le avversità. La preghiera, nello specifico, è un importante fattore di protezione soprattutto nei casi di malattia.

Tuttavia, è anche vero che alcune forme di religiosità possono esacerbare, piuttosto che mitigare, gli effetti dei fattori stressanti della vita, per cui, accanto a questo aspetto positivo della fede nel processo di resilienza, è necessario riconoscerne quello negativo.

Si pensi all’incremento dei livelli di paura a causa di convinzioni religiose erronee, alle valutazioni punitive di esperienze negative (Ho peccato, dunque Dio mi punirà), all’ansia legata a questioni sulla presenza e il potere di Dio (Foy , Drescher, Watson; 2018).

Inoltre, vi sono credenze religiose che possono interferire con la possibilità di adattamento e con la messa in atto di adeguate strategie di coping: talvolta, infatti, la fede conduce alla passività, a rimanere ancorati in situazioni di stallo nella convinzione di non poter controllare l’andamento delle cose, ma di dover lasciare le redini delle propria vita ad una Forza Ultraterrena.

 

Sospeso al limite

Il paziente con Disturbo Borderline di Personalità potrebbe essere paragonato ad una fiamma che assorbe grandi energie dall’ambiente, fatto dagli altri significativi, dagli operatori e brucia questa energia nelle relazioni.

 

Avete mai confuso un sogno con la vita? O rubato qualcosa pur avendo soldi in tasca? Siete mai stati su di giri? O creduto che il vostro treno si muovesse, mentre invece era fermo? Forse ero pazza e basta, forse erano gli anni ’60 o magari ero solo una ragazza… interrotta.

Inizia così il film drammatico di James Mangold del 1999 “Girl, Interrupted”, film che lungo tutta la trama ha come punto focale il concetto di salute mentale. Che differenza c’è tra un individuo definito “sano” ed una ragazza “interrotta”? Come si descrive un disturbo mentale? È l’equivalenza di un malfunzionamento o forse una persona folle è semplicemente qualcuno che si oppone alle regole ed alle convenzioni sociali, come Susanna Kaysen che cerca di opporsi a quello stile di vita dei genitori troppo conformista? Dove si trova, se esiste, il limite?

Ed è proprio su questo limite che la letteratura scientifica ha cercato delle risposte, passando nel DSM-5 da quella che era una ricerca e diagnosi categoriale dei disturbi di personalità ad una alternativa dimensionale che tenesse conto quantitativamente dei livelli di malfunzionamento e dei tratti di personalità patologici. Letteratura che, in particolar modo si è concentrata su uno di essi, ovvero il disturbo borderline di personalità. Il termine inglese ha proprio il significato di «linea di confine» e originariamente indicava forme atipiche di schizofrenia. Sulla linea line di confine border tra nevrosi e psicosi. Le prime descrizioni risalgono agli anni trenta, quando appunto la nosografia psichiatrica divideva tutti i disturbi nelle macrocategorie delle nevrosi e delle psicosi, ma da allora la diagnosi ha subìto diverse modifiche ed è stata riferita a svariati quadri clinici, assumendo connotazioni diverse in ambito sia psicoanalitico che psichiatrico.

Due sono le caratteristiche enunciate dal DSM riguardo a tale disturbo: “Forte instabilità nelle relazioni, nell’immagine di sé e nell’umore, associata ad intense angosce abbandoniche; è presente una marcata impulsività”. Instabilità ed impulsività che fortemente richiamano il concetto di linea: cammino barcollando su questa fune, come quella usata da un equilibrista, senza trovare mai una stabilità, sempre con la sensazione di cadere da un momento all’altro e di non avere nessuna speranza. Cammino, anzi corro lungo questa fune, a volte in preda al panico di farmi sovrastare dalle forti emozioni, ma, allo stesso tempo, di avere la sensazione di farmi trascinare in azioni che comportano rischio e pericolo, incapace di resistere alla tentazione di farlo.  Droga, alcol, guida pericolosa, sesso promiscuo, tutto senza un criterio di logica, solo istinto. Ed intanto continuo ad oscillare e a vivere rapporti tumultuosi, caratterizzati da un’alternanza tra idealizzazione e svalutazione, con la paura radicata dell’abbandono. Ma abbandonato in che cosa? In una corsa senza fine, lungo un filo di cui non riesco a vedere più il principio, ma nemmeno intravedere un orizzonte. Una sorta di limbo sospeso, in cui la realtà a tratti appare trasformarsi e in cui il senso di frammentazione e di salto nel buio è angosciante. Evidente è la disforia che sovrasta la persona, un cavallo indomabile che porta, ad esempio, Susanna Kaysen, a provare una forte rabbia nei confronti di una società che impone modelli e regole troppo rigidi, rabbia che investe anche la sfera famigliare, in quanto caratterizzata da valori alto-borghesi troppo legati a mantenere quell’apparenza delle cose riconosciuta e validata dal mondo esterno. Disforia che le provoca momenti di alta tensione, in cui addirittura sembra sentire delle “voci” e in cui sente il desiderio irrefrenabile di alleviare il forte dolore con l’automutilazione e con pensieri di morte.

Pertanto continuo questo viaggio senza destinazione, scivolando a tratti in una dimensione al limite tra la realtà e la fantasia. Scivolo e mi rialzo, scivolo e ritorno sui miei passi, all’infinito, aumentando le possibilità di cadere definitivamente nel vuoto. Cosa spaventa di questo vuoto? Forse proprio il fatto paradossale di aver bisogno di delimitarsi, una contraddizione che caratterizza il soggetto borderline in ogni aspetto della sua vita: scappare dalle regole e dai confini, ma allo stesso tempo rimanerci aggrappato fortemente. Vuoto fatto di incertezze, in un continuo crescere di emozioni e di pensieri che portano al terrore di rimanere soli; la solitudine, nella propria instabilità, appare devastante e porta nuovamente alla ricerca spasmodica di relazioni, per colmare questa voragine. Otto Kernberg propone un modello strutturale che riesce ben a spiegare tale condizione. Non si parla più di categoria, ma di organizzazione borderline, cha accumuna diverse condizioni caratterizzate da diffusione del sé, ricorso a meccanismi di difesa primitivi, esame di realtà mantenuto, ma a volte incrinato in situazioni di forte stress, manifestazioni di aggressività primitiva e di atteggiamenti aspecifici di debolezza dell’io. Mario Rossi Monti in un suo esemplare intervento definisce attraverso una metafora tale condizione. Afferma che il paziente borderline potrebbe essere paragonato ad una fiamma che ha una struttura tipicamente dissipativa: assorbe grandi energie dall’ambiente, fatto dagli altri significativi, dagli operatori e brucia questa energia nelle relazioni. La fiamma rappresenta quello stato eccitatorio traumatico, ma anche traumatizzante nella storia delle relazioni, uno stato, afferma sempre il Prof. Monti, traumatico, traumatizzante, permanente.

Ma dove sta dunque il limite tra “sano” e “patologico”? Se si torna all’aggettivo Interrupted ossia interrotto si può dire che esso predispone all’immagine di un segmento spezzato. Il segmento ha uno spazio? Nel borderline probabilmente no. Forse il segmento è fatto di un’atmosfera impalpabile, che caratterizza l’impossibilità o comunque l’incapacità di definirsi in una forma, qualunque essa sia. Il borderline cavalca la sua ambivalenza ed il suo essere frammentato all’orlo del segmento, con la paura di cadere in un baratro. Cavalca un’atmosfera vaporosa, spinto dai venti della stratosfera. E sta all’orlo e non sull’orlo, quasi in una precaria dimensione di sospensione.

 

Le origini traumatiche della tossicodipendenza (2021) di Antimo Navarra
 – Recensione

Nel libro Le origini traumatiche della tossicodipendenza l’autore guarda alle tossicodipendenze in modo ampio e al di là della mera categoria diagnostica.

 

Nel primo capito espone il concetto di addiction e la classificazione di alcune sostanze psicoattive e come agiscono sul sistema nervoso e in generale a livello fisiologico nell’essere umano. Non trascura quelle che vengono definite le smart drugs e gli effetti che queste hanno in termini anche sociali ed emotivi; le sostanze infatti oltre alterare alcuni dei processi psiconeuronali e fisiologici vengono utilizzate anche per evitare alcuni stati emotivi spiacevoli come la noia o il dolore o per sentirsi parte di un gruppo ed essere socialmente accettati. Già nel primo capitolo quindi l’essere umano viene concepito in maniera multidimensionale nella sua interezza e attraverso molteplici punti di vista, abbracciando una visione bio-psico-relazionale; questo rende la descrizione della tossicodipendenza non solo connessa ai sintomi, ma anche alla storia di vita della persona, rendendo giustizia alla complessità che ogni individuo porta con sé.

L’autore si sofferma a parlare poi dei meccanismi di ricompensa che le sostanze innescano a livello cerebrale e in particolare del craving, un desiderio incessante e incontrollabile, che spinge a volere con maggior frequenza la sostanza in quantità sempre più elevate.

In un’ottica trauma centrica il craving potrebbe essere innescato da trigger che possono essere un profumo, un luogo, delle persone, ecc.

La tossicodipendenza, che per molto tempo è stata considerata un vizio legato alla mancanza di volontà di smettere o una perversione da condannare, viene considerata in questo libro, in linea con il pensiero della letteratura scientifica contemporanea, secondo una prospettiva che prende in considerazione la storia di vita, quindi non solo gli aspetti genetici, ma anche e soprattutto quelli relazionali, con riferimento alla teoria dell’attaccamento e non perdendo di vista la psicotraumatologia.

Il libro riporta le numerose evidenze scientifiche che mostrano la possibile relazione tra disturbo da uso di sostanze, termine che attualmente sostituisce quello di tossicodipendenza in quanto meno stigmatizzante, e eventi traumatici di matrice relazionale e precoci come la trascuratezza, l’abuso fisico, emotivo, relazionale. In linea con quanto detto prima, il terzo capitolo mostra lo sguardo trasversale e allo stesso tempo ampio dell’autore che proprio in questa parte parla del sistema famigliare nel quale solitamente vive un individuo con disturbo da uso di sostanze.

La prospettiva sistemica arricchisce ancora di più la trattazione di questa tematica ricordando quanto il sistema familiare, le dinamiche relazionali e le interazioni sistemiche influiscano sullo sviluppo del disturbo. Solitamente il figlio con disturbo da uso di sostanze permette di mantenere in equilibrio il sistema familiare fungendo da diversivo o capro espiatorio per la coppia, intesa non solo dal punto di vista genitoriale, ma anche e soprattutto coniugale. Quindi il figlio tossicodipendente riveste il ruolo di “parafulmine” a livello di conflittualità familiare se lo consideriamo inserito in una triangolazione con i propri genitori.

Il quarto capitolo invece si focalizza e si concentrata sulla modalità di intervento che le ricerche scientifiche rilevano maggiormente efficace nel trattare il SUD (il disturbo da uso di sostanze). L’idea di base è di modificare i pensieri e le convinzioni irrazionali che generano una reazione emotiva, fisiologica, comportamentale disfunzionale e non adattiva. Il modello d’intervento della CBT, terapia cognitiva comportamentale, viene integrato con l’EMDR visto che è probabile che alla base del disturbo da uso di sostanze ci sia un evento traumatico. L’EMDR, dopo una prima fase di contenimento del sintomo e di stabilizzazione, è estremamente utile ed efficace per processare le memorie traumatiche e mettere gli eventi passati nel passato e non lasciare che invadano il presente ed allo stesso tempo è utile anche per l’integrazione delle parti. Inoltre l’autore fa riferimento a un intervento meno conosciuto ma supportato da numerose evidenze in letteratura: l’Acceptance and Commitment Therapy (ACT). Alla base Dell’ACT c’è il valore dell’accettazione amorevole e l’importanza centrale del non evitare o reprimere completamente il dolore e la sofferenza, ma riuscire a “stare” nel qui ed ora e accettare senza giudicare le proprie emozioni. Spesso infatti il meccanismo che mantiene le dipendenze è l’evitamento del dolore e quindi il bisogno incessante di anestetizzarsi dalla sofferenza non solo fisica, legata ai sintomi d’astinenza, ma anche psicologica. Khantzian non a caso vede le tossicodipendenze come una strategia di autocura; l’uso di sostanze e le dipendenze hanno una loro specifica funzione e probabilmente sono state l’unico modo che l’individuo aveva a disposizione per sopravvivere, l’unica strategia adattiva. Questo cambia radicalmente il modo di guardare alla patologia e ai sintomi, che non sono da disprezzare o da condannare, ma da comprendere, capirne la funzione salvifica per la persona, capire la storia relazionale nella quale il disturbo è nato e come si mantiene nel presente; l’essere umano con disturbo da uso di sostanze o con altre forme di dipendenza è concepito non più come un individuo autodistruttivo ed estremamente fragile, ma nella sua interezza, guardando con rispetto, accettazione e gentilezza amorevole al sintomo e allo stesso tempo pensando e provando insieme strategie di sopravvivenza meno nocive e più protettive. Questo libro sottolinea questo aspetto fondamentale per la clinica e non solo, rivoluzionando la pratica terapeutica ed il modo di vedere la patologia psichica e i sintomi, il modo in cui si concepisce l’essere umano nella sua complessità, considerandone l’unicità.

 

La Cognitive Remediation Therapy applicata a un ampio spettro della psicopatologia

La Cognitive Remediation Therapy ha l’obiettivo di innescare consapevolezza nel paziente circa le proprie strategie cognitive, senza mai attingere al contenuto del pensiero: questa prospettiva paradigmatica pone il paziente in una posizione di distacco verso il sintomo, che in questa sede non sarà in alcun modo oggetto d’analisi

 

 La Cognitive Remediation Therapy è una terapia di matrice neuropsicologica/riabilitativa di terza ondata, la cui unità d’analisi risiede, dunque, nell’ aspetto processualistico, piuttosto che in quello contenutistico (Hayes & Hofmann, 2017). La finalità primaria consiste, infatti, nell’implementare la flessibilità cognitiva all’interno della psicopatologia clinica in cui risulta deficitaria, attivando nuovi circuiti neurali e potenziando aree cerebrali meno utilizzate (Tchanturia, Davies, Reeder & Wykes, 2010). L’obiettivo di questo trattamento consiste nell’innescare consapevolezza nel paziente circa le proprie strategie cognitive, senza mai attingere al contenuto del pensiero: questa prospettiva paradigmatica pone il paziente in una posizione di distacco verso il sintomo, che in questa sede non sarà in alcun modo oggetto d’analisi (Tchanturia, Davies & Campbell, 2007). Una metafora calzante, che risulta particolarmente esplicativa, per spiegare il paradigma teorico alla base di questo trattamento è il binomio dualistico hardware/software (contenitore/contenuto). La domanda chiave a cui la terapia risponde non è, dunque, “what?” (sintomo che innesca sofferenza, verso cui spesso il paziente attua un evitamento emotivo), ma “how?” (modalità di processamento cognitiva).

La CRT è stata testata e applicata per la prima volta, in fase preliminare, nei primi anni ’90 allo spettro dei disturbi psicotici (Wykes & Huddy, 2009); in questi primi studi pilota anche i dati qualitativi, tratti dai feedback positivi dei pazienti stessi post-trattamento, hanno contributo a proseguire la ricerca in tale direzione. A partire da queste prime ricerche, l’applicazione della Cognitive Remediation Therapy si è estesa cospicuamente a svariate aree della psicopatologia clinica, molto eterogene tra di loro; tale diffusione non sorprende, considerato il razionale alla base della terapia che trascende integralmente il sintomo, focalizzandosi unicamente sui processi cognitivi.

 Nel 2002 il trattamento viene applicato ai disturbi specifici dell’apprendimento (DSA) e al disturbo da deficit di attenzione/iperattività (ADHD); anche questi studi preliminari suggeriscono dei livelli di miglioramento affidabili: evidenziando quanto l’implementazione della flessibilità cognitiva possa ridurre l’impatto dei i sintomi di attenzione deficitaria/iperattività sul funzionamento sociale e lavorativo dell’individuo; oltre a incrementare la dimensione dell’autostima e a ridurre il comportamento dirompente, specialmente la gestione della rabbia (Stevenson, Whitmont, Bornholt, Livesey & Stevenson, 2002). Nel medesimo anno il campo d’applicazione della Cognitive Remediation Therapy si estende anche al trattamento delle lesioni cerebrali e alla riabilitazione cognitiva nel processo di invecchiamento; con altrettanti risultati promettenti (Goldberg, 2002). Nel 2006 la CRT viene sperimentata nel trattamento dei disturbi ossessivi-compulsivi, dimostrandosi altrettanto efficace anche in questo ambito; in quanto la rispettiva popolazione clinica presenta una rigidità cognitiva notevole, evidente anche dalla sintomatologia manifesta (Buhlmann et al., 2006). Nel 2012 la Cognitive Remediation Therapy si estende anche ai disturbi da addiction, specialmente alla dipendenza alcolica: le relative ricerche hanno dimostrato che la CRT si è rivelata un’ottima terapia integrativa, applicata in maniera congiunta a quelle tradizionali, per il trattamento delle dipendenze; come ad esempio la terapia cognitivo-comportamentale (CBT) o la terapia metacognitiva (MCT). Rispetto ai pazienti che hanno ricevuto unicamente la psicoterapia, i pazienti che hanno partecipato anche ai protocolli di CRT hanno riportato considerevoli miglioramenti nelle funzioni esecutive e nei domini mnestici; oltre ad un conseguente miglioramento della qualità di vita: i proficui outcome cognitivi hanno implicato dei miglioramenti notevoli anche sul piano clinico, in termini di riduzione del sintomo e del relativo impatto sul funzionamento psico-sociale (Rupp, 2012). Successivamente la Cognitive Remediation Therapy viene applicata anche ai disturbi dell’umore, come coadiuvante alternativo rispetto alla terapia farmacologica; nei casi in cui quest’ultima non risulta indispensabile per regolamentare la deflessione timica. Anche in questo ambito clinico l’integrazione tra terapie che agiscono sul sintomo e quelle focalizzate sul processo, come la CRT, fornisce evidenze scientifiche che permettono di proseguire su questo filone di ricerca; trascendendo i limiti metodologici che caratterizzavano i primi studi pilota a riguardo (Bowie, Gupta, & Holshausen, 2013). Per concludere questa sezione di revisione della letteratura, sulla CRT applicata a svariate aree della psicopatologia clinica nel corso dei decenni; è stato selezionato uno studio naturalistico con pubblicazione recente, datata 2020: Cognitive Remediation Therapy per pazienti con diagnosi di anoressia nervosa e tratti dello spettro autistico (ASD), considerata l’elevata comorbilità (Dandil, Smith, Adamson, & Tchanturia, 2020) e la similarità dei profili neuropsicologici in AN e ASD (Westwood, Stahl, Mandy & Tchanturia, 2016). Nonostante si tratti di uno studio preliminare, emergono delle evidenze empiriche circa i benefici indotti dalla CRT sulla flessibilità cognitiva in pazienti con diagnosi di disturbo dello spettro autistico; sia ad alto, che a basso funzionamento: si tratta di dati confortanti che spingono la ricerca verso la continua esplorazione di questa frontiera clinica. A prescindere dall’ambito clinico di applicazione specifica, la CRT si rapporta alle terapie basate sul contenuto/sintomo, di seconda generazione, sempre in un’ottica di complementarità e mai di sostituzione: un esempio concreto è il rapporto con la terapia cognitivo-comportamentale. Trattandosi di due terapie che operano su unità d’analisi diametralmente opposte, ma complementari, ovvero processo e contenuto; la loro interazione conduce ad una sinergia supplementare, nella direzione di auspicabili e potenziali effetti additivi, come testimoniato da numerose evidenze scientifiche (Darcy, Fitzpatrick, & Lock, 2016; Drake et al., 2014).

 

Come affrontare i disturbi alimentari. Il parere dello Psicoterapeuta e del Nutrizionista – VIDEO dal webinar di Studi Cognitivi L’Aquila

I disturbi dell’alimentazione sono patologie caratterizzate da un’alterazione delle abitudini alimentari e da un’eccessiva preoccupazione per il peso e per le forme del corpo. Pubblichiamo, per i nostri lettori, il video del webinar sull’argomento, tenuto da Studi Cognitivi L’Aquila

 

disturbi dell’alimentazione insorgono prevalentemente durante l’adolescenza, ma sono sempre più frequenti diagnosi anche nei bambini e nei giovani adulti.

Soffrire di un disturbo dell’alimentazione sconvolge la vita di una persona e ne limita le sue capacità relazionali, lavorative e sociali. Il webinar ha fatto luce sui principali disturbi dell’alimentazione, quali l’anoressia nervosa e la bulimia nervosa, spiegando il trattamento mediante intervento psicoterapeutico e nutrizionale.

La forma di psicoterapia con maggiore efficacia è la CBT-ED, mentre sarà compito del nutrizionista fornire gli strumenti pratici per acquisire di nuovo il controllo sul cibo e sulla propria vita. Risulta quindi fondamentale la collaborazione tra le due figure professionali.

L’incontro è stato condotto da: Dott.ssa Alessandra Curtacci, Psicologa, Psicoterapeuta, Esperta in Psicologia dell’Emergenza; Dott.ssa Federica Aloisio, Psicologa, Psicoterapeuta; Dott.ssa Lavinia Trombatore, Biologa Nutrizionista.

Pubblichiamo per i nostri lettori il video del webinar.

 

COME AFFRONTARE I DISTURBI ALIMENTARI.
IL PARERE DELLO PSICOTERAPEUTA E DEL NUTRIZIONISTA

Guarda il video del webinar:

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Il peso della colpa e della vergogna

Tutto nasce da un quesito: che differenza c’è tra colpa e vergogna? E quindi, quale delle due pesa di più sull’individuo?

 

Partiamo dalla definizione secondo il dizionario. La colpa, dal latino cŭlpa (m), indica un “comportamento con conseguenze dannose”; la vergogna, dal latino verecŭndĭa (m), è invece il “senso di umiliazione per aver agito in modo indegno” (Nocentini, 2012).

Alla colpa si lega strettamente il senso di colpa, ovvero quel sentimento che si sviluppa nell’individuo nel momento in cui esso prende coscienza della propria responsabilità in un evento negativo, sia essa effettiva, presunta o prevista.

Pertanto, sia la vergogna che il senso di colpa possono essere definite come due emozioni morali e secondarie, cioè non innate come le primarie, ma emozioni che si sviluppano nella persona soltanto con il tempo, in questo caso a partire dai due anni di età, attraverso l’educazione e il contatto con la società. Per poter provare questi stati emotivi è infatti necessario che il bambino abbia sviluppato il proprio sé personale e che sia in grado di percepire il giudizio altrui rivolto verso la propria persona.

Proprio per queste caratteristiche, la vergogna è detta l’emozione dell’autoconsapevolezza, in quanto è l’individuo stesso che valuta il proprio Io, mettendolo a confronto con gli standard esibiti dalla società e con le norme che vengono imposte dall’esterno. Quando questa valutazione risulta negativa, si è portati a vedere le proprie competenze sociali in modo fallimentare e non ci si ritiene all’altezza dei livelli che si desiderava raggiungere o rispettare. Il senso di inadeguatezza che si sperimenta porta a mettere in discussione la validità dell’individuo stesso: la vergogna brucia dall’interno, si accanisce contro il “come siamo”, minandone le fondamenta e distruggendone l’integrità. Tutto ciò può condurre a forti sentimenti di rabbia e frustrazione verso se stessi e al desiderio di volersi isolare dagli altri. Infatti, nel momento in cui la vergogna si fa più pressante, si ritiene di aver perso la stima altrui e di non essere degni dell’affetto delle altre persone, fino a credere, in casi estremi, di non meritare la vita stessa. Proprio perché quest’emozione nasce dall’interno, non è necessaria la presenza di altre persone per poterla sperimentare. A differenza di altre sensazioni, come l’imbarazzo, provato esclusivamente di fronte ad altri individui, la vergogna ci può cogliere anche in solitudine in quanto i principali giudici siamo noi stessi. Lo sguardo severo e giudicante altrui è ugualmente percepito, anche quando non presente, perché i primi occhi puntati addosso sono proprio i nostri. Nel momento in cui la valutazione che diamo di noi stessi è negativa, risulta naturale che, almeno nel nostro immaginario, lo sia anche quella altrui.

Il senso di colpa, invece, travalica l’essenza individuale e si lega all’esterno, a un comportamento che abbiamo messo in atto e che ha danneggiato qualcun altro o a un’azione che potremmo compiere e che prevediamo potrebbe avere conseguenze negative. Il risvolto della colpa è la pena. Essa può essere concreta, nel momento in cui si viene effettivamente puniti per le proprie azioni, oppure può essere emotiva, mantenendosi al livello di sentimento di colpa, avvertito a causa del rimorso per cosa si è fatto. Non più, dunque, una critica verso il “chi”, ma piuttosto verso il “cosa”. Essendo il problema esterno all’individuo, si percepisce una maggiore possibilità di rimediare al danno fatto, magari con un comportamento che ne ribalti gli effetti. La ruminazione contribuisce a tenere vivo il passato nel presente o ad anticipare il futuro, con continue immagini di come potrebbe o sarebbe potuta andare. Anche se il giudizio negativo del proprio comportamento proviene dall’interno e nessuno ci attribuisce la colpa per l’accaduto, si tratta comunque di valutare negativamente una singola azione e non un intero modo di essere. Michael Lewis, parlando di emozioni autocoscienti, associa infatti a colpa e vergogna due differenti processi di attribuzione. Mentre la colpa è caratterizzata da un processo di attribuzione specifica, rivolto verso un unico comportamento, la vergogna prevede un’attribuzione globale, riguardante tutto l’Io nella sua interezza.

Giuseppe Ferraro fa una distinzione tra “cultura della vergogna”, relativa alla comunità e alla famiglia, e “cultura della colpa”, relativa alla società. La vergogna, quindi, è più intima e si lega al concetto di peccato, mentre la colpa a quello di punizione. L’anello di congiunzione tra le due, ci dice Ferraro, è il dispiacere, quel sentimento di pena che le accomuna entrambe.

Senso di colpa e vergogna non sono inscindibili, ci può essere l’uno senza l’altra e viceversa, ma spesso le due emozioni procedono affiancate. E se talvolta è senz’altro vero che qualcosa di sbagliato è stato commesso, occorre ricordare che la sentenza più severa la emettiamo troppo spesso da soli.

 

L’attaccamento nelle dinamiche terapeutiche: un modello integrato – Report dal webinar

Che cosa significa e quali sono le caratteristiche di un modello integrato in psicoterapia? I relatori del webinar, svoltosi il 28 Aprile scorso, hanno dialogato sulla possibilità di costruire modelli clinici a più assi, capaci di conciliare teoria dell’attaccamento e organizzazioni di significato personale, preziosi nella formulazione dei casi e nella costruzione della prassi terapeutica.

 

Dopo il primo webinar “L’attaccamento nella costruzione della realtà“, un secondo incontro, in presenza degli autori. In questa occasione interviene il dott. Furio Lambruschi, psicologo e psicoterapeuta e didatta esperto di età evolutiva, autore del capitolo “Attaccamento e organizzazioni di significato personale: un modello a tre assi per la formulazione del caso”, presente nel testo oggetto di dibattito Attualità e prospettive dell’attaccamento: dalla teoria alla pratica clinica a cura di Giorgio Rezzonico e Saverio Ruberti.

Lambruschi torna a parlare di Guidano e Liotti e di come il contributo di questi si sia dimostrato un illuminante apri pista in favore di un approccio, ad oggi, maggiormente slegato dai vincoli offerti dalle loro teorie. Necessaria senz’altro, aggiunge Lamburschi, minore categorizzazione. L’idea è quella di fornire un aggiornamento del modello costruttivista evolutivo:

un modello sufficientemente complesso e rispettoso della ricerca della psicopatologia dello sviluppo; in grado di render conto dei rapporti tra configurazioni d’attaccamento, sviluppo del sé e relative possibili uscite psicopatologiche, ma anche delle possibili articolazioni e connessioni tra le diverse organizzazioni, vale a dire le cosidette organizzazioni miste, che rappresentano, di fatto, la maggior parte delle situazioni cliniche reali – Modello a tre assi (Lamburschi , 2018, 2020)

I modelli di attaccamento non ci dicono tutto, sostiene Lamburschi, ma esprimono chiaramente come gli individui imparano a regolare gli stati emotivi all’interno dei propri legami di attaccamento su due polarità:

1° asse reciprocità fisica: ad un polo l’evitante; pazienti difesi distazianti. Lo stile di regolazione che contraddistingue questi pazienti è quello deattivante (quando c’è pericolo imparo a regolare gli effetti riducendone la carica); all’altro polo i resistenti; pazienti coercitivi preoccupati. Lo stile di regolazione che contraddistingue questi pazienti è quello iperattivante.

Aggiunge:

All’interno dei legami primari di attaccamenti, si struttura il senso di sé in termini di amabilità non amabilità da un lato e sicurezza e non sicurezza dall’altro

Questa è la funzione affettiva del parenting (genitorialità).

Le organizzazioni del sé emergente dall’Asse primario della reciprocità fisica sono di due tipi: distaccato (afferente al polo Evitante) e, l’estremo opposto, controllante.

L’altra funzione importante del parenting è la funzione educativa. Al tema della sintonizzazione emotiva e condivisione empatica si aggiunge l’elemento confine, l’adesione alle regole morali, cioè come ci si comporta nella vita, stimolando la dimensione affiliativa e di adesione alle regole. Due le emozioni fondamentale volte a regolare il sistema: senso di colpa (controllo dall’interno) e vergogna (controllo dall’esterno). Emozioni definite secondarie.

2° asse reciprocità semantica: Si interseca con il primo, con agli estremi “lassità strutturale”, con funzionamento contesto-dipendente e, al polo opposto, “rigidità strutturale”, con funzionamento a moralità interna.

Le organizzazioni del sé emergenti dall’Asse della reciprocità secondaria sono di due tipi: contestualizzanti (afferenti alla lassità) e, l’estremo opposto, normativi.

Ciò trova riscontro nel concetto di “disciplina sensibile” (Juffer, Bakermans-Kranenburg, van Ijzendoorn, 2008, 2014), in cui la giusta spinta del genitore verso l’adesione ai valori morali o sociali non è avvertita dal bambino come minacciante il mantenimento dello stato affettivo (Lambruschi 2021)

L’intersezione dei due assi genera uno spazio all’interno del quale è possibile rintracciare le innumerevoli organizzazioni del sé. Non categorie predefinite ma sfumature rintracciabili in una diagramma a torta.

È possibile evidenziare una componente depressiva associata a pattern “freddi” con l’incontro tra il DEP (Distaccato) e l’OSS (normativo), e una comorbilità con quadri fobici e pattern “caldi” originati dall’incontro tra il FOB (controllante) e L’OSS (normativo).

Entrambi i soggetti presentano sintomi ossessivi ma taluni tendono a nasconderli: impossibile condividerli con la figura di attaccamento relazionale. La loro funzione è autoregolatoria. A differenza dei primi abbiamo pazienti invece che tengono catalizzata l’intera famiglia intorno ai propri sintomi ossessivi. Entrambi presentano temi di responsabilità morale.

Nella parte alta della torta ritroviamo: forte sensibilità al giudizio; grande bisogno di un pensiero forte esterno che mi definisca; aspetti di vulnerabilità.

Cos’è che fa la differenza in termini di gravità? A partire da quali contenuti, funzionamento ed emozioni?

3°asse: livelli di integrazione del Sé (competenze metacognitive e di mentalizzazione). Attenzione alle modalità processuali di elaborazione degli stessi schemi piuttosto che ai contenuti. Sono le competenze autointegranti del sé a determinare la processualità e la gravità della patologia.

Il terzo asse rende conto di questi livelli di funzionamento del sé, cioè integrazione del sé e delle competenze metacognitive. La parte alta del modello descrive un funzionamento generativo del sé, adattativo; la parte bassa del modello mostra invece i diversi livelli di riduzione delle competenze autointegranti e della capacità di leggere la mente degli altri e la propria. Condizione quest’ultima che porta a forme di psicopatologia sempre più complesse.

Le variabili del parenting sono mind-mindedness (Meins, 1997, Meins et al., 2003) e insightfulness (Oppenheim, Kore-Karie, 2002). L’inclinazione del genitore a concepire fin dalla prima infanzia il proprio figlio come agente mentale e quindi la tendenza a descrivere o produrre inferenze sui suoi stati emotivi e mentali. Ciò spiega le future capacità del bambino di comprendere la mente altrui, di sviluppare un’adeguata capacità di distinguere tra apparenza e realtà, nonché tra differenti visioni della realtà: in altre parole di sviluppare più spiccate competenze metacognitive (Main 1983,1991, Kaplan, 1987; Fonagy e Target, 1997; Fonagy Steel, Leigh, Kennedy, Mattoo, Taarget,1995, Fonagy, Gergely e altri, 2002; Allen e Fonagy, 2008; Meins Ferryhough Russel e Clark-Carter , 1998, 1998; Arnott, 207, 2008; Lambruschi e Lionetti, 2015)

Segue l’intervento di Rezzonico che conferma l’utilità degli schemi nella concettualizzazione del caso così come l’importanza della flessibilità nel costruire un intervento attorno al paziente, in favore anche di un’integrazione di modelli differenti. L’autore riporta l’interrogativo: “Quante sono le organizzazioni di personalità; le quattro che conosciamo?” Inoltre, “Esistono le organizzazioni miste?” Guidano aveva dato una riposta precisa: “Le persone hanno occhiali diversi e il mondo lo vedono con il colore delle proprie lenti”. Le organizzazioni di personalità ci forniscono importanti riferimenti ma tali devono restare, dice Rezzonico. Il modello di Guidano rappresenta un validissimo strumento di concettualizzazione generale della psicopatologia dell’essere umano, poi però ci sono temi più specifici -ad esempio l’attaccamento disorganizzato– per i quali risultano utili strumenti propri del lavoro di Liotti.

Alla domanda posta “Quanto è possibile far coincidere la gravità della condizione clinica con il grado di consapevolezza da parte del paziente?” Rezzonico risponde:

Alcuni pazienti presentano un altissimo funzionamento in assenza di consapevolezza rispetto al proprio disagio, altri mostrano un quadro diametralmente opposto.

Lambruschi segue:

Consapevolezza tacita è la risposta. Al di là delle capacità metacognitive del paziente spesso la semplificazione e l’acquisizione implicita portano al miglior livello di consapevolezza. Vale per i pazienti tanto quanto per noi terapeuti.

 

Il ritiro sociale negli adolescenti. La solitudine di una generazione iperconnessa (a cura di Matteo Lancini) – Recensione

Il ritiro sociale negli adolescenti permette di inquadrare il vivere virtuale degli adolescenti, i loro compiti evolutivi in rapporto all’odierna società narcisistica, il fenomeno del ritiro sociale ed espone alcune esperienze finalizzate alla riduzione del rischio e alla valorizzazione delle risorse.

 

Matteo Lancini, psicologo e psicoterapeuta, descrive in Il ritiro sociale negli adolescenti – La solitudine di una generazione iperconnessa le incertezze, lo smarrimento, il senso di inquietudine vissuto dai nativi digitali nella fase vitale contrassegnata dall’importante compito evolutivo di definizione dell’identità.

Presidente della Fondazione “Minotauro” di Milano e dell’AGIPPsA (Associazione Gruppi Italiani di Psicoterapia Psicoanalitica dell’Adolescenza), l’autore riporta all’interno del libro esempi clinici, frutto del lavoro di un’équipe, che da oltre quindici anni si interessa del rapporto adolescenza-Internet, con il chiaro intento di gettare luce su aspetti profondi del vivere l’adolescenza.

Il volume è diviso in quattro parti: nella prima parte viene inquadrato il vivere virtuale degli adolescenti; nella seconda parte vengono affrontati i compiti evolutivi adolescenziali in rapporto all’odierna società narcisistica; la terza parte è interamente dedicata all’esplicitazione del fenomeno del ritiro sociale; l’ultima parte, la quarta, espone alcune esperienze scolastiche e preventive in atto, finalizzate alla riduzione del rischio e alla valorizzazione delle risorse.

Quelle che un tempo venivano definite “nuove tecnologie”, oggi pervadono la quotidianità, al punto che tutti possiamo essere definiti iperconnessi:

Questa modalità sembra entrata a far parte di una condotta che afferisce al sistema delle nuove normalità, piuttosto che a quello di una nuova sindrome patologica.

Da circa venti anni la comunità scientifica ha iniziato a sondare la sintomatologia correlata ad un abuso della rete. Nei principali manuali diagnostici la dipendenza da Internet non compare direttamente: nel DSM 5 vengono citati, nella terza sezione, solamente aspetti di abuso di videogiochi; analogo discorso per l’ICD-10.

L’aspetto caratteristico dello spettro di disturbi legati all’uso problematico e patologico di Internet è caratterizzato dalla sostituzione della realtà con una realtà mediatica e della saturazione dei bisogni emotivi attraverso esperienze virtuali.

Tra i fattori di rischio di un abuso da Internet si annovera il parametro “tempo di connessione”, anche se non vi è unanimità circa il cut off definente un utilizzo problematico dei devices. Se è indiscutibile che un soggetto “dipendente” passi molte ore on line, ancora più determinante è la qualità del tempo trascorso in rete: da un punto di vista clinico, infatti, è peculiare la disamina degli agiti durante il tempo di connessione.

Un adolescente, invischiato nella trasformazione corporea, spettatore della fine degli ideali di onnipotenza infantile, dedica molto tempo nella scelta del proprio avatar, da mostrare al popolo del web. I videogiochi multiplayer permettono di giocare online con altri utenti, ergendosi a vera e propria palestra di social skills.

Approfondire le competenze dei ragazzi in materia di videogiochi offre materiale preziosissimo per accedere al loro mondo interno e al loro funzionamento.

Il difficile lavoro di mentalizzazione del corpo è mediato dal gruppo dei pari, principale punto di riferimento e di confronto a tale età: i coetanei, proprio perché condividono il medesimo vissuto di sperimentazione e disequilibrio rappresentano il riflesso del proprio Ego.

Si comprende quali possano essere le conseguenze psicologiche degli episodi di bullismo e, ancor più del cyberbullismo: essere derisi ed estromessi dal gruppo, nel periodo in cui si sta edificando la personalità dell’individuo arreca ferite profonde all’Io narciso.

Nel cyberbullismo l’azione aggressiva risulta amplificata e maggiormente pervasiva rispetto al bullismo tradizionale, grazie all’anonimato e all’assenza di limiti spazio temporali che lo caratterizzano.

Un espediente per sfuggire alla vergogna è dato dell’autoreclusione, denotante il fenomeno dell’Hikikomori, descritto per la prima volta in Giappone. “Hikikomori” deriva dai verbi “hiku” (tirare indietro) e “komoru” (ritirarsi) ed è tradotto in italiano con “ritiro sociale”.

L’Hikikomori dapprima abbandona la scuola o il lavoro, quindi la rete dei rapporti sociali, trascorrendo la totalità delle giornate nella propria stanza.

Le situazioni che maggiormente mettono in allarme gli Hikikomori sono il camminare per strada e imbattersi in un coetaneo, così come incontrare i parenti in occasione di cerimonie familiari. In entrambi i casi, la vergogna per la propria condizione e il vissuto di profonda inadeguatezza prendono il sopravvento; il desiderio più forte è la fuga e la reazione conseguente è l’evitamento.

Tra le cause favorenti l’entrata in hikikomori si annoverano, oltre agli episodi di bullismo, il rapporto di simbiosi con la figura materna e il sistema scolastico altamente competitivo.

L’adolescente risponde alla crisi identitaria attaccando il corpo in vari modi: l’autoreclusione è la strada scelta principalmente dal sesso maschile, laddove le ragazze veicolano la sofferenza nei disturbi alimentari.

Spesso il ritiro sociale viene erroneamente associato alla dipendenza da internet: l’utilizzo della rete nell’hikikomori rappresenta, invece, un alleato contro il rischio di cadute psicotiche, preservando il contatto con la realtà.

La rete rappresenta una sorta di “incubatrice psichica virtuale” che consente di anestetizzare l’angoscia e la solitudine, mantenendo in vita la prospettiva di un possibile futuro, in questo momento non realizzabile, ma almeno in parte pensabile

L’utilizzo quotidiano e compulsivo dei social network denota un “vivere in casa e abitare in piazza”: attraverso il proprio smartphone, infatti, è possibile controllare istantaneamente le novità che riguardano gli amici della rete. Ad oggi il numero di follower, i “mi piace”, i commenti ottenuti ai propri post costituiscono un biglietto da visita indiscusso dello status sociale e della popolarità di un adolescente, oltre ad alimentare, o, al contrario, ad affamare, la propria autostima.

Il pericolo principale è che Internet diventi la parte centrale, e non limitata, della vita, non il mezzo ma il fine, perdendo la capacità di negoziare con le difficoltà identitarie e relazionali che la realtà propone.

Internet viene assimilato a un rifugio della mente, un mondo onirico o fantastico che si preferisce al mondo reale.

L’identità è da intendersi non come un dato innato, bensì come un processo in divenire, che trova nell’adolescenza una fase di sviluppo cruciale.

La percezione della gravità di certe azioni online è spesso decisamente limitata, sia negli adolescenti sia nei genitori che sottovalutano la portata dei rischi.

Un locus of control interno può limitare il rischio di un utilizzo inadeguato della rete, ergendosi a fattore protettivo contro dipendenza da sexting, gaming, abuso dei social, utilizzo illegale dei contenuti multimediali: se il soggetto percepisce di avere un ruolo attivo nel muoversi nel mondo, reale e virtuale, sarà in grado di utilizzare Internet come risorsa e non come realtà alternativa.

Ruolo determinante nel favorire tale lavoro metacognitivo è svolto dagli adulti di riferimento, primariamente i genitori.

Il filo conduttore del libro è espresso dalla convinzione che un agito adolescenziale esprime il dolore di una crescita bloccata e l’unica strada per lavorare clinicamente con un adolescente è, non solo incontrarlo, bensì raggiungerlo laddove egli si trovi, avvicinandolo empaticamente per rendere l’ignoto meno spaventoso.

 

Comorbilità vera e comorbilità spuria nei disturbi dell’alimentazione

La comorbidità, in ambito clinico, fa riferimento alla coesistenza di due o più entità cliniche distinte. Questo concetto viene oggigiorno frequentemente utilizzato in maniera acritica da clinici e ricercatori, specialmente nell’ambito dei disturbi dell’alimentazione.

 

 Il termine ‘comorbidità’ (o comorbilità), coniato nel 1970 per indicare l’esistenza o l’insorgenza secondaria di una diagnosi aggiuntiva rispetto a quella principale (Feinstein, 1970), viene oggigiorno frequentemente utilizzato in maniera acritica da clinici e ricercatori; specialmente nell’ambito dei disturbi dell’alimentazione (Dalle Grave, Sartirana, Calugi, 2019). Si tratta di un concetto estremamente complesso, che in ambito clinico fa riferimento alla coesistenza di due o più entità cliniche distinte; a tal proposito, però, emerge la prima obiezione: nell’ambito della salute mentale, non essendo ancora stati definiti dei bio-marcatori specifici per ciascun disturbo, risulta imprecisa la concettualizzazione di due entità differenti (Maj, 2005). L’uso improprio del concetto di comorbidità potrebbe anche essere un effetto generato dalla classificazione, a tratti ancora molto categoriale, dell’attuale Manuale Statistico e Diagnostico dei Disturbi Mentali (DSM-5; American Psychiatric Association, 2013), che induce ad applicare molteplici diagnosi psichiatriche nel medesimo quadro clinico; postulando una concettualizzazione del disturbo più complessa del dovuto, in opposizione al principio metodologico del rasoio di Occam  (Murray, Loeb, & Le Grange, 2018). Non si tratta, però, di una mera scelta metodologica fine a se stessa, bensì di un elemento cruciale ai fini del trattamento e della prognosi del disturbo; che potrebbe comportare delle significative conseguenze cliniche.

I sintomi depressivi, ad esempio, sono ricorsivi nella popolazione clinica con disturbi dell’alimentazione (DA), ma possono configurarsi sia come esito di una depressione clinica coesistente (comorbidità vera), oppure come la diretta conseguenza del DA (comorbidità spuria). Nel primo caso la depressione clinica va trattata direttamente e separatamente, mentre nel secondo caso un adeguato trattamento psicoterapico sul disturbo alimentare dovrebbe determinare la remissione spontanea dei sintomi depressivi (Dalle Grave, Sartirana, Calugi, 2019). Dalla letteratura è emerso che le comorbidità più frequentemente associate al disturbo alimentare sono: disturbi d’ansia (>50%), disturbi dell’umore (>40%), autolesionismo (>20%) e disturbo da addiction e uso di sostanze (>10%) (Keski-Rahko- nen & Mustelin, 2016); oltre alla presenza lifetime di ossessioni e compulsioni nella sotto-categoria diagnostica dell’anoressia nervosa (Halmi et al., 2003). In merito al profilo personologico, l’anoressia nervosa è più frequentemente associata al disturbo evitante di personalità (Cluster C), mentre la bulimia nervosa è maggiormente associata ai disturbi di personalità del Cluster B (drammatico) (Martinussen et al., 2017). Gli studi che hanno valutato la comorbilità nei disturbi dell’alimentazione hanno spesso riscontrato notevoli limiti metodologici, tra cui: insorgenza cronologica (non viene specificato se l’esordio del disturbo in comorbidità sia antecedente o posteriore a quello del DA), numerosità campionaria troppo ridotta, criteri di inclusione/esclusione poco precisi, utilizzo di reattivi psicometrici non appropriati, limitato uso dei gruppi di controllo e mancata valutazione dei sintomi da malnutrizione indotti dal sottopeso (deflessione timica, spossatezza, faticabilità ecc.) (Garner & Dalle Grave, 1999; Dalle Grave, Sartirana, Calugi, 2019).

 Oltre alle implicazioni metodologiche e alle potenziali conseguenze iatrogene sull’esito del trattamento, risulta opportuno delineare anche una riflessione su quanto l’uso acritico del concetto di comorbidità possa limitare un approccio più olistico verso il paziente, di cui spesso si perde la visione d’insieme della sua persona. Motivo per cui risulterebbe più opportuno esprimersi in termini di ‘casi complessi’, piuttosto che di comorbilità (Maj, 2005). Nel caso specifico dei disturbi dell’alimentazione, nella maggior parte dei quadri clinici coesistono altre problematiche di natura medico-psichiatrica (Keski-Rahkonen & Mustelin, 2016). Per far fronte a tali casistiche, la Terapia Cognitivo-Comportamentale Migliorata (Cognitive-Behavioral Therapy-Enhanced; CBT-E) ha implementato un protocollo evidence-based che prevede la somministrazione di un trattamento erogato da un’équipe multidisciplinare, non eclettica, che segue pragmatiche linee guida che indicano quando e come trattare le comorbidità. In modo tale da evitare potenziali conseguenze iatrogene dettate dal trattamento e favorendo la remissione spontanea della sintomatologia secondaria al DA, nel momento in cui quest’ultimo viene affrontato in un’ottica nucleare e prioritaria (Dalle Grave, Sartirana, Calugi, 2019).

 

Abbuffate: l’eccessivo consumo di cibo, la perdita di controllo, la vergogna

Solitamente le persone riconoscono le abbuffate come un aspetto egodistonico, ovvero come qualcosa che ha notevoli costi e che vorrebbero eliminare.

 

Cos’è un’abbuffata?

Un episodio di “abbuffata” è definito come “il mangiare in un determinato periodo di tempo una quantità di cibo significativamente maggiore di quella che la maggior parte degli individui mangerebbe nello stesso tempo e in circostanze simili”.

L’episodio di eccessivo consumo di cibo deve essere accompagnato dalla sensazione di perdita di controllo e deve essere caratterizzato da marcato disagio e da almeno tre delle seguenti caratteristiche: mangiare molto più rapidamente del normale, mangiare fino a sentirsi sgradevolmente pieni, mangiare grandi quantitativi di cibo anche se non ci si sente affamati, mangiare da soli a causa dell’imbarazzo per quanto si sta mangiando e sentirsi disgustati verso sé stessi, depressi o molto in colpa dopo l’episodio.

Quali sono le caratteristiche di un episodio di abbuffata?

“Ho fame. Inizio a pensare a tutti quei cibi che di solito mi proibisco… inizio mangiando un gelato, all’inizio mi sento bene, poi mi dico che non avrei dovuto mangiarlo, che sono proprio senza forza di volontà, che così non dimagrirò mai. Sento una tensione interna e so che perderò il controllo, tutto va bene in quel momento, basta che non sia da cucinare, mangio velocemente, tutto quello che trovo fino a che non sono così piena che sento di non poter mangiare altro”.

Vivere l’esperienza dell’abbuffata è estremamente doloroso, sono pochissimi gli istanti di piacere, subito rimpiazzati da emozioni quali disgusto, repulsione, colpa, vergogna.

Tipicamente durante un’abbuffata le persone mangiano molto velocemente, talvolta bevono molto per facilitare la discesa del cibo ed eventualmente la risalita. Inoltre riferiscono che si tratta di un comportamento automatico, impulsivo in cui si sentono quasi distaccati dal loro corpo.

Solitamente le abbuffate avvengono in segreto per il forte senso di vergogna che le accompagnano, davanti agli altri può essere mantenuto un comportamento alimentare normale e si fa invece il possibile per nascondere le perdite di controllo.

Di solito durante un episodio di abbuffata le persone riferiscono che i cibi consumati sono principalmente cibi che cercano di evitare o che escludono dalla loro giornata alimentare. La preferenza va poi a cibi che non richiedono troppa preparazione nell’essere cucinati né masticazione per essere assunti.

Esiste un solo tipo di abbuffata?

Le abbuffate si distinguono in:

  • Abbuffate oggettive: in cui la persona mangia una grande quantità di cibo e ha la sensazione di perdere il controllo. Di solito in questi episodi le persone assumono tra le 1000 e le 2000 calorie e questo spiega perché, quando sono frequenti, le persone tendono ad aumentare di peso e a sviluppare e mantenere una condizione di obesità;
  • Abbuffate soggettive: in cui la persona ha la sensazione di perdita di controllo senza assumere una grande quantità di cibo.

Il fattore comune è la sensazione di perdita di controllo che causa notevole sofferenza. Talvolta tuttavia, se si sperimentano tali episodi in maniera duratura, può succedere che si attenui tale sensazione di perdita di controllo poiché le abbuffate iniziano ad essere vissute come inevitabili e, in una sorta di profezia che si autoavvera, le si pianificano in anticipo.

Perché si abbuffa?

Quali sono le circostanze che portano al verificarsi di un episodio di abbuffata?

  • La restrizione: la restrizione può essere sia calorica che cognitiva. La restrizione calorica corrisponde a una riduzione dell’introito calorico, ovvero la persona si impone limiti rigidi su quanto mangiare, mangia effettivamente poco e può arrivare a una vera e propria deprivazione. Questo determina una crescente pressione biologica a mangiare con conseguente difficoltà a fermarsi; La restrizione cognitiva invece equivale al tentativo di seguire regole rigide ed estreme su cosa, quanto e come mangiare. Queste regole sono solitamente estreme e rigide. Estreme significa che sono tante in numero e per essere seguite richiedono continua attenzione. Quindi è molto facile romperle quando ci si distrae o si hanno emozioni negative. Il fatto poi che siano rigide fa sì che la minima deviazione venga interpretata come una totale perdita di controllo: un pensiero dicotomico, tutto o nulla, che porta ad abbandonare completamente il controllo dell’alimentazione e abbuffarsi;
  • Emozioni spiacevoli e eventi avversi: il comportamento alimentare può essere influenzato da eventi ed emozioni. Le persone possono utilizzare il cibo sia per distrarsi da eventi negativi e da emozioni che preoccupano, sia per attenuare stati emotivi negative, sia per gratificarsi;
  • Assunzione di alcolici: l’alcol aumenta la disinibizione, rendendo la persona meno capace di resistere agli impulsi e a sottostimare quanto starà male se cede all’impulso. Inoltre l’alcol porta alcune persone a sperimentare stati emotivi negativi che possono essere un ulteriore trigger per gli episodi di abbuffata;
  • Essere soli: dato che gli episodi di abbuffata si verificano prevalentemente in segreto, il fatto di trovarsi da soli ne aumenta il rischio. Il sentirsi soli può poi essere un ulteriore fattore che influenza gli episodi poiché determina degli stati emotivi negativi che la persona potrebbe gestire con l’alimentazione;
  • Mancanza di strutturazione del tempo: avere delle giornate non strutturate, senza una routine, rende le persone più esposte al rischio di abbuffata. Infatti l’assenza di tempo strutturato può essere accompagnata da stati emotivi quali la noia e questo può essere un ulteriore fattore che innesca per le abbuffate.

I costi delle abbuffate

Le persone riconoscono le abbuffate come un aspetto egodistonico, ovvero come qualcosa che ha notevoli costi e che vorrebbero eliminare. Le abbuffate infatti hanno costi su diversi piani:

  • Psicologici: determinano senso di colpa, vergogna, disgusto, necessità di segretezza, bassa autostima;
  • Sociali: coloro che hanno questo tipo di comportamento possono isolarsi socialmente e possono avere problemi a mantenere le relazioni;
  • Fisici: tra gli effetti immediati ve ne sono alcuni quali l’insonnia e la distensione addominale. Nel lungo termine, qualora le abbuffate non siano seguite da condotte di compenso può associarsi una condizione di obesità.

In quali disturbi ritroviamo le abbuffate?

Quando le abbuffate interferiscono con la salute e con la qualità di vita si configura un disturbo dell’alimentazione. Negli adulti e adolescenti le abbuffate sono presenti nei seguenti disturbi:

  • Anoressia nervosa: la persona limita volontariamente l’assunzione di calorie e ciò determina la presenza di sottopeso. La persona sovrastima l’importanza del peso e dalla forma del corpo, ha timore di ingrassare e si valuta sul peso e sulla forma del corpo. Esiste un sottotipo di persone che soffrono di anoressia nervosa del tipo con abbuffate/condotte di eliminazione;
  • Bulimia nervosa: nella bulimia nervosa la persona sperimenta ricorrenti episodi di abbuffata, mette in atto condotte di compenso (per esempio vomito autoindotto, esercizio fisico eccessivo, uso eccessivo di diuretici, lassativi, digiuno), i livelli di autostima dipendono dalla propria capacità di controllare il peso e la forma del corpo;
  • Binge Eating Disorder: ricorrenti episodi di abbuffata che provocano marcato disagio, non associati a sistematiche messe in atto di condotte compensatorie.

 

 


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L’attaccamento nella costruzione della realtà – Report del webinar

Che cosa ha rappresentato la teoria dell’attaccamento nel rinnovamento della psicoterapia e nel cambiamento della nostra società, almeno in alcuni settori? Quali prospettive ci ha aperto? A queste domande cercano di rispondere i relatori da punti di vista differenti sul piano teorico e dell’approccio clinico.

 

Nicola Piccini apre la discussione. Quattro sono gli appuntamenti che prendono vita dal un progetto editoriale Franco Angeli Attualità e prospettive dell’attaccamento: dalla teoria alla pratica clinica, a cura di Giorgio Rezzonico e Saverio Ruberti. Questo primo incontro si svolge alla presenza degli autori in compagnia dello psichiatra, psicoterapeuta e Professore Ordinario di Psicologia Clinica, Mario Antonio Reda, curatore dell’opera e autore del capitolo d’apertura del testo “Dalla teoria dell’attaccamento ai sistemi complessi: il contributo di John Bowlby allo sviluppo del cognitivismo in Italia.”

Ad aprire la discussione è proprio il dott. Reda che, sollecitato dal dott. Rezzonico, ripercorre quelli che sono stati i momenti di incontro tra Giovanni Liotti e Vittorio Guidano; la successione di eventi che hanno portato gli stessi ad approcciarsi a lavoro di Bolwlby e alla nascita della scuola romana di psicoterapia cognitivo-comportamentale. La separazione dei due grandi autori sopracitati, in corrispondenza della pubblicazione di “Processi cognitivi e disregolazione emotiva. Un approccio strutturale alla psicoterapia”, colorita da aneddoti di vita quotidiana in una cornice a tratti amarcord, riporta al tema centrale: qual è il contributo di Bowlby alla psicoterapia cognitivo-comportamentale.

Bowlby ci ha permesso – dice Reda – di affrontare per la prima volta un tema fondamentale, come si viene a costruire la personalità. Un modello esplicativo in riferimento alla costruzione dell’individuo.

Si tratta di capire come un individuo è diventato ciò che è. E conclude:

Fondamentale per dare un senso allo scompenso psicopatologico, fornendo così basi epistemologiche e un modello terapeutico alla terapia cognitivo comportamentale.

Prende la parola Saverio Ruberti, che cita il collega Reda riportando l’espressione presente nel testo –introvabile- “Cognitivismo e Psicoterapia”:

Possedere nozioni che non si sapeva di possedere e provare emozioni che non era permesso provare

Questa rappresenterebbe, secondo Ruberti, l’apertura in termini di processo terapeutico in favore del modello dell’attaccamento:

Se non abbiamo nozioni è perché non ci vengono date – spiega Ruberti – ma se non abbiamo contatto con le nostre emozioni è perché non ci hanno autorizzato a questo contatto. Le emozioni non sono fuori ma dentro di noi e l’attaccamento ci consente di accoglierle.

Non condivide però la categorizzazione dell’attaccamento in pattern. Le quattro categorie che oggi conosciamo restano utili a fini di ricerca.

Il Dott. Ruberti da diversi anni si occupa di casi complessi e la necessità, dice, era quella di avere un modello utile a comprendere il mondo frammentato dei suoi pazienti. L’obiettivo sarebbe stato quello di ottenere strumenti utili alla formulazione riguardo i disturbi psicotici.

In che modo Guidano e Liotti interpretavano il modello teorico dell’attaccamento? Per Guidano l’attaccamento rappresentava una dimensione relazionale nella quale era prevista un’oscillazione tra avvicinamento e allontanamento. Liotti vedeva nell’attaccamento un sistema motivazionale: un organizzatore del comportamento che viene attivato quando ci troviamo in difficoltà. Si tratta di difficoltà dettate dalla paura e dal dolore. In questi termini il sistema di attaccamento ci orienta allo scopo di cercare e ottenere legami nei quali poter sperimentare cura, protezione e conforto.

La forza del modello dell’attaccamento, sostiene Rubert, è evidente nella ricerca empirica fortemente strutturata e rigorosa. Due sono gli aspetti che l’autore evidenzia: 1. Le esperienze infelici di attaccamento, al di là dei significati in termini di abbandono e mancata protezione, conducono ad un effetto che nelle varie forme di insicurezza si manifesta come la costruzione di modelli multipli e incoerenti di sé e non solo in forma di attaccamento disorganizzato. 2 L’attaccamento sicuro promuove vivacità relazionale; ingrediente fondamentale di salvaguardia rispetto ad eventuali sviluppi psicopatologici. Si fa luce sulla metacognizione quale capacità di tener conto del contenuto mentale proprio e altrui nel momento in cui si costruiscono le relazioni.

Ergo, le ricerche sull’attaccamento hanno evidenziato la componente affettiva nella dimensione relazionale.

Ruberti propone un modus operandi legato “al fare terapia” come luogo nel quale ricreare quel clima relazionale volto a ricostruire le ferite dell’attaccamento. Creare forme di contatto fra le parti differenti di noi che facciamo fatica a integrare, promuovendo le capacità di metacognizione e mentalizzazione che le infelici relazioni di attaccamento hanno compromesso.

Non c’è l’eziopatogenesi, cioè le cause che determinano il disturbo psicopatologico. Per Bolwlby le cause sono multifattoriali: in ogni disturbo sono presenti componenti diverse che creano una miscela nociva.

Il modello dell’attaccamento non è volto ad indagare quelle che sono le cause sottostanti alla patologia. L’obiettivo è quello di mettere in evidenza le esperienze di vita che determinano una vulnerabilità che, nel momento in cui incontra altri fattori scatenanti, precipita nella psicopatologia e ci indica la strada per porre rimedio rispetto a quel tipo specifico di vulnerabilità, tenendo conto anche di fattori biologici.

La dimensione relazionale fa da padrone. Il rapporto paziente-terapeuta non rappresenta soltanto il luogo di fiducia nel quale proporre tecniche ma soprattutto una “relazione sana” all’interno della quale sperimentarsi e ricostruire parti di sé.

Nasce un confronto diretto con Ruberti sul tema dell’identità, nel quale Reda esordisce sottolineando l’importanza dell’esperienza di attaccamento nella costruzione identitaria e di come l’individuo ricrei e determini, nel rapporto con l’altro, conferme identitarie. Ruberti invece sostiene come l’attaccamento rappresenti solo uno degli aspetti legati al tema identitario, auspicandosi, all’interno dello spazio terapeutico, una minore attivazione possibile dell’attaccamento in favore di un rapporto più evoluto e maturo.

Un’interessante domanda viene posta ai due autori rispetto al tema della spendibilità del modello di attaccamento in termini transculturali. Ruberti fornisce un interessante riscontro rispetto a come non esista un modello culturale migliore in termini di attaccamento sicuro quanto invece la possibilità di garantire, all’interno di qualunque sistema culturale, livelli di sicurezza relazionale e sociale.

Un’altra domanda posta permette di far chiarezza su cosa si intende realmente con attaccamento sicuro. L’utente parla di “attaccamento sicuro quindi morboso”, Ruberti fa chiarezza: un atteggiamento morboso da parte del cargiver è tutt’altro che sicuro, bensì ansioso-preoccupato: si tratta di un genitore che non ha la disponibilità mentale di entrare in contatto con la mente del bambino e comprendere il suo reale stato.

Si apre un’interessante finestra di discussione tra i tre interlocutori sul tema della dissociazione, convenendo tutti su come, negli ultimi tempi, si parli molto di dissociazione rischiando di confonderla con la disregolazione e di come, in realtà, un lieve stato dissociativo sia addirittura tutelante.

L’incontro si chiude con gli autori che convergono sull’importanza, ad oggi, di trovare punti di incontro tra il modello di Liotti e quello di Guidano, con l’obiettivo di, parafrasando Piaget, procedere per accomodamento e non per assimilazione, riproducendo contenuti nuovi in assenza di omissioni.

 

Ascoltare la saggezza del corpo: cos’è il mindful eating. Recensione del libro “Mindful Eating – per riscoprire una sana e gioiosa relazione con il cibo”

Molte delle soluzioni adottate per intervenire e risanare la relazione con il cibo non danno spesso i loro frutti, la soluzione potrebbe essere allora un cambiamento indotto dall’interno, come spiegato da Jan Chozen Bays in nel suo libro Mindful eating.

 

Il rapporto dell’essere umano con l’alimentazione è diventato negli ultimi anni sempre più complesso. Tale complessità si deve a una maggior varietà di cibi disponibili, ad una loro più facile reperibilità e ad un’attenzione a volte fin troppo eccessiva data all’alimentazione stessa: pubblicità, campagne di marketing (che ben conoscono il concetto di “fame della mente” e che sostengono la nostra preoccupazione per ciò che  “dovremmo” o “non dovremmo mangiare”), trasmissioni televisive… il cibo è diventato uno degli argomenti principali che si sono insinuati nella nostra mente al punto tale che alcune persone possono arrivare ad affermare di vivere per mangiare e non di mangiare per vivere. Diversi dati indicano però come la salute degli essere umani (soprattutto del mondo occidentale) sia minacciata da una serie di malattie legate proprio all’alimentazione sovrabbondante e ad un consumo eccessivo di certi alimenti. L’esempio più lampante è l’epidemia di obesità ormai conclamata sia tra i bambini che tra gli adulti.

Jan Chozen Bays vede nei “disturbi alimentari” o anche più semplicemente nel rapporto sbilanciato con il cibo, una “non necessaria forma di sofferenza”. Il rapporto tra l’essere umano e ciò che mangia non è più come quello che avevano i nostri antenati preistorici o come quello che hanno gli animali; infatti il problema di questa interazione disregolata non è il cibo. Il cibo è solo cibo. L’origine del problema, come afferma l’autrice, si trova in “una mente che pensa e in un cuore che sente”.

Molte delle soluzioni adottate per intervenire e risanare questa relazione non hanno dato e non danno spesso i loro frutti: diete di ogni genere, interventi chirurgici e quant’altro sono tutti cambiamenti che provengono  dall’esterno, così come dall’esterno vengono imposti i modelli a cui tendere. La mancata adesione a questi  stereotipi si può manifestare come insofferenza e insoddisfazione ossessiva e pervasiva.

La soluzione potrebbe essere allora un cambiamento indotto dall’interno. Imparare a prestare attenzione  intenzionalmente alle proprie sensazioni, al momento presente e fare tutto ciò in maniera gentile e non  giudicante. In poche parole applicare i principi della Mindfullness all’alimentazione. In realtà per comprendere quale possa essere un sano modo di alimentarsi basta osservare come mangiano i bambini. Da piccoli infatti siamo in grado di autoregolarci, di seguire i segnali che ci manda il nostro corpo e di mangiare lentamente. Purtroppo questa naturale capacità viene persa a causa di influenze esterne come l’ansia dei genitori (“devi finire tutto quello che hai nel piatto”), dalle pubblicità che inducono alla scelta di determinati cibi, dal conteggio delle calorie da assumere e dai modelli imposti.

L’atto di mangiare è guidato da impulsi diversi e da diversi tipi di fame. Non esiste solo la fame fisiologica ma  molto spesso siamo noi che reagiamo ad una certa sensazione, mangiando. L’autrice ci presenta dunque i 9  tipi di fame: la fame degli occhi, del tatto, delle orecchie, del naso, della bocca, dello stomaco, la fame  cellulare, la fame della mente e la fame del cuore. È importantissimo riuscire a valutare e a riconoscere ognuna di esse; anche il solo chiederci “chi è che là dentro ha fame?” ci consente di fermarci, prestare attenzione, rallentare e capire come soddisfare quel determinato tipo di fame. La fame del cuore, quando  riconosciuta, non potrà mai essere soddisfatta dal cibo. Spesso quel buco allo stomaco che tentiamo di colmare è solo un dolore del cuore che ha bisogno di ben altro per essere curato.

Nel libro si trovano molti consigli, molte tecniche ed è difficile non riconoscersi in almeno uno dei comportamenti legati all’alimentazione che vengono presentati. Ma la cosa forse più bella di questo approccio è il non demonizzare: nessun cibo è da evitare, nessun comportamento è sbagliato. La cosa fondamentale da apprendere è semplicemente essere consapevoli. Una cosa all’apparenza così banale e che invece, provando a metterla in atto, è così difficile. Ma già semplicemente riuscire a portare alla luce un comportamento automatico è l’inizio di un cambiamento. Magari lo metteremo in atto lo stesso ma non avrà più la stessa portata. Sono dei piccoli passi, dei piccoli cambiamenti intermittenti che però possono avere un grande impatto e portare con calma e pazienza al raggiungimento di un benessere maggiore. Ricordandoci sempre che ognuno di noi ha un suo percorso, una sua relazione con il cibo, unica, e che ciò che può essere valido e di aiuto per una persona può non esserlo per qualcun altro. L’obiettivo comune è sicuramente quello di avere rispetto per se stessi e imparare ad ascoltare e a zittire, quando necessario, quelle tre vocine che troppo spesso, quando diventano potenti e crudeli, cercano di distruggerci: il perfezionista interiore, l’istigatore interiore e il critico interiore.

L’importanza del momento presente è uno dei principi cardine della Mindfulness. Un’interessante ricerca  pubblicata su Science, ci dice che una mente vagante è una mente infelice. Se da un lato la capacità solo umana di poter spaziare tra il passato e la prospettiva futura ha fatto progredire il ragionamento, la  pianificazione e la progettualità, dall’altro ha reso la mente umana sempre più inquieta. L’ossessione per il  passato e il futuro, ci rendono incapaci di vivere il momento presente perché troppo distratti e impegnati a  raggiungere un ideale immaginario spesso fondato su desideri non meglio esaminati ma soprattutto propinati  e imposti dall’esterno. L’inconsapevolezza ci può far perdere tutto ciò che di bello e di significativo c’è nella nostra vita arrivando ad essere addirittura letale. Pertanto risulta essenziale imparare a coltivare la  consapevolezza.

L’uso stesso del termine “coltivare” indica che questa capacità, che in realtà noi abbiamo già a disposizione,  non è però già matura, onnipresente e in grado di esprimersi con immediatezza. Come tutte le abilità va, per  l’appunto, coltivata, allenata, accudita, tramite la pratica, la pazienza, l’accettazione e la gentilezza. Quando la nostra mente lavora in sintonia con il nostro corpo, siamo più in contatto con esso perché gli prestiamo sistematicamente attenzione, acquistiamo la capacità di capire quello che ci vuole comunicare e di rispondere in maniera appropriata.

Sospendere il giudizio e gli automatismi, porre attenzione al nostro benessere e avere più rispetto per il nostro corpo, sono tutti ingredienti per una maggiore consapevolezza.

La consapevolezza è il punto di partenza per un percorso che porta ad avere la possibilità di scelta. Avere questo privilegio ci regala la libertà.

 

Cinquanta Sfumature di Vendetta

Pochi racconti catturano la nostra attenzione come quelli incentrati sulla vendetta. Molte delle storie più antiche e affascinanti, come l’Iliade di Omero, o più recenti, come quelle descritte nei quotidiani o nelle serie tv, traboccano di vendetta. Questa pratica ha un importante impatto sulla società.

 

 A tal proposito, uno studio del 2012 del dipartimento di polizia di New York ha rilevato che il 42% degli omicidi della città derivava dalla vendetta (New York City Police Dep. 2012). Questo modello non è stato unicamente individuato negli Stati Uniti: la vendetta è un fenomeno globale. Questo processo è implicato come fattore causale in molti omicidi di tutto il mondo (Daly & Wilson 1988, Kopsaj 2016). Le analisi storiche interculturali hanno infatti scoperto prove di faide vendicative o atti di vendetta individuali nel 90% delle società contemporanee e tradizionali mondiali (Ericksen e Horton 1992).

Ma perché le persone si vendicano? Tra le innumerevoli conseguenze dell’atto vendicativo, esso può comportare punizione, licenziamento, prigionia, fino ad arrivare alla perdita di un membro della propria famiglia o della propria vita. Ciò che sorprende è che a seguito della brevissima esplosione di soddisfazione ed emozioni positive che seguono un atto vendicativo, bastano pochi minuti finché i vendicatori inizino a segnalare rimpianti, ruminazioni e negatività (Carlsmith et al. 2008). Date queste ripercussioni negative, la domanda sul perché qualcuno dovrebbe mai vendicarsi è importante sia come mezzo per ridurre crimine e violenza, sia come enigma del comportamento umano da risolvere. Nella loro revisione, Jackson, Choi, e Gelfand hanno analizzato le caratteristiche della vendetta, focalizzandosi sui contesti in cui avviene tale atto (Jackson, Choi, & Gelfand, 2019). In seguito, saranno riportate tutte le peculiarità che caratterizzano questi processi.

La vendetta è concettualizzata come ritorsione motivata da un danno percepito al proprio benessere (vedi Elshout et al. 2015, Schumann & Ross 2010). Gli studi hanno inoltre rivelato che la vendetta è un processo multilivello radicato in elementi sia psicologici che culturali. Difatti, secondo alcune teorie, alcuni aspetti della prima storia umana hanno contribuito all’evoluzione genetica della vendetta. In particolare, i nostri predecessori preistorici vissuti nell’era del Pleistocene, periodo in cui si è verificata l’era glaciale, avrebbero affrontato una serie di problemi di adattamento, incappando in crimini come omicidio, furto e rapimento del partner, azioni che avrebbero minacciato la loro sopravvivenza e riproduzione. Il modo migliore per questi primi umani di sfuggire a tali minacce era combattere il fuoco con il fuoco, rispondendovi. In tal senso, la vendetta si è evoluta principalmente come meccanismo di deterrenza, come forma di avvertimento dei potenziali antagonisti, a seguito della quale ci avrebbero pensato due volte prima di nuocere nuovamente a una vittima; ciò avrebbe assicurato ai vendicatori di non essere nuovamente ingannati o attaccati (Sell et al. 2009).

Alcuni aspetti della vendetta sembrano quindi essersi evoluti geneticamente, mentre altri aspetti si sono evoluti culturalmente. Quando si parla della funzione della vendetta, i modelli culturali in genere sostengono che essa non sia adattativa per le singole persone, ma che aiuti i gruppi a mantenere l’omeostasi normativa (Elster 1990, Fehr et al. 2002). In particolare, alcune prospettive evolutive culturali concettualizzano la vendetta come più funzionale in contesti senza forti leggi istituzionali, in cui le vittime di un lieve danno percepito devono vendicarsi personalmente per ripristinare la giustizia (Duntley & Shackelford 2008). Per questo motivo, sembra che la vendetta si evolva culturalmente con maggiore probabilità in ambienti con un basso controllo istituzionale (ad es. forze di polizia deboli).

Come può essere attuata la vendetta? Essa può manifestarsi in molti modi diversi. Tra i principali, troviamo la vendetta nascosta e la vendetta palese. Questa distinzione fa riferimento al fatto che la vendetta sia espressa pubblicamente o segretamente. Esempi di vendetta segreta includono diffusione di pettegolezzi su un delinquente (Bordia et al.2014), valutazioni negative sull’incriminato (Gregoire et al.2010), e indifferenza verso l’individuo (Wang et al. 2018). Queste strategie sono legate da un desiderio comune di attaccare privatamente la reputazione di qualcuno dopo uno torto percepito e, in particolare, di minare il valore, l’onore e l’autorità di quella persona. Oltre a questi due principali tipi di vendetta, è stato possibile identificare anche la cosiddetta vendetta “vicaria”, in cui una trasgressione originale non coinvolge né il vendicatore né il vendicato (Lickel et al. 2006).

Esistono, inoltre, molte forme di vendetta culturalmente emica, ma la più emblematica è la vendetta di sangue. Le culture che la praticano, come i Boscimani dell’Africa Meridionale gli eschimesi Netsilik del Canada (Lee, 1979) e persino i ceceni contemporanei in Russia (Souleimanov e Aliyev 2015), presentano norme molto più tolleranti nei confronti della vendetta rispetto alle culture occidentali (Boehm, 1984). Le caratteristiche chiave della vendetta di sangue includono la sua natura collaborativa e la sua prescrizione comune da parte degli organi legislativi locali.

 Ma veniamo ora all’aspetto nucleare di questo tema: da cosa trae origine il bisogno di vendetta? Quali i fattori individuali che ne favoriscono la messa in atto? Alcuni studi hanno tentato di identificare i motivi originari dai quali essa è pianificata, ed hanno scoperto che le persone possono vendicarsi per ragioni di varia natura, tra cui:

  • perché si sentono arrabbiate per una violazione delle norme percepita,
  • perché vedono la vendetta come un mezzo per ripristinare la propria reputazione,
  • perché credono che la vendetta le farà sentire meglio,
  • perché, talvolta, le norme culturali autorizzano la vendetta (Jackson, Choi, & Gelfand, 2019).

Per ciò che concerne le caratteristiche personologiche del vendicatore, dagli studi che hanno misurato contemporaneamente rabbia, paura, tristezza e frustrazione nell’atto vendicativo, la rabbia è emersa come il miglior predittore emotivo di vendetta (Roseman et al. 1994). Coerentemente con questo collegamento, gli studi hanno identificato una forte correlazione tra rabbia e vendetta a livello di tratto (Sindermann et al. 2018). È opportuno sottolineare che le persone con tipi di personalità caratterizzati da livelli alti di rabbia, come nevroticismo e narcisismo, hanno maggiori probabilità di vendicarsi dopo una provocazione (Maltby et al. 2008).

La vendetta, nelle sue molteplici declinazioni, rappresenta un atto piuttosto affascinante, utilizzato da sempre nella storia dell’umanità, ma alla luce della letteratura riportata sull’argomento è bene chiedersi se sia davvero necessaria.

 

SerenaMente Mamma, l’app per una gravidanza serena, nel corpo e nella mente – Comunicato Stampa

Il malessere delle donne in gravidanza e le difficoltà nella regolazione delle emozioni possono avere effetti negativi, per questo l’app SerenaMente mamma propone un percorso per supportare le future mamme.

 

La gravidanza rappresenta un momento complesso nella vita delle donne, un periodo in cui in pochi mesi avviene il passaggio dallo status di figlia a quello di madre. Diventare madre richiede una profonda ricostruzione di sé a livello individuale, di coppia e sociale e può rappresentare un periodo psicologicamente complesso. Nel contesto della pandemia di COVID-19, la vita delle donne in gravidanza è stata ulteriormente messa alla prova. Quarantena, distanziamento fisico, isolamento, consultazioni a distanza con gli operatori sanitari e incapacità di ottenere il supporto e le cure prenatali tradizionali sono alcuni dei potenziali fattori di stress che le donne in gravidanza hanno dovuto affrontare nell’ultimo anno. Diversi studi su COVID -19 e gravidanza hanno evidenziato come le donne in gravidanza siano una popolazione particolarmente vulnerabile, ad alto rischio di sviluppare problemi di salute mentale come depressione, ansia e sintomi post-traumatici da stress ( ad es. Thapa et al., 2020). Inoltre, è risaputo che il malessere delle donne in gravidanza e le difficoltà nella regolazione delle emozioni possono influire negativamente sull’andamento della gravidanza stessa, sullo sviluppo del bambino e sull’adattamento neonatale. Pertanto, la necessità di un intervento psicologico ed emotivo a sostegno delle donne in gravidanza è indiscussa.

In questo scenario complesso, Internet e le nuove tecnologie possono svolgere un ruolo importante per migliorare la salute mentale e per promuovere il benessere psicologico prenatale delle donne in gravidanza: semplici percorsi self-help online o su smartphone potrebbero raggiungere molte donne, offrendo loro la possibilità di accedere ai contenuti appropriati nel momento e nel luogo più convenienti, garantendo il completo anonimato e a bassi costi (Carissoli et al., 2016). Con questa particolare attenzione, un team di ricercatrici psicologhe del Dipartimento di Psicologia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano (Dott.ssa Claudia Carissoli, Dott.ssa Giulia Corno e Prof.ssa Daniela Villani) ha sviluppato e testato interventi di promozione del benessere via web e mobile, che sono stati dimostrati efficaci nel promuovere il benessere psicologico anche durante la gravidanza (Carissoli et al., 2021; Corno et al., 2018).

A partire da questi studi, il gruppo di ricerca ha sviluppato la nuova app SerenaMente Mamma, indirizzata a sostenere e migliorare il benessere delle donne in gravidanza. L’app ha solide basi teoriche e propone un percorso di cinque settimane durante le quali verranno proposte meditazioni di consapevolezza (come la meditazione di connessione con il bimbo in grembo o la meditazione sul respiro) ed esercizi di psicologia positiva (PP) (come le Tre cose positive della giornata, esercizio di gratitudine), con contenuti ed esercizi specificamente progettati per sviluppare la capacità di recupero emotivo per sostenere il benessere mentale delle donne anche in gravidanza (Matvienko-Sikar & Dockray, 2017). Si tratta di tecniche e strategie utili anche in relazione alla pandemia di COVID-19, perché possono aiutare le donne a dare un significato all’esperienza, ad aumentare la capacità di tolleranza dell’angoscia e a cercare maggiore supporto sociale ponendo le basi per una crescita post-traumatica (Polizzi et al., 2020).

Il gruppo di ricerca sta cercando future mamme che siano interessate ad utilizzare liberamente l’app sperimentando in prima persona gli esercizi e a partecipare alla valutazione di efficacia della app. Per farlo alle donne è chiesto di scaricare la app (gratuita) e compilare alcuni questionari proposti direttamente nella app.

Per scaricare gratuitamente l’app su Google Play è possibile cliccare qui e per scoprire di più sul suo funzionamento è possibile guardare qui.

I dati forniti saranno completamente confidenziali e raccolti in modo anonimo ai sensi del D.Lgs 101/2018 che adegua le disposizioni del Regolamento (UE) 679/2016 e dal D.lgs. 30.6.2003 n. 196 – Codice in materia dei dati personali.

Per qualsiasi necessità è possibile contattare il gruppo di ricerca all’indirizzo mail:

[email protected]

Nei prossimi giorni verrà pubblicata la recensione di una nostra autrice che sta testando la app (Ndr).

 

Disturbi Alimentari e falsi miti: (non) solo ragazze! – Video del webinar

Dopo il video del primo webinar del ciclo divulgativo dedicato a sfatare tre falsi miti che ruotano attorno ai disturbi dell’alimentazione, pubblichiamo oggi il video del secondo appuntamento.

 

Spesso si crede che i Disturbi dell’Alimentazione (DA) colpiscono solo le ragazze, quindi persone di sesso femminile adolescenti e adulte. Dati epidemiologici recenti evidenziano una maggiore pervasività dei DA, con una significativa incidenza durante la pre-adolescenza e nei soggetti di sesso maschile.

Già a 10 anni può iniziare un’eccessiva valutazione di sé sulla base del peso e della forma del corpo e anche gli uomini possono avere un’estrema preoccupazione su tali parametri.

Durante l’incontro, l’équipe ha illustrato le più attuali espressioni dei Disturbi dell’Alimentazione, secondo un’ottica multidisciplinare.

 

I TRE FALSI MITI SUI DISTURBI DELL’ALIMENTAZIONE

FALSO MITO #2: (NON) SOLO RAGAZZE!

Guarda il video integrale del webinar:

 

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Le parole della malattia. L’ascolto empatico nella relazione medico-paziente

La comunicazione medico-paziente diviene sempre narrazione e il focus sulla storia del paziente, al di là della storia clinica, è quello di una disciplina relativamente nuova nello scenario medico che è la Medicina Narrativa.

 

La malattia ha bisogno di essere raccontata. È subito pronta per diventare racconto, quasi fosse lì ad aspettare il momento giusto per farsi parola. Un paziente che racconta la propria malattia traccia sempre un confine tra un prima e un dopo, raccontando di un tempo in cui tutto era diverso.

La malattia, infatti, comporta sempre una perdita; la perdita di quello che si era, di ciò che si poteva fare, di ciò che si poteva ancora vivere. Ed è spesso da qui che un paziente inizia il suo racconto: da quello che era prima, da quali erano i suoi sogni e i suoi progetti. Come se dovesse proteggere la propria identità, quell’identità che la malattia gli sta portando via e dovesse garantirgli un posto nella memoria, sua e di chi ascolta.

Non c’è paziente che non abbia qualcosa da raccontare se lasciato libero di farlo, ma non sempre questo accade. Quello che il paziente spesso vive, nell’incontro con il medico, è un dettagliato interrogatorio sui suoi sintomi, sul loro esordio, la loro durata e l’intensità; un meticoloso viaggio fatto di domande incalzanti nella dimensione del corpo, delle sue percezioni o, più esattamente, del suo dolore. Ma ciò che il paziente vuole raccontare va ben oltre. Nella narrazione della sua malattia, il paziente ci racconta non solo i sintomi ma soprattutto delle sue tristezze, delle paure e delle nostalgie, della solitudine e delle speranze infrante; ci racconta dell’umanità lacerata dal dolore (Borgna, 2017). La condizione necessaria per accogliere e comprendere tutto questo è l’ascolto e “per ascoltare occorre tacere” (Borgna, 2017, pg 12) ma tacere implica il sapere aspettare il fluire del discorso altrui in una condizione di piena attenzione su colui che parla, un silenzio anche interiore, l’assenza di pensieri che interferiscono, lo spazio della mente libero per accogliere l’Altro e il suo racconto.

Uno studio condotto in un ambulatorio di Medicina generale (Beckman, Frankel, 1984) ha rivelato che il tempo in cui un paziente riesce a parlare senza essere interrotto dal medico era di circa 18 secondi e che solamente in una piccola percentuale di casi, il 23%, il paziente riusciva a completare l’argomento che aveva iniziato. Nel restante 69% delle visite oggetto dello studio, il paziente è stato interrotto dal medico che ha indirizzato il colloquio verso una specifica problematica. Questi dati ci sembrano sconcertanti alla luce di altri studi che hanno invece messo in evidenza come l’essere ascoltato e il potersi esprimere con parole proprie e in termini di emozioni e sentimenti incrementa la soddisfazione del paziente rispetto alla visita medica, aumenta la percezione delle competenze del medico e favorisce la compliance terapeutica (Buckman, 1992).

Un protocollo per la comunicazione medico-paziente

Il Prof. Robert Buckman, oncologo candese, ha descritto una serie di elementi fondamentali del colloquio medico che garantiscono al paziente la sensazione di essere accolto e ascoltato:

  • Prepararsi all’ascolto
  • Fare domande
  • Ascoltare attivamente e favorire il racconto
  • Dimostrare di comprendere
  • Rispondere in modo adeguato

Tali elementi sono stati descritti dall’autore nell’ambito della comunicazione della cattiva notizia ma possono essere considerati validi in senso più generale nella comunicazione medico-paziente.

Il primo elemento descritto fa riferimento alla preparazione del setting, inteso come luogo e cornice che delimita la relazione medico-paziente, nonché il contesto fisico in cui si svolgerà il colloquio; è importante ad esempio presentarsi al paziente, rivolgersi con il “lei”, preparare la stanza affinché ci sia silenzio e gli spazi adatti per conversare nel rispetto di una giusta distanza. Tutto questo rimane valido anche qualora il colloquio si svolga nella stanza del paziente.

Una delle regole più importanti è il sedersi: questo trasmette al paziente la disponibilità al dialogo, nonché un rapporto paritario di ascolto reciproco. Anche le domande sono un elemento importante che influenzano l’andamento di un colloquio; si possono utilizzare domande chiuse che rappresentano un modo rapido e efficace per ottenere specifiche informazioni ma non danno al paziente la possibilità di esprimersi liberamente sull’accaduto. Le domande aperte invece danno al paziente la possibilità di rispondere in maniera soggettiva senza necessariamente seguire il ragionamento del medico. Per manifestare ascolto un altro importante strumento è l’attenzione che deve essere naturalmente diretta al paziente e attraverso la quale l’ascolto si trasforma in un passaggio attivo e non passivo.

È importante inoltre non interrompere il paziente mentre sta raccontando, attendere quindi che abbia terminato prima di prendere la parola; incoraggiare il racconto utilizzando il contatto visivo, o richieste di ulteriori spiegazioni; tollerare i momenti di silenzio interpretando anch’essi come una comunicazione di emozioni e sentimenti. Ma oltre all’ascolto, è importante che il medico dimostri anche di comprendere ciò che il paziente racconta ad esempio attraverso le ripetizioni (utilizzando nelle proprie risposte alcune parole utilizzate dal paziente) e le riformulazioni (ripetizione con parole proprie di ciò che ha detto il paziente). Ardis e Marcucci (2013), descrivono con il medesimo scopo, le “tecniche del riflesso” (che non saranno descritte in questa sede in modo esaustivo) ovvero delle microabilità verbali che servono per rimandare al paziente ciò che lui stesso ha comunicato dopo averlo elaborato e riordinato in un modo che possa essergli utile. Una di queste tecniche è la riflessione semplice che consiste nel ripetere l’ultima parola della frase del paziente seguita da una pausa; essa risulta molto utile nelle situazioni di profonda sofferenza espressa da un paziente per rinforzare empaticamente le sue comunicazioni. Un’altra tecnica del riflesso centrata invece sulla comunicazione delle emozioni è la riflessione dei sentimenti che consiste nella ripetizione, da parte del medico, delle emozioni o sentimenti pronunciati a parole dal paziente. In tal modo si stimola quest’ultimo a esprimere i propri vissuti emozionali razionalizzandoli. Allo stesso modo, si possono verbalizzare i sentimenti e le emozioni anche non espressi dei pazienti, deducendoli dalle loro comunicazioni e rendendoli espliciti, favorendone così una maggiore consapevolezza (Ardis e Marcucci, 2013).

Infine, nel protocollo del Prof. Buckman, il medico deve fornire una risposta che sia il più possibile sintonizzata con il racconto del paziente. Ci sono diversi tipi di risposta che possono essere utilizzati in base alla situazione; ciò che è importante è evitare risposte giudicanti, ostili (anche se il paziente ha espresso ostilità o aggressività) o irrealisticamente rassicuranti, prediligendo invece risposte empatiche che spostano l’attenzione e convalidano l’emozione del paziente (“Capisco che per lei sia molto difficile”, “Deve sentirsi molto arrabbiata”) (Buckman, 1992).

La possibilità di esprimere comprensione empatica passa attraverso la capacità del medico di assumere a pieno la prospettiva del paziente, immedesimarsi in modo autentico e vivere come se fosse lui stesso al suo posto, immaginandone quindi i vissuti, le paure, le angosce per poi legittimare verbalmente queste emozioni (Ardis e Marcucci, 2013).

Il nuovo orizzonte della Medicina Narrativa

Quanto descritto dal Prof. Buckman fa luce sull’importanza del rapporto medico-paziente su cui è ormai da tempo aperto un infuocato dibattito: sebbene infatti, sia oggi quasi un’opinione condivisa che tale rapporto debba avere i connotati della vicinanza emotiva, i progressi scientifici degli ultimi anni sembrano condurre da tutt’altra parte. L’evoluzione scientifica rischia di portare verso una medicina sempre più distaccata dal paziente fino a rendere possibile giungere ad una diagnosi e alla programmazione di un trattamento senza necessità di visitare il paziente. Il rapporto medico-paziente diventa piuttosto un elemento disturbante per l’obiettività della diagnosi (Veronesi, Pappagallo, 2016). Seguendo quest’ottica però si tornerebbe ad un approccio medico del curare centrato esclusivamente sulla malattia. È necessario invece recuperare una prospettiva più umanistica e individualizzata della malattia ma soprattutto della persona portatrice di sofferenza che abbia dunque come oggetto dell’attenzione la persona nella sua interezza, che si prenda cura e non si limiti a curare il sintomo. Questo implica una totale revisione del rapporto tra paziente e medico il quale colloca al centro del suo agire medico i bisogni e le esigenze della persona malata e costruisce interventi e progetti di cura personalizzati per ogni specifico paziente (Pantaleo, 2011). In questa nuova prospettiva il racconto della malattia assume un’importanza fondamentale in quanto strumento che favorisce e alimenta la relazione con il curante. Il paziente che giunge dal medico ha alle spalle già i primi capitoli della storia della sua malattia che contengono le sue percezioni, le interpretazioni di ciò che gli è accaduto, le paure che a tutto questo si associano, dubbi e domande che cercano una risposta. Le sue narrazioni ci racconteranno quindi non solo la sua vita e la sua malattia ma come il malato vede il mondo, legge la realtà, si pone nei confronti degli altri, il linguaggio che usa e il significato che dà alle parole. A questo si aggiunge la sua storia di vita che comprende il proprio concetto di salute e malattia, il modo in cui ha affrontato nella sua vita altre situazioni di sofferenza, le proprie esperienze, conoscenze e convinzioni. Il paziente porta dunque le sue narrazioni; in altre parole, la comunicazione che avviene all’interno della relazione medico-paziente diviene sempre narrazione. Questo focus sulla storia del paziente, al di là della storia clinica, è quello di una disciplina relativamente nuova nello scenario medico che è la Medicina Narrativa. Quest’ultima consente di individuare e gestire la sofferenza del paziente attraverso lo sviluppo di un ascolto empatico; “La medicina narrativa arricchisce le cure attraverso l’attenzione e l’utilizzo anche in senso terapeutico dei racconti dei pazienti, dei medici, degli infermieri e di quanti operano nel sistema sanitario, valorizzando in particolare la prospettiva e la visione della malattia del soggetto e dei suoi familiari” (Virzì A. et al., 2011, pg 10). Ciò che il paziente racconterà di sé stesso attraverso le sue narrazioni, definirà la sua identità che spesso, in condizioni di malattia, viene aggredita e compromessa.

Nei racconti e nelle esperienze del paziente è centrale la dimensione del tempo: il tempo delle attese, il tempo delle domande, della disperazione e forse della rinascita. Tornando all’ascolto quindi, aldilà di ogni buona pratica che il medico possa mettere in atto, esso è possibile solo quando si tengono in considerazione le speranze dei pazienti e il loro tempo. Scrive Borgna “Il momento centrale di ogni relazione, anche di quella terapeutica, è insomma contrassegnato dall’ascolto, e dal rispetto delle attese: delle attese inespresse, (…) delle attese del cuore, ancora più importanti che non quelle della ragione, delle attese che non il linguaggio delle parole, ma quello del corpo vivente, ci sa indicare” (Borgna, 2017, pg 90).

Le parole che curano

Ma dopo il momento dell’ascolto viene il momento delle parole, quelle che comunicano al paziente empatia e accettazione. Ancora Borgna ci insegna, “noi siamo di continuo responsabili delle parole che diciamo, e di quelle che dovremmo dire, e non diciamo, così come siamo responsabili dei nostri gesti mancati, che non siano tenuti presenti nelle loro conseguenze” (Borgna, 2017, pg VIII).

Le parole a volte troppo dure, inumane e violente dei medici lacerano gli individui già afflitti dalla malattia. Parole non scelte, smarrite nei corridoi, sfuggenti. Ma è necessario sceglierle queste parole, compito e dovere di chi cura, scegliere parole che curano, appunto, e non feriscono, che consolano e accolgono anche quando non possono più offrire una soluzione alla malattia.

Una tecnica non molto approfondita nella comunicazione medico-paziente che mette al primo piano la figura del clinico è quella dell’autorivelazione (self-disclosure) ovvero il raccontare una propria esperienza personale al paziente per attribuire una qualità empatica alla comunicazione. Nel mio lavoro di supervisione con l’equipe di un reparto di Riabilitazione, al quale afferiscono pazienti con diverse patologie, spesso croniche, mi è capitato di discutere con il personale sanitario dell’utilità di questa tecnica spesso utilizzata in modo acritico e inconsapevole. È un’esperienza condivisa da molte operatrici, che svelare le proprie esperienze, aumenta la sintonizzazione emotiva con i pazienti e talvolta favorisce l’aderenza ai trattamenti terapeutici. Tuttavia, nell’ascolto di tale esperienza mi sono chiesta quanto l’utilità dell’autorivelazione si trovasse piuttosto nel facilitare al sanitario l’accesso al mondo del paziente e non viceversa. Di chi è quindi il bisogno che muove e alimenta questa spinta alla condivisione? Del paziente o del sanitario? Forse più probabilmente di entrambi. Quello che però è importante sottolineare, in linea con l’argomento di questo articolo, è che sicuramente la condivisione da parte del medico o sanitario, di un proprio vissuto o esperienza simile a quella del paziente abbatte le resistenze e le difese del paziente stesso che sperimenterà una profonda comprensione della propria sofferenza.

Ma se siamo responsabili delle parole che diciamo dobbiamo essere consapevoli anche delle parole che non si devono dire quando i pazienti chiedono di non sapere, o semplicemente non chiedono e sta a noi comprendere dove si pone il limite di ciò che possiamo e dobbiamo comunicare. Alcuni pazienti riescono a continuare a vivere solo non pensando alla morte, solo continuando come se niente fosse cambiato, come se la malattia non avesse mai segnato quel confine netto con la vita precedente. Altri sono pienamente consapevoli ma temono la forza delle parole, le tengono a distanza perché le parole danno concretezza alla realtà, che allora non potrà più essere negata. Le parole, come in un processo fotografico, sviluppano il negativo della malattia trasformandola in un’immagine nitida e indimenticabile. Altri ancora non nominano la loro malattia e in tal modo non le riconoscono un’identità, – cos’è il nome se non la definizione della precisa identità di un qualcosa o qualcuno?,- non nominandola non le autorizzano un’esistenza; quel “male” rimane un ignoto senza volto e senza nome.

La speranza a qualsiasi costo: il caso del sig. C.

Un paziente affetto da una malattia neurodegenerativa, il sig. C. mi racconta di aver percepito dallo sguardo e dalle osservazioni del medico che quest’ultimo stesse valutando la sua condizione clinica in questi termini: “stava calcolando quanto tempo mi rimane da vivere, non stava valutando me, il mio movimento e la mia malattia, calcolava tra quanto tempo morirò”. Il paziente non vuole mai vedere negli occhi del medico il destino della sua morte, neppure quando su questo vi è la piena consapevolezza. Il paziente ha bisogno di sentire una speranza di vita e di sentire che, al di là di qualunque evidenza scientifica e inconfutabile certezza, il medico non si arrende.

Lo stesso paziente mi racconta di sottoporsi settimanalmente a dei trattamenti sperimentali molto dolorosi e invasivi ma lo fa volentieri, mi spiega, “perché quel medico mi dà la speranza di poter fare qualcosa, mi dà la sensazione di non aver completamente smesso di lottare”. Il sig. C. si consegna nelle mani del medico, consegna il suo corpo alle sue cure e perfino alle sue più svariate sperimentazioni, senza fare domande, senza lamentarsi per il dolore, senza replicare. In cambio, la speranza e la possibilità di trovare nello sguardo di un altro il riflesso della vita e non l’ombra cupa della morte. Perché infondo, cosa ha promesso al sig. C. questo audace medico? Gli ha forse promesso che lo salverà? Gli ha forse garantito che tali difficili cure lo condurranno a guarire la sua terribile malattia? No, gli ha solo concesso il beneficio di una possibilità e ha riposto su di lui parole di speranza anziché uno sguardo di rassegnazione.

 

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